MASSONERIA E GRANDE FINANZA.

 

MASSONERIA E GRANDE FINANZA.

 

Chi vuole il "Great Reset"

del debito globale.

msn.com- Avvenire - Pietro Saccò – (19-01-2023) – ci dice:

 

I tassi a zero e le migliaia di miliardi di dollari ed euro iniettati nel sistema finanziario dalle banche centrali non hanno risolto il problema del debito globale.

Lo hanno solo congelato.

 Anzi: lo hanno sommerso sotto un’ondata di denaro.

Adesso che la marea monetaria si sta ritirando, anche molto più bruscamente del previsto, la montagna del debito riaffiora e ha un’aria preoccupante.

All’inizio del 2022 il debito complessivo di governi, imprese e famiglie ha raggiunto il massimo storico di 305mila miliardi di dollari, ha calcolato l’Istituto di finanza internazionale (Iif), che associa tutte le principali grandi banche del mondo.

Nei sei mesi successivi, con l’inizio della fase di rialzo dei tassi, la montagna del debito si è ridotta attorno ai 290mila miliardi di dollari.

Ci allontaniamo dal record storico, ma l’Iif scrive che c’è «fermento di crisi».

Lo temono anche gli analisti di S&P, che in uno studio pubblicato venerdì scorso chiedono compromessi e invitano a un “Great Reset”, un grande ripristino dell’assetto mentale dei responsabili politici e della disponibilità delle persone ad accettare il cambio di contesto in cui l’indebitamento resta essenziale, ma diventa anche costoso.

«Non c’è un modo semplice per tenere bassa la leva finanziaria globale – scrivono gli analisti dell’agenzia di rating.

I compromessi necessari tra la spesa e il risparmio includono più cautela nei prestiti, taglio delle spese eccessive, ristrutturazione delle imprese a basso rendimento e svalutazione del debito meno produttivo».

L’alto indebitamento in tempi di tassi elevati crea mille problemi collaterali.

Martin Wolf, storico responsabile dei commenti del Financial Times, ha rilanciato l’allarme della Banca Mondiale sul debito dei Paesi poveri (il 15% è in difficoltà a rimborsare i creditori, il 45% rischia di esserlo presto, Sri Lanka, Ghana e Zambia sono già finite in bancarotta), allegando una complessa proposta di ristrutturazione per affrontare il problema «prima che sia troppo tardi».

Prima, cioè, che si avvii una catena di default di Stati sovrani poveri che rappresenterebbe «una catastrofe umana e un enorme fallimento morale» con molte conseguenze pratiche devastanti anche per l’Europa, geograficamente vicina a molti degli Stati in difficoltà.

Sul blog della Banca centrale europea, invece, ieri tre economisti hanno evidenziato il problema dei bilanci aziendali: aziende troppo indebitate investono poco nei momenti di crisi e se non si aiutano le aziende a investire gli obiettivi europei di innovazione, crescita e transizione energetica diventano irraggiungibili.

L’Italia sembra guardare con relativa calma al riemergere del problema del debito.

Sembra paradossale, per il Paese che con 2.765 miliardi di euro di debito pubblico è uno dei più grandi debitori del mondo.

Il fatto è che la spinta al Pil reale prodotta dall’inflazione permette una riduzione del rapporto debito-Pil, che è il parametro centrale per misurare la sostenibilità di un debito pubblico.

Secondo le stime il rapporto debito-Pil è sceso dal 154,9% del 2020 al 145,7% nel 2022 e nella nota di aggiornamento al Def il governo ha indicato che la riduzione proseguirà fino a ridurlo al 141,2% nel 2025.

Ieri S&P ha presentato le sue analisi di scenario sull’Italia senza particolari allarmi:

nonostante si vada verso una piccola recessione seguita da una modesta ripresa (-0,1% la previsione sul Pil del 2023) e il Btp decennale nel 2024 dovrebbe arrivare a pagare in media tassi del 5,2% (rispetto al 3,7% attuale), l’Italia secondo il capo economista Sylvain Broyer parte da una situazione positiva.

Merito della «maggiore resilienza delle banche» che hanno bilanci solidi, degli strumenti a disposizione della Bce per contrastare speculazioni sui debiti della zona euro, della disponibilità dei fondi del Next Gen Eu e anche della «maggiore competitività» dell’Italia rispetto ai principali concorrenti europei (a partire dalla Germania).

Un effetto, quest’ultimo, dei salari che non stanno crescendo come altrove.

 

 

 

 

Massoneria e finanza.

Destatevi.org – Haiaty Varotto – redazione – (14-8- 2022) – ci dice:

La Massoneria ha forti legami con l’alta finanza, l’economia e gli affari (legami che ovviamente determinano anche scelte e indirizzi politici sia a livello nazionale che internazionale);

e questo perché ‘da sempre la libera muratoria rappresenta le élites, il mondo dell’establishment’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 351).

Prima di parlare di questi legami però è bene tenere presente che la massoneria ha avuto un ruolo fondamentale nell’unità d’Italia, in quanto dietro Garibaldi e Cavour c’era la Massoneria inglese, che infatti finanziò la spedizione dei Mille condotta da Giuseppe Garibaldi, lui stesso massone (anzi ‘Primo massone d’Italia’).

Ed inoltre bisogna considerare che i primi passi dell’Italia unita furono guidati da un Parlamento costituito in gran parte da massoni ed è cosa risaputa che i Massoni si aiutano tra di loro per cui i politici massoni spesso e volentieri aiutano e favoriscono i finanzieri e imprenditori massoni e viceversa.

 D’altronde è stato provato che persino nella magistratura i giudici massoni non sono imparziali, in quanto favoriscono i loro fratelli massoni nei processi.

Tra i numerosi parlamentari che erano massoni ricordiamo i seguenti.

Bonaventura Mazzarella (1818-1882).

Il 27 gennaio 1861, quando si tennero le consultazioni elettorali per scegliere il primo Parlamento del Regno d’Italia, fu eletto nel collegio di Gallipoli.

 Nel gennaio 1863 riprese la sua attività di magistrato dopo essere stato richiamato dal ministro di Giustizia a svolgere le funzioni di consigliere presso la corte d’appello di Genova.

La nomina a magistrato lo costrinse a dimettersi da deputato fino alle elezioni del 22 ottobre 1865, quando entrò alla Camera, dove sarebbe rimasto anche per le successive legislature schierato nelle fila dell’estrema Sinistra.

Carlo Pellion di Persano (1806-1883).

Deputato nelle legislature VII e VIII per il collegio della Spezia, divenne Ministro della Marina nel primo governo Rattazzi e fu nominato senatore l’8 ottobre 1865.

Agostino Depretis (1813-1887).

Fu presidente del Consiglio dei ministri italiano ben nove volte tra il 1876 e il 1887.

Michele Coppino (1822-1901).

Nel 1860 venne eletto nell’ultima legislatura del Regno di Sardegna, e rieletto nel 1861 nella prima legislatura del Regno d’Italia.

Da allora fece parte del Parlamento quasi ininterrottamente per quarant’anni, e fu più volte Presidente della Camera dei deputati.

 Ministro della pubblica istruzione nel primo e nel secondo governo Depretis (1876-1878), nel 1877 varò la riforma (Legge Coppino) che rese obbligatoria e gratuita la frequenza della scuola elementare.

 Fu nuovamente ministro dell’istruzione nei governi Depretis e Crispi tra il 1884 e il 1888.

Francesco Crispi (1818-1901).

 Fu presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia dal luglio 1887 al febbraio 1891 e dal dicembre 1893 al marzo 1896.

Giuseppe Zanardelli (1826-1903).

Fu per alcune volte presidente della Camera; ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis del 1876 e ministro della Giustizia nel governo Depretis del 1881. Fu inoltre Presidente del Consiglio dei ministri dal 1901 al 1903.

Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la massoneria ebbe un ruolo importante nel decollo economico e finanziario del Nord Italia, infatti la Banca Commerciale Italiana (Comit) – che è stata una delle prime e più importanti banche italiane – fu fondata nel 1894 dal massone Otto Joel (insieme a Federico Weil) il quale ne fu direttore centrale tra il 1894 e il 1908, e successivamente ne fu amministratore delegato.

Sarà proprio Otto Joel a chiamare in Italia il potente banchiere massone Giuseppe Toepliz nel 1891, il quale avrà grande parte nello sviluppo del Nord industriale italiano negli anni a venire.

Terminata la prima guerra mondiale, la Comit contribuì alla riconversione postbellica dell’apparato produttivo.

Nel corso degli anni venti, la banca – guidata da Giuseppe Toeplitz – fu sempre più coinvolta nel finanziamento dei grandi gruppi industriali, diventandone in molti casi azionista di maggioranza.

Nello stesso periodo la Comit proseguì la sua espansione all’estero, soprattutto nell’Europa Centrale, Orientale e balcanica, fino alla Turchia e all’Egitto.

La grande economia – spiega lo storico Aldo Mola – era in mano allora a uomini della finanza di appartenenza massonica: ‘Giuseppe Volpi, Otto Joel, Giuseppe Toepliz, vale a dire l’alta banca privata, Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia e membro autorevole della ‘Dante Alighieri’, e numerosi altri esponenti di prima fila del mondo finanziario, largamente rappresentato tra le colonne dei Templi massonici oltre che presso Borse, Camere di commercio, consigli d’amministrazione di società finanziarie, commerciali, industriali, erano andati ultimamente imprimendo fiduciosa e dinamica baldanza alla politica estera italiana’ (Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 393-394).

Tra gli imprenditori massoni che in quel periodo contribuirono a far decollare l’economia dell’Italia Unita, segnaliamo il potente imprenditore Luigi Orlando che apparteneva alla Loggia segreta Propaganda, che era stata creata nel 1877 per accogliere importanti personaggi della vita politica, economica e finanziaria del paese.

 Luigi Orlando (1862-1933) comprò nel 1902 da un gruppo di francesi la Società Metallurgica Italiana (SMI) che era una società metallurgica con tre stabilimenti situati a Limestre, Livorno e Mammiano.

Nel 1905 poi Orlando fondò la SELT – Società Ligure Toscana di Elettricità con il sostegno del gruppo industriale degli Odero di Genova e della Banca Commerciale Italiana.

Nel primo dopoguerra la massoneria finanziò il movimento fascista aiutandolo ad andare al potere, e questo perché ‘nel primo dopoguerra la massoneria, composta in prevalenza di elementi della piccola e media borghesia, sebbene si ispirasse a un patriottismo democratico di origine risorgimentale e coltivasse in larga misura propensioni progressiste, fu coinvolta dalla paura del bolscevismo e dall’ansia del ristabilimento dell’ordine.

«Si spiega così come mai alcune logge vedessero con favore il movimento fascista fin dalle origini e molti massoni partecipassero a questo e poi al Pnf» ….

 «Questi massoni fascisti appartenevano in parte a logge dipendenti dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, di cui era Gran Maestro Domizio Torrigiani, e in parte forse maggiore alle logge scissioniste di tendenza conservatrice, dipendenti dalla Gran Loggia di piazza del Gesù di cui era Gran Maestro Raoul Palermi, che a Mussolini, già incontrato alla vigilia della marcia su Roma, conferì in seguito la sciarpa e il brevetto di 33° grado».

Il rapporto tra fascismo e massoneria, quindi, per alcuni anni fu tutt’altro che conflittuale.

 «E’ così, a cominciare dal finanziamento offerto da alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su Roma.

 L’andata al potere del fascismo, del resto, fu auspicata da Palazzo Giustiniani fin dal 19 ottobre del 1922, pur con l’avvertimento che ‘i massoni sarebbero insorti a difesa della libertà, qualora venisse imposta all’Italia una dittatura o un’oligarchia’.

Tra i finanziatori del nascente fascismo vi furono gli industriali massoni Cesare Goldmann e Federico Cerasola e il ‘fratello’ Napoleone Tempini, poi perseguitati dallo stesso Mussolini.

Il fascio di Milano fu fondato da Mussolini il 21 marzo del 1919 al numero 9 di piazza San Sepolcro, grazie a Cesare Goldmann, che mise a sua disposizione il salone dell’Alleanza industriale e commerciale di Milano.

 Fra gli intervenuti c’erano i ‘fratelli’ Eucardio Momigliano, Camillo Bianchi e Pietro Bottini; Michele Bianchi, affiliato a piazza del Gesù;

Ambrogio Binda, medico personale di Mussolini e massone di piazza del Gesù;

Federico Cerasola, presidente del Collegio dei venerabili delle logge milanesi obbedienti a Palazzo Giustiniani;

 Roberto Farinacci, iscritto alla massoneria di Palazzo Giustiniani nel 1915 e passato a quella di piazza del Gesù nel 1921;

 Decio Canzio Garibaldi, Mario Giampaoli e il citato Cesare Goldmann;

Luigi Lanfranconi, massone di piazza del Gesù;

Giovanni Marinelli; Umberto Pasella, affiliato a piazza del Gesù; Guido Podrecca, direttore de ‘L’Asino’;

Luigi Razza, affiliato a piazza del Gesù: e Cesare Rossi’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 327-329).

Ricordiamo peraltro che l’economista massone Alberto Beneduce (1877-1944), conoscitore e manovratore dei meccanismi finanziari, lavorò nell’ombra per lunghi anni con Benito Mussolini (che aveva grande stima di lui) e il suo ruolo fu essenziale nella ristrutturazione dell’economia italiana successiva alla crisi mondiale del 1929.

Il Beneduce fu infatti tra gli artefici della creazione dell’IRI e suo primo presidente.

L’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) è stato un ente pubblico italiano, istituito nel 1933 per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929.

Nel secondo dopoguerra, alla ricostruzione dell’economia italiana ha dato un forte impulso oltre che la Comit anche Mediobanca, un istituto di credito italiano fondato nel 1946 per iniziativa di Raffaele Mattioli (allora Presidente della Banca Commerciale Italiana che ne fu promotrice insieme con il Credito Italiano) e di Enrico Cuccia (che ne fu il Direttore Generale dalla fondazione al 1982).

‘Mediobanca fu costituita per soddisfare le esigenze a media scadenza delle imprese produttrici e per stabilire un rapporto diretto tra il mercato del risparmio e il fabbisogno finanziario per il riassetto produttivo delle imprese, reduci dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale’.

 Ebbene, il banchiere Enrico Cuccia (1907-2000), era un massone membro della loggia massonica segreta ‘Giustizia e Libertà’ (cfr. Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 744), ed è stato uno degli uomini più potenti d’Italia (ed anche d’Europa) fino alla sua morte.

Raffaele Mattioli, stando alla biografia ufficiale, non era massone, ma sul sito del Grande Oriente democratico si dice di lui ‘che di Massoneria ed Esoterismo se ne intendeva assai’ (in Mario Monti massone a sua insaputa /parte II del 22-23 gennaio 2012 – grandeoriente-democratico.com/).

 In merito al ruolo della Comit e di Mediobanca nella ricostruzione economica postbellica, è interessante quello che dice lo storico Silvano Danesi:

 ‘Il piano Marshall era uno strumento economico strettamente connesso con la Nato, ossia con la partecipazione a un’alleanza difensiva che legava tra loro le due sponde dell’Atlantico.

Gli Americani, quando pensarono al nostro Paese, delegarono in buona sostanza il governo della nazione ai cattolici, che avevano il consenso della maggioranza della popolazione e una rete diffusa di presidi (le parrocchie) sul territorio;

mentre la gestione dell’economia fu affidata alla finanza laica che, nella fattispecie, era incarnata da Comit e da Mattioli.

Mattioli, la Comit, Mediobanca e Cuccia sono stati, dunque, gli interlocutori e i garanti di una ricostruzione che doveva avvenire all’interno di un patto, quello atlantico, che scaturiva dalla sconfitta del fascismo e del nazismo.

 […] Mattioli fu il garante di quel patto sul versante finanziario, così come De Gasperi lo fu su quello politico.

[…] La Comit e Mediobanca, indipendentemente dal fatto che Cuccia fosse massone, sono state, in primo luogo, la cabina di regia della ricostruzione dell’economia reale e del capitalismo italiani all’interno di uno schema atlantico’ (in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 335-336).

Veniamo ora alla FIAT che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico dell’Italia nel dopoguerra.

Dice Ferruccio Pinotti che ‘i padroni della Fiat hanno sempre avuto rapporti di simpatia e frequentazione con il mondo massonico […].

Tutto l’ambiente in cui si muovono gli Agnelli, sin dalla fine dell’Ottocento, è di impronta massonica’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 351).

Giovanni Agnelli senior (1866-1945), che fu tra i fondatori della casa automobilistica FIAT nel 1899 e ne fu amministratore delegato e presidente, aveva come stretto collaboratore di alto livello il professore Attilio Cabiati, che era un massone.

 Peraltro, nel 1908 la massoneria venne in aiuto a Giovanni Agnelli – che era imputato di illecita coalizione, aggiotaggio e falso in bilancio – infatti Vittorio Emanuele Orlando, che era l’allora ministro della Giustizia e che era un importante massone, esercitò un’ingerenza nei confronti della magistratura torinese e affermando che «un’azione penale nei confronti di Agnelli avrebbe avuto conseguenze negative sulla nascente industria nazionale, in particolare piemontese».

E così ‘con la benevola attenzione del ministro Vittorio Emanuele Orlando e attraverso ricorsi vari, Agnelli riuscì a rinviare il processo sino al 21 giugno 1911′, e poi il 22 maggio 1912 il Tribunale assolse Agnelli, e a nulla servì il ricorso del pubblico ministero.

Giovanni Agnelli nel 1921 chiamò alla Fiat come direttore centrale il massone Vittorio Valletta, che poi seguirà e affiancherà Giovanni Agnelli junior per alcuni decenni. Giovanni Agnelli assieme a Vittorio Valletta saranno tra i primi membri italiani del Bilderberg Group, che è un potente circolo finanziario paramassonico mondiale sorto ufficialmente nel 1954 ma le cui prime riunioni informali si tennero già nel 1951 (vedi più avanti la parte dedicata a questo gruppo nel capitolo 10 intitolato ‘Massoneria, Illuminati e Gesuiti’).

Alla morte di Giovanni Agnelli senior, Valletta assumerà la presidenza della FIAT e ne rimarrà presidente fino al 1966 quando poi verrà nominato senatore a vita.

Il suo posto lo prenderà Gianni Agnelli «l’avvocato» (1921-2003), che, secondo il giornalista Roberto Fabiani, ‘conobbe la massoneria su incitamento dell’allora presidente della Fiat e massone Vittorio Valletta’ (Roberto Fabiani, I massoni in Italia, pag. 18-19) e secondo Licio Gelli ‘faceva parte di una loggia «coperta», la loggia di Montecarlo’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 363), il che non meraviglia affatto visto che l’appartenenza a logge coperte o segrete di importanti personaggi italiani dell’economia e della finanza è una cosa molto diffusa da molto tempo, in quanto ciò serve a proteggere questi importanti personaggi ‘da pressioni indebite da parte di altri «fratelli»’, parole queste di Giuliano Di Bernardo ex Gran Maestro del GOI (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 397), come anche non meraviglia che questa loggia a cui apparteneva Gianni Agnelli fosse all’estero, visto che l’affiliazione all’estero pare essere una prassi per i personaggi molto importanti della finanza, dell’economia e della politica.

Peraltro Gianni Agnelli è stato uno dei fondatori della Commissione Trilaterale che collaborò con David Rockefeller.

Non sorprende quindi affatto venire a sapere (lo ha dichiarato lo stesso Agnelli ai giudici, e la cosa è stata confermata dall’ex Gran Maestro del GOI Giuliano di Bernardo) che la FIAT ha finanziato abbondantemente il Grande Oriente d’Italia all’epoca quando era Gran Maestro Lino Salvini (cfr. Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 367).

Oltre a Gianni Agnelli, un altro noto imprenditore e finanziere massone che ha avuto un ruolo importante nell’economia e nella finanza in Italia è Carlo De Benedetti.

Anche lui infatti – come Gianni Agnelli – risulta affiliato alla Massoneria, in quanto risulta essere entrato nella Massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, «regolarizzato nel grado di Maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n. 21272» (Ansa, 5 novembre 1993).

 L’anno prima, De Benedetti era diventato presidente dell’Unione Industriali di Torino.

 Nel 1978 entrò in Olivetti, di cui divenne presidente.

In questa azienda ‘pose le basi per un nuovo periodo di sviluppo, fondato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vide aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa’.

Però a causa di una grave crisi della Olivetti, nel 1996 decise di lasciare l’azienda, (di cui rimase presidente onorario fino al 1999) dopo aver fondato la Omnitel.

Nel 1987, attraverso la CIR, De Benedetti entrò nell’editoria acquisendo una partecipazione rilevante nella Arnoldo Mondadori Editore e, attraverso di essa, nel gruppo Espresso-Repubblica. Nel 1997 l’Espresso incorporò Repubblica e assunse l’attuale denominazione di Gruppo Espresso.

E veniamo all’imprenditore Silvio Berlusconi, l’ex presidente del Consiglio, che è uno degli uomini più ricchi e potenti in Italia, perché anche lui è massone, in quanto risulta essersi iscritto alla Loggia P2 – anche questa una ‘loggia coperta’ come quella di Montecarlo – di cui Licio Gelli era il Maestro Venerabile.

Berlusconi fu iniziato alla Loggia massonica P2 (Tessera n° 1816, Fascicolo 0625) nel 1978.

 Per quale ragione Berlusconi è entrato nella Massoneria, ce lo dice Gioele Magaldi del Grande Oriente Democratico: ‘…. l’adesione di Berlusconi alla Massoneria non fu soltanto il desiderio di entrare a far parte di un network nazionale e internazionale molto potente:

 in lui c’era anche un desiderio filosofico autentico di percorrere un sentiero iniziatico di perfezionamento spirituale.

Certo, la sua idea della Via massonica era e resta un’idea elitaria, gerarchica, oligarchica, in nome della quale dei Gruppi ristretti di Maestri (presunti) Illuminati hanno il diritto-dovere di manipolare le masse, asservendole ai loro disegni «superiori»’ (Intervista di Akio Fujiwara a Gioele Magaldi per il quotidiano giapponese Mainichi Shimbun presente sul sito: grandeoriente-democratico.com/).

E sempre il Magaldi ci spiega come la Massoneria ha aiutato Berlusconi ad arrivare alla sua posizione dominante nel campo dei mezzi di comunicazione e ad entrare nel mondo della politica, infatti dice:

‘Grazie alla protezione di Gelli e di altri potenti Fratelli Massoni piduisti, negli anni ’70 innanzitutto Berlusconi fu “sdoganato” dallo status di semplice imprenditore brianzolo a quello di player autorevole nel mondo dei media.

I Fratelli Massoni consentirono al titolare della tessera P2 n.1816 di diventare un autorevole opinionista sul Corriere della Sera “piduista”, mentre iniziava l’acquisizione azionaria del Giornale di Indro Montanelli.

 Dopo di che, già dagli anni 1978-80, i dirigenti della P2 pianificarono che Berlusconi potesse essere il loro “cavallo di Troia” per la costituzione progressiva di un gruppo televisivo privato al servizio dei loro interessi, secondo quanto prevedeva il cosiddetto “Piano di rinascita democratica” stilato pochi anni prima.

Non bisogna dimenticare, però, che a partire dalla primavera 1981, dopo il blitz di Castiglion Fibocchi del 17 marzo 1981 che dette origine al cosiddetto “scandalo P2”, il Fratello Berlusconi iniziò a “guardarsi intorno” in cerca di nuove protezioni.

Che trovò immediatamente e in modo clamoroso proprio nel principale avversario di Licio Gelli nel G.O.I:

 l’ex Presidente della Corte Centrale (massonica) e Gran Maestro di Palazzo Giustiniani a partire dal 1982, Fratello Armando Corona.

Proprio negli anni dal 1982 al 1990 Berlusconi verrà supportato in modo formidabile a incrementare e conservare lo status di semi-monopolista della televisione privata italiana, con importanti “sortite” industriali anche all’estero.

 E sarà supportato dalla Massoneria italiana e internazionale così come dal PSI craxiano a grande densità massonica.

Ma dal 1982 al 1990 (anni della Gran Maestranza del G.O.I. di Armando Corona) i Fratelli che aiutarono Berlusconi a diventare dominus nel campo dei media non erano per la gran parte piduisti.

Erano Massoni importanti, semmai, come il Gran Maestro Corona, che insieme al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (dal 1985 al 1992), all’Onorevole Giuseppe Pisanu, a Flavio Carboni e ad altri, si riunivano spesso e volentieri per dei summit strategici con il Fratello Silvio Berlusconi’ (Ibid.,).

Sempre in merito a questo legame tra massoneria e finanza, ricordiamo che nel mese di Marzo del 2007 partì dalla Procura di Catanzaro, guidata dal sostituto procuratore Luigi De Magistris, un’inchiesta sui rapporti tra politica corrotta, massoneria, lobby d’affari e malavita organizzata.

Il sistema affaristico indagato da De Magistris sarebbe stato tenuto, secondo l’ipotesi accusatoria, da una loggia massonica coperta con sede a San Marino:

un comitato d’affari che avrebbe influito sulle scelte di amministrazioni pubbliche sia per l’utilizzo di finanziamenti europei che per l’assegnazione di appalti (cfr. Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 453-463).

Ed a conferma di questo stretto legame, nel libro Fratelli d’Italia di Ferruccio Pinotti c’è una testimonianza molto interessante fatta ad un banchiere di cui viene occultato il vero nome (come vengono occultati altri nomi per ragioni legali) e che viene chiamato Fabrizio Girelli, il quale racconta una storia reale – ambientata nel mondo bancario del profondo Nord – sostenuta da documenti depositati presso uno studio legale.

Trascrivo una parte di questa testimonianza.

«Sono stato assunto alla Banca Popolare nel 1994 dopo alcuni mesi di indecisione sulle mie future scelte professionali.

Ero infatti in procinto di trasferirmi a Londra per Banque Paribas dopo aver sostenuto con successo il colloquio di selezione presso la sede inglese della banca d’affari.

La decisione di scegliere l’istituto anziché Londra è stata presa per ragioni familiari; era infatti dal 1986 che la mia vita si svolgeva lontano da casa e vedevo la soluzione Banca Popolare come un’opportunità di avvicinamento.

Non era facile per le mie caratteristiche professionali trovare un lavoro soddisfacente vicino a casa.

Avevo lavorato esclusivamente in istituzioni finanziarie internazionali (Goldman Sachs, Merrill Lynch e ING) e la professionalità maturata in molti anni di lavoro con esperienze anche all’estero non rendevano facile una collocazione in una banca italiana.

 Dovetti accettare un ridimensionamento professionale ed economico significativo in cambio di una scelta di vita e mi sono rimesso in gioco.

D’altronde pensavo che gestire la fase di ristrutturazione di un istituto di credito, anche se piccolo, avrebbe potuto creare delle opportunità e una nuova esperienza che poteva anche riuscire interessante.».

Gli inizi furono un po’ faticosi, per il giovane banchiere.

 «I primi mesi furono molto difficili perché non riuscivo ad adeguarmi ai lenti ritmi di lavoro e la mentalità era un po’ troppo arretrata.

Dopo un mese circa di assoluta inattività iniziai a cercare di capire almeno i numeri della tesoreria per sapere come la banca gestiva il portafoglio titoli di proprietà e quali erano i risultati che si prospettavano per fine anno.

Insomma, non si sapeva se si guadagnava o si perdeva e non c’erano strumenti di monitoraggio adeguati per valutare le posizioni d’investimento.

Con mia enorme sorpresa, fu difficilissimo ottenere i dati relativi a un portafoglio titoli che era di quasi 600 miliardi nel 1994 e incontrai un certo ostruzionismo da parte di alcune persone che vedevano il mio interessamento come un’intrusione in affari altrui.»

 Quando chiese il perché di questa strana difficoltà ad avere i dati, Fabrizio incontrò le prime allusioni alla massoneria e ad altri giri di potere occulto che alcune persone esercitavano nella banca, scoprendo che alcuni percorsi di carriera all’interno dell’azienda sembravano, per alcune persone, già tracciati e accettati dai più come cose fatte.

 «Ma non volli fermarmi a quelle voci e mi impegnai ancora di più nel lavoro.

 Con l’aiuto di un bravo impiegato del settore si iniziò la ricostruzione manuale di tutta la posizione in titoli che richiese più di un mese.

Alla fine emerse con enorme stupore che la banca stava perdendo circa 150 miliardi ma nessuno lo sapeva, o almeno si cercava di non farlo sapere.

 150 miliardi erano l’intero patrimonio di allora e quando me ne resi conto fui preso dal panico.

 Avevo deciso di venire a lavorare in un istituto dove avrei dovuto giocarmi tutto il mio passato e il mio futuro e ora mi accorgevo che la mia scelta era stata un gravissimo errore perché la banca era virtualmente fallita.

Tutto poteva finire in poche settimane nel peggiore dei modi.

Potevo già immaginare una imminente aggregazione con un altro istituto dove avrei dovuto spiegare che io non c’entravo nulla e che avevo trovato una situazione disastrosa.

La banca sarebbe fallita su errati investimenti in titoli e io ero il responsabile, seppure da pochi mesi, proprio di quel settore.

 Le voci su interferenze massoniche proseguivano, ma non sapevo che peso veramente attribuire a tali indiscrezioni e come valutarle.

 Cercai di tenere duro.»

 Fabrizio Girelli spiega: «In ogni caso non potevo tornare più indietro e mi diedi da fare per informare la direzione e cercare di uscire dalla tragica situazione.

Il nuovo direttore generale Ramada dovette correre in Banca d’Italia per informare la vigilanza e dopo alcune titubanze gli fu concesso un anno per sistemare le cose.

Con un po’ di fortuna e una serie di operazioni azzeccate uscimmo da tale situazione;

e nell’arco di un anno eravamo ancora in corsa per la possibilità di iniziare a esplorare nuove esperienze manageriali, nuove strategie e nuove iniziative.

La banca era ripartita e i risultati erano veramente incoraggianti.

Da parte mia ero riuscito a creare un gruppo di persone veramente affiatato e molto motivato.

Quando ero arrivato mi avevano assegnato un ufficio di tre persone.

Alla fine del 1999 avevo una intera direzione con oltre 60 persone e il 50 per cento dei ricavi dell’istituto provenivano direttamente e indirettamente dal settore finanziario.

 Tutto andava per il meglio fino a quando nell’estate del 1999 la direzione generale decise di acquistare una rete di promotori finanziari».

Di nuovo il giovane banchiere non capisce, sente che c’è qualcosa di strano. «Quella decisione non venne motivata.

E di nuovo iniziarono i rumors che parlavano di pressioni massoniche dell’ambiente romano per effettuare quella acquisizione.

Purtroppo tale acquisto si rivelò una decisione sciagurata perché la rete rilevata celava una serie di pesantissime minusvalenze sul portafoglio titoli e questa situazione era stata tenuta nascosta dai venditori alla direzione.

Non essendo stata effettuata alcuna due diligence [verifica tecnica basata su parametri bancari specifici, Nda] sulla composizione delle attività finanziarie in essere sui clienti, nessuno si era accorto che la rete era ingestibile e che le perdite sui titoli della clientela avrebbero compromesso qualsiasi possibilità di ottenere reddito da tale acquisizione, anche perché il portafoglio dei clienti avrebbe potuto rimanere immobilizzato per anni in attesa che i titoli obbligazionari strutturati, che erano stati collocati a suo tempo, tornassero al valore di emissione.

Le minusvalenze complessive si quantificavano in circa 80 miliardi su un portafoglio di 500 miliardi circa.

Una cifra enorme per una piccola banca del Nord come la nostra, dove tutti i ricavi di un anno (il margine lordo d’intermediazione), in quel periodo, assommavano a 200 miliardi di lire.

 Fui io a constatare il disastro in seguito ad alcune verifiche che avevo fatto fare da un collaboratore e informai con urgenza la direzione generale».

Ma fu così che iniziarono i problemi di Fabrizio Girelli’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 479-482), che fu costretto a dimettersi nel 2002 perché – con le sue prese di posizione contrarie alla filosofia aziendale – si era rifiutato di entrare nel giro dei ‘grembiulini’ che dominava dentro e fuori la banca, e una volta uscito fu investito da una vasta ondata di diffamazione, infatti tra le altre cose la direzione cercò di far capire ai suoi ex colleghi che Girelli era stato licenziato perché aveva provocato pesanti perdite alla banca.

 Girelli passò un periodo difficile pensando più volte al suicidio a causa del profondo stato di angoscia e depressione nel quale si trovava.

 Poi alla fine però, grazie all’intervento della magistratura con la quale il Girelli collaborò come persona informata dei fatti sul dissesto di Banca Popolare, magistratura che fece emergere connessioni criminali e giri pericolosi in cui era coinvolta l’ex banca di Girelli, venne fuori la verità, e lui ‘ha visto riconosciute le ragioni delle sue scelte coraggiose e contro corrente; in qualche modo ha «vinto» la sua lunga guerra.

Ma il prezzo pagato è stato alto’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’italia, pag. 503).

Dal lungo racconto che fa il Girelli nell’intervista dunque emerge in maniera evidente che nel sistema bancario e finanziario italiano esistono forti pressioni massoniche.

Stesso discorso ovviamente per quello internazionale.

Esiste un forte rapporto tra finanza massonica e finanza Vaticana, che secondo l’ex direttore finanziario dell’Eni Florio Fiorini, ‘che conosce come pochi i rapporti tra finanza e poteri occulti, i canali sotterranei attraverso i quali si decidono le sorti del denaro’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 370), si è venuto a creare con Giovanni XXIII (che fu eletto papa nel 1958), che risulta infatti essere stato affiliato alla massoneria.

Dice Fiorini: ‘La finanza vaticana è stata più o meno stabile fin tanto che non è arrivato al soglio pontificio Giovanni XXIII.

Prima di lui, ad avere in mano la finanza vaticana era la cosiddetta ‘nobiltà nera’, la quale era imparentata sia coi francesi – basti citare Paolina Bonaparte, che aveva sposato il principe Borghese – sia con gli inglesi, pensiamo al legame dell’ammiraglio Nelson con Napoli.

Quindi la finanza vaticana, gestita dalla nobiltà romana, era infiltrata da elementi di contatto con la massoneria francese e inglese, che fungevano da ‘sponde’ internazionali in Europa.

 Tutto cambiò con Giovanni XXIII il quale, da buon figlio di contadini, non si sentiva legato a questo mondo della nobiltà romana ed europea.

 Era invece un uomo che aveva viaggiato e che come nunzio apostolico aveva conosciuto molte realtà.

 In particolare, fu il primo Papa a orientare la finanza vaticana verso gli Stati Uniti’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 377-378), e il tramite per operare quel cambiamento fu il potente cardinale di New York Francis Spellman, il «gran protettore» dei Cavalieri di Malta, il quale era vicino alla massoneria e attivo negli USA dal 1927, e che aveva intensi rapporti con l’ingegnere Bernardino Nogara, il noto amministratore delle finanze vaticane che lo Spellman definì ‘dopo Gesù Cristo la cosa più grande che è capitata alla Chiesa cattolica’, e questo perché dopo che il Vaticano concluse i Patti Lateranensi con il Governo di Mussolini nel 1929, fu proprio Nogara ad amministrare i soldi che il Vaticano ricevette dallo Stato Italiano e a farli fruttare grandemente.

Per cui si può dire che i mezzi finanziari che lo Stato italiano diede al Vaticano costituirono il fondamento su cui venne costruito quell’impero finanziario che il Vaticano costituisce oggi.

Entriamo un po’ nel merito per spiegare cosa avvenne.

Il giorno stesso in cui l’accordo con Benito Mussolini fu ratificato Pio XI creò una nuova agenzia finanziaria, la “Amministrazione Speciale della Santa Sede” e ne nominò suo direttore e manager Bernardino Nogara.

Costui accettò la proposta del papa perché il papa soddisfece le sue richieste tra cui c’erano queste:

che tutti gli investimenti che egli scegliesse di fare fossero totalmente e completamente liberi da qualsiasi considerazioni religiose o dottrinali;

che egli fosse libero di investire i fondi del Vaticano dovunque nel mondo.

E così Nogara si mise in moto.

Martin Malachi, Gesuita ex-professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, nel suo libro Rich Church, Poor Church (Chiesa Ricca, Chiesa Povera) edito nel 1984, dice:

‘Fedele ai suoi piani iniziali, i primi maggiori acquisti di Nogara in Italia furono attuati nel ramo del gas, dei tessili, nella costruzione pubblica e privata, nell’acciaio, nell’arredamento, negli alberghi, in prodotti minerari e metallurgici, prodotti dell’agricoltura, energia elettrica, armi, prodotti farmaceutici, cemento, carta, legname da costruzione, ceramica, pasta, ingegneria, ferrovie, navi passeggeri, telefoni, telecomunicazioni e banche’ (pag. 40).

Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale il Vaticano acquisì il controllo di molte compagnie e banche sia in Italia che all’estero e in molte altre compagnie invece riuscì ad avere una partecipazione minore ma sostanziale.

 Verso gli anni ‘30 il Vaticano possedeva circa 3 milioni e 716.000 metri quadrati di beni immobili a Roma, e col tempo sarebbe diventato il maggior proprietario terriero in Italia dopo lo stesso governo italiano.

Quando Mussolini ebbe bisogno di armamenti per l’invasione dell’Etiopia nel 1935 una sostanziosa parte di essi fu provveduta da una fabbrica di munizioni che Nogara aveva acquisito in nome del Vaticano.

Il 27 giugno 1942 Pio XII, su proposta di Nogara, fondò una nuova società finanziaria nel Vaticano chiamata “Istituto per le Opere Religiose” (IOR).

 La proposta di Nogara era stata questa:

‘Stabilire una società ecclesiastica centrale per la Chiesa Universale, una società dotata dello status di una banca all’interno dello Stato sovrano della Città del Vaticano e che avesse il vantaggio di appartenere al papato e al Vaticano;

 una società che si specializzasse nell’investire e nel negoziare i fondi e le risorse degli enti ecclesiastici della Chiesa intera’ (Martin Malachi, op. cit., pag. 43).

Tramite lo IOR i vari organismi ecclesiastici erano in grado di investire il loro denaro in tutta segretezza ed esenti da tasse.

Dopo la seconda guerra mondiale, sempre sotto Nogara, l’impero finanziario vaticano continuò a crescere.

Quando Bernardino Nogara morì nel 1958 – lo stesso anno in cui salì al soglio pontificio Giovanni XXIII – lasciò un Vaticano enormemente ricco.

Ma anche dopo la morte di Nogara le finanze continuarono a crescere, appunto tramite Giovanni XXIII (che fu papa dal 1958 al 1963) che orientò la finanza vaticana verso gli USA.

Anche sotto Paolo VI (che fu papa dal 1963 al 1978), che era massone come il suo predecessore, il Vaticano continuò ad arricchirsi grandemente.

Verso la metà degli anni sessanta, le agenzie finanziarie del Vaticano controllavano la metà delle agenzie di credito in Italia.

 Molte industrie avevano dietro denaro del Vaticano.

L’Istituto Farmacologico Serono di Roma per esempio era di proprietà Vaticana.

Nel 1968, secondo quanto dichiarò l’allora ministro delle Finanze Preti, la ‘S. Sede’ possedeva titoli azionari italiani per un valore di circa 100 miliardi, con un dividendo che oscillava dai tre ai quattro miliardi l’anno.

Anche all’estero il Vaticano possedeva titoli azionari per molti miliardi.

Esso aveva pacchetti azionari in diverse grandi compagnie internazionali tra cui la General Motors, la Shell, Gulf Oil, General Electric, Betlehem Steel, International Business Machines (IBM), e TWA.

Nel 1971 Paolo VI nominò Paul Marcinkus (anche lui massone) presidente dello IOR, e sotto la sua direzione lo IOR risultò coinvolto in alcuni scandali finanziari a motivo di manovre finanziarie illegali da esso compiuto con l’aiuto del finanziere siciliano Michele Sindona (massone) – il mandato di cattura spiccato contro Sindona parlava ‘di prove documentali di operazioni irregolari effettuate da Sindona per conto del Vaticano’ -, e di Roberto Calvi (anche lui massone), presidente del Banco Ambrosiano.

Per tornare agli investimenti del Vaticano negli USA, essi hanno delle implicazioni massoniche perché dopo il 1945 gli USA espressero la loro politica estera in Italia anche attraverso la massoneria, e il Vaticano sfruttò questi canali per i suoi investimenti negli USA.

 E così oggi la Chiesa Cattolica Romana americana è tra le cinque potenze immobiliari negli USA.

Ovviamente il Vaticano è una potenza immobiliare anche in Italia.

In un articolo dal titolo ‘San Mattone’ apparso su Il Mondo nel maggio 2007 e scritto da Sandro Orlando si legge per esempio:

‘Un quarto di Roma, a spanne, è della Curia.

 Partendo dalla fine di via Nomentana, all’altezza dell’Aniene, dove le Orsoline possiedono un palazzo di sei piani da oltre 50 mila metri quadri di superficie, mentre le suore di Maria Riparatrice si accontentano di un convento di tre piani;

e scendendo a sud est per le centralissime via Sistina e via dei Condotti, fino al Pantheon e a piazza Navona, dove edifici barocchi e isolati di proprietà di confraternite e congregazioni si alternano a istituzioni come la Pontificia università della Santa Croce.

E ancora, continuando giù per il lungotevere e l’isola Tiberina, che appartiene interamente all’ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio.

E poi su di nuovo per il Gianicolo, costeggiando il Vaticano fino sull’Aurelia Antica dove si innalza l’imponente Villa Aurelia, un residence con 160 posti letto, con tanto di cappella privata e terrazza con vista su San Pietro, che fa capo alla casa generalizia del Sacro Cuore.

 È tutto di enti religiosi.

 Un tesoro immenso che si è accumulato nei decenni grazie a lasciti e donazioni: più di 8 mila l’anno scorso nella sola area di Roma città.

Ma non c’è solo la Capitale.

La Curia vanta possedimenti cospicui anche nelle roccaforti bianche del Triveneto e della Lombardia: a Verona, Padova,Trento.

Oppure a Bergamo e Brescia, dove gli stessi nipoti di Paolo VI, i Montini, di mestiere fanno gli immobiliaristi.

 «Il 20-22% del patrimonio immobiliare nazionale è della Chiesa», stima Franco Alemani del gruppo Re, che da sempre assiste suore e frati nel business del mattone.

Senza contare le proprietà all’estero

. «A metà degli anni ‘90 i beni delle missioni si aggiravano intorno ai 800-900 miliardi di vecchie lire, oggi dovrebbero valere dieci volte di più», osserva l’immobiliarista Vittorio Casale, massone conclamato che all’epoca era stato chiamato dal cardinale Jozef Tomko a partecipare ad un progetto di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fide, il ministero degli Esteri del Vaticano’.

 (lnx.mariostaderini.it/staderini/?q=node/142).

Tratto dal libro “La massoneria smascherata” di G. Butindaro.

 

 

 

SOLDI E POTERE.

Clericetti.blogautore.repubblica.it - Carlo Clericetti – (23 dicembre 2022) – ci dice:

L’unica riforma necessaria per il Mes.

L’Italia è rimasto il solo paese a non aver sottoscritto la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e si moltiplicano le pressioni, interne ed esterne, perché provveda a farlo.

Il principale argomento di chi è a favore della ratifica è che il Mes è necessario al completamento dell’unione bancaria, perché tra i suoi nuovi compiti c’è quello di intervenire qualora il fondo comune di tutela dei depositi – alimentato da versamenti delle banche aderenti – non sia sufficiente a coprire i costi di una eventuale emergenza.

Come è noto l’unione bancaria non è mai stata completata, ma il motivo non è perché manchi un organismo tecnico.

 Il motivo è che un gruppo di paesi ritiene che prima si debba provvedere a una riduzione del rischio, intendendo in particolare che le banche che detengono in quantità rilevante titoli sovrani dei paesi ad alto debito debbano ridurre in modo sostanziale quella parte del portafoglio titoli.

 Che venga nominata esplicitamente o meno, è l’Italia con le sue banche il principale obiettivo di questa richiesta.

Solo una volta che essa sia stata soddisfatta ci sarebbe la disponibilità ad assumersi la condivisione del rischio.

Questa posizione ignora pervicacemente che proprio la condivisione ridurrebbe sostanzialmente il rischio, come anche l’ex presidente della Bce Mario Draghi ha spiegato in passato.

Al contrario, se le nostre banche fossero costrette a vendite massicce di titoli italiani, tanto più ora che la Bce ha deciso la fine degli acquisti e ha annunciato che inizierà invece a venderli, ciò provocherebbe conseguenze disastrose per il nostro paese, rendendo possibile una crisi dagli esiti imprevedibili.

Il completamento dell’unione bancaria non dipende quindi dall’approvazione della riforma del Mes, ma dall’atteggiamento sbagliato e pericoloso di alcuni paesi, e dati i precedenti è lecito dubitare che questa approvazione sarebbe decisiva.

Ciò detto, giova ribadire che il Mes è nato malissimo e riformato peggio.

Non si vede perché il compito di backstop per l’unione bancaria debba essere affidato a un organismo al di fuori delle istituzioni comunitarie, di diritto lussemburghese, che per statuto è tenuto a perseguire il solo interesse dei creditori e dunque a non prendere in considerazione – o comunque a mantenere in subordine – gli interessi politici generali.

 Che avrebbe l’ultima parola nel giudizio sulla sostenibilità del debito di chi vi ricorre, e in caso di giudizio negativo – sulla cui arbitrarietà si può nutrire più di un dubbio – potrebbe imporre politiche di aggiustamento che, come insegna l’esperienza della Grecia, possono essere non solo dolorose, ma anche sbagliate.

Quella vicenda ha attribuito al Mes una connotazione profondamente negativa, tanto che persino i prestiti offerti durante la pandemia non sono stati richiesti da alcun paese, nonostante la dichiarazione – non assistita, però, da atti formali – che la sola condizionalità sarebbe stata l’utilizzo di quei fondi a scopi sanitari.

 

La sola riforma sensata del Mes sarebbe la sua abolizione, e l’attribuzione degli 80,5 miliardi di capitale versati dagli Stati membri a una costituenda “Agenzia del debito” come proposto da Massimo Amato, Francesco Saraceno e altri.

Il governo italiano, anche in seguito a una pronuncia in tal senso approvata dal Parlamento, fa benissimo a non ratificare la riforma.

 Anche chi non ne condivide minimamente l’impostazione generale, su questo specifico punto lo invita a non cedere alle pressioni e a mantenersi su questa linea.

(Nicola Acocella, Università di Roma La Sapienza.

Lucio Baccaro, Max Planck Institute, Colonia.

Annaflavia Bianchi, economista.

Ed altri quaranta economisti.)

 

 

 

 

 

Banche Centrali: è in

arrivo la Frode delle Frodi!

Conoscenzeaconfine.it – (20 Gennaio 2023) - Megas Alexandros alias Fabio Bonciani – ci dice:

“Le perdite della banca centrale possono aumentare le pressioni fiscali sovrane” dichiara “Fitch Ratings”, l’agenzia internazionale di valutazione del credito e rating. Far diventare utilizzatori della moneta le banche centrali è l’imbroglio ultimo che il “Potere” sta mettendo in atto per autonominarsi creditore unico dei popoli.

“Quando piove, vuol dire che da qualche parte sta piovendo”, ed infatti la pioggia, già ben evidente, ci fa intravedere di tutto punto, quello che pare essere un temporale di dimensioni bibliche, che potrebbe abbattersi sui popoli, qualora la nuova frode pensata dai poteri profondi, venga messa in atto in tutta la sua diabolicità di pensiero.

Dopo aver reso i governi indipendenti dalle banche centrali e di fatto gli Stati debitori di esse, stiamo per assistere alla magia più grande e satanica di sempre:

stanno per rendere le banche centrali – creatrici di denaro dal “nulla” – ufficialmente debitrici di un ente superiore che se non si trova nell’alto dei cieli, è certamente rappresentato dal potere stesso che da sempre comanda sul pianeta terra.

La frode gira tutta intorno alla falsa prospettazione che una banca centrale debba ricorrere ad una “fantascientifica” ricapitalizzazione da parte dei governi, per coprire eventuali perdite derivanti dalla politica monetaria messa in atto su tassi e titoli.

Stiamo parlando dell’istituzione unica creatrice della “materia prima”, ovvero la valuta in cui si denominano le supposte perdite su asset finanziari, che esistono in quanto le banche centrali stesse, hanno dapprima creato la moneta necessaria per acquistarli, dandogli quindi un valore.

Per essere ancora più chiari, senza la creazione della moneta da parte delle banche centrali, tali asset non avrebbero mai visto la luce e di conseguenza anche le perdite sul valore degli stessi.

Ad infondere la frode per conto dei padroni, ci ha pensato Fitch Rating, che già ad Ottobre scorso, in un suo documento/articolo dichiarava:

 “l’aumento dei tassi di interesse e il calo delle valutazioni dei titoli hanno aumentato la probabilità di perdite per le banche centrali dei mercati sviluppati che si sono impegnate in programmi di acquisto di attività”.

La prospettiva di perdite nei bilanci delle banche centrali, ponendole in modo del tutto fuorviante sullo stesso piano delle banche commerciali, deriva dal seguente ragionamento, a cui dà sempre voce la stessa agenzia che dispone di due quartier generali, uno a New York e l’altro a Londra:

 “il recente aumento dei tassi di interesse nella maggior parte dei mercati sviluppati, significa che alcune banche centrali ora stanno pagando di più sulle loro passività verso gli istituti finanziari di quanto guadagnano sui loro titoli detenuti, aumentando il rischio di perdite”.

Tutti noi sappiamo che in virtù del principio dell’indipendenza, pur le banche centrali non facendo parte del bilancio consolidato del governo, in realtà poi tendono a distribuire i profitti ai propri governi.

Come del resto restituiscono al Tesoro anche tutti gli interessi incassati sui titoli di stato affluiti nel proprio bilancio, in virtù dei programmi di monetizzazione del debito degli Stati.

Cosa si vuole fare adesso nella pratica reale di quello che ci viene prospettato?

 In sostanza si vuol fare in modo che in conseguenza della copertura finanziaria di tali perdite – come se la banca centrale fosse costretta ad operare alla stregua di qualsiasi azienda del settore privato – si arrivi a non versare più un centesimo nelle casse dello Stato.

Non solo, nel caso in cui le perdite fossero di entità tale da far atterrare il patrimonio della banca in area negativa, si prospetta addirittura una ricapitalizzazione dell’Istituto da parte dei governi, i quali, come ben sappiamo, hanno un unico modo per reperire le risorse: le tasche dei cittadini!

Siamo alla follia più totale, siamo oltre il gioco delle tre carte!

 La banca centrale che crea la moneta per prima in regime di monopolio e che attraverso il governo la fornisce al settore privato, qualora registrasse nel proprio bilancio un patrimonio negativo, dovrebbe essere ripatrimonializzata dai cittadini.

I quali, non essendo creatori della moneta, logicamente, un giorno, prima o poi, sono destinati ad esaurirla nelle proprie tasche.

Come vedete, siamo in perfetto allineamento con il fine ultimo che il disegno del Grande Reset si prefigge da tempo: togliere totalmente la moneta dalla disponibilità della maggioranza.

Sempre leggendo Fitch Ratings si apprende che:

“gli approcci contabili mark-to-market hanno provocato di recente perdite particolarmente ingenti presso la Banca nazionale svizzera (BNS) (che infatti annuncia che non invierà più soldi ai Cantoni nel breve periodo) e la Reserve Bank of Australia (RBA) – queste ultime sufficienti a spingere la RBA in un patrimonio netto negativo”.

Ormai la frode pare proprio essere stata sdoganata, se un paese come la Svizzera, dotato di sovranità monetaria ed esperta di banche, la sta già mettendo in atto nella politica di trasferimento fiscale verso i Cantoni.

Ed il fatto che il 9 Gennaio scorso anche il noto quotidiano economico, voce dei poteri di casa nostra, Milano Finanza, dia pieno risalto alla notizia e ci indichi verso quale rotta si vuol far navigare l’imbarcazione, non ci deve lasciare per niente tranquilli:

La stessa Fed ha affermato che le rimesse al Tesoro degli Stati Uniti potrebbero cessare per un certo periodo se gli alti tassi di interesse le causano l’accumulo di perdite nette;

tali rimesse nel 2021 erano circa lo 0,5% del PIL.

Le banche centrali che utilizzano approcci contabili diversi, come quelle negli Stati Uniti, in Giappone e nella zona euro, e quelle come la Bank of England e la Reserve Bank of New Zealand che hanno indennità governative che coprono i programmi di acquisto di attività, hanno meno probabilità di sperimentare un’estrema volatilità degli utili – tiene a prospettare Fitch Rating – aggiungendo poi: “tuttavia, le perdite indennizzate rappresentano una passività potenziale per il sovrano”.

Insomma, nonostante una tecnica che dopo lo schiaffo, preveda il farti rilassare con un paterno “scappellotto “, per poi affondarti con un “cazzotto” in pieno volto – con il preciso intento di farci credere che per noi (intesi come europei) sarà diverso – tutto lascia prevedere invece che non sarà proprio così!

Continuando nella  lettura del documento, si apprende che la maggior parte delle banche centrali dispone di riserve, che possono consentire loro di mantenere le distribuzioni al governo anche quando si registrano perdite.

 Tuttavia – afferma sempre Fitch Ratings – la portata e la velocità dei movimenti del mercato possono sopraffare le riserve, mettendo a repentaglio le entrate pubbliche delle banche centrali.

La RBA ha dichiarato a settembre che si aspetta che i suoi profitti futuri vengano mantenuti fino al ripristino del suo capitale;

 la banca ha pagato circa lo 0,1% del PIL al governo nell’anno finanziario conclusosi a giugno 2021.

Leggendo queste poche righe, con l’occhio di chi conosce il corretto e reale funzionamento della moneta e dei sistemi monetari moderni, verrebbe immediatamente da strappare il documento e denunciare il tutto alla corte dei diritti dell’uomo, per le immani falsità (provate a livello contabile e dalla dottrina), che si cerca di far apparire come verità, per ingannare chi legge ed i popoli ignari, che per mezzo di queste falsità sono costretti a sofferenze ed una vita di stenti.

Le banche centrali, non dispongono di riserve, loro le riserve le creano all’occorrenza come gli pare e piace, con un semplice “click” sui propri computers e lo possono fare all’infinito nello spazio e nel tempo.

 Lo possono fare in virtù di una disposizione di legge conferita loro da dei governi che dovrebbero essere espressione democratica del popolo.

Affermare che: “la portata e la velocità dei movimenti del mercato possono sopraffare le riserve” – è una pura e delinquenziale falsità dimostrata e dimostrabile.

 Per i motivi sopra esposti, per nessuna ragione e/o qualsiasi tipo di evento catastrofico al mondo, le banche centrali possono terminare le loro riserve.

Fortunatamente anche Fitch Ratings, nel proseguo della sua analisi, non se l’è sentita di continuare sulla strada della frode dottrinale appena evidenziata, ossia che le riserve delle banche centrali sarebbero limitate.

 Dando così un contributo essenziale alla Verità.

Infatti continuando nella lettura, si può apprezzare che la questione viene ricondotta esclusivamente all’interno di una precisa volontà politica:

 “Le banche centrali possono subire perdite nei loro bilanci e continuare ad operare con una posizione patrimoniale negativa.

Tuttavia, se i governi decidessero di rafforzare le posizioni patrimoniali delle banche centrali, ciò metterebbe a dura prova le finanze pubbliche”.

Del resto, che le banche centrali possano tranquillamente non curarsi delle loro passività ed operare in tutta tranquillità con una posizione patrimoniale passiva, lo hanno confermato a più riprese tutti i banchieri centrali del mondo occidentale, da Powell alla Lagarde.

Quindi che necessità c’è di esporre tale problema, se il problema di fatto non esiste?

La necessità è sempre la stessa, quella di far credere che la creazione della moneta da parte delle banche centrali abbia natura debitoria, con il fine ultimo di depredare i popoli dei loro risparmi, dei loro asset, delle loro sicurezze, della loro tranquillità ed infine della loro vita.

(Megas Alexandros alias di Fabio Bonciani).

(luogocomune.net/26-economia/6159-benche-centrali-%C3%A8-in-arrivo-la-frode-delle-frodi).

(megasalexandros.it/e-in-arrivo-la-frode-delle-frodi/).

 

 

Il potere e il denaro.

Il rapporto tra ricchezza ed élite.

Stefanoallevi.it – Stefano allevi – (10 agosto 2020) – ci dice:

 

Che “gli ultimi saranno i primi”, da citazione evangelica è divenuta locuzione proverbiale.

Non sappiamo però quanto esprima una effettiva certezza, seppure escatologica, di chi la ripete, e quanto invece una speranza sempre più fievole e sempre meno convinta.

Riguarda il dopo, in ogni caso, il non ancora.

Mentre nell’oggi, nell’ora, nella logica del mondo non è così.

 E dunque, poiché nonostante tutto viviamo nel mondo, anche se ci è stato insegnato a non essere del mondo, è difficile crederci.

Chi sta bene, i bene-stanti appunto, chi sta sopra gli altri (ci inventiamo un provvisorio ‘soprastanti’) si gode i suoi privilegi apparentemente senza troppi scrupoli di coscienza.

 E i sottostanti, quando guardano ‘lassù’, vedono una facciata lucente seppure spesso vacua, fatta di esaudimento di tutti i desideri, e di uso e sperpero del denaro come mezzo per farlo.

 Tuttavia non è primariamente un richiamo morale quello che vorremmo fare.

Se anche questo non guasta, ci sembra più urgente una riflessione fredda, agnostica, se possibile oggettiva. L’associazione tra il potere del denaro, e ancora prima dell’oro o di ciò che nelle varie culture ha potuto farne le veci, e il potere tout court, appare intuitiva e originaria.

È sempre stato così.

Chi conta ha il potere di contare, di acquisire e di sprecare: il denaro così come gli uomini e le cose che con il denaro si può comprare.

Ci sono quelli che contano; e quelli che, al massimo, possono essere solo contati e contabilizzati: degli accidenti statistici, quando va bene.

Non è una novità che chi è ricco abbia potere, e inversamente chi ha potere, per esempio politico, diventi ricco.

 Già Balzac diceva sarcasticamente:

 “Un uomo politico è un uomo che è entrato negli affari, o sta per entrarvi, o ne è uscito e vuole rientrarvi”.

 Le carriere della casta odierna sono lì a dimostrarlo, con dovizia di esempi.

La riflessione sul denaro è centrale soprattutto, e non può sorprendere, in economia.

Dove però, abbandonati i classici, si è abbandonata anche una riflessione sui suoi fondamenti, e l’analisi è in definitiva strumentale, legata a grandezze di cui è arduo trovare la radice, l’origine:

 le risorse e i vincoli, il prezzo e il costo, il salario e il profitto, la produzione e il consumo, il valore e il plusvalore, e naturalmente su tutti il mercato – e in quello finanziario è ancora peggio: i titoli, l’interesse, il rendimento

Si tratta di un ‘mondo dato per scontato’, con una buona dose di artificialità e financo di fiction, le cui leggi sono date per certe ma la cui solidità è ancora meno scontata dei suoi fondamenti.

E la crisi odierna ne è la prova più evidente.

Potremmo sintetizzare la voluta mancanza di riflessione sul ruolo del denaro con un noto motto di spirito:

 il variamente declinato “pecunia non olet”.

Che, per la cronaca, anzi per la storia (ce la tramanda Svetonio), è la giustamente celebre risposta dell’imperatore Vespasiano al figlio Tito che gli rimproverava d’aver messo una tassa sui gabinetti.

Ma se “l’argent n’a pas d’odeur”, chiosava Jaques Brel, “pas d’odeur vous monte a nez”: salta al naso lo stesso, il suo odore – a volerlo sentire.

Per una filosofia del denaro.

Del denaro si può dire che il suo mistero principale è la sua stessa esistenza;

questo ruolo vagamente misterioso del denaro simbolizza e ‘trasporta’, per così dire, la società stessa:

“una terza istanza s’inserisce tra le due parti con la sostituzione delle transazioni in moneta al baratto:

si tratta della società nel suo complesso che attribuisce al denaro un valore reale corrispondente”, come scrive Georg Simmel nella sua monumentale Filosofia del denaro, pubblicata nel 1900.

Si tratta di un valore e di un ruolo che è anche marcatamente religioso:

 “Presso i Greci questo rapporto era originariamente sostenuto non dall’unità statale, ma dall’unità religiosa.

 La moneta ellenica era in origine di natura sacrale, emanazione anch’essa del ceto sacerdotale come tutti gli altri strumenti di misura universalmente validi di peso, di lunghezza e di tempo”.

 Quest’aura sacrale, del resto, è sostanzialmente rimasta al denaro anche oggi e, seppure per altri motivi, si spiega facilmente:

 il denaro è un niente in quanto a valore intrinseco (la carta su cui è stampato) che può tutto o comunque molto, e questo a prescindere da chi ce l’ha in mano – è un potere suo proprio, verrebbe da dire interiore, e verrebbe da dire anche originario se non fosse che si fonda su una convenzione che è anteriore alla sua stessa esistenza.

Simmel nota che, col passare del tempo, il denaro è sempre più slegato da un qualsiasi rapporto con un valore concreto, quale poteva essere l’oro.

Il suo significato si è fatto immateriale: “Si potrebbe definire questo processo nei termini di una crescente spiritualizzazione del denaro; l’essenza dello spirito è infatti di dare alla molteplicità la forma dell’unità”.

Da mezzo il denaro diventa fine, e fine sintetico, ultimo;

 come sa e sperimenta chiunque lo possieda:

il senso di sicurezza astratto, di potere astratto, perfino di piacere astratto, sebbene declinabile nel concreto, che dà.

Non più la vertigine concreta, immortalata dalla piscina piena di banconote e monete in cui tuffarsi impersonata da Paperon de’ Paperoni, che appartiene ormai ad un’altra epoca e a un’altra fase del capitalismo.

 Oggi che il denaro è diventato virtuale, una grandezza letteralmente meta-fisica, si è fatto un passo ulteriore e qualitativamente decisivo, ma sempre nella medesima direzione già individuata da Simmel:

“La velocità di circolazione abitua a spendere ed incassare, rende ogni singola quantità di denaro psicologicamente sempre più indifferente e priva di valore, mentre il denaro di per sé acquista sempre più importanza, dato che le transazioni monetarie toccano il singolo con molta più intensità ed estensione che non in una forma di vita meno movimentata”.

Simmel scriveva queste cose riflettendo sull’espansione dell’economia monetaria; espansione che, all’epoca, era essenzialmente quantitativa, dovuta all’aumento esponenziale della massa monetaria circolante, ma che pure di per sé produceva una modificazione qualitativa.

Oggi queste parole assumono un valore fortemente potenziato alla luce del diffondersi del denaro elettronico, della moneta virtuale, dai bancomat alle carte di credito, ma passando anche per tutte quelle operazioni appena meno quotidiane come l’acquisto di azioni a termine, con denaro che non ho ma che prendo solo virtualmente in prestito:

operazioni che costituiscono l’abc dell’attività bancaria e borsistica, ma che complessivamente costituiscono un edificio di dimensioni mostruose e nello stesso tempo puramente artificiale.

L’invenzione di ingegnosi grovigli finanziari basati sul nulla che è all’origine della crisi attuale ha fatto il resto:

 titoli che garantiscono titoli che assicurano titoli che rimandano a titoli che sono una media di titoli che speculano su titoli del tutto privi di riferimento a grandezze reali, che hanno finito per essere chiamati, non a caso, ‘tossici’.

Avere come essere.

Del resto, tornando al piccolo, è sufficiente vedere le modificazioni psicologiche che induce il fatto che lo stesso stipendio ci venga consegnato personalmente, concretamente, in mano, oppure venga versato direttamente in banca, e venga da noi speso mediante carta di credito e bancomat.

 Dietro questo fatto banale si nasconde una mutazione antropologica, che cambia il nostro rapporto con le cose oltre che con il denaro, e persino la nostra percezione e la nostra idea delle stesse.

Una mutazione che, incidentalmente, produce una modificazione economica di non minore importanza:

 il fatto che la propensione al risparmio, nonostante l’aumentata ricchezza individuale e sociale complessiva, sia in costante diminuzione sia in Europa sia, in misura molto maggiore, negli Stati Uniti, ne è la prova.

Il denaro però, dice ancora Simmel, ha anche delle qualità di sublimazione, essendo divenuto “l’esempio più puro di strumento”.

E come lo spirito, come le qualità estetiche, persino come le virtù, si accorge davvero del loro valore qualitativo, non solo di quello quantitativo solo chi ne possiede in quantità significativa, in maniera eminente.

 È in questa condizione che meglio se ne sperimenta la qualità di strumento ‘potente’ e spesso invincibile.

“L’oro ha un potere proprio, incommensurabile”, ha scritto un testimone del secolo come Ernst Jünger; e, a causa di questo, sue proprie leggi.

L’antiquata e in definitiva falsa antinomia tra avere e essere, su cui hanno costruito le proprie fortune intellettuali in molti, ultimo Erich Fromm, e che Simmel non avrebbe mai accettato né condiviso, non ha più ragione …d’essere:

 perché l’essere dà un senso all’avere, e nello stesso tempo l’avere è una qualità e un’estensione dell’essere, e in certa misura persino una sua pre-condizione, da cui non ci si può nemmeno, per così dire, dimettere.

Diceva Cesbron a questo proposito: “Credo sinceramente che non si possa naturalizzarsi poveri quando si è ricchi di nascita.

 Non è tanto del denaro che parlo ma di tutto ciò che rompe l’uguaglianza profonda degli uomini: ricco di relazioni, di cultura, di sicurezza”.

 E ancora: è “più facile anche essere santi, e riconosciuti per tali, se ricchi. Si può lasciare il denaro: da ricco che era, ma il resto…”.

Anche rispetto al denaro, è più facile essere elegantemente indifferenti se non si è costretti a essere ‘differenti’.

E in certe situazioni avere è la pre-condizione dell’essere, o almeno dell’essere decentemente.

 Almeno qui sulla terra. Della Gerusalemme celeste, che rientra nell’orizzonte delle nostre speranze ma è fuori dalla nostra portata, anche cognitivamente, non sappiamo quale sia la banca centrale né quale sia la moneta corrente.

Ecco perché è ancora di importanza decisiva, nella prospettiva dell’emancipazione umana, sostenere i diritti all’acquisizione e anche al consumo delle classi che hanno meno potere di farlo, degli esclusi.

Senza fare dell’acquisizione e del consumo un nuovo feticismo, naturalmente. Questo lo fa già, e con successo, l’economia di mercato…

I lussi dei ricchi.

Appena un anno prima del libro di Simmel faceva la sua comparsa sull’altra sponda dell’Atlantico un caustico pamphlet:

 La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen.

In esso si sostiene che la classe agiata svolge un “ufficio quasi sacerdotale”:

“Tocca a questa classe stabilire in sintesi generale quale schema di vita la comunità deve accettare come conveniente e onorifico;

ed è suo ufficio mostrare col precetto e l’esempio questo schema di salvezza sociale nella sua forma più alta, ideale”.

Solo che la classe agiata della civiltà finanziaria (che per Veblen viene subito dopo la civiltà predatoria e ne è in certo modo una forma più raffinata) ha come legge fondamentale non quella della produzione, e nemmeno quella di svolgere un’attività comunque produttiva ma, contrariamente al mito corrente, quella dello sciupio vistoso, dell’improduttività esibita ed esibizionistica come stile di vita.

Veblen dimostra la sua tesi, che non ha perso di originalità e di forza dirompente, rileggendo in questa chiave ostentatoria spezzoni vari di storia sociale:

 la storia dei costumi femminili, dell’utilizzazione della servitù, come anche dei costumi ecclesiali, in quello che viene definito ‘consumo devoto’.

 “Fatta ogni riserva, appare pur sempre chiaro che direttamente o indirettamente i canoni della rispettabilità finanziaria influenzano materialmente le nozioni che noi abbiamo degli attributi divini, come pure le nostre nozioni di quelle che sono le circostanze e la maniera giuste e convenienti di comunicare col divino”:

 basti pensare alle innumerevoli immagini sacre dell’arte gotica e rinascimentale, con le loro ricche vesti e l’ambientazione nobiliare.

Veblen va anche oltre, introducendo un ironico ma sottile parallelo tra il significato dei costumi femminili e di quelli clericali.

 “L’abbigliamento delle donne va anche più lontano di quello degli uomini nel dimostrare l’astensione da ogni occupazione produttiva” (cappellini, busto, tacco alto, ecc.).

Ma questa caratteristica l’hanno in maniera evidente anche le livree e, incidentalmente, i lunghi e scomodi abiti sacerdotali, palesemente e volutamente inadatti al lavoro profano.

Questo ragionare solleva un interrogativo interessante, perché la Chiesa ha sempre vissuto in materia una certa ambivalenza.

Da un lato il gusto della pompa, del fasto sacerdotale, ereditato da altre tradizioni religiose ma portato a vertici di perfezione, anche artistica, e perché no spirituale, inarrivabili (si pensi all’architettura, all’arte, alla musica sacra);

dall’altro una ricerca di autenticità e di sobrietà, di semplicità e di povertà (si pensi al ruolo degli ordini mendicanti), forse più consone alla figura del fondatore, in ogni caso al suo esempio direttamente ispirate, che percorre come un fiume carsico tutta la storia della Chiesa, alternando momenti di dimenticanza completa ad altri di consapevolezza profetica forte.

 E questa ambivalenza sussiste ancora, per lo più inconsapevole, in ogni caso non risolta:

nelle polemiche sulle pantofole e sugli ermellini papali, nelle frequentazioni salottiere di certi alti prelati, e magari in una difesa un po’ gretta e acritica dell’otto per mille, da un lato, e nel dovere-bisogno di costituire fondi per sostenere le famiglie più colpite dalla crisi, e nella vicinanza ai più deboli e nella condivisione del loro destino, nell’opzione preferenziale per i poveri, di molti altri testimoni della fede, dall’altro.

C’è un legame tra lusso e capitalismo?

Pochi anni dopo, nel 1913, con maggiore perspicuità storica e non minore verve, Werner Sombart affronta il medesimo nucleo tematico da una diversa angolazione.

 In un suo testo minore e dimenticato, in chiave anti-weberiana (in sostanziale implicita polemica con l’immagine di sobrietà e per certi tratti di ascesi che il capitalismo assume nella più parafrasata delle opere sociologiche, “L’etica protestante” e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata per la prima volta nel 1905) Sombart dimostra, o per lo meno mostra, quanto “Lusso e capitalismo” – questo il titolo del libro – siano inestricabilmente legati, e negli aspetti più ‘deleteri’ in maniera più visibile e chiara.

Sombart parte da considerazioni storiche sulla vita di corte e in particolare sulle sue regine, le cortigiane appunto, “dames de moyenne vertu”, cocottes, le varie Pompadour, che hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo di consumi e costumi di ostentazione e di spreco.

Una delle conseguenze dell’ascesa sociale e persino politica di queste dame, alla corte francese e altrove, e delle mode sociali conseguenti, sarebbe stata, per imitazione, e attraverso i consumi, una paradossale ascesa del ruolo delle donne in genere, ma più in generale una ricerca del lusso sempre più spasmodica che avrebbe portato a casi non rari di nobili e ricchi che, nel XVII secolo, spendevano un terzo e financo metà delle loro rendite in vestiti e carrozze: “nei secoli successivi al Medioevo, ha dominato un lusso grandioso che crebbe a dismisura verso la fine del XVIII secolo”.

 

Per Sombart il lusso diventa così un moltiplicatore del consumo e degli investimenti.

 Al di là di una diffusa retorica, egli individua un fondamentale e fondativo carattere irrazionale del capitalismo, e una sua sudditanza a logiche che con il calcolo razionale di costi e benefici hanno poco a che fare.

 Ma più ancora che un moltiplicatore, il lusso è all’origine, è la genesi stessa del capitalismo:

Sombart sottolinea “l’influenza che la formazione di un forte consumo di lusso esercita sull’organizzazione della produzione industriale”, e arriva a dire che con esso “in numerosi casi (non in tutti!), [si] apre la porta al capitalismo”.

 L’economia del lusso di oggi, il suo ruolo culturale e il suo peso economico, sembrerebbero esserne la continuazione.

Conclusioni.

La riflessione fin qui evocata ci dice qualcosa sul rapporto tra denaro e potere, e sul ruolo di coloro che li posseggono, di cui solitamente si parla assai poco.

Per lo più nel dibattito sociale ci si limita da un lato alla rivendicazione di un diritto o di un merito sostanzialmente inesistente, avanzata dalla élite le rare volte in cui i loro privilegi e i loro costumi sono messi in questione;

e dall’altro alla critica, motivata politicamente o religiosamente, dei privilegi stessi.

Una critica volta, se in chiave politica, a rivendicare in qualche misura il godimento dei medesimi diritti e magari privilegi a più grandi masse di individui (la rivendicazione di giustizia ed equità redistributiva è in fondo questo);

 e, se motivata religiosamente, a leggere tale realtà in chiave spirituale, traendone motivo di consolazione per gli uni, che non hanno, e di insegnamento morale e occasionalmente di minaccia di un castigo per gli altri, che hanno troppo. Entrambe comunque, in molti casi, spinte a cercare sul piano della realtà storica di lenire in qualche misura i mali del mondo e le sue ingiustizie.

Il problema non è di per sé il denaro.

“Ciò che va messo in discussione è il dominio del denaro al di fuori della sua sfera”, come ha scritto Walzer.

Solo che, alla luce di Simmel, oggi non c’è più una sua sfera, perché la sua sfera, grazie anche al processo di ‘spiritualizzazione’ di cui si è parlato, è tutte le sfere.

Il che pone dei problemi di ‘tracimazione’, di pervasività eccessiva, invadente.

Ora, “tutto ciò che ha un prezzo, ha poco valore”, come ha scritto Nietzsche nello Zarathustra.

L’effetto di questa confusione delle sfere è che quasi non ci accorgiamo di vivere in una società che tende a dare un prezzo a tutto: anche ai valori.

Persino a ciò che rientra nella sfera dell’intimità: le relazioni personali e sociali, il lavoro domestico e di cura, il volontariato, la bontà premiata con una mancia, ma anche, in campo sociale, le giustificazioni puramente economiche, diciamo così funzionaliste, dell’accoglienza agli immigrati, e persino dell’etica negli affari, della lotta alla corruzione o dell’onestà nella pubblica amministrazione – perseguite non come beni in sé, ma perché danneggerebbero il mercato e i princìpi di libera concorrenza…

 

È vero, c’è qualcosa di antico in questo, e di sapiente.

Prendiamo il caso del ‘prezzo del sangue’ nelle società primitive, una riparazione economica che riusciva a metter fine alla catena insanguinata delle vendette;

ma pensiamo anche all’ammenda per una trasgressione o un reato commessi.

È leggibile qui la funzione educativa, e anche la finalizzazione sociale, in termini di salvaguardia di un ordine prezioso e altrimenti minacciato.

 Il problema è di cogliere il limite della possibilità di monetizzazione.

L’amore mercenario, per dirne uno, non è un’invenzione odierna, trattandosi come noto del mestiere più antico del mondo;

ma c’è un limite oltre il quale l’incremento quantitativo della tendenza alla mercerizzazione (dell’amore – praticato o solo visto al cinema o in televisione, o trasformato in pubblicità, o magari telefonico – come di qualsiasi altra cosa) si trasforma in soglia qualitativa.

C’è dunque forse un cambiamento quanti-qualitativo in atto.

Che comporta il rischio di dover ammettere che, sul denaro, lo spirito (in senso forte) del capitalismo potrebbe vincere su tutta la linea:

 al punto che l’idolatria del capitale investe anche chi il capitale non ce l’ha.

Lo dimostra forse il fenomeno Berlusconi in quanto mito popolare, ma più in generale il successo della retorica dell’“uno su mille ce la fa” e la speranza nelle lotterie.

Il rischio, che è sociale oltre che morale, è che si perda in parte la sensibilità:

che, come per le droghe, si abbia un effetto di progressiva desensibilizzazione, e dunque di assuefazione.

“Non ce l’ho coi miei simili per i loro privilegi, ma per il fatto che li trovano naturali”, ha scritto Gilbert Cesbron.

E questa tendenza, come quella correlata a considerare normale la trasmissione ereditaria non solo delle ricchezze ma anche dei ruoli di potere in tutti gli ambiti (economia, politica, giornalismo, cinema…), ce ne pare una prova.

Così come l’aumento spropositato dei tassi di disuguaglianza sociale che ha coinvolto e travolto le società non solo occidentali negli ultimi due decenni (e l’Italia, tra i paesi dell’Ocse, è tra quelli che ha visto aumentare in percentuali maggiori le disuguaglianze interne), e ancor più il fatto che ciò sia accettato persino dalle vittime del meccanismo.

Una delle conseguenze possibili di questi processi è che si perda il senso della differenza tra il possedere del denaro e l’esserne posseduti;

 che non ci si accorga che in mancanza di distanza critica il denaro può comprare chi lo maneggia più di quanto questi compri col denaro qualcosa.

 Sono i casi in cui il denaro da mezzo diviene fine.

 E sono anche ciò che spiega perché, di norma, le religioni insegnino il distacco dal denaro, pur arrivando raramente a condannarlo in sé;

 e propongano modelli di ascesi individuale che prevedono una progressiva spogliazione dalle sue logiche (“usatene come se non ne usaste”), se non dalla sua proprietà.

Una prima diagnosi l’aveva già proposta uno dei pochi grandi economisti che non ha mai dimenticato la riflessione a partire da presupposti altri da quelli della propria disciplina, John M. Keynes – ridiventato di moda dopo decenni di oblio e irrisione da parte degli stessi che oggi chiedono aiuti per le banche e le industrie dicendo di ispirarsi, a torto o a ragione, alle sue idee – che nelle sue Prospettive economiche per i nostri nipoti scriveva:

“L’amore per il denaro come possesso – da distinguere dall’amore per il denaro come mezzo per ottenere le gioie e sperimentare la realtà della vita – sarà riconosciuto per ciò che è:

un fatto morboso leggermente ripugnante, una di quelle propensioni per metà criminali, per metà patologiche di cui si affida la cura agli specialisti di malattie mentali”.

Ma una diagnosi non è ancora una terapia;

che, in quanto tale, e tanto più nella sua forma sociale, è ancora tutta da inventare.

(Stefano Allievi)

 

 

 

Karl Marx e il potere

del denaro.

 Lifegate.it – Redazione – (7 gennaio 2019) – ci dice:

 Viviamo in un’epoca in cui, forse più di ogni altra, il denaro è diventato l’unico generatore di senso.

Nel 1844 Karl Marx aveva già chiarito tutto questo.

Viviamo in un’epoca in cui, forse più di ogni altra, il denaro è diventato l’unico generatore di senso.

 Infatti, l’avere, inteso come unica grammatica esistenziale, finisce per portare allo smarrimento non solo della valenza etica del bello, ridotto a possesso, lusso, utilità, ma a obliterare anche quel mistero di cui ognuno di noi è portatore, poiché si pensa che, in un mondo fatto solo di cose, tutto sia descrivibile sul piano quantitativo, privo di vitalità, eticamente neutro e riconducibile solo alla quantità di denaro con cui lo si può comprare.

 In definitiva, con il denaro si arriva a misurare non solo la quantità, ma anche la qualità del mio vivere e del mio essere di fronte agli altri.

Il passo di Karl Marx qui riprodotto, tratto dai “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, nella traduzione di Norberto Bobbio, chiarisce efficacemente quanto abbiamo detto:

Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo.

Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere.

Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore.

Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità.

Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne.

 E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è nata dal denaro.

Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe;

 quindi non sono storpio.

 Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore.

Il denaro è il bene supremo, e quindi il possederne è bene;

il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto;

e quindi si presume che io sia onesto.

Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose;

 e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede?

Inoltre costui potrà sempre comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti?

 Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà?

 Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario?

 

 

“Denaro, piacere e potere

 sono motivo di infelicità”.

Lastampa.it - GIACOMO GALEAZZI – (26 Febbraio 2020) – ci dice:

 

All'Angelus Francesco ricorda: «O il Signore o gli idoli affascinanti ma illusori».

E sottolinea che «in quest’epoca di orfanezza» è importante sentire che Dio è «un Padre che mai delude»

«Le tentazioni di ridurre tutto a denaro, piacere e potere sono incalzanti.

Rischiamo di ridurre la nostra vita a una ricerca affannosa», e mentre «tanti amici o tanti che noi credevamo amici ci hanno deluso, Dio non delude mai».

 Così Francesco all’Angelus di oggi, durante il quale chiede «sostegno medico e legislativo» per le persone colpite da malattie rare.

«Non si può servire Dio e la ricchezza.

 In quest’epoca di orfanezza è tanto importante sentire che Dio è Padre!», esclama il Papa.

Bisogna «scegliere ogni giorno tra Dio e gli idoli del denaro, del potere e del piacere. O il Signore o gli idoli affascinanti ma illusori»,

perché «Dio è la roccia della salvezza e chi si aggrappa a Lui non cade mai».

 «È una scelta da fare in modo netto e da rinnovare continuamente, perché «ci sono tante tentazioni», dice il Pontefice, essa «si ripercuote poi in tutti i nostri atti, programmi e impegni».

 

Francesco sottolinea come onorare questi idoli porti a «risultati tangibili anche se fugaci», invece «scegliere Dio e il suo Regno non sempre mostra immediatamente i suoi frutti».

Quindi, spiega ai 30mila fedeli riuniti in piazza San Pietro, si tratta di «una decisione che si prende nella speranza e che lascia a Dio la piena realizzazione».

La speranza cristiana, infatti, è «tesa al compimento futuro della promessa di Dio e non si arresta di fronte ad alcuna difficoltà perché è fondata sulla fedeltà di Dio, che mai viene meno».

L’intensa riflessione di Jorge Mario Bergoglio prende spunto dall’odierna pagina evangelica, da lui definita «un forte richiamo a fidarsi di Dio, che si prende cura degli esseri viventi nel creato, provvede il cibo a tutti gli animali, si preoccupa dei gigli e dell’erba del campo».

Tuttavia, evidenzia il Pontefice, l’esistenza di ciascuno di noi «scorre sotto l’assillo di tante preoccupazioni che rischiano di togliere serenità ed equilibrio».

«Quest’angoscia è spesso inutile perché non riesce a cambiare il corso degli eventi», osserva Francesco;

è per questo che «Gesù ci esorta con insistenza a non preoccuparci del domani, ricordando che al di sopra di tutto c’è un Padre amoroso che non si dimentica mai dei suoi figli».

Inoltre «Dio non è un essere lontano e anonimo:

è il nostro rifugio, la sorgente della nostra serenità e della nostra pace, è la roccia della nostra salvezza, a cui possiamo aggrapparci nella certezza di non cadere;

è la nostra difesa dal male sempre in agguato».

Secondo Bergoglio, «Dio è per noi il grande amico, l’alleato, il padre, ma non sempre ce ne rendiamo conto».

 E così «preferiamo appoggiarci a beni immediati e contingenti;

 dimenticando, e a volte rifiutando, il bene supremo, cioè l’amore paterno di Dio».

«Noi ci allontaniamo dall’amore di Dio quando andiamo alla ricerca ossessiva dei beni terreni e delle ricchezze, manifestando così un amore esagerato a queste realtà», mentre «Gesù ci dice che questa ricerca affannosa è illusoria e motivo di infelicità».

Cristo, ricorda il Papa, «dona ai suoi discepoli una regola di vita fondamentale: cercate anzitutto, il regno di Dio».

 Si tratta di «realizzare il progetto che Gesù ha annunciato nel Discorso della montagna, fidandosi di Dio che non delude, darsi da fare come amministratori fedeli dei beni che Lui ci ha donato, anche quelli terreni», ma «senza strafare come se tutto, anche la nostra salvezza, dipendesse solo da noi».

Tale atteggiamento evangelico «richiede una scelta chiara, che il brano odierno indica con precisione: non potete servire Dio e la ricchezza”.

Il bivio è nettamente indicato dalle Sacre Scritture: «O il Signore o gli idoli affascinanti ma illusori», afferma il Papa.

 Che conclude invocando la Vergine Maria perché «ci aiuti ad affidarci all’amore e alla bontà del Padre celeste a vivere in Lui e con Lui».

Questo, dice, è «il presupposto per superare i tormenti e le avversità della vita e anche le persecuzioni, come ci dimostra la testimonianza di tanti nostri fratelli e sorelle».

Dopo la preghiera mariana, il Pontefice rivolge un cordiale saluto a tutti i pellegrini di Roma, dell’Italia e di diversi Paesi.

Un pensiero particolare lo indirizza al gruppo giunto a San Pietro in occasione della Giornata delle malattie rare che ricorre dopodomani:

 «Grazie, grazie a voi per tutto quello che fate», dice.

 E auspica che «i pazienti e le loro famiglie siano adeguatamente sostenuti nel non facile percorso, sia a livello medico sia legislativo».

 A tutti, infine, augura «una buona domenica e buon pranzo».

 

 

ll potere del denaro.

Oligarchie nell’età globale.

 Journalism.openedition.org - Roberto Schiattarella – (10-11-2020) – ci dice:

(The Power of Money. Oligarchy in the Global Age)

 

1. Economia e potere.

Il modo in cui il potere è distribuito nella società condiziona il funzionamento di un sistema economico?

La teoria economica oggi prevalente non ci aiuta a dare una risposta a questa domanda.

Guardando invece più indietro nel tempo, ci sono stati periodi, anche lunghi, nei quali la questione ha assunto un ruolo centrale nelle analisi degli economisti e periodi altrettanto lunghi in cui è tornata a scomparire, o almeno a diventare un elemento secondario del dibattito.

 Questo è appunto quanto è successo negli ultimi trenta anni nei quali lo spazio lasciato dagli studiosi di economia al potere come chiave di interpretazione del funzionamento dei sistemi economici è stato estremamente marginale.

Marginale sia nelle analisi che hanno guardato al modo di funzionare delle economie nazionali, sia in quelle sviluppate sul sistema economico internazionale.

La convinzione che sembra oggi prevalere è dunque quella secondo la quale i rapporti economici sono regolati da logiche sostanzialmente di natura tecnica.

La significativa concentrazione dei redditi e della ricchezza in atto in tutti i paesi occidentali negli ultimi decenni non sembra aver messo in discussione questa convinzione.

La scelta di affrontare la questione del potere come un elemento che ha a che fare con la dimensione economica, e dunque che non può essere trascurato, pone l’analisi fuori dai sentieri più frequentati dalla riflessione economica contemporanea.

Costringe a ragionare con meno punti di riferimento consolidati ma, a giudizio di chi scrive, mette anche in condizione di comprendere meglio quello che sta succedendo e di rendere meno ardua l’individuazione delle possibili vie di uscita al continuo allargamento delle disuguaglianze e all’approfondirsi della ingiustizia sociale.

Un risultato che è possibile raggiungere soprattutto se si guarda alle esperienze di un passato non troppo lontano.

 La storia e, come abbiamo appena detto, la storia delle idee del novecento mettono a disposizione di chi voglia approfondire la questione molti materiali che possono essere di grande utilità per la comprensione del presente.

Ci riferiamo in particolare al patrimonio di conoscenze che si è accumulato con l’esperienza iniziata negli anni trenta negli Stati Uniti che va sotto il nome di “New Deal”.

La rilettura di quanto è successo ed è stato fatto in quegli anni può aiutarci a comprendere perché Roosevelt abbia attribuito una importanza cruciale alla questione del potere nella sua lettura della crisi che era succeduta al crollo di Wall Street nel 1929.

 Può collocare la sua analisi all’interno della situazione economica del tempo; può farne capire il retroterra culturale, ma anche politico.

Potremo in sostanza chiarirci l’intero disegno della sua politica di intervento.

 Un progetto che si poneva l’obiettivo di dare una risposta non temporanea ai problemi di squilibrio tra i poteri presenti nella società statunitense.

Potremo approfondire come la logica del New Deal si sia andata consolidando nel tempo e abbia dato vita ad un’esperienza più complessa:

sia stata all’origine di quello che sarà chiamato il riformismo.

Un’esperienza politica e culturale che ha trasformato profondamente il sistema istituzionale del mondo occidentale ed ha avuto un ruolo cruciale nella creazione del sistema di Bretton Woods, con le sue regole ed i suoi obiettivi.

Potremo capire meglio:

a) cosa è accaduto quando quel mondo si è andato sfaldando negli anni della crisi petrolifera;

 b) il significato delle regole intorno alle quali si è andato strutturando il sistema internazionale all’inizio degli anni ottanta;

 c) quali sono stati i probabili obiettivi che si sono posti Reagan e Thatcher nel momento in cui hanno disegnato le nuove regole, quale è stato il nuovo ordine sociale e internazionale che hanno immaginato, quali obiettivi in termini di distribuzione del potere tra i paesi, e all’interno di ciascuno, si sono voluti raggiungere.

Potremo infine individuare i processi inter-istituzionali che si sono determinati per effetto delle nuove regole, come sono cambiati gli equilibri di potere che si erano determinati fino ad allora tra paesi ed all’interno dei paesi e come questi nuovi equilibri hanno inciso sul funzionamento dei sistemi economici del mondo occidentale e sulle strutture delle loro democrazie.

 

1 -La struttura che abbiamo dato all’esposizione ha seguito la logica della teoria dei sistemi ­ (...)

Ripercorrendo con la nostra esposizione la logica della teoria dei sistemi complessi, potremo riflettere, per concludere, sul ruolo della cultura, del cosiddetto neoliberismo nel determinare i cambiamenti e la stabilizzazione dei nuovi equilibri.

Sul modo in cui si è venuta a costruire una egemonia culturale che ha fatto apparire indiscutibile, ha fatto diventare senso comune, la coincidenza tra gli interessi dei soggetti socialmente forti e l’interesse generale.

Come, in altre parole, la cultura stessa abbia assunto un ruolo essenziale di strumento di potere.

2.Roosevelt e il New Deal.

(Si veda su questo tema la nuova traduzione del libro di Roosevelt riportata in” Roosevelt, 2018”.)

Con l’inizio della presidenza Roosevelt, nei primi anni trenta, si è aperta una stagione che ha inciso profondamente sul funzionamento dell’economia americana e, col tempo, sul modo di essere dell’intero sistema economico internazionale.

Un arco di quattro decenni in cui sono andati modificandosi gli equilibri sociali in tutti i paesi occidentali; in cui la politica non solo ha preceduto la cultura economica, ma è stata capace di elaborare un radicale cambiamento del suo ruolo e dei suoi obiettivi rispetto alla prima parte del secolo.

 Il futuro presidente degli Stati Uniti, già durante la sua campagna elettorale, e spesso davanti a un pubblico di imprenditori, ha reso esplicita la sua diagnosi sulle cause della crisi apertasi nel 1929.

Secondo Roosevelt, le difficoltà che il sistema economico e sociale americano stava incontrando nei primi anni trenta erano legate alla presenza sempre più estesa di grandi concentrazioni di potere economico;

concentrazioni che si erano potute tollerare nel momento in cui il paese andava formandosi come potenza industriale, ma che erano, a suo giudizio, incompatibili con i valori del sogno americano e il modo in cui questo sogno si era trasformato in una organizzazione sociale.

In contraddizione quindi, in primo luogo, con i valori a cui si era ispirata la costituzione degli Stati Uniti.

 Roosevelt ha dedicato tutta la prima parte del libro che scrisse già nel 1933 a riflettere su questi valori.

Ma in contraddizione anche con le necessità dello sviluppo economico del paese:

il concentrarsi del potere in poche mani costituiva infatti, secondo Roosevelt, un elemento di distorsione tale da impedire il buon funzionamento di un sistema centrato sul mercato e sulla concorrenza.

3 (Su questo punto si veda anche Villari, 2014).

Il compito che derivava alla politica d’intervento da questa analisi era semplice.

 Se si voleva dare continuità all’idea di convivenza civile dei padri fondatori e rimettere in moto il paese dal punto di vista economico occorreva procedere a uno smantellamento delle concentrazioni di potere e ad una redistribuzione dello stesso nella società.

Un’analisi che, a ben vedere, indicava contemporaneamente anche il principale strumento del New Deal: lo stato e le istituzioni pubbliche.

I soggetti cioè che, secondo Roosevelt, erano dotati del potere necessario per realizzare il suo progetto di redistribuzione del potere all’interno del sistema sociale.

Una centralità delle istituzioni pubbliche che si accompagnava, sul piano strettamente operativo, a un atteggiamento di grande pragmatismo.

 La combinazione di questi due elementi ha dato vita ad una politica istituzionale che ha assunto talvolta caratteri esplicitamente sperimentali ma che ha trovato la sua unitarietà nell’obiettivo di proteggere le componenti più deboli della società.

Un obiettivo perseguito sia direttamente attraverso la costruzione di primi elementi di welfare, sia indirettamente attribuendo alle istituzioni pubbliche un ruolo di mediazione sociale, sia infine supportando l’attività del sindacato.

Una mediazione che di per sé rafforzava le posizioni delle fasce più deboli della società sul piano contrattuale.

(4 Roosevelt, 2018.)

Una politica che si è dovuta misurare con le resistenze che venivano dai gruppi sociali forti, ma che col tempo ha potuto raggiungere i suoi obiettivi, sia pure con qualche discontinuità, soprattutto grazie all’eccezionale consenso che quella politica economica è riuscita ad aggregare nella realtà americana.

Un consenso che si è manifestato in maniera evidente nei tre rinnovi successivi del mandato presidenziale.

 

3. Il retroterra culturale.

(5 Villari, 2014.)

La politica economica di Roosevelt non nasceva dal nulla.

Si radicava in un retroterra culturale che la politica aveva fatto proprio e aveva elaborato sotto la spinta di una crisi finanziaria che stava mettendo a nudo tutti gli elementi di insensatezza di un modello di sviluppo centrato sulla finanza.

Una situazione per molti aspetti simile a quella attuale —e questo non può non farci pensare alle distanze che ci sono rispetto ai programmi politici attuali— ma diversa da due punti di vista molto importanti. In primo luogo perché il contesto politico internazionale era segnato dal consolidarsi dell’esperienza comunista in Unione Sovietica.

Nessuno in quegli anni negli Stati Uniti poteva non avvertire la sfida che veniva al modello economico e sociale americano dal nuovo ordine che si stava affermando in quel paese.

 Una sfida che, rileggendo gli scritti del tempo, era particolarmente sentita dagli intellettuali che circondavano il presidente e che avevano elaborato il suo programma politico.

(6 Su questo tema si veda Easley, 1973: 81ss., ma anche de Finetti, 1962 e de Finetti, 1989.)

E, in secondo luogo, perché la risposta a questa sfida nasceva in un contesto profondamente cambiato sul piano della cultura;

un cambiamento che si era avviato nei decenni precedenti e che coinvolgeva i fondamenti epistemologici del processo scientifico.

La visione deterministica del mondo all’interno della quale si erano andate consolidando le due grandi letture del funzionamento dei sistemi economici —quella marxista e quella del mercato— era stata messa in discussione dalla svolta di metodo che si era sviluppata all’interno della fisica.

 Il mondo si presentava nuovamente troppo complesso per poter essere ridotto a poche leggi che ne costituivano la struttura essenziale.

Nel nuovo ambiente scientifico la ricerca non doveva essere più indirizzata a scoprire le presunte leggi sottostanti al caos apparente.

Molto più semplicemente era un modo attraverso il quale lo studioso provava a costruire schemi (temporanei e parziali) capaci ad aiutarlo a comprendere la complessità della realtà che studiava.

 La distanza tra lo studioso che guardava la realtà e i «fatti» era di nuovo aumentata.

Un cambiamento di prospettiva scientifica che, se si guarda ai problemi nell’ottica della politica economica, creava una grande discontinuità rispetto al passato.

In primo luogo perché l’economia, nella nuova lettura, nel momento in cui poneva al centro la soggettività dello studioso, tornava ad essere scienza essenzialmente normativa.

Doveva essere infatti costruita intorno agli obiettivi —e, sullo sfondo, ai valori— che lo studioso stesso si voleva dare;

in sostanza, tornava ad essere scienza dei mezzi e dei fini e non solo dei mezzi.

In secondo luogo perché i vincoli economici non potevano che apparire meno stringenti.

La volontà di cambiamento non doveva scontrarsi o essere condizionata dall’esistenza di leggi economiche assimilabili a quelle naturali;

il modo di funzionare di un sistema economico era semplicemente espressione di scelte fatte in passato dagli uomini, che, come tali, potevano essere superate da altre scelte capaci di indirizzare la costruzione della convivenza civile ed economica nelle direzioni volute.

(7 Schiattarella, 2019.)

Il carattere pragmatico della politica economica di Roosevelt va letto, a giudizio di chi scrive, all’interno di quanto si è appena detto:

come espressione cioè di qualcosa di più di una componente tradizionale della cultura anglosassone.

 Come punto di arrivo invece di un nuovo atteggiamento culturale.

(8 Carabelli, Cedrini, 2018.)

(9 Schiattarella, 2019.)

Il New Deal, da questo punto di vista, è stato da un lato un segnale del consolidarsi di un diverso clima culturale e, dall’altro, ha funzionato, soprattutto in campo economico, come una sorta di acceleratore del processo di metabolizzazione della svolta in atto.

Se solo attraverso Keynes la collettività scientifica ha preso pienamente coscienza del mutamento del punto di vista implicito nel nuovo paradigma metodologico, è verso la fine degli anni trenta, quando cioè si è manifestato il bisogno di costruire una nuova classe dirigente capace di interpretare e sviluppare le politiche istituzionali e di intervento del New Deal, che il pensiero keynesiano ha cominciato ad essere studiato in maniera sistematica in alcune grandi università americane. Solo in quegli anni queste stesse università sono diventate i luoghi di aggregazione di una cultura che, con il tempo, ha teso ad assumere una forma sempre più compiuta.

Una cultura che, proprio perché centrata su obiettivi e valori, poteva rendere nuovamente esplicita la questione del potere in una società di mercato.

 E lo poteva fare non solo perché considerava la sua redistribuzione nella società l’asse centrale del progetto di politica di intervento, ma anche perché proponeva qualcosa di socialmente accettabile e politicamente spendibile, come è appunto un programma di redistribuzione del potere dalle aree forti a quelle deboli della società.

Una cultura che, col tempo, si è andata consolidando fino a prendere la forma di una nuova lettura dei processi economici, e poi, nel decennio successivo alla guerra, a trasformarsi in una vera e propria visione del mondo.

 Una visione che ha preso il nome di riformismo economico, non solo per distinguersi da un lato dal sostanziale conservatorismo della tradizione del liberismo e, dall’altro, dagli elementi di radicalismo impliciti nell’approccio marxista ed esaltati dall’esperienza sovietica;

ma anche perché con il termine riformismo si voleva sottolineare la convinzione che era sempre possibile trovare un modo per far convivere democrazia e mercato.

O, per essere più precisi, che era sempre possibile plasmare il modo di essere di un sistema economico per renderlo compatibile, per metterlo al servizio delle esigenze della democrazia.

4. Il riformismo.

Il riformismo nasce da due convinzioni:

la prima è che la società che tende a definirsi conformemente alle logiche del mercato non è né l’unica né la migliore possibile;

 la seconda è quella di cui abbiamo appena parlato, in base alla quale il modo di funzionare dei mercati non crea ostacoli insormontabili alla costruzione di una società democratica.

 E dunque, non solo si può sempre intervenire sul sistema economico, ma si deve intervenire.

 L’obiettivo che si pone il riformismo è appunto quello di riuscire a costruire un compromesso accettabile, e stabile nel tempo, tra le regole dell’economia, o per essere più espliciti, tra le spinte che vengono dal modo di funzionare dei mercati e quelle collegate al buon funzionamento di una democrazia.

Il riformismo va visto dunque essenzialmente come un orizzonte culturale e politico.

Come un modo di affrontare i problemi dell’economia che non può essere in nessun caso ridotto all’insieme delle tecniche attraverso le quali questo progetto si è espresso storicamente.

Come abbiamo visto, nel riformismo c’è una componente strutturalmente pragmatica, che non può portare in nessun caso a ricette preconfezionate;

nella sua logica, al contrario, si può cogliere un invito alla ricerca di sempre nuove soluzioni tecniche per la politica d’intervento.

È il bisogno di trovare questo compromesso che rende fondamentale l’esplicitazione della questione del potere.

Il problema con cui il progetto riformista si deve misurare è infatti il seguente: come è possibile evitare che la tendenza alla concentrazione del potere che accompagna lo sviluppo di una economia di mercato metta in crisi il buon funzionamento di una democrazia, delle sue istituzioni e, a lungo andare, anche dello stesso operare del mercato?

(10 Il potere di definire le regole sul piano internazionale dipende strettamente dal ruolo politico e ...)

La politica economica elaborata dal riformismo nel dopoguerra si è posta ovviamente nella scia di quelle sviluppate da Roosevelt non tanto nel tipo di interventi attuati —che pure, col tempo, hanno assunto una loro identità consolidata— quanto nel suo carattere sperimentale.

Questo non significa che non possano essere individuati dei tratti che identificano il riformismo.

 Il primo elemento caratterizzante è, a giudizio di chi scrive, il ruolo attribuito ai valori come elementi di riferimento delle scelte economiche.

 Sono i valori della democrazia quelli che devono guidare queste scelte.

 Il secondo è l’importanza che viene data alla questione del potere.

Due elementi che hanno portato il riformismo a identificare lo stato come il soggetto cruciale del suo progetto di convivenza civile, di civiltà possibile.

Lo stato infatti, in quella visione, è l’unica istituzione che ha le due caratteristiche necessarie per affrontare i problemi con i quali si deve misurare il riformismo: può rappresentare un’idea di interesse generale diversa e più complessa di quella proposta più o meno implicitamente dal mercato;

e ha gli strumenti per intervenire con successo sulla distribuzione del potere all’interno della società, perché, come abbiamo già sottolineato, è esso stesso dotato di potere.

È attraverso la creazione di istituzioni pubbliche con compiti di mediazione tra interessi diversi e riequilibrio dei rapporti di forza che si possono riaffermare i valori che una società vuol prendere a riferimento, e si può, contemporaneamente, mantenere nella società una distribuzione diffusa del potere.

È attraverso le istituzioni pubbliche che si possono sostenere le componenti deboli di una società, si può impedire che gli interessi delle aree sociali forti alterino gli equilibri a loro favore, si può evitare infine che il crearsi di posizioni di potere dia vita a processi cumulativi pericolosi dal punto di vista del funzionamento della democrazia, ma anche della stessa crescita di lungo periodo.

5.Il riformismo e l’organizzazione del sistema economico internazionale.

La questione del potere assume un ruolo ancora più centrale nel momento in cui ci si occupa del modo di funzionare del sistema economico internazionale.

 Le regole intorno alle quali si organizzano questi sistemi finiscono con l’essere considerate come un dato sostanzialmente indiscutibile, soprattutto quando la memoria delle loro origini diminuisce.

 Col tempo, le regole appaiono ai più un’espressione di decisioni sostanzialmente tecniche;

si tende a dimenticare il fatto che le regole cambiano nel tempo, e i sistemi di regole sono molto diversi tra loro; e che ci sono periodi di mancanza di regole, o almeno in cui le regole condivise sono relativamente poche.

Il modo in cui si è sviluppato il dibattito in Italia in questi ultimi anni —e ancor di più negli ultimi mesi— sui rapporti con l’Europa è significativo di questa mancanza di consapevolezza.

(11 Sulla questione delle regole si è soffermato Schumpeter nella sua opera più famosa, Storia dell’an ...)

Sono proprio gli accordi di Bretton Woods, quelli pensati dalla cultura del riformismo, che possono farci comprendere come le regole, in particolare quelle internazionali, debbano essere viste piuttosto come la materializzazione di progetti politici costruiti in funzione di interessi e di equilibri di potere interni ed internazionali.

Regole delle quali la politica economica deve tener conto, almeno nel breve periodo, perché definiscono l’area all’interno della quale la politica d’intervento di un paese può muoversi;

senza mai dimenticare tuttavia che esse sono espressione di decisioni politiche prese in passato in funzione di situazioni diverse e con obiettivi specifici e che, proprio per questo motivo, possono essere modificate o quanto meno ridiscusse.

 

Il fatto che questi accordi siano stati pensati nel 1944, quando cioè l’esito della guerra era ormai evidente, ci dice in primo luogo che sono i paesi più forti che disegnano, attraverso le regole, il quadro di riferimento.

Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna le avevano pensate in funzione di due esigenze: quella di mantenere al centro del sistema internazionale le loro economie, traendone evidentemente un qualche vantaggio.

 E quella di disegnare un mondo politicamente inclusivo, capace di aggregare un blocco di paesi coeso che fosse in grado di rispondere alla sfida che veniva dal mondo comunista, non solo sul piano della crescita ma anche su quello della giustizia sociale all’interno dei paesi.

(12 Carabelli, Cedrini, 2011.)

(13 Carabelli, Cedrini, 2014.)

È avendo in mente questo obiettivo che occorre guardare a come il sistema di Bretton Woods ha affrontato e risolto il problema centrale di ogni sistema internazionale:

 quello dei margini di autonomia che devono essere lasciati a ciascun paese, senza che questa autonomia costituisca una minaccia per la stabilità del sistema nel suo insieme.

Nel 1944 Keynes ebbe facile gioco a imporre regole che lasciavano ai singoli paesi ampi spazi di scelta nelle politiche economiche.

Ampi spazi che, nella visione dell’economista inglese, erano indispensabili per tutelare le diversità tra i paesi e per lasciare maggiori possibilità alle politiche nazionali di perseguire progetti sociali diversi tra loro, sia pure all’interno di un quadro di regole comuni.

Per lasciare alle classi dirigenti nazionali, in altre parole, lo spazio necessario per il governo di una democrazia.

Uno spazio che veniva bilanciato dalla creazione del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, istituzioni di indirizzo, salvaguardia e controllo del sistema internazionale, che, almeno nelle intenzioni di Keynes, dovevano intervenire, in una logica di rafforzamento della coesione tra paesi, a sostegno di quelli deboli, agendo dunque come correttivi dei rapporti di forza esistenti.

Quello che ci raccontano gli accordi di Bretton Woods e il modo in cui ci si è arrivati —il dibattito che si ebbe è ormai ampiamente noto— è un’idea di distribuzione del potere sul piano internazionale coerente con gli interessi politici degli Usa (e della Gran Bretagna) di quegli anni, ma anche generosa verso l’insieme dei paesi del mondo occidentale, e in particolare verso quelli più deboli.

Coerentemente peraltro con una cultura che considerava le regole della democrazia, dell’inclusione di tutti i membri di una collettività, come la parte fondamentale del compromesso riformista.

 

(14 Nel dopoguerra il PIL Degli Stati Uniti costituiva quasi il 50% del PIL mondiale. Alla fine degli ...)

Come tutti i sistemi di regole, anche quello di Bretton Woods ha finito col tempo col non riuscire a svolgere il compito per cui era stato costruito, col non rispondere più alle esigenze dei paesi che l’avevano costruito.

È difficile riassumere le cause tecniche e politiche che hanno impedito a quel mondo di continuare a funzionare.

Tutte queste cause sono comunque riconducibili al fatto che, col tempo, il contesto internazionale in cui quegli accordi erano nati era andato cambiando, così come erano mutati i rapporti di forza tra i paesi.

La Gran Bretagna prima e gli stessi Stati Uniti poi avevano perso terreno rispetto alle altre economie europee, e soprattutto rispetto al Giappone.

 In particolare, due erano gli elementi di novità importanti:

il primo era che il peso dell’economia USA nel sistema internazionale si era molto ridimensionato;

il secondo era che la sfida che veniva al modello sociale occidentale dal mondo comunista, che tanto era stata influente nel determinare le regole di Bretton Woods, stava diventando molto meno importante sul piano politico.

6.Il nuovo modo di organizzarsi dello sviluppo.

Il cambiamento del contesto internazionale, diventato molto più policentrico rispetto al dopoguerra, ha spinto gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) a ripensare le regole e a tentare di costruire nuovi equilibri, sia politici sia economici.

 Ciò è avvenuto all’inizio degli anni ottanta con Reagan e Thatcher, che hanno ridisegnato il sistema internazionale e gli equilibri sociali all’interno dei paesi, secondo un progetto che può essere visto come espressione, da un lato, della volontà di rilanciare la centralità dei due paesi nel sistema economico, e dall’altro, di costruire società organizzate dal mercato e per il mercato.

Un progetto pensato quindi intorno a valori profondamente diversi da quelli del dopoguerra e che si poneva un obiettivo sostanzialmente opposto.

L’obiettivo era quello, più in particolare, di mettere in moto una redistribuzione del potere a favore dei paesi anglosassoni e, sul piano interno, di ridisegnare gli equilibri sociali spostandoli a vantaggio dei gruppi più forti.

 Quella che è stata fatta da Reagan e Thatcher è stata una scommessa sulle capacità del capitalismo —finanziario— di garantire il predominio economico di Stati Uniti e Gran Bretagna nel lungo periodo;

 ma anche, contemporaneamente, la messa in moto di meccanismi di redistribuzione del potere attraverso nuove regole e un radicale ripensamento delle istituzioni, o almeno del loro ruolo, all’interno del funzionamento del sistema economico.

Questo nuovo modo di essere si è consolidato intorno ad una cultura anch’essa nuova —individuata inizialmente con l’espressione “Washington Consensus”, e più in generale col termine neoliberismo— che ha trasformato profondamente la logica delle politiche di intervento.

È (stata) la fine della stagione del riformismo.

Una fine segnata da due cambiamenti importanti:

da una inversione di ruoli tra stato e mercato, che ha spostato quest’ultimo, e in particolare i mercati finanziari, al centro dei sistemi economici;

 dalla drastica riduzione degli spazi di autonomia delle politiche economiche nazionali.

 I mercati finanziari, che il riformismo aveva fortemente regolamentato proprio per garantire maggiore autonomia agli stati nazionali dal punto di vista della politica d’intervento, sono tornati al centro del sistema economico diventando, con le nuove regole, i tutori del nuovo ordine internazionale.

 Attraverso la regola della libertà dei movimenti di capitali sono i mercati finanziari, con le loro istituzioni, che controllano nel nuovo contesto l’operare dello stato, e non più viceversa.

Il processo di redistribuzione del potere che si è realizzato è strettamente collegato al cambiamento dei rapporti tra stato e mercato.

E, più in particolare, ai cambiamenti indotti attraverso:

a) il ridisegnarsi dei compiti attribuiti alle Banche centrali, che hanno rafforzato gli elementi di autonomia dalla politica nelle scelte fatte da queste istituzioni, un’autonomia che si è trasformata in nuovi vincoli al finanziamento della spesa pubblica;

b) lo svilupparsi di politiche di privatizzazione che, sollecitate dalle istituzioni internazionali, sono state nei fatti imposte soprattutto ai paesi più deboli.

Una redistribuzione che ha trovato il suo retroterra culturale nella delegittimazione del ruolo dello stato, costruita attraverso una cultura che lo ha rappresentato con gli occhi e attraverso i valori del mercato.

In questa lettura, lo stato non è più visto come il soggetto che tutela i diritti, come il portatore dell’interesse generale;

 viene invece rappresentato come il luogo dell’inefficienza (burocrazia), della sopraffazione fiscale e della corruzione.

(15 Stefano Rodotà (2011) parla da un lato di de-costituzionalizzazione per indicare la spinta che è p ...)

È significativo che in questo nuovo contesto culturale la questione del potere scompaia nelle analisi degli economisti (ma non solo), così come la sua redistribuzione a favore dei gruppi sociali forti venga nascosta dietro i miti, tra loro connessi, dell’efficienza e dello sviluppo del reddito.

 Scompare per un motivo che è facilmente intuibile.

Le scelte che ne conseguono sono difficili da presentare, sono poco spendibili politicamente e socialmente.

Vanno dunque rielaborate sul piano culturale per renderle accettabili.

Ed è attraverso la cultura che si riesce ad evitare che si sviluppino politiche volte a contrastare le situazioni di asimmetria di potere e i processi cumulativi che si vengono a creare all’interno di una società di mercato.

Una cultura che considera sbagliato ogni tentativo di correzione di queste asimmetrie, in nome della modernità.

Una modernità che viene chiamata in causa anche allo scopo di far considerare le resistenze al cambiamento che vengono dai gruppi sociali più deboli come espressioni di una visione conservatrice della società.

Il nuovo riformismo si sviluppa lungo una linea il cui significato è abbastanza facile da cogliere.

 Il suo obiettivo, in ultima analisi, è quello di mettere in discussione, prima, e smantellare poi, tutte le istituzioni di mediazione sociale, e più in generale i corpi intermedi della democrazia creati dal riformismo, facendoli apparire più come ostacoli che come strumenti in vista del raggiungimento di un interesse generale.

Un interesse generale, si badi bene, che non è più definito dalla società ma dal mercato e quindi che ha dietro di sé altri valori.

Presentando l’attività di questi corpi intermedi come un ostacolo —i famosi lacci e laccioli— al pieno e benefico dispiegarsi del mercato stesso.

Un tipo di narrazione che avrebbe scarse possibilità di successo se non si fosse prima fatta scomparire dall’agenda degli studiosi di economia la questione del potere.

7. I processi di accumulazione in una economia finanziarizzata.

(16 Sulla questione dei cambiamenti in atto nel modo di funzionare di un capitalismo finanziario, si v ...)

17 Su questo tema, e in riferimento alla specifica esperienza del nostro paese, si veda De Bernardi, ...)

18 È emblematico del cambiamento dei soggetti di riferimento dell’accumulazione il fatto che l’impren ...)

Il cambiamento delle regole, così come la centralità dei mercati finanziari, ha modificato profondamente il modo di funzionare dei sistemi economici.

I processi di accumulazione, in questo nuovo contesto, sono mossi da logiche che tendono ad accentuare la redistribuzione del potere all’interno della società.

Una redistribuzione legittimata da un cambiamento dell’idea di interesse generale:

l’obiettivo della politica d’intervento e, più in generale, delle istituzioni pubbliche, non è più quello dell’alto livello di occupazione.

Un obiettivo reso più difficile da perseguire anche da un mondo produttivo differente, non più segnato dal fordismo.

Ma un mondo diverso anche e forse soprattutto perché gli attori sociali che mettono in moto i processi di accumulazione e li governano non sono più gli stessi.

È il capitalista, inteso come colui che possiede i capitali, la nuova figura chiave;

è il perseguimento dei suoi obiettivi che muove i processi economici.

Un obiettivo che non è più quello del profitto, ma quello dell’aumento dei valori patrimoniali.

Tutte le sue iniziative sono collegate alla volontà di far aumentare i valori patrimoniali.

Un cambiamento che sposta il cuore del sistema economico dal mondo della produzione verso il luogo dove i capitali si valorizzano, cioè i mercati finanziari.

Mercati in continua espansione anche per effetto dell’estendersi continuo delle posizioni debitorie e creditorie —pubbliche o private— che accompagnano questo processo a livello internazionale.

Questo spostamento ha avuto ed ha effetti rilevanti sul piano della distribuzione geografica della produzione, ma anche su quello sociale.

In primo luogo perché ha cambiato l’orizzonte temporale delle scelte economiche.

In un mondo dominato dalla finanza l’orizzonte è molto più breve rispetto a quello di un sistema centrato sulla produzione.

Chi possiede capitali non è sostanzialmente interessato agli effetti di lungo periodo delle proprie scelte.

Ciò che è rilevante dal suo punto di vista è quanto accade nell’immediato e come questo cambia i valori patrimoniali.

Un modo di guardare alla realtà che ha tre conseguenze.

 La prima è che i processi economici —e quindi anche quelli di redistribuzione del potere— risultano più accelerati.

Tutti i cambiamenti si realizzano in tempi più brevi.

 La seconda è che aumentano le distanze tra i tempi dell’economia e quelli delle società.

Quest’ultima ha come orizzonte temporale quello delle generazioni;

la finanza quello dei mesi, se non dei giorni.

La terza è che i processi che si attivano in un sistema con forte presenza della finanza tendono ad alterare profondamente gli equilibri sociali, ma lo fanno in una maniera che non è immediatamente percepibile dalla società stessa.

 In un sistema centrato sulla produzione, infatti, la crescita dei profitti trova un limite nella consapevolezza degli imprenditori che maggiori profitti implicano una minore retribuzione del lavoro, almeno nel breve periodo, e dunque che ogni spinta all’aumento dei profitti genera tensioni crescenti all’interno dell’impresa e nella società.

Nel caso invece di processi centrati sulla crescita dei valori patrimoniali, questa può avvenire senza ostacoli immediati o almeno avvertibili sul piano sociale.

 La dimensione sociale dei processi economici diventa evanescente nel mondo della finanza.

Il mondo del lavoro e quello della finanza si muovono su dimensioni apparentemente diverse.

(19fr. Leon, 2014.

20 La politica seguita da molte imprese di cambiare relativamente spesso i manager, gli imprenditori, ...)

Ma questa diversità scompare nel momento in cui si guarda a questi processi in termini di potere.

Ponendosi da questo punto di vista si può vedere che la dimensione del potere è molto più presente nel mondo della finanza.

Ogni crescita economica mossa dal desiderio di accumulare ricchezza si traduce infatti in una concentrazione di potere all’interno della società che, a sua volta, crea le premesse per l’accumulazione di altro potere e di altra ricchezza.

In altre parole: più un soggetto è in grado di accumulare potere e ricchezza, più sarà in condizione di accumularne altra.

Quello che si vuol sottolineare è che nel capitalismo finanziario vi è una tendenza strutturale alla concentrazione del potere molto più forte di quella che si può rilevare nel capitalismo industriale.

 Più forte e anche tendenzialmente senza fine.

 Nessun livello dei valori patrimoniali, nessun livello di potere raggiunto può essere infatti considerato punto di arrivo stabile, se si è in un contesto oligopolistico:

 in un contesto in cui altri centri di potere e ricchezza si stanno muovendo con lo stesso obiettivo.

L’attuale modo di essere dello sviluppo tende, in altre parole, a forzare continuamente le situazioni, a renderle perennemente instabili in un processo che non conosce soste e che tende a divaricare le posizioni all’interno della società, anche perché stravolge continuamente i rapporti di potere.

Incide su una società che ha difficoltà a capire il significato di quello che sta avvenendo e a reagire a questi cambiamenti.

(21 Per rappresentare plasticamente il cambiamento di prospettiva che si ha nel capitalismo finanziari ...)

Un aumento del valore del capitale (o una sua diminuzione), può essere utile ripeterlo, non cambia di per sé la condizione del lavoro nell’immediato;

quello che fa è incidere sulla distribuzione del potere nella società, e di conseguenza sui rapporti di forza;

crea dunque le condizioni per una divaricazione sempre più accentuata tra gruppi sociali forti e deboli.

Una divaricazione di cui si perde il senso se non si guarda al potere come una delle dimensioni dell’economia.

8. La politica cambia il suo ruolo.

Nel mondo disegnato dagli accordi di Bretton Woods la politica disponeva di molti strumenti per gestire gli equilibri sociali;

aveva in primo luogo il ruolo di mediatore tra gli interessi contrapposti presenti nella società.

Un’attività di mediazione che, al di là dei singoli programmi politici, nel momento in cui si traduceva nei fatti in un rafforzamento della capacità contrattuale dei gruppi economicamente più deboli, attribuiva alla politica una legittimità sociale.

Con il cambiamento delle regole che si è avuto nei primi anni ottanta, il quadro si è modificato profondamente.

 E si è modificata anche la distribuzione del potere.

Il fatto che si siano ristretti gli orizzonti sui quali la politica poteva intervenire, ha finito col restringere lo spazio di decisione della politica nazionale spostandolo a favore delle istituzioni internazionali pubbliche, come il Fondo Monetario o la Banca Mondiale, o private come le società di rating o gli stessi mercati finanziari.

Minori spazi di intervento per la politica, ma anche minore capacità di intervenire visto il de-potenziamento del ruolo dello stato che ha privato la politica del suo principale strumento.

 

(22 La convinzione di una parte non trascurabile della letteratura economica è che un governo diventa ...)

Minore capacità infine di legittimazione a livello sociale.

Per una questione culturale e per problemi sostanziali.

Sul piano della legittimazione, l’egemonia della nuova cultura del mercato ha finito con l’assimilare il ruolo della politica a quello (negativo) dello stato.

 Sul piano sostanziale, la politica non poteva sperare di mantenere la sua capacità di consenso all’interno di una collettività, quella dei cittadini, quando la sua azione non può che essere finalizzata a ottenere il consenso di un’altra collettività, quella delle istituzioni internazionali pubbliche o private.

E non lo può sperare perché la necessità di omologarsi alle indicazioni che vengono dal contesto internazionale tenderà necessariamente ad appiattire ogni diversità di proposta tra i diversi gruppi politici, ma anche perché dietro le istituzioni internazionali c’è un’idea di interesse generale che coincide con il buon funzionamento del mercato.

Un’idea di interesse generale che non può coincidere —e non deve coincidere— con quella dei cittadini che hanno come riferimento evidentemente le costituzioni.

Una situazione che, evidentemente, apre un problema strutturale nel funzionamento della democrazia.

Un problema che la politica ha cercato di superare cercando il consenso attraverso narrazioni sempre meno legate alla realtà.

 Lanciando in questo modo un processo continuo di creazione di aspettative e disinganni che, col tempo, ha annientato ogni credibilità dei partiti e della politica stessa.

 

Per riassumere, le nuove regole che si sono andate consolidando verso la fine del secolo scorso hanno determinato uno spostamento del potere decisionale dalla politica (nazionale), e quindi anche dai cittadini, al contesto internazionale ed al mercato finanziario.

 Uno spostamento che ha indebolito le democrazie dando vita a fenomeni di degrado politico che sono in atto in tutti i paesi.

E che, parallelamente, ha determinato lo sviluppo di grandi aggregazioni economiche e di potere.

Questi due fenomeni non possono non far pensare che, col tempo, la politica finisca con lo schiacciare le proprie posizioni su quelle degli affari, fino a diventare essa stessa uno strumento della redistribuzione inegualitaria del potere.

Mettendo in questo caso a rischio la stessa sopravvivenza delle democrazie, almeno quelle che abbiamo conosciuto negli ultimi settanta anni.

9.Le regole europee.

Nel dopoguerra le classi dirigenti europee si erano servite della dimensione economica per costruire un processo che voleva essere essenzialmente politico.

 Ciò che aveva spinto nella direzione di un Europa politica era la coscienza da un lato degli esiti catastrofici di due guerre, e dall’altro dell’esistenza di squilibri strutturali nel sistema economico europeo che si manifestavano anche nella storica contrapposizione tra Francia e Germania.

Di fronte a una Germania forte sul piano economico, spettava alla dimensione politica il compito di trovare le strade per governare uno squilibrio che era stato causa di due guerre.

 Non è un caso che siano stati proprio i politici tedeschi a spingere nella direzione di maggiore unità politica a livello europeo, almeno fino alla metà degli anni ottanta.

Il momento di discontinuità in questo progetto perseguito per quasi quarant’anni si è avuto con il trattato istitutivo dell’euro.

E ciò non solo perché questo patto è nato in collegamento con l’unificazione tedesca —che ha rafforzato gli elementi di squilibrio potenziale tra i paesi europei— ma soprattutto perché questo patto è stato elaborato all’interno del nuovo contesto di regole internazionali e di un altrettanto nuovo ambiente culturale.

Un ambiente che, come abbiamo visto, schiacciando la politica sugli interessi del mercato, ha teso in generale a farle perdere autonomia e qualità;

 in fin dei conti, a cambiarle ruolo.

In qualche modo, con l’istituzione della moneta unica il tradizionale rapporto tra economia e politica del dopoguerra si è invertito.

Lo spessore della politica europea è venuto meno proprio nel momento in cui avrebbe dovuto giocare un ruolo più importante.

Da una fase storica in cui la politica ha usato gli interessi economici per creare una convergenza tra popoli che erano appena usciti dalla stagione dei nazionalismi, si è passati ad un’altra in cui il mercato, e probabilmente gli interessi dei grandi gruppi economici e finanziari, hanno assunto un ruolo non trascurabile nel dettare l’agenda alla politica.

La coscienza della necessità di un riequilibrio politico tra paesi differenti, che pure era stata un elemento fondante della politica tedesca del dopoguerra, si disperde sotto la pressione della difesa degli interessi economici nazionali, e viene nascosta nel mare dei tecnicismi delle regole europee.

(23 Federico Caffè ha più volte sottolineato, soprattutto nella sua attività pubblicistica, i rischi d ...)

(24 Caffè, nei suoi scritti, ha messo in evidenza come la convergenza economica con un paese economica ...)

Lo spazio della politica, già ridotto dalle regole internazionali, si riduce ulteriormente in paesi come l’Italia che hanno un problema di alto debito pubblico.

Le possibilità per questi paesi di tutelare i propri equilibri politico-sociali si riducono enormemente.

 E senza la mediazione della politica, in un’Europa in cui la voce del mercato è quella più forte, non possono che ripresentarsi gli stessi squilibri dell’anteguerra, ovviamente sotto una forma nuova.

Si presentano tutti quei problemi dei quali aveva parlato in maniera lungimirante Federico Caffè.

Quelli determinati da regole che, facendo perno sul mercato, rendono la convivenza tra realtà profondamente diverse —e destinate a rimanere tali per lungo tempo— di difficile sostenibilità nel lungo periodo.

Al tentativo del dopoguerra di governare le diversità delle esperienze nazionali attraverso una politica europea consapevole di queste diversità, ma anche della sua responsabilità nel disegnare i processi di convergenza, si è sostituita una politica che ha delegato al mercato il compito di stabilire le regole di convivenza.

Alla logica della contaminazione e della solidarietà tra diversi si è sostituita la logica della competizione, che non poteva se non sancire la fine di un progetto politico comune.

In un contesto europeo in cui la diversità è tornata ad apparire inadeguatezza, in cui è semplicemente scomparsa dall’agenda della riflessione la questione del potere, in cui quindi è stata messa in discussione la stessa idea di solidarietà tra diversi, non sorprende che col tempo si sia andato perdendo ogni interesse a cercare percorsi politici di convergenza.

10.Cultura ed immaginario nei sistemi economici.

(25 Si veda, a questo proposito, oltre a quanto si è già detto nella nota 1, Lane, Van der Leeuw, Puma ...)

Secondo D. Lane, un sistema sociale complesso —come è certamente quello economico-sociale— ha bisogno di un immaginario condiviso per poter rimanere stabile nel tempo;

un immaginario capace di far convergere i comportamenti dei soggetti e le scelte delle istituzioni nelle direzioni necessarie a rafforzare la struttura interna del sistema stesso.

Ogni distribuzione del potere nella società ha bisogno, in altre parole, di una cultura che la giustifichi, la faccia apparire legittima.

Ovviamente ci sono molte affermazioni nella cultura economica del mercato che possono essere considerate tasselli fondamentali intorno ai quali si è costruito l’immaginario collettivo degli ultimi decenni e si sono poste le basi per il buon funzionamento dell’attuale modello di sviluppo.

Ma ce n’è una che riassume in sé in maniera quasi emblematica quanto un’egemonia culturale possa plasmare il senso comune:

quella secondo la quale tutelare gli interessi delle imprese vuol dire creare le condizioni che possono garantire il benessere per tutta la società.

 Si tratta di un’affermazione che sicuramente riavvicina il sentire di chi opera sui mercati alla teoria economica e dunque è comprensibile che abbia avuto e abbia una certa presa almeno su una parte della società.

Dopo gli anni del keynesismo e della cultura macroeconomica, con l’affermarsi dell’idea che ciò che va bene all’impresa va bene per tutti, la cultura del mercato riesce a realizzare due cose:

ritrova la sua base sociale e si riappropria della teoria economica, definendo una visione dell’economia che per un verso si dà una veste scientifica, o in ogni caso inserisce i comportamenti, i valori e gli obiettivi che caratterizzano il funzionamento dei mercati in un contesto più generale;

per l’altro, li trasforma in categorie di analisi e, in questo modo, finisce col renderli legittimi.

Ma è proprio questo tentativo di porsi come analisi scientifica che fa emergere in maniera trasparente il carattere di parte di questa lettura dell’economia.

 In primo luogo perché è una lettura che fa esplicitamente coincidere l’interesse di una sezione della società, la componente forte, con l’interesse generale;

e, in secondo luogo perché, per arrivare a questo risultato, compie un’operazione palesemente stravagante: l’inversione tra mezzi e fini.

In questa lettura, infatti, l’impresa cessa di essere uno strumento di cui dispone la società per assicurarsi condizioni di benessere collettivo, e si trasforma in un fine in sé.

L’intero processo logico attraverso il quale si arriva a far coincidere gli interessi dell’impresa con quello generale rende evidenti tutte le ambiguità implicite in un progetto scientifico che tende alla riduzione della complessità.

 

Una semplificazione che spesso è un modo per escludere dall’analisi tutto ciò che si vuole ignorare.

La prima semplificazione consiste nel far coincidere il benessere con quello economico, con la crescita del reddito, che diventa in questo modo l’unico obiettivo rilevante per la politica d’intervento.

Un unico obiettivo che, come osserva Besset, nel lungo periodo può essere incompatibile con l’esistenza stessa di una democrazia.

 La seconda semplificazione consiste nell’affermare che il successo di un’impresa genera automaticamente la crescita del sistema.

Un’affermazione semplicemente inconsistente: il risultato finale dipenderà evidentemente da quel che succede alle altre imprese del sistema.

 La terza semplificazione consiste nel far credere che l’«impresa» sia un organismo unitario, privo di articolazioni al suo interno.

Si valutano come irrilevanti, in altre parole, i conflitti di interesse e di potere.

Quando si dice «ciò che va bene all’impresa», in realtà si sta dicendo «ciò che va bene a chi governa l’impresa» va bene per tutti.

 La quarta semplificazione consiste nel considerare la competizione (implicita nell’idea di impresa) l’unico modo in cui si migliora il benessere.

La quinta semplificazione consiste nel far credere che la competizione a cui si fa riferimento sia una competizione tra eguali, o almeno tra potenzialmente eguali, in cui quindi tutti hanno le stesse possibilità di vincere.

 Ogni dato strutturale che può sottolineare le diseguaglianze esistenti è dimenticato;

le differenze di storia, nei punti di partenza, nel potere, nei contesti culturali non vengono semplicemente prese in considerazione.

La competizione non è il modo in cui chi ha vantaggi di qualche natura può consolidarli mettendo in moto processi cumulativi;

è invece il modo in cui riescono a emergere i più capaci a scapito di quelli che lo sono meno.

È il modo in cui un sistema socio-economico tende a migliorare costantemente sé stesso.

(26 -O meglio, lo sono le sue imprese; o meglio ancora, lo sono i sistemi socio-economici che non metto ...)

Una chiave di lettura suggestiva, ma che indica nel sistema nazionale che non «vince» il solo responsabile del suo insuccesso.

Con una conclusione di policy neanche troppo implicita.

Per vincere bisogna essere eguali ai vincitori.

Cioè, bisogna fare qualcosa che è impossibile fare, se non con i tempi della storia.

Un problema che, se lo si guarda dal punto di vista dei vincitori, fa diventare la diversità un demerito.

E la vittoria un merito.

Dimenticando che un mondo centrato sulla competizione, e quindi con vincitori e vinti, è un mondo che accumula tensioni tra i centri di potere economici e politici;

un mondo nel quale si genera una redistribuzione di risorse e di potere con pochi vincitori (si dice, per merito) e molti vinti (per demerito, anche se l’allusione è fatta in maniera più o meno sommessa) sia sul piano sociale, ossia all’interno dei paesi, sia tra questi medesimi, e quindi a livello internazionale.

Una conflittualità che, se si guarda di nuovo alla storia, quasi mai è rimasta a lungo sul solo piano economico e a livello latente.

 

 

 

 

L'irresistibile ascesa di Mario Draghi

pilotata dalla grande finanza

imperialista internazionale

e dalla massoneria.

Pmli.it – Redazione – (10-2-2021) – ci dice:

 

Mario Draghi nasce nel 1947 a Roma.

Frequenta il liceo dei gesuiti Massimo, suo compagno di scuola è il futuro presidente della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo.

Negli anni '70, all'università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica.

 Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT) su segnalazione di Franco Modigliani e ha come professore, fra gli altri, Stanley Fischer, futuro governatore della nazi-sionista Bank of Israel.

 Gli Usa la sua seconda patria.

Gli Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire la City.

Dal 1975 al 1978 è professore incaricato prima di Politica economica e finanziaria all’università di Trento, poi di Macroeconomia a Padova ed Economia matematica alla Ca' Foscari di Venezia, quindi di Economia e Politica monetaria e di Economia internazionale alla Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell'Università di Firenze ove, dal 1981 al 1991, è professore ordinario di Economia e politica monetaria.

Alla fine degli anni '80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l'Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale.

Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.

Nel '90 è consulente proprio della Banca d'Italia con Ciampi governatore.

 Alla Banca d'Italia lavorava anche il padre di Draghi, Carlo, all'epoca di Donato Menichella.

Tra il 1984 e il 1990 è Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, è membro dal 1998 del Board of Trustees dell'Institute for Advanced Study (Università di Princeton) e, dal 2003, della Brookings Institution.

Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro.

Fino ad allora un incarico poco ambito, ma Draghi riesce a trasformare quell'incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario del Paese.

Negli stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché presidente di “Gestione Sace”.

Dal '91 al '96 è nel CdA dell'IMI e dal '93 presiede il Comitato per le privatizzazioni.

Dal '94 al '98 è presidente del “G10 Deputies”.

Al nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che passa alla storia, appunto, come Legge Draghi.

Una legge che contiene le nuove regole sull'Opa.

 Le sue responsabilità nella svendita e privatizzazione delle partecipazioni statali

In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo dell'industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di governi che si sono succeduti:

dal governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D'Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.

Una chiave di volta della sua inarrestabile carriera sembra essere il 2 giugno del 1992 quando Draghi partecipa a una "crociera" sul lussuoso yatch "Britannia" della regina Elisabetta d'Inghilterra che incrocia a largo di Civitavecchia.

Tra i passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell'alta finanza "giudaico-anglosassone", Barings, Barchlay's e Warburg, il banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l'Italia, Mario Draghi, Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro Barucci.

Si dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione.

 Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza.

Fatto sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che porta a una svalutazione della lira del 30% e al prosciugamento della riserva della Banca d'Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.

 Una crisi che portò anche allo scioglimento del Sistema Monetario Europeo (SME).

E subito dopo si apre la stagione delle privatizzazioni selvagge, di cui egli è accanito sostenitore:

da Eni a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl.

Passano in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi dell'energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre aziende dei settori strategici.

A governare lo smantellamento dell'Iri c'è Prodi col quale Draghi vanta un'antica amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.

Sono tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale, che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico necessario a superare le resistenze in Europa all'entrata dell'Italia nell'euro nel gruppo di testa.

 Vicepresidente della banca d'affari Goldman Sachs in Europa

La lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001, quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.

Draghi lascia via XX Settembre e torna a insegnare negli Stati Uniti.

Dopo soli 5 mesi, nel 2002 entra in una delle più grandi banche d'affari del mondo, Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l'Europa.

Un altro clamoroso caso di conflitto d'interesse.

Nel curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat da parte della Telecom che l'aveva appena ceduta.

 O del fatto che si è reso conto dell'affare "Telekom Serbia" solo quattro mesi dopo che l'operazione era stata conclusa.

O della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire dell'intero patrimonio immobiliare dell'Eni appena un anno prima, nel dicembre 2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della stessa banca d'affari.

Nel 1994 il Tesoro siglò un accordo quadro con la banca d'affari Usa Morgan Stanley che prevedeva una clausola capestro che avrebbe permesso all’istituto finanziario di New York di chiudere unilateralmente i contratti sui derivati.

Morgan Stanley la esercitò nel 2011, in piena tempesta finanziaria per l’Italia, ed ottenne dal governo della macelleria sociale Monti il pagamento di 3 miliardi di euro di interessi sui titoli derivati, proprio in quegli anni il figlio di Draghi, Giacomo, faceva carriera nella banca in questione, un ringraziamento nei confronti di Mario che tanto aveva voluto quell'accordo?

 Presidente della Banca d'Italia.

Dunque Draghi, come tanti altri personaggi, si pensi a Siniscalco e Grilli, ha diretto l’acquisizione da parte della Repubblica italiana di titoli speculativi che hanno arricchito le banche d'affari e impoverito le casse dello Stato, in particolare i famigerati “derivati”, titoli tossici diventati tristemente il simbolo della “finanziarizzazione” dell'economia capitalistica e rispetto all'acquisto dei quali, da parte dello Stato (ivi inclusi gli enti locali), vige una forma di segreto di stato di fatto.

Nel 2005 diventa presidente della Banca d'Italia al posto di Antonio Fazio e del Consiglio Direttivo e del Consiglio Generale della Banca centrale europea nonché membro del Consiglio di amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali.

Le sue annuali Considerazioni finali esortavano alla riduzione delle tasse per i ricchi, al taglio delle spese correnti, la controriforma della previdenza e del mercato del lavoro, l'innalzamento dell'età pensionabile, il sostegno alle imprese da parte delle banche, richiami al dovere di “modernizzare” in senso privatistico e aziendalistico la scuola.

Nel discorso del 2008 metteva in evidenza lo scarto di produttività tra il Mezzogiorno e il Nord Italia entrando così in polemica con l'allora ministro dell'economia Tremonti all'epoca del governo del delinquente Berlusconi, che comunque lavorerà per farlo diventare nel maggio del 2011 il terzo Presidente della storia della BCE, dove rimarrà fino all'ottobre del 2019 quando verrà sostituito dall'attuale presidente, Christine Lagarde.

 Berlusconi lo sponsorizza a presidente della BCE.

Come presidente della BCE è stato ispiratore e sostenitore delle infami politiche economiche, monetarie, iperliberiste, interventiste e antipopolari dell'UE imperialista, tanto che le sue capacità di influenzare i governi della UE gli sono valsi gli ambiti titoli di “uomo dell'anno” dei quotidiani inglesi “Financial Times” e “Times” nel 2012 e di 18° uomo più  potente del mondo della rivista "Forbes" nel 2018.

Palesi e inquietanti i suoi legami con la massoneria, nel libro:

"Massoni società a responsabilità illimitata – La scoperta delle Ur-Lodge", di Gioele Magaldi (Chiarelettere 2014) l'autore afferma che Draghi è membro di ben cinque Ur-Lodge:

la Edmund Burke, la Three Eyes (la stessa di "re" Giorgio Napolitano), la White Eagle, la Compass Star-Rose e la Pan-Europa.

 Un massone di rango da sempre sostenuto da potenti consorterie massoniche.

Nel libro: "Fratelli d’Italia – Quanto conta la massoneria?" di Ferruccio Pinotti (BUR 2007) si afferma a pagina 388, per bocca di Florio Fiorini, che negli anni Sessanta e Settanta era uno degli uomini chiave per il finanziamento di tutti i partiti anticomunisti: “Secondo me Draghi è un terminale di finanza americana”.

Nell’intervista concessa al giornalista Fabrizio D’Esposito da Il Fatto Quotidiano Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia Democratico (God), sul cui sito è apparsa in versione integrale, così risponde sul Draghi massone:

 “Mario Draghi e Mario Monti sono entrambi massoni.

Di più: appartengono all’aristocrazia massonica sovranazionale.

Su ciò saranno peraltro prodotte importanti ed autorevoli testimonianze documentarie nel mio libro “Massoni”.

 Tra l’altro, occorre dire che troppo spesso, sulla questione MPS, ci si interroga sul livello italiano degli intrecci massonici.

 In realtà, se c’è un massone implicato fino al collo nella vicenda, quello è proprio il Venerabilissimo Maestro Mario Draghi, governatore di quella Banca d’Italia che tutto fece tranne che intervenire energicamente al tempo della strana acquisizione di Banca Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena. (…)

Quando c’è in ballo il potere: economico-finanziario, bancario, politico, diplomatico, ecclesiastico, etc. c’è sempre di mezzo la Massoneria.

Non c’è da stupirsene: il mondo moderno e contemporaneo di matrice euro-atlantica è nato grazie all’azione di avanguardia ideologica svolta dai liberi muratori contro l’Ancien Regime.

È naturale che i creatori delle società moderne ne abbiano mantenuto il controllo.”

Del resto sono talmente note le sue frequentazioni con le logge massoniche e con analoghe associazioni segrete dall'indurre il Mediatore europeo ad aprire un'inchiesta su Draghi, come risulta da un post del Movimento 5 Stelle Europa del 27 dicembre 2017 in cui si legge:

 “è finita sotto torchio l’adesione del Presidente della BCE e il coinvolgimento di alti funzionari dell’Istituto al “Gruppo dei Trenta”, un gruppo internazionale privato avvolto da assoluta segretezza e opacità che si occupa di questioni economiche, monetarie e finanziarie.

 Secondo le accuse, la partecipazione di Draghi a questo gruppo mina i requisiti di indipendenza, reputazione e integrità della BCE.

 Tra le fila del gruppo dei Trenta vi sono soprattutto le grandi banche di investimento, come JP Morgan, Goldman Sachs, Credit Suisse, Morgan Stanley, Deutsche Bank, Santander, UBS, e anche i fondi che speculano sui crediti deteriorati come Blackrock.

In particolare, il forum si è occupato di individuare le riforme per mettere in sicurezza il sistema bancario e finanziario che ci ha trascinato nella crisi più profonda della storia recente.”

Da tutto ciò risulta che Draghi non si è limitato a svolgere un ruolo puramente esecutivo da tecnico e comprimario ma da coprotagonista, insieme ai tanti suoi compari, da Prodi a Ciampi, da Amato a D'Alema, a Berlusconi, nella demolizione della Prima repubblica e nell'avvento della seconda repubblica neofascista preconizzata e imposta dalla P2 di Gelli ricorrendo a ogni mezzo, dallo stragismo al ricatto economico, dagli omicidi eccellenti alle privatizzazioni selvagge.

Insomma basta e avanza per capire quali potenti consorterie massoniche ed esclusive associazioni segrete abbiano costruito la sua inarrestabile e travolgente carriera di fedele e abile economista e massimo dirigente del sistema finanziario capitalista e imperialista nazionale e internazionale, fino a condurlo al vertice governativo italiano anche grazie alla regia del presidente Mattarella che lo ha salutato come leader di “alto profilo” e spacciato quale estremo “salvatore della Patria”.

È stato Presidente del “Financial Stability Forum” del “Financial Stability Board” nonché Direttore esecutivo per l'Italia della Banca Mondiale e nella Banca Asiatica di Sviluppo.

Del resto il “Gruppo dei Trenta”, di cui è membro, potentissima e segreta organizzazione internazionale di finanzieri ed esperti, fondata dal magnate americano Rockefeller, detta la linea e condiziona le scelte in materie che Wikipedia così riassume:

“Cambi e valute; Mercati, capitali internazionali; Enti finanziari internazionali; Banche centrali e la supervisione dei servizi finanziari e dei mercati; Questioni macroeconomiche quali i mercati dei prodotti e del lavoro.”

Fervente devoto di Sant'Ignazio da Loyola, fondatore dell'ordine dei gesuiti, è molto vicino, appunto, al gesuita papa Bergoglio che nel 2011 lo nomina membro ordinario della Pontificia accademia delle scienze sociali.

L'entusiastico sostegno dei mercati, dei padroni e del grande capitale europeo e internazionale.

La sua carriera tra incarichi pubblici e privati tra alta finanza, cariche pubbliche, massoneria e vaticano, è la personificazione stessa del fatto che nell'epoca dell'imperialismo è sempre più inestricabile l'intreccio e la compenetrazione tra gli stati borghesi e i monopoli e le centrali direttive e di comando del capitale finanziario (nato dalla fusione tra il capitale industriale con quello bancario) al punto che sono spesso gli stessi uomini, com'è il caso di Draghi, a occupare le poltrone di comando ora dell'alta finanza privata ora delle istituzioni governative nazionali e internazionali.

Cosa ampiamente dimostrata dall'entusiastico apprezzamento dei mercati, dei padroni e dei loro fogliacci e organi d'informazione volti a costruire un consenso di massa intorno a Draghi e al suo nascituro governo, che, siamo certi di questo, sarà uno dei peggiori e antipopolari governi della storia d'Italia, in grado di scavalcare a destra perfino l'appena defunto governo del dittatore antivirus Conte al servizio del regime capitalista neofascista.

(10 febbraio 2021)

 

 

 

 

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO.

Finanza sporca, eversione nera e

massoneria deviata al fianco dei boss.

 

 Editorialedomani.it - COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS – (18 novembre 2021) – ci dice:

Chi erano i “personaggi importanti” che si misero in contatto con Cosa Nostra?

 Nel suo rapporto, la DIA era estremamente precisa:

Licio Gelli e una parte della massoneria italiana, appoggiati da settori dei servizi segreti e da “ambienti imprenditoriali e finanziari”.

 Operativi sul campo, erano invece esponenti dell’eversione fascista.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni.

 Potete seguirlo su questa pagina.

Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.

 Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta:

Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

 Una rete che risaliva e operava fin dagli anni settanta, con il golpe Borghese e la strategia della tensione.

 E che aveva poi continuato la propria azione con campagne terroristiche (le bombe ai treni e alle stazioni), sempre con lo stesso, identico scopo:

difendere e accrescere la ricchezza personale dei suoi aderenti, impedire in Italia trasformazioni politiche e sociali.

Lo stesso schieramento era poi sceso in campo nel caso Sindona, il banchiere per cui si era vagheggiato un golpe separatista in Sicilia.

Sia nel caso Borghese sia nel caso Sindona, Cosa nostra era stata attratta all’idea di progetti eversivi dal mi- raggio di amnistie o revisioni di processi.

Il rapporto “Oceano” si concentrava poi sulla manovalanza delle stragi, facendo notare il ruolo svolto da alcuni personaggi.

Colui che materialmente aveva confezionato i cinquecento chili di esplosivo usati per uccidere Falcone era un certo Pietro Rampulla, quarantenne.

Interessante personaggio; mafioso di famiglia mafiosa di Mistretta (provincia di Messina), noto come artificiere, ma soprattutto, fin dalla gioventù, come militante politico di Ordine Nuovo.

Dinamitardo provetto, fece avere, tramite intermediari, il telecomando a Giovanni Brusca, ma il giorno della strage non andò a Capaci “perché aveva da fare, cose di famiglia”.

Sodale di Rampulla, fin dai tempi della giovanile militanza in Ordine nuovo, tale Rosario Pio Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto, trafficante internazionale di armi, legato ai mafiosi siciliani operanti a Milano.

C’era poi un personaggio ancora più misterioso, tale Paolo Bellini, comparso nelle cronache come un oscuro mediatore che aveva contattato dei boss mafiosi promettendo sconti di pena in cambio del recupero di opere d’arte rubate.

La Dia lo segnalava perché veniva citato nella lettera di addio al mondo di Nino Gioè, il mafioso del paese di Altofonte che materialmente spinse su uno skateboard nel cunicolo sotto l’autostrada i panetti di tritolo confezionati da Rampulla.

Nino Gioè era stato arrestato (dopo essere stato scoperto grazie a intercettazioni telefoniche) e si era impiccato nel carcere romano di Rebibbia, lasciando uno stranissimo ultimo messaggio, in cui ci teneva a definirsi “un mostro” e a scagionare un sacco di persone.

Era citato anche il signor Bellini, definito “infiltrato”, il quale risultò essere un esponente dell’organizzazione fascista Avanguardia Nazionale, latitante in Brasile per vent’anni, che aveva ottenuto dall’autorità penitenziaria di conoscere Gioè e di concordare con lui attentati.

Nel rapporto Oceano la Dia affiancava al già noto rapporto tra mafia e politica un nuovo elemento: la finanza:

«Il gettito prodotto dalle attività criminali poste in essere dalle varie attività dei gruppi mafiosi non corrisponde al valore dei beni sequestrati, dei patrimoni confiscati, né delle spese che la criminalità sostiene.

 Questa grande ricchezza residuale non può quindi che essere nascosta nel sistema finanziario (…) Il sistema finanziario, attraverso i suoi meccanismi, ha creato negli ultimi anni strumenti giuridici ed economici che lo hanno portato ad assumere un ruolo preminente rispetto a quello industriale (…) Come è noto questo mercato è quello dove è più agevole nascondere i capitali di illecita provenienza (...)

 Si può ragionevolmente ipotizzare che, attraverso il mercato finanziario, la criminalità organizzata abbia potuto raggiungere anche il sistema industriale (…)».

Ora questa ipotesi comincia a trovare alcuni supporti in indagini giudiziarie che potrebbero portare alla scoperta di cointeressenze economiche là dove non era neanche immaginabile fino a pochissimo tempo addietro.

Non è affatto da escludere che una simile interpretazione dei fatti fosse condivisa da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.