CHI PARLA CONTRO IL SISTEMA NON È TOLLERATO
CHI
PARLA CONTRO IL SISTEMA NON È TOLLERATO.
Cassandra
è ancora muta,
o
sulla solitudine della verità.
Edizionigruppoabele.it - Tomaso Montanari – (29/09/2022)
– ci dice:
Tomaso
Montanari torna a riflettere sul ruolo degli e delle intellettuali nella
società: è giusto che si schierino?
E se sì, da che parte?
Lo fa
in “Cassandra è ancora muta”, nuova edizione di “Cassandra muta”. “Intellettuali
e potere nell’Italia senza verità”, pubblicato nel 2017.
Una
versione riveduta che, a conclusione del testo originale, aggiorna e attualizza
il volume alla luce di diversi fatti che dal 2017 a oggi hanno completamente
ribaltato il mondo e il nostro Paese.
Pubblichiamo
di seguito la premessa alla nuova edizione e l’introduzione originale del 2017.
Cassandra
è ancora muta.
Premessa
alla nuova edizione.
In questi cinque anni, mi è capitato spesso
che, alla fine di presentazioni di miei libri usciti successivamente, mi
venissero incontro lettrici e lettori con in mano una copia di “Cassandra muta”.
Il punto, mi dicevano quasi con le stesse
parole, è sempre questo:
chi
parla contro il sistema non è tollerato.
Il
pensiero critico è il nemico.
Basterebbero a dimostrarlo l’oscena persecuzione
americana contro “Julian Assange” o la compiacenza occidentale verso il regime
arabo che ha fatto letteralmente a pezzi un giornalista dissenziente.
Il
pensiero critico è il nemico.
Proprio
così: il pensiero critico è il nemico.
È
difficile negare che sia vero.
E gli eventi, globali e italiani, di questi
ultimi anni, non hanno fatto che confermarlo.
La
pandemia ha generato una diffusa insopportazione per chiunque provasse a
suggerire che l’emergenza poteva essere governata diversamente.
E ora,
con la guerra in Ucraina, si è manifestato un Occidente pronto a sfidare il
resto del mondo su basi “etiche”: o con noi, o contro di noi.
È
l’annuncio di una stagione infernale, e le liste di proscrizione degli
intellettuali e giornalisti sospetti di intelligenza col nemico sembrano solo
l’inizio di una nuova, grande ondata di intolleranza verso ogni dissenso.
In
Italia, poi, l’avvento di un governo oligarchico- paternalista calato dall’alto
(sul quale ho scritto “Eclissi di Costituzione”.
“Il governo
Draghi e la democrazia”, Chiarelettere, 2022) e l’avvicinarsi al potere di una
destra ancora fascista fanno di chi pensa “diversamente”, e non si rassegna al
silenzio, un nemico naturale.
Se
Cassandra è muta, la democrazia soffre.
In
questi anni, ho pagato un prezzo per l’espressione del mio dissenso.
Per aver contestato la canonizzazione civile
di Franco Zeffirelli o l’istituzione del “Giorno del Ricordo”, per aver
espresso il mio dissenso verso l’operazione Draghi guidata dal presidente
Mattarella o anche solo perché un mio testo è uscito tra quelli da commentare
alla maturità, mi sono trovato al centro di campagne violente guidate dai capi
stessi di alcuni dei principali partiti italiani.
E ho perso il conto delle querele, penali e
civili, con le quali si è provato a farmi tacere.
Il
risultato è che sono sempre più convinto della necessità di non tacere: se
Cassandra resta muta, per la democrazia non c’è speranza.
Da qui
la decisione di ripubblicare questo libro così com’era, pur sapendo che alcuni
passaggi potranno apparire legati al contesto in cui esso fu scritto.
Ho
dunque aggiunto una postfazione, per mostrare come anche negli eventi degli
ultimi anni, e in quelli ancora in corso, il pensiero dissenziente sia ancora e
sempre il nemico principale del potere.
Il
messaggio di fondo del libro resta terribilmente attuale: oggi abbiamo ancora più bisogno di
un’altra politica.
Mostrare ostinatamente che il re è nudo, e che
un’alternativa è dunque necessaria, è la premessa indispensabile perché quella
politica nuova, prima o poi, si manifesti.
(Tomaso
Montanari, Firenze-Siena-Porto Ercole, luglio 2022).
Introduzione
di Cassandra muta, 2017.
Be’, sai, Cassandra ha una certa fama.
Non è
poi così male soccombere combattendo come l’ultima persona che dice una verità
spiacevole.
Ricordiamo
Cassandra, ma nessuno ricorda quale fosse la sua verità spiacevole. D’accordo.
La
verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno
mentendo.
E il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la
verità. Tirar fuori la verità, e poi spiegare perché è proprio la verità.
(Tony Judt, intervistato da Th.
Snyder, Novecento, 2012)
Muta, sul carro del vincitore che l’ha fatta
schiava. È così che Cassandra entra in scena nell’Agamennone di Eschilo.
Nel
ciclo dei poemi omerici, la principessa troiana, invece, parla.
Ella
ha, infatti, un terribile dono, che cerca di condividere con la comunità: vede
in anticipo i disastri futuri, ma non viene ascoltata.
È
Cassandra che prova inutilmente a convincere i suoi concittadini a non portare
dentro le mura di Troia il cavallo di legno lasciato dai greci sulla spiaggia.
In un
affresco realizzato intorno al 60 dopo Cristo nella Casa del Menandro, a
Pompei, vediamo Cassandra che cerca di frapporsi fisicamente all’entrata del
Cavallo in città:
sul
piano formale questa immagine può ricordare la celebre fotografia del
cosiddetto «rivoltoso
sconosciuto»,
scattata in piazza Tien An Men a Pechino il 5 giugno del 1989.
Lì un singolo studente si erge contro una
colonna di carri armati.
Ma mentre questo solitario eroe interpreta i
sentimenti dell’immensa comunità di manifestanti che lo circonda, nella pittura
pompeiana Cassandra è contrapposta a una folla che la pensa all’opposto, e
inneggia al Cavallo.
Una
folla che, letteralmente, la toglie di mezzo, facendola spostare dalla
traiettoria che quell’enorme dono dovrà percorrere per entrare in città.
Cassandra
parla, e dice la verità: ma non viene creduta.
Anzi, viene percepita come un intralcio.
Una
sacerdotessa del no, del «non si può», del «non si deve».
Il
dono maledetto di Cassandra.
Invece,
quando il potere si impadronisce di lei, Cassandra tace.
È per questo che ho scelto di intitolare al
silenzio di Cassandra sul carro del vincitore questo libro dedicato al silenzio
del pensiero critico nell’Italia di oggi.
Naturalmente
gli intellettuali moderni non sono profeti, o veggenti.
Ed è
semmai la figura di Socrate – con la sua suprema, drammatica capacità di fare
esplodere la contraddizione, paradossale quanto insanabile, tra la parresia (il
dire la verità) e la democrazia – il paradigma più carico di futuro che
ereditiamo dalla cultura classica, in fatto di intellettuali.
Ma, su
un piano profondo e suggestivo, la storia di Cassandra com’è raccontata da
Eschilo aiuta a cogliere alcune caratteristiche della condizione
dell’intellettuale.
Cassandra,
bellissima, è desiderata da Apollo, che la investe con la sua irruenza di divino
lottatore.
La assedia, la forza ad accettarlo.
Cassandra
inizia a concedersi, e Apollo in cambio le fa subito dono della profezia. Ma a
quel punto Cassandra cambia idea: non si concede del tutto, resta vergine e si
nega al dio.
Il
quale, colmo d’ira e di sdegno, la maledice (sputandole in bocca, secondo una
significativa variante tramandata da Servio nel suo commento all’Eneide): potrà
continuare a vedere il futuro, ma nessuno le crederà.
Cassandra non è esattamente una sacerdotessa,
non essendo del tutto consacrata al dio.
Ma non è nemmeno del tutto parte della
comunità: il dono maledetto che ha ricevuto la rende scomoda, imbarazzante,
errante col corpo e con la mente.
Non è
del tutto con il dio, non è del tutto con gli uomini: è capace di vedere la
verità, e anche di avere il coraggio di annunciarla.
Ma non
ha il potere di essere creduta.
La
scienza come sacerdozio.
In
modo certo arbitrario, ho sempre letto questa vicenda come una impressionante
rappresentazione della condizione dell’intellettuale moderno nella sua
declinazione forse più interessante: quella dello studioso, dello scienziato,
che è anche, appunto, intellettuale pubblico.
Apollo
è la conoscenza, la scienza che ti prende come una vocazione:
che ti
strappa al mondo, e ti vorrebbe possedere, per così dire, in esclusiva.
La
scienza come sacerdozio, come monachesimo: che ti innalza, e ti separa dalla
vita della comunità.
Ebbene,
Cassandra è chi accetta la vocazione, e dedica la propria vita allo studio: ma
non accetta il sacerdozio, fermandosi un attimo prima.
Chi prende il sapere, ma non accetta di darsi
fino in fondo: chierici, ma non monaci.
Chi
vuole rimanere nel mondo, e condividere quella conoscenza con tutti.
La
maledizione, lo sputo di Apollo nella bocca, è la condanna a non appartenere
fino in fondo né alla scienza, né al mondo: è la condanna a non essere “di
nessuno”.
Questo
è vero per quanto riguarda il campo d’azione dell’intellettuale.
La
scienza, mai come oggi, richiede una estrema specializzazione.
Che
rischia di sterilizzare il senso critico e paradossalmente anche l’attitudine
alla ricerca, serrando chi la pratica in un settore sempre più ristretto:
più ci
si avvicina ai massimi livelli del sistema educativo, più oggi si è costretti
entro un campo del sapere relativamente angusto.
Non è
evidentemente interesse di nessuno screditare la competenza di per sé, purché
non si consideri tale quella acquisita escludendo dal proprio orizzonte
qualsiasi cosa non rientri in senso stretto nel proprio ambito specifico –
poniamo: gli esordi della poesia d’amore vittoriana – o sacrificando la cultura
generale a un ben preciso assieme di fonti convenute e idee canoniche.
Il prezzo, in tal caso, è francamente troppo
alto.
(E.W.
Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (1994), Feltrinelli,
Milano, 1995, p. 85)
La
solitudine della verità.
Ma è
anche vero su un piano esistenziale, e sociale: alludo alla solitudine di chi
dice la verità.
All’impossibilità
di “appartenere” fino in fondo a un gruppo o a una comunità. Perché la critica, inesorabilmente,
separa:
«Chi
dice il vero non potrà avere riparo né focolare e neppure patria: è l’uomo
dell’erranza, è l’uomo della fuga in avanti dell’umanità»
(M.
Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri)
Dire
la verità lega alla politica, intesa come arte del costruire la polis, la
comunità: ma, al tempo stesso, non si può fare politica attiva dicendo la
verità.
«Che
cos’è la verità?», chiede Pilato a Gesù – la battuta più sottile di tutti i
tempi, secondo Nietzsche.
Commentando
questo passo cruciale per la storia della cultura occidentale, Giorgio Agamben
ha citato la risposta che Gesù dà a Pilato non nei vangeli canonici, ma nell’apocrifo
Vangelo di Nicodemo (colui che seguiva Gesù in segreto, non avendo il coraggio
della verità):
«Tu vedi come coloro che dicono la verità sono
giudicati dai poteri terreni».
E
anche oggi vediamo come il potere – ogni potere, di ogni colore e di ogni
grandezza – giudica e tratta chi dice la verità.
Sono
consapevole che «il dibattito tra intellettuali sugli intellettuali, cioè su sé medesimi,
non ha tregua»
(N.
Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea).
E che,
di conseguenza, «gli scritti sugli intellettuali, sulla loro funzione, sulla loro nascita
e sul loro destino, sulla loro vita morte e miracoli sono tanti che solo la
memoria di un computer potentissimo potrebbe registrarli tutti».
E,
ancora, che, almeno dal libro di Julien Benda del 1926 sul “tradimento dei chierici”, «gran parte della controversia
sull’etica degli intellettuali si muove tra questi due termini: tradimento e
diserzione».
Ma è
inevitabile che sia così:
il
continuo rinnovamento del pubblico e collettivo esame di coscienza celebrato
dagli intellettuali si deve al fatto che le domande centrali che dobbiamo porci
«sono
domande cui nessuno può dare una risposta definitiva»: «la risposta dipende
sempre dalle circostanze e dalla interpretazione che ognuno dà delle medesime
circostanze».
Ecco
la prima di queste eterne domande: è giusto schierarsi?
E la
seconda: se sì, da che parte?
Nelle
pagine che seguono vorrei provare a porre di nuovo questa domanda, nei termini
imposti dall’Italia di oggi, in quelli comprensibili alla nostra generazione:
esaminando la condizione, le occasioni, le prospettive delle Cassandre
nell’Italia di oggi.
Il
filo conduttore è una domanda: qual è il ruolo, quale lo spazio, del pensiero
critico nel suo rapporto con il potere, con la comunità della conoscenza, con
la comunicazione, con la scuola, con quella che chiamiamo “cultura”?
Le
risposte che proverò a dare sono orientate sulla bussola di un’affermazione di
Norberto Bobbio:
«il primo compito degli intellettuali dovrebbe
essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il
monopolio della verità».
E,
dunque, la questione centrale è questa: quale può essere il ruolo della
critica in un’Italia senza politica, ma dominata dal marketing, dallo
storytelling, e dalle strategie di comunicazione – cioè dai tanti, complicati e
ipocriti, sinonimi della parola “menzogna”?
La
corruzione in Italia, ecco
perché
il sistema non è riformabile.
Ilmanifesto.it
- Alberto Burgio – (15 giugno 2014) – ci dice:
DALL'EXPO
AL MOSE.
Sul «popolo» che rifugge come la peste il
politico utopista, ma è sempre pronto a giustificare o a comprendere.
La
corruzione in Italia, ecco perché il sistema non è riformabile
Nuovo!
Imperversano
le notizie-shock sul dilagare della corruzione e ogni giorno ci si domanda
quale altro nome eccellente lo tsunami travolgerà.
La
realtà superando la fantasia, si attendono sorprese.
È un déjà vu, il gioco di società che disegna
il ritratto più fedele della società italiana ai tempi della nuova
modernizzazione.
Se al
Viminale è stato il capo di un’associazione a delinquere e ai vertici della
Guardia di finanza i garanti di un gigantesco sistema di tangenti, non potrebbe
darsi che tra i registi di una mega-frode fiscale spuntino un ministro delle
Finanze, un giudice della Corte dei conti, un alto dirigente della Ragioneria
dello Stato?
Non
accadde già ai tempi del generale Giudice o con lo scandalo delle banane del
ministro Trabucchi?
Si assiste perplessi alla marea provando
repulsione, incredulità, indignazione. Dopodiché capita di chiedersi perché.
Perché,
tra i paesi europei «avanzati», la corruzione abbia eletto domicilio proprio in
Italia.
E
perché con queste dimensioni, questa potenza, questa incoercibile forza di
radicamento.
La Corte dei conti parla di 60 miliardi
l’anno, più o meno dieci volte il costo del miracoloso bonus Irpef.
E questo ad appena vent’anni da Mani pulite,
quando si pensò che la bufera avesse spazzato via, col personale politico della
«prima Repubblica», un’intera genìa di malfattori.
La quale invece non ha soltanto continuato
imperterrita, ma ha evidentemente figliato, si è moltiplicata e ha pure
raffinato le proprie competenze criminose. Insomma perché in Italia la
corruzione è sistema?
Al
punto che il sistema seleziona i corrotti e discrimina gli onesti, mettendoli
in condizione di non nuocere con la propria improvvida, anacronistica, anti sistemica
onestà?
C’è
una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una
scoperta dell’ultim’ora.
La corruzione è un reato contro la collettività, una
ferita ai suoi beni materiali e immateriali.
Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo
immemore – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pulviscolare, di
privati e di particolari.
Nella
quale la passione civile non ha messo radici, fatta eccezione per qualche
sparuta cerchia intellettuale.
Si
capisce che qui la corruzione sia tollerata e persino ben vista, anche da chi
ha soltanto da perdere non potendo praticarla in prima persona né trarne
benefici.
Se per un verso (in pubblico) si storce il
naso, per l’altro (in privato) si è pronti ad ammirare e magari, potendo, a
emulare chi la fa franca e su questa ambigua virtù costruisce fortune.
Si
faccia quindi attenzione alla dialettica del controllo, che quanto più è
severo, tanto più gratifica chi riesca a violarlo.
Controllare è indispensabile, ma non ci si
illuda: non ci sarà controllo che tenga finché somma virtù sarà la valentia del
filibustiere.
Ma proprio in una società siffatta la politica è il
cuore del problema.
Non perché sia necessariamente l’epicentro della
corruzione, come si ama ripetere nei salotti buoni e nelle redazioni.
Anche se non va di moda dirlo, la corruzione
sgorga spesso dalla beneamata società civile: pervade i mondi dell’impresa, del
credito e dell’informazione, il privato non meno che il pubblico.
Il
cuore del problema è la politica perché, tale essendo il costume, dalla
politica soltanto – in primis dal legislatore – può muovere il riscatto.
E
perché quindi, dove invece la politica non si distingue dal costume e quindi lo
asseconda, ne deriva inevitabile un disastro.
Il
rovesciamento dei valori ne trae vigore e i comportamenti anti-sociali, già
legittimati dal sentire comune, ne risultano legalizzati, di nome o di fatto.
Anche da questo punto di vista la storia
italiana offre un quadro desolante.
Si
pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della malavita, alla corruzione
dilagante nel regime fascista, la cui denuncia costò la vita a Matteotti.
E si pensi, nella storia della Repubblica, alla folta
teoria degli scandali democristiani e socialisti, con al centro il sistema
delle partecipazioni statali, le casse di risparmio, la manna dei lavori
pubblici.
Ciò
nonostante, questa storia non è la notte delle vacche nere.
In un
paesaggio pressoché uniforme c’è stata una felice anomalia.
E un
pur breve tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – in cui
le cose parvero andare altrimenti.
Si può
leggere la storia del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella
di una preziosa dissonanza: del vettore di un’etica civile laica e di una
cultura politica nuove, per molti versi estranee alle tradizioni di questo
paese.
Per
non dire al suo carattere nazionale.
Gramsci
lo dice a chiare lettere: il moderno principe è il catalizzatore di una
«riforma intellettuale e morale» per l’avvento di una democrazia integrale.
E davvero, fino agli anni Settanta, i
comunisti italiani perlopiù lo furono, concependo e praticando la politica come
impegno volto a far prevalere un’idea.
Come
una professione in senso weberiano – un «saper fare» fatto di competenza,
disinteresse e senso di responsabilità – consacrata alla trasformazione della
società.
Poi,
nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate.
In
questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del Pci scomparso
trent’anni or sono.
La
figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di noi tutti.
Ma non si dice abbastanza forte che durante
una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto.
Si
burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel
senso meno nobile del termine.
Rimango
dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì.
Quando – avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei
padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo
americano e, appunto, il dilagare della corruzione – scoprì che la battaglia
era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui il buon esito era
acquisito.
Sta di
fatto che, morto Berlinguer, il Pci si normalizza e, ancor prima di chiudere i
battenti, cessa di essere una contraddizione.
Per
questo non regge all’implosione della «prima Repubblica» né, tanto meno, si
mostra capace di guidare una rinascita.
Anzi
viene travolto, senza un’apparente ragione.
Lasciando
che Berlusconi, campione di moralità, si faccia, dopo Tangentopoli, interprete
della nuova modernità italiota.
Siamo
così ai nostri giorni.
Chi fa
politica oggi in Italia? E perché e come? Nella migliore delle ipotesi –
scontate le debite, ininfluenti eccezioni – il politico è un tecnico senza
visione.
Più
spesso, un addetto ai lavori che conosce soprattutto e ha a cuore la rete di
relazioni che gli ha permesso di acquisire posizioni e influenza.
Un
esperto nella pratica del potere che vive tuttavia senza patemi il deperire del
ruolo a funzioni esecutive o esornative.
Sindaci,
presidenti di regione, assessori si barcamenano nei vincoli posti
dall’esecutivo, le cui decisioni i parlamentari ratificano.
Capi
di governo e ministri si attengono alle direttive europee e dei mercati.
Sullo
sfondo, un sistema di partiti che vivono per riprodursi senza nemmeno più
ventilare l’ipotesi di sottoporre a critica questo stato di cose e di
modificarlo.
Questo
significa essere corrotti? In larga misura sì.
E ad
ogni modo si capisce che la corruzione si sviluppa molto più facilmente quando
la finalità del fare politica è fare politica: restare nel giro, partecipare ai
riti del potere, ritirare i dividendi dello status, utilizzare le istituzioni
per intrattenere rapporti utili con la società civile.
La
quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di trovare interlocutori
istituzionali comprensivi e disponibili a esaudire i suoi non sempre
irreprensibili desiderata.
Se è così, non c’è da stupirsi che dopo
Tangentopoli le cose non siano cambiate affatto, se non in peggio.
Né vi
è ragione di confidare – retoriche a parte – in un’autoriforma del sistema o in
una spallata rigeneratrice.
Non
che le masse si identifichino entusiaste con il governo in carica, come
pretende la fanfara di giornali e tv. Il 25 maggio e ancora il 9 giugno hanno
vinto sopra tutti la disaffezione, l’astensionismo, il vaffa strisciante.
Ma
contraddizioni serie attraversano il “popolo”.
Il
risentimento qualunquistico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera
dell’assuefazione.
Il
“popolo” per un verso stigmatizza questi comportamenti e invoca la gogna per i
corrotti.
Per
l’altro, è incline a comprendere e a giustificare.
A
concedere attenuanti alla propria parte (sempre meno corrotta delle altre) e a
tacitamente invidiare il corrotto baciato dal successo.
Anche
per questo il “popolo” rifugge come la peste il politico utopista e visionario,
l’ideologo idealista, il cattivo maestro di un tempo che fu.
Dio ci
scampi.
Meglio,
molto meglio gli uomini del fare, proprio perché senza idee e un poco
mascalzoni.
(Edizione
del 15 giugno 2014).
La
disfatta dell’informazione
sulla
guerra in Ucraina.
Treccani.it – Giacomo Natali – (24 marzo 2022) – ci
dice:
Con
pochissime informazioni raccolte sul campo da fonti indipendenti e un flusso
continuo di contenuti sui social network, che anticipano i professionisti e
dominano il discorso pubblico, i media internazionali e quelli italiani non
stanno contribuendo a rendere più chiaro quanto accada nel conflitto in
Ucraina, ma agiscono sostanzialmente da megafono per le rispettive propagande.
Ma se l’informazione latita, la comunicazione
è più importante che mai per l’esito del conflitto.
E
ancora di più potrebbe esserlo per determinare cosa accadrà dopo che sarà
finito.
Comunicazione,
dichiarazioni e propaganda hanno scandito tutta la crisi ucraina fin da prima
dell’invasione russa.
Nelle settimane precedenti all’invasione, Ucraina,
Stati Uniti e Russia sono stati prima di tutto protagonisti di una guerra
dell’informazione, che era volta da un lato a cercare di evitare il conflitto
(con strategie diverse tra USA e Kiev), dall’altra a prepararne le basi e il
sostegno interno tra la popolazione russa.
L’avvio
stesso dell’attacco è stato sancito da un discorso televisivo di Vladimir
Putin, che circondato da una scenografia maestosa, ne ha fornito le proprie
motivazioni e obiettivi formali.
In un
mondo in cui non si fanno più dichiarazioni di guerra, questa ne era quanto di
più simile si vedesse da molto tempo e ne ha senz’altro svolto la funzione sia
sul piano simbolico che operativo.
Anche
se tecnicamente non lo era, dato che il Cremlino nega che si tratti di
invasione e ha imposto internamente che venga chiamata “operazione militare
speciale”.
Ora, a
guerra in corso, l’information warfare è ancora decisiva.
Lo è
stata fin dai primi giorni per animare la reazione ucraina, così come per
orientare l’interpretazione prevalente del conflitto da parte dell’opinione
pubblica internazionale e di conseguenza anche le decisioni degli alleati
euroatlantici (anche per questo assai probabilmente molto più dure di quanto il
presidente russo si aspettasse).
Molte
di queste interpretazioni nascono però in una situazione di grande carenza di
informazioni affidabili e verificate.
Il
primo problema è la scarsità di fonti neutrali.
Nei primi giorni era sembrato lo scenario
potesse essere diverso:
probabilmente
grazie alla vicinanza geografica e alla maggiore familiarità culturale rispetto
ad altri teatri di guerra degli ultimi decenni, sembravano non mancare le
testimonianze dirette di molti giornalisti internazionali presenti nel
territorio ucraino allo scoppiare delle ostilità.
Sembrava
quasi di essere tornati al 1991, quando Peter Arnett e gli altri inviati della
CNN di fatto inventarono la copertura televisiva della guerra, mostrando in
diretta i bombardamenti e il cielo illuminato dai colpi della contraerea di
Baghdad.
Presto
però la maggior parte (ci sono eccezioni) è stata costretta ad abbandonare le
proprie posizioni o limitarsi a collegamenti dai rifugi, dai quali riportano
prevalentemente informazioni di seconda mano, spesso già disponibili altrove e
non sempre affidabili.
È
importante sottolineare come questo ripiegamento non sia una novità, ma venga
da lontano.
Sempre
in Iraq, già l’invasione del 2003 fu coperta giornalisticamente in modo
completamente diverso rispetto all’intervento di dodici anni prima.
I protagonisti dell’informazione in quell’occasione
diventano i giornalisti embedded, che accompagnavano le truppe americane e di
conseguenza il più delle volte riuscivano a mostrare soltanto ciò che gli
veniva concesso.
In
Ucraina la situazione è in un certo senso ancora più opaca e sta suscitando
infinite discussioni e dubbi tra i professionisti dell’informazione su come
riuscire a fornire un’adeguata copertura, districandosi tra fonti
inevitabilmente impegnate a fornire una propria narrazione. Complessità che si fa esasperata e
controversa quando succede di dover raccontare cosa sia accaduto in occasione
di attacchi particolarmente significativi, come quelli all’ospedale pediatrico
e al teatro di Mariupol′.
Poiché
il conflitto si svolge sul territorio ucraino, le principali fonti su quanto
stia accadendo sono essenzialmente ucraine.
Da
queste non si può comprensibilmente pretendere neutralità.
La
funzione della loro comunicazione è quella di raccogliere il massimo sostegno
internazionale, coalizzare alleati, ottenere finanziamenti e armi, fino
idealmente all’intervento di altri Paesi.
L’informazione
in quanto tale è evidentemente secondaria rispetto alla funzione comunicativa.
D’altra parte è sempre stato così, per ogni
Paese invaso.
Picasso
dipinse Guernica mentre si trovava a Parigi: non aveva assistito al massacro e
certo non si preoccupava in quel momento dell’accuratezza dei fatti che stava
rappresentando, su incarico del governo repubblicano spagnolo, ma dell’impatto
emotivo che avrebbero suscitato.
Con
l’obiettivo di portare attenzione mondiale su quanto stava avvenendo e in
ultima istanza aiuti internazionali al proprio Paese sotto attacco.
Sul
fronte opposto, i russi non stanno quasi raccontando le proprie operazioni, a
partire dalla segretezza con cui è coperto il numero di caduti, coerentemente
con la necessità di doverne minimizzarne l’ampiezza davanti al proprio pubblico
interno, al quale appunto non è neppure stato raccontato che sia in corso una
guerra.
Tra i
pochi giornalisti embedded al fianco delle truppe russe, c’è la significativa
novità di un inviato cinese, ma è evidente che in virtù della nuova
legislazione russa che vieta la diffusione di notizie non allineate con il
Cremlino, nessuno di questi sia nella posizione di fornire contributi reali dal
punto di vista informativo.
Sul
campo restano assai poche fonti professionali indipendenti o presunte tali.
In
questo ambito, un settore che ha subito una notevole accelerazione nelle scorse
settimane è la cosiddetta OSINT, acronimo per “Open Source Intelligence”,
ovvero Intelligence su fonti aperte.
Siti
di giornalismo investigativo come “Bellingham, per esempio, condividono le
analisi compiute su immagini satellitari, come quelle messe a disposizione
dalla società privata “Mixar”, interpretando la presenza di mezzi, truppe e dei
danni conseguenti a un attacco.
Poi ci
sono alcuni giornalisti freelance, dai più esperti a quelli più improvvisati.
I media italiani in particolare ne fanno largo
uso, tanto da avere aperto una discussione tra i sindacati della stampa in
merito alla loro tutela e sicurezza.
Ma
anche domande sul perché non si mandino sul campo i professionisti che invece
sarebbero già nelle redazioni delle rispettive testate.
I
grandi network internazionali, per esempio, dopo avere sospeso inizialmente le
proprie trasmissioni dalla Russia in seguito alle nuove norme, che di fatto
costringono ad autocensurarsi per evitare il carcere, hanno in parte
ricominciato a mandare in onda i contributi dei propri corrispondenti.
Durante
il grande comizio di Putin allo stadio di Mosca del 18 marzo, l’inviato della
BBC era in prima persona tra i manifestanti ed è stato così in grado di
raccogliere sia le testimonianze di chi sinceramente sosteneva il proprio
presidente, sia quelle di chi invece ha confessato (ma rifiutandosi di essere
ripreso) di non sostenere la guerra e di essere stato costretto a partecipare
dai propri superiori. Un’informazione che altrimenti sarebbe stata impossibile
conoscere, oppure sarebbe stata immersa nel dubbio del “si dice”.
L’altra
grande differenza tra media italiani e internazionali è proprio il modo in cui
vengono (o non vengono) evidenziati i dubbi sulle informazioni fornite da fonti
non verificate.
Mentre
le testate estere più autorevoli premettono sempre formule come “allegedly” e
“according to”, in Italia sono assai pochi che resistono al trasformare
immediatamente il tweet di qualche generale in un titolo dato come certezza,
salvo ritrattare nelle edizioni successive.
Non è
una situazione inedita.
La
frase di Hiram Johnson, che tanti stanno ripetendo in queste settimane, sul
fatto che la prima vittima della guerra sia la verità, risale d’altra parte al
1917.
E altri esempi analoghi ci porterebbero
senz’altro ancora più indietro nel tempo. La specifica differenza del caso
ucraino è data però dalla presenza mai così pervasiva dei social network.
Sono
questi che costringono anche i media più autorevoli a inseguire.
E
visto che non possono arrivare prima e che solo raramente riescono ad andare
più in profondità, questi finiscono da un lato per abdicare al ruolo di filtro,
pubblicando immediatamente notizie ancora da verificare;
dall’altro
per riempire con commenti e spettacolarizzazione.
In
questo i vari talk show offrono lo spettacolo più avvilente e rischioso, poiché
ricercando lo scontro tra gli invitati, finiscono per alimentare ulteriormente
una polarizzazione già esasperata proprio sui social.
Al
netto della genuina diversità di opinioni tra gli utenti on-line, è indubbio
che un ruolo decisivo nell’infiammare le discussioni e contaminarle con
informazioni false sia svolto in modo massiccio dalle “fake farm” russe.
Il
sistema di disinformazione russo è già rodato da molto tempo (pochi giorni fa
un articolo su “Il Tascabile” ne ripercorreva la storia) e in particolare a
partire dal 2014 orienta in modo efficace anche parte delle opinioni pubbliche
europee e americane in modo favorevole alle politiche di Putin.
I
prodotti delle fabbriche di fake russe sono spesso poco raffinati, come nel
caso dei facilmente identificabili “deep fake” che mostrano falsi discorsi
video del presidente ucraino.
Ma le
migliaia di operatori ben pagati dal Cremlino sono in grado di rappresentare
una massa critica capace di spostare la bilancia delle discussioni on-line in
molte lingue differenti, insistendo abilmente nei propri” stalking point”
allineati alla narrazione di Putin (le responsabilità della NATO, le vittime
nel Donbass, la presenza di estremisti di destra in Ucraina) con i quali
intercettano le decisive condivisioni utili da parte di fonti organiche (ovvero
autentiche, non a pagamento).
Questi
utenti on-line sono spesso in buona fede, ma sono proprio loro a riciclare e
ripulire la propaganda, rendendola digestibile dai rispettivi pubblici
nazionali.
Gli
USA convivono coscientemente da anni con queste ingerenze, almeno fin dalle
elezioni che portarono Trump alla Casa Bianca, ma ora questa situazione è
palese anche in Italia.
Non che fossero mancate attività tangenti al
mondo sovranista e cospirazionista anche in passato, ma mai quanto ora.
E
l’inesperienza è un pericolo per chi naviga on-line.
Ho
personalmente visto professionisti dell’informazione, esperti e preparati, che
sono cascati nella condivisione di fake clamorosi (come la finta foto di
Zelenskij che regge una maglia della nazionale ucraina con la svastica).
Immaginiamoci allora gli effetti di queste campagne
sui “civili”, ovvero i non addetti ai lavori del mondo dell’informazione.
Se ci
sono senz’altro ragioni più complesse nel sostegno alle azioni di Putin da
parte di alcuni, vuoi per appartenenza politica o sfiducia nei confronti della
narrazione prevalente, collegata anche a chi si è radicalizzato in opposizione
alla gestione della pandemia, non va quindi sottostimato il semplice e diffuso
semianalfabetismo comunicativo e digitale, particolarmente presente in Italia.
Non
inteso come insulto, ma come presa di coscienza del fatto che molte competenze
passate non siano sufficienti a orientarsi in uno scenario informativo
completamente cambiato.
Con
l’aggravante che chi ne è vittima finisce per trasformarsi a sua volta in
carnefice, con un solo clic condiviso all’interno della propria bolla.
Nel
frattempo in Russia i social occidentali come Facebook, Instagram e TikTok sono
ormai bloccati o ad accesso limitato.
La
maggioranza dei russi comunque non li usa.
Assai
più popolari sono infatti VKontakte e Telegram.
In particolare il secondo può fornire anche
all’esterno del Paese una finestra sulle opinioni dei russi, anche se in
entrambi la propaganda la fa crescentemente da padrona.
Pur
senza poter contare sulla poderosa macchina di disinformazione russa, anche
l’Ucraina da anni affila le proprie armi sul campo del “soft power”.
Da tempo, per esempio, ne studiavo l’abilità
nel trasformare la propria presenza all’Eurovisione nell’occasione per il
proprio riposizionamento europeista.
Una
mossa che ha senz’altro contribuito a un gradimento e senso di amicizia
continentale che ora tornano più che mai utili.
Sui
social, fin da prima della guerra, l’Ucraina e i propri sostenitori si erano
distinti nella produzione di meme ironici, che ridicolizzavano le
rivendicazioni russe.
L’invasione
ha interrotto questo approccio, sostituito da dichiarazioni patriottiche di
sostegno, dai colori giallo e blu che si sono imposti nella palette social e
dalla presenza costante del presidente ucraino, attraverso video registrati in
prima persona. Il suo esempio è stato presto seguito da molti suoi
concittadini, attraverso i quali abbiamo visto fughe verso la Polonia, gli
effetti di bombardamenti e così via.
Le loro comunicazioni anticipano in tempo
reale tutte quelle dei media, che, costretti a inseguire, finiscono in genere
per rilanciarle come fossero lanci d’agenzia, salvo magari doverle smentire
subito dopo.
Spesso sulle piattaforme social sono state
inoltre condivise, sia da cittadini che da fonti ufficiali ucraine, anche
vittorie in operazioni militari appena terminate (con riprese di droni o dai
telefoni dei soldati), che hanno senz’altro un effetto positivo sul morale
degli ucraini invasi, ma sollevano anche dubbi sul fronte dei diritti.
Come
nel caso delle interviste a militari russi prigionieri di guerra, vietate dalla
Convenzione di Ginevra, ma che, nella fretta della copertura 24 ore su 24, sono
invece finite per essere addirittura condivise da importanti testate italiane.
E se
le parti in causa talvolta abusano dei social, opaca è comunque anche la
gestione da parte delle piattaforme stesse.
Un
esempio è la decisione da parte di Twitter e di Meta (il gruppo cui fanno capo
Facebook, Instagram e WhatsApp) di rimuovere in una dozzina di Paesi dell’Est
Europa il divieto di postare minacce di morte, così da consentire gli attacchi
degli utenti nei confronti dei russi.
Scelta
poi ritrattata, ma che già aveva consegnato a Putin un pretesto ideale per
bandire queste piattaforme dalla Russia.
Tra
l’altro, è importante sottolineare come non si possano derubricare queste
policy allo scivolone di un qualche manager informatico: a capo degli affari
globali di Meta siede nientemeno che Nick Clegg, ex leader dei
liberaldemocratici britannici e vice primo ministro sotto David Cameron.
Entrato
in Facebook come vicepresidente per la comunicazione, è ora di fatto il
ministro degli Esteri del gigante della Silicon Valley.
Il che lascia capire come anche questi
soggetti commerciali agiscano con una forte carica politica.
Sarebbe
però troppo facile liquidare i social sottolineandone l’azione di peggioramento
della qualità del confronto pubblico e il contributo nell’accrescere la
polarizzazione.
La
realtà è più complessa e in molti casi risultano essere canali informativi
utili e che fanno la differenza.
L’esempio
più evidente è la stessa Russia, dove la televisione costituisce ancora il
principale mezzo di informazione per oltre il 60% della popolazione, con punte
molto più alte tra i meno giovani.
Molte
dunque sono le testimonianze che stanno emergendo della fortissima spaccatura
tra queste fasce di cittadini, che formano la propria opinione interamente
attraverso la televisione (che è di per sé un mezzo sul quale è più facile per
i governi esercitare il controllo, che è infatti completo in Russia, ma sempre
più fortemente centralizzato anche in Ucraina) e chi invece ha accesso a fonti
alternative internazionali.
Questa
divisione colpisce le famiglie russe sia sull’asse generazionale, per via dei
molti giovani che sul web riescono a informarsi in modo più vario, aggirando la
censura attraverso protocolli VPN (Virtual Private Network) sul web, sia nei confronti di molti
appartenenti alla diaspora russa, per i quali è spesso quasi impossibile
discutere con i propri parenti in Russia, convinti che l’esercito sia impegnato
nella liberazione degli ucraini.
In
Russia la maggior parte dei giornalisti indipendenti ha infatti smesso da tempo
di pubblicare giornali cartacei e on-line o di trasmettere via radio o sui
pochi canali televisivi non allineati.
Oppure
sta scappando all’estero, dove però si troverà nelle note difficoltà di
informare basandosi su informazioni di seconda mano raccolte dall’esilio.
Nonché senza gli strumenti per rivolgersi a
chi più importerebbe: chi è rimasto nel Paese e che dunque non accede più
all’informazione proveniente dall’esterno.
Interessante
per il panorama mediatico russo sarà capire gli effetti a medio e lungo termine
della protesta della giovane dipendente della televisione russa che la scorsa
settimana ha interrotto una popolare trasmissione con un cartello contro la
guerra.
Significativamente
non è subito sparita in Siberia come molti si aspettavano, ma è stata solo
condannata a una piccola multa, tanto che c’è chi ha addirittura pensato che
potesse essere trattata di una messinscena per gestire il dissenso e al tempo
stesso smentire le accuse di dittatura nei confronti di Putin.
Più
probabile che si sia trattato di una protesta autentica, che le autorità hanno
inizialmente tollerato per evitare danni peggiori d’immagine che avrebbe potuto
causare una repressione troppo brutale.
Ma il
rischio che altri ne seguano l’esempio è forse troppo elevato perché venga
tollerato ancora per molto.
E
forse non è un caso che proprio dopo che il 21 marzo, per la prima volta, una
mano anonima ha pubblicato su un canale social della Komsomolskaja Pravda il
numero dei soldati russi morti fino a quel momento, poi rimosso dopo pochi
minuti, sia arrivata la denuncia della contestatrice televisiva come presunta
spia britannica.
Accusa
che potrebbe portare a conseguenze ben più gravi rispetto alla multa iniziale e
forse necessarie a Putin per mantenere il controllo della situazione.
A
questo proposito, uno degli ultimi aspetti da analizzare è proprio la
comunicazione dei due leader.
Che
può apparire antitetica, ma perché in effetti a essere completamente diversi
sono i rispettivi destinatari.
Putin
parla quasi esclusivamente ai russi, anche quando sembra che parli al mondo.
Mentre
Zelenskij parla in parte al proprio popolo, ma anche e talvolta soprattutto
all’esterno.
L’abilità comunicativa del leader ucraino è
evidente.
Dopotutto
è un attore, che ha dimostrato di essere consapevole delle proprie capacità, ed
è circondato da un team di collaboratori esperti.
Pare
che gli stessi autori che scrivevano le sue sceneggiature preparino ora i suoi
discorsi, spesso fatti parlando informalmente e direttamente verso l’obiettivo
del proprio telefono.
Sono
molti a pensare che il suo rifiuto di scappare nei giorni immediatamente
successivi all’invasione sia stato decisivo per la resistenza generale del
Paese e anche quel frangente è stato gestito comunicativamente in modo eccelso,
a partire dalla risposta «ho bisogno di armi, non di un passaggio», rivolta
agli Stati Uniti che gli offrivano una via di fuga.
Altrettanto
funzionali sono i suoi interventi in diretta con i Parlamenti europei e
mondiali, che arringa con interventi su misura a seconda dei destinatari, nella
consueta divisa informale di guerra scelta fin dalle primissime ore
dell’attacco.
Sul
fronte opposto, Putin potrà ai nostri occhi apparire meno abile.
Sembra
quasi impossibile che qualcuno possa essere sedotto dalle scenografie fredde e
sontuose scelte dal leader russo per i propri interventi pubblici.
Ma chi
conosce la Russia ha motivo di credere che un’importante fetta del pubblico di
Putin invece apprezzi anche questo aspetto formale, rituale e imperiale della
sua leadership.
Putin, inoltre, è particolarmente bravo
nell’uso mirato di parole chiave.
A
differenza di Zelenskij, che ha pochi tormentoni (come l’esclamazione Slava
Ukraini, Gloria all’Ucraina) e preferisce adattare e moltiplicare i propri
messaggi in base ai destinatari, Putin ripete sempre le stesse formule, partendo dalla
“denazificazione”, fino ad arrivare ai ripetuti riferimenti ai “drogati di
Kiev”, che potranno apparire a noi oscuri, ma il suo pubblico sa interpretare
esattamente all’interno della narrazione putiniana.
E ciò
accade non solo in Russia.
Un’indagine
effettuata sui social e sul web mostra come la comunicazione russa abbia
un’ottima penetrazione innanzitutto in Cina.
Ma
altre ricerche segnalano buoni risultati anche in India, in Africa subsahariana
e in America del Sud.
È tuttavia vero che a livello internazionale
la narrazione dominante sembra essere quella in favore di Kiev.
Un
recente studio, per esempio, mostrerebbe come persino in Cina, dove il governo
ha tenuto una posizione particolarmente vicina a Putin, i post sui social
cinesi siano circa spaccati a metà: con un 50% che danno la colpa della guerra
alla NATO e altrettanti a Putin.
Negli
scorsi giorni, l’autore russo-ucraino-britannico Peter Pomerantsev riportava
una barzelletta che circola tra i sostenitori di Putin in Russia:
due
ufficiali russi sorseggiano champagne a Parigi, dopo avere conquistato tutta
l’Europa e uno dei due dice «Hai saputo? Abbiamo perso la guerra dell’informazione».
Come
abbiamo visto, ciò in realtà non è neanche del tutto vero; ma neppure è vero,
come vorrebbe far pensare la barzelletta, che a contare siano soltanto le
conquiste sul campo e non l’informazione.
O
meglio, in questo caso, la comunicazione.
Perché se la prima dovrebbe aspirare a
fattualità e neutralità oggettiva (ed è quella che è tanto mancata fino ad
ora), l’altra invece è uno strumento narrativo fondamentale per la nostra
comprensione del mondo e in quanto tale sarà fondamentale sia per riuscire a
porre fine alla guerra, sia nell’auspicato dopoguerra.
Sperando
che le trattative portino a esiti positivi, infatti, la comunicazione svolgerà
un ruolo fondamentale e decisivo nel far raggiungere e accettare un equilibrio
tra rivendicazioni e concessioni, da una parte e dall’altra. La narrazione che
ne sarà fatta determinerà a sua volta la soddisfazione dei rispettivi popoli e
dei loro alleati e sostenitori.
O al
suo opposto farà correre il rischio che il nuovo equilibrio porti in breve
tempo a nuovi revanscismi, miti di vittorie mutilate e rancori che porterebbero
inevitabilmente a nuovi conflitti.
Qualora non sia possibile farlo già ora, ad
armi ferme sarà altrettanto necessario fare un punto sulla salute della nostra
informazione.
Sia tra i professionisti, che tra chi la
consuma, anche perché sempre di più questi finiscono per esserne coautori
on-line.
Perché
questa guerra, nella quale stiamo vedendo tante novità e prime volte purtroppo
sul fronte diplomatico e degli armamenti, rischia di rappresentare un cambio di
paradigma anche per l’informazione e la comunicazione.
Che insieme si confermano fattori fondamentali
anche per la sicurezza internazionale.
E
proprio per questo è sempre più importante fornire a tutti gli strumenti per
comprenderli, così da non esserne vittime passive, ma soggetti attivi e
preparati.
L’asse
intestino-cervello,
perché
è importante?
Guna.com-
Gershon M.D. – (20-6-2022) – ci dice:
1 A
cosa serve l’intestino.
2 Alla
scoperta del Microbiota.
3 In
che modo l’intestino influenza il cervello e viceversa?
4 Come
(e perché) trattare meglio intestino e cervello.
A cosa
serve l’intestino.
“Prendi
una decisione di pancia!” Quante volte ce lo siamo sentiti dire?
O
magari siamo stati noi stessi a dirlo a qualcuno.
Se ci
soffermiamo un secondo ad analizzare questa frase, scopriremo un aspetto
interessante: prendere una decisione è un’attività che riguarda l’aspetto più
mentale e razionale di una persona.
Riguarda,
per farla semplice, il pensiero e quindi il cervello.
Se
parliamo di pancia, al contrario, ci riferiamo ad un aspetto più istintuale,
primario e innato.
Quindi
questa frase ci invita a fare qualcosa di razionale facendoci guidare
dall’istinto.
Un
controsenso? In realtà no.
Anzi,
è una visione che ha una motivazione molto concreta e basi scientifiche.
Cervello
e intestino, infatti, sono strettamente correlati.
Di
più: parlano lo stesso linguaggio.
Numerosi
studi testimoniano come il sistema nervoso enterico (quello che governa
l’attività intestinale) e il sistema nervoso centrale (legato invece
all’attività cerebrale) usino gli stessi mediatori per originare delle reazioni
e ottenere risposte agli stimoli.
Sistema
nervoso.
Ma
perché di tutti gli organi proprio l’intestino ha un ruolo di primaria
importanza, tanto da poter parlare con l’organo depositario dell’intelletto?
È
presto detto.
L’intestino
è centrale per la nostra sopravvivenza:
attraverso
di lui il nostro corpo assimila e assorbe le sostanze nutritive vitali per la
nostra salute e l’equilibrio biochimico che ci garantisce il benessere.
L’epitelio
intestinale, ovvero la superficie che ricopre le “pareti” intestinali, in
stretta simbiosi con il Microbiota intestinale, è l’interfaccia più affidabile
per preservare il nostro stato di salute:
esso
infatti filtra le sostanze che per noi sono nutritive e utili e scherma quelle
nocive.
Svolge perciò una funzione molto importante.
Epitelio
microbiota.
L’epitelio
intestinale forma con il Microbiota la “barriera intestinale”, una vera e
propria “barriera” dinamica essenziale, il cui stato di salute influenza il
nostro stato di benessere generale:
una
barriera intestinale sana permetterà uno scambio funzionale, mentre una danneggiata
o sofferente non sarà in grado di svolgere le sue funzioni vitali al meglio,
con conseguenti processi di malassorbimento e con ripercussioni inevitabili sul
nostro stato di salute.
Proprio
perché svolge questa funzione fondamentale, l’evoluzione ha dotato l’intestino
anche di un sistema nervoso autonomo, in grado di preservare e garantire la
funzionalità nutritiva indipendentemente da tutto.
Questa
caratteristica di autonomia e autoregolazione nella gestione degli stimoli fa
sì che l’intestino venga definito anche “il secondo cervello”.
Un’alimentazione
sbilanciata, cibi mal tollerati dall’intestino, uno squilibrio della flora
batterica intestinale (o Microbiota intestinale) magari dovuto all’uso
incongruo di antibiotici e di altri farmaci, sono tutti fattori che possono
gravare sullo stato di salute dell’intestino, della flora batterica intestinale
e sull’integrità della barriera intestinale, andando a compromettere nel lungo
periodo il benessere generale.
Alla
scoperta del Microbiota
un
vero e proprio ecosistema nella nostra pancia!
Il
Microbiota dell’apparato gastro-intestinale, detto anche “Microbiota
intestinale”, è l’insieme dei microorganismi presenti nel tubo digerente
dell’uomo che hanno un ruolo fondamentale per la vita umana, e rappresenta
l’ecosistema più complesso della natura!
È
composto da un numero di batteri pari quasi a tre volte il totale delle cellule
dell’intero corpo umano e da almeno quattro milioni di tipi diversi di batteri,
che vivono in stretto contatto “mutualistico” con la mucosa intestinale.
I
principali sono i Bifido batteri, i Lattobacilli e gli Eubacterium, ma ve ne sono di numerose altre
specie, e tutti insieme conducono funzioni per noi essenziali:
favoriscono
la bio-disponibilità di alcuni nutrienti e la metabolizzazione delle calorie;
sintetizzano
diverse vitamine;
regolano
l’espressione del sistema immunitario nella mucosa intestinale;
sostengono
la peristalsi intestinale;
proteggono
la mucosa intestinale - e quindi l’intero organismo - da aggressioni di
microrganismi patogeni, prevenendo così la comparsa di molte infezioni.
La
composizione del Microbiota è fortemente influenzata dall’alimentazione già a
partire dal tipo di allattamento, se al seno o artificiale, e dallo
svezzamento, e in seguito dalla condotta alimentare quotidiana.
Fattori
interni ed esterni possono determinare disiosi, ovvero alterazioni anche importanti
del Microbiota.
Fra
questi, squilibri dietetici, stress psico-fisici, stili di vita non
equilibrati, uso incongruo di farmaci.
In che
modo l’intestino influenza il cervello e viceversa?
Abbiamo
detto che l’intestino parla lo stesso linguaggio del cervello e che ha un
sistema nervoso proprio e, per questo motivo, riesce a prendere decisioni
autonomamente.
La
comunicazione fra i due organi avviene attraverso il nervo vago sulla base di
neurotrasmettitori comuni, come la serotonina:
la serotonina svolge un ruolo fondamentale per
la regolazione dell’umore e viene prodotta per il 95% dalle cellule distribuite
lungo la mucosa intestinale.
All’interno
dell’intestino essa è in grado di mediare funzioni come la peristalsi, la
secrezione, così come la sensazione della nausea.
Ecco
allora che, attraverso il nervo vago, questi segnali vengono veicolati dalla
serotonina al cervello che li associa, ad esempio, al senso di sazietà.
asse
cervello intestino.
Non
dobbiamo dimenticarci però che la relazione tra intestino e cervello è a doppio
senso.
Se è vero che lo stato di salute
dell’intestino si riflette sul cervello, è vero anche il contrario:
periodi
particolarmente stressanti o la nostra (in)capacità di affrontare ansie, paure,
decisioni, possono incidere sul normale funzionamento dell’intestino con
alterazioni della peristalsi (e conseguenti episodi ad esempio di stipsi o di
colite) e della produzione di acidi, di enzimi, di ormoni.
Allo
stesso modo dieta e disordini intestinali possono avere ricadute sull’umore
(ecco cosa significa somatizzare lo stress!).
Come
(e perché) trattare meglio intestino e cervello.
Alimentazione
intestino.
L’importanza
di prendersi cura al meglio della nostra “pancia” è quindi evidente.
Sì, ma
come fare?
Le risposte possono essere molte e varie.
È
innegabile che l’alimentazione ricopra un ruolo fondamentale:
prestare
attenzione alla reazione del nostro intestino ad alcuni alimenti e bevande ci
permette di notare cosa può irritarlo maggiormente per moderarne o evitarne
l’assunzione.
Ci sono cibi poi che per loro stessa natura
(ad esempio per un alto livello di acidità) tendono a sovraccaricare il nostro
apparato gastrointestinale costringendolo a un superlavoro che aumenta il
rischio di irritazione.
Pensiamo
ad esempio a cibi fritti o particolarmente grassi o ancora a bevande gasate e
zuccherate.
Un’alimentazione
leggera e con il giusto apporto di fibre permette di mantenere il giusto
equilibrio della flora intestinale, senza però rinunciare al gusto!
Perché,
come abbiamo visto, anche il cervello vuole la sua parte e diete troppo
restrittive rischiano di alterare il nostro umore e aumentare il livello di
stress.
Con il
risultato che, invece di farci bene, rischierebbero di peggiorare il nostro
stato di benessere.
Qualora
poi l’alimentazione non bastasse, può essere utile ricorrere all’integrazione di
simbiotici certificati (cioè prebiotici e probiotici insieme), come “Pro flora”,
che aiutano a mantenere in equilibrio la flora intestinale (il Microbiota di
cui abbiamo parlato qualche riga più in alto) contribuendo alla salute dell’intestino
e a sostenere il sistema immunitario.
E il
cervello come può essere supportato?
Sostegno
cervello.
Ad
esempio con un po’ di attività fisica che, oltre a migliorare il tono
muscolare, migliora anche l’umore aiutandoci a ridurre lo stress e i suoi
effetti sull’intestino.
Anche
il giusto riposo ci può aiutare a tenere sotto controllo tensione, stress e
ansia.
Un
ultimo consiglio: coltivare la creatività!
Dedicarsi a un’attività piacevole e che
stimoli la fantasia permette di distaccarsi dalle fonti di stress e di
concentrarsi su un aspetto più gratificante e piacevole.
Un’attività
“di pancia”, quindi, che stimola il pensiero: insomma, una vera e propria
coccola per intestino e cervello.
(Gershon
M.D., Il secondo cervello, UTET).
Sergei
Lavrov: il Prossimo Passo
degli
Stati Uniti è sopprimere
le
Economie Europee.
Conoscenzealconfine.it
- Luca La bella – (9 Febbraio 2023) – ci dice:
I
piani futuri degli Stati Uniti includono la soppressione economica dell’Europa,
ritiene il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.
Secondo
Lavrov, “non c’è dubbio che questo faceva parte dei piani di chi vive nella
consapevolezza dell’eccezionalità del proprio Paese”.
“Il
processo di tale soppressione economica è già iniziato”, ha detto Lavrov.
Per
corroborare il suo punto di vista, il ministro russo ha ricordato le
dichiarazioni dei leader europei sulle “leggi che gli americani hanno
adottato per combattere l’inflazione”.
Germania
e Francia sono ora particolarmente preoccupate per la nuova legge statunitense,
ha affermato Lavrov.
L’industria
tedesca di solito guarda nella direzione in cui ci sono vantaggi.
“Questi benefici sono chiaramente
discriminatori. Mirano chiaramente a minare l’industria europea”, ha concluso
il ministro degli Esteri russo.
A
gennaio, Francia e Germania hanno concordato una “risposta europea ambiziosa”
alla nuova legge degli Stati Uniti.
“Avremo
una strategia europea comune che porterà a una risposta ambiziosa e rapida”, ha
affermato il presidente francese Emmanuel Macron.
Le
attuali preoccupazioni dell’Europa sono legate al pacchetto di sgravi fiscali
statunitensi da 369 miliardi di dollari per sostenere le “imprese verdi “statunitensi.
Il
nuovo “Inflation
and Climate Act” (Inflation Reduction Act, IRA) è entrato in vigore il 1° gennaio 2023.
Considera
la possibilità di ridurre tasse e agevolazioni nelle forniture energetiche per
le società che aprono negli Stati Uniti.
I
funzionari europei ritengono che la legge costringerà le aziende a spostare i
loro piani di investimento dall’Europa.
Inoltre,
incoraggerà le persone a consumare prodotti americani.
(Luca
La bella - databaseitalia.it/index.php/2023/02/06/sergei-lavrov-il-prossimo-passo-degli-stati-uniti-e-sopprimere-le-economie-europee/).
La
cattiva notizia è che la
“cancel
culture” esiste eccome.
Wired.it
– Raffaele Alberti Ventura- (18-5-2021) – ci dice:
La “buona”
è che, in una società fatta di disuguaglianze e tensioni, la spinta a
pacificare il linguaggio è inevitabile.
Con
buona pace dei debunker, quando si parla di pol. corr. e cancel culture non si
parla di allucinazioni: è il mondo in cui viviamo.
I debunker
non hanno dubbi:
il politicamente corretto assolutamente non
esiste, è soltanto un mito — ma tu intanto smettila subito di dire questo e
quello.
Per
cominciare smettila di parlare di “politicamente corretto”, che è un mito di
destra, anzi di estrema destra, e a furia di parlarne potremmo iniziare a
pensare male di te.
Al
sapere oggettivo, neutrale, post-politico dei debunker non ci si può che
inchinare, ma se le cose stanno così allora com’è possibile che per tante altre
persone il” politicamente corretto” (qualsiasi cosa sia) invece esista, e anzi
sia percepito come un problema rilevante?
La risposta breve è che la questione non
riguarda se si possa o non si possa dire più nulla in assoluto, bensì la manifestazione
dello scarto tra quello che viene tollerato in certi contesti comunicativi e
quello che viene sanzionato in altri.
Uno scarto reso visibile dalla circolazione
incontrollata dei contenuti, che crea continue frizioni e al termine del ciclo
delle decontestualizzazioni porta un Enrico Mentana ad affermare che “la cancel culture è come il nazismo”.
Mentre
un’intera generazione di giornalisti affermati sta perdendo il senso della
misura, noi possiamo facilmente continuare a ripetere che non stiamo assistendo
a nessun fenomeno sociale rilevante; oppure possiamo ammettere che qualcosa sta
accadendo.
Ogni
rapporto di potere impone il suo ordine del discorso, direbbe Foucault.
Nel
dibattito importato dagli Stati Uniti d’America si parla di “politicamente corretto”
per indicare l’insieme dei dispositivi di censura e autocensura che regolano
gli atti comunicativi, mentre con “cancel culture” si fa riferimento al sistema
di sanzioni formali o informali, dall'alto e più spesso dal basso, che
realizzano questa regolazione.
In un
paese come l’Italia rari casi di cancellazione (più spesso riguardanti la
blasfemia) convivono con la generale impunità degli eccessi razzisti e sessisti
più truculenti.
Non
sfuggirà tuttavia agli osservatori più acuti che gran parte dei nostri consumi
culturali e scambi comunicativi sono mediati da aziende che non hanno sede in
Italia, da Facebook a Netflix, con le loro politiche aziendali tarate sul fuso
orario della Silicon Valley.
Vero è che gran parte di chi tuona contro il “politicamente
corretto” da Trieste in giù non ne ha mai subito direttamente gli effetti:
perlopiù
si limita a commentare notizie venute dall’estero e dal mondo universitario,
spesso deformate.
In effetti, poiché le trasformazioni culturali
si manifestano principalmente attraverso segnali deboli, per penetrare nel
dibattito pubblico i singoli fatti isolati devono essere amplificati e
collegati entro delle narrazioni.
Il risultato è che si discute spesso di fatti
irreali che a poco a poco si accumulano in grandiose cattedrali di paranoia.
Cionondimeno,
con buona pace dei debunker, quei segnali deboli ci dicono tre cose molto
importanti.
(Gianluca Ruggieri a Wired Trends
2023: "Stiamo sperimentando un'enorme accelerazione nella transizione
energetica")
Primo.
Non assistiamo forse, quotidianamente, a
ondate di indignazione, protesta, rabbia, talvolta panico morale sui social
media?
Il fenomeno, trasversale a destra e sinistra,
laici e credenti, minoranze e maggioranze, può riguardare l’adattamento di un
fumetto di supereroi o la rappresentazione di una divinità, l’impiego di una
certa parola o l’interpretazione di una battuta, l’esistenza di una statua o un
dettaglio presente in un libro scolastico, la scoperta di un dettaglio scabroso
nel passato di una persona o nella storia di un paese.
Non serve produrre un contenuto razzista o sessista
per indignare qualcuno da qualche parte, basta un malinteso.
Con i social media siamo passati dall’esistere
in uno spazio pubblico, nel quale eravamo esposti al giudizio di una sfera
ristretta di persone, a una condizione di iper-pubblicità nella quale ogni
traccia che lasciamo può potenzialmente raggiungere il mondo intero.
A
ognuno di noi sono promessi nella vita, rovesciando Warhol, almeno 15 minuti
d’infamia.
Le
aziende lo sanno, e sono portate a curare con maggiore attenzione la loro
comunicazione.
Insomma,
“non si può più dire niente” …. senza fare i conti con le conseguenze di quello
che diciamo, sottoposto a ogni forma di deformazione, montaggio,
semplificazione, rovesciamento, decontestualizzazione.
Prova
ne sia il modo in cui notizie d’oltreoceano più o meno aneddotiche, baci a
Biancaneve inclusi, finiscono nel tritacarne mediatico.
Inevitabilmente questo feedback incentiva dei
riflessi di censura e autocensura per evitarne le conseguenze — il “politicamente
corretto”, appunto.
Che
però non esiste, non sia mai.
Secondo.
Non è
forse vero che negli ultimi decenni le sensibilità sono cambiate su temi come
il razzismo e il sessismo?
Inclusione
e diversità non sono effettivamente priorità rivendicate dalle grandi aziende
multinazionali?
Non si
discute, tra intellettuali e attivisti, della rimozione di statue e simboli a
causa del messaggio che portano, o della ridefinizione del canone letterario su
basi più inclusive?
È il
risultato di una maggiore rappresentazione delle minoranze in seno alla classe
media e al settore terziario, che ha finalmente prodotto delle rivendicazioni
di ordine simbolico:
dopo
il pane le rose, e quindi riconoscimento.
Si
parla di abolire dei privilegi linguistici che rispecchiano dei privilegi
effettivi.
Se si prende questo programma sul serio, non
c’è da stupirsi che susciti una viva reazione, mista di timore, incomprensione,
risentimento e rabbia, da parte della classe media occidentale già posta di
fronte alla certezza del suo declassamento e ora intimata di liberare spazi
professionali e memoriali.
Le battaglie culturali — e quella che stiamo vivendo è
indubbiamente tale — riguardano da sempre la scelta di quello che deve essere
trasmesso e quello che non deve esserlo, talvolta persino finendo distrutto.
Insomma
queste guerre si combattono a colpi di “cancel culture”.
Che
però non esiste, figuriamoci.
Terzo.
È solo
un mito che negli Stati Uniti o nel Regno Unito diverse persone abbiano subito
conseguenze lavorative, talvolta perso il posto, per dei tweet?
Questo
sicuramente non sarebbe successo trent’anni fa e la principale ragione è
semplice quanto banale: beh, non esisteva Twitter.
Ma in un contesto in cui ormai Twitter esiste,
assieme a decine di altri strumenti per riprodurre e diffondere contenuti, ne
risente la reputazione di ognuno, e in particolare di chi ha ruoli pubblici e
istituzionali.
La complessa padronanza dei codici linguistici
della società multiculturale – con le sue parole da dire e da non dire, i suoi
neologismi, le sue accortezze – è già oggi un criterio di selezione delle élite
internazionali.
Quale
azienda o istituzione vorrebbe un manager che le tira addosso uno “shistorm”
perché non hai mai sentito parlare di “dea naming” o di “black fishing”?
Il “politicamente scorretto” rivendicato dai commentatori
italiani verrebbe immediatamente sanzionato (assieme a molte gaffe dettate da
sincero provincialismo) in altri contesti intellettuali e professionali.
Che le
élite italiane siano estranee a questi trend è precisamente il segnale che si
sono sganciate, assieme all’intero paese, dal treno della modernizzazione.
In
questo senso la correttezza politica non è un merito innato bensì niente di
meno che una competenza acquisita.
Sostenere che non esista risponde a un tipico
rovesciamento ideologico, ovvero presentare come naturali e autoevidenti quelle
che sono convenzioni sociali, e neutrali i processi di selezione meritocratica.
Ora
proviamo a riassumere quello che ci dicono i segnali deboli e deformati che
arrivano in Italia dai centri del potere mondiale:
quando parliamo di “politicamente corretto”
non stiamo evocando un’allucinazione o un mito di destra, ma una condizione
storica del tutto inedita – anche se per certi aspetti simile a quella della
Riforma protestante – determinata contemporaneamente da una mutazione radicale
della sfera comunicativa per effetto di una trasformazione tecnologica, da un
conflitto sul canone culturale determinato dall’accesso di nuove minoranze
nelle file della classe media, nonché da un aggiornamento dei codici di
comportamento e selezione delle élite manageriali.
Mito, allucinazione, o vera e propria
rivoluzione?
Il “politicamente
corretto” non solo esiste, ma è inevitabile.
Una
realtà multiculturale, ovvero composta da comunità di parlanti che padroneggiano
codici linguistici differenti, seguono regole morali diverse, portano memorie
di oppressione divergenti, non può sopportare senza traumi la circolazione
incontrollata dei segni.
Una società solcata da diseguaglianze e
tensioni non
può esporsi alla permanente eccitazione delle ostilità.
Di
fronte alla prospettiva di una pandemia di segni fuori controllo, il
politicamente corretto appare come la sola igiene linguistica adatta a limitare
i conflitti.
A
pieno regime, nei contesti in cui opera, la sua logica governamentale non
consiste nel disciplinare la parola pubblica vietandola, ma circoscrivendola in
spazi specifici e sottoponendola a incentivi reputazionali:
il massimo grado di libertà linguistica si
paga con l’esclusione da certe carriere e posizioni internazionali.
La
consapevolezza che il codice serva a legittimare delle ineguaglianze di status
è la causa più evidente del risentimento che suscita da parte di quei segmenti
della popolazione, come classi popolari e minoranze etnico-religiose,
condannati alla subalternità culturale dalla propria incontinenza linguistica.
Per
arginare ogni contestazione del dispositivo, è dunque funzionale l'operazione
ideologica di neutralizzazione e depoliticizzazione della questione operata dai
debunker:
meno
si discute del “politicamente corretto”, preservando la finzione tecnocratica
su cui si fonda, meno conflitti rischiano di sorgere.
Tutto
bene allora?
Sfortunatamente no, perché le tensioni politiche
soggiacenti non possono mai essere del tutto cancellate.
Siamo
cresciuti in un mondo in cui la “libertà d’espressione” era considerata come un
diritto fondamentale.
Gli
eroi che veneriamo sono filosofi e scienziati che hanno avuto il coraggio di
gridare ciò che gli si imponeva di tacere:
Socrate,
Ipazia, Giordano Bruno, Galileo, Voltaire fino ai numerosi scrittori, registi,
musicisti che nel Dopoguerra si sono scontrati con la censura.
Forse
per essere stati troppo zitti prima, noi figli dell’Illuminismo consideriamo
che solo dicendo, scrivendo, disegnando, cantando quello che ci passa per la
testa, insomma mettendo alla prova il grado di libertà di cui godiamo, possiamo
dare un senso alla nostra vita ed essere pienamente quello che siamo.
Dopo
gli anni Sessanta la provocazione fine a sé stessa era diventata un genere
artistico a sé stante, partendo da Charlie Hebdo e Sid Vicious per arrivare ai
monologhi degli umoristi nazionalpopolari.
Ma
questi valori, tipici della vecchia società borghese e culturalmente uniforme,
non sono compatibili con l’infrastruttura comunicativa che abbiamo costruito:
un immenso acceleratore di particelle che fa
collidere tra loro fasci di parlanti sotto forma di urti violenti.
Questa
nuova condizione potenzialmente catastrofica deve essere amministrata
all’interno di un nuovo ordine del discorso.
Anche
in passato, nella polis greca come ai tempi delle guerre di religione europee,
gli editti di pacificazione prevedevano come prima cosa la cancellazione della
memoria e dei segni che rischiassero di rinfocolare le tensioni.
Se
saremo progressivamente costretti a rimuovere statue per sostituirle con
astratti monumenti alla vittime di tutte le guerre, è perché abbiamo scoperto
che non esistono segni davvero universali;
essi
stanno lì come testimonianze efficaci di rapporti di potere, immuni da
ritorsioni materiali solo fintanto che lo spazio è pacificato per mezzo del
monopolio della violenza.
La
promessa universale di sicurezza su cui si fonda l’ordine politico moderno – “bisogna difendere la società”,
scriveva sarcasticamente Foucault – ha finito per estendersi alla protezione
dai rischi comunicativi.
La società del rischio, ce lo ha insegnato la
pandemia, è anche una società della precauzione:
essa crea le condizioni oggettive che ci
vincolano a soluzioni drastiche, gestite nel quadro di un paradigma
tecnocratico.
Via via che le contraddizioni della modernizzazione si
fanno più acute, la soluzione obbligata per ogni problema finisce per essere
indistinguibile da una reductio ad absurdum dell’intera storia del progresso.
I mandarini del Celeste Impero dovevano
memorizzare migliaia di ideogrammi per svolgere correttamente le loro mansioni;
i
nuovissimi mandarini di cui la nostra società frammentata ha bisogno potranno
ben fare le sforzo di assimilare, e aggiornare in permanenza, il pur complesso
manuale delle differenze, delle identità, delle memorie, dei traumi, delle
parole da dire e da non dire.
Ci
eravamo convinti che la nostra libertà fosse inoffensiva, come se esprimersi
potesse talvolta produrre sul mondo dei risultati positivi ma assolutamente mai
degli effetti negativi.
Questo
vecchio mondo — in fondo durato pochissimo, semplice parentesi di
spensieratezza propria di una società opulenta e pacificata — è ormai finito.
Sopravviverà
solo chi saprà adattarsi.
Per
molti di noi è già tardi.
Per
questo mi preme chiedere ai debunker, prima di essere cancellato:
che
cosa diavolo è il “black fishing”?
Ecco
il decalogo
degli
errori di Renzi.
Nens.it
- Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini, Vincenzo Visco – (10- Marzo
- 2017)
ci dicono:
Lunghissima
e dettagliata analisi, capitolo per capitolo, della politica seguita dall'ex
presidente del Consiglio, scritta e firmata da quattro economisti che da anni
animano i dibattiti e gli studi del Nens come Salvatore Biasco, Vincenzo Visco,
Pierluigi Ciocca e Ruggero Paladini. Risultato:
"Alla
luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del
Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva".
1. La nascita del Governo Renzi era stata accolta con molta fiducia e
aspettative favorevoli, sia per la personalità del nuovo Presidente del
Consiglio, che per la forza derivante dal fatto di essere il segretario del PD.
In
particolare ci si aspettava da Renzi il rilancio dell’economia e
dell’occupazione, il contenimento del fenomeno populista e in particolare del
M5S, il varo di riforme strutturali e istituzionali.
A
consuntivo dei tre anni di governo il bilancio non appare particolarmente
positivo, anche se provvedimenti condivisibili non sono mancati quali quelli
sui diritti civili, tema sul quale i Parlamenti precedenti non erano riusciti a
deliberate, l’inizio di interventi di natura sociale, senza peraltro affrontare
in modo organico il problema della diseguaglianza crescente, l’alternativa
scuola lavoro, e l’aumento della tassazione di alcuni redditi finanziari.
2. Per
quanto riguarda l’economia, discutibile e contradittoria appare la linea seguita in
Europa.
La presidenza italiana dell’Unione Europea
poteva essere l’occasione per porre in discussione formalmente la politica
economica seguita, imposta dalla Germania, in quanto errata sul piano teorico e
inefficace o controproducente su quello pratico (salvo che per la Germania
stessa).
Gli argomenti non mancavano certo.
A
questo si è arrivati molto più tardi dopo un periodo che è sembrato di
acquiescenza alle posizioni di Schauble.
Ci si è arrivati con una linea indebolita
dall’obiettivo di ottenere individualmente una maggiore flessibilità di
bilancio da utilizzare non già per maggiore spese per investimenti bensì per
finanziare la politica dei bonus, senza rendersi conto che la credibilità di un
Paese fortemente indebitato come l’Italia dipendeva (e dipende) dalla capacità
di rispettare gli impegni assunti, pur mantenendo i propri punti di vista,
cercando eventualmente di farli valere anche con convergenze e alleanze con
altri Paesi, con il Parlamento europeo, ecc...
Anche
questo è stato carente.
Poco
si è puntato sul ridisegno della architettura complessiva.
Non si
è cercato di porre sul tappeto la questione della ristrutturazione del debito
europeo, nonostante che a una proposta italiana (Visco) se ne fosse aggiunta
una (pressoché identica) avanzata dai “saggi” consulenti della signora Merkel.
Non si
è posta sul tappeto neppure la questione della concorrenza fiscale in Europa.
Durante la crisi greca, invece di fornire un
sostegno al governo di Tsipras, si preferì defilarsi lasciando la Grecia al suo
destino, secondo una deriva nazionalista che è andata inevitabilmente
crescendo.
3. Per
quanto riguarda la politica interna, la strategia seguita dal Governo Renzi si è ispirata
sostanzialmente a una politica dell’offerta:
riforme strutturali (in primis quella del
mercato del lavoro), riduzione delle imposte, tagli alla spesa pubblica,
maggiore libertà all’azione privata e riduzione dei vincoli amministrativi.
In
sostanza l’approccio mainstream che ha dominato il pensiero economico negli
ultimi decenni, ma che, dopo la crisi del 2007-08, appariva non solo carente,
ma anche superato sia in concreto, in quanto del tutto inadatto ad affrontare
una situazione di deflazione e stagnazione come quella attuale, sia da un punto
di vista teorico.
Il
risultato inevitabile è stato quello di sprecare ingenti risorse con
l’obiettivo di rilanciare il consumo delle famiglie che invece è rimasto
stagnante (per es. la Banca d’Italia ha valutato che l’erogazione degli 80 euro
si è tradotta in consumi solo per il 40%), e di aumentare i profitti delle
imprese nella speranza che esse avrebbero aumentato gli investimenti, cosa che
in carenza di domanda non poteva accadere.
Peraltro, anche la riduzione del cuneo fiscale
(Irpef e imposte sulle imprese) tentata dal II Governo Prodi nel 2006 non aveva
avuto successo:
la riduzione delle imposte, invece di tradursi
in investimenti determinò similmente un aumento degli accantonamenti delle
imprese (e degli imprenditori).
Anche
l’occupazione è stata massicciamente sussidiata con risultati complessivi che
andranno valutati allo scadere degli incentivi previsti, ma probabilmente non
esaltanti. Inoltre bisogna chiedersi quanto gli incentivi non abbiano
contribuito a rendere conveniente impiegare lavoratori a bassa qualifica
piuttosto che investire in nuove tecnologie e quindi contribuito alla riduzione
della produttività.
4. Un
altro approccio era invece possibile, come auspicato da molti e
dimostrato dal XV rapporto Nens sugli andamenti e prospettive della finanza
pubblica italiana che ha simulato gli effetti di una diversa strategia di
politica economica basata sul riassorbimento progressivo delle clausole di
salvaguardia oggi previste, su una efficace politica di contrasto all’evasione
(come quella più volte proposta da uno degli autori) con il contestuale
utilizzo dei proventi per misure di riduzione dell’Irpef e dei contributi
sociali (cuneo) e di sostegno delle situazioni di povertà, e utilizzando tutte
le altre risorse disponibili, incluse quelle derivanti dalla flessibilità
europea, per spese di investimento ad elevato moltiplicatore-
Come
si ricorderà, questa è la politica che recentemente è stata proposta dal FMI,
dall’OCSE, e da autorevoli economisti in tutto il mondo.
Pur
prendendo con cautela i risultati ottenuti dalla simulazione, le direzioni cui
avrebbe portato una strategia alternativa sono inequivocabili e di rilievo:
nel
periodo 2015-18 il PIL sarebbe cresciuto di (almeno) il 6% invece che del 3,8%
implicito nelle manovre governative considerando i risultati acquisiti nel 2015
e quelli previsti nei documenti governativi per i tre anni successivi (e
probabilmente sovrastimati);
l’indebitamento
pubblico per il 2017 si sarebbe collocato sull’1,6% invece del 2,3-2,4% oggi
previsto;
il
debito pubblico sarebbe sceso al 130,2% del PIL, 2,5 punti in meno della stima
del Governo.
Inoltre ci sarebbero stati effetti positivi
sull’occupazione, le aspettative e il clima di fiducia generale nei confronti
della nostra economia sia in Italia che all’estero.
5.
Un’altra grave carenza dell’azione economica del Governo Renzi (in parte da condividere col Governo
Letta) riguarda la crisi bancaria che è stata causata in Italia non già da un
eccesso di investimenti in prodotti strutturati, come in UK, USA, Germania,
ecc., bensì dalla doppia recessione che ha determinato il fallimento di decine
di migliaia di imprese e l’esplosione delle sofferenze.
In
tale situazione era necessario costituire al più presto una “bad bank” per
smaltire i crediti deteriorati e rimettere in funzione il sistema.
Non è
stato fatto, e la crisi si è trascinata fino alla deprimente conclusione della
vicenda MPS.
Alla
base di tale comportamento vi è stato un pregiudizio ideologico, condiviso e
rafforzato dalla comunità dei banchieri, contro ogni intervento pubblico
diretto nel settore.
Se i “Monti bonds” fossero stati convertiti in
azioni tra il 2013 e il 2014 (Governi Letta e Renzi), la situazione si sarebbe
stabilizzata, non si sarebbero sprecati aumenti di capitale per 8 miliardi, e
non si sarebbe verificata la massiccia fuga di depositi dal Monte che è la
causa principale della richiesta da parte della BCE di una maggiore
capitalizzazione della banca.
La
questione bancaria è stata più volte evidenziata come urgente dalla Banca
d’Italia , ma senza successo.
Che
sarebbe entrato in vigore l’accordo sul “bail in” non poteva sfuggire al
Governo.
Inoltre, le mancate dimissioni del ministro
Boschi in occasione della vicenda della banca Etruria che, pur non strettamente
necessarie, sarebbero state politicamente utili, ha fortemente indebolito il
Governo esponendolo a critiche spesso infondate, ma sempre efficaci da un punto
di vista comunicativo, da parte delle opposizioni, contribuendo alla
sostanziale paralisi operativa, alla politica dei rinvii e delle “soluzioni di
mercato”, in nome delle quali si è deciso perfino di sostituire d’autorità il
vertice del MPS.
Incomprensibile
ed inaccettabile, comunque, è non essere intervenuti almeno subito dopo lo
stress test del luglio scorso a salvare il Monte, lasciando marcire la
situazione a causa della priorità del momento, il referendum istituzionale.
Il costo ulteriore per i contribuenti è
rappresentato dai 4 miliardi di maggior aumento di capitale richiesto.
Né va
dimenticato che anche le riforme delle banche popolari e di credito cooperativo
non sono state fatte in modo da evitare rilievi sia di carattere amministrativo
che costituzionale.
6. È
difficile valutare quale sia stata la politica industriale del Governo Renzi, sempre che ce ne sia stata una.
Con
industria 4.0 si è cercato di recuperare il terreno per quanto riguarda la
digitalizzazione del Paese, ma il processo deve ancora partire.
Analogamente
la digitalizzazione della PA stenta a decollare e non si vede un disegno ed una
visione unitaria.
Sono
stati confermati gli sgravi fiscali per ristrutturazioni e interventi
energetici e ambientali, ma senza disegnare una strategia complessiva di
trasformazione ecologica di settori dell’economia (a differenza di quando fatto
in altri Paesi, Germania in testa).
Si
sono predisposti strumenti per affrontare le crisi industriali utilizzando la
CDP, ma non si è saputo affrontare la questione delle infrastrutture da una
prospettiva generale.
Per
quanto il Piano per la logistica e i Porti abbia un approccio condivisibile (e
così quello relativo agli interventi delle Ferrovie) esso è rimasto del tutto
laterale rispetto all’azione di Governo diretta verso altri fronti.
Gli
impegni di spesa sono stati essenzialmente collocati verso gli anni di scadenza
(2020) del piano e di fatto lo stato di avanzamento su tutti i lavori
concernenti i corridoi europei è in ritardo a causa della esiguità dei fondi
disponibili.
Sulla
banda larga si rischia di creare concorrenza tra più operatori, con relativo
spreco di risorse trattandosi di un monopolio naturale.
Si
difende l’italianità di Mediaset, e si è lasciato che Vivendi acquisisse il
controllo di Telecom.
In
concreto la politica industriale di Renzi si è basata soprattutto e
principalmente su un consistente insieme di misure di detassazione e
incentivazione fiscale a pioggia, sicuramente molto gradito alle imprese, ma non
in grado di indirizzare il Paese verso un nuovo assetto industriale e neppure
di recuperare il potenziale industriale perso durante la crisi.
L’idea
di fondo è sempre la stessa: se lo Stato riduce il suo perimetro (riducendo le
tasse, i contributi, ecc.) il mercato, le imprese, troveranno nuova energia e
nuove opportunità di crescita a beneficio di tutti.
Non si
è fatto nessuno sforzo, né si è suscitato nessun dibattito su quali settori
potrebbe essere utile sviluppare in Italia con il sostegno pubblico tenendo
conto delle esigenze del Paese, delle possibili sinergie con la ricerca e le
Università, della possibilità di creare occupazione, né si è avviato un
dibattito sulla possibilità di utilizzare in modo diverso e coordinato il
residuo sistema delle partecipazioni statali, che continua ad essere visto
soprattutto come fonte di reddito per la finanza pubblica, prova ne sia la
privatizzazione di Poste che è avvenuta prima di esplorare le sinergie che
poteva avere con la digitalizzazione del Paese e con lo sviluppo della
logistica di consumo.
Non è stata elaborata nessuna strategia valida
per il Mezzogiorno, mentre si ripropone drammaticamente la questione del
dualismo del Paese.
Tardiva
è stata la predisposizione di Patti con Regioni e Città, che pur andando nella
giusta direzione, appaiono spesso affrettati oltre che imperniati su progetti
tirati fuori dai cassetti degli Enti locali, e in ogni caso improntati a una
logica frammentaria e priva di visione organica.
In tutte le politiche verso cui sono state
indirizzate risorse pubbliche o varati mutamenti di assetto è mancata una vera
e propria regia di attuazione e coordinamento degli attori, in un attivismo
mirato a poter vantare interventi e riforme in vari campi, più che curarne la
completezza, la qualità, il raccordo e l’implementazione.
7.
Particolarmente discutibile è stata la politica tributaria del Governo Renzi. Dall’ultima riforma organica del
fisco italiano, quella del 1996-97, sono passati 20 anni e quindi sarebbe
necessaria una revisione complessiva. Ma il problema di fondo del sistema
fiscale italiano rimane quello della evasione di massa, considerevolmente
ridotta (in via permanente) dai governi di centrosinistra tra il 1996 e il
2000, tollerata e incentivata dal centrodestra, ridotta di nuovo durante il
Governo Prodi del 2006-08, aumentata durante il successivo Governo Berlusconi.
Renzi
ha ignorato il problema di una revisione sistematica del sistema e anzi ne ha
accentuato il degrado con provvedimenti ad hoc, frammentari, episodici senza alcuna
consapevolezza della necessità di una visione organica. Per quanto riguarda il
contrasto all’evasione, all’inizio Renzi sembrava orientato ad intervenire, ed
infatti adottò alcune delle misure proposte in un rapporto del Nens del giugno
2014, in particolare il reverse charge e lo split payment, misure che, visto il
successo ottenuto (anche al di là delle previsioni) , sono state
sistematicamente presentate come la dimostrazione dell’impegno e del successo
del Governo nel contrasto all’evasione, sempre riaffermato pubblicamente, ma
ben poco praticato in realtà.
Le
altre proposte contenute nel rapporto Nens sono state invece ignorate, tra
queste l’uso dell’aliquota ordinaria nelle transazioni intermedie IVA,
l’adozione del sistema del margine in alcune transazioni al dettaglio, la
trasmissione telematica obbligatoria dei dati delle fatture IVA….
In
verità quest’ultima misura è stata adottata con l’ultima legge di bilancio, ma
in modo tale da risultare in buona misura inefficace, in quanto è esclusa la
trasmissione automatica dei corrispettivi delle vendite finali, non è previsto
l’accertamento automatico in caso di evasione manifesta, non sono state
introdotte misure di cautela nel caso in cui la reazione dei contribuenti
comportasse una riduzione del margine abituale sui ricavi (mark up); le
sanzioni, già modeste, sono state ulteriormente ridotte, l’entrata in funzione
rinviata….In sostanza si è seguita la stessa logica in base alla quale, in
seguito all’introduzione obbligatoria del POS ci si dimenticò di prevedere una
sanzione in caso di inadempienza. Eppure il rapporto Nens stimava che la misura
fosse potenzialmente in grado di produrre oltre 40 miliardi di recupero di
evasione.
Contemporaneamente
l’amministrazione finanziaria è stata delegittimata e indebolita, non si è
salvaguardata la sua autonomia, si è consentito che membri del Governo
attaccassero l’Agenzia delle Entrate, non si è data soluzione al problema
creato da una discutibile sentenza della Corte Costituzionale relativa agli
incarichi dirigenziali.
Non si sono investite risorse
nell’informatica.
Ma più
in generale, l’intera politica fiscale si è indirizzata in direzione opposta a
quella di serietà e di un ragionevole rigore:
il
sistema sanzionatorio è stato modificato innalzando le soglie di punibilità
penale e restringendo le fattispecie incriminatrici; inizialmente era stato
perfino proposto di depenalizzare la frode fiscale, misura poi rientrata;
l’abuso del diritto (elusione) è stato depenalizzato e ridotto ad una
fattispecie residuale, senza considerare il fatto che prima o poi la Cassazione
e la Corte di Giustizia europea ristabiliranno l’interpretazione corretta.
Ciò
peraltro è già avvenuto con il falso in bilancio per cui la Cassazione ha già
vanificato la portata della norma che allentava ben oltre quella approvata dal
Governo Berlusconi, e per anni criticata dal centrosinistra, la possibilità di
punire tale comportamento.
E’ stato abolito il termine lungo di
accertamento amministrativo per le condotte penalmente rilevanti,
contrariamente a quanto previsto dalla normativa prevalente in Europa.
La
riscossione dei tributi è stata fortemente indebolita prevedendo la possibilità
di rateazioni fino a 72 rate per i debitori decaduti negli ultimi due anni da
un precedente piano di dilazione, ciò mentre per i debiti nei confronti di
privati (banche) si sono accelerate le procedure di riscossione coattiva
creando una inaccettabile discriminazione tra pubblico e privato.
Ci si è uniformati alla propaganda del M5S
sopprimendo, anche se solo in apparenza, Equitalia, e introducendo un condono
(rottamazione) delle cartelle esattoriali, relative -è bene ricordarlo- a
evasori conclamati, spesso sanciti come tali da più gradi di giudizio.
Si
sono varate due voluntary disclosures in apparente ossequio a un indirizzo internazionale,
senza considerare che negli anni precedenti erano già stati varati da Tremonti
ben due condoni in materia.
Si è
cercato di introdurre una sorta di riciclaggio di Stato prevedendo la sanatoria
anche per il contante, norma che fortunatamente non è sopravvissuta alle
critiche. Si è innalzata a 3000 euro la soglia di utilizzazione del contante
favorendo così non solo l’evasione ma anche il riciclaggio.
La norma sugli 80 euro, operando in un
ristretto intervallo di reddito, da un lato ha penalizzato relativamente i
redditi più bassi, e dall’altro ha introdotto un’aliquota marginale implicita
pari al 79,5% (48% a causa del venir meno degli 80 euro, cui si aggiunge
l’aliquota effettiva (formale e implicita) Irpef del 31,5%) per i contribuenti
collocati sul limite superiore di applicazione della misura (tra i 24000 e i
26000 euro), per cui è stato necessario inserire nella ultima legge di
bilancio, e in previsione degli aumenti contrattuali, una norma di deroga che
non si sa ancora come opererà.
L’Irpef è stata ulteriormente distorta dalla
detassazione dei premi di produttività che fa sì che neanche i redditi di lavoro
entrino più interamente nella base imponibile della imposta sul reddito in
deroga a qualsiasi principio di progressività. Molte sono state le norme a
favore delle imprese:
dalla eliminazione dall’Irap dei redditi di
lavoro (il che equivale ad escluderli da qualsiasi contributo specifico per la
spesa sanitaria), alla decontribuzione per i nuovi assunti, alla patent box, al
rafforzamento dell’ACE col recupero dell’incapienza sull’Irap, alla
assegnazione agevolata dei beni ai soci, alle norme di accelerazione degli
ammortamenti, alla riduzione dell’aliquota Ires al 24% e all’introduzione
dell’IRI, all’eliminazione dell’IMU sui cosiddetti “imbullonati”.
L’agricoltura
è stata ulteriormente detassata (Irap, imposta patrimoniale), senza considerare
che il settore era già quello più agevolato sul piano fiscale e quello in cui
maggiore è l’evasione.
La condivisibile esigenza di redistribuire il
prelievo alleviandolo per alcuni settori e fattispecie non è stata affrontata,
in altre parole, in modo organico e secondo un disegno preciso, ma con
provvedimenti frammentari e ad effetto guidati da preoccupazioni di consenso.
Si è
inoltre rinunciato alla revisione del catasto dei fabbricati che era in
dirittura d’arrivo e necessario avviare, e si è eliminata l’imposizione
patrimoniale sulla casa di abitazione.
Con le
modifiche dell’Irap, della Tasi, e con le misure connesse all’obbligo di
pareggio di bilancio e al funzionamento del fondo di solidarietà si è svuotata
l’autonomia impositiva di regioni ed enti locali.
Si è
rinviato l’esercizio della delega di revisione delle cosiddette tax
expenditures, che sono viceversa di molto aumentate.
In
tema di tassazione delle rendite finanziarie è stato aumentato il differenziale
con la tassazione dei titoli pubblici, e nel complesso, pur essendo l’obiettivo
condivisibile, il sistema il sistema è stato reso sempre più irrazionale.
8. Per
quanto riguarda le riforme “strutturali”, quella più importante per il Governo
era ovviamente la riforma istituzionale.
Oggi è senso comune criticare Renzi per aver
“personalizzato” e politicizzato lo scontro sul referendum confermativo, ma il
problema nasce prima.
La personalizzazione infatti è avvenuta
immediatamente, fin dall’inizio del dibattito parlamentare quando Renzi ha
imposto la sua peculiare visione della riforma senza accettare critiche né
mediazioni, visione che aveva a cuore nella sostanza il fatto che i futuri
senatori non dovessero beneficiare di alcuna retribuzione per ridurre i costi
della politica oltre a quella derivante dalla drastica riduzione del loro
numero.
Questo è stato l’unico punto considerato
irrinunciabile perché tutto il resto della proposta iniziale è stato oggetto di
cambiamento per cercare convergenze tattiche.
Questo
approccio ha compromesso fin dall’inizio la possibilità di successo della
riforma.
Ed in
verità il dibattito parlamentare al Senato mostra chiaramente che se si fossero
accettati due punti essenziali, vale a dire che anche il numero dei deputati
fosse ridotto a 400, e quello dei senatori a 200, e che i senatori fossero
eletti direttamente dal popolo, ferma restando la differenza delle funzioni
delle due assemblee e l’attribuzione del voto di fiducia alla sola Camera dei
Deputati, la riforma avrebbe ottenuto un consenso molto ampio evitando la necessità
del referendum, o comunque depotenziandone la portata politica.
È qui
emersa una caratteristica di fondo dell’approccio di Renzi alle riforme: la
necessità di determinare in ogni caso rotture, divisioni, contrapposizioni,
secondo una logica amici-nemici che, a ben vedere, riguardava principalmente
una parte rilevante della sua costituency e del suo stesso partito.
La
questione di fondo era ideologica: le tradizionali posizioni della sinistra
italiana non dovevano avere più legittimità: esse rappresentavano comunque il
vecchio, qualcosa da rimuovere e “rottamare”.
9. La
stessa logica è stata seguita sul jobs act, dove l’avversario principale è
diventato il sindacato e in particolare la CGIL. Una riforma contro, quindi, e
non una riforma utile per tutti.
E anche in questo caso sarebbe stato
sufficiente evitare alcuni eccessi e adottare, per esempio, il modello di
contratto a tutele crescenti proposto da tempo da Tito Boeri, per ottenere un
consenso pressoché unanime. Il risultato è stato quello di rischiare di
sottoporre il Paese ad un ‘altra prova referendaria di cui non si sentiva certo
il bisogno.
Sui vouchers si sono allargate le maglie senza
pensare ai possibili abusi, tanto che ora sarà necessario un intervento
correttivo.
10. La
riforma della scuola è avvenuta secondo lo stesso approccio: anche in questo caso
il “nemico” era inizialmente il sindacato, ma ben presto sono diventati gli
insegnanti.
Il modello proposto è stato quello
dell’autonomia scolastica interpretata come meccanismo in grado di simulare una
sorta di mercato all’interno del settore pubblico, meccanismo che avrebbe
inevitabilmente aumentato le diseguaglianze nei livelli di insegnamento tra le
diverse zone del Paese e quartieri delle città.
Ciò di
cui avrebbe invece bisogno la scuola italiana è una modernizzazione dei
programmi, un ripensamento dei cicli scolastici, una migliore qualità dei
docenti, una carriera per i docenti, e investimenti rilevanti per ridurre le
distanze tra le scuole di migliore qualità e le altre, rivalutando il ruolo
sociale dei docenti, limitando le ingerenze indebite delle famiglie, prevedendo
concorsi per le assunzioni, ecc.
Ora il
Governo Gentiloni è costretto a ritornare indietro (anche troppo) su alcuni
punti della riforma cercando un accordo con i sindacati.
È stata giusta l’introduzione nella nostra
scuola dell’alternanza tra studio e lavoro.
Ma al
solito con fondi insufficienti e senza adeguata regia.
Rimane
non coordinato il canale dell’istruzione professionale di competenza statale
con quello di competenza regionale e manca un Sistema Nazionale di Valutazione.
Anche la ricerca pubblica non ha avuto alcuna
razionalizzazione visto che non si è posto mano alla dispersione dei centri e
al loro scarso coordinamento.
L’Italia
rimane nel mezzo delle due grandi direttrici della ricerca, quella dei grandi
progetti diretti ai paradigmi tecnologici e che mettono insieme alte capacità
realizzative industriali, Università, centri di ricerca (che può solo svolgersi
come partecipazione a progetti di ricerca internazionali, in primo luogo quelli
europei) e quella che si adatta alle situazioni concrete e esigenze
tecnologiche specifiche. Di fatto l’Italia non segue né l’una né l’altra.
Sebbene siano stati finalmente aumentati, dopo
anni di tagli, i fondi per la ricerca pubblica, questi sono stati allocati in
modo tale da suscitare una vera e propria sollevazione della comunità
scientifica.
L’eccessivo
affidamento a criteri di mercato, soprattutto attraverso criteri di valutazione
tecnicamente molto discutibili, si è riprodotto con l’Università producendo gli
stessi problemi della scuola di determinare una frattura e differenziazioni che
senza governance e correttivi del processo, rischiano di penalizzare
pesantemente gli Atenei meridionali, non si capisce con quale vantaggio per il
Paese.
11. La
riforma della giustizia è rimasta al palo.
In
questo caso, la categoria presa di mira è stata quella dei magistrati attaccati
sulle ferie, sulle retribuzioni e sulla età pensionabile, sulla quale,
peraltro, si è fatta una parziale marcia indietro che si spera non diventi
totale.
In questo caso, tuttavia, va riconosciuto che,
data la composizione del Governo, la riforma non era agevole.
Va
però sottolineato che il problema della legalità (corruzione, evasione fiscale,
criminalità organizzata) non sembra essere stato al centro delle preoccupazioni
e del programma di Governo.
In diverse occasioni Renzi ha negato che in
Italia esista un problema di evasione di massa, o che in alcune regioni
italiane il potere dello Stato è contestato e talvolta vanificato
dall’esistenza delle mafie.
Molta
propaganda è stata fatta all’Autorità anticorruzione guidata da Cantone, e sono
state approvate nuove norme, secondo alcuni insufficienti, ma il punto di fondo
è che i tre fenomeni sopra ricordati sono intrinsecamente collegati e
andrebbero affrontati insieme e posti all’attenzione dell’opinione pubblica e
delle forze politiche, cosa che non è avvenuta.
Uno
degli strumenti possibili era quello di varare finalmente una buona legge sui
partiti, legge di cui si è parlato, ma che non ha fatto passi avanti.
12.
Quanto alla riforma della PA, si è seguito un vecchio modello, già sperimentato e fallito
più di una volta, secondo una visione organicistica della PA, attaccando la
dirigenza pubblica e portando alle estreme conseguenze una logica privatistica
che mal si adatta al settore pubblico i cui dirigenti non possono essere
assimilati a quelli delle imprese private, ma necessitano di competenze
specifiche e specializzazioni.
Anche
in questo caso la riforma si è esposta a rilievi di ordine amministrativo e
costituzionale.
13.
Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella
del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva.
Il
Paese è oggi più diviso, il PD è politicamente isolato (salvo l’alleanza con
Alfano e Verdini) ed è diviso, data la radicalità dello scontro sul referendum,
si sono verificate fratture nelle famiglie e nelle amicizie.
Le riforme sono state contestate e in parte
sono rimaste sulla carta.
L’opinione
pubblica è confusa, disorientata, arrabbiata, e sempre più influenzabile da
posizioni qualunquiste e di antipolitica.
Dopo
il risultato del referendum è inoltre diffusa, soprattutto all’interno
dell’establishment la convinzione che il Paese è irriformabile e rassegnato al
proprio destino
. La
colpa sarebbe della gente che non capisce.
Ma
così non è, la gente desidera riforme, ma vorrebbe capirne finalità e modalità,
desidera essere coinvolta, e soprattutto vedere una classe dirigente
preoccupata dei problemi e delle difficoltà dei cittadini comuni.
Soprattutto
ci sarebbe bisogno di una classe dirigente competente e all’altezza. Uno dei
lasciti del Governo Renzi rischia di essere proprio quello di aprire la strada
a una classe dirigente ancora meno qualificata.
(ilcampodelleidee.it/doc/1541/ecco-il-decalogo-degli-errori-di-renzi.htm)
Svenimento
e shock.
Angelinipharma.it-
Redazione – (20-1-2022) – ci dice:
Lo
svenimento è una transitoria perdita della normale attività della coscienza
causata da una mancanza di afflusso di sangue al cervello, dovuta da un
improvviso abbassamento della pressione sanguigna. La causa può essere una
forte emozione, la permanenza prolungata in un ambiente surriscaldato, una
lunga permanenza a letto (per malattia), un digiuno prolungato o un pasto
eccessivamente abbondante, uno sforzo fisico intenso o una lunga permanenza in
piedi. I sintomi più comuni sono debolezza, pallore, sudorazione fredda, polso
debole e, infine, perdita di conoscenza.
Per
shock si intende la grave conseguenza del mancato arrivo del sangue ai tessuti
dell'organismo.
Si può
manifestare in seguito a un trauma (per esempio un'infezione) o a un'emorragia
(perdita di sangue), oppure può comparire in seguito a un'ustione o dopo una
lunga esposizione al freddo.
Può
essere provocato anche dall'abuso di alcuni farmaci (per esempio i barbiturici)
o dalla puntura di un insetto, nel caso in cui la persona sia allergica a quel
veleno (a volte anche quello delle api).
Qualunque
ne sia la causa, lo shock presenta sempre gli stessi sintomi, ossia:
stordimento, sudore freddo, polso debole e frequente, aumento della frequenza,
respiratoria.
Svenimento.
Lo
svenimento è un breve periodo di incoscienza che si verifica quando il flusso
di sangue al cervello è temporaneamente diminuito a causa di un improvviso
abbassamento della pressione sanguigna (la massima può scendere anche sotto gli
80).
Le
cause possono essere diverse: forte dolore, grandi emozioni, la permanenza
prolungata in luoghi troppo caldi e troppo affollati in cui non c'è ricambio
d'aria, una lunga permanenza a letto (dovuta per esempio ad una malattia), un
digiuno prolungato o un pasto eccessivamente abbondante, uno sforzo fisico
intenso o una lunga permanenza in piedi (una fila di ore agli uffici postali!).
Sintomi
Di
solito, lo svenimento è preceduto da alcuni sintomi caratteristici, quali:
debolezza
pallore
e sudorazione fredda
polso
debole o irregolare
barcollamento
sensazione
di nausea
ronzio
alle orecchie
annebbiamento
della vista.
Dopo
questi segnali d'allarme la persona perde conoscenza per un periodo di tempo
che difficilmente supera i 2-3 minuti.
Se il
soggetto è già svenuto in passato ed è cosciente dei sintomi premonitori può
sdraiarsi autonomamente ed evitare così di svenire.
Cosa
fare.
Per
prima cosa è opportuno far sdraiare la persona sulla schiena tenendole le gambe
sollevate al di sopra del livello del torace: la testa deve essere la parte più
in basso di tutto il corpo.
Se non
c'è spazio, fatelo sedere con la testa china tra le ginocchia.
Gli
abiti devono essere slacciati, soprattutto quelli attorno al collo e al torace
(per esempio la cravatta e la cintura).
Se il
colpito perdendo conoscenza cade al suolo, accertatevi che non si sia ferito.
Controllate, poi, polso e respirazione e, se necessario, procedete con la
rianimazione.
Assicuratevi
che l'infortunato abbia a disposizione aria a sufficienza e allontanate
eventuali persone intorno.
Se ci
si trova in un ambiente chiuso è bene aprire le finestre o, almeno ventilare la
persona (si può utilizzare un ventaglio o un giornale).
Quando
riprende conoscenza, è importante che il colpito stia sdraiato, sempre a gambe
sollevate, per almeno una ventina di minuti: con questo accorgimento si mette
al riparo dal rischio di svenire di nuovo.
Se non
rinviene in pochi minuti o nel caso dovesse ripetersi, è bene invece consultare
il medico.
Cosa
non fare.
Non
bisogna somministrare né bevande alcoliche, né caffè, né altro per bocca,
soprattutto durante la fase di incoscienza: si può rischiare di fare inalare
(quindi mandare nei polmoni) quello che si vorrebbe fare ingoiare.
È bene
poi non schiaffeggiare la persona svenuta: si tratta di una manovra inutile.
Shock.
Lo
shock è la grave conseguenza del mancato arrivo del sangue ai tessuti
dell'organismo.
In
altre parole si tratta di una situazione caratterizzata da una progressiva
insufficienza dell'apparato circolatorio che provoca un deficit nell'apporto di
sangue e quindi di ossigeno ai tessuti.
Ne
consegue uno stato di sofferenza soprattutto degli organi interni che può
portare a danni irreversibili.
Lo
shock si verifica in seguito all'alterazione di una delle tre componenti del
sistema circolatorio:
la
pompa (il cuore);
i vasi
(le arterie, le vene e i capillari);
il
liquido circolante (il sangue).
Cause
Le
cause dello shock possono essere diverse, per esempio:
shock
dovuto a emorragia: un'emorragia lenta è meglio tollerata di un'emorragia
rapida;
una
persona sana può perdere anche due terzi dei propri globuli rossi senza andare
incontro a shock, se la perdita avviene nel giro di 2-3 giorni.
Viceversa, una perdita rapida superiore al
25-30 per cento del sangue circolante (1,5-2 litri) provoca immediatamente un
grave stato di shock.
Shock
in seguito a massicce infezioni batteriche,
Shock
in seguito alla riduzione dell'efficienza del cuore nel pompare sangue, che si
verifica in molte malattie cardiache: la causa più frequente è l'infarto.
Shock
in seguito a ustione: le perdite di liquidi attraverso la superficie ustionata
possono determinare una riduzione del volume del sangue e quindi uno stato di
shock.
Shock
da grave reazione allergica che segue l'introduzione nell'organismo di una
sostanza verso la quale esiste una sensibilizzazione (per esempio antibiotici o
veleno di insetti).
Shock
in seguito a gravi traumi dovuto a complessi meccanismi, per esempio la perdita
di sangue, l'infezione, la liberazione di particolari sostanze dalle parti del
corpo danneggiate.
Tipi
di shock
Qualunque
ne sia la causa, lo shock presenta sempre gli stessi sintomi, in base ai quali
viene diviso in tre stadi:
shock
di primo stadio o di pre-shock, quando il cuore tende a battere
disordinatamente, il paziente ha freddo e appare di colorito molto pallido.
Shock
di secondo stadio o moderato, quando la pressione si abbassa molto, la persona
avverte una sensazione di irrequietezza e sulla sua pelle appaiono delle
striature cianotiche.
Shock
di terzo stadio o severo, quando il battito del cuore è molto irregolare, la
respirazione è alterata, lo stato mentale è confuso e compare una forte
sonnolenza.
Caratteristica
di questo stadio è la cosiddetta anuria, ossia l'impossibilità di fare pipì,
causata dal mancato arrivo di sufficiente sangue al rene.
Tale condizione è molto seria in quanto tutte
le sostanze tossiche prodotte dall'organismo vengono espulse con l'urina: in
questo caso rimangono nell'organismo danneggiandolo.
Il
passaggio da uno stadio all'altro, quindi l'aggravarsi dello shock, è del tutto
indipendente dalla causa che lo ha scatenato.
É
importante inoltre sapere che lo stato di shock può insorgere anche diverse ore
dopo il trauma, la puntura d'insetto o l'ustione.
Proprio
per questo motivo è importante tenere sotto osservazione per diverse ore la
persona che abbia vissuto una situazione a rischio di shock: solo così si può
essere pronti a intervenire fin dai primissimi segnali.
Cosa
fare.
Ci
sono alcune misure che è bene prendere per "prevenire" un eventuale
shock o evitare che, nel momento in cui si verifica uno shock, la situazione si
aggravi ulteriormente. Ecco qualche esempio:
intervenire
sulla causa, per esempio fermando un'emorragia.
Sdraiare
l'infortunato sulla schiena con le gambe in alto e controllare la funzione respiratoria:
se è in stato di incoscienza, o in presenza di vomito, metterlo in posizione di
sicurezza; se necessario, bisogna eseguire prontamente la respirazione
artificiale.
Proteggerlo
sia da una temperatura troppo elevata che da una temperatura troppo bassa:
coprirlo con una coperta.
Togliergli
gli abito troppo stretti.
Non
somministrare nulla per bocca.
La
persona colpita da shock deve in ogni caso essere portata in ospedale per
assicurargli un trattamento specialistico nel più breve tempo possibile.
Lo
shock anafilattico.
L'anafilassi
è una reazione dell'organismo che produce una serie di anticorpi in grado di
legarsi a particolari cellule del sangue provocando la liberazione di alcune
sostanze (istamina e leucotrieni) che agiscono negativamente su diversi
apparati dell'organismo, principalmente la pelle, i bronchi, l'intestino e il
cuore.
La pressione si abbassa, il respiro si fa
difficoltoso in quanto il polmone è preda di un attacco asmatico e la pelle può
presentare orticaria.
Lo
shock anafilattico si presenta con una sintomatologia caratteristica, ossia:
formicolio
e senso di calore al capo e alle estremità.
Un
forte prurito sul volto, sulle mani, all'inguine e al torace a cui si associano
starnuti e tosse.
Rossore,
gonfiore, vomito e dolori intestinali;
difficoltà
respiratorie e senso di soffocamento.
Le
forme più serie culminano nello shock anafilattico vero e proprio, con calo
della pressione sanguigna e perdita di coscienza.
Tra le
cause più frequenti di shock anafilattico ci sono la puntura di api, vespe e
calabroni (le più temute), l'ingestione di alcuni cibi (per esempio latte,
uova, crostacei e arachidi) e la somministrazione di alcuni farmaci (per
esempio la penicillina).
In alcuni soggetti allergici ad un alimento i
sintomi si manifestano soltanto se si esercita uno sforzo fisico (per esempio
una partita di pallone) successivamente all'assunzione di un determinato
alimento.
In
caso di reazione allergica, è bene chiamare immediatamente soccorso (se
possibile un'ambulanza).
Nel
frattempo l'infortunato va fatto sdraiare controllando frequentemente il polso
e la respirazione: se necessario, si può praticare la respirazione artificiale.
L'adrenalina
rappresenta il farmaco per eccellenza e deve avere un ruolo centrale nel
trattamento acuto dell'anafilassi;
quando
è indicata, può essere somministrata per via intramuscolare nella coscia. In
farmacia sono disponibili fiale preconfezionate con adrenalina predosata e resa
resistente al calore.
Pur
essendo l'uso di queste siringhe molto facile, è necessario farsi spiegare
dettagliatamente dal medico le modalità d'impiego.
Primo
soccorso.
Ci
sono alcune regole fondamentali da seguire per un primo soccorso.
Innanzitutto
non mettere mai in pericolo la propria vita e soccorrere sempre prima
l'infortunato più grave.
È bene
poi non muovere mai un ferito a meno che non sia assolutamente necessario, per
esempio se è in pericolo immediato.
Infine,
c'è da controllare che sia presente il battito cardiaco, che l'infortunato
abbia le vie aeree sgombre, che respiri, che non presenti gravi emorragie e che
sia cosciente.
Il
ritmo respiratorio normale è di 16 atti al minuto per un adulto e di 30-40 atti
al minuto per un bambino.
Comunque,
la cosa più importante da fare è di esaminare l'infortunato per sapere come
comportarsi, quindi:
valutare
il livello di coscienza, o meglio notare se migliora o peggiora la capacità di
risposta (apertura degli occhi, movimenti intenzionali, capacità di rispondere
a domande, stimoli tattili e dolore).
Le vie
aeree sono probabilmente ostruite se il respiro è rumoroso (simile al russare)
e un'ostruzione può essere causata dall'inalazione di vomito o denti in una
persona priva di conoscenza;
è bene
controllare sempre il colore del volto (la presenza di cianosi, ovvero di una
colorazione bluastra della pelle, è indice di asfissia).
Controllare
che non perda sangue dall'orecchio o dal naso.
Eesaminare
le pupille: devono restringersi se esposte alla luce.
Controllare
la presenza di lacerazioni sul cuoio capelluto (possibile trauma cranico).
Controllare
la cassa toracica (le due arcate costali devono sollevarsi in modo uguale a
ogni atto respiratorio: se le vie aeree sono ostruite si noteranno delle
rientranze dei tessuti molli tra le costole).
Esaminare
la spina dorsale;
controllare
l'area pelvica esercitando una pressione su entrambi i fianchi allo stesso
tempo: se provocate dolore dovreste sospettare una frattura.
L'esame
delle estremità dovrebbe far escludere la presenza di emorragie, rigonfiamenti
e deformità.
Tutte
queste osservazioni vanno accuratamente annotate riportando il tempo in cui
sono state registrate: saranno utili una volta portato l'infortunato al Pronto
Soccorso.
Rianimazione.
Ci
sono alcune condizioni particolarmente gravi che richiedono un intervento
tempestivo e appropriato, mancando il quale la vita della persona
"infortunata" è seriamente in pericolo: la perdita di coscienza, il
blocco della respirazione e la cessazione del battito cardiaco.
Per ognuna di queste condizioni è necessario
mettere in atto alcune tecniche per un soccorso pronto ed efficace. Vediamole
nel dettaglio.
Perdita
di coscienza.
La
prima cosa da fare in caso di perdita di coscienza è di controllare immediatamente
polso e respirazione e, se necessario, mettere in atto le tecniche di
rianimazione.
Se si sospetta una frattura al collo o se
l'infortunato fa strani gorgoglii, non bisogna voltargli assolutamente la
testa, né estendergli il collo.
Piuttosto, la cosa da fare è abbassargli la
mandibola, con l'aiuto di una persona che gli mantenga ferma la testa in modo
tale da abbassare nello stesso tempo anche la lingua.
In
seguito, è necessario passargli rapidamente un dito in bocca e ripulirgliela di
ogni materiale che possa impedire la normale respirazione.
Ecco,
in breve, una guida utile su come comportarsi in caso di perdita di coscienza:
voltate
la testa dell'infortunato da un lato e passate il vostro indice rapidamente
all'interno della bocca per ripulirla di qualsiasi materiale (per esempio denti
rotti o vomito): va fatta molta attenzione a non spingere un eventuale oggetto
estraneo ancora più in gola;
eliminate
le secrezioni, voltate la testa dell'infortunato verso di voi e rovesciatela
all'indietro, con il collo alla massima estensione per aprire le vie aeree.
Posizionate
lungo il fianco dell'infortunato il braccio che si trova vicino a voi e fate
scivolare la sua mano con le dita aperte sotto la natica.
Alzate
il braccio dell'infortunato e incrociatelo sul torace:
alzate
leggermente la gamba più lontana da voi e incrociatela sull'altra all'altezza
della caviglia.
Inginocchiatevi
accanto all'infortunato all'altezza del torace: con una mano afferrategli i
vestiti all'altezza della natica più distante da voi, mentre con l'altra
sostenetegli la testa.
Posizionate
l'infortunato su un fianco ruotandolo verso di voi, fino a che verrà a contatto
con le vostre ginocchia.
Piegategli
il braccio e la gamba che si trovano in alto in modo che questi non rotoli
sulla faccia, ma si appoggi sul braccio e sulla gamba stessi.
Risistemategli
la testa ben girata all'indietro e controllate che abbia le vie aeree aperte.
Mentre
procedete a prestare soccorso all'infortunato badate bene alla presenza di
eventuali fratture alle braccia e alle gambe: in questo caso è necessario
spostarlo con molta cautela.
Blocco
della respirazione.
In
caso di blocco della respirazione è bene agire sulla causa che ha determinato
la difficoltà respiratoria: un corpo estraneo in gola, inalazione di vomito o
caduta della lingua all'indietro in una persona in stato di incoscienza, un
ambiente saturo di gas, o ancora le vie aeree allagate in un annegato.
Un
corpo estraneo che abbia ostruito le vie aeree può essere eliminato tenendo il
soggetto a testa in giù e dando dei colpi sul dorso tra le scapole.
Per
eseguire questa manovra su di un bambino piccolo, lo si può prendere per i
piedi.
Su un
adulto, invece, è bene appoggiarlo su un tavolo a pancia sotto con il torace che
sporge fuori.
Se il
ritmo respiratorio non riprende spontaneamente dopo aver liberato le vie aeree
è bene procedere con le manovre di respirazione artificiale (vedi Come facciamo
a respirare in Il sistema respiratorio).
L'importante
è agire con rapidità: la rianimazione eseguita precocemente ha più probabilità
di successo.
Il
battito cardiaco va tenuto sempre sotto controllo e, se si è soli, è bene
effettuare 4-5 compressioni toraciche ogni 2 atti respiratori.
Se
invece si è in due, uno può eseguire il massaggio cardiaco mentre l'altro
procede con la respirazione artificiale.
Cessazione
del battito cardiaco
Può
verificarsi in seguito a scossa elettrica, attacco cardiaco, soffocamento, coma
indipendente dalla sua causa.
Se il
cuore si ferma, il sangue cessa di circolare e i tessuti cellulari non vengono
più ossigenati.
A
livello del cervello, si crea un danno permanente dopo appena 3 minuti.
È
quindi essenziale accertarsi immediatamente del battito cardiaco (a livello
della carotide, la maggiore arteria del collo) e agire prontamente con il
massaggio cardiaco:
posizionate
l'infortunato supino su una superficie rigida.
Esercitate
una pressione a metà dello sterno con il palmo della mano aperta, aiutandovi
con l'altra mano e tenendo le dita intrecciate; non spingere mai sulle costole
ma solo sullo sterno.
Agite
stando inginocchiati accanto all'infortunato, con le braccia distese, per
esercitare più facilmente la pressione.
Fate
abbassare lo sterno di 4-5 cm, quindi lasciate senza allontanare le mani.
Sse si
ferma il battito cardiaco si ferma anche la respirazione, quindi praticate la
respirazione artificiale contemporaneamente al massaggio cardiaco: soffiate
aria nei polmoni ogni 6-8 pressioni.
iI
massaggio va fatto fino a che il battito riprende: controllatelo ogni tanto
mentre fate il massaggio.
Se
anche la respirazione è ripresa, posizionate l'infortunato nella posizione di
sicurezza, tenendo sotto controllo polso e respiro fino all'arrivo
dell'ambulanza.
Farina
di grilli e il consumo
inconsapevole
di insetti.
Radio-food.it – Redazione – (31-1-2022) – ci dice:
In
Italia sta creando scalpore l’autorizzazione rilasciata dall’Ue della
commercializzazione della polvere parzialmente sgrassata del grillo domestico
come nuovo alimento.
Saremo capaci di accettarli e adattarci a
questo nuovo stile alimentare, al di là di quello che si definisce consumo
inconsapevole di insetti?
Intanto
è già pronta la prima pasta prodotta con farina di grilli.
Una
volta ci volevano guerre e pestilenze per imprimere profondi cambiamenti nel
modo di pensare e di vivere delle persone.
Oggi non è più così, per fortuna (anche se,
nel suo piccolo, il Covid19 ci ha messo del suo), e forse per la prima volta
nella storia, i cambiamenti epocali sono il risultato di qualcosa di nuovo e di
positivo che sta prepotentemente crescendo dentro di noi.
La nostra capacità di adattamento come esseri
umani è straordinaria ed è ciò che ci ha consentito di arrivare fin qui.
Solo che, da qualche anno, le cose stanno
cambiando radicalmente e non siamo più noi a doverci adattare all’ambiente o
alle circostanze, ma abbiamo raggiunto la capacità di piegare questi ultimi ai
nostri bisogni e, purtroppo, anche ai nostri capricci.
Di
cosiddette “svolte epocali” l’umanità ne ha viste e vissute tante, ma oggi
questi termini non sono più sufficienti per descrivere ciò che sta accadendo
durante la nostra esistenza.
Farina
di grilli e consumo inconsapevole di insetti.
In
Italia sta creando scalpore l’autorizzazione rilasciata dall’Ue della
commercializzazione della polvere parzialmente sgrassata del grillo domestico
(Acheta Domesticus) come nuovo alimento.
Iniziamo
col dire che la commercializzazione di insetti a scopo alimentare era già stata
introdotta in Europa il primo gennaio 2018 con un altro Regolamento Ue dedicato
ai cosiddetti “novel food”, cioè il riconoscimento di insetti interi sia come
nuovi alimenti che come prodotti tradizionali da Paesi terzi.
Sappiate
che oltre ai grilli domestici (Acheta domesticus), nell’Unione Europea è già
possibile commercializzare anche la larva gialla della farina (Tenebrio
Molitor) e la Locusta migratoria.
L’EFSA
(Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare) a tal proposito, ci tiene a
precisare, per la tranquillità dei futuri consumatori che, sebbene i
regolamenti che disciplinano l’immissione sul mercato di questi nuovi alimenti
siano recenti, non si deve pensare ai “novel food” come a qualcosa di non conosciuto e
rivoluzionario.
Questi
nuovi alimenti, infatti, sono presenti da sempre nella nostra alimentazione,
seppur spesso si faccia fatica a ricordarlo.
Si
trovano, ad esempio, soprattutto in quei prodotti che presentano una
colorazione rossa o tendente a queste tonalità: al posto del colorante
vegetale, spesso
viene usato un prodotto noto come estratto di cocciniglia.
È
possibile trovarlo negli yogurt, succhi di frutta, bitter, liquori, caramelle o
ancora certe marche di aranciata, dove la dicitura che ne segnala la presenza è
“Colorante
E120” o “acido carminico”.
Chi di
noi quest’estate non ha fatto un aperitivo sorseggiando uno spritz?
Beh io
fortunatamente quasi ogni sera e quasi ogni sera ho fatto un aperitivo con gli
insetti.
Il colorante rosso dello spritz, infatti, è
prodotto con derivati della cocciniglia. Nessuno lo sa, nessuno si sconvolge.
Va poi
ricordato che ci sono tutta una serie di altri insetti che inevitabilmente
finiscono già in altri cibi.
A
certificarlo è stato uno studio del Centro per lo Sviluppo Sostenibile e dall’Università Iulm di Milano. I
l
consumo inconsapevole medio di insetti per gli italiani si aggira ogni anno sui
500 grammi:
questi
animali sono considerati contaminanti alimentari comuni e sono tollerati in piccola
percentuale.
Dall’aranciata
coi moscerini (fino a 5) alla cioccolata con 8 pezzetti di insetti, per non parlare
poi di insalate, passate di pomodoro e succhi di frutta, lo studio sottolinea come la farina
di insetto approvata dall’UE potrebbe essere solo un’aggiunta ad una già
nutrita lista di insetti che finiscono nei piatti.
In
Italia intanto con buona pace dei ministri Francesco Lollobrigida e Matteo
Salvini (che l’ha definito «una follia») stanno per arrivare sulle tavole i
primi spaghetti torinesi a base di farina di grillo.
Sono
prodotti da Italian Cricket Farm, azienda di Scalenghe (To), nata nel 2007 e prima società
italiana a chiedere l’autorizzazione per commercializzare polvere di grilli sul
mercato alimentare umano.
Il via libera definitivo della vendita che
dovrebbe arrivare tra 60 giorni, porterà dunque la pasta di grilli nei
supermarket e nei ristoranti.
Oltre che miele, barrette energetiche e
biscotti ottenuti con polvere di grillo domestico.
Ricordiamo,
inoltre, che oltre al grillo domestico si possono già mangiare cavallette,
locuste e larve gialla della farina.
Che
sapore ha la pasta di farina di grilli.
Ma al
dì là della polemica e dei sì o dei no, la domanda che tutti si fanno è: come è
e che sapore ha la pasta di farina di grilli?
All’occhio
la pasta di Italian Cricket Farm ha un colore più scuro, simile a quella integrale, il sapore
si avvicina a mandorla e nocciola, ma dipende da quanta farina di grillo si
mette nel piatto.
E, proprio per questo suo sapore, la farina di
grillo è perfetta con i prodotti da forno, sia dolci che salati ed è ideale per
pane, crackers, biscotti e torte.
Sembrerebbe
buona, dunque.
Così come anche dal punto di vista
nutrizionale: i grilli sono altamente proteici. Proteine complete di alta
qualità, contenenti tutti gli amminoacidi essenziali.
Ma non solo, i grilli sono una fonte ricca di
fibre e minerali come il calcio e il ferro (oltre il doppio di ferro rispetto
agli spinaci), di vitamina B12 (una vitamina carente nella dieta vegetariana e
vegana) e di acidi grassi omega 3.
Ricordiamo,
inoltre che non si usano antibiotici per fare crescere i grilli.
Praticamente,
portando in tavola le tagliatelle con farina di grillo e altre pietanze a base
di questo alimento, potremmo favorire la crescita e lo sviluppo dei muscoli e
il rafforzamento delle ossa.
Inoltre
sembra che aiutino a prevenire problematiche quali l’anemia sideropenica e
quella megaloblastica.
Ma,
nonostante ciò, i cibi con gli insetti continuano a dividere e Gian Marco
Centinaio, sottosegretario alle Politiche agricole, si è schierato ancora una
volta contro i piatti a base di insetti:
“Nel
nostro e in altri paesi europei il cibo è tradizione, cultura e identità. La
Dieta Mediterranea è riconosciuta dal 2010 patrimonio immateriale dell’Umanità
dall’Unesco e da anni è considerata, anche oltreoceano, come la migliore al
mondo.
Un regime alimentare semplice, equilibrato che
non solo concorre a contenere e prevenire diverse patologie ma è anche
sostenibile.
Ai nuovi alimenti a base di insetti continuiamo a
preferire, difendere e valorizzare il nostro” Made in Italy”.
Sebbene
in molti, allineandosi alla linea di pensiero patriottica e nazionalista di
Centinaio saranno contrari a questa nuova forma di cibo e alimentazione, il
business del mercato degli insetti commestibili, considerati cibo del futuro,
cresce vertiginosamente e oggi vale quasi un miliardo di euro nel mondo.
Vorrei
però soffermarmi a pensare e prendere in considerazione una questione:
fra i
vari comportamenti che vengono definiti “intelligenti” si ritrova costantemente
l’adattamento, ossia la capacità dell’individuo di sapersi adeguare alle
mutevoli circostanze dell’ambiente fisico e sociale.
Molti
studiosi definiscono l’intelligenza come la capacità di cambiare insieme con il
mondo che ci circonda.
La
società evolve sempre più velocemente nel mondo contemporaneo.
Nella storia, anche in quella più recente, non
era mai accaduto che si verificassero mutamenti profondi nell’organizzazione
del lavoro, del proprio tempo, nella vita privata e nelle sue abitudini ed i
suoi ritmi, mutamenti tali da interessare generazioni intere.
Ciò comporta e comporterà uno sforzo di
adattamento via via crescente per le generazioni coinvolte.
Sapersi
adattare significa allora essere aperti a eventuali modificazioni delle nostre
abitudini, della nostra vita e, alla lontana, anche del nostro modo di pensare.
Chissà fino a che punto saremo in grado di
accogliere un cambiamento oppure preferiremo sempre il “Meno sai e meglio stai”.
La rivoluzione politica dietro l’angolo del 2023.
zerozeronews.it
- Gianfranco D'Anna – (8 Dicembre 2022) – ci dice:
Sturm und Draghi. Facciata populista e continuità con
Mario Draghi.
La definizione che tanto a Bruxelles quanto a Roma
negli ambienti politico istituzionali viene data del rodaggio del governo di
Giorgia Meloni, rassicura i mercati e grazie alla garanzia del Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella scongiura l’incombente rigidità dell’Europa.
La
rivoluzione politica dietro l’angolo del 2023.
Il
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Premier Giorgia Meloni.
Dopo
aver domato e guadato, con la tradizionale fiducia di fine anno utilizzata da
tutti i Governi, il fiume in piena della manovra finanziaria, l’intelligenza
politica e l’abilità manovriera della Premier stanno già prefigurando il
soqquadro degli scenari politici del 2023.
La
crescita esponenziale del consenso popolare e l’effetto calamita di Giorgia
Meloni, l’implosione di Forza Italia e della Lega finora ostinatamente ancorata
alla zavorra di Matteo Salvini, per non parlare della frantumazione di un
Partito Democratico alla ricerca di leadership e di motivazioni esistenziali, preannunciano per il nuovo anno una
rivoluzione politica in cui nulla sarà più come prima.
Dall’identità
europea e atlantica del Governo, etichettato come Meloni – Mattarella nelle
capitali che contano, all’assetto della maggioranza e dei partiti, il big bang
del proditorio rovesciamento del Governo Draghi e l’effetto delle elezioni del
25 settembre, stanno imprimendo una profonda trasmutazione generale della
politica, delle leadership e della stessa conformazione delle aggregazioni
partitiche.
Attorno
alla governabilità e alla stabilità assicurata da Giorgia Meloni, che
all’inizio dell’anno dovrebbe recarsi in visita ufficiale a Washington, si
stanno saldando un vasto movimento di opinione pubblica, intellettuali,
protagonisti dei settori produttivi, rappresentanti delle istituzionali e gli
esponenti politici nazionali e regionali spiazzati dalla polverizzazione dei
partiti originari.
Un
Meloni party più pragmatico che ideologico, a metà strada fra i repubblicani
progressisti ed i democratici non liberal americani, in grado secondo i sondaggisti di
sfiorare il 40% dei consensi elettorali.
Ancora
latente, ma sempre più consistente, per essere varata la nuova dimensione
politica della Premier attende soltanto l’eclissi di Salvini, alle prese con la
resa dei conti all’interno della Lega, e l’esito dell’imperscrutabile duello
con l’immortalità politica di Silvio Berlusconi.
La
rivoluzione politica dietro l’angolo del 2023.
Al
conseguente riassetto della maggioranza, e all’eventuale rimpasto di Governo,
potrebbe corrispondere una nuova configurazione delle opposizioni.
Più
che il Pd, alle prese col rischio di una disintegrazione per la collisione
Bonaccini-Schlein per la segreteria, sarà il Movimento 5 Stelle di Giuseppe
Conte a caratterizzare l’azione di contrasto alla nuova maggioranza di governo.
Un’azione
di contrasto distinta e distante dai “vaffa” di Grillo e che da più parti si
teme tuttavia possa innescare, anche se del tutto involontariamente, una deriva
di incontrollabili risentimenti aggressivi e al limite del revanscismo pseudo
terroristico, sul versante dell’abolizione del reddito di cittadinanza.
Un revanscismo dietro il quale c’è il vuoto
politico di un movimento ormai trasformatosi in un supermarket di
rivendicazioni contraddittorie:
pseudo
ambientalismo e sostanziale giustificazionismo della devastante invasione
dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, ostracismo contro le
infrastrutture essenziali per il Paese e strizzata d’occhio alla pervasività
Cinese e Russa.
L’ago
della bilancia e insieme l’alternativa politica dell’opposizione potrebbe
essere rappresentata da Azione di Carlo Calenda e Matteo Renzi.
Un
terzo polo in grado di inglobare la galassia in frantumi del Pd, di interpretare
la tumultuosa evoluzione sociale ed economica in corso e di rappresentare la
necessaria alternativa democratica.
Se i
cerchi concentrici originati dalle elezioni del 25 settembre hanno avviato
tutta una serie di inevitabili cambiamenti, la crescita personale dei leader e
la capacità di trasformare i cambiamenti in una nuova dimensione politica sono
svolte decisive che al momento soltanto Giorgia Meloni e Carlo Calenda
evidenziano di essere capaci di compiere.
Istintivamente
entrambi hanno infatti dimostrato di voler perseguire quanto affermava Luigi
Einaudi: “la
libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica.”
Meloni,
rivoluzione
fisco,
al
centro dipendenti e pensionati.
Ansa.it-Redazione
Ansa – (9-02-2023) – ci dice:
Più
debito pubblico in mano a italiani.
Avanti
con taglio cuneo.
"Occorre
rivoluzionare il rapporto tra fisco e contribuente, e fare in modo che
l'evasione si combatta prima ancora che si realizzi".
La
presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, annuncia in un'intervista al
direttore del Sole 24 Ore Tamburini, una "legge delega che toccherà tutti
i settori della fiscalità" e che "metterà al centro anche i
dipendenti e i pensionati, con misure ad hoc".
C'è
l'impegno alla messa in sicurezza del debito pubblico aumentando "il numero di italiani e
residenti in Italia che detengono quote".
A
proseguire con i tagli al cuneo fiscale. Infine, "sostituire il reddito di
cittadinanza con misure concrete".
L’Ucraina
della “Rivoluzione della Dignità”:
dalla
rivoluzione politica
alla
rivoluzione culturale (?)
andergraundrivista.com
- Simone Attilio Bellezza – (14 novembre 2022) ci dice:
La
svolta democratica: la rivoluzione del 2013-2014.
La
Rivoluzione della Dignità del 2013-2014 (o Euromajdan, come viene chiamato
spesso in occidente) ha costituito una tappa fondamentale nel processo di
formazione della nazione ucraina come una comunità politica, sociale e
culturale coesa:
le proteste popolari contro l’allora
presidente Viktor Janukovyč erano state causate dalla sua decisione di
abbandonare la politica di collaborazione con l’Unione Europea a favore di un riavvicinamento
alla Federazione russa.
Le
ragioni dello scontento popolare erano però più profonde e legate al tentativo
messo in atto da Janukovyč di trasformarsi in dittatore seguendo le orme del
suo padrino politico Vladimir Putin.
Le
proteste, poi sfociate in una vera e propria rivoluzione con tanto di fuga del
presidente e conseguente vuoto istituzionale, si connotarono politicamente in
maniera molto precisa:
gli
ucraini rivendicavano un orgoglio nazionale legato alla propria scelta
democratica ed europeista (testimoniato già dalle proteste del 2000-2001 e
dalla rivoluzione arancione del 2004-2005), anche attraverso la
contrapposizione sempre più netta con l’elemento russo, visto come simbolo di
ingiustizia e dittatura.
La
retorica del Majdan Nezaležnosti (Piazza dell’Indipendenza al centro di Kyïv),
con i suoi frequenti richiami alle tradizioni “democratiche” della Rus’ di Kyïv
e della tradizione cosacca, fu un’ulteriore conferma che l’identità ucraina
post-sovietica si stava costruendo attorno ai principi di democraticità e di
appartenenza all’Europa.
Lo
stereotipo antirusso trovò conferma nell’invasione della Crimea e delle regioni
occidentali di Donec’k e Luhans’k da parte di Mosca, che aveva attaccato il
nuovo corso politico ucraino nel tentativo di far fallire la costruzione di un
genuino regime democratico.
Oltre
che alle riforme politiche, al nuovo presidente ucraino Petro Porošenko è
toccato così anche di immaginare una nuova politica culturale del Paese che, da
una parte, contribuisse al rafforzamento dell’identità collettiva nello sforzo
bellico ad est contro la Russia e, dall’altra, traducesse praticamente la
richiesta di costruzione di una cultura nazionale nettamente distinta da quella
russa.
Sono stati tre gli ambiti principali d’azione
del nuovo corso ucraino:
la
politica della memoria storica, la politica linguistica e, infine, quella
religiosa.
Si
procederà qui ad analizzare sinteticamente questi tre differenti ambiti per
concludere poi con un paragrafo sulla politica della cultura cinematografica
dedicato al caso del Centro Nazionale “Oleksandr Dovženko”, che costituisce un
interessante esempio pratico di cosa si intenda per conservazione e promozione
della cultura nazionale.
Courtesy
of Vitalij Grybov.
La
politica della memoria.
La
saldezza della costruzione di un’identità nazionale dipende molto dalle
politiche della memoria messe in atto in ciascun stato:
in Ucraina questa è oggetto dell’azione
dell’Istituto Ucraino della Memoria Nazionale, fondato nel 2006.
Porošenko
scelse come direttore l’attivista politico e “public historian” Volodymyr
V’jatrovyč:
originario
di Leopoli, dopo gli studi all’università cittadina si fece subito notare per
la forte ispirazione politica delle sue ricerche, dedicate soprattutto alla
Seconda guerra mondiale e ai partigiani nazionalisti, di cui spesso ignorava
colpevolmente i crimini commessi durante il conflitto contro ebrei e polacchi.
V’jatrovyč
fu il principale ispiratore (e forse anche autore) di un pacchetto di leggi
denominate “leggi sulla decomunistizzazione”, che nel 2015 furono prima
discusse e poi approvate dal Parlamento, creando un grande scandalo internazionale.
Il
testo di questi quattro provvedimenti prevedeva infatti il divieto di celebrare
i regimi totalitari, sia quello nazi-fascista sia quello comunista, e istituiva
norme precise sulla commemorazione della lotta dei nazionalisti ucraini.
Il testo era sufficientemente impreciso da
suscitare i timori che esso potesse colpire non soltanto chi faceva vera e
propria apologia dei regimi hitleriano e staliniano, ma anche impedire un
normale dibattito pubblico e scientifico sul passato nazionale.
Diveniva
inoltre reato accusare pubblicamente i partigiani nazionalisti di quei crimini
che essi avevano effettivamente compiuto durante la guerra e queste leggi
furono quindi fortemente criticate soprattutto in ambito internazionale dalla
diaspora ucraina in occidente.
Ciononostante, negli anni successivi la
magistratura applicò raramente e con grande tolleranza la legge, evitando che
questa norma potesse ledere la legittima libertà d’espressione.
Nel
pacchetto era anche inclusa una norma che rendeva pubblico il patrimonio degli
archivi dell’ex-KGB ancora conservato dal Servizio di Sicurezza dell’Ucraina
post-sovietico:
a
dirigere questo archivio fu chiamato lo storico Andrij Kohut che ha saputo
distinguersi per la sua capacità di rendere facilmente accessibili quantità
sempre crescenti di documenti.
Questa
politica archivistica particolarmente liberale aveva come fine anche quello di
favorire lo studio del periodo sovietico e si rivelò un grande successo poiché
la contestuale progressiva chiusura degli archivi russi ha fatto sì che sempre
più storici del periodo sovietico, provenienti da tutti i paesi del mondo,
decidessero di dedicarsi alla storia ucraina sfruttando la grande quantità di
documenti disponibili.
Nelle
elezioni politiche presidenziali del 2019 il candidato dell’opposizione
Volodymyr Zelens’kyj ebbe la meglio su Porošenko:
il nuovo presidente era un ebreo russofono e
aveva vinto con una proposta politica che insisteva meno sull’opposizione alla
Russia e cercava di immaginare una via d’uscita dal conflitto.
Zelens’kyj
prese la decisione di sostituire V’jatrovyč con Anton Drobovyč, un attivista di
formazione filosofica con forti legami in occidente.
Quest’ultimo
ha smorzato i toni nazionalisti del suo predecessore, mentre ha continuato
sulla linea di maggiore apertura degli archivi, con varie iniziative dedicate
alla storia delle repressioni sovietiche che davano la possibilità ai
discendenti di cercare il destino dei propri familiari scomparsi o uccisi.
La
politica linguistica.
La
guerra della Russia all’Ucraina ha avuto fra le altre conseguenze quella di
rappresentare un punto di svolta per l’appartenenza linguistica.
La
compresenza delle due lingue aveva infatti reso gli ucraini bilingui passivi
quasi nella loro totalità e un’altissima percentuale pratica anche un
bilinguismo attivo, scegliendo di usare ciascuna lingua in ambiti differenti.
L’invasione
russa ha creato un momento di forte tensione:
la propaganda putiniana utilizzava infatti
l’argomento della difesa dei russofoni come giustificazione del suo intervento
nelle regioni orientali, rendendo la lingua di comunicazione interpersonale una
scelta ideologica.
In
reazione all’invasione un numero crescente di ucraini ha scelto coscientemente
di limitare se non addirittura di rinunciare completamente all’uso del russo
per parlare ucraino.
Tale
dinamica spontanea dal basso è stata accompagnata da un dibattito in politica e
nella sfera della cultura.
Questo
contesto ha permesso al governo ucraino di inaugurare per la prima volta nella
storia dell’Ucraina post-sovietica una politica linguistica volta a tutelare la
lingua ucraina:
si è
abolita la legge sulle minoranze linguistiche approvata da Janukovyč nel 2012,
che permetteva alle amministrazioni locali di utilizzare il russo come lingua
ufficiale.
Nel 2017, all’interno della riforma del
sistema educativo, si è stabilito che sia possibile studiare a scuola in lingue
differenti dall’ucraino solo nei primi quattro anni di scuola;
successivamente
tutte le materie (ad eccezione delle lingue straniere) devono essere insegnate
in ucraino.
Questa
norma è stata giustamente criticata dalla “Commissione di Venezia” e ha causato
alcuni attriti soprattutto nella minoranza ungherese:
i magiari d’Ucraina erano infatti soliti
compiere il percorso scolastico in ungherese per poi trovare lavoro o
proseguire gli studi all’università in Ungheria.
Questa
nuova legge costituisce oggettivamente un handicap per le minoranze
linguistiche e deve per questo essere emendata, va però notato che non vi sono
state significative proteste al riguardo da parte dell’ipotetica popolazione
russofona dell’Ucraina a ulteriore conferma del fatto che la scelta in favore
dell’ucraino era ormai appoggiata dalla maggioranza della popolazione.
Nel
2019, a termine del suo mandato, Porošenko è riuscito anche ad approvare la
legge che traduceva praticamente il principio della costituzione del 1996 (già
presente nella costituzione sovietica del 1989) secondo cui l’ucraino è la
lingua di stato.
Questa legge stabilisce che la prima lingua di
comunicazione in ambiti ufficiali e pubblici debba essere l’ucraino, anche se
prevede che il cittadino possa continuare a utilizzare un’altra lingua in
risposta agli ufficiali che utilizzano l’ucraino.
L’ucraino
è inoltre la lingua che deve essere usata nei mezzi di comunicazione di massa
(come la televisione e la stampa, ma l’utilizzo di altre lingue straniere, fra
le quali anche il russo, è consentito a patto che non superi il 49% della
produzione totale.
La legge è entrata pienamente in vigore a
partire dal novembre 2021:
Zelens’kyj
ha deciso di non modificarla e di applicarla così come era stata approvata,
dimostrando un desiderio di continuità nella politica linguistica.
La
politica religiosa.
La
popolazione ucraina è divisa fra molte confessioni cristiane e include numerose
comunità religiose più piccole, fra le quali l’ebraica e la musulmana.
Tale
molteplicità religiosa non è problematica, con la sola eccezione della chiesa
ortodossa del patriarca di Mosca:
quest’ultima
ha infatti sempre più legato il suo destino al potere politico putiniano e si è
schierata più di una volta a sostegno di Mosca e delle sue politiche
espansionistiche.
Dopo l’inizio del conflitto nel 2014, la
gerarchia della Chiesa ortodossa del Patriarcato di Kyïv, che era formalmente
sottomessa al patriarca di Mosca, si è mossa di concerto con il presidente
Porošenko per ottenere la piena indipendenza: l’azione del presidente ucraino
si è rivelata risolutiva e il patriarca di Costantinopoli, nel gennaio 2019, ha
concesso l’autocefalia al Patriarcato di Kyïv.
Il
Patriarcato di Mosca ha reagito dichiarando uno scisma dal resto delle chiese
ortodosse che riconoscono l’autorità del patriarca di Costantinopoli.
Anche
a seguito di questa autonomia, la forza della chiesa del Patriarcato di Kyïv è
cresciuta negli anni successivi, vedendo invece diminuire il numero di fedeli e
di chiese che riconoscono il patriarcato di Mosca.
Benché sia vero che spesso i credenti non
conoscono nemmeno l’appartenenza della propria parrocchia alle varie
confessioni (anche a causa della comunanza del rito ortodosso), questo passo ha
significativamente rafforzato l’identità nazionale, poiché nella tradizione
ortodossa ogni nazione ha diritto a una chiesa nazionale autocefala e Porošenko
ha abilmente venduto l’autocefalia come una sua vittoria nella costruzione di
uno stato pienamente indipendente.
Una
politica attiva nella promozione della cultura nazionale.
Oltre
che nei succitati ambiti di “macro politica” l’Ucraina post-Rivoluzione della
Dignità ha avviato una politica specifica nell’ambito della promozione di una
cultura nazionale.
Quest’ambito
è altamente problematico: non è così semplice definire in termini precisi cosa
sia la cultura nazionale e come essa vada promossa.
Era
tuttavia evidente che, anche a fronte della aggressiva propaganda russa anche a
livello di mezzi di informazione internazionali, che la cultura ucraina dovesse
trovare maggiori ambiti di espressione e sviluppo.
Un
vero punto di svolta è stato rappresentato dall’istituzione nel giugno del 2017
dello “Ukrainian Institute”, ovvero una istituzione il cui compito è quello di
far conoscere la cultura ucraina nel mondo.
Entrato in funzione nell’estate del 2018, con
la nomina a direttore dell’esperto di promozione culturale Volodymyr Šejko,
questo istituto ha rappresentato un’innovazione che metteva l’Ucraina e la sua
cultura allo stesso livello delle grandi culture nazionali mondiali,
promuovendo progetti internazionali di collaborazione e divulgazione
scientifica e artistica.
I
successi, nonostante gli scarsi fondi su cui il governo ucraino poteva contare,
hanno portato alla riconferma del direttore alla fine del 2021; l’Istituto ha
significativamente contribuito a creare un clima di collaborazione con
l’Ucraina all’estero dopo l’attacco del 24 febbraio.
Nell’ambito
della promozione di una cultura nazionale sul fronte interno, un’iniziativa
culturale di grande portata è stato il rilancio del “Centro Nazionale Oleksandr
Dovženko”:
nato in varie tappe dal 1994 al 2000, questo
Centro intitolato al padre nobile del cinema ucraino costituisce il più grande
archivio della produzione cinematografica nazionale, nonché il principale
impianto di creazione e diffusione dei film.
Dal
2016 al 2019 il “Centro Dovženko” ha attraversato un periodo di completa
ristrutturazione sotto l’abile guida del nuovo direttore, Ivan Kozlenko:
originario
di Odesa e divenuto famoso grazie a un romanzo di argomento queer, Kozlenko si è adoperato per
trasformare un archivio per specialisti in uno dei luoghi più interessanti di
sperimentazione artistica del Paese.
Il Centro ha accolto iniziative che venivano
da tutte le altre arti, organizzando conferenze, mostre, spettacoli e
proiezioni che l’hanno consacrato come uno dei principali centri di produzione
e diffusione della cultura nazionale non solo della capitale, ma dell’intero
Paese.
Nonostante questi successi, il direttore non è
stato confermato alla scadenza del mandato nel 2021 e all’inizio del 2022 il
Ministero della Cultura ha annunciato di aver ceduto il “Centro all’Agenzia
Statale Ucraina per il Cinema”, che ha dichiarato di voler scindere il centro
in tre istituzioni separate.
Nonostante le sovrastanti preoccupazioni
dovute al conflitto, il mondo della cultura ucraina sta in questi mesi
dibattendo del futuro di questo centro che così tanto aveva fatto per lo
sviluppo artistico nazionale e per la promozione della cultura cinematografica
ucraina.
Ciò che si può constatare è che nel periodo
seguito alla “Rivoluzione della Dignità “lo stato ha per la prima volta attuato
una politica culturale attiva, basata su una legislazione apposita e sostenuta
col finanziamento di specifiche istituzioni.
Tale
politica è stata perseguita in maniera coerente da entrambi i presidenti e ha
contribuito al rafforzamento del senso di appartenenza alla comunità nazionale
ucraina, contribuendo così a spiegare la forza della coesione nazionale in
reazione all’invasione su larga scala del 24 febbraio.
Una “rivoluzione intersezionale”,
la
politica non sia miope.
Acri.it
- Intervista
ad Annalisa Corrado – 1(5 Novembre 2022) – ci dice:
Annalisa
Corrado è un’ingegnera meccanica, ecologista e da sempre attivista per la
giustizia climatica, co-portavoce dell’associazione “Green Italia” e
responsabile delle attività tecniche dell’associazione “Kyoto Club”.
Abbiamo
raccolto le sue idee sulla “transizione ecologica”.
Cos’è
per lei la transizione ecologica?
La
transizione ecologica è una rivoluzione sistemica che dovrebbe spingere la
nostra economia e il nostro modello di sviluppo a “transitare”, appunto, da un
modello dominato dall’utilizzo (dissennato) di fonti fossili a un “modello di
decarbonizzazione totale”, attraverso l’utilizzo sostanziale di “fonti
rinnovabili”.
Non si tratta di un percorso meramente
tecnologico ma intersezionale, perché è tutto il sistema che necessita di
essere modificato.
Non è
sufficiente trasformare la modalità di generare e distribuire energia, ma
bisogna incidere anche su tutti gli altri settori:
dall’industria
al residenziale, dall’agricoltura e l’allevamento al turismo, dall’educazione
alle scelte individuali, dalle decisioni a livello nazionale ai rapporti
internazionali e geopolitici.
Come
attuare questa rivoluzione sistemica?
Ci
sono sperimentazioni valide che potrebbero diventare modelli da replicare su
larga scala?
Assolutamente
sì.
Nel mondo sono ormai numerose le comunità territoriali che hanno
fatto della transizione ecologica un obiettivo concreto, con una strategia e delle azioni
chiare.
Per
rimanere vicini a noi, il Portogallo ha fatto passi da gigante, ma anche città
importanti come Barcellona e Parigi stanno realizzando delle vere e proprie
rivoluzioni nella gestione complessiva della città.
L’Italia
non è da meno, tante sono le economie territoriali e locali che hanno avuto un
ruolo da apripista nel mondo della sostenibilità e della transizione ecologica.
Con
Alessandro Gassmann abbiamo co-ideato il progetto “Green Heroes”, proprio allo
scopo di raccontare queste esperienze, attraverso le figure visionarie,
“eroiche”, che le realizzano, dimostrando che ci sono delle soluzioni efficaci,
che apportano benefici ai territori, alle persone, alla salute, alla salubrità
e che fortificano l’economia, portano fatturato e posti di lavoro.
Le buone pratiche, dunque, ci sono, c’è
consapevolezza, ci sono le conoscenze scientifiche, le tecnologie, gli
strumenti, a mancare è la volontà politica di rendere la transizione un progetto
concreto.
Perché
manca la volontà politica di realizzare la transizione ecologica?
Io
penso ci sia un ancoraggio molto forte ai modelli passati, quelli
novecenteschi, anche a causa degli interessi dei grandi gruppi che influiscono
in maniera determinante sulle decisioni politiche.
Si
tratta di modelli ancora molto centralizzati di produzione dell’energia, che
non credono nelle possibilità delle fonti rinnovabili, dell’efficienza
energetica, dell’elettrificazione dei consumi.
È come
se fossimo timorosi di affrontare un cambiamento radicale, e a causa di questo
timore stiamo perdendo importanti occasioni.
Quali
occasioni?
Un
caso molto emblematico è quello dell’automotivo:
il più grande gruppo italiano del settore si è
rifiutato di vedere nell’elettrico una prospettiva, ha cominciato a farlo solo
recentemente, arrancando, invece di rimanere competitivo a livello
internazionale.
Anche
sulla plastica, in Italia abbiamo delle eccellenze a livello internazionale
nella produzione di materiali monouso ma, vent’anni fa, non si è investito su
questo primato per trasformare il settore e mantenerlo competitivo, ci si è
invece arroccati, insistendo sul mantenimento di un’economia già destinata a
scomparire.
Un’inerzia
della trasformazione, insomma, che è autolesionista se si pensa anche alla
bioplastica, materiale ideato da una scienziata italiana, Catia Bastioli, che
guida la prima azienda, a livello internazionale, a produrre una plastica a
base di amidi, cellulosa e oli vegetali.
Perché
non puntare su queste eccellenze sostenibili e avanguardiste, invece di
rallentare la transizione?
Nonostante
questa inerzia, ci sono diversi movimenti sociali (soprattutto giovanili) che
sono molto attivi su questo fronte e che hanno riportato la questione al centro
del dibattito pubblico.
Ha
fiducia in loro?
Sicuramente
l’attenzione sul tema è stata potenziata e rinvigorita dai movimenti giovanili.
Si
tratta di un segnale di attivismo molto importante.
Tuttavia
non possiamo pretendere che siano loro a risolverlo, mi sembra una posizione
deresponsabilizzante:
la
situazione attuale è la conseguenza delle decisioni e delle azioni passate,
quindi dovremmo essere tutti coinvolti.
Siamo
tutti convocati alla causa, nessuno escluso.
Quella
della transizione ecologica dovrebbe essere una battaglia intergenerazionale,
oltre che intersezionale, anche perché, spesso, a una maggiore sensibilità non
corrispondono proposte concrete e quindi una reale capacità collettiva di
incidere.
Tutti
devono essere coinvolti, scienziati, tecnici, decisori politici, non si può
lasciare che siano solo i giovani a pretendere e avviare il processo di
transizione e, contemporaneamente, cercare di trasformare un immaginario
culturale e collettivo che considera spesso gli ecologisti come sognatori dai
sentimenti nobili ma poco capaci e concreti.
Al
contrario, l’ecologismo trova le basi anche da un incredibile avanzamento
scientifico e tecnologico, che ne rafforza e concretizza le istanze.
Tuttavia, nel dibattito politico si propongono
ancora trivelle, inceneritori e impianti nucleari, come nel Novecento.
Come
uscire da questa impasse?
Io
credo che servano nuovi modelli di partecipazione popolare per incidere
sull’agenda politica e sull’agenda mediatica, affinché anche a livello politico
si considerino queste istanze e competenze sociali, per farne delle politiche
concrete.
Oggi
sono tanti gli eventi catastrofici ai quali stiamo assistendo, si contano i
morti, i danni e i costi per i territori, anche in Italia.
È
inqualificabile e irresponsabile corroborare un sistema che risponde solo agli interessi
di piccoli gruppi di potere, che non hanno alcuna intenzione di abbandonare
questi modelli.
Bisogna dunque che entri in gioco anche la
politica, non c’è altra strada.
Spesso
si gioca sulla responsabilità individuale, sui comportamenti dei singoli
cittadini:
si invita a fare bene la raccolta
differenziata, a consumare meno energia, a essere meno consumisti, ma a livello
politico ed economico si continua a difendere e alimentare il sistema che ha
portato alla situazione attuale.
C’è
dunque un’ipocrisia e una deresponsabilizzazione di fondo.
Sicuramente
è importante che ognuno di noi faccia la sua parte, ma non basta predicare ai
singoli se a livello politico e istituzionale non si fa lo stesso.
Durante
un’intervista, Martina Comparelli, portavoce dei “Fridays for Future” ha detto:
«Per me lottare significa credere che le cose
cambieranno, perché possono cambiare e perché ci faremo sentire».
Secondo lei, le cose cambieranno?
Non si
può non rispondere a questa domanda con «Per forza cambieranno»;
rispondere
diversamente significherebbe vanificare tutto ciò in cui crediamo e cerchiamo
di realizzare.
Non
sappiamo chi vedrà i benefici di questa battaglia:
stiamo
solo passando il testimone e tenendo accesa una fiaccola, ma non continueremmo
se non credessimo che, prima o poi, sì, le cose cambieranno.
La
ministra Locatelli: «In arrivo
una
rivoluzione sulla disabilità»
avvenire.it
- Viviana Daloiso – (7 febbraio 2023) – ci dice:
Pronti
i cinque decreti attuativi della Legge delega, che in due anni scandiranno il
nuovo approccio ai “progetti di vita” individualizzati.
Poi un
Testo unico per integrare tutte le normative.
Lo ripete convintamente, la ministra per le Disabilità
Alessandra Locatelli, ad ogni convegno o incontro a cui partecipa nel tour lungo
lo stivale che la vede protagonista dal giorno del suo insediamento:
«L’Italia
sta diventando un Paese più inclusivo».
Eppure
i dati dicono cose differenti: degli oltre 3 milioni di persone che nel nostro
Paese vivono con una forma grave di disabilità, quasi la metà non riesce a
portare a termine un percorso scolastico, il 40% non partecipa a percorsi di
formazione e non lavora, il 32% è a rischio povertà.
E per tutti riuscire a salire su un treno, o
su un autobus in una grande città, è spesso questione di fortuna.
Ministra,
il suo è ottimismo o vede davvero segnali di svolta?
È
chiaro che c’è ancora molto da fare:
visitare
i territori, incontrare le istituzioni locali, il mondo dell’associazionismo e
le famiglie è importante per ascoltare e capire i loro bisogni che sono
differenti dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi e
dell’assistenza, ma anche per conoscere i progetti di valore che riescono a
realizzare.
Mi
interessa incentivare le istituzioni a lavorare con tutte queste realtà, perché
in questo modo i risultati si moltiplicano e già in molte regioni o enti locali
si lavora così
. È un
particolare periodo storico, sociale ed economico, difficilissimo per certi
versi, ma che ci offre una grande opportunità:
ci
sono i fondi del Pnrr, c’è la Legge delega da attuare, ci sono molti progetti
innovativi che guardano al futuro.
E poi c’è un nuovo sguardo sulla disabilità:
è
finito il tempo della persona con disabilità per cui occorre “ritagliare” uno
spazio. Adesso al centro ci sono tutte le persone con le loro competenze e i
loro talenti che devono essere valorizzati per il bene della comunità e che
possono portare un contributo di crescita per il Paese.
Se
saremo in grado di cogliere queste occasioni, se sapremo accompagnare questo
nuovo sguardo, potremo determinare una rivoluzione in tema di disabilità.
Entriamo
proprio nel merito della Legge delega.
Che
tempi si è data e quali sono i pilastri attuativi della norma?
La
legge è stata approvata l’anno scorso e io ho il compito di attuare 5 decreti
entro la fine del 2024.
Il
primo istituisce la figura del “Garante nazionale”, il secondo agevola
l’accessibilità nella Pubblica amministrazione, il terzo fissa le procedure per
determinare i “Leps”,
i cosiddetti “Livelli di prestazione sociale”.
Poi i
due punti rivoluzionari.
L’accertamento
per la disabilità, che fino a oggi è stato effettuato con il metodo delle
percentuali e delle tabelle.
Si
tratta di un cambiamento radicale di prospettiva, per cui istituiremo
immediatamente un tavolo di lavoro.
Infine, il decreto attuativo per il progetto
di vita:
attraverso
il progetto determineremo i bisogni effettivi della persona.
Resta
il nodo scoperto dei caregiver…
Vogliamo
costruire un provvedimento unico che sia condiviso da tutti i ministeri
competenti e che risponda a tutte le necessità, quindi sia al caregiver di
persone anziane non autosufficienti che al caregiver di persone con disabilità,
con una particolare attenzione ai caregiver familiari conviventi.
I caregiver familiari sono persone che amano e
che curano, che non desiderano essere sostituite ma tutelate e sostenute nel
loro compito.
Molte
persone con le quali parlo mi chiedono di immaginare percorsi di sollievo che
possano aiutarli a staccare ogni tanto per ricaricarsi di energie e maggiori
possibilità di conciliazione attraverso misure specifiche e tutele.
Ha
sollevato lo sdegno delle famiglie e delle associazioni la recente relazione
della Corte dei conti sul “Dopo di noi”:
la metà dei fondi destinati alla
concretizzazione dei progetti di autonomia non sono stati spesi dalle Regioni e
i beneficiari effettivi sono stati appena 8.424 soggetti, nemmeno il 10% della
soglia minima della platea potenziale dei destinatari, stimata tra i 100 e i
150mila soggetti nella relazione tecnica alla legge.
Perché
succede questo?
La
legge 112 del 2016 sul “dopo di noi” è stata strategica e ha dato slancio al
tema del progetto di vita, oggi centrale nel Pnrr e per l’Europa, oltre che per
la legge delega italiana.
Questa norma, tuttavia, non è stata compresa e
capita fino in fondo, forse perché in alcuni punti troppo complessa.
È mia
intenzione istituire a breve un tavolo con le associazioni e i soggetti
coinvolti da cui possa uscire una proposta di miglioramento della norma, che la
rende più facilmente applicabile.
Serve anche un ragionamento con le Regioni,
per capire cosa non funzioni. Quando parliamo di “dopo di noi” non possiamo non
parlare anche del “durante noi” che è un tema di fondamentale importanza per le
famiglie e che deve essere oggetto di ragionamento per il tavolo istituzionale.
Ma
così non c’è il rischio che i bravi facciano sempre meglio, e i meno bravi
restino al palo?
Per
attuare pienamente questa legge è fondamentale costruire un percorso con le
famiglie e con le associazioni.
Certo,
è un lavoro faticoso, perché non si tratta di distribuire risorse secondo
criteri prestabiliti, ma di costruire un percorso di vita che sia condiviso con
la persona e la famiglia, di qualità e che tenga conto della parte sociale
sanitaria e socio-sanitaria, ma soprattutto che possa essere realizzato con un
budget di progetto che richiede la ricomposizione delle risorse.
Anche
l’inclusione lavorativa non decolla ancora.
E
anche qui c’è da attualizzare una legge, la 68 del 1999.
Nel corso del tempo abbiamo visto che questi
percorsi hanno successo soprattutto nelle aziende che hanno creato delle figure
di sostegno e di accompagnamento dedicate.
Soprattutto,
però, negli ultimi anni il mondo del terzo settore, le associazioni e le
cooperative hanno saputo ideare percorsi innovativi:
penso
a produzioni alimentari, a percorsi nel campo dell’agricoltura ed esercizi
commerciali.
Sono
state realizzate anche attività di inserimento lavorativo attraverso l’utilizzo
della tecnologia e della digitalizzazione come per esempio l’archiviazione di
documenti affidata ad associazioni che si occupano di formazione per persone
con disturbo dello spettro autistico.
Tante
leggi, tanti tavoli da riunire, tante modifiche da apportare…
A fine
2024, conclusa l’attuazione della legge delega, occorrerà un Testo unico sulla disabilità
per porre ordine tra le norme e i fondi, perché nel corso del tempo si sono
aggiunti sempre più in maniera frammentata.
Nel
frattempo, per una persona disabile, resta difficile fare tutto: viaggiare in
treno, entrare in un museo, andare a un concerto.
La
Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità è stata recepita
dall’Italia nel 2009:
sancisce
il principio dell’accessibilità universale ai servizi, tutti devono poter fare
tutto e ovunque.
Nel
nostro Paese purtroppo si continua ad “adattare”: le strutture, i mezzi di
trasporto, l’accesso alle mostre e ai concerti.
Serve un cambio di passo, che può nascere solo
da un cambio di prospettiva:
la
disabilità intesa non come competenza di chi la vive o della sua famiglia, ma
come responsabilità che va condivisa con tutta la comunità.
Stiamo
lavorando in questa direzione, ma fino a quando non si progetteranno strutture,
mezzi di trasporto, mostre e concerti per tutti, e finché non ci sarà il salto
di qualità nella piena attuazione delle norme e nella garanzia dei diritti
sanciti dalla Convenzione Onu, serve qualcuno che porti più in alto la voce
delle persone, delle famiglie e delle associazioni.
Mi
auguro che presto questo percorso si completi: allora non ci sarà più bisogno
di un ministero.
C’è un
incontro, tra i molti che ha avuto, che l’ha colpita particolarmente?
Ogni
volta che vado a visitare una realtà del territorio o ad incontrare le
associazioni mi emoziono per il grande lavoro che fanno e per la passione e
l’impegno che ci mettono.
Soprattutto
quando vedo i ragazzi e le persone più fragili esprimersi in attività
ricreative, sportive, ma anche lavorative.
È in
questi momenti che colgo il grande valore del terzo settore, delle famiglie e
mi convinco che non dobbiamo mai dimenticare che la persona è una e che ha
bisogno di cure e assistenza ma anche di affetto, relazioni e attività sociali.
In
particolare di recente ho incontrato Marta Russo (una giovane influencer molto
seguita sui social, dove racconta la sua esperienza di disabile alle prese con
le difficoltà di ogni giorno, ndr), con la quale ho potuto parlare di molte
problematiche, ma in particolare delle borse di studio che finora si cumulavano
con la pensione d’invalidità: le une escludevano l’altra.
Ho
lavorato con gli uffici per modificare la norma e abbiamo inserito un
emendamento apposito nella Legge di bilancio.
Ora le
cose sono cambiate.
"Taglio del cuneo e stop al
reddito".
Meloni
prepara la rivoluzione fiscale.
Ilgiornale.it
- Luca Sablone – (9 Febbraio 2023) – ci dice:
Il
presidente del Consiglio indica la rotta: "È l'anno delle grandi riforme
che nessuno ha avuto il coraggio di fare.
Ora mettere al centro anche dipendenti e
pensionati"
"Taglio
del cuneo e stop al reddito".
Meloni
prepara la rivoluzione fiscale.
Il
2023 ha preso il via da poco più di un mese nella totale consapevolezza che si
tratta di una tappa di assoluto rilievo: per Giorgia Meloni abbiamo di fronte
l'anno che permetterà di partorire tutte quelle "grandi riforme che
l'Italia aspetta da tempo ma che nessuno ha avuto il coraggio di fare".
Così
il presidente del Consiglio, nell'intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore, ha
indicato la rotta che il governo intende seguire per risollevare le sorti del
Paese e andare incontro alle esigenze degli italiani.
La
rivoluzione fiscale.
Il
primo ministro ha ribadito la necessità di apportare un notevole cambiamento
rispetto al passato per quanto riguarda il rapporto tra fisco e contribuente.
Innanzitutto
è indispensabile che l'evasione "si combatta prima ancora che si
realizzi".
Il che
rappresenta la premessa di una prossima legge delega "che toccherà tutti i
settori della fiscalità" e che "metterà al centro anche i dipendenti
e i pensionati, con misure ad hoc".
Meloni
ha effettuato un bilancio positivo dei primi giorni dell'esecutivo di
centrodestra, anticipando una serie di misure in arrivo e tracciando la strada
da percorrere.
L'obiettivo resta quello di "mettere al
sicuro il nostro debito da nuovi shock finanziari": a tal proposito vanno
avanti i lavori con Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia, proprio per
l'aumento "del numero di italiani e residenti in Italia che detengono
quote del debito".
Il
presidente del Consiglio ha fatto notare che la sostenibilità della finanza
pubblica non può essere persa di vista, specialmente se si ha un debito
pubblico elevato come il nostro.
Tuttavia ha assicurato che, nonostante i tassi
d'interesse della Bce in rialzo, "lo spread è basso e il debito non è
esploso".
In sostanza ha garantito che la situazione
finanziaria del nostro Paese "è sotto controllo".
Resta
ferma l'intenzione di rendere sostenibile il debito attraverso "la
crescita economica, non le politiche di cieca austerità viste negli anni
passati".
Il
taglio del cuneo e lo stop al Rdc.
Meloni
ha inoltre illustrato due pilastri che stanno caratterizzando l'operato
politico del governo nei suoi primissimi passi.
L'impegno
dell'esecutivo, sempre tenendo bene in mente le risorse economiche a
disposizione, prevede da una parte "tagli consistenti al cuneo
fiscale" e dall'altra la sostituzione del reddito di cittadinanza
"con misure concrete di contrasto alla povertà".
Anche
perché la misura che porta la firma del Movimento 5 Stelle in questi anni
"ha fallito tutti gli obiettivi per i quali era nato".
Il
ruolo del governo.
Dal
giorno del suo insediamento il primo ministro ha avuto oltre 60 colloqui e
incontri con capi di Stato e di governo.
Proprio
su questo punto ha fatto notare che "nel mondo c'è tanta voglia di Italia"
e l'esecutivo si è detto del tutto pronto "a rispondere a questa
domanda".
"Da pericolo a leader più popolare
dell'Ue". Anche il Times incorona Meloni.
Un
ruolo così forte è reso possibile grazie al chiaro risultato elettorale emerso
domenica 25 settembre, quando gli italiani hanno consegnato al centrodestra le
chiavi del Paese.
Quello
in carica è un governo politico, formato da partiti premiati dagli elettori e
che porta avanti un programma incoronato dagli stessi.
Da qui
la grande dose di fiducia da parte di Giorgia Meloni:
"Gli
italiani ci hanno voluto per segnare una netta discontinuità con chi ci ha
preceduto a Palazzo Chigi. E i provvedimenti che abbiamo adottato lo
dimostrano".
IRAN,
LA RIVOLUZIONE DEI LAVORATORI.
Rivistailmulino.it
- Stella Morgana – (08 DICEMBRE 2022) – ci dice:
Precari
e divisi da anni di politiche di stampo neoliberista e repressione, i
lavoratori iraniani hanno iniziato alcuni scioperi locali in solidarietà con le
proteste.
Ma uno
sciopero di massa è ancora lontano.
“Ormai
non abbiamo più paura. Lotteremo”, così uno slogan imprimeva uno scarto di
paradigma alle proteste di piazza in Iran, scattate dopo la morte di Mahsa Jina
Amini il 16 settembre 2022, in seguito al suo arresto da parte della cosiddetta
polizia morale (Garsht-e Ershad).
Era il 7 ottobre e quelle parole tracciate con
una bomboletta spray su un lenzuolo bianco che campeggiava su un ponte della
Modarres, una delle autostrade più trafficate di Teheran, sancivano
l’impensabile divenuto realtà.
Il
regime non fa più paura.
La
lotta punta in alto, parte da “donna, vita, libertà” contro l’obbligo del velo,
ma vuole andare oltre.
La
parola “riforma” cede il passo al desiderio di rivoluzionare un sistema che ha
perso legittimità in diversi segmenti della popolazione, in primis tra le donne
e i giovani, contro un regime che però appare ancora compatto seppur
attraversato da un acceso dibattito interno.
La
spaccatura tra Stato e società sembra diventata incolmabile.
L’ordinario
si è fatto miccia di una protesta che parte dal velo, ma non è più individuale
o confinata alla sola questione femminile.
Questa
cresce lentamente, ma si fa collettiva, nonché traversale in tema di classe,
generazione, componente settaria, distribuzione geografica.
Proprio
in quei giorni alcuni gruppi di lavoratori iniziano a solidarizzare con le
manifestanti e gli uomini scesi in piazza per sostenere le donne in prima
linea.
Tra le prime immagini a fare il giro del
mondo, grazie a un video amatoriale diffuso da Bbc Persian, sono quelle degli
operai petroliferi di Asaluyeh, nella provincia di Busher.
Nelle settimane successive, tra fine ottobre e
metà novembre, insegnanti e operai iniziano a organizzare sit-in e scioperi
locali, a Teheran, Isfahan, Abadan e altre località nel Kurdistan iraniano.
I negozianti abbassano le saracinesche a
Saqqez, la cittadina d’origine di Mahsa Jina Amini.
Il
potenziale rivoluzionario della partecipazione dei lavoratori è tanto
promettente quanto di difficile esplosione.
I numeri degli operai che partecipano agli
scioperi, dalla famosa fabbrica d’acciaio di Isfahan a quelli dell’industria
petrolifera nel sud del Paese, sono ancora limitati.
Le
iniziative sono prive di un coordinamento nazionale e di leadership
consolidata.
A
gestire le proteste indipendenti sono principalmente lavoratori precari, assunti
con contratti a tempo determinato.
Un
vero e proprio movimento dei lavoratori coeso, forte e su base nazionale al
momento non esiste, nonostante le spinte dal basso di iniziative come quelle
del sindacato autonomo degli autisti Sherkat-e Vahed di Teheran o quello della
fabbrica di zucchero Haft Tapeh nel Khuzestan iraniano, che sono state
obiettivo di diverse ondate di repressione negli ultimi anni.
In un
Iran dove quasi il 90% dei contratti è temporaneo e le agenzie mediano i
rapporti di lavoro, il potenziale del movimento operaio è precario, privo di
leader nazionali e reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel minimo
introito economico.
Lo
sfilacciamento del tessuto sociale e collettivo di oggi fonda le sue radici non
solo nell’oppressione dei movimenti indipendenti, laddove i sindacati autonomi
non hanno alcun riconoscimento giuridico nello statuto del lavoro della
Repubblica islamica.
La difficoltà di organizzazione politica,
trasversale di classe – e quindi di un’alleanza coesa tra le peculiari istanze
operaie di giustizia sociale e le altre rivendicazioni politiche emerse nelle
proteste – trova fondamento nelle politiche di stampo neoliberista implementate
a partire dagli anni Novanta, iniziate con il presidente pragmatico Hashemi Rafsanjani.
Erano
gli anni di ricostruzione dopo otto estati di guerra con l’Iraq (1980-1988),
quelle del “produci e consuma” per la Repubblica islamica, quelle del mito del
vincente e dell’esaltazione dell’individuo.
Negli
ingranaggi di quel mantra volto a liberalizzare il Paese e ad aprirlo alla
scena internazionale hanno anche trovato spazio le diverse riforme legislative
che – a più riprese e sotto diversi governi – hanno indebolito il potere
contrattuale dei lavoratori.
E oggi, in un Iran dove quasi il 90% dei
contratti è temporaneo e le agenzie mediano i rapporti di lavoro, il potenziale
del movimento operaio è precario, frammentato, privo di leader nazionali e
coordinamento capillare, reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel
minimo introito economico.
I
lavoratori sono ancora ai margini di queste proteste che hanno dimostrato
caratteristiche evolutive uniche e di natura rivoluzionaria, anche se ancora
sono esposte a una serie di vulnerabilità politiche dovute principalmente alla
mancanza – allo stato attuale delle cose – di connessioni sociali in grado di
prospettare la formazione di una coalizione politica di piazza stabile e coesa.
I legami trasversali di classe sono de facto cruciali
per trasformare le proteste in episodi rivoluzionari costanti e di massa.
Nel
1979 gli operai hanno sigillato il successo della rivoluzione iraniana, che è
stata polifonica e ha visto condividere le strade a intellettuali, studenti,
religiosi, mercanti del bazar, liberali, esponenti di sinistra, lavoratori e
donne, sotto la leadership dell’ayatollah Ruhollah Khomeini.
Quando
gli operai si sono finalmente uniti alla coalizione rivoluzionaria, il loro
contributo è stato determinante.
Insieme
ai colletti bianchi e agli impiegati, hanno sbarrato l’accesso a molti servizi
essenziali e alle industrie e, alla fine, hanno paralizzato l'apparato statale.
È l’Iran dei mesi del momentum rivoluzionario,
tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, quello raccontato nelle parole degli
storici Ahmad Ashraf e Ali Banuazizi.
L’Iran
consumava la sua rivoluzione, che “paralizzava” la macchina pubblica e il
regime dello Shah Reza Pahlavi, per poi rovesciarlo.
Scioperi a oltranza per le condizioni
economiche disagiate, in rivolta contro salari da miseria e inflazione,
decapitavano – in nome degli oppressi (mostaz’afin), e in ultima istanza grazie
ai lavoratori organizzati – un sistema di potere che aveva creato sacche di
disuguaglianza considerate ormai insostenibili.
Quando
nel 1979 gli operai si sono finalmente uniti alla coalizione rivoluzionaria, il
loro contributo è stato determinante.
Insieme
ai colletti bianchi e agli impiegati, hanno sbarrato l’accesso a molti servizi
essenziali e alle industrie e, alla fine, hanno paralizzato l'apparato statale
Oggi,
in un contesto dove l’impensabile per le generazioni precedenti è già avvenuto,
perché la paura e le richieste di riforma hanno fatto strada alla rivolta anti-sistema,
un cambiamento radicale sembra ormai inevitabile.
I
tempi e le modalità sono ancora da definire, e i lavoratori potrebbero essere
agenti cardine di questo processo di trasformazione.
Nonostante
le attuali proteste abbiano stimolato l’aggiornamento di alcune griglie
analitiche del passato con la loro nuova grammatica della rivolta, un passaggio
fondamentale in grado di aggiungere slancio all’attuale movimento acefalo,
coraggioso e non violento – in contrasto alla brutale repressione da parte del
regime – sarebbe quello della resistenza civile potenziata da scioperi a
oltranza.
Anche
se uno sciopero di massa e capillare sembra al momento non di facile
concretizzazione, il processo di condivisione delle istanze di rivolta è in
accelerazione.
Le connessioni
tra classi diverse sono fragili, ma si stanno formando lentamente. Nonostante
le divisioni precarie, le aperture del regime rivolte principalmente agli
indecisi e le tecniche di sabotaggio volte a scoraggiare la fiducia nelle
proteste, si intravedono – ma ancora troppo deboli – gli elementi per un
cambiamento radicale e condiviso.
Parte della popolazione iraniana sta provando
a tessere quelle reti fitte di organizzazione politica che servirebbero alla
causa della piazza che spera in una vita diversa.
Perché
la strada – nelle parole del sociologo Asef Bayat – “è uno spazio per creare ed
esprimersi, uno spazio dell’identità [collettiva] e della solidarietà.
È un
luogo dove il familiare si intreccia con il non familiare, e condivide un
dolore comune.
La strada ha la straordinaria capacità di
trasformare un raduno di 500 persone in una folla di migliaia e migliaia”.
Le
primarie dei dem.
“Rivoluzione
nel Pd e nella società:
ecco perché sto con Schlein”,
parla
Roberto Morassut.
Ilriformista.it
- Umberto De Giovannangeli - Roberto Morassut - (9 Febbraio 2023) – ci dicono:
“Rivoluzione
nel Pd e nella società: ecco perché sto con Schlein”.
Le
elezioni regionali nel Lazio, il “caso Donzelli-Delmastro”, le scelte nel Pd
per la corsa alla segreteria.
Il
Riformista ne discute con Roberto Morassut, parlamentare dem, un passato da
amministratore del Comune di Roma, assessore all’Urbanistica e a Roma capitale
nella giunta Veltroni.
Il 12
e 13 febbraio si vota in importanti regioni come la Lombardia e il Lazio.
Quest’ultima, è una regione che lei conosce molto bene.
Le
divisioni nel centrosinistra hanno spianato la strada alla destra?
Conte
ed il Movimento Cinque Stelle hanno compiuto una scelta incomprensibile.
Motivata
da illusorie ragioni di partito, per tentare un “sorpasso” nei confronti del Pd
che non ci sarà.
Nel
Lazio vi era una collaborazione tra Cinque Stelle e Partito Democratico che poteva
e doveva essere consolidata.
La
destra a Roma e nel Lazio continua ad essere una delle peggiori d’Italia.
È
evidente che senza quella decisione la chance di successo di una coalizione di
centro-sinistra e Cinque Stelle sarebbero state assai maggiori.
Comunque,
la campagna elettorale è in corso e nonostante tutto Alessio D’Amato la sta
conducendo con coraggio.
Tra
lui e Rocca c’è un divario di competenza e credibilità.
Nel
merito non c’è partita.
I
numeri sono difficili ma i conti li faremo alla fine.
Il
“caso Donzelli-Delmastro”. Il Decreto migranti. Che destra è quella che oggi
governa l’Italia?
Esprime
quello che Gramsci chiamava “sovversivismo delle classi dirigenti”.
La
destra usa il potere per scardinare la Costituzione.
Lo fa
con il provvedimento sull’Autonomia differenziata, con il decreto sugli
“sbarchi” che punisce le Ong mentre continua a rifiutarsi di affrontare la vera
questione che riguarda le intese di Dublino e lo fa, come nella vicenda
Donzelli, derogando a regole di comportamento fondamentali con l’uso pubblico
di documenti riservati per utilizzarli contro l’opposizione.
Donzelli
e Delmastro Delle Vedove, in un paese normale, si sarebbero dovuti già
dimettere ed il capo del Governo avrebbe dovuto chiederglielo subito.
Invece
sono stati sostanzialmente difesi e giustificati.
È
inaccettabile. Ma la questione non finirà qui, visto che è in corso una
indagine della magistratura.
Titola
questo giornale: “La rissa è su Donzelli. Ma del 41-bis non frega niente a
nessuno”.
Il riferimento è alla sospensione del 41-bis
per Alfredo Cospito in modo da evitare la sua morte.
A lei la parola.
Io non
sono d’accordo con la sospensione del 41 bis nemmeno per Cospito, tanto meno
per chi si è macchiato di un reato per mafia.
La visita dei nostri parlamentari era
finalizzata all’accertamento delle condizioni di salute di un detenuto da oltre
un mese in sciopero della fame e rientrava perfettamente nelle prerogative di
un parlamentare della Repubblica.
Nessuno
ha chiesto di sollevarlo dal regime carcerario del 41 bis.
Se poi
si parla di ergastolo ostativo la nostra posizione è chiara da tempo e si basa
sulla considerazione accorta delle indicazioni della Consulta, valutando
condizioni assolutamente eccezionali e estremamente selettive.
Il Pd
ha una storia di lotta alla mafia e al terrorismo che nessuno può permettersi
di mettere in discussione, tanto meno chi certi legami con l’eversione nera
legata alla mafia non li ha mai del tutto recisi.
E a Roma vi è una storia recente che lo
racconta.
Lo
scontro parlamentare e il dibattito “costituente” del Pd. Lei vede un nesso?
La
nostra forza nella società italiana, ai fini di una “costituente” di un
soggetto politico più aperto, passa anche da una condotta parlamentare rigorosa
e che sappia mettersi in connessione con le domande ed i bisogni che
attraversano la società e vogliono rappresentanza.
Quindi,
dai temi del lavoro, a quelli della transizione ecologica, a quelli dei diritti
civili, a quelli della pace nel quadro di una Europa più forte e coesa, alle
battaglie per i diritti delle donne, alla salvaguardia dell’unità nazionale e
di un giusto regionalismo che non punisca il Mezzogiorno, il nostro lavoro in
Parlamento dovrà essere in grado di dare voce a queste istanze, comunque si
concluda il Congresso. Un Congresso che deve aprire la Costituente e non chiuderla.
A
contendersi la leadership del Pd sono in quattro. Qual è la sua scelta e
perché?
Ho
scelto di sostenere fin da subito la candidatura di Elly Schlein perché il Pd
ha da tempo bisogno di una rivoluzione interna.
Una
“rivoluzione del sorriso” che non cerchi nemici ma sia determinata al
cambiamento.
Senza nulla togliere agli altri candidati
penso che in campo vi sia una istanza rivoluzionaria che raccoglie la spinta di
tanti giovani e giovanissimi e di tanti militanti e cittadini di sinistra e
democratici liberi che si sono allontanati e che arrivano dal corpo della
società.
Dall’altra
parte c’è una proposta più “convenzionale” di realtà e istanze istituzionali
che si muove per “aggiustare” quel che siamo.
Ma noi
dobbiamo cambiare radicalmente e non aggiustare.
Elly
Schlein incarna questa spinta e questa esigenza.
Serve
un nuovo ciclo del cammino dei Democratici ed il profilo di questa nuova storia
non ce lo scegliamo a tavolino ma si muove sulla spinta delle persone reali.
Delle
ragazze e dei ragazzi che oggi chiedono un luogo di combattimento.
Dal 2008 molto è cambiato.
Le
radici del Pd del Lingotto vanno rinvigorite e riaffermate con nuova linfa
vitale che proviene dalle emergenze e dai bisogni di oggi.
La
candidatura di Elly Schlein non è solo alternativa a quella di Bonaccini ma è
la candidatura giusta per raccogliere le spinte che stanno maturando sotto la
pelle della società italiana contro la destra e la sua arroganza. Lei è
l’alternativa giusta e reale alla Meloni più ancora che a Bonaccini.
(Umberto
De Giovannangeli - Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di
secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende
riguardanti il Medio Oriente.)
L’era
dei rivoluzionari
senza
rivoluzione.
Legrandcontinent.eu
- Mario Pezzini, Alexander Pick – (25th Novembre 2021) – ci dice:
Il
crescente scontento globale sta costringendo gli stati a trovare soluzioni a
breve termine.
Il multilateralismo del futuro dovrà contare
su una profonda integrazione dei cittadini - e su una pianificazione negoziata
- per risolvere questa crisi.
Lo
scontento sociale si diffonde nei paesi in via di sviluppo, ma non solo. La
crisi del COVID-19 si sta trasformando da crisi sanitaria, sociale ed economica
a crisi politica.
Tuttavia,
lo scontento sottostante alla pandemia non è esclusivamente frutto di
quest’ultima;
piuttosto, dell’onda lunga generata dalla
crescente instabilità politica e dalle fratture sociali messe a nudo sin dalla
crisi finanziaria del 2008-09, all’origine della sequela di proteste violente
del 2019.
In questo articolo, sosteniamo che la risposta
allo scontento dovrebbe essere priorità dei governi nazionali, ma anche delle
istituzioni multilaterali, che devono urgentemente rafforzare e trasformare la
cooperazione internazionale, assolutamente necessaria per affrontare le minacce
globali.
Lo
spettro dello scontento comprende un’ampia gamma di dissidenti, ognuno
insoddisfatto a modo suo.
In prima approssimazione, possiamo definire
scontento come il risultato di una frustrazione collettiva nata da aspettative
non soddisfatte, vulnerabilità e ingiustizie – sentimenti facili da capire ma
difficili da misurare.
Inoltre,
i sintomi dello scontento si manifestano in modo più o meno palese:
dalle
proteste nelle piazze, che costituiscono la sua manifestazione più ovvia, al
calo dell’affluenza alle urne, della fiducia nei governi e del sostegno alla
democrazia.
Sintomi
che suggeriscono la necessità di un cambiamento profondo dei sistemi che
governano le società.
L’ampia
gamma di dissidenti diventa dunque difficile da confrontare e da classificare,
data la sua eterogeneità:
da un
lato, dei rumorosi rivoluzionari senza rivoluzione; dall’altro degli invisibili
senza legami, silenziosamente assordanti.
L’aumento
dello scontento non è un fenomeno fugace né marginale.
Certo,
si potrebbe obiettare che una certa “turbolenza” sia una caratteristica
ricorrente della società, soprattutto nei periodi difficili.
Tuttavia,
ciò che è particolarmente problematico per quel che riguarda l’odierno
scontento, è che la sua natura e magnitudo confondono e perturbano i
tradizionali meccanismi utilizzati per affrontare le tensioni sociali,
generando così un circolo vizioso che, intensificando le sfide, indebolisce le
società.
In
questo articolo, esamineremo come lo scontento di oggi laceri la coesione
sociale e prosciughi il consenso necessario per fronteggiare le disfunzioni che
lo hanno generato.
Esporremo in seguito diverse opzioni volte a
ravvivare l’azione collettiva, sia al livello nazionale che internazionale; ben
consapevoli che le cause, le conseguenze e la cacofonia dello scontento
riecheggiano in uno dei peggiori momenti possibili.
Dal
lamento alla protesta.
Eventi
minori rivelano profonde frustrazioni.
Il
Cile è emblematico non solo per il discernimento delle complessità dello
scontento, ma anche per comprenderne il potenziale.
Un
aumento del costo del biglietto della metropolitana nella capitale di Santiago
nell’ottobre 2019 ha scatenato proteste a livello nazionale, che si sono poi
diffuse a macchia d’olio in altri paesi latinoamericani.
I manifestanti
non hanno solo richiesto un miglioramento radicale nell’assistenza sanitaria,
nell’istruzione e nel sistema pensionistico, ma anche un nuovo sistema di
governo per la società cilena.
“Non sono 30 pesos, sono 30 anni” hanno
proclamato, riferendosi alla costituzione dell’era Pinochet che, a detta loro,
ha bloccato il paese in un modello economico e politico incapace di garantire
ai cittadini ciò che volevano.
Così, nel 2021/2022, sarà redatta una nuova
costituzione:
e non
dai politici dell’ancien regime, ma da un’assemblea composta in gran parte da
outsiders.
Ciò
che è particolarmente problematico per quel che riguarda l’odierno scontento è
che la sua natura e magnitudo confondono e perturbano i tradizionali meccanismi
utilizzati per affrontare le tensioni sociali, generando così un circolo
vizioso che, intensificando le sfide, indebolisce le società.
La
discrepanza tra causa ed effetto mostra come l’interazione fra eventi attuali,
rancori latenti e ingiustizie radicate stia producendo risultati che non
corrispondono direttamente né sono proporzionali alla scintilla iniziale.
In
Cile e altrove sembra esserci una crescente convinzione che le persone elette
ed i partiti che esse rappresentano, così come gli stessi sistemi economici e
politici in cui operano le società, non siano più in grado di dare i risultati
attesi dai cittadini.
Ostacoli
alla percezione del cambiamento.
Comprendere
le aspettative e le vulnerabilità della gente è fondamentale per poter trattare
le loro frustrazioni.
Ciononostante,
i quadri concettuali e analitici prevalenti non sono riusciti a prevedere,
prima dell’implosione, i disordini in grembo a diversi paesi, quali il Cile,
l’Ecuador, la Tunisia, la Tailandia, l’Algeria o il Senegal.
Il Cile rappresenta una delle economie più
sviluppate dell’America Latina;
i
tradizionali indicatori economici della Tunisia pre-primavera araba non davano
alcun motivo di allarme;
entrambi
i paesi sono stati a lungo considerati tra i più stabili nelle loro rispettive
regioni.
Ma se
si fossero ascoltati direttamente i cittadini, se ne sarebbe potuta trarre
un’analisi diversa.
Nel
2018, solo il 64% dei cileni era soddisfatto della propria vita, la seconda
percentuale più bassa in America Latina;
circa
il 44% sentiva di non riuscire ad arrivare a fine mese e il 51% era preoccupato
di perdere il lavoro nei prossimi 12 mesi.
Solo
l’8% degli intervistati riteneva che la distribuzione del reddito fosse equa,
la percentuale più bassa in una regione molto disuguale.
Questa
storia di vulnerabilità, ingiustizia e infelicità non si limita al Cile.
Sempre
nel 2018, in Africa sub-sahariana, la percentuale della popolazione che “viveva
comodamente” o “tirava avanti” era inferiore al 40%;
in
America Latina e nei Caraibi, in Medio Oriente e Nord Africa, poco più della
metà della popolazione riusciva ad arrivare a fine mese.
In entrambi i casi, dei dati in calo rispetto
al decennio precedente.
Questo
prima della pandemia di COVID-19, che ha esacerbato drasticamente tale
vulnerabilità.
Una
maggiore attenzione agli indicatori soggettivi avrebbe messo in guardia i
governi sul divario esistente tra gli indicatori economici tradizionali e le
percezioni dei cittadini.
L’emergere
dello scontento negli ultimi anni, in particolare nei paesi in via di sviluppo,
costituisce probabilmente un enigma per i sostenitori del PIL come indicatore
incontestabile:
perché la gente dovrebbe essere infelice se
non è mai stata così bene?
Il PIL
è cresciuto quasi ininterrottamente in tutto il mondo nei tre decenni
pre-COVID-19.
Una
crescita spiccata soprattutto nei paesi in via di sviluppo, che ha contribuito
a cambiamenti significativi della geografia economica mondiale.
Sono quattro gli elementi chiave spesso citati
per sciogliere tale paradosso.
In primis, ça va sans dire, la disuguaglianza
di reddito;
in
secondo luogo, il fatto che, in molti casi, la crescita del benessere non sia
aumentata allo stesso ritmo di quella del reddito, ampliando così le
diseguaglianze infra-societarie.
Il terzo elemento è la pressione sulla forza
lavoro globale:
la
globalizzazione e i progressi tecnologici hanno indebolito le prospettive e la
sicurezza del lavoro di tutti, eccetto i lavoratori più qualificati ed i
rentiers.
Il
quarto è la crescente consapevolezza del catastrofico deterioramento
ambientale, che conduce l’umanità sull’orlo della sesta estinzione di massa.
L’emergere
dello scontento negli ultimi anni, in particolare nei paesi in via di sviluppo,
costituisce probabilmente un enigma per i sostenitori del PIL come indicatore
incontestabile: perché la gente dovrebbe essere infelice se non è mai stata così bene?
Nonostante
un consenso stia emergendo rispetto al contributo di questi diversi elementi
all’odierno scontento, esso lascia diverse domande in sospeso:
perché,
dopo decenni in cui i fenomeni materiali si sono strutturati come possenti
forze “geo-logiche”, lo scontento sta diventando, solo ora, sempre più visibile
ed esplosivo?
E
perché le crescenti schiere di insoddisfatti non utilizzano le tradizionali
modalità politiche e di comunicazione per esprimere la loro voce ed il loro
dissenso?
Il
tempo presente?
Per
quel che riguarda la tempistica, l’evoluzione dello scontento non è sembra
accorarsi direttamente all’intensità delle sue cause strutturali e latenti.
Segue
piuttosto una dinamica apparentemente imprevedibile:
talvolta
frutto di fenomeni politici come i movimenti sociali, il cambiamento delle
percezioni prevalenti della gente e la perdita di fiducia nella narrazione
proposta dagli attori politici esistenti – in particolare i cosiddetti
progressisti.
Di
conseguenza, lo scontento può rimanere dormiente per un lungo periodo di tempo
tra coloro che sono rimasti indietro nel
miglioramento generale degli standard di vita di un dato luogo, per poi
esplodere improvvisamente;
o, invece, manifestarsi in quanto exit dal
sistema politico, con un calo a lungo termine dell’affluenza alle urne.
Un
punto chiave rispetto allo scontento ed al suo tempismo è che non riguarda mai
esclusivamente il presente.
Gli
“esclusi” di un’economia in crescita possono tollerare le disuguaglianze, se
pensano che presto progrediranno a loro volta;
al
contempo, assisteremo ad un probabile disordine sociale se un gruppo abbastanza
grande di questi stessi “esclusi” si stancasse di aspettare il proprio turno, o
si auto percepisse come sistematicamente svantaggiato.
Allo
stesso modo, lo scontento potrebbe ribollire fra coloro che, contrariamente
agli “esclusi”, hanno inizialmente beneficiato dei guadagni economici di una
società, il quale progresso si è poi, per quel che li riguarda, rallentato o
addirittura invertito, provocando una profonda frustrazione.
È il
caso delle “classi medie” in molti paesi in via di sviluppo:
se le
loro aspettative si sono moltiplicate nel corso di decenni di impressionante
crescita economica, oggi non riescono ancora ad arrivare a fine mese, e
rischiano di ricadere nella povertà estrema.
In alcuni casi, queste classi medie non costituiscono
lo zoccolo duro della liberal democrazia – così come ipotizzato dalle dottrine
politiche liberali;
ma
piuttosto un terreno fertile per regimi populisti e autoritari.
Nel
caso in cui queste due figure sociali – gli “esclusi” e le classi medie
precarie – convergano verso una causa comune, la protesta potrebbe avere una
forza particolarmente potente.
Indebolimento
della fiducia, guerre culturali e tendenze populiste.
Per
quanto riguarda le modalità di espressione dello scontento, esse sono collegate
ad almeno tre fattori che contribuiscono al rapido disfacimento dei legami che
uniscono le società.
In
primo luogo, l’indebolimento dei corpi intermedi.
Questi
ultimi possono essere considerati come il fondamento della società civile:
assicurano fiducia, reciprocità e solidarietà tra vicini, colleghi e comunità;
forniscono il principale canale di aggregazione degli interessi delle persone,
e il mezzo tramite il quale esprimono la loro voce.
Sono
stati riconosciuti come vitali per il funzionamento della democrazia da molti,
da Tocqueville a Putnam.
Lo
stesso Gramsci vide nella società civile, con i suoi molteplici attori e
prospettive, un terreno fertile per la trasformazione ed un nuovo pensiero
sociale.
Eppure
i corpi intermedi si stanno riducendo drammaticamente, lasciando gli individui
oggi sempre più soli, anche se sembrano più connessi.
L’adesione ai sindacati è in declino e i
partiti politici sono sempre più lontani dalla propria base.
Nel
frattempo, la fiducia interpersonale si indebolisce, raggiungendo livelli
particolarmente bassi nei paesi in via di sviluppo.
La
proporzione di persone con amici o familiari su cui contare nei momenti di
difficoltà è diminuita;
dall’inizio
degli anni 2000, le persone in tutto il mondo sono sempre più preoccupate,
stressate e arrabbiate, riflettendo una crescente tracollo della salute mentale
ed un rafforzamento dell’anomia.
L’evoluzione
dello scontento segue una dinamica apparentemente imprevedibile: talvolta
frutto di fenomeni politici come i movimenti sociali, il cambiamento delle
percezioni prevalenti della gente e la perdita di fiducia nella narrazione
proposta dagli attori politici esistenti – in particolare i cosiddetti
progressisti.
In
secondo luogo, la frammentazione delle identità politiche e la tendenza dei
sistemi politici a irrigidirsi nel mantenimento dello status quo invece che
risolvere le disuguaglianze hanno creato una crisi di mediazione e
rappresentazione.
In un mondo in cui il vuoto ideologico è
riempito da questioni di identità, i valori e i punti di vista non possono che
divergere verso gli estremi, dando vita alle cosiddette guerre culturali, e
rendendo sempre più difficile il raggiungimento di un accordo sul come
affrontare un dato problema – o persino sull’esistenza stessa di un problema.
Nel frattempo, una politica del tipo “winner-takes-all” (ovvero, quando le élite economiche
dominano anche la vita politica) ha generato una politica percepita come
funzionante solo per una piccola porzione privilegiata della popolazione –
ergo, l’anatema dei sistemi democratici per eccellenza.
C’è poco di sorprendente, dunque,
nell’emergere di movimenti politici populisti ed etno-nazionalisti, che sfidano
lo status quo e sfruttano la polarizzazione sociale parlando ad una grossa
parte dei gruppi sistematicamente emarginati della popolazione.
In terzo
luogo, uno stile populista pervade lo spettro dei discorsi politici, stabilendo
una serie di concetti puntuali e ricorrenti (anti-migrazione, la figura dei
nemici, il ruolo del leader, ecc.) che svalutano il discorso politico, rendendo
sempre più difficile la costruzione di una narrazione consensuale e di
un’azione collettiva.
Le
piattaforme dei social media rafforzano la polarizzazione, creando le
cosiddette “echo chambers”, che personalizzano le informazioni degli utenti,
allineandole alle loro convinzioni pregresse.
È
importante notare, però, che la frammentazione dell’informazione non implica
una perdita di controllo da parte dei gruppi mediatici più potenti:
una
maggiore concentrazione del mercato ha permesso ad alcune di essi di diventare
notevolmente più potenti negli ultimi anni, garantendo loro un’enorme influenza
nel determinare ciò che costituisce una notizia e come l’attualità dovrebbe
essere intesa.
Di
fronte al ritorno della storia, l’opzione “business as usual” non è da considerare.
I
governi, che si apprestano a rispondere allo scontento e, più in generale, ad
avviare una ripresa sostenibile post-pandemia, si trovano oggi di fronte ad una
sfida schiacciante, data la profondità delle fratture sociali, la consistenza
delle fratture sistemiche e l’ampia dimensione delle proteste.
Ritornare
al “business as usual” non otterrebbe alcun risultato.
Le
cause dello scontento non possono essere trattate in modo puntuale dai
responsabili politici, come se ognuna di esse si limitasse ad un gruppo di
persone ristretto, isolato e facilmente identificabile.
Piuttosto,
essi devono confrontarsi con una sorta di “intrattabile trade-offs”, declinati
in modi di pensare che non sembrano permettere delle soluzioni immediate.
Un esempio ben noto è l’aumento delle tasse sul
carburante, inteso a contribuire alla riduzione delle emissioni di carbonio.
Se da un lato tale iniziativa concorre alla
necessaria costruzione di una serie di politiche ambientali, dall’altro infuria
una fetta di popolazione a medio-basso reddito, che dipende dalla propria
automobile sia per andare al lavoro, sia per accedere ai servizi, e che non si
può permettere di affrontare tale costo aggiuntivo.
Altri
trade-offs includono, per esempio, la
tassazione e le disuguaglianze di genere o di luogo.
I
governi, che si apprestano a rispondere allo scontento e, più in generale, ad
avviare una ripresa sostenibile post-pandemia, si trovano oggi di fronte ad una
sfida schiacciante, data la profondità delle fratture sociali, la consistenza
delle fratture sistemiche e l’ampia dimensione delle proteste.
D’altro
canto, i governi non possono pensare di rispolverare semplicemente gli
strumenti “tecnici” preesistenti, mirando ad obiettivi dettati dalla sola
efficienza.
Ovvero:
sebbene la valutazione di politiche specifiche abbia un senso e richieda, fra
l’altro, un maggiore sforzo da parte dei governi, rimane uno strumento
insufficiente.
Si
attende invece un ritorno della politica con la P maiuscola, fatta di visioni e
strategie.
Ciò
che è in gioco oggi è più di un maggior “value for money” in alcune politiche;
si tratta piuttosto dell’interazione tra le
politiche, della visione che traspare da una concezione onnicomprensiva delle
politiche, delle strategie per ridisegnare i contratti sociali a partire da
obiettivi condivisi e narrazioni convincenti.
In
breve, di fronte a minacce esistenziali e scelte immensamente difficili, i
governi non possono cavarsela con amministrazioni efficienti che mancano però
di una visione d’insieme, limitandosi ad aspettare che arrivi una mano
invisibile a proporre soluzioni di più
ampio respiro.
Per
spiegarlo con una metafora che ci è cara:
appare
strano contemplare i singoli alberi senza alzare gli occhi sull’insieme della
foresta a cui appartengono.
In
questo senso, sfide della portata della crisi climatica e delle diseguaglianze
odierne richiedono approcci che vadano ad affrontare e ripensare le istituzioni
e i meccanismi di deliberazione che organizzano le fondamenta stesse delle
nostre società e delle nostre economie.
Risposte
nazionali: migliorare la vita, curare le ferite.
L’importanza
dell’azione collettiva.
Ci
sono diverse ragioni che illustrano perché l’azione collettiva sia urgente e
necessaria per affrontare lo scontento.
La
minaccia esistenziale della crisi climatica, ad esempio.
L’affronto etico delle enormi disuguaglianze
tra persone e luoghi.
L’imperativo
politico di prevenire e contrastare la manipolazione dello scontento a favore di
tendenze autoritarie – o persino fasciste – o
separatiste.
Gli
obiettivi economici per assicurarsi che la ripresa non affronti esclusivamente
i problemi generati dalla pandemia, ma anche i colli di bottiglia persistenti,
le asimmetrie visibili, la segmentazione e il sottoutilizzo delle risorse
rivelate dalla crisi di COVID-19, ma che erano già presenti durante le crisi
precedenti.
Se il
“perché” affrontare lo scontento è ben chiaro, concentriamoci sul “chi”, sul
“come” e sul “cosa” dell’azione collettiva.
Il
compito è, da un lato, difficile, perché richiede di cambiare il consenso
corrente (come sostenuto dal presidente
Macron nella sua intervista con il Grand Continent);
dall’altro,
è complesso, perché i fattori che alimentano e direzionano lo scontento variano
sia nello spazio che nel tempo.
Diventa
dunque impossibile proporre un singolo set di politiche capace di trattare
problemi specifici in modo generalizzato.
Abbozziamo
invece quattro considerazioni che possono aiutare i paesi ad identificare le
loro proprie soluzioni specifiche.
Chi
dovrebbe agire?
L’attuale
scontento produce una sorta di ribellioni senza rivoluzionari e in definitiva
senza rivoluzioni.
Lo
stato dovrà svolgere un ruolo cruciale (il principe nell’Amleto) per
contribuire a riformulare le espressioni dei movimenti emersi ed evitare la possibile
costituzione di basi di massa che vadano ad alimentare regimi autoritari e
persino fascisti.
Questo
può essere fatto contrastando almeno due fenomeni che esacerbano l’isolamento
dei cittadini e indeboliscono la loro autonoma partecipazione politica.
Le
sfide della crisi climatica e delle diseguaglianze odierne richiedono approcci
che vadano ad affrontare e ripensare le istituzioni e i meccanismi di
deliberazione che organizzano le fondamenta stesse delle nostre società e delle
nostre economie.
In primo
luogo, prendiamo i movimenti populisti:
sebbene essi siano i sintomi di un fallimento
politico e riflettano spesso lo scontento di parti importanti della
popolazione, non riescono però ad affrontarne le cause di fondo?.
Questi
movimenti non sembrano capaci di tradurre le espressioni sociali e culturali
dello scontento– in sostanza:
la
loro retorica – in soggettività politica che possa trasformare la realtà.
Insomma, non stanno costruendo un “Principe
moderno” (per parafrasare Gramsci).
Indipendentemente dalle loro origini
strutturali, questi movimenti, sembrano rimanere pre-politici, espressioni di
forme di ribellione, privi dei mezzi necessari ad influenzare e cambiare
realmente la struttura sociale e politica che tanto criticano.
Mancano
di quell’insieme coerente di aspirazioni e rappresentazioni necessario per
affrontare le complesse cause delle sfide che ereditano. I
l loro
punto d’appoggio – la nazione stessa – costituisce una base scarna per
un’agenda politica a lungo termine.
La centralizzazione
del potere e gli sforzi per indebolire o aggirare le istituzioni democratiche
dilata ancora di più la distanza tra società e stato.
Probabilmente la loro azione più dannosa è, comunque,
la tendenza a minare la nozione di verità condivisa, rendendo ancora più
difficile che le società si accordino sulla portata e la natura dei problemi.
In
secondo luogo, prendiamo la “multilevel governance”:
gli stati dovrebbero “appoggiare” i corpi
intermedi, aiutandoli a accompagnare gli individui “nel torrente generale della
vita sociale” (per parafrasare Durkheim), creando un dialogo regolare tra la
società civile e lo stato, in quanto base primordiale della reattività,
efficacia e legittimità statali.
Purtroppo,
in molti casi, l’azione degli stati ha contribuito attivamente non al
rafforzamento, ma alla scomparsa dei corpi intermedi.
Quegli
stessi stati che hanno spesso mostrato una profonda incapacità di interpretare
direttamente gli interessi e le percezioni della gente, ostentando un
positivismo distaccato, un generico paternalismo e una profonda diffidenza
verso le manifestazioni popolari cosiddette “spontanee”.
La
ragione risiede soprattutto nell’l’adesione a filosofie neoliberali
semplicistiche, ma egemoniche, e con dall’insistenza conservatrice sul concetto
di leadership e di autorità dall’alto.
Di conseguenza, le popolazioni con aspettative
di emancipazione – giustificate da un maggiore accesso all’istruzione e da
condizioni economiche almeno in parte migliori – hanno perso spazio per
esprimere la propria voce, invece di guadagnarlo.
Fino a
quando sono scese per strada, e hanno dato luogo spontaneamente a nuove forme
di solidarietà, anche se con poche possibilità di riconoscimento ufficiale.
Come
dovrebbero agire gli stati? L’organizzazione che apprende e l'”improvvisazione diretta”,
I
principali quesiti da porsi oggi sono:
“come”
possono gli stati promuovere legami di fiducia, reciprocità, inclusione,
solidarietà e “voce” dei cittadini, e allo stesso tempo migliorare il benessere
degli individui?
Come possono rafforzare la loro legittimità
attraverso una politica più inclusiva e flessibile, prevenendo un’ondata di
scontento all’indomani del COVID-19?
Come
possono le burocrazie adattarsi all’odierno clima di cambiamento e di radicale
incertezza, se i funzionari pubblici non sanno quale sia il risultato più
atteso dall’intera collettività?
Gli
stati dovrebbero “appoggiare” i corpi intermedi, aiutandoli a accompagnare gli
individui “nel torrente generale della vita sociale”, creando un dialogo
regolare tra la società civile e lo stato, in quanto base primordiale della
reattività, efficacia e legittimità statali.
Certo,
una migliore inclusione può essere inserita nelle regole di un nuovo contratto
sociale attraverso un processo costituzionale.
Gli esempi del Cile o della Tunisia dimostrano
che l’impegno a ridisegnare le regole fondamentali e le istituzioni che
governano la società può essere indispensabile.
Ma non
sufficiente.
Il
processo di riforma costituzionale, previsto come soluzione ai problemi che
affliggono il Cile, e che si è poi diffuso in altri paesi negli ultimi anni, ha
in molti casi rafforzato i diritti socio-economici e incoraggiato una maggiore
partecipazione femminile.
Eppure
tale processo non è stato universalmente positivo.
I
processi costituzionali non garantiscono necessariamente l’effettivo rispetto
dei diritti socio-economici, come l’accesso ai servizi di base e al lavoro.
Alcuni
regimi autoritari hanno manipolato i cambiamenti costituzionali per limitare
gli impulsi democratici.
Anche
in contesti democratici, gruppi di potere hanno esercitato un’influenza
sproporzionata sulla costruzione della costituzione.
È ancora troppo presto per sapere se le
recenti riforme costituzionali contribuiranno a fornire soluzioni durature ai
fenomeni all’origine dello scontento, oppure no.
Una
nuova generazione di piani negoziati?
Ciò
che appare indispensabile, con o senza processi costituzionali, è la
costruzione di una visione nazionale condivisa e di una strategia conseguente.
Tale processo potrebbe articolarsi attorno
alla costruzione dei cosiddetti Piani di Sviluppo.
Se il
numero di paesi che modificano le proprie costituzioni è cresciuto negli ultimi
anni, è cresciuto anche il numero di paesi che definiscono strategie nazionali
di sviluppo: da 62 nel 2006 a 134 nel 2018.
Più
dell’80% della popolazione mondiale vive in un paese con un piano di sviluppo
nazionale, un numero destinato ad aumentare ulteriormente se si considerano gli
attuali piani di ripresa post-pandemica.
Questi
piani hanno il potenziale per essere molto più di una tabella di marcia verso
un futuro desiderato dall’amministrazione al potere in un dato momento.
Possono
essere inclusivi sia nei fini che nei mezzi: se l’obiettivo finale è
l’elaborazione di una visione condivisa del futuro, il modus operandi, ovvero
il processo di negoziazione di tale visione, costituisce un’opportunità di
espressione e di ascolto di un’ampia gamma di voci della società, con la
creazione di nuovi e rinnovati meccanismi di deliberazione al fine di “democratizzare la democrazia”.
I piani potrebbero anche essere un modo per lo
Stato di provare a funzionare come “un’organizzazione che apprende” (a learning-organisation):
promuovere “esperimenti” decentralizzati per usare la voce e le competenze dei
cittadini attraverso le autorità locali, imparare monitorando quale approccio
funziona meglio, e riferire regolarmente sui progressi nel raggiungere gli
obiettivi pre-concordati (Sabel e Simon, 2009).
Questo
modo di ridefinire i piani – questa “pianificazione negoziata” – differisce
sostanzialmente dalle esperienze attuate negli anni ’60, che erano di natura
top down.
Quali
dovrebbero essere le priorità di questi piani?
Una
terza considerazione è il “cosa”.
Una
strategia dovrebbe essere un mix coerente di politiche e la loro sequenza.
Quali
potrebbero essere tali questioni politiche specifiche e in quale ordine
dovrebbero dunque essere messe in avanti?
Un elemento irrazionale, sebben presente, è
insistere sul fatto che i paesi in via di sviluppo, per svilupparsi, dovrebbero
adottare una vasta gamma di standard politici derivati dalle pratiche
consolidate nei paesi sviluppati.
Ora,
gli standard sono spesso in realtà il risultato, più che l’origine, dello
sviluppo.
Inoltre,
i paesi in via di sviluppo devono affrontare persistenti asimmetrie, colli di
bottiglia, trappole dello sviluppo:
tutti
elementi specifici ai diversi contesti, e che non possono essere trattati
imitando le pratiche dei paesi sviluppati.
Le
politiche che combinino efficienza economica, inclusività e un’ampia
partecipazione dovrebbero essere prioritarie per fronteggiare gli impedimenti
strutturali e sfuggire alle trappole causate da bassa produttività, istituzioni
deboli e vulnerabilità sociale.
Una
migliore inclusione può essere inserita nelle regole di un nuovo contratto
sociale attraverso un processo costituzionale.
Ad
esempio, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo non è in grado di
sostenere la crescita delle micro, piccole e medie imprese, anche se queste
rappresentano la stragrande maggioranza dell’attività economica.
Lo
sviluppo economico di questi paesi non opera dunque al pieno del suo
potenziale.
Le
piccole imprese continuano a lavorare in modo isolato, senza avere alcun ruolo
nell’economia formale.
Al
tempo stesso, nei paesi sviluppati – ma anche in alcuni paesi in via di
sviluppo – vi sono reti di piccole imprese e forme avanzate di sub-fornitura
che utilizzano alcuni tratti delle comunità tradizionali per favorire
l’industrializzazione locale (o di servizi turistici) e fare in modo che sia
sostenibile, moderna e più egualitaria.
La
condizione è che vi siano politiche di sostegno e servizi reali alle imprese.
La fiducia,
il senso di appartenenza a una comunità e il know-how si combinano allora per
permettere alle imprese di espandere le loro operazioni, sfruttando bassi costi
di transazione ed una migliore integrazione nelle catene di valore.
Cooperazione
internazionale e scontento.
Lo
scontento è un fenomeno che sfida la nozione di scala pertinente.
Nel
mondo interconnesso di oggi, lo scontento al di fuori dei confini di un paese
può avere un profondo effetto sugli eventi all’interno dei suoi confini.
La primavera araba fornisce un esempio
evidente, così come il rapido propagarsi delle proteste popolari attraverso
tutta l’America Latina nel 2019.
Aggiungiamo
anche le tensioni nel Sahel, che sono spesso interpretate secondo i canoni
delle guerre tradizionali, ma la cui origine deriva da questioni di sicurezza
sociale, tra cui la sicurezza alimentare, le pestilenze e la siccità.
O il
fallimento ventennale della comunità internazionale in Afghanistan.
Questi fenomeni possono essere difficilmente
interpretati tramite la tradizionale logica westfaliana della sovranità
statale, plasmata da relazioni e confronti internazionali tra potenze.
Eppure hanno accresciuto le tensioni
politiche, plasmato l’agenda internazionale, ed esposto le fratture della
governance globale.
La forte dimensione internazionale di questi
eventi non può essere affrontata senza la cooperazione internazionale.
Ma la
cooperazione internazionale è all’altezza del compito?
Muri
intorno alle paure interne.
La
cooperazione internazionale è evidentemente minata da pressioni
nazionalistiche, che promuovono il bilateralismo tra “amici”.
L’instabilità
politica, associata allo scontento, spesso spinge i governi a concentrarsi su
preoccupazioni interne a breve termine.
Se le dimostrazioni di forza di una volta restano
rare, un certo numero di leader populisti ha unito a tendenze isolazioniste un
comportamento poco diplomatico nei confronti dei tradizionali rivali o dei
critici della comunità internazionale. Hanno persino eretto muri (non sempre
figurati) tra loro e gli altri paesi, o si sono
ritirati
dagli accordi internazionali con la motivazione che essi rappresenterebbero un
“cattivo affare” per il loro popolo.
Inerzia
e frammentazione della cooperazione.
Tuttavia,
solo un’analisi molto incompleta della governance globale potrebbe incolpare la
sola politica interna per le inefficienze del multilateralismo.
La cooperazione internazionale è minata da sfide che
concernono i suoi obiettivi, i suoi strumenti e suoi sistemi di governance, che
influenzano la capacità di affrontare le cause e gli esiti dello scontento.
Gli
obiettivi.
Le
ambizioni del sistema multilaterale sono state rafforzate dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
(OSS), ma
l’impegno è stato debole e il progresso lento, anche prima della pandemia.
Definiti nel 2015, gli OSS hanno rappresentato
un gradito riorientamento del sistema multilaterale intorno all’idea che la
crescita economica e lo sviluppo, sebbene connessi, non sono sinonimi:
la crescita deve essere inclusiva e
sostenibile, in modi che affrontino molte delle cause dello scontento qui sopra
discusse.
La
cooperazione internazionale è evidentemente minata da pressioni
nazionalistiche, che promuovono il bilateralismo tra “amici”.
Viceversa,
negli ultimi tre decenni, l’interconnessione economica è stata una
caratteristica distintiva della crescita globale.
Durante questi anni, le interruzioni, gli
squilibri e gli ampi cambiamenti sociali associati a tale interconnessione –
insieme alle conseguenze ambientali della crescita economica, sono stati
ampiamente trascurati – anche se rappresentano una delle principali cause
dell’aumento dello scontento.
Questi effetti avrebbero potuto essere
mitigati se i sistemi multilaterali avessero offerto una maggiore protezione
alle persone e all’ambiente, contro le richieste e i capricci dei mercati
globali.
In
effetti, l’era di Bretton Woods, che durò dal 1945 fino ai primi anni ’70,
riuscì a conciliare una maggiore apertura economica con l’accettazione del
fatto che i paesi dovessero proteggere i posti di lavoro e sviluppare le
industrie nazionali e allo stesso tempo costruire sistemi di welfare per
sostenere coloro che non riuscivano a trovare il loro posto in un’economia in
cambiamento.
Ma,
una volta crollato il cosiddetto modello di liberalismo integrato, i principi
del laissez-faire hanno preso piede.
Alle
forze di mercato – lasciate libere dalla liberalizzazione dei flussi di
capitale – è stato permesso di calpestare le protezioni sociali e ambientali
considerate, da Karl Polanyi e altri, essenziali per la salute delle società.
Gli
strumenti:
il “Ἀπὸ μηχανῆς θεός/deus ex machina“?
Queste
considerazioni introducono una seconda sfida, che riguarda gli attuali
strumenti della cooperazione allo sviluppo.
La
cooperazione è più che mai indispensabile, ma le forme tradizionali di
assistenza sembrano rinchiuse in strutture obsolete che possono essere
inefficaci nell’affrontare lo scontento, e potrebbero addirittura finire per
alimentarlo.
La distribuzione degli aiuti, per esempio,
rimane basata sui livelli di PIL-GNI; questo nonostante gli OSS dovrebbero
orientare la cooperazione internazionale verso una serie più ampia di misure di
sviluppo – quelle che sono spesso al centro delle richieste dei manifestanti –
e verso un insieme più ampio di paesi, compresi quelli in cui lo scontento è
più visibile, molti dei quali sono paesi a medio reddito.
Un
altro esempio è che il grosso della discussione si concentra spesso sugli
aiuti, invece di focalizzarsi sullo sviluppo di altri possibili strumenti di
cooperazione.
Questo
non significa negare che un grande volume di “risorse finanziarie per lo
sviluppo” sia indispensabile.
Al
contrario:
i costi per superare il COVID-19 e affrontare
in modo significativo la crisi climatica richiedono un notevole aumento dei
fondi di cooperazione – ben oltre la timida reazione alla pandemia da parte
della cooperazione allo sviluppo ufficiale, accompagnata dalla mancanza di
partecipazione di alcuni paesi.
I
paesi meno sviluppati sono sostenuti in maniera molto debole, mentre molti
paesi a medio reddito che si trovano ad affrontare importanti trappole dello
sviluppo sono esclusi del tutto dagli aiuti.
L’era
di Bretton Woods riuscì a conciliare una maggiore apertura economica con l’accettazione
del fatto che i paesi dovessero proteggere i posti di lavoro e sviluppare le
industrie nazionali e allo stesso tempo costruire sistemi di welfare per
sostenere coloro che non riuscivano a trovare il loro posto in un’economia in
cambiamento.
Il
punto è piuttosto che, a parte le risorse finanziarie, non ci si concentra
abbastanza sulla costruzione di capacità in tema di politiche pubbliche e sui
partenariati per gli investimenti, laddove entrambi dovrebbero essere una parte
fondamentale della risposta allo scontento riguardo ai servizi pubblici e ai
posti di lavoro.
Un
nuovo consenso su un multilateralismo rinnovato non dovrebbe cercare di
prescrivere standard e influenzare i paesi in via di sviluppo attraverso una
complicata architettura finanziaria legata inoltre alla condizionalità, ma
piuttosto dovrebbe mirare a promuovere un dialogo politico strutturato e la
sperimentazione e l’apprendimento tra “pari”, attraverso il monitoraggio dei programmi sperimentati.
Abbiamo
bisogno di interazioni ripetute e strutturate affinché i paesi possano
discutere e confrontare, da pari a pari, le strategie nazionali, regionali e
globali.
Il
risultato potrebbe assomigliare a quello che l’OCSE ha messo in atto per i suoi
membri dopo la seconda guerra mondiale e la fine del Piano Marshall, ma in modi
diversi e per gruppi più ampi di paesi e regioni.
Un
ulteriore esempio ha a che fare con la mancanza di coordinamento tra le
pratiche tradizionali di cooperazione allo sviluppo e le significative
iniziative forgiate dai paesi del Sud – indipendentemente dal loro livello di
sviluppo.
Nonostante
l’aumento del volume e della visibilità della cooperazione del Sud, le
istituzioni del Nord sembrano a disagio nel discutere le prospettive
provenienti dal Sud del globo.
Insistono
piuttosto sul fatto che gli attori del Sud debbano adottare standard definiti
in passato, senza la loro partecipazione.
La ripresa economica post-COVID-19 potrebbe
essere un’opportunità per riconoscere e discutere i diversi approcci, e
affrontare così le pressioni delle piazze conto l’acquiescenza dei governi del
Sud al modus operandi della cooperazione e delle organizzazioni multilaterali
tradizionali.
Gli
attori: come imparare gli uni dagli altri?
Una
terza sfida riguarda la legittimità dei “tavoli” dove si decide la natura e il
volume dei fondi per lo sviluppo.
Per
quanto strano possa sembrare, essi riuniscono solo i donatori tradizionali,
senza alcuna partecipazione strutturata dei paesi in via di sviluppo – ovvero
di coloro che ricevono effettivamente tali fondi.
Negli
ultimi 25 anni, questo squilibrio di potere è diventato incoerente con il
crescente peso economico e politico dei paesi emergenti e con la conoscenza
contestuale che i paesi in via di sviluppo hanno per affrontare le proprie
specifiche problematiche e i propri obiettivi di sviluppo.
Così,
incapaci di ottenere un posto nei fora multilaterali stabiliti – e perseguendo
modelli economici ritenuti diversi da quelli del Nord – i paesi in via di
sviluppo stanno creando le proprie istituzioni affinché funzionino in parallelo
con i tradizionali guardiani della cooperazione internazionale.
Le
questioni di legittimità si applicano non solo all’equilibrio tra paesi del
Nord e del Sud, ma anche ad altri attori come regioni, città, sindacati,
imprese, ONG, istituzioni filantropiche e simili.
Sfide
come la crisi climatica non possono essere lasciate all’esclusiva soluzione del
mercato.
La
gente spesso protesta per il ruolo delle imprese multinazionali, come
dimostrano in modo eloquente le recenti iniziative sulle tasse.
Se gli
organismi multilaterali possono aprire le conversazioni globali a una gamma più
ampia di parti interessate, i cittadini comuni, che vogliono migliorare il
luogo in cui vivono attraverso un’azione collettiva, potrebbero sentire di
avere una voce sulla scena mondiale e un interesse nella cooperazione
internazionale.
La
ripresa economica post-COVID-19 potrebbe essere un’opportunità per riconoscere
e discutere i diversi approcci, e affrontare così le pressioni delle piazze
conto l’acquiescenza dei governi del Sud al modus operandi della cooperazione e
delle organizzazioni multilaterali tradizionali.
La
domanda da porsi oggi è se un “tavolo” globalmente rappresentativo per
affrontare i beni pubblici globali e promuovere la cooperazione tra pari è oggi
possibile?
Abbiamo
bisogno di voci diverse al “tavolo”, non solo in termini di paesi finora
esclusi dai fora globali, ma anche di un insieme più ampio di stakeholder.
Un approccio collaborativo alle sfide
condivise tra sfera locale, nazionale e multilaterale può alimentare e
potenziare uno sperimentalismo a livello internazionale su temi e regioni specifiche,
analogo a quello a livello nazionale discusso in precedenza.
Il
recente accordo tra 136 paesi per un’aliquota minima globale dell’imposta sulle
società è un esempio di ciò che potrebbe accadere.
Tuttavia,
questo può prendere piede solo se la logica politica del sistema internazionale
non è ostaggio di un’adesione esclusiva e discriminatoria a campi opposti,
anche nelle regioni in via di sviluppo.
Conclusioni.
L’aumento
dello scontento si è manifestato in tutto il mondo tramite episodi in cui le
aspettative e le vulnerabilità delle persone si sono tramutate in frustrazione.
Un uso
migliore dei dati approfondirebbe ancora di più la nostra percezione del
fenomeno.
Affrontare
lo scontento richiede di permettere il cambiamento e di coinvolgere le persone,
non solo per ascoltare i loro lamenti e mediare le loro controversie, ma anche
per recepire le loro idee, al fine di creare un mondo migliore di quello
attuale.
Così,
i responsabili politici devono affrontare insieme diversi elementi estremamente
complessi:
dalla
(ri)costruzione delle istituzioni, al promuovere la rappresentanza e sviluppare
la lealtà verso e dai propri cittadini, all’affrontare le richieste urgenti
della gente nelle piazze riguardo al lavoro.
Noi
sosteniamo che gli stati dovrebbero adottare una sorta di pianificazione
negoziata per coinvolgere i cittadini, rafforzare la società civile ed i corpi
intermedi, e promuovere la sperimentazione in modo da progettare insieme una
visione nazionale, costruendo strategie adattive.
Tale
visione dovrebbe affrontare la qualità della crescita e dare priorità ai
percorsi di sviluppo che combinano l’efficienza economica con la resilienza,
l’inclusività con la partecipazione.
Sosteniamo
anche che lo scontento non può essere affrontato senza la cooperazione
internazionale.
Per
svolgere appieno il suo ruolo, è necessario rivedere gli obiettivi del sistema
multilaterale, così come le strutture e le procedure dei suoi sistemi di
governance, e rendere gli attori che siedono intorno ai “tavoli” dove si
discute di cooperazione internazionale in linea con le realtà del mondo
contemporaneo.
Commenti
Posta un commento