CHI PARLA CONTRO IL SISTEMA NON È TOLLERATO

 

CHI PARLA CONTRO IL SISTEMA NON È TOLLERATO.

 

Cassandra è ancora muta,

o sulla solitudine della verità.

 Edizionigruppoabele.it - Tomaso Montanari – (29/09/2022) – ci dice:

 

Tomaso Montanari torna a riflettere sul ruolo degli e delle intellettuali nella società: è giusto che si schierino?

 E se sì, da che parte?

Lo fa in “Cassandra è ancora muta”, nuova edizione di “Cassandra muta”. “Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”, pubblicato nel 2017.

Una versione riveduta che, a conclusione del testo originale, aggiorna e attualizza il volume alla luce di diversi fatti che dal 2017 a oggi hanno completamente ribaltato il mondo e il nostro Paese.

Pubblichiamo di seguito la premessa alla nuova edizione e l’introduzione originale del 2017.

Cassandra è ancora muta.

Premessa alla nuova edizione.

 In questi cinque anni, mi è capitato spesso che, alla fine di presentazioni di miei libri usciti successivamente, mi venissero incontro lettrici e lettori con in mano una copia di “Cassandra muta”.

 Il punto, mi dicevano quasi con le stesse parole, è sempre questo:

chi parla contro il sistema non è tollerato.

Il pensiero critico è il nemico.

 Basterebbero a dimostrarlo l’oscena persecuzione americana contro “Julian Assange” o la compiacenza occidentale verso il regime arabo che ha fatto letteralmente a pezzi un giornalista dissenziente.

Il pensiero critico è il nemico.

Proprio così: il pensiero critico è il nemico.

È difficile negare che sia vero.

 E gli eventi, globali e italiani, di questi ultimi anni, non hanno fatto che confermarlo.

La pandemia ha generato una diffusa insopportazione per chiunque provasse a suggerire che l’emergenza poteva essere governata diversamente.

E ora, con la guerra in Ucraina, si è manifestato un Occidente pronto a sfidare il resto del mondo su basi “etiche”: o con noi, o contro di noi.

È l’annuncio di una stagione infernale, e le liste di proscrizione degli intellettuali e giornalisti sospetti di intelligenza col nemico sembrano solo l’inizio di una nuova, grande ondata di intolleranza verso ogni dissenso.

In Italia, poi, l’avvento di un governo oligarchico- paternalista calato dall’alto (sul quale ho scritto “Eclissi di Costituzione”.

“Il governo Draghi e la democrazia”, Chiarelettere, 2022) e l’avvicinarsi al potere di una destra ancora fascista fanno di chi pensa “diversamente”, e non si rassegna al silenzio, un nemico naturale.

Se Cassandra è muta, la democrazia soffre.

In questi anni, ho pagato un prezzo per l’espressione del mio dissenso.

 Per aver contestato la canonizzazione civile di Franco Zeffirelli o l’istituzione del “Giorno del Ricordo”, per aver espresso il mio dissenso verso l’operazione Draghi guidata dal presidente Mattarella o anche solo perché un mio testo è uscito tra quelli da commentare alla maturità, mi sono trovato al centro di campagne violente guidate dai capi stessi di alcuni dei principali partiti italiani.

 E ho perso il conto delle querele, penali e civili, con le quali si è provato a farmi tacere.

Il risultato è che sono sempre più convinto della necessità di non tacere: se Cassandra resta muta, per la democrazia non c’è speranza.

Da qui la decisione di ripubblicare questo libro così com’era, pur sapendo che alcuni passaggi potranno apparire legati al contesto in cui esso fu scritto.

Ho dunque aggiunto una postfazione, per mostrare come anche negli eventi degli ultimi anni, e in quelli ancora in corso, il pensiero dissenziente sia ancora e sempre il nemico principale del potere.

Il messaggio di fondo del libro resta terribilmente attuale: oggi abbiamo ancora più bisogno di un’altra politica.

 Mostrare ostinatamente che il re è nudo, e che un’alternativa è dunque necessaria, è la premessa indispensabile perché quella politica nuova, prima o poi, si manifesti.

(Tomaso Montanari, Firenze-Siena-Porto Ercole, luglio 2022).

 

Introduzione di Cassandra muta, 2017.

 Be’, sai, Cassandra ha una certa fama.

Non è poi così male soccombere combattendo come l’ultima persona che dice una verità spiacevole.

Ricordiamo Cassandra, ma nessuno ricorda quale fosse la sua verità spiacevole. D’accordo.

La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo.

 E il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità, e poi spiegare perché è proprio la verità.

(Tony Judt, intervistato da Th. Snyder, Novecento, 2012)

 

 Muta, sul carro del vincitore che l’ha fatta schiava. È così che Cassandra entra in scena nell’Agamennone di Eschilo.

Nel ciclo dei poemi omerici, la principessa troiana, invece, parla.

Ella ha, infatti, un terribile dono, che cerca di condividere con la comunità: vede in anticipo i disastri futuri, ma non viene ascoltata.

È Cassandra che prova inutilmente a convincere i suoi concittadini a non portare dentro le mura di Troia il cavallo di legno lasciato dai greci sulla spiaggia.

In un affresco realizzato intorno al 60 dopo Cristo nella Casa del Menandro, a Pompei, vediamo Cassandra che cerca di frapporsi fisicamente all’entrata del Cavallo in città:

sul piano formale questa immagine può ricordare la celebre fotografia del cosiddetto «rivoltoso sconosciuto», scattata in piazza Tien An Men a Pechino il 5 giugno del 1989.

 Lì un singolo studente si erge contro una colonna di carri armati.

 Ma mentre questo solitario eroe interpreta i sentimenti dell’immensa comunità di manifestanti che lo circonda, nella pittura pompeiana Cassandra è contrapposta a una folla che la pensa all’opposto, e inneggia al Cavallo.

Una folla che, letteralmente, la toglie di mezzo, facendola spostare dalla traiettoria che quell’enorme dono dovrà percorrere per entrare in città.

Cassandra parla, e dice la verità: ma non viene creduta.

 Anzi, viene percepita come un intralcio.

Una sacerdotessa del no, del «non si può», del «non si deve».

Il dono maledetto di Cassandra.

Invece, quando il potere si impadronisce di lei, Cassandra tace.

 È per questo che ho scelto di intitolare al silenzio di Cassandra sul carro del vincitore questo libro dedicato al silenzio del pensiero critico nell’Italia di oggi.

Naturalmente gli intellettuali moderni non sono profeti, o veggenti.

Ed è semmai la figura di Socrate – con la sua suprema, drammatica capacità di fare esplodere la contraddizione, paradossale quanto insanabile, tra la parresia (il dire la verità) e la democrazia – il paradigma più carico di futuro che ereditiamo dalla cultura classica, in fatto di intellettuali.

Ma, su un piano profondo e suggestivo, la storia di Cassandra com’è raccontata da Eschilo aiuta a cogliere alcune caratteristiche della condizione dell’intellettuale.

Cassandra, bellissima, è desiderata da Apollo, che la investe con la sua irruenza di divino lottatore.

 La assedia, la forza ad accettarlo.

Cassandra inizia a concedersi, e Apollo in cambio le fa subito dono della profezia. Ma a quel punto Cassandra cambia idea: non si concede del tutto, resta vergine e si nega al dio.

Il quale, colmo d’ira e di sdegno, la maledice (sputandole in bocca, secondo una significativa variante tramandata da Servio nel suo commento all’Eneide): potrà continuare a vedere il futuro, ma nessuno le crederà.

 Cassandra non è esattamente una sacerdotessa, non essendo del tutto consacrata al dio.

 Ma non è nemmeno del tutto parte della comunità: il dono maledetto che ha ricevuto la rende scomoda, imbarazzante, errante col corpo e con la mente.

Non è del tutto con il dio, non è del tutto con gli uomini: è capace di vedere la verità, e anche di avere il coraggio di annunciarla.

Ma non ha il potere di essere creduta.

 

La scienza come sacerdozio.

In modo certo arbitrario, ho sempre letto questa vicenda come una impressionante rappresentazione della condizione dell’intellettuale moderno nella sua declinazione forse più interessante: quella dello studioso, dello scienziato, che è anche, appunto, intellettuale pubblico.

Apollo è la conoscenza, la scienza che ti prende come una vocazione:

che ti strappa al mondo, e ti vorrebbe possedere, per così dire, in esclusiva.

La scienza come sacerdozio, come monachesimo: che ti innalza, e ti separa dalla vita della comunità.

Ebbene, Cassandra è chi accetta la vocazione, e dedica la propria vita allo studio: ma non accetta il sacerdozio, fermandosi un attimo prima.

 Chi prende il sapere, ma non accetta di darsi fino in fondo: chierici, ma non monaci.

Chi vuole rimanere nel mondo, e condividere quella conoscenza con tutti.

La maledizione, lo sputo di Apollo nella bocca, è la condanna a non appartenere fino in fondo né alla scienza, né al mondo: è la condanna a non essere “di nessuno”.

Questo è vero per quanto riguarda il campo d’azione dell’intellettuale.

La scienza, mai come oggi, richiede una estrema specializzazione.

Che rischia di sterilizzare il senso critico e paradossalmente anche l’attitudine alla ricerca, serrando chi la pratica in un settore sempre più ristretto:

più ci si avvicina ai massimi livelli del sistema educativo, più oggi si è costretti entro un campo del sapere relativamente angusto.

Non è evidentemente interesse di nessuno screditare la competenza di per sé, purché non si consideri tale quella acquisita escludendo dal proprio orizzonte qualsiasi cosa non rientri in senso stretto nel proprio ambito specifico – poniamo: gli esordi della poesia d’amore vittoriana – o sacrificando la cultura generale a un ben preciso assieme di fonti convenute e idee canoniche.

 Il prezzo, in tal caso, è francamente troppo alto.

(E.W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (1994), Feltrinelli, Milano, 1995, p. 85)

La solitudine della verità.

Ma è anche vero su un piano esistenziale, e sociale: alludo alla solitudine di chi dice la verità.

All’impossibilità di “appartenere” fino in fondo a un gruppo o a una comunità. Perché la critica, inesorabilmente, separa:

«Chi dice il vero non potrà avere riparo né focolare e neppure patria: è l’uomo dell’erranza, è l’uomo della fuga in avanti dell’umanità»

(M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri)

Dire la verità lega alla politica, intesa come arte del costruire la polis, la comunità: ma, al tempo stesso, non si può fare politica attiva dicendo la verità.

«Che cos’è la verità?», chiede Pilato a Gesù – la battuta più sottile di tutti i tempi, secondo Nietzsche.

Commentando questo passo cruciale per la storia della cultura occidentale, Giorgio Agamben ha citato la risposta che Gesù dà a Pilato non nei vangeli canonici, ma nell’apocrifo Vangelo di Nicodemo (colui che seguiva Gesù in segreto, non avendo il coraggio della verità):

 «Tu vedi come coloro che dicono la verità sono giudicati dai poteri terreni».

E anche oggi vediamo come il potere – ogni potere, di ogni colore e di ogni grandezza – giudica e tratta chi dice la verità.

Sono consapevole che «il dibattito tra intellettuali sugli intellettuali, cioè su sé medesimi, non ha tregua»

(N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea).

E che, di conseguenza, «gli scritti sugli intellettuali, sulla loro funzione, sulla loro nascita e sul loro destino, sulla loro vita morte e miracoli sono tanti che solo la memoria di un computer potentissimo potrebbe registrarli tutti».

E, ancora, che, almeno dal libro di Julien Benda del 1926 sul “tradimento dei chierici”, «gran parte della controversia sull’etica degli intellettuali si muove tra questi due termini: tradimento e diserzione».

Ma è inevitabile che sia così:

il continuo rinnovamento del pubblico e collettivo esame di coscienza celebrato dagli intellettuali si deve al fatto che le domande centrali che dobbiamo porci «sono domande cui nessuno può dare una risposta definitiva»: «la risposta dipende sempre dalle circostanze e dalla interpretazione che ognuno dà delle medesime circostanze».

Ecco la prima di queste eterne domande: è giusto schierarsi?

E la seconda: se sì, da che parte?

Nelle pagine che seguono vorrei provare a porre di nuovo questa domanda, nei termini imposti dall’Italia di oggi, in quelli comprensibili alla nostra generazione: esaminando la condizione, le occasioni, le prospettive delle Cassandre nell’Italia di oggi.

Il filo conduttore è una domanda: qual è il ruolo, quale lo spazio, del pensiero critico nel suo rapporto con il potere, con la comunità della conoscenza, con la comunicazione, con la scuola, con quella che chiamiamo “cultura”?

Le risposte che proverò a dare sono orientate sulla bussola di un’affermazione di Norberto Bobbio:

 «il primo compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità».

E, dunque, la questione centrale è questa: quale può essere il ruolo della critica in un’Italia senza politica, ma dominata dal marketing, dallo storytelling, e dalle strategie di comunicazione – cioè dai tanti, complicati e ipocriti, sinonimi della parola “menzogna”?

 

 

 

 

La corruzione in Italia, ecco

perché il sistema non è riformabile.

Ilmanifesto.it - Alberto Burgio – (15 giugno 2014) – ci dice:

 

DALL'EXPO AL MOSE.

 Sul «popolo» che rifugge come la peste il politico utopista, ma è sempre pronto a giustificare o a comprendere.

La corruzione in Italia, ecco perché il sistema non è riformabile

Nuovo!

Imperversano le notizie-shock sul dilagare della corruzione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccellente lo tsunami travolgerà.

La realtà superando la fantasia, si attendono sorprese.

 È un déjà vu, il gioco di società che disegna il ritratto più fedele della società italiana ai tempi della nuova modernizzazione.

Se al Viminale è stato il capo di un’associazione a delinquere e ai vertici della Guardia di finanza i garanti di un gigantesco sistema di tangenti, non potrebbe darsi che tra i registi di una mega-frode fiscale spuntino un ministro delle Finanze, un giudice della Corte dei conti, un alto dirigente della Ragioneria dello Stato?

Non accadde già ai tempi del generale Giudice o con lo scandalo delle banane del ministro Trabucchi?

 Si assiste perplessi alla marea provando repulsione, incredulità, indignazione. Dopodiché capita di chiedersi perché.

Perché, tra i paesi europei «avanzati», la corruzione abbia eletto domicilio proprio in Italia.

E perché con queste dimensioni, questa potenza, questa incoercibile forza di radicamento.

 La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del miracoloso bonus Irpef.

 E questo ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spazzato via, col personale politico della «prima Repubblica», un’intera genìa di malfattori.

 La quale invece non ha soltanto continuato imperterrita, ma ha evidentemente figliato, si è moltiplicata e ha pure raffinato le proprie competenze criminose. Insomma perché in Italia la corruzione è sistema?

Al punto che il sistema seleziona i corrotti e discrimina gli onesti, mettendoli in condizione di non nuocere con la propria improvvida, anacronistica, anti sistemica onestà?

C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una scoperta dell’ultim’ora.

 La corruzione è un reato contro la collettività, una ferita ai suoi beni materiali e immateriali.

 Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo immemore – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pulviscolare, di privati e di particolari.

Nella quale la passione civile non ha messo radici, fatta eccezione per qualche sparuta cerchia intellettuale.

Si capisce che qui la corruzione sia tollerata e persino ben vista, anche da chi ha soltanto da perdere non potendo praticarla in prima persona né trarne benefici.

 Se per un verso (in pubblico) si storce il naso, per l’altro (in privato) si è pronti ad ammirare e magari, potendo, a emulare chi la fa franca e su questa ambigua virtù costruisce fortune.

Si faccia quindi attenzione alla dialettica del controllo, che quanto più è severo, tanto più gratifica chi riesca a violarlo.

 Controllare è indispensabile, ma non ci si illuda: non ci sarà controllo che tenga finché somma virtù sarà la valentia del filibustiere.

 Ma proprio in una società siffatta la politica è il cuore del problema.

 Non perché sia necessariamente l’epicentro della corruzione, come si ama ripetere nei salotti buoni e nelle redazioni.

 Anche se non va di moda dirlo, la corruzione sgorga spesso dalla beneamata società civile: pervade i mondi dell’impresa, del credito e dell’informazione, il privato non meno che il pubblico.

Il cuore del problema è la politica perché, tale essendo il costume, dalla politica soltanto – in primis dal legislatore – può muovere il riscatto.

E perché quindi, dove invece la politica non si distingue dal costume e quindi lo asseconda, ne deriva inevitabile un disastro.

Il rovesciamento dei valori ne trae vigore e i comportamenti anti-sociali, già legittimati dal sentire comune, ne risultano legalizzati, di nome o di fatto.

 Anche da questo punto di vista la storia italiana offre un quadro desolante.

Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della malavita, alla corruzione dilagante nel regime fascista, la cui denuncia costò la vita a Matteotti.

 E si pensi, nella storia della Repubblica, alla folta teoria degli scandali democristiani e socialisti, con al centro il sistema delle partecipazioni statali, le casse di risparmio, la manna dei lavori pubblici.

Ciò nonostante, questa storia non è la notte delle vacche nere.

In un paesaggio pressoché uniforme c’è stata una felice anomalia.

E un pur breve tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – in cui le cose parvero andare altrimenti.

Si può leggere la storia del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una preziosa dissonanza: del vettore di un’etica civile laica e di una cultura politica nuove, per molti versi estranee alle tradizioni di questo paese.

Per non dire al suo carattere nazionale.

Gramsci lo dice a chiare lettere: il moderno principe è il catalizzatore di una «riforma intellettuale e morale» per l’avvento di una democrazia integrale.

 E davvero, fino agli anni Settanta, i comunisti italiani perlopiù lo furono, concependo e praticando la politica come impegno volto a far prevalere un’idea.

Come una professione in senso weberiano – un «saper fare» fatto di competenza, disinteresse e senso di responsabilità – consacrata alla trasformazione della società.

Poi, nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate.

In questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del Pci scomparso trent’anni or sono.

La figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di noi tutti.

 Ma non si dice abbastanza forte che durante una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto.

Si burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel senso meno nobile del termine.

Rimango dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì. Quando – avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo americano e, appunto, il dilagare della corruzione – scoprì che la battaglia era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui il buon esito era acquisito.

Sta di fatto che, morto Berlinguer, il Pci si normalizza e, ancor prima di chiudere i battenti, cessa di essere una contraddizione.

Per questo non regge all’implosione della «prima Repubblica» né, tanto meno, si mostra capace di guidare una rinascita.

Anzi viene travolto, senza un’apparente ragione.

Lasciando che Berlusconi, campione di moralità, si faccia, dopo Tangentopoli, interprete della nuova modernità italiota.

Siamo così ai nostri giorni.

Chi fa politica oggi in Italia? E perché e come? Nella migliore delle ipotesi – scontate le debite, ininfluenti eccezioni – il politico è un tecnico senza visione.

Più spesso, un addetto ai lavori che conosce soprattutto e ha a cuore la rete di relazioni che gli ha permesso di acquisire posizioni e influenza.

Un esperto nella pratica del potere che vive tuttavia senza patemi il deperire del ruolo a funzioni esecutive o esornative.

Sindaci, presidenti di regione, assessori si barcamenano nei vincoli posti dall’esecutivo, le cui decisioni i parlamentari ratificano.

Capi di governo e ministri si attengono alle direttive europee e dei mercati.

Sullo sfondo, un sistema di partiti che vivono per riprodursi senza nemmeno più ventilare l’ipotesi di sottoporre a critica questo stato di cose e di modificarlo.

Questo significa essere corrotti? In larga misura sì.

E ad ogni modo si capisce che la corruzione si sviluppa molto più facilmente quando la finalità del fare politica è fare politica: restare nel giro, partecipare ai riti del potere, ritirare i dividendi dello status, utilizzare le istituzioni per intrattenere rapporti utili con la società civile.

La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di trovare interlocutori istituzionali comprensivi e disponibili a esaudire i suoi non sempre irreprensibili desiderata.

 Se è così, non c’è da stupirsi che dopo Tangentopoli le cose non siano cambiate affatto, se non in peggio.

Né vi è ragione di confidare – retoriche a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spallata rigeneratrice.

Non che le masse si identifichino entusiaste con il governo in carica, come pretende la fanfara di giornali e tv. Il 25 maggio e ancora il 9 giugno hanno vinto sopra tutti la disaffezione, l’astensionismo, il vaffa strisciante.

Ma contraddizioni serie attraversano il “popolo”.

Il risentimento qualunquistico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione.

Il “popolo” per un verso stigmatizza questi comportamenti e invoca la gogna per i corrotti.

Per l’altro, è incline a comprendere e a giustificare.

A concedere attenuanti alla propria parte (sempre meno corrotta delle altre) e a tacitamente invidiare il corrotto baciato dal successo.

Anche per questo il “popolo” rifugge come la peste il politico utopista e visionario, l’ideologo idealista, il cattivo maestro di un tempo che fu.

Dio ci scampi.

Meglio, molto meglio gli uomini del fare, proprio perché senza idee e un poco mascalzoni.

(Edizione del 15 giugno 2014).

 

 

 

La disfatta dell’informazione

sulla guerra in Ucraina.

 Treccani.it – Giacomo Natali – (24 marzo 2022) – ci dice:

 

 

Con pochissime informazioni raccolte sul campo da fonti indipendenti e un flusso continuo di contenuti sui social network, che anticipano i professionisti e dominano il discorso pubblico, i media internazionali e quelli italiani non stanno contribuendo a rendere più chiaro quanto accada nel conflitto in Ucraina, ma agiscono sostanzialmente da megafono per le rispettive propagande.

 Ma se l’informazione latita, la comunicazione è più importante che mai per l’esito del conflitto.

E ancora di più potrebbe esserlo per determinare cosa accadrà dopo che sarà finito.

Comunicazione, dichiarazioni e propaganda hanno scandito tutta la crisi ucraina fin da prima dell’invasione russa.

 Nelle settimane precedenti all’invasione, Ucraina, Stati Uniti e Russia sono stati prima di tutto protagonisti di una guerra dell’informazione, che era volta da un lato a cercare di evitare il conflitto (con strategie diverse tra USA e Kiev), dall’altra a prepararne le basi e il sostegno interno tra la popolazione russa.

L’avvio stesso dell’attacco è stato sancito da un discorso televisivo di Vladimir Putin, che circondato da una scenografia maestosa, ne ha fornito le proprie motivazioni e obiettivi formali.

In un mondo in cui non si fanno più dichiarazioni di guerra, questa ne era quanto di più simile si vedesse da molto tempo e ne ha senz’altro svolto la funzione sia sul piano simbolico che operativo.

Anche se tecnicamente non lo era, dato che il Cremlino nega che si tratti di invasione e ha imposto internamente che venga chiamata “operazione militare speciale”.

Ora, a guerra in corso, l’information warfare è ancora decisiva.

Lo è stata fin dai primi giorni per animare la reazione ucraina, così come per orientare l’interpretazione prevalente del conflitto da parte dell’opinione pubblica internazionale e di conseguenza anche le decisioni degli alleati euroatlantici (anche per questo assai probabilmente molto più dure di quanto il presidente russo si aspettasse).

Molte di queste interpretazioni nascono però in una situazione di grande carenza di informazioni affidabili e verificate.

Il primo problema è la scarsità di fonti neutrali.

 Nei primi giorni era sembrato lo scenario potesse essere diverso:

probabilmente grazie alla vicinanza geografica e alla maggiore familiarità culturale rispetto ad altri teatri di guerra degli ultimi decenni, sembravano non mancare le testimonianze dirette di molti giornalisti internazionali presenti nel territorio ucraino allo scoppiare delle ostilità.

Sembrava quasi di essere tornati al 1991, quando Peter Arnett e gli altri inviati della CNN di fatto inventarono la copertura televisiva della guerra, mostrando in diretta i bombardamenti e il cielo illuminato dai colpi della contraerea di Baghdad.

Presto però la maggior parte (ci sono eccezioni) è stata costretta ad abbandonare le proprie posizioni o limitarsi a collegamenti dai rifugi, dai quali riportano prevalentemente informazioni di seconda mano, spesso già disponibili altrove e non sempre affidabili.

È importante sottolineare come questo ripiegamento non sia una novità, ma venga da lontano.

Sempre in Iraq, già l’invasione del 2003 fu coperta giornalisticamente in modo completamente diverso rispetto all’intervento di dodici anni prima.

 I protagonisti dell’informazione in quell’occasione diventano i giornalisti embedded, che accompagnavano le truppe americane e di conseguenza il più delle volte riuscivano a mostrare soltanto ciò che gli veniva concesso.

In Ucraina la situazione è in un certo senso ancora più opaca e sta suscitando infinite discussioni e dubbi tra i professionisti dell’informazione su come riuscire a fornire un’adeguata copertura, districandosi tra fonti inevitabilmente impegnate a fornire una propria narrazione. Complessità che si fa esasperata e controversa quando succede di dover raccontare cosa sia accaduto in occasione di attacchi particolarmente significativi, come quelli all’ospedale pediatrico e al teatro di Mariupol′.

Poiché il conflitto si svolge sul territorio ucraino, le principali fonti su quanto stia accadendo sono essenzialmente ucraine.

Da queste non si può comprensibilmente pretendere neutralità.

La funzione della loro comunicazione è quella di raccogliere il massimo sostegno internazionale, coalizzare alleati, ottenere finanziamenti e armi, fino idealmente all’intervento di altri Paesi.

L’informazione in quanto tale è evidentemente secondaria rispetto alla funzione comunicativa.

 D’altra parte è sempre stato così, per ogni Paese invaso.

Picasso dipinse Guernica mentre si trovava a Parigi: non aveva assistito al massacro e certo non si preoccupava in quel momento dell’accuratezza dei fatti che stava rappresentando, su incarico del governo repubblicano spagnolo, ma dell’impatto emotivo che avrebbero suscitato.

Con l’obiettivo di portare attenzione mondiale su quanto stava avvenendo e in ultima istanza aiuti internazionali al proprio Paese sotto attacco.

Sul fronte opposto, i russi non stanno quasi raccontando le proprie operazioni, a partire dalla segretezza con cui è coperto il numero di caduti, coerentemente con la necessità di doverne minimizzarne l’ampiezza davanti al proprio pubblico interno, al quale appunto non è neppure stato raccontato che sia in corso una guerra.

Tra i pochi giornalisti embedded al fianco delle truppe russe, c’è la significativa novità di un inviato cinese, ma è evidente che in virtù della nuova legislazione russa che vieta la diffusione di notizie non allineate con il Cremlino, nessuno di questi sia nella posizione di fornire contributi reali dal punto di vista informativo.

Sul campo restano assai poche fonti professionali indipendenti o presunte tali.

In questo ambito, un settore che ha subito una notevole accelerazione nelle scorse settimane è la cosiddetta OSINT, acronimo per “Open Source Intelligence”, ovvero Intelligence su fonti aperte.

Siti di giornalismo investigativo come “Bellingham, per esempio, condividono le analisi compiute su immagini satellitari, come quelle messe a disposizione dalla società privata “Mixar”, interpretando la presenza di mezzi, truppe e dei danni conseguenti a un attacco.

Poi ci sono alcuni giornalisti freelance, dai più esperti a quelli più improvvisati.

 I media italiani in particolare ne fanno largo uso, tanto da avere aperto una discussione tra i sindacati della stampa in merito alla loro tutela e sicurezza.

Ma anche domande sul perché non si mandino sul campo i professionisti che invece sarebbero già nelle redazioni delle rispettive testate.

I grandi network internazionali, per esempio, dopo avere sospeso inizialmente le proprie trasmissioni dalla Russia in seguito alle nuove norme, che di fatto costringono ad autocensurarsi per evitare il carcere, hanno in parte ricominciato a mandare in onda i contributi dei propri corrispondenti.

Durante il grande comizio di Putin allo stadio di Mosca del 18 marzo, l’inviato della BBC era in prima persona tra i manifestanti ed è stato così in grado di raccogliere sia le testimonianze di chi sinceramente sosteneva il proprio presidente, sia quelle di chi invece ha confessato (ma rifiutandosi di essere ripreso) di non sostenere la guerra e di essere stato costretto a partecipare dai propri superiori. Un’informazione che altrimenti sarebbe stata impossibile conoscere, oppure sarebbe stata immersa nel dubbio del “si dice”.

L’altra grande differenza tra media italiani e internazionali è proprio il modo in cui vengono (o non vengono) evidenziati i dubbi sulle informazioni fornite da fonti non verificate.

Mentre le testate estere più autorevoli premettono sempre formule come “allegedly” e “according to”, in Italia sono assai pochi che resistono al trasformare immediatamente il tweet di qualche generale in un titolo dato come certezza, salvo ritrattare nelle edizioni successive.

Non è una situazione inedita.

La frase di Hiram Johnson, che tanti stanno ripetendo in queste settimane, sul fatto che la prima vittima della guerra sia la verità, risale d’altra parte al 1917.

 E altri esempi analoghi ci porterebbero senz’altro ancora più indietro nel tempo. La specifica differenza del caso ucraino è data però dalla presenza mai così pervasiva dei social network.

Sono questi che costringono anche i media più autorevoli a inseguire.

E visto che non possono arrivare prima e che solo raramente riescono ad andare più in profondità, questi finiscono da un lato per abdicare al ruolo di filtro, pubblicando immediatamente notizie ancora da verificare;

dall’altro per riempire con commenti e spettacolarizzazione.

In questo i vari talk show offrono lo spettacolo più avvilente e rischioso, poiché ricercando lo scontro tra gli invitati, finiscono per alimentare ulteriormente una polarizzazione già esasperata proprio sui social.

Al netto della genuina diversità di opinioni tra gli utenti on-line, è indubbio che un ruolo decisivo nell’infiammare le discussioni e contaminarle con informazioni false sia svolto in modo massiccio dalle “fake farm” russe.

Il sistema di disinformazione russo è già rodato da molto tempo (pochi giorni fa un articolo su “Il Tascabile” ne ripercorreva la storia) e in particolare a partire dal 2014 orienta in modo efficace anche parte delle opinioni pubbliche europee e americane in modo favorevole alle politiche di Putin.

I prodotti delle fabbriche di fake russe sono spesso poco raffinati, come nel caso dei facilmente identificabili “deep fake” che mostrano falsi discorsi video del presidente ucraino.

Ma le migliaia di operatori ben pagati dal Cremlino sono in grado di rappresentare una massa critica capace di spostare la bilancia delle discussioni on-line in molte lingue differenti, insistendo abilmente nei propri” stalking point” allineati alla narrazione di Putin (le responsabilità della NATO, le vittime nel Donbass, la presenza di estremisti di destra in Ucraina) con i quali intercettano le decisive condivisioni utili da parte di fonti organiche (ovvero autentiche, non a pagamento).

Questi utenti on-line sono spesso in buona fede, ma sono proprio loro a riciclare e ripulire la propaganda, rendendola digestibile dai rispettivi pubblici nazionali.

Gli USA convivono coscientemente da anni con queste ingerenze, almeno fin dalle elezioni che portarono Trump alla Casa Bianca, ma ora questa situazione è palese anche in Italia.

 Non che fossero mancate attività tangenti al mondo sovranista e cospirazionista anche in passato, ma mai quanto ora.

E l’inesperienza è un pericolo per chi naviga on-line.

Ho personalmente visto professionisti dell’informazione, esperti e preparati, che sono cascati nella condivisione di fake clamorosi (come la finta foto di Zelenskij che regge una maglia della nazionale ucraina con la svastica).

 Immaginiamoci allora gli effetti di queste campagne sui “civili”, ovvero i non addetti ai lavori del mondo dell’informazione.

Se ci sono senz’altro ragioni più complesse nel sostegno alle azioni di Putin da parte di alcuni, vuoi per appartenenza politica o sfiducia nei confronti della narrazione prevalente, collegata anche a chi si è radicalizzato in opposizione alla gestione della pandemia, non va quindi sottostimato il semplice e diffuso semianalfabetismo comunicativo e digitale, particolarmente presente in Italia.

Non inteso come insulto, ma come presa di coscienza del fatto che molte competenze passate non siano sufficienti a orientarsi in uno scenario informativo completamente cambiato.

Con l’aggravante che chi ne è vittima finisce per trasformarsi a sua volta in carnefice, con un solo clic condiviso all’interno della propria bolla.

Nel frattempo in Russia i social occidentali come Facebook, Instagram e TikTok sono ormai bloccati o ad accesso limitato.

La maggioranza dei russi comunque non li usa.

Assai più popolari sono infatti VKontakte e Telegram.

 In particolare il secondo può fornire anche all’esterno del Paese una finestra sulle opinioni dei russi, anche se in entrambi la propaganda la fa crescentemente da padrona.

Pur senza poter contare sulla poderosa macchina di disinformazione russa, anche l’Ucraina da anni affila le proprie armi sul campo del “soft power”.

 Da tempo, per esempio, ne studiavo l’abilità nel trasformare la propria presenza all’Eurovisione nell’occasione per il proprio riposizionamento europeista.

Una mossa che ha senz’altro contribuito a un gradimento e senso di amicizia continentale che ora tornano più che mai utili.

Sui social, fin da prima della guerra, l’Ucraina e i propri sostenitori si erano distinti nella produzione di meme ironici, che ridicolizzavano le rivendicazioni russe.

L’invasione ha interrotto questo approccio, sostituito da dichiarazioni patriottiche di sostegno, dai colori giallo e blu che si sono imposti nella palette social e dalla presenza costante del presidente ucraino, attraverso video registrati in prima persona. Il suo esempio è stato presto seguito da molti suoi concittadini, attraverso i quali abbiamo visto fughe verso la Polonia, gli effetti di bombardamenti e così via.

 Le loro comunicazioni anticipano in tempo reale tutte quelle dei media, che, costretti a inseguire, finiscono in genere per rilanciarle come fossero lanci d’agenzia, salvo magari doverle smentire subito dopo.

 Spesso sulle piattaforme social sono state inoltre condivise, sia da cittadini che da fonti ufficiali ucraine, anche vittorie in operazioni militari appena terminate (con riprese di droni o dai telefoni dei soldati), che hanno senz’altro un effetto positivo sul morale degli ucraini invasi, ma sollevano anche dubbi sul fronte dei diritti.

Come nel caso delle interviste a militari russi prigionieri di guerra, vietate dalla Convenzione di Ginevra, ma che, nella fretta della copertura 24 ore su 24, sono invece finite per essere addirittura condivise da importanti testate italiane.

E se le parti in causa talvolta abusano dei social, opaca è comunque anche la gestione da parte delle piattaforme stesse.

Un esempio è la decisione da parte di Twitter e di Meta (il gruppo cui fanno capo Facebook, Instagram e WhatsApp) di rimuovere in una dozzina di Paesi dell’Est Europa il divieto di postare minacce di morte, così da consentire gli attacchi degli utenti nei confronti dei russi.

Scelta poi ritrattata, ma che già aveva consegnato a Putin un pretesto ideale per bandire queste piattaforme dalla Russia.

Tra l’altro, è importante sottolineare come non si possano derubricare queste policy allo scivolone di un qualche manager informatico: a capo degli affari globali di Meta siede nientemeno che Nick Clegg, ex leader dei liberaldemocratici britannici e vice primo ministro sotto David Cameron.

Entrato in Facebook come vicepresidente per la comunicazione, è ora di fatto il ministro degli Esteri del gigante della Silicon Valley.

 Il che lascia capire come anche questi soggetti commerciali agiscano con una forte carica politica.

Sarebbe però troppo facile liquidare i social sottolineandone l’azione di peggioramento della qualità del confronto pubblico e il contributo nell’accrescere la polarizzazione.

La realtà è più complessa e in molti casi risultano essere canali informativi utili e che fanno la differenza.

L’esempio più evidente è la stessa Russia, dove la televisione costituisce ancora il principale mezzo di informazione per oltre il 60% della popolazione, con punte molto più alte tra i meno giovani.

Molte dunque sono le testimonianze che stanno emergendo della fortissima spaccatura tra queste fasce di cittadini, che formano la propria opinione interamente attraverso la televisione (che è di per sé un mezzo sul quale è più facile per i governi esercitare il controllo, che è infatti completo in Russia, ma sempre più fortemente centralizzato anche in Ucraina) e chi invece ha accesso a fonti alternative internazionali.

Questa divisione colpisce le famiglie russe sia sull’asse generazionale, per via dei molti giovani che sul web riescono a informarsi in modo più vario, aggirando la censura attraverso protocolli VPN (Virtual Private Network) sul web, sia nei confronti di molti appartenenti alla diaspora russa, per i quali è spesso quasi impossibile discutere con i propri parenti in Russia, convinti che l’esercito sia impegnato nella liberazione degli ucraini.

In Russia la maggior parte dei giornalisti indipendenti ha infatti smesso da tempo di pubblicare giornali cartacei e on-line o di trasmettere via radio o sui pochi canali televisivi non allineati.

Oppure sta scappando all’estero, dove però si troverà nelle note difficoltà di informare basandosi su informazioni di seconda mano raccolte dall’esilio.

 Nonché senza gli strumenti per rivolgersi a chi più importerebbe: chi è rimasto nel Paese e che dunque non accede più all’informazione proveniente dall’esterno.

 

Interessante per il panorama mediatico russo sarà capire gli effetti a medio e lungo termine della protesta della giovane dipendente della televisione russa che la scorsa settimana ha interrotto una popolare trasmissione con un cartello contro la guerra.

Significativamente non è subito sparita in Siberia come molti si aspettavano, ma è stata solo condannata a una piccola multa, tanto che c’è chi ha addirittura pensato che potesse essere trattata di una messinscena per gestire il dissenso e al tempo stesso smentire le accuse di dittatura nei confronti di Putin.

Più probabile che si sia trattato di una protesta autentica, che le autorità hanno inizialmente tollerato per evitare danni peggiori d’immagine che avrebbe potuto causare una repressione troppo brutale.

Ma il rischio che altri ne seguano l’esempio è forse troppo elevato perché venga tollerato ancora per molto.

E forse non è un caso che proprio dopo che il 21 marzo, per la prima volta, una mano anonima ha pubblicato su un canale social della Komsomolskaja Pravda il numero dei soldati russi morti fino a quel momento, poi rimosso dopo pochi minuti, sia arrivata la denuncia della contestatrice televisiva come presunta spia britannica.

Accusa che potrebbe portare a conseguenze ben più gravi rispetto alla multa iniziale e forse necessarie a Putin per mantenere il controllo della situazione.

A questo proposito, uno degli ultimi aspetti da analizzare è proprio la comunicazione dei due leader.

Che può apparire antitetica, ma perché in effetti a essere completamente diversi sono i rispettivi destinatari.

Putin parla quasi esclusivamente ai russi, anche quando sembra che parli al mondo.

Mentre Zelenskij parla in parte al proprio popolo, ma anche e talvolta soprattutto all’esterno.

 L’abilità comunicativa del leader ucraino è evidente.

Dopotutto è un attore, che ha dimostrato di essere consapevole delle proprie capacità, ed è circondato da un team di collaboratori esperti.

Pare che gli stessi autori che scrivevano le sue sceneggiature preparino ora i suoi discorsi, spesso fatti parlando informalmente e direttamente verso l’obiettivo del proprio telefono.

Sono molti a pensare che il suo rifiuto di scappare nei giorni immediatamente successivi all’invasione sia stato decisivo per la resistenza generale del Paese e anche quel frangente è stato gestito comunicativamente in modo eccelso, a partire dalla risposta «ho bisogno di armi, non di un passaggio», rivolta agli Stati Uniti che gli offrivano una via di fuga.

Altrettanto funzionali sono i suoi interventi in diretta con i Parlamenti europei e mondiali, che arringa con interventi su misura a seconda dei destinatari, nella consueta divisa informale di guerra scelta fin dalle primissime ore dell’attacco.

Sul fronte opposto, Putin potrà ai nostri occhi apparire meno abile.

Sembra quasi impossibile che qualcuno possa essere sedotto dalle scenografie fredde e sontuose scelte dal leader russo per i propri interventi pubblici.

Ma chi conosce la Russia ha motivo di credere che un’importante fetta del pubblico di Putin invece apprezzi anche questo aspetto formale, rituale e imperiale della sua leadership.

 Putin, inoltre, è particolarmente bravo nell’uso mirato di parole chiave.

A differenza di Zelenskij, che ha pochi tormentoni (come l’esclamazione Slava Ukraini, Gloria all’Ucraina) e preferisce adattare e moltiplicare i propri messaggi in base ai destinatari, Putin ripete sempre le stesse formule, partendo dalla “denazificazione”, fino ad arrivare ai ripetuti riferimenti ai “drogati di Kiev”, che potranno apparire a noi oscuri, ma il suo pubblico sa interpretare esattamente all’interno della narrazione putiniana.

E ciò accade non solo in Russia.

Un’indagine effettuata sui social e sul web mostra come la comunicazione russa abbia un’ottima penetrazione innanzitutto in Cina.

Ma altre ricerche segnalano buoni risultati anche in India, in Africa subsahariana e in America del Sud.

 È tuttavia vero che a livello internazionale la narrazione dominante sembra essere quella in favore di Kiev.

Un recente studio, per esempio, mostrerebbe come persino in Cina, dove il governo ha tenuto una posizione particolarmente vicina a Putin, i post sui social cinesi siano circa spaccati a metà: con un 50% che danno la colpa della guerra alla NATO e altrettanti a Putin.

Negli scorsi giorni, l’autore russo-ucraino-britannico Peter Pomerantsev riportava una barzelletta che circola tra i sostenitori di Putin in Russia:

due ufficiali russi sorseggiano champagne a Parigi, dopo avere conquistato tutta l’Europa e uno dei due dice «Hai saputo? Abbiamo perso la guerra dell’informazione».

 

Come abbiamo visto, ciò in realtà non è neanche del tutto vero; ma neppure è vero, come vorrebbe far pensare la barzelletta, che a contare siano soltanto le conquiste sul campo e non l’informazione.

O meglio, in questo caso, la comunicazione.

 Perché se la prima dovrebbe aspirare a fattualità e neutralità oggettiva (ed è quella che è tanto mancata fino ad ora), l’altra invece è uno strumento narrativo fondamentale per la nostra comprensione del mondo e in quanto tale sarà fondamentale sia per riuscire a porre fine alla guerra, sia nell’auspicato dopoguerra.

Sperando che le trattative portino a esiti positivi, infatti, la comunicazione svolgerà un ruolo fondamentale e decisivo nel far raggiungere e accettare un equilibrio tra rivendicazioni e concessioni, da una parte e dall’altra. La narrazione che ne sarà fatta determinerà a sua volta la soddisfazione dei rispettivi popoli e dei loro alleati e sostenitori.

O al suo opposto farà correre il rischio che il nuovo equilibrio porti in breve tempo a nuovi revanscismi, miti di vittorie mutilate e rancori che porterebbero inevitabilmente a nuovi conflitti.

 

 Qualora non sia possibile farlo già ora, ad armi ferme sarà altrettanto necessario fare un punto sulla salute della nostra informazione.

 Sia tra i professionisti, che tra chi la consuma, anche perché sempre di più questi finiscono per esserne coautori on-line.

Perché questa guerra, nella quale stiamo vedendo tante novità e prime volte purtroppo sul fronte diplomatico e degli armamenti, rischia di rappresentare un cambio di paradigma anche per l’informazione e la comunicazione.

 Che insieme si confermano fattori fondamentali anche per la sicurezza internazionale.

E proprio per questo è sempre più importante fornire a tutti gli strumenti per comprenderli, così da non esserne vittime passive, ma soggetti attivi e preparati.

 

 

 

L’asse intestino-cervello,

perché è importante?

Guna.com- Gershon M.D. – (20-6-2022) – ci dice:

 

1 A cosa serve l’intestino.

2 Alla scoperta del Microbiota.

3 In che modo l’intestino influenza il cervello e viceversa?

4 Come (e perché) trattare meglio intestino e cervello.

A cosa serve l’intestino.

“Prendi una decisione di pancia!” Quante volte ce lo siamo sentiti dire?

O magari siamo stati noi stessi a dirlo a qualcuno.

Se ci soffermiamo un secondo ad analizzare questa frase, scopriremo un aspetto interessante: prendere una decisione è un’attività che riguarda l’aspetto più mentale e razionale di una persona.

Riguarda, per farla semplice, il pensiero e quindi il cervello.

Se parliamo di pancia, al contrario, ci riferiamo ad un aspetto più istintuale, primario e innato.

Quindi questa frase ci invita a fare qualcosa di razionale facendoci guidare dall’istinto.

Un controsenso? In realtà no.

Anzi, è una visione che ha una motivazione molto concreta e basi scientifiche.

Cervello e intestino, infatti, sono strettamente correlati.

Di più: parlano lo stesso linguaggio.

Numerosi studi testimoniano come il sistema nervoso enterico (quello che governa l’attività intestinale) e il sistema nervoso centrale (legato invece all’attività cerebrale) usino gli stessi mediatori per originare delle reazioni e ottenere risposte agli stimoli.

Sistema nervoso.

Ma perché di tutti gli organi proprio l’intestino ha un ruolo di primaria importanza, tanto da poter parlare con l’organo depositario dell’intelletto?

È presto detto.

L’intestino è centrale per la nostra sopravvivenza:

attraverso di lui il nostro corpo assimila e assorbe le sostanze nutritive vitali per la nostra salute e l’equilibrio biochimico che ci garantisce il benessere.

L’epitelio intestinale, ovvero la superficie che ricopre le “pareti” intestinali, in stretta simbiosi con il Microbiota intestinale, è l’interfaccia più affidabile per preservare il nostro stato di salute:

esso infatti filtra le sostanze che per noi sono nutritive e utili e scherma quelle nocive.

 Svolge perciò una funzione molto importante.

Epitelio microbiota.

L’epitelio intestinale forma con il Microbiota la “barriera intestinale”, una vera e propria “barriera” dinamica essenziale, il cui stato di salute influenza il nostro stato di benessere generale:

una barriera intestinale sana permetterà uno scambio funzionale, mentre una danneggiata o sofferente non sarà in grado di svolgere le sue funzioni vitali al meglio, con conseguenti processi di malassorbimento e con ripercussioni inevitabili sul nostro stato di salute.

Proprio perché svolge questa funzione fondamentale, l’evoluzione ha dotato l’intestino anche di un sistema nervoso autonomo, in grado di preservare e garantire la funzionalità nutritiva indipendentemente da tutto.

Questa caratteristica di autonomia e autoregolazione nella gestione degli stimoli fa sì che l’intestino venga definito anche “il secondo cervello”.

Un’alimentazione sbilanciata, cibi mal tollerati dall’intestino, uno squilibrio della flora batterica intestinale (o Microbiota intestinale) magari dovuto all’uso incongruo di antibiotici e di altri farmaci, sono tutti fattori che possono gravare sullo stato di salute dell’intestino, della flora batterica intestinale e sull’integrità della barriera intestinale, andando a compromettere nel lungo periodo il benessere generale.

Alla scoperta del Microbiota

un vero e proprio ecosistema nella nostra pancia!

Il Microbiota dell’apparato gastro-intestinale, detto anche “Microbiota intestinale”, è l’insieme dei microorganismi presenti nel tubo digerente dell’uomo che hanno un ruolo fondamentale per la vita umana, e rappresenta l’ecosistema più complesso della natura!

È composto da un numero di batteri pari quasi a tre volte il totale delle cellule dell’intero corpo umano e da almeno quattro milioni di tipi diversi di batteri, che vivono in stretto contatto “mutualistico” con la mucosa intestinale.

I principali sono i Bifido batteri, i Lattobacilli e gli Eubacterium, ma ve ne sono di numerose altre specie, e tutti insieme conducono funzioni per noi essenziali:

favoriscono la bio-disponibilità di alcuni nutrienti e la metabolizzazione delle calorie;

sintetizzano diverse vitamine;

regolano l’espressione del sistema immunitario nella mucosa intestinale;

sostengono la peristalsi intestinale;

proteggono la mucosa intestinale - e quindi l’intero organismo - da aggressioni di microrganismi patogeni, prevenendo così la comparsa di molte infezioni.

La composizione del Microbiota è fortemente influenzata dall’alimentazione già a partire dal tipo di allattamento, se al seno o artificiale, e dallo svezzamento, e in seguito dalla condotta alimentare quotidiana.

Fattori interni ed esterni possono determinare disiosi, ovvero alterazioni anche importanti del Microbiota.

Fra questi, squilibri dietetici, stress psico-fisici, stili di vita non equilibrati, uso incongruo di farmaci.

In che modo l’intestino influenza il cervello e viceversa?

Abbiamo detto che l’intestino parla lo stesso linguaggio del cervello e che ha un sistema nervoso proprio e, per questo motivo, riesce a prendere decisioni autonomamente.

La comunicazione fra i due organi avviene attraverso il nervo vago sulla base di neurotrasmettitori comuni, come la serotonina:

 la serotonina svolge un ruolo fondamentale per la regolazione dell’umore e viene prodotta per il 95% dalle cellule distribuite lungo la mucosa intestinale.

All’interno dell’intestino essa è in grado di mediare funzioni come la peristalsi, la secrezione, così come la sensazione della nausea.

Ecco allora che, attraverso il nervo vago, questi segnali vengono veicolati dalla serotonina al cervello che li associa, ad esempio, al senso di sazietà.

asse cervello intestino.

Non dobbiamo dimenticarci però che la relazione tra intestino e cervello è a doppio senso.

 Se è vero che lo stato di salute dell’intestino si riflette sul cervello, è vero anche il contrario:

periodi particolarmente stressanti o la nostra (in)capacità di affrontare ansie, paure, decisioni, possono incidere sul normale funzionamento dell’intestino con alterazioni della peristalsi (e conseguenti episodi ad esempio di stipsi o di colite) e della produzione di acidi, di enzimi, di ormoni.

Allo stesso modo dieta e disordini intestinali possono avere ricadute sull’umore (ecco cosa significa somatizzare lo stress!).

Come (e perché) trattare meglio intestino e cervello.

Alimentazione intestino.

L’importanza di prendersi cura al meglio della nostra “pancia” è quindi evidente.

Sì, ma come fare?

 Le risposte possono essere molte e varie.

È innegabile che l’alimentazione ricopra un ruolo fondamentale:

prestare attenzione alla reazione del nostro intestino ad alcuni alimenti e bevande ci permette di notare cosa può irritarlo maggiormente per moderarne o evitarne l’assunzione.

 Ci sono cibi poi che per loro stessa natura (ad esempio per un alto livello di acidità) tendono a sovraccaricare il nostro apparato gastrointestinale costringendolo a un superlavoro che aumenta il rischio di irritazione.

Pensiamo ad esempio a cibi fritti o particolarmente grassi o ancora a bevande gasate e zuccherate.

Un’alimentazione leggera e con il giusto apporto di fibre permette di mantenere il giusto equilibrio della flora intestinale, senza però rinunciare al gusto!

Perché, come abbiamo visto, anche il cervello vuole la sua parte e diete troppo restrittive rischiano di alterare il nostro umore e aumentare il livello di stress.

Con il risultato che, invece di farci bene, rischierebbero di peggiorare il nostro stato di benessere.

Qualora poi l’alimentazione non bastasse, può essere utile ricorrere all’integrazione di simbiotici certificati (cioè prebiotici e probiotici insieme), come “Pro flora”, che aiutano a mantenere in equilibrio la flora intestinale (il Microbiota di cui abbiamo parlato qualche riga più in alto) contribuendo alla salute dell’intestino e a sostenere il sistema immunitario.

E il cervello come può essere supportato?

Sostegno cervello.

Ad esempio con un po’ di attività fisica che, oltre a migliorare il tono muscolare, migliora anche l’umore aiutandoci a ridurre lo stress e i suoi effetti sull’intestino.

Anche il giusto riposo ci può aiutare a tenere sotto controllo tensione, stress e ansia.

Un ultimo consiglio: coltivare la creatività!

 Dedicarsi a un’attività piacevole e che stimoli la fantasia permette di distaccarsi dalle fonti di stress e di concentrarsi su un aspetto più gratificante e piacevole.

Un’attività “di pancia”, quindi, che stimola il pensiero: insomma, una vera e propria coccola per intestino e cervello.

(Gershon M.D., Il secondo cervello, UTET).

 

 

Sergei Lavrov: il Prossimo Passo

degli Stati Uniti è sopprimere

le Economie Europee.

Conoscenzealconfine.it - Luca La bella – (9 Febbraio 2023) – ci dice:

 

I piani futuri degli Stati Uniti includono la soppressione economica dell’Europa, ritiene il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.

Secondo Lavrov, “non c’è dubbio che questo faceva parte dei piani di chi vive nella consapevolezza dell’eccezionalità del proprio Paese”.

“Il processo di tale soppressione economica è già iniziato”, ha detto Lavrov.

Per corroborare il suo punto di vista, il ministro russo ha ricordato le dichiarazioni dei leader europei sulle “leggi che gli americani hanno adottato per combattere l’inflazione”.

Germania e Francia sono ora particolarmente preoccupate per la nuova legge statunitense, ha affermato Lavrov.

L’industria tedesca di solito guarda nella direzione in cui ci sono vantaggi.

 “Questi benefici sono chiaramente discriminatori. Mirano chiaramente a minare l’industria europea”, ha concluso il ministro degli Esteri russo.

A gennaio, Francia e Germania hanno concordato una “risposta europea ambiziosa” alla nuova legge degli Stati Uniti.

“Avremo una strategia europea comune che porterà a una risposta ambiziosa e rapida”, ha affermato il presidente francese Emmanuel Macron.

Le attuali preoccupazioni dell’Europa sono legate al pacchetto di sgravi fiscali statunitensi da 369 miliardi di dollari per sostenere le “imprese verdi “statunitensi.

Il nuovo “Inflation and Climate Act” (Inflation Reduction Act, IRA) è entrato in vigore il 1° gennaio 2023.

Considera la possibilità di ridurre tasse e agevolazioni nelle forniture energetiche per le società che aprono negli Stati Uniti.

I funzionari europei ritengono che la legge costringerà le aziende a spostare i loro piani di investimento dall’Europa.

Inoltre, incoraggerà le persone a consumare prodotti americani.

(Luca La bella - databaseitalia.it/index.php/2023/02/06/sergei-lavrov-il-prossimo-passo-degli-stati-uniti-e-sopprimere-le-economie-europee/).

 

 

 

 

La cattiva notizia è che la

“cancel culture” esiste eccome.

Wired.it – Raffaele Alberti Ventura- (18-5-2021) – ci dice:

 

La “buona” è che, in una società fatta di disuguaglianze e tensioni, la spinta a pacificare il linguaggio è inevitabile.

Con buona pace dei debunker, quando si parla di pol. corr. e cancel culture non si parla di allucinazioni: è il mondo in cui viviamo.

I debunker non hanno dubbi:

 il politicamente corretto assolutamente non esiste, è soltanto un mito — ma tu intanto smettila subito di dire questo e quello.

Per cominciare smettila di parlare di “politicamente corretto”, che è un mito di destra, anzi di estrema destra, e a furia di parlarne potremmo iniziare a pensare male di te.

Al sapere oggettivo, neutrale, post-politico dei debunker non ci si può che inchinare, ma se le cose stanno così allora com’è possibile che per tante altre persone il” politicamente corretto” (qualsiasi cosa sia) invece esista, e anzi sia percepito come un problema rilevante?

 La risposta breve è che la questione non riguarda se si possa o non si possa dire più nulla in assoluto, bensì la manifestazione dello scarto tra quello che viene tollerato in certi contesti comunicativi e quello che viene sanzionato in altri.

 Uno scarto reso visibile dalla circolazione incontrollata dei contenuti, che crea continue frizioni e al termine del ciclo delle decontestualizzazioni porta un Enrico Mentana ad affermare che “la cancel culture è come il nazismo”.

Mentre un’intera generazione di giornalisti affermati sta perdendo il senso della misura, noi possiamo facilmente continuare a ripetere che non stiamo assistendo a nessun fenomeno sociale rilevante; oppure possiamo ammettere che qualcosa sta accadendo.

Ogni rapporto di potere impone il suo ordine del discorso, direbbe Foucault.

Nel dibattito importato dagli Stati Uniti d’America si parla di “politicamente corretto” per indicare l’insieme dei dispositivi di censura e autocensura che regolano gli atti comunicativi, mentre con “cancel culture” si fa riferimento al sistema di sanzioni formali o informali, dall'alto e più spesso dal basso, che realizzano questa regolazione.

In un paese come l’Italia rari casi di cancellazione (più spesso riguardanti la blasfemia) convivono con la generale impunità degli eccessi razzisti e sessisti più truculenti.

Non sfuggirà tuttavia agli osservatori più acuti che gran parte dei nostri consumi culturali e scambi comunicativi sono mediati da aziende che non hanno sede in Italia, da Facebook a Netflix, con le loro politiche aziendali tarate sul fuso orario della Silicon Valley.

 Vero è che gran parte di chi tuona contro il “politicamente corretto” da Trieste in giù non ne ha mai subito direttamente gli effetti:

perlopiù si limita a commentare notizie venute dall’estero e dal mondo universitario, spesso deformate.

 In effetti, poiché le trasformazioni culturali si manifestano principalmente attraverso segnali deboli, per penetrare nel dibattito pubblico i singoli fatti isolati devono essere amplificati e collegati entro delle narrazioni.

 Il risultato è che si discute spesso di fatti irreali che a poco a poco si accumulano in grandiose cattedrali di paranoia.

Cionondimeno, con buona pace dei debunker, quei segnali deboli ci dicono tre cose molto importanti.

(Gianluca Ruggieri a Wired Trends 2023: "Stiamo sperimentando un'enorme accelerazione nella transizione energetica")

Primo.

 Non assistiamo forse, quotidianamente, a ondate di indignazione, protesta, rabbia, talvolta panico morale sui social media?

 Il fenomeno, trasversale a destra e sinistra, laici e credenti, minoranze e maggioranze, può riguardare l’adattamento di un fumetto di supereroi o la rappresentazione di una divinità, l’impiego di una certa parola o l’interpretazione di una battuta, l’esistenza di una statua o un dettaglio presente in un libro scolastico, la scoperta di un dettaglio scabroso nel passato di una persona o nella storia di un paese.

 Non serve produrre un contenuto razzista o sessista per indignare qualcuno da qualche parte, basta un malinteso.

 Con i social media siamo passati dall’esistere in uno spazio pubblico, nel quale eravamo esposti al giudizio di una sfera ristretta di persone, a una condizione di iper-pubblicità nella quale ogni traccia che lasciamo può potenzialmente raggiungere il mondo intero.

A ognuno di noi sono promessi nella vita, rovesciando Warhol, almeno 15 minuti d’infamia.

Le aziende lo sanno, e sono portate a curare con maggiore attenzione la loro comunicazione.

Insomma, “non si può più dire niente” …. senza fare i conti con le conseguenze di quello che diciamo, sottoposto a ogni forma di deformazione, montaggio, semplificazione, rovesciamento, decontestualizzazione.

Prova ne sia il modo in cui notizie d’oltreoceano più o meno aneddotiche, baci a Biancaneve inclusi, finiscono nel tritacarne mediatico.

 Inevitabilmente questo feedback incentiva dei riflessi di censura e autocensura per evitarne le conseguenze — il “politicamente corretto”, appunto.

Che però non esiste, non sia mai.

Secondo.

Non è forse vero che negli ultimi decenni le sensibilità sono cambiate su temi come il razzismo e il sessismo?

Inclusione e diversità non sono effettivamente priorità rivendicate dalle grandi aziende multinazionali?

Non si discute, tra intellettuali e attivisti, della rimozione di statue e simboli a causa del messaggio che portano, o della ridefinizione del canone letterario su basi più inclusive?

È il risultato di una maggiore rappresentazione delle minoranze in seno alla classe media e al settore terziario, che ha finalmente prodotto delle rivendicazioni di ordine simbolico:

dopo il pane le rose, e quindi riconoscimento.

Si parla di abolire dei privilegi linguistici che rispecchiano dei privilegi effettivi.

 Se si prende questo programma sul serio, non c’è da stupirsi che susciti una viva reazione, mista di timore, incomprensione, risentimento e rabbia, da parte della classe media occidentale già posta di fronte alla certezza del suo declassamento e ora intimata di liberare spazi professionali e memoriali.

 Le battaglie culturali — e quella che stiamo vivendo è indubbiamente tale — riguardano da sempre la scelta di quello che deve essere trasmesso e quello che non deve esserlo, talvolta persino finendo distrutto.

Insomma queste guerre si combattono a colpi di “cancel culture”.

Che però non esiste, figuriamoci.

Terzo.

È solo un mito che negli Stati Uniti o nel Regno Unito diverse persone abbiano subito conseguenze lavorative, talvolta perso il posto, per dei tweet?

Questo sicuramente non sarebbe successo trent’anni fa e la principale ragione è semplice quanto banale: beh, non esisteva Twitter.

 Ma in un contesto in cui ormai Twitter esiste, assieme a decine di altri strumenti per riprodurre e diffondere contenuti, ne risente la reputazione di ognuno, e in particolare di chi ha ruoli pubblici e istituzionali.

 La complessa padronanza dei codici linguistici della società multiculturale – con le sue parole da dire e da non dire, i suoi neologismi, le sue accortezze – è già oggi un criterio di selezione delle élite internazionali.

Quale azienda o istituzione vorrebbe un manager che le tira addosso uno “shistorm” perché non hai mai sentito parlare di “dea naming” o di “black fishing”?

Il “politicamente scorretto” rivendicato dai commentatori italiani verrebbe immediatamente sanzionato (assieme a molte gaffe dettate da sincero provincialismo) in altri contesti intellettuali e professionali.

Che le élite italiane siano estranee a questi trend è precisamente il segnale che si sono sganciate, assieme all’intero paese, dal treno della modernizzazione.

In questo senso la correttezza politica non è un merito innato bensì niente di meno che una competenza acquisita.

 Sostenere che non esista risponde a un tipico rovesciamento ideologico, ovvero presentare come naturali e autoevidenti quelle che sono convenzioni sociali, e neutrali i processi di selezione meritocratica.

Ora proviamo a riassumere quello che ci dicono i segnali deboli e deformati che arrivano in Italia dai centri del potere mondiale:

 quando parliamo di “politicamente corretto” non stiamo evocando un’allucinazione o un mito di destra, ma una condizione storica del tutto inedita – anche se per certi aspetti simile a quella della Riforma protestante – determinata contemporaneamente da una mutazione radicale della sfera comunicativa per effetto di una trasformazione tecnologica, da un conflitto sul canone culturale determinato dall’accesso di nuove minoranze nelle file della classe media, nonché da un aggiornamento dei codici di comportamento e selezione delle élite manageriali.

 Mito, allucinazione, o vera e propria rivoluzione?

Il “politicamente corretto” non solo esiste, ma è inevitabile.

Una realtà multiculturale, ovvero composta da comunità di parlanti che padroneggiano codici linguistici differenti, seguono regole morali diverse, portano memorie di oppressione divergenti, non può sopportare senza traumi la circolazione incontrollata dei segni.

 Una società solcata da diseguaglianze e tensioni non può esporsi alla permanente eccitazione delle ostilità.

Di fronte alla prospettiva di una pandemia di segni fuori controllo, il politicamente corretto appare come la sola igiene linguistica adatta a limitare i conflitti.

A pieno regime, nei contesti in cui opera, la sua logica governamentale non consiste nel disciplinare la parola pubblica vietandola, ma circoscrivendola in spazi specifici e sottoponendola a incentivi reputazionali:

 il massimo grado di libertà linguistica si paga con l’esclusione da certe carriere e posizioni internazionali.

La consapevolezza che il codice serva a legittimare delle ineguaglianze di status è la causa più evidente del risentimento che suscita da parte di quei segmenti della popolazione, come classi popolari e minoranze etnico-religiose, condannati alla subalternità culturale dalla propria incontinenza linguistica.

Per arginare ogni contestazione del dispositivo, è dunque funzionale l'operazione ideologica di neutralizzazione e depoliticizzazione della questione operata dai debunker:

meno si discute del “politicamente corretto”, preservando la finzione tecnocratica su cui si fonda, meno conflitti rischiano di sorgere.

Tutto bene allora?

 Sfortunatamente no, perché le tensioni politiche soggiacenti non possono mai essere del tutto cancellate.

Siamo cresciuti in un mondo in cui la “libertà d’espressione” era considerata come un diritto fondamentale.

Gli eroi che veneriamo sono filosofi e scienziati che hanno avuto il coraggio di gridare ciò che gli si imponeva di tacere:

Socrate, Ipazia, Giordano Bruno, Galileo, Voltaire fino ai numerosi scrittori, registi, musicisti che nel Dopoguerra si sono scontrati con la censura.

Forse per essere stati troppo zitti prima, noi figli dell’Illuminismo consideriamo che solo dicendo, scrivendo, disegnando, cantando quello che ci passa per la testa, insomma mettendo alla prova il grado di libertà di cui godiamo, possiamo dare un senso alla nostra vita ed essere pienamente quello che siamo.

Dopo gli anni Sessanta la provocazione fine a sé stessa era diventata un genere artistico a sé stante, partendo da Charlie Hebdo e Sid Vicious per arrivare ai monologhi degli umoristi nazionalpopolari.

Ma questi valori, tipici della vecchia società borghese e culturalmente uniforme, non sono compatibili con l’infrastruttura comunicativa che abbiamo costruito:

 un immenso acceleratore di particelle che fa collidere tra loro fasci di parlanti sotto forma di urti violenti.

Questa nuova condizione potenzialmente catastrofica deve essere amministrata all’interno di un nuovo ordine del discorso.

Anche in passato, nella polis greca come ai tempi delle guerre di religione europee, gli editti di pacificazione prevedevano come prima cosa la cancellazione della memoria e dei segni che rischiassero di rinfocolare le tensioni.

Se saremo progressivamente costretti a rimuovere statue per sostituirle con astratti monumenti alla vittime di tutte le guerre, è perché abbiamo scoperto che non esistono segni davvero universali;

essi stanno lì come testimonianze efficaci di rapporti di potere, immuni da ritorsioni materiali solo fintanto che lo spazio è pacificato per mezzo del monopolio della violenza.

La promessa universale di sicurezza su cui si fonda l’ordine politico moderno – “bisogna difendere la società”, scriveva sarcasticamente Foucault – ha finito per estendersi alla protezione dai rischi comunicativi.

 La società del rischio, ce lo ha insegnato la pandemia, è anche una società della precauzione:

 essa crea le condizioni oggettive che ci vincolano a soluzioni drastiche, gestite nel quadro di un paradigma tecnocratico.

 Via via che le contraddizioni della modernizzazione si fanno più acute, la soluzione obbligata per ogni problema finisce per essere indistinguibile da una reductio ad absurdum dell’intera storia del progresso.

 I mandarini del Celeste Impero dovevano memorizzare migliaia di ideogrammi per svolgere correttamente le loro mansioni;

i nuovissimi mandarini di cui la nostra società frammentata ha bisogno potranno ben fare le sforzo di assimilare, e aggiornare in permanenza, il pur complesso manuale delle differenze, delle identità, delle memorie, dei traumi, delle parole da dire e da non dire.

Ci eravamo convinti che la nostra libertà fosse inoffensiva, come se esprimersi potesse talvolta produrre sul mondo dei risultati positivi ma assolutamente mai degli effetti negativi.

Questo vecchio mondo — in fondo durato pochissimo, semplice parentesi di spensieratezza propria di una società opulenta e pacificata — è ormai finito.                      

Sopravviverà solo chi saprà adattarsi.

Per molti di noi è già tardi.

Per questo mi preme chiedere ai debunker, prima di essere cancellato:

che cosa diavolo è il “black fishing”?

 

 

Ecco il decalogo

degli errori di Renzi.

Nens.it - Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini, Vincenzo Visco – (10- Marzo - 2017)

ci dicono:

Lunghissima e dettagliata analisi, capitolo per capitolo, della politica seguita dall'ex presidente del Consiglio, scritta e firmata da quattro economisti che da anni animano i dibattiti e gli studi del Nens come Salvatore Biasco, Vincenzo Visco, Pierluigi Ciocca e Ruggero Paladini. Risultato:

"Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva".

 1. La nascita del Governo Renzi era stata accolta con molta fiducia e aspettative favorevoli, sia per la personalità del nuovo Presidente del Consiglio, che per la forza derivante dal fatto di essere il segretario del PD.

In particolare ci si aspettava da Renzi il rilancio dell’economia e dell’occupazione, il contenimento del fenomeno populista e in particolare del M5S, il varo di riforme strutturali e istituzionali.

A consuntivo dei tre anni di governo il bilancio non appare particolarmente positivo, anche se provvedimenti condivisibili non sono mancati quali quelli sui diritti civili, tema sul quale i Parlamenti precedenti non erano riusciti a deliberate, l’inizio di interventi di natura sociale, senza peraltro affrontare in modo organico il problema della diseguaglianza crescente, l’alternativa scuola lavoro, e l’aumento della tassazione di alcuni redditi finanziari.

2. Per quanto riguarda l’economia, discutibile e contradittoria appare la linea seguita in Europa.

 La presidenza italiana dell’Unione Europea poteva essere l’occasione per porre in discussione formalmente la politica economica seguita, imposta dalla Germania, in quanto errata sul piano teorico e inefficace o controproducente su quello pratico (salvo che per la Germania stessa).

 Gli argomenti non mancavano certo.

A questo si è arrivati molto più tardi dopo un periodo che è sembrato di acquiescenza alle posizioni di Schauble.

 Ci si è arrivati con una linea indebolita dall’obiettivo di ottenere individualmente una maggiore flessibilità di bilancio da utilizzare non già per maggiore spese per investimenti bensì per finanziare la politica dei bonus, senza rendersi conto che la credibilità di un Paese fortemente indebitato come l’Italia dipendeva (e dipende) dalla capacità di rispettare gli impegni assunti, pur mantenendo i propri punti di vista, cercando eventualmente di farli valere anche con convergenze e alleanze con altri Paesi, con il Parlamento europeo, ecc...

Anche questo è stato carente.

Poco si è puntato sul ridisegno della architettura complessiva.

Non si è cercato di porre sul tappeto la questione della ristrutturazione del debito europeo, nonostante che a una proposta italiana (Visco) se ne fosse aggiunta una (pressoché identica) avanzata dai “saggi” consulenti della signora Merkel.

Non si è posta sul tappeto neppure la questione della concorrenza fiscale in Europa.

 Durante la crisi greca, invece di fornire un sostegno al governo di Tsipras, si preferì defilarsi lasciando la Grecia al suo destino, secondo una deriva nazionalista che è andata inevitabilmente crescendo.

3. Per quanto riguarda la politica interna, la strategia seguita dal Governo Renzi si è ispirata sostanzialmente a una politica dell’offerta:

 riforme strutturali (in primis quella del mercato del lavoro), riduzione delle imposte, tagli alla spesa pubblica, maggiore libertà all’azione privata e riduzione dei vincoli amministrativi.

In sostanza l’approccio mainstream che ha dominato il pensiero economico negli ultimi decenni, ma che, dopo la crisi del 2007-08, appariva non solo carente, ma anche superato sia in concreto, in quanto del tutto inadatto ad affrontare una situazione di deflazione e stagnazione come quella attuale, sia da un punto di vista teorico.

Il risultato inevitabile è stato quello di sprecare ingenti risorse con l’obiettivo di rilanciare il consumo delle famiglie che invece è rimasto stagnante (per es. la Banca d’Italia ha valutato che l’erogazione degli 80 euro si è tradotta in consumi solo per il 40%), e di aumentare i profitti delle imprese nella speranza che esse avrebbero aumentato gli investimenti, cosa che in carenza di domanda non poteva accadere.

 Peraltro, anche la riduzione del cuneo fiscale (Irpef e imposte sulle imprese) tentata dal II Governo Prodi nel 2006 non aveva avuto successo:

 la riduzione delle imposte, invece di tradursi in investimenti determinò similmente un aumento degli accantonamenti delle imprese (e degli imprenditori).

Anche l’occupazione è stata massicciamente sussidiata con risultati complessivi che andranno valutati allo scadere degli incentivi previsti, ma probabilmente non esaltanti. Inoltre bisogna chiedersi quanto gli incentivi non abbiano contribuito a rendere conveniente impiegare lavoratori a bassa qualifica piuttosto che investire in nuove tecnologie e quindi contribuito alla riduzione della produttività.

4. Un altro approccio era invece possibile, come auspicato da molti e dimostrato dal XV rapporto Nens sugli andamenti e prospettive della finanza pubblica italiana che ha simulato gli effetti di una diversa strategia di politica economica basata sul riassorbimento progressivo delle clausole di salvaguardia oggi previste, su una efficace politica di contrasto all’evasione (come quella più volte proposta da uno degli autori) con il contestuale utilizzo dei proventi per misure di riduzione dell’Irpef e dei contributi sociali (cuneo) e di sostegno delle situazioni di povertà, e utilizzando tutte le altre risorse disponibili, incluse quelle derivanti dalla flessibilità europea, per spese di investimento ad elevato moltiplicatore-

Come si ricorderà, questa è la politica che recentemente è stata proposta dal FMI, dall’OCSE, e da autorevoli economisti in tutto il mondo.

Pur prendendo con cautela i risultati ottenuti dalla simulazione, le direzioni cui avrebbe portato una strategia alternativa sono inequivocabili e di rilievo:

nel periodo 2015-18 il PIL sarebbe cresciuto di (almeno) il 6% invece che del 3,8% implicito nelle manovre governative considerando i risultati acquisiti nel 2015 e quelli previsti nei documenti governativi per i tre anni successivi (e probabilmente sovrastimati);

l’indebitamento pubblico per il 2017 si sarebbe collocato sull’1,6% invece del 2,3-2,4% oggi previsto;

il debito pubblico sarebbe sceso al 130,2% del PIL, 2,5 punti in meno della stima del Governo.

 Inoltre ci sarebbero stati effetti positivi sull’occupazione, le aspettative e il clima di fiducia generale nei confronti della nostra economia sia in Italia che all’estero.

5. Un’altra grave carenza dell’azione economica del Governo Renzi (in parte da condividere col Governo Letta) riguarda la crisi bancaria che è stata causata in Italia non già da un eccesso di investimenti in prodotti strutturati, come in UK, USA, Germania, ecc., bensì dalla doppia recessione che ha determinato il fallimento di decine di migliaia di imprese e l’esplosione delle sofferenze.

In tale situazione era necessario costituire al più presto una “bad bank” per smaltire i crediti deteriorati e rimettere in funzione il sistema.

Non è stato fatto, e la crisi si è trascinata fino alla deprimente conclusione della vicenda MPS.

Alla base di tale comportamento vi è stato un pregiudizio ideologico, condiviso e rafforzato dalla comunità dei banchieri, contro ogni intervento pubblico diretto nel settore.

 Se i “Monti bonds” fossero stati convertiti in azioni tra il 2013 e il 2014 (Governi Letta e Renzi), la situazione si sarebbe stabilizzata, non si sarebbero sprecati aumenti di capitale per 8 miliardi, e non si sarebbe verificata la massiccia fuga di depositi dal Monte che è la causa principale della richiesta da parte della BCE di una maggiore capitalizzazione della banca.

La questione bancaria è stata più volte evidenziata come urgente dalla Banca d’Italia , ma senza successo.

Che sarebbe entrato in vigore l’accordo sul “bail in” non poteva sfuggire al Governo.

 Inoltre, le mancate dimissioni del ministro Boschi in occasione della vicenda della banca Etruria che, pur non strettamente necessarie, sarebbero state politicamente utili, ha fortemente indebolito il Governo esponendolo a critiche spesso infondate, ma sempre efficaci da un punto di vista comunicativo, da parte delle opposizioni, contribuendo alla sostanziale paralisi operativa, alla politica dei rinvii e delle “soluzioni di mercato”, in nome delle quali si è deciso perfino di sostituire d’autorità il vertice del MPS.

Incomprensibile ed inaccettabile, comunque, è non essere intervenuti almeno subito dopo lo stress test del luglio scorso a salvare il Monte, lasciando marcire la situazione a causa della priorità del momento, il referendum istituzionale.

 Il costo ulteriore per i contribuenti è rappresentato dai 4 miliardi di maggior aumento di capitale richiesto.

Né va dimenticato che anche le riforme delle banche popolari e di credito cooperativo non sono state fatte in modo da evitare rilievi sia di carattere amministrativo che costituzionale.

6. È difficile valutare quale sia stata la politica industriale del Governo Renzi, sempre che ce ne sia stata una.

Con industria 4.0 si è cercato di recuperare il terreno per quanto riguarda la digitalizzazione del Paese, ma il processo deve ancora partire.

Analogamente la digitalizzazione della PA stenta a decollare e non si vede un disegno ed una visione unitaria.

Sono stati confermati gli sgravi fiscali per ristrutturazioni e interventi energetici e ambientali, ma senza disegnare una strategia complessiva di trasformazione ecologica di settori dell’economia (a differenza di quando fatto in altri Paesi, Germania in testa).

Si sono predisposti strumenti per affrontare le crisi industriali utilizzando la CDP, ma non si è saputo affrontare la questione delle infrastrutture da una prospettiva generale.

Per quanto il Piano per la logistica e i Porti abbia un approccio condivisibile (e così quello relativo agli interventi delle Ferrovie) esso è rimasto del tutto laterale rispetto all’azione di Governo diretta verso altri fronti.

Gli impegni di spesa sono stati essenzialmente collocati verso gli anni di scadenza (2020) del piano e di fatto lo stato di avanzamento su tutti i lavori concernenti i corridoi europei è in ritardo a causa della esiguità dei fondi disponibili.

Sulla banda larga si rischia di creare concorrenza tra più operatori, con relativo spreco di risorse trattandosi di un monopolio naturale.

Si difende l’italianità di Mediaset, e si è lasciato che Vivendi acquisisse il controllo di Telecom.

In concreto la politica industriale di Renzi si è basata soprattutto e principalmente su un consistente insieme di misure di detassazione e incentivazione fiscale a pioggia, sicuramente molto gradito alle imprese, ma non in grado di indirizzare il Paese verso un nuovo assetto industriale e neppure di recuperare il potenziale industriale perso durante la crisi.

L’idea di fondo è sempre la stessa: se lo Stato riduce il suo perimetro (riducendo le tasse, i contributi, ecc.) il mercato, le imprese, troveranno nuova energia e nuove opportunità di crescita a beneficio di tutti.

Non si è fatto nessuno sforzo, né si è suscitato nessun dibattito su quali settori potrebbe essere utile sviluppare in Italia con il sostegno pubblico tenendo conto delle esigenze del Paese, delle possibili sinergie con la ricerca e le Università, della possibilità di creare occupazione, né si è avviato un dibattito sulla possibilità di utilizzare in modo diverso e coordinato il residuo sistema delle partecipazioni statali, che continua ad essere visto soprattutto come fonte di reddito per la finanza pubblica, prova ne sia la privatizzazione di Poste che è avvenuta prima di esplorare le sinergie che poteva avere con la digitalizzazione del Paese e con lo sviluppo della logistica di consumo.

 Non è stata elaborata nessuna strategia valida per il Mezzogiorno, mentre si ripropone drammaticamente la questione del dualismo del Paese.

Tardiva è stata la predisposizione di Patti con Regioni e Città, che pur andando nella giusta direzione, appaiono spesso affrettati oltre che imperniati su progetti tirati fuori dai cassetti degli Enti locali, e in ogni caso improntati a una logica frammentaria e priva di visione organica.

 In tutte le politiche verso cui sono state indirizzate risorse pubbliche o varati mutamenti di assetto è mancata una vera e propria regia di attuazione e coordinamento degli attori, in un attivismo mirato a poter vantare interventi e riforme in vari campi, più che curarne la completezza, la qualità, il raccordo e l’implementazione.

7. Particolarmente discutibile è stata la politica tributaria del Governo Renzi. Dall’ultima riforma organica del fisco italiano, quella del 1996-97, sono passati 20 anni e quindi sarebbe necessaria una revisione complessiva. Ma il problema di fondo del sistema fiscale italiano rimane quello della evasione di massa, considerevolmente ridotta (in via permanente) dai governi di centrosinistra tra il 1996 e il 2000, tollerata e incentivata dal centrodestra, ridotta di nuovo durante il Governo Prodi del 2006-08, aumentata durante il successivo Governo Berlusconi.

Renzi ha ignorato il problema di una revisione sistematica del sistema e anzi ne ha accentuato il degrado con provvedimenti ad hoc, frammentari, episodici senza alcuna consapevolezza della necessità di una visione organica. Per quanto riguarda il contrasto all’evasione, all’inizio Renzi sembrava orientato ad intervenire, ed infatti adottò alcune delle misure proposte in un rapporto del Nens del giugno 2014, in particolare il reverse charge e lo split payment, misure che, visto il successo ottenuto (anche al di là delle previsioni) , sono state sistematicamente presentate come la dimostrazione dell’impegno e del successo del Governo nel contrasto all’evasione, sempre riaffermato pubblicamente, ma ben poco praticato in realtà.

Le altre proposte contenute nel rapporto Nens sono state invece ignorate, tra queste l’uso dell’aliquota ordinaria nelle transazioni intermedie IVA, l’adozione del sistema del margine in alcune transazioni al dettaglio, la trasmissione telematica obbligatoria dei dati delle fatture IVA….

In verità quest’ultima misura è stata adottata con l’ultima legge di bilancio, ma in modo tale da risultare in buona misura inefficace, in quanto è esclusa la trasmissione automatica dei corrispettivi delle vendite finali, non è previsto l’accertamento automatico in caso di evasione manifesta, non sono state introdotte misure di cautela nel caso in cui la reazione dei contribuenti comportasse una riduzione del margine abituale sui ricavi (mark up); le sanzioni, già modeste, sono state ulteriormente ridotte, l’entrata in funzione rinviata….In sostanza si è seguita la stessa logica in base alla quale, in seguito all’introduzione obbligatoria del POS ci si dimenticò di prevedere una sanzione in caso di inadempienza. Eppure il rapporto Nens stimava che la misura fosse potenzialmente in grado di produrre oltre 40 miliardi di recupero di evasione.

Contemporaneamente l’amministrazione finanziaria è stata delegittimata e indebolita, non si è salvaguardata la sua autonomia, si è consentito che membri del Governo attaccassero l’Agenzia delle Entrate, non si è data soluzione al problema creato da una discutibile sentenza della Corte Costituzionale relativa agli incarichi dirigenziali.

 Non si sono investite risorse nell’informatica.

Ma più in generale, l’intera politica fiscale si è indirizzata in direzione opposta a quella di serietà e di un ragionevole rigore:

il sistema sanzionatorio è stato modificato innalzando le soglie di punibilità penale e restringendo le fattispecie incriminatrici; inizialmente era stato perfino proposto di depenalizzare la frode fiscale, misura poi rientrata; l’abuso del diritto (elusione) è stato depenalizzato e ridotto ad una fattispecie residuale, senza considerare il fatto che prima o poi la Cassazione e la Corte di Giustizia europea ristabiliranno l’interpretazione corretta.

Ciò peraltro è già avvenuto con il falso in bilancio per cui la Cassazione ha già vanificato la portata della norma che allentava ben oltre quella approvata dal Governo Berlusconi, e per anni criticata dal centrosinistra, la possibilità di punire tale comportamento.

 E’ stato abolito il termine lungo di accertamento amministrativo per le condotte penalmente rilevanti, contrariamente a quanto previsto dalla normativa prevalente in Europa.

La riscossione dei tributi è stata fortemente indebolita prevedendo la possibilità di rateazioni fino a 72 rate per i debitori decaduti negli ultimi due anni da un precedente piano di dilazione, ciò mentre per i debiti nei confronti di privati (banche) si sono accelerate le procedure di riscossione coattiva creando una inaccettabile discriminazione tra pubblico e privato.

 Ci si è uniformati alla propaganda del M5S sopprimendo, anche se solo in apparenza, Equitalia, e introducendo un condono (rottamazione) delle cartelle esattoriali, relative -è bene ricordarlo- a evasori conclamati, spesso sanciti come tali da più gradi di giudizio.

Si sono varate due voluntary disclosures in apparente ossequio a un indirizzo internazionale, senza considerare che negli anni precedenti erano già stati varati da Tremonti ben due condoni in materia.

Si è cercato di introdurre una sorta di riciclaggio di Stato prevedendo la sanatoria anche per il contante, norma che fortunatamente non è sopravvissuta alle critiche. Si è innalzata a 3000 euro la soglia di utilizzazione del contante favorendo così non solo l’evasione ma anche il riciclaggio.

 La norma sugli 80 euro, operando in un ristretto intervallo di reddito, da un lato ha penalizzato relativamente i redditi più bassi, e dall’altro ha introdotto un’aliquota marginale implicita pari al 79,5% (48% a causa del venir meno degli 80 euro, cui si aggiunge l’aliquota effettiva (formale e implicita) Irpef del 31,5%) per i contribuenti collocati sul limite superiore di applicazione della misura (tra i 24000 e i 26000 euro), per cui è stato necessario inserire nella ultima legge di bilancio, e in previsione degli aumenti contrattuali, una norma di deroga che non si sa ancora come opererà.

 L’Irpef è stata ulteriormente distorta dalla detassazione dei premi di produttività che fa sì che neanche i redditi di lavoro entrino più interamente nella base imponibile della imposta sul reddito in deroga a qualsiasi principio di progressività. Molte sono state le norme a favore delle imprese:

 dalla eliminazione dall’Irap dei redditi di lavoro (il che equivale ad escluderli da qualsiasi contributo specifico per la spesa sanitaria), alla decontribuzione per i nuovi assunti, alla patent box, al rafforzamento dell’ACE col recupero dell’incapienza sull’Irap, alla assegnazione agevolata dei beni ai soci, alle norme di accelerazione degli ammortamenti, alla riduzione dell’aliquota Ires al 24% e all’introduzione dell’IRI, all’eliminazione dell’IMU sui cosiddetti “imbullonati”.

L’agricoltura è stata ulteriormente detassata (Irap, imposta patrimoniale), senza considerare che il settore era già quello più agevolato sul piano fiscale e quello in cui maggiore è l’evasione.

 La condivisibile esigenza di redistribuire il prelievo alleviandolo per alcuni settori e fattispecie non è stata affrontata, in altre parole, in modo organico e secondo un disegno preciso, ma con provvedimenti frammentari e ad effetto guidati da preoccupazioni di consenso.

Si è inoltre rinunciato alla revisione del catasto dei fabbricati che era in dirittura d’arrivo e necessario avviare, e si è eliminata l’imposizione patrimoniale sulla casa di abitazione.

Con le modifiche dell’Irap, della Tasi, e con le misure connesse all’obbligo di pareggio di bilancio e al funzionamento del fondo di solidarietà si è svuotata l’autonomia impositiva di regioni ed enti locali.

Si è rinviato l’esercizio della delega di revisione delle cosiddette tax expenditures, che sono viceversa di molto aumentate.

In tema di tassazione delle rendite finanziarie è stato aumentato il differenziale con la tassazione dei titoli pubblici, e nel complesso, pur essendo l’obiettivo condivisibile, il sistema il sistema è stato reso sempre più irrazionale.

8. Per quanto riguarda le riforme “strutturali”, quella più importante per il Governo era ovviamente la riforma istituzionale.

 Oggi è senso comune criticare Renzi per aver “personalizzato” e politicizzato lo scontro sul referendum confermativo, ma il problema nasce prima.

 La personalizzazione infatti è avvenuta immediatamente, fin dall’inizio del dibattito parlamentare quando Renzi ha imposto la sua peculiare visione della riforma senza accettare critiche né mediazioni, visione che aveva a cuore nella sostanza il fatto che i futuri senatori non dovessero beneficiare di alcuna retribuzione per ridurre i costi della politica oltre a quella derivante dalla drastica riduzione del loro numero.

 Questo è stato l’unico punto considerato irrinunciabile perché tutto il resto della proposta iniziale è stato oggetto di cambiamento per cercare convergenze tattiche.

Questo approccio ha compromesso fin dall’inizio la possibilità di successo della riforma.

Ed in verità il dibattito parlamentare al Senato mostra chiaramente che se si fossero accettati due punti essenziali, vale a dire che anche il numero dei deputati fosse ridotto a 400, e quello dei senatori a 200, e che i senatori fossero eletti direttamente dal popolo, ferma restando la differenza delle funzioni delle due assemblee e l’attribuzione del voto di fiducia alla sola Camera dei Deputati, la riforma avrebbe ottenuto un consenso molto ampio evitando la necessità del referendum, o comunque depotenziandone la portata politica.

È qui emersa una caratteristica di fondo dell’approccio di Renzi alle riforme: la necessità di determinare in ogni caso rotture, divisioni, contrapposizioni, secondo una logica amici-nemici che, a ben vedere, riguardava principalmente una parte rilevante della sua costituency e del suo stesso partito.

La questione di fondo era ideologica: le tradizionali posizioni della sinistra italiana non dovevano avere più legittimità: esse rappresentavano comunque il vecchio, qualcosa da rimuovere e “rottamare”.

9. La stessa logica è stata seguita sul jobs act, dove l’avversario principale è diventato il sindacato e in particolare la CGIL. Una riforma contro, quindi, e non una riforma utile per tutti.

 E anche in questo caso sarebbe stato sufficiente evitare alcuni eccessi e adottare, per esempio, il modello di contratto a tutele crescenti proposto da tempo da Tito Boeri, per ottenere un consenso pressoché unanime. Il risultato è stato quello di rischiare di sottoporre il Paese ad un ‘altra prova referendaria di cui non si sentiva certo il bisogno.

 Sui vouchers si sono allargate le maglie senza pensare ai possibili abusi, tanto che ora sarà necessario un intervento correttivo.

10. La riforma della scuola è avvenuta secondo lo stesso approccio: anche in questo caso il “nemico” era inizialmente il sindacato, ma ben presto sono diventati gli insegnanti.

 Il modello proposto è stato quello dell’autonomia scolastica interpretata come meccanismo in grado di simulare una sorta di mercato all’interno del settore pubblico, meccanismo che avrebbe inevitabilmente aumentato le diseguaglianze nei livelli di insegnamento tra le diverse zone del Paese e quartieri delle città.

Ciò di cui avrebbe invece bisogno la scuola italiana è una modernizzazione dei programmi, un ripensamento dei cicli scolastici, una migliore qualità dei docenti, una carriera per i docenti, e investimenti rilevanti per ridurre le distanze tra le scuole di migliore qualità e le altre, rivalutando il ruolo sociale dei docenti, limitando le ingerenze indebite delle famiglie, prevedendo concorsi per le assunzioni, ecc.

Ora il Governo Gentiloni è costretto a ritornare indietro (anche troppo) su alcuni punti della riforma cercando un accordo con i sindacati.

 È stata giusta l’introduzione nella nostra scuola dell’alternanza tra studio e lavoro.

Ma al solito con fondi insufficienti e senza adeguata regia.

Rimane non coordinato il canale dell’istruzione professionale di competenza statale con quello di competenza regionale e manca un Sistema Nazionale di Valutazione.

 Anche la ricerca pubblica non ha avuto alcuna razionalizzazione visto che non si è posto mano alla dispersione dei centri e al loro scarso coordinamento.

L’Italia rimane nel mezzo delle due grandi direttrici della ricerca, quella dei grandi progetti diretti ai paradigmi tecnologici e che mettono insieme alte capacità realizzative industriali, Università, centri di ricerca (che può solo svolgersi come partecipazione a progetti di ricerca internazionali, in primo luogo quelli europei) e quella che si adatta alle situazioni concrete e esigenze tecnologiche specifiche. Di fatto l’Italia non segue né l’una né l’altra.

 Sebbene siano stati finalmente aumentati, dopo anni di tagli, i fondi per la ricerca pubblica, questi sono stati allocati in modo tale da suscitare una vera e propria sollevazione della comunità scientifica.

L’eccessivo affidamento a criteri di mercato, soprattutto attraverso criteri di valutazione tecnicamente molto discutibili, si è riprodotto con l’Università producendo gli stessi problemi della scuola di determinare una frattura e differenziazioni che senza governance e correttivi del processo, rischiano di penalizzare pesantemente gli Atenei meridionali, non si capisce con quale vantaggio per il Paese.

11. La riforma della giustizia è rimasta al palo.

In questo caso, la categoria presa di mira è stata quella dei magistrati attaccati sulle ferie, sulle retribuzioni e sulla età pensionabile, sulla quale, peraltro, si è fatta una parziale marcia indietro che si spera non diventi totale.

 In questo caso, tuttavia, va riconosciuto che, data la composizione del Governo, la riforma non era agevole.

Va però sottolineato che il problema della legalità (corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata) non sembra essere stato al centro delle preoccupazioni e del programma di Governo.

 In diverse occasioni Renzi ha negato che in Italia esista un problema di evasione di massa, o che in alcune regioni italiane il potere dello Stato è contestato e talvolta vanificato dall’esistenza delle mafie.

Molta propaganda è stata fatta all’Autorità anticorruzione guidata da Cantone, e sono state approvate nuove norme, secondo alcuni insufficienti, ma il punto di fondo è che i tre fenomeni sopra ricordati sono intrinsecamente collegati e andrebbero affrontati insieme e posti all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche, cosa che non è avvenuta.

Uno degli strumenti possibili era quello di varare finalmente una buona legge sui partiti, legge di cui si è parlato, ma che non ha fatto passi avanti.

12. Quanto alla riforma della PA, si è seguito un vecchio modello, già sperimentato e fallito più di una volta, secondo una visione organicistica della PA, attaccando la dirigenza pubblica e portando alle estreme conseguenze una logica privatistica che mal si adatta al settore pubblico i cui dirigenti non possono essere assimilati a quelli delle imprese private, ma necessitano di competenze specifiche e specializzazioni.

Anche in questo caso la riforma si è esposta a rilievi di ordine amministrativo e costituzionale.

13. Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva.

Il Paese è oggi più diviso, il PD è politicamente isolato (salvo l’alleanza con Alfano e Verdini) ed è diviso, data la radicalità dello scontro sul referendum, si sono verificate fratture nelle famiglie e nelle amicizie.

 Le riforme sono state contestate e in parte sono rimaste sulla carta.

L’opinione pubblica è confusa, disorientata, arrabbiata, e sempre più influenzabile da posizioni qualunquiste e di antipolitica.

Dopo il risultato del referendum è inoltre diffusa, soprattutto all’interno dell’establishment la convinzione che il Paese è irriformabile e rassegnato al proprio destino

. La colpa sarebbe della gente che non capisce.

Ma così non è, la gente desidera riforme, ma vorrebbe capirne finalità e modalità, desidera essere coinvolta, e soprattutto vedere una classe dirigente preoccupata dei problemi e delle difficoltà dei cittadini comuni.

Soprattutto ci sarebbe bisogno di una classe dirigente competente e all’altezza. Uno dei lasciti del Governo Renzi rischia di essere proprio quello di aprire la strada a una classe dirigente ancora meno qualificata.

(ilcampodelleidee.it/doc/1541/ecco-il-decalogo-degli-errori-di-renzi.htm)

 

 

 

Svenimento e shock.

Angelinipharma.it- Redazione – (20-1-2022) – ci dice:

 

Lo svenimento è una transitoria perdita della normale attività della coscienza causata da una mancanza di afflusso di sangue al cervello, dovuta da un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. La causa può essere una forte emozione, la permanenza prolungata in un ambiente surriscaldato, una lunga permanenza a letto (per malattia), un digiuno prolungato o un pasto eccessivamente abbondante, uno sforzo fisico intenso o una lunga permanenza in piedi. I sintomi più comuni sono debolezza, pallore, sudorazione fredda, polso debole e, infine, perdita di conoscenza.

Per shock si intende la grave conseguenza del mancato arrivo del sangue ai tessuti dell'organismo.

Si può manifestare in seguito a un trauma (per esempio un'infezione) o a un'emorragia (perdita di sangue), oppure può comparire in seguito a un'ustione o dopo una lunga esposizione al freddo.

Può essere provocato anche dall'abuso di alcuni farmaci (per esempio i barbiturici) o dalla puntura di un insetto, nel caso in cui la persona sia allergica a quel veleno (a volte anche quello delle api).

Qualunque ne sia la causa, lo shock presenta sempre gli stessi sintomi, ossia: stordimento, sudore freddo, polso debole e frequente, aumento della frequenza, respiratoria.

Svenimento.

Lo svenimento è un breve periodo di incoscienza che si verifica quando il flusso di sangue al cervello è temporaneamente diminuito a causa di un improvviso abbassamento della pressione sanguigna (la massima può scendere anche sotto gli 80).

Le cause possono essere diverse: forte dolore, grandi emozioni, la permanenza prolungata in luoghi troppo caldi e troppo affollati in cui non c'è ricambio d'aria, una lunga permanenza a letto (dovuta per esempio ad una malattia), un digiuno prolungato o un pasto eccessivamente abbondante, uno sforzo fisico intenso o una lunga permanenza in piedi (una fila di ore agli uffici postali!).

Sintomi

Di solito, lo svenimento è preceduto da alcuni sintomi caratteristici, quali:

debolezza

pallore e sudorazione fredda

polso debole o irregolare

barcollamento

sensazione di nausea

ronzio alle orecchie

annebbiamento della vista.

Dopo questi segnali d'allarme la persona perde conoscenza per un periodo di tempo che difficilmente supera i 2-3 minuti.

Se il soggetto è già svenuto in passato ed è cosciente dei sintomi premonitori può sdraiarsi autonomamente ed evitare così di svenire.

Cosa fare.

Per prima cosa è opportuno far sdraiare la persona sulla schiena tenendole le gambe sollevate al di sopra del livello del torace: la testa deve essere la parte più in basso di tutto il corpo.

Se non c'è spazio, fatelo sedere con la testa china tra le ginocchia.

Gli abiti devono essere slacciati, soprattutto quelli attorno al collo e al torace (per esempio la cravatta e la cintura).

Se il colpito perdendo conoscenza cade al suolo, accertatevi che non si sia ferito. Controllate, poi, polso e respirazione e, se necessario, procedete con la rianimazione.

Assicuratevi che l'infortunato abbia a disposizione aria a sufficienza e allontanate eventuali persone intorno.

Se ci si trova in un ambiente chiuso è bene aprire le finestre o, almeno ventilare la persona (si può utilizzare un ventaglio o un giornale).

Quando riprende conoscenza, è importante che il colpito stia sdraiato, sempre a gambe sollevate, per almeno una ventina di minuti: con questo accorgimento si mette al riparo dal rischio di svenire di nuovo.

Se non rinviene in pochi minuti o nel caso dovesse ripetersi, è bene invece consultare il medico.

Cosa non fare.

Non bisogna somministrare né bevande alcoliche, né caffè, né altro per bocca, soprattutto durante la fase di incoscienza: si può rischiare di fare inalare (quindi mandare nei polmoni) quello che si vorrebbe fare ingoiare.

È bene poi non schiaffeggiare la persona svenuta: si tratta di una manovra inutile.

Shock.

Lo shock è la grave conseguenza del mancato arrivo del sangue ai tessuti dell'organismo.

In altre parole si tratta di una situazione caratterizzata da una progressiva insufficienza dell'apparato circolatorio che provoca un deficit nell'apporto di sangue e quindi di ossigeno ai tessuti.

Ne consegue uno stato di sofferenza soprattutto degli organi interni che può portare a danni irreversibili.

Lo shock si verifica in seguito all'alterazione di una delle tre componenti del sistema circolatorio:

la pompa (il cuore);

i vasi (le arterie, le vene e i capillari);

il liquido circolante (il sangue).

Cause

Le cause dello shock possono essere diverse, per esempio:

shock dovuto a emorragia: un'emorragia lenta è meglio tollerata di un'emorragia rapida;

una persona sana può perdere anche due terzi dei propri globuli rossi senza andare incontro a shock, se la perdita avviene nel giro di 2-3 giorni.

 Viceversa, una perdita rapida superiore al 25-30 per cento del sangue circolante (1,5-2 litri) provoca immediatamente un grave stato di shock.

Shock in seguito a massicce infezioni batteriche,

Shock in seguito alla riduzione dell'efficienza del cuore nel pompare sangue, che si verifica in molte malattie cardiache: la causa più frequente è l'infarto.

Shock in seguito a ustione: le perdite di liquidi attraverso la superficie ustionata possono determinare una riduzione del volume del sangue e quindi uno stato di shock.

Shock da grave reazione allergica che segue l'introduzione nell'organismo di una sostanza verso la quale esiste una sensibilizzazione (per esempio antibiotici o veleno di insetti).

Shock in seguito a gravi traumi dovuto a complessi meccanismi, per esempio la perdita di sangue, l'infezione, la liberazione di particolari sostanze dalle parti del corpo danneggiate.

Tipi di shock

Qualunque ne sia la causa, lo shock presenta sempre gli stessi sintomi, in base ai quali viene diviso in tre stadi:

shock di primo stadio o di pre-shock, quando il cuore tende a battere disordinatamente, il paziente ha freddo e appare di colorito molto pallido.

Shock di secondo stadio o moderato, quando la pressione si abbassa molto, la persona avverte una sensazione di irrequietezza e sulla sua pelle appaiono delle striature cianotiche.

Shock di terzo stadio o severo, quando il battito del cuore è molto irregolare, la respirazione è alterata, lo stato mentale è confuso e compare una forte sonnolenza.

Caratteristica di questo stadio è la cosiddetta anuria, ossia l'impossibilità di fare pipì, causata dal mancato arrivo di sufficiente sangue al rene.

 Tale condizione è molto seria in quanto tutte le sostanze tossiche prodotte dall'organismo vengono espulse con l'urina: in questo caso rimangono nell'organismo danneggiandolo.

Il passaggio da uno stadio all'altro, quindi l'aggravarsi dello shock, è del tutto indipendente dalla causa che lo ha scatenato.

É importante inoltre sapere che lo stato di shock può insorgere anche diverse ore dopo il trauma, la puntura d'insetto o l'ustione.

Proprio per questo motivo è importante tenere sotto osservazione per diverse ore la persona che abbia vissuto una situazione a rischio di shock: solo così si può essere pronti a intervenire fin dai primissimi segnali.

Cosa fare.

Ci sono alcune misure che è bene prendere per "prevenire" un eventuale shock o evitare che, nel momento in cui si verifica uno shock, la situazione si aggravi ulteriormente. Ecco qualche esempio:

intervenire sulla causa, per esempio fermando un'emorragia.

Sdraiare l'infortunato sulla schiena con le gambe in alto e controllare la funzione respiratoria: se è in stato di incoscienza, o in presenza di vomito, metterlo in posizione di sicurezza; se necessario, bisogna eseguire prontamente la respirazione artificiale.

Proteggerlo sia da una temperatura troppo elevata che da una temperatura troppo bassa: coprirlo con una coperta.

Togliergli gli abito troppo stretti.

Non somministrare nulla per bocca.

La persona colpita da shock deve in ogni caso essere portata in ospedale per assicurargli un trattamento specialistico nel più breve tempo possibile.

Lo shock anafilattico.

L'anafilassi è una reazione dell'organismo che produce una serie di anticorpi in grado di legarsi a particolari cellule del sangue provocando la liberazione di alcune sostanze (istamina e leucotrieni) che agiscono negativamente su diversi apparati dell'organismo, principalmente la pelle, i bronchi, l'intestino e il cuore.

 La pressione si abbassa, il respiro si fa difficoltoso in quanto il polmone è preda di un attacco asmatico e la pelle può presentare orticaria.

Lo shock anafilattico si presenta con una sintomatologia caratteristica, ossia:

formicolio e senso di calore al capo e alle estremità.

Un forte prurito sul volto, sulle mani, all'inguine e al torace a cui si associano starnuti e tosse.

Rossore, gonfiore, vomito e dolori intestinali;

difficoltà respiratorie e senso di soffocamento.

Le forme più serie culminano nello shock anafilattico vero e proprio, con calo della pressione sanguigna e perdita di coscienza.

Tra le cause più frequenti di shock anafilattico ci sono la puntura di api, vespe e calabroni (le più temute), l'ingestione di alcuni cibi (per esempio latte, uova, crostacei e arachidi) e la somministrazione di alcuni farmaci (per esempio la penicillina).

 In alcuni soggetti allergici ad un alimento i sintomi si manifestano soltanto se si esercita uno sforzo fisico (per esempio una partita di pallone) successivamente all'assunzione di un determinato alimento.

In caso di reazione allergica, è bene chiamare immediatamente soccorso (se possibile un'ambulanza).

Nel frattempo l'infortunato va fatto sdraiare controllando frequentemente il polso e la respirazione: se necessario, si può praticare la respirazione artificiale.

L'adrenalina rappresenta il farmaco per eccellenza e deve avere un ruolo centrale nel trattamento acuto dell'anafilassi;

quando è indicata, può essere somministrata per via intramuscolare nella coscia. In farmacia sono disponibili fiale preconfezionate con adrenalina predosata e resa resistente al calore.

Pur essendo l'uso di queste siringhe molto facile, è necessario farsi spiegare dettagliatamente dal medico le modalità d'impiego.

Primo soccorso.

Ci sono alcune regole fondamentali da seguire per un primo soccorso.

Innanzitutto non mettere mai in pericolo la propria vita e soccorrere sempre prima l'infortunato più grave.

È bene poi non muovere mai un ferito a meno che non sia assolutamente necessario, per esempio se è in pericolo immediato.

Infine, c'è da controllare che sia presente il battito cardiaco, che l'infortunato abbia le vie aeree sgombre, che respiri, che non presenti gravi emorragie e che sia cosciente.

Il ritmo respiratorio normale è di 16 atti al minuto per un adulto e di 30-40 atti al minuto per un bambino.

Comunque, la cosa più importante da fare è di esaminare l'infortunato per sapere come comportarsi, quindi:

valutare il livello di coscienza, o meglio notare se migliora o peggiora la capacità di risposta (apertura degli occhi, movimenti intenzionali, capacità di rispondere a domande, stimoli tattili e dolore).

Le vie aeree sono probabilmente ostruite se il respiro è rumoroso (simile al russare) e un'ostruzione può essere causata dall'inalazione di vomito o denti in una persona priva di conoscenza;

è bene controllare sempre il colore del volto (la presenza di cianosi, ovvero di una colorazione bluastra della pelle, è indice di asfissia).

Controllare che non perda sangue dall'orecchio o dal naso.

Eesaminare le pupille: devono restringersi se esposte alla luce.

Controllare la presenza di lacerazioni sul cuoio capelluto (possibile trauma cranico).

Controllare la cassa toracica (le due arcate costali devono sollevarsi in modo uguale a ogni atto respiratorio: se le vie aeree sono ostruite si noteranno delle rientranze dei tessuti molli tra le costole).

Esaminare la spina dorsale;

controllare l'area pelvica esercitando una pressione su entrambi i fianchi allo stesso tempo: se provocate dolore dovreste sospettare una frattura.

L'esame delle estremità dovrebbe far escludere la presenza di emorragie, rigonfiamenti e deformità.

Tutte queste osservazioni vanno accuratamente annotate riportando il tempo in cui sono state registrate: saranno utili una volta portato l'infortunato al Pronto Soccorso.

Rianimazione.

Ci sono alcune condizioni particolarmente gravi che richiedono un intervento tempestivo e appropriato, mancando il quale la vita della persona "infortunata" è seriamente in pericolo: la perdita di coscienza, il blocco della respirazione e la cessazione del battito cardiaco.

 Per ognuna di queste condizioni è necessario mettere in atto alcune tecniche per un soccorso pronto ed efficace. Vediamole nel dettaglio.

Perdita di coscienza.

La prima cosa da fare in caso di perdita di coscienza è di controllare immediatamente polso e respirazione e, se necessario, mettere in atto le tecniche di rianimazione.

 Se si sospetta una frattura al collo o se l'infortunato fa strani gorgoglii, non bisogna voltargli assolutamente la testa, né estendergli il collo.

 Piuttosto, la cosa da fare è abbassargli la mandibola, con l'aiuto di una persona che gli mantenga ferma la testa in modo tale da abbassare nello stesso tempo anche la lingua.

In seguito, è necessario passargli rapidamente un dito in bocca e ripulirgliela di ogni materiale che possa impedire la normale respirazione.

 

Ecco, in breve, una guida utile su come comportarsi in caso di perdita di coscienza:

voltate la testa dell'infortunato da un lato e passate il vostro indice rapidamente all'interno della bocca per ripulirla di qualsiasi materiale (per esempio denti rotti o vomito): va fatta molta attenzione a non spingere un eventuale oggetto estraneo ancora più in gola;

eliminate le secrezioni, voltate la testa dell'infortunato verso di voi e rovesciatela all'indietro, con il collo alla massima estensione per aprire le vie aeree.

Posizionate lungo il fianco dell'infortunato il braccio che si trova vicino a voi e fate scivolare la sua mano con le dita aperte sotto la natica.

Alzate il braccio dell'infortunato e incrociatelo sul torace:

alzate leggermente la gamba più lontana da voi e incrociatela sull'altra all'altezza della caviglia.

Inginocchiatevi accanto all'infortunato all'altezza del torace: con una mano afferrategli i vestiti all'altezza della natica più distante da voi, mentre con l'altra sostenetegli la testa.

Posizionate l'infortunato su un fianco ruotandolo verso di voi, fino a che verrà a contatto con le vostre ginocchia.

Piegategli il braccio e la gamba che si trovano in alto in modo che questi non rotoli sulla faccia, ma si appoggi sul braccio e sulla gamba stessi.

Risistemategli la testa ben girata all'indietro e controllate che abbia le vie aeree aperte.

Mentre procedete a prestare soccorso all'infortunato badate bene alla presenza di eventuali fratture alle braccia e alle gambe: in questo caso è necessario spostarlo con molta cautela.

Blocco della respirazione.

In caso di blocco della respirazione è bene agire sulla causa che ha determinato la difficoltà respiratoria: un corpo estraneo in gola, inalazione di vomito o caduta della lingua all'indietro in una persona in stato di incoscienza, un ambiente saturo di gas, o ancora le vie aeree allagate in un annegato.

 

Un corpo estraneo che abbia ostruito le vie aeree può essere eliminato tenendo il soggetto a testa in giù e dando dei colpi sul dorso tra le scapole.

Per eseguire questa manovra su di un bambino piccolo, lo si può prendere per i piedi.

Su un adulto, invece, è bene appoggiarlo su un tavolo a pancia sotto con il torace che sporge fuori.

Se il ritmo respiratorio non riprende spontaneamente dopo aver liberato le vie aeree è bene procedere con le manovre di respirazione artificiale (vedi Come facciamo a respirare in Il sistema respiratorio).

L'importante è agire con rapidità: la rianimazione eseguita precocemente ha più probabilità di successo.

Il battito cardiaco va tenuto sempre sotto controllo e, se si è soli, è bene effettuare 4-5 compressioni toraciche ogni 2 atti respiratori.

Se invece si è in due, uno può eseguire il massaggio cardiaco mentre l'altro procede con la respirazione artificiale.

Cessazione del battito cardiaco

Può verificarsi in seguito a scossa elettrica, attacco cardiaco, soffocamento, coma indipendente dalla sua causa.

Se il cuore si ferma, il sangue cessa di circolare e i tessuti cellulari non vengono più ossigenati.

A livello del cervello, si crea un danno permanente dopo appena 3 minuti.

È quindi essenziale accertarsi immediatamente del battito cardiaco (a livello della carotide, la maggiore arteria del collo) e agire prontamente con il massaggio cardiaco:

posizionate l'infortunato supino su una superficie rigida.

Esercitate una pressione a metà dello sterno con il palmo della mano aperta, aiutandovi con l'altra mano e tenendo le dita intrecciate; non spingere mai sulle costole ma solo sullo sterno.

Agite stando inginocchiati accanto all'infortunato, con le braccia distese, per esercitare più facilmente la pressione.

Fate abbassare lo sterno di 4-5 cm, quindi lasciate senza allontanare le mani.

Sse si ferma il battito cardiaco si ferma anche la respirazione, quindi praticate la respirazione artificiale contemporaneamente al massaggio cardiaco: soffiate aria nei polmoni ogni 6-8 pressioni.

iI massaggio va fatto fino a che il battito riprende: controllatelo ogni tanto mentre fate il massaggio.

Se anche la respirazione è ripresa, posizionate l'infortunato nella posizione di sicurezza, tenendo sotto controllo polso e respiro fino all'arrivo dell'ambulanza.

 

 

 

 

Farina di grilli e il consumo

inconsapevole di insetti.

 Radio-food.it – Redazione – (31-1-2022) – ci dice:

 

In Italia sta creando scalpore l’autorizzazione rilasciata dall’Ue della commercializzazione della polvere parzialmente sgrassata del grillo domestico come nuovo alimento.

 Saremo capaci di accettarli e adattarci a questo nuovo stile alimentare, al di là di quello che si definisce consumo inconsapevole di insetti?

Intanto è già pronta la prima pasta prodotta con farina di grilli.

Una volta ci volevano guerre e pestilenze per imprimere profondi cambiamenti nel modo di pensare e di vivere delle persone.

 Oggi non è più così, per fortuna (anche se, nel suo piccolo, il Covid19 ci ha messo del suo), e forse per la prima volta nella storia, i cambiamenti epocali sono il risultato di qualcosa di nuovo e di positivo che sta prepotentemente crescendo dentro di noi.

 La nostra capacità di adattamento come esseri umani è straordinaria ed è ciò che ci ha consentito di arrivare fin qui.

 Solo che, da qualche anno, le cose stanno cambiando radicalmente e non siamo più noi a doverci adattare all’ambiente o alle circostanze, ma abbiamo raggiunto la capacità di piegare questi ultimi ai nostri bisogni e, purtroppo, anche ai nostri capricci.

Di cosiddette “svolte epocali” l’umanità ne ha viste e vissute tante, ma oggi questi termini non sono più sufficienti per descrivere ciò che sta accadendo durante la nostra esistenza.

Farina di grilli e consumo inconsapevole di insetti.

In Italia sta creando scalpore l’autorizzazione rilasciata dall’Ue della commercializzazione della polvere parzialmente sgrassata del grillo domestico (Acheta Domesticus) come nuovo alimento.

Iniziamo col dire che la commercializzazione di insetti a scopo alimentare era già stata introdotta in Europa il primo gennaio 2018 con un altro Regolamento Ue dedicato ai cosiddetti “novel food”, cioè il riconoscimento di insetti interi sia come nuovi alimenti che come prodotti tradizionali da Paesi terzi.

Sappiate che oltre ai grilli domestici (Acheta domesticus), nell’Unione Europea è già possibile commercializzare anche la larva gialla della farina (Tenebrio Molitor) e la Locusta migratoria.

L’EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare) a tal proposito, ci tiene a precisare, per la tranquillità dei futuri consumatori che, sebbene i regolamenti che disciplinano l’immissione sul mercato di questi nuovi alimenti siano recenti, non si deve pensare ai “novel food” come a qualcosa di non conosciuto e rivoluzionario.

Questi nuovi alimenti, infatti, sono presenti da sempre nella nostra alimentazione, seppur spesso si faccia fatica a ricordarlo.

Si trovano, ad esempio, soprattutto in quei prodotti che presentano una colorazione rossa o tendente a queste tonalità: al posto del colorante vegetale, spesso viene usato un prodotto noto come estratto di cocciniglia.

È possibile trovarlo negli yogurt, succhi di frutta, bitter, liquori, caramelle o ancora certe marche di aranciata, dove la dicitura che ne segnala la presenza è “Colorante E120” o “acido carminico”.

Chi di noi quest’estate non ha fatto un aperitivo sorseggiando uno spritz?

Beh io fortunatamente quasi ogni sera e quasi ogni sera ho fatto un aperitivo con gli insetti.

 Il colorante rosso dello spritz, infatti, è prodotto con derivati della cocciniglia. Nessuno lo sa, nessuno si sconvolge.

Va poi ricordato che ci sono tutta una serie di altri insetti che inevitabilmente finiscono già in altri cibi.

A certificarlo è stato uno studio del Centro per lo Sviluppo Sostenibile e dall’Università Iulm di Milano. I

l consumo inconsapevole medio di insetti per gli italiani si aggira ogni anno sui 500 grammi:

questi animali sono considerati contaminanti alimentari comuni e sono tollerati in piccola percentuale.

Dall’aranciata coi moscerini (fino a 5) alla cioccolata con 8 pezzetti di insetti, per non parlare poi di insalate, passate di pomodoro e succhi di frutta, lo studio sottolinea come la farina di insetto approvata dall’UE potrebbe essere solo un’aggiunta ad una già nutrita lista di insetti che finiscono nei piatti.

In Italia intanto con buona pace dei ministri Francesco Lollobrigida e Matteo Salvini (che l’ha definito «una follia») stanno per arrivare sulle tavole i primi spaghetti torinesi a base di farina di grillo.

Sono prodotti da Italian Cricket Farm, azienda di Scalenghe (To), nata nel 2007 e prima società italiana a chiedere l’autorizzazione per commercializzare polvere di grilli sul mercato alimentare umano.

 Il via libera definitivo della vendita che dovrebbe arrivare tra 60 giorni, porterà dunque la pasta di grilli nei supermarket e nei ristoranti.

 Oltre che miele, barrette energetiche e biscotti ottenuti con polvere di grillo domestico.

Ricordiamo, inoltre, che oltre al grillo domestico si possono già mangiare cavallette, locuste e larve gialla della farina.

Che sapore ha la pasta di farina di grilli.

Ma al dì là della polemica e dei sì o dei no, la domanda che tutti si fanno è: come è e che sapore ha la pasta di farina di grilli?

All’occhio la pasta di Italian Cricket Farm ha un colore più scuro, simile a quella integrale, il sapore si avvicina a mandorla e nocciola, ma dipende da quanta farina di grillo si mette nel piatto.

 E, proprio per questo suo sapore, la farina di grillo è perfetta con i prodotti da forno, sia dolci che salati ed è ideale per pane, crackers, biscotti e torte.

Sembrerebbe buona, dunque.

 Così come anche dal punto di vista nutrizionale: i grilli sono altamente proteici. Proteine complete di alta qualità, contenenti tutti gli amminoacidi essenziali.

 Ma non solo, i grilli sono una fonte ricca di fibre e minerali come il calcio e il ferro (oltre il doppio di ferro rispetto agli spinaci), di vitamina B12 (una vitamina carente nella dieta vegetariana e vegana) e di acidi grassi omega 3.

Ricordiamo, inoltre che non si usano antibiotici per fare crescere i grilli.

Praticamente, portando in tavola le tagliatelle con farina di grillo e altre pietanze a base di questo alimento, potremmo favorire la crescita e lo sviluppo dei muscoli e il rafforzamento delle ossa.

Inoltre sembra che aiutino a prevenire problematiche quali l’anemia sideropenica e quella megaloblastica.

Ma, nonostante ciò, i cibi con gli insetti continuano a dividere e Gian Marco Centinaio, sottosegretario alle Politiche agricole, si è schierato ancora una volta contro i piatti a base di insetti:

“Nel nostro e in altri paesi europei il cibo è tradizione, cultura e identità. La Dieta Mediterranea è riconosciuta dal 2010 patrimonio immateriale dell’Umanità dall’Unesco e da anni è considerata, anche oltreoceano, come la migliore al mondo.

 Un regime alimentare semplice, equilibrato che non solo concorre a contenere e prevenire diverse patologie ma è anche sostenibile.

 Ai nuovi alimenti a base di insetti continuiamo a preferire, difendere e valorizzare il nostro” Made in Italy”.

Sebbene in molti, allineandosi alla linea di pensiero patriottica e nazionalista di Centinaio saranno contrari a questa nuova forma di cibo e alimentazione, il business del mercato degli insetti commestibili, considerati cibo del futuro, cresce vertiginosamente e oggi vale quasi un miliardo di euro nel mondo.

Vorrei però soffermarmi a pensare e prendere in considerazione una questione:

fra i vari comportamenti che vengono definiti “intelligenti” si ritrova costantemente l’adattamento, ossia la capacità dell’individuo di sapersi adeguare alle mutevoli circostanze dell’ambiente fisico e sociale.

Molti studiosi definiscono l’intelligenza come la capacità di cambiare insieme con il mondo che ci circonda.

La società evolve sempre più velocemente nel mondo contemporaneo.

 Nella storia, anche in quella più recente, non era mai accaduto che si verificassero mutamenti profondi nell’organizzazione del lavoro, del proprio tempo, nella vita privata e nelle sue abitudini ed i suoi ritmi, mutamenti tali da interessare generazioni intere.

 Ciò comporta e comporterà uno sforzo di adattamento via via crescente per le generazioni coinvolte.

Sapersi adattare significa allora essere aperti a eventuali modificazioni delle nostre abitudini, della nostra vita e, alla lontana, anche del nostro modo di pensare.

 Chissà fino a che punto saremo in grado di accogliere un cambiamento oppure preferiremo sempre il “Meno sai e meglio stai”.

 

La rivoluzione politica dietro l’angolo del 2023.

zerozeronews.it - Gianfranco D'Anna – (8 Dicembre 2022) – ci dice:

 

 Sturm und Draghi. Facciata populista e continuità con Mario Draghi.

 La definizione che tanto a Bruxelles quanto a Roma negli ambienti politico istituzionali viene data del rodaggio del governo di Giorgia Meloni, rassicura i mercati e grazie alla garanzia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella scongiura l’incombente rigidità dell’Europa.

La rivoluzione politica dietro l’angolo del 2023.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Premier Giorgia Meloni.

Dopo aver domato e guadato, con la tradizionale fiducia di fine anno utilizzata da tutti i Governi, il fiume in piena della manovra finanziaria, l’intelligenza politica e l’abilità manovriera della Premier stanno già prefigurando il soqquadro degli scenari politici del 2023.

La crescita esponenziale del consenso popolare e l’effetto calamita di Giorgia Meloni, l’implosione di Forza Italia e della Lega finora ostinatamente ancorata alla zavorra di Matteo Salvini, per non parlare della frantumazione di un Partito Democratico alla ricerca di leadership e di motivazioni esistenziali, preannunciano per il nuovo anno una rivoluzione politica in cui nulla sarà più come prima.

Dall’identità europea e atlantica del Governo, etichettato come Meloni – Mattarella nelle capitali che contano, all’assetto della maggioranza e dei partiti, il big bang del proditorio rovesciamento del Governo Draghi e l’effetto delle elezioni del 25 settembre, stanno imprimendo una profonda trasmutazione generale della politica, delle leadership e della stessa conformazione delle aggregazioni partitiche.

Attorno alla governabilità e alla stabilità assicurata da Giorgia Meloni, che all’inizio dell’anno dovrebbe recarsi in visita ufficiale a Washington, si stanno saldando un vasto movimento di opinione pubblica, intellettuali, protagonisti dei settori produttivi, rappresentanti delle istituzionali e gli esponenti politici nazionali e regionali spiazzati dalla polverizzazione dei partiti originari.

Un Meloni party più pragmatico che ideologico, a metà strada fra i repubblicani progressisti ed i democratici non liberal americani, in grado secondo i sondaggisti di sfiorare il 40% dei consensi elettorali.

Ancora latente, ma sempre più consistente, per essere varata la nuova dimensione politica della Premier attende soltanto l’eclissi di Salvini, alle prese con la resa dei conti all’interno della Lega, e l’esito dell’imperscrutabile duello con l’immortalità politica di Silvio Berlusconi.

La rivoluzione politica dietro l’angolo del 2023.

Al conseguente riassetto della maggioranza, e all’eventuale rimpasto di Governo, potrebbe corrispondere una nuova configurazione delle opposizioni.

Più che il Pd, alle prese col rischio di una disintegrazione per la collisione Bonaccini-Schlein per la segreteria, sarà il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte a caratterizzare l’azione di contrasto alla nuova maggioranza di governo.

Un’azione di contrasto distinta e distante dai “vaffa” di Grillo e che da più parti si teme tuttavia possa innescare, anche se del tutto involontariamente, una deriva di incontrollabili risentimenti aggressivi e al limite del revanscismo pseudo terroristico, sul versante dell’abolizione del reddito di cittadinanza.

 Un revanscismo dietro il quale c’è il vuoto politico di un movimento ormai trasformatosi in un supermarket di rivendicazioni contraddittorie:

pseudo ambientalismo e sostanziale giustificazionismo della devastante invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, ostracismo contro le infrastrutture essenziali per il Paese e strizzata d’occhio alla pervasività Cinese e Russa.

L’ago della bilancia e insieme l’alternativa politica dell’opposizione potrebbe essere rappresentata da Azione di Carlo Calenda e Matteo Renzi.

Un terzo polo in grado di inglobare la galassia in frantumi del Pd, di interpretare la tumultuosa evoluzione sociale ed economica in corso e di rappresentare la necessaria alternativa democratica.

Se i cerchi concentrici originati dalle elezioni del 25 settembre hanno avviato tutta una serie di inevitabili cambiamenti, la crescita personale dei leader e la capacità di trasformare i cambiamenti in una nuova dimensione politica sono svolte decisive che al momento soltanto Giorgia Meloni e Carlo Calenda evidenziano di essere capaci di compiere.

Istintivamente entrambi hanno infatti dimostrato di voler perseguire quanto affermava Luigi Einaudi: “la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica.”

 

 

 

Meloni, rivoluzione fisco,

al centro dipendenti e pensionati.

Ansa.it-Redazione Ansa – (9-02-2023) – ci dice:

 

Più debito pubblico in mano a italiani.

Avanti con taglio cuneo.

"Occorre rivoluzionare il rapporto tra fisco e contribuente, e fare in modo che l'evasione si combatta prima ancora che si realizzi".

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, annuncia in un'intervista al direttore del Sole 24 Ore Tamburini, una "legge delega che toccherà tutti i settori della fiscalità" e che "metterà al centro anche i dipendenti e i pensionati, con misure ad hoc".

C'è l'impegno alla messa in sicurezza del debito pubblico aumentando "il numero di italiani e residenti in Italia che detengono quote".

A proseguire con i tagli al cuneo fiscale. Infine, "sostituire il reddito di cittadinanza con misure concrete".

L’Ucraina della “Rivoluzione della Dignità”:

dalla rivoluzione politica

alla rivoluzione culturale (?)

andergraundrivista.com - Simone Attilio Bellezza – (14 novembre 2022) ci dice:

 

La svolta democratica: la rivoluzione del 2013-2014.

La Rivoluzione della Dignità del 2013-2014 (o Euromajdan, come viene chiamato spesso in occidente) ha costituito una tappa fondamentale nel processo di formazione della nazione ucraina come una comunità politica, sociale e culturale coesa:

 le proteste popolari contro l’allora presidente Viktor Janukovyč erano state causate dalla sua decisione di abbandonare la politica di collaborazione con l’Unione Europea a favore di un riavvicinamento alla Federazione russa.

Le ragioni dello scontento popolare erano però più profonde e legate al tentativo messo in atto da Janukovyč di trasformarsi in dittatore seguendo le orme del suo padrino politico Vladimir Putin.

Le proteste, poi sfociate in una vera e propria rivoluzione con tanto di fuga del presidente e conseguente vuoto istituzionale, si connotarono politicamente in maniera molto precisa:

gli ucraini rivendicavano un orgoglio nazionale legato alla propria scelta democratica ed europeista (testimoniato già dalle proteste del 2000-2001 e dalla rivoluzione arancione del 2004-2005), anche attraverso la contrapposizione sempre più netta con l’elemento russo, visto come simbolo di ingiustizia e dittatura.

La retorica del Majdan Nezaležnosti (Piazza dell’Indipendenza al centro di Kyïv), con i suoi frequenti richiami alle tradizioni “democratiche” della Rus’ di Kyïv e della tradizione cosacca, fu un’ulteriore conferma che l’identità ucraina post-sovietica si stava costruendo attorno ai principi di democraticità e di appartenenza all’Europa.

Lo stereotipo antirusso trovò conferma nell’invasione della Crimea e delle regioni occidentali di Donec’k e Luhans’k da parte di Mosca, che aveva attaccato il nuovo corso politico ucraino nel tentativo di far fallire la costruzione di un genuino regime democratico.

Oltre che alle riforme politiche, al nuovo presidente ucraino Petro Porošenko è toccato così anche di immaginare una nuova politica culturale del Paese che, da una parte, contribuisse al rafforzamento dell’identità collettiva nello sforzo bellico ad est contro la Russia e, dall’altra, traducesse praticamente la richiesta di costruzione di una cultura nazionale nettamente distinta da quella russa.

 Sono stati tre gli ambiti principali d’azione del nuovo corso ucraino:

la politica della memoria storica, la politica linguistica e, infine, quella religiosa.

Si procederà qui ad analizzare sinteticamente questi tre differenti ambiti per concludere poi con un paragrafo sulla politica della cultura cinematografica dedicato al caso del Centro Nazionale “Oleksandr Dovženko”, che costituisce un interessante esempio pratico di cosa si intenda per conservazione e promozione della cultura nazionale.

Courtesy of Vitalij Grybov.

La politica della memoria.

La saldezza della costruzione di un’identità nazionale dipende molto dalle politiche della memoria messe in atto in ciascun stato:

 in Ucraina questa è oggetto dell’azione dell’Istituto Ucraino della Memoria Nazionale, fondato nel 2006.

Porošenko scelse come direttore l’attivista politico e “public historian” Volodymyr V’jatrovyč:

originario di Leopoli, dopo gli studi all’università cittadina si fece subito notare per la forte ispirazione politica delle sue ricerche, dedicate soprattutto alla Seconda guerra mondiale e ai partigiani nazionalisti, di cui spesso ignorava colpevolmente i crimini commessi durante il conflitto contro ebrei e polacchi.

V’jatrovyč fu il principale ispiratore (e forse anche autore) di un pacchetto di leggi denominate “leggi sulla decomunistizzazione”, che nel 2015 furono prima discusse e poi approvate dal Parlamento, creando un grande scandalo internazionale.

Il testo di questi quattro provvedimenti prevedeva infatti il divieto di celebrare i regimi totalitari, sia quello nazi-fascista sia quello comunista, e istituiva norme precise sulla commemorazione della lotta dei nazionalisti ucraini.

 Il testo era sufficientemente impreciso da suscitare i timori che esso potesse colpire non soltanto chi faceva vera e propria apologia dei regimi hitleriano e staliniano, ma anche impedire un normale dibattito pubblico e scientifico sul passato nazionale.

Diveniva inoltre reato accusare pubblicamente i partigiani nazionalisti di quei crimini che essi avevano effettivamente compiuto durante la guerra e queste leggi furono quindi fortemente criticate soprattutto in ambito internazionale dalla diaspora ucraina in occidente.

 Ciononostante, negli anni successivi la magistratura applicò raramente e con grande tolleranza la legge, evitando che questa norma potesse ledere la legittima libertà d’espressione.

Nel pacchetto era anche inclusa una norma che rendeva pubblico il patrimonio degli archivi dell’ex-KGB ancora conservato dal Servizio di Sicurezza dell’Ucraina post-sovietico:

a dirigere questo archivio fu chiamato lo storico Andrij Kohut che ha saputo distinguersi per la sua capacità di rendere facilmente accessibili quantità sempre crescenti di documenti.

Questa politica archivistica particolarmente liberale aveva come fine anche quello di favorire lo studio del periodo sovietico e si rivelò un grande successo poiché la contestuale progressiva chiusura degli archivi russi ha fatto sì che sempre più storici del periodo sovietico, provenienti da tutti i paesi del mondo, decidessero di dedicarsi alla storia ucraina sfruttando la grande quantità di documenti disponibili.

Nelle elezioni politiche presidenziali del 2019 il candidato dell’opposizione Volodymyr Zelens’kyj ebbe la meglio su Porošenko:

 il nuovo presidente era un ebreo russofono e aveva vinto con una proposta politica che insisteva meno sull’opposizione alla Russia e cercava di immaginare una via d’uscita dal conflitto.

Zelens’kyj prese la decisione di sostituire V’jatrovyč con Anton Drobovyč, un attivista di formazione filosofica con forti legami in occidente.

Quest’ultimo ha smorzato i toni nazionalisti del suo predecessore, mentre ha continuato sulla linea di maggiore apertura degli archivi, con varie iniziative dedicate alla storia delle repressioni sovietiche che davano la possibilità ai discendenti di cercare il destino dei propri familiari scomparsi o uccisi.

La politica linguistica.

La guerra della Russia all’Ucraina ha avuto fra le altre conseguenze quella di rappresentare un punto di svolta per l’appartenenza linguistica.

La compresenza delle due lingue aveva infatti reso gli ucraini bilingui passivi quasi nella loro totalità e un’altissima percentuale pratica anche un bilinguismo attivo, scegliendo di usare ciascuna lingua in ambiti differenti.

L’invasione russa ha creato un momento di forte tensione:

 la propaganda putiniana utilizzava infatti l’argomento della difesa dei russofoni come giustificazione del suo intervento nelle regioni orientali, rendendo la lingua di comunicazione interpersonale una scelta ideologica.

In reazione all’invasione un numero crescente di ucraini ha scelto coscientemente di limitare se non addirittura di rinunciare completamente all’uso del russo per parlare ucraino.

Tale dinamica spontanea dal basso è stata accompagnata da un dibattito in politica e nella sfera della cultura.

Questo contesto ha permesso al governo ucraino di inaugurare per la prima volta nella storia dell’Ucraina post-sovietica una politica linguistica volta a tutelare la lingua ucraina:

si è abolita la legge sulle minoranze linguistiche approvata da Janukovyč nel 2012, che permetteva alle amministrazioni locali di utilizzare il russo come lingua ufficiale.

 Nel 2017, all’interno della riforma del sistema educativo, si è stabilito che sia possibile studiare a scuola in lingue differenti dall’ucraino solo nei primi quattro anni di scuola;

successivamente tutte le materie (ad eccezione delle lingue straniere) devono essere insegnate in ucraino.

Questa norma è stata giustamente criticata dalla “Commissione di Venezia” e ha causato alcuni attriti soprattutto nella minoranza ungherese:

 i magiari d’Ucraina erano infatti soliti compiere il percorso scolastico in ungherese per poi trovare lavoro o proseguire gli studi all’università in Ungheria.

Questa nuova legge costituisce oggettivamente un handicap per le minoranze linguistiche e deve per questo essere emendata, va però notato che non vi sono state significative proteste al riguardo da parte dell’ipotetica popolazione russofona dell’Ucraina a ulteriore conferma del fatto che la scelta in favore dell’ucraino era ormai appoggiata dalla maggioranza della popolazione.

Nel 2019, a termine del suo mandato, Porošenko è riuscito anche ad approvare la legge che traduceva praticamente il principio della costituzione del 1996 (già presente nella costituzione sovietica del 1989) secondo cui l’ucraino è la lingua di stato.

 Questa legge stabilisce che la prima lingua di comunicazione in ambiti ufficiali e pubblici debba essere l’ucraino, anche se prevede che il cittadino possa continuare a utilizzare un’altra lingua in risposta agli ufficiali che utilizzano l’ucraino.

L’ucraino è inoltre la lingua che deve essere usata nei mezzi di comunicazione di massa (come la televisione e la stampa, ma l’utilizzo di altre lingue straniere, fra le quali anche il russo, è consentito a patto che non superi il 49% della produzione totale.

 La legge è entrata pienamente in vigore a partire dal novembre 2021:

Zelens’kyj ha deciso di non modificarla e di applicarla così come era stata approvata, dimostrando un desiderio di continuità nella politica linguistica.

La politica religiosa.

La popolazione ucraina è divisa fra molte confessioni cristiane e include numerose comunità religiose più piccole, fra le quali l’ebraica e la musulmana.

Tale molteplicità religiosa non è problematica, con la sola eccezione della chiesa ortodossa del patriarca di Mosca:

quest’ultima ha infatti sempre più legato il suo destino al potere politico putiniano e si è schierata più di una volta a sostegno di Mosca e delle sue politiche espansionistiche.

 Dopo l’inizio del conflitto nel 2014, la gerarchia della Chiesa ortodossa del Patriarcato di Kyïv, che era formalmente sottomessa al patriarca di Mosca, si è mossa di concerto con il presidente Porošenko per ottenere la piena indipendenza: l’azione del presidente ucraino si è rivelata risolutiva e il patriarca di Costantinopoli, nel gennaio 2019, ha concesso l’autocefalia al Patriarcato di Kyïv.

Il Patriarcato di Mosca ha reagito dichiarando uno scisma dal resto delle chiese ortodosse che riconoscono l’autorità del patriarca di Costantinopoli.

Anche a seguito di questa autonomia, la forza della chiesa del Patriarcato di Kyïv è cresciuta negli anni successivi, vedendo invece diminuire il numero di fedeli e di chiese che riconoscono il patriarcato di Mosca.

 Benché sia vero che spesso i credenti non conoscono nemmeno l’appartenenza della propria parrocchia alle varie confessioni (anche a causa della comunanza del rito ortodosso), questo passo ha significativamente rafforzato l’identità nazionale, poiché nella tradizione ortodossa ogni nazione ha diritto a una chiesa nazionale autocefala e Porošenko ha abilmente venduto l’autocefalia come una sua vittoria nella costruzione di uno stato pienamente indipendente.

Una politica attiva nella promozione della cultura nazionale.

Oltre che nei succitati ambiti di “macro politica” l’Ucraina post-Rivoluzione della Dignità ha avviato una politica specifica nell’ambito della promozione di una cultura nazionale.

Quest’ambito è altamente problematico: non è così semplice definire in termini precisi cosa sia la cultura nazionale e come essa vada promossa.

Era tuttavia evidente che, anche a fronte della aggressiva propaganda russa anche a livello di mezzi di informazione internazionali, che la cultura ucraina dovesse trovare maggiori ambiti di espressione e sviluppo.

Un vero punto di svolta è stato rappresentato dall’istituzione nel giugno del 2017 dello “Ukrainian Institute”, ovvero una istituzione il cui compito è quello di far conoscere la cultura ucraina nel mondo.

 Entrato in funzione nell’estate del 2018, con la nomina a direttore dell’esperto di promozione culturale Volodymyr Šejko, questo istituto ha rappresentato un’innovazione che metteva l’Ucraina e la sua cultura allo stesso livello delle grandi culture nazionali mondiali, promuovendo progetti internazionali di collaborazione e divulgazione scientifica e artistica.

I successi, nonostante gli scarsi fondi su cui il governo ucraino poteva contare, hanno portato alla riconferma del direttore alla fine del 2021; l’Istituto ha significativamente contribuito a creare un clima di collaborazione con l’Ucraina all’estero dopo l’attacco del 24 febbraio.

Nell’ambito della promozione di una cultura nazionale sul fronte interno, un’iniziativa culturale di grande portata è stato il rilancio del “Centro Nazionale Oleksandr Dovženko”:

 nato in varie tappe dal 1994 al 2000, questo Centro intitolato al padre nobile del cinema ucraino costituisce il più grande archivio della produzione cinematografica nazionale, nonché il principale impianto di creazione e diffusione dei film.

Dal 2016 al 2019 il “Centro Dovženko” ha attraversato un periodo di completa ristrutturazione sotto l’abile guida del nuovo direttore, Ivan Kozlenko:

originario di Odesa e divenuto famoso grazie a un romanzo di argomento queer, Kozlenko si è adoperato per trasformare un archivio per specialisti in uno dei luoghi più interessanti di sperimentazione artistica del Paese.

 Il Centro ha accolto iniziative che venivano da tutte le altre arti, organizzando conferenze, mostre, spettacoli e proiezioni che l’hanno consacrato come uno dei principali centri di produzione e diffusione della cultura nazionale non solo della capitale, ma dell’intero Paese.

 Nonostante questi successi, il direttore non è stato confermato alla scadenza del mandato nel 2021 e all’inizio del 2022 il Ministero della Cultura ha annunciato di aver ceduto il “Centro all’Agenzia Statale Ucraina per il Cinema”, che ha dichiarato di voler scindere il centro in tre istituzioni separate.

 Nonostante le sovrastanti preoccupazioni dovute al conflitto, il mondo della cultura ucraina sta in questi mesi dibattendo del futuro di questo centro che così tanto aveva fatto per lo sviluppo artistico nazionale e per la promozione della cultura cinematografica ucraina.

 Ciò che si può constatare è che nel periodo seguito alla “Rivoluzione della Dignità “lo stato ha per la prima volta attuato una politica culturale attiva, basata su una legislazione apposita e sostenuta col finanziamento di specifiche istituzioni.

Tale politica è stata perseguita in maniera coerente da entrambi i presidenti e ha contribuito al rafforzamento del senso di appartenenza alla comunità nazionale ucraina, contribuendo così a spiegare la forza della coesione nazionale in reazione all’invasione su larga scala del 24 febbraio.

 

Una “rivoluzione intersezionale”,

la politica non sia miope.

Acri.it - Intervista ad Annalisa Corrado – 1(5 Novembre 2022) – ci dice: 

 

Annalisa Corrado è un’ingegnera meccanica, ecologista e da sempre attivista per la giustizia climatica, co-portavoce dell’associazione “Green Italia” e responsabile delle attività tecniche dell’associazione “Kyoto Club”.

Abbiamo raccolto le sue idee sulla “transizione ecologica”.

Cos’è per lei la transizione ecologica?

La transizione ecologica è una rivoluzione sistemica che dovrebbe spingere la nostra economia e il nostro modello di sviluppo a “transitare”, appunto, da un modello dominato dall’utilizzo (dissennato) di fonti fossili a un “modello di decarbonizzazione totale”, attraverso l’utilizzo sostanziale di “fonti rinnovabili”.

 Non si tratta di un percorso meramente tecnologico ma intersezionale, perché è tutto il sistema che necessita di essere modificato.

Non è sufficiente trasformare la modalità di generare e distribuire energia, ma bisogna incidere anche su tutti gli altri settori:

dall’industria al residenziale, dall’agricoltura e l’allevamento al turismo, dall’educazione alle scelte individuali, dalle decisioni a livello nazionale ai rapporti internazionali e geopolitici.

Come attuare questa rivoluzione sistemica?

Ci sono sperimentazioni valide che potrebbero diventare modelli da replicare su larga scala?

Assolutamente sì.

 Nel mondo sono ormai numerose le comunità territoriali che hanno fatto della transizione ecologica un obiettivo concreto, con una strategia e delle azioni chiare.

Per rimanere vicini a noi, il Portogallo ha fatto passi da gigante, ma anche città importanti come Barcellona e Parigi stanno realizzando delle vere e proprie rivoluzioni nella gestione complessiva della città.

L’Italia non è da meno, tante sono le economie territoriali e locali che hanno avuto un ruolo da apripista nel mondo della sostenibilità e della transizione ecologica.

Con Alessandro Gassmann abbiamo co-ideato il progetto “Green Heroes”, proprio allo scopo di raccontare queste esperienze, attraverso le figure visionarie, “eroiche”, che le realizzano, dimostrando che ci sono delle soluzioni efficaci, che apportano benefici ai territori, alle persone, alla salute, alla salubrità e che fortificano l’economia, portano fatturato e posti di lavoro.

 Le buone pratiche, dunque, ci sono, c’è consapevolezza, ci sono le conoscenze scientifiche, le tecnologie, gli strumenti, a mancare è la volontà politica di rendere la transizione un progetto concreto.

Perché manca la volontà politica di realizzare la transizione ecologica?

Io penso ci sia un ancoraggio molto forte ai modelli passati, quelli novecenteschi, anche a causa degli interessi dei grandi gruppi che influiscono in maniera determinante sulle decisioni politiche.

Si tratta di modelli ancora molto centralizzati di produzione dell’energia, che non credono nelle possibilità delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, dell’elettrificazione dei consumi.

È come se fossimo timorosi di affrontare un cambiamento radicale, e a causa di questo timore stiamo perdendo importanti occasioni.

Quali occasioni?

Un caso molto emblematico è quello dell’automotivo:

 il più grande gruppo italiano del settore si è rifiutato di vedere nell’elettrico una prospettiva, ha cominciato a farlo solo recentemente, arrancando, invece di rimanere competitivo a livello internazionale.

Anche sulla plastica, in Italia abbiamo delle eccellenze a livello internazionale nella produzione di materiali monouso ma, vent’anni fa, non si è investito su questo primato per trasformare il settore e mantenerlo competitivo, ci si è invece arroccati, insistendo sul mantenimento di un’economia già destinata a scomparire.

Un’inerzia della trasformazione, insomma, che è autolesionista se si pensa anche alla bioplastica, materiale ideato da una scienziata italiana, Catia Bastioli, che guida la prima azienda, a livello internazionale, a produrre una plastica a base di amidi, cellulosa e oli vegetali.

Perché non puntare su queste eccellenze sostenibili e avanguardiste, invece di rallentare la transizione?

Nonostante questa inerzia, ci sono diversi movimenti sociali (soprattutto giovanili) che sono molto attivi su questo fronte e che hanno riportato la questione al centro del dibattito pubblico.

Ha fiducia in loro?

Sicuramente l’attenzione sul tema è stata potenziata e rinvigorita dai movimenti giovanili.

Si tratta di un segnale di attivismo molto importante.

Tuttavia non possiamo pretendere che siano loro a risolverlo, mi sembra una posizione deresponsabilizzante:

la situazione attuale è la conseguenza delle decisioni e delle azioni passate, quindi dovremmo essere tutti coinvolti.

Siamo tutti convocati alla causa, nessuno escluso.

Quella della transizione ecologica dovrebbe essere una battaglia intergenerazionale, oltre che intersezionale, anche perché, spesso, a una maggiore sensibilità non corrispondono proposte concrete e quindi una reale capacità collettiva di incidere.

Tutti devono essere coinvolti, scienziati, tecnici, decisori politici, non si può lasciare che siano solo i giovani a pretendere e avviare il processo di transizione e, contemporaneamente, cercare di trasformare un immaginario culturale e collettivo che considera spesso gli ecologisti come sognatori dai sentimenti nobili ma poco capaci e concreti.

Al contrario, l’ecologismo trova le basi anche da un incredibile avanzamento scientifico e tecnologico, che ne rafforza e concretizza le istanze.

 Tuttavia, nel dibattito politico si propongono ancora trivelle, inceneritori e impianti nucleari, come nel Novecento.

Come uscire da questa impasse?

Io credo che servano nuovi modelli di partecipazione popolare per incidere sull’agenda politica e sull’agenda mediatica, affinché anche a livello politico si considerino queste istanze e competenze sociali, per farne delle politiche concrete.

Oggi sono tanti gli eventi catastrofici ai quali stiamo assistendo, si contano i morti, i danni e i costi per i territori, anche in Italia.

È inqualificabile e irresponsabile corroborare un sistema che risponde solo agli interessi di piccoli gruppi di potere, che non hanno alcuna intenzione di abbandonare questi modelli.

 Bisogna dunque che entri in gioco anche la politica, non c’è altra strada.

Spesso si gioca sulla responsabilità individuale, sui comportamenti dei singoli cittadini:

 si invita a fare bene la raccolta differenziata, a consumare meno energia, a essere meno consumisti, ma a livello politico ed economico si continua a difendere e alimentare il sistema che ha portato alla situazione attuale.

C’è dunque un’ipocrisia e una deresponsabilizzazione di fondo.

Sicuramente è importante che ognuno di noi faccia la sua parte, ma non basta predicare ai singoli se a livello politico e istituzionale non si fa lo stesso.

Durante un’intervista, Martina Comparelli, portavoce dei “Fridays for Future” ha detto:

 «Per me lottare significa credere che le cose cambieranno, perché possono cambiare e perché ci faremo sentire».

 Secondo lei, le cose cambieranno?

 

Non si può non rispondere a questa domanda con «Per forza cambieranno»;

rispondere diversamente significherebbe vanificare tutto ciò in cui crediamo e cerchiamo di realizzare.

Non sappiamo chi vedrà i benefici di questa battaglia:

stiamo solo passando il testimone e tenendo accesa una fiaccola, ma non continueremmo se non credessimo che, prima o poi, sì, le cose cambieranno.

 

 

 

La ministra Locatelli: «In arrivo

una rivoluzione sulla disabilità»

avvenire.it - Viviana Daloiso – (7 febbraio 2023) – ci dice:

 

Pronti i cinque decreti attuativi della Legge delega, che in due anni scandiranno il nuovo approccio ai “progetti di vita” individualizzati.

Poi un Testo unico per integrare tutte le normative.

 Lo ripete convintamente, la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli, ad ogni convegno o incontro a cui partecipa nel tour lungo lo stivale che la vede protagonista dal giorno del suo insediamento:

«L’Italia sta diventando un Paese più inclusivo». 

Eppure i dati dicono cose differenti: degli oltre 3 milioni di persone che nel nostro Paese vivono con una forma grave di disabilità, quasi la metà non riesce a portare a termine un percorso scolastico, il 40% non partecipa a percorsi di formazione e non lavora, il 32% è a rischio povertà.

 E per tutti riuscire a salire su un treno, o su un autobus in una grande città, è spesso questione di fortuna.

Ministra, il suo è ottimismo o vede davvero segnali di svolta?

È chiaro che c’è ancora molto da fare:

visitare i territori, incontrare le istituzioni locali, il mondo dell’associazionismo e le famiglie è importante per ascoltare e capire i loro bisogni che sono differenti dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi e dell’assistenza, ma anche per conoscere i progetti di valore che riescono a realizzare.

Mi interessa incentivare le istituzioni a lavorare con tutte queste realtà, perché in questo modo i risultati si moltiplicano e già in molte regioni o enti locali si lavora così

. È un particolare periodo storico, sociale ed economico, difficilissimo per certi versi, ma che ci offre una grande opportunità:

ci sono i fondi del Pnrr, c’è la Legge delega da attuare, ci sono molti progetti innovativi che guardano al futuro.

 E poi c’è un nuovo sguardo sulla disabilità:

è finito il tempo della persona con disabilità per cui occorre “ritagliare” uno spazio. Adesso al centro ci sono tutte le persone con le loro competenze e i loro talenti che devono essere valorizzati per il bene della comunità e che possono portare un contributo di crescita per il Paese.

Se saremo in grado di cogliere queste occasioni, se sapremo accompagnare questo nuovo sguardo, potremo determinare una rivoluzione in tema di disabilità.

Entriamo proprio nel merito della Legge delega.

Che tempi si è data e quali sono i pilastri attuativi della norma?

La legge è stata approvata l’anno scorso e io ho il compito di attuare 5 decreti entro la fine del 2024.

Il primo istituisce la figura del “Garante nazionale”, il secondo agevola l’accessibilità nella Pubblica amministrazione, il terzo fissa le procedure per determinare i “Leps”, i cosiddetti “Livelli di prestazione sociale”.

Poi i due punti rivoluzionari.

L’accertamento per la disabilità, che fino a oggi è stato effettuato con il metodo delle percentuali e delle tabelle.

Si tratta di un cambiamento radicale di prospettiva, per cui istituiremo immediatamente un tavolo di lavoro.

 Infine, il decreto attuativo per il progetto di vita:

attraverso il progetto determineremo i bisogni effettivi della persona.

Resta il nodo scoperto dei caregiver…

Vogliamo costruire un provvedimento unico che sia condiviso da tutti i ministeri competenti e che risponda a tutte le necessità, quindi sia al caregiver di persone anziane non autosufficienti che al caregiver di persone con disabilità, con una particolare attenzione ai caregiver familiari conviventi.

 I caregiver familiari sono persone che amano e che curano, che non desiderano essere sostituite ma tutelate e sostenute nel loro compito.

Molte persone con le quali parlo mi chiedono di immaginare percorsi di sollievo che possano aiutarli a staccare ogni tanto per ricaricarsi di energie e maggiori possibilità di conciliazione attraverso misure specifiche e tutele.

Ha sollevato lo sdegno delle famiglie e delle associazioni la recente relazione della Corte dei conti sul “Dopo di noi”:

 la metà dei fondi destinati alla concretizzazione dei progetti di autonomia non sono stati spesi dalle Regioni e i beneficiari effettivi sono stati appena 8.424 soggetti, nemmeno il 10% della soglia minima della platea potenziale dei destinatari, stimata tra i 100 e i 150mila soggetti nella relazione tecnica alla legge.

Perché succede questo?

La legge 112 del 2016 sul “dopo di noi” è stata strategica e ha dato slancio al tema del progetto di vita, oggi centrale nel Pnrr e per l’Europa, oltre che per la legge delega italiana.

 Questa norma, tuttavia, non è stata compresa e capita fino in fondo, forse perché in alcuni punti troppo complessa.

È mia intenzione istituire a breve un tavolo con le associazioni e i soggetti coinvolti da cui possa uscire una proposta di miglioramento della norma, che la rende più facilmente applicabile.

 Serve anche un ragionamento con le Regioni, per capire cosa non funzioni. Quando parliamo di “dopo di noi” non possiamo non parlare anche del “durante noi” che è un tema di fondamentale importanza per le famiglie e che deve essere oggetto di ragionamento per il tavolo istituzionale.

Ma così non c’è il rischio che i bravi facciano sempre meglio, e i meno bravi restino al palo?

Per attuare pienamente questa legge è fondamentale costruire un percorso con le famiglie e con le associazioni.

Certo, è un lavoro faticoso, perché non si tratta di distribuire risorse secondo criteri prestabiliti, ma di costruire un percorso di vita che sia condiviso con la persona e la famiglia, di qualità e che tenga conto della parte sociale sanitaria e socio-sanitaria, ma soprattutto che possa essere realizzato con un budget di progetto che richiede la ricomposizione delle risorse.

Anche l’inclusione lavorativa non decolla ancora.

E anche qui c’è da attualizzare una legge, la 68 del 1999.

 Nel corso del tempo abbiamo visto che questi percorsi hanno successo soprattutto nelle aziende che hanno creato delle figure di sostegno e di accompagnamento dedicate.

Soprattutto, però, negli ultimi anni il mondo del terzo settore, le associazioni e le cooperative hanno saputo ideare percorsi innovativi:

penso a produzioni alimentari, a percorsi nel campo dell’agricoltura ed esercizi commerciali.

Sono state realizzate anche attività di inserimento lavorativo attraverso l’utilizzo della tecnologia e della digitalizzazione come per esempio l’archiviazione di documenti affidata ad associazioni che si occupano di formazione per persone con disturbo dello spettro autistico.

 

Tante leggi, tanti tavoli da riunire, tante modifiche da apportare…

A fine 2024, conclusa l’attuazione della legge delega, occorrerà un Testo unico sulla disabilità per porre ordine tra le norme e i fondi, perché nel corso del tempo si sono aggiunti sempre più in maniera frammentata.

Nel frattempo, per una persona disabile, resta difficile fare tutto: viaggiare in treno, entrare in un museo, andare a un concerto.

La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità è stata recepita dall’Italia nel 2009:

sancisce il principio dell’accessibilità universale ai servizi, tutti devono poter fare tutto e ovunque.

Nel nostro Paese purtroppo si continua ad “adattare”: le strutture, i mezzi di trasporto, l’accesso alle mostre e ai concerti.

 Serve un cambio di passo, che può nascere solo da un cambio di prospettiva:

la disabilità intesa non come competenza di chi la vive o della sua famiglia, ma come responsabilità che va condivisa con tutta la comunità.

Stiamo lavorando in questa direzione, ma fino a quando non si progetteranno strutture, mezzi di trasporto, mostre e concerti per tutti, e finché non ci sarà il salto di qualità nella piena attuazione delle norme e nella garanzia dei diritti sanciti dalla Convenzione Onu, serve qualcuno che porti più in alto la voce delle persone, delle famiglie e delle associazioni.

Mi auguro che presto questo percorso si completi: allora non ci sarà più bisogno di un ministero.

C’è un incontro, tra i molti che ha avuto, che l’ha colpita particolarmente?

Ogni volta che vado a visitare una realtà del territorio o ad incontrare le associazioni mi emoziono per il grande lavoro che fanno e per la passione e l’impegno che ci mettono.

Soprattutto quando vedo i ragazzi e le persone più fragili esprimersi in attività ricreative, sportive, ma anche lavorative.

È in questi momenti che colgo il grande valore del terzo settore, delle famiglie e mi convinco che non dobbiamo mai dimenticare che la persona è una e che ha bisogno di cure e assistenza ma anche di affetto, relazioni e attività sociali.

In particolare di recente ho incontrato Marta Russo (una giovane influencer molto seguita sui social, dove racconta la sua esperienza di disabile alle prese con le difficoltà di ogni giorno, ndr), con la quale ho potuto parlare di molte problematiche, ma in particolare delle borse di studio che finora si cumulavano con la pensione d’invalidità: le une escludevano l’altra.

Ho lavorato con gli uffici per modificare la norma e abbiamo inserito un emendamento apposito nella Legge di bilancio.

Ora le cose sono cambiate.

 

 

 

"Taglio del cuneo e stop al reddito".

Meloni prepara la rivoluzione fiscale.

Ilgiornale.it - Luca Sablone – (9 Febbraio 2023) – ci dice:

 

Il presidente del Consiglio indica la rotta: "È l'anno delle grandi riforme che nessuno ha avuto il coraggio di fare.

 Ora mettere al centro anche dipendenti e pensionati"

"Taglio del cuneo e stop al reddito".

Meloni prepara la rivoluzione fiscale.

Il 2023 ha preso il via da poco più di un mese nella totale consapevolezza che si tratta di una tappa di assoluto rilievo: per Giorgia Meloni abbiamo di fronte l'anno che permetterà di partorire tutte quelle "grandi riforme che l'Italia aspetta da tempo ma che nessuno ha avuto il coraggio di fare".

Così il presidente del Consiglio, nell'intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore, ha indicato la rotta che il governo intende seguire per risollevare le sorti del Paese e andare incontro alle esigenze degli italiani.

 

La rivoluzione fiscale.

Il primo ministro ha ribadito la necessità di apportare un notevole cambiamento rispetto al passato per quanto riguarda il rapporto tra fisco e contribuente.

Innanzitutto è indispensabile che l'evasione "si combatta prima ancora che si realizzi".

Il che rappresenta la premessa di una prossima legge delega "che toccherà tutti i settori della fiscalità" e che "metterà al centro anche i dipendenti e i pensionati, con misure ad hoc".

Meloni ha effettuato un bilancio positivo dei primi giorni dell'esecutivo di centrodestra, anticipando una serie di misure in arrivo e tracciando la strada da percorrere.

 L'obiettivo resta quello di "mettere al sicuro il nostro debito da nuovi shock finanziari": a tal proposito vanno avanti i lavori con Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia, proprio per l'aumento "del numero di italiani e residenti in Italia che detengono quote del debito".

Il presidente del Consiglio ha fatto notare che la sostenibilità della finanza pubblica non può essere persa di vista, specialmente se si ha un debito pubblico elevato come il nostro.

 Tuttavia ha assicurato che, nonostante i tassi d'interesse della Bce in rialzo, "lo spread è basso e il debito non è esploso".

 In sostanza ha garantito che la situazione finanziaria del nostro Paese "è sotto controllo".

Resta ferma l'intenzione di rendere sostenibile il debito attraverso "la crescita economica, non le politiche di cieca austerità viste negli anni passati".

Il taglio del cuneo e lo stop al Rdc.

Meloni ha inoltre illustrato due pilastri che stanno caratterizzando l'operato politico del governo nei suoi primissimi passi.

L'impegno dell'esecutivo, sempre tenendo bene in mente le risorse economiche a disposizione, prevede da una parte "tagli consistenti al cuneo fiscale" e dall'altra la sostituzione del reddito di cittadinanza "con misure concrete di contrasto alla povertà".

Anche perché la misura che porta la firma del Movimento 5 Stelle in questi anni "ha fallito tutti gli obiettivi per i quali era nato".

Il ruolo del governo.

Dal giorno del suo insediamento il primo ministro ha avuto oltre 60 colloqui e incontri con capi di Stato e di governo.

Proprio su questo punto ha fatto notare che "nel mondo c'è tanta voglia di Italia" e l'esecutivo si è detto del tutto pronto "a rispondere a questa domanda".

"Da pericolo a leader più popolare dell'Ue". Anche il Times incorona Meloni.

Un ruolo così forte è reso possibile grazie al chiaro risultato elettorale emerso domenica 25 settembre, quando gli italiani hanno consegnato al centrodestra le chiavi del Paese.

Quello in carica è un governo politico, formato da partiti premiati dagli elettori e che porta avanti un programma incoronato dagli stessi.

Da qui la grande dose di fiducia da parte di Giorgia Meloni:

"Gli italiani ci hanno voluto per segnare una netta discontinuità con chi ci ha preceduto a Palazzo Chigi. E i provvedimenti che abbiamo adottato lo dimostrano".

 

 

 

IRAN, LA RIVOLUZIONE DEI LAVORATORI.

 

Rivistailmulino.it - Stella Morgana – (08 DICEMBRE 2022) – ci dice:

Precari e divisi da anni di politiche di stampo neoliberista e repressione, i lavoratori iraniani hanno iniziato alcuni scioperi locali in solidarietà con le proteste.

Ma uno sciopero di massa è ancora lontano.

“Ormai non abbiamo più paura. Lotteremo”, così uno slogan imprimeva uno scarto di paradigma alle proteste di piazza in Iran, scattate dopo la morte di Mahsa Jina Amini il 16 settembre 2022, in seguito al suo arresto da parte della cosiddetta polizia morale (Garsht-e Ershad).

 Era il 7 ottobre e quelle parole tracciate con una bomboletta spray su un lenzuolo bianco che campeggiava su un ponte della Modarres, una delle autostrade più trafficate di Teheran, sancivano l’impensabile divenuto realtà.

Il regime non fa più paura.

La lotta punta in alto, parte da “donna, vita, libertà” contro l’obbligo del velo, ma vuole andare oltre.

La parola “riforma” cede il passo al desiderio di rivoluzionare un sistema che ha perso legittimità in diversi segmenti della popolazione, in primis tra le donne e i giovani, contro un regime che però appare ancora compatto seppur attraversato da un acceso dibattito interno.

La spaccatura tra Stato e società sembra diventata incolmabile.

L’ordinario si è fatto miccia di una protesta che parte dal velo, ma non è più individuale o confinata alla sola questione femminile.

Questa cresce lentamente, ma si fa collettiva, nonché traversale in tema di classe, generazione, componente settaria, distribuzione geografica.

Proprio in quei giorni alcuni gruppi di lavoratori iniziano a solidarizzare con le manifestanti e gli uomini scesi in piazza per sostenere le donne in prima linea.

 Tra le prime immagini a fare il giro del mondo, grazie a un video amatoriale diffuso da Bbc Persian, sono quelle degli operai petroliferi di Asaluyeh, nella provincia di Busher.

 Nelle settimane successive, tra fine ottobre e metà novembre, insegnanti e operai iniziano a organizzare sit-in e scioperi locali, a Teheran, Isfahan, Abadan e altre località nel Kurdistan iraniano.

 I negozianti abbassano le saracinesche a Saqqez, la cittadina d’origine di Mahsa Jina Amini.

Il potenziale rivoluzionario della partecipazione dei lavoratori è tanto promettente quanto di difficile esplosione.

 I numeri degli operai che partecipano agli scioperi, dalla famosa fabbrica d’acciaio di Isfahan a quelli dell’industria petrolifera nel sud del Paese, sono ancora limitati.

Le iniziative sono prive di un coordinamento nazionale e di leadership consolidata.

A gestire le proteste indipendenti sono principalmente lavoratori precari, assunti con contratti a tempo determinato.

Un vero e proprio movimento dei lavoratori coeso, forte e su base nazionale al momento non esiste, nonostante le spinte dal basso di iniziative come quelle del sindacato autonomo degli autisti Sherkat-e Vahed di Teheran o quello della fabbrica di zucchero Haft Tapeh nel Khuzestan iraniano, che sono state obiettivo di diverse ondate di repressione negli ultimi anni.

In un Iran dove quasi il 90% dei contratti è temporaneo e le agenzie mediano i rapporti di lavoro, il potenziale del movimento operaio è precario, privo di leader nazionali e reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel minimo introito economico.

Lo sfilacciamento del tessuto sociale e collettivo di oggi fonda le sue radici non solo nell’oppressione dei movimenti indipendenti, laddove i sindacati autonomi non hanno alcun riconoscimento giuridico nello statuto del lavoro della Repubblica islamica.

 La difficoltà di organizzazione politica, trasversale di classe – e quindi di un’alleanza coesa tra le peculiari istanze operaie di giustizia sociale e le altre rivendicazioni politiche emerse nelle proteste – trova fondamento nelle politiche di stampo neoliberista implementate a partire dagli anni Novanta, iniziate con il presidente pragmatico Hashemi Rafsanjani.

Erano gli anni di ricostruzione dopo otto estati di guerra con l’Iraq (1980-1988), quelle del “produci e consuma” per la Repubblica islamica, quelle del mito del vincente e dell’esaltazione dell’individuo.

Negli ingranaggi di quel mantra volto a liberalizzare il Paese e ad aprirlo alla scena internazionale hanno anche trovato spazio le diverse riforme legislative che – a più riprese e sotto diversi governi – hanno indebolito il potere contrattuale dei lavoratori.

 E oggi, in un Iran dove quasi il 90% dei contratti è temporaneo e le agenzie mediano i rapporti di lavoro, il potenziale del movimento operaio è precario, frammentato, privo di leader nazionali e coordinamento capillare, reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel minimo introito economico.

I lavoratori sono ancora ai margini di queste proteste che hanno dimostrato caratteristiche evolutive uniche e di natura rivoluzionaria, anche se ancora sono esposte a una serie di vulnerabilità politiche dovute principalmente alla mancanza – allo stato attuale delle cose – di connessioni sociali in grado di prospettare la formazione di una coalizione politica di piazza stabile e coesa.

 I legami trasversali di classe sono de facto cruciali per trasformare le proteste in episodi rivoluzionari costanti e di massa.

Nel 1979 gli operai hanno sigillato il successo della rivoluzione iraniana, che è stata polifonica e ha visto condividere le strade a intellettuali, studenti, religiosi, mercanti del bazar, liberali, esponenti di sinistra, lavoratori e donne, sotto la leadership dell’ayatollah Ruhollah Khomeini.

Quando gli operai si sono finalmente uniti alla coalizione rivoluzionaria, il loro contributo è stato determinante.

Insieme ai colletti bianchi e agli impiegati, hanno sbarrato l’accesso a molti servizi essenziali e alle industrie e, alla fine, hanno paralizzato l'apparato statale.

 È l’Iran dei mesi del momentum rivoluzionario, tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, quello raccontato nelle parole degli storici Ahmad Ashraf e Ali Banuazizi.

L’Iran consumava la sua rivoluzione, che “paralizzava” la macchina pubblica e il regime dello Shah Reza Pahlavi, per poi rovesciarlo.

 Scioperi a oltranza per le condizioni economiche disagiate, in rivolta contro salari da miseria e inflazione, decapitavano – in nome degli oppressi (mostaz’afin), e in ultima istanza grazie ai lavoratori organizzati – un sistema di potere che aveva creato sacche di disuguaglianza considerate ormai insostenibili.

Quando nel 1979 gli operai si sono finalmente uniti alla coalizione rivoluzionaria, il loro contributo è stato determinante.

Insieme ai colletti bianchi e agli impiegati, hanno sbarrato l’accesso a molti servizi essenziali e alle industrie e, alla fine, hanno paralizzato l'apparato statale

 

Oggi, in un contesto dove l’impensabile per le generazioni precedenti è già avvenuto, perché la paura e le richieste di riforma hanno fatto strada alla rivolta anti-sistema, un cambiamento radicale sembra ormai inevitabile.

I tempi e le modalità sono ancora da definire, e i lavoratori potrebbero essere agenti cardine di questo processo di trasformazione.

Nonostante le attuali proteste abbiano stimolato l’aggiornamento di alcune griglie analitiche del passato con la loro nuova grammatica della rivolta, un passaggio fondamentale in grado di aggiungere slancio all’attuale movimento acefalo, coraggioso e non violento – in contrasto alla brutale repressione da parte del regime – sarebbe quello della resistenza civile potenziata da scioperi a oltranza.

Anche se uno sciopero di massa e capillare sembra al momento non di facile concretizzazione, il processo di condivisione delle istanze di rivolta è in accelerazione.

Le connessioni tra classi diverse sono fragili, ma si stanno formando lentamente. Nonostante le divisioni precarie, le aperture del regime rivolte principalmente agli indecisi e le tecniche di sabotaggio volte a scoraggiare la fiducia nelle proteste, si intravedono – ma ancora troppo deboli – gli elementi per un cambiamento radicale e condiviso.

 Parte della popolazione iraniana sta provando a tessere quelle reti fitte di organizzazione politica che servirebbero alla causa della piazza che spera in una vita diversa.

Perché la strada – nelle parole del sociologo Asef Bayat – “è uno spazio per creare ed esprimersi, uno spazio dell’identità [collettiva] e della solidarietà.

È un luogo dove il familiare si intreccia con il non familiare, e condivide un dolore comune.

 La strada ha la straordinaria capacità di trasformare un raduno di 500 persone in una folla di migliaia e migliaia”.

 

 

Le primarie dei dem.

“Rivoluzione nel Pd e nella società:

 ecco perché sto con Schlein”,

parla Roberto Morassut.

Ilriformista.it - Umberto De Giovannangeli - Roberto Morassut - (9 Febbraio 2023) – ci dicono:

 

“Rivoluzione nel Pd e nella società: ecco perché sto con Schlein”.

Le elezioni regionali nel Lazio, il “caso Donzelli-Delmastro”, le scelte nel Pd per la corsa alla segreteria.

Il Riformista ne discute con Roberto Morassut, parlamentare dem, un passato da amministratore del Comune di Roma, assessore all’Urbanistica e a Roma capitale nella giunta Veltroni.

Il 12 e 13 febbraio si vota in importanti regioni come la Lombardia e il Lazio. Quest’ultima, è una regione che lei conosce molto bene.

Le divisioni nel centrosinistra hanno spianato la strada alla destra?

Conte ed il Movimento Cinque Stelle hanno compiuto una scelta incomprensibile.

Motivata da illusorie ragioni di partito, per tentare un “sorpasso” nei confronti del Pd che non ci sarà.

Nel Lazio vi era una collaborazione tra Cinque Stelle e Partito Democratico che poteva e doveva essere consolidata.

La destra a Roma e nel Lazio continua ad essere una delle peggiori d’Italia.               

È evidente che senza quella decisione la chance di successo di una coalizione di centro-sinistra e Cinque Stelle sarebbero state assai maggiori.

Comunque, la campagna elettorale è in corso e nonostante tutto Alessio D’Amato la sta conducendo con coraggio.

Tra lui e Rocca c’è un divario di competenza e credibilità.

Nel merito non c’è partita.

I numeri sono difficili ma i conti li faremo alla fine.

Il “caso Donzelli-Delmastro”. Il Decreto migranti. Che destra è quella che oggi governa l’Italia?

Esprime quello che Gramsci chiamava “sovversivismo delle classi dirigenti”.

La destra usa il potere per scardinare la Costituzione.

Lo fa con il provvedimento sull’Autonomia differenziata, con il decreto sugli “sbarchi” che punisce le Ong mentre continua a rifiutarsi di affrontare la vera questione che riguarda le intese di Dublino e lo fa, come nella vicenda Donzelli, derogando a regole di comportamento fondamentali con l’uso pubblico di documenti riservati per utilizzarli contro l’opposizione.

Donzelli e Delmastro Delle Vedove, in un paese normale, si sarebbero dovuti già dimettere ed il capo del Governo avrebbe dovuto chiederglielo subito.

Invece sono stati sostanzialmente difesi e giustificati.

È inaccettabile. Ma la questione non finirà qui, visto che è in corso una indagine della magistratura.

Titola questo giornale: “La rissa è su Donzelli. Ma del 41-bis non frega niente a nessuno”.

 Il riferimento è alla sospensione del 41-bis per Alfredo Cospito in modo da evitare la sua morte.

 A lei la parola.

Io non sono d’accordo con la sospensione del 41 bis nemmeno per Cospito, tanto meno per chi si è macchiato di un reato per mafia.

 La visita dei nostri parlamentari era finalizzata all’accertamento delle condizioni di salute di un detenuto da oltre un mese in sciopero della fame e rientrava perfettamente nelle prerogative di un parlamentare della Repubblica.

Nessuno ha chiesto di sollevarlo dal regime carcerario del 41 bis.

Se poi si parla di ergastolo ostativo la nostra posizione è chiara da tempo e si basa sulla considerazione accorta delle indicazioni della Consulta, valutando condizioni assolutamente eccezionali e estremamente selettive.

Il Pd ha una storia di lotta alla mafia e al terrorismo che nessuno può permettersi di mettere in discussione, tanto meno chi certi legami con l’eversione nera legata alla mafia non li ha mai del tutto recisi.

 E a Roma vi è una storia recente che lo racconta.

Lo scontro parlamentare e il dibattito “costituente” del Pd. Lei vede un nesso?

La nostra forza nella società italiana, ai fini di una “costituente” di un soggetto politico più aperto, passa anche da una condotta parlamentare rigorosa e che sappia mettersi in connessione con le domande ed i bisogni che attraversano la società e vogliono rappresentanza.

Quindi, dai temi del lavoro, a quelli della transizione ecologica, a quelli dei diritti civili, a quelli della pace nel quadro di una Europa più forte e coesa, alle battaglie per i diritti delle donne, alla salvaguardia dell’unità nazionale e di un giusto regionalismo che non punisca il Mezzogiorno, il nostro lavoro in Parlamento dovrà essere in grado di dare voce a queste istanze, comunque si concluda il Congresso. Un Congresso che deve aprire la Costituente e non chiuderla.

A contendersi la leadership del Pd sono in quattro. Qual è la sua scelta e perché?

Ho scelto di sostenere fin da subito la candidatura di Elly Schlein perché il Pd ha da tempo bisogno di una rivoluzione interna.

Una “rivoluzione del sorriso” che non cerchi nemici ma sia determinata al cambiamento.

 Senza nulla togliere agli altri candidati penso che in campo vi sia una istanza rivoluzionaria che raccoglie la spinta di tanti giovani e giovanissimi e di tanti militanti e cittadini di sinistra e democratici liberi che si sono allontanati e che arrivano dal corpo della società.

Dall’altra parte c’è una proposta più “convenzionale” di realtà e istanze istituzionali che si muove per “aggiustare” quel che siamo.

Ma noi dobbiamo cambiare radicalmente e non aggiustare.

Elly Schlein incarna questa spinta e questa esigenza.

Serve un nuovo ciclo del cammino dei Democratici ed il profilo di questa nuova storia non ce lo scegliamo a tavolino ma si muove sulla spinta delle persone reali.

Delle ragazze e dei ragazzi che oggi chiedono un luogo di combattimento.

 Dal 2008 molto è cambiato.

Le radici del Pd del Lingotto vanno rinvigorite e riaffermate con nuova linfa vitale che proviene dalle emergenze e dai bisogni di oggi.

La candidatura di Elly Schlein non è solo alternativa a quella di Bonaccini ma è la candidatura giusta per raccogliere le spinte che stanno maturando sotto la pelle della società italiana contro la destra e la sua arroganza. Lei è l’alternativa giusta e reale alla Meloni più ancora che a Bonaccini.

(Umberto De Giovannangeli - Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.)

 

 

 

 

L’era dei rivoluzionari

senza rivoluzione.

Legrandcontinent.eu - Mario Pezzini, Alexander Pick – (25th Novembre 2021) – ci dice:

 

Il crescente scontento globale sta costringendo gli stati a trovare soluzioni a breve termine.

 Il multilateralismo del futuro dovrà contare su una profonda integrazione dei cittadini - e su una pianificazione negoziata - per risolvere questa crisi.

Lo scontento sociale si diffonde nei paesi in via di sviluppo, ma non solo. La crisi del COVID-19 si sta trasformando da crisi sanitaria, sociale ed economica a crisi politica.

Tuttavia, lo scontento sottostante alla pandemia non è esclusivamente frutto di quest’ultima;

 piuttosto, dell’onda lunga generata dalla crescente instabilità politica e dalle fratture sociali messe a nudo sin dalla crisi finanziaria del 2008-09, all’origine della sequela di proteste violente del 2019.

 In questo articolo, sosteniamo che la risposta allo scontento dovrebbe essere priorità dei governi nazionali, ma anche delle istituzioni multilaterali, che devono urgentemente rafforzare e trasformare la cooperazione internazionale, assolutamente necessaria per affrontare le minacce globali.

Lo spettro dello scontento comprende un’ampia gamma di dissidenti, ognuno insoddisfatto a modo suo.

 In prima approssimazione, possiamo definire scontento come il risultato di una frustrazione collettiva nata da aspettative non soddisfatte, vulnerabilità e ingiustizie – sentimenti facili da capire ma difficili da misurare.

Inoltre, i sintomi dello scontento si manifestano in modo più o meno palese:

dalle proteste nelle piazze, che costituiscono la sua manifestazione più ovvia, al calo dell’affluenza alle urne, della fiducia nei governi e del sostegno alla democrazia.

Sintomi che suggeriscono la necessità di un cambiamento profondo dei sistemi che governano le società.

L’ampia gamma di dissidenti diventa dunque difficile da confrontare e da classificare, data la sua eterogeneità:

da un lato, dei rumorosi rivoluzionari senza rivoluzione; dall’altro degli invisibili senza legami, silenziosamente assordanti.

L’aumento dello scontento non è un fenomeno fugace né marginale.

Certo, si potrebbe obiettare che una certa “turbolenza” sia una caratteristica ricorrente della società, soprattutto nei periodi difficili.

Tuttavia, ciò che è particolarmente problematico per quel che riguarda l’odierno scontento, è che la sua natura e magnitudo confondono e perturbano i tradizionali meccanismi utilizzati per affrontare le tensioni sociali, generando così un circolo vizioso che, intensificando le sfide, indebolisce le società.

In questo articolo, esamineremo come lo scontento di oggi laceri la coesione sociale e prosciughi il consenso necessario per fronteggiare le disfunzioni che lo hanno generato.

 Esporremo in seguito diverse opzioni volte a ravvivare l’azione collettiva, sia al livello nazionale che internazionale; ben consapevoli che le cause, le conseguenze e la cacofonia dello scontento riecheggiano in uno dei peggiori momenti possibili.

Dal lamento alla protesta.

Eventi minori rivelano profonde frustrazioni.

Il Cile è emblematico non solo per il discernimento delle complessità dello scontento, ma anche per comprenderne il potenziale.

Un aumento del costo del biglietto della metropolitana nella capitale di Santiago nell’ottobre 2019 ha scatenato proteste a livello nazionale, che si sono poi diffuse a macchia d’olio in altri paesi latinoamericani.

I manifestanti non hanno solo richiesto un miglioramento radicale nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione e nel sistema pensionistico, ma anche un nuovo sistema di governo per la società cilena.

 “Non sono 30 pesos, sono 30 anni” hanno proclamato, riferendosi alla costituzione dell’era Pinochet che, a detta loro, ha bloccato il paese in un modello economico e politico incapace di garantire ai cittadini ciò che volevano.

 Così, nel 2021/2022, sarà redatta una nuova costituzione:

e non dai politici dell’ancien regime, ma da un’assemblea composta in gran parte da outsiders.

Ciò che è particolarmente problematico per quel che riguarda l’odierno scontento è che la sua natura e magnitudo confondono e perturbano i tradizionali meccanismi utilizzati per affrontare le tensioni sociali, generando così un circolo vizioso che, intensificando le sfide, indebolisce le società.

La discrepanza tra causa ed effetto mostra come l’interazione fra eventi attuali, rancori latenti e ingiustizie radicate stia producendo risultati che non corrispondono direttamente né sono proporzionali alla scintilla iniziale.

In Cile e altrove sembra esserci una crescente convinzione che le persone elette ed i partiti che esse rappresentano, così come gli stessi sistemi economici e politici in cui operano le società, non siano più in grado di dare i risultati attesi dai cittadini.

Ostacoli alla percezione del cambiamento.

Comprendere le aspettative e le vulnerabilità della gente è fondamentale per poter trattare le loro frustrazioni.

Ciononostante, i quadri concettuali e analitici prevalenti non sono riusciti a prevedere, prima dell’implosione, i disordini in grembo a diversi paesi, quali il Cile, l’Ecuador, la Tunisia, la Tailandia, l’Algeria o il Senegal.

 Il Cile rappresenta una delle economie più sviluppate dell’America Latina;

i tradizionali indicatori economici della Tunisia pre-primavera araba non davano alcun motivo di allarme;

entrambi i paesi sono stati a lungo considerati tra i più stabili nelle loro rispettive regioni.

Ma se si fossero ascoltati direttamente i cittadini, se ne sarebbe potuta trarre un’analisi diversa.

Nel 2018, solo il 64% dei cileni era soddisfatto della propria vita, la seconda percentuale più bassa in America Latina;

circa il 44% sentiva di non riuscire ad arrivare a fine mese e il 51% era preoccupato di perdere il lavoro nei prossimi 12 mesi.

Solo l’8% degli intervistati riteneva che la distribuzione del reddito fosse equa, la percentuale più bassa in una regione molto disuguale.

Questa storia di vulnerabilità, ingiustizia e infelicità non si limita al Cile.

Sempre nel 2018, in Africa sub-sahariana, la percentuale della popolazione che “viveva comodamente” o “tirava avanti” era inferiore al 40%;

in America Latina e nei Caraibi, in Medio Oriente e Nord Africa, poco più della metà della popolazione riusciva ad arrivare a fine mese.

 In entrambi i casi, dei dati in calo rispetto al decennio precedente.

Questo prima della pandemia di COVID-19, che ha esacerbato drasticamente tale vulnerabilità.

Una maggiore attenzione agli indicatori soggettivi avrebbe messo in guardia i governi sul divario esistente tra gli indicatori economici tradizionali e le percezioni dei cittadini.

L’emergere dello scontento negli ultimi anni, in particolare nei paesi in via di sviluppo, costituisce probabilmente un enigma per i sostenitori del PIL come indicatore incontestabile:

 perché la gente dovrebbe essere infelice se non è mai stata così bene?

Il PIL è cresciuto quasi ininterrottamente in tutto il mondo nei tre decenni pre-COVID-19.

Una crescita spiccata soprattutto nei paesi in via di sviluppo, che ha contribuito a cambiamenti significativi della geografia economica mondiale.

 Sono quattro gli elementi chiave spesso citati per sciogliere tale paradosso.

 In primis, ça va sans dire, la disuguaglianza di reddito;

in secondo luogo, il fatto che, in molti casi, la crescita del benessere non sia aumentata allo stesso ritmo di quella del reddito, ampliando così le diseguaglianze infra-societarie.

 Il terzo elemento è la pressione sulla forza lavoro globale:

la globalizzazione e i progressi tecnologici hanno indebolito le prospettive e la sicurezza del lavoro di tutti, eccetto i lavoratori più qualificati ed i rentiers.

Il quarto è la crescente consapevolezza del catastrofico deterioramento ambientale, che conduce l’umanità sull’orlo della sesta estinzione di massa.

L’emergere dello scontento negli ultimi anni, in particolare nei paesi in via di sviluppo, costituisce probabilmente un enigma per i sostenitori del PIL come indicatore incontestabile: perché la gente dovrebbe essere infelice se non è mai stata così bene?

Nonostante un consenso stia emergendo rispetto al contributo di questi diversi elementi all’odierno scontento, esso lascia diverse domande in sospeso:

perché, dopo decenni in cui i fenomeni materiali si sono strutturati come possenti forze “geo-logiche”, lo scontento sta diventando, solo ora, sempre più visibile ed esplosivo?

E perché le crescenti schiere di insoddisfatti non utilizzano le tradizionali modalità politiche e di comunicazione per esprimere la loro voce ed il loro dissenso?

Il tempo presente?

Per quel che riguarda la tempistica, l’evoluzione dello scontento non è sembra accorarsi direttamente all’intensità delle sue cause strutturali e latenti.

Segue piuttosto una dinamica apparentemente imprevedibile:

talvolta frutto di fenomeni politici come i movimenti sociali, il cambiamento delle percezioni prevalenti della gente e la perdita di fiducia nella narrazione proposta dagli attori politici esistenti – in particolare i cosiddetti progressisti.

Di conseguenza, lo scontento può rimanere dormiente per un lungo periodo di tempo tra  coloro che sono rimasti indietro nel miglioramento generale degli standard di vita di un dato luogo, per poi esplodere improvvisamente;

 o, invece, manifestarsi in quanto exit dal sistema politico, con un calo a lungo termine dell’affluenza alle urne.

Un punto chiave rispetto allo scontento ed al suo tempismo è che non riguarda mai esclusivamente il presente.

Gli “esclusi” di un’economia in crescita possono tollerare le disuguaglianze, se pensano che presto progrediranno a loro volta;

al contempo, assisteremo ad un probabile disordine sociale se un gruppo abbastanza grande di questi stessi “esclusi” si stancasse di aspettare il proprio turno, o si auto percepisse come sistematicamente svantaggiato.

Allo stesso modo, lo scontento potrebbe ribollire fra coloro che, contrariamente agli “esclusi”, hanno inizialmente beneficiato dei guadagni economici di una società, il quale progresso si è poi, per quel che li riguarda, rallentato o addirittura invertito, provocando una profonda frustrazione.

È il caso delle “classi medie” in molti paesi in via di sviluppo:

se le loro aspettative si sono moltiplicate nel corso di decenni di impressionante crescita economica, oggi non riescono ancora ad arrivare a fine mese, e rischiano di ricadere nella povertà estrema.

 In alcuni casi, queste classi medie non costituiscono lo zoccolo duro della liberal democrazia – così come ipotizzato dalle dottrine politiche liberali;

ma piuttosto un terreno fertile per regimi populisti e autoritari. 

Nel caso in cui queste due figure sociali – gli “esclusi” e le classi medie precarie – convergano verso una causa comune, la protesta potrebbe avere una forza particolarmente potente.

Indebolimento della fiducia, guerre culturali e tendenze populiste.

Per quanto riguarda le modalità di espressione dello scontento, esse sono collegate ad almeno tre fattori che contribuiscono al rapido disfacimento dei legami che uniscono le società.

In primo luogo, l’indebolimento dei corpi intermedi. 

Questi ultimi possono essere considerati come il fondamento della società civile: assicurano fiducia, reciprocità e solidarietà tra vicini, colleghi e comunità; forniscono il principale canale di aggregazione degli interessi delle persone, e il mezzo tramite il quale esprimono la loro voce.

Sono stati riconosciuti come vitali per il funzionamento della democrazia da molti, da Tocqueville a Putnam.

Lo stesso Gramsci vide nella società civile, con i suoi molteplici attori e prospettive, un terreno fertile per la trasformazione ed un nuovo pensiero sociale.

Eppure i corpi intermedi si stanno riducendo drammaticamente, lasciando gli individui oggi sempre più soli, anche se sembrano più connessi.

 L’adesione ai sindacati è in declino e i partiti politici sono sempre più lontani dalla propria base.

Nel frattempo, la fiducia interpersonale si indebolisce, raggiungendo livelli particolarmente bassi nei paesi in via di sviluppo.

La proporzione di persone con amici o familiari su cui contare nei momenti di difficoltà è diminuita;

dall’inizio degli anni 2000, le persone in tutto il mondo sono sempre più preoccupate, stressate e arrabbiate, riflettendo una crescente tracollo della salute mentale ed un rafforzamento dell’anomia.

L’evoluzione dello scontento segue una dinamica apparentemente imprevedibile: talvolta frutto di fenomeni politici come i movimenti sociali, il cambiamento delle percezioni prevalenti della gente e la perdita di fiducia nella narrazione proposta dagli attori politici esistenti – in particolare i cosiddetti progressisti.

In secondo luogo, la frammentazione delle identità politiche e la tendenza dei sistemi politici a irrigidirsi nel mantenimento dello status quo invece che risolvere le disuguaglianze hanno creato una crisi di mediazione e rappresentazione.

 In un mondo in cui il vuoto ideologico è riempito da questioni di identità, i valori e i punti di vista non possono che divergere verso gli estremi, dando vita alle cosiddette guerre culturali, e rendendo sempre più difficile il raggiungimento di un accordo sul come affrontare un dato problema – o persino sull’esistenza stessa di un problema.

 Nel frattempo, una politica del tipo “winner-takes-all” (ovvero, quando le élite economiche dominano anche la vita politica) ha generato una politica percepita come funzionante solo per una piccola porzione privilegiata della popolazione – ergo, l’anatema dei sistemi democratici per eccellenza.

 C’è poco di sorprendente, dunque, nell’emergere di movimenti politici populisti ed etno-nazionalisti, che sfidano lo status quo e sfruttano la polarizzazione sociale parlando ad una grossa parte dei gruppi sistematicamente emarginati della popolazione.

In terzo luogo, uno stile populista pervade lo spettro dei discorsi politici, stabilendo una serie di concetti puntuali e ricorrenti (anti-migrazione, la figura dei nemici, il ruolo del leader, ecc.) che svalutano il discorso politico, rendendo sempre più difficile la costruzione di una narrazione consensuale e di un’azione collettiva.

Le piattaforme dei social media rafforzano la polarizzazione, creando le cosiddette “echo chambers”, che personalizzano le informazioni degli utenti, allineandole alle loro convinzioni pregresse.

È importante notare, però, che la frammentazione dell’informazione non implica una perdita di controllo da parte dei gruppi mediatici più potenti:

una maggiore concentrazione del mercato ha permesso ad alcune di essi di diventare notevolmente più potenti negli ultimi anni, garantendo loro un’enorme influenza nel determinare ciò che costituisce una notizia e come l’attualità dovrebbe essere intesa.

Di fronte al ritorno della storia, l’opzione “business as usual” non è da considerare.

I governi, che si apprestano a rispondere allo scontento e, più in generale, ad avviare una ripresa sostenibile post-pandemia, si trovano oggi di fronte ad una sfida schiacciante, data la profondità delle fratture sociali, la consistenza delle fratture sistemiche e l’ampia dimensione delle proteste. 

Ritornare al “business as usual” non otterrebbe alcun risultato.

Le cause dello scontento non possono essere trattate in modo puntuale dai responsabili politici, come se ognuna di esse si limitasse ad un gruppo di persone ristretto, isolato e facilmente identificabile.

Piuttosto, essi devono confrontarsi con una sorta di “intrattabile trade-offs”, declinati in modi di pensare che non sembrano permettere delle soluzioni immediate.

 Un esempio ben noto è l’aumento delle tasse sul carburante, inteso a contribuire alla riduzione delle emissioni di carbonio.

 Se da un lato tale iniziativa concorre alla necessaria costruzione di una serie di politiche ambientali, dall’altro infuria una fetta di popolazione a medio-basso reddito, che dipende dalla propria automobile sia per andare al lavoro, sia per accedere ai servizi, e che non si può permettere di affrontare tale costo aggiuntivo.

Altri trade-offs includono, per esempio,  la tassazione e le disuguaglianze di genere o di luogo.

 

I governi, che si apprestano a rispondere allo scontento e, più in generale, ad avviare una ripresa sostenibile post-pandemia, si trovano oggi di fronte ad una sfida schiacciante, data la profondità delle fratture sociali, la consistenza delle fratture sistemiche e l’ampia dimensione delle proteste.

D’altro canto, i governi non possono pensare di rispolverare semplicemente gli strumenti “tecnici” preesistenti, mirando ad obiettivi dettati dalla sola efficienza.

Ovvero: sebbene la valutazione di politiche specifiche abbia un senso e richieda, fra l’altro, un maggiore sforzo da parte dei governi, rimane uno strumento insufficiente.

Si attende invece un ritorno della politica con la P maiuscola, fatta di visioni e strategie.

Ciò che è in gioco oggi è più di un maggior “value for money” in alcune politiche;

 si tratta piuttosto dell’interazione tra le politiche, della visione che traspare da una concezione onnicomprensiva delle politiche, delle strategie per ridisegnare i contratti sociali a partire da obiettivi condivisi e narrazioni convincenti.

In breve, di fronte a minacce esistenziali e scelte immensamente difficili, i governi non possono cavarsela con amministrazioni efficienti che mancano però di una visione d’insieme, limitandosi ad aspettare che arrivi una mano invisibile a proporre  soluzioni di più ampio respiro.

Per spiegarlo con una metafora che ci è cara:

appare strano contemplare i singoli alberi senza alzare gli occhi sull’insieme della foresta a cui appartengono.

In questo senso, sfide della portata della crisi climatica e delle diseguaglianze odierne richiedono approcci che vadano ad affrontare e ripensare le istituzioni e i meccanismi di deliberazione che organizzano le fondamenta stesse delle nostre società e delle nostre economie.

Risposte nazionali: migliorare la vita, curare le ferite.

L’importanza dell’azione collettiva.

Ci sono diverse ragioni che illustrano perché l’azione collettiva sia urgente e necessaria per affrontare lo scontento.

La minaccia esistenziale della crisi climatica, ad esempio.

 L’affronto etico delle enormi disuguaglianze tra persone e luoghi.

L’imperativo politico di prevenire e contrastare la manipolazione dello scontento a favore di tendenze autoritarie – o persino fasciste – o  separatiste.

Gli obiettivi economici per assicurarsi che la ripresa non affronti esclusivamente i problemi generati dalla pandemia, ma anche i colli di bottiglia persistenti, le asimmetrie visibili, la segmentazione e il sottoutilizzo delle risorse rivelate dalla crisi di COVID-19, ma che erano già presenti durante le crisi precedenti.

Se il “perché” affrontare lo scontento è ben chiaro, concentriamoci sul “chi”, sul “come” e sul “cosa” dell’azione collettiva.

Il compito è, da un lato, difficile, perché richiede di cambiare il consenso corrente  (come sostenuto dal presidente Macron nella sua intervista con il Grand Continent);

dall’altro, è complesso, perché i fattori che alimentano e direzionano lo scontento variano sia nello spazio che nel tempo.

Diventa dunque impossibile proporre un singolo set di politiche capace di trattare problemi specifici in modo generalizzato. 

Abbozziamo invece quattro considerazioni che possono aiutare i paesi ad identificare le loro proprie soluzioni specifiche.

Chi dovrebbe agire?

L’attuale scontento produce una sorta di ribellioni senza rivoluzionari e in definitiva senza rivoluzioni.

Lo stato dovrà svolgere un ruolo cruciale (il principe nell’Amleto) per contribuire a riformulare le espressioni dei movimenti emersi ed evitare la possibile costituzione di basi di massa che vadano ad alimentare regimi autoritari e persino fascisti.

Questo può essere fatto contrastando almeno due fenomeni che esacerbano l’isolamento dei cittadini e indeboliscono la loro autonoma partecipazione politica.

 

Le sfide della crisi climatica e delle diseguaglianze odierne richiedono approcci che vadano ad affrontare e ripensare le istituzioni e i meccanismi di deliberazione che organizzano le fondamenta stesse delle nostre società e delle nostre economie.

In primo luogo, prendiamo i movimenti populisti:

 sebbene essi siano i sintomi di un fallimento politico e riflettano spesso lo scontento di parti importanti della popolazione, non riescono però ad affrontarne le cause di fondo?.

Questi movimenti non sembrano capaci di tradurre le espressioni sociali e culturali dello scontento– in sostanza:

la loro retorica – in soggettività politica che possa trasformare la realtà.

 Insomma, non stanno costruendo un “Principe moderno” (per parafrasare Gramsci).

 Indipendentemente dalle loro origini strutturali, questi movimenti, sembrano rimanere pre-politici, espressioni di forme di ribellione, privi dei mezzi necessari ad influenzare e cambiare realmente la struttura sociale e politica che tanto criticano.

Mancano di quell’insieme coerente di aspirazioni e rappresentazioni necessario per affrontare le complesse cause delle sfide che ereditano. I

l loro punto d’appoggio – la nazione stessa – costituisce una base scarna per un’agenda politica a lungo termine.

La centralizzazione del potere e gli sforzi per indebolire o aggirare le istituzioni democratiche dilata ancora di più la distanza tra società e stato.

 Probabilmente la loro azione più dannosa è, comunque, la tendenza a minare la nozione di verità condivisa, rendendo ancora più difficile che le società si accordino sulla portata e la natura dei problemi.

In secondo luogo, prendiamo la “multilevel governance”:

 gli stati dovrebbero “appoggiare” i corpi intermedi, aiutandoli a accompagnare gli individui “nel torrente generale della vita sociale” (per parafrasare Durkheim), creando un dialogo regolare tra la società civile e lo stato, in quanto base primordiale della reattività, efficacia e legittimità statali.

Purtroppo, in molti casi, l’azione degli stati ha contribuito attivamente non al rafforzamento, ma alla scomparsa dei corpi intermedi.

Quegli stessi stati che hanno spesso mostrato una profonda incapacità di interpretare direttamente gli interessi e le percezioni della gente, ostentando un positivismo distaccato, un generico paternalismo e una profonda diffidenza verso le manifestazioni popolari cosiddette “spontanee”.

La ragione risiede soprattutto nell’l’adesione a filosofie neoliberali semplicistiche, ma egemoniche, e con dall’insistenza conservatrice sul concetto di leadership e di autorità dall’alto.

 Di conseguenza, le popolazioni con aspettative di emancipazione – giustificate da un maggiore accesso all’istruzione e da condizioni economiche almeno in parte migliori – hanno perso spazio per esprimere la propria voce, invece di guadagnarlo.

Fino a quando sono scese per strada, e hanno dato luogo spontaneamente a nuove forme di solidarietà, anche se con poche possibilità di riconoscimento ufficiale.

Come dovrebbero agire gli stati? L’organizzazione che apprende e l'”improvvisazione diretta”,

I principali quesiti da porsi oggi sono:

“come” possono gli stati promuovere legami di fiducia, reciprocità, inclusione, solidarietà e “voce” dei cittadini, e allo stesso tempo migliorare il benessere degli individui?

 Come possono rafforzare la loro legittimità attraverso una politica più inclusiva e flessibile, prevenendo un’ondata di scontento all’indomani del COVID-19?

Come possono le burocrazie adattarsi all’odierno clima di cambiamento e di radicale incertezza, se i funzionari pubblici non sanno quale sia il risultato più atteso dall’intera collettività?

Gli stati dovrebbero “appoggiare” i corpi intermedi, aiutandoli a accompagnare gli individui “nel torrente generale della vita sociale”, creando un dialogo regolare tra la società civile e lo stato, in quanto base primordiale della reattività, efficacia e legittimità statali.

Certo, una migliore inclusione può essere inserita nelle regole di un nuovo contratto sociale attraverso un processo costituzionale.

 Gli esempi del Cile o della Tunisia dimostrano che l’impegno a ridisegnare le regole fondamentali e le istituzioni che governano la società può essere indispensabile.

Ma non sufficiente.

Il processo di riforma costituzionale, previsto come soluzione ai problemi che affliggono il Cile, e che si è poi diffuso in altri paesi negli ultimi anni, ha in molti casi rafforzato i diritti socio-economici e incoraggiato una maggiore partecipazione femminile.

Eppure tale processo non è stato universalmente positivo.

I processi costituzionali non garantiscono necessariamente l’effettivo rispetto dei diritti socio-economici, come l’accesso ai servizi di base e al lavoro.

Alcuni regimi autoritari hanno manipolato i cambiamenti costituzionali per limitare gli impulsi democratici.

Anche in contesti democratici, gruppi di potere hanno esercitato un’influenza sproporzionata sulla costruzione della costituzione.

 È ancora troppo presto per sapere se le recenti riforme costituzionali contribuiranno a fornire soluzioni durature ai fenomeni all’origine dello scontento, oppure no.

Una nuova generazione di piani negoziati?

Ciò che appare indispensabile, con o senza processi costituzionali, è la costruzione di una visione nazionale condivisa e di una strategia conseguente.

 Tale processo potrebbe articolarsi attorno alla costruzione dei cosiddetti Piani di Sviluppo.

Se il numero di paesi che modificano le proprie costituzioni è cresciuto negli ultimi anni, è cresciuto anche il numero di paesi che definiscono strategie nazionali di sviluppo: da 62 nel 2006 a 134 nel 2018.

Più dell’80% della popolazione mondiale vive in un paese con un piano di sviluppo nazionale, un numero destinato ad aumentare ulteriormente se si considerano gli attuali piani di ripresa post-pandemica.

Questi piani hanno il potenziale per essere molto più di una tabella di marcia verso un futuro desiderato dall’amministrazione al potere in un dato momento.

Possono essere inclusivi sia nei fini che nei mezzi: se l’obiettivo finale è l’elaborazione di una visione condivisa del futuro, il modus operandi, ovvero il processo di negoziazione di tale visione, costituisce un’opportunità di espressione e di ascolto di un’ampia gamma di voci della società, con la creazione di nuovi e rinnovati meccanismi di deliberazione al fine di “democratizzare la democrazia”.

 I piani potrebbero anche essere un modo per lo Stato di provare a funzionare come “un’organizzazione che apprende” (a learning-organisation): promuovere “esperimenti” decentralizzati per usare la voce e le competenze dei cittadini attraverso le autorità locali, imparare monitorando quale approccio funziona meglio, e riferire regolarmente sui progressi nel raggiungere gli obiettivi pre-concordati (Sabel e Simon, 2009).

Questo modo di ridefinire i piani – questa “pianificazione negoziata” – differisce sostanzialmente dalle esperienze attuate negli anni ’60, che erano di natura top down.

Quali dovrebbero essere le priorità di questi piani?

Una terza considerazione è il “cosa”.

Una strategia dovrebbe essere un mix coerente di politiche e la loro sequenza.

Quali potrebbero essere tali questioni politiche specifiche e in quale ordine dovrebbero dunque essere messe in avanti?

 Un elemento irrazionale, sebben presente, è insistere sul fatto che i paesi in via di sviluppo, per svilupparsi, dovrebbero adottare una vasta gamma di standard politici derivati dalle pratiche consolidate nei paesi sviluppati.

Ora, gli standard sono spesso in realtà il risultato, più che l’origine, dello sviluppo.

Inoltre, i paesi in via di sviluppo devono affrontare persistenti asimmetrie, colli di bottiglia, trappole dello sviluppo:

tutti elementi specifici ai diversi contesti, e che non possono essere trattati imitando le pratiche dei paesi sviluppati.

Le politiche che combinino efficienza economica, inclusività e un’ampia partecipazione dovrebbero essere prioritarie per fronteggiare gli impedimenti strutturali e sfuggire alle trappole causate da bassa produttività, istituzioni deboli e vulnerabilità sociale.

Una migliore inclusione può essere inserita nelle regole di un nuovo contratto sociale attraverso un processo costituzionale.

Ad esempio, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo non è in grado di sostenere la crescita delle micro, piccole e medie imprese, anche se queste rappresentano la stragrande maggioranza dell’attività economica.

Lo sviluppo economico di questi paesi non opera dunque al pieno del suo potenziale.

Le piccole imprese continuano a lavorare in modo isolato, senza avere alcun ruolo nell’economia formale.

Al tempo stesso, nei paesi sviluppati – ma anche in alcuni paesi in via di sviluppo – vi sono reti di piccole imprese e forme avanzate di sub-fornitura che utilizzano alcuni tratti delle comunità tradizionali per favorire l’industrializzazione locale (o di servizi turistici) e fare in modo che sia sostenibile, moderna e più egualitaria.

La condizione è che vi siano politiche di sostegno e servizi reali alle imprese.

La fiducia, il senso di appartenenza a una comunità e il know-how si combinano allora per permettere alle imprese di espandere le loro operazioni, sfruttando bassi costi di transazione ed una migliore integrazione nelle catene di valore.

Cooperazione internazionale e scontento.

Lo scontento è un fenomeno che sfida la nozione di scala pertinente.

Nel mondo interconnesso di oggi, lo scontento al di fuori dei confini di un paese può avere un profondo effetto sugli eventi all’interno dei suoi confini.

 La primavera araba fornisce un esempio evidente, così come il rapido propagarsi delle proteste popolari attraverso tutta l’America Latina nel 2019.

Aggiungiamo anche le tensioni nel Sahel, che sono spesso interpretate secondo i canoni delle guerre tradizionali, ma la cui origine deriva da questioni di sicurezza sociale, tra cui la sicurezza alimentare, le pestilenze e la siccità.

O il fallimento ventennale della comunità internazionale in Afghanistan.

 Questi fenomeni possono essere difficilmente interpretati tramite la tradizionale logica westfaliana della sovranità statale, plasmata da relazioni e confronti internazionali tra potenze.

 Eppure hanno accresciuto le tensioni politiche, plasmato l’agenda internazionale, ed esposto le fratture della governance globale.

 La forte dimensione internazionale di questi eventi non può essere affrontata senza la cooperazione internazionale.

Ma la cooperazione internazionale è all’altezza del compito?

Muri intorno alle paure interne.

La cooperazione internazionale è evidentemente minata da pressioni nazionalistiche, che promuovono il bilateralismo tra “amici”.

L’instabilità politica, associata allo scontento, spesso spinge i governi a concentrarsi su preoccupazioni interne a breve termine.

 Se le dimostrazioni di forza di una volta restano rare, un certo numero di leader populisti ha unito a tendenze isolazioniste un comportamento poco diplomatico nei confronti dei tradizionali rivali o dei critici della comunità internazionale. Hanno persino eretto muri (non sempre figurati) tra loro e gli altri paesi, o si sono

ritirati dagli accordi internazionali con la motivazione che essi rappresenterebbero un “cattivo affare” per il loro popolo.

Inerzia e frammentazione della cooperazione.

Tuttavia, solo un’analisi molto incompleta della governance globale potrebbe incolpare la sola politica interna per le inefficienze del multilateralismo.

 La cooperazione internazionale è minata da sfide che concernono i suoi obiettivi, i suoi strumenti e suoi sistemi di governance, che influenzano la capacità di affrontare le cause e gli esiti dello scontento.

Gli obiettivi.

Le ambizioni del sistema multilaterale sono state rafforzate dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), ma l’impegno è stato debole e il progresso lento, anche prima della pandemia.

 Definiti nel 2015, gli OSS hanno rappresentato un gradito riorientamento del sistema multilaterale intorno all’idea che la crescita economica e lo sviluppo, sebbene connessi, non sono sinonimi:

 la crescita deve essere inclusiva e sostenibile, in modi che affrontino molte delle cause dello scontento qui sopra discusse.

La cooperazione internazionale è evidentemente minata da pressioni nazionalistiche, che promuovono il bilateralismo tra “amici”.

Viceversa, negli ultimi tre decenni, l’interconnessione economica è stata una caratteristica distintiva della crescita globale.

 Durante questi anni, le interruzioni, gli squilibri e gli ampi cambiamenti sociali associati a tale interconnessione – insieme alle conseguenze ambientali della crescita economica, sono stati ampiamente trascurati – anche se rappresentano una delle principali cause dell’aumento dello scontento.

 Questi effetti avrebbero potuto essere mitigati se i sistemi multilaterali avessero offerto una maggiore protezione alle persone e all’ambiente, contro le richieste e i capricci dei mercati globali.

In effetti, l’era di Bretton Woods, che durò dal 1945 fino ai primi anni ’70, riuscì a conciliare una maggiore apertura economica con l’accettazione del fatto che i paesi dovessero proteggere i posti di lavoro e sviluppare le industrie nazionali e allo stesso tempo costruire sistemi di welfare per sostenere coloro che non riuscivano a trovare il loro posto in un’economia in cambiamento.

Ma, una volta crollato il cosiddetto modello di liberalismo integrato, i principi del laissez-faire hanno preso piede.

Alle forze di mercato – lasciate libere dalla liberalizzazione dei flussi di capitale – è stato permesso di calpestare le protezioni sociali e ambientali considerate, da Karl Polanyi e altri, essenziali per la salute delle società.

Gli strumenti: il “Ἀπὸ μηχανῆς θεός/deus ex machina“?

Queste considerazioni introducono una seconda sfida, che riguarda gli attuali strumenti della cooperazione allo sviluppo.

La cooperazione è più che mai indispensabile, ma le forme tradizionali di assistenza sembrano rinchiuse in strutture obsolete che possono essere inefficaci nell’affrontare lo scontento, e potrebbero addirittura finire per alimentarlo.

 La distribuzione degli aiuti, per esempio, rimane basata sui livelli di PIL-GNI; questo nonostante gli OSS dovrebbero orientare la cooperazione internazionale verso una serie più ampia di misure di sviluppo – quelle che sono spesso al centro delle richieste dei manifestanti – e verso un insieme più ampio di paesi, compresi quelli in cui lo scontento è più visibile, molti dei quali sono paesi a medio reddito. 

Un altro esempio è che il grosso della discussione si concentra spesso sugli aiuti, invece di focalizzarsi sullo sviluppo di altri possibili strumenti di cooperazione.

Questo non significa negare che un grande volume di “risorse finanziarie per lo sviluppo” sia indispensabile.

Al contrario:

 i costi per superare il COVID-19 e affrontare in modo significativo la crisi climatica richiedono un notevole aumento dei fondi di cooperazione – ben oltre la timida reazione alla pandemia da parte della cooperazione allo sviluppo ufficiale, accompagnata dalla mancanza di partecipazione di alcuni paesi.

I paesi meno sviluppati sono sostenuti in maniera molto debole, mentre molti paesi a medio reddito che si trovano ad affrontare importanti trappole dello sviluppo sono esclusi del tutto dagli aiuti.

L’era di Bretton Woods riuscì a conciliare una maggiore apertura economica con l’accettazione del fatto che i paesi dovessero proteggere i posti di lavoro e sviluppare le industrie nazionali e allo stesso tempo costruire sistemi di welfare per sostenere coloro che non riuscivano a trovare il loro posto in un’economia in cambiamento.

Il punto è piuttosto che, a parte le risorse finanziarie, non ci si concentra abbastanza sulla costruzione di capacità in tema di politiche pubbliche e sui partenariati per gli investimenti, laddove entrambi dovrebbero essere una parte fondamentale della risposta allo scontento riguardo ai servizi pubblici e ai posti di lavoro.

Un nuovo consenso su un multilateralismo rinnovato non dovrebbe cercare di prescrivere standard e influenzare i paesi in via di sviluppo attraverso una complicata architettura finanziaria legata inoltre alla condizionalità, ma piuttosto dovrebbe mirare a promuovere un dialogo politico strutturato e la sperimentazione e l’apprendimento tra “pari”, attraverso  il monitoraggio dei programmi sperimentati.

Abbiamo bisogno di interazioni ripetute e strutturate affinché i paesi possano discutere e confrontare, da pari a pari, le strategie nazionali, regionali e globali.

Il risultato potrebbe assomigliare a quello che l’OCSE ha messo in atto per i suoi membri dopo la seconda guerra mondiale e la fine del Piano Marshall, ma in modi diversi e per gruppi più ampi di paesi e regioni.

Un ulteriore esempio ha a che fare con la mancanza di coordinamento tra le pratiche tradizionali di cooperazione allo sviluppo e le significative iniziative forgiate dai paesi del Sud – indipendentemente dal loro livello di sviluppo.

Nonostante l’aumento del volume e della visibilità della cooperazione del Sud, le istituzioni del Nord sembrano a disagio nel discutere le prospettive provenienti dal Sud del globo.

Insistono piuttosto sul fatto che gli attori del Sud debbano adottare standard definiti in passato, senza la loro partecipazione.

 La ripresa economica post-COVID-19 potrebbe essere un’opportunità per riconoscere e discutere i diversi approcci, e affrontare così le pressioni delle piazze conto l’acquiescenza dei governi del Sud al modus operandi della cooperazione e delle organizzazioni multilaterali tradizionali.

Gli attori: come imparare gli uni dagli altri?

Una terza sfida riguarda la legittimità dei “tavoli” dove si decide la natura e il volume dei fondi per lo sviluppo.

Per quanto strano possa sembrare, essi riuniscono solo i donatori tradizionali, senza alcuna partecipazione strutturata dei paesi in via di sviluppo – ovvero di coloro che ricevono effettivamente tali fondi.

Negli ultimi 25 anni, questo squilibrio di potere è diventato incoerente con il crescente peso economico e politico dei paesi emergenti e con la conoscenza contestuale che i paesi in via di sviluppo hanno per affrontare le proprie specifiche problematiche e i propri obiettivi di sviluppo.

Così, incapaci di ottenere un posto nei fora multilaterali stabiliti – e perseguendo modelli economici ritenuti diversi da quelli del Nord – i paesi in via di sviluppo stanno creando le proprie istituzioni affinché funzionino in parallelo con i tradizionali guardiani della cooperazione internazionale.

Le questioni di legittimità si applicano non solo all’equilibrio tra paesi del Nord e del Sud, ma anche ad altri attori come regioni, città, sindacati, imprese, ONG, istituzioni filantropiche e simili. 

Sfide come la crisi climatica non possono essere lasciate all’esclusiva soluzione del mercato.

La gente spesso protesta per il ruolo delle imprese multinazionali, come dimostrano in modo eloquente le recenti iniziative sulle tasse.

Se gli organismi multilaterali possono aprire le conversazioni globali a una gamma più ampia di parti interessate, i cittadini comuni, che vogliono migliorare il luogo in cui vivono attraverso un’azione collettiva, potrebbero sentire di avere una voce sulla scena mondiale e un interesse nella cooperazione internazionale.

La ripresa economica post-COVID-19 potrebbe essere un’opportunità per riconoscere e discutere i diversi approcci, e affrontare così le pressioni delle piazze conto l’acquiescenza dei governi del Sud al modus operandi della cooperazione e delle organizzazioni multilaterali tradizionali.

La domanda da porsi oggi è se un “tavolo” globalmente rappresentativo per affrontare i beni pubblici globali e promuovere la cooperazione tra pari è oggi possibile?

Abbiamo bisogno di voci diverse al “tavolo”, non solo in termini di paesi finora esclusi dai fora globali, ma anche di un insieme più ampio di stakeholder.

 Un approccio collaborativo alle sfide condivise tra sfera locale, nazionale e multilaterale può alimentare e potenziare uno sperimentalismo a livello internazionale su temi e regioni specifiche, analogo a quello a livello nazionale discusso in precedenza.

Il recente accordo tra 136 paesi per un’aliquota minima globale dell’imposta sulle società è un esempio di ciò che potrebbe accadere.

Tuttavia, questo può prendere piede solo se la logica politica del sistema internazionale non è ostaggio di un’adesione esclusiva e discriminatoria a campi opposti, anche nelle regioni in via di sviluppo.

Conclusioni.

L’aumento dello scontento si è manifestato in tutto il mondo tramite episodi in cui le aspettative e le vulnerabilità delle persone si sono tramutate in frustrazione.

Un uso migliore dei dati approfondirebbe ancora di più la nostra percezione del fenomeno.

Affrontare lo scontento richiede di permettere il cambiamento e di coinvolgere le persone, non solo per ascoltare i loro lamenti e mediare le loro controversie, ma anche per recepire le loro idee, al fine di creare un mondo migliore di quello attuale.

Così, i responsabili politici devono affrontare insieme diversi elementi estremamente complessi: 

dalla (ri)costruzione delle istituzioni, al promuovere la rappresentanza e sviluppare la lealtà verso e dai propri cittadini, all’affrontare le richieste urgenti della gente nelle piazze riguardo al lavoro.

Noi sosteniamo che gli stati dovrebbero adottare una sorta di pianificazione negoziata per coinvolgere i cittadini, rafforzare la società civile ed i corpi intermedi, e promuovere la sperimentazione in modo da progettare insieme una visione nazionale, costruendo strategie adattive.

Tale visione dovrebbe affrontare la qualità della crescita e dare priorità ai percorsi di sviluppo che combinano l’efficienza economica con la resilienza, l’inclusività con la partecipazione.

Sosteniamo anche che lo scontento non può essere affrontato senza la cooperazione internazionale.

Per svolgere appieno il suo ruolo, è necessario rivedere gli obiettivi del sistema multilaterale, così come le strutture e le procedure dei suoi sistemi di governance, e rendere gli attori che siedono intorno ai “tavoli” dove si discute di cooperazione internazionale in linea con le realtà del mondo contemporaneo.

 

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