IL "SOFT POWER "UTILIZZATO PER CONVINCERE GLI INDECISI.

 

IL "SOFT POWER" UTILIZZATO PER CONVINCERE GLI INDECISI.

 

 

Dr Coleman, UK: la Terza Guerra

Mondiale è ufficialmente Iniziata.

 

 

Conoscenzealconfine.it – (16 Febbraio 2023) - Cristina Bassi – ci dice:

 

Ora è tutto alla luce del sole. Il Ministro degli Esteri tedesco ha dichiarato che siamo in guerra con la Russia.

Il dottor Coleman è un medico di base ed ex professore di Scienze mediche olistiche presso l’International Open University in Sri Lanka, nonché scrittore medico articolato e prolifico.

 Nel 1988, sul Sunday Times scriveva: “Entro il 2020 ci sarà un olocausto, non causato da un pennacchio di plutonio ma dall’avidità, dall’ambizione medica e dall’opportunismo politico”.

Del coraggioso e battagliero (e ora anziano) dr Coleman, UK, ho già tradotto altri articoli.

Nel seguito, traduco il suo ultimo articolo sul presente dell’Europa e dell’Occidente: in guerra ufficialmente con la Russia.

 

“Quindi, ora è tutto alla luce del sole. Il Ministro degli Esteri tedesco ha dichiarato che siamo in guerra con la Russia. I media tradizionali erano troppo preoccupati con i soliti scarti per notarlo, ma questo significa che la Terza Guerra Mondiale è ufficialmente iniziata.

Il giorno in cui la Germania ha annunciato la Terza Guerra Mondiale, la sezione principale del sito di notizie della BBC non ha menzionato l’annuncio del Ministro degli Esteri tedesco, ma è riuscita a trovare spazio per i seguenti titoli:

“La furia di un proprietario di casa per il divano incastrato nelle scale” e “Il presentatore di BBC News si commuove nell’ultima firma”.

E ancora una volta, per la terza volta, una guerra mondiale è stata ufficialmente iniziata dalla Germania.

Non è una grande sorpresa.

Molti mesi fa ho detto che i cittadini tedeschi stavano sentendo i segnali di allarme aereo che venivano testati.

E, naturalmente, molti mesi fa, il Regno Unito e gli Stati Uniti si sono ritirati dai colloqui di pace e hanno abbandonato qualsiasi tentativo di negoziare un accordo con la Russia.

Il Presidente degli Stati Uniti Biden, i ministri europei e il Regno Unito stanno tutti inviando carri armati in Ucraina (uno dei Paesi più corrotti del mondo) per combattere la Russia. (Biden, ovviamente, ha legami finanziari con l’Ucraina).

La cosa strana è che l’Ucraina ha già più di 1.000 carri armati.

Quindi le poche decine di carri armati che l’Occidente sta inviando – e che impiegheranno mesi ad arrivare – non faranno una grande differenza.

 Si tratta di una donazione tattica.

Gli esperti militari sostengono che alcune delle armi promesse impiegheranno quasi tre anni per arrivare in Ucraina.

 È un segno di quanto l’Occidente spera che questa guerra duri?

E, naturalmente, quei carri armati avranno bisogno di soldati addestrati. Non si possono consegnare carri armati e aspettarsi che gli ucraini sappiano usarli.

Inoltre, all’Ucraina sono rimasti pochissimi soldati.

 Circa 150.000 soldati ucraini sono stati uccisi e diverse centinaia di migliaia sono stati feriti. (In confronto, dei 600.000 soldati russi in Ucraina, ne sono morti tra i 16.000 e i 25.000).

Ma i carri armati non sono sufficienti per l’Ucraina.

L’Ucraina, che sta perdendo la sua guerra, ora vuole navi da guerra, sottomarini e aerei.

Ma pensa un po’. E li otterranno.

 Inoltre, gli Stati Uniti vogliono che anche Israele invii equipaggiamenti.

 E, dato che il Presidente ucraino è ebreo, sospetto che Israele non farà finta di niente (anche se senza dubbio si aspetterà che i contribuenti americani inviino loro un sacco di nuovi e costosi giocattoli come ricompensa).

La cosa da ricordare è che i cospiratori vogliono la guerra nucleare.

È un ottimo modo per uccidere persone e ridurre la popolazione globale.

Quando le bombe inizieranno a volare, i cospiratori saranno al sicuro nei loro bunker sotterranei e sui loro super-yacht ben attrezzati.

 Le persone che vivono nelle grandi città non hanno idea di cosa stia accadendo. Una volta che la Terza Guerra Mondiale avrà inizio, sarà finita in pochi minuti.

Il 25 gennaio avevo pubblicato un articolo intitolato “‘We’re Heading for Nuclear War’ (“Ci stiamo dirigendo verso la guerra nucleare”).

E anche un video di avvertimento intitolato “Why THEY Need World War III’” (“Perché hanno bisogno della terza guerra mondiale”), pubblicato il 3 maggio 2022.

Le cose si stanno muovendo velocemente.

I media tradizionali non vi diranno nulla di tutto questo.

Stanno nascondendo ciò che sta accadendo con delle banalità.

Nel Regno Unito, il governo si sta riunendo per discutere su come vincere le prossime elezioni.

La BBC e il resto della macchina della propaganda non vi diranno che l’Ucraina sta mandando in guerra sedicenni e anziani.

Non vi diranno che stanno radunando carne da cannone.

Non vi diranno che i soldati ucraini, non addestrati alla guerra, stanno disertando. E nel frattempo le infrastrutture ucraine vengono distrutte.

L’Occidente sta permettendo la distruzione deliberata dell’Ucraina, perché c’è un’agenda nascosta e gli idioti in Occidente che sventolano o indossano le bandiere dell’Ucraina sono parte del genocidio.

La NATO sa, ovviamente, che l’Ucraina sta perdendo e sospetto che i cospiratori vogliano far proseguire la guerra il più a lungo possibile, per massimizzare il numero di morti.

Per questo l’Occidente sta fornendo bombe, proiettili e carri armati – e presto fornirà aerei, navi da guerra e sottomarini.

Ora siamo ufficialmente in guerra con la Russia. Mi chiedo quanti capiscano cosa significhi.

Come temevo, siamo stati condotti ciecamente allo scontro verso il quale i cospiratori erano diretti.

Ora, con l’Ucraina che ha perso la guerra, gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione Europea vogliono continuare a spingere sulla Russia il più possibile.

E vogliono la Terza Guerra Mondiale per annientare i russi.

Tutto questo danneggerà massicciamente l’ambiente.

 Porterà anche ad un aumento massiccio dei prezzi di cibo e carburante.

E ci saranno centinaia di milioni di morti in Africa e in Asia, dove la gente non può permettersi di comprare cibo o carburante.

 (Stranamente, non ho sentito i folli del culto del cambiamento climatico lamentarsi dei danni all’ambiente. Questo perché sono marionette i cui fili sono tirati dai cospiratori).

La maggior parte delle persone semplicemente non capisce che tutto è deliberato. Ricordate: nulla accade per caso”.

(vernoncoleman.org/articles/world-war-iii-has-officially-started).

(thelivingspirits.net/dr-coleman-uk-la-terza-guerra-mondiale-e-ufficialmente-iniziata/).

 

 

 

 

“Progetto Blue Beam”: “WEF Insider” Rivela

che “Fake Alien Invasion” unirà l’Umanità.

Conoscenzealconfine.it – (17 Febbraio 2023) -Redazione - Serge Monast – ci dice:

 

Nel 2024 una falsa invasione aliena unirà l’umanità sotto un governo unico mondiale.

“Progetto Blue Beam”: l'inganno del falso messia.

I media mainstream di solito presentano le notizie sugli UFO come storie marginali per gli strani, ma da una settimana sono impazziti per gli UFO, riportando avvistamenti ed eventi come eventi di notizie serie.

Dato che sappiamo che i media mainstream prendono ordini dall’élite globale e qualsiasi cambiamento nella narrazione deve essere visto con profondo sospetto, la domanda da porsi è: perché i media hanno cambiato la loro narrazione così drammaticamente?

Il governo fingerà un’invasione globale di alieni durante il 2024, al fine di inaugurare un governo unico mondiale?

Ecco dove diventa davvero interessante.

Nel suo libro del 1994 “Project Blue Beam”, il giornalista investigativo Serge Monast scrive che le Nazioni Unite, la NASA e altre agenzie governative lavorano in segreto dal 1983 su un’operazione top-secret chiamata Project Blue Beam”.

Pagliacci… Fanno sempre più ridere…

(t.me/consenso_disinformato)

 

 

 

 

Dall’impiego del Soft power

all’uso del Potere Forte.   

Vittoriodublino.org – (5-6-2022) – Vittorio Alberto Dublino – ci dice:

 

Il conflitto in Ucraina ha riportato alla ribalta le ambizioni del famoso “Progetto Russia” (descritto da Limes nel 2008 ) che sembra contrapporsi a quella che appare come un’altra ambizione condotta in maniera parallela, che si declina in un’altra idea che sta vagando da qualche tempo per il mondo, l’idea di un Impero americano.

 

Queste ambiziose idee hanno usato inconfutabili elementi di propaganda culturale per promuoversi a vicenda.

 Per decenni, prima gli USA poi la Russia dopo la caduta dell’URSS, hanno impiegato il Soft Power è quale strumento di Diplomazia Culturale.

Nel tentativo di influenzare i popoli a proprio vantaggio.

Cioè cercando di “portarli dalla propria parte” con il potere morbido.

Lo scontro armato ucraino-russo sembra segnare oggi il passaggio dal Soft Power all’Hard Power nel perseguimento delle rispettive ambizioni.

Lo scienziato Joseph Nye codificò la famosa distinzione tra due forme d’esercizio di Potere, descrivendo il Soft power come:

“la capacità di convincere per influenzare attraverso la cultura su valori ed idee”.

Contrariamente all’Hard Power che:

 “conquista e costringe con la forza militare”.

Nye aggiunge nella sua teoria che la miscela tra i due diversi esercizi di potere diventa Smart Power, capace di sviluppare una forza maggiore della loro semplice somma: questa potente forza può essere usata a fin di bene, ma anche per il male.   

Peter Van Ham – senior ricercatore esperto presso il “Clingendael Institute” per le Relazioni internazionali concentrato con la sua ricerca sulle questioni di sicurezza e difesa europea, sulle organizzazioni internazionali e sul futuro della governance globale – afferma:

  «ci stiamo rendendo conto che l’interventismo imperiale statunitense ha fondato le sue basi essenziali per costituire il suo nuovo ordine in una società post-moderna, evidenziando Azioni di Potere su ambedue i livelli, mediante strumenti che sono riusciti fino ad ora a trarre estremo beneficio nella loro efficacia ed efficienza nella loro interconnessione permanente e globale…»

Voglio riflettere dunque su questo tema, proprio con alcune delle parole del professore Van Ham riportate nella pubblicazione del 2005 “Power, Public Diplomacy, and the Pax Americana”.

Negli ultimi 17 anni il soft power esercitato dalle due nazioni si è oltremodo intensificato, così come altre potenze sono entrate prepotentemente in questi giochi globali di potere morbido, per promuovere le loro ambizioni.  

La Pax Americana

Come lo spettro della rivoluzione comunista di Marx, la possibilità di una Pax Americana sembra essere accolta da alcuni (noi: una minoranza dell’Umanità) con favore o guardata (dagli altri che compongono la maggioranza) con grande preoccupazione.

Alcuni Stati sostengono gli Stati Uniti perché li considerano un potere liberale particolarmente benigno, di cui condividono i valori e le politiche.

Altri si risentono del predominio del potere degli Stati Uniti, talvolta in maniera violenta.

Questi Stati infatti accusano gli Stati Uniti di voler assumere il ruolo di “Globocop”, impegnati in un gioco pericoloso e rischioso di ingegneria sociale globale.

L’argomento sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo non è mai stato più controverso come oggi.

 Sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti. Poiché gli Stati Uniti sono il “primus inter pares” all’interno della comunità internazionale e si considerano anche più che uguali degli altri, l’idea di ‘impero’ emerge come metafora e modello esplicativo.

La parola Impero si è rapidamente trasformato nella famigerata

e-word‘ della politica estera statunitense: oggetto di accesi dibattiti e, spesso, fraintendimenti.

L’invasione americana dell’Iraq e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein nel marzo 2003 hanno rafforzato l’immagine dell’unilateralismo statunitense guidato dalla realpolitik e basato sulla superiorità militare.

Washington sembra seguire il principio di Machiavelli secondo cui è molto meglio essere temuti che amati, e, meglio costringere che attrarre.

Tuttavia, come c’insegna la Storia, gli imperi non si basano esclusivamente, o principalmente, sull’esercizio del potere militare.

Al contrario, gli imperi hanno fatto affidamento un’ampia gamma di strumenti, incentivi e politiche per stabilire e mantenere il dominio, che vanno dalla persuasione politica e l’influenza culturale, alla coercizione e alla forza.

La maggior parte degli imperi ha ricercato il dominio piuttosto che il completo e diretto controllo all’interno dei territori loro dipendenti.

 E sebbene il potere militare (l’Hard Power) sia stato spesso determinante nella costruzione dell’impero, l’esercizio del potere morbido, il Soft Power, per attestare nell’immaginario dei popoli legittimità, credibilità, superiorità culturale e relativo dominio normativo, è stato essenziale per mantenere la regola.

Probabilmente, sia l’impero britannico che quello sovietico caddero in declino perché persero legittimità tra la loro stessa gente.

 All’interno dell’impero britannico, l’idea della ‘superiorità bianca’ non era più considerata credibile (come dimostrò il Mahatma Gandhi) e l’erosione dell’ideologia comunista portò alla sua definitiva decadenza sotto Mikhail Gorbachev, il quale si rese conto che nessun numero di carri armati poteva mantenere il controllo sovietico sui suoi paesi satelliti dell’Europa centrale.

Il potere imperiale si basa quindi su una miscela di dominio militare e legittimità offerta dall’ideologia, o religione.

 L’emergente Impero degli Stati Uniti persegue un modello simile.

 I responsabili politici di Washington, oggi soprattutto, vendono l’idea della leadership e dell’egemonia degli Stati Uniti come una manna dal cielo, una garanzia per la democrazia, la libertà e la prosperità, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per il mondo nel suo insieme.

Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel novembre 2003 affermò che:                    « (…) Libertà è sia il piano del Cielo per l’Umanità, sia la migliore speranza di progresso qui sulla Terra. . . Non è un caso che l’ascesa di così tante democrazie sia avvenuta in un’epoca in cui la nazione più influente del mondo era essa stessa una democrazia ».

Le parole di Bush implicherebbero l’assunto per cui ‘l’imperialismo statunitense’ non è solo da considerare altruistico, ma anche inevitabile.

 L’Impero” degli Stati Uniti non sarebbe una «mera ricerca di petrolio e di risorse, ma di libertà, … e coloro che si oppongono alla politica estera degli Stati Uniti o sono malvagi o sono male informati, poiché cercano di fermare la freccia unidirezionale del progresso del tempo»

Questa riflessione esamina due questioni.

 Innanzitutto, quali sono i presupposti normativi su cui si basa il discorso dominante dell’emergente Pax Americana?

Qual è la base normativa (o ideologica) dell’eredità imperialista statunitense?

Chiede anche come il soft power degli Stati Uniti sia stato strumentalizzato per la causa dell’imperialismo liberale dalla rivoluzione strategica dell’11 settembre.

 In secondo luogo, vuole esaminare il ruolo della diplomazia pubblica nel dibattito pubblico sul nascente impero degli Stati Uniti.

La diplomazia pubblica è ampiamente considerata uno strumento essenziale per conquistare i “cuori e le menti” del pubblico straniero, e per convincerli che i loro valori, obiettivi e desideri sono simili a quelli degli Stati Uniti.

 

Dall’11 settembre, l’amministrazione Bush ha quindi avviato una raffica di iniziative per ridefinire la percezione degli Stati Uniti da ‘un prepotente ad un egemone compassionevole’.

Ad esempio nel tentativo di influenzare positivamente il cittadino medio dei paesi musulmani, per aprire in particolare la cosiddetta ‘strada araba’, la diplomazia pubblica è considerata cruciale per esercitare l’ampio potere del soft power degli Stati Uniti.

Ciò perché l’argomento è che «milioni di persone comuni. . . hanno notevolmente distorto, ed accuratamente coltivato l’immagine degli [Stati Uniti], con immagini così negative, così strane, così ostili che si sta creando una giovane generazione di terroristi…»

La politica degli Stati Uniti nei confronti del mondo musulmano si basa sul presupposto che queste idee negative dovrebbero essere neutralizzate, e infine modificate con uno sforzo mirato di diplomazia pubblica.

Questo approccio è rapidamente diventato un elemento centrale della ‘guerra al terrore’ degli Stati Uniti.

Washington ora si rende conto che non puoi uccidere le idee con le bombe, per quanto queste possano essere guidate dalla precisione della tecnologia.

Ma come si può esercitare il soft power come diplomazia pubblica?

E quanto è importante la diplomazia pubblica per stabilire, o mantenere, l’impero liberale, noto anche come Pax Americana?

 Soft power, hard power e la ‘Nazione indispensabile’.

L’Impero è ovviamente un fenomeno complesso, informato dal potere, dagli interessi economici, nonché dalle idee culturali e religiose.

L’imperativo ‘promuovere il progresso’ è stato particolarmente forte.

Il famoso poema di Rudyard Kipling su quello che ha chiamato “il fardello dell’uomo bianco”, bene illustra questa missione civilizzatrice.

 Nella sua poesia, Kipling fece riferimento alle responsabilità dell’impero. Indirizzando la decisione degli Stati Uniti di entrare in guerra con la Spagna nel 1898.

Sebbene gli Stati Uniti siano stati determinanti nel ridurre i sistemi britannici, olandesi e altri sistemi imperiali alle modeste dimensioni che oggi sono, Washington ha sempre giustificato i propri interventi esteri nel modo classico imperiale, vale a dire come un esercizio di forza positiva.

Come scrive Max Boot in “The Savage Wars of Peace”, gli Stati Uniti sono stati coinvolti negli affari interni di altri paesi dal 1805 (molto prima della succitata famosa riflessione di Kipling).

Questa moltitudine di interventi spesso piccoli – che iniziò con la spedizione di Jefferson contro i Pirati barbareschi, e fu seguita da piccole guerre imperiali dalle Filippine alla Russia – ha svolto un ruolo essenziale nell’affermazione degli Stati Uniti come potenza mondiale.

Ideologicamente, queste così tante guerre sono state, tra le altre motivazioni,  giustificate dal cosiddetto “Corollario Roosevelt alla Dottrina Monroe” degli Stati Uniti, che affermava :

 «… il male cronico, o un’impotenza che si traduce in un generale allentamento dei legami della società civile, . . . alla fine richiedono l’intervento di qualche nazione civile».

 Questo è anche lo sfondo storico della “dottrina Bush” che richiama all’azione preventiva militare, che venne proposta nella “Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” del 2002, e che dimostra che l’invasione e la liberazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti ha in effetti un lungo pedigree.

Tuttavia, oggi, nessun politico statunitense andrebbe a verbale sostenendo che Washington ha in effetti esplicite ambizioni imperiali.

 Nel gennaio 2004, il vicepresidente Dick Cheney affermò che gli Stati Uniti non sono un impero, poiché : «  … [se] fossimo un impero, attualmente presiederemmo un pezzo di superficie terrestre molto più grande di quello che effettivamente facciamo. Non è questo il modo in cui operiamo».

Ma, come accennato in precedenza, la storia degli Stati Uniti ovviamente ha sfumature più imperialiste di quanto l’immagine di sé degli Stati Uniti vorrebbe accettare.

Anche il ruolo degli Stati Uniti in Europa durante la Guerra Fredda è stato oggetto di accesi dibattiti:

negli anni ’80 Geir Lundestad ha etichettato l’Occidente controllato dagli Stati Uniti come un “impero su invito”. 

Mentre Paul Kennedy vide gli Stati Uniti in declino a causa della “estensione eccessiva dell’impero”.

Si potrebbe dunque definire gli Stati Uniti come un ‘Impero in negazione’, o, in mancanza di un nome migliore, un ‘Impero liberale’.

Chiaramente, i tempi di un impero formale sono morti.

Il controllo fisico, diretto di territori al di fuori del proprio – tranne che applicato come espediente temporaneo in risposta a delle crisi (come accaduto in Afghanistan e in Iraq) – è quasi sempre un peso, piuttosto che un vantaggio.

Quindi, potrebbe essere possibile riconoscere gli Stati Uniti e la sua sfera di influenza come un Impero, ma al contempo negare che gli americani siano imperialisti.

Tuttavia, i nudi fatti devono essere riconosciuti:

gli Stati Uniti sono l’unica nazione che controlla il mondo attraverso cinque comandi militari globali; mantiene più di un milione di uomini e donne sotto le armi in quattro continenti; schiera gruppi di portaerei di guardia in ogni oceano; garantisce la sopravvivenza di diversi paesi, da Israele alla Corea del Sud; guida le ruote del commercio e del commercio globale; e riempie i cuori e le menti di un intero pianeta con i suoi sogni e desideri.

 Inoltre, Washington definisce l’agenda economica, politica e di sicurezza globale.

 Se non è questo un impero formale, assomiglia sicuramente ad una Pax americana.

Questo implica il tentativo che il sistema internazionale contemporaneo stia cambiando da una struttura anarchica a una gerarchica.

Con gli Stati Uniti saldamente al comando.

Ma come le potenze imperiali del passato, questa nuova gerarchia guidata dagli Stati Uniti non si basa solo sul potere militare, ma anche su una nuova struttura narrativa.

La domanda chiave dunque da porci è:

quali presupposti normativi sono alla base del discorso di una emergente Pax americana?

Gli Stati Uniti seguono una politica a doppio binario, utilizzando sia mezzi performativi (persuasivi) che discorsivi. 

Il lato performativo riguarda il comportamento degli Stati Uniti, in particolare la lunga tradizione dell’interventismo che gli conferisce la reputazione e l’aura di maschilismo basato su una mentalità “we can do”.

Assumendosi la responsabilità di poliziotto globale, gli Stati Uniti si affermano de facto come “primus inter pares”, come “più uguali degli altri” e come “leader del mondo libero”.

 Inoltre, la tradizione statunitense di intervento militare la distingue dai suoi alleati occidentali, come l’Unione Europea.

La “guerra al terrore” degli Stati Uniti hanno offerto a Washington i massimi margini di manovra per una vigorosa campagna di imperialismo liberale.

 Il presidente Bush ha indicato che i terroristi sono ovunque e da nessuna parte. Quindi, la “guerra al terrore” degli Stati Uniti

 «… non finirà finché ogni gruppo terroristico di portata globale non sarà stato trovato, fermato e sconfitto… Da questo giorno in poi, qualsiasi nazione che continua a nutrire o sostenere il terrorismo sarà considerata dagli Stati Uniti Gli Stati come regime ostile».

Come dimostra la guerra contro l’Iraq, questo non è solo un processo discorsivo, ma anche performativo.

 Imbarcandosi in questa “guerra al terrore”, gli Stati Uniti hanno approfittato dell’11 settembre per ampliare la portata della loro portata egemonica, utilizzando la giustificata causa della lotta al terrorismo internazionale per ottenere un momento di sostegno critico, rendendo necessario e più facile per le élite promuovere idee diverse sull’ordine politico e sul ruolo del proprio stato in una nuova costellazione di potere.

Come indica il “Corollario di Roosevelt”, in generale i leader statunitensi considerano gli interventi statunitensi moralmente giustificati e tutt’altro che frivoli o egoistici.

Il discorso condiviso sull’intervento degli Stati Uniti si concentra sulla loro legittimità, derivata dalla comprensione che le azioni militari degli Stati Uniti garantiscono l’ordine internazionale.

 Gli Stati Uniti si considerano come il “prestatore di un’ultima istanza” della legge e dell’ordine all’interno del sistema internazionale, fornendo il bene pubblico della sicurezza per tutti, anche per i free-rider critici.

 L’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright definì gli Stati Uniti la “nazione indispensabile”, l’unico stato che abbia sia la potenza militare che la volontà politica per svolgere il ruolo di egemone benigno, offrendo stabilità, prevedibilità e trasparenza. 

Gli interventi e le guerre militari statunitensi – siano state combattute in Corea negli anni ’50, in Vietnam negli anni ’70 o in Iraq negli anni ’90 – vengono spesso proposte per confermare questo ruolo fondamentale.

Usare la guerra per rafforzare, o addirittura alterare, l’identità di uno stato non è una novità.

 Come sostiene Erik Ringmar (prendendo come case study gli interventi della Svezia durante la Guerra dei Trent’anni)

«… gli Stati possono combattere guerre principalmente per ottenere il riconoscimento di un’identità diversa, da prendere “seriamente” come una grande potenza, piuttosto che per obiettivi, razionali, ragioni realiste di precostituiti interessi nazionali.

La guerra – vinta, persa o semplicemente subita – spesso pone gli Stati di fronte a una nuova realtà politica, facendo apparire ragionevole, quasi naturale, un commisurato mutamento identitario …»

Significativi esempi europei sono il cambiamento dell’identità nazionale della Germania dopo la seconda guerra mondiale, l’identità postcoloniale del Regno Unito dopo la dissoluzione del suo impero, così come, più recentemente, il passaggio della Russia verso un’identità post-imperiale dopo la fine della Guerra Fredda e il termine di un momento critico durato 50 anni, rendendo necessario e più facile per le élite promuovere idee diverse sull’ordine politico e sul ruolo del proprio stato in una nuova costellazione di potere.

Le guerre successive all’11 settembre in Afghanistan e Iraq hanno confermato il ruolo degli Stati Uniti di egemone globale.

 La politica estera degli Stati Uniti si basa sul presupposto che la sua potenza militare e il coraggio di utilizzarla effettivamente gli offrano lo status e la credibilità che costituiscono la base stessa dell’ampio soft power degli Stati Uniti.

 

Sebbene spesso si sostiene che l’hard e il soft power siano giustapposti, come se la durezza del pugno sminuisse l’attrattiva della mano, in effetti, nel caso di specie della Pax Americana, si potrebbe ben sostenere che l’hard e il soft power degli Stati Uniti sono dialetticamente correlati:

l’interventismo statunitense richiede il mantello della legittimità morale, o del diritto internazionale, e senza di esso la coercizione provocherebbe troppa resistenza e sarebbe allo stesso tempo troppo costosa e in definitiva insostenibile;

viceversa, il soft power richiede le risorse e l’impegno necessari per tradurre le parole nei fatti.

 L’imperialismo liberale degli Stati Uniti richiede sia il potere duro che quello morbido.

L’attuale politica estera degli Stati Uniti si basa quindi sul presupposto che senza l’hard power degli Stati Uniti e il suo status di “unica superpotenza rimasta al mondo”, l’efficacia del suo soft power si ridurrebbe prontamente.

Senza hard power, l’attrattiva si trasforma in “shadow-boxing” e, nel peggiore dei casi, in “political bimboism”.

Nel mondo di oggi, solo le parole non affondano più le navi.

 Invece, quando leggiamo le labbra del presidente Bush, siamo ben consapevoli dell’immensa macchina militare che sostiene le sue parole.

(Ho tradotto ed adattato la riflessione sulla Pax americana da: “Power, Public Diplomacy, and the Pax Americana“di Peter van Ham, in “The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations” (2005) edited by Jan Melissen; Palgrave MacMillan.

Vittorio Alberto Dublino).

 

 

 

Soft power, ovvero come conquistare

il mondo senza l’uso delle armi.

Linesistente.it - Adriano Soldi – (12 Luglio 2021) – ci dice:

 

 L’America è lontana, dall’altra parte della luna, scriveva Lucio Dalla nel 1979 insieme agli altri versi di Anna e Marco.

 In quegli anni sicuramente l’America, implicitamente intendendo quella del nord, appariva ancora come qualcosa di lontano ed inarrivabile e forse proprio per questo particolarmente attraente.

Forse esisteva ancora il sogno americano condito da palazzoni moderni, dalle luci scintillanti dei cartelloni pubblicitari e delle vetture quasi futuristiche.

 Un immaginario complessivo che si discostava nettamente da un’Europa che allora appariva più invecchiata di oggi e che è durato per tutta la metà del novecento.

Un mondo, quindi, che ancor prima che arrivasse internet ci giungeva soltanto tramite immagini, per lo più cinematografiche, in grado di farci immaginare il nuovo continente come una sorta di paradiso del futuro, in cui ogni cosa, letteralmente, arrivava prima che da noi. In un certo senso, possiamo definire in questo modo il soft power, ma andiamo per ordine, perché è molto di più.

Conquistare con la cultura, non con le armi: cos’è il soft power.

La prima apparizione di questo termine avviene al termine degli anni 80, nel saggio “The Mean to Success” in “World Politics” del professore” Joseph Nye”.

L’accademico utilizza l’espressione per mostrare in che modo si potrebbe aver successo nella politica estera, abbandonando chiaramente le dinamiche violente che avevano caratterizzato tutto il secolo.

 Secondo “Nye” il potere consiste nella capacità di far fare agli altri ciò che chi lo possiede vorrebbe facessero.

 Fino ad allora, come ben sappiamo, la conquista di questa capacità era avvenuta tramite la violenza, rappresentata al meglio dalla seconda guerra mondiale, ma forse ancor di più dalla guerra in Vietnam, che mostrò al mondo come gli Stati Uniti non fossero più l’unica potenza mondiale.

Un problema che negli anni successivi si ripropose in maniera ancora più determinante, considerando il potere della globalizzazione e lo sviluppo rapido che anche altri paesi avevano conosciuto.

 In un contesto simile, dunque, non più armi, ma fascinazione ed attrazione politica e culturale verso i propri interessi.

Tale strategia consente di portare dalla propria parte stati minori, ma soprattutto di guidarli direttamente o meno nella stessa direzione dei propri obiettivi.

Il caso americano.

Quello degli Stati Uniti è un caso particolarmente interessante di soft power, poiché ci permette di guardare al fenomeno sia sul piano delle relazioni internazionali, sia su quello della vita quotidiana, ma non solo.

 Osservando ancor prima la storia interna del paese, possiamo notare come il processo abbia coinvolto prima le popolazioni già presenti all’interno dei confini nazionali, per poi attraversare l’oceano.

In sociologia, tale fenomeno ha un nome preciso: americanizzazione.

Questa è avvenuta in due fasi distinte della storia.

 La prima si è concretizzata nel periodo della prima guerra mondiale, quando la cultura americana è riuscita ad assorbire gran parte delle numerose etnie presenti sul proprio territorio, specialmente quelle europee.

La seconda si ha invece dopo la seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti potevano contare su una grandissima disponibilità economica, ma soprattutto non avevano la necessità di ricostruire un intero paese devastato dai conflitti, presentandosi dunque ai più piccoli stati europei come una sorta di paradiso futuristico, non a caso quello richiamato nell’introduzione.

In questo secondo frangente, tuttavia, in Europa soprattutto c’era un grande freno che non consentiva agli USA di penetrare tutti i confini nazionali, ovvero la cortina di ferro, dopo la caduta della quale gli Stati Uniti sono riusciti ad imporre un controllo egemone, basti pensare allo stile di vita occidentale, con i suoi brand, che ha invaso l’ex Unione Sovietica in pochissimo tempo.

 

Restringendo l’attenzione alla nostra piccola Italia, basta osservare il passaggio cruciale degli anni 80, in cui si assiste ad un cambiamento drastico, anche da un punto di vista estetico, dello stile di vita dei cittadini, che hanno sposato quasi interamente l’edonismo a stelle e strisce.

 Non è un caso che proprio in quel periodo storico arrivò in Italia una serie di prodotti televisivi d’oltreoceano, come Dallas, che hanno invaso le tv presenti in ogni casa italiana, fornendo una nuova prospettiva dopo i terribili anni 70.

Da lì in poi la televisione sarebbe cambiata, abbandonando un modello di mezzo culturale, in particolar modo nel servizio pubblico, favorendo invece un tipo di intrattenimento leggero, caratterizzato da risate senza impegno ed un abbigliamento decisamente meno istituzionale, tanto per citare due criteri.

Il soft power della Cina.

Nel corso del ventesimo secolo, in maniera sempre più profonda lo stile di vita americano ha penetrato l’Italia e l’Europa intera, rendendo i due continenti sempre più vicini.

Non sono stati però soltanto gli Stati Uniti a conquistare altri paesi senza l’uso della forza fisica.

Al fianco di quella che per anni è stata per definizione la potenza mondiale, infatti, è giunta poi anche la Cina.

Con la crisi del 2008 e con la scoperta, nel corso degli anni, delle ingerenze statunitensi nella politica degli altri paesi, con mezzi e dinamiche di certo non legali, il sogno americano è tramontato.

In uno scenario del genere solo un’altra potenza mondiale ha avuto la stessa forza di imporsi globalmente, la Cina, la quale ha però dovuto fare i conti con una reputazione non ottima, specialmente se si considera la distanza a livello culturale e sociale con il mondo occidentale.

 Per riuscire a conquistare l’altra parte del mondo il governo comunista ha obbligatoriamente dovuto intervenire per ripulire la propria immagine e mostrarsi al mondo nel miglior modo possibile.

Per fare ciò, quale migliore via del soft power?

 

Oltre alle differenze culturali, però, il Partito Comunista Cinese deve tutt’ora fare i conti con importanti criticità interne che continuano a macchiare l’immagine pubblica del paese agli occhi degli altri paesi.

 Al primo posto delle difficoltà c’è senza dubbio la questione dei diritti civili, che comprende il rispetto dei diritti umani della popolazione cinese, ma anche il rapporto con altre comunità, come quella del Tibet o il controllo autoritario su Hong Kong.

Non secondarie, poi, sono le controversie ambientali, poiché la Cina è sì diventata una potenza mondiale, ma per farlo in così breve tempo ha dovuto pagare un grandissimo costo in termini di inquinamento, tema che tutt’ora pare non essere particolarmente a cuore alle autorità cinesi.

Tuttavia, è proprio tramite l’inosservanza di questi due aspetti che il paese è riuscito a diventare una potenza economica mondiale, divenendo a tutti gli effetti, la fabbrica del mondo.

 Nel momento in cui il governo comunista ha però voluto alzare la testa a livello mondiale, mostrando la propria parte migliore agli occhi di tutto il mondo, ha dovuto costruire una propaganda ancor più difficoltosa di quella portata avanti dagli Stati Uniti, poiché aveva come obiettivo l’esportazione di un sistema di valori che mal si concilia con lo stile di vita occidentale e che comunque non può in alcun modo nascondere tutti gli aspetti controversi.

Hanno fallito entrambe?

Come abbiamo visto, il sogno americano è andato in frantumi ormai da anni.

Gli Stati Uniti non sono più la potenza mondiale dalla crescita inarrestabile:

 la crisi economica del 2008 ha messo in ginocchio prima il paese e poi il mondo intero, che a quell’universo di sogni e ricchezze spropositate era inevitabilmente legato.

 Il colpo finale è stato poi inflitto da Donald Trump, che ha basato la sua intera campagna elettorale su un messaggio che poneva il proprio paese al primo posto, con l’intento esplicito di non curarsi degli altri se non nei casi in cui questi rappresentassero un interesse diretto per l’America.

Infine, la pandemia ha senza dubbio messo in luce come gli Stati Uniti soffrano delle stesse debolezze degli altri stati, mostrando agli occhi di tutto il mondo una gestione della crisi a dir poco fallimentare che ha causato migliaia e migliaia di morti.

Sulla Cina ci sarebbero anche poche parole da spendere in merito all’impatto che il Covid ha avuto sulla sua immagine internazionale, che peraltro continua a peggiorare a causa della scarsa collaborazione da parte del governo in merito alle indagini relative all’origine della pandemia.

Oltre a ciò, però, sulla potenza asiatica hanno di certo impattato le relazioni internazionali.

Il paese non è infatti famoso per l’ottima diplomazia e in più di un’occasione non ha mancato di mostrare i propri muscoli, passando così agli occhi di tutto il mondo da paese in via di sviluppo alla nuova potenza mondiale in grado di soppiantare gli Stati Uniti.

In un contesto simile, dunque, entrambe le potenze sono in realtà uscite sconfitte o indebolite dalla pandemia, almeno dal punto di vista diplomatico.

Chi vince oggi?

Se fare il conto della forza militare di una nazione non è affatto complicato, poiché concretamente basta rilevare il numero delle forze fisiche su cui questa può contare, è invece molto più complesso decretare la potenza del soft power di quel paese.

“Brandirectory” ogni anno stila un report grazie al quale è possibile compilare una sorta di classifica del ranking basato sul soft power dei paesi di tutto il mondo.

Il report 2020, come per gli altri anni, valuta diversi parametri in base ai quali calcolare l’effettivo ranking degli stati.

Anche in questo caso, dunque, sono stati presi in considerazione: Business & Trade, Governance, Internazional Relations, Culture & Heritage, Media & Communication, Education & Science, People & Values.

In base a questi parametri al primo posto della classifica ci sono gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Regno Unito, Giappone e Cina.

 Quest’ultima, dunque, pare non riesca ad arrivare agli USA, che nonostante nel report precedente non fossero più al primo posto, sono riusciti a riconquistare la vetta della classifica, mentre altre nazioni europee come Germania e UK stanno facendo la grande scalata (nel 2019 la Francia, con grande sorpresa per tutti, era riuscita a conquistare il più alto gradino della vetta).

 

 

 

La “Mission Impossible”: convincere

gli indecisi ad andare a votare.

Corriere.ca - Francesco Veronesi – (10 September 2021) – ci dice:

 

TORONTO - A dieci giorni esatti dalle elezioni è iniziata la grande sfida tra i partiti per convincere gli indecisi.

 Una fetta dell’elettorato ancora molto cospicua, come confermano gli ultimi sondaggi, una fascia che alla fine dei conti potrebbe spostare definitivamente gli equilibri e i rapporti di forza tra le formazioni politiche.

Certo, dopo il dibattito in francese di mercoledì e quello in inglese di ieri sera, bisognerà aspettare ancora un po’ per tastare il polso dell’elettorato e vedere se i confronti televisivi avranno avuto la forza di cambiare le carte in tavola.

Nel frattempo però la” Ipsos”, nella sua ultima rilevazione demoscopica, ha scoperto che in questo momento il 13 per cento degli elettori intenzionati ad andare alle urne il prossimo 20 settembre non ha la minima idea su quale partito dirottare la propria preferenza.

Andando a snocciolare i dati dell’istantanea scattata dalla “Ipsos”, si scopre che all’interno della fascia degli indecisi quasi la metà - il 47 per cento - ha un’opinione negativa di tutti i partiti in corsa.

Ma non solo.

Il 50 per cento esatto del campione ritiene che in questo momento non dovrebbero esserci le elezioni:

 nel bel mezzo della quarta ondata della pandemia, con la minaccia costituita dalla variante Delta del Covid e dai nuovi ceppi potenzialmente ancora più contagiosi, con l’economia che ancora stenta dopo la crisi vissuta negli ultimi 18 mesi, i cittadini hanno altre preoccupazioni rispetto a seguire la campagna elettorale e a recarsi alle urne.

Questo dato, che è rimasto consistente per buona parte della campagna elettorale, potrebbe alla fine portare a delle conseguenze negative - e inaspettate fino a poco tempo fa - per il primo ministro uscente Justin Trudeau.

Da un lato esiste la possibilità che una porzione dell’elettorato liberale decida di disertare le urne il 20 settembre, dall’altro è possibile che gli indecisi alla fine decidano di punire proprio il leader liberale che, nonostante la contrarietà degli altri leader di partito, ha forzato la mano e ha portato il Paese alle elezioni anticipate.

Ma quali sono le principali preoccupazioni degli indecisi?

Stando al sondaggio “Ipsos”, le priorità riguardano la pandemia, il sistema sanitario in generale, seguiti dalla generalizzata crescita del costo della vita.

 Il 78 per cento del campione, inoltre, non sa identificare il partito che nel suo programma ha il piano migliore per gestire la fase post-pandemica in Canada.

Insomma, a dieci giorni dal voto la parola d’ordine è sempre la stessa: incertezza.

Gli ultimi sondaggi, realizzati alla vigilia del dibattito in francese, confermano come vi sia un testa a testa tra il Partito Conservatore - in leggero vantaggio - e il Partito Liberale, con l’Ndp costantemente ancorato al 20 per cento, il Bloc Quebecois che tiene nella provincia francofona, i Verdi attorno al 5 per cento e il People’s Party di Maxime Bernier in continua ascesa.

A questo punto, quindi, la vera partita si giocherà a livello locale, in quei distretti chiave che potrebbero costituire il vero ago della bilancia per il risultato finale.

Per ora la crescita di Erin O’Toole ha subito un rallentamento, mentre Trudeau è stato in grado di frenare la caduta libera del partito registrata negli ultimi dieci giorni.

Un dato assodato, se i rapporti di forza dovessero rimanere invariati, è che anche il prossimo governo federale non potrà contare sul sostegno di una maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni.

Stando ai dati di ieri di “338canada.com”, il Partito Liberale nelle intenzioni di voto è nettamente in testa in 139 circoscrizioni elettorali, mentre i conservatori sono in vantaggio in 138 distretti federali.

 La prospettiva di crescita, calcolata da “338canada.com” sulla base dei collegi elettorali dove è corsa a due tra i candidati” grit e tory”, conferma l’imprevedibilità dell’esito finale.

 I liberali potrebbero conquistare altri 46 seggi, i conservatori potrebbero portare a “Parliament Hill” altri 40 deputati.

 

 

 

 

Elezioni, Letta a Sky TG24: "Non possiamo

permetterci di mandare Draghi in pensione"

tg24.sky.it – (01 set. 2022) – Letta – ci dice:

Il segretario del Partito Democratico è stato ospite di Casa Italia, il programma condotto da Fabio Vitale e dedicato al voto del 25 settembre.

Tanti i temi dell’intervista, tra cui lo scostamento di bilancio:

“Penso che si possa evitare grazie a un intervento europeo”.

Sul piano Cingolani per risparmiare energia: “Misure utili, le sosterremo”.

Sui rigassificatori a Ravenna e Piombino: “Devono essere fatti”.

Infine, sul futuro del premier: “Sono convinto che giocherà un ruolo importante per il Paese anche dopo”

VERSO IL VOTO: LO SPECIALE DI SKY TG24 - TUTTI I VIDEO - LE NEWS IN DIRETTA.

Presenti anche i giornalisti Maria Latella e Ferruccio de Bortoli.

E sul futuro di Mario Draghi: “Non possiamo permetterci di mandarlo in pensione. Sono convinto che giocherà un ruolo importante per il Paese anche dopo.

 

In apertura d’intervista, Letta ha sottolineato: un sondaggio recente "ci dà come primo partito tra i 18-24enni.

Per me questa è la più grande soddisfazione.

 Cerco di parlare a loro, a questa nuova generazione, in particolare di ambiente e diritti.

 Sono convinto che loro saranno uno dei punti di cambiamento di questa campagna elettorale”.

Sempre sui giovani, alla domanda se la complicata legge elettorale non allontani dal voto, il segretario del Pd ha risposto:

 “L'attuale legge elettorale è pessima, è uno dei più grandi problemi, abbiamo tentato di cambiarla ma purtroppo noi eravamo minoranza e non ci siamo riusciti.

Ma oggi sono due le grandi questioni su cui i ragazzi parlano una lingua totalmente diversa dalla nostra e credo che su questi due grandi temi, che sono l’ambiente e i diritti, la differenza tra il centrodestra e il centrosinistra è quanto di più marcato”.

“Se vincessimo noi – ha detto Letta – sia sull’ambiente sia sui diritti il nostro Paese farebbe passi avanti importanti in chiave europea.

Se vincesse la destra, la destra è negazionista sulla questione ambientale, ha votato contro tutte le misure a livello europeo che sono state introdotte per ridurre le emissioni e anche le misure compensative, come la carbon tax.

 E sulla questione dei diritti è bastata la frase di Salvini dell’altro giorno, che ha detto:

‘Il mio modello di famiglia è quello ungherese portato avanti da Orban’.

 Sono due questioni in cui è 'o di qua o di là' e io credo che i giovani ventenni saranno molto sensibili ai nostri argomenti”.

Poi si è passati al tema del risparmio energetico, con il piano a cui sta lavorando il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani.

“Sono prime misure importanti – ha detto Letta –. Credo che siano utili, quindi noi le sosterremo.

Ma accanto a questo c’è bisogno d’intervenire economicamente sia sul tetto europeo che su quello nazionale, sulle bollette, sul disaccoppiamento tra elettricità prodotta da rinnovabili e prodotta da gas e poi sulla questione del credito d’imposta per evitare il salasso e il tracollo delle nostre imprese e delle nostre famiglie”.

“Penso che si possa, grazie a intervento europeo, evitare scostamento di bilancio in Italia”.

Letta ha parlato anche del tema scostamento di bilancio.

“La questione dell’aumento delle bollette è diventata talmente clamorosa che non potrà che esserci una posizione europea.

Il 9 settembre s’incontrano e da quello che mi risulta, sia in Germania che in Francia che negli altri Paesi europei, c’è la necessità di un intervento che sia collettivo, complessivo.

Quindi io penso che si possa, grazie a questo intervento europeo, evitare di dover mettere mano a uno scostamento di bilancio in Italia”, ha detto.

E ancora: “Lo scostamento di bilancio è l’intervento di ultima risorsa, che non si può completamente escludere ma che non deve essere la via maestra, perché vuol dire fare debito in più.

 Le bollette non sono sostenibili per imprese e famiglie, c’è una situazione abnorme.

 La mia impressione è che la via maestra sia quella di intervenire in modo molto netto sul disaccoppiamento tra fonti rinnovabili e gas”.

"Sull'energia c'è chi sta facendo guadagni abnormi", ha ribadito Letta.

Si è parlato anche di rigassificatori.

“I due rigassificatori a Ravenna e a Piombino devono essere fatti, perché il nostro Paese è in una situazione di penuria che necessita due rigassificatori per far arrivare gas da fonti diverse”, ha detto Letta.

 E su Piombino ha aggiunto: “Bisogna avere rispetto della popolazione e della città, per via del passato siderurgico che ha stravolto quel territorio. Quel territorio aspetta risposte che non sono arrivate, ad esempio sulle bonifiche”.

Letta, tra le altre cose, ha ribadito “l’unità del Partito democratico”.

Poi ha ricordato:

“Noi chiamiamo il voto utile, per evitare che i collegi uninominali siano in gran parte vinti dal centrodestra”.

E ha parlato di questa “campagna elettorale di corsa”:

“Tre settimane per convincere gli italiani e far girare i sondaggi.

Noi ci impegniamo per convincere gli astensionisti, gli indecisi e mettere in capo i giovani, che son convinto saranno il nostro valore aggiunto”.

È tornato anche sulla caduta del governo Draghi:

“Una crisi talmente folle, gestita e creata improvvisamente con una contraddizione e una irresponsabilità da parte di tre partiti che hanno voluto far cadere il governo: Conte e i 5 stelle in primis, poi Berlusconi e Salvini.

 È stato un danno gravissimo per il Paese.

Noi siamo stati tra i grandi partiti i più lineari di tutti, abbiamo sempre sostenuto il governo e mai votato contro.

 L’abbiamo sostenuto anche in quel passaggio.

Oggi vorremmo portare avanti la gran parte di quelle misure che il governo voleva introdurre sull’attuazione del Pnrr”.

Sul Pnrr ha aggiunto: “I fondi europei non vanno rinegoziati ma applicati”.

Parlando del governo Draghi, Letta ha detto ancora:

“Riconfermerei i ministri del Pd.

 Non mi metto a dare voti ai ministri tecnici, ma hanno fatto tutti un ottimo lavoro.

Questo è stato un ottimo governo, che ha fatto molto bene. Ed è irresponsabile quello che Conte, Salvini e Berlusconi hanno fatto”.

Sul ruolo futuro di Mario Draghi, ha dichiarato: “Non credo che ci possiamo permettere di mandarlo in pensione, sono convinto che giocherà un ruolo importante per il nostro Paese anche dopo”.

 

 

 

Nella Mente di Putin.

Medium.com – Michele Putrino – (2 gennaio 2021) – ci dice:

Quando si cerca di analizzare le motivazioni reali che spingono un determinato personaggio a compiere delle azioni e ad agire in un determinato modo, niente deve essere lasciato al caso e, soprattutto, è bene mettere da parte qualsiasi convinzione o preconcetto che può risiedere in ognuno di noi e cercare di svolgere un’analisi il quanto più tecnica e accurata possibile.

Ciò vale in particolar modo quando questo personaggio si chiama Vladimir Putin.

Per svolgere questa analisi utilizzeremo quattro “strumenti” che, a mio parere, possono far emergere la vera “natura” di un individuo, e cioè:

 1) individuare le motivazioni reali che spingono una persona a fare quello che fa; 2) evidenziare il suo modo di comunicare e, quindi, l’approccio utilizzato per persuadere gli altri ad appoggiarlo;

 3) far emergere le tecniche di leadership usate (che possono andare dal soft al hard);

4) osservare il suo linguaggio del corpo al fine di cercare di comprendere “cosa pensa veramente” al di là di ciò che dichiara verbalmente.

 Ripeto, qui non si tratta di dare nessun tipo di “giudizio”, né di carattere politico né, tanto meno, di tipo “morale”: si tratta semplicemente di cercare di osservare, nella maniera più logica possibile, un determinato personaggio, proprio come un novello scienziato cerca di comprendere il funzionamento della natura con gli strumenti che ha a disposizione.

Fatta questa doverosa premessa, passiamo all'azione.

Punto 1: Perché fa quello che fa?

Se ascoltiamo una serie di dichiarazioni rilasciate, emerge chiaramente che ci troviamo di fronte a un personaggio molto nazionalista, fortemente conservatore e molto ambizioso, tutte cose abbastanza evidenti.

Ciò che caratterizza Putin però è il fatto che, a un occhio allenato ad osservare alcune caratteristiche, appare evidente che conosce bene le “regole” del potere e, quindi, che compie consapevolmente la scelta di essere “nazionalista” e “conservatore”, in quanto sa che per creare una “squadra vincente” è necessario sentirsi “sotto lo stesso tetto”, con uno o più nemici da combattere (pensate a una squadra di calcio:

non ci sarebbe senso di appartenenza, voglia di mettersi in gioco e nemmeno il semplice tifo senza dei “colori” con cui identificarsi e senza una squadra avversaria);

 allo stesso tempo è cosciente del fatto che sentirsi legati a delle radici e a dei costumi fa sentire come sorretti e facenti parte di qualcosa di più grande rispetto a ciò che si vive nell'immediato presente (ecco perché, ancora, sia nello sport che in qualsiasi altra attività sociale umana, ci si identifica con il “noi” anche a cose che risalgono a epoche in cui di “noi” non c’era neppure l’idea).

 È possibile comprendere questa sua natura da “giocatore” — oltre che dall'osservazione attenta di ogni sua dichiarazione — ascoltando un’intervista rilasciata subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica:

dopo aver definito il comunismo praticamente un’utopia che andava cancellata già molto tempo prima, fa capire che l’unica cosa che conta veramente è che la Russia sia “grande” (per comprendere ulteriormente questo concetto, si legga il testo dell’inno russo che non a caso è stato voluto da Putin stesso sulla musica del vecchio inno sovietico).

Tutto ciò perché quando ci si sente parte di qualcosa di “grande”, l’individuo stesso si sente “grande”.

Punto 2: Come ha fatto a convincere così tanta gente?

Lo stile di Putin è asciutto e molto diretto.

 Evita accuratamente qualsiasi giro eccessivo di parole cercando di andare dritto al punto.

 Questo modo di parlare normalmente è molto apprezzato dal popolo — che pretende semplicità e chiarezza –, mentre è di solito del tutto evitato dai politici occidentali.

Ciò però non deve portare a vedere Putin come un “uomo rozzo” (come troppo spesso accade, seppur in maniera sottile, in occidente), poiché anche in questo caso è ben cosciente della finalità dello stile utilizzato, tant'è che quando si trova a essere intervistato da giornalisti occidentali tende a modificare il suo “stile” (anche se in un modo così forzato da essere “tradito”, come vedremo nel punto 4, dal suo linguaggio del corpo).

Inoltre le sue dichiarazioni fanno spesso riferimento, in un modo più o meno intenso, ad argomenti di tipo militare, stimolando così ulteriormente il senso di grandezza e di potenza su cui cerca chiaramente di fare leva.

Punto 3: Qual è il suo approccio alla leadership?

Anche in questo caso, al contrario di quello che si pensa, Putin non ha un approccio da “padrone-servitore”:

 al contrario, molto spesso si definisce “vostro umile servitore” quando si riferisce al suo popolo e, allo stesso tempo, si mette dalla parte e in difesa dei “popoli oppressi” quando parla nelle assemblee internazionali.

Naturalmente ciò non significa che creda che il mondo debba essere composto da popoli tutti “ugualmente importati” (al contrario, come abbiamo visto, per lui la Russia deve essere “grande” e, affinché qualcosa sia “grande”, qualcos'altro deve essere “piccolo”), ma semplicemente che sa bene che la leadership ha diversi livelli di gestione:

quando si è “in basso”, per poter “salire” bisogna convincere quelli che sono ancora più in basso a ribellarsi contro chi comanda.

 Inoltre, da persona molto pragmatica, non si limita a utilizzare soltanto il soft power ma anche — soprattutto negli ultimi tempi — l’hard power (e quando quest’ultimo è messo in pratica sembra quasi sentire echeggiare, come un sussurro, le parole di Machiavelli: «Cum parole non si mantengono li stati»).

Punto 4: Cosa ci dice il suo linguaggio del corpo?

Ovviamente sul linguaggio del corpo di un personaggio così particolare ci sarebbe veramente tanto da dire.

Quello che però salta di più all'occhio è questo:

quando è intervistato da giornalisti occidentali per un tempo relativamente lungo, tende molto spesso a inarcare le spalle, a ingobbire la schiena, ad appoggiarsi sul lato destro o quello sinistro e a muovere molto i piedi, tutti chiari segni di disagio.

Disagio confermato da un modo di parlare molto indeciso, da uno sguardo spesso rivolto verso il basso e dal rossore del viso.

Allo stesso tempo, però, tende a tenere le gambe ben aperte, chiaro simbolo del fatto che non teme i suoi interlocutori.

 In sostanza, dal suo linguaggio del corpo in queste situazioni si capisce che non ha “paura” dell’intervista e del giudizio dei suoi intervistatori ma che semplicemente fa molta fatica a trovare le giuste parole al fine di non apparire come “cattivo” agli occhi del popolo occidentale.

Quando, invece, si trova a parlare al suo popolo — o in dichiarazioni ufficiali dove rappresenta gli interessi e l’“orgoglio” della Russia — il suo atteggiamento corporeo appare completamente diverso:

sguardo fisso in avanti, spalle e schiena dritta, viso asciutto e parole ben scandite e chiare.

Ergo, non teme di apparire come uomo molto “determinato” e deciso quando si rivolge alla propria gente — e agli altri leader mondiali –, mentre cerca di dare un’immagine di sé molto più “soft” al popolo occidentale.

Insomma, Vladimir Putin appare come un uomo di potere molto diverso da quelli a cui siamo abituati in occidente, e di certo in futuro sarà sempre più presente nello scacchiere mondiale.

Per il resto, lascio a voi ogni giudizio e conclusione.

(Michele Putrino).

 

 

 

 

La Costruzione dello Stato di biosicurezza

in Italia (e altrove) –

La tecnocrazia autoritaria e il futuro dell’umanità.

Transform-italia.it – (24/08/2022) - Peter Cooke – ci dice:

 

In questo articolo, l’ultimo della serie, concluderò la discussione sui temi della biosicurezza e della tecnocrazia, due fenomeni strettamente legati.

La tesi che vorrei continuare a sviluppare qui è che la pandemia da Covid-19 ha offerto l’occasione per sperimentare un nuovo apparato tecnologico di controllo sociale, nel contesto ideologico della Tecnocrazia e in quello geopolitico della crisi del capitalismo.

Dopo aver presentato alcune riflessioni di Aldous Huxley sulla minaccia della tecnologia e della centralizzazione del potere economico per la democrazia e la libertà individuale, discuterò la questione della biosicurezza nel contesto della medicina occidentale moderna e offrirò una descrizione abbastanza dettagliata dell’analisi geopolitica dell’emergenza pandemica sviluppata da “Kees Van der Pijl” nel suo libro fondamentale “States of Emergency”.

 Discuterò anche le particolarità della situazione socio-politica in Italia, prima di concludere con delle riflessioni sulla questione della libertà.

Allo stesso tempo, mi sento in dovere di rispondere al testo di uno dei redattori di “Transform ! Italia”, “Franco Ferrari” scritto per coincidere con – e per delegittimare – il mio terzo articolo della serie.

Nel suo corto articolo, Ferrari mi accusa – perché questa ne è la chiara implicazione – di essere un cospirazionista di destra.

Certo, ho adottato, specialmente nel terzo articolo, un tono polemico che doveva inevitabilmente provocare una forte reazione.

Riconosco anche che alcuni dei miei argomenti sono già stati proposti dalla destra.

Non dimentichiamo però, che alcuni intellettuali italiani di primo livello, come Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, che non si possono certamente considerare come appartenenti alla destra, hanno visto anche loro nella gestione repressiva dell’epidemia l’evidenza di un progetto politico liberticida.

Prima di procedere con la mia analisi, e prima di rispondere alle critiche di Ferrari, vorrei esprimere la mia sincera gratitudine per essere stato ospitato da “Transform!Italia”.

Sono consapevole di essermi rivelato un ospite molto scomodo, ma mi sembra che nel campo intellettuale – e anche in quello politico – l’ospite scomodo possa svolgere a volte un ruolo utile se riesce a stimolare la riflessione e il dibattito.

Perché questo possa accadere in maniera fertile, le parole dell’ospite devono essere ascoltate.

Purtroppo, non sono convinto che questo sia stato veramente il caso.

Nella pratica, si potrebbe quasi definire la politica come “l’arte di non ascoltare l’altro”, e infatti troppo spesso il dibattito politico diventa un dialogo tra sordi.

Siccome la pandemia ha spaccato profondamente la società, mettendo a confronto due atteggiamenti apparentemente irriconciliabili, mi sembra importante capire se è possibile instaurare un dialogo tra queste due fazioni opposte.

Sono in gioco qui due tendenze contrarie che, dal punto di vista della sinistra, si possono descrivere schematicamente come “responsabilità collettiva” contro “individualismo irresponsabile”.

 Mi sembra però che sia l’azione responsabile del collettivo che la libertà dell’individuo siano entrambe necessarie e se vogliamo vedere una società armoniosa e felice dovremmo cercare in tutti i modi di conciliarle.

Per quanto riguarda la necessità della responsabilità collettiva – di grande ed evidente importanza durante un’epidemia di una malattia contagiosa – prima di tutto, per essere efficace (e se non è efficace non ha alcun senso) l’azione del collettivo deve essere basata su una conoscenza precisa della realtà epidemiologica, non su una rappresentazione distorta e censurata.

Per respingere l’accusa di essere un cospirazionista o complottista, potrei citare le parole di Agamben, nel suo breve saggio polemico di luglio 2020, “Due vocaboli infami”, dove il filosofo scrive che le parole “negazionista” e “complottismo”, che sono apparse nelle polemiche durante l’emergenza sanitaria,

 “avevano secondo ogni evidenza il solo scopo di screditare coloro che, di fronte alla paura che aveva paralizzato le menti, si ostinavano ancora a pensare”.

Infatti, il grande pericolo che rappresentano i termini peggiorativi “negazionista” e “complottismo” (con il suo sinonimo “cospirazionismo”) è che troppo facilmente possono servire a delegittimare a priori il discorso di uno scrittore che commenta una situazione complessa e piena di opacità.

Se l’autore cerca di attirare l’attenzione su una serie di fatti o fenomeni che sembrano in palese conflitto con la narrativa ufficiale – perché c’è una narrativa che si può legittimamente chiamare ufficiale – identificare questo scrittore con il complottismo di destra può essere un modo troppo comodo per incasellarlo, evitando così di dover scrutare con serietà gli elementi scomodanti della sua analisi.

Nello stesso saggio del luglio 2020, Agamben, che è stato accusato infatti di “complottismo”, scrive che questo termine “testimonia di un’ignoranza della storia davvero sorprendente” perché “Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi”.

Certo, come sottolinea Ferrari, è in gioco qui il nostro modo di concepire il potere nel sistema capitalista.

“Toute idéologie se constitue contre la psychologie”, ha scritto Albert Camus.

Infatti l’idea, frutto di una certa “teoria ideologica”, secondo cui l’obiettivo essenziale della realizzazione del profitto escluderebbe nel capitalismo la ricerca del potere, nega l’evidenza della storia umana, dove in ogni epoca la bramosia del potere ha svolto un ruolo così importante.

 Il desiderio del dominio è parte integrante della psicologia umana e, con pochissime eccezioni, si osserva tuttora in qualsiasi contesto sociale.

 Anche se, come ho cercato di spiegare nel primo articolo di questa serie, con il trionfo del neoliberismo le nostre democrazie occidentali si sono trasformate gradualmente in oligarchie globaliste, sono consapevole che la classe dominante che esercita il potere non è “un gruppo compatto e omogeneo sempre in grado di produrre una e una sola azione politica”.

 La realtà dell’esercizio del potere è infatti più complessa.

Discuterò questa realtà più avanti, appoggiandomi sull’analisi di “Van der Pijl”.

Il fenomeno complesso e sconvolgente della pandemia da Covid-19 e della sua rappresentazione e gestione può essere esaminato da vari punti di vista, inclusi quelli psicologici, socio-politici, geopolitici e perfino giuridici.

Da buon inglese, il mio approccio iniziale è stato puramente empirico.

 Osservando gli avvenimenti della pandemia, che ho vissuti in Italia, sono stato colpito da tutto ciò che sembrava eccessivo nelle misure emergenziali adottate dal Governo.

La crisi sanitaria mi è sembrata molto strana perché gestita in maniera così diversa dalle grandi epidemie precedenti del XX secolo (quelle del 1958 e del 1968).

 Si è rapidamente instaurata in Italia – più ancora che in certi altri paesi occidentali, incluso l’Inghilterra – un clima autoritario che, invece di diminuire con la diminuzione del virus, si è progressivamente rafforzato.

Questo sembrava necessitare una spiegazione, e non ero convinto che questa spiegazione si dovesse cercare unicamente sul piano sanitario.

Ho incominciato dunque ad indagare come meglio potevo e ho scoperto – tramite i canali alternativi di informazione – che certi scienziati e medici (italiani, inglesi, francesi, americani, tedeschi, spagnoli…) denunciavano la gestione ufficiale della pandemia, in primis il divieto delle autopsie e la soppressione delle terapie a basso costo.

Abbiamo visto nel secondo articolo di questa serie che certi scienziati medici hanno anche espresso critiche allarmate sulla campagna di vaccinazione sperimentale, a cui né le autorità né i media mainstream hanno voluto dare voce.

Allo stesso tempo si è avviata una campagna mediatica martellante che sembrava motivata dal desiderio di fomentare paura e angoscia nella popolazione, piuttosto che aiutarla a capire meglio la situazione epidemiologica.

Abbastanza rapidamente si è anche creata nella società una spaccatura socio-politica fra quelli che trovavano accettabili le misure repressive prese dalle autorità e quelli che non credevano che fossero giustificate dalla realtà epidemiologica.

Una parte maggioritaria della popolazione accusava una minoranza di irresponsabilità egoista, di “negazionismo” e di ostacolare la “guerra” contro il virus, mentre la minoranza scettica accusava la maggioranza di essere “pecore” conformisti che assecondavano con la loro collaborazione cieca l’instaurazione di una “dittatura sanitaria”.

 Era quasi come se fosse scoppiata nella società una specie di guerra civile di bassa intensità.

 Sembrava importante investigare tutti questi fenomeni.

Sul piano empirico, ho cercato negli articoli precedenti di attirare l’attenzione su tutta una serie di fenomeni inquietanti che dovrebbero far riflettere seriamente su ciò che è accaduto durante la pandemia.

 Questi fenomeni si possono riassumere così:

il divieto, o almeno il forte scoraggiamento, delle autopsie su persone morte presumibilmente di Covid durante la prima fase dell’epidemia;

la politica altamente innovativa del conteggio dei morti, confondendo le persone morte di Covid con quelle morte con il Covid;

l’uso massiccio di tamponi diagnostici denunciati più volte da studi scientifici come altamente inaffidabili e il rifiuto di modificare questi test nonostante la pubblicazione di questi studi;

la pratica di presentare come “casi” o “contagiati” tutte le persone i cui test risultavano positivi, anche se spesso non erano in realtà contagiate, offrendo in questo modo statistiche epidemiologiche molto inflazionate;

la soppressione ufficiale delle terapie domiciliari precoci, malgrado la pubblicazione di studi scientifiche che dimostravano la loro efficacia;

la lotta ostinata del Governo contro i medici nei tribunali per difendere lo strano protocollo ministeriale di “tachipirina e vigile attesa”;

l’insistenza, sin dall’inizio, sulla vaccinazione sperimentale universale come unica soluzione della crisi sanitaria;

il rifiuto di dare retta ai dubbi e alle avvertenze sui nuovi vaccini pubblicamente espresse da scienziati di alto livello;

il rifiuto di riconoscere la gravità delle reazioni avverse provocate dai nuovi vaccini, nonostante la pubblicazione di statistiche allarmanti raccolte dalle agenzie di farmacovigilanza e nonostante i risultati di autopsie effettuate da patologi di primo livello sulle vittime dei vaccini;

il fatto che tutti i produttori occidentali dei “vaccini” sperimentali anti-Covid abbiano scelto, “indipendentemente”, di basare il loro prodotto sulla proteina spike, la parte più tossica, più pericolosa del virus;

l’imposizione dell’obbligo o quasi obbligo vaccinale con prodotti altamente sperimentali testati solamente per tre mesi e mezzo e che in realtà sono terapie geniche invece di vaccini;

la presentazione del “passaporto vaccinale” o “Green Pass” come una misura sanitaria quando un’ampia letteratura scientifica mostra come anche i vaccinati possono diffondere il virus, ciò che invalida completamente questa discriminazione;

l’accanimento con il quale il Governo italiano ha continuato a emettere DCPM imponendo sempre più restrizioni ai cittadini senza “Green Pass”, fino a quello del 21 gennaio 2022 che prevedeva che chi non aveva il “Green Pass” non poteva neanche recarsi alla posta per ritirare la pensione;

la diffusa pratica della censura, specialmente su Internet, di interventi da parte di scienziati medici che denunciavano i pericoli dei vaccini, le opacità e le inadeguatezze dei report sui trials condotti dai produttori e le gravi incertezze sugli effetti a medio e lungo termine di questi prodotti altamente sperimentali;

la diffamazione degli scienziati che hanno cercato di stimolare un dibattito pubblico sui vaccini o su qualsiasi altro aspetto della gestione ufficiale della pandemia;

l’instaurazione della nuova politica del lockdown, malgrado il fatto che questa misura estrema non figurava nei piani pandemici previamente elaborati;

il rifiuto ufficiale di riconoscere il fallimento epidemiologico di questa politica, nonostante la pubblicazione di studi scientifici che lo dimostrano (il Governo continua ad affermare, senza prove, che i lockdown ci hanno salvati);

il fatto che il Governo abbia attribuito al virus tutti i danni provocati dai lockdown, come se quest’ultimi non fossero il prodotto di una decisione politica;

l’assenza nella gestione sanitaria della pandemia del concetto chiave di saluto genesi;

il rifiuto di dare retta a interventi importanti offrendo interpretazioni alternative della crisi sanitaria, come quello di Richard Horton che sosteneva nel “Lancet” che si trattava in realtà di una “sindemia”, che avrebbe richiesto un approccio molto diverso;

il sorgere, in ogni paese occidentale, di organizzazioni “grass roots” di medici e scienziati medici che si sono visti costretti a difendere e promuovere il diritto e il dovere di curare i pazienti, un fenomeno inaudito nella storia della medicina occidentale.

Questa lista di anomalie è lungi dall’essere esaustiva e la descrizione di tanti altri fenomeni inquietanti osservati durante la pandemia richiederebbe un altro articolo.

Invece di cercare di delegittimare la mia analisi affibbiandomi l’etichetta di “cospirazionista di destra”, mi sembra che sarebbe più interessante e più utile offrire una spiegazione alternativa convincente per tutti i fenomeni elencati qui sopra.

Scientismo e biosicurezza.

Torniamo adesso alla questione del potere.

 A questo punto vorrei soltanto sottolineare che il potere ha sempre una base ideologica.

Nella società capitalista contemporanea due ideologie diverse sembrano entrare in conflitto: quella del mercato libero e quella della Tecnocrazia.

 L’ideologia del mercato libero, che da quarant’anni ha preso la forma spietata del neoliberismo, ha spinto la globalizzazione economica, ma anche la speculazione finanziaria spregiudicata che ha provocato il grande crack del 2008.

L’ideologia della Tecnocrazia invece sta cercando di rimediare alle instabilità economiche e politiche globali provocate dal neoliberismo con l’ambizioso progetto centralizzante e tecnocratico che il presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab, chiama “The Great Reset”.

La Tecnocrazia è un’ideologia con pretese assolutiste.

In L’Homme révolté (1951), Camus descrive come l’assolutismo teocratico della monarchia dell’Ancien Régime fu rovesciato dalla Rivoluzione Francese per lasciar posto alla “nuova religione il dio della quale è la ragione confusa con la natura”.

Nel Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, la teoria di questa nuova religione è stata sviluppata in termini dogmatici.

In questo trattato politico fondamentale, “le parole che si trovano più spesso”, osserva Camus, “sono le parole ‘assoluto’, ‘sacro’, ‘inviolabile’”.

“Il corpo politico così definito […] non è altro che un prodotto che si sostituisce al corpo mistico del cristianesimo temporale.

Il Contratto sociale termina d’altronde descrivendo una religione civile e fa di Rousseau il precursore delle società contemporanee, che escludono non solo l’opposizione, ma anche la neutralità.”.

Camus si riferisce, ovviamente, agli Stati totalitari della prima metà del novecento, i crimini giganteschi dei quali aveva provocato il pensatore francese a scrivere” L’Homme révolté”.

Il nuovo dio della Ragione ha fatto nascere, dopo la Rivoluzione, lo Scientismo di Saint-Simon (discusso nel primo articolo di questa serie), che è stato il precursore, o piuttosto il genitore, dell’ideologia dell’odierna Tecnocrazia.

Come la monarchia teocratica dell’Ancien Régime, la religione della Ragione, e anche quelle della Scienza e della Tecnocrazia, hanno pretese assolutiste.

Non riconoscono il diritto all’opposizione, e neanche quello alla neutralità.

 Ma la Tecnocrazia, intesa come “sistema di potere”, è stata favorita anche dai progressi tecnologici del capitalismo, come aveva capito bene Aldous Huxley, sessant’anni fa.

“Brave New World” Revisited.

Scrivendo nel 1958, venticinque anni dopo aver pubblicato Brave New World, Huxley offriva nuove riflessioni sulle tendenze distopiche del totalitarismo tecnocratico globale che aveva descritto in una forma immaginativa nel suo romanzo futuristico del 1933.

La sua analisi, pubblicata nel saggio “Brave New World Revisited”, non ha perso niente della sua attualità;

 anzi, è diventata più pertinente che mai.

Tra le grandi tendenze nel mondo del suo tempo che sembravano radicalmente ostili alla democrazia e alla libertà personale, Huxley evidenziava in primo luogo l’accelerazione della sovrappopolazione.

A causa delle pressioni immense che questa esercitava sulle risorse limitate della pianeta e i conseguenti disordini economici, sociali e politici, sembrava a Huxley che la maggior parte dell’umanità si trovava a dover fare “una scelta tra anarchia e controllo totalitario”.

Secondo lo scrittore inglese, “Questo cieco nemico biologico della libertà è alleato con forze immensamente potenti generate dagli stessi progressi tecnologici dei quali siamo più fieri”.

 Dopo aver notato che molti storici, sociologi e psicologi avevano scritto ampiamente, e con una profonda preoccupazione, sul prezzo che l’uomo occidentale ha pagato e continuerà a pagare per il progresso tecnologico, osservando per esempio che la democrazia difficilmente può fiorire nelle società dove il potere politico ed economico va progressivamente concentrandosi e centralizzandosi, Huxley commenta:

“Ma il progresso della tecnologia ha condotto e continua a condurre a una tale concentrazione e centralizzazione del potere”.

Lo scrittore spiega che man mano che l’impianto basato sulla produzione di massa viene reso più efficiente, tende a diventare più complesso e più costoso – dunque meno accessibile all’imprenditore dai mezzi limitati.

 Inoltre, la produzione di massa non può funzionare senza la distribuzione di massa, ma la distribuzione di massa pone problemi che soltanto i più grandi produttori sono in grado di risolvere.

In questo mondo di produzione e distribuzione di massa “l’Uomo piccolo” non può competere con “l’Uomo grande”, che finisce per divorarlo.

Con la sparizione degli “Uomini piccoli” il potere economico si concentra via via nelle mani di sempre meno persone.

 Poi Huxley commenta:

Sotto una dittatura, il “Big Business”, reso possibile dal progresso tecnologico e la conseguente rovina del “Little Business”, è controllato dallo Stato – cioè, un piccolo gruppo di leader del partito e i soldati, poliziotti ed amministratori che eseguono i loro ordini.

In una democrazia capitalista, come gli Stati Uniti, è controllato da ciò che il professore C. Wright Mills ha chiamato l’Elite di Potere [The Power Elite (1956)].

Questa Élite di Potere impiega direttamente milioni di persone come forza lavorativa nelle sue fabbriche, uffici e magazzini, controlla molti altri milioni imprestando loro i soldi con i quali possono comperare i suoi prodotti, e, tramite il possesso dei media di comunicazione di massa, influenza i pensieri, i sentimenti e le azioni di praticamente tutti.

Durante i sei decenni che sono passati dopo la pubblicazione di “Brave New World Revisited”, tutte le tendenze descritte da Huxley si sono intensificate smisuratamente, con il risultato inevitabile della progressiva erosione della democrazia e della progressiva crescita delle forze centralizzanti del potere.

Adesso, queste tendenze sembrano essere arrivate ad un punto critico.

Ma il risultato di queste tendenze non è soltanto lo sviluppo di ciò che Huxley descrive come “una società controllata, spietatamente negli Stati totalitari, e in modo cortese e incospicuo nelle democrazie, dal Big Business e dal Big Government”, ma anche l’esistenza di moltissima infelicità umana.

Huxley scrive ancora:

“Ma le società sono composte da individui e sono buone soltanto nella misura in cui aiutano gli individui a condurre una vita felice e creativa.

Quali effetti hanno avuto sugli individui i progressi tecnologici degli ultimi anni?”.

Lo scrittore trova una risposta a questa domanda nelle osservazioni del filosofo-psichiatra “Erich Fromm”:

La nostra società occidentale contemporanea, malgrado i suoi progressi materiali, intellettuali e politici, favoreggia sempre meno la salute mentale e tende a minare la sicurezza interiore, la felicità, la ragione e la capacità di amore dell’individuo;

 tende a fare di lui un automa che paga il suo fallimento umano con un crescente livello di malattia mentale, e con una disperazione nascosta sotto una spinta frenetica verso il lavoro e il cosiddetto piacere.

Questi commenti si applicano perfettamente alla nostra epoca attuale, dove si vede la culminazione delle tendenze descritte da Huxley.

 Sono le strutture disumane della nostra società capitalista e materialista, una società sprovvista di valori autentici, che hanno fomentato nella popolazione questo profondo malessere.

Questa situazione spiega anche “l’ansia fluttuante” descritta dallo psicologo olandese “Mattias Desmet”, un fenomeno che, secondo lui, ha permesso la “formazione di massa” durante la pandemia.

Fromm osserva che i sintomi nevrotici spesso prodotti dalla malattia mentale, benché inquietanti, sono in realtà i nostri amici, visto che indicano che le forze della vita che cercano uno stato psicologico di integrazione e di felicità stanno ancora lottando.

Le vittime della malattia mentale senza speranza si trovano invece fra quelli che sembrano i più normali.

 “Sono normali”, commenta Huxley, “non in quello che si può chiamare il senso assoluto della parola;

 sono normali solo in relazione ad una società profondamente anormale.

Il loro adattamento perfetto a quella società anormale rappresenta la misura della loro malattia mentale”.

La Tecnocrazia non ha nessuna soluzione da offrire ai problemi profondi della nostra società occidentale, afflitta da uno stato di malessere sempre più diffuso e sempre più grave.

Anzi, può solo peggiorare la situazione.

Soltanto ripensando e trasformando in profondità la nostra società, basandola su valori autentici, stabilendo rapporti armoniosi con la natura (sia “esteriore” che “interiore”), possiamo sperare di promuovere la felicità.

Per operare questa trasformazione ci vorrà però un risveglio spirituale abbastanza forte e profondo per contrastare le tendenze meccanicistiche della nostra civiltà materialista, questa “civiltà meccanica” creata, secondo Piero Scanziani, dal predominio della logica: “Dal predominio della logica esce la civiltà meccanica”.

Una civiltà senza precedenti, perché la logica mai aveva tanto sopraffatto la fantasia:

una civiltà di tecnici, aritmetici, statistici, economisti;

 una civiltà in cui gli uomini si riducono a masse e dove si nega il posto all’arte, alla poesia, al sacro;

 una civiltà profana, l’unica apparsa sulla Terra, essendo state tutte le altre sacre”.

Non ci serve un “Grande Reset” tecnocratico imposto dall’alto, una nuova e massiccia intensificazione del controllo centralizzato;

ci serve invece un risveglio di coscienza e una conseguente rinascita sociale.

Ma il saggio “Brave New World Revisited” offre soprattutto una meditazione su una delle questioni centrali dei nostri tempi: l’organizzazione collettiva contro la libertà dell’individuo.

 Il grande pericolo percepito da Huxley è ciò che chiama “sovra-organizzazione”:

“L’organizzazione è indispensabile”, scrive, “perché la libertà sorge e ha un significato solo dentro una comunità autoregolata di individui che cooperano liberamente.

Ma, benché indispensabile, l’organizzazione può essere fatale.

 Troppa organizzazione trasforma gli uomini e le donne in automi, soffoca lo spirito creativo e abolisce la possibilità stessa di libertà.

Come normalmente è il caso, l’unica via sicura è quella di mezzo che naviga tra i due estremi del laissez-faire da un lato e il controllo totale dall’altro”.

Da molti anni, il pendolo politico sta oscillando sempre più verso il controllo totale, non solo a causa della progressiva centralizzazione del potere economico osservata da Huxley, ma anche come risposta naturale alla destabilizzazione socio-economica provocata dal neoliberismo.

 Paradossalmente, la spinta fortissima verso il laissez-faire durante gli ultimi quarant’anni ha necessitato il suo contrario.

Ma la libertà del laissez-faire è in realtà la licenza che si sono autorizzati i pochi di sfruttare liberamente i molti.

Si tratta dunque di uno squilibrio gravissimo nella società che ci ha condotto inevitabilmente ad una profonda crisi.

A livello politico, la grande questione è sapere se è possibile sormontare questa crisi evitando l’instaurazione di un sistema di controllo totalitario, creando invece un’autentica democrazia capace di inventare una società che vada oltre le limitazioni, le contraddizioni, gli squilibri, le ingiustizie e le tendenze distruttive del capitalismo.

Nel frattempo, la forma di controllo sociale che sta cercando di nascere in questo momento storico è quella della biosicurezza.

“Biosicurezza e politica”.

L’undici maggio 2020, durante i primi mesi della pandemia, Agamben pubblicò un breve saggio, “Biosicurezza e politica”, nel quale spiegava l’essenziale di questo “nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose”.

 Il filosofo fa riferimento al libro di “Patrick Zylberman”, “Tempêtes microbiennes” (2013), nel quale lo studioso francese “aveva descritto il processo attraverso il quale la sicurezza sanitaria, fino allora rimasta ai margini dei calcoli politici, stava diventando parte essenziale delle strategie politiche statali ed internazionali. In questione è nulla di meno che la creazione di una sorta di ‘terrore sanitario’ come strumento per governare attraverso il “worst case” scenario, lo scenario del caso peggiore”.

 Secondo Agamben, quello che Zylberman descriveva nel 2013 si era verificato nel 2020.

Poi commenta:

È evidente che, al di là della situazione di emergenza legata a un certo virus che potrà in futuro lasciar posto ad un altro, in questione è il disegno di un paradigma di governo la cui efficacia supera di gran lunga quella di tutte le forme di governo che la storia politica dell’Occidente abbia finora conosciuto.

 Se già, nel progressivo decadere delle ideologie e delle fedi politiche, le ragioni di sicurezza avevano permesso di far accettare dai cittadini limitazioni delle libertà che non erano prima disposti ad accettare, la biosicurezza si è dimostrata capace di presentare l’assoluta cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale come la massima forma di partecipazione civica.

Si è così potuto assistere al paradosso di organizzazioni di sinistra, tradizionalmente abituate a rivendicare diritti e denunciare violazioni della costituzione, accettare senza riserve limitazioni delle libertà decise con decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato di poter imporre.

Si sa che questo intervento, da parte di uno degli intellettuali più eminenti dell’Italia contemporanea, non è gradito in generale dalla sinistra italiana che, paradossalmente, ha lasciato alla destra – ma anche a molti cittadini senza un chiaro orientamento ideologico – il compito di cercare di difendere i diritti costituzionali calpestati nel nome di una protezione sanitaria che si è rivelata illusoria.

Biosicurezza e salute.

A questo punto conviene approfondire la questione centrale della biosicurezza.

Per capire meglio questo fenomeno importantissimo, partiamo da quello che non è.

Soprattutto, non bisogna confondere la biosicurezza con la salute.

Come ho già accennato nel secondo articolo di questa serie, il concetto essenziale che è mancato – e che manca ancora – nella gestione della pandemia da Covid-19 è quello di saluto genesi.

 Le autorità non hanno fatto nulla per promuovere nella popolazione la salute, sia mentale che fisica;

non hanno offerto consigli per rafforzare l’immunità naturale, che rappresenta la nostra difesa essenziale contro le malattie infettive, né per mantenere un buon livello di salute mentale (che influenza la salute del nostro sistema immunitario).

Anzi, i lockdown che il Governo ha deciso di imporre hanno danneggiato notevolmente la salute mentale (ma anche fisica) della popolazione.

 L’effetto dell’imposizione delle mascherine è stato anch’esso deleterio sul piano della salute, sia mentale che fisica, specialmente nei bambini.

Il paradigma che ha governato la gestione dell’epidemia è stato quello della biosicurezza, non della salute.

L’esclusione paradossale della salute dalla gestione sanitaria di un’epidemia ha bisogno di essere spiegata, talmente sembra illogica.

 La prima osservazione che si impone è che la saluto genesi manca non solo nella gestione ufficiale di questa epidemia, ma anche nella concezione della salute umana che si è imposta, ormai da tempo, nell’Occidente.

 Una delle cause dell’assenza, o quasi, del saluto genesi nel sistema moderno di medicina è sicuramente il potere schiacciante che l’industria farmaceutica esercita sul sistema sanitario.

Si potrebbe, non senza giustificazione, vedere questo potere come una forma di corruzione.

Infatti, la realtà della corruzione sistemica che imperversa nel mondo farmaceutico-sanitario non è certamente un segreto.

Per usare le parole di Patricia García, in un articolo pubblicato nel “Lancet” del dicembre 2019, “è una pandemia trascurata”.

“La corruzione è integrata nei sistemi sanitari”, scrive ancora.

Durante un’intervista, il medico “Peter Rost”, che aveva lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla “Pfizer” come vicepresidente del reparto marketing, ha definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”.

Il settore farmaceutico si comporta e ha un potere sulla politica molto simile alla mafia”, spiegava Rost.

“Big Pharma è tra le industrie ritenute meno affidabili”, osserva Mariano Bizzari,

“Almeno tre delle aziende che producono vaccini contro il Covid-19 hanno avuto pesanti controversie giudiziarie che sono costate loro condanne e multe salatissime per miliardi di dollari”.

“La Pfizer”, nota ancora lo scienziato, “ha una fedina penale lunga un chilometro.

Numerosissimi sono le vicende legali in cui si è trovata coinvolta – con accuse di corruzione, concussione, pratiche fraudolenti, sperimentazione illegale e altro ancora – e per le quali è stata condannata in numerosi paesi.

 Le multe, a tutt’oggi, superano i quattro miliardi di dollari”.

In un report recente dell’”Indipendente” si legge che negli Stati Uniti, dal 2000 al 2019, le case farmaceutiche hanno pagato “25 miliardi di dollari per 233 casi di sentenze, sanzioni di enti controllanti e regolatori, oppure a seguito di patteggiamenti e accordi privati.

Pfizer guida la classifica sia per il numero di condanne risarcitorie sia per la cifra pagata: 47 casi per un valore che si aggira sui 4,5 miliardi di dollari”.

 Nello stesso periodo, “Johnson & Johnson” invece ha ricevuto 27 condanne e ha dovuto versare 3,4 miliardi di dollari.

 La somma di 4,5 miliardi di dollari però non rappresenta in realtà una grande perdita per un’azienda come Pfizer che, secondo lo stesso rapporto dell’Indipendente, “ha concluso il 2019 con un utile lordo di 32,85 miliardi di dollari, circa 7 volte la cifra che la casa farmaceutica ha pagato in vent’anni per 47 condanne, alle cui spalle si celano storie di centinaia di persone che hanno subito gravi danni o che addirittura sono morte”.

Nel 2012 la Pfizer è stata riconosciuta colpevole per avere corrotto governi e medici di otto Stati nel mondo.

“Marco Pizzuti” ha sicuramente ragione quando afferma che gli illeciti compiuti dalle case farmaceutiche hanno “un carattere sistemico e delineano un modus operandi delinquenziale ben rodato nel tempo che non si è mai interrotto grazie al semplice pagamento di un risarcimento in denaro”.

La corruzione è un fenomeno il cui impatto è difficile sovrastimare.

Ma è anche vero che il potere dell’industria farmaceutica ha plasmato il mondo della medicina occidentale, insieme alle istituzioni legate ad esso.

Uno degli strumenti storici più importanti del dominio che l’industria farmaceutica esercita sulla medicina è stato il “Flexner Report” del 1910.

Il politico influente Abraham Flexner, formato nella biomedicina moderna alla John Hopkins University di Baltimora, nutriva una forte antipatia per ciò che oggi si indica come la medicina complementare, come l’omeopatia, la naturopatia, l’osteopatia e la chiropratica, che a quell’epoca fiorivano nel mondo occidentale.

Nel 1910, Flexner pubblicò un report strategico,” Medical Education in the United States and Canada”:

“A Report to the Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching”, nel quale stigmatizzava i praticanti della “medicina alternativa” come delle “sette mediche” e non celò la sua intenzione di “antagonizzarle”, perché per lui si trattava di ciarlatanismo antiscientifico.

 Il Congresso degli Stati Uniti adottò le raccomandazioni del report e siccome soltanto circa il venti per cento delle istituzioni mediche menzionate nel “Flexner Report “erano in grado di rispettare i suoi vincoli e le sue prescrizioni, la maggior parte dovette chiudere definitivamente.

In un colpo solo, il sistema “ortodosso” di medicina allopatica monopolizzò il mercato.

Il tipo di medicina imposto dal “Flexner Report” – una medicina estremamente favorevole agli interessi economici dell’industria farmaceutica e dunque al capitalismo – è difficilmente compatibile con il tipo di medicina che si chiamerebbe oggi olistica.

 In quest’ultima concezione della salute, l’essere umano è considerato come un insieme di mind-body-spirit – “mente-corpo-spirito”.

Questo sistema riconosce che l’essere umano è parte integrante della natura, ma che allo stesso tempo è un essere complesso che non appartiene unicamente al mondo materiale;

possiede anche dimensioni mentali e spirituali e queste sono intimamente legate al corpo fisico.

 I sistemi tradizionali di medicina orientali – per esempio l’”Ayurveda indiana” o la “Medicina Tradizionale Cinese “(MTC) – riconoscono l’integralità dell’essere umano e la sua integrazione nella natura e vogliono risolvere i problemi di salute con un “approccio olistico”, cercando soprattutto le radici di uno squilibrio che si esprime nella forma di sintomi fisici o psicologici.

Una parte della “MTC”, per esempio, è la scienza antichissima del “Qi Gong”, la pratica della maestria del “Qi” o energia vitale.

È una pratica allo stesso tempo preventiva e curativa che si fonda sull’integralità del corpo fisico, delle energie vitali e della mente.

La “medicina occidentale allopatica”, invece, che si può anche chiamare “mainstream”, non riconosce l’integralità dell’essere come mente-corpo-spirito, pone pochissima enfasi sulla prevenzione delle malattie, e agisce soprattutto sui sintomi fisici delle malattie attraverso interventi farmaceutici.

Quasi tutti questi farmaci producono effetti collaterali.

Le limitazioni del modello occidentale della “medicina allopatica” – denunciate per esempio da Carolyn Dean nel suo libro del 2005, “Death By Modern Medicine” (“La Morte inflitta dalla medicina moderna”) – sembrano chiaramente dimostrate dal cattivo stato di salute della popolazione, afflitta, tra l’altro, da un crescente tasso di obesità, di alcolismo e di altre forme di tossicodipendenza, e di problemi cardiovascolari molto diffusi.

Soprattutto, dovrebbe far riflettere il fatto che, dopo le malattie cardiovascolari e il cancro, i farmaci rappresentano la terza causa principale della morte nell’Occidente.

Questo fenomeno si chiama anche “morte iatrogenica”, un termine che significa, usando parole più banali, che il paziente è stato ucciso dal medico.

 In un articolo del 2016, il “British Medical Journal” stimava che gli errori medici uccidevano più di 250.000 americani ogni anno.

Dal punto di vista del capitalismo, è chiaro che la salute umana non interessa perché non genera profitti.

 Interessano invece le malattie che possono essere trattate con medicinali costosi.

Sarà anche per questo che la “saluto genesi “che, logicamente, dovrebbe essere il concetto centrale del nostro approccio verso la salute, è così trascurata dal “sistema medico mainstream”.

Ma è anche evidente che il sistema capitalista nell’insieme è il nemico della salute umana.

Siccome tutti i governi del mondo occidentale sono dominati dal potere capitalista, che mette sempre al primo posto la ricerca del profitto economico, questi fanno ben poco per proteggere le popolazioni dalle azioni distruttive delle grandi imprese, permettendo invece a queste di avvelenare sistematicamente l’acqua, l’aria e la terra con i fertilizzanti sintetici, pesticidi, diserbanti e tanti altri agenti chimici tossici prodotti dall’industria.

 In aggiunta, la popolazione viene ora anche esposta a livelli sempre più pericolosi di radiazione elettromagnetica attraverso l’uso massiccio – e in realtà incontrollato – delle tecnologie di telecomunicazione wireless.

Infatti, Robert Kane ha rivelato nel suo libro “Cellular Telephone Russian Roulette” (2001) come le imprese di telecomunicazioni sono da molto tempo informate sui pericoli sanitari che rappresentano le tecnologie wireless.

Per quelli che sono consapevoli di questi pericoli, la spinta apparentemente inarrestabile verso la diffusione del 5G è estremamente allarmante.

Biosicurezza e potere medico.

Nel corso degli anni, e soprattutto dopo la pubblicazione del “Flexner Report”, la medicina occidentale – e non solo negli Stati Uniti, che rappresentano il centro contemporaneo del capitalismo – si è organizzata in modo sempre più centralizzato.

È diventata un sistema di potere sanitario gerarchizzato.

 La medicina occidentale è comunque un sistema essenzialmente patriarcale dove tradizionalmente la figura paterna del medico esercita il suo potere sul paziente al quale è richiesto di svolgere un ruolo di sottomissione (l’etimologia della parola “paziente” indica la sua passività), inchinandosi davanti all’autorità del medico.

Quest’ultimo non rappresenta soltanto l’autorità del sapere, della scienza medica, ma anche quella istituzionale di un sistema sanitario investito dall’autorità dello Stato.

Queste condizioni istituzionali, che nel tempo hanno formato delle strutture sanitarie di scala impressionante, favoriscono la nascita dello Stato di biosicurezza.

Non a caso si è parlato durante la pandemia della realtà inquietante di una tecnocrazia medica.

Questa tecnocrazia ha infatti agito sistematicamente per far rispettare l’assurdo protocollo ministeriale di “tachipirina e vigile attesa” (analizzato nel secondo articolo di questa serie) che ha effettivamente proibito ai medici di guarire i pazienti dal Covid.

Abbiamo già visto (nel terzo articolo) che gli Ordini dei Medici hanno ricevuto direttive – alle quali hanno obbedito puntualmente – per perseguitare i medici che hanno agito in scienza e coscienza per curare i loro pazienti, preferendo in questo modo di rimanere fedeli al giuramento di Ippocrate, piuttosto che sottomettersi al potere della gerarchia sanitaria.

 Infatti, molti di questi medici hanno denunciato l’esistenza di una “medicina protocollare” che consiste semplicemente in applicare il protocollo imposto dall’alto, invece di mirare e adattare la terapia all’individuo.

Così i medici più integri – quelli che dovrebbero essere onorati dalla società per essersi dedicati con coraggio, fermezza e umanità ai bisogni urgenti dei pazienti – sono diventati agli occhi del nascente Stato di biosicurezza dei dissidenti che vanno eliminati – purgati si dovrebbe piuttosto dire.

Rimane difficile non vedere in questo fenomeno – a meno di rifiutarsi di vederlo – un sintomo allarmante di una situazione già pienamente distopica.

Biosicurezza e biopolitica.

La biosicurezza è la forma contemporanea della biopolitica, un fenomeno studiato dal filosofo francese Michel Foucault in una serie di conferenze degli anni ‘70.

Foucault ha descritto come il potere non veniva più esercitato primariamente a livello dello Stato-nazione, si era spostato su scala internazionale.

Si tratta infatti del fenomeno dell’internazionalizzazione dello Stato, già accennato nel primo articolo di questa serie.

Allo stesso tempo, secondo il filosofo, il potere si esercitava direttamente sulla specie umana, sull’essere dotato da un corpo fisico e un’anima.

Foucault spiegava che il sovrano (di cui non specifica l’identità o la composizione) dovrà esercitare il suo potere fino al punto “dove la natura nel senso degli elementi fisici interagisce con la natura nel senso della condizione della specie umana”.

Poi conclude, in una frase agghiacciante: “Qui il sovrano vorrà intervenire se vuole cambiare la specie umana”.

Chi ha analizzato questo sovrano è stato lo studioso olandese di geopolitica” Kees Van der Pijl “che, iniziando con il suo libro importante “The Making of an Atlantic Class” (1984), si è dedicato a descrivere i meccanismi del potere della classe dominante nel capitalismo moderno.

 Van der Pijl afferma nel suo libro recente “States of Emergency” che “lo stato di emergenza del Covid possiede tutte le caratteristiche della biopolitica definita da Foucault”.

 La sua tesi, sviluppata con molta accuratezza, sarà esaminata più avanti.

A questo punto vorrei sottolineare alcuni dei meccanismi utilizzati dallo Stato durante la pandemia per esercitare sui cittadini il suo “potere biopolitico”.

Il primo livello di intervento è stato quello psicologico.

In un libro molto ben documentato, “A State of Fear: How the UK Government Weaponised Fear During the Covid-19 Pandemic”

(“Uno Stato di paura: come il Governo britannico ha utilizzato la paura come arma durante la pandemia da Covid-19”), la giornalista inglese Laura Dodsworth ha studiato i meccanismi psicologici utilizzati dal Governo britannico per fomentare paura nella popolazione, con tecniche derivate dalla psicologia comportamentale, per indurla ad accettare le misure restrittive.

 Le stesse tattiche sono state adottate da altri Governi, incluso quello italiano.

Dichiarando uno stato di emergenza sanitaria, i governi occidentali hanno dichiarato allo stesso tempo la guerra contro un nemico invisibile ma micidiale, il virus, spaventando le popolazioni ed incitandole a collaborare in questa “guerra”, facendo tutti i sacrifici necessari, in primo luogo quello dei loro diritti e delle loro libertà costituzionali.

 La paura del virus è stata amplificata dalle voci – ripudiate dalle autorità senza mai poterle confutare in modo convincente – della sua origine in un laboratorio di bioguerra.

Le autorità hanno anche messo in circolazione la “teoria del malato asintomatico contagioso” – una delle novità dell’epidemia – facendo in questo modo di ogni persona un potenziale “untore” che viene visto con timore sospetto.

Questa teoria è stata lanciata da un articolo scientifico pubblicato nel “New England Journal of Medicine”, studiando un singolo caso di una cinese in Germania, che più tardi è stato confutato in un articolo pubblicato in Science.

Considerare il prossimo come un qualcosa da temere si è ben radicato nelle coscienze attraverso la politica del “distanziamento sociale” (uno dei vari neologismi orwelliani coniati dal sistema politico durante questo periodo).

 In questo modo la società si è atomizzata per diventare una costellazione di singoli individui uniti solo dalla paura reciproca. L’esortazione fondamentale di Gesù Cristo di amare il prossimo è stata sostituita implicitamente in questo modo dal suo contrario;

 “temere il prossimo” è diventato il nuovo Vangelo della biosicurezza.

Per completare la psicologia della paura al contempo collettiva e atomizzante mancava solo l’imposizione delle mascherine.

Conviene notare che la letteratura scientifica non giustifica la politica sanitaria delle mascherine.

“L’uso generalizzato delle mascherine non è supportato da chiara evidenza scientifica”, osserva Bizzarri, “e, in studi precedenti condotti sulle malattie influenzali, non ha permesso di accertare una significativa protezione.

 Le ricerche condotte in merito all’utilità di questi dispositivi in caso di Covid non hanno potuto far altro che confermare quanto già si sapeva”.

Se la mascherina sembra offrire una protezione sicura al personale medico, invece, una meta-analisi realizzata su trentatré studi randomizzati o osservazionali ha permesso di asseverare come l’uso generalizzato della mascherina non influenzasse la probabilità di contrarre l’infezione.

 L’inutilità delle mascherine estese alla popolazione generale è stata confermata ulteriormente da un’indagine condotta in Danimarca.

Dal punto di vista psicologico, la mascherina è diventata il simbolo per eccellenza della paura del virus.

 La mascherina rende visibile l’invisibile, perché la persona che la porta rammenta a tutti quelli che la vedono la “presenza” del pericolo.

Ognuno è un “contagiato asintomatico” potenziale (per usare il newspeak covidiano) e la mascherina fa in realtà l’opposto di rassicurare.

 Ma allo stesso tempo, paradossalmente (e il fenomeno pandemico è costellato di paradossi), la mascherina è diventata per molte persone profondamente impaurite una specie di talismano assicurando una protezione in realtà illusoria.

Questa funzione essenzialmente magica offrirebbe una spiegazione per il fenomeno irrazionale delle non poche persone che andavano in giro da sole – anche in piena campagna o guidando la macchina senza passeggeri – mascherate.

La mascherina è anche stata uno degli elementi più politicizzati della pandemia.

Per molti, rappresentava una pubblica dimostrazione di responsabilità individuale e collettiva.

Per altri invece, era il simbolo della sottomissione alla “dittatura sanitaria”, un’assurda “museruola”, un segno di conformismo e schiavitù.

Va sottolineato il fatto che in nessun altro paese si è insistito sul portare la mascherina quanto in Italia.

Ma il livello più profondo di intervento biopolitico è rappresentato incontestabilmente dalla politica dell’obbligo vaccinale.

Qui lo Stato interviene direttamente sull’individuo, esercitando la sua sovranità biopolitica sull’interiore del corpo del cittadino.

“Vaccini” sperimentali e bioetica.

Già lo sviluppo dei vaccini – o meglio, delle terapie geniche – anti-Covid sollevano problemi gravissimi a riguardo della bioetica (ma anche della legalità), giacché, sviluppati in soli tre mesi e mezzo e autorizzati per uso emergenziale, sono stati presentati al pubblico come “sicuri ed efficaci”, occultando così anche quei rischi che già erano conosciuti e tacendo o minimizzando tutti i rischi di medio e lungo termine completamente sconosciuti, in palese violazione della Convenzione di Ginevra, della Dichiarazione di Helsinki e della Convenzione sui diritti dell’uomo e della biomedicina firmata a Oviedo nel 1997.

La moderna bioetica sostiene che la ricerca medica sugli esseri umani richieda che i soggetti della ricerca vengano completamente informati dei rischi e che debbano partecipare alla ricerca senza coercizione alcuna.

In reazione contro le gravissime violazioni di questi principi etici fondamentali durante la pandemia è stato formato, da un gruppo di docenti universitari italiani ed esperti di diverse discipline e nazionalità, il Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB), “allo scopo”, ci informa il sito web del comitato, “di riportare i principi e i valori cui si spira la riflessione bioetica al centro della gestione politica del Covid”.

Mi sembra difficile non essere d’accordo con il comitato quando afferma che “i principi del primato dell’essere umano sulla scienza e la società, del consenso informato, di precauzione, di beneficenza, di non maleficenza, di equo accesso alle cure sanitarie, del ‘prendersi cura’, di integrità morale del ricercatore” che sono “i principi generali di bioetica e di biodiritto” sono stati “impunemente calpestati durante i due anni di emergenza sanitaria”.

Ma l’amara realtà è che l’emergenza covidiana è stata gestita secondo i principi della biopolitica, ossia della biosicurezza, che non hanno nulla a che vedere con la bioetica o il biodiritto o con qualsiasi altro aspetto dell’etica o del diritto.

 Lo scopo dalla dichiarazione dello stato di emergenza è stato esattamente il contrario – “demolire lo Stato di diritto per sostituirlo con lo Stato di biosicurezza”.

Dal punto di vista legale, ci sarebbe molto da dire sulla questione altamente controversa dell’obbligo vaccinale imposto dal governo italiano a certe categorie di persone durante la pandemia, una politica che è stata appoggiata da certi commentatori di sinistra, che anzi avrebbero voluto vedere l’obbligo esteso all’intera popolazione adulta.

Questa posizione non è supportata, a mio parere, da un lavoro serio di pensiero e di ricerca nei campi della bioetica, del biodiritto e della scienza biomedica.

 Il lettore potrà trovare riflessioni approfondite in merito nel documento rilasciato dal CIEB: “Parere sull’obbligatorietà del vaccino anti-Covid”.

Stati di emergenza: l’analisi di Kees van der Pijl.

Il libro di Kees van der Pijl, “States of Emergency: Keeping the Global Population in Check”, pubblicato in olandese nel giugno di 2021 ed in inglese nel 2022, offre, a mio parere, l’analisi più approfondita, più accurata e più convincente che sia stata pubblicata finora sulle questioni geopolitiche associate alla gestione autoritaria della pandemia.

States of Emergency spazia su quattro decenni di studi nel campo della geopolitica.

A differenza degli autori del libro Operazione Coronavirus, per esempio, l’orientamento politico dello studioso olandese non ha nulla a che vedere con la destra e perciò rimane difficile delegittimare il suo intervento importante associandolo al “cospirazionismo di destra”.

Cercherò di riassumere in questa sezione alcune delle tesi fondamentali di “Van der Pijl”.

La tesi centrale di “States of Emergency” è che il capitalismo globale, con la sua base nell’Occidente, è entrato in una crisi rivoluzionaria:

Dopo anni di preparazione, l’oligarchia regnante, che oggi esercita il suo potere in maniera estesa sul pianeta, ha preso l’opportunità presentata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2 e della malattia respiratoria attribuita ad esso, il Covid-19, per dichiarare uno stato di emergenza globale all’inizio del 2020.

Questa presa di potere ha lo scopo di impedire che la rivoluzione della Tecnologia Informatica, il cui impatto è paragonabile all’invenzione della stampa alla fine del medioevo, introduca una trasformazione democratica.

Il contesto storico immediato di questo colpo di stato globale è la crisi del capitalismo speculativo sorta nel 2008, sulla scia della quale è emersa nella popolazione mondiale una turbolenza senza precedenti.

In un altro passaggio chiave, Van der Pijl riassume la sua tesi come segue:

“la crisi da Covid ha offerto un’opportunità per rispondere alla crescente turbolenza nella popolazione globale.

Questa opportunità è stata colta dal blocco di potere di Intelligence-Tecnologia Informatica-media che l’ha sfruttata per instaurare uno Stato autoritario provvisto di tutta la nuova gamma di tecnologie digitali necessarie per implementare un sistema di sorveglianza permanente”.

Ciò che conta di più è che “la presa di potere da Covid” sta operando per impedire che si compia una transizione democratica verso una società che vada oltre il capitalismo.

L’olandese pensa, però, che lo sforzo per reprimere le popolazioni sia destinato a fallire, poiché è stato innescato troppo presto e in maniera sconnessa, e le contraddizioni tra i diversi interessi e le diverse istituzioni, che vanno d’accordo solo apparentemente, devono necessariamente sfociare in un conflitto.

A differenza della situazione che precedeva la Prima Guerra Mondiale, questa volta il malcontento delle masse non ha alcun orientamento politico chiaro, visto che la rivoluzione della Tecnologia Informatica non ha fatto nascere, come aveva fatto invece la Rivoluzione Industriale, un movimento rivoluzionario organizzato paragonabile al movimento socialista del lavoro, che poggiava il suo potere sulla classe operaia.

“Con il declino della produzione industriale nell’Occidente, e dunque dei sindacati, la turbolenza che è sorta dopo il 2008 è andata in tutte le direzioni – la Primavera Araba, Occupy Wall Street, i Gilet gialli in Francia, e via dicendo.

 Scioperi, sommosse e manifestazioni antigovernative, insieme alla migrazione di massa e all’abuso degli stupefacenti, hanno infranto tutti i record esistenti – fino al momento in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia.

I governi del mondo intero hanno risposto imponendo rapidamente stati di emergenza che paradossalmente andavano restringendosi man mano che diminuiva il virus fino a seguire un calendario oramai palesemente politico”.

Van der Pijl afferma però che la “pandemia” (le virgolette sono sue) non è il frutto di una frode singola e semplice o di una grande macchinazione ideata da Klaus Schwab, “l’oracolo di Davos”, che è stata attuata obbedientemente dai governi nazionali.

“Piuttosto”, spiega l’olandese, “è una crisi storica complessa, in cui la classe dominante globale ha preso il potere in un processo che ha avuto diversi punti di partenza.

Molti aspetti della ‘pandemia’ da Covid rimangono avvolti nel mistero.

Sembra certo che il virus sia scappato da un laboratorio, ma non sappiamo quale.

Ciò che possiamo concludere è che la descrizione ufficiale di ciò che sta accadendo è palesemente falsa e che dunque alla fine crollerà.

Non bisogna sottostimare le tempistiche di questo crollo, giacché i “media mainstream “costituiscono un elemento chiave nel complesso di forze che ha preso il potere in questo processo;

il loro inganno e la loro propaganda a riguardo di eventi storici importanti sono diventati routine dagli anni 1990 in poi”40.

Gli eventi della pandemia fanno parte della graduale transizione dal liberalismo occidentale a uno Stato autoritario.

L’emergenza dichiarata nella primavera del 2020, rappresenta effettivamente uno stato di guerra che ha lo scopo di salvaguardare l’ordine esistente.

 Come George Orwell ha spiegato in 1984, tutte le guerre moderne svolgono questa funzione.

Ma, mentre in Stati come la Cina le popolazioni già vivevano in uno stato di emergenza permanente, nell’Occidente gli antecedenti sono diversi e per reprimere le popolazioni abituate alla tradizione liberale sarebbero servite misure draconiane paragonabili alla guerra psicologica e alla tortura mentale.

Van der Pijl cita un’intervista rilasciata da Angelo Giorgiani, in cui questo magistrato italiano affermava che si trattava di “una nuova forma di terrore di Stato”.

La situazione sociale a cui l’emergenza dichiarata nel nome del Covid è la risposta, è paragonabile a quelle che precedevano la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.

In questo periodo, c’è di nuovo molta agitazione che in certe regioni del mondo e in certi Paesi arriva ai limiti dell’insurrezione.

Nel Medio Oriente, e in Paesi come l’India, il Cile e la Francia, erano emersi movimenti potenzialmente rivoluzionari, capaci di rovesciare i governi, spaventando le classe dominanti del mondo intero.

Quando Van der Pijl scriveva “States of Emergency”, il movimento popolare, in tutta la sua diversità, era stato paralizzato.

Il professore olandese spiega come la struttura sociale dell’America del Nord, dell’Australasia e dell’Europa favorisca questo stato di quasi normalizzazione.

Da un lato abbiamo una classe cosmopolita di tecnici che lavora per l’oligarchia ed è concentrata nelle grandi città.

Questa classe condivide lo spazio urbano con una popolazione di immigrati che vivono principalmente per servirla.

 Di fronte a questa classe privilegiata esiste una popolazione domestica marginalizzata che è divenuta in gran parte economicamente superflua.

 In questa complessa configurazione di forze si è cristallizzata un’impasse politica nella quale le etichette “sinistra” e “destra” stanno perdendo la loro forza.

Ma la situazione rimane comunque potenzialmente rivoluzionaria.

Van der Pijl descrive anche le strutture nascoste di repressione che avevano accompagnato l’epoca precedente, caratterizzata da un compromesso delle classi.

Queste strutture si sono svelate durante la pandemia, giacché i governi hanno adottato tattiche di contro-insurrezione per dominare la crescente resistenza contro i lockdown imposti durante l’emergenza da Covid.

Ogni esercizio di potere nel capitalismo liberale, spiega il professore, poggia su un contratto sociale sostenuto da un’ideologia che l’accompagna, un concetto comprensivo di controllo che sostituisce il ruolo aggregante svolto in passato dalla religione, dalla nazione e dalla civiltà.

Questa volta, la classe dominante ha scelto di non aspettare che una “nuova normalità” sorga in maniera organica dal processo di formazione delle classi, come era accaduto dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancora negli anni ‘70.

 Il capitalismo non è più in grado di dare vita ad un compromesso tra le classi razionale e invece ha incominciato a regnare tramite i “worst case scenarios”, gli scenari del caso peggiore.

 Con l’emergenza da Covid, la classe dominante, consapevole della precarietà della sua situazione, ha cercato di imporre una “nuova normalità”.

Il nuovo blocco di potere emerso dai bisogni di intelligence dell’apparato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, gran parte del quale è stato privatizzato in forma di monopoli della “Tecnologia Informatica” e vasti conglomerati (multi-)media, ha imposto dall’alto lo scenario da Covid tramite uno shock esterno il cui obiettivo è la creazione di una “società della sorveglianza”.

 La finanza aveva approfittato delle tecnologie dell’informazione, ma dopo il crack di 2008 le forme di speculazione più rischiose sono state frenate tramite la ristrutturazione e l’aggregazione del controllo finanziario nella forma di passive index funds come BlackRock.

È impossibile accertare se la crisi da Covid è stata sfruttata per prevenire un imminente collasso finanziario o per impedire la rielezione del presidente populista degli Stati Uniti, Donald Trump, o entrambe le cose.

Il populismo nazionalista, che cerca di sormontare la crisi politica della democrazia occidentale mobilitando lo scontento contro la classe urbana privilegiata e contro gli immigrati, si presenta come una forza rivoluzionaria, paragonabile ai movimenti fascisti degli anni 1930.

Nelle condizioni attuali però, la parte mainstream dell’oligarchia non sembra aver bisogno per il momento di questa forza che rappresenta in realtà una distrazione dai problemi fondamentali del capitalismo.

Che il presidente outsider Trump rappresentasse una minaccia intollerabile per l’oligarchia globalista è ovvio ed è ugualmente evidente che quest’ultima volesse eliminarlo.

Van der Pijl offre un’analisi dettagliata dell’ostilità verso Trump tra i membri delle frazioni dominanti della classe regnante e spiega come la sconfitta elettorale si può interpretare come una specie di colpo di Stato.

Molto meno noto che la coincidenza della pandemia con l’anno elettorale che avrebbe potuto vedere l’inizio di un secondo termine per l’imprevedibile presidente populista è il fatto che a metà settembre 2019 scoppiò una nuova crisi finanziaria che rischiava di innescare un nuovo crack, paragonabile a – o anche peggiore di – quello del 2008.

Nell’autunno del 2019 un’impennata imprevista del tasso d’interesse a corto termine nel repo market – il mercato che assicura l’esistenza di una sufficiente liquidità per mantenere funzionale il sistema di pagamenti nel mondo finanziario – ha minacciato di paralizzare questo mercato essenziale.

La Federal Reserve di New York ha dovuto intervenire iniettando nel sistema una grande quantità di dollari.

L’emergenza covidiana ha permesso ai governi occidentali di giustificare al pubblico una nuova e incrementata politica di “Quantitative Easing”.

 Alla fine di maggio 2020, gli Stati del G20 avevano speso, collettivamente, 7 trilioni di dollari in sgravi fiscali e sovvenzioni dirette.

La cifra rappresenta più del 10 percento del PIL, molto di più di ciò che avevano speso durante il collasso del 2008.

Allo stesso tempo, l’imposizione dei lockdown ha permesso di rallentare l’economia globale, riducendo in questo modo l’inflazione.

È evidente che ormai il sistema capitalista è entrato in una fase di emergenza permanente e che le fazioni dominanti dell’élite stanno cercando di guidare una transizione verso un sistema politico ed economico completamente diverso.

Nel quarto capitolo di “States of Emergency” Van der Pijl cerca di dimostrare che una pandemia, vera o immaginaria, era diventata la copertura ideale per stabilire una società di sorveglianza senza dover ricorrere a sistemi di violenza espliciti.

Va notato che la paura del terrorismo, la minaccia di “Putin” [che adesso però è scoppiata in una guerra devastante sfruttata politicamente in tutti i modi, anche se maldestramente, dai governi occidentali], lo spettro del cambiamento climatico, e altri scenari del caso peggiore, non sono riusciti a mobilitare la società come lo ha invece fatto l’epidemia di una malattia sconosciuta.

Essa si è dimostrata un nuovo avatar molto efficace della politica della paura sulla quale la legittimità governamentale nell’Occidente poggia dopo la disintegrazione del compromesso delle classi e il collasso del socialismo statale dell’Unione Sovietica.

All’inizio del nostro secolo, il SARS-1, l’influenza aviaria e, sulla scia del collasso finanziario, il panico dell’influenza suina del 2009, hanno dimostrato le possibilità offerte da un’allerta scatenata da un virus, benché queste epidemie non fossero abbastanza diffuse per giustificare l’imposizione di uno stato di emergenza.

Le valutazioni dei lockdown in Cina e nel Canada all’epoca del SARS-1 hanno dimostrato che i cittadini sono disposti a subire interventi radicali per dar prova delle loro virtù civiche e perfino del loro patriottismo.

Nel 2010, la Rockefeller Foundation ha ideato uno scenario dettagliato per una pandemia immaginaria in grado di permettere una repressione di massa.

Negli anni che seguirono, il copione per una chiusura integrale della società è stato elaborato in modo dettagliato.

Qui la Gates Foundation del fondatore di Microsoft, Bill Gates, l’esponente per eccellenza del blocco di potere della Tecnologia Informatica, ha svolto il ruolo di “quadro di distribuzione” tramite il quale lo scenario del virus è stato trasmesso all’OMS, ai governi nazionali, e al complesso biopolitico.

L’internazionalizzazione della politica statale, con i governi individuali ormai ridotti a svolgere il compito di implementare le linee guide stabilite a livello globale, ha offerto i canali attraverso cui il blocco di potere Intelligence-Tecnologia Informatica-media, alleatosi al complesso biopolitico, ha potuto imporre lo stato di emergenza da Covid.

Nel corso dell’anno 2019, una serie di riunioni internazionali di pianificazione, culminati nell’ormai famigerato “Event 201”, non solo ha finalizzato i preparativi per una possibile pandemia da virus, ma si è focalizzata in particolar modo sull’“infodemia” delle opinioni dissidenti, sottolineando così la realtà politica nascosta dalla presunta emergenza sanitaria.

Uno dei fattori più incerti della crisi da Covid è rappresentato dai rapporti tra l’Occidente, e in particolar modo tra gli Stati Uniti, e la Cina.

 Nel quinto capitolo di “States of Emergency “Van der Pijl dimostra che gli USA hanno costruito una comprensiva infrastruttura di ricerca finalizzata alla guerra biologica contro la Russia e la Cina, utilizzando l’Africa nera come terreno di addizionale prova.

 Paradossalmente però, gli Stati Uniti cooperavano strettamente con la Cina nel campo della ricerca microbiologica, anche se la Cina ne contende il potere.

Infatti, nella sfera della Tecnologia Informatica, per esempio, era trattata come un nemico.

 Nel corso del 2019, anche la cooperazione USA-Cina nella biodifesa è andata storta.

Sembra certo che il coronavirus sia scappato da un laboratorio dove i virus vengono soggetti alla ricerca di gain-of-function per renderli più pericolosi, ma non è sicuro se era il laboratorio di Wuhan al quale la ricerca americana era subappaltata, o Fort Detrick nel Maryland.

Van der Pijl chiude questo capitolo osservando che, malgrado la trasformazione dell’Occidente liberale sul modello della Cina autoritaria (benché rimanga tuttora controllato dalle sue élite attuali che la governano per proteggere i loro interessi), non è probabile, nel contesto dei rapidi cambiamenti nell’equilibrio del potere, che questo fenomeno conduca ad una stabile tregua che trascenda le rivalità imperialiste.

L’ultimo capitolo di “States of Emergency” esamina le possibilità che la rivoluzione della Tecnologia Informatica offre alla società per prendere un’altra strada, quella orientata verso una democrazia radicale e verso la pianificazione digitale.

Secondo Van der Pijl, ciò che questa rivoluzione presenta di particolare è che, per la prima volta nella storia, esiste la tecnologia capace di sormontare, in linea di principio, la contraddizione tra la libertà individuale e la sicurezza sociale ed ecologica collettiva.

La classe regnante dell’Occidente capitalista è consapevole di questo potenziale e vuole schiacciarlo prima che possa fiorire, iniziando con una repressione massiccia dei media sociali.

Anche le classi dominanti dei paesi non occidentali si stanno interessando molto a restringere e a sorvegliare la Tecnologia Informatica.

Secondo l’olandese, il mondo è stato messo per forza in una situazione rivoluzionaria dalle azioni dell’oligarchia e deve affrontare la scelta fra sommettersi e cercare un’alternativa che consisterebbe nello spogliare i padroni miliardari di ciò che Marx chiama “il cervello sociale”.

Nel processo emergerà un ampio movimento politicamente eterogeneo che avrà il compito di re-instaurare e rinnovare la democrazia, sfruttando allo stesso tempo le possibilità offerte dalla rivoluzione della Tecnologia Informatica per creare un futuro percorribile per l’umanità.

Altrimenti, quest’ultima perirà.

Van der Pijl riprende nel suo libro molti elementi già apparsi nei canali di informazione alternativi.

Il suo approccio molto più empirico che ideologico gli ha permesso di consultare con profitto una grande varietà di fonti.

 La grande forza della sua analisi risiede però nelle sue conoscenze profonde del contesto geopolitico in cui sono emersi gli stati di emergenza covidiani e nella sua consapevolezza delle complessità insite nell’esercizio del potere nel sistema capitalista moderno.

Il professore olandese s’interessa alla questione centrale della scienza politica – come far sì che una minoranza riesca a far accettare alla vasta maggioranza il suo governo.

 Capisce perfettamente però che la classe dominante non è “un gruppo compatto e omogeneo sempre in grado di produrre una e una sola azione politica”.

 Van der Pijl si focalizza in particolare su ciò che Ries Bode chiama “un concetto comprensivo di controllo” che si può identificare con un particolare segmento o una particolare frazione della classe capitalista.

Una tale frazione svolge il ruolo di organizzatore di un grande blocco di forze, o blocco storico.

 Lo fa presentando al grande pubblico concetti che tutelano i loro interessi, come se fossero nell’interesse pubblico, ossia della società in generale.

Nel contesto dell’analisi di Van der Pijl, questa frazione direttiva è ciò che egli chiama il triangolo “Intelligence-Tecnologia Informatica-media”.

Al centro di “States of Emergency” è dunque un’analisi dettagliata del blocco di potere che si è formato intorno al complesso di Intelligence militare degli Stati Uniti, unito strettamente alla sfera potentissima della Tecnologia Informatica – il mondo di Silicon Valley – e all’universo dei media mainstream.

Van der Pijl dimostra anche come, tramite il complesso di bioguerra e il ruolo pivotale svolto dalla Gates Foundation, questo blocco si è alleato alla sfera dell’industria farmaceutica e delle istituzioni sanitarie, in primis l’OMS, per attivare un piano elaborato da anni durante una lunga serie di esercizi di pianificazione – dal “Dark Winter” (2001) all’“Event 201” (2019) – per contrastare gli attacchi di bioguerra o di bioterrorismo e per prepararsi per quella pandemia micidiale che, da anni, Bill Gates non smetteva di avvisarci che sarebbe arrivata.

Pianificare per lo stato di emergenza biopolitica.

La base fondamentale per la presa di potere motivata dal Covid è psicologica e sociologica.

 È stato il sociologo della sanità pubblica Patrick Zylberman a dare al complesso biopolitico le informazioni necessarie per poter innescare uno stato di emergenza sanitaria capace di indurre le popolazioni a rinunciare alle loro libertà più fondamentali.

Zylberman ha studiato estensivamente le conseguenze socio-psicologiche dell’epidemia da SARS-1 in Cina e nel Canada, focalizzandosi in particolar modo sui lockdown.

Il francese trascorse sei mesi come ricercatore ospitato dal “Munk Centre for International Studie”s e dalla “Munk School of Global Affairs”, facenti entrambi parte dell’Università di Toronto, nella città dove il SARS ha avuto l’impatto più grande dopo la Cina.

Questi centri sono sovvenzionati da “Peter Munk”, il proprietario di “Barrick Gold”, l’impresa mineraria più grande del mondo.

Van der Pijl spiega come Barrick è integrato nella classe dominante transazionale, dove, grazie alle ricerche di Zylberman, è emersa l’opinione consensuale che i lockdown potevano offrire una risposta effettiva alla turbolenza globale.

Dal 2007 al 2009, prima di uscire nel libro Tempêtes microbiennes (2013), le ricerche di Zylberman circolavano in forma di articoli pubblicati per la” Lupina Foundation”, basata a Toronto, e in questo modo sono state conosciute dal sistema di potere.

“Che nel nuovo millennio ‘la salute’ sia stata integrata nella strategia internazionale della classe regnante emerge anche dal fatto che nel 2004 la prima cattedra di “Salute e Globalizzazione”, sovvenzionata dalla Bill & Melinda Gates Foundation, fu creata dal “Council for Foreign Relations”, osserva Van der Pijl46.

Le investigazioni di Zylberman durante la crisi da SARS del 2003 hanno dimostrato che la vasta maggioranza della popolazione ha accettato tutte le misure sanitarie, dimostrando così che è possibile esercitare un forte controllo sulla popolazione durante un’epidemia.

Il modello per l’instaurazione di un regime draconiano è stato offerto dall’influenza spagnola del 1918, non dalle epidemie influenzali del 1958 e del 1968, visto che in queste, malgrado la morte di un milione e mezzo di vittime in entrambi i casi, la vita del resto della popolazione è rimasta immutata.

La grande utilità che le ricerche di Zylberman rappresentano per la classe dominante è che si focalizzano sulla psicologia collettiva e le dinamiche dei rapporti sociali durante una grave crisi sanitaria.

 Le sue indagini avevano indotto lo studioso francese a concludere che lo Stato è capace di esercitare un potere molto più grande di quanto si era immaginato nell’epoca della privatizzazione e della liberalizzazione.

Secondo Zylberman, si vedeva in azione una nuova forza, oppure una nuova finzione, lo spirito civico estremo.

Le istruzioni, spesso contraddittorie, emesse dalle autorità hanno aumentato lo stato di frustrazione provocato dal lockdown, ma ciò nonostante sono state seguite dalla maggioranza.

 Secondo il ricercatore francese, solo circa quindici percento della popolazione era dissidente (una cifra che probabilmente è rimasta uguale per l’emergenza da Covid).

Una delle idee più importanti di Zylberman è quella degli scenari del caso peggiore, che ormai formano la base della politica sanitaria.

 Van der Pijl commenta:

Abbiamo già visto che dopo il collasso dell’Unione Sovietica e del comunismo, scenari di paura hanno sostituito il concetto di controllo tramite cui il potere era stato esercitato nell’epoca precedente.

Invece di una costellazione più o meno stabile di classi il cui contratto sociale (non scritto) esprime un programma quasi govermentale che viene accettato dalla maggioranza, gli scenari del caso peggiore evocano invece visioni di paura alle quali i cittadini si sottomettono credendo che non c’è altra via di uscita dal disastro che, secondo le autorità, incombe su loro, che di obbedire alle istruzioni del Governo.

Mentre un concetto di controllo trova la sua logica nella realtà dei rapporti di forza tra le classi, e perde dunque la sua efficacia quando questi subiscono un cambiamento fondamentale, uno scenario di paura poggia invece sulla logica della sua narrazione.

 I suoi autori possono solo sperare che questa si presenti come ‘credibile’, anche se è vero che non devono preoccuparsi che possa essere minata dai media, poiché questi fanno parte del cuore del nuovo blocco di potere.

Nel 2010 l’idea dello scenario del caso peggiore è stata ripresa in un report prodotto in tandem dalla “Rockefeller Foundation” e dal “Global Business Network” (GBN), un sussidiario di “Deloitte” che si specializza nello sviluppo di scenari.

Questo report è spettacolare, osserva Van der Pijl, “perché per noi che abbiamo testimoniato il disastro provocato dal Covid, sembra quasi incredibile leggere in grande dettaglio in un documento prodotto anni fa lo scenario di ciò che sta accadendo ora”.

Il report della Rockefeller Foundation e del GBN discute quattro scenari.

Qui ci interessa solo il secondo, che si chiama “Lock Step”.

Questo descrive “un mondo nel quale il controllo governamentale imposto dall’alto diventa più stretto, il comando diventa più autoritario, le innovazioni sono limitate, e sorge una crescente resistenza da parte dei cittadini”.

La premessa di questo scenario è quella di una pandemia influenzale molto virulenta che sarebbe iniziata in Cina e che avrebbe colpito nel 2012.

La Cina risponde rapidamente, imponendo “quarantene obbligatorie a tutti i cittadini”.

Sempre più governi prendono misure come l’imposizione delle mascherine nei negozi e negli spazi pubblici, e anche dopo la diminuzione della pandemia queste misure rimangono in vigore.

La sorveglianza autoritaria dei cittadini e delle loro attività viene pure intensificata.

I leader del mondo intero tirano le redini “per proteggersi contro la diffusione di problemi su scala sempre più globale – dalle pandemie e dal terrorismo transazionale alle crisi ambientali e alla povertà in crescita”.

“Non è difficile”, commenta Van der Pijl, “decodificare la frase ‘problemi su scala sempre più globale’ contro i quali i leader del mondo intero devono proteggersi – la turbolenza della popolazione globale, che abbiamo identificato come la ragione principale per la quale è stato stabilito lo stato di eccezione da Covid, e la minaccia di rivolte […].

Lock Step offre il rimedio”.

Il report descrive come, all’inizio, “la nozione di un mondo più controllato viene largamente accettata e approvata. I cittadini rinunciano a una parte della loro sovranità – della loro privacy – in cambio di una più grande sicurezza e di una più grande stabilità fornite da Stati più paternalistici”.

“Nei paesi sviluppati”, afferma ancora il report, “questa sorveglianza aumentata ha preso molte forme, tra cui l’imposizione dell’identità biometrica a tutti i cittadini”.

Secondo il report, la popolazione non avrebbe accettato queste restrizioni a tempo indeterminato:

 un decennio dopo il disastro fittizio, i cittadini avrebbero iniziato a ripudiare la svolta autoritaria, ma nel frattempo i cambiamenti sarebbero diventati irreversibili e il nuovo regime si sarebbe affermato così saldamente che non sarebbe più stato possibile tornare alla normalità di prima.

Lo scenario identifica la rivoluzione della Tecnologia Informatica come la base sulla quale questa sorveglianza intensiva diventa possibile e sulla quale l’ordine esistente può essere reso sicuro.

Per sormontare la crisi, il report propone di trasformare l’economia, basandola interamente sulle conquiste della rivoluzione della Tecnologia Informatica, visto che in questo campo l’Occidente ha ancora tutti i vantaggi, grazie ai monopoli dell’Internet.

“Oggi”, osserva Van der Pijl, “riconosciamo questo progetto come il Great Reset propagato dal World Economic Forum di Klaus Schwab – un progetto che questo ente promuove in realtà dagli anni 1990, con diversi nomi, ma sempre con lo stesso contenuto (un’economia digitale globale)”.

Questo report Rockefeller/GBN basterebbe da solo a dimostrare”, scrive ancora Van der Pijl, “che il piano per le misure prese nel 2020 era stato scritto molto tempo prima del Covid-19, e che era visto come la risposta alle sfide presentate all’Occidente quando il collasso finanziario del 2008 innescò la turbolenza globale.

Questo è a mio avviso il problema principale riscontrato dal regime capitalista, piuttosto che una presunta emergenza sanitaria”.

Lo scenario di “Lock Step” deve essere considerato nel contesto di una lunga serie di simulazioni ed esercizi di preparazione per l’arrivo di epidemie.

 “Tra gli scenari del caso peggiore che i governi iniziarono a studiare negli anni 1990”, scrive Van der Pijl, “con l’intenzione di sostenere la loro autorità malgrado la disintegrazione morale della società capitalista, l’influenza spagnola era al primo posto.

“Con il senno di poi”, scrive ancora, “si vede che tra le minacce fittizie per le quali sono stati sviluppati scenari dopo ‘la fine della storia’, le malattie infettive e il bioterrorismo hanno ricevuto un’attenzione eccezionale.

Il bioterrorismo rappresenta la minaccia ideale, perché basta una singola persona per provocare un disastro.

In queste circostanze, la salute è stata associata sempre più strettamente alla sicurezza nazionale”.

A maggio del 1989, con il sostegno della NIAID di Anthony Fauci e della Rockefeller University, si tenne a Washington una conferenza dal titolo “Emerging Viruses”.

Nello stesso anno, il “John Hopkins Centre for Civilian Defense Studies” ha simulato un ipotetico scenario in cui la città di Washington DC era stata colpita dal virus del vaiolo.

Nel 1998 fu stabilito il John Hopkins Center for Civilian Biodefense Studies e nell’anno seguente e di nuovo nel 2000 furono tenuti simposi sul bioterrorismo, con un’interazione sempre maggiore tra la politica, la scienza e i media.

Nello stesso anno 2000 fu condotto il primo esercizio contro il bioterrorismo, “TopOff2000”, che sarebbe stato seguito da altri simili chiamati “Dark Winter” (2001) e “Atlantic Storm” (2005).

“Guardando indietro oggi”, osserva Van der Pijl, “colpisce il fatto che gli scenari per il bioterrorismo avevano tutti come premessa che il panico che avrebbe provocato un attentato biologico, avrebbe permesso di indurre le persone a rinunciare alle loro libertà nella lotta contro l’epidemia e che tutti gli scenari concordano sulla necessità di sopprimere le voci dissidenti.

Questa sarebbe stata la base che avrebbe fatto convergere i punti di vista degli epidemiologi e di coloro che cercano metodi per rovesciare le libertà civili e sopprimere la democrazia.

Le istituzioni che oggi svolgono un ruolo importante nella crisi da Covid erano anch’esse implicate sin dall’inizio”.

Una di queste istituzioni chiave è senz’altro la Bill & Melinda Gates Foundation, fondata nel 2000.

Certo, come osserva il ricercatore olandese, questa fondazione “non è l’onnipotente deus ex machina”, ma comunque “svolge un ruolo di primo livello nel complesso biopolitico”.

Oltre l’industria farmaceutica, questo complesso include anche il settore della salute, le organizzazioni internazionali dedicate alla sanità pubblica come l’OMS e la divisione sanitaria del” World Bank”, e le istituzioni di sanità pubblica nazionali come il “Centers for Disease Control” (CDC) e il “National Institute for Health” degli Stati Uniti e i loro equivalenti negli altri paesi, e anche certe “ONG” come “Medici Senza Frontiere”.

Nel luglio del 2019, un nuovo ente transazionale, il “Global Preparedness Monitoring Board” (GPMB), pubblicò il suo primo report annuale.

 Il GPMB era stato convocato dal “World Bank Group” e dall’”OMS” per preparare il mondo per “lo spettro di una emergenza generale di salute pubblica”.

Seguendo la solita logica degli scenari del caso peggiore, il report precisava che questa emergenza sarebbe “la minaccia molto reale della rapida diffusione di una pandemia devastante provocata da un patogeno respiratorio, che avrebbe ucciso entro 50 e 80 milioni di persone e avrebbe distrutto quasi il cinque percento dell’economia globale”.

“In realtà”, commenta Van der Pijl, “il compito principale di questo Board era quello di preparare il terreno per uno stato di emergenza internazionale che avrebbe imposto obblighi stringenti agli Stati individuali”.

Tre mesi dopo la pubblicazione del report del GPMB, nell’ottobre del 2019, poco prima della pandemia da Covid-19, la Gates Foundation, insieme al John Hopkins Centre for Health Security e il World Economic Forum, convocò a New York un simposio con il titolo di “Event 201 – A Global Pandemic Exercise”.

 Questa simulazione, che si focalizzò su un’epidemia virale, progettò una mortalità di 65 milioni di vittime durante un periodo di diciotto mesi, provocando una depressione economica planetaria che sarebbe durata un decennio.

 I partecipanti includevano il CDC degli Stati Uniti; George Gao, il capo delle autorità sanitarie cinesi; Avril Haines, già vice-direttore della CIA, adesso una lobbyist per le imprese di Tecnologia Informatica presso il Governo degli Stati Uniti ed i servizi di Intelligence americani; rappresentanti del settore farmaceutico, notevolmente Johnson & Johnson, e Henry Scheiu, un agente per i vaccini della Pfizer, e anche gli specialisti della salute e dei rischi di vare altre grandi imprese.

Uno degli aspetti più notevoli dell’”Event 201” è l’enfasi che questo esercizio di preparazione ha messo sul pericolo di un’“infodemia”, una marea di “disinformazione” che avrebbe messo in discussione la narrativa ufficiale.

Tra le sue raccomandazioni figuravano una censura più stretta dei media sociali e perfino la chiusura totale dell’Internet.

 Alcuni partecipanti hanno sottolineato la necessità di controllare la narrativa, organizzando le discussioni sui social con una chiara politica editoriale.

 Stephen Redd del Public Health Service promulgò l’idea di identificare le persone che si sarebbero espresse sui social con “credenze negative”.

Quello sarebbe stato un grossissimo impegno, ma, come osservò un altro partecipante, se tralasciato i governi sarebbero potuti cadere, come era successo durante la Primavera Araba.

Il ministro delle finanze di Singapore persino promosse l’idea di far arrestare e processare i dissidenti.

“Tutto questo”, commenta Van der Pijl, “riflette lo stimolo originale che aveva fatto nascere gli scenari di emergenza pandemica: la paura di non riuscire più a contenere la popolazione del mondo”.

Gli scenari del caso peggiore e il Covid-19: la finzione pandemica.

La finzione degli scenari del caso peggiore, che sta alla base di tutte le simulazioni pandemiche e di tutti gli esercizi di preparazione contro il biot errore, non è rimasta confinata lì.

Questi esercizi inquietanti gestiti dal complesso biopolitico sono entrati nel mondo reale, provocando una grandissima confusione.

Abbiamo già visto nel primo articolo della serie come la “pandemia” da influenza suina è stata dichiarata dall’OMS nel 2009, subito dopo il crack del 2008, sulla base di proiezioni di mortalità che si sono rivelate completamente false.

 La stessa cosa è successa nel 2020.

In ambedue i casi, uno degli scienziati prominenti che ha prodotto modelli computerizzati offrendo previsioni epidemiologiche estremamente esagerate, utilizzate dalle autorità per giustificare misure estreme, è stato il professore Neil Ferguson dell’Imperial College, a Londra.

Come osservò il giornalista inglese “Steerpike”, scrivendo nell’Observer nell’aprile 2020, già varie volte nel passato il professore aveva sbagliato le sue predizioni in modo assolutamente spettacolare.

Nel 2002, Ferguson aveva predetto che 50.000 persone sarebbero morte di encefalia bovina; in realtà, sono morte 177.

Nel 2005 aveva detto che fino a 200 milioni di persone (nel mondo intero) sarebbero potute morire dell’influenza aviaria;

il totale dei morti fu esattamente 282.

Nel 2009, Ferguson avvertì il Governo britannico che l’influenza suina avrebbe potuto uccidere 65.000 persone nel Regno Unito.

In realtà, la malattia uccise 457 persone in quel paese.

Seguendo il suo sistema consueto, il 16 marzo 2020 Ferguson pubblicò un modello computerizzato che prevedeva più di mezzo milione di morti per causa del Covid nel Regno Unito e 2.2 milioni negli Stati Uniti, se non fossero state prese misure per contenere il virus.

Due mesi dopo, Ferguson confessò di aver utilizzato un codice obsoleto, provocando “The Telegraph” a descrivere il modello come “l’errore di software più devastante di tutti i tempi”.

Devastante perché le predizioni matematiche del professore dell’Imperial College furono utilizzate dai politici per giustificare il lockdown, con tutte le conseguenze catastrofiche che sappiamo.

Ma si può veramente dire che questo sia stato un errore?

 La pubblicazione di Ferguson non è mai stata soggetta al processo di “peer review” e quando degli scienziati hanno chiesto di poter ispezionare il codice che aveva usato, la loro richiesta non è stata soddisfatta per parecchie settimane.

Quando finalmente il codice fu rilasciato, non era quello originale – era stato modificato da una equipe di Microsoft e di Github.

Quando la giornalista inglese “Laura Dodsworth” parlò di Ferguson con “Knut Wittowski”, già direttore di Biostatistiche, Epidemiologia e Disegno di Ricerca presso la Rockefeller University, questi non l’ha preso molto sul serio perché, secondo lui,

 “tra gli scienziati, Neil Ferguson non ha nessuna credibilità perché le sue predizioni sono sempre sbagliate”.

Gli scienziati non prendono Ferguson sul serio, ma i Governi sì.

Per loro, nell’epoca della politica degli scenari del caso peggiore, i modellatori disposti a fabbricare previsioni allarmistiche svolgono un ruolo fondamentale.

Non è indifferente sapere che il gruppo di ricerca diretto da Ferguson all’Imperial College riceve milioni di dollari all’anno dalla “Gates Foundation” e da “GAVI Alliance”, un consorzio internazionale che promuove i vaccini (anch’essa sovvenzionata da Gates).

Inoltre, Ferguson è il direttore del “Vaccine Impact Modelling Consortium”, un altro ente sovvenzionato dall’onnipresente Gates.

Il professore inglese si trova dunque pienamente integrato nel complesso biopolitico internazionale.

Notiamo en passant che l’altro ente importante del mondo anglosassone che ha prodotto previsioni stratosferiche di mortalità all’inizio della pandemia è il “Washington Institute for Health Metrics and Evaluation”.

Fondato nel 2007, anche questo istituto conta la Gates Foundation fra i suoi principali donatori.

In Germania documenti trapelati dal Ministero dell’Interno hanno mostrato che il Governo aveva dato istruzioni agli scienziati chiedendo loro di produrre uno scenario del caso peggiore in grado di giustificare l’imposizione di restrizioni alla società.

“Die Welt am Sonntag” ha rivelato come scienziati di alto livello presso varie università e vari istituti di ricerca hanno collaborato con il Ministero creando un modello computerizzato allo scopo di aiutare nella pianificazione di misure “di carattere preventivo e repressivo”.

 Secondo il Segretario di Stato “Mark Kerber”, si trattava di “mantenere la sicurezza interna e la stabilità dell’ordine in Germania”.

“Senza burocrazia, il massimo coraggio” raccomandò Kerber in una frase codificata che, spogliata dall’ipocrisia ministeriale, può chiaramente essere interpretata come “senza scrupoli, spingendo le predizioni al massimo”.

Lo scenario del caso peggiore prodotto dal Governo tedesco per spaventare i cittadini offriva anche immagini traumatiche atte a creare un impatto emotivo viscerale:

“Molte persone gravemente malate vengono portate all’ospedale dai loro familiari, ma vengono rimandate a casa, dove muoiono molto dolorosamente annaspando.”

 “Quando [i bambini] contagiano i loro genitori e uno di loro muore molto dolorosamente essi si sentono colpevoli per non essersi lavati le mani dopo aver giocato per esempio, e questa è la cosa più terribile che un bambino possa mai sperimentare”.

 In questo modo la cultura della finzione drammatica, frutto di una lunga serie di esercizi di preparazione pandemica che si erano focalizzati su scenari del casi peggiori, è stata strumentalizzata per convincere i tedeschi a rinunciare alle loro libertà costituzionali.

La soppressione del dissenso.

Abbiamo visto che la soppressione del dissenso – con il pretesto di combattere la “disinformazione” – è stata una preoccupazione costante di tutti gli esercizi di preparazione pandemica.

In uno stato di emergenza giustificato da uno scenario del caso peggiore, il controllo della narrativa è essenziale, perché è sulla narrativa, non sulla realtà epidemiologica, che poggia tutto l’apparato di controllo emergenziale.

Per questo, con loro grande meraviglia, molti scienziati medici si sono trovati censurati o diffamati – o tutte e due le cose – quando cercavano di offrire al pubblico opinioni o informazioni in grado di minare la narrativa pandemica ufficiale.

Questa soppressione delle voci dissidenti è stata pianificata dal complesso biopolitico, con l’aiuto dei media e dalle grandi imprese di Tecnologia Informatica.

Una figura chiave in questo progetto di contro-insurrezione – perché di questo si tratta – è l’ex generale americano Stanley McChrystal, che era stato il capo del “Joint Special Operations Command” in Afghanistan dal 2008 al 2011, quando fu licenziato dopo aver criticato in un’intervista la gestione della guerra.

Nel 2011, McChrystal creò un gruppo di consulenza, il McChrystal Group, offrendo così al contesto domestico le sue esperienze nel campo della contro-insurrezione.

Nel 2020, il “McChrystal Group” divenne il consulente centrale per la gestione della sfida politica rappresentata dal Covid e il gruppo ricevette molte richieste da parte di città e di stati individuali negli Stati Uniti.

 Intervistato da Forbes in aprile, l’ex generale spiegò che la lotta contro l’epidemia doveva essere condotta come una guerra.

Il comando di questa guerra doveva essere centralizzato è messo sotto la direzione del governo federale, senza ingerenza politica, e doveva essere condotta senza opposizione, altrimenti sarebbe finita, come la guerra del Vietnam, in un ritiro invece di una vittoria.

Le operazioni condotte da “McChrystal” erano in realtà parte di una guerra dell’informazione e Van der Pijl spiega come l’ex generale abbia potuto contare sulla collaborazione di una grande diversità di alleati nei media mainstream, da Fox News a CBS a CNN.

 I podcast rilasciati dal McChrystal Group, con il titolo bellico di “No Turning Back” (“Non tornare indietro”), includono portavoce del complesso industriale militare come “Michèle Flournoy”, già vice segretaria della difesa, e rappresentanti del complesso biopolitico come “Sue Desmond-Hellman”, l’amministratrice delegata della Gates Foundation dal 2014 al 2020.

Il McChrystal Group ha anche condotto su Internet campagne contro gli scettici o “negazionisti” pandemici e i “no vax”, insieme al Poynter Institute (sovvenzionato dal Gates Foundation), l’Omidyar Network (appartenente al padrone di eBay, Pierre Omidyar), l’Open Society Foundation di George Soros e Facebook.

 In questo modo è stato innescato tutto un meccanismo di controllo dell’informazione o della narrativa allo scopo di censurare o delegittimare il dissenso che, quando non era cancellato su Internet, veniva sistematicamente descritto come “disinformazione” o “complottismo”.

Aggiungiamo che in questa guerra dell’informazione la BBC ha svolto un ruolo se non onorevole almeno di primo livello, mettendo – e rischiando – tutto il suo prestigio mondiale al servizio del grande progetto liberticida dell’oligarchia capitalista.

 In questo modo la grande azienda britannica ha perso molta credibilità.

Il risveglio politico di molti cittadini britannici trova un simbolo perfetto in uno striscione che è apparso durante una grande manifestazione a Londra contro l’obbligo vaccinale che il Governo ha tentato – senza successo – di imporre ai sanitari della National Health: “Did the BBC’s credibility die of Covid or with Covid?” – “La credibilità della BBC è morta di Covid o con il Covid?”.

L’emergenza covidiana in Italia.

Alcuni commentatori considerano che l’Italia abbia svolto un ruolo particolare nella “gestione biopolitica” della pandemia.

 Infatti, in questo paese le misure repressive sono state spinte al di là di quelle imposte in molti altri paesi occidentali.

Già da tempo in Italia il sistema parlamentare era entrato in una profonda crisi ed erano anni che il paese veniva governato da “tecnici”, che rappresentano direttamente gli interessi della finanza internazionale.

 Mario Draghi, che ha governato l’Italia durante il periodo più repressivo dell’emergenza sanitaria – quello del “Green Pass”, del “Super Green Pass” e dell’obbligo vaccinale – è l’esempio perfetto di questa casta politico-economica che è formata, in verità, dai servi più fedeli dell’oligarchia capitalista.

 Sotto la direzione di “Giuseppe Conte”, poi di “Draghi”, l’esecutivo ha assunto completamente i poteri del legislativo.

Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, ha governato con una fitta serie di decreti – che, dopo quasi un anno, quando questi sono stati dichiarati illegittimi e anticostituzionali dal TAR di Roma, sono stati sostituiti da decreti-legge – che de facto hanno instaurato una dittatura.

Il Parlamento aveva perso il suo potere e comunque non esisteva una vera opposizione parlamentare.

Nessuno scrutinava seriamente le azioni del Governo.

Quando, dopo due anni, lo stato di emergenza sanitaria era finito, è stato dichiarato immediatamente un nuovo stato di emergenza, questa volta con il pretesto della guerra in Ucraina, un paese situato a quasi 2000 chilometri dall’Italia.

La storia ci insegna che il metodo classico che si utilizza sempre per abolire un sistema democratico senza dover ricorrere ad un colpo di Stato militare è quello di instaurare uno stato di eccezione che diventa permanente.

 Rimane dunque difficile non percepire nella situazione presente un progetto politico preciso orientato verso quel fine.

 L’eutanasia della democrazia è in atto in Italia.

Qual è dunque questo ruolo particolare che ha svolto l’Italia nel grande progetto di demolizione della facciata democratica nel mondo occidentale?

 Sembra che sia stato quello di condurre, con molta determinazione, un esperimento sociopolitico importante per vedere fino a che punto i cittadini del ventunesimo secolo sono disposti a rinunciare alle libertà che non solo esercitavano tranquillamente nel 2019, ma che sono anche “garantite” dalla Costituzione.

Ma una costituzione – anche “la più bella del mondo” – non ha alcun valore se le istituzioni, i politici, la magistratura, i media e gli stessi cittadini non hanno voglia di difenderla.

 In Italia questa voglia sembra mancare.

Non è senza una certa amarezza che il presente autore scrive queste parole poiché, prendendo la cittadinanza italiana, ha giurato fedeltà alla Costituzione nello stesso momento in cui questa veniva palesemente calpestata dal Governo.

L’Italia ha pilotato il progetto covidiano in Europa.

 È stato il primo Paese occidentale ad imporre un lockdown, che rapidamente è stato esteso all’intero territorio.

 È stato fra i Paesi più “entusiasti” riguardo all’imposizione del passaporto vaccinale o “Green Pass”, e ha avuto l’assai dubbiosa distinzione di essere l’unico Paese europeo ad aver imposto il “Super Green Pass” a tutti i lavoratori, sbeffeggiando in questo modo il primo articolo della sua Costituzione.

Nessun paese si è accanito con più crudeltà contro i bambini, continuando ad imporre le mascherine (inutili e nocive) nelle scuole molto tempo dopo che negli altri paesi questa politica era stata abbandonata.

 L’Italia è anche stato uno dei Paesi ad aver imposto non solo il ricatto vaccinale ma anche l’obbligo vaccinale diretto a certe categorie di cittadini.

Il Bel Paese è anche stato fra le nazioni dove la faglia che si è aperta nel tessuto sociale è stata più profonda, a causa precisamente dell’estremismo autoritario delle politiche emergenziali.

Perché l’Italia è stata scelta per svolgere questo ruolo d’avanguardia nel piano di repressione della popolazione occidentale?

Le ragioni geopolitiche hanno forse a che fare con la sovranità limitata del Paese dopo la disfatta del regime fascista, che ha reso l’Italia praticamente una provincia dell’Impero americano.

 Un fattore che favorisce la manipolazione della popolazione è sicuramente la debolezza generale degli italiani nella comprensione delle lingue straniere, ciò che limita moltissime persone alla bolla mediatica nazionale (anche se questo svantaggio linguistico sta diminuendo notevolmente nella giovane generazione).

Il bassissimo livello di libertà di stampa in Italia offre anch’esso un grande vantaggio a chi vuole controllare strettamente il flusso dell’informazione.

Tutti questi fattori concordano a favorire il controllo della popolazione tramite la propaganda di regime – regime biopolitico, s’intende.

I movimenti di resistenza e di rinascita in Italia.

Sarebbe sbagliato pensare che tutti gli italiani si sono sottomessi senza resistere a ciò che gli avversari dei lockdown, della chiusura delle scuole e delle chiese, delle mascherine inutili e nocive, del “Green Pass” e “Super Green Pass”, dell’obbligo vaccinale e ricatto vaccinale, e infine della sospensione de facto della Costituzione, hanno chiamato, giustamente o ingiustamente (spetta al lettore giudicare), “la dittatura sanitaria”.

Durante il periodo dell’imposizione del “Green Pass”, poi del “Super Green Pass”, e in particolar modo dopo il Decreto Legge n. 127/2021 del 15 ottobre 2021 con cui questo strumento di discriminazione e di controllo pseudo-sanitario fu esteso a tutti i lavoratori, grandi manifestazioni di protesta sono state organizzate in molte città della penisola.

 Sono state ignorate dai mass media e dal Governo, o quando erano troppo vaste per essere ignorate, i media hanno minimizzato la loro importanza, utilizzando la classica tattica di sottostimare enormemente il numero dei manifestanti.

 Secondo Il Corriere della Sera, La Repubblica e quasi tutti gli altri quotidiani italiani, la dissidenza era limitata a qualche migliaia di ignoranti e di estremisti.

I lettori inglesi degli articoli di “Manfred Manera”, pubblicati nel settimanale “The Spectator”, erano meglio informati.

 In un articolo dell’ottobre del 2021, Manera descriveva una grande manifestazione contro il “Green Pass” a cui aveva assistito nella piazza San Giovanni in Laterano a Roma, come “una folla rappresentante ogni settore della società”.

Il giornalista riporta che questa manifestazione, benché non organizzata da alcun sindacato o movimento politico, era estremamente grande – stimava che i manifestanti fossero almeno 80.000 persone.

La Repubblica invece ha riportato che la polizia stimava la presenza di solo 3.000 persone.

“I giornali italiani descrivono i manifestanti come una specie di “lunatic fringe” (“frangia lunatica”), benché nella mia esperienza siano invece pacifici e ben informati”, scriveva Manera.

In questo contesto non conviene sottovalutare l’importanza del movimento di protesta contro il “Green Pass” nato a Trieste, nell’ottobre del 2021, tra i portuali in sciopero.

 Come aveva riconosciuto Sergio Bologna, “quella non è una lotta sindacale […], quella è una protesta politica contro la gestione governativa della pandemia”68.

Questa protesta, commenta ancora Bologna, “concentra su un unico obiettivo simbolico – capitato per caso – non solo tutta la rabbia, le frustrazioni, le pulsioni che si sono accumulate in questo anno e mezzo, non solo la protesta studentesca, non solo i lavoratori con le loro famiglie, ma anche tutto il potenziale esplosivo del “movimento no vax” e la volontà dell’opposizione di Fratelli d’Italia e dei gruppi neonazi che hanno tutto l’interesse a destabilizzare il governo Draghi, sfidando apertamente l’ordine pubblico”.

 L’autore scrive ancora: “Il movimento no vax non può essere che di estrema destra”.

Conosciamo l’argomento che vaccinarsi era il dovere civico di tutti, nella piena consapevolezza di fare da cavie, perché il vaccino era uno strumento fondamentale per vincere la guerra contro il virus.

Chi si opponeva alla vaccinazione di massa non poteva essere che un anarchico di estrema destra…

Entrare profondamente in questo dibattito politico-sanitario, cercando di andare oltre la semplice divisione ideologica, richiederebbe un lungo articolo dedicato unicamente alla questione dei vaccini, e non solo quelli anti-Covid.

Richiederebbe un’analisi approfondita della storia dei vaccini e della politica vaccinale nell’Occidente, tenendo pienamente conto dell’influenza incessante – e sempre in crescita – esercitata sulla politica e sull’educazione medica dall’industria farmaceutica, sempre alla ricerca di profitti, riconoscendo in questo contesto che nessun farmaco è più lucroso del vaccino.

 

Osserviamo en passant che il paese dove l’influenza politica di Big Pharma predomina di più, gli Stati Uniti, è anche quello dove la politica vaccinale è più aggressiva: nessun bambino al mondo è più vaccinato di quello americano.

Qualsiasi studio serio sulla questione vaccinale dovrebbe prendere pienamente in considerazione il fatto che Big Pharma finanzia da molto tempo una campagna mediatica (e politica) massiccia pro-vaccini e anti-“no vax”, soffocando in questo modo il libero dibattito scientifico.

Associare unicamente ai movimenti di estrema destra – o anche di destra tout court – chi esprime scetticismo informato nei confronti della vaccinazione come strategia centrale per promuovere la salute e che esprime dubbi informati sulla sicurezza e l’efficacia dei vaccini non mi sembra un atteggiamento giustificato dai fatti.

Prendiamo l’esempio significativo di Robert F. Kennedy Jr., nipote del presidente americano assassinato nel 1963 e fondatore di “Children’s Health Defense”, organizzazione che si attiva per difendere i bambini contro gli abusi di Big Pharma.

Kennedy è sempre descritto dai media mainstream come un pericoloso “no vax”, anche se ha fatto vaccinare i suoi propri figli.

La realtà è che da decenni Kennedy ha indagato la questione dei vaccini nel corso del suo lavoro come avvocato di alto livello.

Ha combattuto nei tribunali contro gli abusi commessi regolarmente, non solo dall’industria farmaceutica ma anche dagli enti regolatori “catturati” da essa.

Per questo è diventato un nemico dell’establishment capitalista, che lo liquida comodamente come “no vax”.

Un altro esempio, questa volta italiano, è quello dello scienziato “Stefano Montanari” che da decenni studia il contenuto dei vaccini con una speciale tecnica di microscopia, giungendo a scoprire molte impurezze non dichiarate.

Montanari è diventato scettico a riguardo dei vaccini in generale, non per ignoranza o per ideologia, non per “cospirazionismo”, ma dopo aver approfondito la questione nelle sue ricerche scientifiche.

Non ha alcun senso, a mio parere, prendere una posizione ideologica a riguardo della questione complessa dei vaccini – in particolar modo quelli anti-Covid – senza aver compiuto previamente un lavoro di ricerca sul dibattito scientifico in materia.

“Fidarsi della scienza” è uno slogan superficiale – strumentalizzato dall’oligarchia – che non tiene conto del gravissimo problema della corruzione dilagante e sistemica che imperversa da tempo nel settore farmaceutico-sanitario e che ha certamente un impatto profondo sulla questione vaccinale.

Minimizzare l’importanza di questo fenomeno è l’atteggiamento di chi, per ragioni ideologiche, preferisce non affrontare l’amara realtà.

Il movimento “No Green Pass” non è, essenzialmente, un movimento di destra, anche se la destra ha cercato di strumentalizzarlo.

 È soprattutto un movimento spontaneo di cittadini che hanno lottato per riprendere diritti costituzionali fondamentali calpestati dal Governo.

 Se la sinistra non vuole capire questo, non capirà mai la realtà politica della crisi della democrazia che abbiamo vissuto durante la pandemia e che continuiamo a vivere adesso.

 Focalizzarsi eccessivamente sulla polarizzazione destra-sinistra ostacola la chiara percezione delle implicazioni geopolitiche e sociali di ciò che sta accadendo.

Tre libri fondamentali, tutti e tre molto ben documentati, aiuteranno a capire meglio la nostra situazione: States of Emergency di Van der Pijl, Covid-19: Un’epidemia da decodificare di Bizzarri, e The Real Anthony Fauci:

Bill Gates, Big Pharma, and the Global War on Democracy and Public Health di Robert Kennedy.

È futile pretendere di poter discutere seriamente la crisi covidiana senza aver letto almeno questi tre libri.

Il libro di Kennedy integra quello di Van der Pijl con informazioni dettagliate sul complesso biopolitico.

Le ricerche di Kennedy si focalizzano sulle azioni di due personaggi americani che svolgono un ruolo centrale in quel mondo, Anthony Fauci, il potente direttore del “National Institute of Allergy and Infectious Diseases” (NIAID) e Bill Gates, che dal 2000 è divenuto una figura sempre più influente nella sfera farmaceutico-sanitaria globale.

In quello stesso anno, Fauci e Gates inaugurarono una partnership allo scopo di controllare il business globale dei vaccini.

Kennedy dimostra come, tramite il potere rappresentato dal gigantesco budget di ricerca di NIAID – ben $6.1 miliardi all’anno – gestito da Fauci, e i rapporti personali che Gates ha stabilito con i capi di Stato, l’alleanza “Pharma-Fauci-Gates” domina la politica globale della salute.

Kennedy analizza in “The Real Anthony Fauci” come Fauci, Gates e i loro collaboratori hanno utilizzato l’influenza che essi esercitano sui media, su riviste scientifiche, su agenzie governamentali e quasi governamentali importanti e su scienziati e medici influenti, per travolgere il pubblico con propaganda allarmistica sulla virulenza e patogenicità del Covid-19 e per soffocare il dibattito e censurare il dissenso.

Gran parte del terreno coperto nel libro di Kennedy è stato studiato anche da Van der Pijl.

Senza possedere le profonde conoscenze del contesto geopolitico che dimostra il professore olandese, Kennedy aggiunge però – in un libro di 450 pagine e quasi 300 note – un’analisi approfondita della carriera di Fauci.

 Questo personaggio così influente, che si presenta al pubblico come una rassicurante figura capace di abbindolare, si rivela in realtà come un uomo sprovvisto di ogni scrupolo morale, un uomo che non esita a distruggere le carriere di scienziati quando la loro ricerca minaccia i suoi interessi economici o la sua posizione, a promuovere terapie che sa di essere inefficaci e tossiche, e a condurre esperimenti medici illegali e letteralmente micidiali su orfani indifesi.

Tutto questo non è “cospirazionismo di destra” – Kennedy non è mai stato un uomo di destra, d’altronde – ma è invece una compilazione accurata di fatti.

Manca qui lo spazio per offrire una discussione più dettagliata di “The Real Anthony Fauci”, ma non esito ad affermare che questo libro, che ha avuto un grande successo editoriale negli Stati Uniti (malgrado il silenzio dei media mainstream e la censura sistematica sui social), dovrebbe essere letto da tutti gli intellettuali – di sinistra, di destra o di qualsiasi altro orientamento ideologico – che vogliono capire meglio la realtà sconcertante di quel mondo politico-sanitario che incide ormai in modo così pesante sulle nostre vite.

 Perché l’analisi di Kennedy conferma pienamente il titolo del libro: il complesso biopolitico – un’alleanza che combina il profitto economico con il potere politico – conduce da molti anni una guerra su scala globale contro la democrazia e la salute pubblica.

Questa guerra (che Van der Pijl interpreta come una guerra di contro-insurrezione) è scoppiata finalmente con una violenza inaudita durante la pandemia da Covid-19.

Dopo questa digressione importante torniamo adesso alla questione dei movimenti di resistenza nati in Italia durante la crisi sanitaria.

 Si sa che la protesta dei portuali di Trieste, alla quale è affluita da tutta l’Italia una grande folla di manifestanti anti-“Green Pass”, è stata dispersa dalle forze dell’ordine – benché questa fosse stata completamente pacifica – con violenza, utilizzando idranti e manganelli.

Ma la protesta operaia dei portuali ha dato nascita ad un movimento sociale molto più ampio, raccolto sotto l’egida del “Coordinamento 15 ottobre”, il cui nome fa riferimento alla malaugurata data dell’imposizione della tessera verde a tutti i lavoratori italiani.

Descrivere il “Green Pass” come un obiettivo simbolico “capitato per caso” dimostra un’assenza di comprensione del suo significato politico profondo.

 Come cercherò di spiegare più avanti, la tessera verde rappresenta allo stesso tempo il simbolo e lo strumento centrale di quello Stato di sorveglianza e di quell’abolizione dello Stato di diritto che il Governo ha cercato di imporre nel nome del coronavirus.

Opporsi a questo strumento-simbolo è dunque perfettamente logico e interamente legittimo.

Il “Coordinamento 15 ottobre” si presenta soprattutto come un movimento di rinascita sociale che desidera contribuire alla “ricostruzione di un tessuto sociale con una dimensione etica della vita, confortata da valori di solidarietà e collaborazione”.

 L’organizzazione cerca anche di “difendere i valori della costituzione, ricordandone i cardini e vigilando affinché non vengano mai più infranti”, e vuole aiutare a costruire un nuovo sistema economico, aspirando a “creare un mondo differente dove la dignità, lealtà, trasparenza, solidarietà, collaborazione, libertà siano la base per la costruzione di un nuovo modello di persone ed anime che credono in una rinascita, desiderando rapporti sinceri, in un ritorno allo stare insieme, ed alla convivialità”.

Detto con altre parole, in risposta alle azioni repressive e divisive del Governo, il Coordinamento aspira a creare una società che vada oltre il capitalismo autoritario.

Un altro punto di partenza importante per i movimenti di resistenza e di rinascita sociale è rappresentato da Sara Cunial, che è stata praticamente l’unica parlamentare a protestare seriamente e coerentemente contro i soprusi del regime di emergenza.

Isolata e sprovvista del potere per avere un impatto politico nel contesto del Parlamento (è stata espulsa dal Movimento 5 Stelle e fa ora parte del gruppo misto), la deputata ha collaborato invece con cittadini italiani per costruire un movimento extraparlamentare ormai diffuso in molte città della penisola.

Si tratta del movimento “R2020”, nato a Roma nel giugno del 2020, che sbandiera lo slogan “ribellione, resistenza, rinascita”.

Il movimento ha dato nascita a molti “Fuochi”, formati allo scopo di rinnovare l’impeto democratico a livello locale.

Secondo il sito web di “R2020”, questi progetti sono “in corso sui territori nell’ambito dell’educazione, della coesione, dell’alimentazione, dell’informazione, della crescita personale, della protesta e della proposta”.

 Il movimento s’interessa infatti in special modo ai temi dell’autosufficienza, dell’economia del dono, della geopolitica, dell’informazione libera e del 5G.

Uno dei risultati importanti delle misure repressive prese dal Governo italiano è dunque stato quello di provocare movimenti “grass roots” intenti ad attuare un rinnovamento sociale democratico che da tempo era diventato urgente.

Manca lo spazio qui per discutere tutti i movimenti di resistenza e di rinascita che si sono formati in Italia – e in tutto il mondo occidentale – in reazione contro ciò che si può legittimamente interpretare come un colpo di Stato globale.

Ho già menzionato nel secondo articolo della serie le organizzazioni “grass roots” di medici e scienziati medici che si sono formate in Italia e altrove per difendere il diritto e il dovere di curare in scienza e coscienza i loro pazienti.

Bisognerebbe anche tener conto delle numerose azioni legali che vanno avanti ormai da tanti mesi allo scopo di difendere i diritti umani ed eventualmente di far processare i politici colpevoli.

Nel contesto della soppressione ufficiale delle terapie per curare il Covid-19, si è parlato di strage di Stato e lo stesso concetto si può forse applicare anche all’obbligo vaccinale.

Conquiste dell’oligarchia.

Lo stato di emergenza internazionale imposto nel nome del coronavirus ha permesso all’oligarchia capitalista di compire progressi notevoli riguardo a quel piano tecnocratico (che era diventato sempre più urgente dopo il crack di 2008), che prima del Covid il presidente del World Economic Forum chiamava “la quarta rivoluzione industriale” e che durante la pandemia ha ribattezzato “Il Grande Reset”.

 In questo contesto, l’imposizione dei lockdown ha permesso l’accelerazione, in tutto il mondo occidentale, di ciò che Naomi Klein chiama lo “Screen New Deal”.

Si tratta di un nuovo modello sociale che, secondo l’influente Eric Schmidt, già amministratore delegato di Google, deve basarsi sulla sostituzione delle attività in presenza con interazioni digitali.

“Ci saranno molti modi di lavorare da casa la maggior parte del tempo”, disse il fondatore di Microsoft durante un’intervista, “ma saranno penalizzati il networking tra colleghi e i rapporti di amicizia”.

Anche il finanziere francese Jacques Attali aveva predetto già dal 2009 che “avremo più smart working, meno emissioni, ma anche meno amicizie”.

Apparentemente, l’oligarchia non gradisce molto l’incontro e la coltivazione delle amicizie nella popolazione.

Osserviamo en passant che la parola “smart”, un termine chiave nella visione tecnocratica contemporanea, non significa in realtà “intelligente”, come uno avrebbe potuto pensare (e come infatti tantissime persone credono);

 S.M.A.R.T. è invece un acronimo coniato nel mondo del “management corporativo”; significa “Specific, Measurable, Attainable, Relevant and Timely” (“specifico, misurabile, realizzabile, rilevante e opportuno”).

È la popolazione lavorativa che deve soddisfare questi criteri delle corporation e le amicizie interferiscono, secondo i manager e i loro padroni, con l’efficienza, che è giustamente il criterio centrale della Tecnocrazia.

 Ma c’è sicuramente in gioco qui un altro fattore: in un’epoca in cui la classe capitalista dominante teme sempre più la rivolta della popolazione, le interazioni interpersonali sono considerate pericolose;

 conviene ridurre le amicizie al minimo e tenere il lavoratore, il più tempo possibile, davanti allo schermo digitale, dove tutte le sue interazioni saranno sorvegliate.

I componenti principali dello “Screen New Deal” sono la didattica a distanza e il lavoro a distanza – implementati tutti e due su vasta scala nel 2020 e nel 2021 – la “telesalute” (cioè la cura sanitaria tramite Internet) e la sostituzione del sistema tradizionale di vendite al dettaglio dalle vendite online.

Grandi progressi verso quest’ultimo obiettivo sono stati compiuti quando, negli soli Stati Uniti, centinaia di migliaia di piccole imprese sono fallite a causa dei lockdown.

Il “Green Pass” – che in Italia è gestito, nota bene, non dal Ministero della Salute ma dal Ministero delle Finanze – rappresenta un elemento chiave nella formazione di un sistema di sorveglianza e di controllo digitale gestito dallo Stato.

Mettendo da parte il pretesto sanitario, la realtà fondamentale del “Green Pass” è che lega le attività del cittadino al controllo govermentale tramite un codice QR.

Con questo lasciapassare digitale, qualsiasi cittadino può essere automaticamente escluso da qualsiasi ufficio, edificio o mezzo di trasporto, o di qualsiasi attività secondo criteri decisi dal Governo – o anche da qualsiasi ente privato con cui collabora il Governo.

È evidente che i cittadini occidentali non avrebbero mai accettato una tale tirannia statale senza quella specie di psicosi collettiva fomentata dalla paura del coronavirus.

Va detto che molte persone non hanno accettato l’imposizione del “Green Pass” o del “Super Green Pass” e hanno preferito rinunciare a molte attività consuete – e persino fondamentali – invece di subire l’umiliazione di dover esibire un lasciapassare governamentale.

Molti dei suoi avversari l’hanno chiamato “Nazipass”.

Giorgio Agamben, invece di parlare di un “Nazipass”, paragona la “tessera verde” con “il passaporto interno che nel regime sovietico ognuno doveva avere per potersi spostare da una città all’altra”.

“Il cittadino non tesserato”, osserva il filosofo, “sarà, paradossalmente, più libero di colui che ne è munito e a protestare e a ribellarsi dovrebbe essere proprio la massa dei tesserati, che d’ora in poi saranno censiti, sorvegliati e controllati in una misura che non ha precedenti anche nei regimi più totalitari.”

 Commenta ancora: “È significativo che la Cina abbia annunciato che manterrà i suoi sistemi di tracciamento e di controllo anche dopo la fine della pandemia”.

Il passaporto vaccinale, che è stato testato durante la pandemia in molti paesi dell’Unione Europea, è strettamente legato al progetto oligarchico per creare un’identità biometrica per l’intera umanità.

“L’Alleanza per l’identità digitale ID2020” è stata fondata nel 2016 nell’ edificio delle Nazioni Uniti a questo fine.

Tra i partner finanziatori si trovano membri centrali del complesso biopolitico – la Gates Foundation, Microsoft, la GAVI Alliance per i vaccini, e anche la Rockefeller Foundation.

Mettendo da parte tutto quel involucro propagandistico tessuto dalla corporation che la gestisce, l’ID2020 si può descrivere accuratamente, con le parole di Pizzuti, come “un programma di schedatura di massa elettronico basato sulla tecnologia dei ‘Quantum Dot Tattoos’, che consiste nell’inserimento nel corpo di tutta la popolazione mondiale di speciali bio-capsule in grado di marchiare la pelle delle persone con dei codici leggibili per via digitale, al fine di fornire informazioni sul loro stato vaccinale”.

Un progetto simile gestito dal Michigan Institute of Technology, utilizzando anch’esso la tecnologia dei Quantum Dot (nanocristalli), è sovvenzionata dalla Gates Foundation.

Il passaporto vaccinale o “Green Pass” rappresenta molto chiaramente un prototipo di transizione imposto allo scopo di condurci verso quel sistema globale di schedatura corporea.

Il progetto va inserito nel contesto dell’introduzione su scala globale della quinta generazione di telefonia (5G) e della rapida corsa alla digitalizzazione dell’intera società, con progetti non solo di” smart working”, ma anche di “smart factory” e “smart city”.

Il 13 giugno del 2019, il World Economic Forum firmò con le Nazioni Unite una strategic partnership framework allo scopo di facilitare l’“Agenda 2030” per lo sviluppo sostenibile.

Una parte centrale di questa agenda è “la cooperazione digitale”. Si tratta di un elemento chiave dei “bisogni della Quarta Rivoluzione Industriale”.

A seguito della conferenza stampa che annunciava questa partnership, 289 organizzazioni provenienti da tutte le parti del mondo, firmarono una lettera aperta indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite, istigandolo a terminare questo accordo di partnership strategica.

 La lettera denunciava l’accordo, perché formalizzava una inquietante corporate capture (“presa di potere delle corporazioni”) che “spinge il mondo pericolosamente verso una governance globale privatizzata e antidemocratica”.

La minaccia che questa spinta verso una governance globale rappresenta per la democrazia e la libertà dell’individuo non va sottovalutata, poiché è uno degli obiettivi a lungo termine di importanti organizzazioni di carattere oligarchico come il “Council for Foreign Relations”, il “Club de Rome” e il “Bilderberg Club”.

Nel contesto del “Grande Reset” e della necessità percepita dall’oligarchia di trovare un modo di controllare una popolazione sempre più malcontenta e sempre più turbolenta, non c’è bisogno di essere un “cospirazionista” (di destra o di sinistra) per capire, che il progetto dell’ID2020, pilotato durante la pandemia nella forma del “Green Pass”, rappresenta la chiave di tutto quell’apparato di sorveglianza e di controllo sociale che era già stato previsto nello scenario di “Lock Step” descritto nel 2010 nel documento Rockefeller/GBN.

Il futuro distopico che si apre davanti a noi è quello di un mondo dove la società liberale occidentale, basata, almeno teoricamente, sulle libertà e sui diritti dell’individuo, sarà sostituita, gradualmente ma non lentamente, da una società dove ogni individuo (tranne i più privilegiati, ovviamente) è soggetto ad un controllo centralizzato totale.

Basta legare l’identità biometrica digitale del cittadino non solo allo stato vaccinale (e a qualsiasi altra informazione personale), ma anche al conto in banca – in una “cashless society”, una società dove i contanti sono stati aboliti – per creare una tirannia assoluta dove l’individuo si trova completamente alla mercé dello Stato – e dell’oligarchia che lo controlla.

Il “Grande Reset” promosso dal World Economic Forum è chiaramente legato al progetto “Going Direct Reset” ideato da BlackRock e approvato dalle banche centrali del G7 il 22 agosto del 2019.

Si tratta di una ristrutturazione fondamentale del sistema finanziario globale che dovrebbe imporre la “Central Bank Digital Currency”, una valuta digitale controllata dalle banche centrali.

Uno degli obiettivi di questo progetto finanziario è eliminare i contanti.

Se viene pienamente realizzato, il progetto di governance globale prenderà la forma di una Tecnocrazia centralizzata, il cui potere si eserciterà direttamente sul cittadino – o piuttosto il soggetto – tramite il controllo digitale.

 In ogni situazione, il cittadino-soggetto di questa Tecnocrazia vivrà sotto il dominio di un codice QR.

Sarà una tirannia a base di algoritmi.

“Operazione Coronavirus” ha avuto molti successi.

Non solo ha permesso l’accelerazione di quel progetto tecnologico e tecnocratico che Klein chiama lo “Screen New Deal”, ma ha stabilito certi principi politici importantissimi;

essenzialmente, ha stabilito il principio di ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini e l’ha stabilito in modi che il fascismo non si era neanche sognato.

 Il Governo ha imposto la chiusura quasi totale della società; ha chiuso le scuole e le chiese (che erano rimaste aperte durante tutta la Seconda Guerra Mondiale); ha proibito alle persone di uscire di casa; ha separato le famiglie (quando ha stipulato che solo un membro di famiglia alla volta potesse fare la spesa); ha chiuso tutte le palestre, tutti i campi sportivi e tutti i parchi comunali; ha soppresso totalmente la vita culturale del Paese, chiudendo teatri, musei e sale per concerti; ha costretto i cittadini a coprire la faccia in pubblico (il che costituisce un reato penale) e ciò facendo ha tolto il diritto di respirare liberamente; ha chiuso locali, privando i loro proprietari e dipendenti dei loro redditi; ha imposto il possesso di un lasciapassare governamentale come precondizione per accedere al lavoro; ha persino stabilito il potere di obbligare i cittadini a farsi iniettare con una terapia genica sperimentale. Una delle ambizioni centrali della biopolitica è infatti quella di privare il cittadino della sovranità del suo proprio corpo.

 Il Governo è riuscito soprattutto a calpestare impunemente la Costituzione italiana.

Tutte queste conquiste oligarchiche hanno de facto abolito gran parte dello Stato di diritto.

Fallimenti dell’oligarchia.

“Operazione Coronavirus” ha anche diviso profondamente la società.

 Il Governo, con l’aiuto entusiasta dei “virostar” e dei media mainstream, ha fatto di tutto per demonizzare i dissidenti, scatenando contro i non vaccinati quell’odio feroce di cui abbiamo parlato nel terzo articolo di questa serie.

Ovviamente, l’oligarchia, nella forma di quel blocco di potere analizzato da Van der Pijl, sapeva, grazie alle ricerche di Zylberman, che circa quindici percento della popolazione avrebbe resistito alle misure di repressione prese nel nome del coronavirus, e ha dunque lavorato per mettere la maggioranza obbediente contro questa minoranza ribelle, allo scopo di scoraggiare gli indecisi di schierarsi con gli scettici e di schiacciare il dissenso sotto il peso dell’opinione pubblica.

 Il Governo voleva fomentare nella popolazione la credenza nell’infamità dei dissidenti.

 Inoltre, i cosiddetti “no vax”, già visti con sospetto dalla maggioranza, grazie alla lunga campagna di propaganda finanziata da Big Pharma, offrivano un capro espiatorio utilissimo che il Governo ha sfruttato per distrarre l’attenzione del pubblico dal carattere fallimentare della sua politica sanitaria – che era in realtà una politica di biosicurezza.

Inevitabilmente però sono accadute due cose che mettono in pericolo la posizione dell’oligarchia.

D’un lato, la narrazione ufficiale – la finzione dello scenario del caso peggiore elaborata da due decenni durante quella serie di esercizi di preparazione pandemici gestiti dal complesso biopolitico – ha fatto sempre più acqua, giacché era precisamente una finzione.

In questo contesto voglio attirare l’attenzione sul ruolo di Edelman, l’impresa di Relazioni Pubbliche più grande del mondo.

 Nel 2018, in occasione del centenario della pandemia dell’influenza spagnola, il World Economic Forum, insieme ad altri enti rilevanti, organizzò una riunione dedicata al combattimento della futura pandemia che aspettava con assoluta certezza.

In questa riunione Edelman ha svolto un ruolo importante.

Questa impresa pretende di aver introdotto nel mondo del marketing il concetto di storytelling.

Il Trust Barometer (“Barometro della Fiducia”) pubblicato da Edelman stima annualmente la misura in cui queste stories, queste narrazioni, sono credute dal pubblico.

A gennaio del 2021, uno studio scritto da Edelman indicava chiaramente che, nonostante gli sforzi immensi compiuti dai media, la narrativa pandemica stava già perdendo credibilità.

Già sorgeva una situazione che Edelman chiamava “information bankruptcy “– “la bancarotta dell’informazione”.

Già prima della pandemia la fiducia nelle istituzioni pubbliche e private era da tempo in declino (una delle conseguenze inevitabili del neoliberismo);

le azioni compiute dalle istituzioni durante l’emergenza hanno solo accelerato questo processo.

 “Operazione Coronavirus” ha svegliato molte persone che ormai capiscono chiaramente la minaccia che rappresenta per loro l’oligarchia.

D’altro canto, la minoranza dei dissidenti, dei ribelli, non è rimasta inattiva; si sta progressivamente organizzando, formando un movimento di resistenza multiforme la cui importanza, benché ignorata dai mass media e dai politici, non dovrebbe essere sottovalutata.

 I media dipingono i ribelli come un manipolo di estremisti di destra, ma la realtà è molto diversa.

Le centinaia di migliaia di cittadini di tutta Europa che sono scesi in piazza, da Berlino a Parigi, Londra, Zurigo e Madrid, per protestare contro la “dittatura sanitaria” imposta nel nome di un virus privo dei requisiti di letalità che possano giustificare uno stato di emergenza simile, erano per lo più cittadini normali.

Alla grande manifestazione di Berlino del 29 agosto del 2020 ha parlato Robert Kennedy.

“Negli Stati Uniti”, ha detto Kennedy, “i giornali dicono che sono venuto qui per parlare con cinquemila nazisti.

 E domani confermeranno che io qui ho parlato con tre-cinquemila nazisti.

Quando guardo la folla, vedo l’opposto dei nazisti: vedo persone che amano la democrazia, persone che vogliono un governo aperto, che vogliono leader che non mentano loro e che non assumano decisioni arbitrarie con il fine di orchestrare l’opinione pubblica.

La gente non vuole più governanti che inventano leggi e regolamenti arbitrari per orchestrare l’obbedienza della popolazione.

 Vogliamo politici che si preoccupino della salute dei nostri figli e non del profitto loro e della lobby farmaceutica.

Vogliamo politici che non facciano accordi con Big Pharma. Questo è l’opposto del nazismo.

Guardo questa folla e vedo bandiere dell’Europa, persone con diverso colore della pelle, di ogni nazione, religione, che si preoccupano dei diritti umani, della salute dei bambini, della libertà umana.

Questo è l’opposto del nazismo”.

La classe dominante sicuramente non sottovaluta il pericolo rappresentato da queste grandi folle di manifestanti.

Dovrà anche tenere in considerazione il fatto che non può contare troppo sulla collaborazione delle forze dell’ordine se decide di utilizzare la violenza contro i cittadini.

 In Austria, la polizia ha rifiutato di intervenire per reprimere le grandi manifestazioni contro l’obbligo vaccinale, che il Governo ha dovuto ritirare.

 In Spagna, le misure repressive del Governo hanno provocato membri dissidenti delle varie forze dell’ordine a formare un’organizzazione “grass roots”, “Policías por la verdad” (“Polizie per la verità”), che ha partecipato a manifestazioni contro “la dittatura sanitaria”.

In Italia, il sindacato dei Carabinieri, Unarma, ha preso posizione contro il “Green Pass”, che ha dichiarato anticostituzionale.

A settembre del 2021, il movimento “No Green Pass” trovò un nuovo paladino in un vice questore, Nunzia Alessandra Schilirò, quando questa parlò calorosamente in difesa della Costituzione a una grande manifestazione a Roma.

Ma il blocco di potere che è stato dietro a “Operazione Coronavirus” andrà avanti lo stesso con il progetto tecnocratico del “Grande Reset”, cambiando ancora una volta il suo nome.

 Dubito infatti che l’oligarchia capitalista abbia un “piano B”.

Anche se forse non cercherà più di imporre il nuovo Stato di sorveglianza autoritario con il pretesto di una pandemia, cercherà altri pretesti per farlo, per esempio il cambiamento climatico – “la transizione ecologica” – la guerra in Ucraina2, la crisi energetica (creata ad arte dalle sanzioni imposte alla Russia), o qualsiasi altra crisi o minaccia in grado di mantenere viva la politica della paura.

Lo scontro è dunque inevitabile; come osserva Van der Pijl, la popolazione si trova ormai per forza in una situazione rivoluzionaria, perché sarà costretta a difendersi dalle azioni dell’oligarchia.

“Libertà va cercando…”

Il punto di partenza delle mie ricerche e riflessioni sull’emergenza sanitaria è stato l’esperienza angosciante di veder calpestare libertà e diritti fondamentali che, come tutti, davo per scontati prima del marzo del 2020.

Queste ricerche mi hanno condotto in una specie di labirinto politico, ideologico, scientifico, psicologico e sociologico.

 Per aver preso, senza ambiguità, la parte della libertà contro quella dello schieramento collettivo dietro il sistema di repressione statale attuato nel nome del coronavirus, ho rischiato, consapevolmente, di vedermi catalogato tra i “cospirazionisti”.

Siccome perfino un pensatore eminente come Giorgio Agamben è stato trattato come un “complottista”, devo dire che mi trovo comunque in ottima compagnia.

Ma la questione della libertà – assieme al suo contrario, la tirannia – è divenuta urgente:

la libertà viene sempre più gravemente minacciata con ogni pretesto da una classe dominante che si sente in pericolo.

 Ho cercato di dimostrare in questa serie di articoli che la repressione delle libertà dell’individuo durante la pandemia non è mai stata giustificata dalla realtà della situazione sanitaria.

 So che molte persone troveranno inaccettabile questa interpretazione dei fatti, malgrado la mole di evidenza scientifica che la sostiene.

La libertà, che oggi vediamo così gravemente minacciata nel mondo occidentale, è un concetto profondo e complesso che può essere esaminato da molti punti di vista.

 Nella filosofia e la teologia, l’antichissima questione del rapporto tra il libero arbitrio dell’individuo e la necessità o la volontà divina non è mai stata risolta in modo veramente soddisfacente.

 Neanche nella sfera sociopolitica, le contraddizioni tra la libertà d’azione dell’individuo e la necessità dell’ordine collettivo sono state risolte in modo veramente armonioso.

In quasi tutte le società del passato, prima dell’epoca moderna inaugurata dal pensiero occidentale, l’individuo si era sempre sottomesso al collettivo – la questione della libertà personale neanche si poneva.

Ma con la progressiva formazione psicologica dell’individualità (e dunque dell’individualismo) è emersa nell’Occidente un nuovo bisogno – l’affermazione di questo senso di individualità, e questa affermazione si esprime nell’aspirazione alla libertà.

Liberté, Égalité, Fraternité – questi ideali, che formavano lo slogan della Rivoluzione Francese, si sono rivelati estremamente difficili da realizzare e finora ogni tentativo di farlo è fallito.

 Ma non per questo l’umanità deve smettere di aspirare alla loro realizzazione.

Il capitalismo liberale ha messo l’accento sulla libertà, ma soprattutto sulla libertà d’azione di una minoranza di capitalisti. Il resto della società, e particolarmente la classe operaia, è stata soggetta ad una violenza strutturale che ha imposto limiti stretti alla sua libertà d’azione e di autodeterminazione.

Allo stesso tempo, il controllo oligarchico del sistema di comunicazione di massa e del sistema educativo ha imposto limiti ugualmente stretti alla libertà mentale della popolazione.

La rivoluzione della Tecnologia Informatica minaccia questo controllo dell’informazione e del pensiero e Van der Pijl ha sicuramente ragione nel vedere in questa minaccia l’impeto centrale dietro la spinta globale verso la creazione di una società di sorveglianza.

In questo modo, invece di aprire tante porte conducendo verso la libertà, la nuova tecnologia rischia di diventare una versione digitale di quel famoso “Panopticon” descritto da Foucault.

Ma il libero accesso all’informazione non basta per rendere libero un essere umano.

Il famoso psicologo comportamentale americano B.F. Skinner, l’autore del famigerato libro del 1971 Beyond Freedom & Dignity (“Oltre la libertà & la dignità”), era persuaso che il concetto di libertà personale, di libero arbitrio dell’individuo, fosse illusorio.

Gli esperimenti che aveva condotto sul comportamento, prima degli animali, poi degli esseri umani, l’avevano convinto che l’uomo fa parte del gregge e che non era molto difficile influenzare il comportamento di questo gregge maneggiando gli strumenti psicologici appropriati.

Questi strumenti sono stati sviluppati in maniera sempre più sofisticata e il “capitalismo della sorveglianza” li ha applicati su vasta scala nell’universo dei media sociali.

Come dimostra Dodsworth nel suo libro “State of Fear”, il Governo britannico utilizza permanentemente una serie di “Behavioural Insight Teams” (unità di psicologi comportamentali) per manipolare il comportamento della popolazione ed esporta in altri Stati le sue competenze in questo campo.

La scienza della psicologia comportamentale è anche stata applicata ad arte durante la pandemia.

 Ad un certo punto, Skinner aveva dunque ragione.

Come osservava Huxley in “Brave New World Revisited”, la democrazia e la libertà non possono sopravvivere in una società pervasa dalla manipolazione psicologica.

Per andare verso la libertà, l’uomo deve diventare sempre più consapevole; altrimenti rimane prigioniero di tutti gli impulsi oscuri che sorgono dalle regioni sub-razionali della psiche.

 Nella nostra epoca post-religiosa, la paura della morte è tra i più potenti di questi impulsi e chi riesce a fomentare intensamente questa paura, che tende a paralizzare la ragione critica, può facilmente manipolare persino le persone più intelligenti e istruite.

 “Nessuna passione priva la mente così completamente delle sue capacità di agire e ragionare quanto la paura”, ha scritto giustamente il filosofo inglese Edmund Burke.

Nella Divina Commedia, Virgilio spiega lo scopo del viaggio spirituale di Dante in una frase celebre: “Libertà va cercando”.

Nei termini della teologia cristiana di quell’epoca, la frase deve essere interpretata come significando la ricerca della liberazione dal peccato.

Quest’ultimo concetto è evidentemente completamente fuori moda nella nostra società laica contemporanea, ma può anche essere interpretato in modo più moderno.

All’inizio dell’Inferno, Dante si trova – o piuttosto si “ritrova”, perché si tratta di un risveglio di coscienza – nella famosissima “selva oscura”, che nel Convito Dante chiama anche “la selva dell’errore”.

 Cercando di uscire da questa valle angosciante, viene affrontato da tre predatori pericolosi, una lonza, un leone e un lupo, che normalmente sono interpretati come simboli della lussuria, della superbia e della cupidigia; insomma, tre dei peccati più gravi.

Ma la selva oscura, con le sue belve, può anche essere interpretata come un simbolo dell’inconscio, della parte oscura della psiche umana, piena di emozioni negative e di pulsioni irrazionali, che ci impedisce di essere liberi e felici.

 Il lungo viaggio arduo che Dante compie, guidato da Virgilio, prima scendendo nell’Inferno, poi salendo nel Purgatorio, è un viaggio mentale e spirituale, prima nelle regioni infernali della psiche, poi ascendendo attraverso una serie di prove di purificazione.

Alla fine dell’ascesa, Virgilio dichiara al suo discepolo: “Libero, dritto e sano è il tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / perch ’io te sopra te corono e mitrio.” (Purgatorio, XXVII, 140-2)

Essendo ormai l’arbitrio purificato di Dante “libero, dritto e sano”, egli diventa re di sé stesso. Entra poi nel Paradiso Terrestre.

Il poeta romantico e pensatore radicale Percy Bysshe Shelley, che era un nemico dichiarato del cristianesimo, ma un grande ammiratore di Dante (e ancora più di Gesù Cristo), ha ripreso l’idea nel suo grande dramma lirico del 1819, Prometheus Unbound (“Prometeo slegato”).

 Il tema centrale di questo capolavoro del romanticismo inglese è la ricerca della libertà.

Essendo figlio della Rivoluzione Francese, Shelley s’interessa soprattutto alla libertà politica e una delle sue grandi preoccupazioni è di capire perché questa rivoluzione era fallita;

perché, malgrado tutte le sue promessi inebrianti, non era riuscita a realizzare i suoi ideali luminosi, trascinando invece il mondo nel sangue, nel terrore e nella dittatura.

Prometeo, incatenato alla roccia per volontà del suo nemico Giove, simboleggia l’uomo, prigioniero, sofferente, ma che aspira alla libertà e alla felicità.

Giove invece, “il tiranno del mondo”, simboleggia l’oppressione in tutte le sue forme.

 Ciò che Shelley aveva capito, dopo lunghe riflessioni, è che le radici sia della libertà che della tirannia sono essenzialmente psicologiche e ideologiche.

 Per questo, nessuna rivoluzione soltanto esteriore può rendere libero l’uomo; prima ci vuole la rivoluzione interiore, quella mentale e psicologica.

Soltanto dopo aver compiuto questo arduo lavoro interiore, Prometeo riesce a rovesciare la tirannia di Giove.

Nell’immaginazione di Shelley, questa rivoluzione psicologica e morale conduce alla rinascita non solo della società umana ma anche della terra; instaura il Paradiso Terrestre.

È nel visionario terzo atto, che descrive in termini poetici la trasformazione della società dopo questa rivoluzione interiore o trasformazione della coscienza, che si può discernere l’influenza di Dante.

Abbiamo visto che il lungo processo di purificazione della psiche rende l’arbitrio del poeta fiorentino “libero, dritto e sano”.

Tramite questa conquista interiore, Dante diventa re di sé stesso.

 Nello stesso modo, l’uomo trasformato in Prometheus Unbound, che prima era un misero schiavo, diventa “the king / Over himself” (III, iv. 196-7) – il re di sé stesso.

L’unico controllo di cui abbia ormai bisogno è quello interiore, che Shelley chiama “divino” – “a divine control”.

 Ormai, gli uomini vivono liberi, felici e armoniosi.

Ma senza questo controllo interiore, credeva il poeta, gli uomini non saranno mai liberi.

“Man who man would be, / Must rule the empire of himself”, scrive ancora Shelley in un sonetto politico – “L’uomo che vorrebbe essere un uomo / Deve regnare sull’impero di sé stesso”.

Nessuna rivoluzione tecnologica ci renderà liberi; l’unica rivoluzione che ci possa veramente liberare è quella spirituale.

 Altrimenti, rimaniamo prigionieri di noi stessi, schiavi dell’egoismo, creando una civiltà tecnologica che inevitabilmente deve prendere la forma di una Tecnocrazia. Una società piena di esseri confinati nei limiti stretti dell’ego, del “piccolo io”, non sarà mai felice, armoniosa o libera.

Nel contesto della problematica dell’egoismo, voglio concludere questo lunghissimo articolo citando (e traducendo) alcune riflessioni del grande yogi e filosofo indiano Sri Autoblindo (1872-1950) su come sarebbe possibile realizzare l’ideale del comunismo.

“Il principio sociale comunista”, scrive Sri Autoblindo, “è intrinsecamente superiore a quello individualista come la fratellanza è superiore alla gelosia e all’eccidio reciproco;

ma tutti i progetti per mettere in pratica il Socialismo inventati in Europa sono un giogo, una tirannia e una prigione.”

Poi aggiunge: “Perché il comunismo possa essere ristabilito con successo sulla terra, deve essere fondato sulla fratellanza dell’anima e la morte dell’egoismo.

Un’associazione forzata e un cameratismo meccanico finirebbero in un fiasco globale”.

 La base per un comunismo autentico, una società fondata sulla fratellanza, può essere solo spirituale, perché soltanto nella coscienza spirituale dell’unità di tutti gli esseri può sorgere una vera fratellanza.

Questo principio dell’unità, non concepito come semplice teoria intellettuale ma realizzato come esperienza spirituale, costituisce l’essenza del “Vedanta”.

Sri Autoblindo scrive ancora: “Il Vedanta ha realizzato l’unica base pratica per una società comunista. È il regno dei santi sognato dal cristianesimo, dall’Islam e dall’induismo purinico”. Evidentemente, realizzare sulla terra questo regno spirituale non sarà per nulla facile, ma deve comunque rimanere la meta delle nostre aspirazioni più profonde.

(Peter Cooke) - (Vero premio Nobel della verità. N.d.R.)

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.