IL "SOFT POWER "UTILIZZATO PER CONVINCERE GLI INDECISI.
IL "SOFT POWER" UTILIZZATO PER CONVINCERE GLI INDECISI.
Dr
Coleman, UK: la Terza Guerra
Mondiale
è ufficialmente Iniziata.
Conoscenzealconfine.it
– (16 Febbraio 2023) - Cristina Bassi – ci dice:
Ora è
tutto alla luce del sole. Il Ministro degli Esteri tedesco ha dichiarato che
siamo in guerra con la Russia.
Il
dottor Coleman è un medico di base ed ex professore di Scienze mediche
olistiche presso l’International Open University in Sri Lanka, nonché scrittore
medico articolato e prolifico.
Nel 1988, sul Sunday Times scriveva: “Entro il
2020 ci sarà un olocausto, non causato da un pennacchio di plutonio ma
dall’avidità, dall’ambizione medica e dall’opportunismo politico”.
Del
coraggioso e battagliero (e ora anziano) dr Coleman, UK, ho già tradotto altri
articoli.
Nel
seguito, traduco il suo ultimo articolo sul presente dell’Europa e
dell’Occidente: in guerra ufficialmente con la Russia.
“Quindi,
ora è tutto alla luce del sole. Il Ministro degli Esteri tedesco ha dichiarato
che siamo in guerra con la Russia. I media tradizionali erano troppo
preoccupati con i soliti scarti per notarlo, ma questo significa che la Terza
Guerra Mondiale è ufficialmente iniziata.
Il
giorno in cui la Germania ha annunciato la Terza Guerra Mondiale, la sezione
principale del sito di notizie della BBC non ha menzionato l’annuncio del
Ministro degli Esteri tedesco, ma è riuscita a trovare spazio per i seguenti
titoli:
“La
furia di un proprietario di casa per il divano incastrato nelle scale” e “Il
presentatore di BBC News si commuove nell’ultima firma”.
E
ancora una volta, per la terza volta, una guerra mondiale è stata ufficialmente
iniziata dalla Germania.
Non è
una grande sorpresa.
Molti
mesi fa ho detto che i cittadini tedeschi stavano sentendo i segnali di allarme
aereo che venivano testati.
E,
naturalmente, molti mesi fa, il Regno Unito e gli Stati Uniti si sono ritirati
dai colloqui di pace e hanno abbandonato qualsiasi tentativo di negoziare un
accordo con la Russia.
Il
Presidente degli Stati Uniti Biden, i ministri europei e il Regno Unito stanno
tutti inviando carri armati in Ucraina (uno dei Paesi più corrotti del mondo)
per combattere la Russia. (Biden, ovviamente, ha legami finanziari con
l’Ucraina).
La
cosa strana è che l’Ucraina ha già più di 1.000 carri armati.
Quindi
le poche decine di carri armati che l’Occidente sta inviando – e che
impiegheranno mesi ad arrivare – non faranno una grande differenza.
Si tratta di una donazione tattica.
Gli
esperti militari sostengono che alcune delle armi promesse impiegheranno quasi
tre anni per arrivare in Ucraina.
È un segno di quanto l’Occidente spera che
questa guerra duri?
E,
naturalmente, quei carri armati avranno bisogno di soldati addestrati. Non si
possono consegnare carri armati e aspettarsi che gli ucraini sappiano usarli.
Inoltre,
all’Ucraina sono rimasti pochissimi soldati.
Circa 150.000 soldati ucraini sono stati
uccisi e diverse centinaia di migliaia sono stati feriti. (In confronto, dei
600.000 soldati russi in Ucraina, ne sono morti tra i 16.000 e i 25.000).
Ma i
carri armati non sono sufficienti per l’Ucraina.
L’Ucraina,
che sta perdendo la sua guerra, ora vuole navi da guerra, sottomarini e aerei.
Ma
pensa un po’. E li otterranno.
Inoltre, gli Stati Uniti vogliono che anche
Israele invii equipaggiamenti.
E, dato che il Presidente ucraino è ebreo,
sospetto che Israele non farà finta di niente (anche se senza dubbio si
aspetterà che i contribuenti americani inviino loro un sacco di nuovi e costosi
giocattoli come ricompensa).
La
cosa da ricordare è che i cospiratori vogliono la guerra nucleare.
È un
ottimo modo per uccidere persone e ridurre la popolazione globale.
Quando
le bombe inizieranno a volare, i cospiratori saranno al sicuro nei loro bunker
sotterranei e sui loro super-yacht ben attrezzati.
Le persone che vivono nelle grandi città non
hanno idea di cosa stia accadendo. Una volta che la Terza Guerra Mondiale avrà
inizio, sarà finita in pochi minuti.
Il 25
gennaio avevo pubblicato un articolo intitolato “‘We’re Heading for Nuclear
War’ (“Ci stiamo dirigendo verso la guerra nucleare”).
E
anche un video di avvertimento intitolato “Why THEY Need World War III’”
(“Perché hanno bisogno della terza guerra mondiale”), pubblicato il 3 maggio
2022.
Le
cose si stanno muovendo velocemente.
I
media tradizionali non vi diranno nulla di tutto questo.
Stanno
nascondendo ciò che sta accadendo con delle banalità.
Nel
Regno Unito, il governo si sta riunendo per discutere su come vincere le
prossime elezioni.
La BBC
e il resto della macchina della propaganda non vi diranno che l’Ucraina sta
mandando in guerra sedicenni e anziani.
Non vi
diranno che stanno radunando carne da cannone.
Non vi
diranno che i soldati ucraini, non addestrati alla guerra, stanno disertando. E
nel frattempo le infrastrutture ucraine vengono distrutte.
L’Occidente
sta permettendo la distruzione deliberata dell’Ucraina, perché c’è un’agenda
nascosta e gli idioti in Occidente che sventolano o indossano le bandiere
dell’Ucraina sono parte del genocidio.
La
NATO sa, ovviamente, che l’Ucraina sta perdendo e sospetto che i cospiratori
vogliano far proseguire la guerra il più a lungo possibile, per massimizzare il
numero di morti.
Per
questo l’Occidente sta fornendo bombe, proiettili e carri armati – e presto
fornirà aerei, navi da guerra e sottomarini.
Ora
siamo ufficialmente in guerra con la Russia. Mi chiedo quanti capiscano cosa
significhi.
Come
temevo, siamo stati condotti ciecamente allo scontro verso il quale i
cospiratori erano diretti.
Ora,
con l’Ucraina che ha perso la guerra, gli Stati Uniti, il Regno Unito e
l’Unione Europea vogliono continuare a spingere sulla Russia il più possibile.
E
vogliono la Terza Guerra Mondiale per annientare i russi.
Tutto
questo danneggerà massicciamente l’ambiente.
Porterà anche ad un aumento massiccio dei
prezzi di cibo e carburante.
E ci
saranno centinaia di milioni di morti in Africa e in Asia, dove la gente non
può permettersi di comprare cibo o carburante.
(Stranamente, non ho sentito i folli del culto
del cambiamento climatico lamentarsi dei danni all’ambiente. Questo perché sono
marionette i cui fili sono tirati dai cospiratori).
La
maggior parte delle persone semplicemente non capisce che tutto è deliberato.
Ricordate: nulla accade per caso”.
(vernoncoleman.org/articles/world-war-iii-has-officially-started).
(thelivingspirits.net/dr-coleman-uk-la-terza-guerra-mondiale-e-ufficialmente-iniziata/).
“Progetto
Blue Beam”: “WEF Insider” Rivela
che
“Fake Alien Invasion” unirà l’Umanità.
Conoscenzealconfine.it
– (17 Febbraio 2023) -Redazione - Serge Monast – ci dice:
Nel
2024 una falsa invasione aliena unirà l’umanità sotto un governo unico
mondiale.
“Progetto
Blue Beam”: l'inganno del falso messia.
I
media mainstream di solito presentano le notizie sugli UFO come storie
marginali per gli strani, ma da una settimana sono impazziti per gli UFO,
riportando avvistamenti ed eventi come eventi di notizie serie.
Dato
che sappiamo che i media mainstream prendono ordini dall’élite globale e
qualsiasi cambiamento nella narrazione deve essere visto con profondo sospetto,
la domanda da porsi è: perché i media hanno cambiato la loro narrazione così
drammaticamente?
Il governo
fingerà un’invasione globale di alieni durante il 2024, al fine di inaugurare
un governo unico mondiale?
Ecco
dove diventa davvero interessante.
Nel
suo libro del 1994 “Project Blue Beam”, il giornalista investigativo Serge
Monast scrive che le Nazioni Unite, la NASA e altre agenzie governative
lavorano in segreto dal 1983 su un’operazione top-secret chiamata “Project Blue Beam”.
Pagliacci…
Fanno sempre più ridere…
(t.me/consenso_disinformato)
Dall’impiego
del Soft power
all’uso
del Potere Forte.
Vittoriodublino.org
– (5-6-2022) – Vittorio Alberto Dublino – ci dice:
Il
conflitto in Ucraina ha riportato alla ribalta le ambizioni del famoso
“Progetto Russia” (descritto da Limes nel 2008 ) che sembra contrapporsi a
quella che appare come un’altra ambizione condotta in maniera parallela, che si
declina in un’altra idea che sta vagando da qualche tempo per il mondo, l’idea di un Impero americano.
Queste
ambiziose idee hanno usato inconfutabili elementi di propaganda culturale per
promuoversi a vicenda.
Per decenni, prima gli USA poi la Russia dopo
la caduta dell’URSS, hanno impiegato il Soft Power è quale strumento di
Diplomazia Culturale.
Nel
tentativo di influenzare i popoli a proprio vantaggio.
Cioè
cercando di “portarli dalla propria parte” con il potere morbido.
Lo
scontro armato ucraino-russo sembra segnare oggi il passaggio dal Soft Power
all’Hard Power nel perseguimento delle rispettive ambizioni.
Lo
scienziato Joseph Nye codificò la famosa distinzione tra due forme d’esercizio di
Potere, descrivendo
il Soft power come:
“la
capacità di convincere per influenzare attraverso la cultura su valori ed idee”.
Contrariamente
all’Hard
Power che:
“conquista e costringe con la forza militare”.
Nye
aggiunge nella sua teoria che la miscela tra i due diversi esercizi di potere
diventa Smart
Power,
capace di sviluppare una forza maggiore della loro semplice somma: questa potente forza può essere usata
a fin di bene, ma anche per il male.
Peter
Van Ham – senior ricercatore esperto presso il “Clingendael Institute” per le
Relazioni internazionali concentrato con la sua ricerca sulle questioni di
sicurezza e difesa europea, sulle organizzazioni internazionali e sul futuro
della governance globale – afferma:
«ci stiamo rendendo conto che l’interventismo
imperiale statunitense ha fondato le sue basi essenziali per costituire il suo
nuovo ordine in una società post-moderna, evidenziando Azioni di Potere su
ambedue i livelli, mediante strumenti che sono riusciti fino ad ora a trarre
estremo beneficio nella loro efficacia ed efficienza nella loro
interconnessione permanente e globale…»
Voglio
riflettere dunque su questo tema, proprio con alcune delle parole del
professore Van Ham riportate nella pubblicazione del 2005 “Power, Public
Diplomacy, and the Pax Americana”.
Negli
ultimi 17 anni il soft power esercitato dalle due nazioni si è oltremodo
intensificato, così come altre potenze sono entrate prepotentemente in questi
giochi globali di potere morbido, per promuovere le loro ambizioni.
La Pax
Americana
Come
lo spettro della rivoluzione comunista di Marx, la possibilità di una Pax
Americana sembra essere accolta da alcuni (noi: una minoranza dell’Umanità) con
favore o guardata (dagli altri che compongono la maggioranza) con grande
preoccupazione.
Alcuni
Stati sostengono gli Stati Uniti perché li considerano un potere liberale
particolarmente benigno, di cui condividono i valori e le politiche.
Altri
si risentono del predominio del potere degli Stati Uniti, talvolta in maniera
violenta.
Questi
Stati infatti accusano gli Stati Uniti di voler assumere il ruolo di
“Globocop”, impegnati in un gioco pericoloso e rischioso di ingegneria sociale
globale.
L’argomento
sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo non è mai stato più controverso come
oggi.
Sia all’interno che all’esterno degli Stati
Uniti. Poiché gli Stati Uniti sono il “primus inter pares” all’interno della
comunità internazionale e si considerano anche più che uguali degli altri,
l’idea di ‘impero’ emerge come metafora e modello esplicativo.
La
parola Impero si è rapidamente trasformato nella famigerata
‘e-word‘ della politica estera statunitense:
oggetto di accesi dibattiti e, spesso, fraintendimenti.
L’invasione
americana dell’Iraq e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein nel marzo
2003 hanno rafforzato l’immagine dell’unilateralismo statunitense guidato dalla
realpolitik e basato sulla superiorità militare.
Washington
sembra seguire il principio di Machiavelli secondo cui è molto meglio essere
temuti che amati, e, meglio costringere che attrarre.
Tuttavia,
come c’insegna la Storia, gli imperi non si basano esclusivamente, o principalmente,
sull’esercizio del potere militare.
Al
contrario, gli imperi hanno fatto affidamento un’ampia gamma di strumenti,
incentivi e politiche per stabilire e mantenere il dominio, che vanno dalla
persuasione politica e l’influenza culturale, alla coercizione e alla forza.
La
maggior parte degli imperi ha ricercato il dominio piuttosto che il completo e
diretto controllo all’interno dei territori loro dipendenti.
E sebbene il potere militare (l’Hard Power)
sia stato spesso determinante nella costruzione dell’impero, l’esercizio del
potere morbido, il Soft Power, per attestare nell’immaginario dei popoli
legittimità, credibilità, superiorità culturale e relativo dominio normativo, è
stato essenziale per mantenere la regola.
Probabilmente,
sia l’impero britannico che quello sovietico caddero in declino perché persero
legittimità tra la loro stessa gente.
All’interno dell’impero britannico, l’idea
della ‘superiorità bianca’ non era più considerata credibile (come dimostrò il
Mahatma Gandhi) e l’erosione dell’ideologia comunista portò alla sua definitiva
decadenza sotto Mikhail Gorbachev, il quale si rese conto che nessun numero di
carri armati poteva mantenere il controllo sovietico sui suoi paesi satelliti
dell’Europa centrale.
Il
potere imperiale si basa quindi su una miscela di dominio militare e
legittimità offerta dall’ideologia, o religione.
L’emergente Impero degli Stati Uniti persegue
un modello simile.
I responsabili politici di Washington, oggi
soprattutto, vendono l’idea della leadership e dell’egemonia degli Stati Uniti
come una manna dal cielo, una garanzia per la democrazia, la libertà e la
prosperità, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per il mondo nel suo
insieme.
Il
presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel novembre 2003 affermò che: « (…) Libertà è sia il piano del Cielo per l’Umanità,
sia la migliore speranza di progresso qui sulla Terra. . . Non è un caso che
l’ascesa di così tante democrazie sia avvenuta in un’epoca in cui la nazione
più influente del mondo era essa stessa una democrazia ».
Le
parole di Bush implicherebbero l’assunto per cui ‘l’imperialismo statunitense’
non è solo da considerare altruistico, ma anche inevitabile.
L’Impero” degli Stati Uniti non sarebbe una
«mera ricerca di petrolio e di risorse, ma di libertà, … e coloro che si
oppongono alla politica estera degli Stati Uniti o sono malvagi o sono male
informati, poiché cercano di fermare la freccia unidirezionale del progresso
del tempo»
Questa
riflessione esamina due questioni.
Innanzitutto, quali sono i presupposti
normativi su cui si basa il discorso dominante dell’emergente Pax Americana?
Qual è
la base normativa (o ideologica) dell’eredità imperialista statunitense?
Chiede
anche come il soft power degli Stati Uniti sia stato strumentalizzato per la
causa dell’imperialismo liberale dalla rivoluzione strategica dell’11
settembre.
In secondo luogo, vuole esaminare il ruolo
della diplomazia pubblica nel dibattito pubblico sul nascente impero degli
Stati Uniti.
La
diplomazia pubblica è ampiamente considerata uno strumento essenziale per
conquistare i “cuori e le menti” del pubblico straniero, e per convincerli che
i loro valori, obiettivi e desideri sono simili a quelli degli Stati Uniti.
Dall’11
settembre, l’amministrazione Bush ha quindi avviato una raffica di iniziative
per ridefinire la percezione degli Stati Uniti da ‘un prepotente ad un egemone
compassionevole’.
Ad
esempio nel tentativo di influenzare positivamente il cittadino medio dei paesi
musulmani, per aprire in particolare la cosiddetta ‘strada araba’, la
diplomazia pubblica è considerata cruciale per esercitare l’ampio potere del
soft power degli Stati Uniti.
Ciò
perché l’argomento è che «milioni di persone comuni. . . hanno notevolmente
distorto, ed accuratamente coltivato l’immagine degli [Stati Uniti], con
immagini così negative, così strane, così ostili che si sta creando una giovane
generazione di terroristi…»
La
politica degli Stati Uniti nei confronti del mondo musulmano si basa sul
presupposto che queste idee negative dovrebbero essere neutralizzate, e infine
modificate con uno sforzo mirato di diplomazia pubblica.
Questo
approccio è rapidamente diventato un elemento centrale della ‘guerra al
terrore’ degli Stati Uniti.
Washington
ora si rende conto che non puoi uccidere le idee con le bombe, per quanto
queste possano essere guidate dalla precisione della tecnologia.
Ma
come si può esercitare il soft power come diplomazia pubblica?
E
quanto è importante la diplomazia pubblica per stabilire, o mantenere, l’impero
liberale, noto anche come Pax Americana?
Soft power, hard power e la ‘Nazione
indispensabile’.
L’Impero
è ovviamente un fenomeno complesso, informato dal potere, dagli interessi
economici, nonché dalle idee culturali e religiose.
L’imperativo
‘promuovere il progresso’ è stato particolarmente forte.
Il
famoso poema di Rudyard Kipling su quello che ha chiamato “il fardello
dell’uomo bianco”, bene illustra questa missione civilizzatrice.
Nella sua poesia, Kipling fece riferimento
alle responsabilità dell’impero. Indirizzando la decisione degli Stati Uniti di
entrare in guerra con la Spagna nel 1898.
Sebbene
gli Stati Uniti siano stati determinanti nel ridurre i sistemi britannici,
olandesi e altri sistemi imperiali alle modeste dimensioni che oggi sono,
Washington ha sempre giustificato i propri interventi esteri nel modo classico
imperiale, vale a dire come un esercizio di forza positiva.
Come
scrive Max Boot in “The Savage Wars of Peace”, gli Stati Uniti sono stati
coinvolti negli affari interni di altri paesi dal 1805 (molto prima della
succitata famosa riflessione di Kipling).
Questa
moltitudine di interventi spesso piccoli – che iniziò con la spedizione di
Jefferson contro i Pirati barbareschi, e fu seguita da piccole guerre imperiali
dalle Filippine alla Russia – ha svolto un ruolo essenziale nell’affermazione
degli Stati Uniti come potenza mondiale.
Ideologicamente,
queste così tante guerre sono state, tra le altre motivazioni, giustificate dal cosiddetto “Corollario Roosevelt alla Dottrina
Monroe” degli Stati Uniti, che affermava :
«… il male cronico, o un’impotenza che si traduce in
un generale allentamento dei legami della società civile, . . . alla fine
richiedono l’intervento di qualche nazione civile».
Questo è anche lo sfondo storico della
“dottrina Bush” che richiama all’azione preventiva militare, che venne proposta
nella “Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” del 2002, e che
dimostra che l’invasione e la liberazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti
ha in effetti un lungo pedigree.
Tuttavia,
oggi, nessun politico statunitense andrebbe a verbale sostenendo che Washington
ha in effetti esplicite ambizioni imperiali.
Nel gennaio 2004, il vicepresidente Dick
Cheney affermò che gli Stati Uniti non sono un impero, poiché : « … [se] fossimo un impero, attualmente presiederemmo un
pezzo di superficie terrestre molto più grande di quello che effettivamente
facciamo. Non è questo il modo in cui operiamo».
Ma,
come accennato in precedenza, la storia degli Stati Uniti ovviamente ha
sfumature più imperialiste di quanto l’immagine di sé degli Stati Uniti
vorrebbe accettare.
Anche
il ruolo degli Stati Uniti in Europa durante la Guerra Fredda è stato oggetto
di accesi dibattiti:
negli
anni ’80 Geir Lundestad ha etichettato l’Occidente controllato dagli Stati
Uniti come un “impero su invito”.
Mentre
Paul Kennedy vide gli Stati Uniti in declino a causa della “estensione
eccessiva dell’impero”.
Si
potrebbe dunque definire gli Stati Uniti come un ‘Impero in negazione’, o, in
mancanza di un nome migliore, un ‘Impero liberale’.
Chiaramente,
i tempi di un impero formale sono morti.
Il
controllo fisico, diretto di territori al di fuori del proprio – tranne che
applicato come espediente temporaneo in risposta a delle crisi (come accaduto
in Afghanistan e in Iraq) – è quasi sempre un peso, piuttosto che un vantaggio.
Quindi,
potrebbe essere possibile riconoscere gli Stati Uniti e la sua sfera di
influenza come un Impero, ma al contempo negare che gli americani siano
imperialisti.
Tuttavia,
i nudi fatti devono essere riconosciuti:
gli
Stati Uniti sono l’unica nazione che controlla il mondo attraverso cinque
comandi militari globali; mantiene più di un milione di uomini e donne sotto le
armi in quattro continenti; schiera gruppi di portaerei di guardia in ogni
oceano; garantisce la sopravvivenza di diversi paesi, da Israele alla Corea del
Sud; guida le ruote del commercio e del commercio globale; e riempie i cuori e
le menti di un intero pianeta con i suoi sogni e desideri.
Inoltre, Washington definisce l’agenda
economica, politica e di sicurezza globale.
Se non è questo un impero formale, assomiglia
sicuramente ad una Pax americana.
Questo
implica il tentativo che il sistema internazionale contemporaneo stia cambiando
da una struttura anarchica a una gerarchica.
Con
gli Stati Uniti saldamente al comando.
Ma
come le potenze imperiali del passato, questa nuova gerarchia guidata dagli Stati
Uniti non si basa solo sul potere militare, ma anche su una nuova struttura
narrativa.
La
domanda chiave dunque da porci è:
quali
presupposti normativi sono alla base del discorso di una emergente Pax
americana?
Gli
Stati Uniti seguono una politica a doppio binario, utilizzando sia mezzi
performativi (persuasivi) che discorsivi.
Il
lato performativo riguarda il comportamento degli Stati Uniti, in particolare
la lunga tradizione dell’interventismo che gli conferisce la reputazione e
l’aura di maschilismo basato su una mentalità “we can do”.
Assumendosi
la responsabilità di poliziotto globale, gli Stati Uniti si affermano de facto
come “primus
inter pares”,
come “più
uguali degli altri” e come “leader del mondo libero”.
Inoltre, la tradizione statunitense di
intervento militare la distingue dai suoi alleati occidentali, come l’Unione
Europea.
La
“guerra al terrore” degli Stati Uniti hanno offerto a Washington i massimi
margini di manovra per una vigorosa campagna di imperialismo liberale.
Il presidente Bush ha indicato che i
terroristi sono ovunque e da nessuna parte. Quindi, la “guerra al terrore” degli
Stati Uniti
«… non finirà finché ogni gruppo terroristico
di portata globale non sarà stato trovato, fermato e sconfitto… Da questo giorno
in poi, qualsiasi nazione che continua a nutrire o sostenere il terrorismo sarà
considerata dagli Stati Uniti Gli Stati come regime ostile».
Come
dimostra la guerra contro l’Iraq, questo non è solo un processo discorsivo, ma
anche performativo.
Imbarcandosi in questa “guerra al terrore”, gli Stati Uniti hanno approfittato
dell’11 settembre per ampliare la portata della loro portata egemonica,
utilizzando la giustificata causa della lotta al terrorismo internazionale per
ottenere un momento di sostegno critico, rendendo necessario e più facile per
le élite promuovere idee diverse sull’ordine politico e sul ruolo del proprio
stato in una nuova costellazione di potere.
Come
indica il “Corollario di Roosevelt”, in generale i leader statunitensi
considerano gli interventi statunitensi moralmente giustificati e tutt’altro
che frivoli o egoistici.
Il
discorso condiviso sull’intervento degli Stati Uniti si concentra sulla loro
legittimità, derivata dalla comprensione che le azioni militari degli Stati
Uniti garantiscono l’ordine internazionale.
Gli Stati Uniti si considerano come il
“prestatore di un’ultima istanza” della legge e dell’ordine all’interno del
sistema internazionale, fornendo il bene pubblico della sicurezza per tutti,
anche per i free-rider critici.
L’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright
definì gli Stati Uniti la “nazione indispensabile”, l’unico stato che abbia sia la
potenza militare che la volontà politica per svolgere il ruolo di egemone
benigno, offrendo stabilità, prevedibilità e trasparenza.
Gli
interventi e le guerre militari statunitensi – siano state combattute in Corea
negli anni ’50, in Vietnam negli anni ’70 o in Iraq negli anni ’90 – vengono
spesso proposte per confermare questo ruolo fondamentale.
Usare
la guerra per rafforzare, o addirittura alterare, l’identità di uno stato non è
una novità.
Come sostiene Erik Ringmar (prendendo come
case study gli interventi della Svezia durante la Guerra dei Trent’anni)
«… gli
Stati possono combattere guerre principalmente per ottenere il riconoscimento
di un’identità diversa, da prendere “seriamente” come una grande potenza,
piuttosto che per obiettivi, razionali, ragioni realiste di precostituiti
interessi nazionali.
La
guerra – vinta, persa o semplicemente subita – spesso pone gli Stati di fronte
a una nuova realtà politica, facendo apparire ragionevole, quasi naturale, un
commisurato mutamento identitario …»
Significativi
esempi europei sono il cambiamento dell’identità nazionale della Germania dopo
la seconda guerra mondiale, l’identità postcoloniale del Regno Unito dopo la
dissoluzione del suo impero, così come, più recentemente, il passaggio della
Russia verso un’identità post-imperiale dopo la fine della Guerra Fredda e il
termine di un momento critico durato 50 anni, rendendo necessario e più facile
per le élite promuovere idee diverse sull’ordine politico e sul ruolo del
proprio stato in una nuova costellazione di potere.
Le
guerre successive all’11 settembre in Afghanistan e Iraq hanno confermato il
ruolo degli Stati Uniti di egemone globale.
La politica estera degli Stati Uniti si basa
sul presupposto che la sua potenza militare e il coraggio di utilizzarla
effettivamente gli offrano lo status e la credibilità che costituiscono la base stessa
dell’ampio soft power degli Stati Uniti.
Sebbene
spesso si sostiene che l’hard e il soft power siano giustapposti, come se la
durezza del pugno sminuisse l’attrattiva della mano, in effetti, nel caso di
specie della Pax Americana, si potrebbe ben sostenere che l’hard e il soft
power degli Stati Uniti sono dialetticamente correlati:
l’interventismo
statunitense richiede il mantello della legittimità morale, o del diritto
internazionale, e senza di esso la coercizione provocherebbe troppa resistenza
e sarebbe allo stesso tempo troppo costosa e in definitiva insostenibile;
viceversa,
il soft power richiede le risorse e l’impegno necessari per tradurre le parole
nei fatti.
L’imperialismo liberale degli Stati Uniti
richiede sia il potere duro che quello morbido.
L’attuale
politica estera degli Stati Uniti si basa quindi sul presupposto che senza
l’hard power degli Stati Uniti e il suo status di “unica superpotenza rimasta
al mondo”, l’efficacia del suo soft power si ridurrebbe prontamente.
Senza
hard power, l’attrattiva si trasforma in “shadow-boxing” e, nel peggiore dei
casi, in “political bimboism”.
Nel
mondo di oggi, solo le parole non affondano più le navi.
Invece, quando leggiamo le labbra del
presidente Bush, siamo ben consapevoli dell’immensa macchina militare che
sostiene le sue parole.
(Ho tradotto
ed adattato la riflessione sulla Pax americana da: “Power, Public Diplomacy,
and the Pax Americana“di Peter van Ham, in “The New Public Diplomacy. Soft
Power in International Relations” (2005) edited by Jan Melissen; Palgrave
MacMillan.
Vittorio
Alberto Dublino).
Soft
power, ovvero come conquistare
il
mondo senza l’uso delle armi.
Linesistente.it
- Adriano Soldi – (12 Luglio 2021) – ci dice:
L’America è lontana, dall’altra parte della
luna, scriveva Lucio Dalla nel 1979 insieme agli altri versi di Anna e Marco.
In quegli anni sicuramente l’America,
implicitamente intendendo quella del nord, appariva ancora come qualcosa di
lontano ed inarrivabile e forse proprio per questo particolarmente attraente.
Forse
esisteva ancora il sogno americano condito da palazzoni moderni, dalle luci
scintillanti dei cartelloni pubblicitari e delle vetture quasi futuristiche.
Un immaginario complessivo che si discostava
nettamente da un’Europa che allora appariva più invecchiata di oggi e che è
durato per tutta la metà del novecento.
Un
mondo, quindi, che ancor prima che arrivasse internet ci giungeva soltanto
tramite immagini, per lo più cinematografiche, in grado di farci immaginare il
nuovo continente come una sorta di paradiso del futuro, in cui ogni cosa,
letteralmente, arrivava prima che da noi. In un certo senso, possiamo definire
in questo modo il soft power, ma andiamo per ordine, perché è molto di più.
Conquistare
con la cultura, non con le armi: cos’è il soft power.
La
prima apparizione di questo termine avviene al termine degli anni 80, nel
saggio “The Mean to Success” in “World Politics” del professore” Joseph Nye”.
L’accademico
utilizza l’espressione per mostrare in che modo si potrebbe aver successo nella
politica estera, abbandonando chiaramente le dinamiche violente che avevano
caratterizzato tutto il secolo.
Secondo “Nye” il potere consiste nella
capacità di far fare agli altri ciò che chi lo possiede vorrebbe facessero.
Fino ad allora, come ben sappiamo, la
conquista di questa capacità era avvenuta tramite la violenza, rappresentata al
meglio dalla seconda guerra mondiale, ma forse ancor di più dalla guerra in
Vietnam, che mostrò al mondo come gli Stati Uniti non fossero più l’unica
potenza mondiale.
Un
problema che negli anni successivi si ripropose in maniera ancora più
determinante, considerando il potere della globalizzazione e lo sviluppo rapido che anche altri
paesi avevano conosciuto.
In un contesto simile, dunque, non più armi,
ma fascinazione ed attrazione politica e culturale verso i propri interessi.
Tale
strategia consente di portare dalla propria parte stati minori, ma soprattutto
di guidarli direttamente o meno nella stessa direzione dei propri obiettivi.
Il
caso americano.
Quello
degli Stati Uniti è un caso particolarmente interessante di soft power, poiché
ci permette di guardare al fenomeno sia sul piano delle relazioni
internazionali, sia su quello della vita quotidiana, ma non solo.
Osservando ancor prima la storia interna del
paese, possiamo notare come il processo abbia coinvolto prima le popolazioni
già presenti all’interno dei confini nazionali, per poi attraversare l’oceano.
In
sociologia, tale fenomeno ha un nome preciso: americanizzazione.
Questa
è avvenuta in due fasi distinte della storia.
La prima si è concretizzata nel periodo della
prima guerra mondiale, quando la cultura americana è riuscita ad assorbire gran
parte delle numerose etnie presenti sul proprio territorio, specialmente quelle
europee.
La
seconda si ha invece dopo la seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti
potevano contare su una grandissima disponibilità economica, ma soprattutto non
avevano la necessità di ricostruire un intero paese devastato dai conflitti,
presentandosi dunque ai più piccoli stati europei come una sorta di paradiso
futuristico, non a caso quello richiamato nell’introduzione.
In
questo secondo frangente, tuttavia, in Europa soprattutto c’era un grande freno
che non consentiva agli USA di penetrare tutti i confini nazionali, ovvero la
cortina di ferro, dopo la caduta della quale gli Stati Uniti sono riusciti ad
imporre un controllo egemone, basti pensare allo stile di vita occidentale, con
i suoi brand, che ha invaso l’ex Unione Sovietica in pochissimo tempo.
Restringendo
l’attenzione alla nostra piccola Italia, basta osservare il passaggio cruciale
degli anni 80, in cui si assiste ad un cambiamento drastico, anche da un punto
di vista estetico, dello stile di vita dei cittadini, che hanno sposato quasi
interamente l’edonismo a stelle e strisce.
Non è un caso che proprio in quel periodo
storico arrivò in Italia una serie di prodotti televisivi d’oltreoceano, come
Dallas, che hanno invaso le tv presenti in ogni casa italiana, fornendo una
nuova prospettiva dopo i terribili anni 70.
Da lì
in poi la televisione sarebbe cambiata, abbandonando un modello di mezzo
culturale, in particolar modo nel servizio pubblico, favorendo invece un tipo
di intrattenimento leggero, caratterizzato da risate senza impegno ed un
abbigliamento decisamente meno istituzionale, tanto per citare due criteri.
Il
soft power della Cina.
Nel
corso del ventesimo secolo, in maniera sempre più profonda lo stile di vita
americano ha penetrato l’Italia e l’Europa intera, rendendo i due continenti
sempre più vicini.
Non
sono stati però soltanto gli Stati Uniti a conquistare altri paesi senza l’uso
della forza fisica.
Al
fianco di quella che per anni è stata per definizione la potenza mondiale,
infatti, è giunta poi anche la Cina.
Con la
crisi del 2008 e con la scoperta, nel corso degli anni, delle ingerenze
statunitensi nella politica degli altri paesi, con mezzi e dinamiche di certo
non legali, il sogno americano è tramontato.
In uno
scenario del genere solo un’altra potenza mondiale ha avuto la stessa forza di
imporsi globalmente, la Cina, la quale ha però dovuto fare i conti con una
reputazione non ottima, specialmente se si considera la distanza a livello
culturale e sociale con il mondo occidentale.
Per riuscire a conquistare l’altra parte del
mondo il governo comunista ha obbligatoriamente dovuto intervenire per ripulire
la propria immagine e mostrarsi al mondo nel miglior modo possibile.
Per
fare ciò, quale migliore via del soft power?
Oltre
alle differenze culturali, però, il Partito Comunista Cinese deve tutt’ora fare
i conti con importanti criticità interne che continuano a macchiare l’immagine
pubblica del paese agli occhi degli altri paesi.
Al primo posto delle difficoltà c’è senza
dubbio la questione dei diritti civili, che comprende il rispetto dei diritti
umani della popolazione cinese, ma anche il rapporto con altre comunità, come
quella del Tibet o il controllo autoritario su Hong Kong.
Non
secondarie, poi, sono le controversie ambientali, poiché la Cina è sì diventata
una potenza mondiale, ma per farlo in così breve tempo ha dovuto pagare un
grandissimo costo in termini di inquinamento, tema che tutt’ora pare non essere
particolarmente a cuore alle autorità cinesi.
Tuttavia,
è proprio tramite l’inosservanza di questi due aspetti che il paese è riuscito
a diventare una potenza economica mondiale, divenendo a tutti gli effetti, la
fabbrica del mondo.
Nel momento in cui il governo comunista ha
però voluto alzare la testa a livello mondiale, mostrando la propria parte
migliore agli occhi di tutto il mondo, ha dovuto costruire una propaganda ancor
più difficoltosa di quella portata avanti dagli Stati Uniti, poiché aveva come
obiettivo l’esportazione di un sistema di valori che mal si concilia con lo
stile di vita occidentale e che comunque non può in alcun modo nascondere tutti
gli aspetti controversi.
Hanno
fallito entrambe?
Come
abbiamo visto, il sogno americano è andato in frantumi ormai da anni.
Gli
Stati Uniti non sono più la potenza mondiale dalla crescita inarrestabile:
la crisi economica del 2008 ha messo in
ginocchio prima il paese e poi il mondo intero, che a quell’universo di sogni e
ricchezze spropositate era inevitabilmente legato.
Il colpo finale è stato poi inflitto da Donald
Trump, che ha basato la sua intera campagna elettorale su un messaggio che
poneva il proprio paese al primo posto, con l’intento esplicito di non curarsi
degli altri se non nei casi in cui questi rappresentassero un interesse diretto
per l’America.
Infine,
la pandemia ha senza dubbio messo in luce come gli Stati Uniti soffrano delle
stesse debolezze degli altri stati, mostrando agli occhi di tutto il mondo una
gestione della crisi a dir poco fallimentare che ha causato migliaia e migliaia
di morti.
Sulla
Cina ci sarebbero anche poche parole da spendere in merito all’impatto che il
Covid ha avuto sulla sua immagine internazionale, che peraltro continua a
peggiorare a causa della scarsa collaborazione da parte del governo in merito
alle indagini relative all’origine della pandemia.
Oltre
a ciò, però, sulla potenza asiatica hanno di certo impattato le relazioni
internazionali.
Il
paese non è infatti famoso per l’ottima diplomazia e in più di un’occasione non
ha mancato di mostrare i propri muscoli, passando così agli occhi di tutto il
mondo da paese in via di sviluppo alla nuova potenza mondiale in grado di
soppiantare gli Stati Uniti.
In un
contesto simile, dunque, entrambe le potenze sono in realtà uscite sconfitte o
indebolite dalla pandemia, almeno dal punto di vista diplomatico.
Chi
vince oggi?
Se
fare il conto della forza militare di una nazione non è affatto complicato,
poiché concretamente basta rilevare il numero delle forze fisiche su cui questa
può contare, è invece molto più complesso decretare la potenza del soft power
di quel paese.
“Brandirectory”
ogni anno stila un report grazie al quale è possibile compilare una sorta di
classifica del ranking basato sul soft power dei paesi di tutto il mondo.
Il
report 2020, come per gli altri anni, valuta diversi parametri in base ai quali
calcolare l’effettivo ranking degli stati.
Anche
in questo caso, dunque, sono stati presi in considerazione: Business & Trade, Governance,
Internazional Relations, Culture & Heritage, Media & Communication,
Education & Science, People & Values.
In
base a questi parametri al primo posto della classifica ci sono gli Stati
Uniti, seguiti da Germania, Regno Unito, Giappone e Cina.
Quest’ultima, dunque, pare non riesca ad
arrivare agli USA, che nonostante nel report precedente non fossero più al
primo posto, sono riusciti a riconquistare la vetta della classifica, mentre
altre nazioni europee come Germania e UK stanno facendo la grande scalata (nel 2019 la Francia, con grande sorpresa
per tutti, era riuscita a conquistare il più alto gradino della vetta).
La
“Mission Impossible”: convincere
gli
indecisi ad andare a votare.
Corriere.ca
- Francesco Veronesi – (10 September 2021) – ci dice:
TORONTO
- A dieci giorni esatti dalle elezioni è iniziata la grande sfida tra i partiti
per convincere gli indecisi.
Una fetta dell’elettorato ancora molto
cospicua, come confermano gli ultimi sondaggi, una fascia che alla fine dei
conti potrebbe spostare definitivamente gli equilibri e i rapporti di forza tra
le formazioni politiche.
Certo,
dopo il dibattito in francese di mercoledì e quello in inglese di ieri sera,
bisognerà aspettare ancora un po’ per tastare il polso dell’elettorato e vedere
se i confronti televisivi avranno avuto la forza di cambiare le carte in
tavola.
Nel
frattempo però la” Ipsos”, nella sua ultima rilevazione demoscopica, ha
scoperto che in questo momento il 13 per cento degli elettori intenzionati ad
andare alle urne il prossimo 20 settembre non ha la minima idea su quale
partito dirottare la propria preferenza.
Andando
a snocciolare i dati dell’istantanea scattata dalla “Ipsos”, si scopre che
all’interno della fascia degli indecisi quasi la metà - il 47 per cento - ha
un’opinione negativa di tutti i partiti in corsa.
Ma non
solo.
Il 50
per cento esatto del campione ritiene che in questo momento non dovrebbero
esserci le elezioni:
nel bel mezzo della quarta ondata della
pandemia, con la minaccia costituita dalla variante Delta del Covid e dai nuovi
ceppi potenzialmente ancora più contagiosi, con l’economia che ancora stenta
dopo la crisi vissuta negli ultimi 18 mesi, i cittadini hanno altre
preoccupazioni rispetto a seguire la campagna elettorale e a recarsi alle urne.
Questo
dato, che è rimasto consistente per buona parte della campagna elettorale,
potrebbe alla fine portare a delle conseguenze negative - e inaspettate fino a
poco tempo fa - per il primo ministro uscente Justin Trudeau.
Da un
lato esiste la possibilità che una porzione dell’elettorato liberale decida di
disertare le urne il 20 settembre, dall’altro è possibile che gli indecisi alla
fine decidano di punire proprio il leader liberale che, nonostante la
contrarietà degli altri leader di partito, ha forzato la mano e ha portato il
Paese alle elezioni anticipate.
Ma
quali sono le principali preoccupazioni degli indecisi?
Stando
al sondaggio “Ipsos”, le priorità riguardano la pandemia, il sistema sanitario
in generale, seguiti dalla generalizzata crescita del costo della vita.
Il 78 per cento del campione, inoltre, non sa
identificare il partito che nel suo programma ha il piano migliore per gestire
la fase post-pandemica in Canada.
Insomma,
a dieci giorni dal voto la parola d’ordine è sempre la stessa: incertezza.
Gli
ultimi sondaggi, realizzati alla vigilia del dibattito in francese, confermano
come vi sia un testa a testa tra il Partito Conservatore - in leggero vantaggio
- e il Partito Liberale, con l’Ndp costantemente ancorato al 20 per cento, il
Bloc Quebecois che tiene nella provincia francofona, i Verdi attorno al 5 per
cento e il People’s Party di Maxime Bernier in continua ascesa.
A
questo punto, quindi, la vera partita si giocherà a livello locale, in quei
distretti chiave che potrebbero costituire il vero ago della bilancia per il
risultato finale.
Per
ora la crescita di Erin O’Toole ha subito un rallentamento, mentre Trudeau è
stato in grado di frenare la caduta libera del partito registrata negli ultimi
dieci giorni.
Un
dato assodato, se i rapporti di forza dovessero rimanere invariati, è che anche
il prossimo governo federale non potrà contare sul sostegno di una maggioranza
assoluta alla Camera dei Comuni.
Stando
ai dati di ieri di “338canada.com”, il Partito Liberale nelle intenzioni di
voto è nettamente in testa in 139 circoscrizioni elettorali, mentre i
conservatori sono in vantaggio in 138 distretti federali.
La prospettiva di crescita, calcolata da “338canada.com”
sulla base dei collegi elettorali dove è corsa a due tra i candidati” grit e
tory”, conferma l’imprevedibilità dell’esito finale.
I liberali potrebbero conquistare altri 46
seggi, i conservatori potrebbero portare a “Parliament Hill” altri 40 deputati.
Elezioni,
Letta a Sky TG24: "Non possiamo
permetterci
di mandare Draghi in pensione"
tg24.sky.it
– (01 set. 2022) – Letta – ci dice:
Il
segretario del Partito Democratico è stato ospite di Casa Italia, il programma
condotto da Fabio Vitale e dedicato al voto del 25 settembre.
Tanti
i temi dell’intervista, tra cui lo scostamento di bilancio:
“Penso
che si possa evitare grazie a un intervento europeo”.
Sul
piano Cingolani per risparmiare energia: “Misure utili, le sosterremo”.
Sui
rigassificatori a Ravenna e Piombino: “Devono essere fatti”.
Infine,
sul futuro del premier: “Sono convinto che giocherà un ruolo importante per il
Paese anche dopo”
VERSO
IL VOTO: LO SPECIALE DI SKY TG24 - TUTTI I VIDEO - LE NEWS IN DIRETTA.
Presenti
anche i giornalisti Maria Latella e Ferruccio de Bortoli.
E sul
futuro di Mario Draghi: “Non possiamo permetterci di mandarlo in pensione. Sono
convinto che giocherà un ruolo importante per il Paese anche dopo.
In
apertura d’intervista, Letta ha sottolineato: un sondaggio recente "ci dà
come primo partito tra i 18-24enni.
Per me
questa è la più grande soddisfazione.
Cerco di parlare a loro, a questa nuova
generazione, in particolare di ambiente e diritti.
Sono convinto che loro saranno uno dei punti
di cambiamento di questa campagna elettorale”.
Sempre
sui giovani, alla domanda se la complicata legge elettorale non allontani dal
voto, il segretario del Pd ha risposto:
“L'attuale legge elettorale è pessima, è uno
dei più grandi problemi, abbiamo tentato di cambiarla ma purtroppo noi eravamo
minoranza e non ci siamo riusciti.
Ma
oggi sono due le grandi questioni su cui i ragazzi parlano una lingua
totalmente diversa dalla nostra e credo che su questi due grandi temi, che sono
l’ambiente e i diritti, la differenza tra il centrodestra e il centrosinistra è
quanto di più marcato”.
“Se
vincessimo noi – ha detto Letta – sia sull’ambiente sia sui diritti il nostro
Paese farebbe passi avanti importanti in chiave europea.
Se
vincesse la destra, la destra è negazionista sulla questione ambientale, ha
votato contro tutte le misure a livello europeo che sono state introdotte per
ridurre le emissioni e anche le misure compensative, come la carbon tax.
E sulla questione dei diritti è bastata la
frase di Salvini dell’altro giorno, che ha detto:
‘Il
mio modello di famiglia è quello ungherese portato avanti da Orban’.
Sono due questioni in cui è 'o di qua o di là'
e io credo che i giovani ventenni saranno molto sensibili ai nostri argomenti”.
Poi si
è passati al tema del risparmio energetico, con il piano a cui sta lavorando il
ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani.
“Sono
prime misure importanti – ha detto Letta –. Credo che siano utili, quindi noi
le sosterremo.
Ma
accanto a questo c’è bisogno d’intervenire economicamente sia sul tetto europeo
che su quello nazionale, sulle bollette, sul disaccoppiamento tra elettricità
prodotta da rinnovabili e prodotta da gas e poi sulla questione del credito
d’imposta per evitare il salasso e il tracollo delle nostre imprese e delle
nostre famiglie”.
“Penso
che si possa, grazie a intervento europeo, evitare scostamento di bilancio in
Italia”.
Letta
ha parlato anche del tema scostamento di bilancio.
“La
questione dell’aumento delle bollette è diventata talmente clamorosa che non
potrà che esserci una posizione europea.
Il 9
settembre s’incontrano e da quello che mi risulta, sia in Germania che in
Francia che negli altri Paesi europei, c’è la necessità di un intervento che
sia collettivo, complessivo.
Quindi
io penso che si possa, grazie a questo intervento europeo, evitare di dover
mettere mano a uno scostamento di bilancio in Italia”, ha detto.
E
ancora: “Lo scostamento di bilancio è l’intervento di ultima risorsa, che non
si può completamente escludere ma che non deve essere la via maestra, perché
vuol dire fare debito in più.
Le bollette non sono sostenibili per imprese e
famiglie, c’è una situazione abnorme.
La mia impressione è che la via maestra sia
quella di intervenire in modo molto netto sul disaccoppiamento tra fonti
rinnovabili e gas”.
"Sull'energia
c'è chi sta facendo guadagni abnormi", ha ribadito Letta.
Si è
parlato anche di rigassificatori.
“I due
rigassificatori a Ravenna e a Piombino devono essere fatti, perché il nostro
Paese è in una situazione di penuria che necessita due rigassificatori per far
arrivare gas da fonti diverse”, ha detto Letta.
E su Piombino ha aggiunto: “Bisogna avere rispetto della
popolazione e della città, per via del passato siderurgico che ha stravolto
quel territorio. Quel territorio aspetta risposte che non sono arrivate, ad
esempio sulle bonifiche”.
Letta,
tra le altre cose, ha ribadito “l’unità del Partito democratico”.
Poi ha
ricordato:
“Noi
chiamiamo il voto utile, per evitare che i collegi uninominali siano in gran
parte vinti dal centrodestra”.
E ha
parlato di questa “campagna elettorale di corsa”:
“Tre
settimane per convincere gli italiani e far girare i sondaggi.
Noi ci
impegniamo per convincere gli astensionisti, gli indecisi e mettere in capo i
giovani, che son convinto saranno il nostro valore aggiunto”.
È
tornato anche sulla caduta del governo Draghi:
“Una
crisi talmente folle, gestita e creata improvvisamente con una contraddizione e
una irresponsabilità da parte di tre partiti che hanno voluto far cadere il
governo: Conte e i 5 stelle in primis, poi Berlusconi e Salvini.
È stato un danno gravissimo per il Paese.
Noi
siamo stati tra i grandi partiti i più lineari di tutti, abbiamo sempre
sostenuto il governo e mai votato contro.
L’abbiamo sostenuto anche in quel passaggio.
Oggi
vorremmo portare avanti la gran parte di quelle misure che il governo voleva introdurre
sull’attuazione del Pnrr”.
Sul
Pnrr ha aggiunto: “I fondi europei non vanno rinegoziati ma applicati”.
Parlando
del governo Draghi, Letta ha detto ancora:
“Riconfermerei
i ministri del Pd.
Non mi metto a dare voti ai ministri tecnici,
ma hanno fatto tutti un ottimo lavoro.
Questo
è stato un ottimo governo, che ha fatto molto bene. Ed è irresponsabile quello
che Conte, Salvini e Berlusconi hanno fatto”.
Sul
ruolo futuro di Mario Draghi, ha dichiarato: “Non credo che ci possiamo
permettere di mandarlo in pensione, sono convinto che giocherà un ruolo
importante per il nostro Paese anche dopo”.
Nella
Mente di Putin.
Medium.com
– Michele Putrino – (2 gennaio 2021) – ci dice:
Quando
si cerca di analizzare le motivazioni reali che spingono un determinato
personaggio a compiere delle azioni e ad agire in un determinato modo, niente
deve essere lasciato al caso e, soprattutto, è bene mettere da parte qualsiasi
convinzione o preconcetto che può risiedere in ognuno di noi e cercare di
svolgere un’analisi il quanto più tecnica e accurata possibile.
Ciò
vale in particolar modo quando questo personaggio si chiama Vladimir Putin.
Per
svolgere questa analisi utilizzeremo quattro “strumenti” che, a mio parere,
possono far emergere la vera “natura” di un individuo, e cioè:
1) individuare le motivazioni reali che
spingono una persona a fare quello che fa; 2) evidenziare il suo modo di
comunicare e, quindi, l’approccio utilizzato per persuadere gli altri ad
appoggiarlo;
3) far emergere le tecniche di leadership
usate (che possono andare dal soft al hard);
4)
osservare il suo linguaggio del corpo al fine di cercare di comprendere “cosa
pensa veramente” al di là di ciò che dichiara verbalmente.
Ripeto, qui non si tratta di dare nessun tipo
di “giudizio”, né di carattere politico né, tanto meno, di tipo “morale”: si
tratta semplicemente di cercare di osservare, nella maniera più logica
possibile, un determinato personaggio, proprio come un novello scienziato cerca
di comprendere il funzionamento della natura con gli strumenti che ha a
disposizione.
Fatta
questa doverosa premessa, passiamo all'azione.
Punto
1: Perché fa quello che fa?
Se
ascoltiamo una serie di dichiarazioni rilasciate, emerge chiaramente che ci
troviamo di fronte a un personaggio molto nazionalista, fortemente conservatore
e molto ambizioso, tutte cose abbastanza evidenti.
Ciò
che caratterizza Putin però è il fatto che, a un occhio allenato ad osservare
alcune caratteristiche, appare evidente che conosce bene le “regole” del potere
e, quindi, che compie consapevolmente la scelta di essere “nazionalista” e
“conservatore”, in quanto sa che per creare una “squadra vincente” è necessario
sentirsi “sotto lo stesso tetto”, con uno o più nemici da combattere (pensate a
una squadra di calcio:
non ci
sarebbe senso di appartenenza, voglia di mettersi in gioco e nemmeno il
semplice tifo senza dei “colori” con cui identificarsi e senza una squadra
avversaria);
allo stesso tempo è cosciente del fatto che
sentirsi legati a delle radici e a dei costumi fa sentire come sorretti e
facenti parte di qualcosa di più grande rispetto a ciò che si vive
nell'immediato presente (ecco perché, ancora, sia nello sport che in qualsiasi
altra attività sociale umana, ci si identifica con il “noi” anche a cose che
risalgono a epoche in cui di “noi” non c’era neppure l’idea).
È possibile comprendere questa sua natura da
“giocatore” — oltre che dall'osservazione attenta di ogni sua dichiarazione —
ascoltando un’intervista rilasciata subito dopo la caduta dell’Unione
Sovietica:
dopo
aver definito il comunismo praticamente un’utopia che andava cancellata già
molto tempo prima, fa capire che l’unica cosa che conta veramente è che la Russia sia
“grande” (per comprendere ulteriormente questo concetto, si legga il testo
dell’inno russo che non a caso è stato voluto da Putin stesso sulla musica del
vecchio inno sovietico).
Tutto
ciò perché quando ci si sente parte di qualcosa di “grande”, l’individuo stesso
si sente “grande”.
Punto
2: Come ha fatto a convincere così tanta gente?
Lo
stile di Putin è asciutto e molto diretto.
Evita accuratamente qualsiasi giro eccessivo
di parole cercando di andare dritto al punto.
Questo modo di parlare normalmente è molto
apprezzato dal popolo — che pretende semplicità e chiarezza –, mentre è di
solito del tutto evitato dai politici occidentali.
Ciò
però non deve portare a vedere Putin come un “uomo rozzo” (come troppo spesso
accade, seppur in maniera sottile, in occidente), poiché anche in questo caso è
ben cosciente della finalità dello stile utilizzato, tant'è che quando si trova
a essere intervistato da giornalisti occidentali tende a modificare il suo
“stile” (anche se in un modo così forzato da essere “tradito”, come vedremo nel
punto 4, dal suo linguaggio del corpo).
Inoltre
le sue dichiarazioni fanno spesso riferimento, in un modo più o meno intenso,
ad argomenti di tipo militare, stimolando così ulteriormente il senso di
grandezza e di potenza su cui cerca chiaramente di fare leva.
Punto
3: Qual è il suo approccio alla leadership?
Anche
in questo caso, al contrario di quello che si pensa, Putin non ha un approccio
da “padrone-servitore”:
al contrario, molto spesso si definisce
“vostro umile servitore” quando si riferisce al suo popolo e, allo stesso
tempo, si mette dalla parte e in difesa dei “popoli oppressi” quando parla
nelle assemblee internazionali.
Naturalmente
ciò non significa che creda che il mondo debba essere composto da popoli tutti
“ugualmente importati” (al contrario, come abbiamo visto, per lui la Russia
deve essere “grande” e, affinché qualcosa sia “grande”, qualcos'altro deve
essere “piccolo”), ma semplicemente che sa bene che la leadership ha diversi
livelli di gestione:
quando
si è “in basso”, per poter “salire” bisogna convincere quelli che sono ancora
più in basso a ribellarsi contro chi comanda.
Inoltre, da persona molto pragmatica, non si limita a utilizzare soltanto
il soft power ma anche — soprattutto negli ultimi tempi — l’hard power (e quando quest’ultimo è messo in
pratica sembra quasi sentire echeggiare, come un sussurro, le parole di
Machiavelli: «Cum parole non si mantengono li stati»).
Punto
4: Cosa ci dice il suo linguaggio del corpo?
Ovviamente
sul linguaggio del corpo di un personaggio così particolare ci sarebbe
veramente tanto da dire.
Quello
che però salta di più all'occhio è questo:
quando
è intervistato da giornalisti occidentali per un tempo relativamente lungo,
tende molto spesso a inarcare le spalle, a ingobbire la schiena, ad appoggiarsi
sul lato destro o quello sinistro e a muovere molto i piedi, tutti chiari segni
di disagio.
Disagio
confermato da un modo di parlare molto indeciso, da uno sguardo spesso rivolto
verso il basso e dal rossore del viso.
Allo
stesso tempo, però, tende a tenere le gambe ben aperte, chiaro simbolo del
fatto che non teme i suoi interlocutori.
In sostanza, dal suo linguaggio del corpo in
queste situazioni si capisce che non ha “paura” dell’intervista e del giudizio
dei suoi intervistatori ma che semplicemente fa molta fatica a trovare le
giuste parole al fine di non apparire come “cattivo” agli occhi del popolo
occidentale.
Quando,
invece, si trova a parlare al suo popolo — o in dichiarazioni ufficiali dove
rappresenta gli interessi e l’“orgoglio” della Russia — il suo atteggiamento
corporeo appare completamente diverso:
sguardo
fisso in avanti, spalle e schiena dritta, viso asciutto e parole ben scandite e
chiare.
Ergo,
non teme di apparire come uomo molto “determinato” e deciso quando si rivolge
alla propria gente — e agli altri leader mondiali –, mentre cerca di dare un’immagine di
sé molto più “soft” al popolo occidentale.
Insomma,
Vladimir Putin appare come un uomo di potere molto diverso da quelli a cui
siamo abituati in occidente, e di certo in futuro sarà sempre più presente
nello scacchiere mondiale.
Per il
resto, lascio a voi ogni giudizio e conclusione.
(Michele
Putrino).
La
Costruzione dello Stato di biosicurezza
in
Italia (e
altrove) –
La
tecnocrazia autoritaria e il futuro dell’umanità.
Transform-italia.it
– (24/08/2022) - Peter Cooke – ci dice:
In
questo articolo, l’ultimo della serie, concluderò la discussione sui temi della
biosicurezza e della tecnocrazia, due fenomeni strettamente legati.
La
tesi che vorrei continuare a sviluppare qui è che la pandemia da Covid-19 ha
offerto l’occasione per sperimentare un nuovo apparato tecnologico di controllo
sociale, nel contesto ideologico della Tecnocrazia e in quello geopolitico
della crisi del capitalismo.
Dopo
aver presentato alcune riflessioni di Aldous Huxley sulla minaccia della
tecnologia e della centralizzazione del potere economico per la democrazia e la
libertà individuale, discuterò la questione della biosicurezza nel contesto
della medicina occidentale moderna e offrirò una descrizione abbastanza
dettagliata dell’analisi geopolitica dell’emergenza pandemica sviluppata da “Kees
Van der Pijl” nel suo libro fondamentale “States of Emergency”.
Discuterò anche le particolarità della situazione
socio-politica in Italia, prima di concludere con delle riflessioni sulla
questione della libertà.
Allo
stesso tempo, mi sento in dovere di rispondere al testo di uno dei redattori di
“Transform ! Italia”, “Franco Ferrari” scritto per coincidere con – e per
delegittimare – il mio terzo articolo della serie.
Nel
suo corto articolo, Ferrari mi accusa – perché questa ne è la chiara
implicazione – di essere un cospirazionista di destra.
Certo,
ho adottato, specialmente nel terzo articolo, un tono polemico che doveva
inevitabilmente provocare una forte reazione.
Riconosco
anche che alcuni dei miei argomenti sono già stati proposti dalla destra.
Non
dimentichiamo però, che alcuni intellettuali italiani di primo livello, come Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, che non si possono certamente
considerare come appartenenti alla destra, hanno visto anche loro nella
gestione repressiva dell’epidemia l’evidenza di un progetto politico
liberticida.
Prima
di procedere con la mia analisi, e prima di rispondere alle critiche di
Ferrari, vorrei esprimere la mia sincera gratitudine per essere stato ospitato
da “Transform!Italia”.
Sono
consapevole di essermi rivelato un ospite molto scomodo, ma mi sembra che nel
campo intellettuale – e anche in quello politico – l’ospite scomodo possa
svolgere a volte un ruolo utile se riesce a stimolare la riflessione e il
dibattito.
Perché
questo possa accadere in maniera fertile, le parole dell’ospite devono essere
ascoltate.
Purtroppo,
non sono convinto che questo sia stato veramente il caso.
Nella
pratica, si potrebbe quasi definire la politica come “l’arte di non ascoltare
l’altro”, e infatti troppo spesso il dibattito politico diventa un dialogo tra
sordi.
Siccome
la pandemia ha spaccato profondamente la società, mettendo a confronto due
atteggiamenti apparentemente irriconciliabili, mi sembra importante capire se è
possibile instaurare un dialogo tra queste due fazioni opposte.
Sono
in gioco qui due tendenze contrarie che, dal punto di vista della sinistra, si
possono descrivere schematicamente come “responsabilità collettiva” contro
“individualismo irresponsabile”.
Mi sembra però che sia l’azione responsabile
del collettivo che la libertà dell’individuo siano entrambe necessarie e se
vogliamo vedere una società armoniosa e felice dovremmo cercare in tutti i modi
di conciliarle.
Per
quanto riguarda la necessità della responsabilità collettiva – di grande ed
evidente importanza durante un’epidemia di una malattia contagiosa – prima di
tutto, per essere efficace (e se non è efficace non ha alcun senso) l’azione
del collettivo deve essere basata su una conoscenza precisa della realtà epidemiologica,
non su una rappresentazione distorta e censurata.
Per
respingere l’accusa di essere un cospirazionista o complottista, potrei citare
le parole di Agamben, nel suo breve saggio polemico di luglio 2020, “Due vocaboli infami”,
dove il filosofo scrive che le parole “negazionista” e “complottismo”, che sono apparse nelle polemiche
durante l’emergenza sanitaria,
“avevano secondo ogni evidenza il solo scopo
di screditare coloro che, di fronte alla paura che aveva paralizzato le menti,
si ostinavano ancora a pensare”.
Infatti,
il grande pericolo che rappresentano i termini peggiorativi “negazionista” e
“complottismo” (con il suo sinonimo “cospirazionismo”) è che troppo facilmente
possono servire a delegittimare a priori il discorso di uno scrittore che
commenta una situazione complessa e piena di opacità.
Se
l’autore cerca di attirare l’attenzione su una serie di fatti o fenomeni che
sembrano in palese conflitto con la narrativa ufficiale – perché c’è una
narrativa che si può legittimamente chiamare ufficiale – identificare questo scrittore con
il complottismo di destra può essere un modo troppo comodo per incasellarlo,
evitando così di dover scrutare con serietà gli elementi scomodanti della sua
analisi.
Nello
stesso saggio del luglio 2020, Agamben, che è stato accusato infatti di “complottismo”,
scrive che questo termine “testimonia di un’ignoranza della storia davvero sorprendente” perché “Chi ha familiarità con le ricerche
degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano
sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da
individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi”.
Certo,
come sottolinea Ferrari, è in gioco qui il nostro modo di concepire il potere
nel sistema capitalista.
“Toute
idéologie se constitue contre la psychologie”, ha scritto Albert Camus.
Infatti
l’idea, frutto di una certa “teoria ideologica”, secondo cui l’obiettivo essenziale della
realizzazione del profitto escluderebbe nel capitalismo la ricerca del potere, nega l’evidenza della storia umana,
dove in ogni epoca la bramosia del potere ha svolto un ruolo così importante.
Il desiderio del dominio è parte integrante
della psicologia umana e, con pochissime eccezioni, si osserva tuttora in
qualsiasi contesto sociale.
Anche se, come ho cercato di spiegare nel primo
articolo di questa serie, con il trionfo del neoliberismo le nostre democrazie occidentali si
sono trasformate gradualmente in oligarchie globaliste, sono consapevole che la classe
dominante che esercita il potere non è “un gruppo compatto e omogeneo sempre in
grado di produrre una e una sola azione politica”.
La realtà dell’esercizio del potere è infatti
più complessa.
Discuterò
questa realtà più avanti, appoggiandomi sull’analisi di “Van der Pijl”.
Il
fenomeno complesso e sconvolgente della pandemia da Covid-19 e della sua
rappresentazione e gestione può essere esaminato da vari punti di vista,
inclusi quelli psicologici, socio-politici, geopolitici e perfino giuridici.
Da
buon inglese, il mio approccio iniziale è stato puramente empirico.
Osservando gli avvenimenti della pandemia, che
ho vissuti in Italia, sono stato colpito da tutto ciò che sembrava eccessivo
nelle misure emergenziali adottate dal Governo.
La
crisi sanitaria mi è sembrata molto strana perché gestita in maniera così diversa
dalle grandi epidemie precedenti del XX secolo (quelle del 1958 e del 1968).
Si è rapidamente instaurata in Italia – più ancora che
in certi altri paesi occidentali, incluso l’Inghilterra – un clima autoritario
che, invece di diminuire con la diminuzione del virus, si è progressivamente
rafforzato.
Questo
sembrava necessitare una spiegazione, e non ero convinto che questa spiegazione
si dovesse cercare unicamente sul piano sanitario.
Ho
incominciato dunque ad indagare come meglio potevo e ho scoperto – tramite i
canali alternativi di informazione – che certi scienziati e medici (italiani,
inglesi, francesi, americani, tedeschi, spagnoli…) denunciavano la gestione
ufficiale della pandemia, in primis il divieto delle autopsie e la soppressione
delle terapie a basso costo.
Abbiamo
visto nel secondo articolo di questa serie che certi scienziati medici hanno
anche espresso critiche allarmate sulla campagna di vaccinazione sperimentale,
a cui né le autorità né i media mainstream hanno voluto dare voce.
Allo stesso
tempo si è avviata una campagna mediatica martellante che sembrava motivata dal
desiderio di fomentare paura e angoscia nella popolazione, piuttosto che
aiutarla a capire meglio la situazione epidemiologica.
Abbastanza
rapidamente si è anche creata nella società una spaccatura socio-politica fra
quelli che trovavano accettabili le misure repressive prese dalle autorità e quelli che non credevano che fossero
giustificate dalla realtà epidemiologica.
Una
parte maggioritaria della popolazione accusava una minoranza di
irresponsabilità egoista, di “negazionismo” e di ostacolare la “guerra” contro
il virus, mentre la minoranza scettica accusava la maggioranza di essere
“pecore” conformisti che assecondavano con la loro collaborazione cieca
l’instaurazione di una “dittatura sanitaria”.
Era quasi come se fosse scoppiata nella
società una specie di guerra civile di bassa intensità.
Sembrava importante investigare tutti questi
fenomeni.
Sul
piano empirico, ho cercato negli articoli precedenti di attirare l’attenzione
su tutta una serie di fenomeni inquietanti che dovrebbero far riflettere
seriamente su ciò che è accaduto durante la pandemia.
Questi fenomeni si possono riassumere così:
il
divieto, o almeno il forte scoraggiamento, delle autopsie su persone morte
presumibilmente di Covid durante la prima fase dell’epidemia;
la
politica altamente innovativa del conteggio dei morti, confondendo le persone
morte di Covid con quelle morte con il Covid;
l’uso
massiccio di tamponi diagnostici denunciati più volte da studi scientifici come
altamente inaffidabili e il rifiuto di modificare questi test nonostante la
pubblicazione di questi studi;
la
pratica di presentare come “casi” o “contagiati” tutte le persone i cui test
risultavano positivi, anche se spesso non erano in realtà contagiate, offrendo
in questo modo statistiche epidemiologiche molto inflazionate;
la
soppressione ufficiale delle terapie domiciliari precoci, malgrado la pubblicazione di studi
scientifiche che dimostravano la loro efficacia;
la
lotta ostinata del Governo contro i medici nei tribunali per difendere lo
strano protocollo ministeriale di “tachipirina e vigile attesa”;
l’insistenza,
sin dall’inizio, sulla vaccinazione sperimentale universale come unica soluzione della crisi
sanitaria;
il
rifiuto di dare retta ai dubbi e alle avvertenze sui nuovi vaccini
pubblicamente espresse da scienziati di alto livello;
il
rifiuto di riconoscere la gravità delle reazioni avverse provocate dai nuovi
vaccini, nonostante
la pubblicazione di statistiche allarmanti raccolte dalle agenzie di
farmacovigilanza e nonostante i risultati di autopsie effettuate da patologi di
primo livello sulle vittime dei vaccini;
il
fatto che tutti i produttori occidentali dei “vaccini” sperimentali anti-Covid
abbiano scelto, “indipendentemente”, di basare il loro prodotto sulla proteina
spike, la parte più tossica, più pericolosa del virus;
l’imposizione
dell’obbligo o quasi obbligo vaccinale con prodotti altamente sperimentali
testati solamente per tre mesi e mezzo e che in realtà sono terapie geniche
invece di vaccini;
la
presentazione del “passaporto vaccinale” o “Green Pass” come una misura
sanitaria quando un’ampia letteratura scientifica mostra come anche i vaccinati
possono diffondere il virus, ciò che invalida completamente questa
discriminazione;
l’accanimento
con il quale il Governo italiano ha continuato a emettere DCPM imponendo sempre
più restrizioni ai cittadini senza “Green Pass”, fino a quello del 21 gennaio 2022 che
prevedeva che chi non aveva il “Green Pass” non poteva neanche recarsi alla
posta per ritirare la pensione;
la
diffusa pratica della censura, specialmente su Internet, di interventi da parte di
scienziati medici che denunciavano i pericoli dei vaccini, le opacità e le inadeguatezze dei
report sui trials condotti dai produttori e le gravi incertezze sugli effetti a
medio e lungo termine di questi prodotti altamente sperimentali;
la
diffamazione degli scienziati che hanno cercato di stimolare un dibattito pubblico sui
vaccini o su qualsiasi altro aspetto della gestione ufficiale della pandemia;
l’instaurazione
della nuova politica del lockdown, malgrado il fatto che questa misura estrema non
figurava nei piani pandemici previamente elaborati;
il
rifiuto ufficiale di riconoscere il fallimento epidemiologico di questa
politica,
nonostante la pubblicazione di studi scientifici che lo dimostrano (il Governo continua ad affermare,
senza prove, che i lockdown ci hanno salvati);
il
fatto che il Governo abbia attribuito al virus tutti i danni provocati dai
lockdown, come
se quest’ultimi non fossero il prodotto di una decisione politica;
l’assenza
nella gestione sanitaria della pandemia del concetto chiave di saluto genesi;
il
rifiuto di dare retta a interventi importanti offrendo interpretazioni
alternative della crisi sanitaria, come quello di Richard Horton che sosteneva
nel “Lancet” che si trattava in realtà di una “sindemia”, che avrebbe richiesto
un approccio molto diverso;
il
sorgere, in ogni paese occidentale, di organizzazioni “grass roots” di medici e
scienziati medici che si sono visti costretti a difendere e promuovere il diritto e
il dovere di curare i pazienti, un fenomeno inaudito nella storia della medicina occidentale.
Questa
lista di anomalie è lungi dall’essere esaustiva e la descrizione di tanti altri
fenomeni inquietanti osservati durante la pandemia richiederebbe un altro
articolo.
Invece
di cercare di delegittimare la mia analisi affibbiandomi l’etichetta di “cospirazionista
di destra”, mi sembra che sarebbe più interessante e più utile offrire una
spiegazione alternativa convincente per tutti i fenomeni elencati qui sopra.
Scientismo
e biosicurezza.
Torniamo
adesso alla questione del potere.
A questo punto vorrei soltanto sottolineare
che il potere ha sempre una base ideologica.
Nella
società capitalista contemporanea due ideologie diverse sembrano entrare in
conflitto: quella del mercato libero e quella della Tecnocrazia.
L’ideologia del mercato libero, che da quarant’anni ha preso la
forma spietata del neoliberismo, ha spinto la globalizzazione economica, ma
anche la speculazione finanziaria spregiudicata che ha provocato il grande
crack del 2008.
L’ideologia
della Tecnocrazia invece sta cercando di rimediare alle instabilità economiche e politiche
globali provocate
dal neoliberismo con l’ambizioso progetto centralizzante e tecnocratico che il
presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab, chiama “The Great Reset”.
La
Tecnocrazia è un’ideologia con pretese assolutiste.
In
L’Homme révolté (1951), Camus descrive come l’assolutismo teocratico della
monarchia dell’Ancien Régime fu rovesciato dalla Rivoluzione Francese per
lasciar posto alla “nuova religione il dio della quale è la ragione confusa con
la natura”.
Nel
Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, la teoria di questa nuova religione
è stata sviluppata in termini dogmatici.
In
questo trattato politico fondamentale, “le parole che si trovano più
spesso”, osserva
Camus, “sono
le parole ‘assoluto’, ‘sacro’, ‘inviolabile’”.
“Il
corpo politico così definito […] non è altro che un prodotto che si sostituisce
al corpo mistico del cristianesimo temporale.
Il
Contratto sociale termina d’altronde descrivendo una religione civile e fa di
Rousseau il precursore delle società contemporanee, che escludono non solo
l’opposizione, ma anche la neutralità.”.
Camus
si riferisce, ovviamente, agli Stati totalitari della prima metà del novecento,
i crimini giganteschi dei quali aveva provocato il pensatore francese a
scrivere” L’Homme révolté”.
Il
nuovo dio della Ragione ha fatto nascere, dopo la Rivoluzione, lo Scientismo di
Saint-Simon (discusso nel primo articolo di questa serie), che è stato il precursore,
o piuttosto il genitore, dell’ideologia dell’odierna Tecnocrazia.
Come
la monarchia teocratica dell’Ancien Régime, la religione della Ragione, e anche
quelle della Scienza e della Tecnocrazia, hanno pretese assolutiste.
Non
riconoscono il diritto all’opposizione, e neanche quello alla neutralità.
Ma la Tecnocrazia, intesa come “sistema di
potere”, è stata favorita anche dai progressi tecnologici del capitalismo, come aveva capito bene Aldous
Huxley, sessant’anni fa.
“Brave
New World” Revisited.
Scrivendo
nel 1958, venticinque anni dopo aver pubblicato Brave New World, Huxley offriva nuove riflessioni sulle tendenze distopiche del totalitarismo
tecnocratico globale che aveva descritto in una forma immaginativa nel suo romanzo
futuristico del 1933.
La sua
analisi, pubblicata nel saggio “Brave New World Revisited”, non ha perso niente
della sua attualità;
anzi, è diventata più pertinente che mai.
Tra le
grandi tendenze nel mondo del suo tempo che sembravano radicalmente ostili alla
democrazia e alla libertà personale, Huxley evidenziava in primo luogo
l’accelerazione della sovrappopolazione.
A
causa delle pressioni immense che questa esercitava sulle risorse limitate
della pianeta e i conseguenti disordini economici, sociali e politici, sembrava
a Huxley che la maggior parte dell’umanità si trovava a dover fare “una scelta tra anarchia e controllo
totalitario”.
Secondo
lo scrittore inglese, “Questo cieco nemico biologico della libertà è alleato con
forze immensamente potenti generate dagli stessi progressi tecnologici dei
quali siamo più fieri”.
Dopo aver notato che molti storici, sociologi
e psicologi avevano scritto ampiamente, e con una profonda preoccupazione, sul
prezzo che l’uomo occidentale ha pagato e continuerà a pagare per il progresso
tecnologico, osservando per esempio che la democrazia difficilmente può fiorire
nelle società dove il potere politico ed economico va progressivamente
concentrandosi e centralizzandosi, Huxley commenta:
“Ma il
progresso della tecnologia ha condotto e continua a condurre a una tale
concentrazione e centralizzazione del potere”.
Lo
scrittore spiega che man mano che l’impianto basato sulla produzione di massa
viene reso più efficiente, tende a diventare più complesso e più costoso –
dunque meno accessibile all’imprenditore dai mezzi limitati.
Inoltre, la produzione di massa non può
funzionare senza la distribuzione di massa, ma la distribuzione di massa pone
problemi che soltanto i più grandi produttori sono in grado di risolvere.
In
questo mondo di produzione e distribuzione di massa “l’Uomo piccolo” non può
competere con “l’Uomo grande”, che finisce per divorarlo.
Con la
sparizione degli “Uomini piccoli” il potere economico si concentra via via
nelle mani di sempre meno persone.
Poi Huxley commenta:
Sotto
una dittatura, il “Big Business”, reso possibile dal progresso tecnologico e la conseguente
rovina del “Little Business”, è controllato dallo Stato – cioè, un piccolo gruppo di leader
del partito e i soldati, poliziotti ed amministratori che eseguono i loro
ordini.
In una
democrazia capitalista, come gli Stati Uniti, è controllato da ciò che il
professore C. Wright Mills ha chiamato l’Elite di Potere [The Power Elite (1956)].
Questa
Élite di Potere impiega direttamente milioni di persone come forza lavorativa nelle sue
fabbriche, uffici e magazzini, controlla molti altri milioni imprestando loro i
soldi con i quali possono comperare i suoi prodotti, e, tramite il possesso dei
media di comunicazione di massa, influenza i pensieri, i sentimenti e le azioni
di praticamente tutti.
Durante
i sei decenni che sono passati dopo la pubblicazione di “Brave New World
Revisited”, tutte le tendenze descritte da Huxley si sono intensificate
smisuratamente, con il risultato inevitabile della progressiva erosione della democrazia
e della progressiva crescita delle forze centralizzanti del potere.
Adesso,
queste tendenze sembrano essere arrivate ad un punto critico.
Ma il
risultato di queste tendenze non è soltanto lo sviluppo di ciò che Huxley
descrive come “una società controllata, spietatamente negli Stati totalitari, e in modo
cortese e incospicuo nelle democrazie, dal Big Business e dal Big Government”, ma anche l’esistenza di moltissima
infelicità umana.
Huxley
scrive ancora:
“Ma le
società sono composte da individui e sono buone soltanto nella misura in cui
aiutano gli individui a condurre una vita felice e creativa.
Quali
effetti hanno avuto sugli individui i progressi tecnologici degli ultimi
anni?”.
Lo
scrittore trova una risposta a questa domanda nelle osservazioni del
filosofo-psichiatra “Erich Fromm”:
La
nostra società occidentale contemporanea, malgrado i suoi progressi materiali,
intellettuali e politici, favoreggia sempre meno la salute mentale e tende a
minare la sicurezza interiore, la felicità, la ragione e la capacità di amore
dell’individuo;
tende a fare di lui un automa che paga il suo
fallimento umano con un crescente livello di malattia mentale, e con una
disperazione nascosta sotto una spinta frenetica verso il lavoro e il
cosiddetto piacere.
Questi
commenti si applicano perfettamente alla nostra epoca attuale, dove si vede la
culminazione delle tendenze descritte da Huxley.
Sono le strutture disumane della nostra società
capitalista e materialista, una società sprovvista di valori autentici, che
hanno fomentato nella popolazione questo profondo malessere.
Questa
situazione spiega anche “l’ansia fluttuante” descritta dallo psicologo olandese
“Mattias Desmet”, un fenomeno che, secondo lui, ha permesso la “formazione di
massa” durante la pandemia.
Fromm
osserva che i sintomi nevrotici spesso prodotti dalla malattia mentale, benché
inquietanti, sono in realtà i nostri amici, visto che indicano che le forze
della vita che cercano uno stato psicologico di integrazione e di felicità
stanno ancora lottando.
Le
vittime della malattia mentale senza speranza si trovano invece fra quelli che
sembrano i più normali.
“Sono normali”, commenta Huxley, “non in
quello che si può chiamare il senso assoluto della parola;
sono normali solo in relazione ad una società
profondamente anormale.
Il
loro adattamento perfetto a quella società anormale rappresenta la misura della
loro malattia mentale”.
La
Tecnocrazia non ha nessuna soluzione da offrire ai problemi profondi della
nostra società occidentale, afflitta da uno stato di malessere sempre più
diffuso e sempre più grave.
Anzi,
può solo peggiorare la situazione.
Soltanto
ripensando e trasformando in profondità la nostra società, basandola su valori
autentici, stabilendo rapporti armoniosi con la natura (sia “esteriore” che
“interiore”), possiamo sperare di promuovere la felicità.
Per
operare questa trasformazione ci vorrà però un risveglio spirituale abbastanza
forte e profondo per contrastare le tendenze meccanicistiche della nostra
civiltà materialista, questa “civiltà meccanica” creata, secondo Piero
Scanziani, dal predominio della logica: “Dal predominio della logica esce
la civiltà meccanica”.
Una
civiltà senza precedenti, perché la logica mai aveva tanto sopraffatto la
fantasia:
una
civiltà di tecnici, aritmetici, statistici, economisti;
una civiltà in cui gli uomini si riducono a
masse e dove si nega il posto all’arte, alla poesia, al sacro;
una civiltà profana, l’unica apparsa sulla Terra,
essendo state tutte le altre sacre”.
Non ci
serve un “Grande Reset” tecnocratico imposto dall’alto, una nuova e massiccia
intensificazione del controllo centralizzato;
ci
serve invece un risveglio di coscienza e una conseguente rinascita sociale.
Ma il
saggio “Brave New World Revisited” offre soprattutto una meditazione su una
delle questioni centrali dei nostri tempi: l’organizzazione collettiva contro la
libertà dell’individuo.
Il grande pericolo percepito da Huxley è ciò che
chiama “sovra-organizzazione”:
“L’organizzazione
è indispensabile”, scrive, “perché la libertà sorge e ha un significato solo
dentro una comunità autoregolata di individui che cooperano liberamente.
Ma,
benché indispensabile, l’organizzazione può essere fatale.
Troppa organizzazione trasforma gli uomini e
le donne in automi, soffoca lo spirito creativo e abolisce la possibilità
stessa di libertà.
Come
normalmente è il caso, l’unica via sicura è quella di mezzo che naviga tra i due
estremi del laissez-faire da un lato e il controllo totale dall’altro”.
Da
molti anni, il pendolo politico sta oscillando sempre più verso il controllo
totale, non solo a causa della progressiva centralizzazione del potere
economico osservata da Huxley, ma anche come risposta naturale alla destabilizzazione socio-economica
provocata dal neoliberismo.
Paradossalmente, la spinta fortissima verso il
laissez-faire durante gli ultimi quarant’anni ha necessitato il suo contrario.
Ma la
libertà del laissez-faire è in realtà la licenza che si sono autorizzati i pochi
di sfruttare liberamente i molti.
Si
tratta dunque di uno squilibrio gravissimo nella società che ci ha condotto
inevitabilmente ad una profonda crisi.
A
livello politico, la grande questione è sapere se è possibile sormontare questa
crisi evitando l’instaurazione di un sistema di controllo totalitario, creando invece un’autentica
democrazia capace di inventare una società che vada oltre le limitazioni, le
contraddizioni, gli squilibri, le ingiustizie e le tendenze distruttive del
capitalismo.
Nel
frattempo, la forma di controllo sociale che sta cercando di nascere in questo
momento storico è quella della biosicurezza.
“Biosicurezza
e politica”.
L’undici
maggio 2020, durante i primi mesi della pandemia, Agamben pubblicò un breve saggio, “Biosicurezza e politica”, nel quale spiegava l’essenziale di
questo “nuovo
paradigma di governo degli uomini e delle cose”.
Il filosofo fa riferimento al libro di “Patrick
Zylberman”, “Tempêtes microbiennes” (2013), nel quale lo studioso francese “aveva descritto il processo
attraverso il quale la sicurezza sanitaria, fino allora rimasta ai margini dei
calcoli politici, stava diventando parte essenziale delle strategie politiche
statali ed internazionali. In questione è nulla di meno che la creazione di una sorta
di ‘terrore
sanitario’ come
strumento per governare attraverso il “worst case” scenario, lo scenario del
caso peggiore”.
Secondo Agamben, quello che Zylberman descriveva nel
2013 si era verificato nel 2020.
Poi
commenta:
È
evidente che, al di là della situazione di emergenza legata a un certo virus
che potrà in futuro lasciar posto ad un altro, in questione è il disegno di un
paradigma di governo la cui efficacia supera di gran lunga quella di tutte le
forme di governo che la storia politica dell’Occidente abbia finora conosciuto.
Se già, nel progressivo decadere delle
ideologie e delle fedi politiche, le ragioni di sicurezza avevano permesso di
far accettare dai cittadini limitazioni delle libertà che non erano prima
disposti ad accettare, la biosicurezza si è dimostrata capace di presentare
l’assoluta cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale come
la massima forma di partecipazione civica.
Si è
così potuto assistere al paradosso di organizzazioni di sinistra,
tradizionalmente abituate a rivendicare diritti e denunciare violazioni della
costituzione, accettare senza riserve limitazioni delle libertà decise con
decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai
sognato di poter imporre.
Si sa
che questo intervento, da parte di uno degli intellettuali più eminenti
dell’Italia contemporanea, non è gradito in generale dalla sinistra italiana
che, paradossalmente, ha lasciato alla destra – ma anche a molti cittadini
senza un chiaro orientamento ideologico – il compito di cercare di difendere i
diritti costituzionali calpestati nel nome di una protezione sanitaria che si è
rivelata illusoria.
Biosicurezza
e salute.
A
questo punto conviene approfondire la questione centrale della biosicurezza.
Per
capire meglio questo fenomeno importantissimo, partiamo da quello che non è.
Soprattutto,
non bisogna confondere la biosicurezza con la salute.
Come
ho già accennato nel secondo articolo di questa serie, il concetto essenziale
che è mancato – e che manca ancora – nella gestione della pandemia da Covid-19
è quello di saluto genesi.
Le autorità non hanno fatto nulla per
promuovere nella popolazione la salute, sia mentale che fisica;
non
hanno offerto consigli per rafforzare l’immunità naturale, che rappresenta la
nostra difesa essenziale contro le malattie infettive, né per mantenere un buon
livello di salute mentale (che influenza la salute del nostro sistema
immunitario).
Anzi,
i lockdown che il Governo ha deciso di imporre hanno danneggiato notevolmente
la salute mentale (ma anche fisica) della popolazione.
L’effetto dell’imposizione delle mascherine è
stato anch’esso deleterio sul piano della salute, sia mentale che fisica,
specialmente nei bambini.
Il
paradigma che ha governato la gestione dell’epidemia è stato quello della
biosicurezza, non della salute.
L’esclusione
paradossale della salute dalla gestione sanitaria di un’epidemia ha bisogno di
essere spiegata, talmente sembra illogica.
La prima osservazione che si impone è che la saluto
genesi manca non solo nella gestione ufficiale di questa epidemia, ma anche
nella concezione della salute umana che si è imposta, ormai da tempo,
nell’Occidente.
Una delle cause dell’assenza, o quasi, del saluto
genesi nel sistema moderno di medicina è sicuramente il potere schiacciante che
l’industria farmaceutica esercita sul sistema sanitario.
Si
potrebbe, non senza giustificazione, vedere questo potere come una forma di
corruzione.
Infatti,
la realtà della corruzione sistemica che imperversa nel mondo
farmaceutico-sanitario non è certamente un segreto.
Per
usare le parole di Patricia García, in un articolo pubblicato nel “Lancet” del
dicembre 2019, “è una pandemia trascurata”.
“La
corruzione è integrata nei sistemi sanitari”, scrive ancora.
Durante
un’intervista, il medico “Peter Rost”, che aveva lavorato per circa vent’anni
nel settore farmaceutico, in ultimo alla “Pfizer” come vicepresidente del
reparto marketing, ha definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”.
“Il settore farmaceutico si comporta e
ha un potere sulla politica molto simile alla mafia”, spiegava Rost.
“Big
Pharma è tra le industrie ritenute meno affidabili”, osserva Mariano Bizzari,
“Almeno
tre delle aziende che producono vaccini contro il Covid-19 hanno avuto pesanti
controversie giudiziarie che sono costate loro condanne e multe salatissime per
miliardi di dollari”.
“La
Pfizer”, nota ancora lo scienziato, “ha una fedina penale lunga un chilometro.
Numerosissimi
sono le vicende legali in cui si è trovata coinvolta – con accuse di
corruzione, concussione, pratiche fraudolenti, sperimentazione illegale e altro
ancora – e per le quali è stata condannata in numerosi paesi.
Le multe, a tutt’oggi, superano i quattro
miliardi di dollari”.
In un
report recente dell’”Indipendente” si legge che negli Stati Uniti, dal 2000 al
2019, le case farmaceutiche hanno pagato “25 miliardi di dollari per 233 casi
di sentenze, sanzioni di enti controllanti e regolatori, oppure a seguito di
patteggiamenti e accordi privati.
Pfizer
guida la classifica sia per il numero di condanne risarcitorie sia per la cifra
pagata: 47 casi per un valore che si aggira sui 4,5 miliardi di dollari”.
Nello stesso periodo, “Johnson & Johnson”
invece ha ricevuto 27 condanne e ha dovuto versare 3,4 miliardi di dollari.
La somma di 4,5 miliardi di dollari però non
rappresenta in realtà una grande perdita per un’azienda come Pfizer che,
secondo lo stesso rapporto dell’Indipendente, “ha concluso il 2019 con un utile
lordo di 32,85 miliardi di dollari, circa 7 volte la cifra che la casa
farmaceutica ha pagato in vent’anni per 47 condanne, alle cui spalle si celano storie di
centinaia di persone che hanno subito gravi danni o che addirittura sono
morte”.
Nel
2012 la Pfizer è stata riconosciuta colpevole per avere corrotto governi e
medici di otto Stati nel mondo.
“Marco
Pizzuti” ha sicuramente ragione quando afferma che gli illeciti compiuti dalle
case farmaceutiche hanno “un carattere sistemico e delineano un modus operandi
delinquenziale ben rodato nel tempo che non si è mai interrotto grazie al
semplice pagamento di un risarcimento in denaro”.
La
corruzione è un fenomeno il cui impatto è difficile sovrastimare.
Ma è
anche vero che il potere dell’industria farmaceutica ha plasmato il mondo della
medicina occidentale, insieme alle istituzioni legate ad esso.
Uno
degli strumenti storici più importanti del dominio che l’industria farmaceutica
esercita sulla medicina è stato il “Flexner Report” del 1910.
Il
politico influente Abraham Flexner, formato nella biomedicina moderna alla John
Hopkins University di Baltimora, nutriva una forte antipatia per ciò che oggi
si indica come la medicina complementare, come l’omeopatia, la naturopatia,
l’osteopatia e la chiropratica, che a quell’epoca fiorivano nel mondo
occidentale.
Nel
1910, Flexner pubblicò un report strategico,” Medical Education in the United
States and Canada”:
“A
Report to the Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching”, nel quale
stigmatizzava i praticanti della “medicina alternativa” come delle “sette mediche” e non
celò la sua intenzione di “antagonizzarle”, perché per lui si trattava di
ciarlatanismo antiscientifico.
Il Congresso degli Stati Uniti adottò le
raccomandazioni del report e siccome soltanto circa il venti per cento delle
istituzioni mediche menzionate nel “Flexner Report “erano in grado di
rispettare i suoi vincoli e le sue prescrizioni, la maggior parte dovette
chiudere definitivamente.
In un
colpo solo, il sistema “ortodosso” di medicina allopatica monopolizzò il
mercato.
Il
tipo di medicina imposto dal “Flexner Report” – una medicina estremamente
favorevole agli interessi economici dell’industria farmaceutica e dunque al
capitalismo – è difficilmente compatibile con il tipo di medicina che si chiamerebbe
oggi olistica.
In quest’ultima concezione della salute,
l’essere umano è considerato come un insieme di mind-body-spirit –
“mente-corpo-spirito”.
Questo
sistema riconosce che l’essere umano è parte integrante della natura, ma che
allo stesso tempo è un essere complesso che non appartiene unicamente al mondo
materiale;
possiede
anche dimensioni mentali e spirituali e queste sono intimamente legate al corpo
fisico.
I sistemi tradizionali di medicina orientali –
per esempio l’”Ayurveda indiana” o la “Medicina Tradizionale Cinese “(MTC) –
riconoscono l’integralità dell’essere umano e la sua integrazione nella natura
e vogliono risolvere i problemi di salute con un “approccio olistico”, cercando
soprattutto le radici di uno squilibrio che si esprime nella forma di sintomi
fisici o psicologici.
Una
parte della “MTC”, per esempio, è la scienza antichissima del “Qi Gong”, la
pratica della maestria del “Qi” o energia vitale.
È una
pratica allo stesso tempo preventiva e curativa che si fonda sull’integralità
del corpo fisico, delle energie vitali e della mente.
La “medicina
occidentale allopatica”, invece, che si può anche chiamare “mainstream”, non
riconosce l’integralità dell’essere come mente-corpo-spirito, pone pochissima
enfasi sulla prevenzione delle malattie, e agisce soprattutto sui sintomi
fisici delle malattie attraverso interventi farmaceutici.
Quasi
tutti questi farmaci producono effetti collaterali.
Le
limitazioni del modello occidentale della “medicina allopatica” – denunciate per
esempio da Carolyn Dean nel suo libro del 2005, “Death By Modern Medicine” (“La Morte inflitta dalla medicina
moderna”)
– sembrano chiaramente dimostrate dal cattivo stato di salute della
popolazione, afflitta, tra l’altro, da un crescente tasso di obesità, di
alcolismo e di altre forme di tossicodipendenza, e di problemi cardiovascolari molto
diffusi.
Soprattutto,
dovrebbe far riflettere il fatto che, dopo le malattie cardiovascolari e il
cancro, i farmaci rappresentano la terza causa principale della morte
nell’Occidente.
Questo
fenomeno si chiama anche “morte iatrogenica”, un termine che significa, usando
parole più banali, che il paziente è stato ucciso dal medico.
In un articolo del 2016, il “British Medical
Journal” stimava che gli errori medici uccidevano più di 250.000 americani ogni
anno.
Dal
punto di vista del capitalismo, è chiaro che la salute umana non interessa
perché non genera profitti.
Interessano invece le malattie che possono
essere trattate con medicinali costosi.
Sarà
anche per questo che la “saluto genesi “che, logicamente, dovrebbe essere il
concetto centrale del nostro approccio verso la salute, è così trascurata dal “sistema
medico mainstream”.
Ma è
anche evidente che il sistema capitalista nell’insieme è il nemico della salute
umana.
Siccome
tutti i governi del mondo occidentale sono dominati dal potere capitalista, che
mette sempre al primo posto la ricerca del profitto economico, questi fanno ben
poco per proteggere le popolazioni dalle azioni distruttive delle grandi
imprese, permettendo invece a queste di avvelenare sistematicamente l’acqua,
l’aria e la terra con i fertilizzanti sintetici, pesticidi, diserbanti e tanti
altri agenti chimici tossici prodotti dall’industria.
In aggiunta, la popolazione viene ora anche
esposta a livelli sempre più pericolosi di radiazione elettromagnetica
attraverso l’uso massiccio – e in realtà incontrollato – delle tecnologie di
telecomunicazione wireless.
Infatti,
Robert Kane ha rivelato nel suo libro “Cellular Telephone Russian Roulette”
(2001) come le imprese di telecomunicazioni sono da molto tempo informate sui
pericoli sanitari che rappresentano le tecnologie wireless.
Per
quelli che sono consapevoli di questi pericoli, la spinta apparentemente
inarrestabile verso la diffusione del 5G è estremamente allarmante.
Biosicurezza
e potere medico.
Nel
corso degli anni, e soprattutto dopo la pubblicazione del “Flexner Report”, la
medicina occidentale – e non solo negli Stati Uniti, che rappresentano il
centro contemporaneo del capitalismo – si è organizzata in modo sempre più
centralizzato.
È
diventata un sistema di potere sanitario gerarchizzato.
La medicina occidentale è comunque un sistema
essenzialmente patriarcale dove tradizionalmente la figura paterna del medico
esercita il suo potere sul paziente al quale è richiesto di svolgere un ruolo
di sottomissione (l’etimologia della parola “paziente” indica la sua passività),
inchinandosi davanti all’autorità del medico.
Quest’ultimo
non rappresenta soltanto l’autorità del sapere, della scienza medica, ma anche
quella istituzionale di un sistema sanitario investito dall’autorità dello
Stato.
Queste
condizioni istituzionali, che nel tempo hanno formato delle strutture sanitarie
di scala impressionante, favoriscono la nascita dello Stato di biosicurezza.
Non a
caso si è parlato durante la pandemia della realtà inquietante di una tecnocrazia
medica.
Questa
tecnocrazia ha infatti agito sistematicamente per far rispettare l’assurdo
protocollo ministeriale di “tachipirina e vigile attesa” (analizzato nel secondo articolo di
questa serie) che ha effettivamente proibito ai medici di guarire i pazienti
dal Covid.
Abbiamo
già visto (nel terzo articolo) che gli Ordini dei Medici hanno ricevuto
direttive – alle quali hanno obbedito puntualmente – per perseguitare i medici
che hanno agito in scienza e coscienza per curare i loro pazienti, preferendo
in questo modo di rimanere fedeli al giuramento di Ippocrate, piuttosto che
sottomettersi al potere della gerarchia sanitaria.
Infatti, molti di questi medici hanno
denunciato l’esistenza di una “medicina protocollare” che consiste
semplicemente in applicare il protocollo imposto dall’alto, invece di mirare e
adattare la terapia all’individuo.
Così i
medici più integri – quelli che dovrebbero essere onorati dalla società per
essersi dedicati con coraggio, fermezza e umanità ai bisogni urgenti dei
pazienti – sono diventati agli occhi del nascente Stato di biosicurezza dei
dissidenti che vanno eliminati – purgati si dovrebbe piuttosto dire.
Rimane
difficile non vedere in questo fenomeno – a meno di rifiutarsi di vederlo – un
sintomo allarmante di una situazione già pienamente distopica.
Biosicurezza
e biopolitica.
La
biosicurezza è la forma contemporanea della biopolitica, un fenomeno studiato
dal filosofo francese Michel Foucault in una serie di conferenze degli anni
‘70.
Foucault
ha descritto come il potere non veniva più esercitato primariamente a livello
dello Stato-nazione, si era spostato su scala internazionale.
Si
tratta infatti del fenomeno dell’internazionalizzazione dello Stato, già
accennato nel primo articolo di questa serie.
Allo
stesso tempo, secondo il filosofo, il potere si esercitava direttamente sulla
specie umana, sull’essere dotato da un corpo fisico e un’anima.
Foucault
spiegava che il sovrano (di cui non specifica l’identità o la composizione)
dovrà esercitare il suo potere fino al punto “dove la natura nel senso degli
elementi fisici interagisce con la natura nel senso della condizione della
specie umana”.
Poi
conclude, in una frase agghiacciante: “Qui il sovrano vorrà intervenire se
vuole cambiare la specie umana”.
Chi ha
analizzato questo sovrano è stato lo studioso olandese di geopolitica” Kees Van
der Pijl “che, iniziando con il suo libro importante “The Making of an Atlantic
Class” (1984), si è dedicato a descrivere i meccanismi del potere della classe dominante
nel capitalismo moderno.
Van der Pijl afferma nel suo libro recente “States
of Emergency” che “lo stato di emergenza del Covid possiede tutte le
caratteristiche della biopolitica definita da Foucault”.
La sua tesi, sviluppata con molta accuratezza,
sarà esaminata più avanti.
A
questo punto vorrei sottolineare alcuni dei meccanismi utilizzati dallo Stato
durante la pandemia per esercitare sui cittadini il suo “potere biopolitico”.
Il
primo livello di intervento è stato quello psicologico.
In un
libro molto ben documentato, “A State of Fear: How the UK Government Weaponised
Fear During the Covid-19 Pandemic”
(“Uno
Stato di paura: come il Governo britannico ha utilizzato la paura come arma
durante la pandemia da Covid-19”), la giornalista inglese Laura Dodsworth ha studiato i meccanismi psicologici
utilizzati dal Governo britannico per fomentare paura nella popolazione, con tecniche derivate dalla
psicologia comportamentale, per indurla ad accettare le misure restrittive.
Le stesse tattiche sono state adottate da
altri Governi, incluso quello italiano.
Dichiarando
uno stato di emergenza sanitaria, i governi occidentali hanno dichiarato allo stesso tempo la
guerra contro un nemico invisibile ma micidiale, il virus, spaventando le
popolazioni ed incitandole a collaborare in questa “guerra”, facendo tutti i
sacrifici necessari, in primo luogo quello dei loro diritti e delle loro
libertà costituzionali.
La paura del virus è stata amplificata dalle voci –
ripudiate dalle autorità senza mai poterle confutare in modo convincente –
della sua origine in un laboratorio di bioguerra.
Le
autorità hanno anche messo in circolazione la “teoria del malato asintomatico
contagioso”
– una delle novità dell’epidemia – facendo in questo modo di ogni persona un
potenziale “untore” che viene visto con timore sospetto.
Questa
teoria è stata lanciata da un articolo scientifico pubblicato nel “New England
Journal of Medicine”, studiando un singolo caso di una cinese in Germania, che
più tardi è stato confutato in un articolo pubblicato in Science.
Considerare
il prossimo come un qualcosa da temere si è ben radicato nelle coscienze
attraverso la politica del “distanziamento sociale” (uno dei vari neologismi orwelliani
coniati dal sistema politico durante questo periodo).
In questo modo la società si è atomizzata per
diventare una costellazione di singoli individui uniti solo dalla paura
reciproca.
L’esortazione fondamentale di Gesù Cristo di amare il prossimo è stata
sostituita implicitamente in questo modo dal suo contrario;
“temere il prossimo” è diventato il nuovo
Vangelo della biosicurezza.
Per
completare la psicologia della paura al contempo collettiva e atomizzante
mancava solo l’imposizione delle mascherine.
Conviene
notare che la letteratura scientifica non giustifica la politica sanitaria
delle mascherine.
“L’uso
generalizzato delle mascherine non è supportato da chiara evidenza
scientifica”, osserva Bizzarri, “e, in studi precedenti condotti sulle malattie
influenzali, non ha permesso di accertare una significativa protezione.
Le ricerche condotte in merito all’utilità di
questi dispositivi in caso di Covid non hanno potuto far altro che confermare
quanto già si sapeva”.
Se la
mascherina sembra offrire una protezione sicura al personale medico, invece,
una meta-analisi realizzata su trentatré studi randomizzati o osservazionali ha
permesso di asseverare come l’uso generalizzato della mascherina non
influenzasse la probabilità di contrarre l’infezione.
L’inutilità delle mascherine estese alla
popolazione generale è stata confermata ulteriormente da un’indagine condotta
in Danimarca.
Dal
punto di vista psicologico, la mascherina è diventata il simbolo per eccellenza
della paura del virus.
La mascherina rende visibile l’invisibile,
perché la persona che la porta rammenta a tutti quelli che la vedono la
“presenza” del pericolo.
Ognuno
è un “contagiato asintomatico” potenziale (per usare il newspeak covidiano) e la mascherina fa in realtà
l’opposto di rassicurare.
Ma allo stesso tempo, paradossalmente (e il
fenomeno pandemico è costellato di paradossi), la mascherina è diventata per
molte persone profondamente impaurite una specie di talismano assicurando una
protezione in realtà illusoria.
Questa
funzione essenzialmente magica offrirebbe una spiegazione per il fenomeno
irrazionale delle non poche persone che andavano in giro da sole – anche in
piena campagna o guidando la macchina senza passeggeri – mascherate.
La
mascherina è anche stata uno degli elementi più politicizzati della pandemia.
Per
molti, rappresentava una pubblica dimostrazione di responsabilità individuale e
collettiva.
Per
altri invece, era il simbolo della sottomissione alla “dittatura sanitaria”, un’assurda
“museruola”, un segno di conformismo e schiavitù.
Va
sottolineato il fatto che in nessun altro paese si è insistito sul portare la
mascherina quanto in Italia.
Ma il
livello più profondo di intervento biopolitico è rappresentato
incontestabilmente dalla politica dell’obbligo vaccinale.
Qui lo
Stato interviene direttamente sull’individuo, esercitando la sua sovranità
biopolitica sull’interiore del corpo del cittadino.
“Vaccini”
sperimentali e bioetica.
Già lo
sviluppo dei vaccini – o meglio, delle terapie geniche – anti-Covid sollevano
problemi gravissimi a riguardo della bioetica (ma anche della legalità), giacché, sviluppati in soli tre
mesi e mezzo e autorizzati per uso emergenziale, sono stati presentati al
pubblico come “sicuri ed efficaci”, occultando così anche quei rischi che
già erano conosciuti e tacendo o minimizzando tutti i rischi di medio e lungo
termine completamente sconosciuti, in palese violazione della Convenzione di Ginevra,
della Dichiarazione di Helsinki e della Convenzione sui diritti dell’uomo e
della biomedicina firmata a Oviedo nel 1997.
La moderna
bioetica sostiene che la ricerca medica sugli esseri umani richieda che i
soggetti della ricerca vengano completamente informati dei rischi e che debbano
partecipare alla ricerca senza coercizione alcuna.
In
reazione contro le gravissime violazioni di questi principi etici fondamentali
durante la pandemia è stato formato, da un gruppo di docenti universitari
italiani ed esperti di diverse discipline e nazionalità, il Comitato Internazionale per
l’Etica della Biomedicina (CIEB), “allo scopo”, ci informa il sito web del
comitato, “di riportare i principi e i valori cui si spira la riflessione
bioetica al centro della gestione politica del Covid”.
Mi
sembra difficile non essere d’accordo con il comitato quando afferma che “i
principi del primato dell’essere umano sulla scienza e la società, del consenso
informato, di precauzione, di beneficenza, di non maleficenza, di equo accesso
alle cure sanitarie, del ‘prendersi cura’, di integrità morale del ricercatore”
che sono “i principi generali di bioetica e di biodiritto” sono stati
“impunemente calpestati durante i due anni di emergenza sanitaria”.
Ma
l’amara realtà è che l’emergenza covidiana è stata gestita secondo i principi
della biopolitica, ossia della biosicurezza, che non hanno nulla a che vedere
con la bioetica o il biodiritto o con qualsiasi altro aspetto dell’etica o del
diritto.
Lo scopo dalla dichiarazione dello stato di
emergenza è stato esattamente il contrario – “demolire lo Stato di diritto per
sostituirlo con lo Stato di biosicurezza”.
Dal punto
di vista legale, ci sarebbe molto da dire sulla questione altamente controversa
dell’obbligo vaccinale imposto dal governo italiano a certe categorie di
persone durante la pandemia, una politica che è stata appoggiata da certi commentatori di
sinistra, che anzi avrebbero voluto vedere l’obbligo esteso all’intera
popolazione adulta.
Questa
posizione non è supportata, a mio parere, da un lavoro serio di pensiero e di
ricerca nei campi della bioetica, del biodiritto e della scienza biomedica.
Il lettore potrà trovare riflessioni
approfondite in merito nel documento rilasciato dal CIEB: “Parere sull’obbligatorietà del
vaccino anti-Covid”.
Stati
di emergenza: l’analisi di Kees van der Pijl.
Il
libro di Kees van der Pijl, “States of Emergency: Keeping the Global Population
in Check”, pubblicato in olandese nel giugno di 2021 ed in inglese nel 2022,
offre, a mio parere, l’analisi più approfondita, più accurata e più convincente
che sia stata pubblicata finora sulle questioni geopolitiche associate alla gestione
autoritaria della pandemia.
States
of Emergency spazia su quattro decenni di studi nel campo della geopolitica.
A
differenza degli autori del libro Operazione Coronavirus, per esempio, l’orientamento
politico dello studioso olandese non ha nulla a che vedere con la destra e
perciò rimane difficile delegittimare il suo intervento importante associandolo
al “cospirazionismo
di destra”.
Cercherò
di riassumere in questa sezione alcune delle tesi fondamentali di “Van der Pijl”.
La
tesi centrale di “States of Emergency” è che il capitalismo globale, con la sua
base nell’Occidente, è entrato in una crisi rivoluzionaria:
Dopo
anni di preparazione, l’oligarchia regnante, che oggi esercita il suo potere in
maniera estesa sul pianeta, ha preso l’opportunità presentata dalla diffusione
del virus SARS-CoV-2 e della malattia respiratoria attribuita ad esso, il
Covid-19, per dichiarare uno stato di emergenza globale all’inizio del 2020.
Questa
presa di potere ha lo scopo di impedire che la rivoluzione della Tecnologia
Informatica, il cui impatto è paragonabile all’invenzione della stampa alla
fine del medioevo, introduca una trasformazione democratica.
Il
contesto storico immediato di questo colpo di stato globale è la crisi del capitalismo
speculativo sorta nel 2008, sulla scia della quale è emersa nella popolazione mondiale
una turbolenza senza precedenti.
In un
altro passaggio chiave, Van der Pijl riassume la sua tesi come segue:
“la
crisi da Covid ha offerto un’opportunità per rispondere alla crescente
turbolenza nella popolazione globale.
Questa
opportunità è stata colta dal blocco di potere di Intelligence-Tecnologia Informatica-media che l’ha sfruttata per instaurare
uno Stato autoritario provvisto di tutta la nuova gamma di tecnologie digitali
necessarie per
implementare un sistema di sorveglianza permanente”.
Ciò
che conta di più è che “la presa di potere da Covid” sta operando per impedire che si
compia una transizione democratica verso una società che vada oltre il capitalismo.
L’olandese
pensa, però, che lo sforzo per reprimere le popolazioni sia destinato a
fallire, poiché è stato innescato troppo presto e in maniera sconnessa, e le
contraddizioni tra i diversi interessi e le diverse istituzioni, che vanno
d’accordo solo apparentemente, devono necessariamente sfociare in un conflitto.
A
differenza della situazione che precedeva la Prima Guerra Mondiale, questa
volta il malcontento delle masse non ha alcun orientamento politico chiaro,
visto che la
rivoluzione della Tecnologia Informatica non ha fatto nascere, come aveva fatto
invece la Rivoluzione Industriale, un movimento rivoluzionario organizzato
paragonabile al movimento socialista del lavoro, che poggiava il suo potere
sulla classe operaia.
“Con
il declino della produzione industriale nell’Occidente, e dunque dei sindacati,
la turbolenza che è sorta dopo il 2008 è andata in tutte le direzioni – la
Primavera Araba, Occupy Wall Street, i Gilet gialli in Francia, e via dicendo.
Scioperi, sommosse e manifestazioni antigovernative,
insieme alla migrazione di massa e all’abuso degli stupefacenti, hanno infranto
tutti i record esistenti – fino al momento in cui l’Organizzazione Mondiale
della Sanità ha dichiarato la pandemia.
I
governi del mondo intero hanno risposto imponendo rapidamente stati di
emergenza che paradossalmente andavano restringendosi man mano che diminuiva il
virus fino a seguire un calendario oramai palesemente politico”.
Van
der Pijl afferma però che la “pandemia” (le virgolette sono sue) non è il
frutto di una frode singola e semplice o di una grande macchinazione ideata da
Klaus Schwab, “l’oracolo di Davos”, che è stata attuata obbedientemente dai
governi nazionali.
“Piuttosto”,
spiega l’olandese, “è una crisi storica complessa, in cui la classe dominante
globale ha preso il potere in un processo che ha avuto diversi punti di
partenza.
Molti
aspetti della ‘pandemia’ da Covid rimangono avvolti nel mistero.
Sembra
certo che il virus sia scappato da un laboratorio, ma non sappiamo quale.
Ciò
che possiamo concludere è che la descrizione ufficiale di ciò che sta accadendo
è palesemente falsa e che dunque alla fine crollerà.
Non
bisogna sottostimare le tempistiche di questo crollo, giacché i “media
mainstream “costituiscono un elemento chiave nel complesso di forze che ha
preso il potere in questo processo;
il
loro inganno e la loro propaganda a riguardo di eventi storici importanti sono
diventati routine dagli anni 1990 in poi”40.
Gli
eventi della pandemia fanno parte della graduale transizione dal liberalismo
occidentale a uno Stato autoritario.
L’emergenza
dichiarata nella primavera del 2020, rappresenta effettivamente uno stato di
guerra che ha lo scopo di salvaguardare l’ordine esistente.
Come George Orwell ha spiegato in 1984, tutte
le guerre moderne svolgono questa funzione.
Ma,
mentre in Stati come la Cina le popolazioni già vivevano in uno stato di
emergenza permanente, nell’Occidente gli antecedenti sono diversi e per
reprimere le popolazioni abituate alla tradizione liberale sarebbero servite
misure draconiane paragonabili alla guerra psicologica e alla tortura mentale.
Van
der Pijl cita
un’intervista rilasciata da Angelo Giorgiani, in cui questo magistrato italiano affermava che si
trattava di “una nuova forma di terrore di Stato”.
La
situazione sociale a cui l’emergenza dichiarata nel nome del Covid è la
risposta, è paragonabile a quelle che precedevano la Prima e la Seconda Guerra
Mondiale.
In
questo periodo, c’è di nuovo molta agitazione che in certe regioni del mondo e
in certi Paesi arriva ai limiti dell’insurrezione.
Nel
Medio Oriente, e in Paesi come l’India, il Cile e la Francia, erano emersi
movimenti potenzialmente rivoluzionari, capaci di rovesciare i governi,
spaventando le classe dominanti del mondo intero.
Quando
Van der Pijl scriveva “States of Emergency”, il movimento popolare, in tutta la
sua diversità, era stato paralizzato.
Il
professore olandese spiega come la struttura sociale dell’America del Nord,
dell’Australasia e dell’Europa favorisca questo stato di quasi normalizzazione.
Da un
lato abbiamo una classe cosmopolita di tecnici che lavora per l’oligarchia ed è
concentrata nelle grandi città.
Questa
classe condivide lo spazio urbano con una popolazione di immigrati che vivono
principalmente per servirla.
Di fronte a questa classe privilegiata esiste una popolazione domestica
marginalizzata che è divenuta in gran parte economicamente superflua.
In questa complessa configurazione di forze si
è cristallizzata un’impasse politica nella quale le etichette “sinistra” e
“destra” stanno perdendo la loro forza.
Ma la
situazione rimane comunque potenzialmente rivoluzionaria.
Van
der Pijl descrive anche le strutture nascoste di repressione che avevano
accompagnato l’epoca precedente, caratterizzata da un compromesso delle classi.
Queste
strutture si sono svelate durante la pandemia, giacché i governi hanno adottato
tattiche di contro-insurrezione per dominare la crescente resistenza contro i
lockdown imposti durante l’emergenza da Covid.
Ogni
esercizio di potere nel capitalismo liberale, spiega il professore, poggia su un
contratto sociale sostenuto da un’ideologia che l’accompagna, un concetto comprensivo di controllo
che sostituisce il ruolo aggregante svolto in passato dalla religione, dalla
nazione e dalla civiltà.
Questa
volta, la classe dominante ha scelto di non aspettare che una “nuova normalità”
sorga in maniera organica dal processo di formazione delle classi, come era
accaduto dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancora negli anni ‘70.
Il capitalismo non è più in grado di dare vita
ad un compromesso tra le classi razionale e invece ha incominciato a regnare
tramite i “worst case scenarios”, gli scenari del caso peggiore.
Con l’emergenza da Covid, la classe dominante,
consapevole della precarietà della sua situazione, ha cercato di imporre una
“nuova normalità”.
Il
nuovo blocco di potere emerso dai bisogni di intelligence dell’apparato di
sicurezza nazionale degli Stati Uniti, gran parte del quale è stato
privatizzato in forma di monopoli della “Tecnologia Informatica” e vasti
conglomerati (multi-)media, ha imposto dall’alto lo scenario da Covid tramite uno shock
esterno il cui obiettivo è la creazione di una “società della sorveglianza”.
La finanza aveva approfittato delle tecnologie
dell’informazione, ma dopo il crack di 2008 le forme di speculazione più
rischiose sono state frenate tramite la ristrutturazione e l’aggregazione del controllo
finanziario nella forma di passive index funds come BlackRock.
È
impossibile accertare se la crisi da Covid è stata sfruttata per prevenire un
imminente collasso finanziario o per impedire la rielezione del presidente
populista degli Stati Uniti, Donald Trump, o entrambe le cose.
Il
populismo nazionalista, che cerca di sormontare la crisi politica della
democrazia occidentale mobilitando lo scontento contro la classe urbana
privilegiata e contro gli immigrati, si presenta come una forza rivoluzionaria,
paragonabile ai movimenti fascisti degli anni 1930.
Nelle
condizioni attuali però, la parte mainstream dell’oligarchia non sembra aver bisogno per il
momento di questa forza che rappresenta in realtà una distrazione dai problemi
fondamentali del capitalismo.
Che il
presidente outsider Trump rappresentasse una minaccia intollerabile per
l’oligarchia globalista è ovvio ed è ugualmente evidente che quest’ultima
volesse eliminarlo.
Van
der Pijl offre
un’analisi dettagliata dell’ostilità verso Trump tra i membri delle frazioni
dominanti della classe regnante e spiega come la sconfitta elettorale si può
interpretare come una specie di colpo di Stato.
Molto
meno noto che la coincidenza della pandemia con l’anno elettorale che avrebbe
potuto vedere l’inizio di un secondo termine per l’imprevedibile presidente populista
è il fatto che a metà settembre 2019 scoppiò una nuova crisi finanziaria che
rischiava di innescare un nuovo crack, paragonabile a – o anche peggiore di –
quello del 2008.
Nell’autunno
del 2019 un’impennata imprevista del tasso d’interesse a corto termine nel repo
market – il mercato che assicura l’esistenza di una sufficiente liquidità per
mantenere funzionale il sistema di pagamenti nel mondo finanziario – ha
minacciato di paralizzare questo mercato essenziale.
La
Federal Reserve di New York ha dovuto intervenire iniettando nel sistema una
grande quantità di dollari.
L’emergenza
covidiana ha permesso ai governi occidentali di giustificare al pubblico una
nuova e incrementata politica di “Quantitative Easing”.
Alla fine di maggio 2020, gli Stati del G20
avevano speso, collettivamente, 7 trilioni di dollari in sgravi fiscali e
sovvenzioni dirette.
La
cifra rappresenta più del 10 percento del PIL, molto di più di ciò che avevano
speso durante il collasso del 2008.
Allo
stesso tempo, l’imposizione dei lockdown ha permesso di rallentare l’economia
globale, riducendo in questo modo l’inflazione.
È
evidente che ormai il sistema capitalista è entrato in una fase di emergenza
permanente e che le fazioni dominanti dell’élite stanno cercando di guidare una
transizione verso un sistema politico ed economico completamente diverso.
Nel
quarto capitolo di “States of Emergency” Van der Pijl cerca di dimostrare che
una pandemia, vera o immaginaria, era diventata la copertura ideale per stabilire una
società di sorveglianza senza dover ricorrere a sistemi di violenza espliciti.
Va
notato che la
paura del terrorismo, la minaccia di “Putin” [che adesso però è scoppiata in una
guerra devastante sfruttata politicamente in tutti i modi, anche se
maldestramente, dai governi occidentali], lo spettro del cambiamento climatico, e altri scenari del caso peggiore,
non sono riusciti a mobilitare la società come lo ha invece fatto l’epidemia di
una malattia sconosciuta.
Essa
si è dimostrata un nuovo avatar molto efficace della politica della paura sulla quale la legittimità
governamentale nell’Occidente poggia dopo la disintegrazione del compromesso
delle classi e il collasso del socialismo statale dell’Unione Sovietica.
All’inizio
del nostro secolo, il SARS-1, l’influenza aviaria e, sulla scia del collasso
finanziario, il panico dell’influenza suina del 2009, hanno dimostrato le
possibilità offerte da un’allerta scatenata da un virus, benché queste epidemie
non fossero abbastanza diffuse per giustificare l’imposizione di uno stato di
emergenza.
Le
valutazioni dei lockdown in Cina e nel Canada all’epoca del SARS-1 hanno
dimostrato che i cittadini sono disposti a subire interventi radicali per dar
prova delle loro virtù civiche e perfino del loro patriottismo.
Nel
2010, la Rockefeller Foundation ha ideato uno scenario dettagliato per una pandemia
immaginaria in grado di permettere una repressione di massa.
Negli
anni che seguirono, il copione per una chiusura integrale della società è stato
elaborato in modo dettagliato.
Qui la
Gates Foundation del fondatore di Microsoft, Bill Gates, l’esponente per
eccellenza del blocco di potere della Tecnologia Informatica, ha svolto il
ruolo di “quadro di distribuzione” tramite il quale lo scenario del virus è
stato trasmesso all’OMS, ai governi nazionali, e al complesso biopolitico.
L’internazionalizzazione
della politica statale, con i governi individuali ormai ridotti a svolgere il
compito di implementare le linee guide stabilite a livello globale, ha offerto
i canali attraverso cui il blocco di potere Intelligence-Tecnologia
Informatica-media, alleatosi al complesso biopolitico, ha potuto imporre lo
stato di emergenza da Covid.
Nel
corso dell’anno 2019, una serie di riunioni internazionali di pianificazione,
culminati nell’ormai famigerato “Event 201”, non solo ha finalizzato i preparativi per una
possibile pandemia da virus, ma si è focalizzata in particolar modo sull’“infodemia” delle
opinioni dissidenti, sottolineando così la realtà politica nascosta dalla
presunta emergenza sanitaria.
Uno
dei fattori più incerti della crisi da Covid è rappresentato dai rapporti tra
l’Occidente, e in particolar modo tra gli Stati Uniti, e la Cina.
Nel quinto capitolo di “States of Emergency “Van
der Pijl dimostra che gli USA hanno costruito una comprensiva infrastruttura di
ricerca finalizzata alla guerra biologica contro la Russia e la Cina, utilizzando l’Africa nera come
terreno di addizionale prova.
Paradossalmente però, gli Stati Uniti cooperavano
strettamente con la Cina nel campo della ricerca microbiologica, anche se la
Cina ne contende il potere.
Infatti,
nella
sfera della Tecnologia Informatica, per esempio, era trattata come un nemico.
Nel corso del 2019, anche la cooperazione USA-Cina nella
biodifesa è
andata storta.
Sembra
certo che il coronavirus sia scappato da un laboratorio dove i virus vengono
soggetti alla ricerca di gain-of-function per renderli più pericolosi, ma non è sicuro se era il laboratorio di Wuhan al quale la ricerca americana era
subappaltata, o Fort Detrick nel Maryland.
Van
der Pijl chiude questo capitolo osservando che, malgrado la trasformazione
dell’Occidente liberale sul modello della Cina autoritaria (benché rimanga tuttora controllato
dalle sue élite attuali che la governano per proteggere i loro interessi), non è probabile, nel contesto dei
rapidi cambiamenti nell’equilibrio del potere, che questo fenomeno conduca ad
una stabile tregua che trascenda le rivalità imperialiste.
L’ultimo
capitolo di “States of Emergency” esamina le possibilità che la rivoluzione della Tecnologia
Informatica offre alla società per prendere un’altra strada, quella orientata verso
una democrazia radicale e verso la pianificazione digitale.
Secondo
Van der Pijl, ciò che questa rivoluzione presenta di particolare è che, per la
prima volta nella storia, esiste la tecnologia capace di sormontare, in linea di
principio, la contraddizione tra la libertà individuale e la sicurezza sociale
ed ecologica collettiva.
La
classe regnante dell’Occidente capitalista è consapevole di questo potenziale e
vuole schiacciarlo prima che possa fiorire, iniziando con una repressione
massiccia dei media sociali.
Anche
le classi dominanti dei paesi non occidentali si stanno interessando molto a
restringere e a sorvegliare la Tecnologia Informatica.
Secondo
l’olandese, il mondo è stato messo per forza in una situazione rivoluzionaria dalle
azioni dell’oligarchia e deve affrontare la scelta fra sommettersi e cercare
un’alternativa che consisterebbe nello spogliare i padroni miliardari di ciò
che Marx chiama “il cervello sociale”.
Nel
processo emergerà un ampio movimento politicamente eterogeneo che avrà il
compito di re-instaurare e rinnovare la democrazia, sfruttando allo stesso tempo
le possibilità offerte dalla rivoluzione della Tecnologia Informatica per
creare un futuro percorribile per l’umanità.
Altrimenti,
quest’ultima perirà.
Van
der Pijl riprende
nel suo libro molti elementi già apparsi nei canali di informazione alternativi.
Il suo
approccio molto più empirico che ideologico gli ha permesso di consultare con
profitto una grande varietà di fonti.
La grande forza della sua analisi risiede però
nelle sue conoscenze profonde del contesto geopolitico in cui sono emersi gli stati di emergenza covidiani e nella sua consapevolezza delle
complessità insite nell’esercizio del potere nel sistema capitalista moderno.
Il
professore olandese s’interessa alla questione centrale della scienza politica
– come far sì che una minoranza riesca a far accettare alla vasta maggioranza
il suo governo.
Capisce perfettamente però che la classe
dominante non è “un gruppo compatto e omogeneo sempre in grado di produrre una
e una sola azione politica”.
Van der Pijl si focalizza in particolare su
ciò che Ries Bode chiama “un concetto comprensivo di controllo” che si può identificare con un
particolare segmento o una particolare frazione della classe capitalista.
Una
tale frazione svolge il ruolo di organizzatore di un grande blocco di forze, o
blocco storico.
Lo fa presentando al grande pubblico concetti
che tutelano i loro interessi, come se fossero nell’interesse pubblico, ossia
della società in generale.
Nel
contesto dell’analisi di Van der Pijl, questa frazione direttiva è ciò che egli
chiama il
triangolo “Intelligence-Tecnologia Informatica-media”.
Al
centro di “States
of Emergency” è dunque un’analisi dettagliata del blocco di potere che si è formato
intorno al complesso di Intelligence militare degli Stati Uniti, unito
strettamente alla sfera potentissima della Tecnologia Informatica – il mondo di
Silicon Valley – e all’universo dei media mainstream.
Van
der Pijl dimostra anche come, tramite il complesso di bioguerra e il ruolo pivotale svolto
dalla Gates Foundation, questo blocco si è alleato alla sfera dell’industria
farmaceutica e delle istituzioni sanitarie, in primis l’OMS, per attivare un piano elaborato da
anni durante una lunga serie di esercizi di pianificazione – dal “Dark Winter” (2001) all’“Event 201” (2019) – per contrastare gli attacchi
di bioguerra o di bioterrorismo e per prepararsi per quella pandemia micidiale che, da
anni, Bill Gates non smetteva di avvisarci che sarebbe arrivata.
Pianificare
per lo stato di emergenza biopolitica.
La
base fondamentale per la presa di potere motivata dal Covid è psicologica e
sociologica.
È stato il sociologo della sanità pubblica Patrick Zylberman a dare al complesso biopolitico le
informazioni necessarie per poter innescare uno stato di emergenza sanitaria
capace di indurre le popolazioni a rinunciare alle loro libertà più
fondamentali.
Zylberman
ha studiato estensivamente le conseguenze socio-psicologiche dell’epidemia da
SARS-1 in Cina e nel Canada, focalizzandosi in particolar modo sui lockdown.
Il
francese trascorse sei mesi come ricercatore ospitato dal “Munk Centre for
International Studie”s e dalla “Munk School of Global Affairs”, facenti
entrambi parte dell’Università di Toronto, nella città dove il SARS ha avuto
l’impatto più grande dopo la Cina.
Questi
centri sono sovvenzionati da “Peter Munk”, il proprietario di “Barrick Gold”,
l’impresa mineraria più grande del mondo.
Van
der Pijl spiega come Barrick è integrato nella classe dominante transazionale,
dove, grazie alle ricerche di Zylberman, è emersa l’opinione consensuale che i
lockdown potevano offrire una risposta effettiva alla turbolenza globale.
Dal
2007 al 2009, prima di uscire nel libro Tempêtes microbiennes (2013), le ricerche di Zylberman circolavano in forma di articoli
pubblicati per la” Lupina Foundation”, basata a Toronto, e in questo modo sono
state conosciute dal sistema di potere.
“Che
nel nuovo millennio ‘la salute’ sia stata integrata nella strategia
internazionale della classe regnante emerge anche dal fatto che nel 2004 la
prima cattedra di “Salute e Globalizzazione”, sovvenzionata dalla Bill &
Melinda Gates Foundation, fu creata dal “Council for Foreign Relations”,
osserva Van der Pijl46.
Le
investigazioni di Zylberman durante la crisi da SARS del 2003 hanno dimostrato
che la vasta maggioranza della popolazione ha accettato tutte le misure
sanitarie, dimostrando così che è possibile esercitare un forte controllo sulla
popolazione durante un’epidemia.
Il
modello per l’instaurazione di un regime draconiano è stato offerto
dall’influenza spagnola del 1918, non dalle epidemie influenzali del 1958 e del
1968, visto che in queste, malgrado la morte di un milione e mezzo di vittime
in entrambi i casi, la vita del resto della popolazione è rimasta immutata.
La
grande utilità che le ricerche di Zylberman rappresentano per la classe
dominante è che si focalizzano sulla psicologia collettiva e le dinamiche dei
rapporti sociali durante una grave crisi sanitaria.
Le sue indagini avevano indotto lo studioso
francese a concludere che lo Stato è capace di esercitare un potere molto più
grande di quanto si era immaginato nell’epoca della privatizzazione e della
liberalizzazione.
Secondo
Zylberman, si vedeva in azione una nuova forza, oppure una nuova finzione, lo
spirito civico estremo.
Le
istruzioni, spesso contraddittorie, emesse dalle autorità hanno aumentato lo
stato di frustrazione provocato dal lockdown, ma ciò nonostante sono state
seguite dalla maggioranza.
Secondo il ricercatore francese, solo circa
quindici percento della popolazione era dissidente (una cifra che probabilmente è
rimasta uguale per l’emergenza da Covid).
Una
delle idee più importanti di Zylberman è quella degli scenari del caso
peggiore, che ormai formano la base della politica sanitaria.
Van der Pijl commenta:
Abbiamo
già visto che dopo il collasso dell’Unione Sovietica e del comunismo, scenari
di paura hanno sostituito il concetto di controllo tramite cui il potere era
stato esercitato nell’epoca precedente.
Invece
di una costellazione più o meno stabile di classi il cui contratto sociale (non
scritto) esprime un programma quasi govermentale che viene accettato dalla
maggioranza, gli scenari del caso peggiore evocano invece visioni di paura alle quali
i cittadini si sottomettono credendo che non c’è altra via di uscita dal
disastro che, secondo le autorità, incombe su loro, che di obbedire alle
istruzioni del Governo.
Mentre
un concetto di controllo trova la sua logica nella realtà dei rapporti di forza
tra le classi, e perde dunque la sua efficacia quando questi subiscono un
cambiamento fondamentale, uno scenario di paura poggia invece sulla logica della sua
narrazione.
I suoi autori possono solo sperare che questa
si presenti come ‘credibile’, anche se è vero che non devono preoccuparsi che possa essere
minata dai media, poiché questi fanno parte del cuore del nuovo blocco di
potere.
Nel
2010 l’idea dello scenario del caso peggiore è stata ripresa in un report
prodotto in tandem dalla “Rockefeller Foundation” e dal “Global Business
Network” (GBN), un sussidiario di “Deloitte” che si specializza nello sviluppo
di scenari.
Questo
report è spettacolare, osserva Van der Pijl, “perché per noi che abbiamo
testimoniato il disastro provocato dal Covid, sembra quasi incredibile leggere
in grande dettaglio in un documento prodotto anni fa lo scenario di ciò che sta
accadendo ora”.
Il
report della Rockefeller Foundation e del GBN discute quattro scenari.
Qui ci
interessa solo il secondo, che si chiama “Lock Step”.
Questo
descrive “un
mondo nel quale il controllo governamentale imposto dall’alto diventa più
stretto, il comando diventa più autoritario, le innovazioni sono limitate, e
sorge una crescente resistenza da parte dei cittadini”.
La
premessa di questo scenario è quella di una pandemia influenzale molto
virulenta che sarebbe iniziata in Cina e che avrebbe colpito nel 2012.
La
Cina risponde rapidamente, imponendo “quarantene obbligatorie a tutti i
cittadini”.
Sempre
più governi prendono misure come l’imposizione delle mascherine nei negozi e
negli spazi pubblici, e anche dopo la diminuzione della pandemia queste misure
rimangono in vigore.
La
sorveglianza autoritaria dei cittadini e delle loro attività viene pure
intensificata.
I
leader del mondo intero tirano le redini “per proteggersi contro la diffusione
di problemi su scala sempre più globale – dalle pandemie e dal terrorismo
transazionale alle crisi ambientali e alla povertà in crescita”.
“Non è
difficile”, commenta Van der Pijl, “decodificare la frase ‘problemi su scala
sempre più globale’ contro i quali i leader del mondo intero devono proteggersi
– la
turbolenza della popolazione globale, che abbiamo identificato come la
ragione principale per la quale è stato stabilito lo stato di eccezione da
Covid, e la minaccia di rivolte […].
Lock
Step offre il rimedio”.
Il report
descrive come, all’inizio, “la nozione di un mondo più controllato viene largamente
accettata e approvata. I cittadini rinunciano a una parte della loro sovranità
– della loro privacy – in cambio di una più grande sicurezza e di una più
grande stabilità fornite da Stati più paternalistici”.
“Nei
paesi sviluppati”, afferma ancora il report, “questa sorveglianza aumentata ha
preso molte forme, tra cui l’imposizione dell’identità biometrica a tutti i
cittadini”.
Secondo
il report, la popolazione non avrebbe accettato queste restrizioni a tempo
indeterminato:
un decennio dopo il disastro fittizio, i
cittadini avrebbero iniziato a ripudiare la svolta autoritaria, ma nel
frattempo i cambiamenti sarebbero diventati irreversibili e il nuovo regime si
sarebbe affermato così saldamente che non sarebbe più stato possibile tornare
alla normalità di prima.
Lo
scenario identifica la rivoluzione della Tecnologia Informatica come la base sulla quale questa
sorveglianza intensiva diventa possibile e sulla quale l’ordine esistente può
essere reso sicuro.
Per
sormontare la crisi, il report propone di trasformare l’economia, basandola
interamente sulle conquiste della rivoluzione della Tecnologia Informatica,
visto che in questo campo l’Occidente ha ancora tutti i vantaggi, grazie ai
monopoli dell’Internet.
“Oggi”,
osserva Van der Pijl, “riconosciamo questo progetto come il Great Reset propagato dal World
Economic Forum di Klaus Schwab – un progetto che questo ente promuove in realtà dagli anni
1990, con diversi nomi, ma sempre con lo stesso contenuto (un’economia digitale globale)”.
“Questo report Rockefeller/GBN
basterebbe da solo a dimostrare”, scrive ancora Van der Pijl, “che il piano per le misure prese nel
2020 era stato scritto molto tempo prima del Covid-19, e che era visto come la
risposta alle sfide presentate all’Occidente quando il collasso finanziario del
2008 innescò la turbolenza globale.
Questo
è a mio avviso il problema principale riscontrato dal regime capitalista,
piuttosto che una presunta emergenza sanitaria”.
Lo
scenario di “Lock Step” deve essere considerato nel contesto di una lunga serie di simulazioni
ed esercizi di preparazione per l’arrivo di epidemie.
“Tra gli scenari del caso peggiore che i
governi iniziarono a studiare negli anni 1990”, scrive Van der Pijl, “con l’intenzione di sostenere la loro
autorità malgrado la disintegrazione morale della società capitalista,
l’influenza spagnola era al primo posto.”
“Con
il senno di poi”, scrive ancora, “si vede che tra le minacce fittizie per le quali sono
stati sviluppati scenari dopo ‘la fine della storia’, le malattie infettive e
il bioterrorismo hanno ricevuto un’attenzione eccezionale.
Il
bioterrorismo rappresenta la minaccia ideale, perché basta una singola persona
per provocare un disastro.
In
queste circostanze, la salute è stata associata sempre più strettamente alla
sicurezza nazionale”.
A
maggio del 1989, con il sostegno della NIAID di Anthony Fauci e della Rockefeller University, si tenne a Washington una
conferenza dal titolo “Emerging Viruses”.
Nello
stesso anno, il “John Hopkins Centre for Civilian Defense Studies” ha simulato
un ipotetico scenario in cui la città di Washington DC era stata colpita dal
virus del vaiolo.
Nel
1998 fu stabilito il John Hopkins Center for Civilian Biodefense Studies e
nell’anno seguente e di nuovo nel 2000 furono tenuti simposi sul bioterrorismo,
con un’interazione sempre maggiore tra la politica, la scienza e i media.
Nello
stesso anno 2000 fu condotto il primo esercizio contro il bioterrorismo, “TopOff2000”, che sarebbe stato seguito da altri
simili chiamati “Dark Winter” (2001) e “Atlantic Storm” (2005).
“Guardando
indietro oggi”, osserva Van der Pijl, “colpisce il fatto che gli scenari per il
bioterrorismo avevano tutti come premessa che il panico che avrebbe provocato
un attentato biologico, avrebbe permesso di indurre le persone a rinunciare
alle loro libertà nella lotta contro l’epidemia e che tutti gli scenari
concordano sulla necessità di sopprimere le voci dissidenti.
Questa
sarebbe stata la base che avrebbe fatto convergere i punti di vista degli
epidemiologi e di coloro che cercano metodi per rovesciare le libertà civili e
sopprimere la democrazia.
Le
istituzioni che oggi svolgono un ruolo importante nella crisi da Covid erano
anch’esse implicate sin dall’inizio”.
Una di
queste istituzioni chiave è senz’altro la Bill & Melinda Gates Foundation,
fondata nel 2000.
Certo,
come osserva il ricercatore olandese, questa fondazione “non è l’onnipotente deus ex
machina”, ma comunque “svolge un ruolo di primo livello nel complesso
biopolitico”.
Oltre
l’industria farmaceutica, questo complesso include anche il settore della
salute, le organizzazioni internazionali dedicate alla sanità pubblica come
l’OMS e la divisione sanitaria del” World Bank”, e le istituzioni di sanità
pubblica nazionali come il “Centers for Disease Control” (CDC) e il “National
Institute for Health” degli Stati Uniti e i loro equivalenti negli altri paesi,
e anche certe “ONG” come “Medici Senza Frontiere”.
Nel
luglio del 2019, un nuovo ente transazionale, il “Global Preparedness
Monitoring Board” (GPMB), pubblicò il suo primo report annuale.
Il GPMB era stato convocato dal “World Bank
Group” e dall’”OMS” per preparare il mondo per “lo spettro di una emergenza generale
di salute pubblica”.
Seguendo
la solita logica degli scenari del caso peggiore, il report precisava che
questa emergenza sarebbe “la minaccia molto reale della rapida diffusione di una
pandemia devastante provocata da un patogeno respiratorio, che avrebbe ucciso
entro 50 e 80 milioni di persone e avrebbe distrutto quasi il cinque percento
dell’economia globale”.
“In
realtà”, commenta Van der Pijl, “il compito principale di questo Board era
quello di preparare il terreno per uno stato di emergenza internazionale che
avrebbe imposto obblighi stringenti agli Stati individuali”.
Tre
mesi dopo la pubblicazione del report del GPMB, nell’ottobre del 2019, poco
prima della pandemia da Covid-19, la Gates Foundation, insieme al John Hopkins Centre for Health
Security e il World Economic Forum, convocò a New York un simposio con il titolo di “Event 201 – A Global Pandemic
Exercise”.
Questa simulazione, che si focalizzò su
un’epidemia virale, progettò una mortalità di 65 milioni di vittime durante un
periodo di diciotto mesi, provocando una depressione economica planetaria che
sarebbe durata un decennio.
I partecipanti includevano il CDC degli Stati
Uniti; George Gao, il capo delle autorità sanitarie cinesi; Avril Haines, già
vice-direttore della CIA, adesso una lobbyist per le imprese di Tecnologia
Informatica presso il Governo degli Stati Uniti ed i servizi di Intelligence
americani; rappresentanti del settore farmaceutico, notevolmente Johnson &
Johnson, e Henry Scheiu, un agente per i vaccini della Pfizer, e anche gli
specialisti della salute e dei rischi di vare altre grandi imprese.
Uno degli
aspetti più notevoli dell’”Event 201” è l’enfasi che questo esercizio di
preparazione ha messo sul pericolo di un’“infodemia”, una marea di
“disinformazione” che avrebbe messo in discussione la narrativa ufficiale.
Tra le
sue raccomandazioni figuravano una censura più stretta dei media sociali e
perfino la chiusura totale dell’Internet.
Alcuni partecipanti hanno sottolineato la
necessità di controllare la narrativa, organizzando le discussioni sui social
con una chiara politica editoriale.
Stephen Redd del Public Health Service
promulgò l’idea di identificare le persone che si sarebbero espresse sui social
con “credenze negative”.
Quello
sarebbe stato un grossissimo impegno, ma, come osservò un altro partecipante,
se tralasciato i governi sarebbero potuti cadere, come era successo durante la
Primavera Araba.
Il
ministro delle finanze di Singapore persino promosse l’idea di far arrestare e
processare i dissidenti.
“Tutto
questo”, commenta Van der Pijl, “riflette lo stimolo originale che aveva fatto nascere
gli scenari di emergenza pandemica: la paura di non riuscire più a contenere la
popolazione del mondo”.
Gli
scenari del caso peggiore e il Covid-19: la finzione pandemica.
La
finzione degli scenari del caso peggiore, che sta alla base di tutte le simulazioni
pandemiche e di tutti gli esercizi di preparazione contro il biot errore, non è rimasta confinata lì.
Questi
esercizi inquietanti gestiti dal complesso biopolitico sono entrati nel mondo
reale, provocando una grandissima confusione.
Abbiamo
già visto nel primo articolo della serie come la “pandemia” da influenza suina
è stata dichiarata dall’OMS nel 2009, subito dopo il crack del 2008, sulla base
di proiezioni di mortalità che si sono rivelate completamente false.
La stessa cosa è successa nel 2020.
In
ambedue i casi, uno degli scienziati prominenti che ha prodotto modelli
computerizzati offrendo previsioni epidemiologiche estremamente esagerate,
utilizzate dalle autorità per giustificare misure estreme, è stato il
professore Neil Ferguson dell’Imperial College, a Londra.
Come
osservò il giornalista inglese “Steerpike”, scrivendo nell’Observer nell’aprile
2020, già varie volte nel passato il professore aveva sbagliato le sue
predizioni in modo assolutamente spettacolare.
Nel
2002, Ferguson aveva predetto che 50.000 persone sarebbero morte di encefalia
bovina; in realtà, sono morte 177.
Nel
2005 aveva detto che fino a 200 milioni di persone (nel mondo intero) sarebbero
potute morire dell’influenza aviaria;
il
totale dei morti fu esattamente 282.
Nel
2009, Ferguson avvertì il Governo britannico che l’influenza suina avrebbe
potuto uccidere 65.000 persone nel Regno Unito.
In
realtà, la malattia uccise 457 persone in quel paese.
Seguendo
il suo sistema consueto, il 16 marzo 2020 Ferguson pubblicò un modello
computerizzato che prevedeva più di mezzo milione di morti per causa del Covid
nel Regno Unito e 2.2 milioni negli Stati Uniti, se non fossero state prese
misure per contenere il virus.
Due
mesi dopo, Ferguson confessò di aver utilizzato un codice obsoleto, provocando “The
Telegraph” a descrivere il modello come “l’errore di software più devastante
di tutti i tempi”.
Devastante
perché le predizioni matematiche del professore dell’Imperial College furono
utilizzate dai politici per giustificare il lockdown, con tutte le conseguenze
catastrofiche che sappiamo.
Ma si
può veramente dire che questo sia stato un errore?
La pubblicazione di Ferguson non è mai stata
soggetta al processo di “peer review” e quando degli scienziati hanno chiesto
di poter ispezionare il codice che aveva usato, la loro richiesta non è stata
soddisfatta per parecchie settimane.
Quando
finalmente il codice fu rilasciato, non era quello originale – era stato
modificato da una equipe di Microsoft e di Github.
Quando
la giornalista inglese “Laura Dodsworth” parlò di Ferguson con “Knut Wittowski”,
già direttore di Biostatistiche, Epidemiologia e Disegno di Ricerca presso la Rockefeller University, questi non l’ha preso molto sul
serio perché, secondo lui,
“tra gli scienziati, Neil Ferguson non ha
nessuna credibilità perché le sue predizioni sono sempre sbagliate”.
Gli
scienziati non prendono Ferguson sul serio, ma i Governi sì.
Per
loro, nell’epoca della politica degli scenari del caso peggiore, i modellatori
disposti a fabbricare previsioni allarmistiche svolgono un ruolo fondamentale.
Non è
indifferente sapere che il gruppo di ricerca diretto da Ferguson all’Imperial
College riceve milioni di dollari all’anno dalla “Gates Foundation” e da “GAVI
Alliance”, un consorzio internazionale che promuove i vaccini (anch’essa
sovvenzionata da Gates).
Inoltre,
Ferguson è il direttore del “Vaccine Impact Modelling Consortium”, un altro
ente sovvenzionato dall’onnipresente Gates.
Il
professore inglese si trova dunque pienamente integrato nel complesso
biopolitico internazionale.
Notiamo
en passant che l’altro ente importante del mondo anglosassone che ha prodotto
previsioni stratosferiche di mortalità all’inizio della pandemia è il “Washington
Institute for Health Metrics and Evaluation”.
Fondato
nel 2007, anche questo istituto conta la Gates Foundation fra i suoi principali
donatori.
In
Germania documenti trapelati dal Ministero dell’Interno hanno mostrato che il
Governo aveva dato istruzioni agli scienziati chiedendo loro di produrre uno
scenario del caso peggiore in grado di giustificare l’imposizione di
restrizioni alla società.
“Die
Welt am Sonntag” ha rivelato come scienziati di alto livello presso varie
università e vari istituti di ricerca hanno collaborato con il Ministero
creando un modello computerizzato allo scopo di aiutare nella pianificazione di
misure “di carattere preventivo e repressivo”.
Secondo il Segretario di Stato “Mark Kerber”,
si trattava di “mantenere la sicurezza interna e la stabilità dell’ordine in
Germania”.
“Senza
burocrazia, il massimo coraggio” raccomandò Kerber in una frase codificata che,
spogliata dall’ipocrisia ministeriale, può chiaramente essere interpretata come
“senza scrupoli, spingendo le predizioni al massimo”.
Lo
scenario del caso peggiore prodotto dal Governo tedesco per spaventare i cittadini
offriva anche immagini traumatiche atte a creare un impatto emotivo viscerale:
“Molte
persone gravemente malate vengono portate all’ospedale dai loro familiari, ma
vengono rimandate a casa, dove muoiono molto dolorosamente annaspando.”
“Quando [i bambini] contagiano i loro genitori
e uno di loro muore molto dolorosamente essi si sentono colpevoli per non
essersi lavati le mani dopo aver giocato per esempio, e questa è la cosa più
terribile che un bambino possa mai sperimentare”.
In questo modo la cultura della finzione
drammatica, frutto di una lunga serie di esercizi di preparazione pandemica che
si erano focalizzati su scenari del casi peggiori, è stata strumentalizzata per
convincere i tedeschi a rinunciare alle loro libertà costituzionali.
La
soppressione del dissenso.
Abbiamo
visto che la soppressione del dissenso – con il pretesto di combattere la
“disinformazione” – è stata una preoccupazione costante di tutti gli esercizi
di preparazione pandemica.
In uno
stato di emergenza giustificato da uno scenario del caso peggiore, il controllo
della narrativa è essenziale, perché è sulla narrativa, non sulla realtà
epidemiologica, che poggia tutto l’apparato di controllo emergenziale.
Per
questo, con loro grande meraviglia, molti scienziati medici si sono trovati
censurati o diffamati – o tutte e due le cose – quando cercavano di offrire al
pubblico opinioni o informazioni in grado di minare la narrativa pandemica
ufficiale.
Questa
soppressione delle voci dissidenti è stata pianificata dal complesso
biopolitico, con l’aiuto dei media e dalle grandi imprese di Tecnologia
Informatica.
Una
figura chiave in questo progetto di contro-insurrezione – perché di questo si
tratta – è l’ex generale americano Stanley McChrystal, che era stato il capo
del “Joint Special Operations Command” in Afghanistan dal 2008 al 2011, quando
fu licenziato dopo aver criticato in un’intervista la gestione della guerra.
Nel
2011, McChrystal creò un gruppo di consulenza, il McChrystal Group, offrendo
così al contesto domestico le sue esperienze nel campo della
contro-insurrezione.
Nel
2020, il “McChrystal Group” divenne il consulente centrale per la gestione
della sfida politica rappresentata dal Covid e il gruppo ricevette molte
richieste da parte di città e di stati individuali negli Stati Uniti.
Intervistato da Forbes in aprile, l’ex
generale spiegò che la lotta contro l’epidemia doveva essere condotta come una
guerra.
Il
comando di questa guerra doveva essere centralizzato è messo sotto la direzione
del governo federale, senza ingerenza politica, e doveva essere condotta senza
opposizione, altrimenti sarebbe finita, come la guerra del Vietnam, in un
ritiro invece di una vittoria.
Le
operazioni condotte da “McChrystal” erano in realtà parte di una guerra
dell’informazione e Van der Pijl spiega come l’ex generale abbia potuto contare
sulla collaborazione di una grande diversità di alleati nei media mainstream,
da Fox News a CBS a CNN.
I podcast rilasciati dal McChrystal Group, con
il titolo bellico di “No Turning Back” (“Non tornare indietro”), includono
portavoce del complesso industriale militare come “Michèle Flournoy”, già vice
segretaria della difesa, e rappresentanti del complesso biopolitico come “Sue
Desmond-Hellman”, l’amministratrice delegata della Gates Foundation dal 2014 al
2020.
Il
McChrystal Group ha anche condotto su Internet campagne contro gli scettici o
“negazionisti” pandemici e i “no vax”, insieme al Poynter Institute
(sovvenzionato dal Gates Foundation), l’Omidyar Network (appartenente al
padrone di eBay, Pierre Omidyar), l’Open Society Foundation di George Soros e
Facebook.
In questo modo è stato innescato tutto un
meccanismo di controllo dell’informazione o della narrativa allo scopo di
censurare o delegittimare il dissenso che, quando non era cancellato su
Internet, veniva sistematicamente descritto come “disinformazione” o
“complottismo”.
Aggiungiamo
che in questa guerra dell’informazione la BBC ha svolto un ruolo se non
onorevole almeno di primo livello, mettendo – e rischiando – tutto il suo
prestigio mondiale al servizio del grande progetto liberticida dell’oligarchia
capitalista.
In questo modo la grande azienda britannica ha
perso molta credibilità.
Il
risveglio politico di molti cittadini britannici trova un simbolo perfetto in
uno striscione che è apparso durante una grande manifestazione a Londra contro
l’obbligo vaccinale che il Governo ha tentato – senza successo – di imporre ai
sanitari della National Health: “Did the BBC’s credibility die of Covid or with
Covid?” – “La credibilità della BBC è morta di Covid o con il Covid?”.
L’emergenza
covidiana in Italia.
Alcuni
commentatori considerano che l’Italia abbia svolto un ruolo particolare nella “gestione
biopolitica” della pandemia.
Infatti, in questo paese le misure repressive
sono state spinte al di là di quelle imposte in molti altri paesi occidentali.
Già da
tempo in Italia il sistema parlamentare era entrato in una profonda crisi ed
erano anni che il paese veniva governato da “tecnici”, che rappresentano
direttamente gli interessi della finanza internazionale.
Mario Draghi, che ha governato l’Italia
durante il periodo più repressivo dell’emergenza sanitaria – quello del “Green
Pass”, del “Super Green Pass” e dell’obbligo vaccinale – è l’esempio perfetto
di questa casta politico-economica che è formata, in verità, dai servi più
fedeli dell’oligarchia capitalista.
Sotto la direzione di “Giuseppe Conte”, poi di
“Draghi”, l’esecutivo ha assunto completamente i poteri del legislativo.
Dopo
la dichiarazione dello stato di emergenza, ha governato con una fitta serie di
decreti – che, dopo quasi un anno, quando questi sono stati dichiarati
illegittimi e anticostituzionali dal TAR di Roma, sono stati sostituiti da
decreti-legge – che de facto hanno instaurato una dittatura.
Il
Parlamento aveva perso il suo potere e comunque non esisteva una vera
opposizione parlamentare.
Nessuno
scrutinava seriamente le azioni del Governo.
Quando,
dopo due anni, lo stato di emergenza sanitaria era finito, è stato dichiarato immediatamente un
nuovo stato di emergenza, questa volta con il pretesto della guerra in Ucraina, un
paese situato a quasi 2000 chilometri dall’Italia.
La
storia ci insegna che il metodo classico che si utilizza sempre per abolire un
sistema democratico senza dover ricorrere ad un colpo di Stato militare è
quello di instaurare uno stato di eccezione che diventa permanente.
Rimane dunque difficile non percepire nella
situazione presente un progetto politico preciso orientato verso quel fine.
L’eutanasia della democrazia è in atto in Italia.
Qual è
dunque questo ruolo particolare che ha svolto l’Italia nel grande progetto di
demolizione della facciata democratica nel mondo occidentale?
Sembra che sia stato quello di condurre, con
molta determinazione, un esperimento sociopolitico importante per vedere fino a
che punto i cittadini del ventunesimo secolo sono disposti a rinunciare alle
libertà che non solo esercitavano tranquillamente nel 2019, ma che sono anche
“garantite” dalla Costituzione.
Ma una
costituzione – anche “la più bella del mondo” – non ha alcun valore se le
istituzioni, i politici, la magistratura, i media e gli stessi cittadini non
hanno voglia di difenderla.
In Italia questa voglia sembra mancare.
Non è
senza una certa amarezza che il presente autore scrive queste parole poiché,
prendendo la cittadinanza italiana, ha giurato fedeltà alla Costituzione nello
stesso momento in cui questa veniva palesemente calpestata dal Governo.
L’Italia
ha pilotato il progetto covidiano in Europa.
È stato il primo Paese occidentale ad imporre
un lockdown, che rapidamente è stato esteso all’intero territorio.
È stato fra i Paesi più “entusiasti” riguardo
all’imposizione del passaporto vaccinale o “Green Pass”, e ha avuto l’assai
dubbiosa distinzione di essere l’unico Paese europeo ad aver imposto il “Super
Green Pass” a tutti i lavoratori, sbeffeggiando in questo modo il primo
articolo della sua Costituzione.
Nessun
paese si è accanito con più crudeltà contro i bambini, continuando ad imporre
le mascherine (inutili e nocive) nelle scuole molto tempo dopo che negli altri
paesi questa politica era stata abbandonata.
L’Italia è anche stato uno dei Paesi ad aver
imposto non solo il ricatto vaccinale ma anche l’obbligo vaccinale diretto a
certe categorie di cittadini.
Il Bel
Paese è anche stato fra le nazioni dove la faglia che si è aperta nel tessuto
sociale è stata più profonda, a causa precisamente dell’estremismo autoritario delle
politiche emergenziali.
Perché
l’Italia è stata scelta per svolgere questo ruolo d’avanguardia nel piano di
repressione della popolazione occidentale?
Le
ragioni geopolitiche hanno forse a che fare con la sovranità limitata del Paese
dopo la disfatta del regime fascista, che ha reso l’Italia praticamente
una provincia dell’Impero americano.
Un fattore che favorisce la manipolazione
della popolazione è sicuramente la debolezza generale degli italiani nella
comprensione delle lingue straniere, ciò che limita moltissime persone alla
bolla mediatica nazionale (anche se questo svantaggio linguistico sta
diminuendo notevolmente nella giovane generazione).
Il
bassissimo livello di libertà di stampa in Italia offre anch’esso un grande
vantaggio a chi vuole controllare strettamente il flusso dell’informazione.
Tutti
questi fattori concordano a favorire il controllo della popolazione tramite la
propaganda di regime – regime biopolitico, s’intende.
I
movimenti di resistenza e di rinascita in Italia.
Sarebbe
sbagliato pensare che tutti gli italiani si sono sottomessi senza resistere a
ciò che gli avversari dei lockdown, della chiusura delle scuole e delle chiese,
delle mascherine inutili e nocive, del “Green Pass” e “Super Green Pass”,
dell’obbligo vaccinale e ricatto vaccinale, e infine della sospensione de facto
della Costituzione, hanno chiamato, giustamente o ingiustamente (spetta al
lettore giudicare), “la dittatura sanitaria”.
Durante
il periodo dell’imposizione del “Green Pass”, poi del “Super Green Pass”, e in
particolar modo dopo il Decreto Legge n. 127/2021 del 15 ottobre 2021 con cui
questo strumento di discriminazione e di controllo pseudo-sanitario fu esteso a
tutti i lavoratori, grandi manifestazioni di protesta sono state organizzate in
molte città della penisola.
Sono state ignorate dai mass media e dal
Governo, o quando erano troppo vaste per essere ignorate, i media hanno
minimizzato la loro importanza, utilizzando la classica tattica di sottostimare
enormemente il numero dei manifestanti.
Secondo Il Corriere della Sera, La Repubblica
e quasi tutti gli altri quotidiani italiani, la dissidenza era limitata a
qualche migliaia di ignoranti e di estremisti.
I
lettori inglesi degli articoli di “Manfred Manera”, pubblicati nel settimanale “The
Spectator”, erano meglio informati.
In un articolo dell’ottobre del 2021, Manera
descriveva una grande manifestazione contro il “Green Pass” a cui aveva
assistito nella piazza San Giovanni in Laterano a Roma, come “una folla
rappresentante ogni settore della società”.
Il
giornalista riporta che questa manifestazione, benché non organizzata da alcun
sindacato o movimento politico, era estremamente grande – stimava che i
manifestanti fossero almeno 80.000 persone.
La
Repubblica invece ha riportato che la polizia stimava la presenza di solo 3.000
persone.
“I
giornali italiani descrivono i manifestanti come una specie di “lunatic fringe” (“frangia lunatica”), benché nella
mia esperienza siano invece pacifici e ben informati”, scriveva Manera.
In
questo contesto non conviene sottovalutare l’importanza del movimento di
protesta contro il “Green Pass” nato a Trieste, nell’ottobre del 2021, tra i
portuali in sciopero.
Come aveva riconosciuto Sergio Bologna,
“quella non è una lotta sindacale […], quella è una protesta politica contro la
gestione governativa della pandemia”68.
Questa
protesta, commenta ancora Bologna, “concentra su un unico obiettivo simbolico –
capitato per caso – non solo tutta la rabbia, le frustrazioni, le pulsioni che
si sono accumulate in questo anno e mezzo, non solo la protesta studentesca,
non solo i lavoratori con le loro famiglie, ma anche tutto il potenziale
esplosivo del “movimento no vax” e la volontà dell’opposizione di Fratelli
d’Italia e dei gruppi neonazi che hanno tutto l’interesse a destabilizzare il
governo Draghi, sfidando apertamente l’ordine pubblico”.
L’autore scrive ancora: “Il movimento no vax
non può essere che di estrema destra”.
Conosciamo
l’argomento che vaccinarsi era il dovere civico di tutti, nella piena
consapevolezza di fare da cavie, perché il vaccino era uno strumento
fondamentale per vincere la guerra contro il virus.
Chi si
opponeva alla vaccinazione di massa non poteva essere che un anarchico di
estrema destra…
Entrare
profondamente in questo dibattito politico-sanitario, cercando di andare oltre
la semplice divisione ideologica, richiederebbe un lungo articolo dedicato
unicamente alla questione dei vaccini, e non solo quelli anti-Covid.
Richiederebbe
un’analisi approfondita della storia dei vaccini e della politica vaccinale
nell’Occidente, tenendo pienamente conto dell’influenza incessante – e sempre
in crescita – esercitata sulla politica e sull’educazione medica dall’industria
farmaceutica, sempre alla ricerca di profitti, riconoscendo in questo contesto
che nessun farmaco è più lucroso del vaccino.
Osserviamo
en passant che il paese dove l’influenza politica di Big Pharma predomina di
più, gli Stati Uniti, è anche quello dove la politica vaccinale è più
aggressiva: nessun bambino al mondo è più vaccinato di quello americano.
Qualsiasi
studio serio sulla questione vaccinale dovrebbe prendere pienamente in
considerazione il fatto che Big Pharma finanzia da molto tempo una campagna
mediatica (e politica) massiccia pro-vaccini e anti-“no vax”, soffocando in
questo modo il libero dibattito scientifico.
Associare
unicamente ai movimenti di estrema destra – o anche di destra tout court – chi
esprime scetticismo informato nei confronti della vaccinazione come strategia
centrale per promuovere la salute e che esprime dubbi informati sulla sicurezza
e l’efficacia dei vaccini non mi sembra un atteggiamento giustificato dai
fatti.
Prendiamo
l’esempio significativo di Robert F. Kennedy Jr., nipote del presidente
americano assassinato nel 1963 e fondatore di “Children’s Health Defense”,
organizzazione che si attiva per difendere i bambini contro gli abusi di Big
Pharma.
Kennedy
è sempre descritto dai media mainstream come un pericoloso “no vax”, anche se
ha fatto vaccinare i suoi propri figli.
La
realtà è che da decenni Kennedy ha indagato la questione dei vaccini nel corso
del suo lavoro come avvocato di alto livello.
Ha
combattuto nei tribunali contro gli abusi commessi regolarmente, non solo
dall’industria farmaceutica ma anche dagli enti regolatori “catturati” da essa.
Per
questo è diventato un nemico dell’establishment capitalista, che lo liquida
comodamente come “no vax”.
Un
altro esempio, questa volta italiano, è quello dello scienziato “Stefano
Montanari” che da decenni studia il contenuto dei vaccini con una speciale
tecnica di microscopia, giungendo a scoprire molte impurezze non dichiarate.
Montanari
è diventato scettico a riguardo dei vaccini in generale, non per ignoranza o
per ideologia, non per “cospirazionismo”, ma dopo aver approfondito la
questione nelle sue ricerche scientifiche.
Non ha
alcun senso, a mio parere, prendere una posizione ideologica a riguardo della
questione complessa dei vaccini – in particolar modo quelli anti-Covid – senza
aver compiuto previamente un lavoro di ricerca sul dibattito scientifico in
materia.
“Fidarsi
della scienza” è uno slogan superficiale – strumentalizzato dall’oligarchia – che
non tiene conto del gravissimo problema della corruzione dilagante e sistemica
che imperversa da tempo nel settore farmaceutico-sanitario e che ha certamente
un impatto profondo sulla questione vaccinale.
Minimizzare
l’importanza di questo fenomeno è l’atteggiamento di chi, per ragioni
ideologiche, preferisce non affrontare l’amara realtà.
Il
movimento “No Green Pass” non è, essenzialmente, un movimento di destra, anche
se la destra ha cercato di strumentalizzarlo.
È soprattutto un movimento spontaneo di
cittadini che hanno lottato per riprendere diritti costituzionali fondamentali
calpestati dal Governo.
Se la sinistra non vuole capire questo, non
capirà mai la realtà politica della crisi della democrazia che abbiamo vissuto
durante la pandemia e che continuiamo a vivere adesso.
Focalizzarsi eccessivamente sulla
polarizzazione destra-sinistra ostacola la chiara percezione delle implicazioni
geopolitiche e sociali di ciò che sta accadendo.
Tre
libri fondamentali, tutti e tre molto ben documentati, aiuteranno a capire
meglio la nostra situazione: States of Emergency di Van der Pijl, Covid-19:
Un’epidemia da decodificare di Bizzarri, e The Real Anthony Fauci:
Bill
Gates, Big Pharma, and the Global War on Democracy and Public Health di Robert
Kennedy.
È
futile pretendere di poter discutere seriamente la crisi covidiana senza aver
letto almeno questi tre libri.
Il
libro di Kennedy integra quello di Van der Pijl con informazioni dettagliate
sul complesso biopolitico.
Le
ricerche di Kennedy si focalizzano sulle azioni di due personaggi americani che
svolgono un ruolo centrale in quel mondo, Anthony Fauci, il potente direttore del “National
Institute of Allergy and Infectious Diseases” (NIAID) e Bill Gates, che dal
2000 è divenuto una figura sempre più influente nella sfera
farmaceutico-sanitaria globale.
In
quello stesso anno, Fauci e Gates inaugurarono una partnership allo scopo di controllare
il business globale dei vaccini.
Kennedy
dimostra come, tramite il potere rappresentato dal gigantesco budget di ricerca
di NIAID – ben $6.1 miliardi all’anno – gestito da Fauci, e i rapporti
personali che Gates ha stabilito con i capi di Stato, l’alleanza
“Pharma-Fauci-Gates” domina la politica globale della salute.
Kennedy
analizza in “The Real Anthony Fauci” come Fauci, Gates e i loro collaboratori
hanno utilizzato l’influenza che essi esercitano sui media, su riviste
scientifiche, su agenzie governamentali e quasi governamentali importanti e su
scienziati e medici influenti, per travolgere il pubblico con propaganda
allarmistica sulla virulenza e patogenicità del Covid-19 e per soffocare il dibattito e
censurare il dissenso.
Gran
parte del terreno coperto nel libro di Kennedy è stato studiato anche da Van
der Pijl.
Senza
possedere le profonde conoscenze del contesto geopolitico che dimostra il
professore olandese, Kennedy aggiunge però – in un libro di 450 pagine e quasi
300 note – un’analisi approfondita della carriera di Fauci.
Questo personaggio così influente, che si presenta al
pubblico come una rassicurante figura capace di abbindolare, si rivela in
realtà come un uomo sprovvisto di ogni scrupolo morale, un uomo che non esita a
distruggere le carriere di scienziati quando la loro ricerca minaccia i suoi
interessi economici o la sua posizione, a promuovere terapie che sa di essere
inefficaci e tossiche, e a condurre esperimenti medici illegali e letteralmente
micidiali su orfani indifesi.
Tutto
questo non è “cospirazionismo di destra” – Kennedy non è mai stato un uomo di
destra, d’altronde – ma è invece una compilazione accurata di fatti.
Manca
qui lo spazio per offrire una discussione più dettagliata di “The Real Anthony
Fauci”, ma non esito ad affermare che questo libro, che ha avuto un grande
successo editoriale negli Stati Uniti (malgrado il silenzio dei media
mainstream e la censura sistematica sui social), dovrebbe essere letto da tutti
gli intellettuali – di sinistra, di destra o di qualsiasi altro orientamento
ideologico – che vogliono capire meglio la realtà sconcertante di quel mondo
politico-sanitario che incide ormai in modo così pesante sulle nostre vite.
Perché l’analisi di Kennedy conferma
pienamente il titolo del libro: il complesso biopolitico – un’alleanza che combina il
profitto economico con il potere politico – conduce da molti anni una guerra su
scala globale contro la democrazia e la salute pubblica.
Questa
guerra (che Van der Pijl interpreta come una guerra di contro-insurrezione) è
scoppiata finalmente con una violenza inaudita durante la pandemia da Covid-19.
Dopo
questa digressione importante torniamo adesso alla questione dei movimenti di
resistenza nati in Italia durante la crisi sanitaria.
Si sa che la protesta dei portuali di Trieste,
alla quale è affluita da tutta l’Italia una grande folla di manifestanti
anti-“Green Pass”, è stata dispersa dalle forze dell’ordine – benché questa
fosse stata completamente pacifica – con violenza, utilizzando idranti e
manganelli.
Ma la
protesta operaia dei portuali ha dato nascita ad un movimento sociale molto più
ampio, raccolto sotto l’egida del “Coordinamento 15 ottobre”, il cui nome fa riferimento alla
malaugurata data dell’imposizione della tessera verde a tutti i lavoratori
italiani.
Descrivere
il “Green Pass” come un obiettivo simbolico “capitato per caso” dimostra
un’assenza di comprensione del suo significato politico profondo.
Come cercherò di spiegare più avanti, la
tessera verde rappresenta allo stesso tempo il simbolo e lo strumento centrale
di quello Stato di sorveglianza e di quell’abolizione dello Stato di diritto
che il Governo ha cercato di imporre nel nome del coronavirus.
Opporsi
a questo strumento-simbolo è dunque perfettamente logico e interamente
legittimo.
Il
“Coordinamento 15 ottobre” si presenta soprattutto come un movimento di rinascita sociale
che desidera contribuire alla “ricostruzione di un tessuto sociale con una
dimensione etica della vita, confortata da valori di solidarietà e
collaborazione”.
L’organizzazione cerca anche di “difendere i
valori della costituzione, ricordandone i cardini e vigilando affinché non
vengano mai più infranti”, e vuole aiutare a costruire un nuovo sistema
economico, aspirando a “creare un mondo differente dove la dignità, lealtà,
trasparenza, solidarietà, collaborazione, libertà siano la base per la
costruzione di un nuovo modello di persone ed anime che credono in una
rinascita, desiderando rapporti sinceri, in un ritorno allo stare insieme, ed
alla convivialità”.
Detto
con altre parole, in risposta alle azioni repressive e divisive del Governo, il
Coordinamento aspira a creare una società che vada oltre il capitalismo
autoritario.
Un
altro punto di partenza importante per i movimenti di resistenza e di rinascita
sociale è rappresentato da Sara Cunial, che è stata praticamente l’unica parlamentare a protestare
seriamente e coerentemente contro i soprusi del regime di emergenza.
Isolata
e sprovvista del potere per avere un impatto politico nel contesto del
Parlamento (è stata espulsa dal Movimento 5 Stelle e fa ora parte del gruppo
misto), la
deputata ha collaborato invece con cittadini italiani per costruire un
movimento extraparlamentare ormai diffuso in molte città della penisola.
Si
tratta del movimento “R2020”, nato a Roma nel giugno del 2020, che sbandiera lo
slogan “ribellione, resistenza, rinascita”.
Il
movimento ha dato nascita a molti “Fuochi”, formati allo scopo di rinnovare
l’impeto democratico a livello locale.
Secondo
il sito web di “R2020”, questi progetti sono “in corso sui territori
nell’ambito dell’educazione, della coesione, dell’alimentazione,
dell’informazione, della crescita personale, della protesta e della proposta”.
Il movimento s’interessa infatti in special
modo ai temi dell’autosufficienza, dell’economia del dono, della geopolitica,
dell’informazione libera e del 5G.
Uno
dei risultati importanti delle misure repressive prese dal Governo italiano è
dunque stato quello di provocare movimenti “grass roots” intenti ad attuare un
rinnovamento sociale democratico che da tempo era diventato urgente.
Manca
lo spazio qui per discutere tutti i movimenti di resistenza e di rinascita che
si sono formati in Italia – e in tutto il mondo occidentale – in reazione contro ciò che si può
legittimamente interpretare come un colpo di Stato globale.
Ho già
menzionato nel secondo articolo della serie le organizzazioni “grass roots” di
medici e scienziati medici che si sono formate in Italia e altrove per
difendere il diritto e il dovere di curare in scienza e coscienza i loro
pazienti.
Bisognerebbe
anche tener conto delle numerose azioni legali che vanno avanti ormai da tanti
mesi allo scopo di difendere i diritti umani ed eventualmente di far processare
i politici colpevoli.
Nel
contesto della soppressione ufficiale delle terapie per curare il Covid-19, si
è parlato di strage di Stato e lo stesso concetto si può forse applicare anche
all’obbligo vaccinale.
Conquiste
dell’oligarchia.
Lo
stato di emergenza internazionale imposto nel nome del coronavirus ha permesso
all’oligarchia capitalista di compire progressi notevoli riguardo a quel piano
tecnocratico (che era diventato sempre più urgente dopo il crack di 2008), che
prima del Covid il presidente del World Economic Forum chiamava “la quarta
rivoluzione industriale” e che durante la pandemia ha ribattezzato “Il Grande
Reset”.
In questo contesto, l’imposizione dei lockdown
ha permesso l’accelerazione, in tutto il mondo occidentale, di ciò che Naomi
Klein chiama lo “Screen New Deal”.
Si
tratta di un nuovo modello sociale che, secondo l’influente Eric Schmidt, già
amministratore delegato di Google, deve basarsi sulla sostituzione delle
attività in presenza con interazioni digitali.
“Ci saranno
molti modi di lavorare da casa la maggior parte del tempo”, disse il fondatore
di Microsoft durante un’intervista, “ma saranno penalizzati il networking tra
colleghi e i rapporti di amicizia”.
Anche
il finanziere francese Jacques Attali aveva predetto già dal 2009 che “avremo
più smart working, meno emissioni, ma anche meno amicizie”.
Apparentemente,
l’oligarchia non gradisce molto l’incontro e la coltivazione delle amicizie
nella popolazione.
Osserviamo
en passant che la parola “smart”, un termine chiave nella visione tecnocratica
contemporanea, non significa in realtà “intelligente”, come uno avrebbe potuto
pensare (e come infatti tantissime persone credono);
S.M.A.R.T. è invece un acronimo coniato nel
mondo del “management corporativo”; significa “Specific, Measurable, Attainable,
Relevant and Timely” (“specifico, misurabile, realizzabile, rilevante e
opportuno”).
È la
popolazione lavorativa che deve soddisfare questi criteri delle corporation e
le amicizie interferiscono, secondo i manager e i loro padroni, con
l’efficienza, che è giustamente il criterio centrale della Tecnocrazia.
Ma c’è sicuramente in gioco qui un altro
fattore: in un’epoca in cui la classe capitalista dominante teme sempre più la
rivolta della popolazione, le interazioni interpersonali sono considerate
pericolose;
conviene ridurre le amicizie al minimo e
tenere il lavoratore, il più tempo possibile, davanti allo schermo digitale,
dove tutte le sue interazioni saranno sorvegliate.
I
componenti principali dello “Screen New Deal” sono la didattica a distanza e il lavoro a distanza
– implementati tutti e due su vasta scala nel 2020 e nel 2021 – la “telesalute”
(cioè la cura sanitaria tramite Internet) e la sostituzione del sistema
tradizionale di vendite al dettaglio dalle vendite online.
Grandi
progressi verso quest’ultimo obiettivo sono stati compiuti quando, negli soli
Stati Uniti, centinaia di migliaia di piccole imprese sono fallite a causa dei
lockdown.
Il
“Green Pass” – che in Italia è gestito, nota bene, non dal Ministero della
Salute ma dal Ministero delle Finanze – rappresenta un elemento chiave nella
formazione di un sistema di sorveglianza e di controllo digitale gestito dallo
Stato.
Mettendo
da parte il pretesto sanitario, la realtà fondamentale del “Green Pass” è che
lega le attività del cittadino al controllo govermentale tramite un codice QR.
Con
questo lasciapassare digitale, qualsiasi cittadino può essere automaticamente
escluso da qualsiasi ufficio, edificio o mezzo di trasporto, o di qualsiasi
attività secondo criteri decisi dal Governo – o anche da qualsiasi ente privato
con cui collabora il Governo.
È
evidente che i cittadini occidentali non avrebbero mai accettato una tale
tirannia statale senza quella specie di psicosi collettiva fomentata dalla
paura del coronavirus.
Va
detto che molte persone non hanno accettato l’imposizione del “Green Pass” o
del “Super Green Pass” e hanno preferito rinunciare a molte attività consuete –
e persino fondamentali – invece di subire l’umiliazione di dover esibire un
lasciapassare governamentale.
Molti
dei suoi avversari l’hanno chiamato “Nazipass”.
Giorgio
Agamben,
invece di parlare di un “Nazipass”, paragona la “tessera verde” con “il passaporto interno che nel regime
sovietico ognuno doveva avere per potersi spostare da una città all’altra”.
“Il
cittadino non tesserato”, osserva il filosofo, “sarà, paradossalmente, più
libero di colui che ne è munito e a protestare e a ribellarsi dovrebbe essere
proprio la massa dei tesserati, che d’ora in poi saranno censiti, sorvegliati e
controllati in una misura che non ha precedenti anche nei regimi più totalitari.”
Commenta ancora: “È significativo che la Cina abbia
annunciato che manterrà i suoi sistemi di tracciamento e di controllo anche
dopo la fine della pandemia”.
Il
passaporto vaccinale, che è stato testato durante la pandemia in molti paesi
dell’Unione Europea, è strettamente legato al progetto oligarchico per creare
un’identità biometrica per l’intera umanità.
“L’Alleanza
per l’identità digitale ID2020” è stata fondata nel 2016 nell’ edificio delle
Nazioni Uniti a questo fine.
Tra i
partner finanziatori si trovano membri centrali del complesso biopolitico – la Gates Foundation, Microsoft, la
GAVI Alliance per i vaccini, e anche la Rockefeller Foundation.
Mettendo
da parte tutto quel involucro propagandistico tessuto dalla corporation che la
gestisce, l’ID2020 si può descrivere accuratamente, con le parole di Pizzuti,
come “un
programma di schedatura di massa elettronico basato sulla tecnologia dei
‘Quantum Dot Tattoos’, che consiste nell’inserimento nel corpo di tutta la
popolazione mondiale di speciali bio-capsule in grado di marchiare la pelle delle
persone con dei codici leggibili per via digitale, al fine di fornire
informazioni sul loro stato vaccinale”.
Un
progetto simile gestito dal Michigan Institute of Technology, utilizzando
anch’esso la tecnologia dei Quantum Dot (nanocristalli), è sovvenzionata dalla
Gates Foundation.
Il
passaporto vaccinale o “Green Pass” rappresenta molto chiaramente un prototipo
di transizione imposto allo scopo di condurci verso quel sistema globale di
schedatura corporea.
Il
progetto va inserito nel contesto dell’introduzione su scala globale della
quinta generazione di telefonia (5G) e della rapida corsa alla digitalizzazione
dell’intera società, con progetti non solo di” smart working”, ma anche di “smart
factory” e “smart city”.
Il 13
giugno del 2019, il World Economic Forum firmò con le Nazioni Unite una
strategic partnership framework allo scopo di facilitare l’“Agenda 2030” per lo
sviluppo sostenibile.
Una
parte centrale di questa agenda è “la cooperazione digitale”. Si tratta di un
elemento chiave dei “bisogni della Quarta Rivoluzione Industriale”.
A
seguito della conferenza stampa che annunciava questa partnership, 289
organizzazioni provenienti da tutte le parti del mondo, firmarono una lettera
aperta indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite, istigandolo a
terminare questo accordo di partnership strategica.
La lettera denunciava l’accordo, perché
formalizzava una inquietante corporate capture (“presa di potere delle corporazioni”) che “spinge il mondo
pericolosamente verso una governance globale privatizzata e antidemocratica”.
La
minaccia che questa spinta verso una governance globale rappresenta per la
democrazia e la libertà dell’individuo non va sottovalutata, poiché è uno degli
obiettivi a lungo termine di importanti organizzazioni di carattere oligarchico
come il “Council for Foreign Relations”, il “Club de Rome” e il “Bilderberg
Club”.
Nel
contesto del “Grande Reset” e della necessità percepita dall’oligarchia di
trovare un modo di controllare una popolazione sempre più malcontenta e sempre
più turbolenta, non c’è bisogno di essere un “cospirazionista” (di destra o di
sinistra) per capire, che il progetto dell’ID2020, pilotato durante la pandemia
nella forma del “Green Pass”, rappresenta la chiave di tutto quell’apparato di
sorveglianza e di controllo sociale che era già stato previsto nello scenario
di “Lock Step” descritto nel 2010 nel documento Rockefeller/GBN.
Il
futuro distopico che si apre davanti a noi è quello di un mondo dove la società liberale
occidentale, basata, almeno teoricamente, sulle libertà e sui diritti
dell’individuo, sarà sostituita, gradualmente ma non lentamente, da una società
dove ogni individuo (tranne i più privilegiati, ovviamente) è soggetto ad un
controllo centralizzato totale.
Basta
legare l’identità biometrica digitale del cittadino non solo allo stato
vaccinale (e a qualsiasi altra informazione personale), ma anche al conto in
banca – in una “cashless society”, una società dove i contanti sono stati
aboliti –
per creare una tirannia assoluta dove l’individuo si trova completamente alla
mercé dello Stato – e dell’oligarchia che lo controlla.
Il
“Grande Reset” promosso dal World Economic Forum è chiaramente legato al
progetto “Going
Direct Reset” ideato da BlackRock e approvato dalle banche centrali del G7 il
22 agosto del 2019.
Si
tratta di una ristrutturazione fondamentale del sistema finanziario globale che
dovrebbe imporre la “Central Bank Digital Currency”, una valuta digitale
controllata dalle banche centrali.
Uno
degli obiettivi di questo progetto finanziario è eliminare i contanti.
Se
viene pienamente realizzato, il progetto di governance globale prenderà la
forma di una Tecnocrazia centralizzata, il cui potere si eserciterà direttamente sul
cittadino – o piuttosto il soggetto – tramite il controllo digitale.
In ogni situazione, il cittadino-soggetto di
questa Tecnocrazia vivrà sotto il dominio di un codice QR.
Sarà
una tirannia a base di algoritmi.
“Operazione
Coronavirus” ha avuto molti successi.
Non
solo ha permesso l’accelerazione di quel progetto tecnologico e tecnocratico
che Klein chiama lo “Screen New Deal”, ma ha stabilito certi principi politici
importantissimi;
essenzialmente,
ha stabilito il principio di ingerenza dello Stato nella vita privata dei
cittadini e l’ha stabilito in modi che il fascismo non si era neanche sognato.
Il Governo ha imposto la chiusura quasi totale
della società; ha chiuso le scuole e le chiese (che erano rimaste aperte
durante tutta la Seconda Guerra Mondiale); ha proibito alle persone di uscire
di casa; ha separato le famiglie (quando ha stipulato che solo un membro di
famiglia alla volta potesse fare la spesa); ha chiuso tutte le palestre, tutti
i campi sportivi e tutti i parchi comunali; ha soppresso totalmente la vita
culturale del Paese, chiudendo teatri, musei e sale per concerti; ha costretto
i cittadini a coprire la faccia in pubblico (il che costituisce un reato
penale) e ciò facendo ha tolto il diritto di respirare liberamente; ha chiuso
locali, privando i loro proprietari e dipendenti dei loro redditi; ha imposto
il possesso di un lasciapassare governamentale come precondizione per accedere
al lavoro;
ha persino stabilito il potere di obbligare i cittadini a farsi iniettare con
una terapia genica sperimentale. Una delle ambizioni centrali della biopolitica è infatti
quella di privare il cittadino della sovranità del suo proprio corpo.
Il Governo è riuscito soprattutto a calpestare
impunemente la Costituzione italiana.
Tutte
queste conquiste oligarchiche hanno de facto abolito gran parte dello Stato di
diritto.
Fallimenti
dell’oligarchia.
“Operazione
Coronavirus” ha anche diviso profondamente la società.
Il Governo, con l’aiuto entusiasta dei
“virostar” e dei media mainstream, ha fatto di tutto per demonizzare i
dissidenti, scatenando contro i non vaccinati quell’odio feroce di cui abbiamo
parlato nel terzo articolo di questa serie.
Ovviamente,
l’oligarchia, nella forma di quel blocco di potere analizzato da Van der Pijl,
sapeva, grazie alle ricerche di Zylberman, che circa quindici percento della
popolazione avrebbe resistito alle misure di repressione prese nel nome del
coronavirus, e ha dunque lavorato per mettere la maggioranza obbediente contro
questa minoranza ribelle, allo scopo di scoraggiare gli indecisi di schierarsi
con gli scettici e di schiacciare il dissenso sotto il peso dell’opinione
pubblica.
Il Governo voleva fomentare nella popolazione la
credenza nell’infamità dei dissidenti.
Inoltre, i cosiddetti “no vax”, già visti con
sospetto dalla maggioranza, grazie alla lunga campagna di propaganda finanziata
da Big Pharma, offrivano un capro espiatorio utilissimo che il Governo ha sfruttato per distrarre
l’attenzione del pubblico dal carattere fallimentare della sua politica
sanitaria – che era in realtà una politica di biosicurezza.
Inevitabilmente
però sono accadute due cose che mettono in pericolo la posizione
dell’oligarchia.
D’un
lato, la narrazione ufficiale – la finzione dello scenario del caso peggiore elaborata
da due decenni durante quella serie di esercizi di preparazione pandemici
gestiti dal complesso biopolitico – ha fatto sempre più acqua, giacché era
precisamente una finzione.
In
questo contesto voglio attirare l’attenzione sul ruolo di Edelman, l’impresa di Relazioni
Pubbliche più grande del mondo.
Nel 2018, in occasione del centenario della
pandemia dell’influenza spagnola, il World Economic Forum, insieme ad altri enti rilevanti,
organizzò una riunione dedicata al combattimento della futura pandemia che
aspettava con assoluta certezza.
In
questa riunione Edelman ha svolto un ruolo importante.
Questa
impresa pretende di aver introdotto nel mondo del marketing il concetto di storytelling.
Il
Trust Barometer (“Barometro della Fiducia”) pubblicato da Edelman stima
annualmente la misura in cui queste stories, queste narrazioni, sono credute
dal pubblico.
A
gennaio del 2021, uno studio scritto da Edelman indicava chiaramente che,
nonostante gli sforzi immensi compiuti dai media, la narrativa pandemica stava
già perdendo credibilità.
Già
sorgeva una situazione che Edelman chiamava “information bankruptcy “– “la
bancarotta dell’informazione”.
Già
prima della pandemia la fiducia nelle istituzioni pubbliche e private era da
tempo in declino (una delle conseguenze inevitabili del neoliberismo);
le
azioni compiute dalle istituzioni durante l’emergenza hanno solo accelerato
questo processo.
“Operazione Coronavirus” ha svegliato molte
persone che ormai capiscono chiaramente la minaccia che rappresenta per loro
l’oligarchia.
D’altro
canto, la minoranza dei dissidenti, dei ribelli, non è rimasta inattiva; si sta
progressivamente organizzando, formando un movimento di resistenza multiforme
la cui importanza, benché ignorata dai mass media e dai politici, non dovrebbe
essere sottovalutata.
I media dipingono i ribelli come un manipolo
di estremisti di destra, ma la realtà è molto diversa.
Le
centinaia di migliaia di cittadini di tutta Europa che sono scesi in piazza, da
Berlino a Parigi, Londra, Zurigo e Madrid, per protestare contro la “dittatura
sanitaria” imposta nel nome di un virus privo dei requisiti di letalità che
possano giustificare uno stato di emergenza simile, erano per lo più cittadini
normali.
Alla
grande manifestazione di Berlino del 29 agosto del 2020 ha parlato Robert
Kennedy.
“Negli
Stati Uniti”, ha detto Kennedy, “i giornali dicono che sono venuto qui per
parlare con cinquemila nazisti.
E domani confermeranno che io qui ho parlato
con tre-cinquemila nazisti.
Quando
guardo la folla, vedo l’opposto dei nazisti: vedo persone che amano la
democrazia, persone che vogliono un governo aperto, che vogliono leader che non
mentano loro e che non assumano decisioni arbitrarie con il fine di orchestrare
l’opinione pubblica.
La
gente non vuole più governanti che inventano leggi e regolamenti arbitrari per
orchestrare l’obbedienza della popolazione.
Vogliamo politici che si preoccupino della
salute dei nostri figli e non del profitto loro e della lobby farmaceutica.
Vogliamo
politici che non facciano accordi con Big Pharma. Questo è l’opposto del nazismo.
Guardo
questa folla e vedo bandiere dell’Europa, persone con diverso colore della
pelle, di ogni nazione, religione, che si preoccupano dei diritti umani, della
salute dei bambini, della libertà umana.
Questo
è l’opposto del nazismo”.
La
classe dominante sicuramente non sottovaluta il pericolo rappresentato da
queste grandi folle di manifestanti.
Dovrà
anche tenere in considerazione il fatto che non può contare troppo sulla
collaborazione delle forze dell’ordine se decide di utilizzare la violenza
contro i cittadini.
In Austria, la polizia ha rifiutato di
intervenire per reprimere le grandi manifestazioni contro l’obbligo vaccinale,
che il Governo ha dovuto ritirare.
In Spagna, le misure repressive del Governo
hanno provocato membri dissidenti delle varie forze dell’ordine a formare
un’organizzazione “grass roots”, “Policías por la verdad” (“Polizie per la verità”), che ha partecipato a
manifestazioni contro “la dittatura sanitaria”.
In
Italia, il sindacato dei Carabinieri, Unarma, ha preso posizione contro il
“Green Pass”, che ha dichiarato anticostituzionale.
A
settembre del 2021, il movimento “No Green Pass” trovò un nuovo paladino in un
vice questore, Nunzia Alessandra Schilirò, quando questa parlò calorosamente in
difesa della Costituzione a una grande manifestazione a Roma.
Ma il
blocco di potere che è stato dietro a “Operazione Coronavirus” andrà avanti lo
stesso con il progetto tecnocratico del “Grande Reset”, cambiando ancora una
volta il suo nome.
Dubito infatti che l’oligarchia capitalista
abbia un “piano B”.
Anche
se forse non cercherà più di imporre il nuovo Stato di sorveglianza autoritario
con il pretesto di una pandemia, cercherà altri pretesti per farlo, per esempio
il cambiamento climatico – “la transizione ecologica” – la guerra in Ucraina2,
la crisi energetica (creata ad arte dalle sanzioni imposte alla Russia), o
qualsiasi altra crisi o minaccia in grado di mantenere viva la politica della
paura.
Lo
scontro è dunque inevitabile; come osserva Van der Pijl, la popolazione si
trova ormai per forza in una situazione rivoluzionaria, perché sarà costretta a
difendersi dalle azioni dell’oligarchia.
“Libertà
va cercando…”
Il
punto di partenza delle mie ricerche e riflessioni sull’emergenza sanitaria è
stato l’esperienza angosciante di veder calpestare libertà e diritti
fondamentali che, come tutti, davo per scontati prima del marzo del 2020.
Queste
ricerche mi hanno condotto in una specie di labirinto politico, ideologico,
scientifico, psicologico e sociologico.
Per aver preso, senza ambiguità, la parte
della libertà contro quella dello schieramento collettivo dietro il sistema di
repressione statale attuato nel nome del coronavirus, ho rischiato,
consapevolmente, di vedermi catalogato tra i “cospirazionisti”.
Siccome
perfino un pensatore eminente come Giorgio Agamben è stato trattato come un
“complottista”, devo dire che mi trovo comunque in ottima compagnia.
Ma la
questione della libertà – assieme al suo contrario, la tirannia – è divenuta
urgente:
la
libertà viene sempre più gravemente minacciata con ogni pretesto da una classe
dominante che si sente in pericolo.
Ho cercato di dimostrare in questa serie di
articoli che la repressione delle libertà dell’individuo durante la pandemia
non è mai stata giustificata dalla realtà della situazione sanitaria.
So che molte persone troveranno inaccettabile questa
interpretazione dei fatti, malgrado la mole di evidenza scientifica che la
sostiene.
La
libertà, che oggi vediamo così gravemente minacciata nel mondo occidentale, è
un concetto profondo e complesso che può essere esaminato da molti punti di
vista.
Nella filosofia e la teologia, l’antichissima
questione del rapporto tra il libero arbitrio dell’individuo e la necessità o
la volontà divina non è mai stata risolta in modo veramente soddisfacente.
Neanche nella sfera sociopolitica, le contraddizioni
tra la libertà d’azione dell’individuo e la necessità dell’ordine collettivo
sono state risolte in modo veramente armonioso.
In
quasi tutte le società del passato, prima dell’epoca moderna inaugurata dal
pensiero occidentale, l’individuo si era sempre sottomesso al collettivo – la
questione della libertà personale neanche si poneva.
Ma con
la progressiva formazione psicologica dell’individualità (e dunque
dell’individualismo) è emersa nell’Occidente un nuovo bisogno – l’affermazione
di questo senso di individualità, e questa affermazione si esprime
nell’aspirazione alla libertà.
Liberté,
Égalité, Fraternité – questi ideali, che formavano lo slogan della Rivoluzione
Francese, si sono rivelati estremamente difficili da realizzare e finora ogni
tentativo di farlo è fallito.
Ma non per questo l’umanità deve smettere di
aspirare alla loro realizzazione.
Il
capitalismo liberale ha messo l’accento sulla libertà, ma soprattutto sulla
libertà d’azione di una minoranza di capitalisti. Il resto della società, e particolarmente
la classe operaia, è stata soggetta ad una violenza strutturale che ha imposto
limiti stretti alla sua libertà d’azione e di autodeterminazione.
Allo
stesso tempo, il controllo oligarchico del sistema di comunicazione di massa e
del sistema educativo ha imposto limiti ugualmente stretti alla libertà mentale
della popolazione.
La
rivoluzione della Tecnologia Informatica minaccia questo controllo
dell’informazione e del pensiero e Van der Pijl ha sicuramente ragione nel
vedere in questa minaccia l’impeto centrale dietro la spinta globale verso la
creazione di una società di sorveglianza.
In
questo modo, invece di aprire tante porte conducendo verso la libertà, la nuova
tecnologia rischia di diventare una versione digitale di quel famoso “Panopticon”
descritto da Foucault.
Ma il
libero accesso all’informazione non basta per rendere libero un essere umano.
Il
famoso psicologo comportamentale americano B.F. Skinner, l’autore del
famigerato libro del 1971 Beyond Freedom & Dignity (“Oltre la libertà &
la dignità”), era persuaso che il concetto di libertà personale, di libero
arbitrio dell’individuo, fosse illusorio.
Gli
esperimenti che aveva condotto sul comportamento, prima degli animali, poi
degli esseri umani, l’avevano convinto che l’uomo fa parte del gregge e che non
era molto difficile influenzare il comportamento di questo gregge maneggiando
gli strumenti psicologici appropriati.
Questi
strumenti sono stati sviluppati in maniera sempre più sofisticata e il “capitalismo della sorveglianza” li ha applicati su vasta scala
nell’universo dei media sociali.
Come
dimostra Dodsworth nel suo libro “State of Fear”, il Governo britannico
utilizza permanentemente una serie di “Behavioural Insight Teams” (unità di
psicologi comportamentali) per manipolare il comportamento della popolazione ed
esporta in altri Stati le sue competenze in questo campo.
La
scienza della psicologia comportamentale è anche stata applicata ad arte
durante la pandemia.
Ad un certo punto, Skinner aveva dunque
ragione.
Come
osservava Huxley in “Brave New World Revisited”, la democrazia e la libertà non
possono sopravvivere in una società pervasa dalla manipolazione psicologica.
Per
andare verso la libertà, l’uomo deve diventare sempre più consapevole;
altrimenti rimane prigioniero di tutti gli impulsi oscuri che sorgono dalle
regioni sub-razionali della psiche.
Nella nostra epoca post-religiosa, la paura
della morte è tra i più potenti di questi impulsi e chi riesce a fomentare
intensamente questa paura, che tende a paralizzare la ragione critica, può
facilmente manipolare persino le persone più intelligenti e istruite.
“Nessuna passione priva la mente così
completamente delle sue capacità di agire e ragionare quanto la paura”, ha
scritto giustamente il filosofo inglese Edmund Burke.
Nella
Divina Commedia, Virgilio spiega lo scopo del viaggio spirituale di Dante in
una frase celebre: “Libertà va cercando”.
Nei
termini della teologia cristiana di quell’epoca, la frase deve essere
interpretata come significando la ricerca della liberazione dal peccato.
Quest’ultimo
concetto è evidentemente completamente fuori moda nella nostra società laica
contemporanea, ma può anche essere interpretato in modo più moderno.
All’inizio
dell’Inferno, Dante si trova – o piuttosto si “ritrova”, perché si tratta di un
risveglio di coscienza – nella famosissima “selva oscura”, che nel Convito
Dante chiama anche “la selva dell’errore”.
Cercando di uscire da questa valle
angosciante, viene affrontato da tre predatori pericolosi, una lonza, un leone e un lupo, che normalmente sono interpretati
come simboli della lussuria, della superbia e della cupidigia; insomma, tre dei
peccati più gravi.
Ma la
selva oscura, con le sue belve, può anche essere interpretata come un simbolo
dell’inconscio, della parte oscura della psiche umana, piena di emozioni
negative e di pulsioni irrazionali, che ci impedisce di essere liberi e felici.
Il lungo viaggio arduo che Dante compie,
guidato da Virgilio, prima scendendo nell’Inferno, poi salendo nel Purgatorio,
è un viaggio mentale e spirituale, prima nelle regioni infernali della psiche,
poi ascendendo attraverso una serie di prove di purificazione.
Alla
fine dell’ascesa, Virgilio dichiara al suo discepolo: “Libero, dritto e sano è
il tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / perch ’io te sopra te
corono e mitrio.” (Purgatorio, XXVII, 140-2)
Essendo
ormai l’arbitrio purificato di Dante “libero, dritto e sano”, egli diventa re
di sé stesso. Entra poi nel Paradiso Terrestre.
Il
poeta romantico e pensatore radicale Percy Bysshe Shelley, che era un nemico
dichiarato del cristianesimo, ma un grande ammiratore di Dante (e ancora più di
Gesù Cristo), ha ripreso l’idea nel suo grande dramma lirico del 1819,
Prometheus Unbound (“Prometeo slegato”).
Il tema centrale di questo capolavoro del
romanticismo inglese è la ricerca della libertà.
Essendo
figlio della Rivoluzione Francese, Shelley s’interessa soprattutto alla libertà
politica e una delle sue grandi preoccupazioni è di capire perché questa
rivoluzione era fallita;
perché,
malgrado tutte le sue promessi inebrianti, non era riuscita a realizzare i suoi
ideali luminosi, trascinando invece il mondo nel sangue, nel terrore e nella
dittatura.
Prometeo,
incatenato alla roccia per volontà del suo nemico Giove, simboleggia l’uomo,
prigioniero, sofferente, ma che aspira alla libertà e alla felicità.
Giove
invece, “il tiranno del mondo”, simboleggia l’oppressione in tutte le sue
forme.
Ciò che Shelley aveva capito, dopo lunghe
riflessioni, è che le radici sia della libertà che della tirannia sono
essenzialmente psicologiche e ideologiche.
Per questo, nessuna rivoluzione soltanto
esteriore può rendere libero l’uomo; prima ci vuole la rivoluzione interiore,
quella mentale e psicologica.
Soltanto
dopo aver compiuto questo arduo lavoro interiore, Prometeo riesce a rovesciare
la tirannia di Giove.
Nell’immaginazione
di Shelley, questa rivoluzione psicologica e morale conduce alla rinascita non
solo della società umana ma anche della terra; instaura il Paradiso Terrestre.
È nel
visionario terzo atto, che descrive in termini poetici la trasformazione della
società dopo questa rivoluzione interiore o trasformazione della coscienza, che
si può discernere l’influenza di Dante.
Abbiamo
visto che il lungo processo di purificazione della psiche rende l’arbitrio del
poeta fiorentino “libero, dritto e sano”.
Tramite
questa conquista interiore, Dante diventa re di sé stesso.
Nello stesso modo, l’uomo trasformato in
Prometheus Unbound, che prima era un misero schiavo, diventa “the king / Over
himself” (III, iv. 196-7) – il re di sé stesso.
L’unico
controllo di cui abbia ormai bisogno è quello interiore, che Shelley chiama
“divino” – “a divine control”.
Ormai, gli uomini vivono liberi, felici e
armoniosi.
Ma
senza questo controllo interiore, credeva il poeta, gli uomini non saranno mai
liberi.
“Man
who man would be, / Must rule the empire of himself”, scrive ancora Shelley in
un sonetto politico – “L’uomo che vorrebbe essere un uomo / Deve regnare
sull’impero di sé stesso”.
Nessuna
rivoluzione tecnologica ci renderà liberi; l’unica rivoluzione che ci possa
veramente liberare è quella spirituale.
Altrimenti, rimaniamo prigionieri di noi
stessi, schiavi dell’egoismo, creando una civiltà tecnologica che
inevitabilmente deve prendere la forma di una Tecnocrazia. Una società piena di esseri confinati
nei limiti stretti dell’ego, del “piccolo io”, non sarà mai felice, armoniosa o
libera.
Nel
contesto della problematica dell’egoismo, voglio concludere questo lunghissimo
articolo citando (e traducendo) alcune riflessioni del grande yogi e filosofo
indiano Sri Autoblindo (1872-1950) su come sarebbe possibile realizzare
l’ideale del comunismo.
“Il
principio sociale comunista”, scrive Sri Autoblindo, “è intrinsecamente
superiore a quello individualista come la fratellanza è superiore alla gelosia
e all’eccidio reciproco;
ma
tutti i progetti per mettere in pratica il Socialismo inventati in Europa sono
un giogo, una tirannia e una prigione.”
Poi
aggiunge: “Perché il comunismo possa essere ristabilito con successo sulla
terra, deve essere fondato sulla fratellanza dell’anima e la morte
dell’egoismo.
Un’associazione
forzata e un cameratismo meccanico finirebbero in un fiasco globale”.
La base per un comunismo autentico, una
società fondata sulla fratellanza, può essere solo spirituale, perché soltanto
nella coscienza spirituale dell’unità di tutti gli esseri può sorgere una vera
fratellanza.
Questo
principio dell’unità, non concepito come semplice teoria intellettuale ma
realizzato come esperienza spirituale, costituisce l’essenza del “Vedanta”.
Sri Autoblindo
scrive ancora: “Il Vedanta ha realizzato l’unica base pratica per una società comunista.
È il regno dei santi sognato dal cristianesimo, dall’Islam e dall’induismo purinico”. Evidentemente, realizzare sulla terra
questo regno spirituale non sarà per nulla facile, ma deve comunque rimanere la
meta delle nostre aspirazioni più profonde.
(Peter
Cooke) - (Vero premio Nobel della verità. N.d.R.)
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