GUERRA ALLA REALTA’
GUERRA
ALLA REALTA’
IL
DIBATTITO SUL CONFLITTO.
Le
teorie di fronte alla realtà
della
guerra in Ucraina.
Editoraledomani.it
- FRANCESCO STRAZZARI – politologo - (13 febbraio 2023) – ci dice:
Dopo
l’invasione diverse narrazioni hanno attraversato lo spazio del dibattito
pubblico sul conflitto.
Un
diffuso anti intellettualismo induce a trascurare una serie di problemi
teorici, che non sono però eludibili.
La
foto ritrae una furiosa rissa fra i tavoli di un ristorante: in quattro si
azzuffano, mentre in un angolo un avventore continua a pasteggiare
imperturbabile, un occhio alla bistecca e uno al cellulare.
Qualcuno
ha trasformato l’immagine in un”” meme, assegnando all’uomo impassibile la
didascalia policy-maker, mentre i quattro facinorosi sono battezzati «accademici che litigano sulle teorie
delle relazioni internazionali».
L’analista
franco-americano Michael Shurkin – un passato fra Cia e Rand corporation – non
ha perso occasione per commentare lapidario sui social: «Non ho mai pensato che la teoria
delle relazioni internazionali servisse ad altro che per dibattiti a tarda
notte nei dormitori dei college».
Le
teorie che provano a gettare senso e spiegare la politica oltre i confini
statali navigano dunque in un mare di irrilevanza?
La satira coglie nel segno di un pregiudizio
diffuso: da una parte la teoria – l’impervio e nebuloso mondo delle idee – e
dall’altra, impermeabile alle idee, la realtà, ovvero i fatti.
Gli
accademici si sfidano a tenzone senza che il motivo e il beneficio dello
scontro siano chiari al decisore politico, che con compassata sprezzatura tiene
sguardo altrove.
Finita
(si fa per dire) la pandemia, per il conflitto con la Russia scatta un po’ il
liberi tutti: niente più scienziati, quantomeno scienziati della politica.
Si può attingere a forme di sapere mutuate da
chi ha esperienza di quel segmento di vita associata particolarmente patologico
e segnato dalla ricorsività della guerra che sono le relazioni internazionali.
Discorso
chiuso, dunque?
Nemmeno
per sogno.
Ricerca
di schemi.
Quando
postuliamo che la realtà (supponiamo: la guerra in Ucraina) non interroghi la
teoria – e che la teoria, a sua volta, non interroghi profondamente la realtà,
nella fisica contemporanea come nelle scienze sociali –, stiamo incatenandoci a
un assunto magnificamente teorico, se non meta-teorico.
Lo stesso vale quando affermiamo che la
politica internazionale, diversamente da quanto accade nell’arena domestica, è
condannata a ripetersi senza evoluzione: un mondo tragico segnato
dall’inevitabilità della guerra e dell’impunità, dove – come scriveva Tucidide
– il forte (la grande potenza) fa ciò che vuole, e il debole (il piccolo stato)
soffre quello che deve.
Stiamo
insomma scivolando verso le teorie realiste, spesso criticate per la propria
inveterata tendenza a naturalizzare l’esistente, con significativi problemi
nello spiegare il cambiamento e implicazioni nel generare profezie che si
auto-avverano.
Mi è
capitato spesso, in questi mesi, di essere chiamato a parlare della guerra in
Ucraina presso scuole, associazioni e sindacati.
I miei stessi colleghi, nei giorni successivi
all’invasione russa, mi hanno chiesto un aiuto alla comprensione, in forma di
aggiornamenti analitici e interpretazioni.
In
quelle settimane penso di aver avuto modo di toccare con mano come un po’
ovunque si respirasse lo stesso disorientamento per «il ritorno della guerra in
Europa».
Ho osservato difficoltà a unire i puntini fra
gli studenti universitari di oggi, che non hanno visto le guerre nei Balcani e
non hanno nemmeno memoria diretta dell’11 settembre, ma che sono cresciuti a
suon di domande televisive come «cosa c’è nella mente del jihadista?».
A
frastornare non era l’assenza di fatti, dati, eventi, cronache, ma – al
contrario – la difficoltà a dotarsi di uno schema di comprensione, o meglio a
capire dove rivolgersi e cosa leggere, dato il forte rumore di fondo, per
chiarire a sé stessi come si spiega cosa, e il verso in cui stiamo andando.
Persino
quegli studenti a cui solitamente si legge scritto negli occhi “troppa teoria,
vogliamo più cose pratiche”, si ponevano improvvisamente domande riflessive.
Perché
sarà anche vero che “i fatti trascinano”: ma cosa possiamo registrare come
fatto, di situazione in situazione, in un mondo incessantemente percorso da
segnali ed eventi, è tutt’altro che auto-evidente.
A
volerla dire tutta, i giorni che hanno preceduto l’inizio della guerra hanno
visto imperversare ogni tipo di teoria.
Sui social media ci si fidava di chi sapeva
leggere meglio il precipitare della crisi. Poi però la guerra è iniziata
davvero, sono arrivati i morti, e nello sbigottimento generale quasi è calato
il silenzio.
A
pochi giorni dallo scoppio Michael MacFaul scriveva su Twitter che, arrivati a
quel punto, si doveva smettere di considerare la crisi come test per diverse
teorie astratte, e ripartire invece dal riconoscere l’esistenza di torto e ragione.
Teorie
realiste.
Sul
fronte opposto, animato della spocchia di chi senza un filo di ironia ama
ritrarsi vestito da Nicolò Machiavelli, c’era John Mearsheimer – punto di riferimento del realismo “di
rito offensivo”:
i più
duri e puri, quelli che sostengono che nel sistema internazionale nessuno stato
avrà mai abbastanza potere per sentirsi garantito, e dunque sarà incline a
espandersi.
Mearsheimer
rivendicava di aver previsto un po’ tutto, e si sovrapponeva a Stephen Walt,
sempre in casa realista, nel rintracciare le cause della crisi nell’arroganza
americana.
Non ci
sarebbe stata alcuna crisi Russia-Ucraina, scriveva Walt su Foreign Affairs, se
europei e americani non avessero peccato di hubris, wishful thinking e di
idealismo liberale.
Nel
2003 Mearsheimer e Walt avevano condannato senza mezzi termini l’invasione
americana dell’Iraq:
oggi
sostengono che l’invasione russa dell’Ucraina sia la risposta logica e
prevedibile all’espansionismo occidentale, che rifiuta l’idea che l’Ucraina
debba fare i conti con le volontà del Cremlino nel proprio vicinato.
In parecchi a sinistra hanno sottoscritto
questa visione delle cose, probabilmente animati dal desiderio di rifiutare le
letture più smaccatamente atlantiste, di condannare gli Stati Uniti e
distanziarsi da quelle semplificazioni propagandistiche che riducono il
problema dell’ordine mondiale alla malvagità di Putin.
Il più
delle volte lo hanno fatto non in modo diretto, ma piuttosto prediligendo le
lenti analitiche offerte da una forma distinta di pensiero realista attorno alla
conduzione delle relazioni internazionali: la geopolitica.
Poco
preoccupata della propria validazione teorica, quest’ultima lascia parecchie
questioni senza risposta – come ho provato a evidenziare nel numero di Scenari
del primo maggio scorso.
Si tratta
non solo di questioni ontologiche (ad esempio, la natura socialmente costruita
dello spazio nei diversi ambiti di conoscenza scientifica, ben evidenziata nel
lavoro di Doreen Massey), ma anche dell’idea che tale “dato” influenzi il corso
d’azione e il suo esito, senza riuscire a chiarire in che grado questo avvenga,
in quale misura determini, fino a coniare vere e proprie dottrine fondate sull’idea di
“destino geopolitico”.
Si può
forse sostenere che il pensiero geopolitico rappresenti un modo di dare chiavi
di lettura per la politica estera, là dove le teorie realiste à la Mearsheimer
si fermano a spiegare il contesto strutturale in cui le decisioni vengono
prese, senza aiutarci molto a illuminarne la sostanza.
In
generale, sul versante positivista-realista si registra relativamente poca
considerazione del valore performativo dei discorsi e delle ideologie.
Dal
momento che lo spazio non è mai esperito in modo diretto, ma sempre attraverso
categorie culturali e specifiche rappresentazioni (mappe che codificano,
enfatizzano o minimizzano dati ai quali si è scelto di dare rilievo), questa scarsa considerazione include
il modo stesso in cui il pensiero geopolitico nelle sue varianti produce la
realtà che pretende di spiegare.
Come
ha scritto Paul O’Shea, è abbastanza prevedibile che nazionalisti, conservatori
e fascisti abbraccino la rappresentazione del mondo tipica del realismo come
teatro di infinita competizione nazionalista.
Più
complesso è capire come talvolta a sinistra si sottoscriva una teoria che neghi
la possibilità di progresso umano e ha come termine ultimo di riferimento non
l’internazionalismo ma la nazione.
Ancora più difficile è capire come
l’indulgenza verso la logica di potenza possa non generare fondamentali
contraddizioni, a sinistra, quando si tratta, invece che di quello russo, del
vicinato statunitense o turco.
In
sostanza: quando
la Russia invade e commette crimini di guerra, saremmo davanti a come il mondo
funziona, con tanto di professione di realismo (sigillo social-scientifico).
Quando
però gli Stati Uniti rovesciano governi ostili e instaurano regimi fantoccio, è
per malvagità e interesse, e va combattuto.
Tra
realismo e atlantismo.
L’argomento
realista di Mearsheimer è peraltro minato da contraddizioni.
Fra le altre, è del tutto nelle premesse della
visione realista che una Russia in lenta fase di ripresa nel tentare di
ristabilire il proprio status di potenza cerchi, in modo indipendente dalle
azioni americane, di asserire un ruolo di egemone nel suo vicinato.
Alla
luce di ciò non è dunque chiaro il ruolo che avrebbero avuto le chimere
liberali nel causare la crisi ucraina.
I
realisti si sono opposti alle invasioni americane del passato, insistendo come
si sia trattato di decisioni prive di una ragione cogente radicata nella
sicurezza nazionale, ovvero distorte da lenti ideologiche (si pensi
all’insistenza dei neocon su “regime change”).
Ma quando si tratta di applicare il medesimo metro per
spiegare le scelte della Russia, come possono spiegare un’invasione del genere
in termini di stretta difesa della sicurezza nazionale, senza ideologia?
Nonostante
i suoi fragorosi fallimenti predittivi (la fine della Guerra fredda) facciano
ormai parte del canone dello studio delle relazioni internazionali – al pari
del fallimento dell’interdipendenza economica nell’impedire la Prima guerra
mondiale o dell’idealismo nell’impedire la Seconda – il realismo viene dunque
accolto, o recepito sotto forma del suo succedaneo teoricamente proteiforme, la
geopolitica, come strumento per navigare la realtà della guerra di oggi,
tenendosi lontano da incrostazioni propagandistiche o – Dio ce ne scampi –
intellettualismo elitista.
Non
potremmo, qui, trovarci più lontani da uno schema di lettura ispirato alle
teorie liberali o liberal-istituzionali.
Il fatto è che nello schema realista di
Measheimer e Walt la possibilità di agire è di fatto negata a chiunque che non
siano gli Stati Uniti, in quanto lo stato più potente.
Tutti gli altri, Putin per primo, finiscono
per essere stilizzati come attori che si adattano, mentre gli Usa sono l’attore
che sbaglia.
Gli
atlantisti, in massima parte di ispirazione liberale, sostengono al contrario
che tutto sprigioni da una scelta criminale di Putin preparata per anni.
Sottolineano come le democrazie, chiamate a dar prova
di sé, abbiano saputo mostrarsi unite nell’adozione di sanzioni contro Mosca,
allineandosi sulle due sponde dell’Atlantico, e lo abbiano fatto contro il
persistere di vistose asimmetrie di interesse, a partire dalla dipendenza da
idrocarburi.
La rapidità della risposta dell’Unione
europea, la disponibilità tedesca a rivedere la propria posizione sul Nord
Stream 2 e riconsiderare la propria cultura strategica (spesa per la difesa),
sono elementi che rafforzano l’idea che le istituzioni internazionali contino,
e anzi possano fare la differenza.
Ascrivere
la pace alla realtà
e la
guerra all’ideologia.
Ilmanifesto.it
– (1-5-2022) - Francesco Strazzari – ci dice:
ESCALATION
UCRAÌNA.
Nulla
pare frenare il conflitto ucraino: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati
lungo la logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di
idealismo pacifista.
Sulla
guerra si rovescia una mobilitazione colossale di armi e risorse, in uno
scontro fra determinazioni sempre più esplicite, alle quali tutto il resto è
sacrificato.
Evapora la possibilità di negoziati anche solo
parziali.
Il
fango si asciuga in Ucraina.
E
ciascuno pensa di poter guadagnare combattendo.
Così
il Segretario Generale dell’Onu esce di scena fra i missili, quello della Nato
parla di guerra per anni, e nel parlamento inglese – la culla della democrazia
– si evoca l’idea del supporto terrestre.
Nulla
pare frenare la guerra: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati lungo la
logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di idealismo
pacifista.
La spinta verso l’escalation riguarda anche
gli obiettivi: ridurre le capacità di nuocere della Russia in futuro –
obiettivo evocato dal Segretario alla Difesa Austin durante la visita a Kiev –
ci proietta infatti in uno scenario assai diverso rispetto a quello del
contributo per porre termine all’aggressione.
CERTO,
A FRONTE dell’afflusso di armi sempre più pesanti e sofisticate, fino ad oggi
l’escalation di intensità è stata relativa: sempre più distruzione di
infrastrutture, ma i russi finora non hanno sfondato e l’efficacia della loro
azione militare continua a sollevare dubbi.
Tuttavia
la guerra muta: il generale Gerasimov, già capo delle forze armate, è in arrivo
sul teatro ucraino, mentre corrono voci di una mobilitazione generale.
Nei
talk show televisivi russi, pessimo riflesso dei nostri altrettanto pessimi, si
evocano ormai quotidianamente scenari nucleari, speculando sull’incenerimento
delle capitali europee.
DA
ANNI ORMAI Russia e Stati Uniti sono impegnati nell’ammodernamento dei propri
arsenali nucleari, con significative difficoltà in materia di controllo degli
armamenti.
Proprio
ieri Mosca ha definito ‘congelato’ il dialogo strategico.
Mosca
e Washington detengono più del 90% delle testate nucleari del pianeta: quelle
montate su missili balistici intercontinentali possono essere lanciate entro 15
minuti dall’ordine presidenziale.
ALL’INIZIO
dell’Era Putin la Russia ha intrapreso un programma che ha portato a testare
vettori ipersonici: al pari di quelli cinesi e americani si tratta di un serio
problema per i meccanismi di deterrenza.
Il Cremlino dispone di circa 14 mila armi
nucleari (la maggior parte non immediatamente utilizzabile), mentre si stima
che possa dispiegare via mare o sul terreno di battaglia 16 mila armi nucleari
tattiche.
Per
contro, gli Stati Uniti contano circa 3.750 testate (150 in Europa, Italia
inclusa).
DAL
2020 LA RUSSIA ha reso pubblica la propria dottrina nucleare, sostanzialmente
ancorata all’idea di impiego in condizioni di minaccia per l’esistenza dello
stato.
Da
allora Putin ha più volte evocato l’atomica, esaltando il distruttivo
dell’arsenale russo.
Il
ministro degli esteri Lavrov ha recentemente rigettato l’idea, diffusa in
Occidente, che la Russia si proponga di alimentare escalation tramite i
riferimenti al nucleare al solo fine di indurre una de-escalation del conflitto
convenzionale.
Si
ripropone qui il paradosso della logica nucleare: la deterrenza funziona solo
nella misura in cui le minacce appaiono molto credibili, ovvero leggibili in un
quadro coerente, di forte determinazione e in assenza di esitazioni.
Questo
alimenta escalation nella retorica pubblica.
In altre parole, conta il convincimento, e
dunque la dimensione ideologica della guerra.
Non
appaiono oggi ragioni razionali per cui la Russia, data la configurazione della
guerra in corso, potrebbe razionalmente oltrepassare la soglia dell’impiego di
armi nucleari tattiche.
Tuttavia, abbiamo a che fare con un invasore
che ha già sbagliato i calcoli e che con sempre maggiore insistenza evoca il
tema dell’esistenza della nazione russa, rappresentata come minacciata dagli
interessi e dai valori dell’Occidente.
DALL’INIZIO
DELL’INVASIONE dell’Ucraina in poi messaggio del Cremlino è semplice e
finalizzato a inibire la reazione internazionale: state alla larga
dall’operazione in Ucraina o dovrete affrontare il rischio di un’escalation con
implicazioni nucleari.
Stante questa premessa e il rischio
esistenziale che il Cremlino si è preso, negoziare con la Russia significa
toccare alcuni dei principi-cardine dell’ordine internazionale.
Soprattutto in presenza di gravi crimini di
guerra, negoziare la sorte di regioni conquistate con la forza sarà quanto mai
difficile: di peggio c’è forse solo pensare che la vittoria sia dietro l’angolo
se si distrugge di più e più a lungo.
Del
resto sin dal 2008, quando annesse i territori di Abkazia e Ossezia del Sud,
Putin è stato chiaro circa il precedente dell’indipendenza del Kosovo rispetto
ai «tanti Donbas» che esistono nello spazio ex sovietico.
Nonostante questa insistenza, in questi 14 anni la
Russia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, né – fino ad ora
almeno – quella della stessa Transdnistria.
NON
EMERGE, IN sostanza una vera e propria dottrina-Putin in materia di
indipendenze e annessioni, forse anche per non contrariare Cina e India, alle prese
con le proprie questioni separatiste.
Emerge invece sempre di più una retorica
‘contro l’oppressione neo-coloniale occidentale’ che paradossalmente oggi
candida l’espansionismo russo, proprio mentre mette a ferro e fuoco l’Ucraina
come se fosse una provincia ribelle, a sfidare l’Occidente liberal-democratico
anche a nome di altre potenze regionali. Questa dinamica è insidiosa per
l’Europa.
VEDERE
I MERCENARI russi di Wagner acclamati come liberatori in Africa, cavalcando
l’impopolarità degli occidentali mentre aprono il fuoco sui civili, ci dice
dell’urgenza per l’Europa di smarcarsi dalle politiche di due pesi e due misure
figlie dei più controversi processi di (de)colonizzazione (inclusi i Territori
palestinesi o le occupazioni militari turche nel nome dell’ideologia
neo-ottomanista).
Ci
dice, in altre parole, quanto necessario sia investire materialmente sulla
pace: ascrivere la pace alla realtà e la guerra all’ideologia.
Siamo
lenti. Quando il mondo è nero vede bene chi legge rosso.
Il Nyt ritratta su Meloni: "Altro che pericolo
per la
democrazia.
La sua
ordinarietà mette in crisi l'Ue".
HuffPost-
msn.com – (14-2-2023) -Redazione – ci dice:
"La
leader di estrema destra che sembrava costituire un pericolo per la democrazia
italiana, finora ha governato in modo molto meno ideologico e autoritario del
previsto.
Mettendo
in crisi l'Europa, che ora non sa quali carte giocare con il premier italiano".
È questa l'analisi che il New York Times fa
del presidente del Consiglio italiano dopo più di 100 giorni dall'inizio del
suo mandato.
Quella che doveva essere, secondo diverse
narrazioni nazionali e internazionali, un governo potenzialmente pericoloso per
la democrazia, non lo sembra poi essere così tanto.
Anzi,
Meloni, scrive il New York Times, sta governando in modo molto
"ordinario".
"La
signora Meloni si è fatta valere.
Ha placato le preoccupazioni internazionali
sulla capacità dell'Italia di onorare i propri debiti, approvando un bilancio
misurato.
Ha
avuto incontri cordiali con i leader dell'Unione Europea e ha smorzato la sua
invettiva contro i migranti e le élite.
Ha
seguito le orme del suo predecessore, Mario Draghi, cercando di portare a
termine il suo progetto per modernizzare il Paese utilizzando i miliardi di
euro di fondi per la ripresa dalla pandemia dati dall'UE" scrive il
giornale.
Ecco
perché adesso l'Europa si trova in difficoltà, dice il Nyt.
L'Unione
si aspettava che Meloni si avvicinasse all'Ungheria o alla Polonia, ma questo
non è successo.
Di fronte a un tale comportamento da parte di
Meloni, l'Ue non sa quale approccio usare verso il premier italiano.
"L'inaspettata
ordinarietà dei suoi primi giorni ha irritato l'establishment europeo e i suoi
critici italiani, suscitando sollievo, ma anche sollevando un dilemma su quanto
il tizzone ardente - ora non più così caldo - debba essere accolto o ancora tenuto,
con cautela, a debita distanza" sostiene il giornalista Jason Horowitz.
Se viene abbracciata troppo da vicino, scrive
il Nyt, "Meloni rischia di legittimare le correnti di estrema destra e
illiberali in Europa".
"Se
viene respinta, potrebbe far passare l'idea che venga punita per aver fatto ciò
che le è stato chiesto.
E se
ciò succede in un Paese grande e importante come l'Italia, può
"destabilizzare l'intero blocco e l'economia globale".
Un
esempio di respingimento già attuato verso Meloni è l'esclusione, da parte del
presidente francese Emmanuel Macron, da una cena a Parigi con il premier
ucraino Zelensky e il cancelliere tedesco Olaf Scholz.
"Un
chiaro segno che l'Italia è scesa di un livello di importanza rispetto a quando
c'era Draghi" scrive il giornale.
Macron l'ha fatto, secondo gli analisti, per
evitare di legittimare la destra francese.
Ma
Meloni è stata molto in gamba nel rispondere, incontrando a Bruxelles i leader
della Repubblica Ceca e della Polonia.
"Un avvertimento velato" spiega il
giornale.
Il Nyt
si complimenta con Meloni, che in questi mesi di governo, grazie alla sua
popolarità, è stata in grado di "ridurre al minimo i danni causati dalle
schegge vaganti presenti nella maggioranza".
Tra queste il suo partner Silvio Berlusconi,
che, scrive il giornale, "in questo fine settimana, dopo le dichiarazioni
contro Zelensky, è diventato un vero e proprio apologeta di Putin".
Niente
sembra scalfire Meloni, che, ricorda il Nyt, ha anche vinto alle elezioni
regionali.
"Per
ora, sembra, Meloni ha spento i timori di bruciare la democrazia italiana con
la fiamma post-fascista emblema del suo partito" scrive il giornale.
"E
la sinistra ora, ha dovuto escogitare una nuova critica contro il premier: che
Meloni e la destra al governo possano spaccare maldestramente il Paese"
conclude l'articolo.
AMBIENTE
E SOSTENIBILITÀ.
Clima, le clamorose bufale
sugli
orsi polari in via di estinzione.
Nicolaporro.it
– Ugo Spezia – (28 Gennaio 2023) – ci dice:
Alcune
bufale si ripetono ciclicamente. L’integralismo ideologico induce gli
ambientalisti e animalisti a credere a fake news.
Il
Secolo XIX, 31 agosto 2008: “Nove orsi bianchi sono da giorni in balìa delle
onde nel mare di Chukchi in Alaska, a quasi cento chilometri dalle coste, dopo
che i ghiacci si sono letteralmente sciolti sotto di loro.
Sembra che alcuni non ce l’abbiano fatta.
E ora è corsa contro il tempo per tentare di
salvare quelli che ancora hanno la forza di nuotare.
L’allarme era stato lanciato intorno al 20
agosto dal WWF che sta seguendo la situazione e oggi la storia è apparsa anche
sul quotidiano britannico” Daily Mail” dove campeggia una eloquente fotografia,
scattata da un elicottero in ricognizione, di un orso bianco che nuota in
solitudine in mezzo al mare”.
“Alcuni
di questi nove esemplari non si vedono più – ha detto Massimiliano Rocco,
responsabile del Programma Traffic/Specie del WWF Italia –, probabilmente non
ce l’hanno fatta.
Gli
altri sono allo stremo e al limite della sopravvivenza.
Non
possono tornare indietro e riconquistare naturalmente il pack, è impossibile.
Bisogna intervenire”.
“Perciò – ha riferito Rocco – abbiamo chiesto
alle autorità canadesi e statunitensi di intervenire con i loro mezzi per poter
anestetizzare gli animali e portarli in salvo”.
“Trovare
così tanti orsi polari al largo è il chiaro segno che il ghiaccio su cui vivono
e cacciano continua a sciogliersi.
Altri orsi potrebbero trovarsi nelle medesime
condizioni – aveva detto nei giorni scorsi Geoff York, un biologo del WWF
esperto di orsi bianchi –.
Se i
cambiamenti climatici continueranno a colpire l’Artico, gli orsi polari e i
loro cuccioli saranno costretti a nuotare per lunghe distanze per cercare cibo
e riparo”.
Immagine
straziante, quella degli orsi polari e dei loro cuccioli in balia dell’oceano,
diffusa dal WWF il 20 agosto 2008, quando l’emisfero nord del pianeta era alle
prese con un’estate caldissima e non si faceva fatica a credere che, a causa
del caldo, stesse accadendo qualcosa di drammatico.
Un’immagine
che viene subito ripresa e rilanciata con dovizia di particolari da tutti i
mezzi d’informazione, con l’effetto, consapevole o no, di scavare profondamente
nella coscienza collettiva e di sensibilizzare i governanti sulla necessità di
intervenire immediatamente sui cambiamenti climatici.
Peccato
che la notizia sia totalmente inventata.
Le
prime denunce in tal senso appaiono sui mezzi d’informazione una settimana dopo
il primo annuncio.
Ad insospettire i professionisti
dell’informazione è il fatto che, dopo il primo drammatico annuncio, non
facciano seguito altre puntate (attesissime) della saga degli orsi polari.
Perché
il WWF ha rinunciato a battere il ferro finché era caldo?
Allora il WWF corre ai ripari e promette
aggiornamenti “appena possibile”.
A
stretto giro il professor Richard Steiner, membro del programma di consulenza
marina (?) dell’Università dell’Alaska, afferma che gli orsi sono “in serio
pericolo perché hanno bisogno di ghiaccio marino, che sta diminuendo”.
Secondo
Steiner, quanto sta accadendo dovrebbe “convincere chi ancora non crede al
riscaldamento globale e all’impatto che sta avendo nell’Artico”.
Ma gli
orsi polari, anziché morire affogati, hanno continuato a nuotare, come hanno
sempre fatto, fino a tornare sulla terraferma.
Nelle
zone abitate dagli orsi polari il ghiaccio si scioglie ad ogni stagione estiva,
quando per tutti gli animali artici inizia la stagione della riproduzione.
E gli
orsi, come sempre, trovano conveniente avventurarsi alla ricerca di nuovi
territori di caccia, raggiungendo le numerose isole e aree costiere che
d’estate sono (ahimè) sgombre dai ghiacci ma in compenso sono sovrappopolate di
foche e di cuccioli di foca:
è
quello il vero obiettivo degli orsi; altro che il ghiaccio polare che si
scioglie sotto le loro zampe.
Dopo
le prime smentite, la saga degli orsi polari alla deriva si esaurisce in pochi
giorni, rimpiazzata dalla catastrofe bancaria (quella sì vera) della Lehman
Brothers e dei mutui subprime.
Ma non
c’è da dubitare che, dal momento dell’annuncio a quello dell’ingloriosa
rivelazione della bufala, nelle casse del WWF siano affluiti milioni di dollari
sotto forma di versamenti volontari di chi nel frattempo, in tutto il mondo,
decideva di devolvere il proprio contributo, doveroso e disinteressato, alla
causa della salvezza dei poveri orsi.
Bufale
ricorrenti.
Anche
se sono regolarmente smascherate, le campagne di sensibilizzazione sulla sorte
dei poveri orsi polari alla deriva per lo scioglimento dei ghiacci si
ripresentano ricorsivamente.
Ed è
così che, dopo l’avventura natatoria dei nove orsi naufraghi, il problema si è
riproposto in termini ancora più drammatici negli anni successivi.
Il 4
marzo 2010 giornali, riviste e blog pubblicano le foto di un piccolo frammento
di iceberg avvistato – si dice – a 12 miglia dalle coste della Norvegia sul
quale sono appollaiati mamma orsa e il suo cucciolo.
Lo
scioglimento lento e inesorabile della banchisa polare ha causato il distacco
del pezzo di ghiaccio sul quale sono intrappolati i due orsi (ma perché
“intrappolati”, se entrambi sanno nuotare perfettamente?).
Si tenta perfino di accreditare l’ipotesi che
mamma orsa stia facendo da skipper, cercando in tutti i modi di mantenere
stabile il piccolo iceberg per proteggere il suo cucciolo, quasi il cucciolo
stesso fosse solubile in acqua.
Sul
blog i commenti si succedono frenetici e accorati, dando alla vicenda un’aura
da telenovela sudamericana:
“Possibile che nessuno degli animalisti non
abbia almeno cercato di aiutarli?
Negli
occhi di mamma orsa c’è solo richiesta di aiuto… e tanta paura per il piccolo…
che evidentemente non ce la può fare a nuoto e la mamma non lo vuole
lasciare…”;
“Sono trascorse ore e forse giorni. Mi auguro
che li abbiano già salvati. Lascio la mia e-mail per avere la risposta…”.
Poi
tutto finisce in una bolla di sapone: si tratta dell’ennesima bufala
orchestrata dai soliti ambientalisti e animalisti in cerca di fondi.
L’8
ottobre 2016 “Lifegate” ci informa che i rarissimi orsi polari che giungono
sulle coste dell’Islanda, anziché essere abbattuti (!) come si fa di solito,
saranno salvati dai droni.
In che
modo non si riesce a capirlo, visto che i droni possono sollevare al massimo
una ventina di chili e un orso pesa alcune tonnellate.
C’è
inoltre da considerare che il fenomeno non è così diffuso da meritare
particolare attenzione: secondo uno studio condotto dall’Istituto islandese di
storia naturale, durante tutta l’epoca storica (per capirci, da Erik il Rosso
ad oggi) gli orsi approdati in Islanda non sono più di qualche centinaio.
L’ultimo sbarco di un orso polare
(regolarmente abbattuto, in quanto considerato pericoloso per gli umani) è
avvenuto nel luglio 2016 a Hvalsnes.
Ma in
tutta l’area artica gli avvistamenti di orsi naufraghi alla deriva continuano a
succedersi con regolarità.
Il 29 aprile 2019 l’agenzia russa Ria Novosti
dirama una notizia, certamente degna di fede, secondo la quale un orso polare
alla deriva su un iceberg al largo della penisola russa della Chukotka è stato
riportato a casa nel Mare di Bering con un elicottero MI-8.
Baricco
unplugged.
Nell’ottobre
del 2019 Alessandro Baricco pubblica il libro “The Game”, nel quale analizza la
rivoluzione digitale alla luce della sua opera precedente, “I Barbari”, nella
quale ha regalato all’umanità perle di saggezza secondo le quali i no-global
sarebbero la nostra assicurazione contro il fascismo e il videogame” Space
Invaders” sarebbe uno dei miti fondativi di quella che lui chiama “insurrezione
digitale” e che fa ascendere nientemeno che all’opera di “Alan Turing”,
dimostrando così di conoscere quest’ultima solo attraverso Wikipedia.
Ma nel
2019 citare Alan Turing “fa fino”, anche quando si confonde la “macchina di
Turing” (astratta) con uno smartphone.
Paradigma
dell’“insurrezione digitale”, secondo Baricco, è proprio l’i-Phone.
Non si
tratta affatto, come pensano in molti, di uno dei più classici strumenti di
conformismo e omologazione.
Secondo
Baricco, “in quel tool uscivano allo scoperto e trovavano forma i tratti
genetici che l’insurrezione digitale aveva sempre avuto […].
In
quel telefono […] moriva il concetto novecentesco di profondità, veniva sancita
la superficialità come casa dell’essere, e si intuiva l’avvento della
post-esperienza.
Quando
Steve Jobs scese dal palco, qualcosa era arrivato a compimento”.
Bella
immagine: ricorda un po’ le seghe mentali di Bonito Oliva sulla
trans-avanguardia.
Nello
stesso anno 2019 l’editore di Baricco trova conveniente stimolare uno spin-off
di tanta profondità di pensiero con la pubblicazione del volume “The Game Unplugged”,
realizzato commissionando testi eterogenei sulle tematiche del web ad un
parterre autorale giovane quanto variegato.
Uno di questi contributi è una riflessione a
voce alta sulle difficoltà di coinvolgere il pubblico sui temi del
riscaldamento globale, difficoltà che, a quanto pare, finisce col giustificare
alcuni giochetti disinvolti.
Ma
solo per il bene dell’umanità.
Nel
testo si fa riferimento esplicito ad un video pubblicato su “Instagram” il 5
dicembre 2017 dal fotografo naturalista “Paul Nicklen” nel quale si vede un
orso bianco che si trascina, magro ed emaciato, sull’isola di Baffin,
nell’Artico canadese, in un paesaggio desolato privo di neve e ghiaccio.
È solo
un vecchio orso giunto alla fine della sua esistenza per cause naturali (anche
gli orsi polari muoiono…).
Ma Nicklen preferisce scrivere che “la popolazione dei 25 mila orsi
polari rischia l’estinzione entro la fine del secolo” a causa della riduzione dei ghiacci
artici.
Si tratta della campagna di lancio del “progetto
Tide” dell’organizzazione ambientalista sì-profit “Sea Legacy”.
Due
giorni dopo, il filmato di Nickelen è ripreso integralmente da National
Geographic che lo correda di un tappeto musicale di impronta decisamente noir e
di una didascalia rivelatrice:
“Ecco
che aspetto ha il cambiamento climatico”.
Le parole “cambiamento climatico” sono
evidenziate in giallo e diventano così il cuore di una notizia (fasulla) che
attribuisce l’agonia del vecchio orso ai cambiamenti climatici.
In breve tempo il video diventa il contenuto più
condiviso di sempre su National Geographic con 2,5 miliardi di visualizzazioni.
Danni
permanenti
Finalmente,
il 12 dicembre un servizio diramato dalla BBC, realizzato con il supporto di
alcuni studiosi, chiarisce come stanno effettivamente le cose:
l’orso ripreso nel filmato è evidentemente
affetto da malanni che con i cambiamenti climatici non c’entrano niente e si
muove in un territorio nel quale i ghiacci perenni non ci sono mai stati.
Qualche
giorno dopo, recependo anche le inattese rimostranze di Nicklen e di Sea
Legacy, la redazione di National Geographic è costretta ad ammettere di avere
forzato il significato del filmato.
Ma il
succo delle prolisse giustificazioni è che la colpa dell’accaduto (manco a
dirlo) è dei “negazionisti”, che “costringono” chi ha veramente a cuore le
sorti del pianeta ad operazioni disinvolte di questo genere per sensibilizzare
gli animi!
I
danni causati da mistificazioni come queste si creano in un attimo e,
purtroppo, sono permanenti.
I tempi di reazione ai messaggi terroristici sul clima
e sulle sorti del Pianeta veicolati attraverso Instagram, Facebook, Twitter e YouTube
polarizzano l’attenzione per pochi secondi ma lasciano convinzioni (errate) che
durano per sempre.
Lo
smontaggio di una fake news, che si tratti di orsi o di altro, richiede
preparazione, ricerca e riflessione, ma non ha mai lo stesso appeal emotivo di
una fake news che si gioca interamente sull’impatto emotivo.
La verità è dunque destinata a soccombere nel
breve termine e a non essere più recuperabile neppure nel medio e lungo
termine.
Un
esempio eclatante è dato dal ricordato contributo a “The Game Unplugged” che, anziché evidenziare i guasti causati
da certa ideologia pseudo-ambientalista, si conclude con una elaborata
apologia sul
perché i catastrofisti del clima siano costretti, per il bene dell’umanità, a
ricorrere a mezzucci come le falsificazioni per affermare la “verità vera”,
senza alcun riguardo per la verità scientifica.
L’autore
del contributo citato conclude così le sue brillanti riflessioni: “Viviamo nell’inerzia di una società
costruita attorno ai combustibili fossili, e gli istinti e le abitudini che in
questo sistema ci sono serviti per prosperare ci stanno portando alla
distruzione […]
Davanti
ai dati non ci dovrebbe essere spazio per le interpretazioni […]
Non
eravamo destinati all’apocalisse, e se siamo finiti in piena crisi climatica ci
sono delle responsabilità precise, politiche ed economiche”.
Si
giunge così a rovesciare completamente ogni logica, a dimostrazione del fatto
che contro il fanatismo e il ciarpame ideologico non ci sono ragioni
scientifiche che tengano.
Del resto – come continuano a spiegarci coloro
che hanno capito tutto – tutto è relativo, anche la verità.
Se
oggi si effettua una ricerca in Internet, le notizie relative ai nove orsi
naufraghi e al loro confratello emaciato dell’isola di Baffin si ritrovano
ancora lì tali e quali, senza essere corredate di alcun riferimento stabile
alle smentite che nel frattempo le hanno ridicolizzate.
Un
mare di cazzate.
Il
mare delle cazzate che circolano in rete sugli orsi polari non sembra avere
limiti. Ecco di seguito alcune perle veicolate da “LifeGate”, public company di
consulenza sul
modello “People-Planet-Profit” creata nel 2000 dalla famiglia Roveda, dopo
avere accumulato una fortuna vendendo prodotti biologici:
–
“Dobbiamo dire addio all’orso polare? Simbolo dello scioglimento dei ghiacci,
oggi il loro numero è drasticamente in diminuzione a causa delle temperature
bollenti che si registrano nell’Artico” (19 marzo 2014).
– “Gli
orsi polari hanno iniziato a cacciare i delfini per colpa dell’uomo. Il
riscaldamento globale sta portando alcuni orsi polari a cibarsi di delfini. Il
fenomeno inedito è stato osservato da alcuni ricercatori norvegesi” (12 giugno
2015).
– “L’agonia
degli orsi polari racchiusa in una foto. Una fotografia scattata alle Svalbard
mostra con cruda chiarezza il fenomeno dello scioglimento dei ghiacci artici
che sta minacciando la sopravvivenza degli orsi (e di tutti noi)” (11 settembre
2015).
– “La
purezza genetica dell’orso polare e del grizzly è minacciata dal riscaldamento
globale che ne sta sovrapponendo gli areali favorendone l’ibridazione” (26
maggio 2016).
– “Un
nuovo pericolo per gli orsi polari, i cuccioli sono minacciati da agenti
inquinanti. Secondo uno studio italiano i contaminanti organici persistenti
alterano il latte delle femmine avvelenando i piccoli orsi polari” (7 gennaio
2017).
Apprendiamo
così che – si badi bene, per colpa dell’uomo – gli orsi polari sono in via di
estinzione (non è vero), mangiano i delfini (mangiano qualunque animale capiti
loro a tiro) e scopano con i grizzly (un solo esemplare ibrido è stato finora
documentato in natura nel 2006).
Quindi
sono solo cazzate: ma chi si incarica di farlo notare al numerosissimo popolo
che continua a frequentare acriticamente il web e a nutrire le proprie
convinzioni preconcette con queste “verità” rivelate?
L’allarme
sull’estinzione degli orsi polari fu lanciato dai proto-ambientalisti negli
anni Sessanta.
Sotto accusa erano allora le colonie umane
dell’Artico che cacciavano gli orsi per cibarsi della loro carne.
Poi si scoprì che la popolazione degli orsi
polari era in netta crescita.
Ma oggi possiamo dirlo solo sottovoce,
altrimenti rischiamo di offendere ambientalisti e animalisti e di essere
classificati tra i “negazionisti” del cambiamento climatico.
E
così, nel sito del WWF l’orso polare è tuttora classificato come “specie in via
di estinzione”:
erroneamente,
dato che, secondo i dati scientifici, la popolazione degli orsi polari è
triplicata nel mezzo secolo che separa il 1960 dal 2010, che la specie non ha
predatori (ormai neppure l’uomo) e che può contare su riserve di cibo vivo
costituito da specie tutt’altro che in via di estinzione.
Ma
incurante della verità scientifica, il WWF ha meritoriamente deciso di offrire
a tutti la possibilità di adottare un orso polare.
Lo si
può fare pagando una somma compresa tra i 30 e i 125 euro all’anno: meno di
quanto costi adottare a distanza un cucciolo di uomo del Terzo Mondo.
La
pelle dell’orso.
L’ennesimo
allarme sulla sorte degli orsi polari fu lanciato nel 2015 in seguito alla
comparsa di una campagna pubblicitaria della “Arsu Systems Corporate”, azienda che attraverso il proprio
sito web, promuoveva l’uso della pelle di orso polare come coibente naturale
per isolare dal freddo le abitazioni.
Hans
Jansson, sedicente amministratore delegato dell’azienda, dichiarava nel sito
(tuttora accessibile online) che la sfida per un futuro sostenibile passava per
una nuova idea di architettura, e in quell’ambito l’uso delle pelli degli orsi
polari – naturali e biodegradabili al 100% – apriva possibilità notevoli, sulla
scia di quanto da sempre avevano scoperto e praticato le popolazioni “Inuit”.
Il
sito offriva quindi la possibilità di chiedere un preventivo gratuito per
isolare termicamente la propria abitazione con pelli di orso polare ricorrendo
a tre diverse linee di prodotto:
il Furpro30, pellicce di cuccioli di orso di
età inferiore a tre anni, adatte per l’isolamento delle intercapedini interne e
dei controsoffitti;
il
B-tech28, pellicce di orsi di età compresa fra i tre e i dieci anni, idonee per
l’isolamento di intercapedini e soffitti non praticabili;
il
Bearrier22, pellicce di orsi di età maggiore di dieci anni, ideali per facciate
ventilate, cappotti termici e coperture.
Immediatamente
si scatenò sul web la campagna #weareall bears (siamotuttiorsi) che chiedeva a
gran voce l’oscuramento immediato del sito della “Arsu Systems”.
Salvo
poi accorgersi che si trattava di una campagna di comunicazione provocatoria
lanciata dalla multinazionale dell’isolamento termico per l’edilizia Ursa (dal
cui anagramma la denominazione Arsu dell’azienda incriminata) in collaborazione
con” Italian Climate Network” e “Tribe Communication”.
Il
vero obiettivo della campagna era promuovere l’”Ursa Award”: best project for a
better tomorrow, un bando per un progetto architettonico innovativo
ecosostenibile, volto al risparmio energetico e di ridotto impatto ambientale.
Il
linguaggio olistico scelto per la campagna, che voleva essere ironicamente
provocatorio, aveva trovato terreno fertile nei ristrettissimi spazi lasciati
all’immaginazione dal fanatismo ambientalista e animalista, finendo con lo
scatenare l’ira della parte più indottrinata del web, ormai divenuta,
purtroppo, maggioranza schiacciante.
Lo
scherzo della” Arsu Systems” prosegue.
Nella pagina Facebook della Arsu si legge oggi
quanto segue:
“Siamo
davvero delusi dal fatto che la nostra missione non ti sia chiara.
Ci
dedichiamo a salvare il pianeta e il futuro dei nostri figli.
Il
modo migliore per farlo è assicurare che i nostri edifici siano isolati
termicamente e utilizzare materiali biodegradabili e fonti rinnovabili.
Gli insulti non cambieranno la nostra
determinazione e soprattutto non faranno nulla per aiutare il nostro pianeta.
Voglio
cogliere l’occasione per ringraziare i nostri clienti in tutto il mondo che
credono in noi e che ci stanno supportando con i loro ordini”.
Ma
parallelamente – e incredibilmente – prosegue anche la campagna contro la Arsu
Systems di #weareallbears, che continua ad esortare gli aderenti a fermare un
inesistente massacro di orsi polari.
Predatori
e prede.
A
margine delle notizie fasulle sui rischi di estinzione degli orsi polari, c’è
da rilevare che anche il rapporto predatorio tra uomo e orso negli ultimi anni
si è invertito.
Se è vero che alcune popolazioni artiche sono
tuttora autorizzate a cacciare gli orsi per cibarsene, negli ultimi decenni lo
hanno fatto sempre meno, preferendo le foche, il pesce e altri cibi, mentre per
contro si registra un numero crescente di esseri umani attaccati e uccisi dagli
orsi polari.
Molti
attacchi si verificano alle isole Svalbard, dove i turisti si recano spesso
proprio per vedere gli orsi polari, nonostante il territorio sia letteralmente
tappezzato di cartelli di avvertimento che invitano a non avventurarsi oltre
senza un’arma da fuoco efficiente e carica.
Nell’agosto
2011 un gruppo di studenti britannici di età compresa tra 16 e 23 anni nel
corso di un viaggio organizzato dalla “British Schools Exploring Society” è
stato attaccato da un orso polare alla periferia della cittadina di
Longyearbyen.
Il bilancio è stato di un ragazzo morto e
altri quattro gravemente feriti.
All’8
agosto dell’anno scorso risale la notizia dell’aggressione mortale subita da
una turista francese.
Gli
attacchi degli orsi polari sono all’ordine del giorno in Groenlandia, Islanda,
Alaska, Canada e Russia.
Il 1° settembre 2016 si diffuse in rete la
notizia che un gruppo di cinque climatologi russi del servizio “Sevgidromet”
era assediato nella base artica russa di Troynoy, isola dell’arcipelago di “Izvesty
Tsi”k, nel mare artico di “Kara”, da un branco comprendente una dozzina di orsi
polari.
Il 31
agosto il branco si era avvicinato alla base e aveva sbranato un cane da
slitta.
In
breve tempo i ricercatori avevano esaurito la scorta di razzi di segnalazione,
utilizzati per allontanare gli orsi.
Erano
stati quindi costretti ad interrompere le attività all’aperto, in attesa
dell’arrivo della nave appoggio, che tuttavia sarebbe giunta solo dopo un mese.
L’SOS
dei ricercatori russi fu comunque raccolto dalla nave russa “Akademik
Tryoshnikov”, che riuscì a raggiungerli e a rompere l’assedio degli orsi,
rifornendo gli scienziati di cibo e bengala.
La
portavoce di “Sevgidromet”, Yelena Novikova, non perse l’occasione per
attribuire il comportamento anomalo (?) degli orsi al cambiamento climatico:
“Il
ghiaccio recede velocemente – spiegò la Novikova – e gli orsi non hanno il
tempo di nuotare fino alle altre isole.
Ma a
Troynoy non c’è cibo e perciò sono andati alla stazione meteo”.
La domanda sorge spontanea: ma di cosa
campavano gli orsi di Troynoy prima dello scioglimento stagionale dei ghiacci,
visto che sull’isola gli orsi polari ci sono sempre stati?
La
notizia più recente risale allo scorso 17 gennaio, quando un orso polare, dopo
avere dato la caccia ad altre persone, ha attaccato e ucciso una madre
ventiquattrenne e il suo bambino di un anno a Wales, nella penisola di Seward,
Albaska.
Anche
in questo caso, l’emittente KTUU, nel dare la notizia dell’aggressione, ne ha
attribuito la responsabilità al cambiamento climatico, che costringerebbe
(perché mai?) gli orsi ad avvicinarsi alle aree antropizzate.
Di
fronte al fervore degli ambientalisti e degli animalisti, l’ONU ha addirittura
anticipato i tempi e nel 2005 ha istituito la “Giornata internazionale
dell’orso polare”, che cade ogni anno il 27 febbraio.
Si
accompagna idealmente alla “Giornata internazionale del gatto nero” (che cade
il 17 novembre);
il
quale purtroppo, come l’orso polare, non sarà mai consapevole di tanta
considerazione.
E non
manca neppure la “Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento
dell’ambiente nella guerra e nei conflitti armati” (che cade il 6 novembre).
Qual è il significato di quest’ultima ricorrenza? Non
mi viene in mente altro: “Ammazzatevi pure, gente, ma non inquinate!”.
(Ugo
Spezia)
l
debunking dei 1.107 “scienziati”
che
negano l’emergenza climatica.
Facta.news
- Camilla Vagnozzi – (Ago. 25, 2022) – ci dice:
Il
clima è uno degli argomenti di cui più spesso si è parlato durante
quest’estate, sia online che offline.
Negli
ultimi mesi abbiamo rilevato diversi filoni narrativi appartenenti alla
disinformazione in tema cambiamento climatico, sia in Italia che all’estero.
Le diverse narrative, veicolate tramite
notizie false, vogliono convincere che il cambiamento climatico non esiste o
che non dipende dalle attività umane o, ancora, che le energie rinnovabili,
l’elettrico o la raccolta differenziata siano in realtà processi inutili o
dannosi.
Il
primo filone, quello più apertamente negazionista, è oggi tra i più corposi ed
è degli ultimi giorni la notizia di un documento, diventato virale soprattutto
sui social network, che dimostrerebbe l’inesistenza dell’emergenza climatica.
Stando
a chi l’ha condiviso, sarebbe stato redatto da «1.100 scienziati».
Nel
documento, intitolato “There is no emergency”, si legge che l’aumento delle
temperature registrato negli ultimi anni sulla Terra sarebbe del tutto normale,
che gli studi sul riscaldamento globale sarebbero inaffidabili, che la CO2 non
avrebbe alcun ruolo inquinante e che i disastri naturali non sarebbero
collegabili ai cambiamenti climatici.
Si
tratta, in tutti i casi, di tesi tipiche dei negazionisti del clima e di
informazioni false e fuorvianti, pericolose per la salute del nostro Pianeta.
Facciamo poi sin da subito un’importante
precisazione: i firmatari del documento non sono tutti scienziati e nemmeno
tutti climatologi.
Rientrano
nell’elenco, infatti, figure professionali di vario titolo e non per forza
collegate né al mondo della scienza, né a quello della ricerca sul cambiamento
climatico.
Capiamo
meglio di che cosa stiamo parlando e perché le informazioni riportate sono
errate.
“There
is no climate emergency”
Il
documento diventato virale negli ultimi giorni, e oggetto della nostra analisi,
è scritto in lingua inglese e intitolato “There is no emergency” (in italiano, “Non c’è alcuna
emergenza”).
È
stato redatto dal “Climate Intelligence Group” (Clintel), una fondazione
indipendente che, stando a quanto riportato sul proprio sito, «opera nei settori del cambiamento
climatico e della politica climatica». Clintel è nata nel 2019, fondata
dal professore di geofisica Guus Berkhout e dal giornalista Marcel Crok.
Secondo
quanto scoperto da Brendan De Melle di De smog.
(blog che approfondisce diverse tematiche
collegate al clima e riscaldamento globale) Clintel avrebbe dei legami con
l’industria dei combustibili fossili e con think thank di destra, molti già
noti per aver portato avanti diverse campagne di disinformazione sul clima.
“There
is no emergency” è un documento lungo complessivamente 38 pagine ma, dal punto di vista
contenutistico, è per lo più occupato dall’elenco dei firmatari, suddivisi per
Paese.
Solamente
due pagine sono, invece, dedicate al clima.
In una
vengono riassunti i sei principali punti che Clintel intende sottolineare per
denunciare l’assenza di un’emergenza climatica (li esamineremo tra poco).
Nella
seconda pagina dedicata al clima, è invece presente un’immagine artificiale che
mostra un paesaggio (visibilmente modificata per rendere più luminose alcune
parti), accompagnata da un breve paragrafo di testo che critica i modelli
climatici e la loro affidabilità.
Chi
sono i firmatari
“There
is no emergency” è stato sottoscritto da 1.107 persone, provenienti da diversi Stati;
168 firmatari sono italiani.
Sui
social network, dove il testo è diventato particolarmente virale e ha ricevuto
un discreto successo, si parla di «scienziati».
In
realtà, le cose sono ben diverse: oltre a esserci diversi firmatari che non
appartengono in alcun modo al mondo della scienza, anche quelli che vi
appartengono non è detto siano climatologi e che, quindi, si occupino di clima
o abbiano redatto degli studi affidabili in materia.
Per
intenderci: così come non tutti i medici sono anche ortopedici, non tutti gli
scienziati sono anche climatologi.
Guardando
al nostro Paese, ad esempio, i firmatari sono per lo più professori, docenti,
fisici, astrofisici, ingegneri e qualche geologo.
Non
manca però chi si è identificato come il «fondatore di gruppi Facebook»
dedicati all’ambiente, i liberi professionisti del settore idraulico, i
geometri e anche dei comuni lettori o pensionati.
Complessivamente
sono 41 i Paesi coinvolti, dall’Australia agli Stati Uniti.
Dando un’occhiata ai firmatari degli altri
Paesi, emerge come la varietà dei settori professionali coinvolti non sia una
prerogativa solo italiana, ma comune anche agli altri Stati.
In diversi casi ci sono professioni che hanno
poco o nulla a che fare con la scienza dei cambiamenti climatici.
Infine, è importante precisare che parte dei
firmatari sono in qualche modo legati a multinazionali operanti nel settore
dell’estrazione di idrocarburi (e, quindi, non imparziali negli interessi).
Fatta
chiarezza sul documento, passiamo alla sua analisi.
Natura,
uomo e riscaldamento globale.
Secondo
“Clintel” il clima della Terra è sempre stato variabile, «con fasi naturali
fredde e calde» e «non sorprende che ora stiamo vivendo un periodo di
riscaldamento».
In
realtà, le cose sono più complesse di così.
Se è
vero, come abbiamo già raccontato, che delle variazioni della temperatura
terrestre sono state registrate anche in passato, bisogna però tenere conto che
l’aumento delle temperature degli ultimi anni è eccezionale.
Come ricostruito dalla Nasa, l’attuale
riscaldamento sta avvenendo ad un ritmo mai visto negli ultimi 10mila anni.
Stando
all’ultimo rapporto dell’agenzia federale americana che si occupa di
oceanografia, meteorologia e climatologia (Noaa), dal 1880 la temperatura
terrestre è cresciuta di 0,08°C per decennio, ma dal 1981 la crescita è passata
a 0,18°C.
Inoltre,
secondo i dati forniti, ancora una volta, dalla Nasa, tra il 2000 e il 2014 la
temperatura della Terra è aumentata ogni anno rispetto alle temperature medie
registrate tra il 1951 e il 1980.
Diciotto dei diciannove anni più caldi della
storia del Pianeta sono avvenuti dopo il 2000.
La
crescita della CO2 nell’atmosfera dopo la rivoluzione industriale.
Fonte:
Nasa.
Ribadiamo,
infine, che la responsabilità dei cambiamenti climatici è, stando alle Nazioni
Unite, soprattutto delle attività umane che, con le proprie attività
quotidiane, causa «pericolosi e diffusi sconvolgimenti nella natura» che
«colpiscono la vita di miliardi di persone in tutto il mondo».
Della
stessa opinione è anche la comunità scientifica, ma ci arriveremo tra poco.
Quanto
ne sappiamo sul riscaldamento globale.
Secondo
Clintel «il mondo si è riscaldato significativamente meno di quanto previsto
dall’IPCC», il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni
Unite.
«Il divario tra il mondo reale e il mondo modellato ci
dice che siamo lontani dalla comprensione del cambiamento climatico».
Inoltre, le politiche climatiche si
baserebbero su «modelli inadeguati» con «molte carenze» che «esagerano
l’effetto dei gas serra» e ignorano i benefici della CO2.
In
realtà, gli studi sul cambiamento climatico sono affidabili e la loro
veridicità è sempre più confermata.
I
modelli climatici a cui Clintel fa riferimento sono indispensabili per
elaborare gli scenari climatici, ipotizzando così l’evoluzione del clima sia a
livello regionale che mondiale.
Oggi
questi sistemi sono molto affidabili e lo dimostra il confronto tra i dati
climatici reali (e, dunque, quelli effettivamente registrati “dal vivo” in un
dato periodo) con i dati precedentemente elaborati dai modelli.
Facciamo
un esempio: uno studio realizzato nel 2019 da ricercatori della University of
California, del Massachusetts Institute of Technology e della Nasa ha mostrato
che, in generale, i modelli sull’evoluzione del clima hanno previsto con
precisione il riscaldamento globale degli ultimi 50 anni.
Per farlo, sono stati elaborati i dati
estrapolati da 17 modelli utilizzati tra il 1970 e il 2007 ed è emerso che il
clima è effettivamente cambiato in quella direzione.
Guardando
al futuro, i modelli sono sempre più affidabili, anche perché sviluppati con
tecnologie di ultima generazione.
Per
quanto riguarda, in particolare, la presunta inaffidabilità delle previsioni
dell’Ipcc, si tratta di critiche spesso mosse all’organizzazione e finalizzate
a screditarne l’operato.
Nel
2010 il The Guardian aveva indagato il fenomeno, trovando un (forse due, ma non
vi era certezza per il secondo) possibile errore all’interno di un report.
Si
trattava di una proiezione errata sull’erosione dei ghiacciai, ma era un errore
di fonte: chi
aveva redatto il report non aveva utilizzato i dati corretti pubblicati
precedentemente dall’Ipcc, ma un’altra fonte che non si era dimostrata
inaffidabile.
D’altra
parte, come raccontato sempre dal The Guardian, i modelli climatici sono molti
(oltre a quelli dell’Ipcc, ci sono, ad esempio, quelli del National Center for
Atmospheric Research degli Stati Uniti, quelli del Geophysical Fluid Dynamics
Laboratory o del Met Office del Regno Unito), spesso diversi gli uni dagli
altri e interessati a studiare fenomeni differenti, il che può causare
confusione o poca fiducia agli occhi del pubblico.
Molto
dipende dall’argomento della ricerca, ma sull’esistenza dei cambiamenti
climatici e del riscaldamento globale i modelli climatici sono affidabili.
Come hanno raccontato studiosi e ricercatori
al The Guardian, la solidità di questi modelli è data dal fatto che sono basati
su regole e calcoli matematici, delle vere e proprie equazioni in grado di
descrivere i flussi d’aria e i rapporti tra il riscaldamento del Sole e la
capacità della Terra di inviare parte di quel calore nello Spazio.
Non
mancano poi i casi in cui la complessità dei modelli climatici (come, ad
esempio, il dover tenere conto di numerosi aspetti legati a diversi settori
della natura – ghiacci, temperature, permafrost, nuvole) li rende meno precisi.
Un esempio sono i modelli climatici sui cambiamenti
nelle nuvole, ancora troppo complessi per essere modellati accuratamente a
causa delle piccole dimensioni delle particelle o dell’enorme distanza.
Il
ruolo della CO2.
Se è
vero, come sostenuto da Clintel, che l’anidride carbonica è «essenziale» per la
vita sulla Terra, bisogna però chiarire che cosa si intende con sostanza
«inquinante».
Per
Clintel la CO2 non lo è.
Di per
sé, nessuna sostanza è inquinante fino a quando non nuoce alla vita o altera in
maniera significativa le caratteristiche fisico-chimiche dell’ambiente.
Sulla Terra la CO2 contribuisce al
riscaldamento globale, non fa solo del bene alle piante e all’agricoltura, come
erroneamente sostenuto dai firmatari del documento che stiamo analizzando.
Ricordiamo
infatti che le emissioni di CO2 sono tra le principali cause della crisi
climatica in corso, tanto che recentemente si è tornati a parlare della
possibilità di catturare e stoccare la CO2 emessa per rimuoverla
dall’atmosfera.
Il
ruolo della CO2 è infatti particolarmente significativo perché fa parte dei
cosiddetti gas serra, che occupano la parte medio-bassa dell’atmosfera.
Qui
l’anidride carbonica, insieme al metano, agli ossidi di azoto e ai gas
fluorurati, lascia passare i raggi solari, ma assorbe le radiazioni emesse
dalla Terra, trattenendole.
In questo modo incide sull’aumento della
temperatura della superficie del nostro Pianeta.
In
condizioni normali l’attività della CO2 è fondamentale perché contribuisce alla
creazione di una temperatura terrestre che permette la vita.
In sua assenza, il nostro clima sarebbe molto
più freddo.
Oggi,
però, l’accumulo di CO2 è tale da imprigionare quantità di calore troppo alte,
rendendo il nostro Pianeta simile ad una serra.
Come
riportato dalla Commissione europea, «nel 2020 la concentrazione di CO2
nell’atmosfera superava del 48 per cento il livello preindustriale (prima del 1750)».
Sono
le attività umane le principali responsabili di questa situazione:
gli
alti tassi di crescita dell’anidride carbonica sono in gran parte legati ai
fenomeni di combustione utilizzati per le attività umane, principalmente per
gli autoveicoli e la produzione di energia elettrica.
L’attività
di deforestazione, l’allevamento di bestiame, i fertilizzanti azotati e i gas
fluorurati sono, insieme all’attività umana, gli altri principali responsabili
dell’aumento delle emissioni.
Riscaldamento
globale e disastri naturali.
Secondo
Clintel, «non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale stia
intensificando gli uragani, inondazioni, siccità e simili calamità naturali, o
rendendole più frequenti».
Al
contrario, vi sarebbero «ampie prove del fatto che le misure di mitigazione
della CO2 siano tanto dannose quanto costose».
Anche
qui, qualcosa non torna.
Ad
ottobre 2020 l’Un “Office on disaster risk reduction” (Undrr), l’agenzia delle
Nazioni Unite che si occupa del contrasto alle catastrofi naturali, ha
pubblicato un report di denuncia in cui veniva riportato un decisivo aumento
dei disastri naturali che negli ultimi venti anni si sono verificati sulla
Terra.
Dalle 4.212 calamità naturali registrate tra
il 1980 e il 1999, alle 7.348 tra il 2000 e il 2019.
I dati mostrano, stando all’Undrr, come gli
«eventi meteorologici estremi siano arrivati a dominare il panorama delle
catastrofi nel 21° secolo».
Il
rapporto individuava nel cambiamento climatico il maggiore responsabile
dell’incremento dei disastri naturali, con una crescita che negli ultimi venti anni ha riguardato
soprattutto le grandi inondazioni (pari al 40 per cento del totale degli
eventi), i temporali (28 per cento), gli incendi e la siccità.
Ma non
solo: secondo il “Global Assessment Report 2022” stilato dall’Onu, il mondo
dovrà affrontare in media nel 2030 ogni anno circa 560 disastri naturali,
contro i circa 400 del 2015.
Stando
a quanto riportato, «le azioni umane continuano a spingere il pianeta verso i
suoi limiti esistenziali ed ecosistemici» e «l’intensificarsi degli impatti dei
cambiamenti climatici» contribuisce a rendere meno sicura la vita sul nostro
Pianeta.
Per
quanto riguarda, invece, le «dannose» e «costose» misure di mitigazione della
CO2 denunciate da Clintel, si tratta di un discorso ampio e complesso.
Prendendo,
ad esempio, il caso dello stoccaggio della CO2, è vero che si tratta di una
tecnologia controversa con vantaggi e svantaggi.
Se, da un lato, sembra una buona soluzione per ridurre
l’emergenza climatica, dall’altra incontra diversi limiti (i costi, i processi
e l’efficienza) e, dal punto di vista della produzione di energia, è incapace
di reggere il confronto con le energie rinnovabili.
L’emergenza
climatica esiste.
Infine,
i firmatari del documento che stiamo analizzando concludono sostenendo che «non
c’è emergenza climatica. Pertanto, non c’è motivo di panico e allarme» ed
esprimono la propria contrarietà per una politica zero-CO2 entro il 2050.
Al
contrario, il cambiamento climatico esiste.
I dati scientifici che provengono sia da fonti
naturali (come i ghiacci, le rocce e gli alberi) che da apparecchi moderni
(come i satelliti) mostrano i segnali del cambiamento climatico in corso. D’altra parte, l’aumento delle
temperature che abbiamo vissuto negli ultimi anni insieme alle sempre più
frequenti notizie relative allo scioglimento delle calotte glaciali provano che
il nostro Pianeta si sta riscaldando.
Stando
alla scienza, è ormai innegabile che le attività umane hanno prodotto i gas
atmosferici responsabili di intrappolare una quantità eccessiva di energia
solare all’interno del sistema terrestre, il che ha riscaldato l’atmosfera,
l’oceano e la Terra stessa, portando a rapidi e diffusi cambiamenti sul nostro
Pianeta.
Come
ricostruito da “Inside climate news”, uno studio del 2013 ha mostrato che circa
il 97 per cento delle pubblicazioni scientifiche sui cambiamenti climatici era
d’accordo su un punto:
il
cambiamento climatico sta avvenendo e ciò accade con una velocità maggiore
rispetto a quanto dettato dalla natura.
Il
motivo di questa rapidità è l’attiva degli esseri umani.
Nel 2021 uno studio pubblicato sulla rivista “Environmental
Research Letters” ha analizzato oltre 88 mila studi e dimostrato che il 99,9
per cento di essi giungeva alla stessa conclusione: il cambiamento climatico c’è e l’uomo
è il principale responsabile.
In
conclusione.
Ad
agosto 2022 è diventato virale sui social network un documento stilato dalla
fondazione Clintel che, con un riassunto in sei punti, vuole negare l’esistenza
di un’emergenza climatica.
In
realtà, i diversi argomenti a supporto di questa tesi sono fuorvianti o errati.
Il
cambiamento climatico esiste e la scienza concorda su questo punto.
La
crescita delle temperature registrate sul nostro Pianeta non può considerarsi un
fenomeno naturale, ma è direttamente influenzato dall’attività umana e ha
raggiunto cifre mai toccate prima.
I modelli climatici sono affidabili e si stanno
dimostrando, negli anni, veritieri.
È
errato sostenere che la CO2 non svolga un ruolo inquinante, essendo tra le
responsabili dell’effetto serra e dell’innalzamento delle temperature del
Pianeta.
Tra le
conseguenze dell’emergenza climatica ci sono anche i disastri ambientali che
colpiscono, sempre più spesso, la Terra e la sua popolazione.
Il
documento, dunque, riporta una serie di informazioni errate o fuorvianti,
nonché pericolose per la salute del nostro Pianeta.
Precisiamo,
infine, che i firmatari non sono tutti climatologi, né tutti scienziati.
Ci sono figure professionali molto lontane
dalla scienza ed esponenti di multinazionali operanti nel settore degli
idrocarburi.
Il
negazionismo climatico:
cos’è
e com’è oggi.
Duegradi.eu
– (4 -12-2022) - Sara Chinaglia – ci dice:
Esiste
ancora chi nega che il clima stia cambiando? Grazie all’affinamento delle
tecniche di comunicazione, possiamo dire che oggi siamo al cospetto di una
nuova era del negazionismo climatico.
Quando
è nato il negazionismo climatico?
Per
capire quando è nato il negazionismo climatico dobbiamo fare un tuffo nel
passato e oltreoceano, negli Stati Uniti degli anni ’60, quando i primi studi
fecero emergere preoccupazioni su quello che veniva chiamato “effetto serra” e
sulle conseguenze catastrofiche che avrebbe avuto sulle calotte polari qualora
non fosse stato fermato in tempo.
Successivamente,
molte compagnie petrolifere cominciarono a condurre ricerche interne a tal
proposito, senza mai pubblicarle o renderle accessibili al pubblico.
Recenti
studi hanno infatti fatto emergere che gli scienziati impiegati alla Exxon
dimostrarono, già nel 1977, che effettivamente esisteva un legame tra i
combustibili fossili e l’aumento di Co2 in atmosfera.
Siccome
i risultati delle ricerche non sono mai stati pubblicati e, anzi, sono sempre
stati tenuti nascosti, si può dire che questa sia stata la scintilla che fece
nascere il negazionismo climatico.
L’esistenza
di un effetto serra di origine antropica (umana) venne poi confermata da sempre più
studiosi, arrivando anche alle orecchie della popolazione che cominciò,
giustamente, a preoccuparsi e a chiedere a gran voce una soluzione.
Le
aziende inquinanti, responsabili dell’aumento dei gas serra in atmosfera,
iniziarono dunque a chiedersi come fare a continuare a macinare profitti
indisturbate.
Fu così che crearono la “Global Climate Coalition”, un
gruppo di lobby attivo formalmente dal 1989 al 2001, che cercò di assumere
figure competenti in grado di trovare una soluzione per poter continuare ad
emettere indisturbate.
Questa
arrivò da E. Bruce Harrison, esperto in public relations, che si può dire
essere il padre del negazionismo climatico.
La sua
strategia consisteva nel “reframing the issue”, ossia “riformulare la
questione”.
Egli
trasformò l’effetto serra non più un fatto grave e reale, ma in un’eventualità
incerta tanto quanto le sue conseguenze.
Ciò
bastò per mandare letteralmente in tilt l’opinione pubblica, che in un battito
di ciglia si riempì di teorie complottiste, di studiosi che rifiutavano
l’esistenza dell’effetto serra e di scienziati corrotti che partecipavano a programmi
televisivi per fare “propaganda negazionista”.
Che
fine ha fatto il negazionismo climatico?
Fortunatamente,
l’avanzamento della conoscenza scientifica ha fatto sì che oggi l’esistenza del
cambiamento climatico di origine antropica sia accolta pressoché all’unanimità
dalla comunità scientifica.
Uno
studio pubblicato nel 2021, infatti, ha analizzato più di 88 mila articoli
scientifici dimostrando che il 99% degli scienziati e delle scienziate concorda
che il cambiamento climatico esiste e sia stato causato dalle attività umane (e in particolare, ad esempio, dalla
combustione delle fonti fossili, promossa e portata avanti da aziende altamente
inquinanti come Exxon).
Ciò
nonostante, un “report” della “Yale University “mostra che esiste ancora una
consistente parte di popolazione mondiale che ritiene che il cambiamento
climatico non stia accadendo, non sia causato dall’uomo e che, più in generale,
non sia una priorità.
La
maggior parte di queste persone provengono da Paesi altamente vulnerabili alle
conseguenze del cambiamento climatico, come Yemen, Bangladesh, Cambogia, Laos e
Haiti.
In Indonesia, ad esempio, solo il 18% della
popolazione intervistata ritiene che il cambiamento climatico sia causato
dall’uomo.
Questo
risultato non ci dovrebbe cogliere di sorpresa, poiché non è altro che il
risultato di anni e anni in cui sono stati dati spazio e voce al negazionismo
climatico.
Alla
luce dell’attuale (quasi) unanimità della comunità scientifica nel considerare
il cambiamento climatico di origine antropica, il negazionismo climatico ha,
quindi, dovuto cambiare veste e passare dall’essere sfacciato e palese, a
essere ormai sostituito da una più sofisticata versione composta da strategie
comunicative. Quali sono?
Deviare
il discorso.
Gli
studiosi del cambiamento climatico hanno già dimostrato che le strategie per
combatterlo, riassunte nei termini “mitigazione” e “adattamento”, dipendono da
concrete riforme politiche.
Deviare
il discorso verso ciò che dovrebbero fare gli individui deresponsabilizzando,
invece, il ruolo della politica è una delle strategie per portare avanti il
negazionismo climatico.
Ne
abbiamo visto un chiaro esempio nelle notizie circolate durante l’estrema
siccità che ha colpito l’Italia nell’estate 2022, costellata di spaventose
immagini di un fiume Po quasi completamente secco.
Il dibattito che ne è emerso ha visto spostare la
responsabilità in capo agli individui, con veri e propri manuali di consigli ai
singoli cittadini invitandoli a docce meno lunghe, a prediligere una dieta a
base vegetale, a non lavare le proprie vetture, etc.
Divisone.
Un’altra
strategia consiste nel creare attrito tra attivisti e popolazione.
Un esempio molto recente riguarda il dibattito
sorto a seguito delle manifestazioni degli attivisti ambientali che hanno
“imbrattato” importanti opere d’arte.
Il
dibattito che ne è emerso, molto polarizzato, ha infuocato l’opinione pubblica,
che ha cominciato a discutere e prendere le parti, dividendosi tra chi riteneva
giuste queste proteste e chi invece le riteneva eccessive.
Tutto
questo non ha fatto che distrarre, ancora una volta, la popolazione dal capire
chi sono i veri responsabili del cambiamento climatico e chi dovrebbe costruire
delle concrete politiche ambientali.
“Doomismo”
climatico
In
questa strategia fa capolino la parola inglese “doom” (condanna) e raccoglie
tutte quelle azioni e modalità comunicative volte a far credere che ormai sia
troppo tardi per agire.
Questa
strategia non fa che diffondere un senso di impotenza e di “ansia climatica”,
portando molti a rinunciare a lottare e a chiedere politiche più concrete.
Ritardare.
Completamente
opposta alla strategia precedente, questa consiste nel rassicurare i più
preoccupati, sostenendo che il cambiamento climatico è sempre accaduto, che è
tutto sotto controllo, che le conseguenze non sono poi così gravi e che,
soprattutto, c’è tempo per agire.
Questa
strategia ha consentito di accettare e considerare rassicuranti e sufficienti i
piani a lungo termine di riduzione delle emissioni di gas climalteranti
promossi da numerose aziende (soprattutto petrolifere) e stati (quando in
realtà sono giudicati lontanissimi dalla risoluzione della crisi climatica).
Con
quali modalità si portano avanti queste strategie comunicative?
Per
portare avanti queste strategie sono necessarie delle tattiche che servono a
screditare la ricerca scientifica.
Queste
possono essere riassunte nell’acronimo “FLICC”, coniato da John Cook, dottore
in computer science e creatore del videogioco “Cranky Uncle” pensato per
insegnare le tattiche di negazionismo climatico.
Fake
experts (falsi
esperti): consiste nell’utilizzare una persona o un’istituzione non qualificata
come fonte attendibile.
Un esempio è quello della lettera di 1200
scienziati e scienziate che negano l’esistenza del cambiamento climatico.
Nessuno (o quasi) tra loro, però, è competente in climatologia.
Logical
fallacies (errori
logici): si basa sul portare avanti argomentazioni che non seguono il filo
logico del discorso, come uno dei manifesti più noti del negazionismo
climatico: “il
clima sta cambiando perché è sempre cambiato”.
Impossible
expectations (aspettative irrealizzabili): consiste nel richiedere alla scienza delle
prove inverosimili al fine di screditarla.
Un
esempio è un’altra affermazione tipica dei negazionisti climatici:
“com’è possibile prevedere gli effetti del riscaldamento
globale se non si può prevedere con certezza nemmeno il meteo della prossima
settimana?”.
Questo
fa anche leva sulla scarsa conoscenza della popolazione sulle differenze tra
meteo e clima.
Cherry
picking:
con questo termine, letteralmente “selezionare le ciliegie” si allude all’attività con cui si
raccolgono attentamente le notizie necessarie a supportare una certa teoria
(come se fossero le “ciliegie migliori”) ignorando tutte le altre.
Possiamo considerare cherry picking sostenere
che il riscaldamento globale non esiste perché un dato periodo è
particolarmente freddo.
Conspiracy
theories (teorie
del complotto): con questa strategia vengono create teorie “assurde” che vedono
il cambiamento climatico come frutto di un piano malvagio.
Un
ottimo esempio di personaggio pubblico che ha utilizzato questa tecnica per
portare avanti teorie negazioniste è l’ex presidente degli Stati Uniti Donald
Trump.
Conclusioni.
Il
negazionismo climatico porta con sé molte conseguenze più complesse della
semplice inazione climatica.
Tra
queste c’è la diffusione della consapevolezza che la scienza non è un’entità
incorruttibile (lo fosse mai stata) ed estranea a giochi di potere, ma di fatto
si dimostra, a volte, incline alle corruzioni e manomissioni da parte di forze
economiche più grandi (spesso coincidenti con specifiche lobby).
In un
momento storico come quello attuale, in cui mai come ora la scienza è
fondamentale e la “scienza spazzatura” circola pericolosamente con sempre
maggiore facilità, l’incrinarsi della fiducia nei confronti della comunità
scientifica da parte della popolazione non può che portare a risultati
catastrofici.
L’unica,
grande responsabilità dell’individuo, oggi, deve consistere nel cercare di
essere sempre vigile e non lasciare che tali manipolazioni costituiscano una
distrazione o un rallentamento nel chiedere una vera lotta all’emergenza
climatica.
L’obbligo
di indossare
il
velo della menzogna.
Marcelloveneziani.com
– Marcello Veneziani – (29 dicembre 2022) – ci dice:
Ma in
che consiste esattamente il Catalogo dei Divieti e delle zone proibite su cui
si fonda il regime della censura?
Proviamo
a fare un’analisi partendo da un doppio caso realmente accaduto nei giorni
scorsi, la deplorazione con richiesta di dimissioni del presidente del Senato
Ignazio La Russa e della senatrice Isabella Rauti, sottosegretario alla Difesa
del governo Meloni.
Parliamo
di due parlamentari eletti in libere e democratiche elezioni: prima dai
cittadini, poi dal Parlamento alle loro cariche istituzionali; con
comprensibile disapprovazione dell’opposizione.
Di
entrambi sappiamo da una vita che sono figli rispettivamente di un cofondatore
e senatore del Movimento sociale italiano e l’altra di un leader storico e
“ideologico” del Msi; e sappiamo pure che anche loro sono stati a lungo
militanti dello stesso Msi.
Non
hanno commesso reati, non hanno denunce a carico, hanno solo militato da quella
parte politica.
Le opposizioni storcono il naso, e anche
questo è comprensibile.
Un bel
giorno post-natalizio entrambi ricordano pubblicamente i loro padri e il
partito da cui provengono:
una
testimonianza storica e affettiva che non ha e non può avere alcun effetto
politico, perché quel partito non c’è più dal millennio scorso, il mondo è
cambiato.
Ma è
bastato un sobrio, scarno ricordo delle loro radici che è scattata non solo
l’indignazione militante e corale ma anche la richiesta di dimissioni e perfino
l’appello al Capo dello Stato perché intervenga.
Cosa è cambiato rispetto al giorno prima?
Nulla.
La
Russa e Rauti si sono limitati a ricordare la loro provenienza e la loro
origine famigliare e politica, a tutti ben nota.
Il
Catalogo dei Divieti e delle zone proibite colpisce chi dice ciò che è stato,
chi racconta il vero, che in quanto passato nessuno può cancellare o revocare.
Il sottinteso è che non devono dirlo, non
devono ricordarlo o devono solo platealmente pentirsi.
Ovvero
un’istigazione all’ipocrisia, l’obbligo di indossare il velo della menzogna,
coprire i loro volti e la loro storia, proprio come pretendono i fanatici
dell’islam.
E non
solo: gli Indignati sanno benissimo che i due “reprobi” istituzionali non
attentano alla libertà, alla democrazia, alla Costituzione e alle Istituzioni
repubblicane, non sono un pericolo e una minaccia per alcuno.
Ma devono tacere; il fare non conta, tutto si
riduce al dire e al non dire.
Non
devono dire ciò che sono stati, devono dimenticare i loro cognomi e i loro
padri, non devono nemmeno per un momento ricordare da dove provengono.
Conosciamo
tanti che provengono dal Partito Comunista, e tanti che provengono
dall’estremismo militante dell’ultrasinistra.
Abbiamo
avuto figure istituzionali comuniste, in cui il loro partito non era solo erede
dei partigiani che combatterono il nazifascismo ma era affiliato al comunismo
sovietico, di cui furono per svariati decenni complici e subalterni fin dai
tempi di Stalin.
Quando
Pietro Ingrao o Nilde Jotti ricordavano di essere comunisti mentre erano
Presidenti della Camera, nessuno gridava allo sdegno e preteso le loro
dimissioni; eppure ai loro tempi il comunismo sovietico e il Pci erano il
presente, non erano il passato.
Anche
Giorgio Napolitano fu comunista fino all’età della pensione;
poi quando cadde il comunismo a Mosca, si
adeguò e aderì al partito postcomunista, il Pds.
Nessuno
ha mai chiesto le sue dimissioni appena ricordava la sua passata militanza nel
Pci.
Era la
sua storia, il suo passato.
Celebrare e venerare Enrico Berlinguer, che fu
comunista per tutta la vita, e per decenni esponente di un Partito affiliato a
Mosca e finanziato dall’Urss e sognava ancora un regime comunista per
l’avvenire, è non solo consentito ma perfino obbligato, nei nostri giorni.
Il
paragone tra Msi e Pci è asimmetrico? Giusto.
Il
Msi, fu indirettamente legato al fascismo tramite il filo ideale e sentimentale
della nostalgia.
Il Pci
fu direttamente legato al comunismo mondiale tramite l’Internazionale
comunista, i traffici con l’est, la linea anti-occidentale tenuta per decenni.
Sul
fascismo il Msi adottò una formula di Augusto de Marsanich:
non
rinnegare non restaurare.
Traduco:
non rinnegare sul piano degli ideali e della storia, non restaurare sul piano
dell’azione politica.
La
prima è un’istanza ideale, la seconda è una prescrizione pratica.
Il Msi
non ricostituì il partito fascista, si limitò a una testimonianza verbale e
simbolica, rivendicando veri o presunti meriti del fascismo e ripudiando
violenze, dittatura, leggi razziali, alleanza coi nazisti.
Un
paese civile e maturo non pretende che i comunisti, i missini o i loro eredi si
vergognino del loro passato o lo rinneghino.
Ma
accetta che esistano memorie divise e divergenti, purché tutti accettino senza
sotterfugi e doppie verità la libertà, la democrazia, il rispetto del
pluralismo, il ripudio di ogni violenza.
Da noi
invece non è così; anzi peggio, lo è solo per una parte ma non per un’altra.
Torno
al presente e al tema che più vorrei sottolineare.
Il
catechismo dei divieti e delle zone proibite è un canone d’ipocrisia:
non
dovete dire quel che siete, da dove venite, cosa pensate, dovete dire il
contrario.
Se invece lo dite scatta la proprietà
transitiva: la vostra colpa di riflesso è anche della Meloni che non vi caccia,
e il vostro dire, tramite il Msi, lega la Meloni al fascismo che fu legato al
nazismo.
Ergo, la Meloni è erede di Hitler e dei campi
di sterminio.
La proprietà transitiva porterebbe Berlinguer,
Napolitano e i loro epigoni a essere eredi di Stalin e dei gulag.
Chi è
onesto e sensato rifiuta in ambo i casi quelle deduzioni.
Insomma
la storia, la realtà, la vita, i comportamenti, l’agire non contano nulla;
conta solo il dire e il non dire, come è uso nei peggiori regimi di ieri e di
oggi.
In sintesi: conta più il dire che il fare,
meglio tacere che dire la verità, è doveroso rinnegare ed è obbligatorio
indossare il velo dell’ipocrisia.
(La
Verità)
Tutti
hanno il dovere
di combattere
la
menzogna nella Chiesa.
Lanuovabq.it
– Raymon L.Burke - Cardinale – (15-02-2021) – ci dice:
Il
termine migliore per descrivere lo stato attuale della Chiesa è confusione, che
ha la sua origine nel mancato rispetto della verità.
Ognuno
di noi, secondo la sua vocazione nella vita e i suoi doni particolari, ha
l'obbligo di dissipare la confusione e di manifestare la luce che viene solo da
Cristo.
C'è
confusione sulla natura stessa della Chiesa e sul suo rapporto con il mondo.
Solo
con il battesimo si diventa figli di Dio e non è vero che Dio vuole una
pluralità di religioni.
Il
termine migliore per descrivere lo stato attuale della Chiesa è confusione;
confusione che spesso confina con l'errore.
La confusione non è limitata all'una o
all'altra dottrina o disciplina o aspetto della vita della Chiesa: riguarda l'identità stessa della
Chiesa.
La
confusione ha la sua origine nel mancato rispetto della verità, o nella
negazione della verità o nella pretesa di non conoscere la verità o nella
mancata dichiarazione della verità che si conosce.
Nel suo confronto con gli Scribi e i Farisei
in occasione della Festa dei Tabernacoli, Nostro Signore parlò chiaramente di
coloro che promuovono la confusione, rifiutando di riconoscere la verità e di
dire la verità.
La confusione è opera del Maligno, come
insegnò Nostro Signore stesso, quando disse queste parole agli scribi e ai
farisei:
«Perché non comprendete il mio linguaggio?
Perché non potete dare ascolto alle mie
parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre
vostro.
Egli è stato omicida fin da principio e non ha
perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui.
Quando
dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché
dico la verità». (Gv 8, 43-45).
La
cultura della menzogna e la confusione che genera non hanno nulla a che fare
con Cristo e con la Sua Sposa, la Chiesa.
Ricordate
l'ammonizione di Nostro Signore nel Discorso della Montagna:
«Sia
invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5,37).
Perché
è importante per noi riflettere sullo stato attuale della Chiesa, segnato com'è
da tanta confusione?
Ognuno di noi, come membro vivente del Corpo
Mistico di Cristo, è chiamato a combattere la buona battaglia contro il male e
il Maligno, e a mantenere la corsa del bene, la corsa di Dio, con Cristo.
Ognuno
di noi, secondo la sua vocazione nella vita e i suoi doni particolari, ha
l'obbligo di dissipare la confusione e di manifestare la luce che viene solo da
Cristo che è vivo per noi nella Tradizione vivente della Chiesa.
Non
dovrebbe sorprendere che, nello stato attuale della Chiesa, coloro che tengono
alla verità, che sono fedeli alla Tradizione, siano etichettati come rigidi e
come tradizionalisti perché si oppongono all'agenda prevalente della
confusione.
Essi
sono dipinti dagli autori della cultura della menzogna e della confusione come
poveri e carenti, malati che hanno bisogno di una cura.
In
realtà, noi vogliamo solo una cosa, cioè poter dichiarare, come San Paolo alla
fine dei suoi giorni terreni:
«Quanto
a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento
di sciogliere le vele.
Ho
combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la
fede.
Ora mi resta solo la corona di giustizia che
il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno;
e non solo a me, ma anche a tutti coloro che
attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tim 4, 6-8).
È per
amore di Nostro Signore e della sua presenza viva con noi nella Chiesa che
lottiamo per la verità e per la luce che essa porta sempre nella nostra vita.
Oltre
al dovere di combattere la menzogna e la confusione nella nostra vita
quotidiana, come membri viventi del Corpo di Cristo, abbiamo il dovere di far
conoscere le nostre preoccupazioni per la Chiesa ai nostri pastori – il Romano
Pontefice, i Vescovi e i sacerdoti che sono i principali collaboratori dei
vescovi nella cura del gregge di Dio. Il canone 212, uno dei primi canoni nel
Titolo I, "Obblighi e diritti di tutti i fedeli", del Libro II,
"Il Popolo di Dio", del Codice di Diritto Canonico recita:
«§1.
Consapevoli della propria responsabilità, i fedeli cristiani sono tenuti a
seguire con cristiana obbedienza le cose che i sacri pastori, in quanto rappresentano
Cristo, dichiarano come maestri della fede o stabiliscono come governanti della
Chiesa.
§2. I fedeli cristiani sono liberi di far
conoscere ai pastori della Chiesa le loro necessità, soprattutto spirituali, e
i loro desideri.
§3. Secondo la conoscenza, la competenza e il
prestigio che possiedono, hanno il diritto e talvolta anche il dovere di
manifestare ai sacri pastori la loro opinione su questioni che riguardano il
bene della Chiesa e di far conoscere la loro opinione al resto dei fedeli cristiani,
senza pregiudicare l'integrità della fede e dei costumi, con riverenza verso i
loro pastori e attenti al comune vantaggio e alla dignità delle persone».
Le
fonti del can. 212, che è nuovo nel Codice di Diritto Canonico, sono gli
insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, specialmente il n. 37 della
Costituzione Dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, e il n. 6 del Decreto
sull'Apostolato dei Laici, Apostolicam actuositatem.
Come
sottolinea la legislazione canonica i fedeli laici sono chiamati a far
conoscere le loro preoccupazioni per il bene della Chiesa, anche rendendole
pubbliche, rispettando sempre l'ufficio pastorale come è stato costituito da
Cristo nella fondazione della Chiesa attraverso il Suo ministero pubblico,
soprattutto attraverso la Sua Passione, Morte, Risurrezione, Ascensione e Invio
dello Spirito Santo a Pentecoste.
Infatti, gli interventi dei fedeli laici con i
loro pastori per l'edificazione della Chiesa non solo non diminuiscono il
rispetto dell'ufficio pastorale ma, di fatto, lo confermano (cfr. Lumen Gentium
no.37).
Purtroppo,
oggi, da alcuni nella Chiesa, la legittima espressione di preoccupazioni circa
la missione della Chiesa nel mondo da parte dei fedeli laici, è giudicata come
una mancanza di rispetto per l'ufficio pastorale.
La già
formidabile sfida presentata da una secolarizzazione sempre crescente e più
aggressiva è resa ancora più formidabile da diversi decenni di mancanza di una
sana catechesi nella Chiesa.
Soprattutto,
nel nostro tempo, i fedeli laici guardano ai loro pastori per esporre
chiaramente i principi cristiani e il loro fondamento nella tradizione della
fede come è trasmessa nella Chiesa in una linea ininterrotta.
Una
manifestazione allarmante dell'attuale cultura della menzogna e della confusione
nella Chiesa è la confusione sulla natura stessa della Chiesa e sul suo
rapporto con il mondo.
Oggi
si sente dire sempre più spesso che tutti gli uomini sono figli di Dio e che i
cattolici devono rapportarsi alle persone di altre religioni e di nessuna
religione come figli di Dio.
Questa
è una bugia fondamentale e fonte della più grave confusione.
Tutti
gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio, ma, dalla caduta dei
nostri primi genitori, con la conseguente eredità del peccato originale, gli
uomini possono diventare figli di Dio solo in Gesù Cristo, Dio Figlio, che Dio
Padre mandò nel mondo, affinché gli uomini potessero diventare di nuovo suoi
figli e figlie attraverso la fede e il Battesimo.
È solo attraverso il sacramento del Battesimo
che diventiamo figli di Dio, figli e figlie adottivi di Dio nel Suo unigenito
Figlio.
Nelle nostre relazioni con persone di altre
religioni e di nessuna religione, dobbiamo mostrare loro il rispetto dovuto a
coloro che sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio ma, allo stesso
tempo, dobbiamo testimoniare la verità del peccato originale e della
giustificazione attraverso il Battesimo.
Altrimenti,
la missione di Cristo, la sua Incarnazione Redentrice e la continuazione della
sua missione nella Chiesa non hanno senso.
Non è
vero che Dio vuole una pluralità di religioni. Egli ha mandato il Suo Figlio
unigenito nel mondo per salvare il mondo. Gesù Cristo, Dio Figlio Incarnato,
è l'unico Salvatore del mondo.
Nelle
nostre interazioni con gli altri, dobbiamo sempre dare testimonianza della
verità su Cristo e sulla Chiesa, affinché coloro che seguono una falsa religione o
non hanno alcuna religione possano ricevere il dono della fede e cercare il
Sacramento del Battesimo.
Escludendo
Dio non
c'è
più posto per l'uomo.
Lanuovabq.it – Rosalina Ravasio – (13-02-2023)
ci dice:
Qualcuno
definisce il nostro tempo “post-cristiano”.
Siamo
forse a una nuova Babilonia.
Sia la
Genesi che il mito di Fetonte mostrano dove conducono i tentativi umani di usurpare
il potere divino e quanto sia insensata la mania di aggiornamento che alberga
anche tra i cristiani desiderosi di scendere a compromessi... con la propria
rovina.
Qualcuno
chiama questo tempo “post-cristiano”. Qualcun altro lo indica come “la fine del
Cristianesimo”.
Il
pensiero e il desiderio delirante di bastare a sé stessi sta raggiungendo il
suo apice: la storia si ripete... siamo forse ad una novella Babilonia?
Qualche
sera fa, in Comunità, eravamo a cena con mons. Aldo Cavalli, Arcivescovo
titolare di Vibo Valentia e, dal 2021, Visitatore apostolico a carattere
speciale per la Parrocchia di Međugorje.
In
quell’occasione abbiamo parlato a lungo della fede nei nostri tempi, della
difficoltà di vivere oggi gli ideali cristiani, della fatica di portare avanti
il messaggio biblico e la Parola di Dio, che da sempre orienta la vita degli
uomini.
Ebbene,
mons. Cavalli, citava il pensiero di Benedetto XVI e la distinzione che il Papa
emerito faceva sulla “legge naturale”, da sempre, in tutti i secoli e in ogni
luogo, percepita dagli uomini come “logica” ... proprio perché naturale!
Oggi, invece, a guidare e determinare la vita
dell’uomo, non sono più le “leggi naturali”, ma le “leggi parlamentari”
(nazionali e sovranazionali)!
Assistiamo così, semplicemente – e direi, impotenti –
ai tentativi umani di usurpare il potere di Dio!
Vuoi
vedere che anche per noi si ripeterà ciò che accadde a chi assaltò la Torre di
Babele?
Semplicemente non si capirono più (cfr.
Genesi, cap 11):
non
riuscirono più ad intendersi l’un l’altro!
Ci
siamo dimenticati forse che Adamo ed Eva mangiarono del “frutto proibito”, con
la “speranza” di diventare come Dio?
E se
vogliamo un esempio non religioso della pericolosità, non solo dell’orgoglio,
ma della sete di potere e dell’ambizione, vediamo anche il mito di Fetonte, che
convinse il padre Apollo a lasciargli la guida del carro del sole, pur essendo
inesperto: in entrambi i casi, di Adamo ed Eva e di Fetonte, le conseguenze del
tendere ad “essere tutto”, “potere tutto”, “bastare a sé stessi” e “decidere di
sé stessi”, è stata a dir poco disastrosa: per i primi la perdita del “paradiso
terrestre” e per Fetonte, il bruciare sé stesso e la terra!
Capito?
Occhio! Prima o poi, la vita maltrattata nella sua naturalità, ti presenta il
conto!
A gran
voce si chiede, giustamente, di rispettare la “natura”, la “terra” e il
“clima”… Perdinci! Vuoi che la persona, l’uomo e la sua vita valgano di meno?
Possiamo
maltrattarle?
È
libertà?
Mmmh…
ha ragione il Libro dei Proverbi: “Prima della rovina viene l’orgoglio e prima della
caduta, lo spirito altero” (Prv 16, 18).
Oggi,
la confusione che pare regnare incontrastata in questo particolare frangente
storico, è per molti cristiani un tormento angoscioso.
La
fede soffre di un sottile ed inapparente disorientamento!
La
vita terrena, la nostra parabola esistenziale, non è più orientata alla
continua battaglia tra il “Principe di questo mondo” e Dio! (“il peccato è accovacciato
alla porta del tuo cuore”, Gen 4,7).
sotto
la bandiera di battaglie civili... ci siamo “arresi” ai “valori del
Parlamento”! Ma, con un’abilità sconcertante e giustificata da chiacchiere più
o meno storiche.
Basta.
Non c’è più l’abisso tra il bene e il male… È retorica… Non crederai ancora a
San Giacomo, quando afferma che “amare il mondo è odiare Dio”?! (Gc 4,4).
“Ma
suora...”, mi dicono in molti, compresi alcuni uomini di Chiesa: “svegliati,
devi ammodernarti nel pensiero!”, “Devi capire… Distinguere i tempi di Gesù
dall’oggi… Devi interpretare l’oggi!”
Vi
confesso: non capisco!
Penso
che sia bravissimo chi riesce tenere il piede in due o tre staffe!
È
bravo, chi riesce a dire di sì a tutti, chi riesce a “creare consensi
popolari”, perché dice parole scontate e rigorosamente moderne, benché…
assolutamente vuote.
Bravo,
chi riesce a mantenere i “riti sacramentali”, pur scollati dall’esperienza
esistenziale della Fede! Trovo queste persone di uno strabiliante virtuosismo!
Ci
sguazzano dentro, in una ricerca spasmodica di consenso… alla ricerca di
un’immagine seduttiva e piacevole… La Chiesa, dicono, deve aggiornarsi, deve
adeguarsi!
Bravi,
quanti riescono in questo esercizio di equilibrismo! Ma, io proprio non ci
riesco! Anzi, mi si palesa sempre più la caratteristica del male, che è la
menzogna! Il Male, infatti, si presenta sempre camuffato!
Da
parte mia, con timore, vedo che chi lo compie è sempre più prigioniero della
propria menzogna con una convinzione tale che difficilmente si riesce a
scalfire.
Credetemi,
proprio non ci riesco! È come se oggi, per poter esprimere il nostro essere
cristiani, dovessimo essere “una cosa sola con il mondo”!
Ma io
non ci riesco... perché, come ribadisce l’evangelista Giovanni, siamo nel
mondo, ma non del mondo!
Quanti
giovani e ragazzi incontrati nella mia vita (abbastanza lunga), ancor prima che
aprissi la Comunità, essendo stata responsabile della Pastorale giovanile
diocesana.
Quante
“vittime” di modelli educativi sbagliati, al di là dei ceti sociali poveri o
ricchi!
Quanti
giovani e ragazzi confusi da questa società satolla e straripante in tutto,
come il ricco epulone, che hanno messo il narcisismo, il denaro e il sesso
all’apice dei loro valori.
Nei
Fratelli Karamazov di Dostoevskij, Zosima si chiede:
“Che cos’è l’inferno? … è la sofferenza di non poter
essere più capaci di amare”!
Appunto,
escludendo Dio, non c’è più posto neanche per l’Uomo!
(Rosalina
Ravasio - Suora e fondatrice della Comunità
Shalom)
#EmergenzaClimaticaItalia:
l'Italia
dichiari l'emergenza climatica!
Change.org
– (12 dicembre 2019) – Alfonso Pecoraro Scanio – ci dice:
Alfonso
Pecoraro Scanio, Presidente Fondazione Uni Verde ha lanciato questa petizione e
l'ha diretta a Mario Draghi (Presidente del Consiglio dei Ministri) e a 5
altri/altre.
Il
cambiamento climatico sta diventando sempre più la principale emergenza
planetaria.
I
rapporti dell”'Intergovernmental Panel on Climate Change” (IPCC) delle Nazioni
Unite certificano, da un punto di vista scientifico, la velocità crescente del
riscaldamento globale e degli impatti su tutti i settori importanti per gli
equilibri naturali e per la vita, tanto degli esseri umani che di tantissime
altre specie animali e vegetali.
Oltre
100.000 cittadini su Change.org hanno chiesto e ottenuto che il Governo
italiano si candidasse ad ospitare la Conferenza ONU sul clima - Cop26 nel
2020.
Pur
essendo stata scelta un'altra sede, l'Italia ha ottenuto di ospitare la
PreCop.La mobilitazione di milioni di giovani in tutto in mondo sta rilanciando
un appello a tutte le istituzioni per evitare un cambiamento climatico
catastrofico.
Anche
in Italia, il movimento “Fridays for Future”, chiede da mesi che il Parlamento
italiano voti una seria dichiarazione di emergenza climatica, attraverso
un'altra petizione molto popolare su Change.org.
Il
movimento mondiale #allinforclimateaction, sempre su Change.org, ha raccolto
oltre 700 mila sostenitori per presentare, il 23 settembre prossimo, al “Climate
Summit delle Nazioni Unite” a New York, un appello affinché si dichiari lo
stato di emergenza climatica nel mondo.
I
punti programmatici presentati dal M5S, PD e LeU per il nuovo governo,
rilanciano positivamente l'esigenza del “Green New Deal” e alcuni obiettivi
importanti come l'investimento sulle energie rinnovabili, la difesa della
biodiversità, la lotta al dissesto idrogeologico.
Ma
ancora non prevedono la dichiarazione di emergenza climatica da parte del Parlamento
e del Governo italiano.
Affrontare
questa urgenza è certamente un cambio di paradigma economico ma non è solo
questo.
È
innanzitutto la presa d'atto di un'emergenza planetaria da cui discendono le
decisioni economiche, sociali e istituzionali conseguenti.
Ecco perché, su questa richiesta, sono
mobilitati giovani e cittadini, associazioni e istituzioni in tutto il pianeta.
Tanto
premesso:
chiediamo
che a partire dal dibattito programmatico che si terrà dinanzi alle Camere, il
Presidente del Consiglio dei Ministri si impegni a far approvare dal Parlamento
la dichiarazione di emergenza climatica nei tempi più rapidi possibili e a
presentarsi al “Climate Summit delle Nazioni Unite”, del 23 settembre a New
York, sostenendo
la necessità della dichiarazione di stato di emergenza climatica nel mondo
quale premessa per una radicale svolta nelle strategie di mitigazione e di
adattamento ai cambiamenti climatici.
Chiediamo:
• ai
Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, di
attivarsi per calendarizzare al più presto una discussione per una
dichiarazione di emergenza climatica;
• ai
Capigruppo di maggioranza e di opposizione del Senato della Repubblica e della
Camera dei Deputati di attivarsi per approvare questo provvedimento con la più
ampia convergenza possibile.
Vittoria.
(12
dic 2019).
Dopo
la rimozione dei rottami nella Riserva Naturale di Decima Malafede, alle porte
di Roma, con la vittoria della petizione #StopRottamiNellaRiserva proclamata il
1° dicembre, ieri, 11 dicembre, siamo riusciti ad ottenere finalmente dalla Camera dei
deputati l'approvazione della dichiarazione di emergenza climatica.
È la
vittoria di #EmergenzaClimaticaItalia e delle vostre + 100.000 firme!
Grazie
al sostegno di tutti voi, abbiamo dato coraggio a quei parlamentari che
condividevano le nostre preoccupazioni ma non erano in grado di trasformarle in
un provvedimento.
Ora la
mobilitazione continuerà per ottenere norme che davvero affrontino la crisi
climatica con la necessaria determinazione.
Il vostro attivismo civico conferma la bontà
del progetto di “Opera2030.org” (opera2030.org/) che abbiamo avviato da qualche mese,
anche in collaborazione con la piattaforma “Change.org,” per dimostrare che
nella rete non ci sono solo fake news e haters (odiatori) ma anche tante persone che vogliono
contribuire, con azioni e best practice, al miglioramento della nostra società
e a conseguire i 17 Obiettivi delle Nazioni Unite per il 2030, per un mondo più
giusto e un futuro di sostenibilità e benessere per tutti.
Grazie!
Alfonso Pecoraro Scanio.
COP27:
UNA RISPOSTA URGENTE
PER
L’EMERGENZA CLIMATICA.
Salvethecildren.it – Redazione – (4 Novembre
2022) – ci dice:
Salute
e nutrizione- Povertà – Diritti.
Le
diffuse inondazioni degli ultimi tre mesi hanno sconvolto la vita di circa 19
milioni di bambine e bambini che vivono in Pakistan, Nigeria, India, Ciad e Sud
Sudan.
Secondo
l’“International Disasters Database”, le alluvioni in questi cinque Paesi hanno
colpito un totale di 38,7 milioni di persone con migliaia di morti e milioni di
sfollati.
Inoltre,
le popolazioni di questi paesi, soffrono di alti livelli di insicurezza
alimentare, il che significa che stanno affrontando una grave crisi alimentare
accelerata dai disastri climatici.
Le
bambine e i bambini dei Paesi a basso reddito e quelli colpiti da
disuguaglianze e discriminazioni sono particolarmente soggetti.
LE
SPERANZE DI 2,4 MILIARDI BAMBINI ALLA COP27.
I
leader mondiali riuniti in Egitto per la COP27 devono garantire un’attenzione
particolare ai diritti dei bambini e delle bambine, tenendo bene a mente che le
decisioni critiche che prenderanno nel presente andranno ad influenzare il loro
futuro.
Proprio
per presentare le migliori pratiche che dimostrano come i bambini e i giovani,
in particolare quelli più colpiti da disuguaglianze e discriminazioni,
dovrebbero essere al centro della risposta mondiale alla crisi climatica,
organizzeremo, un evento collaterale alla COP27 che si svolgerà il 15 novembre
alle ore 15:30 nel Padiglione Italia, grazie alla collaborazione e agli spazi
messi a disposizione dal Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica
italiano. All’evento, oltre alla partecipazione di Daniela Fatarella,
Direttrice Generale di Save the Children Italia, ci sarà, tra gli altri, un
Rappresentante del Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica
italiano e dei giovani attivisti per il clima dall’Italia, dall’Egitto e dal
Marocco.
LE
FUTURE GENERAZIONI PAGANO LE CONSEGUENZE.
Il
livello dell’acqua oltre la soglia di pericolo ha lasciato una scia di distruzione
in ogni Paese, con case sommerse, coltivazioni distrutte e scuole costrette a
chiudere, mettendo a rischio l'istruzione di migliaia di bambini.
Quest'estate
in Pakistan, le piogge torrenziali dei monsoni, rafforzate dallo scioglimento
dei ghiacciai, hanno provocato inondazioni improvvise da record che hanno
colpito gravemente circa 16 milioni di bambine e bambini, il numero più alto di
minori colpiti da alluvioni in un singolo Paese quest'anno.
Secondo
le stime ufficiali del governo, come conseguenza diretta delle inondazioni, tra
8,4 e 9,1 milioni di persone potrebbero essere spinte verso la povertà.
La
crisi climatica sta cambiando il mondo come lo conosciamo con gravi
implicazioni per i bambini.
I nostri operatori hanno raccolto la testimonianza di
Falimata, una ragazza di 16 anni, che vive a Likdir, una delle comunità più
colpite dalle catastrofiche alluvioni nello Stato di Yobe, nel nord-est della
Nigeria:
“Non
abbiamo mai sperimentato delle inondazioni di questa portata nella nostra comunità.
Quelle di quest'anno hanno distrutto case,
spazzato via la fattoria dei miei genitori e bloccato la strada che porta alla
nostra scuola.
Non
abbiamo acqua pulita.
Manca
il cibo e abbiamo difficoltà ad accedere ai servizi medici.
Ora
sto a casa senza andare a scuola e non so quanto durerà.
Il mio
sogno è quello di ricevere un'istruzione e di sostenere la mia comunità”.
EMERGENZA
FAME E CRISI CLIMATICA.
Il
numero di persone che soffrono la fame in Pakistan è aumentato di un allarmante
45%, con 8,62 milioni di persone che stanno affrontando livelli di critici o
emergenziali di insicurezza alimentare.
Di
questi, 3,4 milioni sono bambine e bambini.
In
Nigeria, dove circa 19 milioni di persone stavano già sperimentando livelli di
fame da crisi o peggio, le forti inondazioni hanno distrutto centinaia di
migliaia di acri di terreno agricolo.
Più di 1,25 milioni di bambini sono stati
colpiti dalle peggiori alluvioni viste in Nigeria nell’ultimo decennio.
Ci
vorranno mesi, se non anni, per riparare i danni delle inondazioni in tutti e
cinque i Paesi.
Tuttavia,
l'entità dei bisogni necessari per una ricostruzione sostenibile e resiliente
probabilmente supera le risorse disponibili nella maggior parte dei Paesi.
"La COP27 rappresenta una delle ultime
opportunità per mettere sotto controllo l'emergenza climatica e fornire
finanziamenti ambiziosi per garantire un futuro sicuro al nostro pianeta e alle
generazioni a venire", ha dichiarato Yolande Wright, Direttore globale di
Save the Children per la povertà infantile, il clima e le aree urbane.
Le
nostre richieste ai leader della COP27.
Garantire
un'attenzione ai diritti dei bambini e all’equità, in particolare di quelli
colpiti da disuguaglianze e discriminazioni, e basarsi sulle opinioni e le
raccomandazioni dei bambini stessi nei negoziati, politiche e finanziamenti sul
clima.
Aumentare
gli impegni finanziari per aiutare le comunità e i bambini colpiti da
disuguaglianze e discriminazioni, ad affrontare e riprendersi dagli impatti e
dagli shock climatici.
Ciò
include il superamento dell'impegno non mantenuto di fornire almeno 100
miliardi di dollari l’anno di finanziamenti per il clima e di ripartirli al 50%
tra adattamento e mitigazione.
Fornire
nuovi, ulteriori e ambiziosi finanziamenti per affrontare la rapida escalation
delle perdite e dei danni a causa della crisi climatica e sostenere la
creazione di un nuovo meccanismo di finanziamento che aiuti ad affrontare il
costo degli impatti irreversibili della crisi climatica sui diritti dei
bambini.
Ciò
include il sostegno alle comunità già colpite da eventi climatici irreversibili.
Agire
con urgenza per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius,
nell'interesse dei bambini, ed eliminare rapidamente l'uso e i sussidi ai
combustibili fossili.
Un'azione ritardata costerà letteralmente
delle vite.
Riconoscere
l'importanza cruciale che i bambini hanno nell'affrontare la crisi climatica e
ambientale e prendere provvedimenti per una partecipazione sicura e
significativa dei bambini alla COP27 e ad altri forum e vertici sul clima, e
agire in base alle loro raccomandazioni.
Direttiva
UE sulle “Case green”,
FdI
presenta risoluzione
contro
eco-patrimoniale.
Lavocedelpatriota.it
– (16 Gennaio 2023) – Redazione – ci dice:
(Aggiornato:
28 Gennaio 2023)
Le
associazioni dei proprietari lo dicono da tempo: la direttiva europea sulle
case “green” rischia di avere l’effetto di una “eco-patrimoniale” per gli
italiani.
Le ultime
bozze della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia, presentata
dalla Commissione Ue nel dicembre del 2021, infatti, pongono degli obiettivi
che per il nostro Paese appaiono irraggiungibili.
In particolare, le versioni più recenti del documento,
sul quale la commissione e Industria, Ricerca ed Energia (Itre) del Parlamento
europeo si dovrà pronunciare il prossimo 9 febbraio, prevedono che entro il
2030 gli edifici privati dovranno ottenere almeno la classe di efficienza
energetica E, quella più diffusa negli stabili costruiti dagli anni ’80 e ’90
in poi, e che entro il 2033, cioè dopo soli tre anni, tutti gli edifici
residenziali passino alla classe D, fino ad arrivare alle emissioni zero tra il
2040 e il 2050 (con l’esclusione degli edifici di interesse storico, dei luoghi
di culto e altre eccezioni).
Una
sfida particolarmente ardua per l’Italia, il cui patrimonio immobiliare,
rispetto a quello del resto d’Europa, ha due peculiarità:
quella
di essere risalente nel tempo e quella di essere frazionato tra milioni di
proprietari.
Secondo
i dati dell’Ance, l’“Associazione nazionale dei costruttori edili”, in Italia
su circa 12 milioni di unità immobiliari residenziali, almeno 9 milioni
avrebbero bisogno di interventi di riqualificazione, circa due su tre.
Secondo
l’ultima edizione del rapporto Enea sulle certificazioni energetiche degli
edifici, infatti, il 76% dei fabbricati appartiene ad una delle tre classi
peggiori, con il 60% che si trova tra G e F.
Portarli
in classe “D” nel giro di soli dieci anni, secondo gli esperti, è praticamente
impossibile.
Le
ragioni sono molteplici, a cominciare dai costi.
È
sempre l’Ance ad ipotizzare che la spesa necessaria per portare a termine gli
interventi potrebbe essere pari al valore di un anno del Pil italiano.
Un
conto salato che verrebbe recapitato ai singoli cittadini, che nel nostro Paese
detengono la fetta maggiore della proprietà immobiliare.
La
riduzione dei consumi del 25% per passare dalla classe energetica “F” alla “E”,
ad esempio, si ottiene soltanto attraverso interventi importanti, come la coibentazione, la sostituzione di
infissi e caldaie e l’installazione di pannelli solari.
Calcolatrice
alla mano, La Repubblica ha stimato che il costo di questi lavori, per un
condominio tipo di 24 persone, potrebbe aggirarsi attorno ai 700mila euro, con
una spesa di circa 30mila euro ad unità immobiliare.
Il calcolo è eseguito al netto del cambio
degli infissi, che pesa per ulteriori 10/15mila euro.
In
totale, quindi, si parla di circa 40mila euro a famiglia.
Un
conto che lievita ulteriormente nel caso delle vilette indipendenti, dove i
costi non possono essere divisi.
Chi, nonostante la previsione all’interno
della direttiva di prestiti per l’efficienza energetica, mutui per affrontare
le ristrutturazioni, e altri incentivi finanziari e fiscali, non potrà
permettersi di adeguare la propria abitazione ai nuovi standard, si
ritroverebbe con una proprietà svalutata, cedibile sul mercato con difficoltà e
al ribasso.
Un
problema, nota Confedilizia, che si ripercuoterebbe anche sul nostro sistema
bancario, visto che la gran parte delle garanzie dei mutui ipotecari si fonda proprio
sul valore degli immobili.
Inoltre, la confederazione dei proprietari di
case mette in guardia sul fatto che per via delle caratteristiche particolari
che interessano molti immobili nel nostro Paese “gli interventi richiesti non
saranno neppure materialmente realizzabili”.
I
tempi ridottissimi, inoltre, osservano ancora da Confedilizia, rischiano di
determinare “una tensione senza precedenti sul mercato, con aumento
spropositato dei prezzi, impossibilità a trovare materie prime, ponteggi,
manodopera qualificata, ditte specializzate, professionisti”.
Una
situazione che si è già venuta a creare con il superbonus 110%, che però ha
interessato solo il 5% del totale degli edifici unifamiliari e lo 0,8% dei
plurifamiliari.
Con i
paletti fissati da Bruxelles, quindi, denuncia l’associazione, si andrebbe
incontro ad una “perdita di valore della stragrande maggioranza degli immobili
italiani” e, di conseguenza, ad un “impoverimento generale delle famiglie”.
Per
scongiurare questo scenario Fratelli d’Italia ha presentato una risoluzione
alla Camera con la quale impegna il governo a seguire “con estrema attenzione
l’evoluzione della prospettata normativa di prossima adozione, facendo valere
in sede europea la peculiarità” del nostro Paese.
“Per
migliorare le prestazioni energetiche di milioni di edifici, in un arco
temporale così limitato – viene osservato nella risoluzione – è necessario
disporre di obiettivi realistici”.
La
casa, in particolare la prima, ha ricordato di recente anche la premier Giorgia
Meloni, è un bene “sacro” che non deve essere pignorabile né tassabile.
La
battaglia si combatterà nei prossimi mesi all’interno dei palazzi delle
istituzioni europee.
I
partiti di centrodestra, compreso il gruppo dei Conservatori e Riformisti,
presieduto dalla leader di FdI, hanno presentato gran parte dei 1500
emendamenti al testo che verrà votato il 9 febbraio in commissione Itre.
A
marzo 2023 il provvedimento dovrebbe arrivare in plenaria a Strasburgo, per il
voto definitivo.
A quel
punto prenderà il via il trilogo, e cioè il negoziato informale tra i
rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione, che dovrà portare ad un
compromesso.
Il premier svedese Ulf Kristersson, in una
conferenza stampa congiunta con la presidente della Commissione Ursula Von Der
Leyen lo scorso 13 gennaio, ha detto di voler arrivare ad un accordo durante la
presidenza svedese, che si concluderà a giugno.
Il
percorso del negoziato, però, appare in salita.
Gli
europarlamentari del gruppo dei” Conservatori e Riformisti europei “sono al
lavoro per costruire un fronte politico trasversale per arrivare ad una
soluzione di buon senso, che sostenga il percorso di efficientamento energetico
e di riduzione dei consumi, ma con finanziamenti, incentivi, più flessibilità e
gradualità.
La
Commissione Ue sottolinea che gli edifici sono responsabili del 40% del consumo
energetico e del 36% delle emissioni dirette e indirette di gas ad effetto
serra legate all’energia, e che un intervento che vada in direzione di una
maggiore efficienza, oltre a ridurre consumi, emissioni e povertà energetica,
contribuirebbe anche ad abbassare le bollette, aumentare il valore degli
immobili e a generare occupazione e crescita economica grazie alle
ristrutturazioni.
Gli
obiettivi e i benefici della transizione verde, insomma, sono chiari e
condivisibili.
Ma a
pagarla non possono essere solo i cittadini italiani.
Cambiamenti
Climatici: non abbiamo
più
tempo per andare nel panico.
Auto.hwupgrade.it
- Giulia Favetti – (27 Ottobre 2022) – ci dice:
L’UNEP
ha appena pubblicato il suo “Emissions Gap Report 2022” facendo già capire dal
titolo che la finestra si sta chiudendo.
Le
novantanove pagine di trattato si aprono col titolo "The Closing Window: Climate crisis
calls for rapid transformation of societies." che lascia pochi dubbi
riguardo lo stato d'animo con cui è stato redatto e la situazione in cui si
ritrova la nostra specie.
L'UNEP
(United Nations Environment Programme) non tentenna nel definire i dodici mesi successivi
alla COP26, tenutasi nel 2021, "un anno sprecato" e sta chiaramente
indicando ai leader mondiali che sederanno ai tavoli della COP27 (dal 6 al 18
novembre 2022 a Sharm El Sheikh, in Egitto) di prendere decisioni serie ed
efficaci per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, entro il 2030.
In
termini concreti questo significa tagliare le nostre emissioni di gas serra
quasi della metà (45%) in otto anni;
il limite massimo per la nostra sopravvivenza
è stabilito a 2°C, e in quel caso il taglio si ferma a "solo" il 30%,
ma il tempo a disposizione resta ugualmente poco.
Inger
Andersen, direttrice esecutiva dell'UNEP, afferma nella prefazione del rapporto
che le nazioni stanno procrastinando ininterrottamente l'azione per combattere
il cambiamento climatico e questo ha reso non più attuabile la possibilità di
un cambiamento graduale nelle nostre abitudini:
"È
un compito arduo trasformare i nostri sistemi in soli otto anni? Sì.
Possiamo
ridurre così tanto le emissioni di gas serra in quel lasso di tempo?
Forse
no.
Ma dobbiamo provare."
Siamo
nella stessa, identica, situazione dello studente che studia la notte prima
della maturità tutte le materie; saremo promossi, o verremo bocciati?
Non lo
sapremo che all’ultimo, ma dobbiamo fare il possibile e gettare il cuore oltre
l’ostacolo.
Questo
rapporto ci dice come procedere per tale trasformazione.
Analizza e studia in modo approfondito i
cambiamenti necessari nella fornitura di elettricità, nell'industria, nei
trasporti, negli edifici e nei sistemi alimentari.
Esamina
come riformare i sistemi finanziari in modo che queste trasformazioni urgenti
possano essere adeguatamente sostenute.
Ma non
fa sconti a nessuno.
Senza
troppi giri di parole il documento afferma che "La comunità internazionale
è ancora molto al di sotto degli obiettivi di Parigi, senza un percorso
credibile per raggiungere 1,5°C.
Solo
una trasformazione urgente a livello di sistema può evitare un disastro
climatico in accelerazione...
Le
politiche attualmente in vigore, senza ulteriore rafforzamento, suggeriscono un
aumento di 2,8°C."
Ma non
è tutto nelle mani della classe politica; se è vero che dai Governi derivano le
decisioni più importanti (incentivi, divieti, agevolazioni, obblighi e così
via) è innegabile che l'umanità sia composta da una moltitudine (miliardi!) di
persone che, nel loro piccolo, operano cambiamenti molto più epocali (e rapidi)
di tutte le leggi emesse sommate assieme.
Prediligere i mezzi pubblici, o un tratto a
piedi, un'auto elettrica al posto di una termica, i pannelli solari al posto
della corrente fornita dal gestore (a cui magari non si è chiesta la
certificazione verde delle sue fonti di approvvigionamento), il riutilizzo al
posto dell'usa e getta, fa la differenza.
Ricordandoci
sempre che la percentuale piccola di un numero enorme, è a sua volta un numero
enorme.
98
COMMENTI.
(Gli autori dei commenti, e non la
redazione, sono responsabili dei contenuti da loro inseriti – info)
Notturnia
-27 Ottobre 2022.
Ottimo.
Ma diciamolo anche ai cinesi e agli indiani visto che loro sono il grosso del problema.
E
ricordiamolo anche agli africani quando bruciano legna e boschi per
l'agricoltura perché altrimenti quel tanto e costoso che facciamo in Europa non
serve a niente visto che nel nostro caso è una percentuale piccola di un numero
piccolo e loro stanno crescendo tanto sul numero grande.
E’
stato fatto bene a ricordare che NON siamo noi il problema e non siamo neanche
la soluzione visto che non pesiamo niente.
Effettivamente
le cose che dice l'articolo alla fine sono irrilevanti visto che costano un
sacco di inquinamento per produrle in Cina ed in India a vantaggio di un risparmio irrilevante in
Europa.
Sostenibilità
cos’è e perché
è
troppo importante per
essere
sottovalutata.
Sergentelorusso.it
– Marco Lorusso – (14 luglio 2022) – ci dice:
La
scommessa, vinta, di Elmec e dello Study Tour che fa tappa tra le energie
rinnovabili.
Sostenibilità, energie rinnovabili… l’impatto,
l’impronta del nostro business, di quello che facciamo, produciamo nello spazio
che ci circonda a livello sociale, economico e ovviamente ambientale.
Non è
questione di passato o di futuro, nelle agende di ogni forma e dimensione di
impresa, e ovviamente di tutti noi come privati cittadini, questi sono fattori
vitali, tremendamente prioritari, importanti… in due parole contemporanei e
urgenti.
Contemporanei
perché, al netto di ogni tipo di giro di parole, il 2022 è decisamente l’anno
della tempesta perfetta composta da Pandemia, crisi internazionali e ovviamente
straordinaria accelerazione dei cambiamenti climatici.
Urgenti
perché la tempesta di cui sopra ha accelerato evidentemente processi e “derive”
(prezzi di materie prime, gas, energie non rinnovabili, disastri ambientali…)
che, forse, in passato fiutavamo ma con altrettanta franchezza avevamo
battezzato come meno prossime e imminenti di così.
Contenuti:
1.
Elmec Study Tour la tappa nel Regno del Sole.
2.
Sostenibilità cos’è e come è cambiata nel tempo.
3.
Sostenibilità e la Commissione Bruntland.
4.
Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
5. Una
sfida globale.
6.
Sostenibilità: quali sono le energie rinnovabili.
Elmec
Study Tour la tappa nel Regno del Sole.
Nasce
da questa urgenza, da questa contemporaneità l’inevitabile centralità proprio
di temi come energie rinnovabili e sostenibilità in un progetto, che si propone
di raccontare, far provare l’innovazione al servizio del territorio, come Elmec
Study Tour.
Un
progetto record che ormai abbiamo imparato a conoscere negli obiettivi e nelle
sue modalità.
Un
progetto che, come anticipato, dedica anche e soprattutto alle energie
rinnovabili e alla sostenibilità una delle tappe più importanti su cui è
fondato.
«Se
ogni giorno ti impegni per ridurre i tuoi consumi energetici e sei convinto che
la strada per la sostenibilità non sia più un’alternativa, ma debba essere un
impegno condiviso da tutti, allora non puoi perderti la vista nel regno del
Sole, una terra interamente alimentata dalle energie rinnovabili».
Detto
fatto, nel cuore dell’“Elmer Campus” è stato costruito un vero “regno del Sole”
in cui, come per la Stampa 3D, la cyber security, il digital workplace e ancora
la Corporate Social Responsibility… è possibile testare, toccare con mano la
“magia” del fotovoltaico e dei metodi per ottimizzare i costi energetici di
aziende e privati.
I
tecnici di Elmer Solar (società, certificata come B Corp, parte del Gruppo
Elmer Informatica che dal 2005 è un player di riferimento nel panorama italiano
delle energie pulite e rinnovabili, centro di eccellenza nel mercato dei
sistemi di accumulo e partner strategico delle principali multinazionali del
settore) sono i protagonisti di una vera e propria “città sostenibile” in cui è
possibile scoprire i vantaggi del fotovoltaico e non solo, capire come
abbattere i prelievi di energia installando dei sistemi di accumulo, capire
come sfruttare al meglio gli spazi a propria disposizione posizionando delle
pensiline fotovoltaiche.
Insieme
a loro è possibile valutare nuove soluzioni per la ricarica elettrica e
l’integrazione della gestione del proprio impianto all’interno delle
piattaforme più diffuse di Smart Building Governance che possono fornire
real-time e in modalità open i dati e la reportistica sul proprio impatto green.
«Cose»
straordinariamente utili dunque, al di là di ogni iperbole, cose che Elmer,
grazie al suo Study Tour mette ancora una volta su strada con una modalità
semplicemente efficace.
Uno
spazio, alle porte di Milano, in cui muoversi, entrare, chiedere, testare,
toccare con mano subito soluzioni, vantaggi, impatti sul proprio business e sui
propri processi.
Il
tutto con la guida di alcuni dei massimi esperti italiani in materia.
Elmer
Study Tour con al “sua” tappa nel Regno del Sole è dunque “solo” una fantastica
scusa per permettere a tutti noi di capire, confrontarci con idee, strategie e
soprattutto soluzioni sviluppate da chi l’onda della sostenibilità e della
centralità delle energie rinnovabili l’ha vista prima e meglio di tutti.
Un’ottima
“scusa” per dare un senso davvero concreto e pragmatico e problemi, urgenze su
cui, purtroppo, abbiamo accumulato ritardi che nessuno oggi si può più
permettere di accumulare ulteriormente.
Sostenibilità
cos’è e come è cambiata nel tempo.
La
tappa nel “Regno del sole” dell’Elmer Study Tour è anche un ottimo motivo per
fare il punto proprio sul significato reale del concetto di sostenibilità e
sulla sua storia.
Un
modo, semplice e pragmatico, per fare ordine così come semplice e pragmatica
l’idea su cui si basa lo Study Tour.
Sostenibilità,
vocabolario alla mano, significa soddisfare le nostre necessità senza
compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri
bisogni.
La
sostenibilità non è solo ambientalismo. Integrato nella maggior parte delle
definizioni di sostenibilità infatti troviamo anche preoccupazioni per l’equità
sociale e lo sviluppo economico.
Da
dove viene il termine?
Mentre
il concetto di sostenibilità è un’idea relativamente nuova, il movimento nel
suo insieme ha radici nella giustizia sociale e altri movimenti passati con una
storia lunga e solida. Alla fine del ventesimo secolo, molte di queste idee
finiscono per unirsi nella richiesta di “sviluppo sostenibile”.
Sostenibilità
e la Commissione Bruntland.
Nel
1983, le Nazioni Unite hanno chiamato in causa l’ex primo ministro norvegese
Gro Harlem Brundtland per dirigere la nuova Commissione mondiale su Ambiente e
Sviluppo.
Dopo
decenni di sforzi per crescere standard di vita attraverso
l’industrializzazione, molti paesi erano ancora alle prese con una povertà
estrema. Lo sviluppo economico a scapito dell’ecologia e dell’equità sociale
non stava portando a una prosperità duratura.
Era chiaro che il mondo aveva bisogno di
trovare un modo per armonizzare l’ecologia con la prosperità.
Dopo
quattro anni, la “Commissione Brundtland” rilascia la sua relazione finale, “Il
nostro futuro comune”.
Un
report che definisce notoriamente come sviluppo sostenibile: uno sviluppo che
soddisfi le esigenze del presente senza comprometterne la capacità delle
generazioni future di soddisfare i propri bisogni.
La Commissione ha unificato con successo
l’ambientalismo, le preoccupazioni sociali ed economiche nell’agenda dello
sviluppo mondiale.
La sostenibilità è così diventato un approccio
olistico che considera ecologia, sociale ed economica, riconoscendo che tutti
questi fattori devono essere considerati insieme per trovare una prosperità
duratura.
Grazie
ad un simile report il concetto di sostenibilità, rispetto alle sue prime
versioni, fa registrare una profonda evoluzione che, partendo da una visione
centrata preminentemente sugli aspetti ecologici, è approdata verso un
significato più globale, che oggi tiene conto, oltre che della dimensione
ambientale, di quella economica e di quella sociale.
I tre
aspetti sono stati comunque considerati in un rapporto sinergico e sistemi e,
combinati tra loro in diversa misura, sono stati impiegati per giungere a una
definizione di progresso e di benessere che superasse in qualche modo le
tradizionali misure della ricchezza e della crescita economica basate sul PIL.
In
definitiva, la sostenibilità implica un benessere (ambientale, sociale,
economico) costante e preferibilmente crescente e la prospettiva di lasciare
alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale.
Agenda
2030 per lo sviluppo sostenibile.
Uno
dei programmi più ambiziosi, degli strumenti chiave per vincere una simile
sfida è sicuramente l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, un programma
d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità.
Sottoscritta
il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e
approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda è costituita da 17
Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs – inquadrati all’interno di un
programma d’azione più vasto costituito da 169 target o traguardi, ad essi
associati, da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e
istituzionale entro il 2030.
Questo
programma non risolve tutti i problemi ma rappresenta una buona base comune da
cui partire per costruire un mondo diverso e dare a tutti la possibilità di
vivere in un mondo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale,
economico.
Una
sfida globale.
Gli
obiettivi fissati per lo sviluppo sostenibile, su cui è basato anche lo stesso
report di sostenibilità firmato “Elmer Informatica”, hanno una validità
globale, riguardano e coinvolgono tutti i Paesi e le componenti della società,
dalle imprese private al settore pubblico, dalla società civile agli operatori
dell’informazione e cultura.
I 17
obiettivi fanno riferimento ad un insieme di questioni importanti per lo
sviluppo che prendono in considerazione in maniera equilibrata le tre
dimensioni dello sviluppo sostenibile – economica, sociale ed ecologica – e
mirano a porre fine alla povertà, a lottare contro l‘ineguaglianza, ad
affrontare i cambiamenti climatici, a costruire società pacifiche che
rispettino i diritti umani.
Per la
cronaca anche la divisione Elmer Solar ha ovviamente una sua precisa linea di “corporate
social responsibility” espressa dal concetto di “Impatto Positivo”:
«”Impatto
Positivo” –
spiegano da Elmer Solar – è un concetto che vogliamo promuovere attraverso i
nostri prodotti e servizi: l’elettrificazione dei consumi, il risparmio energetico
e l’autoproduzione di energia elettrica hanno un impatto positivo nella vita di
ogni persona, sull’ambiente e sul mondo.
Vivere
a #ImpattoPositivo significa avere un pensiero green, aperto, curioso, tendere
a migliorare sé stessi per migliorare gli altri e conservare ciò che abbiamo
intorno».
Sostenibilità:
quali sono le energie rinnovabili.
Le
energie rinnovabili hanno caratteristiche uniche: si ricavano da fonti
naturali, si rigenerano sempre e il loro impatto ambientale è molto basso.
Di questo gruppo fanno parte:
Energia
Solare:
ottenuta dal sole, è la più nota energia rinnovabile.
Viene
utilizzata per riscaldare o raffreddare case e uffici.
Viene
riconvertita in energia elettrica tramite l’utilizzo dei pannelli solari e
impianti fotovoltaici.
Energia
eolica: è
l’energia del vento, convertita in energia elettrica tramite l’utilizzo delle
pale eoliche.
Energia
geotermica:
si manifesta con l’azione di fenomeni naturali, come ad esempio sorgenti
termali, soffioni e geyser, che rilasciano calore convertito in energia pulita
tramite apposite apparecchiature.
Energia
da biomasse:
viene prodotta da qualsiasi ambiente di origine biologica, dai microrganismi
fino alle piante o agli animali.
Forse
non tutti sanno che, tra tutti i tipi di energie rinnovabili, quella da
biomasse è stata la prima utilizzata dall’uomo.
Energia
idroelettrica: utilizzando generatori ad asse verticale ed orizzontale, l’acqua viene
impiegata per creare energia.
Pur
essendo esauribile, questa risorsa è rinnovabile, a patto che l’uomo non la
sfrutti in maniera esagerata.
Energia
marina: è
generata dalle correnti oceaniche e ottenuta tramite generatori ad asse
verticale e orizzontale e poi convertita in energia elettrica.
I
vantaggi per la salute dell’uomo e dell’ambiente in virtù dell’utilizzo di
energie rinnovabili sono diversi.
Rispetto
alle fonti fossili, che generano sostanze inquinanti e sono una delle cause
principali di effetto serra e riscaldamento globale, quelle rinnovabili sono sostenibili:
producono elettricità in modo pulito.
Inoltre,
gli impianti con cui viene prodotta energia elettrica da fonti rinnovabili sono
sicuri, stabili ed efficienti.
Altro
aspetto da considerare è quello relativo alle spese e ai costi in bolletta,
decisamente inferiori quando si utilizzano fonti di energia rinnovabili.
Lavrov
all'Onu: "L'Europa è succube
degli
Usa, sul voto in Italia minacce
senza
precedenti da von der Leyen".
Agi.it
- Marta Allevato – (25 settembre 2022) – ci dice:
Il
ministro degli Esteri russo attacca Bruxelles e Washington: "La Ue sta
diventando una entità dittatoriale, gli Usa vogliono che il mondo sia il loro
cortile di casa e ora sono parte del conflitto ucraino".
AGI - "L'Occidente, invece di un
dialogo onesto e la ricerca di compromessi, punta su provocazioni grossolane e
messe in scena".
Lo ha detto il ministro degli Esteri russo,
Serghei Lavrov, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu.
Il
capo della diplomazia di Mosca ha poi rincarato la dose denunciando che, "contrariamente al buon senso
più elementare, Washington e Bruxelles hanno esacerbato la crisi dichiarando
una guerra economica alla Russia".
Il risultato è l'aumento dei prezzi del gas e
dei generi alimentari in tutto il mondo, ha aggiunto il ministro.
Il
ministro Lavrov in riferimento alla dichiarazione della presidente della
Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sulle elezioni italiane (oggetto di un successivo chiarimento) ha sottolineato che "è incredibile, non ricordo di aver
mai sentito simili minacce dalla leadership europea".
"L'Unione
europea sta diventando un'entità dittatoriale", ha aggiunto.
"Oggi
si sta decidendo la questione del futuro ordine mondiale", ha detto il
braccio destro di Vladimir Putin per la politica estera.
"La
russofobia ufficiale in Occidente ha acquisito proporzioni grottesche e senza
precedenti.
Non
esitano a dichiarare apertamente la loro intenzione non solo di infliggere una
sconfitta militare al nostro Paese ma anche di smembrarlo e cancellarlo dalle
carte geografiche".
(Il
presidente russo, Vladimir Putin, ha firmato una legge che inasprisce le pene
per renitenti e coloro che si rifiutano di andare a combattere.
Oltre
700 arresti per le proteste contro la mobilitazione voluta da Putin.
Il
presidente russo, Vladimir Putin, ha firmato una legge che inasprisce le pene
per renitenti e coloro che si rifiutano di andare a combattere.)
Gli
Stati Uniti stanno cercando di dare alla "dottrina Monroe" una
portata globale, trasformando così l'intero globo nel proprio "cortile di
casa".
Lo ha denunciato il ministro degli Esteri
russo Serghei Lavrov, nel suo intervento all'Assemblea generale dell'Onu.
"Ovviamente,
la famigerata dottrina Monroe sta guadagnando copertura globale. Washington sta
cercando di trasformare l'intero globo nel suo 'cortile di casa'.
Lo strumento per piegare i dissidenti sono le
sanzioni unilaterali illegali che sono state adottate per molti anni in
violazione della Carta dell'Onu e che sono usate come strumento di ricatto
politico", ha detto Lavrov.
"Il
cinismo di questa pratica è evidente: le restrizioni colpiscono la
popolazione civile, impedendo loro di accedere a beni essenziali, inclusi
medicinali, vaccini e cibo", ha affermato il ministro degli Esteri russo.
(agi
live)
Così
la Nato e gli Usa hanno
messo
l’Europa al guinzaglio.
Labparlamento.it
- Roberto Pierro – (30 Maggio 2022) – ci dice:
L’allargamento
della NATO e la razzia dello zar 4.0, in soli tre mesi hanno fatto tramontare
il sole sulla favola del PNRR, sull’ Unione Europea e sull’euro.
Dai
progetti di rinascita economica e sociale, siamo al riarmamento ed al nuovo
stato di emergenza per la guerra, con il corollario di carestia e fame che
accompagna ogni conflitto.
Solo
pochi anni fa il nostro Premier – nelle sue funzioni di governatore dell’Euro –
tuonava “whatever it takes” per proteggere la moneta unica e la scassata
economia del Vecchio Continente;
poi venne la pandemia, i camioncini alle varie
frontiere con le prime dosi del salvifico vaccino dello zio Sam da comprare a
scatola chiusa e con contratti firmati in bianco o secretati) ed infine la NATO, scassata alleanza basata sul
vecchio schema della contrapposizione con il pericolo rosso, di fatto un viatico per consentire “enclaves
USA” sul territorio europeo (guardare dimensioni basi Aviano, allargamento di Pisa,
copertura esclusiva radar del sud Italia).
Dopo
80 anni di ricreazione, il bluff europeo si palesa in tutto il suo imbarazzante
vuoto, la locomotiva tedesca ridotta ad un’annaspante vecchio treno a vapore,
in ginocchio davanti alla prospettiva dello zar guerrafondaio, la Francia dilaniata
da una crisi sociale che a giugno esploderà nelle urne con un’opposizione
vetero comunista che paralizzerà le ambizioni internazionali dell’attuale
leadership.
E
l’Italia…missing in action… in perenne campagna elettorale, nascosta dietro le mascherine,
bloccata da una politica incapace di fronteggiare una povertà assoluta e
parziale (sul filo della sopravvivenza) che interessa un 20% della popolazione
falcidiata dalla tassa infame dell’inflazione che colpisce chi ha meno.
Il
Governo viaggia a vista e perderà, anche se tutti diranno il contrario, tutte
le presunte opportunità del PNRR, tant’è che il nostro premier ha già inviato
il curriculum alla NATO, visti i venti di guerra per una persona capace è certo
una prospettiva migliore del pantano italico.
La
NATO, quindi, riporta prepotentemente gli USA in Europa e dà scacco matto
all’Europa che ben che vada oggi può aspirare ad una posizione ancillare,
sperando che il gas americano in bottiglia ci eviti di stare al freddo il
prossimo inverno.
In
questo contesto i commissari europei hanno già iniziato le litanie sul deficit
italiano per giustificare il prossimo necessario prelievo forzoso sulle case
degli italiani, forse l’ultima vera mission di questo governo e del premier che
continua a non spiegare l’ossessione per i nuovi estimi catastali.
Forse
è ora di prendere a prestito una gag tipica di Totò per rispondere ai
commissari economici ed al premier;
forse
è ora che qualcuno risponda “ma mi faccia il piacere”, senza il vecchio
ombrello NATO, rapidamente spolverato, oggi le nazioni europee sarebbero
passerotti bagnati in attesa di invasione russa e completamente alla mercè dello
zar 4.0 e della Cina.
L’Europa
non può permettersi altri giorni di guerra, gli Stati Uniti si.
La
NATO può spaccare l’Unione Europea, di fatto lo ha fatto già, l’alleanza
militare opera in perfetta sintonia, mentre le riunioni europee annaspano sulle
sanzioni allo zar 4.0 e qualcuno (leggi Germania, Ungheria) già si sfila.
Con
buona pace per i sognatori europei la “Next Generation Eu” rischia di dover
mettere la mimetica, si spera per non combattere.
Il
quadro è fluido, ma c’è una drammatica certezza: l’inflazione è già a due cifre
per il carrello della spesa e sia che la guerra si fermi sia che prosegua, la
crisi economica e sociale è già una tragedia.
Gli
USA lo sanno bene e stanno chiudendo il cerchio riprendendosi l’Europa che da
sola evidentemente non funziona, ricorrendo al vecchio schema geopolitico dei
blocchi, probabilmente il muro caduto a Berlino nel 1989 si è oggi spostato ad
est e l’Ucraina è destinata ad una spartizione tra est ed ovest.
In
questo quadro la NATO fa già politica estera autonoma ed armonica con gli USA,
se continua questa tensione mondiale l’alleanza militare condizionerà la
politica comune europea, perché l’ombrello protettivo militare condiziona la
libera determinazione dell’Unione Europea e dei singoli stati e sposta gli
equilibri di potere.
La Turchia, con il secondo esercito della
NATO, farà sentire la sua voce ed al netto della cristallizzata adesione
all’Unione Europea, otterrà molta visibilità e vantaggi da questo ritorno di
fiamma della vecchia alleanza militare.
Nelle
prossime due settimane l’Ucraina perderà la guerra del Dombass, allora forse lo
zar 4.0 manderà segnali di apertura per un cessate il fuoco, mentre si è
ripreso il Mare d’Azov e le risorse minerarie ucraine e la maggiore centrale
del paese invaso.
Speriamo
che vada così, ci è costato qualche miliardo di euro, ma almeno eviteremo un
conflitto diretto.
Speriamo
dicevo, perché potrebbe andare peggio;
la
Cina può invadere Taiwan, allora non ce ne sarebbe per nessuno, lo zar 4,0
punterebbe alle Repubbliche baltiche e sarebbe guerra totale.
L’ANTIEUROPEISMO
NELLA POLITICA AMERICANA
É
DESTINATO A RESTARE.
PRENDIAMONE
ATTO E REAGIAMO.
Thefederalist.eu
– Francesco Violi – (3-12-2020) – ci dice:
Il
partito repubblicano è diventato sempre più il partito di Trump.
La
difesa a spada tratta da parte del partito repubblicano, in entrambe i rami del
Parlamento, del presidente Trump nel caso Biden-Ucraina, così come nel caso del
Russiagate (da parte anche di esponenti che fino alle primarie del 2016 erano
dei cosiddetti Never Trumper) dimostrano che il partito repubblicano è
diventato completamente succube del POTUS (acronimo di President Of The United
States) in carica, come mai nella storia.
Il comportamento dei policy-makers
repubblicani, assieme alla popolarità di Trump tra l’elettorato repubblicano
(dove registra tassi di approvazione superiori all’80%) sono indizi che il
trumpismo, da fenomeno periferico nel 2016, è diventato in tutto e per tutto mainstream
del GOP (acronimo di Grand Old Party, nomignolo del partito repubblicano).
Trascorreranno anni, se non decenni, prima che
il partito repubblicano possa tornare su posizioni più moderate, se mai dovesse
tornarvi.
Infatti,
allo stato attuale e dopo tre anni abbondanti dalla sua inaspettata vittoria
alle primarie repubblicane e la sua vittoria altrettanto inaspettata nelle
elezioni presidenziali, Donald Trump rappresenta niente altro che la punta di
diamante di una componente ormai molto forte e rumorosa del partito
repubblicano, una componente che fino a quattro anni fa sembrava destinata a
rimanere minoritaria o comunque lontana da posizioni di responsabilità e che
invece, a causa della polarizzazione politica statunitense e dell’incapacità di
candidati moderati come Rubio o Kasich di contrastare non solo la candidatura,
ma anche la narrativa di Trump, è diventata oramai il mainstream di quello che
fu il partito di Lincoln ed Eisenhower.
Trump
si è distinto, nel 2016, per essere stato l’unico candidato repubblicano e
presidenziale a sostenere apertamente la Brexit, e a non aver mai nascosto la
sua ostilità verso l’Unione europea, (oltre che verso la NATO) in dichiarazioni
e tweet.
Oggi
non solo una parte sempre più consistente della base repubblicana si informa su
“Foxnews” o piattaforme complottiste e di estrema destra quali “Infowars” e “Breitbart”,
ma anche organizzazioni studentesche estremiste quali “Turning Point USA “o la”
American Conservative Union”, ed eventi politici quali la Conservative
Political Action Conference (CPAC, evento nel quale Nigel Farage negli ultimi
anni è sempre stato ospite e speaker fisso) sono diventate e diventeranno
sempre più importanti, “rebus sic stantibus”, nella struttura del partito
repubblicano, specialmente se il trumpismo dovesse dimostrarsi qualcosa di più
di un fenomeno passeggero.
Dal
punto di vista europeista e atlantista, l’evoluzione antieuropea del GOP, del
suo elettorato e della sua élite rappresenta una pessima notizia.
Come già menzionato, non solo la CPAC ha visto
partecipare come ospiti arci-brexiteers come Nigel Farage, ma l’Unione europea,
nelle parole sia di Trump, sia di personalità a lui legate, come Mike Pompeo
(che non si è fatto scrupolo ad attaccare frontalmente diplomatici e funzionari
europei durante una visita) è continuamente oggetto o di attacchi o scherno,
accompagnati da episodi come il (tentato) downgrade dell’Unione europea nella
rappresentanza diplomatica presso la Casa Bianca.
Se
precedentemente uscite tipo il “Fuck the EU” di John Kerry sembravano episodi
isolati, nascosti dietro le quinte, e figli della frustrazione del momento,
oggi sembrano diventati normali.
Sebbene
la NATO resti un pilastro importante dell’ordine Occidentale e sia stata una
degli elementi fondamentali per la pacificazione dell’Europa assieme
all’integrazione europea, è opportuno considerare che l’anti-europeismo
dell’attuale GOP costituisce un rischio molto grave per il futuro
dell’Alleanza.
Questo
anti-europeismo non è solo un’opposizione tout-court al progetto europeo, ma
tocca diversi settori.
Tocca
innanzitutto l’idea stessa di welfare e l’idea di un rapporto più bilanciato
tra Stato e mondo degli affari.
L’antieuropeismo della destra americana è
l’espressione di un’ideologia basata sull’opposizione all’idea stessa di una
qualsiasi forma di contratto sociale, che si concretizzi sia nell’intervento
pubblico nell’economia (più o meno accettabile a seconda delle condizioni), sia
nell’impostazione di tipo liberale con un’autorità antitrust e le sue strutture,
sia nella protezione dei dati dei singoli individui, o nell’idea di
progressività nel sistema fiscale, o nella lotta a difesa dell’ambiente.
L’Europa
e l’Unione europea, per la destra americana, la destra conservatrice in tutte
le sue forme, paleo-libertaria o neo-autoritaria, sono un tutt’uno che
rappresenta tutto ciò che per loro è nemico e ostacolo alla realizzazione del
loro progetto ideologico.
L’Unione è un ostacolo da rimuovere.
La Brexit e il sostegno alle forze anti-EU
sono funzionali alla realizzazione di questo progetto plutocratico, che
rappresenta l’unione tra lo sviluppo più becero, egoistico e predatorio del
mondo degli affari e una lettura superficiale, appiattita e monodimensionale
della teoria politica ed economica liberale.
Il
fatto che questo discorso sia così forte in uno dei due partiti del sistema
statunitense costituisce un rischio molto grave per l’Unione, maggiore del
revanscismo russo di Putin (le cui modeste performance sul lato economico militano
fortemente il successo della sua azione), e maggiore dell’emergere della Cina.
Se
infatti sia la Cina sia la Russia rappresentavano e rappresentano, in modi e
misure diverse, dei competitors, gli Stati Uniti erano tradizionalmente i
garanti dell’ordine e della stabilità europea.
Lasciare, in queste condizioni, che gli Stati Uniti
continuino a esercitare un ruolo egemonico nel sistema atlantico, costituisce
per l’Europa una scelta molto rischiosa.
In
questa situazione, è opportuno considerare diverse scelte.
Come
tycoons e miliardari americani e australiani non si fanno più scrupoli a
finanziare forze votate a frammentare l’Europa e frustarne l’azione in termini
di emergenza climatica, allo stesso modo l’Europa non deve farsi scrupolo a
reagire, e a contrapporre, citando Klemens von Metternich riguardo alla
politica, non tanto “potenza a potenza”, ma soprattutto “altare ad altare”.
Lo scontro tra la destra americana,
anti-ambientalista, anti-liberale, e nazionalista e un’Unione che scommette
ancora sul multilateralismo, sulla transizione energetica e sulle politiche per
l’azzeramento delle emissioni è soprattutto un conflitto ideologico.
L’Unione
non deve esitare a raggiungere quella società civile statunitense, l’élite sia
essa democratica sia essa repubblicana, che ancora crede nella vicinanza e
leale collaborazione tra Europa e Stati Uniti, ma deve anche tornare a
raggiungere le menti degli americani di ogni censo e condizione, di quanti sono
stati più vulnerabili al messaggio di Trump nel 2016.
Allo
stesso tempo, l’Europa deve finalmente diventare più autonoma dagli Stati
Uniti, non avversaria ma nemmeno succube, e a diversificare le proprie amicizie
e rapporti internazionali.
Deve
avere una politica di sicurezza e di difesa unita e coesa a sé stante,
responsabile di fronte al Parlamento Europeo.
Deve
darsi una propria politica industriale specie in rapporto alla difesa
emancipandosi dagli Stati Uniti e il bilancio europeo dovrà conseguentemente
sostenere queste iniziative.
Le istituzioni europee dovranno
conseguentemente fare un salto costituzionale, al fine di avere un governo
europeo capace di fronteggiare l’aggressività della politica repubblicana.
Per quanto ciò possa non essere desiderabile dal
punto di vista politico, storico e forse anche emotivo, costituirà la migliore
strategia per difendersi da un discorso politico sempre più anti-europeista.
Un
anti-europeista potrebbe facilmente cadere nell’illusione che l’aggressività
della destra americana possa costituire l’inizio della fine per l’Unione e
aprire una nuova prospettiva di libertà per i paesi europei.
Ciò
tuttavia costituisce un’illusione e un atto autolesionistico.
La guerra ideologica della destra americana è
volta soprattutto all’obiettivo di ribadire una supremazia americana in tutti i
rapporti di forza, una supremazia in cui tutto si basa su una visione a somma
zero dei rapporti internazionali, nella quale la convenienza per uno (gli USA)
deve significare necessariamente lo svantaggio per un altro.
I futuri negoziati tra il Regno Unito e gli
Stati Uniti, specialmente se Trump dovesse vincere di nuovo nel 2020, saranno
un banco di prova per osservare questa nuova dinamica di potere.
A ciò si aggiunge il fatto che
ideologicamente, l’obiettivo del nuovo GOP trumpiano è lo smantellamento di
tutto ciò che costituisce un ostacolo alla realizzazione di quel modello di
società iperliberista e plutocratica propagandata dai circoli conservatori
americani:
la
cancellazione degli standard di sicurezza e degli standard ambientali;
la
cancellazione di qualsiasi presenza pubblica nell’erogazione di servizi
pubblici quali sanità e istruzione, la non-protezione dei dati personali,
ridotti a pura commodity e, come la crisi ambientale e la crisi del Covid 19
dimostrano, il completo disprezzo verso la scienza e l’esaltazione della
cultura irrazionale e anti-scientifica.
Per questo, per quanto a un autoproclamato sovranista
l’unità europea possa non interessare come prospettiva futura, ancor di meno dovrebbe
interessargli una prospettiva di sudditanza totale e l’accettazione di un
modello economico e della gestione pubblica che è estranea alla cultura
politica ed economica europea.
(Francesco
Violi)
UCRAINA:
MA È MOSCA O
WASHINGTON
A VOLERE LA GUERRA?
Notiziegeopolitiche.net
– (23 Febbraio 2022) - Dario Rivolta - ci dice:
(Dario
Rivolta. Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e
commercio internazionali.)
Se
qualcuno ancora nutre dei dubbi sul fatto che la politica estera degli stati
europei sia succube dei soli interessi americani, la vicenda ucraina attuale
dovrebbe definitivamente fugarli.
Cerchiamo
di guardare i fatti come analisti, scevri da pregiudizi e partiamo dal
rispondere a due domande.
La
prima:
tenendo conto della storia, degli accordi esistenti e del diritto
internazionale, chi ha ragione tra i contendenti sul campo?
La seconda: se è legittimo per ogni Stato
perseguire il proprio interesse nazionale senza dimenticare la conseguenza
delle proprie decisioni verso terzi, quali sono i reali interessi dell’Europa
nei confronti della Russia e dell’Ucraina?
Pur
ammettendo che torti o ragioni non stanno mai al cento per cento da una parte
sola, se vogliamo rispondere alla prima domanda dobbiamo costatare che i
maggiori responsabili della crisi in atto non sono i russi, bensì gli Stati
Uniti e la pedissequa Unione Europea.
È
sufficiente ripercorrere la storia recente e non nasconderci che tutto comincia
con l’espansione della Nato verso i confini della Russia e dal timore del
Cremlino e dell’opinione pubblica di questo Paese di essere diventati oggetto
di un’aggressione continua e senza giustificazione.
La
propaganda dominante da noi in occidente ha continuato volerci far credere che
l’allargamento della Nato sia sempre stato dovuto a una libera scelta del
governo dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia cui non si poteva dire di no.
I sostenitori di questa tesi continuano a
negare che alla caduta dell’Unione Sovietica ci fosse stata una promessa fatta
a Mosca sul fatto che la Nato non sarebbe mai stata in alcun modo presente a
est del fiume Oder, quello che segna il confine tra l’attuale Germania e la
Polonia.
In
realtà tutti già sapevano che negare tale accordo era una netta menzogna ma
oggi, grazie ad un articolo ben documentato del settimanale tedesco Der
Spiegel, ne abbiamo la certezza.
Uno
studioso americano, il professor Joshua Shifrinson, professore di scienze
politiche alla Boston University (USA), negli archivi nazionali britannici ha
trovato un documento (a suo tempo classificato come “segreto”) che fa piena
luce sulla questione.
Le carte oggi accessibili per gli specialisti
risalgono al 6 marzo 1991 e sono il verbale di un incontro tra direttori
generali dei ministeri degli Esteri americani, britannici, francesi e tedeschi.
I partecipanti a quella riunione discutono
dell’impegno assunto con Mosca che escludeva, in ogni caso, che la Nato potesse
allargarsi a est della Germania.
Il
riferimento era ai colloqui del “2+4” sull’unificazione tedesca.
I due erano, naturalmente, Russia e Stati
Uniti, e i quattro la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e il Canada.
Nel
testo (che Der Spiegel presenta in fotocopia) si parla esplicitamente di un
“general Agreement” che statuiva come “inaccettabile” l’adesione alla Nato dei
Paesi dell’Europa orientale.
Il
diplomatico tedesco dice esplicitamente: “Avevamo chiarito durante i negoziati
“2+4” che non avremmo esteso la Nato oltre l’Oder.
Non
potremo quindi offrire alla Polonia e agli altri l’adesione alla Nato”.
Tuttavia,
contrariamente agli impegni assunti, la Nato nel marzo 1999 ha ammesso Polonia,
Ungheria e Repubblica Ceca e l’ha fatto non casualmente poco prima di lanciare
una guerra aerea contro la Serbia, senza l’avallo del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite.
Nel
2004 la NATO è andata oltre incorporando anche le tre repubbliche baltiche ex
sovietiche: Estonia, Lettonia e Lituania.
In
altre parole, la frontiera orientale della Nato arriva così a soli 135
chilometri da San Pietroburgo.
Non
paghi di quanto già ottenuto, nell’incontro Nato di Bucarest del 2008 gli Stati
Uniti hanno annunciato la futura adesione all’Organizzazione Atlantica anche di
Georgia e Ucraina.
Quest’ultima operazione fu di fatto soltanto
“sospesa” per l’opposizione dichiarata di Germania, Francia e Italia, le quali
temevano, almeno in quel momento, di peggiorare ulteriormente i rapporti con la
Russia.
Le
ambizioni americane non si sono tuttavia fermate:
diverse
“rivoluzioni colorate” apparentemente spontanee ma, come tutti sanno,
finanziate e organizzate in gran parte dagli Stati Uniti e dai loro agit-prop
(vedi in particolare Polonia e Gran Bretagna) hanno toccato più di uno tra gli
stati ex-alleati o parte dell’Unione Sovietica.
Il “capolavoro” è arrivato con il colpo di
stato contro il presidente ucraino Viktor Janukovich (occorre ricordare che,
secondo gli osservatorii internazionali che seguirono le votazioni, la sua
elezione nel 2010 era stata legittima e democratica).
Come
indubitabilmente dimostrato dall’intercettazione diffusa su internet della
conversazione tra la sottosegretaria di stato americana Victoria Nuland e un
alto politico baltico (disponibile su Internet in originale), le manifestazioni
di Maidan sono state fatte degenerare volutamente, anche con il concorso di
gruppi ucraini paramilitari di estrema destra, in contrasto con un accordo per
nuove elezioni concordato tra emissari europei e lo stesso Janukovich.
Da
allora gli americani che avevano continuato a finanziare tramite proprie
organizzazioni (alcune statali e altre apparentemente no) una pseudo “società
civile” ucraina, hanno cominciato a inondare l’Ucraina di armi e far
partecipare il suo esercito a manovre militari congiunte con le truppe Nato.
In questi giorni, accusando la Russia di una
(fino a questo momento) del tutto improbabile volontà di invadere l’Ucraina,
l’invio di armamenti e truppe ai confini della Russia è anche aumentato e
perfino l’Italia ha mandato suoi militari in Romania e in Lettonia.
C’è da
stupirsi se a Mosca qualcuno si sia preoccupato per la propria sicurezza
nazionale?
Ad
alta voce oggi si imputa a Putin di non rispettare i trattati sulla salvaguardia
dei confini, prima in Crimea e ora nel Donbass, sulla non attuazione degli
accordi di Minsk II e di voler soffocare la democrazia ucraina.
Ebbene,
dove stavano questi principi quando gli Stati Uniti, dopo una guerra contro la
Serbia giustificata con l’accusa, rivelatasi falsa, di genocidio dei kosovari,
hanno riconosciuto la nascita di un Kossovo indipendente in barba
all’intangibilità dei confini della Repubblica Serba?
E poi quale democrazia ucraina gli americani e
gli europei vogliono difendere?
“Freedom House”, un’organizzazione
indipendente che non può certo essere accusata di essere filo-russa, ha
dichiarato che il tasso di democrazia gestito dal governo di Kiev corrisponde a
60.
Per
fare un paragone, l’Ungheria di Orban è quotata 69 e la Polonia, che nega l’indipendenza
della magistratura (e altro) a 82.
Ma noi “occidentali” amiamo i Paesi
democratici e pacifici… Che dire della Turchia, quotata (sempre da Freedom
House) a 32 punti, che ha invaso la Siria, ha mandato in Libia i suoi mercenari
e aiutato il “democraticissimo” (sic) Azerbaigian contro l’Armenia?
Per
non parlare del nostro caro alleato saudita.
Finiamola
con queste ipocrisie!
Se
affrontiamo il tema posto dalla seconda domanda, e cioè quali siano per noi italiani
ed europei i nostri interessi, la questione si fa più complicata, ma non meno
precisa.
È
evidente sia per ragioni economiche, sia politiche, sia di difesa, che il
nostro rapporto con gli Stati Uniti sia imprescindibile.
Anche
volendolo, rompere quell’alleanza sarebbe difficile se non impossibile.
Tuttavia
una cosa è un’alleanza in cui gli interessi degli uni trovano complementarietà
a quelli degli altri.
Un’altra è la servitù imposta da qualcuno per il
proprio singolo interesse ad altri che la devono subire senza eccepire.
Dalla
prima guerra mondiale a oggi l’obiettivo di Washington è sempre stato di
esercitare un’egemonia via via crescente sul nostro continente.
In
particolare la strategia degli USA era di creare le condizioni per cui un
avvicinamento tra la Germania (e il resto dell’Europa) e la Russia fosse
impossibile.
Durante
la “Guerra fredda” la cosa ha fatto molto comodo anche a noi: abbiamo
risparmiato sugli armamenti, cui pensavano gli americani, e utilizzato quei
fondi per estendere il nostro Welfare.
Lo
scontro era soprattutto ideologico e in tutta l’Europa occidentale la presenza
delle basi americane ha garantito di tenere a bada l’imperialismo sovietico.
L’adesione
alla Comunità Europea della Gran Bretagna ha contemporaneamente garantito gli
americani che la nascita di una realtà europea unita anche politicamente (e
quindi in grado di riacquistare una sua vera autonomia) restasse un sogno
irrealizzabile.
Caduto
il muro, con una Russia che si apriva del tutto al mondo occidentale, le cose
potevano cambiare, e oltre alla presenza della Gran Bretagna, palla al piede di
ogni possibile maggiore integrazione europea, si è provveduto con la complicità
della Germania (interessata alle sole ricadute economiche immediate) a far
entrare nell’Unione tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia.
Costoro, come si sapeva, erano naturalmente
restii, dopo essersi liberati dal giogo sovietico, a rinunciare di nuovo alla
propria sovranità in favore di un qualunque altro organismo sovra-nazionale, e
ciò che a loro serviva era soprattutto di ricevere tanti soldi a fondo perduto
che aiutassero la loro ricostruzione economica e li avvicinasse al benessere
degli altri europei.
Fin
qui gli interessi americani.
E i
nostri?
A noi
serve per un qualche motivo avere la Russia come costante nemica?
In
un’intervista alla BBC data appena eletto nel 2000 Vladimir Putin dichiarava
che “La Russia è parte della cultura europea.
Ed io
non riesco a immaginare il mio Paese isolato dall’Europa e da quello che noi
spesso chiamiamo il mondo civilizzato”.
L’allora segretario generale della Nato,
George Robertson, ricorda il sincero desiderio espresso proprio da Putin di
poter addirittura far parte dell’Organizzazione Atlantica.
A
Pratica di Mare, anche grazie a Berlusconi l’avvicinamento di Mosca, seppur non
si trattasse di un’adesione, sembrava poter porre un primo gradino per una
stretta collaborazione tra quelli che erano stati due blocchi contrapposti.
Tuttavia,
negli Stati Uniti qualcuno la pensava diversamente e partirono le “rivoluzioni
colorate”.
I toni americani tornarono a evocare quelli
della Guerra fredda e pedissequamente molti politici europei ne fecero eco.
Ai
nostri giorni la nostra sicurezza è più garantita se l’Europa ha un rapporto
ostile o una collaborazione positiva con Mosca?
La nostra economia guadagnerebbe o ci
rimetterebbe se aiutasse la Russia a crescere e a diversificare le proprie
fonti di reddito?
Abbiamo più sintonia culturale e vicinanza con la
storia e la cultura russa o, ad esempio, con quella turca?
La
pochezza (e la stupidità) di alcuni politici europei (anche italiani) emerge
dalle parole dello pseudo-ministro degli Esteri dell’Unione Europea Joseph
Borrell:
“Oggi
abbiamo deciso all’unanimità di rispondere duramente alle azioni illegali della
Russia contro l’Ucraina.
Il
pacchetto di sanzioni dell’Ue colpirà 351 membri della Duma di Stato russa che
hanno votato per il riconoscimento dei cosiddetti LNR e DNR”, ha scritto su
Twitter.
Poi,
molto “intelligentemente”, ha concluso dicendo con aria minacciosa nell’intento
di spaventare i russi:
“Non
ci sarà più shopping a Milano, più feste a Saint-Tropez, più diamanti ad
Anversa”.
E,
aggiungiamo noi:
”
Finalmente pagheremo molto di più gas e petrolio, poiché la crisi farà salire i
prezzi mondiali.
E diventerà
quasi conveniente perfino il benedetto gas di scisto americano che la
magnanimità d’oltreoceano ci farà pervenire via mare, sempre che non trovi
altre destinazioni più remunerative”.
Parallelamente
il neo-eletto cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è precipitato a dichiarare
che il North Stream II non avrà il permesso di operare.
La
realtà è che, come dimostrato in questi giorni, chi detta la linea e impone le
decisioni da prendere non sta a Bruxelles o nelle capitali del continente,
bensì sta sempre di là dell’Atlantico.
Con la
ridicola e masochistica reazione che l’Europa sta dimostrando in merito alla
questione Ucraina si conferma che l’Unione è solamente un fantasma, un suddito
senza speranza degli obiettivi a breve e a lungo termine degli Stati Uniti.
CALA
IL CONSENSO NEGLI USA:
QUANTO
PUÒ DURARE
LA
GUERRA DI ZELENSKY?
Notiziegeopolitiche.net
– Dario Rivolta – (15 Febbraio 2023) – ci dice:
Film e
libri di fantascienza raccontano di macchine inventate dall’uomo che si
ribellano, assumono un atteggiamento indipendente e sfuggono totalmente ad ogni
controllo arrivando perfino ad essere pericolose per i loro stessi creatori.
Anche
prescindendo dalla fantasia, abbiamo visto nella storia umana casi di
personaggi politici costruiti a tavolino da poteri forti (che si mantengono
comunque dietro le quinte) che poi, abbacinati da ciò che sono diventati,
sfuggono al controllo dei loro “padroni” e si illudono ed agiscono come se non
avessero più bisogno di chi li ha creati più o meno dal nulla.
Nel
passato ormai lontano un caso di questo genere fu probabilmente quello di
Masaniello durante la “rivoluzione” napoletana.
Attualmente,
un esempio calzante di un tale comportamento lo possiamo trovare nel presidente
ucraino Zelensky.
Creato
dal nulla da pseudo-strateghi americani con la complicità di qualche oligarca
ucraino, il personaggio si è talmente immedesimato nel ruolo assunto da
illudersi di avere una volontà propria e addirittura di pensare di poter
dettare le condizioni a chicchessia.
È
ovvio che se i suoi stessi manovratori iniziali lo smentissero finirebbero con
lo svelare tutto il meccanismo originario e quindi devono, almeno per ora, far
buon viso a cattiva sorte.
È per
continuare nella farsa, seppur a denti stretti, che a Washington si continua a
ripetere che “solo l’Ucraina può decidere del suo futuro”.
In
realtà tutti sanno che le cose non stanno esattamente così perché se gli
americani decidessero di interrompere gli aiuti, i britannici non potrebbero
che seguire, e polacchi e lituani da soli non basterebbero a nulla.
Di conseguenza, se ciò avvenisse “il re si
troverebbe nudo” e non avrebbe più alcun futuro.
Negli
Stati Uniti sono sempre più i politici che cominciano a guardare con
insofferenza la continua elargizione di denaro e l’invio di armi sempre più
sofisticate per aiutare la ex marionetta che crede di avere spiccato il volo.
Il famoso Istituto Rand (quello che già molti anni or
sono aveva ipotizzato la necessità di indebolire la Russia con ogni mezzo) ha
elaborato uno studio che sostiene che, poiché la vittoria di Kiev sulla Russia
è improbabile, il protrarsi del conflitto sviluppa probabilità sempre maggiori
di sfociare in uno scontro atomico.
Anche
nell’opinione pubblica statunitense il sostegno all’Ucraina sembra cominciare a
venire meno.
Secondo un sondaggio dell”’Istituto americano
Pew”, la percentuale di chi ritiene che gli aiuti all’Ucraina siano eccessivi è
aumentata di circa quattro volte mentre coloro che, al contrario, pensano che
non siano sufficienti si è dimezzata.
Tra i
sostenitori del Partito Repubblicano quelli che ritengono che Washington abbia
fornito troppi aiuti è passata dal 9% del marzo 2022 al 40% del gennaio 2023.
Tra
gli elettori Democratici coloro che sostenevano la necessità di maggiori aiuti
erano il 38% nel marzo scorso e sono il 23% attuale.
Ci
sono buoni motivi per pensare che durante l’incontro Biden-Zelensky a
Washington, il presidente americano abbia cercato di convincere quest’ultimo a
intraprendere un qualche negoziato con la controparte russa ma tutto ciò che ha
ottenuto è stata una dichiarazione che se ne sarebbe parlato un po’ più in là.
“La
Rand” non è all’improvviso diventata
filorussa né è cambiata la strategia americana volta ad impedire una qualunque
forma di collaborazione stretta tra Mosca e l’Europa.
Il
problema identificato dagli analisti della Rand si riferisce all’ “interesse
nazionale”, ai costi e agli interrogativi su “come finirà” questa guerra.
Gli
autori dello studio, Samuel Charap e Miranda Priebe giudicano “improbabile” e
“ottimistico” lo scenario di una vittoria totale ucraina.
Piuttosto:
“i rischi di un ricorso al nucleare o di una guerra Russia-Nato schizzerebbero
verso l’alto”.
Secondo
questi autori è necessario che gli Stati Uniti intervengano sul governo ucraino
per rendere più probabile “una fine del conflitto a medio termine”.
I due continuano sostenendo che la Russia sia
già stata sufficientemente indebolita dal conflitto e che: “ci vorranno anni,
forse anche decenni, prima che l’esercito e l’economia si riprendano dai danni
già subiti”.
Scendendo
nel dettaglio, il suggerimento è che gli aiuti all’Ucraina siano vincolati alla
sua disponibilità a trattare.
In particolare, “se l’Ucraina non dovesse negoziare,
gli Stati Uniti potrebbero diminuire gli aiuti gradualmente e non
drasticamente”, magari elargendo promesse per sostegni finanziari forti e a
lungo termine nel dopoguerra.
È
esattamente ciò che ha sostenuto recentemente Berlusconi (e che pensa la
maggior parte degli italiani.
Un
sondaggio ipotizza addirittura il 68 percento) venendo tuttavia attaccato e
messo in ridicolo dalla maggior parte della stampa nostrana e da molti
politici.
Anche
in Gran Bretagna, su “the Economist”, è apparso un saggio di Christopher
Chivvis del “Carnegie Endowment for International Peace” che sostiene che gli
obiettivi di guerra ucraini “sono irrealistici” e invita anch’egli a ricorrere
alla diplomazia.
È
scontato che, salvo improbabili “sconquassi” nella dirigenza moscovita, la
Russia accetti di fermare il conflitto se non verrà ufficialmente riconosciuta
l’annessione di Crimea e Donbass.
D’altra
parte, Putin non inventa nulla quando dice che prima dell’Unione Sovietica
l’Ucraina non fosse (quasi) mai esistita come Stato.
La
parte nord occidentale è stata per lunghi secoli territorio occupato dalla
monarchia Polacco-Lituana, la parte occidentale apparteneva all’impero
austro-ungarico mentre Odessa, la Crimea e l’attuale Donbass erano territori
zaristi.
Chi
parla di intangibilità dei confini dimentica non solo il precedente del Kossovo
ma anche il fatto che in Unione Sovietica si vollero espressamente creare
Repubbliche composte da popolazioni con lingue (a volte anche etnie) diverse,
proprio per evitare l’insorgenza di possibili nazionalismi.
Non è
solo il caso dell’Ucraina ma anche di molte altre realtà come il Tagikistan, la
Georgia e l’Azerbaigian.
Riconoscere
oggi confini differenti da quelli sovietici non dovrebbe essere un dramma per
nessuno.
Il
vero problema, quello che tutti sanno ma fingono di non sapere, è che questa
guerra non è tra la Russia e l’Ucraina, bensì tra gli Stati Uniti con i suoi
vassalli e la Russia.
Né gli
USA né il Cremlino possono porvi termine senza, in qualche modo, sventolare una
presunta vittoria.
Se i
russi dovessero ammettere una sconfitta sarebbe la fine politica di Putin e del
suo clan, se dovessero farlo gli americani sarebbe un chiodo nella bara dell’egemonia
statunitense sul mondo e, in particolare, sull’Europa.
Eppure
più la guerra continua, più i costi aumentano per tutti gli Stati coinvolti,
più soldati e civili da entrambe le parti ne resteranno uccisi e, come sostiene
lo studio Rand, la possibilità che lo scontro si estenda e diventi atomico si
fa sempre più vicina.
Accettare una soluzione diplomatica è allora
un doveroso e necessario sacrificio e il primo che deve essere obbligato a
farlo è proprio Zelensky.
UE.
GREEN DEAL: OBBLIGO DI ZERO
EMISSIONI
PER NUOVE AUTO
E
NUOVI FURGONI NEL 2035.
Notiziegeopolitiche.net – (14 Febbraio 2023) -
Epitalia – ci dice:
Il
Parlamento europeo ha approvato in via definitiva i nuovi obiettivi vincolanti
per la riduzione delle emissioni di CO2 di autovetture e veicoli commerciali
leggeri di nuova produzione.
Con
340 voti favorevoli, 279 voti contrari e 21 astensioni, gli eurodeputati hanno
approvato l’accordo raggiunto con il Consiglio sugli obblighi di riduzione
delle emissioni di CO2 per nuove auto e nuovi furgoni, in linea con gli
ambiziosi obiettivi climatici dell’UE.
La
legislazione approvata prevede l’obbligo per nuove autovetture e nuovi veicoli
commerciali leggeri di non produrre alcuna emissione di CO2 dal 2035.
L’obiettivo è quello di ridurre del 100% le
emissioni di questi tipi di veicoli rispetto al 2021.
Gli
obiettivi intermedi di riduzione delle emissioni per il 2030 sono stati fissati
al 55% per le autovetture e al 50% per i furgoni.
Di
seguito, le altre misure chiave previste dalla normativa:
Entro il 2025, la Commissione presenterà una
metodologia per valutare e comunicare i dati sulle emissioni di CO2 durante
tutto il ciclo di vita delle auto e dei furgoni venduti sul mercato dell’UE.
La
metodologia sarà accompagnata da proposte legislative, se opportuno.
Entro dicembre 2026, la Commissione monitorerà il
divario tra i valori limite di emissione e i dati reali sul consumo di
carburante ed energia.
Inoltre, la Commissione presenterà una
metodologia per l’adeguamento delle emissioni di CO2 specifiche per i
costruttori.
È prevista un’esenzione totale per chi produce
meno di 1.000 nuovi veicoli l’anno.
I costruttori con un volume annuo di produzione
limitato (da 1.000 a 10.000 nuove autovetture o da 1.000 a 22.000 nuovi
furgoni) possono avvalersi di una deroga fino alla fine del 2035.
L’attuale meccanismo di incentivazione di
veicoli a zero e a basse emissioni (ZLEV) sarà adattato per rispondere
all’andamento previsto delle vendite:
ci saranno obiettivi più bassi di riduzione
per quei costruttori che vendono un maggior numero di veicoli con emissioni da
zero a 50g CO2/km, quali i veicoli elettrici e veicoli elettrici ibridi
efficienti.
Dal 2025 al 2029, il fattore di riferimento
ZLEV è stato fissato al 25% per le vendite di nuove autovetture e al 17% per i
nuovi furgoni.
A
partire dal 2030, questo incentivo sarà rimosso.
Con cadenza biennale, a partire dalla fine del 2025,
la Commissione pubblicherà una relazione per valutare i progressi compiuti
nell’ambito della mobilità a zero emissioni nel trasporto su strada.
Il
relatore Jan Huitema (Renew, NL) ha dichiarato:
“La
normativa incentiva la produzione di veicoli a basse e a zero emissioni.
Inoltre, contiene un’ambiziosa revisione degli
obiettivi per il 2030 e l’obiettivo emissioni zero per il 2035, cruciale per il
raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.
Questi
obiettivi offriranno chiarezza per l’industria automobilistica e stimoleranno
l’innovazione e gli investimenti dei costruttori.
Acquistare
e guidare autovetture a emissioni zero diventerà meno oneroso per i consumatori
e porterà a un rapido sviluppo del mercato di seconda mano.
Guidare
in modo sostenibile diventerà accessibile a tutti”.
Dopo
il voto finale in Aula, il Consiglio UE dovrà approvare formalmente il testo
prima della sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale.
Il 14
luglio 2021, nell’ambito del pacchetto “Pronti per il 55%”, la Commissione ha
presentato una proposta legislativa per il rafforzamento dei livelli di
prestazione in materia di emissioni di CO2 delle autovetture nuove e dei
veicoli commerciali leggeri nuovi.
La proposta intende contribuire agli obiettivi
climatici UE per il 2030 e il 2050, fornire benefici ai cittadini e stimolare
l’innovazione nell’ambito delle tecnologie a emissioni zero.
L’Anti
Europa della Ue si dissolve
nell’Ama
Europa della Nato.
Ariannaeditrice.it - Luigi Tedeschi – (11/01/2023)
Un’Europa
geneticamente atlantica.
La
guerra è tornata in Europa.
È
dunque finita l’illusione utopica di matrice illuministica, della pace perpetua
fondata sul progresso illimitato e sul libero mercato globalizzato.
La
fine della storia teorizzata da Fukuyama col sorgere di un nuovo ordine
mondiale dominato dall’unilateralismo americano, si è rivelata l’ennesima
illusione ideologica, destinata ad essere smentita da una realtà storica che
non ha mai cessato di produrre mutamenti nella geopolitica globale e conflitti
nel mondo di varia estensione e intensità.
La
guerra in Ucraina, quale conflitto indiretto tra Russia e USA, si configura
come un evento che si inserisce in un vasto processo di trasformazione
dell’ordine mondiale.
Dal tramonto dell’unilateralismo americano,
sorto in concomitanza con la dissoluzione dell’URSS, potrebbe scaturire un
nuovo ordine mondiale multilaterale.
Qualunque
sarà l’esito della guerra russo – ucraina, è certo che questo conflitto non si
esaurirà nel prossimo futuro, così come altri teatri di guerra potrebbero
manifestarsi coll’esplodere di tensioni oggi latenti (vedi Kosovo o Taiwan),
nel mondo.
Ma nel
profilarsi della prospettiva di un nuovo ordine mondiale che abbia come
protagoniste le varie potenze continentali, si rileva l’assenza dell’Europa,
data la sua consensuale subalternità alla Nato.
Dai
riferimenti storici ed ideali, quali valori fondativi di una possibile unità
europea, quali il Sacro Romano Impero, l’Impero asburgico, le radici cristiane
dell’Europa, non sono mai scaturiti miti unificanti compatibili con la realtà
del nostro presente storico.
Le stesse prefigurazioni teoriche di una unità
europea, quali i principi del manifesto di Ventotene o l’idea dell’Europa delle
patrie propugnata da De Gaulle, si sono rivelate dei velleitarismi che non
hanno avuto riscontro nella politica degli stati europei e, tanto meno, nei
trattati istitutivi della UE.
Non sono mai esistiti movimenti politici che
avessero come finalità la costruzione di uno stato unitario europeo, né
l’Europa ha mai costituito un ideale suscettibile di generare una militanza
politica nei popoli.
L’Europa
non è mai stata una patria ideale che suscitasse sentimenti indipendentisti
unitari nei popoli europei e non è neppure prevista dalle istituzioni ufficiali
europee la creazione di uno stato europeo unitario e sovrano.
Riguardo
alla deflagrazione della guerra russo – ucraina, incomberebbero sull’Europa
gravi storiche responsabilità.
L’Europa avrebbe dovuto svolgere un ruolo di
mediazione tra le parti e intavolare trattative diplomatiche che avrebbero
potuto scongiurare la guerra, garantendo l’adesione dell’Ucraina alla UE, ma
non alla Nato.
Una
Ucraina neutrale, paese ponte tra Europa ed Eurasia, con una Russia vincolata
all’Europa da una indispensabile e vantaggiosa interconnessione economica ed
energetica: questo sarebbe stato l’equilibrio politico necessario per
assicurare una pace durevole.
Concepire
tuttavia un simile ruolo geopolitico dell’Europa, appare, alla luce degli
eventi odierni, un’idea del tutto infondata ed astratta dal punto di vista
storico e politico.
L’Europa
infatti non è in grado di svolgere nessun ruolo geopolitico indipendente,
perché ad essa manca uno status di terzietà che possa legittimarla a mediare
efficacemente tra le parti in conflitto.
La UE è una unione di stati soggetti al
primato americano nell’Alleanza atlantica.
Assumere
un ruolo autonomo presuppone una soggettività geopolitica unitaria di cui la UE
non è dotata.
Pertanto,
l’assumere una posizione neutralista tra la Russia e l’Occidente atlantico,
avrebbe comportato una impensabile rottura dell’Europa con la Nato.
Inoltre,
occorre osservare che la UE, non disponendo di armamenti autonomi per la propria
sicurezza, tanto meno avrebbe potuto garantire, con un apparato militare
adeguatamente dissuasivo, la pace in Ucraina.
L’Europa attuale non è geneticamente, né storicamente
programmata per assurgere a potenza continentale.
Non è stata infatti nemmeno in grado di
imporre all’Ucraina il rispetto degli accordi di Minsk, conclusi nel 2014 sotto
l’egida dell’OCSE.
L’Unione
europea è sorta con la fine dell’eurocentrismo, in concomitanza cioè con il
tramonto delle potenze coloniali europee, soppiantate dal primato americano nel
mondo, affermatosi alla fine della Seconda guerra mondiale.
L’unità
europea fu concepita, con una serie successiva di trattati che vanno dalla
nascita della CECA fino alla costituzione della UE, come Europa occidentale
presidiata dalla Nato, in contrapposizione all’area dei paesi del Patto di
Varsavia, dominata dall’URSS.
L’Europa
ebbe dunque la sua ragion d’essere in funzione non solo antisovietica, ma anche
antitedesca, in quanto gli USA hanno sempre avversato la nascita di una potenza
autonoma in Europa alternativa alla Nato.
L’unione europea, quale area di influenza
americana, trae quindi le sue origini dalla logica di contrapposizione
dell’ordine bipolare scaturito dalla Guerra fredda.
La UE
è pertanto una entità artificiale e fuori dalla storia.
Il soft power si affermò quale strumento del
dominio esercitato dagli USA sull’Europa.
Con la
adozione di un sistema liberal – democratico conforme al modello economico e
politico statunitense, si diffuse in tutta l’Europa occidentale anche
l’americanismo consumista nei costumi e si impose l’ideologia liberal nella
cultura.
Il
radicarsi dell’americanismo nella società europea, comportò pertanto la
cancellazione della memoria storica dell’Europa e la rinuncia a qualunque
velleità di potenza da parte degli stati europei.
In
breve, l’Europa fu sradicata dalle sue origini identitarie.
Il
processo di unificazione europea coincide pertanto con la fuoriuscita
dell’Europa dalla storia.
La UE
è definita da Lucio Caracciolo nel libro “La pace è finita”, Feltrinelli 2022,
“Anti Europa”, quale area geopolitica interna all’impero americano: “Definiamo Anti
europa in senso geopolitico: negazione dell'Europa come potenziale soggetto
unitario (sogno europeista) e come centro di poteri transcontinentali, frutto
della scelta americana di restare in Europa occidentale dopo la Seconda guerra
mondiale.
Per
erigervi il proprio informale impero, avanguardia a stelle e strisce nelle
immensità d'Eurasia.
Riprendendo
rovesciata la visione russa della penisola europea protesa nell' Atlantico.
Per
Mosca, Asia Anteriore (Perednaja Azija), accesso via Mediterraneo e Baltico
alle rotte oceaniche.
Per
Washington, Sud America Posteriore, suo spazio già originante tuttora abitato
da popolazioni specialmente evolute e consapevoli, da pacificare e integrare
nel proprio informale impero.
E
perciò mantenere sufficientemente divise. Soprattutto, separate dalle ostili
profondità asiatiche.
In un
impero sui generis sullo schema perno (America) – raggi (europei)”.
L’Europa
fu quindi consegnata alla ibernazione della post – storia fino ai nostri giorni
in cui, con il conflitto russo – ucraino, il ritorno della storia ha provocato
un brusco e tragico risveglio europeo.
Se
l’Europa si è estraniata dalla storia, sarà tuttavia la storia a coinvolgerla
nei suoi processi di trasformazione.
L’illusione della post – storia, in cui si è confinata
l’Anti Europa, ha avuto lo scopo di occultare l’egemonia americana sul
continente europeo.
Come
ha affermato Lucio Caracciolo nel libro sopra citato: “Refrattari alle leggi
storiche, ne riconosciamo però una: chi vuole abolire la storia ne è abolito.
Prima viene la storia poi, a distanza, le idee
e le contro idee volte a imbracarla per reindirizzarla verso i propri astratti
fini.
Se non
verso la sua fine.
La
dialettica fra europeismo e Anti-Europa nelle sue cangianti declinazioni sta a
confermarlo.
Eterogenesi
del fine: sacralizzazione di un'Europa utopica (o distopica, a seconda dei
punti di vista) è controcanto d'accompagnamento dell'egemonia americana sul
Vecchio Continente.
Rivincita
della storia su chi presume di dirigerla”.
Il
modello di economia mista assunto dall’Europa post – bellica, contraddistinto
dalle libertà democratiche, dal benessere diffuso, dall’istituzione del
welfare, fu del tutto funzionale alla strategia americana di contrapposizione
al modello totalitario sovietico e alla penetrazione ideologica del marxismo
che ebbe largo seguito nella classe operaia dei paesi occidentali.
Dopo
la fine dell’URSS e l’ampliamento della UE ai paesi dell’est europeo, si attuò
in perfetta sincronia l’espansione della Nato ai confini con la Russia.
Con
l’avvento dell’unilateralismo americano e della globalizzazione il sistema
neoliberista americano fu esteso alla UE, che fu costituita il trattato di
Maastricht del 1992, quale organismo sovranazionale che ha progressivamente
esautorato la sovranità degli stati.
La UE è dunque un organismo senza stato (privo
quindi di sovranità politica), un modello di ingegneria economico – sociale
neoliberista, la cui governance viene esercitata da élite tecnocratiche che si
sono sovrapposte agli ordinamenti democratici e che ha devoluto alla Nato la
propria sicurezza.
Ai
poteri sovranazionali assunti dalla UE, non ha fatto però risconto un processo
di unificazione politica dell’Europa, ma semmai una tendenza sempre più
accentuata alla disgregazione interna degli stati in piccole patrie regionali,
col risorgere anche di nazionalismi etnici identitari.
La
guerra in Ucraina potrebbe costituire l’incipit di un processo di
balcanizzazione di una Europa disgregata dal riemergere di antichi odi e
rancori tra i tanti nazionalismi etnici conflittuali.
La retorica del mainstream riguardo alla ritrovata
unità europea sotto le insegne della Nato, è stata smentita dalla realtà di una
Europa erosa internamente dal risorgere dei nazionalismi e delle loro velleità espansionistiche.
Il
nazionalismo polacco infatti prefigura la rivitalizzazione del progetto
espansionistico del “Trimarium”, che peraltro è sostenuto dagli USA in funzione antirussa.
La
possibile disgregazione della UE comporterebbe peraltro la devoluzione nei
fatti della governance politica dell’Europa agli USA, poiché in una situazione
di caos conflittuale, solo la Nato potrebbe farsi garante della governabilità
dell’Europa.
Nella
guerra russo – ucraina si ritiene che al momento, gli unici vincitori siano gli
Stati Uniti, che hanno stroncato sul nascere qualunque prospettiva di una
Europa indipendente dalla Nato, dopo la rottura dei legami sia economici che
geopolitici con l’Eurasia.
Una
Europa depotenziata economicamente e subalterna militarmente alla Nato, è
destinata a divenire un’area continentale interna all’anglosfera.
Non è
nelle attuali prospettive di Biden la conclusione di una pace con la Russia.
Anzi,
il prolungarsi della guerra è necessario agli USA per perpetuare quel clima di
emergenza bellica che renda l’Europa definitivamente succube della Nato.
È peraltro coerente con le strategie americane
la necessità del sussistere di un nemico assoluto, identificabile questa volta
con la Russia di Putin, poiché in tal modo può rinsaldarsi, in funzione russo
fobica, il vincolo di subalternità europea agli USA.
Del tutto conforme alle strategie di dominio americano
è del resto l’ideologia europeista, che proclama la necessità,
l’indispensabilità, l’irreversibilità dell’unione europea, che comporta ineluttabilmente
l’adesione incondizionata alla Nato, all’anglosfera, all’Occidente americano.
L’ideologia europeista sussiste, al fine di
occultare la realtà del bluff di una unità europea, storicamente convertitasi
in Anti-Europa.
Ma il dogma ideologico europeista che diffonde
la falsa immagine di una Europa culla dei diritti umani, assediata dalla autocrazia russa, ha una funzione
manipolatrice della attuale realtà storica ben più rilevante:
quella
di esorcizzare la reale dissoluzione progressiva della UE e con essa,
l’irreversibile decadenza dell’intero Occidente.
Germanofobia
e Anglosfera.
La
guerra russo – ucraina ha determinato grandi mutamenti in Europa, specialmente
riguardo al ruolo geopolitico della Germania nel mondo.
Con la
Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt, la Germania intraprese un percorso di
pacificazione, espansione commerciale nei paesi dell’est europeo ed
interdipendenza economico - energetica con l’URSS.
La Germania quindi riassunse un ruolo di
centralità geopolitica nel contesto europeo, oltre ad esercitare la funzione di
paese garante degli equilibri tra l’ovest e l’est europeo, nell’ambito del
bipolarismo USA – URSS nell’era della Guerra fredda.
Dopo
il crollo dell’URSS e la riunificazione della Germania, l’espansione dell’area
di influenza tedesca si estese a tutta l’Europa dell’est e si rafforzarono i
vincoli di interdipendenza economica ed energetica con la Russia con la
costruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2.
La
politica di apertura all’est dei cancellieri tedeschi Kohl e Schroeder si
accentuò con Merkel, il cui obiettivo fu quello di istituire un partenariato
con Mosca, con la prospettiva di integrazione della Russia nella “casa comune
europea”.
L’orientamento
della politica estera tedesca mirava ad un rapporto sempre più stretto con
Mosca, al fine, non solo di favorire l’apertura di rotte commerciali verso la
Cina per l’export tedesco, ma di controbilanciare l’influenza geopolitica degli
USA in Europa.
La
Germania, quale potenza economica, ma priva di ambizioni geopolitiche
espansioniste, non avrebbe dovuto suscitare l’ostilità degli USA, sempre
avversi all’emergere di una potenza europea in contrasto con gli interessi
americani.
Tuttavia
la politica di Merkel si rivelò incompatibile con le mire strategiche
dell’Occidente.
Infatti,
nell’est europeo (area in cui ebbe luogo una grande espansione industriale
tedesca), la Germania si affermò come potenza economicamente dominante, ma a
questa egemonia non corrispose però un suo primato politico.
I
paesi dell’est Europa, così come i paesi baltici, furono inclusi nell’area
occidentale e l’espansione della Nato ai confini con la Russia rivelò
palesemente gli obbiettivi di una strategia americana volta a contrastare non
solo la Russia di Putin ma anche la potenza tedesca.
Nella
guerra ucraina del 2014, la Germania assunse inizialmente una linea filo
atlantica, dato che l’inserimento dell’Ucraina nel contesto occidentale
costituiva una occasione propizia per l’annessione dell’Ucraina stessa nella
sua area di influenza economica.
L’atteggiamento
della Germania divenne poi assai ambiguo.
Intraprese
una politica di distensione nei confronti di Mosca al fine di preservare i
propri interessi economico – energetici.
Irrilevante
fu il ruolo della Germania nell’invocare il rispetto da parte ucraina del
trattato di Minsk, così come lo fu l’intervento pacificatore del presidente
Steinmeier in Ucraina.
La Germania è stata anche inizialmente
riluttante nel fornire armi all’Ucraina e nell’approvazione delle sanzioni alla
Russia, ma l’intento di Scholz di “creare una pace senza armi” si è rivelato
uno slogan privo di contenuti.
La
fine del vincolo di interdipendenza con la Russia, coincide con il declino
della potenza tedesca.
Il suo
primato economico verrà meno a causa del caro energia, che renderà il suo
export non competitivo e della politica protezionista di grandi incentivi
distorsivi della concorrenza alle imprese americane per l’innovazione green
messa in atto da Biden al fine di destrutturare l’industria europea.
Inoltre,
in una Europa fagocitata dalla Nato, la Gran Bretagna, seppure paese extra UE
dopo la Brexit, finirà per assumerne la leadership, quale interlocutore
privilegiato europeo degli USA, dato il declassamento politico di una Germania,
che da sempre in Europa ha dovuto contrastare la germanofobia anglosassone.
La Germania e con essa tutta la UE, verrà dunque
assorbita nell’area geopolitica dell’anglosfera.
Lo
stesso primato europeo della Germania è oggi insidiato dalla Polonia che, in
virtù del sostegno statunitense in funzione antirussa, oggi non fa mistero
della sua antica germanofobia, col rivendicare nei confronti della Germania il
risarcimento dei danni di guerra per 1.300 miliardi di euro.
Occorre
infine rilevare che, dopo gli attentati ai gasdotti Nord Stream 1 e 2,
l’attivazione del gasdotto “Baltic Pipe” sulle coste polacche del Mar Baltico,
mediante il quale verrà importato in Europa il gas norvegese, potrebbe
instaurare una dipendenza energetica della Germania e della UE dalla Polonia.
In
realtà la Germania ha vissuto dal dopoguerra in poi in uno stato di permanente
contraddizione che con la guerra ucraina ha finito per manifestarsi.
La Germania si è affermata come potenza
economica espandendo il suo export sia in Eurasia che in Occidente, ma allo
stesso tempo, si è consegnato alla post – storia, devolvendo la propria
sicurezza militare alla Nato e delegando la sua politica estera agli USA.
Tale status
di “potenza civile” si è rivelato incompatibile con le strategie geopolitiche
espansioniste della Nato e l’era della post – storia è venuta meno con questa
guerra indiretta tra gli USA e la Russia.
Il
gigante economico tedesco è da sempre un nano politico nel contesto mondiale.
Tale
deficit politico – strategico della Germania, è ben descritto in un articolo di
Andreas Heinemann – Grueder apparso su “Limes” n. 10/2022 dal titolo “Noi
tedeschi vogliamo la pace ma otterremo solo più guerra”:
“Dal
canto suo, la Germania non ha perso soltanto il ruolo di ponte tra Est e Ovest,
ma anche la posizione di guida all'interno dell'Unione Europea.
La
Turchia ha assunto il ruolo di mediatrice con Mosca che le spettava in passato.
La
disastrosa mancanza di lungimiranza strategica della classe politica tedesca e
i suoi tentennamenti hanno danneggiato in modo duraturo le capacità persuasive
del paese.
Oggi
Berlino non può più stabilire l'agenda europea verso la Russia.
Il
controllo del suo indirizzo è stato assunto dalle potenze anglosassoni e dai
paesi dell'Europa orientale”.
In
Germania, col declino del primato economico, si riproporrà la questione
tedesca.
Così
come nella UE potrà generarsi una profonda spaccatura tra il fronte degli stati
dell’est (unitamente ai paesi baltici e scandinavi), filo atlantici e
russofobi, e il fronte costituito dai paesi dell’area dell’ovest e di quella
mediterranea che invece propendono per una convivenza pacifica con la Russia,
allo stesso modo, potrebbe sorgere una aspra contrapposizione tra i tedeschi
dell’ovest filoccidentali e quelli dell’est filorussi.
Dalla
riunificazione non è sorto un nuovo stato tedesco unitario, ma semmai una
Repubblica Federale tedesca allargata ai Laender della ex DDR, i cui abitanti
si sono sempre ritenuti tedeschi di serie B.
Se la
conflittualità interna alla UE potrebbe condurre alla sua dissoluzione,
specularmente l’accentuarsi della contrapposizione tra tedeschi dell’ovest e
dell’est potrebbe determinare alla lunga la destabilizzazione interna della
Germania, che peraltro è già erosa da contrasti regionali tra i Laender ricchi
e quelli meno sviluppati.
Tali
contrapposizioni potrebbero incidere in futuro sulla sussistenza stessa della
unità nazionale.
La
parabola di Putin è al tramonto?
L’
“operazione speciale” di Putin in Ucraina si sta rivelando fallimentare.
Dopo
l’insuccesso iniziale della guerra lampo, Ucraina e Russia si sono impantanate
in un conflitto logorante che non avrà vincitori.
Se Putin non arriverà mai a Kiev, Zelenski non
riconquisterà né la Crimea né il Donbass.
Il protrarsi nel tempo della guerra può solo
favorire la strategia degli USA, che, oltre a ricondurre l’Europa nell’area
atlantica, senza alcun impegno diretto nel conflitto, hanno messo in atto
un’azione intensiva di logoramento militare ed economico nei confronti di una
Russia, che sta evidenziando tutti i suoi limiti, sia militari che politici.
Dopo
la dissoluzione dell’URSS e il tragico default russo di Eltsin, l’ascesa si
Putin ha condotto la Russia, oltre che alla riconquista della propria
indipendenza nazionale, anche al suo ritorno da protagonista sulla scena
geopolitica mondiale.
La
politica di Putin è improntata al pragmatismo, quello russo è un capitalismo,
almeno in parte, controllato dallo stato.
Non
esiste una dottrina politica putiniana.
Ma nel confronto con le altre potenze
mondiali, USA e Cina, la Russia evidenzia gravi carenze, sia nel campo militare
che in quello economico.
La sterminata ricchezza di materie prime e
l’avanzato progresso scientifico di cui la Russia dispone, non hanno avuto una
adeguata ricaduta nello sviluppo economico.
Occorre rilevare che il divario di sviluppo economico
tra l’Unione Sovietica e l’Occidente fu una delle principali cause del collasso
dell’URSS.
Dopo
20 anni di permanenza ai vertici del potere, col probabile fallimento politico
della guerra ucraina, la stagione di Putin potrebbe volgere al tramonto.
Si potrebbero allora verificare rilevanti
mutamenti interni nel sistema politico, che tuttavia non daranno luogo ad una
destabilizzazione istituzionale della Russia.
Quest’ultima
necessita di profonde riforme sia sul versante economico e che su quello politico.
Occorrerebbe
soprattutto porre fine al potere economico e alla influenza politica degli
oligarchi, classe parassitaria sorta in concomitanza della fine dell’URSS.
Tra i
fattori che hanno influito sul mancato sviluppo economico della Russia, occorre
rilevare l’assenza nella società russa di un diffuso ceto medio produttivo.
La
fuga dalla Russia di migliaia di cittadini per sfuggire alla mobilitazione
parziale, ha messo in luce come il soft power invasivo dell’americanismo occidentale abbia
contaminato anche la società russa, specialmente le giovani generazioni.
È questo un fenomeno preoccupante, riguardo alla
salvaguardia delle radici culturali e della identità nazionale della Russia.
L’Anti
Europa si dissolve nell’Ama Europa.
Qualunque
esito avrà questa guerra e le evidenti carenze strutturali messe in luce dalla
Russia, oggi potenza mondiale dimezzata, il declino dell’Occidente appare ormai
irreversibile.
Il
sistema neoliberista, eroso dalla recessione e da una inflazione incontrollabile
si sta sfaldando di pari passo con la globalizzazione, che ha evidenziato tutte
le sue carenze e fragilità con la crisi pandemica, con il caro energia e la
guerra.
Il
primato economico e politico degli USA è insidiato dall’emergere delle nuove
potenze continentali di un BRIC sempre più allargato.
Ma
soprattutto l’Occidente è dilaniato da un processo di dissoluzione interna.
Il
modello di società neoliberista è in via di sfaldamento, col manifestarsi di
fenomeni di smembramento interno degli stati occidentali (in primis gli USA), a
causa della sempre più accentuata contestazione della deriva oligarchica del
sistema politico occidentale e della degenerazione etico – morale di una
società dominata dall’individualismo relativista assoluto.
L’Anti
Europa si è dissolta nell’Ama Europa: era il destino ineluttabile di una Europa
identificatasi con la UE.
L’era della post – storia in cui era stata
ibernata l’Europa volge al termine.
Ma in questa Europa, priva di sovranità, di identità e
di dignità, la “cancel culture” dilagante non potrà mai annientare la sua storia, né far venir
meno la configurazione geopolitica di un continente eurasiatico proteso verso
il Nord Africa e il Medio Oriente.
L’impossibilità di integrare l’Europa
nell’Occidente atlantico è ben argomentata da Franco Cardini in un suo articolo
dal titolo “Cavalieri d’America: <<i valori dell’Occidente>>”:
“Qualcuno
ha detto e scritto, su organi mediatici della “destra”, che io sono “anti atlantista”
e “antiamericano” e che all’“Euroamericana” preferisco l’“Eurasia”.
Sia chiaro che non sono un eurasiatista,
ammesso che un eurasiatismo come valore politico esista.
Certo, all’Euramerica e al suo cane da
guardia, la NATO, preferisco l’Eurasia:
ma
proprio in quanto ostinatamente credo alla possibilità che l’Europa ritrovi le
sue autentiche radici e che sappia costruire in futuro una solida compagine
indipendente dai blocchi che si vanno configurando e fra loro mediatrice in
funzione di una politica di pace.
Nel
loro sistema di costruzione dell’America come grande potenza nel contesto dei
blocchi contrapposti, gli USA non ci lasciano sufficiente autonomia: né,
pertanto, ci lasciano scelta.
Se non vogliamo restar subalterni (e uso un
eufemismo) bisogna stare dall’altra parte nella prospettiva di rimanere
autonomi e sovrani: sarà poi loro compito rimediare agli errori fatti e recuperare
la nostra fiducia, ma per questo momento non c’è spazio.
In
questo momento sostengo pertanto la necessità che l’Occidente à tête americaine
non consegua il disegno della Casa Bianca e/o del Pentagono di stravincere sul
mondo eurasiatico reimponendo un’egemonia ch’è storicamente tramontata in modo
irreversibile e attuando le strategie e le tattiche del totalitarismo
liberista, il più subdolo ma non il meno infame dei totalitarismi (e ce lo sa
dimostrando nell’Europa d’oggi: tentando di fare strame di qualunque libertà di
pensiero degradandone sistematicamente le espressioni a forme di fake news,
facendo il deserto su qualunque differenza di giudizio e chiamando tale deserto
“democrazia”).
Certo
che, al limite, una tirannia lontana è un male minore rispetto a una tirannia
vicina e incombente.
Ma il
fatto che il totalitarismo occidentale sia quello del “pensiero unico” e della
negazione di troppi diritti sostanziali dei più (a cominciare non dalla ricchezza,
bensì dalla dignità civile e sociale) nel nome del diritto di sfruttamento da parte
delle lobbies conferisce alla “tirannia vicina” che ci minaccia un carattere particolarmente odioso:
e il fatto che essa, almeno per il momento, possa permettersi il lusso di forme
di “libertà” nella sostanza irrilevanti se non addirittura socialmente
illusorie e pericolose anche perché utilizzate come anestetico morale di massa
la rende ancora più infame”.
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