MASSONERIA E GRANDE FINANZA.
MASSONERIA
E GRANDE FINANZA.
Chi
vuole il "Great Reset"
del
debito globale.
msn.com-
Avvenire - Pietro Saccò – (19-01-2023) – ci dice:
I
tassi a zero e le migliaia di miliardi di dollari ed euro iniettati nel sistema
finanziario dalle banche centrali non hanno risolto il problema del debito
globale.
Lo
hanno solo congelato.
Anzi: lo hanno sommerso sotto un’ondata di denaro.
Adesso
che la marea monetaria si sta ritirando, anche molto più bruscamente del
previsto, la montagna del debito riaffiora e ha un’aria preoccupante.
All’inizio
del 2022 il debito complessivo di governi, imprese e famiglie ha raggiunto il
massimo storico di 305mila miliardi di dollari, ha calcolato l’Istituto di
finanza internazionale (Iif), che associa tutte le principali grandi banche del
mondo.
Nei
sei mesi successivi, con l’inizio della fase di rialzo dei tassi, la montagna
del debito si è ridotta attorno ai 290mila miliardi di dollari.
Ci
allontaniamo dal record storico, ma l’Iif scrive che c’è «fermento di crisi».
Lo
temono anche gli analisti di S&P, che in uno studio pubblicato venerdì
scorso chiedono compromessi e invitano a un “Great Reset”, un grande ripristino
dell’assetto mentale dei responsabili politici e della disponibilità delle
persone ad accettare il cambio di contesto in cui l’indebitamento resta
essenziale, ma diventa anche costoso.
«Non
c’è un modo semplice per tenere bassa la leva finanziaria globale – scrivono
gli analisti dell’agenzia di rating.
I
compromessi necessari tra la spesa e il risparmio includono più cautela nei
prestiti, taglio delle spese eccessive, ristrutturazione delle imprese a basso
rendimento e svalutazione del debito meno produttivo».
L’alto
indebitamento in tempi di tassi elevati crea mille problemi collaterali.
Martin
Wolf, storico responsabile dei commenti del Financial Times, ha rilanciato
l’allarme della Banca Mondiale sul debito dei Paesi poveri (il 15% è in difficoltà
a rimborsare i creditori, il 45% rischia di esserlo presto, Sri Lanka, Ghana e
Zambia sono già finite in bancarotta), allegando una complessa proposta di
ristrutturazione per affrontare il problema «prima che sia troppo tardi».
Prima,
cioè, che si avvii una catena di default di Stati sovrani poveri che
rappresenterebbe «una catastrofe umana e un enorme fallimento morale» con molte
conseguenze pratiche devastanti anche per l’Europa, geograficamente vicina a
molti degli Stati in difficoltà.
Sul blog
della Banca centrale europea, invece, ieri tre economisti hanno evidenziato il
problema dei bilanci aziendali: aziende troppo indebitate investono poco nei
momenti di crisi e se non si aiutano le aziende a investire gli obiettivi
europei di innovazione, crescita e transizione energetica diventano
irraggiungibili.
L’Italia
sembra guardare con relativa calma al riemergere del problema del debito.
Sembra
paradossale, per il Paese che con 2.765 miliardi di euro di debito pubblico è
uno dei più grandi debitori del mondo.
Il
fatto è che la spinta al Pil reale prodotta dall’inflazione permette una
riduzione del rapporto debito-Pil, che è il parametro centrale per misurare la
sostenibilità di un debito pubblico.
Secondo
le stime il rapporto debito-Pil è sceso dal 154,9% del 2020 al 145,7% nel 2022
e nella nota di aggiornamento al Def il governo ha indicato che la riduzione
proseguirà fino a ridurlo al 141,2% nel 2025.
Ieri
S&P ha presentato le sue analisi di scenario sull’Italia senza particolari
allarmi:
nonostante
si vada verso una piccola recessione seguita da una modesta ripresa (-0,1% la
previsione sul Pil del 2023) e il Btp decennale nel 2024 dovrebbe arrivare a
pagare in media tassi del 5,2% (rispetto al 3,7% attuale), l’Italia secondo il
capo economista Sylvain Broyer parte da una situazione positiva.
Merito
della «maggiore resilienza delle banche» che hanno bilanci solidi, degli
strumenti a disposizione della Bce per contrastare speculazioni sui debiti
della zona euro, della disponibilità dei fondi del Next Gen Eu e anche della
«maggiore competitività» dell’Italia rispetto ai principali concorrenti europei
(a partire dalla Germania).
Un
effetto, quest’ultimo, dei salari che non stanno crescendo come altrove.
Massoneria
e finanza.
Destatevi.org
– Haiaty Varotto – redazione – (14-8- 2022) – ci dice:
La
Massoneria ha forti legami con l’alta finanza, l’economia e gli affari (legami
che ovviamente determinano anche scelte e indirizzi politici sia a livello
nazionale che internazionale);
e
questo perché ‘da sempre la libera muratoria rappresenta le élites, il mondo
dell’establishment’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 351).
Prima
di parlare di questi legami però è bene tenere presente che la massoneria ha
avuto un ruolo fondamentale nell’unità d’Italia, in quanto dietro Garibaldi e
Cavour c’era la Massoneria inglese, che infatti finanziò la spedizione dei
Mille condotta da Giuseppe Garibaldi, lui stesso massone (anzi ‘Primo massone d’Italia’).
Ed
inoltre bisogna considerare che i primi passi dell’Italia unita furono guidati
da un Parlamento costituito in gran parte da massoni ed è cosa risaputa che i
Massoni si aiutano tra di loro per cui i politici massoni spesso e volentieri
aiutano e favoriscono i finanzieri e imprenditori massoni e viceversa.
D’altronde è stato provato che persino nella
magistratura i giudici massoni non sono imparziali, in quanto favoriscono i
loro fratelli massoni nei processi.
Tra i
numerosi parlamentari che erano massoni ricordiamo i seguenti.
Bonaventura
Mazzarella (1818-1882).
Il 27
gennaio 1861, quando si tennero le consultazioni elettorali per scegliere il
primo Parlamento del Regno d’Italia, fu eletto nel collegio di Gallipoli.
Nel gennaio 1863 riprese la sua attività di
magistrato dopo essere stato richiamato dal ministro di Giustizia a svolgere le
funzioni di consigliere presso la corte d’appello di Genova.
La
nomina a magistrato lo costrinse a dimettersi da deputato fino alle elezioni
del 22 ottobre 1865, quando entrò alla Camera, dove sarebbe rimasto anche per
le successive legislature schierato nelle fila dell’estrema Sinistra.
Carlo
Pellion di Persano (1806-1883).
Deputato
nelle legislature VII e VIII per il collegio della Spezia, divenne Ministro
della Marina nel primo governo Rattazzi e fu nominato senatore l’8 ottobre
1865.
Agostino
Depretis (1813-1887).
Fu
presidente del Consiglio dei ministri italiano ben nove volte tra il 1876 e il
1887.
Michele
Coppino (1822-1901).
Nel
1860 venne eletto nell’ultima legislatura del Regno di Sardegna, e rieletto nel
1861 nella prima legislatura del Regno d’Italia.
Da
allora fece parte del Parlamento quasi ininterrottamente per quarant’anni, e fu
più volte Presidente della Camera dei deputati.
Ministro della pubblica istruzione nel primo e
nel secondo governo Depretis (1876-1878), nel 1877 varò la riforma (Legge
Coppino) che rese obbligatoria e gratuita la frequenza della scuola elementare.
Fu nuovamente ministro dell’istruzione nei
governi Depretis e Crispi tra il 1884 e il 1888.
Francesco
Crispi (1818-1901).
Fu presidente del consiglio dei ministri del Regno
d’Italia dal luglio 1887 al febbraio 1891 e dal dicembre 1893 al marzo 1896.
Giuseppe
Zanardelli (1826-1903).
Fu per
alcune volte presidente della Camera; ministro dei Lavori Pubblici nel primo
governo Depretis del 1876 e ministro della Giustizia nel governo Depretis del
1881. Fu inoltre Presidente del Consiglio dei ministri dal 1901 al 1903.
Tra la
fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la massoneria ebbe un
ruolo importante nel decollo economico e finanziario del Nord Italia, infatti
la Banca Commerciale Italiana (Comit) – che è stata una delle prime e più
importanti banche italiane – fu fondata nel 1894 dal massone Otto Joel (insieme
a Federico Weil) il quale ne fu direttore centrale tra il 1894 e il 1908, e
successivamente ne fu amministratore delegato.
Sarà
proprio Otto Joel a chiamare in Italia il potente banchiere massone Giuseppe
Toepliz nel 1891, il quale avrà grande parte nello sviluppo del Nord
industriale italiano negli anni a venire.
Terminata
la prima guerra mondiale, la Comit contribuì alla riconversione postbellica
dell’apparato produttivo.
Nel
corso degli anni venti, la banca – guidata da Giuseppe Toeplitz – fu sempre più
coinvolta nel finanziamento dei grandi gruppi industriali, diventandone in
molti casi azionista di maggioranza.
Nello
stesso periodo la Comit proseguì la sua espansione all’estero, soprattutto
nell’Europa Centrale, Orientale e balcanica, fino alla Turchia e all’Egitto.
La
grande economia – spiega lo storico Aldo Mola – era in mano allora a uomini
della finanza di appartenenza massonica: ‘Giuseppe Volpi, Otto Joel, Giuseppe
Toepliz, vale a dire l’alta banca privata, Bonaldo Stringher, direttore
generale della Banca d’Italia e membro autorevole della ‘Dante Alighieri’, e
numerosi altri esponenti di prima fila del mondo finanziario, largamente
rappresentato tra le colonne dei Templi massonici oltre che presso Borse,
Camere di commercio, consigli d’amministrazione di società finanziarie,
commerciali, industriali, erano andati ultimamente imprimendo fiduciosa e
dinamica baldanza alla politica estera italiana’ (Aldo Mola, Storia della Massoneria
Italiana, pag. 393-394).
Tra
gli imprenditori massoni che in quel periodo contribuirono a far decollare
l’economia dell’Italia Unita, segnaliamo il potente imprenditore Luigi Orlando
che apparteneva alla Loggia segreta Propaganda, che era stata creata nel 1877
per accogliere importanti personaggi della vita politica, economica e
finanziaria del paese.
Luigi Orlando (1862-1933) comprò nel 1902 da
un gruppo di francesi la Società Metallurgica Italiana (SMI) che era una
società metallurgica con tre stabilimenti situati a Limestre, Livorno e
Mammiano.
Nel
1905 poi Orlando fondò la SELT – Società Ligure Toscana di Elettricità con il
sostegno del gruppo industriale degli Odero di Genova e della Banca Commerciale
Italiana.
Nel
primo dopoguerra la massoneria finanziò il movimento fascista aiutandolo ad andare
al potere, e questo perché ‘nel primo dopoguerra la massoneria, composta in
prevalenza di elementi della piccola e media borghesia, sebbene si ispirasse a
un patriottismo democratico di origine risorgimentale e coltivasse in larga
misura propensioni progressiste, fu coinvolta dalla paura del bolscevismo e
dall’ansia del ristabilimento dell’ordine.
«Si
spiega così come mai alcune logge vedessero con favore il movimento fascista
fin dalle origini e molti massoni partecipassero a questo e poi al Pnf» ….
«Questi massoni fascisti appartenevano in
parte a logge dipendenti dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, di cui era
Gran Maestro Domizio Torrigiani, e in parte forse maggiore alle logge
scissioniste di tendenza conservatrice, dipendenti dalla Gran Loggia di
piazza del Gesù di cui era Gran Maestro Raoul Palermi, che a Mussolini, già
incontrato alla vigilia della marcia su Roma, conferì in seguito la sciarpa e
il brevetto di 33° grado».
Il
rapporto tra fascismo e massoneria, quindi, per alcuni anni fu tutt’altro che
conflittuale.
«E’ così, a cominciare dal finanziamento offerto da
alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su
Roma.
L’andata al potere del fascismo, del resto, fu
auspicata da Palazzo Giustiniani fin dal 19 ottobre del 1922, pur con
l’avvertimento che ‘i massoni sarebbero insorti a difesa della libertà, qualora
venisse imposta all’Italia una dittatura o un’oligarchia’.
Tra i
finanziatori del nascente fascismo vi furono gli industriali massoni Cesare
Goldmann e Federico Cerasola e il ‘fratello’ Napoleone Tempini, poi
perseguitati dallo stesso Mussolini.
Il
fascio di Milano fu fondato da Mussolini il 21 marzo del 1919 al numero 9 di
piazza San Sepolcro, grazie a Cesare Goldmann, che mise a sua disposizione il
salone dell’Alleanza industriale e commerciale di Milano.
Fra gli intervenuti c’erano i ‘fratelli’ Eucardio
Momigliano, Camillo Bianchi e Pietro Bottini; Michele Bianchi, affiliato a
piazza del Gesù;
Ambrogio
Binda, medico personale di Mussolini e massone di piazza del Gesù;
Federico
Cerasola, presidente del Collegio dei venerabili delle logge milanesi
obbedienti a Palazzo Giustiniani;
Roberto Farinacci, iscritto alla massoneria di
Palazzo Giustiniani nel 1915 e passato a quella di piazza del Gesù nel 1921;
Decio Canzio Garibaldi, Mario Giampaoli e il
citato Cesare Goldmann;
Luigi
Lanfranconi, massone di piazza del Gesù;
Giovanni
Marinelli; Umberto Pasella, affiliato a piazza del Gesù; Guido Podrecca,
direttore de ‘L’Asino’;
Luigi
Razza, affiliato a piazza del Gesù: e Cesare Rossi’ (Ferruccio Pinotti,
Fratelli d’Italia, pag. 327-329).
Ricordiamo
peraltro che l’economista massone Alberto Beneduce (1877-1944), conoscitore e
manovratore dei meccanismi finanziari, lavorò nell’ombra per lunghi anni con
Benito Mussolini (che aveva grande stima di lui) e il suo ruolo fu essenziale
nella ristrutturazione dell’economia italiana successiva alla crisi mondiale
del 1929.
Il
Beneduce fu infatti tra gli artefici della creazione dell’IRI e suo primo
presidente.
L’IRI
(Istituto per la Ricostruzione Industriale) è stato un ente pubblico italiano,
istituito nel 1933 per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini
al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale,
Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già
provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929.
Nel secondo
dopoguerra, alla ricostruzione dell’economia italiana ha dato un forte impulso
oltre che la Comit anche Mediobanca, un istituto di credito italiano fondato
nel 1946 per iniziativa di Raffaele Mattioli (allora Presidente della Banca
Commerciale Italiana che ne fu promotrice insieme con il Credito Italiano) e di
Enrico Cuccia (che ne fu il Direttore Generale dalla fondazione al 1982).
‘Mediobanca
fu costituita per soddisfare le esigenze a media scadenza delle imprese
produttrici e per stabilire un rapporto diretto tra il mercato del risparmio e
il fabbisogno finanziario per il riassetto produttivo delle imprese, reduci
dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale’.
Ebbene, il banchiere Enrico Cuccia
(1907-2000), era un massone membro della loggia massonica segreta ‘Giustizia e
Libertà’ (cfr.
Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 744), ed è stato uno degli uomini più
potenti d’Italia (ed anche d’Europa) fino alla sua morte.
Raffaele
Mattioli, stando alla biografia ufficiale, non era massone, ma sul sito del
Grande Oriente democratico si dice di lui ‘che di Massoneria ed Esoterismo se
ne intendeva assai’ (in Mario Monti massone a sua insaputa /parte II del 22-23
gennaio 2012 – grandeoriente-democratico.com/).
In merito al ruolo della Comit e di Mediobanca nella
ricostruzione economica postbellica, è interessante quello che dice lo storico
Silvano Danesi:
‘Il piano Marshall era uno strumento economico
strettamente connesso con la Nato, ossia con la partecipazione a un’alleanza
difensiva che legava tra loro le due sponde dell’Atlantico.
Gli
Americani, quando pensarono al nostro Paese, delegarono in buona sostanza il
governo della nazione ai cattolici, che avevano il consenso della maggioranza
della popolazione e una rete diffusa di presidi (le parrocchie) sul territorio;
mentre
la gestione dell’economia fu affidata alla finanza laica che, nella
fattispecie, era incarnata da Comit e da Mattioli.
Mattioli,
la Comit, Mediobanca e Cuccia sono stati, dunque, gli interlocutori e i garanti
di una ricostruzione che doveva avvenire all’interno di un patto, quello
atlantico, che scaturiva dalla sconfitta del fascismo e del nazismo.
[…] Mattioli fu il garante di quel patto sul
versante finanziario, così come De Gasperi lo fu su quello politico.
[…] La
Comit e Mediobanca, indipendentemente dal fatto che Cuccia fosse massone, sono
state, in primo luogo, la cabina di regia della ricostruzione dell’economia
reale e del capitalismo italiani all’interno di uno schema atlantico’ (in Ferruccio Pinotti, Fratelli
d’Italia, pag. 335-336).
Veniamo
ora alla FIAT che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico
dell’Italia nel dopoguerra.
Dice
Ferruccio Pinotti che ‘i padroni della Fiat hanno sempre avuto rapporti di
simpatia e frequentazione con il mondo massonico […].
Tutto
l’ambiente in cui si muovono gli Agnelli, sin dalla fine dell’Ottocento, è di
impronta massonica’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 351).
Giovanni
Agnelli senior (1866-1945), che fu tra i fondatori della casa automobilistica
FIAT nel 1899 e ne fu amministratore delegato e presidente, aveva come stretto
collaboratore di alto livello il professore Attilio Cabiati, che era un
massone.
Peraltro, nel 1908 la massoneria venne in
aiuto a Giovanni Agnelli – che era imputato di illecita coalizione, aggiotaggio
e falso in bilancio – infatti Vittorio Emanuele Orlando, che era l’allora
ministro della Giustizia e che era un importante massone, esercitò un’ingerenza
nei confronti della magistratura torinese e affermando che «un’azione penale
nei confronti di Agnelli avrebbe avuto conseguenze negative sulla nascente
industria nazionale, in particolare piemontese».
E così
‘con la benevola attenzione del ministro Vittorio Emanuele Orlando e attraverso
ricorsi vari, Agnelli riuscì a rinviare il processo sino al 21 giugno 1911′, e
poi il 22 maggio 1912 il Tribunale assolse Agnelli, e a nulla servì il ricorso
del pubblico ministero.
Giovanni
Agnelli nel 1921 chiamò alla Fiat come direttore centrale il massone Vittorio
Valletta, che poi seguirà e affiancherà Giovanni Agnelli junior per alcuni
decenni. Giovanni Agnelli assieme a Vittorio Valletta saranno tra i primi
membri italiani del Bilderberg Group, che è un potente circolo finanziario
paramassonico mondiale sorto ufficialmente nel 1954 ma le cui prime riunioni
informali si tennero già nel 1951 (vedi più avanti la parte dedicata a questo gruppo nel
capitolo 10 intitolato ‘Massoneria, Illuminati e Gesuiti’).
Alla
morte di Giovanni Agnelli senior, Valletta assumerà la presidenza della FIAT e
ne rimarrà presidente fino al 1966 quando poi verrà nominato senatore a vita.
Il suo
posto lo prenderà Gianni Agnelli «l’avvocato» (1921-2003), che, secondo il
giornalista Roberto Fabiani, ‘conobbe la massoneria su incitamento dell’allora
presidente della Fiat e massone Vittorio Valletta’ (Roberto Fabiani, I massoni
in Italia, pag. 18-19) e secondo Licio Gelli ‘faceva parte di una loggia
«coperta», la loggia di Montecarlo’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli
d’Italia, pag. 363), il che non meraviglia affatto visto che l’appartenenza a
logge coperte o segrete di importanti personaggi italiani dell’economia e della
finanza è una cosa molto diffusa da molto tempo, in quanto ciò serve a
proteggere questi importanti personaggi ‘da pressioni indebite da parte di
altri «fratelli»’, parole queste di Giuliano Di Bernardo ex Gran Maestro del
GOI (Ferruccio
Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 397), come anche non meraviglia che questa
loggia a cui apparteneva Gianni Agnelli fosse all’estero, visto che
l’affiliazione all’estero pare essere una prassi per i personaggi molto
importanti della finanza, dell’economia e della politica.
Peraltro
Gianni Agnelli è stato uno dei fondatori della Commissione Trilaterale che
collaborò con David Rockefeller.
Non
sorprende quindi affatto venire a sapere (lo ha dichiarato lo stesso Agnelli
ai giudici, e la cosa è stata confermata dall’ex Gran Maestro del GOI Giuliano
di Bernardo) che la FIAT ha finanziato abbondantemente il Grande Oriente d’Italia
all’epoca quando era Gran Maestro Lino Salvini (cfr. Ferruccio Pinotti, Fratelli
d’Italia, pag. 367).
Oltre
a Gianni Agnelli, un altro noto imprenditore e finanziere massone che ha avuto
un ruolo importante nell’economia e nella finanza in Italia è Carlo De
Benedetti.
Anche
lui infatti – come Gianni Agnelli – risulta affiliato alla Massoneria, in
quanto risulta essere entrato nella Massoneria a Torino, nella loggia Cavour
del Grande Oriente d’Italia, «regolarizzato nel grado di Maestro il 18 marzo
1975 con brevetto n. 21272» (Ansa, 5 novembre 1993).
L’anno prima, De Benedetti era diventato
presidente dell’Unione Industriali di Torino.
Nel 1978 entrò in Olivetti, di cui divenne
presidente.
In
questa azienda ‘pose le basi per un nuovo periodo di sviluppo, fondato sulla
produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che
vide aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa’.
Però a
causa di una grave crisi della Olivetti, nel 1996 decise di lasciare l’azienda, (di cui rimase presidente onorario
fino al 1999) dopo aver fondato la Omnitel.
Nel
1987, attraverso la CIR, De Benedetti entrò nell’editoria acquisendo una
partecipazione rilevante nella Arnoldo Mondadori Editore e, attraverso di essa,
nel gruppo Espresso-Repubblica. Nel 1997 l’Espresso incorporò Repubblica e
assunse l’attuale denominazione di Gruppo Espresso.
E
veniamo all’imprenditore Silvio Berlusconi, l’ex presidente del Consiglio, che
è uno degli uomini più ricchi e potenti in Italia, perché anche lui è massone,
in quanto risulta essersi iscritto alla Loggia P2 – anche questa una ‘loggia
coperta’ come quella di Montecarlo – di cui Licio Gelli era il Maestro
Venerabile.
Berlusconi
fu iniziato alla Loggia massonica P2 (Tessera n° 1816, Fascicolo 0625) nel 1978.
Per quale ragione Berlusconi è entrato nella
Massoneria, ce lo dice Gioele Magaldi del Grande Oriente Democratico: ‘….
l’adesione di Berlusconi alla Massoneria non fu soltanto il desiderio di
entrare a far parte di un network nazionale e internazionale molto potente:
in lui c’era anche un desiderio filosofico
autentico di percorrere un sentiero iniziatico di perfezionamento spirituale.
Certo,
la sua idea della Via massonica era e resta un’idea elitaria, gerarchica,
oligarchica, in nome della quale dei Gruppi ristretti di Maestri (presunti)
Illuminati hanno il diritto-dovere di manipolare le masse, asservendole ai loro
disegni «superiori»’ (Intervista di Akio Fujiwara a Gioele Magaldi per il
quotidiano giapponese Mainichi Shimbun presente sul sito: grandeoriente-democratico.com/).
E
sempre il Magaldi ci spiega come la Massoneria ha aiutato Berlusconi ad arrivare alla sua posizione dominante
nel campo dei mezzi di comunicazione e ad entrare nel mondo della politica,
infatti dice:
‘Grazie
alla protezione di Gelli e di altri potenti Fratelli Massoni piduisti, negli
anni ’70 innanzitutto Berlusconi fu “sdoganato” dallo status di semplice
imprenditore brianzolo a quello di player autorevole nel mondo dei media.
I
Fratelli Massoni consentirono al titolare della tessera P2 n.1816 di diventare
un autorevole opinionista sul Corriere della Sera “piduista”, mentre iniziava
l’acquisizione azionaria del Giornale di Indro Montanelli.
Dopo di che, già dagli anni 1978-80, i
dirigenti della P2 pianificarono che Berlusconi potesse essere il loro “cavallo
di Troia” per la costituzione progressiva di un gruppo televisivo privato al
servizio dei loro interessi, secondo quanto prevedeva il cosiddetto “Piano di
rinascita democratica” stilato pochi anni prima.
Non
bisogna dimenticare, però, che a partire dalla primavera 1981, dopo il blitz di
Castiglion Fibocchi del 17 marzo 1981 che dette origine al cosiddetto “scandalo
P2”, il Fratello Berlusconi iniziò a “guardarsi intorno” in cerca di nuove
protezioni.
Che
trovò immediatamente e in modo clamoroso proprio nel principale avversario di
Licio Gelli nel G.O.I:
l’ex Presidente della Corte Centrale
(massonica) e Gran Maestro di Palazzo Giustiniani a partire dal 1982, Fratello
Armando Corona.
Proprio
negli anni dal 1982 al 1990 Berlusconi verrà supportato in modo formidabile a
incrementare e conservare lo status di semi-monopolista della televisione
privata italiana, con importanti “sortite” industriali anche all’estero.
E sarà supportato dalla Massoneria italiana e
internazionale così come dal PSI craxiano a grande densità massonica.
Ma dal
1982 al 1990 (anni della Gran Maestranza del G.O.I. di Armando Corona) i
Fratelli che aiutarono Berlusconi a diventare dominus nel campo dei media non
erano per la gran parte piduisti.
Erano
Massoni importanti, semmai, come il Gran Maestro Corona, che insieme al
Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (dal 1985 al 1992), all’Onorevole Giuseppe Pisanu, a
Flavio Carboni e ad altri, si riunivano spesso e volentieri per dei summit
strategici con il Fratello Silvio Berlusconi’ (Ibid.,).
Sempre
in merito a questo legame tra massoneria e finanza, ricordiamo che nel mese di
Marzo del 2007 partì dalla Procura di Catanzaro, guidata dal sostituto
procuratore Luigi De Magistris, un’inchiesta sui rapporti tra politica
corrotta, massoneria, lobby d’affari e malavita organizzata.
Il
sistema affaristico indagato da De Magistris sarebbe stato tenuto, secondo
l’ipotesi accusatoria, da una loggia massonica coperta con sede a San Marino:
un
comitato d’affari che avrebbe influito sulle scelte di amministrazioni
pubbliche sia per l’utilizzo di finanziamenti europei che per l’assegnazione di
appalti (cfr.
Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 453-463).
Ed a
conferma di questo stretto legame, nel libro Fratelli d’Italia di Ferruccio
Pinotti c’è una testimonianza molto interessante fatta ad un banchiere di cui
viene occultato il vero nome (come vengono occultati altri nomi per ragioni legali) e che viene chiamato Fabrizio
Girelli, il quale racconta una storia reale – ambientata nel mondo bancario del
profondo Nord – sostenuta da documenti depositati presso uno studio legale.
Trascrivo
una parte di questa testimonianza.
«Sono
stato assunto alla Banca Popolare nel 1994 dopo alcuni mesi di indecisione
sulle mie future scelte professionali.
Ero
infatti in procinto di trasferirmi a Londra per Banque Paribas dopo aver
sostenuto con successo il colloquio di selezione presso la sede inglese della
banca d’affari.
La
decisione di scegliere l’istituto anziché Londra è stata presa per ragioni
familiari; era infatti dal 1986 che la mia vita si svolgeva lontano da casa e
vedevo la soluzione Banca Popolare come un’opportunità di avvicinamento.
Non
era facile per le mie caratteristiche professionali trovare un lavoro
soddisfacente vicino a casa.
Avevo
lavorato esclusivamente in istituzioni finanziarie internazionali (Goldman
Sachs, Merrill Lynch e ING) e la professionalità maturata in molti anni di
lavoro con esperienze anche all’estero non rendevano facile una collocazione in
una banca italiana.
Dovetti accettare un ridimensionamento
professionale ed economico significativo in cambio di una scelta di vita e mi
sono rimesso in gioco.
D’altronde
pensavo che gestire la fase di ristrutturazione di un istituto di credito,
anche se piccolo, avrebbe potuto creare delle opportunità e una nuova
esperienza che poteva anche riuscire interessante.».
Gli
inizi furono un po’ faticosi, per il giovane banchiere.
«I primi mesi furono molto difficili perché
non riuscivo ad adeguarmi ai lenti ritmi di lavoro e la mentalità era un po’
troppo arretrata.
Dopo
un mese circa di assoluta inattività iniziai a cercare di capire almeno i
numeri della tesoreria per sapere come la banca gestiva il portafoglio titoli
di proprietà e quali erano i risultati che si prospettavano per fine anno.
Insomma,
non si sapeva se si guadagnava o si perdeva e non c’erano strumenti di
monitoraggio adeguati per valutare le posizioni d’investimento.
Con
mia enorme sorpresa, fu difficilissimo ottenere i dati relativi a un
portafoglio titoli che era di quasi 600 miliardi nel 1994 e incontrai un certo
ostruzionismo da parte di alcune persone che vedevano il mio interessamento
come un’intrusione in affari altrui.»
Quando chiese il perché di questa strana
difficoltà ad avere i dati, Fabrizio incontrò le prime allusioni alla
massoneria e ad altri giri di potere occulto che alcune persone esercitavano
nella banca, scoprendo che alcuni percorsi di carriera all’interno dell’azienda
sembravano, per alcune persone, già tracciati e accettati dai più come cose
fatte.
«Ma non volli fermarmi a quelle voci e mi
impegnai ancora di più nel lavoro.
Con l’aiuto di un bravo impiegato del settore
si iniziò la ricostruzione manuale di tutta la posizione in titoli che richiese
più di un mese.
Alla
fine emerse con enorme stupore che la banca stava perdendo circa 150 miliardi
ma nessuno lo sapeva, o almeno si cercava di non farlo sapere.
150 miliardi erano l’intero patrimonio di
allora e quando me ne resi conto fui preso dal panico.
Avevo deciso di venire a lavorare in un
istituto dove avrei dovuto giocarmi tutto il mio passato e il mio futuro e ora
mi accorgevo che la mia scelta era stata un gravissimo errore perché la banca
era virtualmente fallita.
Tutto
poteva finire in poche settimane nel peggiore dei modi.
Potevo
già immaginare una imminente aggregazione con un altro istituto dove avrei
dovuto spiegare che io non c’entravo nulla e che avevo trovato una situazione
disastrosa.
La
banca sarebbe fallita su errati investimenti in titoli e io ero il
responsabile, seppure da pochi mesi, proprio di quel settore.
Le voci su interferenze massoniche
proseguivano, ma non sapevo che peso veramente attribuire a tali indiscrezioni
e come valutarle.
Cercai di tenere duro.»
Fabrizio Girelli spiega: «In ogni caso non
potevo tornare più indietro e mi diedi da fare per informare la direzione e
cercare di uscire dalla tragica situazione.
Il
nuovo direttore generale Ramada dovette correre in Banca d’Italia per informare
la vigilanza e dopo alcune titubanze gli fu concesso un anno per sistemare le
cose.
Con un
po’ di fortuna e una serie di operazioni azzeccate uscimmo da tale situazione;
e
nell’arco di un anno eravamo ancora in corsa per la possibilità di iniziare a
esplorare nuove esperienze manageriali, nuove strategie e nuove iniziative.
La
banca era ripartita e i risultati erano veramente incoraggianti.
Da
parte mia ero riuscito a creare un gruppo di persone veramente affiatato e
molto motivato.
Quando
ero arrivato mi avevano assegnato un ufficio di tre persone.
Alla
fine del 1999 avevo una intera direzione con oltre 60 persone e il 50 per cento
dei ricavi dell’istituto provenivano direttamente e indirettamente dal settore
finanziario.
Tutto andava per il meglio fino a quando
nell’estate del 1999 la direzione generale decise di acquistare una rete di
promotori finanziari».
Di
nuovo il giovane banchiere non capisce, sente che c’è qualcosa di strano.
«Quella decisione non venne motivata.
E di
nuovo iniziarono i rumors che parlavano di pressioni massoniche dell’ambiente
romano per effettuare quella acquisizione.
Purtroppo
tale acquisto si rivelò una decisione sciagurata perché la rete rilevata celava
una serie di pesantissime minusvalenze sul portafoglio titoli e questa
situazione era stata tenuta nascosta dai venditori alla direzione.
Non
essendo stata effettuata alcuna due diligence [verifica tecnica basata su
parametri bancari specifici, Nda] sulla composizione delle attività finanziarie
in essere sui clienti, nessuno si era accorto che la rete era ingestibile e che
le perdite sui titoli della clientela avrebbero compromesso qualsiasi
possibilità di ottenere reddito da tale acquisizione, anche perché il
portafoglio dei clienti avrebbe potuto rimanere immobilizzato per anni in
attesa che i titoli obbligazionari strutturati, che erano stati collocati a suo
tempo, tornassero al valore di emissione.
Le
minusvalenze complessive si quantificavano in circa 80 miliardi su un
portafoglio di 500 miliardi circa.
Una
cifra enorme per una piccola banca del Nord come la nostra, dove tutti i ricavi
di un anno (il margine lordo d’intermediazione), in quel periodo, assommavano a
200 miliardi di lire.
Fui io a constatare il disastro in seguito ad
alcune verifiche che avevo fatto fare da un collaboratore e informai con
urgenza la direzione generale».
Ma fu
così che iniziarono i problemi di Fabrizio Girelli’ (Ferruccio Pinotti,
Fratelli d’Italia, pag. 479-482), che fu costretto a dimettersi nel 2002 perché
– con le sue prese di posizione contrarie alla filosofia aziendale – si era
rifiutato di entrare nel giro dei ‘grembiulini’ che dominava dentro e fuori la
banca, e una volta uscito fu investito da una vasta ondata di diffamazione,
infatti tra le altre cose la direzione cercò di far capire ai suoi ex colleghi
che Girelli era stato licenziato perché aveva provocato pesanti perdite alla
banca.
Girelli passò un periodo difficile pensando
più volte al suicidio a causa del profondo stato di angoscia e depressione nel
quale si trovava.
Poi alla fine però, grazie all’intervento
della magistratura con la quale il Girelli collaborò come persona informata dei
fatti sul dissesto di Banca Popolare, magistratura che fece emergere
connessioni criminali e giri pericolosi in cui era coinvolta l’ex banca di
Girelli, venne fuori la verità, e lui ‘ha visto riconosciute le ragioni delle
sue scelte coraggiose e contro corrente; in qualche modo ha «vinto» la sua
lunga guerra.
Ma il
prezzo pagato è stato alto’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’italia, pag. 503).
Dal
lungo racconto che fa il Girelli nell’intervista dunque emerge in maniera
evidente che nel sistema bancario e finanziario italiano esistono forti
pressioni massoniche.
Stesso
discorso ovviamente per quello internazionale.
Esiste
un forte rapporto tra finanza massonica e finanza Vaticana, che secondo l’ex
direttore finanziario dell’Eni Florio Fiorini, ‘che conosce come pochi i
rapporti tra finanza e poteri occulti, i canali sotterranei attraverso i quali
si decidono le sorti del denaro’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag.
370), si è venuto a creare con Giovanni XXIII (che fu eletto papa nel 1958), che
risulta infatti essere stato affiliato alla massoneria.
Dice
Fiorini: ‘La finanza vaticana è stata più o meno stabile fin tanto che non è
arrivato al soglio pontificio Giovanni XXIII.
Prima
di lui, ad avere in mano la finanza vaticana era la cosiddetta ‘nobiltà nera’,
la quale era imparentata sia coi francesi – basti citare Paolina Bonaparte, che
aveva sposato il principe Borghese – sia con gli inglesi, pensiamo al legame
dell’ammiraglio Nelson con Napoli.
Quindi
la finanza vaticana, gestita dalla nobiltà romana, era infiltrata da elementi
di contatto con la massoneria francese e inglese, che fungevano da ‘sponde’
internazionali in Europa.
Tutto cambiò con Giovanni XXIII il quale, da
buon figlio di contadini, non si sentiva legato a questo mondo della nobiltà
romana ed europea.
Era invece un uomo che aveva viaggiato e che
come nunzio apostolico aveva conosciuto molte realtà.
In particolare, fu il primo Papa a orientare
la finanza vaticana verso gli Stati Uniti’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli
d’Italia, pag. 377-378), e il tramite per operare quel cambiamento fu il
potente cardinale di New York Francis Spellman, il «gran protettore» dei
Cavalieri di Malta, il quale era vicino alla massoneria e attivo negli USA dal
1927, e che aveva intensi rapporti con l’ingegnere Bernardino Nogara, il noto
amministratore delle finanze vaticane che lo Spellman definì ‘dopo Gesù Cristo
la cosa più grande che è capitata alla Chiesa cattolica’, e questo perché dopo
che il Vaticano concluse i Patti Lateranensi con il Governo di Mussolini nel
1929, fu proprio Nogara ad amministrare i soldi che il Vaticano ricevette dallo
Stato Italiano e a farli fruttare grandemente.
Per
cui si può dire che i mezzi finanziari che lo Stato italiano diede al Vaticano
costituirono il fondamento su cui venne costruito quell’impero finanziario che
il Vaticano costituisce oggi.
Entriamo
un po’ nel merito per spiegare cosa avvenne.
Il
giorno stesso in cui l’accordo con Benito Mussolini fu ratificato Pio XI creò
una nuova agenzia finanziaria, la “Amministrazione Speciale della Santa Sede” e
ne nominò suo direttore e manager Bernardino Nogara.
Costui
accettò la proposta del papa perché il papa soddisfece le sue richieste tra cui
c’erano queste:
che
tutti gli investimenti che egli scegliesse di fare fossero totalmente e
completamente liberi da qualsiasi considerazioni religiose o dottrinali;
che
egli fosse libero di investire i fondi del Vaticano dovunque nel mondo.
E così
Nogara si mise in moto.
Martin
Malachi, Gesuita ex-professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, nel suo
libro Rich Church, Poor Church (Chiesa Ricca, Chiesa Povera) edito nel 1984,
dice:
‘Fedele
ai suoi piani iniziali, i primi maggiori acquisti di Nogara in Italia furono
attuati nel ramo del gas, dei tessili, nella costruzione pubblica e privata,
nell’acciaio, nell’arredamento, negli alberghi, in prodotti minerari e
metallurgici, prodotti dell’agricoltura, energia elettrica, armi, prodotti
farmaceutici, cemento, carta, legname da costruzione, ceramica, pasta,
ingegneria, ferrovie, navi passeggeri, telefoni, telecomunicazioni e banche’
(pag. 40).
Prima
dello scoppio della seconda guerra mondiale il Vaticano acquisì il controllo di
molte compagnie e banche sia in Italia che all’estero e in molte altre
compagnie invece riuscì ad avere una partecipazione minore ma sostanziale.
Verso gli anni ‘30 il Vaticano possedeva circa
3 milioni e 716.000 metri quadrati di beni immobili a Roma, e col tempo sarebbe
diventato il maggior proprietario terriero in Italia dopo lo stesso governo
italiano.
Quando
Mussolini ebbe bisogno di armamenti per l’invasione dell’Etiopia nel 1935 una
sostanziosa parte di essi fu provveduta da una fabbrica di munizioni che Nogara
aveva acquisito in nome del Vaticano.
Il 27
giugno 1942 Pio XII, su proposta di Nogara, fondò una nuova società finanziaria
nel Vaticano chiamata “Istituto per le Opere Religiose” (IOR).
La proposta di Nogara era stata questa:
‘Stabilire
una società ecclesiastica centrale per la Chiesa Universale, una società dotata
dello status di una banca all’interno dello Stato sovrano della Città del
Vaticano e che avesse il vantaggio di appartenere al papato e al Vaticano;
una società che si specializzasse
nell’investire e nel negoziare i fondi e le risorse degli enti ecclesiastici
della Chiesa intera’ (Martin Malachi, op. cit., pag. 43).
Tramite
lo IOR i vari organismi ecclesiastici erano in grado di investire il loro
denaro in tutta segretezza ed esenti da tasse.
Dopo
la seconda guerra mondiale, sempre sotto Nogara, l’impero finanziario vaticano
continuò a crescere.
Quando
Bernardino Nogara morì nel 1958 – lo stesso anno in cui salì al soglio
pontificio Giovanni XXIII – lasciò un Vaticano enormemente ricco.
Ma
anche dopo la morte di Nogara le finanze continuarono a crescere, appunto
tramite Giovanni XXIII (che fu papa dal 1958 al 1963) che orientò la finanza
vaticana verso gli USA.
Anche
sotto Paolo VI (che fu papa dal 1963 al 1978), che era massone come il suo
predecessore, il Vaticano continuò ad arricchirsi grandemente.
Verso
la metà degli anni sessanta, le agenzie finanziarie del Vaticano controllavano
la metà delle agenzie di credito in Italia.
Molte industrie avevano dietro denaro del
Vaticano.
L’Istituto
Farmacologico Serono di Roma per esempio era di proprietà Vaticana.
Nel
1968, secondo quanto dichiarò l’allora ministro delle Finanze Preti, la ‘S.
Sede’ possedeva titoli azionari italiani per un valore di circa 100 miliardi,
con un dividendo che oscillava dai tre ai quattro miliardi l’anno.
Anche
all’estero il Vaticano possedeva titoli azionari per molti miliardi.
Esso
aveva pacchetti azionari in diverse grandi compagnie internazionali tra cui la
General Motors, la Shell, Gulf Oil, General Electric, Betlehem Steel,
International Business Machines (IBM), e TWA.
Nel
1971 Paolo VI nominò Paul Marcinkus (anche lui massone) presidente dello IOR, e
sotto la sua direzione lo IOR risultò coinvolto in alcuni scandali finanziari a
motivo di manovre finanziarie illegali da esso compiuto con l’aiuto del
finanziere siciliano Michele Sindona (massone) – il mandato di cattura spiccato
contro Sindona parlava ‘di prove documentali di operazioni irregolari effettuate
da Sindona per conto del Vaticano’ -, e di Roberto Calvi (anche lui massone),
presidente del Banco Ambrosiano.
Per
tornare agli investimenti del Vaticano negli USA, essi hanno delle implicazioni
massoniche perché dopo il 1945 gli USA espressero la loro politica estera in
Italia anche attraverso la massoneria, e il Vaticano sfruttò questi canali per
i suoi investimenti negli USA.
E così oggi la Chiesa Cattolica Romana
americana è tra le cinque potenze immobiliari negli USA.
Ovviamente
il Vaticano è una potenza immobiliare anche in Italia.
In un
articolo dal titolo ‘San Mattone’ apparso su Il Mondo nel maggio 2007 e scritto
da Sandro Orlando si legge per esempio:
‘Un
quarto di Roma, a spanne, è della Curia.
Partendo dalla fine di via Nomentana, all’altezza
dell’Aniene, dove le Orsoline possiedono un palazzo di sei piani da oltre 50
mila metri quadri di superficie, mentre le suore di Maria Riparatrice si
accontentano di un convento di tre piani;
e
scendendo a sud est per le centralissime via Sistina e via dei Condotti, fino
al Pantheon e a piazza Navona, dove edifici barocchi e isolati di proprietà di
confraternite e congregazioni si alternano a istituzioni come la Pontificia
università della Santa Croce.
E
ancora, continuando giù per il lungotevere e l’isola Tiberina, che appartiene
interamente all’ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio.
E poi
su di nuovo per il Gianicolo, costeggiando il Vaticano fino sull’Aurelia Antica
dove si innalza l’imponente Villa Aurelia, un residence con 160 posti letto,
con tanto di cappella privata e terrazza con vista su San Pietro, che fa capo
alla casa generalizia del Sacro Cuore.
È tutto di enti religiosi.
Un tesoro immenso che si è accumulato nei
decenni grazie a lasciti e donazioni: più di 8 mila l’anno scorso nella sola
area di Roma città.
Ma non
c’è solo la Capitale.
La
Curia vanta possedimenti cospicui anche nelle roccaforti bianche del Triveneto
e della Lombardia: a Verona, Padova,Trento.
Oppure
a Bergamo e Brescia, dove gli stessi nipoti di Paolo VI, i Montini, di mestiere
fanno gli immobiliaristi.
«Il 20-22% del patrimonio immobiliare
nazionale è della Chiesa», stima Franco Alemani del gruppo Re, che da sempre
assiste suore e frati nel business del mattone.
Senza
contare le proprietà all’estero
. «A
metà degli anni ‘90 i beni delle missioni si aggiravano intorno ai 800-900
miliardi di vecchie lire, oggi dovrebbero valere dieci volte di più», osserva
l’immobiliarista Vittorio Casale, massone conclamato che all’epoca era stato
chiamato dal cardinale Jozef Tomko a partecipare ad un progetto di
ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fide, il ministero degli Esteri
del Vaticano’.
(lnx.mariostaderini.it/staderini/?q=node/142).
Tratto
dal libro “La massoneria smascherata” di G. Butindaro.
SOLDI
E POTERE.
Clericetti.blogautore.repubblica.it
- Carlo Clericetti – (23 dicembre 2022) – ci dice:
L’unica
riforma necessaria per il Mes.
L’Italia
è rimasto il solo paese a non aver sottoscritto la riforma del Meccanismo
europeo di stabilità (Mes) e si moltiplicano le pressioni, interne ed esterne,
perché provveda a farlo.
Il
principale argomento di chi è a favore della ratifica è che il Mes è necessario
al completamento dell’unione bancaria, perché tra i suoi nuovi compiti c’è
quello di intervenire qualora il fondo comune di tutela dei depositi –
alimentato da versamenti delle banche aderenti – non sia sufficiente a coprire
i costi di una eventuale emergenza.
Come è
noto l’unione bancaria non è mai stata completata, ma il motivo non è perché
manchi un organismo tecnico.
Il motivo è che un gruppo di paesi ritiene che
prima si debba provvedere a una riduzione del rischio, intendendo in particolare
che le banche che detengono in quantità rilevante titoli sovrani dei paesi ad
alto debito debbano ridurre in modo sostanziale quella parte del portafoglio
titoli.
Che venga nominata esplicitamente o meno, è
l’Italia con le sue banche il principale obiettivo di questa richiesta.
Solo
una volta che essa sia stata soddisfatta ci sarebbe la disponibilità ad
assumersi la condivisione del rischio.
Questa
posizione ignora pervicacemente che proprio la condivisione ridurrebbe
sostanzialmente il rischio, come anche l’ex presidente della Bce Mario Draghi
ha spiegato in passato.
Al
contrario, se le nostre banche fossero costrette a vendite massicce di titoli
italiani, tanto più ora che la Bce ha deciso la fine degli acquisti e ha
annunciato che inizierà invece a venderli, ciò provocherebbe conseguenze
disastrose per il nostro paese, rendendo possibile una crisi dagli esiti
imprevedibili.
Il
completamento dell’unione bancaria non dipende quindi dall’approvazione della
riforma del Mes, ma dall’atteggiamento sbagliato e pericoloso di alcuni paesi,
e dati i precedenti è lecito dubitare che questa approvazione sarebbe decisiva.
Ciò
detto, giova ribadire che il Mes è nato malissimo e riformato peggio.
Non si
vede perché il compito di backstop per l’unione bancaria debba essere affidato
a un organismo al di fuori delle istituzioni comunitarie, di diritto
lussemburghese, che per statuto è tenuto a perseguire il solo interesse dei
creditori e dunque a non prendere in considerazione – o comunque a mantenere in
subordine – gli interessi politici generali.
Che avrebbe l’ultima parola nel giudizio sulla
sostenibilità del debito di chi vi ricorre, e in caso di giudizio negativo –
sulla cui arbitrarietà si può nutrire più di un dubbio – potrebbe imporre
politiche di aggiustamento che, come insegna l’esperienza della Grecia, possono
essere non solo dolorose, ma anche sbagliate.
Quella
vicenda ha attribuito al Mes una connotazione profondamente negativa, tanto che
persino i prestiti offerti durante la pandemia non sono stati richiesti da
alcun paese, nonostante la dichiarazione – non assistita, però, da atti formali
– che la sola condizionalità sarebbe stata l’utilizzo di quei fondi a scopi
sanitari.
La
sola riforma sensata del Mes sarebbe la sua abolizione, e l’attribuzione degli
80,5 miliardi di capitale versati dagli Stati membri a una costituenda “Agenzia
del debito” come proposto da Massimo Amato, Francesco Saraceno e altri.
Il
governo italiano, anche in seguito a una pronuncia in tal senso approvata dal
Parlamento, fa benissimo a non ratificare la riforma.
Anche chi non ne condivide minimamente
l’impostazione generale, su questo specifico punto lo invita a non cedere alle
pressioni e a mantenersi su questa linea.
(Nicola
Acocella, Università di Roma La Sapienza.
Lucio
Baccaro, Max Planck Institute, Colonia.
Annaflavia
Bianchi, economista.
Ed
altri quaranta economisti.)
Banche
Centrali: è in
arrivo
la Frode delle Frodi!
Conoscenzeaconfine.it
– (20 Gennaio 2023) - Megas Alexandros alias Fabio Bonciani – ci dice:
“Le
perdite della banca centrale possono aumentare le pressioni fiscali sovrane”
dichiara “Fitch Ratings”, l’agenzia internazionale di valutazione del credito e
rating. Far diventare utilizzatori della moneta le banche centrali è
l’imbroglio ultimo che il “Potere” sta mettendo in atto per autonominarsi
creditore unico dei popoli.
“Quando
piove, vuol dire che da qualche parte sta piovendo”, ed infatti la pioggia, già
ben evidente, ci fa intravedere di tutto punto, quello che pare essere un
temporale di dimensioni bibliche, che potrebbe abbattersi sui popoli, qualora
la nuova frode pensata dai poteri profondi, venga messa in atto in tutta la sua
diabolicità di pensiero.
Dopo
aver reso i governi indipendenti dalle banche centrali e di fatto gli Stati
debitori di esse, stiamo per assistere alla magia più grande e satanica di
sempre:
stanno
per rendere le banche centrali – creatrici di denaro dal “nulla” – ufficialmente
debitrici di un ente superiore che se non si trova nell’alto dei cieli, è
certamente rappresentato dal potere stesso che da sempre comanda sul pianeta
terra.
La
frode gira tutta intorno alla falsa prospettazione che una banca centrale debba
ricorrere ad una “fantascientifica” ricapitalizzazione da parte dei governi,
per coprire eventuali perdite derivanti dalla politica monetaria messa in atto
su tassi e titoli.
Stiamo
parlando dell’istituzione unica creatrice della “materia prima”, ovvero la
valuta in cui si denominano le supposte perdite su asset finanziari, che
esistono in quanto le banche centrali stesse, hanno dapprima creato la moneta
necessaria per acquistarli, dandogli quindi un valore.
Per
essere ancora più chiari, senza la creazione della moneta da parte delle banche
centrali, tali asset non avrebbero mai visto la luce e di conseguenza anche le
perdite sul valore degli stessi.
Ad
infondere la frode per conto dei padroni, ci ha pensato Fitch Rating, che già
ad Ottobre scorso, in un suo documento/articolo dichiarava:
“l’aumento dei tassi di interesse e il calo
delle valutazioni dei titoli hanno aumentato la probabilità di perdite per le
banche centrali dei mercati sviluppati che si sono impegnate in programmi di
acquisto di attività”.
La
prospettiva di perdite nei bilanci delle banche centrali, ponendole in modo del
tutto fuorviante sullo stesso piano delle banche commerciali, deriva dal
seguente ragionamento, a cui dà sempre voce la stessa agenzia che dispone di
due quartier generali, uno a New York e l’altro a Londra:
“il recente aumento dei tassi di interesse
nella maggior parte dei mercati sviluppati, significa che alcune banche
centrali ora stanno pagando di più sulle loro passività verso gli istituti
finanziari di quanto guadagnano sui loro titoli detenuti, aumentando il rischio
di perdite”.
Tutti
noi sappiamo che in virtù del principio dell’indipendenza, pur le banche
centrali non facendo parte del bilancio consolidato del governo, in realtà poi
tendono a distribuire i profitti ai propri governi.
Come
del resto restituiscono al Tesoro anche tutti gli interessi incassati sui
titoli di stato affluiti nel proprio bilancio, in virtù dei programmi di
monetizzazione del debito degli Stati.
Cosa
si vuole fare adesso nella pratica reale di quello che ci viene prospettato?
In sostanza si vuol fare in modo che in
conseguenza della copertura finanziaria di tali perdite – come se la banca
centrale fosse costretta ad operare alla stregua di qualsiasi azienda del
settore privato – si arrivi a non versare più un centesimo nelle casse dello
Stato.
Non
solo, nel caso in cui le perdite fossero di entità tale da far atterrare il
patrimonio della banca in area negativa, si prospetta addirittura una
ricapitalizzazione dell’Istituto da parte dei governi, i quali, come ben
sappiamo, hanno un unico modo per reperire le risorse: le tasche dei cittadini!
Siamo
alla follia più totale, siamo oltre il gioco delle tre carte!
La banca centrale che crea la moneta per prima
in regime di monopolio e che attraverso il governo la fornisce al settore
privato, qualora registrasse nel proprio bilancio un patrimonio negativo,
dovrebbe essere ripatrimonializzata dai cittadini.
I
quali, non essendo creatori della moneta, logicamente, un giorno, prima o poi,
sono destinati ad esaurirla nelle proprie tasche.
Come
vedete, siamo in perfetto allineamento con il fine ultimo che il disegno del
Grande Reset si prefigge da tempo: togliere totalmente la moneta dalla
disponibilità della maggioranza.
Sempre
leggendo Fitch Ratings si apprende che:
“gli
approcci contabili mark-to-market hanno provocato di recente perdite
particolarmente ingenti presso la Banca nazionale svizzera (BNS) (che infatti
annuncia che non invierà più soldi ai Cantoni nel breve periodo) e la Reserve
Bank of Australia (RBA) – queste ultime sufficienti a spingere la RBA in un
patrimonio netto negativo”.
Ormai
la frode pare proprio essere stata sdoganata, se un paese come la Svizzera,
dotato di sovranità monetaria ed esperta di banche, la sta già mettendo in atto
nella politica di trasferimento fiscale verso i Cantoni.
Ed il
fatto che il 9 Gennaio scorso anche il noto quotidiano economico, voce dei
poteri di casa nostra, Milano Finanza, dia pieno risalto alla notizia e ci
indichi verso quale rotta si vuol far navigare l’imbarcazione, non ci deve
lasciare per niente tranquilli:
La
stessa Fed ha affermato che le rimesse al Tesoro degli Stati Uniti potrebbero
cessare per un certo periodo se gli alti tassi di interesse le causano
l’accumulo di perdite nette;
tali
rimesse nel 2021 erano circa lo 0,5% del PIL.
Le
banche centrali che utilizzano approcci contabili diversi, come quelle negli
Stati Uniti, in Giappone e nella zona euro, e quelle come la Bank of England e
la Reserve Bank of New Zealand che hanno indennità governative che coprono i
programmi di acquisto di attività, hanno meno probabilità di sperimentare
un’estrema volatilità degli utili – tiene a prospettare Fitch Rating – aggiungendo
poi:
“tuttavia, le perdite indennizzate rappresentano una passività potenziale per
il sovrano”.
Insomma,
nonostante una tecnica che dopo lo schiaffo, preveda il farti rilassare con un
paterno “scappellotto “, per poi affondarti con un “cazzotto” in pieno volto –
con il preciso intento di farci credere che per noi (intesi come europei) sarà
diverso – tutto lascia prevedere invece che non sarà proprio così!
Continuando
nella lettura del documento, si apprende
che la maggior parte delle banche centrali dispone di riserve, che possono
consentire loro di mantenere le distribuzioni al governo anche quando si
registrano perdite.
Tuttavia – afferma sempre Fitch Ratings – la
portata e la velocità dei movimenti del mercato possono sopraffare le riserve,
mettendo a repentaglio le entrate pubbliche delle banche centrali.
La RBA
ha dichiarato a settembre che si aspetta che i suoi profitti futuri vengano
mantenuti fino al ripristino del suo capitale;
la banca ha pagato circa lo 0,1% del PIL al
governo nell’anno finanziario conclusosi a giugno 2021.
Leggendo
queste poche righe, con l’occhio di chi conosce il corretto e reale
funzionamento della moneta e dei sistemi monetari moderni, verrebbe
immediatamente da strappare il documento e denunciare il tutto alla corte dei
diritti dell’uomo, per le immani falsità (provate a livello contabile e dalla
dottrina), che si cerca di far apparire come verità, per ingannare chi legge ed
i popoli ignari, che per mezzo di queste falsità sono costretti a sofferenze ed
una vita di stenti.
Le
banche centrali, non dispongono di riserve, loro le riserve le creano
all’occorrenza come gli pare e piace, con un semplice “click” sui propri
computers e lo possono fare all’infinito nello spazio e nel tempo.
Lo possono fare in virtù di una disposizione
di legge conferita loro da dei governi che dovrebbero essere espressione
democratica del popolo.
Affermare
che: “la portata e la velocità dei movimenti del mercato possono sopraffare le riserve”
– è una pura e delinquenziale falsità dimostrata e dimostrabile.
Per i motivi sopra esposti, per nessuna
ragione e/o qualsiasi tipo di evento catastrofico al mondo, le banche centrali
possono terminare le loro riserve.
Fortunatamente
anche Fitch Ratings, nel proseguo della sua analisi, non se l’è sentita di
continuare sulla strada della frode dottrinale appena evidenziata, ossia che le
riserve delle banche centrali sarebbero limitate.
Dando così un contributo essenziale alla Verità.
Infatti
continuando nella lettura, si può apprezzare che la questione viene ricondotta
esclusivamente all’interno di una precisa volontà politica:
“Le banche centrali possono subire perdite nei
loro bilanci e continuare ad operare con una posizione patrimoniale negativa.
Tuttavia,
se i governi decidessero di rafforzare le posizioni patrimoniali delle banche
centrali, ciò metterebbe a dura prova le finanze pubbliche”.
Del
resto, che le banche centrali possano tranquillamente non curarsi delle loro
passività ed operare in tutta tranquillità con una posizione patrimoniale
passiva, lo hanno confermato a più riprese tutti i banchieri centrali del mondo
occidentale, da Powell alla Lagarde.
Quindi
che necessità c’è di esporre tale problema, se il problema di fatto non esiste?
La
necessità è sempre la stessa, quella di far credere che la creazione della
moneta da parte delle banche centrali abbia natura debitoria, con il fine ultimo di depredare i
popoli dei loro risparmi, dei loro asset, delle loro sicurezze, della loro
tranquillità ed infine della loro vita.
(Megas
Alexandros alias di Fabio Bonciani).
(luogocomune.net/26-economia/6159-benche-centrali-%C3%A8-in-arrivo-la-frode-delle-frodi).
(megasalexandros.it/e-in-arrivo-la-frode-delle-frodi/).
Il
potere e il denaro.
Il
rapporto tra ricchezza ed élite.
Stefanoallevi.it
– Stefano allevi – (10 agosto 2020) – ci dice:
Che
“gli ultimi saranno i primi”, da citazione evangelica è divenuta locuzione
proverbiale.
Non
sappiamo però quanto esprima una effettiva certezza, seppure escatologica, di
chi la ripete, e quanto invece una speranza sempre più fievole e sempre meno
convinta.
Riguarda
il dopo, in ogni caso, il non ancora.
Mentre
nell’oggi, nell’ora, nella logica del mondo non è così.
E dunque, poiché nonostante tutto viviamo nel
mondo, anche se ci è stato insegnato a non essere del mondo, è difficile
crederci.
Chi
sta bene, i bene-stanti appunto, chi sta sopra gli altri (ci inventiamo un
provvisorio ‘soprastanti’) si gode i suoi privilegi apparentemente senza troppi
scrupoli di coscienza.
E i sottostanti, quando guardano ‘lassù’,
vedono una facciata lucente seppure spesso vacua, fatta di esaudimento di tutti
i desideri, e di uso e sperpero del denaro come mezzo per farlo.
Tuttavia non è primariamente un richiamo
morale quello che vorremmo fare.
Se
anche questo non guasta, ci sembra più urgente una riflessione fredda,
agnostica, se possibile oggettiva. L’associazione tra il potere del denaro, e
ancora prima dell’oro o di ciò che nelle varie culture ha potuto farne le veci,
e il potere tout court, appare intuitiva e originaria.
È
sempre stato così.
Chi
conta ha il potere di contare, di acquisire e di sprecare: il denaro così come
gli uomini e le cose che con il denaro si può comprare.
Ci
sono quelli che contano; e quelli che, al massimo, possono essere solo contati
e contabilizzati: degli accidenti statistici, quando va bene.
Non è
una novità che chi è ricco abbia potere, e inversamente chi ha potere, per
esempio politico, diventi ricco.
Già Balzac diceva sarcasticamente:
“Un uomo politico è un uomo che è entrato
negli affari, o sta per entrarvi, o ne è uscito e vuole rientrarvi”.
Le carriere della casta odierna sono lì a
dimostrarlo, con dovizia di esempi.
La
riflessione sul denaro è centrale soprattutto, e non può sorprendere, in
economia.
Dove
però, abbandonati i classici, si è abbandonata anche una riflessione sui suoi
fondamenti, e l’analisi è in definitiva strumentale, legata a grandezze di cui
è arduo trovare la radice, l’origine:
le risorse e i vincoli, il prezzo e il costo,
il salario e il profitto, la produzione e il consumo, il valore e il
plusvalore, e naturalmente su tutti il mercato – e in quello finanziario è
ancora peggio: i titoli, l’interesse, il rendimento…
Si
tratta di un ‘mondo dato per scontato’, con una buona dose di artificialità e
financo di fiction, le cui leggi sono date per certe ma la cui solidità è ancora
meno scontata dei suoi fondamenti.
E la
crisi odierna ne è la prova più evidente.
Potremmo
sintetizzare la voluta mancanza di riflessione sul ruolo del denaro con un noto
motto di spirito:
il variamente declinato “pecunia non olet”.
Che,
per la cronaca, anzi per la storia (ce la tramanda Svetonio), è la giustamente
celebre risposta dell’imperatore Vespasiano al figlio Tito che gli rimproverava
d’aver messo una tassa sui gabinetti.
Ma se
“l’argent n’a pas d’odeur”, chiosava Jaques Brel, “pas d’odeur vous monte a
nez”: salta al naso lo stesso, il suo odore – a volerlo sentire.
Per
una filosofia del denaro.
Del
denaro si può dire che il suo mistero principale è la sua stessa esistenza;
questo
ruolo vagamente misterioso del denaro simbolizza e ‘trasporta’, per così dire,
la società stessa:
“una
terza istanza s’inserisce tra le due parti con la sostituzione delle
transazioni in moneta al baratto:
si
tratta della società nel suo complesso che attribuisce al denaro un valore
reale corrispondente”, come scrive Georg Simmel nella sua monumentale Filosofia
del denaro, pubblicata nel 1900.
Si
tratta di un valore e di un ruolo che è anche marcatamente religioso:
“Presso i Greci questo rapporto era
originariamente sostenuto non dall’unità statale, ma dall’unità religiosa.
La moneta ellenica era in origine di natura
sacrale, emanazione anch’essa del ceto sacerdotale come tutti gli altri
strumenti di misura universalmente validi di peso, di lunghezza e di tempo”.
Quest’aura sacrale, del resto, è
sostanzialmente rimasta al denaro anche oggi e, seppure per altri motivi, si
spiega facilmente:
il denaro è un niente in quanto a valore
intrinseco (la carta su cui è stampato) che può tutto o comunque molto, e
questo a prescindere da chi ce l’ha in mano – è un potere suo proprio, verrebbe
da dire interiore, e verrebbe da dire anche originario se non fosse che si
fonda su una convenzione che è anteriore alla sua stessa esistenza.
Simmel
nota che, col passare del tempo, il denaro è sempre più slegato da un qualsiasi
rapporto con un valore concreto, quale poteva essere l’oro.
Il suo
significato si è fatto immateriale: “Si potrebbe definire questo processo nei termini di una
crescente spiritualizzazione del denaro; l’essenza dello spirito è infatti di
dare alla molteplicità la forma dell’unità”.
Da
mezzo il denaro diventa fine, e fine sintetico, ultimo;
come sa e sperimenta chiunque lo possieda:
il
senso di sicurezza astratto, di potere astratto, perfino di piacere astratto,
sebbene declinabile nel concreto, che dà.
Non
più la vertigine concreta, immortalata dalla piscina piena di banconote e
monete in cui tuffarsi impersonata da Paperon de’ Paperoni, che appartiene
ormai ad un’altra epoca e a un’altra fase del capitalismo.
Oggi che il denaro è diventato virtuale, una
grandezza letteralmente meta-fisica, si è fatto un passo ulteriore e
qualitativamente decisivo, ma sempre nella medesima direzione già individuata
da Simmel:
“La
velocità di circolazione abitua a spendere ed incassare, rende ogni singola
quantità di denaro psicologicamente sempre più indifferente e priva di valore,
mentre il denaro di per sé acquista sempre più importanza, dato che le
transazioni monetarie toccano il singolo con molta più intensità ed estensione
che non in una forma di vita meno movimentata”.
Simmel
scriveva queste cose riflettendo sull’espansione dell’economia monetaria;
espansione che, all’epoca, era essenzialmente quantitativa, dovuta all’aumento
esponenziale della massa monetaria circolante, ma che pure di per sé produceva
una modificazione qualitativa.
Oggi
queste parole assumono un valore fortemente potenziato alla luce del
diffondersi del denaro elettronico, della moneta virtuale, dai bancomat alle
carte di credito, ma passando anche per tutte quelle operazioni appena meno
quotidiane come l’acquisto di azioni a termine, con denaro che non ho ma che
prendo solo virtualmente in prestito:
operazioni
che costituiscono l’abc dell’attività bancaria e borsistica, ma che
complessivamente costituiscono un edificio di dimensioni mostruose e nello
stesso tempo puramente artificiale.
L’invenzione
di ingegnosi grovigli finanziari basati sul nulla che è all’origine della crisi
attuale ha fatto il resto:
titoli che garantiscono titoli che assicurano
titoli che rimandano a titoli che sono una media di titoli che speculano su
titoli del tutto privi di riferimento a grandezze reali, che hanno finito per
essere chiamati, non a caso, ‘tossici’.
Avere
come essere.
Del
resto, tornando al piccolo, è sufficiente vedere le modificazioni psicologiche
che induce il fatto che lo stesso stipendio ci venga consegnato personalmente,
concretamente, in mano, oppure venga versato direttamente in banca, e venga da
noi speso mediante carta di credito e bancomat.
Dietro questo fatto banale si nasconde una
mutazione antropologica, che cambia il nostro rapporto con le cose oltre che
con il denaro, e persino la nostra percezione e la nostra idea delle stesse.
Una
mutazione che, incidentalmente, produce una modificazione economica di non
minore importanza:
il fatto che la propensione al risparmio,
nonostante l’aumentata ricchezza individuale e sociale complessiva, sia in
costante diminuzione sia in Europa sia, in misura molto maggiore, negli Stati
Uniti, ne è la prova.
Il
denaro però, dice ancora Simmel, ha anche delle qualità di sublimazione,
essendo divenuto “l’esempio più puro di strumento”.
E come
lo spirito, come le qualità estetiche, persino come le virtù, si accorge
davvero del loro valore qualitativo, non solo di quello quantitativo solo chi
ne possiede in quantità significativa, in maniera eminente.
È in questa condizione che meglio se ne
sperimenta la qualità di strumento ‘potente’ e spesso invincibile.
“L’oro
ha un potere proprio, incommensurabile”, ha scritto un testimone del secolo
come Ernst Jünger; e, a causa di questo, sue proprie leggi.
L’antiquata
e in definitiva falsa antinomia tra avere e essere, su cui hanno costruito le
proprie fortune intellettuali in molti, ultimo Erich Fromm, e che Simmel non
avrebbe mai accettato né condiviso, non ha più ragione …d’essere:
perché l’essere dà un senso all’avere, e nello
stesso tempo l’avere è una qualità e un’estensione dell’essere, e in certa
misura persino una sua pre-condizione, da cui non ci si può nemmeno, per così
dire, dimettere.
Diceva
Cesbron a questo proposito: “Credo sinceramente che non si possa naturalizzarsi
poveri quando si è ricchi di nascita.
Non è tanto del denaro che parlo ma di tutto
ciò che rompe l’uguaglianza profonda degli uomini: ricco di relazioni, di
cultura, di sicurezza”.
E ancora: è “più facile anche essere santi, e
riconosciuti per tali, se ricchi. Si può lasciare il denaro: da ricco che era,
ma il resto…”.
Anche
rispetto al denaro, è più facile essere elegantemente indifferenti se non si è
costretti a essere ‘differenti’.
E in
certe situazioni avere è la pre-condizione dell’essere, o almeno dell’essere
decentemente.
Almeno qui sulla terra. Della Gerusalemme
celeste, che rientra nell’orizzonte delle nostre speranze ma è fuori dalla
nostra portata, anche cognitivamente, non sappiamo quale sia la banca centrale
né quale sia la moneta corrente.
Ecco
perché è ancora di importanza decisiva, nella prospettiva dell’emancipazione
umana, sostenere i diritti all’acquisizione e anche al consumo delle classi che
hanno meno potere di farlo, degli esclusi.
Senza fare
dell’acquisizione e del consumo un nuovo feticismo, naturalmente. Questo lo fa
già, e con successo, l’economia di mercato…
I
lussi dei ricchi.
Appena
un anno prima del libro di Simmel faceva la sua comparsa sull’altra sponda dell’Atlantico
un caustico pamphlet:
La teoria della classe agiata di Thorstein
Veblen.
In
esso si sostiene che la classe agiata svolge un “ufficio quasi sacerdotale”:
“Tocca
a questa classe stabilire in sintesi generale quale schema di vita la comunità deve
accettare come conveniente e onorifico;
ed è
suo ufficio mostrare col precetto e l’esempio questo schema di salvezza sociale
nella sua forma più alta, ideale”.
Solo
che la classe agiata della civiltà finanziaria (che per Veblen viene subito dopo la
civiltà predatoria e ne è in certo modo una forma più raffinata) ha come legge fondamentale non
quella della produzione, e nemmeno quella di svolgere un’attività comunque
produttiva ma, contrariamente al mito corrente, quella dello sciupio vistoso,
dell’improduttività esibita ed esibizionistica come stile di vita.
Veblen
dimostra la sua tesi, che non ha perso di originalità e di forza dirompente,
rileggendo in questa chiave ostentatoria spezzoni vari di storia sociale:
la storia dei costumi femminili,
dell’utilizzazione della servitù, come anche dei costumi ecclesiali, in quello
che viene definito ‘consumo devoto’.
“Fatta ogni riserva, appare pur sempre chiaro
che direttamente o indirettamente i canoni della rispettabilità finanziaria
influenzano materialmente le nozioni che noi abbiamo degli attributi divini,
come pure le nostre nozioni di quelle che sono le circostanze e la maniera
giuste e convenienti di comunicare col divino”:
basti pensare alle innumerevoli immagini sacre
dell’arte gotica e rinascimentale, con le loro ricche vesti e l’ambientazione
nobiliare.
Veblen
va anche oltre, introducendo un ironico ma sottile parallelo tra il significato
dei costumi femminili e di quelli clericali.
“L’abbigliamento delle donne va anche più
lontano di quello degli uomini nel dimostrare l’astensione da ogni occupazione
produttiva” (cappellini, busto, tacco alto, ecc.).
Ma
questa caratteristica l’hanno in maniera evidente anche le livree e,
incidentalmente, i lunghi e scomodi abiti sacerdotali, palesemente e
volutamente inadatti al lavoro profano.
Questo
ragionare solleva un interrogativo interessante, perché la Chiesa ha sempre
vissuto in materia una certa ambivalenza.
Da un
lato il gusto della pompa, del fasto sacerdotale, ereditato da altre tradizioni
religiose ma portato a vertici di perfezione, anche artistica, e perché no
spirituale, inarrivabili (si pensi all’architettura, all’arte, alla musica
sacra);
dall’altro
una ricerca di autenticità e di sobrietà, di semplicità e di povertà (si pensi
al ruolo degli ordini mendicanti), forse più consone alla figura del fondatore,
in ogni caso al suo esempio direttamente ispirate, che percorre come un fiume
carsico tutta la storia della Chiesa, alternando momenti di dimenticanza
completa ad altri di consapevolezza profetica forte.
E questa ambivalenza sussiste ancora, per lo più inconsapevole,
in ogni caso non risolta:
nelle
polemiche sulle pantofole e sugli ermellini papali, nelle frequentazioni
salottiere di certi alti prelati, e magari in una difesa un po’ gretta e
acritica dell’otto per mille, da un lato, e nel dovere-bisogno di costituire
fondi per sostenere le famiglie più colpite dalla crisi, e nella vicinanza ai
più deboli e nella condivisione del loro destino, nell’opzione preferenziale
per i poveri, di molti altri testimoni della fede, dall’altro.
C’è un
legame tra lusso e capitalismo?
Pochi
anni dopo, nel 1913, con maggiore perspicuità storica e non minore verve,
Werner Sombart affronta il medesimo nucleo tematico da una diversa angolazione.
In un suo testo minore e dimenticato, in chiave anti-weberiana
(in sostanziale implicita polemica con l’immagine di sobrietà e per certi
tratti di ascesi che il capitalismo assume nella più parafrasata delle opere
sociologiche, “L’etica protestante” e lo spirito del capitalismo di Max Weber,
pubblicata per la prima volta nel 1905) Sombart dimostra, o per lo meno mostra,
quanto “Lusso e capitalismo” – questo il titolo del libro – siano
inestricabilmente legati, e negli aspetti più ‘deleteri’ in maniera più
visibile e chiara.
Sombart
parte da considerazioni storiche sulla vita di corte e in particolare sulle sue
regine, le cortigiane appunto, “dames de moyenne vertu”, cocottes, le varie Pompadour, che
hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo di consumi e costumi di
ostentazione e di spreco.
Una
delle conseguenze dell’ascesa sociale e persino politica di queste dame, alla
corte francese e altrove, e delle mode sociali conseguenti, sarebbe stata, per
imitazione, e attraverso i consumi, una paradossale ascesa del ruolo delle
donne in genere, ma più in generale una ricerca del lusso sempre più spasmodica
che avrebbe portato a casi non rari di nobili e ricchi che, nel XVII secolo,
spendevano un terzo e financo metà delle loro rendite in vestiti e carrozze:
“nei secoli successivi al Medioevo, ha dominato un lusso grandioso che crebbe a
dismisura verso la fine del XVIII secolo”.
Per
Sombart il lusso diventa così un moltiplicatore del consumo e degli
investimenti.
Al di là di una diffusa retorica, egli
individua un fondamentale e fondativo carattere irrazionale del capitalismo, e
una sua sudditanza a logiche che con il calcolo razionale di costi e benefici
hanno poco a che fare.
Ma più ancora che un moltiplicatore, il lusso
è all’origine, è la genesi stessa del capitalismo:
Sombart
sottolinea “l’influenza che la formazione di un forte consumo di lusso esercita
sull’organizzazione della produzione industriale”, e arriva a dire che con esso
“in numerosi casi (non in tutti!), [si] apre la porta al capitalismo”.
L’economia del lusso di oggi, il suo ruolo
culturale e il suo peso economico, sembrerebbero esserne la continuazione.
Conclusioni.
La
riflessione fin qui evocata ci dice qualcosa sul rapporto tra denaro e potere,
e sul ruolo di coloro che li posseggono, di cui solitamente si parla assai
poco.
Per lo
più nel dibattito sociale ci si limita da un lato alla rivendicazione di un
diritto o di un merito sostanzialmente inesistente, avanzata dalla élite le
rare volte in cui i loro privilegi e i loro costumi sono messi in questione;
e
dall’altro alla critica, motivata politicamente o religiosamente, dei privilegi
stessi.
Una
critica volta, se in chiave politica, a rivendicare in qualche misura il
godimento dei medesimi diritti e magari privilegi a più grandi masse di
individui (la rivendicazione di giustizia ed equità redistributiva è in fondo
questo);
e, se motivata religiosamente, a leggere tale
realtà in chiave spirituale, traendone motivo di consolazione per gli uni, che
non hanno, e di insegnamento morale e occasionalmente di minaccia di un castigo
per gli altri, che hanno troppo. Entrambe comunque, in molti casi, spinte a
cercare sul piano della realtà storica di lenire in qualche misura i mali del
mondo e le sue ingiustizie.
Il
problema non è di per sé il denaro.
“Ciò
che va messo in discussione è il dominio del denaro al di fuori della sua sfera”,
come ha scritto Walzer.
Solo
che, alla luce di Simmel, oggi non c’è più una sua sfera, perché la sua sfera,
grazie anche al processo di ‘spiritualizzazione’ di cui si è parlato, è tutte
le sfere.
Il che
pone dei problemi di ‘tracimazione’, di pervasività eccessiva, invadente.
Ora,
“tutto ciò che ha un prezzo, ha poco valore”, come ha scritto Nietzsche nello
Zarathustra.
L’effetto
di questa confusione delle sfere è che quasi non ci accorgiamo di vivere in una
società che tende a dare un prezzo a tutto: anche ai valori.
Persino
a ciò che rientra nella sfera dell’intimità: le relazioni personali e sociali,
il lavoro domestico e di cura, il volontariato, la bontà premiata con una
mancia, ma anche, in campo sociale, le giustificazioni puramente economiche,
diciamo così funzionaliste, dell’accoglienza agli immigrati, e persino
dell’etica negli affari, della lotta alla corruzione o dell’onestà nella
pubblica amministrazione – perseguite non come beni in sé, ma perché
danneggerebbero il mercato e i princìpi di libera concorrenza…
È
vero, c’è qualcosa di antico in questo, e di sapiente.
Prendiamo
il caso del ‘prezzo del sangue’ nelle società primitive, una riparazione
economica che riusciva a metter fine alla catena insanguinata delle vendette;
ma
pensiamo anche all’ammenda per una trasgressione o un reato commessi.
È
leggibile qui la funzione educativa, e anche la finalizzazione sociale, in
termini di salvaguardia di un ordine prezioso e altrimenti minacciato.
Il problema è di cogliere il limite della possibilità
di monetizzazione.
L’amore
mercenario, per dirne uno, non è un’invenzione odierna, trattandosi come noto
del mestiere più antico del mondo;
ma c’è
un limite oltre il quale l’incremento quantitativo della tendenza alla mercerizzazione
(dell’amore
– praticato o solo visto al cinema o in televisione, o trasformato in
pubblicità, o magari telefonico – come di qualsiasi altra cosa) si trasforma in soglia qualitativa.
C’è
dunque forse un cambiamento quanti-qualitativo in atto.
Che
comporta il rischio di dover ammettere che, sul denaro, lo spirito (in senso
forte) del capitalismo potrebbe vincere su tutta la linea:
al punto che l’idolatria del capitale investe
anche chi il capitale non ce l’ha.
Lo
dimostra forse il fenomeno Berlusconi in quanto mito popolare, ma più in
generale il successo della retorica dell’“uno su mille ce la fa” e la speranza
nelle lotterie.
Il
rischio, che è sociale oltre che morale, è che si perda in parte la
sensibilità:
che,
come per le droghe, si abbia un effetto di progressiva desensibilizzazione, e
dunque di assuefazione.
“Non
ce l’ho coi miei simili per i loro privilegi, ma per il fatto che li trovano
naturali”, ha scritto Gilbert Cesbron.
E
questa tendenza, come quella correlata a considerare normale la trasmissione
ereditaria non solo delle ricchezze ma anche dei ruoli di potere in tutti gli
ambiti (economia, politica, giornalismo, cinema…), ce ne pare una prova.
Così
come l’aumento spropositato dei tassi di disuguaglianza sociale che ha
coinvolto e travolto le società non solo occidentali negli ultimi due decenni
(e l’Italia, tra i paesi dell’Ocse, è tra quelli che ha visto aumentare in
percentuali maggiori le disuguaglianze interne), e ancor più il fatto che ciò
sia accettato persino dalle vittime del meccanismo.
Una
delle conseguenze possibili di questi processi è che si perda il senso della
differenza tra il possedere del denaro e l’esserne posseduti;
che non ci si accorga che in mancanza di
distanza critica il denaro può comprare chi lo maneggia più di quanto questi
compri col denaro qualcosa.
Sono i casi in cui il denaro da mezzo diviene
fine.
E sono anche ciò che spiega perché, di norma, le
religioni insegnino il distacco dal denaro, pur arrivando raramente a
condannarlo in sé;
e propongano modelli di ascesi individuale che
prevedono una progressiva spogliazione dalle sue logiche (“usatene come se non
ne usaste”), se non dalla sua proprietà.
Una
prima diagnosi l’aveva già proposta uno dei pochi grandi economisti che non ha
mai dimenticato la riflessione a partire da presupposti altri da quelli della
propria disciplina, John M. Keynes – ridiventato di moda dopo decenni di oblio
e irrisione da parte degli stessi che oggi chiedono aiuti per le banche e le
industrie dicendo di ispirarsi, a torto o a ragione, alle sue idee – che nelle
sue Prospettive economiche per i nostri nipoti scriveva:
“L’amore
per il denaro come possesso – da distinguere dall’amore per il denaro come
mezzo per ottenere le gioie e sperimentare la realtà della vita – sarà
riconosciuto per ciò che è:
un
fatto morboso leggermente ripugnante, una di quelle propensioni per metà
criminali, per metà patologiche di cui si affida la cura agli specialisti di
malattie mentali”.
Ma una
diagnosi non è ancora una terapia;
che,
in quanto tale, e tanto più nella sua forma sociale, è ancora tutta da
inventare.
(Stefano
Allievi)
Karl
Marx e il potere
del
denaro.
Lifegate.it – Redazione – (7 gennaio 2019) –
ci dice:
Viviamo in un’epoca in cui, forse più di ogni altra,
il denaro è diventato l’unico generatore di senso.
Nel
1844 Karl Marx aveva già chiarito tutto questo.
Viviamo
in un’epoca in cui, forse più di ogni altra, il denaro è diventato l’unico
generatore di senso.
Infatti, l’avere, inteso come unica grammatica
esistenziale, finisce per portare allo smarrimento non solo della valenza etica
del bello, ridotto a possesso, lusso, utilità, ma a obliterare anche quel
mistero di cui ognuno di noi è portatore, poiché si pensa che, in un mondo
fatto solo di cose, tutto sia descrivibile sul piano quantitativo, privo di
vitalità, eticamente neutro e riconducibile solo alla quantità di denaro con
cui lo si può comprare.
In definitiva, con il denaro si arriva a
misurare non solo la quantità, ma anche la qualità del mio vivere e del mio
essere di fronte agli altri.
Il
passo di Karl Marx qui riprodotto, tratto dai “Manoscritti economico-filosofici
del 1844”, nella traduzione di Norberto Bobbio, chiarisce efficacemente quanto abbiamo
detto:
Ciò
che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che
il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro
medesimo.
Quanto
grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere.
Le
caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze
essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo
possessore.
Ciò
che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità.
Io
sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne.
E quindi io non sono brutto, perché l’effetto
della bruttezza, la sua forza repulsiva, è nata dal denaro.
Io,
considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro
gambe;
quindi non sono storpio.
Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli,
stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore.
Il
denaro è il bene supremo, e quindi il possederne è bene;
il
denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto;
e
quindi si presume che io sia onesto.
Io
sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose;
e allora come potrebbe essere stupido chi lo
possiede?
Inoltre
costui potrà sempre comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle
persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti?
Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi
tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà?
Forse che il mio denaro non trasforma tutte le
mie deficienze nel loro contrario?
“Denaro,
piacere e potere
sono motivo di infelicità”.
Lastampa.it
- GIACOMO GALEAZZI – (26 Febbraio 2020) – ci dice:
All'Angelus
Francesco ricorda: «O il Signore o gli idoli affascinanti ma illusori».
E
sottolinea che «in quest’epoca di orfanezza» è importante sentire che Dio è «un
Padre che mai delude»
«Le
tentazioni di ridurre tutto a denaro, piacere e potere sono incalzanti.
Rischiamo
di ridurre la nostra vita a una ricerca affannosa», e mentre «tanti amici o
tanti che noi credevamo amici ci hanno deluso, Dio non delude mai».
Così Francesco all’Angelus di oggi, durante il
quale chiede «sostegno medico e legislativo» per le persone colpite da malattie
rare.
«Non
si può servire Dio e la ricchezza.
In quest’epoca di orfanezza è tanto importante
sentire che Dio è Padre!», esclama il Papa.
Bisogna
«scegliere ogni giorno tra Dio e gli idoli del denaro, del potere e del piacere.
O il Signore o gli idoli affascinanti ma illusori»,
perché
«Dio è la roccia della salvezza e chi si aggrappa a Lui non cade mai».
«È una scelta da fare in modo netto e da
rinnovare continuamente, perché «ci sono tante tentazioni», dice il Pontefice,
essa «si ripercuote poi in tutti i nostri atti, programmi e impegni».
Francesco
sottolinea come onorare questi idoli porti a «risultati tangibili anche se
fugaci», invece «scegliere Dio e il suo Regno non sempre mostra immediatamente
i suoi frutti».
Quindi,
spiega ai 30mila fedeli riuniti in piazza San Pietro, si tratta di «una
decisione che si prende nella speranza e che lascia a Dio la piena
realizzazione».
La
speranza cristiana, infatti, è «tesa al compimento futuro della promessa di Dio
e non si arresta di fronte ad alcuna difficoltà perché è fondata sulla fedeltà
di Dio, che mai viene meno».
L’intensa
riflessione di Jorge Mario Bergoglio prende spunto dall’odierna pagina
evangelica, da lui definita «un forte richiamo a fidarsi di Dio, che si prende
cura degli esseri viventi nel creato, provvede il cibo a tutti gli animali, si
preoccupa dei gigli e dell’erba del campo».
Tuttavia,
evidenzia il Pontefice, l’esistenza di ciascuno di noi «scorre sotto l’assillo
di tante preoccupazioni che rischiano di togliere serenità ed equilibrio».
«Quest’angoscia
è spesso inutile perché non riesce a cambiare il corso degli eventi», osserva
Francesco;
è per
questo che «Gesù ci esorta con insistenza a non preoccuparci del domani,
ricordando che al di sopra di tutto c’è un Padre amoroso che non si dimentica
mai dei suoi figli».
Inoltre
«Dio non è un essere lontano e anonimo:
è il
nostro rifugio, la sorgente della nostra serenità e della nostra pace, è la
roccia della nostra salvezza, a cui possiamo aggrapparci nella certezza di non
cadere;
è la
nostra difesa dal male sempre in agguato».
Secondo
Bergoglio, «Dio è per noi il grande amico, l’alleato, il padre, ma non sempre
ce ne rendiamo conto».
E così «preferiamo appoggiarci a beni
immediati e contingenti;
dimenticando, e a volte rifiutando, il bene
supremo, cioè l’amore paterno di Dio».
«Noi
ci allontaniamo dall’amore di Dio quando andiamo alla ricerca ossessiva dei
beni terreni e delle ricchezze, manifestando così un amore esagerato a queste
realtà», mentre «Gesù ci dice che questa ricerca affannosa è illusoria e motivo
di infelicità».
Cristo,
ricorda il Papa, «dona ai suoi discepoli una regola di vita fondamentale:
cercate anzitutto, il regno di Dio».
Si tratta di «realizzare il progetto che Gesù
ha annunciato nel Discorso della montagna, fidandosi di Dio che non delude,
darsi da fare come amministratori fedeli dei beni che Lui ci ha donato, anche
quelli terreni», ma «senza strafare come se tutto, anche la nostra salvezza,
dipendesse solo da noi».
Tale
atteggiamento evangelico «richiede una scelta chiara, che il brano odierno
indica con precisione: non potete servire Dio e la ricchezza”.
Il
bivio è nettamente indicato dalle Sacre Scritture: «O il Signore o gli idoli
affascinanti ma illusori», afferma il Papa.
Che conclude invocando la Vergine Maria perché
«ci aiuti ad affidarci all’amore e alla bontà del Padre celeste a vivere in Lui
e con Lui».
Questo,
dice, è «il presupposto per superare i tormenti e le avversità della vita e
anche le persecuzioni, come ci dimostra la testimonianza di tanti nostri
fratelli e sorelle».
Dopo
la preghiera mariana, il Pontefice rivolge un cordiale saluto a tutti i
pellegrini di Roma, dell’Italia e di diversi Paesi.
Un
pensiero particolare lo indirizza al gruppo giunto a San Pietro in occasione
della Giornata delle malattie rare che ricorre dopodomani:
«Grazie, grazie a voi per tutto quello che
fate», dice.
E auspica che «i pazienti e le loro famiglie
siano adeguatamente sostenuti nel non facile percorso, sia a livello medico sia
legislativo».
A tutti, infine, augura «una buona domenica e
buon pranzo».
ll
potere del denaro.
Oligarchie
nell’età globale.
Journalism.openedition.org - Roberto
Schiattarella – (10-11-2020) – ci dice:
(The
Power of Money. Oligarchy in the Global Age)
1. Economia
e potere.
Il
modo in cui il potere è distribuito nella società condiziona il funzionamento
di un sistema economico?
La
teoria economica oggi prevalente non ci aiuta a dare una risposta a questa
domanda.
Guardando
invece più indietro nel tempo, ci sono stati periodi, anche lunghi, nei quali
la questione ha assunto un ruolo centrale nelle analisi degli economisti e
periodi altrettanto lunghi in cui è tornata a scomparire, o almeno a diventare
un elemento secondario del dibattito.
Questo è appunto quanto è successo negli
ultimi trenta anni nei quali lo spazio lasciato dagli studiosi di economia al
potere come chiave di interpretazione del funzionamento dei sistemi economici è
stato estremamente marginale.
Marginale
sia nelle analisi che hanno guardato al modo di funzionare delle economie
nazionali, sia in quelle sviluppate sul sistema economico internazionale.
La
convinzione che sembra oggi prevalere è dunque quella secondo la quale i
rapporti economici sono regolati da logiche sostanzialmente di natura tecnica.
La significativa
concentrazione dei redditi e della ricchezza in atto in tutti i paesi
occidentali negli ultimi decenni non sembra aver messo in discussione questa
convinzione.
La
scelta di affrontare la questione del potere come un elemento che ha a che fare
con la dimensione economica, e dunque che non può essere trascurato, pone
l’analisi fuori dai sentieri più frequentati dalla riflessione economica
contemporanea.
Costringe
a ragionare con meno punti di riferimento consolidati ma, a giudizio di chi scrive,
mette anche in condizione di comprendere meglio quello che sta succedendo e di
rendere meno ardua l’individuazione delle possibili vie di uscita al continuo
allargamento delle disuguaglianze e all’approfondirsi della ingiustizia
sociale.
Un
risultato che è possibile raggiungere soprattutto se si guarda alle esperienze
di un passato non troppo lontano.
La storia e, come abbiamo appena detto, la storia
delle idee del novecento mettono a disposizione di chi voglia approfondire la
questione molti materiali che possono essere di grande utilità per la
comprensione del presente.
Ci
riferiamo in particolare al patrimonio di conoscenze che si è accumulato con
l’esperienza iniziata negli anni trenta negli Stati Uniti che va sotto il nome
di “New Deal”.
La rilettura
di quanto è successo ed è stato fatto in quegli anni può aiutarci a comprendere
perché Roosevelt abbia attribuito una importanza cruciale alla questione del
potere nella sua lettura della crisi che era succeduta al crollo di Wall Street
nel 1929.
Può collocare la sua analisi all’interno della
situazione economica del tempo; può farne capire il retroterra culturale, ma
anche politico.
Potremo
in sostanza chiarirci l’intero disegno della sua politica di intervento.
Un progetto che si poneva l’obiettivo di dare
una risposta non temporanea ai problemi di squilibrio tra i poteri presenti
nella società statunitense.
Potremo
approfondire come la logica del New Deal si sia andata consolidando nel tempo e
abbia dato vita ad un’esperienza più complessa:
sia
stata all’origine di quello che sarà chiamato il riformismo.
Un’esperienza
politica e culturale che ha trasformato profondamente il sistema istituzionale
del mondo occidentale ed ha avuto un ruolo cruciale nella creazione del sistema
di Bretton Woods, con le sue regole ed i suoi obiettivi.
Potremo
capire meglio:
a)
cosa è accaduto quando quel mondo si è andato sfaldando negli anni della crisi
petrolifera;
b) il significato delle regole intorno alle
quali si è andato strutturando il sistema internazionale all’inizio degli anni
ottanta;
c) quali sono stati i probabili obiettivi che
si sono posti Reagan e Thatcher nel momento in cui hanno disegnato le nuove regole,
quale è stato il nuovo ordine sociale e internazionale che hanno immaginato,
quali obiettivi in termini di distribuzione del potere tra i paesi, e
all’interno di ciascuno, si sono voluti raggiungere.
Potremo
infine individuare i processi inter-istituzionali che si sono determinati per
effetto delle nuove regole, come sono cambiati gli equilibri di potere che si
erano determinati fino ad allora tra paesi ed all’interno dei paesi e come
questi nuovi equilibri hanno inciso sul funzionamento dei sistemi economici del
mondo occidentale e sulle strutture delle loro democrazie.
1 -La
struttura che abbiamo dato all’esposizione ha seguito la logica della teoria
dei sistemi (...)
Ripercorrendo
con la nostra esposizione la logica della teoria dei sistemi complessi, potremo
riflettere, per concludere, sul ruolo della cultura, del cosiddetto
neoliberismo nel determinare i cambiamenti e la stabilizzazione dei nuovi
equilibri.
Sul
modo in cui si è venuta a costruire una egemonia culturale che ha fatto
apparire indiscutibile, ha fatto diventare senso comune, la coincidenza tra gli
interessi dei soggetti socialmente forti e l’interesse generale.
Come,
in altre parole, la cultura stessa abbia assunto un ruolo essenziale di
strumento di potere.
2.Roosevelt
e il New Deal.
(Si
veda su questo tema la nuova traduzione del libro di Roosevelt riportata in”
Roosevelt, 2018”.)
Con
l’inizio della presidenza Roosevelt, nei primi anni trenta, si è aperta una
stagione che ha inciso profondamente sul funzionamento dell’economia americana
e, col tempo, sul modo di essere dell’intero sistema economico internazionale.
Un
arco di quattro decenni in cui sono andati modificandosi gli equilibri sociali
in tutti i paesi occidentali; in cui la politica non solo ha preceduto la
cultura economica, ma è stata capace di elaborare un radicale cambiamento del
suo ruolo e dei suoi obiettivi rispetto alla prima parte del secolo.
Il futuro presidente degli Stati Uniti, già
durante la sua campagna elettorale, e spesso davanti a un pubblico di
imprenditori, ha reso esplicita la sua diagnosi sulle cause della crisi
apertasi nel 1929.
Secondo
Roosevelt, le difficoltà che il sistema economico e sociale americano stava
incontrando nei primi anni trenta erano legate alla presenza sempre più estesa
di grandi concentrazioni di potere economico;
concentrazioni
che si erano potute tollerare nel momento in cui il paese andava formandosi
come potenza industriale, ma che erano, a suo giudizio, incompatibili con i
valori del sogno americano e il modo in cui questo sogno si era trasformato in
una organizzazione sociale.
In
contraddizione quindi, in primo luogo, con i valori a cui si era ispirata la
costituzione degli Stati Uniti.
Roosevelt ha dedicato tutta la prima parte del
libro che scrisse già nel 1933 a riflettere su questi valori.
Ma in
contraddizione anche con le necessità dello sviluppo economico del paese:
il
concentrarsi del potere in poche mani costituiva infatti, secondo Roosevelt, un
elemento di distorsione tale da impedire il buon funzionamento di un sistema
centrato sul mercato e sulla concorrenza.
3 (Su questo punto si veda anche
Villari, 2014).
Il compito
che derivava alla politica d’intervento da questa analisi era semplice.
Se si voleva dare continuità all’idea di
convivenza civile dei padri fondatori e rimettere in moto il paese dal punto di
vista economico occorreva procedere a uno smantellamento delle concentrazioni
di potere e ad una redistribuzione dello stesso nella società.
Un’analisi
che, a ben vedere, indicava contemporaneamente anche il principale strumento
del New Deal: lo stato e le istituzioni pubbliche.
I
soggetti cioè che, secondo Roosevelt, erano dotati del potere necessario per
realizzare il suo progetto di redistribuzione del potere all’interno del
sistema sociale.
Una
centralità delle istituzioni pubbliche che si accompagnava, sul piano
strettamente operativo, a un atteggiamento di grande pragmatismo.
La combinazione di questi due elementi ha dato
vita ad una politica istituzionale che ha assunto talvolta caratteri
esplicitamente sperimentali ma che ha trovato la sua unitarietà nell’obiettivo
di proteggere le componenti più deboli della società.
Un
obiettivo perseguito sia direttamente attraverso la costruzione di primi
elementi di welfare, sia indirettamente attribuendo alle istituzioni pubbliche
un ruolo di mediazione sociale, sia infine supportando l’attività del
sindacato.
Una
mediazione che di per sé rafforzava le posizioni delle fasce più deboli della
società sul piano contrattuale.
(4
Roosevelt, 2018.)
Una
politica che si è dovuta misurare con le resistenze che venivano dai gruppi
sociali forti, ma che col tempo ha potuto raggiungere i suoi obiettivi, sia
pure con qualche discontinuità, soprattutto grazie all’eccezionale consenso che
quella politica economica è riuscita ad aggregare nella realtà americana.
Un
consenso che si è manifestato in maniera evidente nei tre rinnovi successivi
del mandato presidenziale.
3. Il
retroterra culturale.
(5
Villari, 2014.)
La
politica economica di Roosevelt non nasceva dal nulla.
Si
radicava in un retroterra culturale che la politica aveva fatto proprio e aveva
elaborato sotto la spinta di una crisi finanziaria che stava mettendo a nudo
tutti gli elementi di insensatezza di un modello di sviluppo centrato sulla
finanza.
Una
situazione per molti aspetti simile a quella attuale —e questo non può non
farci pensare alle distanze che ci sono rispetto ai programmi politici attuali—
ma diversa da due punti di vista molto importanti. In primo luogo perché il
contesto politico internazionale era segnato dal consolidarsi dell’esperienza
comunista in Unione Sovietica.
Nessuno
in quegli anni negli Stati Uniti poteva non avvertire la sfida che veniva al
modello economico e sociale americano dal nuovo ordine che si stava affermando
in quel paese.
Una sfida che, rileggendo gli scritti del
tempo, era particolarmente sentita dagli intellettuali che circondavano il
presidente e che avevano elaborato il suo programma politico.
(6 Su questo tema si veda Easley,
1973: 81ss., ma anche de Finetti, 1962 e de Finetti, 1989.)
E, in
secondo luogo, perché la risposta a questa sfida nasceva in un contesto
profondamente cambiato sul piano della cultura;
un
cambiamento che si era avviato nei decenni precedenti e che coinvolgeva i
fondamenti epistemologici del processo scientifico.
La
visione deterministica del mondo all’interno della quale si erano andate
consolidando le due grandi letture del funzionamento dei sistemi economici
—quella marxista e quella del mercato— era stata messa in discussione dalla
svolta di metodo che si era sviluppata all’interno della fisica.
Il mondo si presentava nuovamente troppo
complesso per poter essere ridotto a poche leggi che ne costituivano la
struttura essenziale.
Nel
nuovo ambiente scientifico la ricerca non doveva essere più indirizzata a scoprire
le presunte leggi sottostanti al caos apparente.
Molto
più semplicemente era un modo attraverso il quale lo studioso provava a
costruire schemi (temporanei e parziali) capaci ad aiutarlo a comprendere la
complessità della realtà che studiava.
La distanza tra lo studioso che guardava la
realtà e i «fatti» era di nuovo aumentata.
Un
cambiamento di prospettiva scientifica che, se si guarda ai problemi
nell’ottica della politica economica, creava una grande discontinuità rispetto
al passato.
In
primo luogo perché l’economia, nella nuova lettura, nel momento in cui poneva
al centro la soggettività dello studioso, tornava ad essere scienza
essenzialmente normativa.
Doveva
essere infatti costruita intorno agli obiettivi —e, sullo sfondo, ai valori—
che lo studioso stesso si voleva dare;
in
sostanza, tornava ad essere scienza dei mezzi e dei fini e non solo dei mezzi.
In
secondo luogo perché i vincoli economici non potevano che apparire meno
stringenti.
La
volontà di cambiamento non doveva scontrarsi o essere condizionata
dall’esistenza di leggi economiche assimilabili a quelle naturali;
il
modo di funzionare di un sistema economico era semplicemente espressione di
scelte fatte in passato dagli uomini, che, come tali, potevano essere superate
da altre scelte capaci di indirizzare la costruzione della convivenza civile ed
economica nelle direzioni volute.
(7
Schiattarella, 2019.)
Il
carattere pragmatico della politica economica di Roosevelt va letto, a giudizio
di chi scrive, all’interno di quanto si è appena detto:
come
espressione cioè di qualcosa di più di una componente tradizionale della
cultura anglosassone.
Come punto di arrivo invece di un nuovo
atteggiamento culturale.
(8
Carabelli, Cedrini, 2018.)
(9
Schiattarella, 2019.)
Il New
Deal, da questo punto di vista, è stato da un lato un segnale del consolidarsi
di un diverso clima culturale e, dall’altro, ha funzionato, soprattutto in
campo economico, come una sorta di acceleratore del processo di
metabolizzazione della svolta in atto.
Se
solo attraverso Keynes la collettività scientifica ha preso pienamente
coscienza del mutamento del punto di vista implicito nel nuovo paradigma
metodologico, è verso la fine degli anni trenta, quando cioè si è manifestato
il bisogno di costruire una nuova classe dirigente capace di interpretare e
sviluppare le politiche istituzionali e di intervento del New Deal, che il
pensiero keynesiano ha cominciato ad essere studiato in maniera sistematica in
alcune grandi università americane. Solo in quegli anni queste stesse
università sono diventate i luoghi di aggregazione di una cultura che, con il
tempo, ha teso ad assumere una forma sempre più compiuta.
Una
cultura che, proprio perché centrata su obiettivi e valori, poteva rendere
nuovamente esplicita la questione del potere in una società di mercato.
E lo poteva fare non solo perché considerava
la sua redistribuzione nella società l’asse centrale del progetto di politica
di intervento, ma anche perché proponeva qualcosa di socialmente accettabile e politicamente
spendibile, come è appunto un programma di redistribuzione del potere dalle
aree forti a quelle deboli della società.
Una
cultura che, col tempo, si è andata consolidando fino a prendere la forma di
una nuova lettura dei processi economici, e poi, nel decennio successivo alla
guerra, a trasformarsi in una vera e propria visione del mondo.
Una visione che ha preso il nome di riformismo
economico, non solo per distinguersi da un lato dal sostanziale conservatorismo
della tradizione del liberismo e, dall’altro, dagli elementi di radicalismo
impliciti nell’approccio marxista ed esaltati dall’esperienza sovietica;
ma
anche perché con il termine riformismo si voleva sottolineare la convinzione
che era sempre possibile trovare un modo per far convivere democrazia e mercato.
O, per
essere più precisi, che era sempre possibile plasmare il modo di essere di un
sistema economico per renderlo compatibile, per metterlo al servizio delle
esigenze della democrazia.
4. Il
riformismo.
Il
riformismo nasce da due convinzioni:
la
prima è
che la società che tende a definirsi conformemente alle logiche del mercato non
è né l’unica né la migliore possibile;
la seconda è quella di cui abbiamo appena
parlato, in base alla quale il modo di funzionare dei mercati non crea ostacoli
insormontabili alla costruzione di una società democratica.
E dunque, non solo si può sempre intervenire
sul sistema economico, ma si deve intervenire.
L’obiettivo che si pone il riformismo è
appunto quello di riuscire a costruire un compromesso accettabile, e stabile
nel tempo, tra le regole dell’economia, o per essere più espliciti, tra le
spinte che vengono dal modo di funzionare dei mercati e quelle collegate al
buon funzionamento di una democrazia.
Il
riformismo va visto dunque essenzialmente come un orizzonte culturale e
politico.
Come
un modo di affrontare i problemi dell’economia che non può essere in nessun
caso ridotto all’insieme delle tecniche attraverso le quali questo progetto si
è espresso storicamente.
Come
abbiamo visto, nel riformismo c’è una componente strutturalmente pragmatica,
che non può portare in nessun caso a ricette preconfezionate;
nella
sua logica, al contrario, si può cogliere un invito alla ricerca di sempre
nuove soluzioni tecniche per la politica d’intervento.
È il
bisogno di trovare questo compromesso che rende fondamentale l’esplicitazione
della questione del potere.
Il
problema con cui il progetto riformista si deve misurare è infatti il seguente:
come è possibile evitare che la tendenza alla concentrazione del potere che
accompagna lo sviluppo di una economia di mercato metta in crisi il buon
funzionamento di una democrazia, delle sue istituzioni e, a lungo andare, anche
dello stesso operare del mercato?
(10 Il
potere di definire le regole sul piano internazionale dipende strettamente dal
ruolo politico e ...)
La
politica economica elaborata dal riformismo nel dopoguerra si è posta
ovviamente nella scia di quelle sviluppate da Roosevelt non tanto nel tipo di
interventi attuati —che pure, col tempo, hanno assunto una loro identità
consolidata— quanto nel suo carattere sperimentale.
Questo
non significa che non possano essere individuati dei tratti che identificano il
riformismo.
Il primo elemento caratterizzante è, a
giudizio di chi scrive, il ruolo attribuito ai valori come elementi di
riferimento delle scelte economiche.
Sono i valori della democrazia quelli che
devono guidare queste scelte.
Il secondo è l’importanza che viene data alla
questione del potere.
Due
elementi che hanno portato il riformismo a identificare lo stato come il
soggetto cruciale del suo progetto di convivenza civile, di civiltà possibile.
Lo
stato infatti, in quella visione, è l’unica istituzione che ha le due
caratteristiche necessarie per affrontare i problemi con i quali si deve
misurare il riformismo: può rappresentare un’idea di interesse generale diversa
e più complessa di quella proposta più o meno implicitamente dal mercato;
e ha
gli strumenti per intervenire con successo sulla distribuzione del potere
all’interno della società, perché, come abbiamo già sottolineato, è esso stesso
dotato di potere.
È
attraverso la creazione di istituzioni pubbliche con compiti di mediazione tra
interessi diversi e riequilibrio dei rapporti di forza che si possono
riaffermare i valori che una società vuol prendere a riferimento, e si può,
contemporaneamente, mantenere nella società una distribuzione diffusa del
potere.
È
attraverso le istituzioni pubbliche che si possono sostenere le componenti
deboli di una società, si può impedire che gli interessi delle aree sociali
forti alterino gli equilibri a loro favore, si può evitare infine che il
crearsi di posizioni di potere dia vita a processi cumulativi pericolosi dal
punto di vista del funzionamento della democrazia, ma anche della stessa
crescita di lungo periodo.
5.Il
riformismo e l’organizzazione del sistema economico internazionale.
La
questione del potere assume un ruolo ancora più centrale nel momento in cui ci
si occupa del modo di funzionare del sistema economico internazionale.
Le regole intorno alle quali si organizzano
questi sistemi finiscono con l’essere considerate come un dato sostanzialmente
indiscutibile, soprattutto quando la memoria delle loro origini diminuisce.
Col tempo, le regole appaiono ai più
un’espressione di decisioni sostanzialmente tecniche;
si
tende a dimenticare il fatto che le regole cambiano nel tempo, e i sistemi di
regole sono molto diversi tra loro; e che ci sono periodi di mancanza di
regole, o almeno in cui le regole condivise sono relativamente poche.
Il
modo in cui si è sviluppato il dibattito in Italia in questi ultimi anni —e
ancor di più negli ultimi mesi— sui rapporti con l’Europa è significativo di
questa mancanza di consapevolezza.
(11
Sulla questione delle regole si è soffermato Schumpeter nella sua opera più
famosa, Storia dell’an ...)
Sono
proprio gli accordi di Bretton Woods, quelli pensati dalla cultura del
riformismo, che possono farci comprendere come le regole, in particolare quelle
internazionali, debbano essere viste piuttosto come la materializzazione di
progetti politici costruiti in funzione di interessi e di equilibri di potere
interni ed internazionali.
Regole
delle quali la politica economica deve tener conto, almeno nel breve periodo,
perché definiscono l’area all’interno della quale la politica d’intervento di
un paese può muoversi;
senza
mai dimenticare tuttavia che esse sono espressione di decisioni politiche prese
in passato in funzione di situazioni diverse e con obiettivi specifici e che,
proprio per questo motivo, possono essere modificate o quanto meno ridiscusse.
Il
fatto che questi accordi siano stati pensati nel 1944, quando cioè l’esito
della guerra era ormai evidente, ci dice in primo luogo che sono i paesi più
forti che disegnano, attraverso le regole, il quadro di riferimento.
Gli
Stati Uniti e la Gran Bretagna le avevano pensate in funzione di due esigenze:
quella di mantenere al centro del sistema internazionale le loro economie,
traendone evidentemente un qualche vantaggio.
E quella di disegnare un mondo politicamente
inclusivo, capace di aggregare un blocco di paesi coeso che fosse in grado di
rispondere alla sfida che veniva dal mondo comunista, non solo sul piano della
crescita ma anche su quello della giustizia sociale all’interno dei paesi.
(12
Carabelli, Cedrini, 2011.)
(13
Carabelli, Cedrini, 2014.)
È
avendo in mente questo obiettivo che occorre guardare a come il sistema di
Bretton Woods ha affrontato e risolto il problema centrale di ogni sistema
internazionale:
quello dei margini di autonomia che devono
essere lasciati a ciascun paese, senza che questa autonomia costituisca una
minaccia per la stabilità del sistema nel suo insieme.
Nel
1944 Keynes ebbe facile gioco a imporre regole che lasciavano ai singoli paesi
ampi spazi di scelta nelle politiche economiche.
Ampi
spazi che, nella visione dell’economista inglese, erano indispensabili per
tutelare le diversità tra i paesi e per lasciare maggiori possibilità alle
politiche nazionali di perseguire progetti sociali diversi tra loro, sia pure
all’interno di un quadro di regole comuni.
Per
lasciare alle classi dirigenti nazionali, in altre parole, lo spazio necessario
per il governo di una democrazia.
Uno
spazio che veniva bilanciato dalla creazione del Fondo Monetario e della Banca
Mondiale, istituzioni di indirizzo, salvaguardia e controllo del sistema
internazionale, che, almeno nelle intenzioni di Keynes, dovevano intervenire,
in una logica di rafforzamento della coesione tra paesi, a sostegno di quelli
deboli, agendo dunque come correttivi dei rapporti di forza esistenti.
Quello
che ci raccontano gli accordi di Bretton Woods e il modo in cui ci si è
arrivati —il dibattito che si ebbe è ormai ampiamente noto— è un’idea di
distribuzione del potere sul piano internazionale coerente con gli interessi
politici degli Usa (e della Gran Bretagna) di quegli anni, ma anche generosa
verso l’insieme dei paesi del mondo occidentale, e in particolare verso quelli
più deboli.
Coerentemente
peraltro con una cultura che considerava le regole della democrazia,
dell’inclusione di tutti i membri di una collettività, come la parte
fondamentale del compromesso riformista.
(14
Nel dopoguerra il PIL Degli Stati Uniti costituiva quasi il 50% del PIL
mondiale. Alla fine degli ...)
Come
tutti i sistemi di regole, anche quello di Bretton Woods ha finito col tempo
col non riuscire a svolgere il compito per cui era stato costruito, col non
rispondere più alle esigenze dei paesi che l’avevano costruito.
È
difficile riassumere le cause tecniche e politiche che hanno impedito a quel
mondo di continuare a funzionare.
Tutte
queste cause sono comunque riconducibili al fatto che, col tempo, il contesto
internazionale in cui quegli accordi erano nati era andato cambiando, così come
erano mutati i rapporti di forza tra i paesi.
La
Gran Bretagna prima e gli stessi Stati Uniti poi avevano perso terreno rispetto
alle altre economie europee, e soprattutto rispetto al Giappone.
In particolare, due erano gli elementi di
novità importanti:
il
primo era
che il peso dell’economia USA nel sistema internazionale si era molto
ridimensionato;
il
secondo era
che la sfida che veniva al modello sociale occidentale dal mondo comunista, che
tanto era stata influente nel determinare le regole di Bretton Woods, stava
diventando molto meno importante sul piano politico.
6.Il
nuovo modo di organizzarsi dello sviluppo.
Il
cambiamento del contesto internazionale, diventato molto più policentrico
rispetto al dopoguerra, ha spinto gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) a
ripensare le regole e a tentare di costruire nuovi equilibri, sia politici sia
economici.
Ciò è avvenuto all’inizio degli anni ottanta
con Reagan e Thatcher, che hanno ridisegnato il sistema internazionale e gli
equilibri sociali all’interno dei paesi, secondo un progetto che può essere
visto come espressione, da un lato, della volontà di rilanciare la centralità
dei due paesi nel sistema economico, e dall’altro, di costruire società
organizzate dal mercato e per il mercato.
Un
progetto pensato quindi intorno a valori profondamente diversi da quelli del
dopoguerra e che si poneva un obiettivo sostanzialmente opposto.
L’obiettivo
era quello, più in particolare, di mettere in moto una redistribuzione del
potere a favore dei paesi anglosassoni e, sul piano interno, di ridisegnare gli
equilibri sociali spostandoli a vantaggio dei gruppi più forti.
Quella che è stata fatta da Reagan e Thatcher è stata
una scommessa sulle capacità del capitalismo —finanziario— di garantire il
predominio economico di Stati Uniti e Gran Bretagna nel lungo periodo;
ma anche, contemporaneamente, la messa in moto
di meccanismi di redistribuzione del potere attraverso nuove regole e un
radicale ripensamento delle istituzioni, o almeno del loro ruolo, all’interno
del funzionamento del sistema economico.
Questo
nuovo modo di essere si è consolidato intorno ad una cultura anch’essa nuova
—individuata inizialmente con l’espressione “Washington Consensus”, e più in generale col termine neoliberismo— che ha trasformato profondamente la
logica delle politiche di intervento.
È
(stata) la fine della stagione del riformismo.
Una
fine segnata da due cambiamenti importanti:
da una
inversione di ruoli tra stato e mercato, che ha spostato quest’ultimo, e in
particolare i mercati finanziari, al centro dei sistemi economici;
dalla drastica riduzione degli spazi di
autonomia delle politiche economiche nazionali.
I mercati finanziari, che il riformismo aveva
fortemente regolamentato proprio per garantire maggiore autonomia agli stati
nazionali dal punto di vista della politica d’intervento, sono tornati al
centro del sistema economico diventando, con le nuove regole, i tutori del
nuovo ordine internazionale.
Attraverso la regola della libertà dei
movimenti di capitali sono i mercati finanziari, con le loro istituzioni, che
controllano nel nuovo contesto l’operare dello stato, e non più viceversa.
Il
processo di redistribuzione del potere che si è realizzato è strettamente
collegato al cambiamento dei rapporti tra stato e mercato.
E, più
in particolare, ai cambiamenti indotti attraverso:
a) il ridisegnarsi dei compiti
attribuiti alle Banche centrali, che hanno rafforzato gli elementi di autonomia dalla
politica nelle scelte fatte da queste istituzioni, un’autonomia che si è
trasformata in nuovi vincoli al finanziamento della spesa pubblica;
b) lo svilupparsi di politiche di
privatizzazione che, sollecitate dalle istituzioni internazionali, sono state nei fatti
imposte soprattutto ai paesi più deboli.
Una
redistribuzione che ha trovato il suo retroterra culturale nella
delegittimazione del ruolo dello stato, costruita attraverso una cultura che lo
ha rappresentato con gli occhi e attraverso i valori del mercato.
In
questa lettura, lo stato non è più visto come il soggetto che tutela i diritti,
come il portatore dell’interesse generale;
viene invece rappresentato come il luogo
dell’inefficienza (burocrazia), della sopraffazione fiscale e della corruzione.
(15
Stefano Rodotà (2011) parla da un lato di de-costituzionalizzazione per
indicare la spinta che è p ...)
È
significativo che in questo nuovo contesto culturale la questione del potere
scompaia nelle analisi degli economisti (ma non solo), così come la sua
redistribuzione a favore dei gruppi sociali forti venga nascosta dietro i miti,
tra loro connessi, dell’efficienza e dello sviluppo del reddito.
Scompare per un motivo che è facilmente
intuibile.
Le
scelte che ne conseguono sono difficili da presentare, sono poco spendibili
politicamente e socialmente.
Vanno
dunque rielaborate sul piano culturale per renderle accettabili.
Ed è
attraverso la cultura che si riesce ad evitare che si sviluppino politiche
volte a contrastare le situazioni di asimmetria di potere e i processi
cumulativi che si vengono a creare all’interno di una società di mercato.
Una
cultura che considera sbagliato ogni tentativo di correzione di queste
asimmetrie, in nome della modernità.
Una
modernità che viene chiamata in causa anche allo scopo di far considerare le
resistenze al cambiamento che vengono dai gruppi sociali più deboli come
espressioni di una visione conservatrice della società.
Il
nuovo riformismo si sviluppa lungo una linea il cui significato è abbastanza
facile da cogliere.
Il suo obiettivo, in ultima analisi, è quello
di mettere in discussione, prima, e smantellare poi, tutte le istituzioni di
mediazione sociale, e più in generale i corpi intermedi della democrazia creati
dal riformismo, facendoli apparire più come ostacoli che come strumenti in
vista del raggiungimento di un interesse generale.
Un
interesse generale, si badi bene, che non è più definito dalla società ma dal
mercato e quindi che ha dietro di sé altri valori.
Presentando
l’attività di questi corpi intermedi come un ostacolo —i famosi lacci e
laccioli— al pieno e benefico dispiegarsi del mercato stesso.
Un
tipo di narrazione che avrebbe scarse possibilità di successo se non si fosse
prima fatta scomparire dall’agenda degli studiosi di economia la questione del
potere.
7. I
processi di accumulazione in una economia finanziarizzata.
(16
Sulla questione dei cambiamenti in atto nel modo di funzionare di un
capitalismo finanziario, si v ...)
17 Su
questo tema, e in riferimento alla specifica esperienza del nostro paese, si
veda De Bernardi, ...)
18 È
emblematico del cambiamento dei soggetti di riferimento dell’accumulazione il
fatto che l’impren
...)
Il
cambiamento delle regole, così come la centralità dei mercati finanziari, ha
modificato profondamente il modo di funzionare dei sistemi economici.
I
processi di accumulazione, in questo nuovo contesto, sono mossi da logiche che
tendono ad accentuare la redistribuzione del potere all’interno della società.
Una
redistribuzione legittimata da un cambiamento dell’idea di interesse generale:
l’obiettivo
della politica d’intervento e, più in generale, delle istituzioni pubbliche,
non è più quello dell’alto livello di occupazione.
Un
obiettivo reso più difficile da perseguire anche da un mondo produttivo
differente, non più segnato dal fordismo.
Ma un
mondo diverso anche e forse soprattutto perché gli attori sociali che mettono
in moto i processi di accumulazione e li governano non sono più gli stessi.
È il
capitalista, inteso come colui che possiede i capitali, la nuova figura chiave;
è il
perseguimento dei suoi obiettivi che muove i processi economici.
Un
obiettivo che non è più quello del profitto, ma quello dell’aumento dei valori
patrimoniali.
Tutte
le sue iniziative sono collegate alla volontà di far aumentare i valori
patrimoniali.
Un
cambiamento che sposta il cuore del sistema economico dal mondo della
produzione verso il luogo dove i capitali si valorizzano, cioè i mercati
finanziari.
Mercati
in continua espansione anche per effetto dell’estendersi continuo delle
posizioni debitorie e creditorie —pubbliche o private— che accompagnano questo
processo a livello internazionale.
Questo
spostamento ha avuto ed ha effetti rilevanti sul piano della distribuzione
geografica della produzione, ma anche su quello sociale.
In
primo luogo perché ha cambiato l’orizzonte temporale delle scelte economiche.
In un
mondo dominato dalla finanza l’orizzonte è molto più breve rispetto a quello di
un sistema centrato sulla produzione.
Chi
possiede capitali non è sostanzialmente interessato agli effetti di lungo
periodo delle proprie scelte.
Ciò
che è rilevante dal suo punto di vista è quanto accade nell’immediato e come
questo cambia i valori patrimoniali.
Un
modo di guardare alla realtà che ha tre conseguenze.
La prima è che i processi economici —e quindi
anche quelli di redistribuzione del potere— risultano più accelerati.
Tutti
i cambiamenti si realizzano in tempi più brevi.
La seconda è che aumentano le distanze tra i
tempi dell’economia e quelli delle società.
Quest’ultima
ha come orizzonte temporale quello delle generazioni;
la
finanza quello dei mesi, se non dei giorni.
La
terza è che i processi che si attivano in un sistema con forte presenza della
finanza tendono ad alterare profondamente gli equilibri sociali, ma lo fanno in
una maniera che non è immediatamente percepibile dalla società stessa.
In un sistema centrato sulla produzione,
infatti, la crescita dei profitti trova un limite nella consapevolezza degli
imprenditori che maggiori profitti implicano una minore retribuzione del
lavoro, almeno nel breve periodo, e dunque che ogni spinta all’aumento dei
profitti genera tensioni crescenti all’interno dell’impresa e nella società.
Nel
caso invece di processi centrati sulla crescita dei valori patrimoniali, questa
può avvenire senza ostacoli immediati o almeno avvertibili sul piano sociale.
La dimensione sociale dei processi economici
diventa evanescente nel mondo della finanza.
Il
mondo del lavoro e quello della finanza si muovono su dimensioni apparentemente
diverse.
(19fr.
Leon, 2014.
20 La
politica seguita da molte imprese di cambiare relativamente spesso i manager,
gli imprenditori, ...)
Ma
questa diversità scompare nel momento in cui si guarda a questi processi in
termini di potere.
Ponendosi
da questo punto di vista si può vedere che la dimensione del potere è molto più
presente nel mondo della finanza.
Ogni
crescita economica mossa dal desiderio di accumulare ricchezza si traduce
infatti in una concentrazione di potere all’interno della società che, a sua
volta, crea le premesse per l’accumulazione di altro potere e di altra
ricchezza.
In
altre parole: più un soggetto è in grado di accumulare potere e ricchezza, più
sarà in condizione di accumularne altra.
Quello
che si vuol sottolineare è che nel capitalismo finanziario vi è una tendenza
strutturale alla concentrazione del potere molto più forte di quella che si può
rilevare nel capitalismo industriale.
Più forte e anche tendenzialmente senza fine.
Nessun livello dei valori patrimoniali, nessun
livello di potere raggiunto può essere infatti considerato punto di arrivo
stabile, se si è in un contesto oligopolistico:
in un contesto in cui altri centri di potere e
ricchezza si stanno muovendo con lo stesso obiettivo.
L’attuale
modo di essere dello sviluppo tende, in altre parole, a forzare continuamente
le situazioni, a renderle perennemente instabili in un processo che non conosce
soste e che tende a divaricare le posizioni all’interno della società, anche
perché stravolge continuamente i rapporti di potere.
Incide
su una società che ha difficoltà a capire il significato di quello che sta
avvenendo e a reagire a questi cambiamenti.
(21 Per rappresentare plasticamente il
cambiamento di prospettiva che si ha nel capitalismo finanziari ...)
Un
aumento del valore del capitale (o una sua diminuzione), può essere utile
ripeterlo, non cambia di per sé la condizione del lavoro nell’immediato;
quello
che fa è incidere sulla distribuzione del potere nella società, e di
conseguenza sui rapporti di forza;
crea
dunque le condizioni per una divaricazione sempre più accentuata tra gruppi
sociali forti e deboli.
Una
divaricazione di cui si perde il senso se non si guarda al potere come una
delle dimensioni dell’economia.
8. La
politica cambia il suo ruolo.
Nel
mondo disegnato dagli accordi di Bretton Woods la politica disponeva di molti
strumenti per gestire gli equilibri sociali;
aveva
in primo luogo il ruolo di mediatore tra gli interessi contrapposti presenti
nella società.
Un’attività
di mediazione che, al di là dei singoli programmi politici, nel momento in cui
si traduceva nei fatti in un rafforzamento della capacità contrattuale dei
gruppi economicamente più deboli, attribuiva alla politica una legittimità
sociale.
Con il
cambiamento delle regole che si è avuto nei primi anni ottanta, il quadro si è
modificato profondamente.
E si è modificata anche la distribuzione del potere.
Il
fatto che si siano ristretti gli orizzonti sui quali la politica poteva
intervenire, ha finito col restringere lo spazio di decisione della politica
nazionale spostandolo a favore delle istituzioni internazionali pubbliche, come
il Fondo Monetario o la Banca Mondiale, o private come le società di rating o
gli stessi mercati finanziari.
Minori
spazi di intervento per la politica, ma anche minore capacità di intervenire
visto il de-potenziamento del ruolo dello stato che ha privato la politica del
suo principale strumento.
(22 La
convinzione di una parte non trascurabile della letteratura economica è che un
governo diventa ...)
Minore
capacità infine di legittimazione a livello sociale.
Per
una questione culturale e per problemi sostanziali.
Sul
piano della legittimazione, l’egemonia della nuova cultura del mercato ha
finito con l’assimilare il ruolo della politica a quello (negativo) dello stato.
Sul piano sostanziale, la politica non poteva
sperare di mantenere la sua capacità di consenso all’interno di una
collettività, quella dei cittadini, quando la sua azione non può che essere
finalizzata a ottenere il consenso di un’altra collettività, quella delle
istituzioni internazionali pubbliche o private.
E non
lo può sperare perché la necessità di omologarsi alle indicazioni che vengono
dal contesto internazionale tenderà necessariamente ad appiattire ogni
diversità di proposta tra i diversi gruppi politici, ma anche perché dietro le
istituzioni internazionali c’è un’idea di interesse generale che coincide con
il buon funzionamento del mercato.
Un’idea
di interesse generale che non può coincidere —e non deve coincidere— con quella
dei cittadini che hanno come riferimento evidentemente le costituzioni.
Una
situazione che, evidentemente, apre un problema strutturale nel funzionamento
della democrazia.
Un
problema che la politica ha cercato di superare cercando il consenso attraverso
narrazioni sempre meno legate alla realtà.
Lanciando in questo modo un processo continuo
di creazione di aspettative e disinganni che, col tempo, ha annientato ogni
credibilità dei partiti e della politica stessa.
Per
riassumere, le nuove regole che si sono andate consolidando verso la fine del
secolo scorso hanno determinato uno spostamento del potere decisionale dalla
politica (nazionale), e quindi anche dai cittadini, al contesto internazionale
ed al mercato finanziario.
Uno spostamento che ha indebolito le democrazie dando
vita a fenomeni di degrado politico che sono in atto in tutti i paesi.
E che,
parallelamente, ha determinato lo sviluppo di grandi aggregazioni economiche e
di potere.
Questi
due fenomeni non possono non far pensare che, col tempo, la politica finisca
con lo schiacciare le proprie posizioni su quelle degli affari, fino a
diventare essa stessa uno strumento della redistribuzione inegualitaria del
potere.
Mettendo
in questo caso a rischio la stessa sopravvivenza delle democrazie, almeno
quelle che abbiamo conosciuto negli ultimi settanta anni.
9.Le
regole europee.
Nel
dopoguerra le classi dirigenti europee si erano servite della dimensione
economica per costruire un processo che voleva essere essenzialmente politico.
Ciò che aveva spinto nella direzione di un
Europa politica era la coscienza da un lato degli esiti catastrofici di due
guerre, e dall’altro dell’esistenza di squilibri strutturali nel sistema
economico europeo che si manifestavano anche nella storica contrapposizione tra
Francia e Germania.
Di
fronte a una Germania forte sul piano economico, spettava alla dimensione
politica il compito di trovare le strade per governare uno squilibrio che era
stato causa di due guerre.
Non è un caso che siano stati proprio i politici
tedeschi a spingere nella direzione di maggiore unità politica a livello
europeo, almeno fino alla metà degli anni ottanta.
Il
momento di discontinuità in questo progetto perseguito per quasi quarant’anni
si è avuto con il trattato istitutivo dell’euro.
E ciò
non solo perché questo patto è nato in collegamento con l’unificazione tedesca
—che ha rafforzato gli elementi di squilibrio potenziale tra i paesi europei—
ma soprattutto perché questo patto è stato elaborato all’interno del nuovo
contesto di regole internazionali e di un altrettanto nuovo ambiente culturale.
Un
ambiente che, come abbiamo visto, schiacciando la politica sugli interessi del
mercato, ha teso in generale a farle perdere autonomia e qualità;
in fin dei conti, a cambiarle ruolo.
In
qualche modo, con l’istituzione della moneta unica il tradizionale rapporto tra
economia e politica del dopoguerra si è invertito.
Lo
spessore della politica europea è venuto meno proprio nel momento in cui
avrebbe dovuto giocare un ruolo più importante.
Da una
fase storica in cui la politica ha usato gli interessi economici per creare una
convergenza tra popoli che erano appena usciti dalla stagione dei nazionalismi,
si è passati ad un’altra in cui il mercato, e probabilmente gli interessi dei
grandi gruppi economici e finanziari, hanno assunto un ruolo non trascurabile
nel dettare l’agenda alla politica.
La
coscienza della necessità di un riequilibrio politico tra paesi differenti, che
pure era stata un elemento fondante della politica tedesca del dopoguerra, si
disperde sotto la pressione della difesa degli interessi economici nazionali, e
viene nascosta nel mare dei tecnicismi delle regole europee.
(23
Federico Caffè ha più volte sottolineato, soprattutto nella sua attività
pubblicistica, i rischi d ...)
(24
Caffè, nei suoi scritti, ha messo in evidenza come la convergenza economica con
un paese economica ...)
Lo
spazio della politica, già ridotto dalle regole internazionali, si riduce
ulteriormente in paesi come l’Italia che hanno un problema di alto debito
pubblico.
Le
possibilità per questi paesi di tutelare i propri equilibri politico-sociali si
riducono enormemente.
E senza la mediazione della politica, in un’Europa in
cui la voce del mercato è quella più forte, non possono che ripresentarsi gli
stessi squilibri dell’anteguerra, ovviamente sotto una forma nuova.
Si
presentano tutti quei problemi dei quali aveva parlato in maniera lungimirante
Federico Caffè.
Quelli
determinati da regole che, facendo perno sul mercato, rendono la convivenza tra
realtà profondamente diverse —e destinate a rimanere tali per lungo tempo— di
difficile sostenibilità nel lungo periodo.
Al
tentativo del dopoguerra di governare le diversità delle esperienze nazionali
attraverso una politica europea consapevole di queste diversità, ma anche della
sua responsabilità nel disegnare i processi di convergenza, si è sostituita una politica che ha
delegato al mercato il compito di stabilire le regole di convivenza.
Alla
logica della contaminazione e della solidarietà tra diversi si è sostituita la
logica della competizione, che non poteva se non sancire la fine di un progetto
politico comune.
In un
contesto europeo in cui la diversità è tornata ad apparire inadeguatezza, in
cui è semplicemente scomparsa dall’agenda della riflessione la questione del
potere, in cui quindi è stata messa in discussione la stessa idea di
solidarietà tra diversi, non sorprende che col tempo si sia andato perdendo
ogni interesse a cercare percorsi politici di convergenza.
10.Cultura
ed immaginario nei sistemi economici.
(25 Si
veda, a questo proposito, oltre a quanto si è già detto nella nota 1, Lane, Van
der Leeuw, Puma ...)
Secondo
D. Lane, un sistema sociale complesso —come è certamente quello
economico-sociale— ha bisogno di un immaginario condiviso per poter rimanere
stabile nel tempo;
un
immaginario capace di far convergere i comportamenti dei soggetti e le scelte
delle istituzioni nelle direzioni necessarie a rafforzare la struttura interna
del sistema stesso.
Ogni
distribuzione del potere nella società ha bisogno, in altre parole, di una
cultura che la giustifichi, la faccia apparire legittima.
Ovviamente
ci sono molte affermazioni nella cultura economica del mercato che possono
essere considerate tasselli fondamentali intorno ai quali si è costruito
l’immaginario collettivo degli ultimi decenni e si sono poste le basi per il
buon funzionamento dell’attuale modello di sviluppo.
Ma ce
n’è una che riassume in sé in maniera quasi emblematica quanto un’egemonia
culturale possa plasmare il senso comune:
quella
secondo la quale tutelare gli interessi delle imprese vuol dire creare le
condizioni che possono garantire il benessere per tutta la società.
Si tratta di un’affermazione che sicuramente
riavvicina il sentire di chi opera sui mercati alla teoria economica e dunque è
comprensibile che abbia avuto e abbia una certa presa almeno su una parte della
società.
Dopo
gli anni del keynesismo e della cultura macroeconomica, con l’affermarsi
dell’idea che ciò che va bene all’impresa va bene per tutti, la cultura del
mercato riesce a realizzare due cose:
ritrova
la sua base sociale e si riappropria della teoria economica, definendo una
visione dell’economia che per un verso si dà una veste scientifica, o in ogni
caso inserisce i comportamenti, i valori e gli obiettivi che caratterizzano il
funzionamento dei mercati in un contesto più generale;
per
l’altro, li trasforma in categorie di analisi e, in questo modo, finisce col
renderli legittimi.
Ma è
proprio questo tentativo di porsi come analisi scientifica che fa emergere in
maniera trasparente il carattere di parte di questa lettura dell’economia.
In primo luogo perché è una lettura che fa
esplicitamente coincidere l’interesse di una sezione della società, la
componente forte, con l’interesse generale;
e, in
secondo luogo perché, per arrivare a questo risultato, compie un’operazione
palesemente stravagante: l’inversione tra mezzi e fini.
In
questa lettura, infatti, l’impresa cessa di essere uno strumento di cui dispone
la società per assicurarsi condizioni di benessere collettivo, e si trasforma
in un fine in sé.
L’intero
processo logico attraverso il quale si arriva a far coincidere gli interessi
dell’impresa con quello generale rende evidenti tutte le ambiguità implicite in
un progetto scientifico che tende alla riduzione della complessità.
Una
semplificazione che spesso è un modo per escludere dall’analisi tutto ciò che
si vuole ignorare.
La
prima semplificazione consiste nel far coincidere il benessere con quello
economico, con la crescita del reddito, che diventa in questo modo l’unico
obiettivo rilevante per la politica d’intervento.
Un
unico obiettivo che, come osserva Besset, nel lungo periodo può essere
incompatibile con l’esistenza stessa di una democrazia.
La seconda semplificazione consiste nell’affermare che
il successo di un’impresa genera automaticamente la crescita del sistema.
Un’affermazione
semplicemente inconsistente: il risultato finale dipenderà evidentemente da
quel che succede alle altre imprese del sistema.
La terza semplificazione consiste nel far
credere che l’«impresa» sia un organismo unitario, privo di articolazioni al
suo interno.
Si
valutano come irrilevanti, in altre parole, i conflitti di interesse e di
potere.
Quando
si dice «ciò che va bene all’impresa», in realtà si sta dicendo «ciò che va
bene a chi governa l’impresa» va bene per tutti.
La quarta semplificazione consiste nel
considerare la competizione (implicita nell’idea di impresa) l’unico modo in
cui si migliora il benessere.
La
quinta semplificazione consiste nel far credere che la competizione a cui si fa
riferimento sia una competizione tra eguali, o almeno tra potenzialmente
eguali, in cui quindi tutti hanno le stesse possibilità di vincere.
Ogni dato strutturale che può sottolineare le
diseguaglianze esistenti è dimenticato;
le
differenze di storia, nei punti di partenza, nel potere, nei contesti culturali
non vengono semplicemente prese in considerazione.
La
competizione non è il modo in cui chi ha vantaggi di qualche natura può
consolidarli mettendo in moto processi cumulativi;
è
invece il modo in cui riescono a emergere i più capaci a scapito di quelli che
lo sono meno.
È il
modo in cui un sistema socio-economico tende a migliorare costantemente sé
stesso.
(26 -O
meglio, lo sono le sue imprese; o meglio ancora, lo sono i sistemi
socio-economici che non metto ...)
Una chiave
di lettura suggestiva, ma che indica nel sistema nazionale che non «vince» il
solo responsabile del suo insuccesso.
Con
una conclusione di policy neanche troppo implicita.
Per
vincere bisogna essere eguali ai vincitori.
Cioè,
bisogna fare qualcosa che è impossibile fare, se non con i tempi della storia.
Un
problema che, se lo si guarda dal punto di vista dei vincitori, fa diventare la
diversità un demerito.
E la
vittoria un merito.
Dimenticando
che un mondo centrato sulla competizione, e quindi con vincitori e vinti, è un
mondo che accumula tensioni tra i centri di potere economici e politici;
un
mondo nel quale si genera una redistribuzione di risorse e di potere con pochi
vincitori (si dice, per merito) e molti vinti (per demerito, anche se
l’allusione è fatta in maniera più o meno sommessa) sia sul piano sociale,
ossia all’interno dei paesi, sia tra questi medesimi, e quindi a livello
internazionale.
Una
conflittualità che, se si guarda di nuovo alla storia, quasi mai è rimasta a
lungo sul solo piano economico e a livello latente.
L'irresistibile
ascesa di Mario
Draghi
pilotata
dalla grande
finanza
imperialista
internazionale
e dalla massoneria.
Pmli.it
– Redazione – (10-2-2021) – ci dice:
Mario
Draghi nasce nel 1947 a Roma.
Frequenta
il liceo dei gesuiti Massimo, suo compagno di scuola è il futuro presidente
della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo.
Negli
anni '70, all'università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si
laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica.
Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un
Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT) su
segnalazione di Franco Modigliani e ha come professore, fra gli altri, Stanley
Fischer, futuro governatore della nazi-sionista Bank of Israel.
Gli Usa la sua seconda patria.
Gli
Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire
la City.
Dal
1975 al 1978 è professore incaricato prima di Politica economica e finanziaria
all’università di Trento, poi di Macroeconomia a Padova ed Economia matematica
alla Ca' Foscari di Venezia, quindi di Economia e Politica monetaria e di
Economia internazionale alla Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri
dell'Università di Firenze ove, dal 1981 al 1991, è professore ordinario di
Economia e politica monetaria.
Alla
fine degli anni '80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere
economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a
rappresentare l'Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale.
Draghi
comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.
Nel
'90 è consulente proprio della Banca d'Italia con Ciampi governatore.
Alla Banca d'Italia lavorava anche il padre di
Draghi, Carlo, all'epoca di Donato Menichella.
Tra il
1984 e il 1990 è Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, è membro dal 1998
del Board of Trustees dell'Institute for Advanced Study (Università di
Princeton) e, dal 2003, della Brookings Institution.
Nel
1991 diventa direttore generale del Tesoro.
Fino
ad allora un incarico poco ambito, ma Draghi riesce a trasformare
quell'incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario
del Paese.
Negli
stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché
presidente di “Gestione Sace”.
Dal
'91 al '96 è nel CdA dell'IMI e dal '93 presiede il Comitato per le
privatizzazioni.
Dal
'94 al '98 è presidente del “G10 Deputies”.
Al
nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che
passa alla storia, appunto, come Legge Draghi.
Una
legge che contiene le nuove regole sull'Opa.
Le sue responsabilità nella svendita e
privatizzazione delle partecipazioni statali
In
sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo
dell'industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di
governi che si sono succeduti:
dal
governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi,
Berlusconi, Dini, Prodi, D'Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.
Una
chiave di volta della sua inarrestabile carriera sembra essere il 2 giugno del
1992 quando Draghi partecipa a una "crociera" sul lussuoso yatch
"Britannia" della regina Elisabetta d'Inghilterra che incrocia a
largo di Civitavecchia.
Tra i
passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell'alta
finanza "giudaico-anglosassone", Barings, Barchlay's e Warburg, il
banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l'Italia, Mario Draghi,
Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro
Barucci.
Si
dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che
doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle
partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione.
Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a
distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza.
Fatto
sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che
porta a una svalutazione della lira del 30% e al prosciugamento della riserva
della Banca d'Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.
Una crisi che portò anche allo scioglimento
del Sistema Monetario Europeo (SME).
E subito
dopo si apre la stagione delle privatizzazioni selvagge, di cui egli è accanito
sostenitore:
da Eni
a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl.
Passano
in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi
dell'energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani,
Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre
aziende dei settori strategici.
A
governare lo smantellamento dell'Iri c'è Prodi col quale Draghi vanta un'antica
amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi
economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.
Sono
tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale,
che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico necessario a superare le
resistenze in Europa all'entrata dell'Italia nell'euro nel gruppo di testa.
Vicepresidente della banca d'affari Goldman Sachs in
Europa
La
lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001,
quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.
Draghi
lascia via XX Settembre e torna a insegnare negli Stati Uniti.
Dopo
soli 5 mesi, nel 2002 entra in una delle più grandi banche d'affari del mondo,
Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l'Europa.
Un
altro clamoroso caso di conflitto d'interesse.
Nel
curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat
da parte della Telecom che l'aveva appena ceduta.
O del fatto che si è reso conto dell'affare
"Telekom Serbia" solo quattro mesi dopo che l'operazione era stata
conclusa.
O
della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire
dell'intero patrimonio immobiliare dell'Eni appena un anno prima, nel dicembre
2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della stessa banca
d'affari.
Nel
1994 il Tesoro siglò un accordo quadro con la banca d'affari Usa Morgan Stanley
che prevedeva una clausola capestro che avrebbe permesso all’istituto
finanziario di New York di chiudere unilateralmente i contratti sui derivati.
Morgan
Stanley la esercitò nel 2011, in piena tempesta finanziaria per l’Italia, ed
ottenne dal governo della macelleria sociale Monti il pagamento di 3 miliardi
di euro di interessi sui titoli derivati, proprio in quegli anni il figlio di
Draghi, Giacomo, faceva carriera nella banca in questione, un ringraziamento
nei confronti di Mario che tanto aveva voluto quell'accordo?
Presidente della Banca d'Italia.
Dunque
Draghi, come tanti altri personaggi, si pensi a Siniscalco e Grilli, ha diretto
l’acquisizione da parte della Repubblica italiana di titoli speculativi che
hanno arricchito le banche d'affari e impoverito le casse dello Stato, in
particolare i famigerati “derivati”, titoli tossici diventati tristemente il
simbolo della “finanziarizzazione” dell'economia capitalistica e rispetto
all'acquisto dei quali, da parte dello Stato (ivi inclusi gli enti locali),
vige una forma di segreto di stato di fatto.
Nel
2005 diventa presidente della Banca d'Italia al posto di Antonio Fazio e del
Consiglio Direttivo e del Consiglio Generale della Banca centrale europea
nonché membro del Consiglio di amministrazione della Banca dei regolamenti
internazionali.
Le sue
annuali Considerazioni finali esortavano alla riduzione delle tasse per i
ricchi, al taglio delle spese correnti, la controriforma della previdenza e del
mercato del lavoro, l'innalzamento dell'età pensionabile, il sostegno alle
imprese da parte delle banche, richiami al dovere di “modernizzare” in senso
privatistico e aziendalistico la scuola.
Nel
discorso del 2008 metteva in evidenza lo scarto di produttività tra il
Mezzogiorno e il Nord Italia entrando così in polemica con l'allora ministro
dell'economia Tremonti all'epoca del governo del delinquente Berlusconi, che
comunque lavorerà per farlo diventare nel maggio del 2011 il terzo Presidente
della storia della BCE, dove rimarrà fino all'ottobre del 2019 quando verrà
sostituito dall'attuale presidente, Christine Lagarde.
Berlusconi lo sponsorizza a presidente della
BCE.
Come
presidente della BCE è stato ispiratore e sostenitore delle infami politiche
economiche, monetarie, iperliberiste, interventiste e antipopolari dell'UE
imperialista, tanto che le sue capacità di influenzare i governi della UE gli
sono valsi gli ambiti titoli di “uomo dell'anno” dei quotidiani inglesi
“Financial Times” e “Times” nel 2012 e di 18° uomo più potente del mondo della rivista
"Forbes" nel 2018.
Palesi
e inquietanti i suoi legami con la massoneria, nel libro:
"Massoni
società a responsabilità illimitata – La scoperta delle Ur-Lodge", di
Gioele Magaldi (Chiarelettere 2014) l'autore afferma che Draghi è membro di ben
cinque Ur-Lodge:
la
Edmund Burke, la Three Eyes (la stessa di "re" Giorgio Napolitano),
la White Eagle, la Compass Star-Rose e la Pan-Europa.
Un massone di rango da sempre sostenuto da
potenti consorterie massoniche.
Nel
libro: "Fratelli d’Italia – Quanto conta la massoneria?" di Ferruccio
Pinotti (BUR 2007) si afferma a pagina 388, per bocca di Florio Fiorini, che
negli anni Sessanta e Settanta era uno degli uomini chiave per il finanziamento
di tutti i partiti anticomunisti: “Secondo me Draghi è un terminale di finanza americana”.
Nell’intervista
concessa al giornalista Fabrizio D’Esposito da Il Fatto Quotidiano Gioele
Magaldi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia Democratico (God), sul cui
sito è apparsa in versione integrale, così risponde sul Draghi massone:
“Mario Draghi e Mario Monti sono entrambi
massoni.
Di più:
appartengono
all’aristocrazia massonica sovranazionale.
Su ciò
saranno peraltro prodotte importanti ed autorevoli testimonianze documentarie
nel mio libro “Massoni”.
Tra l’altro, occorre dire che troppo spesso,
sulla questione MPS, ci si interroga sul livello italiano degli intrecci
massonici.
In realtà, se c’è un massone implicato fino al
collo nella vicenda, quello è proprio il Venerabilissimo Maestro Mario Draghi,
governatore di quella Banca d’Italia che tutto fece tranne che intervenire
energicamente al tempo della strana acquisizione di Banca Antonveneta da parte
del Monte dei Paschi di Siena. (…)
Quando
c’è in ballo il potere: economico-finanziario, bancario, politico, diplomatico,
ecclesiastico, etc. c’è sempre di mezzo la Massoneria.
Non
c’è da stupirsene: il mondo moderno e contemporaneo di matrice euro-atlantica è
nato grazie all’azione di avanguardia ideologica svolta dai liberi muratori
contro l’Ancien Regime.
È
naturale che i creatori delle società moderne ne abbiano mantenuto il controllo.”
Del
resto sono talmente note le sue frequentazioni con le logge massoniche e con
analoghe associazioni segrete dall'indurre il Mediatore europeo ad aprire
un'inchiesta su Draghi, come risulta da un post del Movimento 5 Stelle Europa
del 27 dicembre 2017 in cui si legge:
“è finita sotto torchio l’adesione del
Presidente della BCE e il coinvolgimento di alti funzionari dell’Istituto al “Gruppo
dei Trenta”, un gruppo internazionale privato avvolto da assoluta segretezza e
opacità che si occupa di questioni economiche, monetarie e finanziarie.
Secondo le accuse, la partecipazione di Draghi
a questo gruppo mina i requisiti di indipendenza, reputazione e integrità della
BCE.
Tra le fila del gruppo dei Trenta vi sono
soprattutto le grandi banche di investimento, come JP Morgan, Goldman Sachs,
Credit Suisse, Morgan Stanley, Deutsche Bank, Santander, UBS, e anche i fondi
che speculano sui crediti deteriorati come Blackrock.
In
particolare, il forum si è occupato di individuare le riforme per mettere in
sicurezza il sistema bancario e finanziario che ci ha trascinato nella crisi
più profonda della storia recente.”
Da
tutto ciò risulta che Draghi non si è limitato a svolgere un ruolo puramente
esecutivo da tecnico e comprimario ma da coprotagonista, insieme ai tanti suoi
compari, da Prodi a Ciampi, da Amato a D'Alema, a Berlusconi, nella demolizione
della Prima repubblica e nell'avvento della seconda repubblica neofascista
preconizzata e imposta dalla P2 di Gelli ricorrendo a ogni mezzo, dallo
stragismo al ricatto economico, dagli omicidi eccellenti alle privatizzazioni
selvagge.
Insomma
basta e avanza per capire quali potenti consorterie massoniche ed esclusive
associazioni segrete abbiano costruito la sua inarrestabile e travolgente
carriera di fedele e abile economista e massimo dirigente del sistema
finanziario capitalista e imperialista nazionale e internazionale, fino a
condurlo al vertice governativo italiano anche grazie alla regia del presidente
Mattarella che lo ha salutato come leader di “alto profilo” e spacciato quale
estremo “salvatore della Patria”.
È
stato Presidente del “Financial Stability Forum” del “Financial Stability Board”
nonché Direttore esecutivo per l'Italia della Banca Mondiale e nella Banca
Asiatica di Sviluppo.
Del
resto il “Gruppo dei Trenta”, di cui è membro, potentissima e segreta organizzazione
internazionale di finanzieri ed esperti, fondata dal magnate americano
Rockefeller, detta la linea e condiziona le scelte in materie che Wikipedia
così riassume:
“Cambi
e valute; Mercati, capitali internazionali; Enti finanziari internazionali;
Banche centrali e la supervisione dei servizi finanziari e dei mercati;
Questioni macroeconomiche quali i mercati dei prodotti e del lavoro.”
Fervente
devoto di Sant'Ignazio da Loyola, fondatore dell'ordine dei gesuiti, è molto
vicino, appunto, al gesuita papa Bergoglio che nel 2011 lo nomina membro
ordinario della Pontificia accademia delle scienze sociali.
L'entusiastico
sostegno dei mercati, dei padroni e del grande capitale europeo e
internazionale.
La sua
carriera tra incarichi pubblici e privati tra alta finanza, cariche pubbliche,
massoneria e vaticano, è la personificazione stessa del fatto che nell'epoca
dell'imperialismo è sempre più inestricabile l'intreccio e la compenetrazione
tra gli stati borghesi e i monopoli e le centrali direttive e di comando del
capitale finanziario (nato dalla fusione tra il capitale industriale con quello
bancario) al punto che sono spesso gli stessi uomini, com'è il caso di Draghi,
a occupare le poltrone di comando ora dell'alta finanza privata ora delle
istituzioni governative nazionali e internazionali.
Cosa
ampiamente dimostrata dall'entusiastico apprezzamento dei mercati, dei padroni
e dei loro fogliacci e organi d'informazione volti a costruire un consenso di
massa intorno a Draghi e al suo nascituro governo, che, siamo certi di questo,
sarà uno dei peggiori e antipopolari governi della storia d'Italia, in grado di scavalcare a destra
perfino l'appena defunto governo del dittatore antivirus Conte al servizio del
regime capitalista neofascista.
(10 febbraio 2021)
IL
DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO.
Finanza
sporca, eversione nera e
massoneria
deviata al fianco dei boss.
Editorialedomani.it - COMMISSIONE ANTIMAFIA
ARS – (18 novembre 2021) – ci dice:
Chi
erano i “personaggi importanti” che si misero in contatto con Cosa Nostra?
Nel suo rapporto, la DIA era estremamente
precisa:
Licio
Gelli e una parte della massoneria italiana, appoggiati da settori dei servizi
segreti e da “ambienti imprenditoriali e finanziari”.
Operativi sul campo, erano invece esponenti
dell’eversione fascista.
Su
Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni.
Potete seguirlo su questa pagina.
Ogni
mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in
collaborazione con l’associazione Cosa vostra.
Questa serie è dedicata al depistaggio sulla
strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti
della scorta:
Agostino
Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Una rete che risaliva e operava fin dagli anni
settanta, con il golpe Borghese e la strategia della tensione.
E che aveva poi continuato la propria azione
con campagne terroristiche (le bombe ai treni e alle stazioni), sempre con lo
stesso, identico scopo:
difendere
e accrescere la ricchezza personale dei suoi aderenti, impedire in Italia
trasformazioni politiche e sociali.
Lo
stesso schieramento era poi sceso in campo nel caso Sindona, il banchiere per
cui si era vagheggiato un golpe separatista in Sicilia.
Sia
nel caso Borghese sia nel caso Sindona, Cosa nostra era stata attratta all’idea
di progetti eversivi dal mi- raggio di amnistie o revisioni di processi.
Il
rapporto “Oceano” si concentrava poi sulla manovalanza delle stragi, facendo
notare il ruolo svolto da alcuni personaggi.
Colui
che materialmente aveva confezionato i cinquecento chili di esplosivo usati per
uccidere Falcone era un certo Pietro Rampulla, quarantenne.
Interessante
personaggio; mafioso di famiglia mafiosa di Mistretta (provincia di Messina),
noto come artificiere, ma soprattutto, fin dalla gioventù, come militante
politico di Ordine Nuovo.
Dinamitardo
provetto, fece avere, tramite intermediari, il telecomando a Giovanni Brusca,
ma il giorno della strage non andò a Capaci “perché aveva da fare, cose di
famiglia”.
Sodale
di Rampulla, fin dai tempi della giovanile militanza in Ordine nuovo, tale
Rosario Pio Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto, trafficante internazionale di
armi, legato ai mafiosi siciliani operanti a Milano.
C’era
poi un personaggio ancora più misterioso, tale Paolo Bellini, comparso nelle
cronache come un oscuro mediatore che aveva contattato dei boss mafiosi
promettendo sconti di pena in cambio del recupero di opere d’arte rubate.
La Dia
lo segnalava perché veniva citato nella lettera di addio al mondo di Nino Gioè,
il mafioso del paese di Altofonte che materialmente spinse su uno skateboard
nel cunicolo sotto l’autostrada i panetti di tritolo confezionati da Rampulla.
Nino
Gioè era stato arrestato (dopo essere stato scoperto grazie a intercettazioni
telefoniche) e si era impiccato nel carcere romano di Rebibbia, lasciando uno
stranissimo ultimo messaggio, in cui ci teneva a definirsi “un mostro” e a scagionare un
sacco di persone.
Era
citato anche il signor Bellini, definito “infiltrato”, il quale risultò essere
un esponente dell’organizzazione fascista Avanguardia Nazionale, latitante in
Brasile per vent’anni, che aveva ottenuto dall’autorità penitenziaria di
conoscere Gioè e di concordare con lui attentati.
Nel
rapporto Oceano la Dia affiancava al già noto rapporto tra mafia e politica un
nuovo elemento: la finanza:
«Il
gettito prodotto dalle attività criminali poste in essere dalle varie attività
dei gruppi mafiosi non corrisponde al valore dei beni sequestrati, dei
patrimoni confiscati, né delle spese che la criminalità sostiene.
Questa grande ricchezza residuale non può
quindi che essere nascosta nel sistema finanziario (…) Il sistema finanziario,
attraverso i suoi meccanismi, ha creato negli ultimi anni strumenti giuridici
ed economici che lo hanno portato ad assumere un ruolo preminente rispetto a
quello industriale (…) Come è noto questo mercato è quello dove è più agevole
nascondere i capitali di illecita provenienza (...)
Si può ragionevolmente ipotizzare che,
attraverso il mercato finanziario, la criminalità organizzata abbia potuto
raggiungere anche il sistema industriale (…)».
Ora
questa ipotesi comincia a trovare alcuni supporti in indagini giudiziarie che
potrebbero portare alla scoperta di cointeressenze economiche là dove non era neanche
immaginabile fino a pochissimo tempo addietro.
Non è affatto da escludere che una simile
interpretazione dei fatti fosse condivisa da Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.
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