L’élite globalista occidentale ha deciso: tutti gli “uomini inutili” devono morire.

 

L’élite globalista occidentale ha deciso: tutti gli “uomini inutili” devono morire.

 

 

Capire la Cina per salvare l’Occidente.

(Il nuovo libro di Federico Rampini.)

Destra.it - Vincenzo Pacifici – (24 Novembre 2021) – ci dice:

 

Debbo le mie scuse all’autore: ho equivocato sul sottotitolo del volume.

Pensavo che fosse più dotto ed accettabile il verbo “combattere”, e quello, solo apparentemente, amico, utilizzato, “capire”.

Il volume è ampio (il testo, suddiviso in 12 capitoli, una introduzione ed un epilogo, supera di poco le 300 pagine), fitto, denso per il suo contenuto, per le sue riflessioni non solo sulla Cina ma sul mondo intero, collegato e condizionato.

Sin dalle prime righe viene colto il significato cruciale, il nodo decisivo:

“questo libro – avverte Rampini – è un viaggio nel grande paradosso di una sfida planetaria.

Vi racconto una faccia della Cina troppo nascosta e inquietante, che l’élite occidentale [devono intendersi i governi] ha deciso di non vedere”.

 È impossibile tracciare un’analisi minuta e particolareggiata, cui va preferita una lettura definita sui momenti salienti e cruciali.

È condotto un parallelo tra America e Cina, in cui la prima, risultato fallimentare delle tante amministrazioni inopportunamente osannate nella servile Europa, “è ormai sempre più simile ad un mosaico di minoranze culturalmente in guerra tra loro”.

La seconda è invece una società dove il ceppo Han è il 92 per cento della popolazione nazionale, come tale è anche un quinto della popolazione mondiale.

Non possono poi sfuggire e vanno tenuti ben alti “i tanti punti di convergenza fra la propaganda di Pechino e il pensiero della sinistra “politically correct” che dilaga nei campus universitari americani”.

Rampini coglie per il mondo occidentale una lezione basilare sugli obiettivi perseguiti a proposito di Hong Kong, in cui si vogliono estirpare i valori del nostro mondo e creare un Uomo Nuovo, un Homo sinesi del terzo millennio, plasmato sul modello confuciano-comunista, che guarda l’Occidente, come una civiltà in disarmo”.

È interessante ed utile la definizione, che la dice lunga sulla realtà anche occidentale, dei “sordomuti”, con cui vengono identificati i capitalisti, a cominciare dal fondatore di “Alibaba”, il quale – ad avviso dell’autore del volume – ha capito che “la grande ricchezza esplosa nella Cina postmaoista è un fenomeno troppo recente e spesso ha origini sospette”.

Per Rampini l’uomo forte di Pechino ha la prova che l’Occidente, nella sua interezza [copriamo con un pietoso silenzio l’Europa] “abbaia ma non morde. Abbaia sempre più flebilmente, peraltro”.

Opportuna e centrata per le sue tante implicazioni è la domanda rivolta da Rampini:

 “Davvero oggi siamo diventati tutti ambientalisti? Da Xi Jinping a Poe Biden, da Jack Ma a Jeff Bezos, i potenti della terra hanno in comune un nuovo Vangelo: la sostenibilità.

 Leader politici che continuano ad autorizzare la costruzione di nuove centrali o “chef executive” di multinazionali dall’impatto ambientale distruttivo abbracciano la retorica dell’emergenza climatica”.

 Ad un’altra riflessione va espresso il più vivo riguardo:

La tragica parentesi Covid ha provocato un’accelerazione nell’ascesa di Pechino.

 Mentre l’Occidente [debole, reverente e servile] si fermava, stremato, l’economia della tigre a ripreso a correre.

Ha esportato più di prima.

Ha allungato il passo nelle tecnologie avanzate.

Ha attirato ancora più capitali esteri.

Ha allargato la sua sfera d’influenza”.

Le ultime righe del volume contengono un pesante ammonimento purtroppo inascoltato sulle debolezze, sull’ignavia e sull’inconcludenza dell’Occidente e della nostra Europa:

“La tragica vicenda di Hong Kong potrebbe insegnarci qualcosa.

È un segnale d’allarme in molte direzioni.

Xi ha distrutto quella piccola oasi di uno Stato di diritto, e non sta pagando alcun prezzo.

A garantirgli l’impunità non ci sono solo i nostri Trenta Tiranni, cioè le nostre multinazionali e grandi banche per le quali “pecunia non olet”.

Anche nella società civile, nei mezzi d’informazione, tra gli intellettuali e tra i giovani, tanti pensano che i “valori dell’Occidente” siano un’espressione ipocrita, un mito da sfatare, un’impostura da smascherare”.

(FEDERICO RAMPINI, Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente).

 

 

 

“La Francia non lo sa, ma

 siamo in guerra con l'America”.

Lantidiplomatico.it – Paolo Pioppi – (02 Ottobre 2022) – ci dice:

Parole di grande attualità - e non solo per la Francia.

«La Francia non lo sa, ma siamo in guerra con l'America. Sì, una guerra permanente, una guerra decisiva, una guerra economica, apparentemente senza morti.

 Sì gli Americani sono molto duri, sono voraci, vogliono un potere senza rivali sul mondo.

È una guerra sconosciuta, una guerra permanente, che sembra senza vittime, ma è una guerra a morte”.

La citazione di Mitterand, è riportata nel libro di memorie del dirigente socialista francese, due volte presidente della repubblica, deceduto nel 1996, pubblicato dal suo amico Georges-Marc Benamou, del “Nouvel Observateur” nel 1997

(I dernier Mitterand, seconda riedizione nel 2021).

Sono passati 26 anni. Quello che Mitterand confessava in privato non è più un segreto per nessuno. La guerra c'è e non riguarda solo la Francia ma tutta l'Europa, e ci sono anche i morti.

Qualcuno avverta le élites dirigenti europee, così distratte anche dopo le esplosioni nel Baltico. (Paolo Pioppi).

 

Tutto dipende dalle nuove armi.

Italiaoggi.it - Gianni Pardo – (7-5-2022) – ci dice:

 

La pace non dipende dai colloqui col Papa o con Macron.

Un paio di giorni fa Macron e Putin si sono ancora parlati (stavolta per due ore) solo per fare contente le folle che vogliono che si parli di pace.

Che cosa non si farebbe per farsi applaudire dal loggione.

Quando c'è una guerra si fanno un mare di chiacchiere e la gente è convinta che esse determinino il risultato.

La realtà è che le chiacchiere sono inutili e una cannonata la vince sulla voce di mille persone.

Tutti i contatti sono dunque inutili? No.

Essendo un “mercanteggiamento”, i negoziati sono utili purché gli interessati abbiano il desiderio di comprare o di vendere qualcosa.

Se invece uno dei due non vuole vendere niente, o l'altro non è disposto a pagare nessun prezzo, a che scopo discutere?

Oggi Putin vorrebbe ottenere tutto e Zelensky non è disposto a dare niente.

E allora: fine del negoziato.

Anche ammettendo che “la faccia feroce” faccia parte delle tecniche della trattativa, rimane lo stesso la domanda:

 che cosa sono disposte a cedere, Russia e Ucraina?

Partiamo dalla situazione più drammatica.

Se due Paesi sono in guerra (comunque essa sia cominciata e quali che siano i torti e le ragioni) si può arrivare al punto in cui un Paese ha vinto su tutta la linea e l'altro ha perso su tutta la linea.

Fino a non avere la minima capacità di resistenza.

Un buon esempio è l'Italia del 1943 nei confronti degli Alleati.

In un caso del genere il vincitore non ha niente da negoziare, perché ha vinto il piatto e può imporre la resa “senza condizioni”.

Come hanno fatto gli Alleati, appunto.

 Altro che 25 aprile; altro che Festa della Liberazione;

 altro che vittoria sulle truppe naziste: l'Italia ha perso la guerra in maniera ignominiosa.

 De Gasperi, discutendo con i vincitori del trattato di pace, ebbe a dire:

«So che tutto è contro di me, salvo la vostra personale cortesia».

Assolutamente non avevamo altre risorse.

Questo tipo di disfatta nell'antichità poteva comportare che la città fosse rasa al suolo, tutti gli uomini passati a fil di spada, donne e bambini uccisi o venduti come schiavi.

Grazie al cielo non è più così, sempre che il vincitore sia civile.

 I combattenti dell'Azovstal di Mariupol infatti, sapendo con chi hanno a che fare, preferiscono morire con le armi in pugno.

Passiamo al caso inverso.

Se due Paesi in guerra hanno mire opposte e sono convinti di poterle realizzare con le armi, nessuno dei due si arrenderà.

 Ma dal momento che anche la vittoria ha i suoi costi, perdurando le distruzioni e i lutti, ad un certo momento – secondo come penderà la bilancia della guerra – chi si troverà nella migliore posizione si dirà:

«Io volevo ottenere cento, e potrei anche ottenerlo, continuando la guerra.

 Ma se la controparte mi offre settanta, potrei anche accettare, perché la guerra ha i suoi costi, e il settanta per cento è sufficiente».

 A quel punto se la controparte – secondo come penderà la bilancia della guerra – sarà anch'essa del parere che è meglio perdere 70 che 100, si potrebbe arrivare ad un accordo al 65 o al 75%, secondo come andranno le trattative.

 Ma, come è ovvio, è necessario che ambedue le parti siano d'accordo sul compromesso. Diversamente non c'è spazio per l'accordo.

Un secondo caso in cui la trattativa è inutile, è quando l'oggetto del contendere è indivisibile, cioè la soluzione è a sì o no.

La controversia fra Carlo I Stuart e Cromwell verteva su questo quesito: il re deve disporre di un potere assoluto?

 Ovviamente, non poteva esistere un potere quasi assoluto.

 Assoluto significa assoluto.

E in questo caso per Carlo significò decapitazione.

Nella guerra attuale, la Russia inizialmente voleva che l'Ucraina entrasse nella sua Federazione o avesse un governo vassallo di Mosca, più o meno come la Bielorussia di Lukashenko.

Dunque la posta in gioco per l'Ucraina era indipendenza sì – indipendenza no.

 E in questi casi “Tertium non datur”.

Quindi non c'era spazio per nessun negoziato.

Poi, in seguito ai primi rovesci, la Russia ha cambiato programma ed ora vuole soltanto una parte dell'Ucraina.

 Ma quale e quanta parte?

 Questo si deciderà secondo come penderà la bilancia della guerra.

E poiché attualmente siamo in una situazione di stallo, e questo stallo potrebbe terminare in seguito all'arrivo di armi migliori per l'Ucraina, è ovvio che uno sblocco potrà aversi dopo che avremo visto se l'arrivo di queste armi cambia la situazione sul terreno.

Secondo la posizione dell'ago della bilancia in quel momento; secondo la sensazione che ciascuno avrà della propria forza;

 secondo gli effetti, vantaggiosi o svantaggiosi, che ognuno spererà dalla prosecuzione della guerra, si potrà avviare una discussione.

 E questo ci mostra quanto lontani ne siamo oggi.

Ancora attualmente, i contendenti vogliono l'intera posta in gioco.

 E questo è impossibile.

Come impossibili sono le trattative di successo, Macron o non Macron, Papa o non Papa.

(Gianni Pardo)

 

 

 

Il Fanta-Zelensky.

Indovina cosa chiederà il premier ucraino.

Alessandrorebecchi.it- Il Fatto Quotidiano – (1°-2-2023) – ci dice:

 

PIOVONO PIETRE Più del fantacalcio, tragicamente imprevedibile, più del fanta Sanremo, gioco di società per famiglie, impazza da mesi il fanta Zelensky, incentrato sulla capacità di indovinare le richieste del presidente ucraino alla comunità internazionale, ogni giorno rinnovate, anche con una certa capacità di sorpresa.

 Per dire: è dell’altro ieri la strabiliante richiesta (alla Germania) di sommergibili (!), richiesta che segue la richiesta di carri armati, che segue la richiesta di caccia F-16, che segue la richiesta di missili a lunga gittata, eccetera, eccetera.

 Ci sveglieremo una mattina con la pressante richiesta di gas nervino?

Di testate nucleari?

La politica italiana, che ubbidisce agli ordini battendo i tacchi, aumenta al due per cento del Pil la spesa in armi:

“Riempire gli arsenali e svuotare i granai” è la parola d’ordine, accolta con grandi applausi da parte del novanta per cento (abbondante) di giornali, tivù, e in generale degli apparati informativi del paese.

In attesa degli sviluppi militari (non entro nelle questioni belliche) e degli sviluppi della propaganda (non entro nelle polemiche sanremesi), balza agli occhi una questione generale – diciamo così strutturale della nostra democrazia – su cui vale la pena riflettere.

L’opinione pubblica sembra scollata, distante, lontanissima dall’opinione dei media.

Senti la gente, guardi i sondaggi e apprendi che la maggioranza degli italiani è contraria ad ulteriori invii di armi in zona di guerra;

 poi leggi i grandi giornali, o ascolti un qualunque telegiornale, o notiziario, e la sensazione è quella opposta:

appoggio incondizionato, avanti fino alla vittoria finale, eccetera, eccetera.

Uno scollamento strabiliante, non nuovo ma mai visto in queste dimensioni, con le storture e le anomalie che ne seguono.

La prima, macroscopica, infantile e un po’ miserabile, l’accusa di “stare con Putin” a chiunque immagini soluzioni diverse dalla guerra a oltranza;

quindi chi pronuncia parole come “cessate il fuoco” o “trattative” diventa una specie di Rasputin assetato di sangue alle dipendenze del Cremlino.

La seconda, un po’ ridicola, è la voluta confusione storica per cui la Russia (la Russia di Putin, quel mefitico concentrato di nazionalismo che ha privatizzato le ricchezze del paese) sarebbe ancora sovietica quando fa comodo, o imperiale quando fa comodo, bolscevica se serve, a piacere.

Terzo elemento, piuttosto inquietante, la necessità – data dallo spirito embedded della stragrande maggioranza dei media – di nascondere accuratamente i limiti, diciamo così, della presunta democrazia ucraina.

Tanto che quando Zelensky fa pulizia di alcuni politici e funzionari corrotti, pochissimi notano – e tutti tra le righe – che la giustizia in Ucraina è assoggettata al potere politico, che si sono messi fuori legge partiti, chiusi giornali, si sono unificate reti televisive e altre cosucce ancora.

 “L’Ue insiste da mesi che il sistema giudiziario ucraino sia reso indipendente”, scrive il Corriere della Sera come en passant, un inciso, un apostrofo rosa tra le parole: stiamo riempiendo di armi un paese non Ue che non ha nemmeno lontanamente i requisiti per entrarci.

La sensazione è che ci siano due opinioni pubbliche: quella dei cittadini, oltre il 50 per cento contrari a nuovi invii di armi, che conta pochissimo, e quella dell’informazione (vorrei dire delle élite) che invece è favorevole al 98 per cento e pesa parecchio.

Uno scollamento che è un dato di fatto, non positivo in una democrazia, comunque la si pensi sulla guerra, sulle armi e su Sanremo.

 

 

 

NO ALLA NUOVA EMERGENZA E ALLA

DICHIARAZIONE DELLO STATO DI GUERRA.

Generazionifuture.org – (25-2-2022) – Ugo Mattei – ci dice:

 

A nome del CLN condivido questo comunicato con preghiera di massima diffusione. Prego tutti i cittadini che vogliono restare critici e liberi a non credere per un secondo alla propaganda di guerra disgustosa e insopportabile che ci verrà propinata nelle prossime settimane.

 È in corso un evidente tentativo dell’asse angloamericana di impedire amichevoli rapporti fra Europa e Russia.

Ovviamente gli stessi interessi guerrafondai dei democratici di Biden sono quelli del regime draghista.

 Essi nulla hanno a che fare con quelli del popolo italiano che, a causa di questa irresponsabile e incostituzionale follia guerrafondaia, si ritroverà ulteriormente impoverito e depredato del patrimonio storico dei suoi ottimi rapporti con la grande cultura russa.

Sappiano gli italiani che ad oggi per stare nella NATO spendiamo quasi 80 milioni di Euro al giorno che il complesso militare industriale USA vuole farci portare a 100.

Questi interessi spiegano la situazione in Ucraina. (Ugo Mattei)

 

Allarmante la notizia della convocazione del Consiglio Supremo di Difesa da parte del Presidente Mattarella.

Gridiamo il nostro no a una nuova terribile emergenza e alla dichiarazione dello stato di guerra.

Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) chiede al Parlamento italiano, cui spetta pronunciarsi al riguardo, di adottare una posizione neutrale da parte dell’Italia nell’attuale conflitto russo-ucraino, preferendo la via diplomatica alla guerra.

Si richiede pertanto di attenersi a quanto sancito dall’articolo 11 della nostra Costituzione:

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».                           

 Lungi dalle ricostruzioni parziali dei media di massa, si precisa inoltre che l’attuale crisi ucraina va inquadrata nell’attacco lanciato dalla NATO contro la Federazione Russa, mirato a smembrarla per il controllo egemonico dell’Eurasia.

 È questo il contesto nel quale va inserito il colpo di Stato del 2014 nella “Euromaidan”, teatro di un’ennesima operazione di “regime-chance”, che ha visto in azione formazioni paramilitari neonaziste e cecchini georgiani che sparavano contemporaneamente su polizia e manifestanti per infiammare la rivolta e inglobare l’Ucraina nella sfera di appartenenza occidentale.

Le vessazioni contro la popolazione russa del Donbass, presto degenerate in veri e propri scontri, sono sfociate in un’offensiva che negli ultimi mesi ha visto l’impiego di sistemi missilistici a lancio multiplo BM-21 Grad posizionati lungo la linea di contatto in aperta violazione ai Protocolli di Minsk I e Minsk II.

Un’ennesima provocazione, alla quale Vladimir Putin questa volta ha risposto.

Al di là delle ragioni e dei reciproci interessi dei protagonisti sulla scacchiera geopolitica, il conflitto, che ora rischia di trascinare il mondo nel caos, non vedrà né vinti e né vincitori e colpirà pesantemente l’Europa che solo ora si sta lentamente lasciando alle spalle l’emergenza pandemica.

Per questo, il CLN chiede al Governo di riferire in Parlamento e di attenersi al rispetto dell’articolo 11 della Costituzione italiana.

 

 

 

CHI FURONO LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO?

Encyclopedia.ushmm.org – Redazione – (20-1-2022) – ci dice:

 

Il regime nazista perseguitò diversi gruppi per motivi ideologici. Gli Ebrei furano i principali bersagli delle persecuzioni sistematiche e dello sterminio di massa da parte dei Nazisti e dei loro collaboratori. Le politiche naziste portarono anche alla brutalizzazione e alla persecuzione di milioni di altri. Le politiche naziste nei confronti di tutti i gruppi di vittime furano brutali, ma non identiche.

EVENTI PRINCIPALI.

1 -Alcuni furono presi di mira in quanto minacce alla Germania per motivi razziali, come gli Ebrei europei e i Rom (zingari).

Le persone con disabilità, invece, venivano considerate una minaccia “biologica” e un onere finanziario per lo stato.

2- Le autorità naziste presero anche di mira gli oppositori politici tedeschi, gli omosessuali, gli “asociali” e i Testimoni di Geova, sostenendo che il loro comportamento rappresentava un pericolo per la “comunità nazionale”.

3- Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il numero dei gruppi di vittime si estese fino a comprendere Polacchi, prigionieri di guerra sovietici, cittadini sovietici e altri.

Chi furono le vittime dell’Olocausto?

Tutti gli Ebrei d’Europa vennero sistematicamente presi di mira dal regime nazista con l’obiettivo di eliminarli. I Nazisti consideravano gli Ebrei una “minaccia mortale” per la “razza” tedesca.

Due terzi degli Ebrei europei, ovvero sei milioni, furono uccisi dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori.

Quali altri gruppi furono vittime dei Nazisti e perché?

I Rom e i Sint erano visti come la “piaga degli zingari”, un popolo “inferiore” a livello razziale, con abitudini criminali. Ne furono uccisi fino a 250.000 in tutta Europa.

I tedeschi con disabilità fisiche e mentali erano considerati “inutili bocche da sfamare” e “difettosi” da un punto di vista razziale. 250.000 furono uccisi.

I Polacchi erano visti come slavi “subumani”. Subirono una brutale occupazione tedesca. Decine di migliaia di membri delle élite polacche furono uccisi o imprigionati come potenziali leader della resistenza polacca.

Anche i soldati sovietici catturati erano visti come slavi “subumani”. I Nazisti ritenevano che fossero parte della “minaccia giudeo-bolscevica”. 3,3 milioni di soldati sovietici morirono durante le esecuzioni o per fame e maltrattamenti intenzionali.

Diversi altri gruppi furono presi di mira. Tra questi vi erano avversari politici, reali o presunti, Testimoni di Geova, uomini accusati di aver compiuto atti omosessuali, e persone considerate “asociali”.

Queste categorie rientrano nelle le centinaia di migliaia di vittime imprigionate e uccise nei campi di concentramento.

Morirono di fame, malattia, lavori forzati, maltrattamenti, o pura e semplice esecuzione.

Lo sterminio degli Ebrei d’Europa nell’Olocausto.

Nell’ideologia nazista, gli Ebrei non erano visti solo come esseri alieni e biologicamente “subumani”.

Erano anche considerati un “nemico mortale”.

I Nazisti ritenevano che gli Ebrei danneggiassero la forza e la purezza della razza tedesca.

 Secondo i Nazisti, gli Ebrei dovevano essere distrutti per garantire la sopravvivenza a lungo termine delle persone “di sangue tedesco”.

Negli anni Trenta, questo determinò l’emigrazione forzata degli Ebrei dalla Germania e l’Austria annessa.

 L’impegno in tal senso si intensificò durante la seconda guerra mondiale.

Durante tutta la guerra, altri milioni di Ebrei passarono sotto il controllo tedesco. La politica antiebraica si trasformò in omicidio di massa, poi in un genocidio sistematico.

Non solo gli Ebrei tedeschi, ma tutti gli uomini, le donne e i bambini ebrei che si trovavano alla portata della Germania nazista vennero sistematicamente presi di mira per venire eliminati.

Questa misura fu definita come la “Soluzione finale alla questione ebraica in Europa”.

Gli Ebrei avevano vissuto in Europa per secoli prima che i Nazisti salissero al potere.

Nel settembre del 1939 scoppiò la Seconda Guerra Mondiale.

A quel tempo gli Ebrei vivevano in 20 paesi europei in cui, durante la guerra, funzionari e collaboratori nazisti avrebbero cercato di ucciderli.

Due terzi, ovvero sei milioni, degli Ebrei europei, furono assassinati dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori.

Questo totale comprende circa 1,5 milioni di bambini, dai neonati ai ragazzi di 17 anni

. Circa il 75%, ovvero 4,5 milioni degli Ebrei uccisi, viveva in Polonia, nell’Unione Sovietica e in altre parti dell’Europa orientale.

Per ragioni storiche, le popolazioni ebraiche erano più numerose in queste zone.

Le vittime ebree appartenevano ad ogni estrazione sociale, ricchi e poveri, ortodossi e laici, e si distribuivano sull’intero spettro politico, da sinistra a destra.

Gli Ebrei non furono presi di mira semplicemente per la loro religione.

 I Nazisti li classificavano sulla base del loro “sangue” o della loro presunta “razza”.

Di conseguenza, anche i protestanti e i cattolici i cui genitori o nonni erano Ebrei divennero vittime della persecuzione e del genocidio nazista.

Come riuscirono alcuni Ebrei a sopravvivere all’Olocausto?

Una piccola minoranza riuscì a raggiungere rifugi sicuri durante gli anni Trenta. Nessun paese aprì completamente le proprie porte ai rifugiati ebrei.

 La guerra creò inoltre molte più barriere all’immigrazione.

Alcuni Ebrei sopravvissero alla prigionia nei campi nazisti o in clandestinità.

Altri sopravvissero vivendo in territori non occupati dell’Unione Sovietica, lontani dal fronte militare.

Dopo la guerra, molti Ebrei vissero in campi per sfollati.

Alcuni vissero lì per anni, perché non potevano tornare alle loro case e l’immigrazione era ancora molto difficile.

Alla fine, molti sopravvissuti emigrarono in Palestina e negli Stati Uniti.

 Altri emigrarono in Canada, Australia, Sudafrica e America Latina.

Altri gruppi vittime della Germania nazista e dei suoi collaboratori.

Rom e Sint additati come minaccia razziale e socialmente “devianti”.

Rom (Zingari) vengono deportati a Kozare e Jasenovac, due campi di concentramento istituiti dai Croati.

Rom (Zingari) vengono deportati a Kozare e Jasenovac, due campi di concentramento istituiti dai Croati. Jugoslavia, luglio 1942.

Informazioni dall'archivio.

Spesso definiti come “zingari”, i membri di questa minoranza etnica sono organizzati in gruppi distinti chiamati “tribù” o “nazioni”.

I Sint erano generalmente predominanti in Germania e nell’Europa occidentale.

I Rom provenivano principalmente dall’Austria e dall’Europa orientale e meridionale.

Rom e Sint erano considerati dai Nazisti come “asociali” (cioè al di fuori della società considerata “normale”), di razza “inferiore”, e additati come la cosiddetta “piaga degli zingari”.

Si stima che un milione di membri di questa minoranza vivesse in Europa prima della guerra.

Fino a 250.000 di loro furono uccisi dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori durante la guerra.

Uomini, donne e bambini furono vittime del genocidio e inclusero sia Rom e Sint nomadi, il cui numero era in declino negli anni Trenta, sia le persone con fissa dimora in città e villaggi.

Nella Germania nazista alcuni individui identificati come “zingari” furono anche sterilizzati contro la loro volontà.

Un ulteriore numero imprecisato di Rom e Sint fu imprigionato nei campi di concentramento perché considerato “asociale”.

Tedeschi disabili presi di mira come minaccia razziale e peso per la società.

Le persone con disabilità fisiche e mentali considerate ereditarie furono prese di mira dai Nazisti.

 I Nazisti consideravano questi individui biologicamente “difettosi” e fonte di spreco delle risorse nazionali.

La propaganda nazista li dipingeva come “inutili bocche da sfamare”.

Una legge venne emanata nel 1933 con lo scopo di impedire la nascita di bambini con “difetti genetici”.

La stessa legge prevedeva inoltre la sterilizzazione forzata (Visualizza questo termine nel glossario delle persone cui erano state diagnosticate determinate patologie mentali o fisiche).

Si stima che siano stati sterilizzati da 300.000 a 400.000 individui, maschi e femmine.

Tra le persone sterilizzate c’erano molti giovani adolescenti.

I Nazisti usarono l’“emergenza nazionale” della guerra come copertura.

Nel 1939 il regime intensificò le politiche contro le persone disabili.

I pazienti disabili che vivevano in istituti di salute mentale e altre strutture di cura vennero presi di mira per l’eliminazione.

 Un totale di 250.000 persone fu ucciso nell’ambito del programma segreto “T-4” e dei relativi programmi di “eutanasia” condotti all’interno della Grande Germania.

La maggior parte delle vittime erano di etnia tedesca, non ebrea.

Tra le vittime ci furono circa 7.000 bambini.

 Le vittime del programma T-4 furono uccise in camere a gas camuffate da docce, la prima volta in cui venne utilizzato questo metodo di omicidio e inganno.

Polacchi presi di mira come minaccia razziale e politica.

Nell’ideologia nazista, i Polacchi erano considerati come esseri “subumani” che occupavano terre di vitale importanza per la Germania.

I Nazisti miravano a impedire la formazione di una Resistenza polacca organizzata a seguito dell’invasione della Polonia da parte della Germania nel settembre del 1939.

Nell’ambito di questa politica, le forze naziste uccisero o imprigionarono decine di migliaia di uomini e donne delle élite polacche.

 Tra le vittime vi erano ricchi proprietari terrieri, membri del clero, funzionari governativi, insegnanti, medici, dentisti, ufficiali militari e giornalisti.

 I cittadini polacchi meno istruiti, tra cui molti giovani uomini e donne, furono trasportati in Germania per il lavoro manuale, la maggior parte contro la loro volontà.

Lì, i circa 1,5 milioni di Polacchi, insieme ad altri provenienti dall’Europa orientale, furono oggetto di una dura discriminazione.

Centinaia di uomini polacchi furono giustiziati per aver avuto rapporti sessuali con donne tedesche.

 I Nazisti consideravano questi atti “profanazione razziale”.

Prigionieri di guerra sovietici considerati una minaccia razziale e politica.

Molti militari sovietici furono catturati dall’esercito tedesco dopo l’invasione dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941.

 I soldati erano visti come slavi “subumani” e parte della minaccia “giudeo-bolscevica”.

Il mito del giudeo-bolscevismo sosteneva che il comunismo era un complotto ebraico architettato a spese dei tedeschi.

In totale, 3,3 milioni di prigionieri di guerra (POW) sovietici, comprese donne soldato, morirono a causa di esecuzioni capitali, fame, malattie, esposizione agli agenti atmosferici, percosse e altri maltrattamenti.

Il trattamento tedesco dei prigionieri di guerra sovietici violava la Convenzione di Ginevra e ogni standard di guerra.

In confronto, la maggior parte dei prigionieri di guerra britannici e americani sopravvisse alla prigionia tedesca in quanto l’ideologia nazista li considerava propri pari a livello razziale.

Prigionieri politici e altri prigionieri dei campi di concentramento nazisti.

Gli oppositori politici in Germania furono i primi prigionieri dei campi di concentramento nazisti.

Questa categoria di prigionieri comprendeva attivisti antinazisti, dissidenti dichiarati e membri di gruppi di resistenza europei.

A un certo punto arrivò a includere anche persone solo sospettate di sentimenti antinazisti o che avevano criticato o deriso privatamente il regime nazista.

 Un numero indeterminato di uomini e donne imprigionati per ragioni politiche morirono per varie cause o furono uccisi.

I Testimoni di Geova erano un’organizzazione religiosa.

Nel 1933 in Germania vi erano circa 20.000 membri.

 Come parte dei vincoli della loro fede, i Testimoni di Geova si rifiutavano di giurare fedeltà a qualsiasi governo e di partecipare ai combattimenti a fianco di qualsiasi nazione.

Per quanto piccolo fosse il movimento, esso minacciava le richieste naziste di totale fedeltà a Hitler e allo stato.

Circa 1.900 Testimoni di Geova morirono nei campi di concentramento.

La maggior parte delle vittime erano uomini di nazionalità tedesca.

Gli omosessuali erano visti dai Nazisti come socialmente “devianti”.

I Nazisti li consideravano un pericolo per le politiche naziste volte ad aumentare la natalità tedesca.

 Tra il 1933 e il 1945, circa 100.000 uomini furono arrestati in Germania ai sensi del Paragrafo 175 del Codice penale tedesco.

Dei 50.000 uomini condannati come “vittime del § 175”, tra i 5.000 e 15.000 furono imprigionati nei campi di concentramento.

Centinaia, forse migliaia, morirono a causa dei maltrattamenti.

Tra gli “asociali” vi erano disoccupati e senzatetto, beneficiari dell’assistenza sociale, prostitute, mendicanti, alcolisti e tossicodipendenti.

 

 

 

Scenari.

Le “persone inutili” di Yuval Harari e

la negazione del libero arbitrio.

Conquistadellavoro.it – Raffaella Vitulano – (28-6-2022) – ci dice:

Li definiscono intellettuali famosi, Yuval Noah Harari e Slavoj Zizek, anche se quest’ultimo sussulta quando viene chiamato così.

Diverse le loro specializzazioni accademiche: storia medievale per Harari, filosofia hegeliana e psicoanalisi lacaniana per Zizek.

Al più grande festival di filosofia del mondo, “How The Light GetsIn”, si sono confrontati sulla questione della natura: amica o nemica?

La risposta non è sorprendentemente sfumata: la natura non è né nostra amica né nostra nemica.

Stiamo per entrare in un’era post-natura e questo cambierà tutto.

Dopo un lungo periodo di pensiero illuminista che ha visto la natura conquistata dalla ragione e domata dalla tecnologia, il suo posto nella società è tornato in grande stile, anche grazie alla pandemia di Covid e alla crisi climatica.

Per Harari e Zizek la natura non è né buona né cattiva, è semplicemente al di fuori della moralità.

 L’idea che le innovazioni guidate dall’uomo e gli incidenti come i reattori nucleari, il vaccino contro il Covid-19 o persino la guerra in Ucraina siano “naturali” può suonare strano.

Ma dato che la loro esistenza non viola nessuna legge naturale e sono fatti dello stesso materiale fisico di tutto il resto, allora in un certo senso lo sono.

Siamo sul punto di creare quelle che Harari chiama “forme di vita inorganiche”, riferendosi all’Intelligenza Artificiale avanzata.

 E vedrete se non le considereremo come naturali.

Al Festival di Filosofia si concorda:

stiamo per cambiare la nostra composizione biologica, cambiando la nostra natura in modi radicali.

Questo potrebbe eccitare alcuni transumanisti e scienziati che sono concentrati sull’uso di questi strumenti per risolvere problemi ristretti e specifici nei loro campi, ma Harari ha un tono più cupo e mette in allerta.

 Questo è ciò che hanno sognato dittatori spietati.

 In passato, quando i dittatori cadevano, almeno ciò che lasciavano dietro di loro era ancora umano.

In futuro, potrebbe non essere più così.

Stalin, interviene Zizek, voleva fare esattamente questo:

creare un esercito di lavoratori geneticamente modificati che potessero lavorare oltre i limiti di qualsiasi essere umano e sopravvivere con un minimo di sostentamento e provviste di base.

“Il problema non è se saremo ridotti in schiavitù dalle macchine, ma che questa schiavitù rafforzerà la divisione tra gli umani”, ha detto Zizek.

 “Alcune persone ci controlleranno e altre saranno controllate”.

Se ingegnerizziamo geneticamente gli esseri umani per essere più intelligenti, più coraggiosi, più efficienti, ciò alla fine porterà alla scomparsa di tutte le nostre altre caratteristiche, quelle che saranno ritenute meno desiderabili dagli ingegneri dell’umanità.

 La selezione di alcune funzionalità significherà la scomparsa di altre.

“Se dai loro la tecnologia per iniziare a incasinare il nostro Dna, per iniziare a incasinare i nostri cervelli, multinazionali ed eserciti potrebbero amplificare alcune qualità umane di cui hanno bisogno, come la disciplina.

Nel frattempo, potrebbero sminuire altre qualità umane come la compassione o la sensibilità artistica o la spiritualità”: detto dal transumanista Yuval Noah Harari, consulente chiave del” World Economic Forum di Davos e di Klaus Schwab”, l’allarme suona ipocrita.

 Suona allarmante invece il fatto che pensi che il libero arbitrio sia un “mito pericoloso”.

Un punto su cui il neurochirurgo Michael Egnor lo contesta con forza:

 “La negazione del libero arbitrio è una pietra angolare del totalitarismo. Senza il libero arbitrio, siamo bestiame senza diritti”.

Lo storico Yuval Noah Harari è anche coautore con Thierry Malleret di “Covid-19: The Great Reset”.

E in una domanda rivela tutta la sua vera ideologia:

“Cosa fare nei prossimi decenni con tutte le persone inutili?”.

Una classe dirigente si interrogherà con “noia” su cosa fare di loro dato che “sono fondamentalmente privi di significato, senza valore”.

Harari calpesta così le orme di Aldous Huxley durante la sua famigerata conferenza “Ultimate Revolution” del 1962 al Berkley College:

“La mia ipotesi migliore, al momento è una combinazione di droghe e giochi per computer come soluzione finale per la maggior parte di loro. Penso che una volta che sei superfluo, non hai potere”.

L’apoteosi del pensiero eugenetico affiora nel ruolo della tecnologia nella creazione di una nuova classe inutile globale “post-rivoluzionaria”, per sempre sotto il dominio dell’emergente “casta alta” di élite dai colletti d’oro di Davos e di Klaus Schwab.

La casta alta che domina la nuova tecnologia non sfrutterà i poveri. Semplicemente non avrà bisogno di loro.

E sarà molto più difficile ribellarsi all’irrilevanza che allo sfruttamento.

Yuval è elogiato da Klaus Schwab, ma anche da Barack Obama, Mark Zuckerberg e Bill Gates, che hanno recensito l'ultimo libro di Harari sulla copertina del New York Times Book Review.

Per lui la morale, proprio come Dio, il patriottismo, l’anima o la libertà, sono concetti astratti creati dall’uomo che non hanno alcuna esistenza ontologica nell’universo meccanicistico, freddo e in definitiva senza scopo in cui si presume che esistiamo.

 Le relazioni umane diventano insignificanti a causa di sostituti artificiali.

I poveri muoiono ma i ricchi no.

È questa la rivoluzione industriale incentrata sull’intelligenza artificiale.

Ma il prodotto questa volta non saranno tessuti, macchine, veicoli e nemmeno armi, il prodotto questa volta saranno gli stessi umani, corpi e menti, conclude Harari, precisando infine che le “persone inutili” a cui fa riferimento il consulente del “Wef” di Klaus Schwab saranno quelle che rifiuteranno di ricevere le capacità di intelligenza artificiale nei prossimi decenni.

Descrivendo gli esseri umani come “animali hackerabili”, Harari crede che le masse non avrebbero molte possibilità contro questi cambiamenti anche se dovessero organizzarsi.

(Raffaella Vitulano - 28 giugno 2022).

 

 

 

Harari è l’ideologo del

“grande reset” di Klaus Schwab

e Thierry Malleret.

Francesadonato.eu – Francesca Donato e Carlo Freccero – (29 Dic. 2022) -ci dicono:

Il grande reset è alimentato da una grande narrazione.

Uno dei volti di questa narrazione è lo scrittore israeliano Harari.

I suoi testi ed i suoi interventi sono riproposti in modo sempre più insistente nella nostra società tradotti e distribuiti in decine di lingue e paesi.

Ho letto con grande interesse questo articolo di Carlo Freccero, che qui ripropongo.

Un articolo pubblicato da La Verità, il primo che mi risulti su un grande quotidiano, che evidenzia la pericolosità di questa narrazione, fortemente ideologica, che apre verso un transumanesimo che io vedo pericoloso nella misura in cui propone con arroganza una direzione che sembra volere tradire l’uomo per come lo conosciamo il nome di una parola, fortemente ridisegnata in questi anni: scienza.

Caro Guerrieri, attenzione ad Harari. È lui l’ideologo del Grande Reset.

( Carlo Freccero).

Ho letto con piacere ed attenzione la bella intervista rilasciata a “Caverzan” da Giordano Bruno Guerri.

 È un insieme di affermazioni di buon senso con cui non si può essere d’accordo.

Ma c’è un punto che mi ha stupito.

Guerri si dice affascinato, tra gli autori moderni, dai libri di Yuval Noah Harari. Identifica Harari con autore letterario, mentre per me è molto di più.

 È l’autore del copione che da tre anni va in onda nella vita reale ad opera del” World Economic Forum” di Klaus Schwab.

 È il teorico del futuro che ci aspetta tra breve.

È un utopista con una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri utopisti della storia.

Le loro fantasie erano ambientate in un NON LUOGO (UTOPIA) a testimonianza del fatto che il loro stesso autore le riteneva irrealizzabili.

 L’ utopia di Harari si chiama Grande Reset, ed è in corso di attuazione, a tappe forzate, a partire dalla famosa pandemia che Klaus Schwab ha definito un’occasione irripetibile di cambiamento del mondo.

Klaus Schwab esprime questo concetto nel suo libro più famoso “COVID 19 THE GREAT RESET” scritto a quattro mani con Thierry Mallaret.

E descrive invece nel dettaglio la natura di questo cambiamento in un’opera precedente (LA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, con prefazione, nell’edizione italiana di John Elkann) e successiva (GOVERNARE LA IV RIVOLUZIONE INDUSTRIALE) in cui si parla apertamente di fusione della natura umana con l’intelligenza artificiale emergente.

Ciò sarebbe possibile con un’agenda dì digitalizzazione che i governi di tutto il mondo hanno recepito e fatto propria.

Due temi, l’agenda digitale e l’agenda verde, sono al centro del cambiamento epocale in atto sul pianeta.

L’uomo deve cambiare la sua stessa natura diventando dipendente dall’agenda digitale.

Contestualmente deve ridimensionare i suoi consumi alimentari ed energetici per limitare un riscaldamento globale che le élite ritengono incontestabile, ma che molti esimi scienziati ritengono invece pretestuoso.

Ma cosa c’entra Yuval Noah Harari con Klaus Schwab?

 Schwab non è abbastanza rassicurante.

 C’è in Schwab, nel suo accento tedesco, nella sua postura rigida e quasi militare, qualcosa di inquietante.

Ed ecco che, nel tempo, l’immaginifico Harari ha sempre più conquistato il centro della scena ed è diventata la voce ufficiale dei forum di Davos.

D’altronde Harari non è uno scrittore come gli altri.

Il suo successo è il risultato della sua identificazione col sistema. I suoi libri sono best sellers assoluti ed hanno stampato milioni di copie in tutti i paesi del mondo.

Il suo libro” SAPIENS – BREVE STORIA DELL’UMANITÀ” è stato tradotto in trenta lingue.

Il successivo “HOMO DEUS” ha avuto una visibilità ed un rilievo anche maggiore. Ma non si tratta di un caso: Il sistema lo impone.

Harari ha tenuto lezioni obbligatorie in tutte le grandi aziende di Silicon Valley, con lo scopo di procedere alla formazione della nuova classe dirigente.

I suoi libri sono la bibbia del mondo che sta per nascere.

E non uso il termine a caso perché Harari vuole sostituire il nuovo “HOMO DEUS” agli dei del passato che erano, secondo lui, compreso Gesù Cristo, fake news.

 Nel passato l’evoluzione si è svolta naturalmente.

 Oggi una élite di filantropi è in grado di prendere in mano il progetto evolutivo dell’uomo e del pianeta, per costruire forme di vita inorganica ed ibrida.

Harari viene definito transumanista e questa visione del transumanesimo ha fatto sì che la parola transumanesimo significhi oramai qualcosa di agghiacciante.

Qualche anno fa ero interessato al transumanesimo come prosecuzione e completamento ideale dell’umanesimo rinascimentale.

 L’umanesimo ha prodotto filosofia, sapere, bellezza.

 La frase che meglio definisce l’umanesimo è la famosa definizione di Pico della Mirandola che afferma che l’uomo può scegliere cosa diventare: degenerare nell’animalità o ascendere alla natura divina, con una semplice decisione della sua anima.

È un appello a migliorarsi, crescere, elevarsi.

Per Harari e per le élite di cui è espressione, i due ruoli, animale e divino, devono separarsi e non saranno più oggetto della scelta di ciascuno di noi.

 Le élite saranno i nuovi dei, gli uomini normali saranno respinti nel regno animale e come animali saranno allevati e controllati per non alterare l’equilibrio del pianeta.

Sopravviveranno a scopi utilitaristici per integrarsi nell’agenda digitale e nella vita inorganica.

 E dice queste cose apertamente, senza procurare nessuna relazione, ma solo ammirazione nei suoi ascoltatori, diretti interessati e vittime designate dai suoi progetti.

Capisco il fascino che un autore come Harari può suscitare, soprattutto per la presunta modernità di certe sue argomentazioni.

Tuttavia bisogna vigilare sulle trappole i falsi miraggi che il suo pensiero ci prospetta.

(FRANCESCA DONATO e Carlo Freccero).

 

 

 

 

TECNOLOGIA E CONTROLLO.

Il WEF propone nuovi metodi di

censura basati sul potenziamento dell’IA.

Lindipendendente.online – Giorgia Audiello – (17 agosto 2022) – ci dice:

 

Il “World Economic Forum” (WEF) ha recentemente proposto nuovi metodi per monitorare e censurare dalle piattaforme social quelle che vengono definite «opinioni estreme», disinformazione e materiale pedopornografico. In un articolo intitolato «La soluzione agli abusi online? Intelligenza artificiale (IA) più intelligenza umana», si sostiene che i metodi di controllo tradizionali sui social network non siano più efficaci e occorra, dunque, potenziare l’IA tramite nuovi set di apprendimento che le consentano di raccogliere informazioni da «milioni di fonti», rendendola così in grado di “decifrare” l’intelligenza umana e di bloccare i contenuti “nocivi” prima ancora che arrivino sulle reti social.

Sebbene il WEF tenga a precisare che l’articolo rappresenta l’opinione dell’autrice – Inbal Goldberger – esso, essendo ospitato sul suo sito ufficiale, non può che rappresentare almeno in parte anche i programmi della celebre organizzazione internazionale.

 Considerato peraltro che il suo fondatore – Klaus Schwab – è un fervente sostenitore delle tecnologie più avanzate e dell’IA, appartenendo alla schiera degli adepti della “nuova religione tecno-scientista”.

Nel mondo occidentale sedicente democratico non è la prima volta che si tenta di disciplinare ed eventualmente censurare i contenuti della rete dietro l’espediente subdolo della disinformazione e della sicurezza degli utenti, coniando nuove espressioni come “incitamento all’odio” e “opinioni estreme” assolutamente vaghe e sotto il cui ombrello potrebbe rientrare qualunque manifestazione legittima di dissenso verso l’ideologia dominante.

 Beninteso, che la rete e i social network vadano in qualche modo disciplinati è evidente: meno chiaro, invece, è il confine superato il quale – con il pretesto della disinformazione – si finisce per adottare una vera e propria forma di censura mascherata.

Già qualche mese fa, la Commissione europea aveva adottato il nuovo codice di condotta contro la disinformazione, basato soprattutto sulla cooperazione con i “moderatori” delle piattaforme online.

A differenza di quest’ultima iniziativa europea, la proposta dell’autrice del WEF si affida incondizionatamente alle risorse delle tecnologie avveniristiche, limitando sempre di più il contributo umano in favore del potenziamento dell’IA e proiettandoci così in uno scenario dalle tinte distopiche.

È evidente, infatti, come ci si muova nella direzione di un sempre maggiore controllo dei pensieri e delle opinioni delle persone da parte degli algoritmi, tanto che Yuval Noah Harari – anche lui membro del WEF – ha dichiarato che «entro 10, 20 o 30 anni tali algoritmi potrebbero anche dirti cosa studiare al college e dove lavorare, chi sposare e persino per chi votare».

Nello specifico, nell’articolo si sostiene che gli attuali metodi di controllo dei contenuti siano inefficaci per diverse ragioni:

 innanzitutto la rapidità con cui i responsabili degli abusi adottano tattiche sempre più sofisticate per eludere i rilevamenti e, in secondo luogo, i limiti dell’IA stessa.

Quest’ultima, infatti, non è in grado di distinguere i contesti (ad esempio, non è in grado di capire se l’immagine di un nudo appartenga ad un contesto pornografico piuttosto che a un’opera d’arte figurativa), né di rilevare minacce in lingue nelle quali non è stata addestrata.

A differenza dell’IA, i moderatori umani possono capire più lingue e interpretare diverse culture:

«questa precisione, tuttavia, è limitata dalla specifica area di competenza dell’analista», si legge nell’articolo.

In generale, la tesi di fondo è che gli sforzi combinati di intelligenza umana e IA «non sono ancora sufficienti per rilevare in modo proattivo i danni prima che raggiungano le piattaforme», che sarebbe l’obiettivo ultimo per garantire un controllo veramente efficace dei contenuti della rete.

Il modo che l’autrice presenta per raggiungere questo obiettivo è «un approccio basato sull’intelligenza»:

 si tratta di introdurre negli insiemi di apprendimento dell’IA l’intelligenza umana, integrandola al suo interno, oltreché un sistema di acquisizione multilingue.

 In questo modo, «l’IA sarà in grado di rilevare nuovi abusi online su larga scala, prima che raggiungano le piattaforme tradizionali».

Tutto ciò, si legge, «ci consentirà di creare un’IA con l’intelligenza umana integrata.

Questa IA più intelligente diventa più sofisticata con ogni decisione di moderazione, consentendo infine un rilevamento quasi perfetto, su larga scala».

Si tratta, dunque, di raccogliere informazioni al di fuori dei canali social da milioni di utenti, monitorando costantemente le persone e le idee, eliminando quindi quelle ritenute non in linea con gli standard delle piattaforme prima ancora che approdino su queste ultime.

È evidente che dietro questa frenetica corsa all’individuazione di sistemi sempre più sofisticati di monitoraggio e rimozione dei contenuti digitali vi sia non tanto la volontà di proteggere gli utenti, quanto l’incapacità da parte delle istituzioni di arginare un dissenso sempre più debordante, inasprito dagli ultimi avvenimenti politici e sociali che hanno alimentato il malcontento generale e la sfiducia negli organi rappresentativi istituzionali.

E poiché – come sostiene anche l’eminente studioso Noam Chomsky – la società “liberal- democratica” si fonda sul consenso, nella fattispecie un consenso artificiale costruito attraverso tecniche ingegneria sociale, ciò non può essere tollerato.

Di qui, il rischio che si vada nella direzione di un controllo tecnologico sulla mente, sui comportamenti e sulle opinioni sempre più avanzato e opprimente, ma allo stesso tempo anche abilmente dissimulato.

[Giorgia Audiello]

 

 

PAROLA DI COMPLOTTISTA.

 Orticaweb.it - Redazione Ortica Web – (8 Aprile 2022) - David Cane -  ci dice:

 

SUMMIT A DUBAI, STOP AL CONTANTE…

ALL’ANIMA E AL LIBERO ARBITRIO.

SIAMO PRONTI PER IL NUOVO ORDINE MONDIALE?

Il covid è un’operazione pianificata con lo scopo di introdurre il Nuovo Ordine Mondiale, distopico modello di società incentrato su un sistema di controllo e sorveglianza totale, tanto sul piano fisico-biologico quanto su quello mentale-comportamentale che su quello monetario-fiscale.

Se una roba del genere la dici al bar sotto casa, o sui social, ti becchi inevitabilmente il bollino di complottista, terrapiattista o qualche altro epiteto dalla lunga lista degli -ista.

Anche se è sempre più innegabile che l’affermazione corrisponde a verità.

E anche se a dirlo sono gli stessi padroni del discorso, quelli che il complotto lo vanno ordendo da anni – non in gran segreto bensì alla luce del sole, e quasi sempre in diretta streaming.

Qualche giorno fa è iniziato a Dubai il “World Government Summit” (“Summit del Governo Mondiale”), un mega-convegno che riunisce la crème de la crème del globalismo sotto l’egida – manco a dirlo – del Forum di Davos di Klaus Schwab.

 E quasi a voler fugare ogni dubbio, l’evento si è aperto con una sessione dal titolo illuminante:

“Siamo pronti per il Nuovo Ordine Mondiale?”

Nel corso della discussione, l’economista Pippa Malmgren ha dichiarato che sì, lei è pronta, e ha spiegato anche quale sarà l’elemento chiave della grande trasformazione.

Peraltro, è proprio ciò che avevano previsto i “deliranti complottisti” due anni fa, ma a suo tempo era roba da TSO…

“Il fondamento di un ordine mondiale è sempre il sistema finanziario.

E adesso siamo sull’orlo di una radicale trasformazione.

 Lo dico senza esitazioni: stiamo per abbandonare il sistema monetario tradizionale ed introdurne uno nuovo.

E questo nuovo sistema è il “blockchain”, la valuta virtuale, che significa la capacità di tracciare e controllare ogni singola transazione che avviene nel mondo.”

 La stessa Malmgren ammette che il nuovo sistema porta con sé “enormi pericoli per l’equilibrio di potere fra stato e cittadino”, ma non sembra particolarmente preoccupata.

 È chiaro però che far digerire alla gente la valuta virtuale – e la totale abolizione del contante – non sarà una passeggiata.

 Probabilmente, e paradossalmente, si rivelerà più difficile di quanto non sia stato imporre museruole, stecchini in ogni orifizio e infinite iniezioni sperimentali.

Servirà dunque il giusto pretesto – e il giusto contesto.

Ma proprio come la devastante crisi sanitaria ha aperto le porte all’egemonia della siringa, sarà la devastante crisi economica che le aprirà al sistema monetario digitale.

Poco importa che entrambe le crisi siano fondamentalmente artificiali.

E meno male che è arrivata questa “guerretta” proprio al momento giusto, vero Klaus Schwab?

 

“Il mondo – fa notare a Dubai il signor Schwab, con quell’inconfondibile accento da supercattivo jamesbondiano – deve affrontare non solo i danni economici e sociali causati dal covid, ma anche le ripercussioni di un pericoloso conflitto tra superpotenze globali.

Siamo veramente a un punto di non ritorno nella storia.

Non conosciamo ancora la piena portata dei cambiamenti sistemici e strutturali che avverranno.

Ma sappiamo con certezza che le catene di approvvigionamento energetiche, industriali e alimentari saranno colpite in maniera profonda.”

Traduzione dal davosiano: “preparatevi a blackout, carestie, razionamenti e hamburger di scarafaggio.

E a un’iperinflazione da fantascienza.

Tutta colpa del mostro al Cremlino. Che è mio amico da 30 anni.

 Per fortuna, la terribile invasione ci offre l’opportunità perfetta per fare ciò che avevamo già in programma di fare.

” E chi ha orecchie per intendere…

 

Yuval Noah Harari,

Quanto al ruolo della pandemia nell’implementazione di questo diabolico disegno, nessuno è stato più chiaro o più diretto di Yuval Noah Harari, “profeta del transumanesimo” e teorico “ufficiale” della “Quarta Rivoluzione Industriale”, nonché consulente fidato dello stesso Schwab.

Harari è colui che ha famosamente definito l’uomo “un animale hackerabile” e manipolabile attraverso l’intelligenza artificiale.

 “L’idea stessa che gli esseri umani abbiano un’anima o uno spirito o un libero arbitrio è finita.

 L’idea che nessuno sappia cosa succede dentro di te, e che sei veramente tu a scegliere chi votare o cosa comprare al supermercato… è una favoletta.

Adesso ci sono algoritmi che ti conoscono meglio di quanto tu non conosca te stesso, e che pertanto sono in grado di prevedere le tue scelte, manipolare i tuoi desideri, e prendere decisioni per tuo conto”.

 Da anni, Harari fantastica sulla possibilità di “upgradare” l’uomo ed estendere la sorveglianza di massa alla sfera dell’organismo umano, sfruttando una pletora di nanotecnologie da iniettare direttamente all’interno del corpo: neuromodulatori, editing genetico, theranostics, biometrica molecolare e sensori di ogni tipo, il tutto allegramente connesso alla rete attraverso la nascitura “internet of nanothings”.

È vero, lo stesso Harari riconosce il potenziale per una deriva distopica “mille volte peggio di Orwell”.

Ma alla fine il transumanista israeliano sembra convinto che queste cose possano essere usate a fin di bene, “se solo riusciremo a fidarci della scienza, delle autorità, e dei media”.

Alla luce di ciò, fanno ancora più impressione le sue recenti dichiarazioni sulla “funzione” svolta della pandemia:

 “il covid è l’elemento cruciale perché è ciò che convince la gente ad accettare e legittimare la sorveglianza biometrica totale.

 Se vogliamo fermare questa epidemia non dobbiamo semplicemente monitorare dove vanno le persone o chi incontrano, dobbiamo monitorare ciò che accade sotto la loro pelle.”

Insomma, chi ancora si chiede il motivo di tutte queste iniezioni non deve far altro che leggere fra le righe di Harari:

 il ciclo della puntura perenne, in larga parte, serve semplicemente ad abituarci al buco.

 A metabolizzare l’idea che favorire il braccio allo stato, ogni tot mesi, sia un normale prerequisito dell’esistenza.

 E non appena tale dinamica sarà assimilata dalle masse, ecco che il potere potrà dispiegare a suo piacimento, dentro di noi, tutto quell’arsenale di giocattolini che ha già pronto in magazzino.

La vera domanda, dunque, è un’altra: chi sono i veri complottisti?

(Yuval Noah Harari, Pippa Malmgren, Klaus Schwab e il Summit a Dubai).

La storia dei «mangiatori inutili»

da eliminare riportata dallo “Zoo di 105”

non è di un libro di Klaus Schwab

facta.news – Redazione – (Mag. 30, 2022) – ci dice<. 

 

Il 30 maggio 2022 la redazione di Facta ha ricevuto diverse segnalazioni che chiedevano di verificare l’autenticità di alcune frasi citate durante la trasmissione radiofonica Lo Zoo di 105 del 25 maggio 2022, che secondo i conduttori sarebbero tratte «da pagina 105» di un libro pubblicato nel 1993 da Klaus Schwab, presidente esecutivo del World economic forum (Wef).

Nel passaggio citato in trasmissione, disponibile al minuto 9:15 di questo video, si sostiene che «Almeno 4 miliardi di “mangiatori inutili” saranno eliminati entro l’anno 2050 per mezzo di guerre limitate, epidemie organizzate di malattie mortali ad azione rapida e fame.

L’energia, il cibo e l’acqua saranno mantenuti a livelli di sussistenza per la non-élite, iniziando con le popolazioni bianche dell’Europa occidentale e del Nord America e poi diffondendosi ad altre razze».

 La presunta citazione aggiunge che:

 «La popolazione del Canada, dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti sarà decimata più rapidamente che negli altri continenti, fino a quando la popolazione mondiale raggiungerà un livello gestibile di 1 miliardo, di cui 500 milioni saranno costituiti da razze cinesi e giapponesi, selezionate perché sono persone che sono state irreggimentate per secoli e che sono abituate ad obbedire all’autorità senza domande».

Le frasi riportate durante Lo Zoo di 105 non provengono da uno scritto di Schwab e veicolano una notizia falsa.

Come avevamo ricostruito in un precedente articolo, il passaggio oggetto della segnalazione arriva da “Conspirators’ Hierarchy: The Story of the Committee of 300” di “John Coleman” un libro pubblicato nel 1992 che descrive un’ipotetica organizzazione chiamata «il Comitato dei 300”, un «gruppo onnipotente» che controllerebbe ogni aspetto del mondo.

Il passaggio riportato durante la trasmissione radiofonica si trova a pagina 105 del testo ed è presentato come il riassunto del lavoro di un defunto membro del comitato, che secondo Coleman stava delineando una proposta per una «rivoluzione mondiale».

 

 

 

 

È la fine della globalizzazione occidentale?

Huffingtonpost.it - Rosario Cerra – (5 aprile 2022) – ci dice:

 

È quel filo rosso che lega in un qualche modo le tre crisi, finanziaria del 2008, pandemica nel 2020, bellica del 2022.

Dalle dure lezioni di oggi ne usciremo migliori?

O dovremo accontentarci del solito “ne usciremo!”

Stiamo scoprendo, a nostre spese, di vivere nell’epoca dell’iper-compressione. Grandi cambiamenti tecnologici, economico-finanziari e geopolitici si susseguono e interagiscono in tempi rapidissimi sconvolgendo gli assetti globali.

 Un filo rosso lega in un qualche modo le tre crisi, finanziaria del 2008, pandemica nel 2020, bellica del 2022: la globalizzazione.

Fenomeno che ha accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica dei vari paesi, favorito attraverso gli scambi e la specializzazione produttiva la crescita dell’economia mondiale, ma anche innescato l’emergere di squilibri economici, finanziari, sociali, ambientali e geopolitici per cui oggi, con sorpresa di molti ma non di tutti, ci viene presentato il conto.

 È significativo notare come l’attuale fase di crisi metta in forte evidenza due importanti dinamiche della globalizzazione.

La prima è riferita all’inflazione, un fenomeno che nei paesi avanzati, e soprattutto in Europa, non destava preoccupazione da qualche decennio ma che torna prepotentemente alla ribalta.

È stata la globalizzazione, insieme alla diffusione delle ICT, a garantire negli ultimi decenni la stabilità dei prezzi in un contesto di elevata crescita mondiale, ed è la stessa globalizzazione e la cresciuta interdipendenza delle economie a generare le tensioni strutturali sui prezzi che oggi osserviamo.

 La seconda consiste nell’accresciuta capacità delle sanzioni economiche di surrogare l’azione militare come strumento di pressione verso stati sovrani non allineati agli interessi e ai valori occidentali.

La globalizzazione, infatti, spiega in larga parte l’ascesa delle sanzioni, poiché maggiore è l’integrazione di un paese negli scambi internazionali, maggiore è l’impatto delle sanzioni.

D’altra parte, il processo di globalizzazione non è stato neutrale e ha anzi cambiato radicalmente i rapporti di forza tra i Paesi.

 In questo quadro la Russia ha riaffermato, attraverso l’azione in Ucraina, la rilevanza degli aspetti militari nel definire gli assetti geostrategici e messo a dura prova la fiducia nella capacità di deterrenza delle sanzioni.

I cambiamenti nei rapporti di forza prodotti dalla globalizzazione possono, infatti, contribuire a ridurre la credibilità della minaccia delle sanzioni se le dipendenze strategiche ed economiche dei paesi che le dovrebbero imporre sono particolarmente rilevanti a causa dei costi di ritorno.

 Il problema del blocco delle importazioni di gas dalla Russia ne è un chiaro esempio.

 È, inoltre, la condizione in cui si ritrova pienamente oggi l’Occidente, e in particolare l’Europa, nei confronti della Cina.

Basti pensare che l'esposizione della prima economia europea, quella tedesca, rispetto alla Cina è straordinariamente più ampia di quella verso la Russia.

 A fronte di circa sessanta miliardi di euro scambiati tra la Germania e la Russia nel 2021, tra cui 20 miliardi di euro di importazioni di gas e petrolio, c’è un volume commerciale di 245 miliardi di euro con la Cina nel 2021.

 Senza parlare delle dipendenze strategiche dei paesi UE da prodotti e tecnologie cinesi, su cui solo ora si cerca di intervenire attraverso azioni volte al miglioramento della sovranità tecnologica e digitale dell’Unione.

 Di fronte agli attuali accadimenti, sarà bene prepararsi a un cambio di prassi che probabilmente, come osservato da molti commentatori, non comporterà la fine della globalizzazione ma una radicale modifica della sua architettura, in cui gruppi fortemente integrati di paesi che condividono uno stesso sistema di valori, competono tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale.

 La concorrenza “sistemica" che la Cina pone all’Occidente attraverso il suo regime ibrido tra economia di mercato ed economia pianificata, andrà di conseguenza affrontata con la massima attenzione.

In questo momento la Cina appare non solo più abile nell’utilizzare le politiche pubbliche per imprimere nei fatti una direzione al processo di sviluppo tecnologico e produttivo del paese, ma sembra anche più capace di valorizzare le dinamiche di mercato.

È un aspetto poco sottolineato, ma la straordinaria competizione di mercato esistente tra le imprese cinesi favorisce la rapida selezione delle migliori soluzioni per lo sviluppo e il successo commerciale di nuovi prodotti e servizi, in grado di sfruttare il potenziale economico delle nuove tecnologie, a partire da quelle collegate all’intelligenza artificiale.

In altre parole, l’economia cinese si dimostra in grado di sfruttare al meglio anche i meccanismi propri che hanno caratterizzato il successo dei sistemi occidentali.

 Per l’occidente è quindi fondamentale accettare, in fretta, che la realtà non fa sconti, e che gli unici antidoti sono il pragmatismo e la programmazione.

In particolare, a livello europeo, è importante aumentare l’impegno per rafforzare la resilienza della nostra economia ampliando le sue capacità tecnologiche e produttive specie negli ambiti più strategici, diversificando i mercati e, soprattutto, sviluppando concretamente prodotti e servizi migliori degli altri.

 Un risultato che potrà essere ottenuto facendo leva sui due strumenti prima indicati a proposito della Cina: valorizzazione delle dinamiche di mercato e capacità di esecuzione delle politiche.

 In particolare, la complessità di gestione di politiche trasformative dei nostri sistemi produttivi va prima compresa e poi affrontata, ma occorre farlo in fretta perché la storia ha già bussato alla nostra porta.

 Dalle dure lezioni di oggi ne usciremo migliori?

O dovremo accontentarci del solito “ne usciremo!”

 

 

 

La fine della globalizzazione

e il ritorno dello Stato.

 Linkiesta.it - Lorenzo Castellani – (10-1-2023) – ci dice:

La transizione verso un mondo che entra in un nuovo interregno dai contorni in parte chiarissimi e in parte ancora sfumati.

L’anno che ci lasciamo alle spalle segna l’avvio di una transizione verso un mondo diverso più che una rottura decisiva col passato.

Continuità e cambiamento si innestano su una storia che ha cominciato ad accelerare già dopo la crisi finanziaria del 2008, quando il vecchio sistema neoliberale, globalizzato e fondato sull’unipolarismo americano ha iniziato a entrare progressivamente in crisi.

 Mentre l’America di Obama e Trump innalzava barriere doganali e stabiliva un controllo serrato degli investimenti esteri, l’Unione Europea annaspava nella crisi del debito e nel ritardo tecnologico, e nuovi autoritarismi come in Russia, Iran e soprattutto in Cina crescevano e si espandevano sullo scacchiere geopolitico.

Ciò che aveva funzionato fino al 2008 iniziava a non funzionare più.

Da qui i disordini statuali in nord-Africa, la recrudescenza del terrorismo islamico, la progressiva ritirata americana dall’Afghanistan, la presa della Crimea da parte russa nel 2014, le tensioni su Hong Kong e Taiwan per le ambizioni cinesi.

Cambiavano le relazioni internazionali e con esse l’economia e la politica interna.

Il ritorno dello Stato.

Dopo il fallimento politico delle ricette di austerity nel periodo 2009-2013, riaffiorava un riluttante interventismo statale, per lo più monetario (quantitative easing), che si combinava con il protezionismo occidentale verso la Cina e le sanzioni alla Russia, infine si inauguravano nuove politiche economiche per tornare, pur lentamente, ad accrescere lo stock di investimenti.

 Il vecchio modello di globalizzazione e di restringimento monetario si piegava a nuove esigenze, tramontava l’epoca eredità dei Reagan e delle Thatcher, dei Clinton e dei Blair.

Tuttavia, la politica accelerava e disordinava il quadro ancor più dell’economia: crescevano i populismi e i nazionalismi, periclitava la legittimazione dell’establishment e delle sue istituzioni, i governanti più accorti del vecchio ordine cercavano di sterzare verso un nuovo paradigma di maggior governo dell’economia e della società al fine di evitare il collasso repentino del vecchio sistema.

Prendeva corpo un sistema ibrido:

tecnocrazie e vecchie classi politiche attuavano riforme che venivano incontro ad un elettorato stanco, impoverito e attratto dai partiti nazional-populisti, mentre alcuni nuovi imprenditori della politica demagogica arrivavano al potere moderandosi e fondendosi con le vecchie strutture di potere.

 In questo processo di trasformazione e circolazione delle élite, in cui non mancheranno i fallimenti da una parte e dall’altra per difetto di realismo, i sistemi politici occidentali dimostreranno la propria plasticità e flessibilità a discapito di una visione idealizzata della rappresentanza democratica.

Nel frattempo, le relazioni internazionali si innervosivano, con gli Stati Uniti sempre più inclini a semplificare il sistema tra blocco occidentale, da essi egemonizzato, e un numero sempre più ristretto di nemici (Cina, Iran e Russia).

Il vincolo atlantico tornava a stringersi in maniera più forte e determinante per tutti gli alleati sia nella proiezione estera degli “stati seguaci” di Washington che negli equilibri di politica interna.

 

È in questo scenario debilitato e irrigidito che nel 2020 si affaccia in un mondo sull’orlo del caos la pandemia di Covid-19.

Essa conclude il cambio di paradigma economico, con il “quantitative easing” esteso, massicci stimoli fiscali di matrice governativa, l’esplosione dei deficit pubblici, nuovi investimenti pubblici nelle energie rinnovabili e nella tecnologia.

La pandemia diviene, al tempo stesso, un’occasione per il vecchio establishment centrista di reinventarsi e frenare l’ascesa dei nuovi movimenti radicali e di evidenziarne i rischi in un quadro complesso e dominato dalla paura.

È il caso della vittoria di Joe Biden in America, della nuova convergenza al centro in Germania, della rielezione di Macron in Francia, del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi in Italia.

Come tutte le vittorie anche queste hanno generato un prezzo da pagare che oggi si chiama inflazione.

 Un’ascesa del costo della vita, trainata già nel tardo 2020 dai settori della logistica e dell’energia, derivante sia da forme di conflittualità a mezzo di materie prime sia dagli enormi stimoli fiscali post pandemici di Stati Uniti, Cina e Unione Europea.

L’invasione russa.

Ancora una volta però il demone della politica ha corso più delle soluzioni economiche poiché un altro evento considerato improbabile fino a pochi mesi prima, l’invasione della Russia in Ucraina, ha inaugurato l’anno 2022.

Putin ha tentato un colpo di mano non riuscito sul filo-occidentale governo ucraino, ma nello smarrimento di questo obiettivo l’autocrate russo ha comunque messo sottosopra lo scenario politico-economico dei paesi occidentali.

In primo luogo si è dovuto fronteggiare la guerra in politica estera, cioè far digerire all’opinione pubblica costose sanzioni alla Russia e la fornitura di armi occidentali all’Ucraina e poi, in seconda battuta, affrontare la crisi energetica sia sul fronte interno che su quello dell’approvvigionamento.

Il taglio dei rapporti con la Russia ha determinato un vero e proprio shock in molti dei gruppi dirigenti dei grandi paesi europei, con la fine immediata di una ostpolitik durata due decenni.

Ma il versante russo ha scomposto anche tutti gli altri teatri con la crisi del grano in Africa, il ritorno dell’immigrazione in Europa, la avances cinesi su Taiwan, la destabilizzazione del regime iraniano, le mire imperialistiche turche, egiziane e indiane nei territori limitrofi e in generale un discorso pubblico ovunque più improntato alla sicurezza e alla sovranità statale.

 

Uno dei paradossi di questa evoluzione è senza dubbio il rapporto tra politica e settore energetico.

 Dopo anni di spinta delle rinnovabili da parte della politica globale e della finanza internazionale con conseguente sospensione degli investimenti nel fossile, la guerra ha scoperchiato tutte le fragilità dell’agenda green dei paesi occidentali.

 Le rinnovabili, benché in crescita, risultano insufficienti a coprire il fabbisogno energetico e per di più si compongono di materiali quasi interamente controllati dalla Cina.

 È chiaro che per i prossimi due o tre decenni almeno il mondo non potrà privarsi di gas, petrolio e nucleare e che molti aspetti punitivi della legislazione green – dalla chiusura delle centrali a gas, a carbone e nucleari fino ai disincentivi verso il motore a scoppio – sono insostenibili sul piano economico e sociale nella condizione di emergenza aperta dal conflitto in Ucraina.

La guerra ha riportato alla realtà ciò che la pandemia, e la furia di accoppiare spesa pubblica e ideologia da parte dei governi occidentali, avevano proiettato nella sovrastruttura utopica.

La transizione ecologica, visto anche il volume degli investimenti, è ancora possibile, ma in forme diverse, più mescolate e meno accelerate.

 L’inflazione ha inoltre reso palesi altri due fattori:

il primo è che una politica monetaria sempre espansiva, con tassi d’interesse a zero o quasi, non è sostenibile per lunghi periodi e che, al tempo stesso, un’economia sempre più immateriale e digitale non può fare a meno proprio delle materie prime.

Chi le controlla, come Russia, Cina e Stati Uniti, gode di un vantaggio competitivo sia politico che economico.

 Sono due dati di fatto che anche i mercati finanziari hanno dovuto digerire e scontare. In questo scenario inflazionistico, di conseguenza, le banche centrali si ritrovano ad alzare i tassi, a ridurre i propri bilanci, mentre l’economia rallenta e gli Stati si trovano a governare debiti pubblici sempre più ingombranti e bilanci occupati dalla lotta al caro energia.

 

Verso un nuovo paradigma.

Tuttavia, l’economia va sempre letta dentro un quadro politico e culturale più ampio.

 L’era neo-liberale e della globalizzazione è arrivata definitivamente al capolinea, mentre il mondo sta entrando dentro un nuovo interregno, una transizione dai contorni in parte chiarissimi e in parte ancora sfumati.

Il ritorno dello Stato nell’economia e la resistenza della sovranità in alcuni settori (tecnologia, energia), la crescita del protezionismo e la rottura delle catene del valore globale, l’unificazione dei nemici dell’Occidente in Cina, Russia e Iran, la crescita di alcune potenze del “mondo di mezzo” come Turchia e India ci consegnano un mondo a metà strada tra il breve periodo di pluralismo disordinato durato dal 2008 al 2022 e un mondo che sembra tendere al riordino bipolare, con una spaccatura più netta tra l’Occidente allargato e tutti gli altri.

È in questo nuovo quadro che mutano anche confini e possibilità per la politica.

Sull’energia sarà possibile agire più al di fuori degli schemi convenzionali e ideologici, con la realtà effettuale della cosa che prevale sull’agenda green, con necessità di diversificazione all’interno di un nuovo paradigma securitario e strategico della ragion di Stato.

 Lo stesso vale per la tecnologia e i suoi componenti – dai minerali ai semiconduttori – dove uno stato di natura hobbesiano a livello globale costringerà a virare verso la realpolitik al fine di non restare indietro o almeno di limitare i danni, anche in una logica di aggregazione sovranazionale in Europa o di cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico.

In forma simile, la sovranità si manifesterà per le infrastrutture strategiche:

resistenze nimby e riluttanza ad investire nel lungo periodo dei governi dovranno essere superate in nome dell’emergenza e della logica della decisione nello stato d’eccezione.

Se la sovranità statale si espanderà probabilmente su questi fronti, essa sarà ben più limitata su tutto il resto.

I valzer internazionali in cui tutte le nazioni ballano con tutte non sono più ammissibili, con profondi riflessi sulla politica interna degli Stati.

 Non si deve dimenticare infatti che mentre nel caos pluralistico la sovranità degli Stati, quelli più forti in particolare, tende all’assoluto, al contrario in uno scenario di ordine bipolarizzato si vira verso un sistema a sovranità limitata per tutti tranne che per l’America.

Ciò significa che la potenza egemone sarà meno incline a tollerare sbandate a favore dei nuovi nemici, sia in politica estera che interna.

Il “metus hostilis”, la paura del nemico come elemento unificante, tornerà ad essere il collante della lega atlantica, con l’America più influente che mai nel limitare la sovranità degli stati europei.

 Non siamo ancora arrivati a questo punto di semplificazione del quadro, ma potremmo arrivarci presto, specie se la futura pace in Ucraina non sarà solida e stabile e se il rafforzamento totalitario di Xi lo spingerà verso una maggiore aggressività militare.

Siamo attualmente in uno stato intermedio, in cui le relazioni internazionali sembrano offrire una sorta di “pluralismo razionalizzato”, non più il disordine iniettato dai nuovi autoritarismi sulla scena globale di qualche anno fa ma nemmeno l’emersione di un nemico unico con conseguente bipolarismo quanto piuttosto un blocco riunificato che fronteggia un numero limitato di avversari.

 Scenario in cui la potenza egemone americana acquista comunque un peso maggiore sulla galassia di “Stati seguaci” filo-atlantici rispetto al recente passato. I futuri sviluppi geopolitici indicheranno quanto la transizione avviatasi nel 2022 sarà stata breve e quanto capace di innescare nuovi equilibri, rotture, rischi e instabilità.

(Lorenzo Castellani)

 

 

 

“Fino a 2,5 euro al Litro”

 la Benzina. Stangata in Arrivo.

 

Conoscenzealconfine.it – (7 Febbraio 2023) - Tommaso Croco – ci dice:

 

A partire dal 5 febbraio è scattato ufficialmente l’embargo dell’Unione Europea all’importazione di prodotti petroliferi raffinati russi, benzina e diesel.

Se in questi giorni tanti automobilisti e associazioni di categoria hanno espresso forte preoccupazione per il rischio di pesanti rincari alla pompa, che potrebbero mettere definitivamente in ginocchio famiglie già colpite dal boom di alimenti e bollette, le brutte notizie potrebbero purtroppo essere soltanto all’inizio.

Una sanzione voluta fortemente da Bruxelles dopo l’inizio della guerra in Ucraina, criticata però da molti analisti che continuano a sottolineare come Mosca abbia coperto fino a oggi la metà del fabbisogno di gasolio del Vecchio Continente.

Il rischio è che nei prossimi giorni le difficoltà per gli italiani possano crescere ulteriormente.

Benzina e Diesel, scattati i Rincari al Distributore.

Il carburante non alimenta soltanto 16 milioni di auto in Italia, ma anche camion, navi, mezzi militari.

Secondo Asso utenti, su alcune tratte autostradali le ripercussioni sarebbero già evidenti nelle ultime ore, con il gasolio in modalità servito che sarebbe già tornato a superare il prezzo di 2,5 euro a litro.

Con il terrore che possano innescarsi nuovamente meccanismi di speculazione.

Asso utenti ha inviato infatti una lettera al ministero delle Imprese e all’Antitrust per sottolineare gli extraprofitti che le compagnie avrebbero realizzato nel 2022: 1,9 miliardi sulla benzina e 7,4 miliardi sul gasolio.

Il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli ha però cercato di gettare acqua sul fuoco:

“È molto probabile che la dinamica del gasolio segua quella del greggio, embargato dai Paesi europei dallo scorso 5 dicembre.

Grazie alle scorte accumulate nei mesi scorsi e per effetto del meccanismo del “price cap”, applicato dai Paesi dell’Ue del G7, il mercato dovrebbe mantenere una sua stabilità”.

Secondo Tabarelli, però, questi fattori combinati “alla corsa agli approvvigionamenti a partire dall’autunno, saranno fattori che potranno influire negativamente sui prezzi del diesel”.

“Fge”, società inglese di consulenza sull’energia, ha ipotizzato che l’Europa sostituirà i flussi dalla Russia aumentando le importazioni dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente.

(Tommaso Croco - ilparagone.it/attualita/benzina-diesel-rincari-distributore-quando/)

 

 

 

La Thailandia bandirà Pfizer:

la Principessa è in Coma

dopo il “Covid Booster”.

Conoscenzealconfine.it – (6 Febbraio 2023) - Maurizio Blondet – ci dice:

 

Pochi giorni dopo aver ricevuto il suo “covid booster”, la figlia del re di Thailandia è crollata ed è caduta in coma.

La principessa “Bajrakitiyabha”, che è la potenziale erede al trono thailandese, è in gravi condizioni settimane dopo il suo collasso.

Alcuni rapporti suggeriscono che abbia subito un attacco di cuore anche se alla sua famiglia è stato detto che probabilmente aveva un’infezione batterica.

Tuttavia, sei settimane dopo, la principessa è ancora in coma e tenuta in vita dalle macchine.

La famiglia reale è stata ora allertata del fatto che molto probabilmente la principessa è stata vittima del vaccino covid.

Le principali autorità thailandesi, inclusi i consiglieri del re, hanno discusso con il Prof. Sucharit Bhakdi e si stanno preparando a far dichiarare nulli i contratti Pfizer.

Se ciò accade, la Thailandia diventerà il primo paese a rendere nullo il contratto, il che significa che Pfizer diventerà responsabile di tutte le lesioni da vaccino.

Il Prof.” Sucharit Bhakdi” sta lavorando con le autorità thailandesi per annullare i contratti per il vaccino a base di mRNA di Pfizer:

“Gli studi di sicurezza farmacologica non sono mai stati fatti… Pfizer BioNTech dovrà restituire quei miliardi alla Thailandia”.

 

La narrativa ufficiale sta finalmente crollando?

 (Maurizio Blondet - maurizioblondet.it/e-una-strage-ritirateli-subito-lappello-del-super-professore-del-mit-il-video/).

 

 

 

 

La fine della globalizzazione?

(di M. Saccone).

 

 Loccidentale.it - Marco Saccone - (12 Ottobre 2021) – ci dice:

 

Code per fare il pieno di benzina, fabbriche ferme senza materiali, il prezzo dell’energia raddoppia, il costo dei prodotti alimentari aumenta del 40%, le quotazioni delle materie prime volano alle stelle, i container scarseggiano, i microchip sono introvabili, il governo cinese raziona l’energia elettrica e spedisce 112 bombardieri nei cieli di Taiwan;

Australia, Inghilterra e USA firmano un patto di mutua difesa, l’America del democratico Biden conferma i dazi di Trump, l’Europa discute di una carbon tax e decapita il motore a scoppio per decreto, l’inflazione schizza alle stelle, le banche centrali iniettano 10.3 trilioni di dollari di liquidità per sostenere i consumi, le borse registrano livelli di volatilità senza precedenti.

Scenari apocalittici, si direbbe; cronache d’attualità, si constata.

Che sta succedendo? Dove è finito il commercio senza dogane?

Che ne è della Pax Americana?

Che ne abbiamo fatto della crescita economica perpetua, capace di mettere d’accordo il comunismo pragmatico cinese con il capitalismo yankee?

È la fine del capitalismo, come sostiene la solita intellighenzia sfascista?

Oppure è solo un temporaneo inciampo sulla strada della globalizzazione, come sostengono gli ideologi del mercato?

Né l’una, né l’altro.

Questa è una crisi strana perché non è stata generata da un fattore endogeno – politico, militare o economico – ma da un fattore esogeno, un virus, che ha sconvolto il modello economico-politico dominante;

 la globalizzazione a matrice statunitense, fatta di grandi hub produttivi principalmente asiatici, di finanziarizzazione pervasiva e di trasporti a basso costo.

Tuttavia, il coronavirus è solo l’innesco di un incendio le cui cause sono ben più profonde.

 La prima è la crisi climatica.

L’era dei “fossil fuels” è giunta al tramonto e questa prospettiva ribalta tutti gli equilibri, ridefinisce le sfere di influenza, rinnova le sfide globali, ristabilisce priorità ed alleanze, e spesso rende inefficaci le istituzioni internazionali che hanno guidato la politica economica internazionale fino ad oggi.

Gli obiettivi di decarbonizzazione non si raggiungono con trattati bilaterali, stampando moneta, regolando le estrazioni di petrolio o rimuovendo barriere al commercio.

È una sfida nuova, di portata epocale, che, come ha sostenuto di recente l’Economist, rimette in discussione il presupposto ideologico che ha ispirato la globalizzazione: l’efficienza.

Da sola l’efficienza non basta più.

Una buona politica per essere tale deve essere efficiente e sostenibile.

Il secondo nodo è il protezionismo.

 Gli Stati Uniti, incalzati dall’avanzata Cinese, si sono contratti a difesa della propria supremazia, disponendo sul campo un arsenale isolazionista fatto di scontri diretti, dazi economici e irrigidimento delle sfere di influenza.

Questo cambio di rotta ha alienato la fiducia degli alleati storici e ha contribuito alla rinascita delle ideologie localiste a base populista, che alimentano ulteriormente il circolo vizioso del protezionismo.

In questo scenario ci vuole coraggio, condivisione d’intenti e visione.

Europa e Stati Uniti hanno un’occasione storica e sono chiamati ad un salto di qualità politico.

 L’Alleanza Atlantica, con la sua tradizione democratica e concertativa, è il luogo perfetto per riformare gli istituti internazionali, dotandoli di strumenti, competenze, risorse per ristabilire i canoni del commercio, della finanza e dell’organizzazione economica mondiale.

Per creare una governance globale rinnovata e più forte che stabilisca gradualmente nuovi indirizzi, obblighi, sanzioni e regole, tracciando così un percorso di progresso sostenibile.

 

 

Mondializzazione, uniformazione

e occidentalizzazione.

Introduzione a ‘La fine del sogno occidentale’.

 

Eleutera.it - Serge Latouche – (2021-06-01) - ci dice:

(traduzione di Eva Civolani e Carlo Milani.

La mondializzazione – o globalisation, come dicono gli anglofoni – è un concetto di moda.

 Imposto dalle recenti evoluzioni, fa parte dello spirito dell’epoca.

Nel giro di qualche anno, se non di qualche mese, tutti i problemi sono diventati globali: sicuramente la finanza e gli scambi economici, ma anche l’ambiente, la tecnologia, la comunicazione, la pubblicità, la cultura e perfino la politica. Specialmente negli Stati Uniti, l’aggettivo globale si è ritrovato accostato a tutti questi settori.

Si parla di inquinamenti globali, di televisione globale, di globalizzazione dello spazio politico, di società civile globale, di giurisdizione globale, di tecno-globalizzazione ecc.

Certamente, il fenomeno che si nasconde dietro a questi termini non è così nuovo.

Da parecchi decenni, voci profetiche annunciavano l’avvento di un «villaggio planetario», taluni specialisti parlavano di occidentalizzazione, uniformazione o modernizzazione del mondo, e alcuni storici ne svelavano tutti i sintomi nelle evoluzioni di lunga durata.

La mondializzazione, sotto un’apparenza di imparziale constatazione di fatto, è anche uno slogan che spinge ad agire nella prospettiva di una trasformazione augurabile per tutti.

 La parola d’ordine è stata lanciata dalle aziende transnazionali e dal governo americano.

Il termine è lungi dall’essere neutro;

esso lascia intendere che si sarebbe di fronte a un processo anonimo e universale, benefico per l’umanità e niente affatto determinato da un’impresa perseguita da alcuni a proprio vantaggio e gravata da enormi rischi e considerevoli pericoli.

La mondializzazione significa certamente mondializzazione dei mercati.

Tuttavia, essa affonda le sue radici nel progetto stesso della modernità teso a edificare una società razionale.

 Non vi sono dunque solo forme economiche, e queste non sono, forse, le più decisive.

La mondializzazione tecnologica e quella culturale sono almeno altrettanto importanti.

 Tutti gli aspetti sono complementari e interdipendenti: niente interconnessioni tra borse valori, e quindi niente mercato finanziario mondiale, senza satelliti di telecomunicazione;

niente rete mondiale di trasporti senza un sistema di controlli computerizzati.

 Il progetto GII (Global Information Infrastructure), sorto sotto la spinta degli Stati Uniti e che consiste nello sviluppo di «autostrade informatiche» (una «rete delle reti»), mira esplicitamente alla creazione di un mercato mondiale più generalizzato e immediato.

Niente mondializzazione economica, infine, senza mondializzazione tecnologica e senza una «cultura» mondializzata (i computer, per esempio, funzionano in un inglese internazionale…).

Tutti questi fenomeni concorrono alla messa in orbita di un’organizzazione tecno-economica di marca occidentale.

Spetta a noi costruire una comunità mondiale in cui i cittadini di paesi vicini si guardino non come potenziali nemici ma come potenziali partner, tutti membri di una grande famiglia umana, uniti da una catena dalle maglie sempre più fitte […].

Essa renderà possibile la creazione di un mercato mondiale dell’informazione, in cui i consumatori potranno acquistare o vendere […].

Lo sviluppo mondiale può aumentare di parecchie centinaia di miliardi di dollari se noi imbocchiamo la strada della GII1.

Il crollo dei sistemi economici pianificati e la deregulation nei paesi capitalisti hanno condotto a una mondializzazione senza precedenti dei mercati.

Tuttavia, la mondializzazione dell’economia si realizza pienamente solo con la corrispondente economicizzazione del mondo, cioè con la trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se non in merci.

Sotto questa forma più significativa, in quanto economica, la mondializzazione è di fatto anche tecnologica e culturale, e copre la totalità del pianeta.

La planetarizzazione del mercato costituisce una novità solo per l’ampliamento del suo campo di azione, ragione per cui gli anglosassoni hanno creato il neologismo “globalisation”.

Si procede così verso una mercificazione integrale.

Ciò nonostante, l’idea e una certa realtà del mercato mondiale fanno parte integrante del capitalismo.

Fin dalle origini, il funzionamento del mercato è stato transnazionale, ovvero mondiale.

La Lega anseatica, le piazze finanziarie di Genova, Lyon e Besançon, le attività commerciali di Venezia e dell’Europa del Nord, per non parlare delle grandi fiere (Troyes), sono internazionali, se non proprio mondiali, fin dai secoli XII-XIII.

Il recente trionfo del mercato, descritto appunto come una «nuova mondializzazione», comprende in effetti tre fenomeni collegati che sono, in ordine di importanza, la transnazionalizzazione delle società, la diminuzione dei controlli statali a Ovest e l’insuccesso della pianificazione a Est.

Bisogna spendere qualche parola per capire la posta in gioco.

Anche le compagnie transnazionali, come il mercato, esistono dalla fine del Medioevo.

 Jacques Coeur, i Fugger, la Banca dei Medici, la Compagnia delle Indie, per citare solo gli esempi più famosi, sono state imprese commerciali insediate su più continenti, con un traffico che aveva il mondo come orizzonte.

 Attualmente, la novità consiste nel fatto che si mondializza sistematicamente non solo il capitale commerciale e bancario, ma anche il capitale industriale.

La Renault fa fabbricare i suoi motori in Spagna.

 I computer IBM sono fabbricati in Indonesia, assemblati a Saint-Omer, venduti negli Stati Uniti ecc.

La divisione del lavoro si è internazionalizzata.

 Le imprese sono diventate totalmente transnazionali.

 L’insieme interconnesso della mondializzazione del commercio, della finanza e dell’industria conduce all’emergere di sedi offshore, senza legami storici o culturali con i luoghi nei quali si sono insediate.

 I massicci trasferimenti di attività, le reti di subappalto, le joint venture, fino alla smaterializzazione della produzione e all’aumento dei servizi, accelerano questo fenomeno.

Una delle poste in gioco del trattato di Maastricht è stata non solo spingere oltre questa transnazionalizzazione in seno all’Unione europea, ma anche di permettere alle imprese giapponesi, americane ecc. di colonizzare lo spazio del mercato comune e aumentare la fluidità degli scambi economici, cioè obbedire alle leggi dell’economia.

Il principale obiettivo dell’Uruguay Round, l’ultimo negoziato del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), è stato quello di estendere questa liberalizzazione degli scambi all’agricoltura e ai servizi.

Un sistema economico universale completamente sradicato, che non ha più legami privilegiati con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già più o meno realizzato.

Questa sfera economico-finanziaria, extraterritoriale, «monitorata» permanentemente dalle borse, dai computer, dalle banche dati, ventiquattro ore su ventiquattro, più o meno regolamentata (e deregolamentata) dal FMI (Fondo monetario internazionale), dalla WTO (Organizzazione mondiale del commercio) e dalla Camera di commercio internazionale, ma anche dal G7, o addirittura dal Forum di Davos (riunione informale dei responsabili economici e politici del pianeta), e che opera attraverso queste istituzioni sugli Stati e sulle società, è senza dubbio ciò che meglio corrisponde al mercato astratto degli economisti, il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte.

 

La diminuzione dei controlli nazional-statali è a un tempo causa e conseguenza di questa transnazionalizzazione.

Il compromesso tra Stato e Mercato, che si è saldato attraverso il fenomeno delle economie nazionali costituitesi come insiemi interdipendenti dei settori industriali e commerciali, ha conosciuto la stagione migliore durante i trent’anni di sviluppo economico (1945-1975) e durante lo Stato sociale.

La dinamica del mercato che sopprime le barriere delle economie locali e regionali non si è per sempre bloccata alle frontiere del territorio nazionale.

 La mondializzazione è l’espansione geografica ineluttabile di un’economia sistematicamente scorporata dal sociale a partire dal XVIII secolo.

Questa evoluzione è stata accelerata e voluta dai «padroni del mondo» (quei duemila global leaders che si ritrovano a Davos) che predicano instancabilmente la deregulation e l’eliminazione di intermediazioni e barriere.

Il crollo delle economie socialiste ha ulteriormente accelerato e rinforzato questo processo.

La pianificazione ha avuto, in definitiva, il ruolo storico di uniformare lo spazio economico a Est e di distruggere ogni specificità culturale in grado di ostacolare il libero gioco delle «forze di mercato».

C’erano scambi, ma non c’era la possibilità di sviluppare un progetto che mettesse in relazione le risorse naturali di un immenso territorio e milioni di uomini, in tutti i settori, per tutti i prodotti.

Non era possibile comperare, fabbricare, vendere liberamente, né seminare la rovina o la prosperità in funzione di un margine di profitto talvolta irrisorio.

 Il socialismo reale significava penuria, mediocrità e squallore.

 Per contrasto, l’economia di mercato sembrava sinonimo di abbondanza e di efficienza.

Di qui ha avuto origine l’attrazione verso quel modello e la volontà di inserirsi a ogni costo nel mercato mondiale.

Tuttavia, questa mondializzazione senza precedenti dei mercati non realizza ancora il mercato integrale.

Viene così designato quel grande meccanismo autoregolatore che provvede alla totalità della vita sociale, dalla nascita alla morte di individui atomizzati.

Secondo gli economisti ultraliberisti:

«Tutto ciò che è oggetto di un desiderio umano è candidato allo scambio.

 In altre parole, la teoria economica in quanto tale non fissa alcun limite all’impero del mercato».

La mercificazione deve dunque penetrare in tutti i recessi dell’esistenza.

Il trionfo della libertà, il libero accordo tra individui che obbediscono a un proprio calcolo volto all’ottimizzazione, che fa di ognuno un imprenditore e un commerciante, sta per diventare la norma, l’unica norma di un anarco-capitalismo (termine scelto da certi ideologi per designare questo sogno di un’economia senza Stato) totale e ideale.

La globalizzazione designa anche questo inedito procedere verso la mercificazione totale del mondo.

 I beni e i servizi, il lavoro, la terra e, domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l’affitto dell’utero, entrano nel circuito commerciale.

 Fin d’ora, con i servizi, la banca, la medicina, il turismo, i media, l’insegnamento e la giustizia, diventano transnazionali.

Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani, presenti dappertutto nel mondo, nel corso delle grandi manovre per il controllo del mercato delle autostrade informatiche, è impartita la direttiva di prestare manforte ai giganti del multimediale esigendo che i «prodotti» culturali siano trattati come merci «uguali alle altre» e le riserve culturali come un banale e nocivo protezionismo.

L’attuale mercato mondiale, diversamente dalle antiche «piazze del mercato», quei luoghi reali delle città e dei paesi dove si scambiavano le merci tradizionali, realizza un’interdipendenza dei diversi mercati e mette in comunicazione più o meno stretta i mercati dei beni, dei servizi produttivi e dei capitali.

Tuttavia, invece di generare un armonioso equilibrio per la massima felicità del maggior numero di persone, come postulano i liberisti, questo mercato totale non può evitare, né in teoria né in pratica, alcune pericolose instabilità.

 I mercati finanziari, in particolare, dominano sempre più i mercati di beni e servizi.

Oggi, essi obbediscono prima di tutto alle profezie autorealizzanti e si sviluppano in sacche speculative che possono raggiungere dimensioni mostruose.

L’ammontare delle speculazioni finanziarie non è proporzionale a quello delle attività produttive.

La deregulation, lo sviluppo dei mercati a termine e l’esplosione dei prodotti derivati hanno fatto sì che gli scambi giornalieri abbiano oltrepassato i 1.500 miliardi di dollari, ossia il doppio delle riserve monetarie (più del pil della Francia).

I movimenti finanziari hanno raggiunto circa 150.000 miliardi di dollari nel 1993, cioè da cinquanta a cento volte più dei movimenti commerciali annuali.

 Le economie, e particolarmente quelle del Terzo mondo, sono alla mercé delle fluttuazioni di quei mercati finanziari.

L’esplosione di queste sacche speculative è oltretutto capace di scuotere l’intero sistema mondiale, come si è visto nel tracollo del 1987 o nella crisi americana.

 Un ragazzo di venticinque anni che digita sul suo portatile può far fallire la più antica e rispettabile banca della City, la Barings.

E si trattava comunque di crisi minori e circoscritte!

Dietro a questi nuovi fenomeni operano logiche, processi e tendenze molto vecchi. Modernità, Occidente, Società del benessere, ma anche Sviluppo, Progresso,

Razionalità, Tecnica, altrettante parole cardine che rinviano l’una all’altra e che possono essere indifferentemente usate per designare lo stesso complesso di forze.

La razionalità economica è alla base della ricerca tecno-scientifica.

Il progresso è la condizione, ma anche il risultato, dell’economicizzazione del mondo e dell’accumulazione illimitata di capitali, di merci e di beni materiali e immateriali.

 La tecnica è condizione della crescita e dello sviluppo, ma anche, fino a un certo punto, il loro risultato e il loro motore.

La mondializzazione è certa un’altra maniera per designare l’occidentalizzazione e l’uniformazione planetaria.

 Le si potrebbero aggiungere tutte le parole cardine citate prima come aggettivi qualificativi, moltiplicandone così le connotazioni pur indicando sempre la stessa cosa.

 La mondializzazione è comunque moderna, occidentale, finalizzata allo sviluppo, progressista, razionale e tecno­scientifica.

Il processo che spesso viene chiamato occidentalizzazione del pianeta e che è di fatto la tecnologizzazione, l’estensione del tecnicismo, non sarebbe dunque un incidente, un errore politico riparabile, ma l’espressione di una necessità determinata dall’essenza stessa della tecnica e dei principi dell’evoluzione tecnologica.

Resta il fatto che per comprendere il significato, l’impatto e i limiti del fenomeno occorre valutare la portata del processo di uniformazione planetaria, interrogarsi sulla natura dell’Occidente che resta l’attore chiave di questa evoluzione, individuare le complesse dinamiche in atto, analizzarne gli insuccessi e interrogarsi su quello che potrebbe accadere in futuro.

Non è inevitabile che la storia finisca in una catastrofe.

Poiché l’avvenire è ancora aperto, le trasformazioni in corso possono essere orientate dall’azione di ciascuno e di tutti.

Ma è necessario prima di tutto respingere la pretesa degli esperti di monopolizzare le decisioni che ci riguardano e che, proprio per questo, competono a tutti.

Il testo che segue si sforza di offrire una descrizione sommaria, semplice e chiara per quanto possibile di tutti gli aspetti della questione, per permettere a ciascuno di farsi una propria opinione e di agire di conseguenza.

 Essa realizzerà pienamente il suo obiettivo se contribuirà anche solo minimamente a stimolare, informare e sensibilizzare il lettore sulle poste in gioco nel processo di trasformazione planetaria che stiamo vivendo.

 

 

 

 

Crisi, catastrofe, rivoluzione.

Una conversazione con Emiliano Brancaccio.

Iltascabile.com – Redazione – Emiliano Brancaccio – Niccolò Porcelluzzi- Stella Succi – Elisa Cuter - (8-7-2022) – ci dicono:

 

Continuano le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a leggere la guerra in corso, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano restituire la complessità e la portata di quanto sta accadendo.

 L’intervista di oggi è con l’economista Emiliano Brancaccio, Professore di politica economica presso l’Università degli Studi del Sannio, a Benevento, tra i principali esponenti delle scuole di pensiero economico critico.

Seguiamo Brancaccio da quando siamo venuti a conoscenza dei suoi lavori più recenti: “Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico” (Piemme, 2022) e “Non sarà un pranzo di gala”.

“Crisi, catastrofe, rivoluzione” (Meltemi, 2020), due saggi capaci di individuare le tendenze generali della fase storica che stiamo attraversando:

su scala globale, una centralizzazione del potere in sempre meno mani che conduce inevitabilmente a una contrazione dello spazio democratico.

Ci interessava in particolare la sua capacità di portare un punto di vista radicale in sedi istituzionali che, da profani, immaginiamo restie alla critica che invece Brancaccio sa esercitare.

Siamo partiti allora dalla guerra in Ucraina, come abbiamo già fatto con Marco D’Eramo, Alfonso Desiderio e Maria Chiara Franceschelli, ma siamo arrivati a toccare un’ampia rete di aspetti macroeconomici e politici della contemporaneità, e ne abbiamo approfittato per farci chiarire alcuni punti delle sue analisi.

 Il risultato è una conversazione ambiziosa, dallo sguardo ampio, ma che speriamo possa servire a orientarci, in modo molto pragmatico, a capire se e come possiamo sperare di avere voce in capitolo sul nostro futuro.

Emiliano Brancaccio:

Volete davvero parlare delle cause e delle conseguenze economiche della guerra? Allora sospetto che questa intervista non la leggerà nessuno:

l’economia e la sua critica sono essenziali per capire come stanno davvero le cose, ma agisce sui lettori come un horror:

lì terrorizzano e li fanno scappare.

 

Nicolò Porcelluzzi: A meno che non mettiamo nel titolo: “perché i tuoi risparmi sono in pericolo?”.

Il terrore finanziario attira sempre e mi sembra un periodo azzeccato…

EB: Vero, ma solo per quelli che riescono ancora ad accumulare qualche soldo. A proposito di horror, viviamo in un’epoca in cui gran parte della classe lavoratrice vive ormai a “risparmio zero” …

 

Stella Succi: Partiamo allora dalla domanda più urgente, e forse più inquietante.

Quali sono le tendenze economiche che alimentano il conflitto e cosa ci dicono del futuro di questa guerra?

Insomma, il capitale cosa auspica?

EB: I singoli capitalisti ovviamente “auspicano”: di sopravvivere, di avere successo, di espandersi, di esercitare una volontà di potenza nel senso di Deleuze.

 Però, se parliamo di “capitale” in generale, cioè della sintesi complessiva delle azioni scoordinate e conflittuali dei singoli capitalisti, allora associarvi il concetto di auspicio genera un controsenso.

Perché il capitale in generale è una forza impersonale, diciamo che è come una marea, come un vento di tempesta.

 In quanto vento, non ha desideri né auspici.

 Al contrario, spesso il capitale segue una tendenza che devia, si smarca dalle speranze soggettive dei singoli capitalisti. È quella che si definisce eterogenesi dei fini.

 

SS: E un esempio di eterogenesi dei fini è la tendenza verso la guerra?

EB: Sì. Noi siamo abituati a considerare la guerra come se fosse il banale esito delle intemperanze di qualche pazzo al potere.

Ma questa lettura, individualista e soggettivista, è molto superficiale.

In realtà, esiste una tendenza oggettiva verso la “guerra capitalista”, non più semplicemente economica ma anche militare, di cui il conflitto in Ucraina è solo una delle nuove forme fenomeniche.

NP: Quali sono le cause di questa tendenza?

EB: Per comprenderle bisogna partire da un fatto inatteso: gli Stati Uniti e buona parte dell’occidente capitalistico sono usciti sorprendentemente sconfitti dalla grande stagione della globalizzazione dei mercati. L’avevano propugnata, eppure sono stati sconfitti.

NP: Perché sconfitti?

EB: In estrema sintesi, possiamo dire che il capitalismo americano, e gran parte del capitalismo occidentale, si sono ritrovati negli anni con un crescente problema di competitività internazionale, con costi di produzione relativamente alti rispetto alla concorrenza estera.

Questo ha portato gli Stati Uniti e altri paesi occidentali a comprare molto dall’estero e a vendere poco all’estero.

Ma questo significa accumulare debiti verso l’estero.

Debiti pesanti: per esempio, gli Stati Uniti hanno ormai una posizione passiva verso l’estero di oltre il 60% del PIL.

I creditori mondiali, di contro, sono i vincitori della stagione della globalizzazione, sono quelli che hanno conquistato più mercati, hanno venduto più merci e hanno quindi accumulato più moneta di tutti.

Sono i capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del sud est, del medio oriente, e guarda caso in misura minore pure russi.

 

Elisa Cuter: Uno squilibrio tra vincitori e vinti della globalizzazione, quindi.

Con quali conseguenze?

 

EB: Il problema dei debitori è che presto o tardi i creditori cercano di comprarli.

Negli anni, i grandi creditori hanno venduto un’immane quantità di merci e hanno quindi accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo: non solo per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale.

 I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche russi, coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via.

Magari persino i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle.

SS: Parli della tendenza del capitale a centralizzarsi in sempre meno mani…

EB: Esatto. Come accade nel mito di “mangiare Dio”, direbbe Jan Kott, i capitalisti vincitori della guerra sui mercati uccidono e mangiano i capitalisti sconfitti.

EC: Come hanno reagito gli occidentali di fronte a questa minaccia di esser mangiati?

EB: In una prima fase, i capitalisti americani e occidentali hanno reagito in modo piuttosto scontato e brutale, attraverso l’imperialismo militare.

Ossia, hanno attuato quello che io chiamo “l’imperialismo dei debitori”. Questo consiste in una doppia espansione: tanto cresceva il loro debito verso l’estero, tanto cresceva la loro presenza militare all’estero, proprio al fine di gestire quel debito e auspicabilmente di contenerlo.

Un esempio tra i più lampanti è stata l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che doveva servire anche a mitigare il debito energetico americano e occidentale.

Il guaio, però, è che questo doppio espansionismo, delle milizie e del debito verso l’estero, a un certo punto raggiunge un suo limite di spesa e di efficienza, oltre il quale non può andare.

 È un fenomeno che in modi non troppo dissimili si era già verificato ai tempi della crisi dell’impero britannico, ben descritta in un celebre saggio dell’economista Marcello De Cecco.

Oggi il problema si ripete con l’emergere dei limiti all’espansione imperialista del grande debitore americano e dei suoi alleati, comprovate anche dal ridimensionamento delle campagne militari occidentali nei vari territori occupati.

Di queste difficoltà, ormai, in tanti hanno preso atto.

Ecco perché, da qualche tempo, i debitori occidentali hanno iniziato ad accettare i limiti del circuito militar-monetario che avevano creato, hanno quindi dovuto contenere le mire imperialiste, e dunque sono stati costretti a escogitare qualche altro meccanismo di difesa.

SS: Che tipo di meccanismo?

EB: I debitori occidentali hanno iniziato ad accettare il fatto che la globalizzazione costituiva un problema, e che dal suo protrarsi indefinito sarebbero potuti uscire con le ossa rotte.

Ecco allora che negli Stati Uniti e un po’ in tutto l’occidente abbiamo assistito a una riabilitazione del vecchio, vituperato protezionismo.

 Non solo commerciale ma anche finanziario, vale a dire una serie di barriere legali che servono a bloccare l’esportazione di capitale da parte dei grandi creditori.

 In sostanza, ai capitalisti cinesi, russi, e così via, viene oggi imposto il divieto di “mangiare” le aziende occidentali.

Questo nuovo protezionismo, badate bene, è iniziato diversi anni fa, da ben prima della guerra, addirittura da prima di Trump!

Nelle alte sfere è stato ridenominato “friend shoring”, un termine gentile ideato da Janet Yellen per avvisare che da ora in poi noi occidentali faremo affari solo con i nostri “amici”.

Perché degli altri abbiamo ormai paura e vogliamo tenerli fuori dai nostri recinti.

SS: E qual è stata la risposta orientale?

EB: Io sostengo che proprio il “friend shoring”, cioè proprio le barriere protezionistiche edificate dai debitori occidentali per evitare di esser “mangiati” dai creditori d’oriente, hanno spinto questi ultimi ad attivare una reazione imperialista.

I grandi creditori orientali hanno iniziato a capire che la fase è cambiata.

Essi hanno una enorme quantità di capitali da esportare, potrebbero acquisire moltissime aziende occidentali, ma sono ormai ostacolati dalle barriere protezionistiche imposte dal “friend shoring”.

Di conseguenza, per esportare i loro capitali all’estero, per fare affari nel mondo, e soprattutto per “mangiare” gli avversari, i creditori prendono coscienza che da ora in poi bisognerà aprirsi dei varchi anche con la forza, cioè creando sbocchi per le esportazioni dei loro capitali anche tramite movimenti di truppe e di cannoni.

Mentre in passato la guerra imperialista serviva agli Stati Uniti e ai loro sodali occidentali a gestire il loro debito, adesso una guerra imperialista uguale e contraria diventa il mezzo con cui i creditori orientali cercano di creare sbocchi per i loro capitali.

 È esattamente così che nasce quello che io chiamo il nuovo “imperialismo dei creditori”.

L’imperialismo dei creditori come reazione all’imperialismo dei debitori e alla sua crisi.

In un certo senso, la mia tesi rielabora in chiave aggiornata il vecchio nesso individuato da Lenin, tra esportazione dei capitali e imperialismo.

SS: Come possiamo interpretare, in quest’ottica, la guerra in Ucraina?

EB: È una guerra che vede la Russia nel ruolo di grande aggressore imperialista, ma a guardar bene stabilisce una linea di demarcazione molto più generale, tra debitori d’occidente e creditori d’oriente.

Basti guardare la Cina, che pur con la proverbiale prudenza e con vari distinguo, dal punto di vista delle relazioni internazionali si è chiaramente posizionata dal lato della Russia.

Il motivo è che i cinesi interpretano questa guerra come uno dei tanti segni di crisi del grande debitore americano.

Ai loro occhi, il capitalismo americano ha esaurito la strategia del doppio espansionismo, del debito e delle milizie all’estero, come dimostra il fatto che in molte circostanze è stato costretto a ritirare le sue truppe.

In sostanza, per la Cina, avallare silenziosamente l’attacco russo all’Ucraina significa verificare empiricamente se e in che misura gli americani e i loro alleati reagiranno.

Se la reazione militare sarà limitata, vorrà dire che il doppio espansionismo USA ha davvero raggiunto il suo limite.

Per i cinesi, se siamo davvero giunti a questo punto di svolta, gli americani non potranno più permettersi di dettare le regole del commercio mondiale, e quindi, tra l’altro, non potranno pretendere di passare dal globalismo al “friend shoring” solo perché adesso a loro conviene cambiare strategia.

EC: La guerra in Ucraina, insomma, sarebbe l’inizio di una grande sfida orientale agli Stati Uniti e ai loro alleati, per decidere chi dovrà dettare le regole future della finanza e del commercio mondiale?

 

EB: Esatto.

I creditori russi e cinesi, e con loro molti altri, ritengono che quelle regole non possano esser più dettate dal vecchio imperialismo dei debitori occidentali, che reputano ormai in declino.

È una scommessa epocale, che va ben oltre il conflitto in Ucraina.

L’esito non è affatto scontato, beninteso.

Il rischio di una escalation su larga scala è altissimo e non possiamo sapere chi alla fine la spunterà.

Quel che è certo, è che il grande squilibrio capitalistico tra creditori e debitori è ormai sfociato in un equilibrio di guerra, non più solo economica ma anche militare.

Questo equilibrio è destinato a segnare la nuova fase storica, che io chiamo di “centralizzazione imperialista” del capitale.

SS: Nel tuo ultimo libro, colleghi la tendenza alla centralizzazione del capitale in poche mani a un processo di “oligarchizzazione” del capitalismo, che a tuo avviso è generale, minaccia le stesse democrazie occidentali e quindi va ben oltre il caso degli “oligarchi russi”, di cui tanto si parla.

Possiamo fare un confronto tra “oligarchia” capitalista russa e occidentale?

È una distinzione che ha senso fare?

EB: Una distinzione è necessaria, dal momento che, come abbiamo detto, gli uni e gli altri “oligarchi” esprimono due lati del capitalismo mondiale, quello dei creditori e quello dei debitori.

 Per questo agiscono in modi diversi, talvolta opposti.

Al tempo stesso, però, possiamo chiamarle entrambe “oligarchie” capitaliste, per un motivo ormai documentato.

Non solo in Russia, ma ancor più negli Stati Uniti, il controllo del capitale è spaventosamente concentrato in poche mani: oltre l’80% del capitale è controllato da meno dell’1% degli azionisti in Russia e da meno dello 0,3% negli USA.

 Parliamo tanto di oligarchi vicini al Cremlino ma, tecnicamente parlando, il capitalismo americano è il più oligarchico di tutti.

SS: Che ne sarà della sovranità europea a tuo avviso?

Sembra che a “tirare la fune” dell’autonomia sia rimasta solo la Germania.

EB: Per quanto siano storicamente legati a filo doppio, il capitalismo americano e i capitalismi europei sono per molti versi in disaccordo su come gestire la nuova fase post-globalista.

Basti notare un fatto.

La spinta verso il protezionismo del “friend shoring” metterà più in difficoltà i paesi che io definisco “crocevia” del commercio e della finanza mondiale, cioè quelli che hanno sempre fatto affari un po’ con tutti e non solo con gli “amici”.

 Molti di questi paesi crocevia sono europei: Germania e Italia, su tutti.

Questo spiega la riluttanza tedesca rispetto alle posizioni americane più favorevoli a una escalation militare.

 E al tempo stesso rivela i caratteri contraddittori della strategia del governo Draghi, che ci vede aderire più convintamente di altri alla linea guerrafondaia americana benché il sistema produttivo nazionale ne pagherà le conseguenze più di altri.

SS: Avere espulso la Russia dallo SWIFT è stata definita l’arma nucleare finanziaria decisiva.

 Ma è stato davvero così?

EB: No. È solo una delle forme che sta assumendo il protezionismo finanziario occidentale.

Molti credono che l’esclusione della Russia dallo Swift e le altre famigerate “sanzioni” siano state una conseguenza della guerra.

Non è esattamente così.

 In realtà, se ci pensiamo bene, queste sanzioni sono soltanto una prosecuzione del “friend shoring”, una politica che ha ampiamente preceduto la guerra e che, per le ragioni che indicavo prima, ha contribuito ad alimentarla.

Talvolta, le relazioni di causa ed effetto della storia sono l’esatto opposto di come vorrebbero presentarcele.

SS: Già con l’emergere della pandemia i singoli stati hanno cominciato una rincorsa a una maggiore indipendenza strategica dall’estero, in primis sulle materie prime e sulla tecnologia.

 La Cina ha lanciato l’e-Yuan e la stessa Europa sta lavorando a un’infrastruttura di pagamento indipendente.

E tu ora parli del “friend shoring”, che segna un’altra grande divisione tra le economie del mondo.

Che fine farà, secondo te, l’economia globalizzata per come l’abbiamo conosciuta?

 

EB: Come dicevo, il tempo della globalizzazione è finito da un pezzo, da prima della pandemia, addirittura da prima di Trump.

Il WTO avvertì i primi segni di una svolta protezionista da parte degli Stati Uniti già dopo la crisi del 2008, sotto la presidenza Obama.

 La guerra in Ucraina non fa altro che accelerare una tendenza già in atto da diversi anni.

 Ci vorrà molto tempo prima di vedere un nuovo boom globalista.

SS: Non c’è il rischio di dare gli Stati Uniti per finiti prima del tempo?

Tra soft power, influenza e ricatto sull’Europa, controllo degli strumenti sanzionatori e questa guerra che costringe a riconfigurare rotte commerciali e iniziative strategiche asiatiche, non è possibile che il malato statunitense si rianimi?

EB: La domanda che poni è utile per evitare di cadere in un grossolano fraintendimento.

È un fatto innegabile che gli Stati Uniti siano usciti sconfitti e indebitati dalla globalizzazione e che siano anche stati superati dalla Cina in termini di PIL calcolato a parità di poteri d’acquisto.

Ma è sempre bene aggiungere che il primato generale americano sussiste tuttora, e che la partita dell’egemonia futura resta aperta.

Uno dei motivi è che l’occidente capitalistico in generale, e gli Stati Uniti in particolare, godono ancora dei livelli più alti di produttività per singola ora lavorata.

Questo significa che, con una forza-lavoro molto più piccola, l’economia americana riesce a produrre quasi quanto produce l’economia cinese, che dispone di una popolazione enormemente maggiore.

 È un chiaro indice di superiorità tecnologica e di “rete”, che i cinesi ancora faticano a sfidare.

 C’è poi un’altra ragione per cui l’egemonia USA potrebbe resistere, nonostante i debiti e le attuali difficoltà dell’imperialismo americano.

È proprio il “friend shoring”.

Se questo diventerà il nuovo status internazionale, gli Stati Uniti potranno riguadagnare terreno mantenendo il controllo economico-politico all’interno del recinto occidentale che avranno creato.

 Ossia, sorgerà un nuovo assetto delle catene della produzione, del commercio e della finanza internazionale, caratterizzato da confini geopolitici difficili da valicare.

 Gli americani manterranno così la loro egemonia, ovviamente solo sull’occidente, un’area più circoscritta rispetto al passato ma che resta molto grande e rilevante.

EC: Vorrei chiederti di parlare un po’ di più della questione del debito, anche al di là della guerra.

Perché quella del debito è in fin dei conti la logica che sottende tanto agli scenari geopolitici quanto sempre di più alle politiche interne ai singoli stati, tramite l’austerity, che ha degli effetti enormi anche sull’autopercezione del singolo cittadino.

EB: Sull’austerity, esiste certamente un problema di autopercezione, direi anche di memoria storica.

 Le autorità di politica economica, sorrette dalla grande stampa, iniziano nuovamente a sostenere che il debito è troppo alto, talvolta aggiungono che l’attuale inflazione dipende anche da un eccesso di spesa, e dunque concludono che bisognerà tornare alle politiche di austerity.

 Queste tesi sono sbagliate e il fatto che tornino alla ribalta mi sembra un chiaro sintomo di perdita della memoria storica.

Dovremmo infatti ricordare che tra il 2008 e il 2013 abbiamo avuto l’opportunità di mettere la politica di austerity sul banco di prova dei dati.

Abbiamo potuto accumulare una grande quantità di evidenze empiriche per appurare se e in che misura l’austerity potesse realmente dare i benefici annunciati oppure no.

Ebbene, le prove empiriche vanno tutte inesorabilmente in una direzione: le strette monetarie, gli incrementi delle imposte e i tagli alla spesa pubblica causati dall’austerity non sono riusciti a raggiungere nessuno degli obiettivi che erano stati annunciati.

I cardinali dell’ortodossia avevano detto che l’occupazione e il reddito non sarebbero diminuiti, e invece sono crollati.

Avevano assicurato che la disuguaglianza non sarebbe aumentata, e invece la forbice sociale si è accentuata.

Addirittura, l’austerity non è riuscita nemmeno a raggiungere l’obiettivo di ridurre il debito.

Anzi, spesso questa politica ha prodotto l’effetto opposto, perché ha depresso a tal punto l’occupazione e il reddito da far esplodere il rapporto tra debito e reddito.

Questo “fallimento generale della politica di austerity” è talmente conclamato nella letteratura scientifica da esser stato riconosciuto persino dal Fondo Monetario internazionale e dal suo ex-capo economista Olivier Blanchard, che pure l’avevano originariamente supportata.

È un “mea culpa” sintomatico, direi, che ha ispirato anche un mio dibattito proprio con Blanchard e alcune ricerche che ho realizzato insieme ai miei coautori.

 La cosa inquietante è che oggi, a distanza di un decennio, è come se avessimo perduto la memoria di quei fatti documentati.

Come in un eterno, grottesco ritorno, sta riaffiorando il mantra dell’austerity come panacea di tutti i mali.

 È come essere di nuovo all’anno zero, come se non ricordassimo più il fallimento di quella politica.

Questa perdita di memoria collettiva mi sembra l’ennesimo indizio di un nuovo oscurantismo alle porte.

EC: Ma a chi giova recuperare una politica che si è già dimostrata fallimentare?

 

EB: L’austerity danneggia la collettività nel suo complesso ma giova alle fazioni della classe capitalista che si trovano in una posizione di forza, di credito, di attivo capitalistico, con tassi di profitto superiori alla media.

Questi capitalisti creditori possono tranquillamente sopportare le crisi scatenate dall’austerity.

E possono quindi trarre da esse l’occasione di vedere definitivamente sconfitti i loro concorrenti più deboli e indebitati, in modo da “mangiarli”, come dicevamo prima.

 Insomma, non dimentichiamo che le politiche di austerity rendono insolventi i capitalisti più piccoli e più fragili, e li espongono alle acquisizioni da parte dei capitalisti più grandi e più forti.

L’austerity è un grande acceleratore dei processi di centralizzazione dei capitali in sempre meno mani.

Per questo trova sostenitori, soprattutto nelle alte sfere.

 

EC: Parli spesso infatti di una lotta politica che in questa fase storica rimane confinata alla classe dominante.

 Grandi capitali contro piccoli capitali, creditori contro debitori, capitalisti orientali contro capitalisti occidentali, eccetera.

La politica odierna esprime solo queste lotte interne alla classe capitalista, mentre le classi subalterne restano sempre silenti, fuori dai giochi.

 Sarei curiosa di capire che rapporto c’è tra questo stato di cose e l’informazione che riceviamo, che è piena di portati idealistici e giustificazioni ideologiche da qualsiasi parte provenga.

Per esempio, sulle propagande occidentali e russe intorno alla guerra, tu scrivi: “

Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli.

Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti.

 Mai d’affari”.

È una questione un po’ speculativa, ma vorrei sapere secondo te se le fazioni del capitale e i loro rappresentanti credono alla loro stessa propaganda.

 Che dose di cinismo e cattiva coscienza c’è? E quanta di idealismo in perfetta buona fede? E c’è un’opzione preferibile tra queste due possibilità?

EB: È una domanda interessante, alla quale posso provare a rispondere in base a una personale esperienza.

In questi anni ho avuto un privilegio che nella storia è stato concesso pochissime volte ai critici del pensiero dominante:

sono stato invitato a misurarmi in dibattiti a due con alcuni tra i principali esponenti della teoria e della politica economica, italiana e internazionale, da Mario Monti a Olivier Blanchard, da Lorenzo Bini Smaghi a Romano Prodi, da Elsa Fornero a Giovanni Tria, e così via, fino a Daron Acemoglu.

Ebbene, nei dibattimenti con questi grandi cardinali dell’ortodossia ho sempre trovato sintomatico il fatto che il ruolo del cinico spettasse soprattutto a me.

 “Cinico”, ovviamente, nel senso non dei filosofi socratici ma di Wilde:

 ossia, io guardavo le cose per come materialmente sono, mentre i miei avversari dialettici le guardavano per come avrebbero idealmente voluto che fossero.

Il che, in effetti, mi ha sempre assicurato un discreto vantaggio durante quei dibattiti: quello di poter contrapporre un discorso scientifico alle retoriche, pur raffinate, dei miei interlocutori.

Ebbene, questo strano gioco di ruolo si riproduce sempre, che si discuta di politica economica o di guerra militare.

Direi allora che questi grandi esponenti della politica dominante, con cui mi capita di confrontarmi, sono affetti non tanto da “cattiva coscienza” ma da “falsa coscienza”, nel senso di Marx ed Engels.

 Ossia, i grandi ideologi del capitale, magari per placare le loro nevrosi, possono aver bisogno di convincersi così tanto delle loro narrazioni da risultare le prime cavie dell’ideologia che propugnano.

Al punto tale, per esempio, che alcuni di essi sembrano davvero credere alla favola secondo cui la moderna guerra capitalista esploderebbe per cause etiche anziché economiche, come fosse motivata da sacri diritti negati piuttosto che da profani contratti mancati.

Una mistificazione totale!

 Ovviamente, non tutti sono così confusi.

Tra i cantori della visione prevalente c’è pure qualcuno disposto ad ammettere, in “camera caritatis”, che non crede a un bel niente di quel che racconta in giro sulle magnifiche sorti progressive del capitalismo.

Ma questo tipo di agenti della propaganda, disincantati e feroci, rappresentano una rara eccezione.

EC: Questa tendenza a mistificare la realtà scientifica sembra l’ennesima prova che capitalismo e democrazia sono incompatibili, no?

 Si parla tanto del fatto che in Cina o in Russia non c’è democrazia, che lì è tutto mistificato dal potere politico.

 Ma le cosiddette democrazie liberali occidentali non sembrano passarsela molto meglio, anche semplicemente riguardo al rapporto con fatti comprovati, dati scientifici.

 Eppure, nonostante questi problemi, molti continuano a credere alla teoria del ferro di cavallo, opponendo alla democrazia occidentale l’autoritarismo orientale e usando questo spauracchio paradossalmente per spostare l’elettorato sempre più su posizioni di destra, principalmente sul piano economico, ma non solo.

 

EB: Sul grado di tutela della democrazia e la libertà, e direi anche sulla qualità della stampa e della comunicazione, tra i regimi liberali occidentali da un lato e i cosiddetti regimi autoritari orientali dall’altro, sussistono tuttora differenze oggettive innegabili, in termini di funzionamento delle istituzioni e di tutela dei diritti basilari.

Il vero problema è che queste differenze si stanno riducendo, nel senso che dalle nostre parti la democrazia e la libertà arretrano vistosamente.

Prendiamo i dati elaborati da “Freedom House,” un’istituzione che parteggia per l’occidente e che proprio per questo offre indicazioni interessanti.

Questo istituto misura per ciascun paese del mondo i livelli di tutela della democrazia e della libertà, ovviamente intese in senso tipicamente liberale.

Ebbene, i dati indicano che le democrazie liberali d’Occidente partono da livelli di tutela più alti, il che è piuttosto scontato dal momento che l’approccio analitico adottato è di stampo liberale.

Nonostante questo, però, i dati indicano che negli ultimi anni, dalle nostre parti, questi livelli di tutela democratica si stanno riducendo in modo significativo.

Ossia, iniziamo a convergere al ribasso, verso i cosiddetti regimi autoritari.

 In un certo senso, sembra confermata la predizione di Vladimir Putin, in una celebre intervista rilasciata al Financial Times qualche anno fa:

il nostro sistema democratico-liberale sta entrando in crisi, noi stiamo somigliando sempre di più a loro, con un sistema decisionale sempre più accentrato e ostile ai diritti.

EC: Perché succede questo? Perché la democrazia arretra?

 

EB: La mia tesi è che anche in questo caso dobbiamo parlare di una tendenza oggettiva, profonda, di tipo sistemico.

Mi riferisco, ancora una volta, alla tendenza chiave dell’analisi marxiana: la centralizzazione del capitale in sempre meno mani.

Ne parlavamo prima, anche riguardo alla Russia e agli Stati Uniti.

Ma il fenomeno è mondiale: a livello globale, ormai oltre l’80% del capitale azionario è controllato da meno del 2% degli azionisti.

In pratica, questo significa che in tutti i paesi del mondo il potere economico è ormai concentrato nelle mani di un piccolo manipolo di grandi oligarchi, un club che oltretutto si restringe ancor di più ad ogni nuova crisi economica.

 Questa tendenza trova conferma nelle analisi empiriche più avanzate, ed è ormai riconosciuta anche dai grandi cardinali del mainstream, per esempio Daron Acemoglu.

Ebbene, io sostengo che questa tendenza alla centralizzazione dei capitali non crea solo concentrazione del potere economico ma è anche alla base della concentrazione del potere politico che pure abbiamo registrato in questi anni, in termini di esautoramento delle rappresentanze popolari, di “esecutivizzazione” delle decisioni politiche, di ricerca spasmodica di grandi risolutori, di uomini forti a cui affidare i destini collettivi.

È un movimento che ha totalmente distrutto le istituzioni novecentesche della socialdemocrazia, e col passare del tempo aggredisce persino le istituzioni liberaldemocratiche e i più elementari diritti politici e civili su cui si basano.

 Questa tendenza, secondo me, è la ragione principale della crisi democratica dell’occidente capitalistico, e ci aiuta a capire perché ci stiamo progressivamente avvicinando al livello di accentramento dei poteri che è tipico dei sistemi politici orientali.

Gli somigliamo più di quanto vorremmo ammettere.

Basti notare un esempio su tutti: anche le democrazie occidentali possono oggi svoltare verso una politica di guerra senza avvertire il bisogno di aprire un dibattito nelle assemblee parlamentari, senza preoccuparsi troppo del vaglio democratico.

EC: Allora proviamo a parlare dell’opposizione politica a queste tendenze che tu delinei.

Prevedi che concentrandosi il capitale in poche mani e allargandosi la forbice della disuguaglianza, si vada anche verso un’uniformizzazione verso il basso delle condizioni della classe subalterna.

Questo mi ha ricordato l’argomento “we are the 99%” di Occupy.

Cosa non ha funzionato secondo te in quella fase dei movimenti?

È stata una questione di repressione o ci sono stati degli errori nelle loro strategie organizzative e/o comunicative?

E vedi degli eredi possibili di quella stagione nel panorama attuale?

EB: Da Porto Alegre, alle grandi manifestazioni contro la guerra, a Occupy Wall Street, a Black Lives Matter, ai Pride sempre più politicamente caratterizzati, i vari movimenti di emancipazione sociale e civile dell’ultimo quarto di secolo sono stati fiori nell’immenso deserto del dominio capitalista mondiale.

 Ogni volta che li abbiamo incrociati abbiamo respirato un po’, e anche solo per questo meriterebbero gratitudine.

C’è tuttavia un grave limite, che mi sembra di ravvisare in tutte le esperienze di movimento di questi anni.

Nella sostanza, penso di poter dire che si è trattato di movimenti “riformisti”.

Vale a dire, in ultima istanza fiduciosi sulla possibilità di avanzare a piccoli passi per correggere le storture del capitalismo, per depurarlo dai suoi rigurgiti reazionari, per riformarlo pian piano in senso progressista, nell’interesse collettivo delle classi subalterne, come in parte è accaduto nella breve stagione virtuosa della seconda metà del Novecento.

Oggi, però, questo orientamento “riformista”, dei piccoli passi, solleva un problema enorme.

EC: Quale?

EB: È il problema posto dalle tendenze in atto, verso la centralizzazione dei capitali e verso la corrispondente concentrazione del potere economico e politico, così intensa da mettere in crisi il vecchio ordine del capitalismo democratico.

 In uno scenario del genere, così cupo e violento, si pone un interrogativo:

siamo proprio sicuri che una politica “riformista”, dei piccoli passi per correggere pian piano le storture del sistema, sia anche solo minimamente praticabile?

 Siamo certi che non si tratti ormai di una chimera?

A mio avviso, se vogliamo essere onesti, nel senso anche solo puramente intellettuale del termine, allora dovremmo iniziare a interrogarci sull’eventualità che dinanzi a tendenze oggettive così soverchianti possa risultare molto difficile far progredire il capitalismo con quelle azioni cumulative, passo dopo passo, che sono state tipiche della logica del riformismo politico novecentesco.

 Insomma, c’è una domanda urgente che bisogna porre, se non in senso politico almeno in senso scientifico, fattuale: viviamo un’epoca in cui oggettivamente sussiste l’impossibilità del riformismo?

 Ecco, l’impossibile riformismo, inteso come politica di piccoli passi verso il progresso e l’emancipazione, è una questione che meriterebbe un dibattito aperto, franco, scientifico, tra tutti noi.

Ma al momento vedo troppa paura in giro, nessuno osa affrontare l’argomento.

NP: Domanda enorme, che inevitabilmente ci costringe a evocare l’alternativa:

 se non può essere riforma, deve essere rivoluzione?

È questo che intendi?

EB: Io mi limito a osservare che la parola “rivoluzione” è già entrata nel lessico del potere, e dei grandi cardinali dell’ortodossia capitalistica.

Penso ancora una volta a Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI, che in un paper scritto assieme a un altro grande insider del sistema, Larry Summers, ex segretario al tesoro USA, e poi anche in un dibattito con me, ha evocato una biforcazione inquietante:

per evitare una “catastrofe” sociale ci vorrebbe una “rivoluzione” della politica economica.

Parole forti, decisamente inusuali per quegli uomini di establishment.

Ecco, io temo che questo bivio spaventoso non sia affatto campato in aria, non sia una mera voce dal sen fuggita.

Al contrario, penso che quella biforcazione si intraveda all’orizzonte, e che l’attuale dinamica di guerra ci avvicini ancor più verso di essa.

 In questo senso, mi preoccupa molto il fatto che tra i primi a riabilitare la parola “rivoluzione” siano stati proprio degli uomini di potere, esponenti di vertice delle massime istituzioni economiche internazionali.

È un fatto da non trascurare, questo, perché una volta usurpata dal potere costituito, come è noto, la “rivoluzione” rischia di diventare “passiva” nel senso gramsciano “negativo” del termine, e finisce così per assecondare le tendenze dominanti anziché pretendere di rovesciarle.

Al contrario, i movimenti di emancipazione sociale sembrano in netto ritardo sulla ripresa di un discorso sulla “rivoluzione”, appaiono ancora insicuri, timorati dinanzi alla possibilità di rilanciare la parola scabrosissima, anche solo come mera ipotesi politica.

Così, dal lato delle classi subalterne, la parola “rivoluzione” resta indicibile, inammissibile, un tabù assoluto.

Questo impedisce anche di dare a questa parola un nuovo contenuto di classe, che sia moderno, adatto ai tempi.

Una tale differenza di approccio, uno scarto così accentuato nella spregiudicatezza, anche linguistica, tra rappresentanti del potere costituito e movimenti di rivendicazione sociale, secondo me segna un ritardo grave di questi ultimi rispetto all’avanzare del processo storico, un ritardo che in qualche modo andrebbe colmato.

EC: Come si può dare nuovo contenuto alla parola “rivoluzione”?

EB: Personalmente ho cercato di proporre una sorta di update del concetto di “rivoluzione” sgombrando il campo da certi luoghi comuni del nostro tempo, che abbiamo accettato in modo del tutto acritico, senza mai metterli in discussione.

Penso ad esempio alla pedestre ideologia che vorrebbe ridurre la storia complessa della pianificazione alla sola esperienza dello stalinismo.

E penso alla famigerata equazione di Milton Friedman, secondo cui solo il capitalismo garantirebbe la libertà.

Sono narrazioni che vanno per la maggiore, ma ci vuol poco a capire che sono false, contraddette dalla storia passata.

Lo dimostrano i cenni di piano sperimentati in alcune democrazie occidentali da un lato, e l’esistenza conclamata di regimi capitalisti di stampo autoritario dall’altro.

Ma soprattutto, io credo, queste idee false potrebbero esser contraddette dalle possibilità del divenire.

In questo senso, ho avanzato una tesi precisa:

 a date condizioni, una nuova logica di pianificazione collettiva potrebbe rivelarsi uno straordinario propulsore della libera individualità sociale.

In altre parole, è possibile sostenere che, in una sua forma specifica e innovativa, piano è libertà.

Ho persino osato parlare di liber-comunismo, in senso non liberale ma addirittura libertino.

Una provocazione per “épater le bourgeois et le prolétaire”, certo.

Ma al di là dei nomi delle cose, che possono essere più o meno irriverenti a seconda delle circostanze, è su questa cosa essenziale del rapporto potenzialmente nuovo tra piano e libertà che a mio avviso sarebbe necessario lavorare oggi.

I contributi personali, tuttavia, non sono minimamente sufficienti per un tale scopo.

 L’impresa di risignificare la parola “rivoluzione” richiederebbe la messa in opera di colossali intelligenze collettive.

 Costruire un’intelligenza collettiva all’altezza di una nuova sfida rivoluzionaria è un compito immane, di una difficoltà estrema.

 Ma potrebbe rivelarsi urgente, viste le tendenze in atto e le tremende biforcazioni che annunciano.

EC: Chi potrebbe farsi carico di un così immane compito politico?

 Nel tuo libro sembri puntare sulle generazioni più giovani.

Sono davvero pronte a rilanciare un’ipotesi “rivoluzionaria”?

EB: Una cosa certa è che i giovani, in larghissima parte, vivono una immane contraddizione:

sono totalmente immersi in una cultura dominante individualista e consumista ma le loro effettive possibilità di affermazione sociale e di consumo sono sempre più frustrate.

Questo corto circuito tra ideologia e fatti è destinato a generare una radicalizzazione delle posizioni politiche dei più giovani.

Molti di essi andranno a rifugiarsi nelle vecchie strutture del familismo, quindi riprodurranno la cultura retrograda che lo caratterizza, e per questo verranno sedotti da forme di propaganda sempre più reazionarie che li renderanno potenziali soldati per nuove guerre di Vandea.

 Ma un’altra parte si radicalizzerà in direzione opposta.

 Qualche indizio, in questo senso, ce l’abbiamo sotto gli occhi.

I rapporti dell’Eurobarometro, di Pew Global Research e di altri centri di ricerca sparsi nel mondo, evidenziano una fortissima sensibilità delle generazioni più giovani verso i rischi di una catastrofe climatica e una connessa volontà di cambiamento del sistema produttivo in senso radicalmente ecologista.

Gli stessi sondaggi mostrano anche un grande sostegno di molti giovani verso la lotta alle discriminazioni razziali e sessuali, in concomitanza con una serie di cambiamenti rilevanti nei costumi, una notevole fluidità nella visione delle identità e degli orientamenti sessuali, e una concezione delle relazioni affettive sempre più difficile da inquadrare nei canoni della famiglia nucleare tradizionale.

Ma non è finita qui.

A questi interessanti segni di sovversivismo ecologista e libertario si aggiunge una novità ancor più sorprendente.

 A quanto pare, le generazioni più giovani risultano sempre più critiche verso l’odierno capitalismo e sembrano sempre più attratte da ipotesi alternative di organizzazione della società.

Da un sondaggio dell’Institute of Economic Affairs, si scopre che per il 75 per cento dei giovani intervistati il comunismo “ha fallito solo perché attuato nel modo sbagliato” e che resta “una buona idea”.

 Un analogo sondaggio effettuato da Gallup mostra che il 50 per cento dei giovani attribuisce un valore positivo alla parola “socialismo”.

 Una tendenza analoga sembra scaturire da un sondaggio della “Victims of communism memorial foundation”, un’associazione di stampo conservatore che si impegna per contrastare la diffusione di sentimenti rivoluzionari nel mondo: stando all’indagine, il 70 per cento dei cosiddetti “millenials” propende nettamente per il socialismo e circa il 20 per cento ritiene addirittura che il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels garantisca libertà e uguaglianza più della Dichiarazione di indipendenza americana.

 E ancora, un sondaggio dell’IPSOS Social Research Institute mostra che il 50 per cento della popolazione mondiale intervistata considera tuttora gli ideali del socialismo fondamentali per il progresso umano, con percentuali particolarmente alte tra i più giovani.

 Certo, sono soltanto sondaggi, che descrivono i nuovi sentimenti di una miriade di giovani dispersi e isolati, ben lontani dal tradursi in concrete ipotesi politiche.

Eppure, ai vertici del potere nessuno commette l’errore di sottovalutarli.

 Il motivo è che questo cambiamento nei sentimenti politici è la conseguenza di un problema oggettivo irrisolto:

il contrasto sempre più accentuato tra l’ideologia individualista e consumista prevalente e la depressa realtà materiale in cui la gran parte dei giovani si trova oggi a vivere.

 Del resto, lo abbiamo detto e documentato, le tendenze oggettive del capitalismo stanno spingendo verso la centralizzazione del potere economico e politico in sempre meno mani, e quindi anche verso una nuova marginalizzazione sociale di fasce sempre più ampie di popolazione, specie più giovani.

Ecco, in questo tempo shakespeariano che ci tocca di vivere, di farsa che rischia continuamente di trasformarsi in tragedia, vale la pena di sollevare una domanda prospettica:

è possibile che proprio le tendenze oggettive del sistema a un certo punto favoriscano l’emergere di una nuova intelligenza collettiva, che si riveli capace di tramutare le delusioni del “riformismo” in una feconda disperazione, e che riesca proprio per questo a raccogliere le istanze sovversive di singole monadi isolate per tramutarle in una inedita pratica politica “rivoluzionaria”?

Da lungo tempo siamo educati a rispondere risolutamente di “no”, in modo puramente istintivo, direi pavloviano.

Eppure, coloro che governano il funzionamento del sistema non escludono affatto una simile svolta.

Anzi, lavorano coscienziosamente ogni giorno per scongiurarla.

Penso sia giunto il tempo di riflettere su diverso tipo di reazione, tra noi e loro.

 

 

 

Russia-Cina, la nuova globalizzazione

che cambia l'ordine mondiale.

Huffingstonpost.it - Antonio Preiti – (28 Febbraio 2022) – ci dice:

 

L'accordo stipulato in apertura dei giochi olimpici, lo scorso 4 febbraio,​ può essere considerato il Manifesto strategico della nuova partnership euroasiatica contro l'Occidente.

Siamo portati a vedere l’invasione di Putin dell'Ucraina come un atto di potenza, quasi un distillato di volontà di potenza, data la sua gratuità, e il pensiero, alla ricerca delle sue cause e dei suoi possibili moventi, ci porta automaticamente all'ex Unione Sovietica, o addirittura al suo passato imperiale, al tempo degli zar.

Probabilmente nella chimica dell'invasione sedimentano elementi sia dell'uno che dell'altro, ma così forse ci perdiamo la novità dell'atto, cioè ci perdiamo la possibilità di inquadrare l'invasione dell’Ucraina nel presente e nel futuro, non nel passato.

Siamo davanti a un cambiamento che si prospetta di essere radicalmente diverso rispetto agli equilibri del mondo come lo conosciamo.

Non si tratta di futurologia politica, ma di una analisi coerente di quanto sta succedendo in questi ultimi mesi.

Partiamo da un documento fondamentale di queste settimane, l'accordo stipulato in apertura dei giochi olimpici, lo scorso 4 febbraio tra Russia e Cina.

Tra l'altro, l'ipotesi ventilata in quei giorni, che l'invasione dell'Ucraina si sarebbe realizzata non appena i Giochi fossero finiti, si è rivelata esatta.

Anche per questo aspetto, ma non certo solo per questo, quel documento assume particolare valore.

Se lo guardiamo con attenzione vediamo una sintesi molto chiara della nuova concezione del mondo, o della nuova ideologia dell'alleanza strategica tra questi due paesi, anche se il termine "alleanza" non compare mai esplicitamente nel documento.

Cosa si sostiene in questo testo, che può essere considerato, a ragione, il Manifesto strategico della nuova alleanza euroasiatica contro l'Occidente?

Il primo punto riguarda la concezione stessa della democrazia.

In sostanza si afferma che la democrazia non ha valore universale con una forma già definita (libertà di stampa, di parola, con libere elezioni, contendibilità del potere, ecc.), ma "assume le forme della tradizione di ogni paese, incluso il suo sistema politico e sociale".

 In sintesi, si nega che la democrazia, come noi la conosciamo, sia un valore, ma si assume come democratico "qualunque assetto statuale e sociale che deriva dalla tradizione di ciascun paese".

Detto in breve: la democrazia liberale non è nulla, non ha nulla di distintivo.

Non ci si ferma solo alla relativizzazione della democrazia, ma si relativizzano anche i diritti umani, che solitamente sono considerati al di sopra di qualunque regime politico e statuale.

 Nel documento si afferma che i diritti umani non devono essere usati come pressione su altri paesi ("human rights not be used to put pressure on other countries");

anzi, i due paesi vedono la rivendicazione dei diritti umani come una minaccia ("serious threats") a stati sovrani e una interferenza nei loro affari interni.

Perciò anche i diritti umani sono relativi e ogni stato stabilisce quali siano e come debbano essere trattati.

La parte politico-strategica arriva subito dopo, quando si afferma che i due paesi intendono sviluppare piani per lo sviluppo dell'area euroasiatica accanto alla Via della Seta per promuovere "una più grande interconnessione tra l'Asia del Pacifico e le regioni euroasiatiche".

In sostanza, si propone una globalizzazione euro-asiatica da contrapporre a quella occidentale.

Riecheggia qui l'assunto geo-politico di vari ideologi russi secondo cui il continente euro-asiatico abbia il destino di contrapporsi alla Civiltà del Mare, cioè quella atlantica.

L'evocazione in termini di millenarismo fa assumere all'alleanza contorni identitari che sono poi utilizzati, ad esempio, contro l'Ucraina, per dire che quel paese non ha una identità storica, o per dire che Taiwan appartiene alla Cina.

 Tra l'altro nel documento viene sostenuto che "Taiwan è un'inalienabile parte della Cina e i due paesi s'impegnano ad opporsi a ogni indipendenza dell'isola".

 

Il manifesto del 4 febbraio descrive perciò la strada verso la fine della globalizzazione come la conosciamo, perché indica una circolarità territoriale che vuole essere autosufficiente:

dall’arco del continente euroasiatico russo-cinese alla Via della Seta sulla parte meridionale, che arriva fino alle propaggini dell'Europa nell'area medio-orientale.

In questa prospettiva assumono un valore strategico alcune decisioni dei due paesi, perché costituiscono le infrastrutture per rendere autonoma la globalizzazione euro-asiatica.

 La creazione di un sistema di pagamenti che corra in parallelo con il sistema Swift e lo sostituisca in caso di una sua inaccessibilità;

la progettazione e le prime sperimentazioni di una moneta digitale cinese che sostituisca (o sia parallela) alle valute ufficiali correnti; il distacco (già pressoché avvenuto) della rete di internet dei due paesi da quella mondiale.

È una curva della storia che si sta realizzando in tempi molto brevi:

prima avevamo la contrapposizione comunismo/mondo occidentale;

poi abbiamo avuto alcuni decenni di piena globalizzazione mondiale, in cui l'interscambio è stato non solo sul piano economico, ma anche su quello dei valori di riferimento;

adesso sembra di essere arrivati a un assetto post-ideologico, in cui conta la dimensione fisica, appunto la geografia politica, intrecciata con i valori di riferimento della tradizione ancestrale dei singoli paesi, in una situazione che possiamo definire di doppia globalizzazione.

 

 

 

 

 

Il nuovo disordine mondiale:

chi semina vento raccoglie tempesta.

Infoaut.org - Sandro Moiso – (27 febbraio 2022) – ci dice:

 

“Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più”.

(Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce e davanti agli occhi di tutti quelle stesse contraddizioni, troppo spesso sommerse da un mare di menzogne e illusioni, cui si è prima accennato.

Contraddizioni di ordine economico, geo-politico, militare, sociale, produttivo e ambientale che di volta in volta vengono segnalate singolarmente, in nome di un’eccezionalità che invece, vista in una dimensione più ampia e completa, dovrebbe essere percepita come norma di un sistema che, dopo aver suscitato appetiti ed aspettative esagerate in ogni settore di una società in/civile basata sull’egoismo proprietario e l’individualismo atomizzante, non può soddisfare le aspirazioni materiali ed ideali che si manifestano globalmente, sia a livello macroscopico che molecolare.

Prima con la spartizione del mondo in due blocchi, definiti più dal punto di vista ideologico che da quello della effettiva struttura economica, poi con il preteso nuovo ordine mondiale a sola guida statunitense dopo il fallimento del blocco definito come orientale o sovietico, era sembrato agli analisti politici ed economici superficiali e agli ideologi da strapazzo come Francis Fukuyama (politologo e teorico statunitense della “fine della Storia”) che fosse possibile un lento e progressivo affermarsi dei valori democratici e liberali occidentali e del conseguente modello di sviluppo e progresso capitalistico, sotteso dagli stessi, a livello mondiale.

Il tutto attraverso un costante appiattimento delle contraddizioni residue in funzione di un radioso e felice futuro di sfruttamento e accumulazione di ricchezze (private più che pubbliche e, possibilmente, più nella parte occidentale del mondo piuttosto che in quella orientale e meridionale).

Così, negli ultimi decenni, soprattutto nel paese di Sanremo e delle canzonette politically correct, il lavoro di chi non ha avuto timore di “sporcarsi le mani” con la questione della guerra e di un suo possibile allargamento a livello generale è stato visto come un’inutile e superata (forse ridicola per alcuni?) predizione da eterna Cassandra, in un sistema in cui non solo le contraddizioni inter imperialistiche, ma anche sociali erano invece destinate a risolversi attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e della trattativa qualunque essa fosse (diplomatica, sindacale o politico-parlamentare non importa), purché non violenta e rispettosa delle regole del buon vivere in/civile.

Purtroppo per gli illusionisti del capitale e dei loro, talvolta inconsapevoli, seguaci le cose non sono andate affatto così.

Anzi, al contrario, gli eventi hanno preso una piega “imprevista” che, a partire dall’11 settembre 2001, ha subito un’accelerazione legata al sorgere del radicalismo islamico (anche e forse in maniera ancor più significativa nelle periferie delle metropoli occidentali), alle lunghe e irrisolte guerre nel quadrante mediorientale e afghano, al progressivo ritorno della Russia sulla scena internazionale sia dal punto di vista militare che diplomatico (proprio a partire dall’era Putin), all’irresistibile ascesa economica e politica della Repubblica Popolare cinese, alle conseguenze della prima gigantesca crisi finanziaria dovuta alle conseguenze della globalizzazione (2008 e anni successivi), ad uno ipertrofico sviluppo della digitalizzazione e dell’applicazione dell’elettronica in un contesto in cui sempre più spesso i metalli e le terre rare di cui si fa uso sono quasi totalmente sotto il controllo della Cina e della Russia e, in tempi ormai recentissimi, alle conseguenze sanitarie economiche e sociali della pandemia oltre che del sempre più drammatico manifestarsi della divisione politica (sociale razziale e di classe) negli Stati Uniti e al precipitoso e infruttuoso ritiro degli stessi e della NATO dall’Afghanistan.

Così, in un articolo del comitato di redazione apparso il 14 febbraio scorso sul «Wall Street Journal», alla fine, una delle voci più importanti del capitalismo statunitense ha dovuto prendere atto di tutto ciò, anticipando i fatti successivi.

Un’invasione russa dell’Ucraina sarebbe un evento fondamentale destinato ad accelerare il nuovo disordine mondiale.

 I segnali si stanno costruendo da anni, ma l’America e i suoi alleati sono impreparati […]

 L’amministrazione Biden ha fatto un discreto lavoro di retroguardia nel mobilitare l’Europa e la NATO in opposizione ai progetti della Russia sull’Ucraina […]

Gli alleati sono per lo più a bordo della promessa degli Stati Uniti di “conseguenze massicce” se la Russia invade, anche se ci chiediamo per quanto tempo Germania, Francia e Italia manterrebbero la rotta.

Le deboli sanzioni occidentali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014, hanno incoraggiato Vladimir Putin a credere che l’Europa non abbia la volontà di resistere con qualcosa di serio.

Quello che Biden non ha fatto è spiegare agli americani i nuovi pericoli globali e cosa deve essere fatto per proteggere gli interessi degli Stati Uniti.

Il problema va ben oltre l’Ucraina.

La Cina vuole conquistare Taiwan e dominare il Pacifico occidentale.

Il nuovo condominio Russia-Cina significa che lavoreranno insieme contro gli interessi degli Stati Uniti.

L’Iran è vicino a ottenere un’arma nucleare e i jihadisti sono tutt’altro che sconfitti.

L’avanzamento della tecnologia e la sua proliferazione mettono anche a rischio gli americani, in patria e all’estero.

 L’attacco informatico al Colonial Pipeline dello scorso anno è stato un modesto spettacolo del danno che un attore straniero può infliggere alla patria degli Stati Uniti.

Le armi ipersoniche e antisatellite potrebbero eliminare le difese statunitensi in tutto il mondo in pochi minuti e con poco o nessun preavviso.

 In una sorta di Pearl Harbor high-tech.

Niente di tutto questo è allarmista o inverosimile per chiunque presti attenzione.

Eppure la maggior parte degli americani sembra indifferente o compiacente riguardo ai rischi.

In parte questo è il risultato della stanchezza per le guerre in Iraq e Afghanistan.

Gli ultimi tre presidenti hanno anche alimentato il desiderio, a sinistra e a destra, di tornare a casa, l’America.

Barack Obama ha risposto docilmente alle avances di Putin e a quelle di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

Donald Trump ha assunto una posizione più forte e ha aumentato la spesa per la difesa, ma ha anche alimentato l’illusione che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dal mondo e rimanere al sicuro.

Biden ha per lo più ignorato il mondo nella campagna del 2020 e il suo fallito ritiro dall’Afghanistan ha convinto gli avversari, e persino molti alleati, che gli Stati Uniti sono in ritirata.

Ma la realtà alla fine morde, e ora lo sta facendo sotto gli occhi di Biden.

[…] La diffusione dell’aggressione e del disordine minaccia la libertà e la prosperità americane.

Nessuno sta per invadere la patria, ma gli attacchi informatici potrebbero paralizzare pezzi dell’economia.

 Gli alleati che sono stati a lungo al nostro fianco potrebbero voltarsi dall’altra parte per compiacere i nuovi stati canaglia.

Gli interessi economici degli Stati Uniti saranno a rischio.

Biden dovrà anche spostare l’attenzione della sua presidenza dall’espansione dello stato sociale interno al miglioramento della sicurezza nazionale.

Le sue richieste di bilancio per la difesa dovranno aumentare in modo sostanziale.

Soprattutto, Biden dovrà costruire alleanze bipartisan sulla sicurezza nazionale, come hanno fatto Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman in altri punti cardine della storia.

Le forze isolazioniste emergono sempre quando il mondo diventa più pericoloso, nella speranza che gli Stati Uniti possano nascondersi dietro una Fortezza America.

Biden dovrà trovare alleati in entrambe le parti per sconfiggere quel richiamo di sirena.

Nel 1940 Roosevelt nominò i repubblicani Henry Stimson Segretario alla Guerra e Frank Knox Segretario della Marina.

Iniziarono a ricostruire le difese degli Stati Uniti in previsione che il paese potesse essere trascinato nei conflitti che infuriavano in Europa e in Asia.

Truman lavorò con Arthur Vandenberg, un tempo senatore isolazionista del GOP2, per costruire la NATO e combattere la Guerra Fredda contro il comunismo.

 Biden dovrebbe portare i falchi del GOP nei ranghi più alti della sua amministrazione per ottenere consigli migliori e sottolineare i pericoli che ci attendono.

Niente di tutto questo sarà facile nella nostra politica divisa […]. Biden ha ancora tre anni di mandato e i nemici del mondo non aspetteranno fino al 2024 perché gli Stati Uniti si mettano d’accordo.

 

Non vi può essere dubbio alcuno, scorrendo le righe appena proposte, che la richiesta sostanziale del capitale finanziario (e non) americano al proprio governo sia quella di prepararsi ad una guerra allargata, sostanzialmente mondiale.

Confermando così anche quanto scritto nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista «Limes» a proposito della spinta che l’attuale politica estera americana ha dato al riavvicinamento politico ed economico, senza escludere al momento quello militare, tra Cina e Russia.

Sulle bandiere di ogni potenza è ricamato il motto romano “divide et impera”, Washington dissente e incolla i Numeri Due e Tre, forse per noia del suo esorbitante primato.

 Matrimonio di puro interesse, indissolubile fin quando cinesi e russi non stabiliranno chiusa per palese inutilità la stagione dell’asimmetrica manipolazione reciproca.

 Portiamo questo argomento a suggestione della tesi per cui non solo l’ordine mondiale inteso ordine americano del mondo è in crisi, ma che qualsiasi altro assetto contrattualizzato del pianeta è improbabile.

Non sappiamo quando il Numero Uno abdicherà. Ci illudiamo di poter stabilire che a succedergli non sarà altro egemone. Più probabile un’età di torbidi…

Per aggiungere poi ancora, poco dopo:

Il generale cinese Qiao Lang ha sviluppato nel suo L’arco dell’impero la tesi per cui l’errore ormai irrecuperabile di Washington è di considerare Pechino massimo sfidante:

 «In un futuro non troppo lontano, la vera causa del declino dell’America non verrà dalla Cina, ma dall’America stessa».

 

Sarà ripreso più avanti il discorso qui accennato sulla rovina proveniente da fattori interni all’America settentrionale, mentre per adesso occorre sottolineare come il rischio effettivo di una guerra allargata sia entrato di colpo nel discorso mediatico mainstream, come non mai da molti decenni a questa parte.

Come ad esempio dimostra il direttore di «La Stampa», Massimo Giannini, nel suo editoriale del 25 febbraio.

Con tutta evidenza, la via delle sanzioni è insufficiente.

L’America e l’Europa ne parlano da giorni, ne hanno annunciate “diverse e dolorose” l’altro ieri.

Si è visto com’è finita. Putin non se n’è neppure accorto, e 24 ore dopo ha attaccato come se nulla fosse.

 Ieri sera Biden ha rilanciato, parlando di restrizioni economiche che costerebbero 3 trilioni di dollari al ricco Vladimir e ai suoi “apparatciki”.

Armi spuntate, purtroppo.

Vuoi perché gli Stati che le dovrebbero applicare sono troppo divisi tra loro (come dimostra il veto italo-tedesco posto al Consiglio europeo sull’ipotesi di esclusione della Russia dal circuito finanziario Swift).

Vuoi perché le sanzioni sono una spada senza impugnatura:

colpiscono chi le subisce, ma feriscono anche chi le irroga (come dimostrano quelle sulle forniture di gas, infinitamente più pesanti per l’Europa, che grazie a quello russo soddisfa il 90 per cento del suo fabbisogno, di quanto non lo sarebbero per Putin, che può dirottare facilmente l’eventuale invenduto alla “sorella Cina”).

Ci restano solo le armi convenzionali, o magari addirittura nucleari?

La prospettiva è agghiacciante in ogni senso, per gli effetti devastanti che avrebbe in termini di costi umani, economici, diplomatici.

Ma questo parrebbe il dilemma, oggi.

Lo “spirito di Monaco”, che lascia a un altro Fuhrer i suoi Sudeti e getta le basi di futuri stravolgimenti globali.

O lo “spirito di Marte”, il dio furente e vendicativo che prepara la Terza Guerra Mondiale.

L’alternativa del diavolo. Perché se la seconda è moralmente scandalosa, la prima è maledettamente pericolosa.

Ciò che è interessante, nell’editoriale di Giannini è che il discorso su una possibile guerra mondiale è definitivamente sdoganato:

in entrambi i casi, infatti, il gran finale è costituito da una guerra su larga scala.

Al di là degli accostamenti tra Hitler e Putin, oggi così di moda e fuorvianti, non certo sulla base del fatto che il secondo possa essere più accettabile del primo, è però necessario annotare come in entrambi i casi la spinta alle annessioni territoriali e all’espansionismo militare fu ed è determinato da un problema di “spazio vitale” per la nazione ritenuta responsabile dell’aggressione.

Nel caso di Hitler determinato dall’annosa questione del corridoio di Danzica e dalle severe restrizioni territoriali e dalle riparazioni “di guerra” imposte alla Germania dopo il primo conflitto mondiale che, come annotò già ai tempi un osservatore come John Maynard Keynes, non avrebbe potuto condurre ad altro che ad un altro conflitto.

Nel caso di Putin da un’arroganza, tipica dell’Occidente americano e della sua cecità prospettica, nel voler imporre basi della Nato, dopo averle distribuite già in tutti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia, praticamente alle porte di Mosca, posizionando i missili a poche centinaia di chilometri dalla capitale russa (4 minuti di volo per eventuali missili ipersonici).

Dimenticando così la massima del generale inglese Montgomery secondo il quale su ogni manuale di strategia militare si sarebbe dovuto scrivere, fin dalla prima pagina: Mai marciare su Mosca.

È autentico casus belli, come ha anche dichiarato il direttore di «Limes», Lucio Caracciolo, alla trasmissione serale condotta dalla Gruber la sera del 24 febbraio: «E’ stata la causa movente. Dal punto di vista russo, la Nato è il nemico che le sta entrando in casa e l’allargamento fatto a partire dagli anni ’90 in maniera sistematica dal punto di vista russo è percepito come una minaccia esistenziale».

Ritornando invece all’editoriale della medesima rivista di geo-politica, può rivelarsi utile riprendere il discorso sulla “debolezza americana”, di cui le accresciute tensioni interne sono una riprova e allo stesso tempo, uno dei principali motivi dell’altalenante azione politica, diplomatica e militare della superpotenza atlantica.

Il fenomeno geopolitico più importante del nostro tempo è la scissione interna alla nazione americana. I tecnici della politica la marchiano “polarizzazione”.

 Termine anodino.

Riduce la scissione a biforcazione, meccanica all’interno di un insieme nel quale si manifestano opinioni e tendenze diverse che si legittimano reciprocamente.

Qui però è in questione l’identità collettiva. Postulato non negoziabile […] Non dunque la classica bipartizione politica.

Qualcosa di molto più intimo e radicale […]

Di qui la crescita della violenza in un paese che vi inclina per nascita, come testimoniano proliferare delle milizie e diffusione delle armi.

 Fra l’etnia repubblicana, certo, ma anche democratica, specie donne e neri che non contano sulla protezione dello Stato.

 Nelle stesse forze armate, in particolare fra i veterani, serpeggiano intenzioni sediziose.

Un assaltatore del Campidoglio su cinque ha una storia militare.

[…] Dal destino manifesto al declino manifesto? […]

Washington al bivio: rilanciare o ritirarsi? Istinto e record storico spingono all’offensiva […]

I destinisti inconcussi puntano tutto sulla prima scelta, a costo di partire in guerra.

Ma guerra vera contro Cina o/e Russia, senza esclusione di colpi.

Non l’ennesima guerretta persa o pareggiata dal 1945 in poi.

 Rien ne va plus?

 I declinisti timorosi di perdere tutto, perplessi sulla tenuta del fronte interno, invitano a restringere l’angolo d’impegno esterno […]

 Se l’America scansa la scelta, saranno gli sfidanti a imporle le proprie.

Convinti di potersi manifestare molto più aggressivi grazie allo sfasamento del leader.

Cina e Russia paiono disposte a rischiare la guerra, quanto meno in retorica (ma in geopolitica la distanza tra parole e cose può svelarsi minore di quanto appaia).

 Da tre generazioni i pesi massimi non si affrontano più in battaglia, se non per via indiretta.

 Contingenza fortunosa o nuova legge storica?

Preferiremmo non sciogliere la riserva.

Ma se il lettore pretende, riluttando, indicheremmo busta numero uno.

Fuga da kiev.

 Un altro aspetto importante sottolineato invece da Giannini è quello di una coalizione di alleati, quelli europei, estremamente divisi, la cui dipendenza energetica da Mosca è anche dovuta alle sconclusionate politiche neo-coloniali condotte da nazioni come la Francia che, dopo aver definitivamente minato le basi dell’approvvigionamento energetico italiano in Libia, si è poi trovata a vedersele contese da due avversari dal ben diverso potenziale militare: Turchia e Russia.

Divisioni dovute ad interessi geo-politici, economici e finanziari che restano assopite, nel caso europeo, soltanto per l’ambiguo legame rappresentato dall’Unione Europea e dalla “comune” appartenenza alla NATO.

 Divisioni che dovrebbero far capire, anche ai più testardi e duri di comprendonio, come il cosiddetto secolo breve si stia invece rivelando come uno dei più lunghi della Storia, considerato che il ‘900 iniziato con il primo conflitto mondiale non è ancora mai finito e che anzi vede tornare ripetutamente alla ribalta gli stessi fattori geopolitici, sociali ed economici che finirono col determinare due guerre mondiali, un numero imprecisato di dittature, di rivoluzioni e controrivoluzioni e, soprattutto di stragi infinite.

In ogni angolo del pianeta, ma anche qui in Europa dove le stesse contraddizioni attuali già segnarono il cammino del martirio dei paesi balcanici negli anni ’90.

Come, forse, anche il presidente ucraino Zelensky ha iniziato a comprendere di fronte all’attuale disparità che intercorre tra le ridondanti promesse europee e americane ed effettiva volontà di intervento a favore del suo governo.

Per questo motivo le ultime righe di questo primo intervento non sono destinate ad individuare le linee di sviluppo militare, geo-politico e strategico inerenti all’attacco russo all’Ucraina, ma, principalmente, a sottolineare i ritardi e gli errori, troppo spesso clamorosi, di tutti coloro che pur sentendosi parte di un’opposizione all’esistente hanno preferito chiudere gli occhi, illudersi e rivolgersi ad obiettivi apparentemente già belli e pronti, con tanto di simulacri di movimenti nelle piazze, piuttosto che dedicare tempo e attenzione a ciò che da tempo bolliva nella pentola degli apprendisti stregoni del capitale e delle sue esigenze.

Perdendo così l’occasione sia di farsi trovare pronti al momento dell’esplodere del conflitto, sia di meritare qualsiasi riconoscimento o merito politico “reale” per poter affrontare i difficili tempi che verranno.

 Accontentandosi magari e ancora una volta di accodarsi a movimenti pacifisti di stampo umanitario che non serviranno ad altro che a motivare ancor di più la partecipazione a guerre che, sia da un lato che dall’altro del fronte, non appartengono a chi vuole liberarsi da un modo di produzione immondo. Ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud.

Così mentre il capitale riuscirà probabilmente ancora a volgere a proprio favore un’altra situazione difficile, come ha già saputo fare con l’emergenza pandemica, avanzando fin da subito le richieste di riapertura di centrali a carbone o nucleari per far fronte alla nuova emergenza energetica, gli antagonisti da riporto continueranno a discettare, sulle orme di un incartapecorito Agamben, su libertà individuale, democrazia formale ed altre quisquilie, dimenticando che qualsiasi discorso di opposizione all’esistente deve per forza di cose ruotare, senza se e senza ma, intorno ai due assi del conflitto tra capitale e lavoro (guerra di classe) e dell’opposizione alle insanabili contraddizioni inter imperialistiche (guerra imperialista) intersecantisi sul piano cartesiano delle possibilità di rovesciamento reale del modo di produzione attuale.

Unica bussola possibile per orientarsi nel caos della disinformazione, della propaganda, della paranoia, della drammatizzazione mediatica e della muffa ideologica che vengono propinate come verità assolute da entrambe le parti in conflitto.

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.