L’élite globalista occidentale ha deciso: tutti gli “uomini inutili” devono morire.
L’élite
globalista occidentale ha deciso: tutti gli “uomini inutili” devono morire.
Capire
la Cina per
salvare l’Occidente.
(Il
nuovo libro di Federico Rampini.)
Destra.it
- Vincenzo Pacifici – (24 Novembre 2021) – ci dice:
Debbo
le mie scuse all’autore: ho equivocato sul sottotitolo del volume.
Pensavo
che fosse più dotto ed accettabile il verbo “combattere”, e quello, solo
apparentemente, amico, utilizzato, “capire”.
Il
volume è ampio (il testo, suddiviso in 12 capitoli, una introduzione ed un
epilogo, supera di poco le 300 pagine), fitto, denso per il suo contenuto, per
le sue riflessioni non solo sulla Cina ma sul mondo intero, collegato e
condizionato.
Sin dalle
prime righe viene colto il significato cruciale, il nodo decisivo:
“questo
libro – avverte Rampini – è un viaggio nel grande paradosso di una sfida
planetaria.
Vi
racconto una faccia della Cina troppo nascosta e inquietante, che l’élite
occidentale [devono intendersi i governi] ha deciso di non vedere”.
È impossibile tracciare un’analisi minuta e
particolareggiata, cui va preferita una lettura definita sui momenti salienti e
cruciali.
È
condotto un parallelo tra America e Cina, in cui la prima, risultato
fallimentare delle tante amministrazioni inopportunamente osannate nella
servile Europa, “è ormai sempre più simile ad un mosaico di minoranze culturalmente in
guerra tra loro”.
La
seconda è invece una società dove il ceppo Han è il 92 per cento della
popolazione nazionale, come tale è anche un quinto della popolazione mondiale.
Non
possono poi sfuggire e vanno tenuti ben alti “i tanti punti di convergenza fra la
propaganda di Pechino e il pensiero della sinistra “politically correct” che
dilaga nei campus universitari americani”.
Rampini
coglie per il mondo occidentale una lezione basilare sugli obiettivi perseguiti
a proposito di Hong Kong, in cui si vogliono estirpare i valori del nostro
mondo e creare un Uomo Nuovo, un Homo sinesi del terzo millennio, plasmato sul
modello confuciano-comunista, che guarda l’Occidente, come una civiltà in
disarmo”.
È
interessante ed utile la definizione, che la dice lunga sulla realtà anche
occidentale, dei “sordomuti”, con cui vengono identificati i capitalisti, a
cominciare dal fondatore di “Alibaba”, il quale – ad avviso dell’autore del
volume – ha capito che “la grande ricchezza esplosa nella Cina postmaoista è un
fenomeno troppo recente e spesso ha origini sospette”.
Per
Rampini l’uomo forte di Pechino ha la prova che l’Occidente, nella sua
interezza [copriamo con un pietoso silenzio l’Europa] “abbaia ma non morde.
Abbaia sempre più flebilmente, peraltro”.
Opportuna
e centrata per le sue tante implicazioni è la domanda rivolta da Rampini:
“Davvero oggi siamo diventati tutti
ambientalisti? Da Xi Jinping a Poe Biden, da Jack Ma a Jeff Bezos, i potenti
della terra hanno in comune un nuovo Vangelo: la sostenibilità.
Leader politici che continuano ad autorizzare
la costruzione di nuove centrali o “chef executive” di multinazionali dall’impatto
ambientale distruttivo abbracciano la retorica dell’emergenza climatica”.
Ad un’altra riflessione va espresso il più
vivo riguardo:
“La tragica parentesi Covid ha
provocato un’accelerazione nell’ascesa di Pechino.
Mentre l’Occidente [debole, reverente e
servile] si fermava, stremato, l’economia della tigre a ripreso a correre.
Ha
esportato più di prima.
Ha
allungato il passo nelle tecnologie avanzate.
Ha
attirato ancora più capitali esteri.
Ha
allargato la sua sfera d’influenza”.
Le
ultime righe del volume contengono un pesante ammonimento purtroppo inascoltato
sulle debolezze, sull’ignavia e sull’inconcludenza dell’Occidente e della
nostra Europa:
“La
tragica vicenda di Hong Kong potrebbe insegnarci qualcosa.
È un
segnale d’allarme in molte direzioni.
Xi ha
distrutto quella piccola oasi di uno Stato di diritto, e non sta pagando alcun
prezzo.
A
garantirgli l’impunità non ci sono solo i nostri Trenta Tiranni, cioè le nostre
multinazionali e grandi banche per le quali “pecunia non olet”.
Anche
nella società civile, nei mezzi d’informazione, tra gli intellettuali e tra i
giovani, tanti pensano che i “valori dell’Occidente” siano un’espressione
ipocrita, un mito da sfatare, un’impostura da smascherare”.
(FEDERICO RAMPINI, Fermare Pechino.
Capire la Cina per salvare l’Occidente).
“La
Francia non lo sa, ma
siamo in guerra con l'America”.
Lantidiplomatico.it
– Paolo Pioppi – (02 Ottobre 2022) – ci dice:
Parole
di grande attualità - e non solo per la Francia.
«La
Francia non lo sa, ma siamo in guerra con l'America. Sì, una guerra permanente,
una guerra decisiva, una guerra economica, apparentemente senza morti.
Sì gli Americani sono molto duri, sono voraci,
vogliono un potere senza rivali sul mondo.
È una
guerra sconosciuta, una guerra permanente, che sembra senza vittime, ma è una
guerra a morte”.
La
citazione di Mitterand, è riportata nel libro di memorie del dirigente
socialista francese, due volte presidente della repubblica, deceduto nel 1996,
pubblicato dal suo amico Georges-Marc Benamou, del “Nouvel Observateur” nel
1997
(I
dernier Mitterand, seconda riedizione nel 2021).
Sono
passati 26 anni. Quello che Mitterand confessava in privato non è più un segreto per
nessuno. La guerra c'è e non riguarda solo la Francia ma tutta l'Europa, e ci
sono anche i morti.
Qualcuno
avverta le élites dirigenti europee, così distratte anche dopo le esplosioni
nel Baltico. (Paolo Pioppi).
Tutto
dipende dalle nuove armi.
Italiaoggi.it
- Gianni Pardo – (7-5-2022) – ci dice:
La
pace non dipende dai colloqui col Papa o con Macron.
Un
paio di giorni fa Macron e Putin si sono ancora parlati (stavolta per due ore)
solo per fare contente le folle che vogliono che si parli di pace.
Che
cosa non si farebbe per farsi applaudire dal loggione.
Quando
c'è una guerra si fanno un mare di chiacchiere e la gente è convinta che esse
determinino il risultato.
La
realtà è che le chiacchiere sono inutili e una cannonata la vince sulla voce di
mille persone.
Tutti
i contatti sono dunque inutili? No.
Essendo
un “mercanteggiamento”, i negoziati sono utili purché gli interessati abbiano
il desiderio di comprare o di vendere qualcosa.
Se
invece uno dei due non vuole vendere niente, o l'altro non è disposto a pagare
nessun prezzo, a che scopo discutere?
Oggi
Putin vorrebbe ottenere tutto e Zelensky non è disposto a dare niente.
E
allora: fine del negoziato.
Anche
ammettendo che “la faccia feroce” faccia parte delle tecniche della trattativa,
rimane lo stesso la domanda:
che cosa sono disposte a cedere, Russia e
Ucraina?
Partiamo
dalla situazione più drammatica.
Se due
Paesi sono in guerra (comunque essa sia cominciata e quali che siano i torti e
le ragioni) si può arrivare al punto in cui un Paese ha vinto su tutta la linea
e l'altro ha perso su tutta la linea.
Fino a
non avere la minima capacità di resistenza.
Un
buon esempio è l'Italia del 1943 nei confronti degli Alleati.
In un
caso del genere il vincitore non ha niente da negoziare, perché ha vinto il
piatto e può imporre la resa “senza condizioni”.
Come
hanno fatto gli Alleati, appunto.
Altro che 25 aprile; altro che Festa della
Liberazione;
altro che vittoria sulle truppe naziste:
l'Italia ha perso la guerra in maniera ignominiosa.
De Gasperi, discutendo con i vincitori del
trattato di pace, ebbe a dire:
«So che
tutto è contro di me, salvo la vostra personale cortesia».
Assolutamente
non avevamo altre risorse.
Questo
tipo di disfatta nell'antichità poteva comportare che la città fosse rasa al
suolo, tutti gli uomini passati a fil di spada, donne e bambini uccisi o
venduti come schiavi.
Grazie
al cielo non è più così, sempre che il vincitore sia civile.
I combattenti dell'Azovstal di Mariupol
infatti, sapendo con chi hanno a che fare, preferiscono morire con le armi in
pugno.
Passiamo
al caso inverso.
Se due
Paesi in guerra hanno mire opposte e sono convinti di poterle realizzare con le
armi, nessuno dei due si arrenderà.
Ma dal momento che anche la vittoria ha i suoi
costi, perdurando le distruzioni e i lutti, ad un certo momento – secondo come
penderà la bilancia della guerra – chi si troverà nella migliore posizione si
dirà:
«Io
volevo ottenere cento, e potrei anche ottenerlo, continuando la guerra.
Ma se la controparte mi offre settanta, potrei
anche accettare, perché la guerra ha i suoi costi, e il settanta per cento è
sufficiente».
A quel punto se la controparte – secondo come
penderà la bilancia della guerra – sarà anch'essa del parere che è meglio
perdere 70 che 100, si potrebbe arrivare ad un accordo al 65 o al 75%, secondo
come andranno le trattative.
Ma, come è ovvio, è necessario che ambedue le
parti siano d'accordo sul compromesso. Diversamente non c'è spazio per
l'accordo.
Un
secondo caso in cui la trattativa è inutile, è quando l'oggetto del contendere
è indivisibile, cioè la soluzione è a sì o no.
La
controversia fra Carlo I Stuart e Cromwell verteva su questo quesito: il re
deve disporre di un potere assoluto?
Ovviamente, non poteva esistere un potere
quasi assoluto.
Assoluto significa assoluto.
E in
questo caso per Carlo significò decapitazione.
Nella
guerra attuale, la Russia inizialmente voleva che l'Ucraina entrasse nella sua
Federazione o avesse un governo vassallo di Mosca, più o meno come la
Bielorussia di Lukashenko.
Dunque
la posta in gioco per l'Ucraina era indipendenza sì – indipendenza no.
E in questi casi “Tertium non datur”.
Quindi
non c'era spazio per nessun negoziato.
Poi,
in seguito ai primi rovesci, la Russia ha cambiato programma ed ora vuole
soltanto una parte dell'Ucraina.
Ma quale e quanta parte?
Questo si deciderà secondo come penderà la
bilancia della guerra.
E
poiché attualmente siamo in una situazione di stallo, e questo stallo potrebbe
terminare in seguito all'arrivo di armi migliori per l'Ucraina, è ovvio che uno
sblocco potrà aversi dopo che avremo visto se l'arrivo di queste armi cambia la
situazione sul terreno.
Secondo
la posizione dell'ago della bilancia in quel momento; secondo la sensazione che
ciascuno avrà della propria forza;
secondo gli effetti, vantaggiosi o
svantaggiosi, che ognuno spererà dalla prosecuzione della guerra, si potrà
avviare una discussione.
E questo ci mostra quanto lontani ne siamo
oggi.
Ancora
attualmente, i contendenti vogliono l'intera posta in gioco.
E questo è impossibile.
Come
impossibili sono le trattative di successo, Macron o non Macron, Papa o non
Papa.
(Gianni
Pardo)
Il
Fanta-Zelensky.
Indovina
cosa chiederà il premier ucraino.
Alessandrorebecchi.it-
Il Fatto Quotidiano – (1°-2-2023) – ci dice:
PIOVONO
PIETRE Più del fantacalcio, tragicamente imprevedibile, più del fanta Sanremo,
gioco di società per famiglie, impazza da mesi il fanta Zelensky, incentrato
sulla capacità di indovinare le richieste del presidente ucraino alla comunità
internazionale, ogni giorno rinnovate, anche con una certa capacità di
sorpresa.
Per dire: è dell’altro ieri la strabiliante
richiesta (alla Germania) di sommergibili (!), richiesta che segue la richiesta
di carri armati, che segue la richiesta di caccia F-16, che segue la richiesta
di missili a lunga gittata, eccetera, eccetera.
Ci sveglieremo una mattina con la pressante
richiesta di gas nervino?
Di
testate nucleari?
La
politica italiana, che ubbidisce agli ordini battendo i tacchi, aumenta al due
per cento del Pil la spesa in armi:
“Riempire
gli arsenali e svuotare i granai” è la parola d’ordine, accolta con grandi
applausi da parte del novanta per cento (abbondante) di giornali, tivù, e in
generale degli apparati informativi del paese.
In
attesa degli sviluppi militari (non entro nelle questioni belliche) e degli
sviluppi della propaganda (non entro nelle polemiche sanremesi), balza agli
occhi una questione generale – diciamo così strutturale della nostra democrazia
– su cui vale la pena riflettere.
L’opinione
pubblica sembra scollata, distante, lontanissima dall’opinione dei media.
Senti
la gente, guardi i sondaggi e apprendi che la maggioranza degli italiani è
contraria ad ulteriori invii di armi in zona di guerra;
poi leggi i grandi giornali, o ascolti un
qualunque telegiornale, o notiziario, e la sensazione è quella opposta:
appoggio
incondizionato, avanti fino alla vittoria finale, eccetera, eccetera.
Uno
scollamento strabiliante, non nuovo ma mai visto in queste dimensioni, con le
storture e le anomalie che ne seguono.
La
prima, macroscopica, infantile e un po’ miserabile, l’accusa di “stare con
Putin” a chiunque immagini soluzioni diverse dalla guerra a oltranza;
quindi
chi pronuncia parole come “cessate il fuoco” o “trattative” diventa una specie
di Rasputin assetato di sangue alle dipendenze del Cremlino.
La
seconda, un po’ ridicola, è la voluta confusione storica per cui la Russia (la Russia
di Putin, quel mefitico concentrato di nazionalismo che ha privatizzato le
ricchezze del paese) sarebbe ancora sovietica quando fa comodo, o imperiale
quando fa comodo, bolscevica se serve, a piacere.
Terzo
elemento, piuttosto inquietante, la necessità – data dallo spirito embedded della
stragrande maggioranza dei media – di nascondere accuratamente i limiti, diciamo così,
della presunta democrazia ucraina.
Tanto
che quando Zelensky fa pulizia di alcuni politici e funzionari corrotti,
pochissimi notano – e tutti tra le righe – che la giustizia in Ucraina è
assoggettata al potere politico, che si sono messi fuori legge partiti, chiusi
giornali, si sono unificate reti televisive e altre cosucce ancora.
“L’Ue insiste da mesi che il sistema
giudiziario ucraino sia reso indipendente”, scrive il Corriere della Sera come
en passant, un inciso, un apostrofo rosa tra le parole: stiamo riempiendo di armi un paese
non Ue che non ha nemmeno lontanamente i requisiti per entrarci.
La
sensazione è che ci siano due opinioni pubbliche: quella dei cittadini, oltre
il 50 per cento contrari a nuovi invii di armi, che conta pochissimo, e quella
dell’informazione (vorrei dire delle élite) che invece è favorevole al 98 per
cento e pesa parecchio.
Uno
scollamento che è un dato di fatto, non positivo in una democrazia, comunque la
si pensi sulla guerra, sulle armi e su Sanremo.
NO
ALLA NUOVA EMERGENZA E ALLA
DICHIARAZIONE
DELLO STATO DI GUERRA.
Generazionifuture.org
– (25-2-2022) – Ugo Mattei – ci dice:
A nome
del CLN condivido questo comunicato con preghiera di massima diffusione. Prego
tutti i cittadini che vogliono restare critici e liberi a non credere per un
secondo alla propaganda di guerra disgustosa e insopportabile che ci verrà
propinata nelle prossime settimane.
È in corso un evidente tentativo dell’asse
angloamericana di impedire amichevoli rapporti fra Europa e Russia.
Ovviamente
gli stessi interessi guerrafondai dei democratici di Biden sono quelli del
regime draghista.
Essi nulla hanno a che fare con quelli del
popolo italiano che, a causa di questa irresponsabile e incostituzionale follia
guerrafondaia, si ritroverà ulteriormente impoverito e depredato del patrimonio
storico dei suoi ottimi rapporti con la grande cultura russa.
Sappiano
gli italiani che ad oggi per stare nella NATO spendiamo quasi 80 milioni di
Euro al giorno che il complesso militare industriale USA vuole farci portare a
100.
Questi
interessi spiegano la situazione in Ucraina. (Ugo Mattei)
Allarmante
la notizia della convocazione del Consiglio Supremo di Difesa da parte del
Presidente Mattarella.
Gridiamo
il nostro no a una nuova terribile emergenza e alla dichiarazione dello stato
di guerra.
Il CLN
(Comitato di Liberazione Nazionale) chiede al Parlamento italiano, cui spetta
pronunciarsi al riguardo, di adottare una posizione neutrale da parte dell’Italia
nell’attuale conflitto russo-ucraino, preferendo la via diplomatica alla
guerra.
Si
richiede pertanto di attenersi a quanto sancito dall’articolo 11 della nostra
Costituzione:
«L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo».
Lungi dalle ricostruzioni parziali dei media
di massa, si precisa inoltre che l’attuale crisi ucraina va inquadrata
nell’attacco lanciato dalla NATO contro la Federazione Russa, mirato a
smembrarla per il controllo egemonico dell’Eurasia.
È questo il contesto nel quale va inserito il
colpo di Stato del 2014 nella “Euromaidan”, teatro di un’ennesima operazione di
“regime-chance”, che ha visto in azione formazioni paramilitari neonaziste e
cecchini georgiani che sparavano contemporaneamente su polizia e manifestanti
per infiammare la rivolta e inglobare l’Ucraina nella sfera di appartenenza
occidentale.
Le
vessazioni contro la popolazione russa del Donbass, presto degenerate in veri e
propri scontri, sono sfociate in un’offensiva che negli ultimi mesi ha visto
l’impiego di sistemi missilistici a lancio multiplo BM-21 Grad posizionati
lungo la linea di contatto in aperta violazione ai Protocolli di Minsk I e
Minsk II.
Un’ennesima
provocazione, alla quale Vladimir Putin questa volta ha risposto.
Al di
là delle ragioni e dei reciproci interessi dei protagonisti sulla scacchiera
geopolitica, il conflitto, che ora rischia di trascinare il mondo nel caos, non
vedrà né vinti e né vincitori e colpirà pesantemente l’Europa che solo ora si
sta lentamente lasciando alle spalle l’emergenza pandemica.
Per
questo, il CLN chiede al Governo di riferire in Parlamento e di attenersi al
rispetto dell’articolo 11 della Costituzione italiana.
CHI
FURONO LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO?
Encyclopedia.ushmm.org
– Redazione – (20-1-2022) – ci dice:
Il
regime nazista perseguitò diversi gruppi per motivi ideologici. Gli Ebrei
furano i principali bersagli delle persecuzioni sistematiche e dello sterminio
di massa da parte dei Nazisti e dei loro collaboratori. Le politiche naziste
portarono anche alla brutalizzazione e alla persecuzione di milioni di altri.
Le politiche naziste nei confronti di tutti i gruppi di vittime furano brutali,
ma non identiche.
EVENTI
PRINCIPALI.
1 -Alcuni
furono presi di mira in quanto minacce alla Germania per motivi razziali, come
gli Ebrei europei e i Rom (zingari).
Le
persone con disabilità, invece, venivano considerate una minaccia “biologica” e
un onere finanziario per lo stato.
2- Le
autorità naziste presero anche di mira gli oppositori politici tedeschi, gli
omosessuali, gli “asociali” e i Testimoni di Geova, sostenendo che il loro
comportamento rappresentava un pericolo per la “comunità nazionale”.
3- Dopo
lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il numero dei gruppi di vittime si
estese fino a comprendere Polacchi, prigionieri di guerra sovietici, cittadini
sovietici e altri.
Chi
furono le vittime dell’Olocausto?
Tutti
gli Ebrei d’Europa vennero sistematicamente presi di mira dal regime nazista
con l’obiettivo di eliminarli. I Nazisti consideravano gli Ebrei una “minaccia
mortale” per la “razza” tedesca.
Due
terzi degli Ebrei europei, ovvero sei milioni, furono uccisi dalla Germania
nazista e dai suoi collaboratori.
Quali
altri gruppi furono vittime dei Nazisti e perché?
I Rom
e i Sint erano visti come la “piaga degli zingari”, un popolo “inferiore” a
livello razziale, con abitudini criminali. Ne furono uccisi fino a 250.000 in
tutta Europa.
I
tedeschi con disabilità fisiche e mentali erano considerati “inutili bocche da
sfamare” e “difettosi” da un punto di vista razziale. 250.000 furono uccisi.
I
Polacchi erano visti come slavi “subumani”. Subirono una brutale occupazione
tedesca. Decine di migliaia di membri delle élite polacche furono uccisi o
imprigionati come potenziali leader della resistenza polacca.
Anche
i soldati sovietici catturati erano visti come slavi “subumani”. I Nazisti
ritenevano che fossero parte della “minaccia giudeo-bolscevica”. 3,3 milioni di
soldati sovietici morirono durante le esecuzioni o per fame e maltrattamenti
intenzionali.
Diversi
altri gruppi furono presi di mira. Tra questi vi erano avversari politici,
reali o presunti, Testimoni di Geova, uomini accusati di aver compiuto atti
omosessuali, e persone considerate “asociali”.
Queste
categorie rientrano nelle le centinaia di migliaia di vittime imprigionate e
uccise nei campi di concentramento.
Morirono
di fame, malattia, lavori forzati, maltrattamenti, o pura e semplice
esecuzione.
Lo
sterminio degli Ebrei d’Europa nell’Olocausto.
Nell’ideologia
nazista, gli Ebrei non erano visti solo come esseri alieni e biologicamente
“subumani”.
Erano
anche considerati un “nemico mortale”.
I
Nazisti ritenevano che gli Ebrei danneggiassero la forza e la purezza della
razza tedesca.
Secondo i Nazisti, gli Ebrei dovevano essere
distrutti per garantire la sopravvivenza a lungo termine delle persone “di
sangue tedesco”.
Negli
anni Trenta, questo determinò l’emigrazione forzata degli Ebrei dalla Germania
e l’Austria annessa.
L’impegno in tal senso si intensificò durante
la seconda guerra mondiale.
Durante
tutta la guerra, altri milioni di Ebrei passarono sotto il controllo tedesco. La politica antiebraica si trasformò
in omicidio di massa, poi in un genocidio sistematico.
Non
solo gli Ebrei tedeschi, ma tutti gli uomini, le donne e i bambini ebrei che si
trovavano alla portata della Germania nazista vennero sistematicamente presi di
mira per venire eliminati.
Questa
misura fu definita come la “Soluzione finale alla questione ebraica in Europa”.
Gli
Ebrei avevano vissuto in Europa per secoli prima che i Nazisti salissero al
potere.
Nel
settembre del 1939 scoppiò la Seconda Guerra Mondiale.
A quel
tempo gli Ebrei vivevano in 20 paesi europei in cui, durante la guerra,
funzionari e collaboratori nazisti avrebbero cercato di ucciderli.
Due
terzi, ovvero sei milioni, degli Ebrei europei, furono assassinati dalla
Germania nazista e dai suoi collaboratori.
Questo
totale comprende circa 1,5 milioni di bambini, dai neonati ai ragazzi di 17
anni
.
Circa il 75%, ovvero 4,5 milioni degli Ebrei uccisi, viveva in Polonia,
nell’Unione Sovietica e in altre parti dell’Europa orientale.
Per
ragioni storiche, le popolazioni ebraiche erano più numerose in queste zone.
Le
vittime ebree appartenevano ad ogni estrazione sociale, ricchi e poveri,
ortodossi e laici, e si distribuivano sull’intero spettro politico, da sinistra
a destra.
Gli
Ebrei non furono presi di mira semplicemente per la loro religione.
I Nazisti li classificavano sulla base del
loro “sangue” o della loro presunta “razza”.
Di
conseguenza, anche i protestanti e i cattolici i cui genitori o nonni erano
Ebrei divennero vittime della persecuzione e del genocidio nazista.
Come
riuscirono alcuni Ebrei a sopravvivere all’Olocausto?
Una
piccola minoranza riuscì a raggiungere rifugi sicuri durante gli anni Trenta.
Nessun paese aprì completamente le proprie porte ai rifugiati ebrei.
La guerra creò inoltre molte più barriere
all’immigrazione.
Alcuni
Ebrei sopravvissero alla prigionia nei campi nazisti o in clandestinità.
Altri
sopravvissero vivendo in territori non occupati dell’Unione Sovietica, lontani
dal fronte militare.
Dopo
la guerra, molti Ebrei vissero in campi per sfollati.
Alcuni
vissero lì per anni, perché non potevano tornare alle loro case e
l’immigrazione era ancora molto difficile.
Alla
fine, molti sopravvissuti emigrarono in Palestina e negli Stati Uniti.
Altri emigrarono in Canada, Australia,
Sudafrica e America Latina.
Altri
gruppi vittime della Germania nazista e dei suoi collaboratori.
Rom e
Sint additati come minaccia razziale e socialmente “devianti”.
Rom
(Zingari) vengono deportati a Kozare e Jasenovac, due campi di concentramento
istituiti dai Croati.
Rom
(Zingari) vengono deportati a Kozare e Jasenovac, due campi di concentramento
istituiti dai Croati. Jugoslavia, luglio 1942.
Informazioni
dall'archivio.
Spesso
definiti come “zingari”, i membri di questa minoranza etnica sono organizzati
in gruppi distinti chiamati “tribù” o “nazioni”.
I Sint
erano generalmente predominanti in Germania e nell’Europa occidentale.
I Rom
provenivano principalmente dall’Austria e dall’Europa orientale e meridionale.
Rom e
Sint erano considerati dai Nazisti come “asociali” (cioè al di fuori della
società considerata “normale”), di razza “inferiore”, e additati come la
cosiddetta “piaga degli zingari”.
Si
stima che un milione di membri di questa minoranza vivesse in Europa prima
della guerra.
Fino a
250.000 di loro furono uccisi dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori
durante la guerra.
Uomini,
donne e bambini furono vittime del genocidio e inclusero sia Rom e Sint nomadi,
il cui numero era in declino negli anni Trenta, sia le persone con fissa dimora
in città e villaggi.
Nella
Germania nazista alcuni individui identificati come “zingari” furono anche
sterilizzati contro la loro volontà.
Un
ulteriore numero imprecisato di Rom e Sint fu imprigionato nei campi di
concentramento perché considerato “asociale”.
Tedeschi
disabili presi di mira come minaccia razziale e peso per la società.
Le persone
con disabilità fisiche e mentali considerate ereditarie furono prese di mira
dai Nazisti.
I Nazisti consideravano questi individui
biologicamente “difettosi” e fonte di spreco delle risorse nazionali.
La
propaganda nazista li dipingeva come “inutili bocche da sfamare”.
Una
legge venne emanata nel 1933 con lo scopo di impedire la nascita di bambini con
“difetti genetici”.
La
stessa legge prevedeva inoltre la sterilizzazione forzata (Visualizza questo
termine nel glossario delle persone cui erano state diagnosticate determinate
patologie mentali o fisiche).
Si
stima che siano stati sterilizzati da 300.000 a 400.000 individui, maschi e
femmine.
Tra le
persone sterilizzate c’erano molti giovani adolescenti.
I
Nazisti usarono l’“emergenza nazionale” della guerra come copertura.
Nel
1939 il regime intensificò le politiche contro le persone disabili.
I
pazienti disabili che vivevano in istituti di salute mentale e altre strutture
di cura vennero presi di mira per l’eliminazione.
Un totale di 250.000 persone fu ucciso
nell’ambito del programma segreto “T-4” e dei relativi programmi di “eutanasia”
condotti all’interno della Grande Germania.
La
maggior parte delle vittime erano di etnia tedesca, non ebrea.
Tra le
vittime ci furono circa 7.000 bambini.
Le vittime del programma T-4 furono uccise in
camere a gas camuffate da docce, la prima volta in cui venne utilizzato questo
metodo di omicidio e inganno.
Polacchi
presi di mira come minaccia razziale e politica.
Nell’ideologia
nazista, i Polacchi erano considerati come esseri “subumani” che occupavano
terre di vitale importanza per la Germania.
I
Nazisti miravano a impedire la formazione di una Resistenza polacca organizzata
a seguito dell’invasione della Polonia da parte della Germania nel settembre
del 1939.
Nell’ambito
di questa politica, le forze naziste uccisero o imprigionarono decine di
migliaia di uomini e donne delle élite polacche.
Tra le vittime vi erano ricchi proprietari
terrieri, membri del clero, funzionari governativi, insegnanti, medici,
dentisti, ufficiali militari e giornalisti.
I cittadini polacchi meno istruiti, tra cui
molti giovani uomini e donne, furono trasportati in Germania per il lavoro
manuale, la maggior parte contro la loro volontà.
Lì, i
circa 1,5 milioni di Polacchi, insieme ad altri provenienti dall’Europa
orientale, furono oggetto di una dura discriminazione.
Centinaia
di uomini polacchi furono giustiziati per aver avuto rapporti sessuali con
donne tedesche.
I Nazisti consideravano questi atti
“profanazione razziale”.
Prigionieri
di guerra sovietici considerati una minaccia razziale e politica.
Molti
militari sovietici furono catturati dall’esercito tedesco dopo l’invasione
dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941.
I soldati erano visti come slavi “subumani” e
parte della minaccia “giudeo-bolscevica”.
Il
mito del giudeo-bolscevismo sosteneva che il comunismo era un complotto ebraico
architettato a spese dei tedeschi.
In
totale, 3,3 milioni di prigionieri di guerra (POW) sovietici, comprese donne
soldato, morirono a causa di esecuzioni capitali, fame, malattie, esposizione
agli agenti atmosferici, percosse e altri maltrattamenti.
Il
trattamento tedesco dei prigionieri di guerra sovietici violava la Convenzione
di Ginevra e ogni standard di guerra.
In
confronto, la maggior parte dei prigionieri di guerra britannici e americani
sopravvisse alla prigionia tedesca in quanto l’ideologia nazista li considerava
propri pari a livello razziale.
Prigionieri
politici e altri prigionieri dei campi di concentramento nazisti.
Gli
oppositori politici in Germania furono i primi prigionieri dei campi di
concentramento nazisti.
Questa
categoria di prigionieri comprendeva attivisti antinazisti, dissidenti
dichiarati e membri di gruppi di resistenza europei.
A un
certo punto arrivò a includere anche persone solo sospettate di sentimenti
antinazisti o che avevano criticato o deriso privatamente il regime nazista.
Un numero indeterminato di uomini e donne
imprigionati per ragioni politiche morirono per varie cause o furono uccisi.
I
Testimoni di Geova erano un’organizzazione religiosa.
Nel
1933 in Germania vi erano circa 20.000 membri.
Come parte dei vincoli della loro fede, i
Testimoni di Geova si rifiutavano di giurare fedeltà a qualsiasi governo e di
partecipare ai combattimenti a fianco di qualsiasi nazione.
Per
quanto piccolo fosse il movimento, esso minacciava le richieste naziste di
totale fedeltà a Hitler e allo stato.
Circa
1.900 Testimoni di Geova morirono nei campi di concentramento.
La
maggior parte delle vittime erano uomini di nazionalità tedesca.
Gli
omosessuali erano visti dai Nazisti come socialmente “devianti”.
I Nazisti
li consideravano un pericolo per le politiche naziste volte ad aumentare la
natalità tedesca.
Tra il 1933 e il 1945, circa 100.000 uomini
furono arrestati in Germania ai sensi del Paragrafo 175 del Codice penale
tedesco.
Dei
50.000 uomini condannati come “vittime del § 175”, tra i 5.000 e 15.000 furono
imprigionati nei campi di concentramento.
Centinaia,
forse migliaia, morirono a causa dei maltrattamenti.
Tra
gli “asociali” vi erano disoccupati e senzatetto, beneficiari dell’assistenza
sociale, prostitute, mendicanti, alcolisti e tossicodipendenti.
Scenari.
Le “persone inutili” di Yuval Harari e
la
negazione del libero arbitrio.
Conquistadellavoro.it
– Raffaella Vitulano – (28-6-2022) – ci dice:
Li
definiscono intellettuali famosi, Yuval Noah Harari e Slavoj Zizek, anche se
quest’ultimo sussulta quando viene chiamato così.
Diverse
le loro specializzazioni accademiche: storia medievale per Harari, filosofia
hegeliana e psicoanalisi lacaniana per Zizek.
Al più
grande festival di filosofia del mondo, “How The Light GetsIn”, si sono
confrontati sulla questione della natura: amica o nemica?
La
risposta non è sorprendentemente sfumata: la natura non è né nostra amica né
nostra nemica.
Stiamo
per entrare in un’era post-natura e questo cambierà tutto.
Dopo
un lungo periodo di pensiero illuminista che ha visto la natura conquistata
dalla ragione e domata dalla tecnologia, il suo posto nella società è tornato
in grande stile, anche grazie alla pandemia di Covid e alla crisi climatica.
Per
Harari e Zizek la natura non è né buona né cattiva, è semplicemente al di fuori
della moralità.
L’idea che le innovazioni guidate dall’uomo e
gli incidenti come i reattori nucleari, il vaccino contro il Covid-19 o persino
la guerra in Ucraina siano “naturali” può suonare strano.
Ma
dato che la loro esistenza non viola nessuna legge naturale e sono fatti dello stesso
materiale fisico di tutto il resto, allora in un certo senso lo sono.
Siamo
sul punto di creare quelle che Harari chiama “forme di vita inorganiche”,
riferendosi all’Intelligenza Artificiale avanzata.
E vedrete se non le considereremo come naturali.
Al
Festival di Filosofia si concorda:
stiamo
per cambiare la nostra composizione biologica, cambiando la nostra natura in
modi radicali.
Questo
potrebbe eccitare alcuni transumanisti e scienziati che sono concentrati
sull’uso di questi strumenti per risolvere problemi ristretti e specifici nei
loro campi, ma Harari ha un tono più cupo e mette in allerta.
Questo è ciò che hanno sognato dittatori
spietati.
In passato, quando i dittatori cadevano,
almeno ciò che lasciavano dietro di loro era ancora umano.
In
futuro, potrebbe non essere più così.
Stalin,
interviene Zizek, voleva fare esattamente questo:
creare
un esercito di lavoratori geneticamente modificati che potessero lavorare oltre
i limiti di qualsiasi essere umano e sopravvivere con un minimo di
sostentamento e provviste di base.
“Il
problema non è se saremo ridotti in schiavitù dalle macchine, ma che questa
schiavitù rafforzerà la divisione tra gli umani”, ha detto Zizek.
“Alcune persone ci controlleranno e altre saranno
controllate”.
Se ingegnerizziamo
geneticamente gli esseri umani per essere più intelligenti, più coraggiosi, più
efficienti, ciò alla fine porterà alla scomparsa di tutte le nostre altre
caratteristiche, quelle che saranno ritenute meno desiderabili dagli ingegneri
dell’umanità.
La selezione di alcune funzionalità
significherà la scomparsa di altre.
“Se
dai loro la tecnologia per iniziare a incasinare il nostro Dna, per iniziare a
incasinare i nostri cervelli, multinazionali ed eserciti potrebbero amplificare
alcune qualità umane di cui hanno bisogno, come la disciplina.
Nel
frattempo, potrebbero sminuire altre qualità umane come la compassione o la
sensibilità artistica o la spiritualità”: detto dal transumanista Yuval Noah
Harari, consulente chiave del” World Economic Forum di Davos e di Klaus
Schwab”, l’allarme suona ipocrita.
Suona allarmante invece il fatto che pensi che
il libero arbitrio sia un “mito pericoloso”.
Un
punto su cui il neurochirurgo Michael Egnor lo contesta con forza:
“La negazione del libero arbitrio è una pietra
angolare del totalitarismo. Senza il libero arbitrio, siamo bestiame senza
diritti”.
Lo
storico Yuval Noah Harari è anche coautore con Thierry Malleret di “Covid-19:
The Great Reset”.
E in
una domanda rivela tutta la sua vera ideologia:
“Cosa
fare nei prossimi decenni con tutte le persone inutili?”.
Una
classe dirigente si interrogherà con “noia” su cosa fare di loro dato che “sono
fondamentalmente privi di significato, senza valore”.
Harari
calpesta così le orme di Aldous Huxley durante la sua famigerata conferenza
“Ultimate
Revolution”
del 1962 al Berkley College:
“La
mia ipotesi migliore, al momento è una combinazione di droghe e giochi per
computer come soluzione finale per la maggior parte di loro. Penso che una
volta che sei superfluo, non hai potere”.
L’apoteosi
del pensiero eugenetico affiora nel ruolo della tecnologia nella creazione di una
nuova classe inutile globale “post-rivoluzionaria”, per sempre sotto il dominio
dell’emergente “casta alta” di élite dai colletti d’oro di Davos e di Klaus
Schwab.
La
casta alta che domina la nuova tecnologia non sfrutterà i poveri. Semplicemente
non avrà bisogno di loro.
E sarà
molto più difficile ribellarsi all’irrilevanza che allo sfruttamento.
Yuval
è elogiato da Klaus Schwab, ma anche da Barack Obama, Mark Zuckerberg e Bill
Gates, che hanno recensito l'ultimo libro di Harari sulla copertina del New
York Times Book Review.
Per
lui la morale, proprio come Dio, il patriottismo, l’anima o la libertà, sono
concetti astratti creati dall’uomo che non hanno alcuna esistenza ontologica
nell’universo meccanicistico, freddo e in definitiva senza scopo in cui si
presume che esistiamo.
Le relazioni umane diventano insignificanti a
causa di sostituti artificiali.
I
poveri muoiono ma i ricchi no.
È
questa la rivoluzione industriale incentrata sull’intelligenza artificiale.
Ma il
prodotto questa volta non saranno tessuti, macchine, veicoli e nemmeno armi, il prodotto questa volta saranno gli
stessi umani, corpi e menti, conclude Harari, precisando infine che le “persone inutili” a cui fa riferimento il consulente
del “Wef” di Klaus Schwab saranno quelle che rifiuteranno di ricevere le
capacità di intelligenza artificiale nei prossimi decenni.
Descrivendo
gli esseri umani come “animali hackerabili”, Harari crede che le masse non avrebbero molte
possibilità contro questi cambiamenti anche se dovessero organizzarsi.
(Raffaella
Vitulano - 28 giugno 2022).
Harari
è
l’ideologo del
“grande
reset” di Klaus Schwab
e
Thierry Malleret.
Francesadonato.eu
– Francesca Donato e Carlo Freccero – (29 Dic. 2022) -ci dicono:
Il
grande reset è alimentato da una grande narrazione.
Uno
dei volti di questa narrazione è lo scrittore israeliano Harari.
I suoi
testi ed i suoi interventi sono riproposti in modo sempre più insistente nella
nostra società tradotti e distribuiti in decine di lingue e paesi.
Ho
letto con grande interesse questo articolo di Carlo Freccero, che qui
ripropongo.
Un
articolo pubblicato da La Verità, il primo che mi risulti su un grande
quotidiano, che evidenzia la pericolosità di questa narrazione, fortemente
ideologica, che apre verso un transumanesimo che io vedo pericoloso nella
misura in cui propone con arroganza una direzione che sembra volere tradire
l’uomo per come lo conosciamo il nome di una parola, fortemente ridisegnata in
questi anni: scienza.
Caro
Guerrieri, attenzione ad Harari. È lui l’ideologo del Grande Reset.
(
Carlo Freccero).
Ho
letto con piacere ed attenzione la bella intervista rilasciata a “Caverzan” da
Giordano Bruno Guerri.
È un insieme di affermazioni di buon senso con
cui non si può essere d’accordo.
Ma c’è
un punto che mi ha stupito.
Guerri
si dice affascinato, tra gli autori moderni, dai libri di Yuval Noah Harari.
Identifica Harari con autore letterario, mentre per me è molto di più.
È l’autore del copione che da tre anni va in
onda nella vita reale ad opera del” World Economic Forum” di Klaus Schwab.
È il teorico del futuro che ci aspetta tra
breve.
È un
utopista con una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri utopisti
della storia.
Le
loro fantasie erano ambientate in un NON LUOGO (UTOPIA) a testimonianza del
fatto che il loro stesso autore le riteneva irrealizzabili.
L’ utopia di Harari si chiama Grande Reset, ed è in corso di attuazione, a
tappe forzate, a partire dalla famosa pandemia che Klaus Schwab ha definito un’occasione
irripetibile di cambiamento del mondo.
Klaus
Schwab esprime questo concetto nel suo libro più famoso “COVID 19 THE GREAT RESET” scritto a quattro mani con Thierry Mallaret.
E
descrive invece nel dettaglio la natura di questo cambiamento in un’opera
precedente (LA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, con prefazione, nell’edizione
italiana di John Elkann) e successiva (GOVERNARE LA IV RIVOLUZIONE INDUSTRIALE) in cui si parla apertamente di
fusione della natura umana con l’intelligenza artificiale emergente.
Ciò
sarebbe possibile con un’agenda dì digitalizzazione che i governi di tutto il
mondo hanno recepito e fatto propria.
Due
temi, l’agenda digitale e l’agenda verde, sono al centro del cambiamento
epocale in atto sul pianeta.
L’uomo
deve cambiare la sua stessa natura diventando dipendente dall’agenda digitale.
Contestualmente
deve ridimensionare i suoi consumi alimentari ed energetici per limitare un
riscaldamento globale che le élite ritengono incontestabile, ma che molti esimi
scienziati ritengono invece pretestuoso.
Ma
cosa c’entra Yuval Noah Harari con Klaus Schwab?
Schwab non è abbastanza rassicurante.
C’è in Schwab, nel suo accento tedesco, nella
sua postura rigida e quasi militare, qualcosa di inquietante.
Ed
ecco che, nel tempo, l’immaginifico Harari ha sempre più conquistato il centro
della scena ed è diventata la voce ufficiale dei forum di Davos.
D’altronde
Harari non è uno scrittore come gli altri.
Il suo
successo è il risultato della sua identificazione col sistema. I suoi libri sono best sellers
assoluti ed hanno stampato milioni di copie in tutti i paesi del mondo.
Il suo
libro” SAPIENS – BREVE STORIA DELL’UMANITÀ” è stato tradotto in trenta lingue.
Il
successivo “HOMO DEUS” ha avuto una visibilità ed un rilievo anche maggiore. Ma non si tratta di un caso: Il
sistema lo impone.
Harari
ha tenuto lezioni obbligatorie in tutte le grandi aziende di Silicon Valley,
con lo scopo di procedere alla formazione della nuova classe dirigente.
I suoi
libri sono la bibbia del mondo che sta per nascere.
E non
uso il termine a caso perché Harari vuole sostituire il nuovo “HOMO DEUS” agli
dei del passato che erano, secondo lui, compreso Gesù Cristo, fake news.
Nel passato l’evoluzione si è svolta
naturalmente.
Oggi una élite di filantropi è in grado di
prendere in mano il progetto evolutivo dell’uomo e del pianeta, per costruire
forme di vita inorganica ed ibrida.
Harari
viene definito transumanista e questa visione del transumanesimo ha fatto sì
che la parola transumanesimo significhi oramai qualcosa di agghiacciante.
Qualche
anno fa ero interessato al transumanesimo come prosecuzione e completamento
ideale dell’umanesimo rinascimentale.
L’umanesimo ha prodotto filosofia, sapere,
bellezza.
La frase che meglio definisce l’umanesimo è la
famosa definizione di Pico della Mirandola che afferma che l’uomo può scegliere
cosa diventare: degenerare nell’animalità o ascendere alla natura divina, con
una semplice decisione della sua anima.
È un
appello a migliorarsi, crescere, elevarsi.
Per
Harari e per le élite di cui è espressione, i due ruoli, animale e divino,
devono separarsi e non saranno più oggetto della scelta di ciascuno di noi.
Le élite saranno i nuovi dei, gli uomini normali
saranno respinti nel regno animale e come animali saranno allevati e
controllati per non alterare l’equilibrio del pianeta.
Sopravviveranno
a scopi utilitaristici per integrarsi nell’agenda digitale e nella vita
inorganica.
E dice queste cose apertamente, senza
procurare nessuna relazione, ma solo ammirazione nei suoi ascoltatori, diretti
interessati e vittime designate dai suoi progetti.
Capisco
il fascino che un autore come Harari può suscitare, soprattutto per la presunta
modernità di certe sue argomentazioni.
Tuttavia
bisogna vigilare sulle trappole i falsi miraggi che il suo pensiero ci
prospetta.
(FRANCESCA
DONATO e Carlo
Freccero).
TECNOLOGIA
E CONTROLLO.
Il WEF
propone nuovi
metodi di
censura
basati sul
potenziamento dell’IA.
Lindipendendente.online
– Giorgia Audiello – (17 agosto 2022) – ci dice:
Il “World
Economic Forum” (WEF) ha recentemente proposto nuovi metodi per monitorare e
censurare dalle piattaforme social quelle che vengono definite «opinioni
estreme», disinformazione e materiale pedopornografico. In un articolo intitolato «La
soluzione agli abusi online? Intelligenza artificiale (IA) più intelligenza
umana», si sostiene che i metodi di controllo tradizionali sui social network
non siano più efficaci e occorra, dunque, potenziare l’IA tramite nuovi set di
apprendimento che le consentano di raccogliere informazioni da «milioni di
fonti», rendendola così in grado di “decifrare” l’intelligenza umana e di
bloccare i contenuti “nocivi” prima ancora che arrivino sulle reti social.
Sebbene
il WEF tenga a precisare che l’articolo rappresenta l’opinione dell’autrice – Inbal Goldberger – esso, essendo ospitato sul suo sito
ufficiale, non può che rappresentare almeno in parte anche i programmi della
celebre organizzazione internazionale.
Considerato peraltro che il suo fondatore – Klaus Schwab – è un fervente sostenitore delle
tecnologie più avanzate e dell’IA, appartenendo alla schiera degli adepti della
“nuova religione tecno-scientista”.
Nel
mondo occidentale sedicente democratico non è la prima volta che si tenta di
disciplinare ed eventualmente censurare i contenuti della rete dietro
l’espediente subdolo della disinformazione e della sicurezza degli utenti,
coniando nuove espressioni come “incitamento all’odio” e “opinioni estreme” assolutamente vaghe e sotto il cui
ombrello potrebbe rientrare qualunque manifestazione legittima di dissenso
verso l’ideologia dominante.
Beninteso, che la rete e i social network
vadano in qualche modo disciplinati è evidente: meno chiaro, invece, è il
confine superato il quale – con il pretesto della disinformazione – si finisce per adottare una vera e
propria forma di censura mascherata.
Già
qualche mese fa, la Commissione europea aveva adottato il nuovo codice di
condotta contro la disinformazione, basato soprattutto sulla cooperazione con i
“moderatori” delle piattaforme online.
A
differenza di quest’ultima iniziativa europea, la proposta dell’autrice del WEF
si affida incondizionatamente alle risorse delle tecnologie avveniristiche,
limitando sempre di più il contributo umano in favore del potenziamento dell’IA e
proiettandoci così in uno scenario dalle tinte distopiche.
È
evidente, infatti, come ci si muova nella direzione di un sempre maggiore
controllo dei pensieri e delle opinioni delle persone da parte degli algoritmi,
tanto che Yuval Noah Harari – anche lui membro del WEF – ha dichiarato che
«entro 10, 20 o 30 anni tali algoritmi potrebbero anche dirti cosa studiare al
college e dove lavorare, chi sposare e persino per chi votare».
Nello
specifico, nell’articolo si sostiene che gli attuali metodi di controllo dei
contenuti siano inefficaci per diverse ragioni:
innanzitutto la rapidità con cui i
responsabili degli abusi adottano tattiche sempre più sofisticate per eludere i
rilevamenti e, in secondo luogo, i limiti dell’IA stessa.
Quest’ultima,
infatti, non è in grado di distinguere i contesti (ad esempio, non è in grado
di capire se l’immagine di un nudo appartenga ad un contesto pornografico
piuttosto che a un’opera d’arte figurativa), né di rilevare minacce in lingue
nelle quali non è stata addestrata.
A
differenza dell’IA, i moderatori umani possono capire più lingue e interpretare
diverse culture:
«questa
precisione, tuttavia, è limitata dalla specifica area di competenza
dell’analista», si legge nell’articolo.
In
generale, la tesi di fondo è che gli sforzi combinati di intelligenza umana e
IA «non sono ancora sufficienti per rilevare in modo proattivo i danni prima
che raggiungano le piattaforme», che sarebbe l’obiettivo ultimo per garantire
un controllo veramente efficace dei contenuti della rete.
Il
modo che l’autrice presenta per raggiungere questo obiettivo è «un approccio
basato sull’intelligenza»:
si tratta di introdurre negli insiemi di
apprendimento dell’IA l’intelligenza umana, integrandola al suo interno,
oltreché un sistema di acquisizione multilingue.
In questo modo, «l’IA sarà in grado di
rilevare nuovi abusi online su larga scala, prima che raggiungano le
piattaforme tradizionali».
Tutto
ciò, si legge, «ci consentirà di creare un’IA con l’intelligenza umana
integrata.
Questa
IA più intelligente diventa più sofisticata con ogni decisione di moderazione,
consentendo infine un rilevamento quasi perfetto, su larga scala».
Si
tratta, dunque, di raccogliere informazioni al di fuori dei canali social da
milioni di utenti, monitorando costantemente le persone e le idee, eliminando quindi quelle ritenute non
in linea con gli standard delle piattaforme prima ancora che approdino su
queste ultime.
È
evidente che dietro questa frenetica corsa all’individuazione di sistemi sempre
più sofisticati di monitoraggio e rimozione dei contenuti digitali vi sia non
tanto la volontà di proteggere gli utenti, quanto l’incapacità da parte delle
istituzioni di arginare un dissenso sempre più debordante, inasprito dagli
ultimi avvenimenti politici e sociali che hanno alimentato il malcontento
generale e la sfiducia negli organi rappresentativi istituzionali.
E
poiché – come sostiene anche l’eminente studioso Noam Chomsky – la società “liberal- democratica”
si fonda sul consenso, nella fattispecie un consenso artificiale costruito
attraverso tecniche ingegneria sociale, ciò non può essere tollerato.
Di
qui, il rischio che si vada nella direzione di un controllo tecnologico sulla
mente, sui comportamenti e sulle opinioni sempre più avanzato e opprimente, ma
allo stesso tempo anche abilmente dissimulato.
[Giorgia Audiello]
PAROLA
DI COMPLOTTISTA.
Orticaweb.it - Redazione Ortica Web – (8
Aprile 2022) - David Cane - ci dice:
SUMMIT
A DUBAI, STOP AL CONTANTE…
ALL’ANIMA
E AL LIBERO ARBITRIO.
SIAMO
PRONTI PER IL NUOVO ORDINE MONDIALE?
Il
covid è un’operazione pianificata con lo scopo di introdurre il Nuovo Ordine
Mondiale, distopico modello di società incentrato su un sistema di controllo e
sorveglianza totale, tanto sul piano fisico-biologico quanto su quello
mentale-comportamentale che su quello monetario-fiscale.
Se una
roba del genere la dici al bar sotto casa, o sui social, ti becchi
inevitabilmente il bollino di complottista, terrapiattista o qualche altro
epiteto dalla lunga lista degli -ista.
Anche
se è sempre più innegabile che l’affermazione corrisponde a verità.
E
anche se a dirlo sono gli stessi padroni del discorso, quelli che il complotto
lo vanno ordendo da anni – non in gran segreto bensì alla luce del sole, e
quasi sempre in diretta streaming.
Qualche
giorno fa è iniziato a Dubai il “World Government Summit” (“Summit del Governo
Mondiale”), un mega-convegno che riunisce la crème de la crème del globalismo sotto
l’egida – manco a dirlo – del Forum di Davos di Klaus Schwab.
E quasi a voler fugare ogni dubbio, l’evento
si è aperto con una sessione dal titolo illuminante:
“Siamo
pronti per il Nuovo Ordine Mondiale?”
Nel
corso della discussione, l’economista Pippa Malmgren ha dichiarato che sì, lei è pronta, e
ha spiegato anche quale sarà l’elemento chiave della grande trasformazione.
Peraltro,
è proprio ciò che avevano previsto i “deliranti complottisti” due anni fa, ma a
suo tempo era roba da TSO…
“Il
fondamento di un ordine mondiale è sempre il sistema finanziario.
E
adesso siamo sull’orlo di una radicale trasformazione.
Lo dico senza esitazioni: stiamo per
abbandonare il sistema monetario tradizionale ed introdurne uno nuovo.
E
questo nuovo sistema è il “blockchain”, la valuta virtuale, che significa la
capacità di tracciare e controllare ogni singola transazione che avviene nel
mondo.”
La stessa Malmgren ammette che il nuovo sistema porta
con sé “enormi pericoli per l’equilibrio di potere fra stato e cittadino”, ma
non sembra particolarmente preoccupata.
È chiaro però che far digerire alla gente la
valuta virtuale – e la totale abolizione del contante – non sarà una
passeggiata.
Probabilmente, e paradossalmente, si rivelerà
più difficile di quanto non sia stato imporre museruole, stecchini in ogni
orifizio e infinite iniezioni sperimentali.
Servirà
dunque il giusto pretesto – e il giusto contesto.
Ma
proprio come la devastante crisi sanitaria ha aperto le porte all’egemonia
della siringa, sarà la devastante crisi economica che le aprirà al sistema
monetario digitale.
Poco
importa che entrambe le crisi siano fondamentalmente artificiali.
E meno
male che è arrivata questa “guerretta” proprio al momento giusto, vero Klaus
Schwab?
“Il
mondo – fa notare a Dubai il signor Schwab, con quell’inconfondibile accento da
supercattivo jamesbondiano – deve affrontare non solo i danni economici e sociali
causati dal covid, ma anche le ripercussioni di un pericoloso conflitto tra
superpotenze globali.
Siamo
veramente a un punto di non ritorno nella storia.
Non
conosciamo ancora la piena portata dei cambiamenti sistemici e strutturali che
avverranno.
Ma
sappiamo con certezza che le catene di approvvigionamento energetiche,
industriali e alimentari saranno colpite in maniera profonda.”
Traduzione
dal davosiano: “preparatevi a blackout, carestie, razionamenti e hamburger di
scarafaggio.
E a
un’iperinflazione da fantascienza.
Tutta
colpa del mostro al Cremlino. Che è mio amico da 30 anni.
Per fortuna, la terribile invasione ci offre
l’opportunità perfetta per fare ciò che avevamo già in programma di fare.
” E
chi ha orecchie per intendere…
Yuval Noah
Harari,
Quanto
al ruolo della pandemia nell’implementazione di questo diabolico disegno,
nessuno è stato più chiaro o più diretto di Yuval Noah Harari, “profeta del
transumanesimo” e teorico “ufficiale” della “Quarta Rivoluzione Industriale”,
nonché consulente fidato dello stesso Schwab.
Harari
è colui che ha famosamente definito l’uomo “un animale hackerabile” e
manipolabile attraverso l’intelligenza artificiale.
“L’idea stessa che gli esseri umani abbiano
un’anima o uno spirito o un libero arbitrio è finita.
L’idea che nessuno sappia cosa succede dentro
di te, e che sei veramente tu a scegliere chi votare o cosa comprare al
supermercato… è una favoletta.
Adesso
ci sono algoritmi che ti conoscono meglio di quanto tu non conosca te stesso, e
che pertanto sono in grado di prevedere le tue scelte, manipolare i tuoi
desideri, e prendere decisioni per tuo conto”.
Da anni, Harari fantastica sulla possibilità di
“upgradare” l’uomo ed estendere la sorveglianza di massa alla sfera
dell’organismo umano, sfruttando una pletora di nanotecnologie da iniettare
direttamente all’interno del corpo: neuromodulatori, editing genetico,
theranostics, biometrica molecolare e sensori di ogni tipo, il tutto
allegramente connesso alla rete attraverso la nascitura “internet of nanothings”.
È
vero, lo stesso Harari riconosce il potenziale per una deriva distopica “mille
volte peggio di Orwell”.
Ma
alla fine il transumanista israeliano sembra convinto che queste cose possano
essere usate a fin di bene, “se solo riusciremo a fidarci della scienza, delle
autorità, e dei media”.
Alla
luce di ciò, fanno ancora più impressione le sue recenti dichiarazioni sulla
“funzione” svolta della pandemia:
“il covid è l’elemento cruciale perché è ciò
che convince la gente ad accettare e legittimare la sorveglianza biometrica
totale.
Se vogliamo fermare questa epidemia non
dobbiamo semplicemente monitorare dove vanno le persone o chi incontrano,
dobbiamo monitorare ciò che accade sotto la loro pelle.”
Insomma,
chi ancora si chiede il motivo di tutte queste iniezioni non deve far altro che
leggere fra le righe di Harari:
il ciclo della puntura perenne, in larga
parte, serve semplicemente ad abituarci al buco.
A metabolizzare l’idea che favorire il braccio
allo stato, ogni tot mesi, sia un normale prerequisito dell’esistenza.
E non appena tale dinamica sarà assimilata dalle
masse, ecco che il potere potrà dispiegare a suo piacimento, dentro di noi,
tutto quell’arsenale di giocattolini che ha già pronto in magazzino.
La
vera domanda, dunque, è un’altra: chi sono i veri complottisti?
(Yuval
Noah Harari, Pippa Malmgren, Klaus Schwab e il Summit a Dubai).
La
storia dei «mangiatori
inutili»
da
eliminare riportata dallo “Zoo di 105”
non è
di un libro di Klaus Schwab
facta.news
– Redazione – (Mag. 30, 2022) – ci dice<.
Il 30
maggio 2022 la redazione di Facta ha ricevuto diverse segnalazioni che
chiedevano di verificare l’autenticità di alcune frasi citate durante la
trasmissione radiofonica Lo Zoo di 105 del 25 maggio 2022, che secondo i
conduttori sarebbero tratte «da pagina 105» di un libro pubblicato nel 1993 da
Klaus Schwab, presidente esecutivo del World economic forum (Wef).
Nel
passaggio citato in trasmissione, disponibile al minuto 9:15 di questo video,
si sostiene che «Almeno 4 miliardi di “mangiatori inutili” saranno eliminati entro l’anno
2050 per mezzo di guerre limitate, epidemie organizzate di malattie mortali ad
azione rapida e fame.
L’energia,
il cibo e l’acqua saranno mantenuti a livelli di sussistenza per la non-élite,
iniziando con le popolazioni bianche dell’Europa occidentale e del Nord America
e poi diffondendosi ad altre razze».
La presunta citazione aggiunge che:
«La popolazione del Canada, dell’Europa
occidentale e degli Stati Uniti sarà decimata più rapidamente che negli altri
continenti, fino a quando la popolazione mondiale raggiungerà un livello
gestibile di 1 miliardo, di cui 500 milioni saranno costituiti da razze cinesi
e giapponesi, selezionate perché sono persone che sono state irreggimentate per
secoli e che sono abituate ad obbedire all’autorità senza domande».
Le
frasi riportate durante Lo Zoo di 105 non provengono da uno scritto di Schwab e
veicolano una notizia falsa.
Come
avevamo ricostruito in un precedente articolo, il passaggio oggetto della
segnalazione arriva da “Conspirators’ Hierarchy: The Story of the Committee of 300” di “John Coleman” un libro
pubblicato nel 1992 che descrive un’ipotetica organizzazione chiamata «il Comitato dei 300”, un «gruppo
onnipotente» che controllerebbe ogni aspetto del mondo.
Il
passaggio riportato durante la trasmissione radiofonica si trova a pagina 105
del testo ed è presentato come il riassunto del lavoro di un defunto membro del
comitato, che
secondo Coleman stava delineando una proposta per una «rivoluzione mondiale».
È la
fine della globalizzazione occidentale?
Huffingtonpost.it
- Rosario Cerra – (5 aprile 2022) – ci dice:
È quel
filo rosso che lega in un qualche modo le tre crisi, finanziaria del 2008,
pandemica nel 2020, bellica del 2022.
Dalle
dure lezioni di oggi ne usciremo migliori?
O
dovremo accontentarci del solito “ne usciremo!”
Stiamo
scoprendo, a nostre spese, di vivere nell’epoca dell’iper-compressione. Grandi cambiamenti tecnologici,
economico-finanziari e geopolitici si susseguono e interagiscono in tempi
rapidissimi sconvolgendo gli assetti globali.
Un filo rosso lega in un qualche modo le tre
crisi, finanziaria del 2008, pandemica nel 2020, bellica del 2022: la
globalizzazione.
Fenomeno
che ha accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica dei vari
paesi, favorito attraverso gli scambi e la specializzazione produttiva la
crescita dell’economia mondiale, ma anche innescato l’emergere di squilibri
economici, finanziari, sociali, ambientali e geopolitici per cui oggi, con
sorpresa di molti ma non di tutti, ci viene presentato il conto.
È significativo notare come l’attuale fase di
crisi metta in forte evidenza due importanti dinamiche della globalizzazione.
La
prima è riferita all’inflazione, un fenomeno che nei paesi avanzati, e
soprattutto in Europa, non destava preoccupazione da qualche decennio ma che
torna prepotentemente alla ribalta.
È stata
la globalizzazione, insieme alla diffusione delle ICT, a garantire negli ultimi
decenni la stabilità dei prezzi in un contesto di elevata crescita mondiale, ed
è la stessa globalizzazione e la cresciuta interdipendenza delle economie a
generare le tensioni strutturali sui prezzi che oggi osserviamo.
La seconda consiste nell’accresciuta capacità delle
sanzioni economiche di surrogare l’azione militare come strumento di pressione
verso stati sovrani non allineati agli interessi e ai valori occidentali.
La
globalizzazione, infatti, spiega in larga parte l’ascesa delle sanzioni, poiché
maggiore è l’integrazione di un paese negli scambi internazionali, maggiore è
l’impatto delle sanzioni.
D’altra
parte, il processo di globalizzazione non è stato neutrale e ha anzi cambiato
radicalmente i rapporti di forza tra i Paesi.
In questo quadro la Russia ha riaffermato,
attraverso l’azione in Ucraina, la rilevanza degli aspetti militari nel
definire gli assetti geostrategici e messo a dura prova la fiducia nella capacità
di deterrenza delle sanzioni.
I
cambiamenti nei rapporti di forza prodotti dalla globalizzazione possono,
infatti, contribuire a ridurre la credibilità della minaccia delle sanzioni se
le dipendenze strategiche ed economiche dei paesi che le dovrebbero imporre
sono particolarmente rilevanti a causa dei costi di ritorno.
Il problema del blocco delle importazioni di
gas dalla Russia ne è un chiaro esempio.
È, inoltre, la condizione in cui si ritrova
pienamente oggi l’Occidente, e in particolare l’Europa, nei confronti della
Cina.
Basti
pensare che l'esposizione della prima economia europea, quella tedesca,
rispetto alla Cina è straordinariamente più ampia di quella verso la Russia.
A fronte di circa sessanta miliardi di euro
scambiati tra la Germania e la Russia nel 2021, tra cui 20 miliardi di euro di
importazioni di gas e petrolio, c’è un volume commerciale di 245 miliardi di
euro con la Cina nel 2021.
Senza parlare delle dipendenze strategiche dei paesi
UE da prodotti e tecnologie cinesi, su cui solo ora si cerca di intervenire
attraverso azioni volte al miglioramento della sovranità tecnologica e digitale
dell’Unione.
Di fronte agli attuali accadimenti, sarà bene
prepararsi a un cambio di prassi che probabilmente, come osservato da molti
commentatori, non comporterà la fine della globalizzazione ma una radicale
modifica della sua architettura, in cui gruppi fortemente integrati di paesi
che condividono uno stesso sistema di valori, competono tra loro per l’egemonia
economica, politica e culturale.
La concorrenza “sistemica" che la Cina
pone all’Occidente attraverso il suo regime ibrido tra economia di mercato ed
economia pianificata, andrà di conseguenza affrontata con la massima
attenzione.
In
questo momento la Cina appare non solo più abile nell’utilizzare le politiche
pubbliche per imprimere nei fatti una direzione al processo di sviluppo
tecnologico e produttivo del paese, ma sembra anche più capace di valorizzare
le dinamiche di mercato.
È un
aspetto poco sottolineato, ma la straordinaria competizione di mercato
esistente tra le imprese cinesi favorisce la rapida selezione delle migliori
soluzioni per lo sviluppo e il successo commerciale di nuovi prodotti e
servizi, in grado di sfruttare il potenziale economico delle nuove tecnologie,
a partire da quelle collegate all’intelligenza artificiale.
In
altre parole, l’economia cinese si dimostra in grado di sfruttare al meglio
anche i meccanismi propri che hanno caratterizzato il successo dei sistemi
occidentali.
Per l’occidente è quindi fondamentale
accettare, in fretta, che la realtà non fa sconti, e che gli unici antidoti
sono il pragmatismo e la programmazione.
In
particolare, a livello europeo, è importante aumentare l’impegno per rafforzare
la resilienza della nostra economia ampliando le sue capacità tecnologiche e
produttive specie negli ambiti più strategici, diversificando i mercati e,
soprattutto, sviluppando concretamente prodotti e servizi migliori degli altri.
Un risultato che potrà essere ottenuto facendo
leva sui due strumenti prima indicati a proposito della Cina: valorizzazione
delle dinamiche di mercato e capacità di esecuzione delle politiche.
In particolare, la complessità di gestione di
politiche trasformative dei nostri sistemi produttivi va prima compresa e poi
affrontata, ma occorre farlo in fretta perché la storia ha già bussato alla
nostra porta.
Dalle dure lezioni di oggi ne usciremo
migliori?
O
dovremo accontentarci del solito “ne usciremo!”
La
fine della globalizzazione
e il
ritorno dello Stato.
Linkiesta.it - Lorenzo Castellani – (10-1-2023) – ci
dice:
La
transizione verso un mondo che entra in un nuovo interregno dai contorni in
parte chiarissimi e in parte ancora sfumati.
L’anno
che ci lasciamo alle spalle segna l’avvio di una transizione verso un mondo
diverso più che una rottura decisiva col passato.
Continuità
e cambiamento si innestano su una storia che ha cominciato ad accelerare già
dopo la crisi finanziaria del 2008, quando il vecchio sistema neoliberale,
globalizzato e fondato sull’unipolarismo americano ha iniziato a entrare
progressivamente in crisi.
Mentre l’America di Obama e Trump innalzava
barriere doganali e stabiliva un controllo serrato degli investimenti esteri,
l’Unione Europea annaspava nella crisi del debito e nel ritardo tecnologico, e
nuovi autoritarismi come in Russia, Iran e soprattutto in Cina crescevano e si
espandevano sullo scacchiere geopolitico.
Ciò
che aveva funzionato fino al 2008 iniziava a non funzionare più.
Da qui
i disordini statuali in nord-Africa, la recrudescenza del terrorismo islamico,
la progressiva ritirata americana dall’Afghanistan, la presa della Crimea da
parte russa nel 2014, le tensioni su Hong Kong e Taiwan per le ambizioni
cinesi.
Cambiavano
le relazioni internazionali e con esse l’economia e la politica interna.
Il
ritorno dello Stato.
Dopo
il fallimento politico delle ricette di austerity nel periodo 2009-2013,
riaffiorava un riluttante interventismo statale, per lo più monetario
(quantitative easing), che si combinava con il protezionismo occidentale verso
la Cina e le sanzioni alla Russia, infine si inauguravano nuove politiche
economiche per tornare, pur lentamente, ad accrescere lo stock di investimenti.
Il vecchio modello di globalizzazione e di
restringimento monetario si piegava a nuove esigenze, tramontava l’epoca
eredità dei Reagan e delle Thatcher, dei Clinton e dei Blair.
Tuttavia,
la politica accelerava e disordinava il quadro ancor più dell’economia:
crescevano i populismi e i nazionalismi, periclitava la legittimazione
dell’establishment e delle sue istituzioni, i governanti più accorti del
vecchio ordine cercavano di sterzare verso un nuovo paradigma di maggior
governo dell’economia e della società al fine di evitare il collasso repentino
del vecchio sistema.
Prendeva
corpo un sistema ibrido:
tecnocrazie
e vecchie classi politiche attuavano riforme che venivano incontro ad un
elettorato stanco, impoverito e attratto dai partiti nazional-populisti, mentre
alcuni nuovi imprenditori della politica demagogica arrivavano al potere
moderandosi e fondendosi con le vecchie strutture di potere.
In questo processo di trasformazione e
circolazione delle élite, in cui non mancheranno i fallimenti da una parte e
dall’altra per difetto di realismo, i sistemi politici occidentali
dimostreranno la propria plasticità e flessibilità a discapito di una visione
idealizzata della rappresentanza democratica.
Nel
frattempo, le relazioni internazionali si innervosivano, con gli Stati Uniti
sempre più inclini a semplificare il sistema tra blocco occidentale, da essi
egemonizzato, e un numero sempre più ristretto di nemici (Cina, Iran e Russia).
Il
vincolo atlantico tornava a stringersi in maniera più forte e determinante per
tutti gli alleati sia nella proiezione estera degli “stati seguaci” di
Washington che negli equilibri di politica interna.
È in
questo scenario debilitato e irrigidito che nel 2020 si affaccia in un mondo
sull’orlo del caos la pandemia di Covid-19.
Essa
conclude il cambio di paradigma economico, con il “quantitative easing” esteso,
massicci stimoli fiscali di matrice governativa, l’esplosione dei deficit
pubblici, nuovi investimenti pubblici nelle energie rinnovabili e nella
tecnologia.
La
pandemia diviene, al tempo stesso, un’occasione per il vecchio establishment
centrista di reinventarsi e frenare l’ascesa dei nuovi movimenti radicali e di
evidenziarne i rischi in un quadro complesso e dominato dalla paura.
È il
caso della vittoria di Joe Biden in America, della nuova convergenza al centro
in Germania, della rielezione di Macron in Francia, del governo di unità
nazionale guidato da Mario Draghi in Italia.
Come
tutte le vittorie anche queste hanno generato un prezzo da pagare che oggi si
chiama inflazione.
Un’ascesa del costo della vita, trainata già
nel tardo 2020 dai settori della logistica e dell’energia, derivante sia da
forme di conflittualità a mezzo di materie prime sia dagli enormi stimoli
fiscali post pandemici di Stati Uniti, Cina e Unione Europea.
L’invasione
russa.
Ancora
una volta però il demone della politica ha corso più delle soluzioni economiche
poiché un altro evento considerato improbabile fino a pochi mesi prima,
l’invasione della Russia in Ucraina, ha inaugurato l’anno 2022.
Putin
ha tentato un colpo di mano non riuscito sul filo-occidentale governo ucraino,
ma nello smarrimento di questo obiettivo l’autocrate russo ha comunque messo
sottosopra lo scenario politico-economico dei paesi occidentali.
In
primo luogo si è dovuto fronteggiare la guerra in politica estera, cioè far
digerire all’opinione pubblica costose sanzioni alla Russia e la fornitura di
armi occidentali all’Ucraina e poi, in seconda battuta, affrontare la crisi
energetica sia sul fronte interno che su quello dell’approvvigionamento.
Il
taglio dei rapporti con la Russia ha determinato un vero e proprio shock in
molti dei gruppi dirigenti dei grandi paesi europei, con la fine immediata di
una ostpolitik durata due decenni.
Ma il
versante russo ha scomposto anche tutti gli altri teatri con la crisi del grano
in Africa, il ritorno dell’immigrazione in Europa, la avances cinesi su Taiwan,
la destabilizzazione del regime iraniano, le mire imperialistiche turche,
egiziane e indiane nei territori limitrofi e in generale un discorso pubblico
ovunque più improntato alla sicurezza e alla sovranità statale.
Uno
dei paradossi di questa evoluzione è senza dubbio il rapporto tra politica e
settore energetico.
Dopo anni di spinta delle rinnovabili da parte
della politica globale e della finanza internazionale con conseguente
sospensione degli investimenti nel fossile, la guerra ha scoperchiato tutte le
fragilità dell’agenda green dei paesi occidentali.
Le rinnovabili, benché in crescita, risultano
insufficienti a coprire il fabbisogno energetico e per di più si compongono di
materiali quasi interamente controllati dalla Cina.
È chiaro che per i prossimi due o tre decenni
almeno il mondo non potrà privarsi di gas, petrolio e nucleare e che molti
aspetti punitivi della legislazione green – dalla chiusura delle centrali a
gas, a carbone e nucleari fino ai disincentivi verso il motore a scoppio – sono
insostenibili sul piano economico e sociale nella condizione di emergenza
aperta dal conflitto in Ucraina.
La
guerra ha riportato alla realtà ciò che la pandemia, e la furia di accoppiare
spesa pubblica e ideologia da parte dei governi occidentali, avevano proiettato
nella sovrastruttura utopica.
La
transizione ecologica, visto anche il volume degli investimenti, è ancora
possibile, ma in forme diverse, più mescolate e meno accelerate.
L’inflazione ha inoltre reso palesi altri due
fattori:
il
primo è che una politica monetaria sempre espansiva, con tassi d’interesse a
zero o quasi, non è sostenibile per lunghi periodi e che, al tempo stesso,
un’economia sempre più immateriale e digitale non può fare a meno proprio delle
materie prime.
Chi le
controlla, come Russia, Cina e Stati Uniti, gode di un vantaggio competitivo
sia politico che economico.
Sono due dati di fatto che anche i mercati
finanziari hanno dovuto digerire e scontare. In questo scenario
inflazionistico, di conseguenza, le banche centrali si ritrovano ad alzare i
tassi, a ridurre i propri bilanci, mentre l’economia rallenta e gli Stati si
trovano a governare debiti pubblici sempre più ingombranti e bilanci occupati
dalla lotta al caro energia.
Verso
un nuovo paradigma.
Tuttavia,
l’economia va sempre letta dentro un quadro politico e culturale più ampio.
L’era neo-liberale e della globalizzazione è
arrivata definitivamente al capolinea, mentre il mondo sta entrando dentro un
nuovo interregno, una transizione dai contorni in parte chiarissimi e in parte
ancora sfumati.
Il
ritorno dello Stato nell’economia e la resistenza della sovranità in alcuni
settori (tecnologia, energia), la crescita del protezionismo e la rottura delle
catene del valore globale, l’unificazione dei nemici dell’Occidente in Cina, Russia e
Iran, la crescita di alcune potenze del “mondo di mezzo” come Turchia e India
ci consegnano un mondo a metà strada tra il breve periodo di pluralismo
disordinato durato dal 2008 al 2022 e un mondo che sembra tendere al riordino bipolare, con una
spaccatura più netta tra l’Occidente allargato e tutti gli altri.
È in
questo nuovo quadro che mutano anche confini e possibilità per la politica.
Sull’energia
sarà possibile agire più al di fuori degli schemi convenzionali e ideologici,
con la realtà effettuale della cosa che prevale sull’agenda green, con necessità di diversificazione
all’interno di un nuovo paradigma securitario e strategico della ragion di
Stato.
Lo stesso vale per la tecnologia e i suoi
componenti – dai minerali ai semiconduttori – dove uno stato di natura hobbesiano
a livello globale costringerà a virare verso la realpolitik al fine di non
restare indietro o almeno di limitare i danni, anche in una logica di
aggregazione sovranazionale in Europa o di cooperazione tra le due sponde
dell’Atlantico.
In
forma simile, la sovranità si manifesterà per le infrastrutture strategiche:
resistenze
nimby e riluttanza ad investire nel lungo periodo dei governi dovranno essere
superate in nome dell’emergenza e della logica della decisione nello stato
d’eccezione.
Se la
sovranità statale si espanderà probabilmente su questi fronti, essa sarà ben
più limitata su tutto il resto.
I
valzer internazionali in cui tutte le nazioni ballano con tutte non sono più
ammissibili, con profondi riflessi sulla politica interna degli Stati.
Non si deve dimenticare infatti che mentre nel
caos pluralistico la sovranità degli Stati, quelli più forti in particolare,
tende all’assoluto, al contrario in uno scenario di ordine bipolarizzato si vira
verso un sistema a sovranità limitata per tutti tranne che per l’America.
Ciò
significa che la potenza egemone sarà meno incline a tollerare sbandate a
favore dei nuovi nemici, sia in politica estera che interna.
Il “metus
hostilis”, la paura del nemico come elemento unificante, tornerà ad essere il
collante della lega atlantica, con l’America più influente che mai nel limitare
la sovranità degli stati europei.
Non siamo ancora arrivati a questo punto di
semplificazione del quadro, ma potremmo arrivarci presto, specie se la futura
pace in Ucraina non sarà solida e stabile e se il rafforzamento totalitario di
Xi lo spingerà verso una maggiore aggressività militare.
Siamo
attualmente in uno stato intermedio, in cui le relazioni internazionali
sembrano offrire una sorta di “pluralismo razionalizzato”, non più il disordine iniettato dai
nuovi autoritarismi sulla scena globale di qualche anno fa ma nemmeno
l’emersione di un nemico unico con conseguente bipolarismo quanto piuttosto un
blocco riunificato che fronteggia un numero limitato di avversari.
Scenario in cui la potenza egemone americana acquista
comunque un peso maggiore sulla galassia di “Stati seguaci” filo-atlantici
rispetto al recente passato. I futuri sviluppi geopolitici indicheranno quanto
la transizione avviatasi nel 2022 sarà stata breve e quanto capace di innescare
nuovi equilibri, rotture, rischi e instabilità.
(Lorenzo
Castellani)
“Fino
a 2,5 euro al Litro”
la Benzina. Stangata in Arrivo.
Conoscenzealconfine.it
– (7 Febbraio 2023) - Tommaso Croco – ci dice:
A
partire dal 5 febbraio è scattato ufficialmente l’embargo dell’Unione Europea
all’importazione di prodotti petroliferi raffinati russi, benzina e diesel.
Se in
questi giorni tanti automobilisti e associazioni di categoria hanno espresso
forte preoccupazione per il rischio di pesanti rincari alla pompa, che potrebbero
mettere definitivamente in ginocchio famiglie già colpite dal boom di alimenti
e bollette, le brutte notizie potrebbero purtroppo essere soltanto all’inizio.
Una
sanzione voluta fortemente da Bruxelles dopo l’inizio della guerra in Ucraina,
criticata però da molti analisti che continuano a sottolineare come Mosca abbia
coperto fino a oggi la metà del fabbisogno di gasolio del Vecchio Continente.
Il
rischio è che nei prossimi giorni le difficoltà per gli italiani possano
crescere ulteriormente.
Benzina
e Diesel, scattati i Rincari al Distributore.
Il
carburante non alimenta soltanto 16 milioni di auto in Italia, ma anche camion,
navi, mezzi militari.
Secondo
Asso utenti, su alcune tratte autostradali le ripercussioni sarebbero già
evidenti nelle ultime ore, con il gasolio in modalità servito che sarebbe già
tornato a superare il prezzo di 2,5 euro a litro.
Con il
terrore che possano innescarsi nuovamente meccanismi di speculazione.
Asso
utenti ha inviato infatti una lettera al ministero delle Imprese e
all’Antitrust per sottolineare gli extraprofitti che le compagnie avrebbero
realizzato nel 2022: 1,9 miliardi sulla benzina e 7,4 miliardi sul gasolio.
Il
presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli ha però cercato di gettare
acqua sul fuoco:
“È
molto probabile che la dinamica del gasolio segua quella del greggio, embargato
dai Paesi europei dallo scorso 5 dicembre.
Grazie
alle scorte accumulate nei mesi scorsi e per effetto del meccanismo del “price
cap”, applicato dai Paesi dell’Ue del G7, il mercato dovrebbe mantenere una sua
stabilità”.
Secondo
Tabarelli, però, questi fattori combinati “alla corsa agli approvvigionamenti a
partire dall’autunno, saranno fattori che potranno influire negativamente sui
prezzi del diesel”.
“Fge”, società inglese di consulenza
sull’energia, ha ipotizzato che l’Europa sostituirà i flussi dalla Russia
aumentando le importazioni dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente.
(Tommaso
Croco - ilparagone.it/attualita/benzina-diesel-rincari-distributore-quando/)
La Thailandia
bandirà Pfizer:
la
Principessa è in Coma
dopo
il “Covid Booster”.
Conoscenzealconfine.it
– (6 Febbraio 2023) - Maurizio Blondet – ci dice:
Pochi
giorni dopo aver ricevuto il suo “covid booster”, la figlia del re di
Thailandia è crollata ed è caduta in coma.
La
principessa “Bajrakitiyabha”, che è la potenziale erede al trono thailandese, è
in gravi condizioni settimane dopo il suo collasso.
Alcuni
rapporti suggeriscono che abbia subito un attacco di cuore anche se alla sua
famiglia è stato detto che probabilmente aveva un’infezione batterica.
Tuttavia,
sei settimane dopo, la principessa è ancora in coma e tenuta in vita dalle
macchine.
La
famiglia reale è stata ora allertata del fatto che molto probabilmente la
principessa è stata vittima del vaccino covid.
Le
principali autorità thailandesi, inclusi i consiglieri del re, hanno discusso
con il Prof. Sucharit Bhakdi e si stanno preparando a far dichiarare nulli i
contratti Pfizer.
Se ciò
accade, la Thailandia diventerà il primo paese a rendere nullo il contratto, il
che significa che Pfizer diventerà responsabile di tutte le lesioni da vaccino.
Il
Prof.” Sucharit Bhakdi” sta lavorando con le autorità thailandesi per annullare
i contratti per il vaccino a base di mRNA di Pfizer:
“Gli
studi di sicurezza farmacologica non sono mai stati fatti… Pfizer BioNTech
dovrà restituire quei miliardi alla Thailandia”.
La
narrativa ufficiale sta finalmente crollando?
(Maurizio Blondet -
maurizioblondet.it/e-una-strage-ritirateli-subito-lappello-del-super-professore-del-mit-il-video/).
La
fine della globalizzazione?
(di M.
Saccone).
Loccidentale.it - Marco Saccone - (12 Ottobre 2021) – ci dice:
Code
per fare il pieno di benzina, fabbriche ferme senza materiali, il prezzo
dell’energia raddoppia, il costo dei prodotti alimentari aumenta del 40%, le
quotazioni delle materie prime volano alle stelle, i container scarseggiano, i
microchip sono introvabili, il governo cinese raziona l’energia elettrica e
spedisce 112 bombardieri nei cieli di Taiwan;
Australia,
Inghilterra e USA firmano un patto di mutua difesa, l’America del democratico
Biden conferma i dazi di Trump, l’Europa discute di una carbon tax e decapita
il motore a scoppio per decreto, l’inflazione schizza alle stelle, le banche
centrali iniettano 10.3 trilioni di dollari di liquidità per sostenere i
consumi, le borse registrano livelli di volatilità senza precedenti.
Scenari
apocalittici, si direbbe; cronache d’attualità, si constata.
Che
sta succedendo? Dove è finito il commercio senza dogane?
Che ne
è della Pax Americana?
Che ne
abbiamo fatto della crescita economica perpetua, capace di mettere d’accordo il
comunismo pragmatico cinese con il capitalismo yankee?
È la
fine del capitalismo, come sostiene la solita intellighenzia sfascista?
Oppure
è solo un temporaneo inciampo sulla strada della globalizzazione, come
sostengono gli ideologi del mercato?
Né l’una,
né l’altro.
Questa
è una crisi strana perché non è stata generata da un fattore endogeno –
politico, militare o economico – ma da un fattore esogeno, un virus, che ha
sconvolto il modello economico-politico dominante;
la globalizzazione a matrice statunitense,
fatta di grandi hub produttivi principalmente asiatici, di finanziarizzazione
pervasiva e di trasporti a basso costo.
Tuttavia,
il coronavirus è solo l’innesco di un incendio le cui cause sono ben più
profonde.
La prima è la crisi climatica.
L’era
dei “fossil fuels” è giunta al tramonto e questa prospettiva ribalta tutti gli
equilibri, ridefinisce le sfere di influenza, rinnova le sfide globali,
ristabilisce priorità ed alleanze, e spesso rende inefficaci le istituzioni
internazionali che hanno guidato la politica economica internazionale fino ad
oggi.
Gli
obiettivi di decarbonizzazione non si raggiungono con trattati bilaterali,
stampando moneta, regolando le estrazioni di petrolio o rimuovendo barriere al
commercio.
È una
sfida nuova, di portata epocale, che, come ha sostenuto di recente l’Economist,
rimette in discussione il presupposto ideologico che ha ispirato la
globalizzazione: l’efficienza.
Da
sola l’efficienza non basta più.
Una
buona politica per essere tale deve essere efficiente e sostenibile.
Il
secondo nodo è il protezionismo.
Gli Stati Uniti, incalzati dall’avanzata
Cinese, si sono contratti a difesa della propria supremazia, disponendo sul
campo un arsenale isolazionista fatto di scontri diretti, dazi economici e
irrigidimento delle sfere di influenza.
Questo
cambio di rotta ha alienato la fiducia degli alleati storici e ha contribuito
alla rinascita delle ideologie localiste a base populista, che alimentano
ulteriormente il circolo vizioso del protezionismo.
In
questo scenario ci vuole coraggio, condivisione d’intenti e visione.
Europa
e Stati Uniti hanno un’occasione storica e sono chiamati ad un salto di qualità
politico.
L’Alleanza Atlantica, con la sua tradizione
democratica e concertativa, è il luogo perfetto per riformare gli istituti
internazionali, dotandoli di strumenti, competenze, risorse per ristabilire i
canoni del commercio, della finanza e dell’organizzazione economica mondiale.
Per
creare una governance globale rinnovata e più forte che stabilisca gradualmente
nuovi indirizzi, obblighi, sanzioni e regole, tracciando così un percorso di
progresso sostenibile.
Mondializzazione,
uniformazione
e
occidentalizzazione.
Introduzione
a ‘La fine del sogno occidentale’.
Eleutera.it
- Serge Latouche – (2021-06-01) - ci dice:
(traduzione
di Eva Civolani e Carlo Milani.
La
mondializzazione – o globalisation, come dicono gli anglofoni – è un concetto
di moda.
Imposto dalle recenti evoluzioni, fa parte
dello spirito dell’epoca.
Nel
giro di qualche anno, se non di qualche mese, tutti i problemi sono diventati
globali: sicuramente la finanza e gli scambi economici, ma anche l’ambiente, la
tecnologia, la comunicazione, la pubblicità, la cultura e perfino la politica.
Specialmente negli Stati Uniti, l’aggettivo globale si è ritrovato accostato a
tutti questi settori.
Si
parla di inquinamenti globali, di televisione globale, di globalizzazione dello
spazio politico, di società civile globale, di giurisdizione globale, di tecno-globalizzazione
ecc.
Certamente,
il fenomeno che si nasconde dietro a questi termini non è così nuovo.
Da
parecchi decenni, voci profetiche annunciavano l’avvento di un «villaggio
planetario», taluni specialisti parlavano di occidentalizzazione, uniformazione
o modernizzazione del mondo, e alcuni storici ne svelavano tutti i sintomi
nelle evoluzioni di lunga durata.
La
mondializzazione, sotto un’apparenza di imparziale constatazione di fatto, è
anche uno slogan che spinge ad agire nella prospettiva di una trasformazione
augurabile per tutti.
La parola d’ordine è stata lanciata dalle aziende
transnazionali e dal governo americano.
Il
termine è lungi dall’essere neutro;
esso
lascia intendere che si sarebbe di fronte a un processo anonimo e universale,
benefico per l’umanità e niente affatto determinato da un’impresa perseguita da
alcuni a proprio vantaggio e gravata da enormi rischi e considerevoli pericoli.
La
mondializzazione significa certamente mondializzazione dei mercati.
Tuttavia,
essa affonda le sue radici nel progetto stesso della modernità teso a edificare
una società razionale.
Non vi sono dunque solo forme economiche, e
queste non sono, forse, le più decisive.
La
mondializzazione tecnologica e quella culturale sono almeno altrettanto
importanti.
Tutti gli aspetti sono complementari e
interdipendenti: niente interconnessioni tra borse valori, e quindi niente
mercato finanziario mondiale, senza satelliti di telecomunicazione;
niente
rete mondiale di trasporti senza un sistema di controlli computerizzati.
Il progetto GII (Global Information Infrastructure), sorto sotto la spinta degli Stati
Uniti e che consiste nello sviluppo di «autostrade informatiche» (una «rete
delle reti»), mira esplicitamente alla creazione di un mercato mondiale più
generalizzato e immediato.
Niente
mondializzazione economica, infine, senza mondializzazione tecnologica e senza
una «cultura» mondializzata (i computer, per esempio, funzionano in un inglese
internazionale…).
Tutti
questi fenomeni concorrono alla messa in orbita di un’organizzazione
tecno-economica di marca occidentale.
Spetta
a noi costruire una comunità mondiale in cui i cittadini di paesi vicini si
guardino non come potenziali nemici ma come potenziali partner, tutti membri di
una grande famiglia umana, uniti da una catena dalle maglie sempre più fitte
[…].
Essa
renderà possibile la creazione di un mercato mondiale dell’informazione, in cui
i consumatori potranno acquistare o vendere […].
Lo
sviluppo mondiale può aumentare di parecchie centinaia di miliardi di dollari
se noi imbocchiamo la strada della GII1.
Il
crollo dei sistemi economici pianificati e la deregulation nei paesi
capitalisti hanno condotto a una mondializzazione senza precedenti dei mercati.
Tuttavia,
la mondializzazione dell’economia si realizza pienamente solo con la
corrispondente economicizzazione del mondo, cioè con la trasformazione di tutti
gli aspetti della vita in questioni economiche, se non in merci.
Sotto
questa forma più significativa, in quanto economica, la mondializzazione è di
fatto anche tecnologica e culturale, e copre la totalità del pianeta.
La
planetarizzazione del mercato costituisce una novità solo per l’ampliamento del
suo campo di azione, ragione per cui gli anglosassoni hanno creato il
neologismo “globalisation”.
Si
procede così verso una mercificazione integrale.
Ciò
nonostante, l’idea e una certa realtà del mercato mondiale fanno parte
integrante del capitalismo.
Fin
dalle origini, il funzionamento del mercato è stato transnazionale, ovvero
mondiale.
La
Lega anseatica, le piazze finanziarie di Genova, Lyon e Besançon, le attività
commerciali di Venezia e dell’Europa del Nord, per non parlare delle grandi fiere
(Troyes), sono internazionali, se non proprio mondiali, fin dai secoli
XII-XIII.
Il
recente trionfo del mercato, descritto appunto come una «nuova
mondializzazione», comprende in effetti tre fenomeni collegati che sono, in
ordine di importanza, la transnazionalizzazione delle società, la diminuzione
dei controlli statali a Ovest e l’insuccesso della pianificazione a Est.
Bisogna
spendere qualche parola per capire la posta in gioco.
Anche
le compagnie transnazionali, come il mercato, esistono dalla fine del Medioevo.
Jacques Coeur, i Fugger, la Banca dei Medici,
la Compagnia delle Indie, per citare solo gli esempi più famosi, sono state
imprese commerciali insediate su più continenti, con un traffico che aveva il
mondo come orizzonte.
Attualmente, la novità consiste nel fatto che si
mondializza sistematicamente non solo il capitale commerciale e bancario, ma
anche il capitale industriale.
La
Renault fa fabbricare i suoi motori in Spagna.
I computer IBM sono fabbricati in Indonesia,
assemblati a Saint-Omer, venduti negli Stati Uniti ecc.
La
divisione del lavoro si è internazionalizzata.
Le imprese sono diventate totalmente
transnazionali.
L’insieme interconnesso della mondializzazione
del commercio, della finanza e dell’industria conduce all’emergere di sedi
offshore, senza legami storici o culturali con i luoghi nei quali si sono
insediate.
I massicci trasferimenti di attività, le reti
di subappalto, le joint venture, fino alla smaterializzazione della produzione
e all’aumento dei servizi, accelerano questo fenomeno.
Una
delle poste in gioco del trattato di Maastricht è stata non solo spingere oltre
questa transnazionalizzazione in seno all’Unione europea, ma anche di
permettere alle imprese giapponesi, americane ecc. di colonizzare lo spazio del
mercato comune e aumentare la fluidità degli scambi economici, cioè obbedire
alle leggi dell’economia.
Il
principale obiettivo dell’Uruguay Round, l’ultimo negoziato del GATT (General
Agreement on Tariffs and Trade), è stato quello di estendere questa
liberalizzazione degli scambi all’agricoltura e ai servizi.
Un
sistema economico universale completamente sradicato, che non ha più legami
privilegiati con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già più
o meno realizzato.
Questa
sfera economico-finanziaria, extraterritoriale, «monitorata» permanentemente
dalle borse, dai computer, dalle banche dati, ventiquattro ore su ventiquattro,
più o meno regolamentata (e deregolamentata) dal FMI (Fondo monetario
internazionale), dalla WTO (Organizzazione mondiale del commercio) e dalla
Camera di commercio internazionale, ma anche dal G7, o addirittura dal Forum di
Davos (riunione informale dei responsabili economici e politici del pianeta), e
che opera attraverso queste istituzioni sugli Stati e sulle società, è senza
dubbio ciò che meglio corrisponde al mercato astratto degli economisti, il cui
centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte.
La
diminuzione dei controlli nazional-statali è a un tempo causa e conseguenza di
questa transnazionalizzazione.
Il
compromesso tra Stato e Mercato, che si è saldato attraverso il fenomeno delle
economie nazionali costituitesi come insiemi interdipendenti dei settori
industriali e commerciali, ha conosciuto la stagione migliore durante i
trent’anni di sviluppo economico (1945-1975) e durante lo Stato sociale.
La
dinamica del mercato che sopprime le barriere delle economie locali e regionali
non si è per sempre bloccata alle frontiere del territorio nazionale.
La mondializzazione è l’espansione geografica
ineluttabile di un’economia sistematicamente scorporata dal sociale a partire
dal XVIII secolo.
Questa
evoluzione è stata accelerata e voluta dai «padroni del mondo» (quei duemila
global leaders che si ritrovano a Davos) che predicano instancabilmente la
deregulation e l’eliminazione di intermediazioni e barriere.
Il
crollo delle economie socialiste ha ulteriormente accelerato e rinforzato
questo processo.
La
pianificazione ha avuto, in definitiva, il ruolo storico di uniformare lo
spazio economico a Est e di distruggere ogni specificità culturale in grado di
ostacolare il libero gioco delle «forze di mercato».
C’erano
scambi, ma non c’era la possibilità di sviluppare un progetto che mettesse in
relazione le risorse naturali di un immenso territorio e milioni di uomini, in
tutti i settori, per tutti i prodotti.
Non
era possibile comperare, fabbricare, vendere liberamente, né seminare la rovina
o la prosperità in funzione di un margine di profitto talvolta irrisorio.
Il socialismo reale significava penuria, mediocrità e
squallore.
Per contrasto, l’economia di mercato sembrava
sinonimo di abbondanza e di efficienza.
Di qui
ha avuto origine l’attrazione verso quel modello e la volontà di inserirsi a
ogni costo nel mercato mondiale.
Tuttavia,
questa mondializzazione senza precedenti dei mercati non realizza ancora il
mercato integrale.
Viene
così designato quel grande meccanismo autoregolatore che provvede alla totalità
della vita sociale, dalla nascita alla morte di individui atomizzati.
Secondo
gli economisti ultraliberisti:
«Tutto
ciò che è oggetto di un desiderio umano è candidato allo scambio.
In altre parole, la teoria economica in quanto
tale non fissa alcun limite all’impero del mercato».
La
mercificazione deve dunque penetrare in tutti i recessi dell’esistenza.
Il
trionfo della libertà, il libero accordo tra individui che obbediscono a un
proprio calcolo volto all’ottimizzazione, che fa di ognuno un imprenditore e un
commerciante, sta per diventare la norma, l’unica norma di un
anarco-capitalismo (termine scelto da certi ideologi per designare questo sogno
di un’economia senza Stato) totale e ideale.
La
globalizzazione designa anche questo inedito procedere verso la mercificazione
totale del mondo.
I beni e i servizi, il lavoro, la terra e,
domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l’affitto dell’utero,
entrano nel circuito commerciale.
Fin d’ora, con i servizi, la banca, la
medicina, il turismo, i media, l’insegnamento e la giustizia, diventano
transnazionali.
Ai
rappresentanti dei poteri pubblici americani, presenti dappertutto nel mondo,
nel corso delle grandi manovre per il controllo del mercato delle autostrade
informatiche, è impartita la direttiva di prestare manforte ai giganti del
multimediale esigendo che i «prodotti» culturali siano trattati come merci
«uguali alle altre» e le riserve culturali come un banale e nocivo protezionismo.
L’attuale
mercato mondiale, diversamente dalle antiche «piazze del mercato», quei luoghi
reali delle città e dei paesi dove si scambiavano le merci tradizionali,
realizza un’interdipendenza dei diversi mercati e mette in comunicazione più o
meno stretta i mercati dei beni, dei servizi produttivi e dei capitali.
Tuttavia,
invece di generare un armonioso equilibrio per la massima felicità del maggior
numero di persone, come postulano i liberisti, questo mercato totale non può
evitare, né in teoria né in pratica, alcune pericolose instabilità.
I mercati finanziari, in particolare, dominano
sempre più i mercati di beni e servizi.
Oggi,
essi obbediscono prima di tutto alle profezie autorealizzanti e si sviluppano
in sacche speculative che possono raggiungere dimensioni mostruose.
L’ammontare
delle speculazioni finanziarie non è proporzionale a quello delle attività
produttive.
La
deregulation, lo sviluppo dei mercati a termine e l’esplosione dei prodotti
derivati hanno fatto sì che gli scambi giornalieri abbiano oltrepassato i 1.500
miliardi di dollari, ossia il doppio delle riserve monetarie (più del pil della
Francia).
I
movimenti finanziari hanno raggiunto circa 150.000 miliardi di dollari nel
1993, cioè da cinquanta a cento volte più dei movimenti commerciali annuali.
Le economie, e particolarmente quelle del
Terzo mondo, sono alla mercé delle fluttuazioni di quei mercati finanziari.
L’esplosione
di queste sacche speculative è oltretutto capace di scuotere l’intero sistema
mondiale, come si è visto nel tracollo del 1987 o nella crisi americana.
Un ragazzo di venticinque anni che digita sul
suo portatile può far fallire la più antica e rispettabile banca della City, la
Barings.
E si
trattava comunque di crisi minori e circoscritte!
Dietro
a questi nuovi fenomeni operano logiche, processi e tendenze molto vecchi.
Modernità, Occidente, Società del benessere, ma anche Sviluppo, Progresso,
Razionalità,
Tecnica, altrettante parole cardine che rinviano l’una all’altra e che possono
essere indifferentemente usate per designare lo stesso complesso di forze.
La
razionalità economica è alla base della ricerca tecno-scientifica.
Il
progresso è la condizione, ma anche il risultato, dell’economicizzazione del
mondo e dell’accumulazione illimitata di capitali, di merci e di beni materiali
e immateriali.
La tecnica è condizione della crescita e dello
sviluppo, ma anche, fino a un certo punto, il loro risultato e il loro motore.
La
mondializzazione è certa un’altra maniera per designare l’occidentalizzazione e
l’uniformazione planetaria.
Le si potrebbero aggiungere tutte le parole
cardine citate prima come aggettivi qualificativi, moltiplicandone così le
connotazioni pur indicando sempre la stessa cosa.
La mondializzazione è comunque moderna, occidentale,
finalizzata allo sviluppo, progressista, razionale e tecnoscientifica.
Il
processo che spesso viene chiamato occidentalizzazione del pianeta e che è di
fatto la tecnologizzazione, l’estensione del tecnicismo, non sarebbe dunque un
incidente, un errore politico riparabile, ma l’espressione di una necessità
determinata dall’essenza stessa della tecnica e dei principi dell’evoluzione
tecnologica.
Resta
il fatto che per comprendere il significato, l’impatto e i limiti del fenomeno
occorre valutare la portata del processo di uniformazione planetaria,
interrogarsi sulla natura dell’Occidente che resta l’attore chiave di questa
evoluzione, individuare le complesse dinamiche in atto, analizzarne gli
insuccessi e interrogarsi su quello che potrebbe accadere in futuro.
Non è
inevitabile che la storia finisca in una catastrofe.
Poiché
l’avvenire è ancora aperto, le trasformazioni in corso possono essere orientate
dall’azione di ciascuno e di tutti.
Ma è
necessario prima di tutto respingere la pretesa degli esperti di monopolizzare
le decisioni che ci riguardano e che, proprio per questo, competono a tutti.
Il
testo che segue si sforza di offrire una descrizione sommaria, semplice e
chiara per quanto possibile di tutti gli aspetti della questione, per
permettere a ciascuno di farsi una propria opinione e di agire di conseguenza.
Essa realizzerà pienamente il suo obiettivo se
contribuirà anche solo minimamente a stimolare, informare e sensibilizzare il
lettore sulle poste in gioco nel processo di trasformazione planetaria che
stiamo vivendo.
Crisi,
catastrofe, rivoluzione.
Una
conversazione con Emiliano Brancaccio.
Iltascabile.com
– Redazione – Emiliano Brancaccio – Niccolò Porcelluzzi- Stella Succi – Elisa
Cuter - (8-7-2022) – ci dicono:
Continuano
le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a leggere
la guerra in corso, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano restituire
la complessità e la portata di quanto sta accadendo.
L’intervista di oggi è con l’economista
Emiliano Brancaccio, Professore di politica economica presso l’Università degli
Studi del Sannio, a Benevento, tra i principali esponenti delle scuole di
pensiero economico critico.
Seguiamo
Brancaccio da quando siamo venuti a conoscenza dei suoi lavori più recenti: “Democrazia sotto assedio. La
politica economica del nuovo capitalismo oligarchico” (Piemme, 2022) e “Non
sarà un pranzo di gala”.
“Crisi,
catastrofe, rivoluzione” (Meltemi, 2020), due saggi capaci di individuare le tendenze
generali della fase storica che stiamo attraversando:
su
scala globale, una centralizzazione del potere in sempre meno mani che conduce
inevitabilmente a una contrazione dello spazio democratico.
Ci
interessava in particolare la sua capacità di portare un punto di vista
radicale in sedi istituzionali che, da profani, immaginiamo restie alla critica
che invece Brancaccio sa esercitare.
Siamo
partiti allora dalla guerra in Ucraina, come abbiamo già fatto con Marco
D’Eramo, Alfonso Desiderio e Maria Chiara Franceschelli, ma siamo arrivati a
toccare un’ampia rete di aspetti macroeconomici e politici della
contemporaneità, e ne abbiamo approfittato per farci chiarire alcuni punti
delle sue analisi.
Il risultato è una conversazione ambiziosa,
dallo sguardo ampio, ma che speriamo possa servire a orientarci, in modo molto
pragmatico, a capire se e come possiamo sperare di avere voce in capitolo sul
nostro futuro.
Emiliano
Brancaccio:
Volete
davvero parlare delle cause e delle conseguenze economiche della guerra? Allora
sospetto che questa intervista non la leggerà nessuno:
l’economia
e la sua critica sono essenziali per capire come stanno davvero le cose, ma agisce
sui lettori come un horror:
lì
terrorizzano e li fanno scappare.
Nicolò
Porcelluzzi:
A meno che non mettiamo nel titolo: “perché i tuoi risparmi sono in
pericolo?”.
Il
terrore finanziario attira sempre e mi sembra un periodo azzeccato…
EB:
Vero, ma solo per quelli che riescono ancora ad accumulare qualche soldo. A proposito di horror, viviamo in
un’epoca in cui gran parte della classe lavoratrice vive ormai a “risparmio zero”
…
Stella
Succi:
Partiamo allora dalla domanda più urgente, e forse più inquietante.
Quali
sono le tendenze economiche che alimentano il conflitto e cosa ci dicono del
futuro di questa guerra?
Insomma,
il capitale cosa auspica?
EB: I singoli capitalisti ovviamente
“auspicano”: di sopravvivere, di avere successo, di espandersi, di esercitare
una volontà di potenza nel senso di Deleuze.
Però, se parliamo di “capitale” in generale,
cioè della sintesi complessiva delle azioni scoordinate e conflittuali dei
singoli capitalisti, allora associarvi il concetto di auspicio genera un
controsenso.
Perché
il capitale in generale è una forza impersonale, diciamo che è come una marea,
come un vento di tempesta.
In quanto vento, non ha desideri né auspici.
Al contrario, spesso il capitale segue una
tendenza che devia, si smarca dalle speranze soggettive dei singoli
capitalisti. È quella che si definisce eterogenesi dei fini.
SS: E un esempio di eterogenesi dei fini
è la tendenza verso la guerra?
EB: Sì. Noi siamo abituati a
considerare la guerra come se fosse il banale esito delle intemperanze di
qualche pazzo al potere.
Ma
questa lettura, individualista e soggettivista, è molto superficiale.
In
realtà, esiste una tendenza oggettiva verso la “guerra capitalista”, non più
semplicemente economica ma anche militare, di cui il conflitto in Ucraina è solo
una delle nuove forme fenomeniche.
NP: Quali sono le cause di questa
tendenza?
EB: Per comprenderle bisogna partire da
un fatto inatteso: gli Stati Uniti e buona parte dell’occidente capitalistico
sono usciti sorprendentemente sconfitti dalla grande stagione della
globalizzazione dei mercati. L’avevano propugnata, eppure sono stati sconfitti.
NP: Perché sconfitti?
EB: In estrema sintesi, possiamo dire
che il capitalismo americano, e gran parte del capitalismo occidentale, si sono
ritrovati negli anni con un crescente problema di competitività internazionale,
con costi di produzione relativamente alti rispetto alla concorrenza estera.
Questo
ha portato gli Stati Uniti e altri paesi occidentali a comprare molto
dall’estero e a vendere poco all’estero.
Ma
questo significa accumulare debiti verso l’estero.
Debiti
pesanti: per esempio, gli Stati Uniti hanno ormai una posizione passiva verso
l’estero di oltre il 60% del PIL.
I
creditori mondiali, di contro, sono i vincitori della stagione della
globalizzazione, sono quelli che hanno conquistato più mercati, hanno venduto
più merci e hanno quindi accumulato più moneta di tutti.
Sono i
capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del sud est, del medio oriente, e
guarda caso in misura minore pure russi.
Elisa
Cuter: Uno
squilibrio tra vincitori e vinti della globalizzazione, quindi.
Con
quali conseguenze?
EB: Il problema dei debitori è che
presto o tardi i creditori cercano di comprarli.
Negli
anni, i grandi creditori hanno venduto un’immane quantità di merci e hanno
quindi accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo: non solo
per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per
acquisire capitale occidentale.
I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche
russi, coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per
comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via.
Magari
persino i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle.
SS: Parli della tendenza del capitale a
centralizzarsi in sempre meno mani…
EB: Esatto. Come accade nel mito di
“mangiare Dio”, direbbe Jan Kott, i capitalisti vincitori della guerra sui mercati
uccidono e mangiano i capitalisti sconfitti.
EC: Come hanno reagito gli occidentali di
fronte a questa minaccia di esser mangiati?
EB: In una prima fase, i capitalisti
americani e occidentali hanno reagito in modo piuttosto scontato e brutale,
attraverso l’imperialismo militare.
Ossia,
hanno attuato quello che io chiamo “l’imperialismo dei debitori”. Questo consiste in una doppia
espansione: tanto cresceva il loro debito verso l’estero, tanto cresceva la loro
presenza militare all’estero, proprio al fine di gestire quel debito e
auspicabilmente di contenerlo.
Un
esempio tra i più lampanti è stata l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che
doveva servire anche a mitigare il debito energetico americano e occidentale.
Il
guaio, però, è che questo doppio espansionismo, delle milizie e del debito
verso l’estero, a un certo punto raggiunge un suo limite di spesa e di
efficienza, oltre il quale non può andare.
È un fenomeno che in modi non troppo dissimili
si era già verificato ai tempi della crisi dell’impero britannico, ben
descritta in un celebre saggio dell’economista Marcello De Cecco.
Oggi
il problema si ripete con l’emergere dei limiti all’espansione imperialista del
grande debitore americano e dei suoi alleati, comprovate anche dal
ridimensionamento delle campagne militari occidentali nei vari territori
occupati.
Di
queste difficoltà, ormai, in tanti hanno preso atto.
Ecco
perché, da qualche tempo, i debitori occidentali hanno iniziato ad accettare i
limiti del circuito militar-monetario che avevano creato, hanno quindi dovuto
contenere le mire imperialiste, e dunque sono stati costretti a escogitare
qualche altro meccanismo di difesa.
SS: Che tipo di meccanismo?
EB: I debitori occidentali hanno iniziato
ad accettare il fatto che la globalizzazione costituiva un problema, e che dal
suo protrarsi indefinito sarebbero potuti uscire con le ossa rotte.
Ecco
allora che negli Stati Uniti e un po’ in tutto l’occidente abbiamo assistito a
una riabilitazione del vecchio, vituperato protezionismo.
Non solo commerciale ma anche finanziario,
vale a dire una serie di barriere legali che servono a bloccare l’esportazione
di capitale da parte dei grandi creditori.
In sostanza, ai capitalisti cinesi, russi, e così via,
viene oggi imposto il divieto di “mangiare” le aziende occidentali.
Questo
nuovo protezionismo, badate bene, è iniziato diversi anni fa, da ben prima
della guerra, addirittura da prima di Trump!
Nelle
alte sfere è stato ridenominato “friend shoring”, un termine gentile ideato da Janet
Yellen per avvisare che da ora in poi noi occidentali faremo affari solo con i
nostri “amici”.
Perché
degli altri abbiamo ormai paura e vogliamo tenerli fuori dai nostri recinti.
SS: E qual è stata la risposta
orientale?
EB: Io sostengo che proprio il “friend shoring”, cioè proprio le barriere
protezionistiche edificate dai debitori occidentali per evitare di esser
“mangiati” dai creditori d’oriente, hanno spinto questi ultimi ad attivare una
reazione imperialista.
I
grandi creditori orientali hanno iniziato a capire che la fase è cambiata.
Essi
hanno una enorme quantità di capitali da esportare, potrebbero acquisire
moltissime aziende occidentali, ma sono ormai ostacolati dalle barriere
protezionistiche imposte dal “friend shoring”.
Di
conseguenza, per esportare i loro capitali all’estero, per fare affari nel
mondo, e soprattutto per “mangiare” gli avversari, i creditori prendono
coscienza che da ora in poi bisognerà aprirsi dei varchi anche con la forza,
cioè creando sbocchi per le esportazioni dei loro capitali anche tramite
movimenti di truppe e di cannoni.
Mentre
in passato la guerra imperialista serviva agli Stati Uniti e ai loro sodali
occidentali a gestire il loro debito, adesso una guerra imperialista uguale e
contraria diventa il mezzo con cui i creditori orientali cercano di creare
sbocchi per i loro capitali.
È esattamente così che nasce quello che io
chiamo il nuovo “imperialismo dei creditori”.
L’imperialismo
dei creditori come reazione all’imperialismo dei debitori e alla sua crisi.
In un certo
senso, la mia tesi rielabora in chiave aggiornata il vecchio nesso individuato
da Lenin, tra esportazione dei capitali e imperialismo.
SS: Come possiamo interpretare, in
quest’ottica, la guerra in Ucraina?
EB: È una guerra che vede la Russia nel
ruolo di grande aggressore imperialista, ma a guardar bene stabilisce una linea
di demarcazione molto più generale, tra debitori d’occidente e creditori
d’oriente.
Basti
guardare la Cina, che pur con la proverbiale prudenza e con vari distinguo, dal
punto di vista delle relazioni internazionali si è chiaramente posizionata dal
lato della Russia.
Il
motivo è che i cinesi interpretano questa guerra come uno dei tanti segni di
crisi del grande debitore americano.
Ai loro
occhi, il capitalismo americano ha esaurito la strategia del doppio
espansionismo, del debito e delle milizie all’estero, come dimostra il fatto
che in molte circostanze è stato costretto a ritirare le sue truppe.
In
sostanza, per la Cina, avallare silenziosamente l’attacco russo all’Ucraina
significa verificare empiricamente se e in che misura gli americani e i loro
alleati reagiranno.
Se la
reazione militare sarà limitata, vorrà dire che il doppio espansionismo USA ha
davvero raggiunto il suo limite.
Per i
cinesi, se siamo davvero giunti a questo punto di svolta, gli americani non
potranno più permettersi di dettare le regole del commercio mondiale, e quindi,
tra l’altro, non potranno pretendere di passare dal globalismo al “friend shoring” solo perché adesso a loro conviene
cambiare strategia.
EC: La guerra in Ucraina, insomma,
sarebbe l’inizio di una grande sfida orientale agli Stati Uniti e ai loro
alleati, per
decidere chi dovrà dettare le regole future della finanza e del commercio
mondiale?
EB: Esatto.
I
creditori russi e cinesi, e con loro molti altri, ritengono che quelle regole
non possano esser più dettate dal vecchio imperialismo dei debitori
occidentali, che reputano ormai in declino.
È una
scommessa epocale, che va ben oltre il conflitto in Ucraina.
L’esito
non è affatto scontato, beninteso.
Il
rischio di una escalation su larga scala è altissimo e non possiamo sapere chi
alla fine la spunterà.
Quel
che è certo, è che il grande squilibrio capitalistico tra creditori e debitori
è ormai sfociato in un equilibrio di guerra, non più solo economica ma anche
militare.
Questo
equilibrio è destinato a segnare la nuova fase storica, che io chiamo di
“centralizzazione imperialista” del capitale.
SS: Nel tuo ultimo libro, colleghi la
tendenza alla centralizzazione del capitale in poche mani a un processo di
“oligarchizzazione” del capitalismo, che a tuo avviso è generale, minaccia le
stesse democrazie occidentali e quindi va ben oltre il caso degli “oligarchi
russi”, di cui tanto si parla.
Possiamo
fare un confronto tra “oligarchia” capitalista russa e occidentale?
È una
distinzione che ha senso fare?
EB: Una distinzione è necessaria, dal
momento che, come abbiamo detto, gli uni e gli altri “oligarchi” esprimono due
lati del capitalismo mondiale, quello dei creditori e quello dei debitori.
Per questo agiscono in modi diversi, talvolta
opposti.
Al
tempo stesso, però, possiamo chiamarle entrambe “oligarchie” capitaliste, per
un motivo ormai documentato.
Non
solo in Russia, ma ancor più negli Stati Uniti, il controllo del capitale è
spaventosamente concentrato in poche mani: oltre l’80% del capitale è
controllato da meno dell’1% degli azionisti in Russia e da meno dello 0,3%
negli USA.
Parliamo tanto di oligarchi vicini al Cremlino
ma, tecnicamente parlando, il capitalismo americano è il più oligarchico di
tutti.
SS: Che ne sarà della sovranità europea
a tuo avviso?
Sembra
che a “tirare la fune” dell’autonomia sia rimasta solo la Germania.
EB: Per quanto siano storicamente legati
a filo doppio, il capitalismo americano e i capitalismi europei sono per molti
versi in disaccordo su come gestire la nuova fase post-globalista.
Basti
notare un fatto.
La
spinta verso il protezionismo del “friend shoring” metterà più in difficoltà i paesi
che io definisco “crocevia” del commercio e della finanza mondiale, cioè quelli
che hanno sempre fatto affari un po’ con tutti e non solo con gli “amici”.
Molti di questi paesi crocevia sono europei: Germania
e Italia, su tutti.
Questo
spiega la riluttanza tedesca rispetto alle posizioni americane più favorevoli a
una escalation militare.
E al tempo stesso rivela i caratteri
contraddittori della strategia del governo Draghi, che ci vede aderire più
convintamente di altri alla linea guerrafondaia americana benché il sistema produttivo
nazionale ne pagherà le conseguenze più di altri.
SS: Avere espulso la Russia dallo SWIFT
è stata definita l’arma nucleare finanziaria decisiva.
Ma è stato davvero così?
EB: No. È solo una delle forme che sta
assumendo il protezionismo finanziario occidentale.
Molti
credono che l’esclusione della Russia dallo Swift e le altre famigerate
“sanzioni” siano state una conseguenza della guerra.
Non è
esattamente così.
In realtà, se ci pensiamo bene, queste
sanzioni sono soltanto una prosecuzione del “friend shoring”, una politica che ha ampiamente
preceduto la guerra e che, per le ragioni che indicavo prima, ha contribuito ad
alimentarla.
Talvolta,
le relazioni di causa ed effetto della storia sono l’esatto opposto di come
vorrebbero presentarcele.
SS: Già con l’emergere della pandemia i
singoli stati hanno cominciato una rincorsa a una maggiore indipendenza
strategica dall’estero, in primis sulle materie prime e sulla tecnologia.
La Cina ha lanciato l’e-Yuan e la stessa
Europa sta lavorando a un’infrastruttura di pagamento indipendente.
E tu
ora parli del “friend shoring”, che segna un’altra grande divisione tra le
economie del mondo.
Che
fine farà, secondo te, l’economia globalizzata per come l’abbiamo conosciuta?
EB: Come dicevo, il tempo della
globalizzazione è finito da un pezzo, da prima della pandemia, addirittura da
prima di Trump.
Il WTO
avvertì i primi segni di una svolta protezionista da parte degli Stati Uniti
già dopo la crisi del 2008, sotto la presidenza Obama.
La guerra in Ucraina non fa altro che
accelerare una tendenza già in atto da diversi anni.
Ci vorrà molto tempo prima di vedere un nuovo
boom globalista.
SS: Non c’è il rischio di dare gli
Stati Uniti per finiti prima del tempo?
Tra
soft power, influenza e ricatto sull’Europa, controllo degli strumenti
sanzionatori e questa guerra che costringe a riconfigurare rotte commerciali e
iniziative strategiche asiatiche, non è possibile che il malato statunitense si
rianimi?
EB: La domanda che poni è utile per
evitare di cadere in un grossolano fraintendimento.
È un
fatto innegabile che gli Stati Uniti siano usciti sconfitti e indebitati dalla
globalizzazione e che siano anche stati superati dalla Cina in termini di PIL
calcolato a parità di poteri d’acquisto.
Ma è
sempre bene aggiungere che il primato generale americano sussiste tuttora, e che
la partita dell’egemonia futura resta aperta.
Uno
dei motivi è che l’occidente capitalistico in generale, e gli Stati Uniti in
particolare, godono ancora dei livelli più alti di produttività per singola ora
lavorata.
Questo
significa che, con una forza-lavoro molto più piccola, l’economia americana
riesce a produrre quasi quanto produce l’economia cinese, che dispone di una
popolazione enormemente maggiore.
È un chiaro indice di superiorità tecnologica
e di “rete”, che i cinesi ancora faticano a sfidare.
C’è poi un’altra ragione per cui l’egemonia
USA potrebbe resistere, nonostante i debiti e le attuali difficoltà
dell’imperialismo americano.
È
proprio il “friend shoring”.
Se
questo diventerà il nuovo status internazionale, gli Stati Uniti potranno
riguadagnare terreno mantenendo il controllo economico-politico all’interno del
recinto occidentale che avranno creato.
Ossia, sorgerà un nuovo assetto delle catene
della produzione, del commercio e della finanza internazionale, caratterizzato
da confini geopolitici difficili da valicare.
Gli americani manterranno così la loro
egemonia, ovviamente solo sull’occidente, un’area più circoscritta rispetto al
passato ma che resta molto grande e rilevante.
EC: Vorrei chiederti di parlare un po’
di più della questione del debito, anche al di là della guerra.
Perché
quella del debito è in fin dei conti la logica che sottende tanto agli scenari
geopolitici quanto sempre di più alle politiche interne ai singoli stati,
tramite l’austerity, che ha degli effetti enormi anche sull’autopercezione del
singolo cittadino.
EB: Sull’austerity, esiste certamente
un problema di autopercezione, direi anche di memoria storica.
Le autorità di politica economica, sorrette
dalla grande stampa, iniziano nuovamente a sostenere che il debito è troppo
alto, talvolta aggiungono che l’attuale inflazione dipende anche da un eccesso
di spesa, e
dunque concludono che bisognerà tornare alle politiche di austerity.
Queste tesi sono sbagliate e il fatto che tornino alla ribalta
mi sembra un chiaro sintomo di perdita della memoria storica.
Dovremmo
infatti ricordare che tra il 2008 e il 2013 abbiamo avuto l’opportunità di
mettere la politica di austerity sul banco di prova dei dati.
Abbiamo
potuto accumulare una grande quantità di evidenze empiriche per appurare se e
in che misura l’austerity potesse realmente dare i benefici annunciati oppure
no.
Ebbene,
le prove empiriche vanno tutte inesorabilmente in una direzione: le strette monetarie,
gli incrementi delle imposte e i tagli alla spesa pubblica causati
dall’austerity non sono riusciti a raggiungere nessuno degli obiettivi che
erano stati annunciati.
I
cardinali dell’ortodossia avevano detto che l’occupazione e il reddito non sarebbero
diminuiti, e invece sono crollati.
Avevano
assicurato che la disuguaglianza non sarebbe aumentata, e invece la forbice
sociale si è accentuata.
Addirittura,
l’austerity non è riuscita nemmeno a raggiungere l’obiettivo di ridurre il
debito.
Anzi,
spesso questa politica ha prodotto l’effetto opposto, perché ha depresso a tal
punto l’occupazione e il reddito da far esplodere il rapporto tra debito e
reddito.
Questo
“fallimento generale della politica di austerity” è talmente conclamato nella
letteratura scientifica da esser stato riconosciuto persino dal Fondo Monetario
internazionale e dal suo ex-capo economista Olivier Blanchard, che pure
l’avevano originariamente supportata.
È un
“mea culpa” sintomatico, direi, che ha ispirato anche un mio dibattito proprio
con Blanchard e alcune ricerche che ho realizzato insieme ai miei coautori.
La cosa inquietante è che oggi, a distanza di
un decennio, è come se avessimo perduto la memoria di quei fatti documentati.
Come
in un eterno, grottesco ritorno, sta riaffiorando il mantra dell’austerity come
panacea di tutti i mali.
È come essere di nuovo all’anno zero, come se
non ricordassimo più il fallimento di quella politica.
Questa
perdita di memoria collettiva mi sembra l’ennesimo indizio di un nuovo oscurantismo
alle porte.
EC: Ma a chi giova recuperare una
politica che si è già dimostrata fallimentare?
EB: L’austerity danneggia la collettività
nel suo complesso ma giova alle fazioni della classe capitalista che si trovano
in una posizione di forza, di credito, di attivo capitalistico, con tassi di
profitto superiori alla media.
Questi
capitalisti creditori possono tranquillamente sopportare le crisi scatenate
dall’austerity.
E
possono quindi trarre da esse l’occasione di vedere definitivamente sconfitti i
loro concorrenti più deboli e indebitati, in modo da “mangiarli”, come dicevamo
prima.
Insomma, non dimentichiamo che le politiche di
austerity rendono insolventi i capitalisti più piccoli e più fragili, e li
espongono alle acquisizioni da parte dei capitalisti più grandi e più forti.
L’austerity
è un grande acceleratore dei processi di centralizzazione dei capitali in
sempre meno mani.
Per
questo trova sostenitori, soprattutto nelle alte sfere.
EC: Parli spesso infatti di una lotta
politica che in questa fase storica rimane confinata alla classe dominante.
Grandi capitali contro piccoli capitali, creditori
contro debitori, capitalisti orientali contro capitalisti occidentali,
eccetera.
La
politica odierna esprime solo queste lotte interne alla classe capitalista,
mentre le classi subalterne restano sempre silenti, fuori dai giochi.
Sarei curiosa di capire che rapporto c’è tra
questo stato di cose e l’informazione che riceviamo, che è piena di portati
idealistici e giustificazioni ideologiche da qualsiasi parte provenga.
Per
esempio, sulle propagande occidentali e russe intorno alla guerra, tu scrivi: “
Queste
due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi
continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle
nazioni, alla protezione dei popoli.
Come
se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti.
Mai d’affari”.
È una
questione un po’ speculativa, ma vorrei sapere secondo te se le fazioni del
capitale e i loro rappresentanti credono alla loro stessa propaganda.
Che dose di cinismo e cattiva coscienza c’è? E
quanta di idealismo in perfetta buona fede? E c’è un’opzione preferibile tra
queste due possibilità?
EB: È una domanda interessante, alla
quale posso provare a rispondere in base a una personale esperienza.
In
questi anni ho avuto un privilegio che nella storia è stato concesso pochissime
volte ai critici del pensiero dominante:
sono
stato invitato a misurarmi in dibattiti a due con alcuni tra i principali
esponenti della teoria e della politica economica, italiana e internazionale,
da Mario Monti a Olivier Blanchard, da Lorenzo Bini Smaghi a Romano Prodi, da
Elsa Fornero a Giovanni Tria, e così via, fino a Daron Acemoglu.
Ebbene,
nei dibattimenti con questi grandi cardinali dell’ortodossia ho sempre trovato
sintomatico il fatto che il ruolo del cinico spettasse soprattutto a me.
“Cinico”, ovviamente, nel senso non dei
filosofi socratici ma di Wilde:
ossia, io guardavo le cose per come
materialmente sono, mentre i miei avversari dialettici le guardavano per come
avrebbero idealmente voluto che fossero.
Il
che, in effetti, mi ha sempre assicurato un discreto vantaggio durante quei
dibattiti: quello di poter contrapporre un discorso scientifico alle retoriche,
pur raffinate, dei miei interlocutori.
Ebbene,
questo strano gioco di ruolo si riproduce sempre, che si discuta di politica
economica o di guerra militare.
Direi
allora che questi grandi esponenti della politica dominante, con cui mi capita
di confrontarmi, sono affetti non tanto da “cattiva coscienza” ma da “falsa
coscienza”, nel senso di Marx ed Engels.
Ossia, i grandi ideologi del capitale, magari
per placare le loro nevrosi, possono aver bisogno di convincersi così tanto delle
loro narrazioni da risultare le prime cavie dell’ideologia che propugnano.
Al
punto tale, per esempio, che alcuni di essi sembrano davvero credere alla
favola secondo cui la moderna guerra capitalista esploderebbe per cause etiche
anziché economiche, come fosse motivata da sacri diritti negati piuttosto che
da profani contratti mancati.
Una
mistificazione totale!
Ovviamente, non tutti sono così confusi.
Tra i
cantori della visione prevalente c’è pure qualcuno disposto ad ammettere, in “camera
caritatis”, che non crede a un bel niente di quel che racconta in giro sulle
magnifiche sorti progressive del capitalismo.
Ma
questo tipo di agenti della propaganda, disincantati e feroci, rappresentano
una rara eccezione.
EC: Questa tendenza a mistificare la
realtà scientifica sembra l’ennesima prova che capitalismo e democrazia sono
incompatibili, no?
Si parla tanto del fatto che in Cina o in
Russia non c’è democrazia, che lì è tutto mistificato dal potere politico.
Ma le cosiddette democrazie liberali occidentali
non sembrano passarsela molto meglio, anche semplicemente riguardo al rapporto
con fatti comprovati, dati scientifici.
Eppure, nonostante questi problemi, molti continuano a credere alla
teoria del ferro di cavallo, opponendo alla democrazia occidentale
l’autoritarismo orientale e usando questo spauracchio paradossalmente per spostare
l’elettorato sempre più su posizioni di destra, principalmente sul piano economico,
ma non solo.
EB: Sul grado di tutela della democrazia
e la libertà, e direi anche sulla qualità della stampa e della comunicazione,
tra i regimi liberali occidentali da un lato e i cosiddetti regimi autoritari
orientali dall’altro, sussistono tuttora differenze oggettive innegabili, in
termini di funzionamento delle istituzioni e di tutela dei diritti basilari.
Il
vero problema è che queste differenze si stanno riducendo, nel senso che dalle
nostre parti la democrazia e la libertà arretrano vistosamente.
Prendiamo
i dati elaborati da “Freedom House,” un’istituzione che parteggia per
l’occidente e che proprio per questo offre indicazioni interessanti.
Questo
istituto misura per ciascun paese del mondo i livelli di tutela della
democrazia e della libertà, ovviamente intese in senso tipicamente liberale.
Ebbene,
i dati indicano che le democrazie liberali d’Occidente partono da livelli di
tutela più alti, il che è piuttosto scontato dal momento che l’approccio
analitico adottato è di stampo liberale.
Nonostante
questo, però, i dati indicano che negli ultimi anni, dalle nostre parti, questi
livelli di tutela democratica si stanno riducendo in modo significativo.
Ossia,
iniziamo a convergere al ribasso, verso i cosiddetti regimi autoritari.
In un certo senso, sembra confermata la predizione di
Vladimir Putin, in una celebre intervista rilasciata al Financial Times qualche
anno fa:
il
nostro sistema democratico-liberale sta entrando in crisi, noi stiamo
somigliando sempre di più a loro, con un sistema decisionale sempre più accentrato
e ostile ai diritti.
EC: Perché succede questo? Perché la democrazia arretra?
EB: La mia tesi è che anche in questo
caso dobbiamo parlare di una tendenza oggettiva, profonda, di tipo sistemico.
Mi
riferisco, ancora una volta, alla tendenza chiave dell’analisi marxiana: la centralizzazione del capitale in
sempre meno mani.
Ne
parlavamo prima, anche riguardo alla Russia e agli Stati Uniti.
Ma il
fenomeno è mondiale: a livello globale, ormai oltre l’80% del capitale azionario
è controllato da meno del 2% degli azionisti.
In
pratica, questo significa che in tutti i paesi del mondo il potere economico è
ormai concentrato nelle mani di un piccolo manipolo di grandi oligarchi, un
club che oltretutto si restringe ancor di più ad ogni nuova crisi economica.
Questa tendenza trova conferma nelle analisi
empiriche più avanzate, ed è ormai riconosciuta anche dai grandi cardinali del
mainstream, per esempio Daron Acemoglu.
Ebbene,
io sostengo che questa tendenza alla centralizzazione dei capitali non crea
solo concentrazione del potere economico ma è anche alla base della
concentrazione del potere politico che pure abbiamo registrato in questi anni,
in termini di esautoramento delle rappresentanze popolari, di
“esecutivizzazione” delle decisioni politiche, di ricerca spasmodica di grandi
risolutori, di uomini forti a cui affidare i destini collettivi.
È un
movimento che ha totalmente distrutto le istituzioni novecentesche della
socialdemocrazia, e col passare del tempo aggredisce persino le istituzioni
liberaldemocratiche e i più elementari diritti politici e civili su cui si
basano.
Questa tendenza, secondo me, è la ragione
principale della crisi democratica dell’occidente capitalistico, e ci aiuta a
capire perché ci stiamo progressivamente avvicinando al livello di
accentramento dei poteri che è tipico dei sistemi politici orientali.
Gli
somigliamo più di quanto vorremmo ammettere.
Basti
notare un esempio su tutti: anche le democrazie occidentali possono oggi svoltare verso
una politica di guerra senza avvertire il bisogno di aprire un dibattito nelle
assemblee parlamentari, senza preoccuparsi troppo del vaglio democratico.
EC: Allora proviamo a parlare
dell’opposizione politica a queste tendenze che tu delinei.
Prevedi
che concentrandosi il capitale in poche mani e allargandosi la forbice della
disuguaglianza, si vada anche verso un’uniformizzazione verso il basso delle
condizioni della classe subalterna.
Questo
mi ha ricordato l’argomento “we are the 99%” di Occupy.
Cosa
non ha funzionato secondo te in quella fase dei movimenti?
È
stata una questione di repressione o ci sono stati degli errori nelle loro
strategie organizzative e/o comunicative?
E vedi
degli eredi possibili di quella stagione nel panorama attuale?
EB: Da Porto Alegre, alle grandi
manifestazioni contro la guerra, a Occupy Wall Street, a Black Lives Matter, ai
Pride sempre più politicamente caratterizzati, i vari movimenti di
emancipazione sociale e civile dell’ultimo quarto di secolo sono stati fiori
nell’immenso deserto del dominio capitalista mondiale.
Ogni volta che li abbiamo incrociati abbiamo
respirato un po’, e anche solo per questo meriterebbero gratitudine.
C’è
tuttavia un grave limite, che mi sembra di ravvisare in tutte le esperienze di
movimento di questi anni.
Nella
sostanza, penso di poter dire che si è trattato di movimenti “riformisti”.
Vale a
dire, in ultima istanza fiduciosi sulla possibilità di avanzare a piccoli passi
per correggere le storture del capitalismo, per depurarlo dai suoi rigurgiti
reazionari, per riformarlo pian piano in senso progressista, nell’interesse
collettivo delle classi subalterne, come in parte è accaduto nella breve
stagione virtuosa della seconda metà del Novecento.
Oggi,
però, questo orientamento “riformista”, dei piccoli passi, solleva un problema
enorme.
EC: Quale?
EB: È il problema posto dalle tendenze in
atto, verso la centralizzazione dei capitali e verso la corrispondente
concentrazione del potere economico e politico, così intensa da mettere in
crisi il vecchio ordine del capitalismo democratico.
In uno scenario del genere, così cupo e
violento, si pone un interrogativo:
siamo
proprio sicuri che una politica “riformista”, dei piccoli passi per correggere
pian piano le storture del sistema, sia anche solo minimamente praticabile?
Siamo certi che non si tratti ormai di una chimera?
A mio
avviso, se vogliamo essere onesti, nel senso anche solo puramente intellettuale
del termine, allora dovremmo iniziare a interrogarci sull’eventualità che
dinanzi a tendenze oggettive così soverchianti possa risultare molto difficile
far progredire il capitalismo con quelle azioni cumulative, passo dopo passo,
che sono state tipiche della logica del riformismo politico novecentesco.
Insomma, c’è una domanda urgente che bisogna
porre, se non in senso politico almeno in senso scientifico, fattuale: viviamo un’epoca in cui
oggettivamente sussiste l’impossibilità del riformismo?
Ecco, l’impossibile riformismo, inteso come politica
di piccoli passi verso il progresso e l’emancipazione, è una questione che
meriterebbe un dibattito aperto, franco, scientifico, tra tutti noi.
Ma al
momento vedo troppa paura in giro, nessuno osa affrontare l’argomento.
NP: Domanda enorme, che inevitabilmente
ci costringe a evocare l’alternativa:
se non può essere riforma, deve essere rivoluzione?
È
questo che intendi?
EB: Io mi limito a osservare che la
parola “rivoluzione” è già entrata nel lessico del potere, e dei grandi
cardinali dell’ortodossia capitalistica.
Penso
ancora una volta a Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI, che in un
paper scritto assieme a un altro grande insider del sistema, Larry Summers, ex
segretario al tesoro USA, e poi anche in un dibattito con me, ha evocato una
biforcazione inquietante:
per
evitare una “catastrofe” sociale ci vorrebbe una “rivoluzione” della politica
economica.
Parole
forti, decisamente inusuali per quegli uomini di establishment.
Ecco,
io temo che questo bivio spaventoso non sia affatto campato in aria, non sia
una mera voce dal sen fuggita.
Al
contrario, penso che quella biforcazione si intraveda all’orizzonte, e che
l’attuale dinamica di guerra ci avvicini ancor più verso di essa.
In questo senso, mi preoccupa molto il fatto
che tra i primi a riabilitare la parola “rivoluzione” siano stati proprio degli
uomini di potere, esponenti di vertice delle massime istituzioni economiche
internazionali.
È un
fatto da non trascurare, questo, perché una volta usurpata dal potere
costituito, come è noto, la “rivoluzione” rischia di diventare “passiva” nel
senso gramsciano “negativo” del termine, e finisce così per assecondare le
tendenze dominanti anziché pretendere di rovesciarle.
Al
contrario, i movimenti di emancipazione sociale sembrano in netto ritardo sulla
ripresa di un discorso sulla “rivoluzione”, appaiono ancora insicuri, timorati
dinanzi alla possibilità di rilanciare la parola scabrosissima, anche solo come
mera ipotesi politica.
Così,
dal lato delle classi subalterne, la parola “rivoluzione” resta indicibile,
inammissibile, un tabù assoluto.
Questo
impedisce anche di dare a questa parola un nuovo contenuto di classe, che sia
moderno, adatto ai tempi.
Una
tale differenza di approccio, uno scarto così accentuato nella
spregiudicatezza, anche linguistica, tra rappresentanti del potere costituito e
movimenti di rivendicazione sociale, secondo me segna un ritardo grave di
questi ultimi rispetto all’avanzare del processo storico, un ritardo che in
qualche modo andrebbe colmato.
EC: Come si può dare nuovo contenuto alla
parola “rivoluzione”?
EB: Personalmente ho cercato di proporre
una sorta di update del concetto di “rivoluzione” sgombrando il campo da certi
luoghi comuni del nostro tempo, che abbiamo accettato in modo del tutto
acritico, senza mai metterli in discussione.
Penso
ad esempio alla pedestre ideologia che vorrebbe ridurre la storia complessa
della pianificazione alla sola esperienza dello stalinismo.
E
penso alla famigerata equazione di Milton Friedman, secondo cui solo il
capitalismo garantirebbe la libertà.
Sono
narrazioni che vanno per la maggiore, ma ci vuol poco a capire che sono false,
contraddette dalla storia passata.
Lo
dimostrano i cenni di piano sperimentati in alcune democrazie occidentali da un
lato, e l’esistenza conclamata di regimi capitalisti di stampo autoritario
dall’altro.
Ma
soprattutto, io credo, queste idee false potrebbero esser contraddette dalle
possibilità del divenire.
In
questo senso, ho avanzato una tesi precisa:
a date condizioni, una nuova logica di pianificazione
collettiva potrebbe rivelarsi uno straordinario propulsore della libera
individualità sociale.
In
altre parole, è possibile sostenere che, in una sua forma specifica e
innovativa, piano è libertà.
Ho
persino osato parlare di liber-comunismo, in senso non liberale ma addirittura
libertino.
Una
provocazione per “épater le bourgeois et le prolétaire”, certo.
Ma al
di là dei nomi delle cose, che possono essere più o meno irriverenti a seconda
delle circostanze, è su questa cosa essenziale del rapporto potenzialmente nuovo
tra piano e libertà che a mio avviso sarebbe necessario lavorare oggi.
I
contributi personali, tuttavia, non sono minimamente sufficienti per un tale
scopo.
L’impresa di risignificare la parola
“rivoluzione” richiederebbe la messa in opera di colossali intelligenze
collettive.
Costruire un’intelligenza collettiva all’altezza di
una nuova sfida rivoluzionaria è un compito immane, di una difficoltà estrema.
Ma potrebbe rivelarsi urgente, viste le
tendenze in atto e le tremende biforcazioni che annunciano.
EC: Chi potrebbe farsi carico di un così
immane compito politico?
Nel tuo libro sembri puntare sulle generazioni più
giovani.
Sono
davvero pronte a rilanciare un’ipotesi “rivoluzionaria”?
EB: Una cosa certa è che i giovani, in
larghissima parte, vivono una immane contraddizione:
sono
totalmente immersi in una cultura dominante individualista e consumista ma le
loro effettive possibilità di affermazione sociale e di consumo sono sempre più
frustrate.
Questo
corto circuito tra ideologia e fatti è destinato a generare una
radicalizzazione delle posizioni politiche dei più giovani.
Molti
di essi andranno a rifugiarsi nelle vecchie strutture del familismo, quindi
riprodurranno la cultura retrograda che lo caratterizza, e per questo verranno
sedotti da forme di propaganda sempre più reazionarie che li renderanno
potenziali soldati per nuove guerre di Vandea.
Ma un’altra parte si radicalizzerà in direzione
opposta.
Qualche indizio, in questo senso, ce l’abbiamo
sotto gli occhi.
I
rapporti dell’Eurobarometro, di Pew Global Research e di altri centri di ricerca sparsi
nel mondo, evidenziano
una fortissima sensibilità delle generazioni più giovani verso i rischi di una
catastrofe climatica e una connessa volontà di cambiamento del sistema
produttivo in senso radicalmente ecologista.
Gli
stessi sondaggi mostrano anche un grande sostegno di molti giovani verso la
lotta alle discriminazioni razziali e sessuali, in concomitanza con una serie
di cambiamenti rilevanti nei costumi, una notevole fluidità nella visione delle
identità e degli orientamenti sessuali, e una concezione delle relazioni
affettive sempre più difficile da inquadrare nei canoni della famiglia nucleare
tradizionale.
Ma non
è finita qui.
A
questi interessanti segni di sovversivismo ecologista e libertario si aggiunge
una novità ancor più sorprendente.
A quanto pare, le generazioni più giovani
risultano sempre più critiche verso l’odierno capitalismo e sembrano sempre più
attratte da ipotesi alternative di organizzazione della società.
Da un
sondaggio dell’Institute
of Economic Affairs, si scopre che per il 75 per cento dei giovani intervistati
il comunismo “ha fallito solo perché attuato nel modo sbagliato” e che resta “una
buona idea”.
Un analogo sondaggio effettuato da Gallup
mostra che il 50 per cento dei giovani attribuisce un valore positivo alla
parola “socialismo”.
Una tendenza analoga sembra scaturire da un
sondaggio della “Victims of communism memorial foundation”, un’associazione di stampo
conservatore che si impegna per contrastare la diffusione di sentimenti
rivoluzionari nel mondo: stando all’indagine, il 70 per cento dei cosiddetti
“millenials” propende nettamente per il socialismo e circa il 20 per cento
ritiene addirittura che il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels
garantisca libertà e uguaglianza più della Dichiarazione di indipendenza
americana.
E ancora, un sondaggio dell’IPSOS Social Research Institute mostra che il 50 per cento della
popolazione mondiale intervistata considera tuttora gli ideali del socialismo
fondamentali per il progresso umano, con percentuali particolarmente alte tra i
più giovani.
Certo, sono soltanto sondaggi, che descrivono i nuovi
sentimenti di una miriade di giovani dispersi e isolati, ben lontani dal
tradursi in concrete ipotesi politiche.
Eppure,
ai vertici del potere nessuno commette l’errore di sottovalutarli.
Il motivo è che questo cambiamento nei
sentimenti politici è la conseguenza di un problema oggettivo irrisolto:
il
contrasto sempre più accentuato tra l’ideologia individualista e consumista
prevalente e la depressa realtà materiale in cui la gran parte dei giovani si
trova oggi a vivere.
Del resto, lo abbiamo detto e documentato, le
tendenze oggettive del capitalismo stanno spingendo verso la centralizzazione
del potere economico e politico in sempre meno mani, e quindi anche verso una
nuova marginalizzazione sociale di fasce sempre più ampie di popolazione,
specie più giovani.
Ecco,
in questo tempo shakespeariano che ci tocca di vivere, di farsa che rischia
continuamente di trasformarsi in tragedia, vale la pena di sollevare una
domanda prospettica:
è
possibile che proprio le tendenze oggettive del sistema a un certo punto
favoriscano l’emergere di una nuova intelligenza collettiva, che si riveli
capace di tramutare le delusioni del “riformismo” in una feconda disperazione,
e che riesca proprio per questo a raccogliere le istanze sovversive di singole
monadi isolate per tramutarle in una inedita pratica politica “rivoluzionaria”?
Da
lungo tempo siamo educati a rispondere risolutamente di “no”, in modo puramente
istintivo, direi pavloviano.
Eppure,
coloro che governano il funzionamento del sistema non escludono affatto una
simile svolta.
Anzi,
lavorano coscienziosamente ogni giorno per scongiurarla.
Penso
sia giunto il tempo di riflettere su diverso tipo di reazione, tra noi e loro.
Russia-Cina,
la nuova globalizzazione
che
cambia l'ordine mondiale.
Huffingstonpost.it
- Antonio Preiti – (28 Febbraio 2022) – ci dice:
L'accordo
stipulato in apertura dei giochi olimpici, lo scorso 4 febbraio, può essere
considerato il Manifesto strategico della nuova partnership euroasiatica contro
l'Occidente.
Siamo
portati a vedere l’invasione di Putin dell'Ucraina come un atto di potenza,
quasi un distillato di volontà di potenza, data la sua gratuità, e il pensiero,
alla ricerca delle sue cause e dei suoi possibili moventi, ci porta
automaticamente all'ex Unione Sovietica, o addirittura al suo passato
imperiale, al tempo degli zar.
Probabilmente
nella chimica dell'invasione sedimentano elementi sia dell'uno che dell'altro,
ma così forse ci perdiamo la novità dell'atto, cioè ci perdiamo la possibilità
di inquadrare l'invasione dell’Ucraina nel presente e nel futuro, non nel
passato.
Siamo
davanti a un cambiamento che si prospetta di essere radicalmente diverso
rispetto agli equilibri del mondo come lo conosciamo.
Non si
tratta di futurologia politica, ma di una analisi coerente di quanto sta
succedendo in questi ultimi mesi.
Partiamo
da un documento fondamentale di queste settimane, l'accordo stipulato in
apertura dei giochi olimpici, lo scorso 4 febbraio tra Russia e Cina.
Tra
l'altro, l'ipotesi ventilata in quei giorni, che l'invasione dell'Ucraina si
sarebbe realizzata non appena i Giochi fossero finiti, si è rivelata esatta.
Anche
per questo aspetto, ma non certo solo per questo, quel documento assume
particolare valore.
Se lo
guardiamo con attenzione vediamo una sintesi molto chiara della nuova
concezione del mondo, o della nuova ideologia dell'alleanza strategica tra
questi due paesi, anche se il termine "alleanza" non compare mai
esplicitamente nel documento.
Cosa
si sostiene in questo testo, che può essere considerato, a ragione, il
Manifesto strategico della nuova alleanza euroasiatica contro l'Occidente?
Il
primo punto riguarda la concezione stessa della democrazia.
In
sostanza si afferma che la democrazia non ha valore universale con una forma
già definita (libertà di stampa, di parola, con libere elezioni, contendibilità
del potere, ecc.), ma "assume le forme della tradizione di ogni paese,
incluso il suo sistema politico e sociale".
In sintesi, si nega che la democrazia, come noi la
conosciamo, sia un valore, ma si assume come democratico "qualunque assetto
statuale e sociale che deriva dalla tradizione di ciascun paese".
Detto
in breve: la democrazia liberale non è nulla, non ha nulla di distintivo.
Non ci
si ferma solo alla relativizzazione della democrazia, ma si relativizzano anche
i diritti umani, che solitamente sono considerati al di sopra di qualunque
regime politico e statuale.
Nel documento si afferma che i diritti umani
non devono essere usati come pressione su altri paesi ("human rights not
be used to put pressure on other countries");
anzi,
i due paesi vedono la rivendicazione dei diritti umani come una minaccia
("serious threats") a stati sovrani e una interferenza nei loro
affari interni.
Perciò
anche i diritti umani sono relativi e ogni stato stabilisce quali siano e come
debbano essere trattati.
La
parte politico-strategica arriva subito dopo, quando si afferma che i due paesi
intendono sviluppare piani per lo sviluppo dell'area euroasiatica accanto alla
Via della Seta per promuovere "una più grande interconnessione tra l'Asia
del Pacifico e le regioni euroasiatiche".
In
sostanza, si propone una globalizzazione euro-asiatica da contrapporre a quella
occidentale.
Riecheggia
qui l'assunto geo-politico di vari ideologi russi secondo cui il continente
euro-asiatico abbia il destino di contrapporsi alla Civiltà del Mare, cioè
quella atlantica.
L'evocazione
in termini di millenarismo fa assumere all'alleanza contorni identitari che
sono poi utilizzati, ad esempio, contro l'Ucraina, per dire che quel paese non
ha una identità storica, o per dire che Taiwan appartiene alla Cina.
Tra l'altro nel documento viene sostenuto che
"Taiwan è un'inalienabile parte della Cina e i due paesi s'impegnano ad
opporsi a ogni indipendenza dell'isola".
Il
manifesto del 4 febbraio descrive perciò la strada verso la fine della
globalizzazione come la conosciamo, perché indica una circolarità territoriale
che vuole essere autosufficiente:
dall’arco
del continente euroasiatico russo-cinese alla Via della Seta sulla parte
meridionale, che arriva fino alle propaggini dell'Europa nell'area
medio-orientale.
In
questa prospettiva assumono un valore strategico alcune decisioni dei due
paesi, perché costituiscono le infrastrutture per rendere autonoma la
globalizzazione euro-asiatica.
La creazione di un sistema di pagamenti che corra in
parallelo con il sistema Swift e lo sostituisca in caso di una sua
inaccessibilità;
la
progettazione e le prime sperimentazioni di una moneta digitale cinese che
sostituisca (o sia parallela) alle valute ufficiali correnti; il distacco (già pressoché
avvenuto) della rete di internet dei due paesi da quella mondiale.
È una
curva della storia che si sta realizzando in tempi molto brevi:
prima
avevamo la contrapposizione comunismo/mondo occidentale;
poi
abbiamo avuto alcuni decenni di piena globalizzazione mondiale, in cui
l'interscambio è stato non solo sul piano economico, ma anche su quello dei
valori di riferimento;
adesso
sembra di essere arrivati a un assetto post-ideologico, in cui conta la dimensione
fisica, appunto la geografia politica, intrecciata con i valori di riferimento
della tradizione ancestrale dei singoli paesi, in una situazione che possiamo
definire di doppia globalizzazione.
Il
nuovo disordine mondiale:
chi
semina vento raccoglie tempesta.
Infoaut.org
- Sandro Moiso – (27 febbraio 2022) – ci dice:
“Il
mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più”.
(Dmitrij
Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)
Sembrerà
un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di
guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un
sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine
ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto
come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio
quello di portare in piena luce e davanti agli occhi di tutti quelle stesse
contraddizioni, troppo spesso sommerse da un mare di menzogne e illusioni, cui
si è prima accennato.
Contraddizioni
di ordine economico, geo-politico, militare, sociale, produttivo e ambientale
che di volta in volta vengono segnalate singolarmente, in nome di
un’eccezionalità che invece, vista in una dimensione più ampia e completa,
dovrebbe essere percepita come norma di un sistema che, dopo aver suscitato
appetiti ed aspettative esagerate in ogni settore di una società in/civile
basata sull’egoismo proprietario e l’individualismo atomizzante, non può
soddisfare le aspirazioni materiali ed ideali che si manifestano globalmente,
sia a livello macroscopico che molecolare.
Prima
con la spartizione del mondo in due blocchi, definiti più dal punto di vista
ideologico che da quello della effettiva struttura economica, poi con il
preteso nuovo ordine mondiale a sola guida statunitense dopo il fallimento del
blocco definito come orientale o sovietico, era sembrato agli analisti politici
ed economici superficiali e agli ideologi da strapazzo come Francis Fukuyama
(politologo e teorico statunitense della “fine della Storia”) che fosse
possibile un lento e progressivo affermarsi dei valori democratici e liberali
occidentali e del conseguente modello di sviluppo e progresso capitalistico,
sotteso dagli stessi, a livello mondiale.
Il tutto
attraverso un costante appiattimento delle contraddizioni residue in funzione
di un radioso e felice futuro di sfruttamento e accumulazione di ricchezze (private più che pubbliche e,
possibilmente, più nella parte occidentale del mondo piuttosto che in quella
orientale e meridionale).
Così,
negli ultimi decenni, soprattutto nel paese di Sanremo e delle canzonette politically correct, il lavoro di chi non ha avuto
timore di “sporcarsi
le mani” con
la questione della guerra e di un suo possibile allargamento a livello generale
è stato visto come un’inutile e superata (forse ridicola per alcuni?)
predizione da eterna Cassandra, in un sistema in cui non solo le contraddizioni
inter imperialistiche, ma anche sociali erano invece destinate a risolversi
attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e della trattativa
qualunque essa fosse (diplomatica, sindacale o politico-parlamentare non
importa), purché non violenta e rispettosa delle regole del buon vivere
in/civile.
Purtroppo
per gli illusionisti del capitale e dei loro, talvolta inconsapevoli, seguaci
le cose non sono andate affatto così.
Anzi,
al contrario, gli eventi hanno preso una piega “imprevista” che, a partire
dall’11 settembre 2001, ha subito un’accelerazione legata al sorgere del
radicalismo islamico (anche e forse in maniera ancor più significativa nelle
periferie delle metropoli occidentali), alle lunghe e irrisolte guerre nel
quadrante mediorientale e afghano, al progressivo ritorno della Russia sulla
scena internazionale sia dal punto di vista militare che diplomatico (proprio a
partire dall’era Putin), all’irresistibile ascesa economica e politica della
Repubblica Popolare cinese, alle conseguenze della prima gigantesca crisi
finanziaria dovuta alle conseguenze della globalizzazione (2008 e anni
successivi), ad uno ipertrofico sviluppo della digitalizzazione e
dell’applicazione dell’elettronica in un contesto in cui sempre più spesso i
metalli e le terre rare di cui si fa uso sono quasi totalmente sotto il controllo
della Cina e della Russia e, in tempi ormai recentissimi, alle conseguenze
sanitarie economiche e sociali della pandemia oltre che del sempre più
drammatico manifestarsi della divisione politica (sociale razziale e di classe)
negli Stati Uniti e al precipitoso e infruttuoso ritiro degli stessi e della
NATO dall’Afghanistan.
Così,
in un articolo del comitato di redazione apparso il 14 febbraio scorso sul «Wall Street Journal», alla fine, una delle voci più
importanti del capitalismo statunitense ha dovuto prendere atto di tutto ciò,
anticipando i fatti successivi.
Un’invasione
russa dell’Ucraina sarebbe un evento fondamentale destinato ad accelerare il
nuovo disordine mondiale.
I segnali si stanno costruendo da anni, ma
l’America e i suoi alleati sono impreparati […]
L’amministrazione Biden ha fatto un discreto
lavoro di retroguardia nel mobilitare l’Europa e la NATO in opposizione ai
progetti della Russia sull’Ucraina […]
Gli
alleati sono per lo più a bordo della promessa degli Stati Uniti di
“conseguenze massicce” se la Russia invade, anche se ci chiediamo per quanto
tempo Germania, Francia e Italia manterrebbero la rotta.
Le
deboli sanzioni occidentali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008 e
della Crimea nel 2014, hanno incoraggiato Vladimir Putin a credere che l’Europa
non abbia la volontà di resistere con qualcosa di serio.
Quello
che Biden non ha fatto è spiegare agli americani i nuovi pericoli globali e
cosa deve essere fatto per proteggere gli interessi degli Stati Uniti.
Il
problema va ben oltre l’Ucraina.
La
Cina vuole conquistare Taiwan e dominare il Pacifico occidentale.
Il
nuovo condominio Russia-Cina significa che lavoreranno insieme contro gli
interessi degli Stati Uniti.
L’Iran
è vicino a ottenere un’arma nucleare e i jihadisti sono tutt’altro che
sconfitti.
L’avanzamento
della tecnologia e la sua proliferazione mettono anche a rischio gli americani,
in patria e all’estero.
L’attacco informatico al Colonial Pipeline dello scorso anno è stato un modesto
spettacolo del danno che un attore straniero può infliggere alla patria degli
Stati Uniti.
Le
armi ipersoniche e antisatellite potrebbero eliminare le difese statunitensi in
tutto il mondo in pochi minuti e con poco o nessun preavviso.
In una sorta di Pearl Harbor high-tech.
Niente
di tutto questo è allarmista o inverosimile per chiunque presti attenzione.
Eppure
la maggior parte degli americani sembra indifferente o compiacente riguardo ai
rischi.
In
parte questo è il risultato della stanchezza per le guerre in Iraq e
Afghanistan.
Gli
ultimi tre presidenti hanno anche alimentato il desiderio, a sinistra e a
destra, di tornare a casa, l’America.
Barack
Obama ha risposto docilmente alle avances di Putin e a quelle di Pechino nel
Mar Cinese Meridionale.
Donald
Trump ha assunto una posizione più forte e ha aumentato la spesa per la difesa,
ma ha anche alimentato l’illusione che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dal
mondo e rimanere al sicuro.
Biden
ha per lo più ignorato il mondo nella campagna del 2020 e il suo fallito ritiro
dall’Afghanistan ha convinto gli avversari, e persino molti alleati, che gli
Stati Uniti sono in ritirata.
Ma la
realtà alla fine morde, e ora lo sta facendo sotto gli occhi di Biden.
[…] La
diffusione dell’aggressione e del disordine minaccia la libertà e la prosperità
americane.
Nessuno
sta per invadere la patria, ma gli attacchi informatici potrebbero paralizzare
pezzi dell’economia.
Gli alleati che sono stati a lungo al nostro
fianco potrebbero voltarsi dall’altra parte per compiacere i nuovi stati
canaglia.
Gli
interessi economici degli Stati Uniti saranno a rischio.
Biden
dovrà anche spostare l’attenzione della sua presidenza dall’espansione dello
stato sociale interno al miglioramento della sicurezza nazionale.
Le sue
richieste di bilancio per la difesa dovranno aumentare in modo sostanziale.
Soprattutto,
Biden dovrà costruire alleanze bipartisan sulla sicurezza nazionale, come hanno
fatto Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman in altri punti cardine della
storia.
Le
forze isolazioniste emergono sempre quando il mondo diventa più pericoloso,
nella speranza che gli Stati Uniti possano nascondersi dietro una Fortezza
America.
Biden
dovrà trovare alleati in entrambe le parti per sconfiggere quel richiamo di
sirena.
Nel
1940 Roosevelt nominò i repubblicani Henry Stimson Segretario alla Guerra e
Frank Knox Segretario della Marina.
Iniziarono
a ricostruire le difese degli Stati Uniti in previsione che il paese potesse
essere trascinato nei conflitti che infuriavano in Europa e in Asia.
Truman
lavorò con Arthur Vandenberg, un tempo senatore isolazionista del GOP2, per
costruire la NATO e combattere la Guerra Fredda contro il comunismo.
Biden dovrebbe portare i falchi del GOP nei
ranghi più alti della sua amministrazione per ottenere consigli migliori e
sottolineare i pericoli che ci attendono.
Niente
di tutto questo sarà facile nella nostra politica divisa […]. Biden ha ancora
tre anni di mandato e i nemici del mondo non aspetteranno fino al 2024 perché
gli Stati Uniti si mettano d’accordo.
Non vi
può essere dubbio alcuno, scorrendo le righe appena proposte, che la richiesta
sostanziale del capitale finanziario (e non) americano al proprio governo sia
quella di prepararsi ad una guerra allargata, sostanzialmente mondiale.
Confermando
così anche quanto scritto nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista
«Limes» a proposito della spinta che l’attuale politica estera americana ha
dato al riavvicinamento politico ed economico, senza escludere al momento
quello militare, tra Cina e Russia.
Sulle
bandiere di ogni potenza è ricamato il motto romano “divide et impera”,
Washington dissente e incolla i Numeri Due e Tre, forse per noia del suo
esorbitante primato.
Matrimonio di puro interesse, indissolubile
fin quando cinesi e russi non stabiliranno chiusa per palese inutilità la
stagione dell’asimmetrica manipolazione reciproca.
Portiamo questo argomento a suggestione della
tesi per cui non solo l’ordine mondiale inteso ordine americano del mondo è in
crisi, ma che qualsiasi altro assetto contrattualizzato del pianeta è
improbabile.
Non
sappiamo quando il Numero Uno abdicherà. Ci illudiamo di poter stabilire che a
succedergli non sarà altro egemone. Più probabile un’età di torbidi…
Per aggiungere
poi ancora, poco dopo:
Il
generale cinese Qiao Lang ha sviluppato nel suo L’arco dell’impero la tesi per
cui l’errore ormai irrecuperabile di Washington è di considerare Pechino
massimo sfidante:
«In un futuro non troppo lontano, la vera
causa del declino dell’America non verrà dalla Cina, ma dall’America stessa».
Sarà
ripreso più avanti il discorso qui accennato sulla rovina proveniente da
fattori interni all’America settentrionale, mentre per adesso occorre
sottolineare come il rischio effettivo di una guerra allargata sia entrato di
colpo nel discorso mediatico mainstream, come non mai da molti decenni a questa
parte.
Come
ad esempio dimostra il direttore di «La Stampa», Massimo Giannini, nel suo
editoriale del 25 febbraio.
Con
tutta evidenza, la via delle sanzioni è insufficiente.
L’America
e l’Europa ne parlano da giorni, ne hanno annunciate “diverse e dolorose”
l’altro ieri.
Si è
visto com’è finita. Putin non se n’è neppure accorto, e 24 ore dopo ha
attaccato come se nulla fosse.
Ieri sera Biden ha rilanciato, parlando di
restrizioni economiche che costerebbero 3 trilioni di dollari al ricco Vladimir
e ai suoi “apparatciki”.
Armi
spuntate, purtroppo.
Vuoi
perché gli Stati che le dovrebbero applicare sono troppo divisi tra loro (come
dimostra il veto italo-tedesco posto al Consiglio europeo sull’ipotesi di
esclusione della Russia dal circuito finanziario Swift).
Vuoi
perché le sanzioni sono una spada senza impugnatura:
colpiscono
chi le subisce, ma feriscono anche chi le irroga (come dimostrano quelle sulle
forniture di gas, infinitamente più pesanti per l’Europa, che grazie a quello
russo soddisfa il 90 per cento del suo fabbisogno, di quanto non lo sarebbero
per Putin, che può dirottare facilmente l’eventuale invenduto alla “sorella Cina”).
Ci
restano solo le armi convenzionali, o magari addirittura nucleari?
La
prospettiva è agghiacciante in ogni senso, per gli effetti devastanti che
avrebbe in termini di costi umani, economici, diplomatici.
Ma
questo parrebbe il dilemma, oggi.
Lo “spirito
di Monaco”, che lascia a un altro Fuhrer i suoi Sudeti e getta le basi di
futuri stravolgimenti globali.
O lo
“spirito di Marte”, il dio furente e vendicativo che prepara la Terza Guerra
Mondiale.
L’alternativa
del diavolo. Perché se la seconda è moralmente scandalosa, la prima è
maledettamente pericolosa.
Ciò
che è interessante, nell’editoriale di Giannini è che il discorso su una
possibile guerra mondiale è definitivamente sdoganato:
in
entrambi i casi, infatti, il gran finale è costituito da una guerra su larga
scala.
Al di
là degli accostamenti tra Hitler e Putin, oggi così di moda e fuorvianti, non
certo sulla base del fatto che il secondo possa essere più accettabile del primo,
è però necessario annotare come in entrambi i casi la spinta alle annessioni
territoriali e all’espansionismo militare fu ed è determinato da un problema di
“spazio vitale” per la nazione ritenuta responsabile dell’aggressione.
Nel
caso di Hitler determinato dall’annosa questione del corridoio di Danzica e
dalle severe restrizioni territoriali e dalle riparazioni “di guerra” imposte
alla Germania dopo il primo conflitto mondiale che, come annotò già ai tempi un
osservatore come John Maynard Keynes, non avrebbe potuto condurre ad altro che
ad un altro conflitto.
Nel
caso di Putin da un’arroganza, tipica dell’Occidente americano e della sua
cecità prospettica, nel voler imporre basi della Nato, dopo averle distribuite
già in tutti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia, praticamente alle porte di
Mosca, posizionando i missili a poche centinaia di chilometri dalla capitale
russa (4 minuti di volo per eventuali missili ipersonici).
Dimenticando
così la massima del generale inglese Montgomery secondo il quale su ogni
manuale di strategia militare si sarebbe dovuto scrivere, fin dalla prima
pagina: Mai marciare su Mosca.
È
autentico casus belli, come ha anche dichiarato il direttore di «Limes», Lucio
Caracciolo, alla trasmissione serale condotta dalla Gruber la sera del 24
febbraio: «E’
stata la causa movente. Dal punto di vista russo, la Nato è il nemico che le
sta entrando in casa e l’allargamento fatto a partire dagli anni ’90 in maniera
sistematica dal punto di vista russo è percepito come una minaccia esistenziale».
Ritornando
invece all’editoriale della medesima rivista di geo-politica, può rivelarsi
utile riprendere il discorso sulla “debolezza americana”, di cui le accresciute
tensioni interne sono una riprova e allo stesso tempo, uno dei principali motivi
dell’altalenante azione politica, diplomatica e militare della superpotenza
atlantica.
Il
fenomeno geopolitico più importante del nostro tempo è la scissione interna
alla nazione americana. I tecnici della politica la marchiano “polarizzazione”.
Termine anodino.
Riduce
la scissione a biforcazione, meccanica all’interno di un insieme nel quale si
manifestano opinioni e tendenze diverse che si legittimano reciprocamente.
Qui
però è in questione l’identità collettiva. Postulato non negoziabile […] Non
dunque la classica bipartizione politica.
Qualcosa
di molto più intimo e radicale […]
Di qui
la crescita della violenza in un paese che vi inclina per nascita, come
testimoniano proliferare delle milizie e diffusione delle armi.
Fra l’etnia repubblicana, certo, ma anche
democratica, specie donne e neri che non contano sulla protezione dello Stato.
Nelle stesse forze armate, in particolare fra
i veterani, serpeggiano intenzioni sediziose.
Un
assaltatore del Campidoglio su cinque ha una storia militare.
[…] Dal destino manifesto al declino
manifesto? […]
Washington
al bivio: rilanciare o ritirarsi? Istinto e record storico spingono
all’offensiva […]
I
destinisti inconcussi puntano tutto sulla prima scelta, a costo di partire in
guerra.
Ma
guerra vera contro Cina o/e Russia, senza esclusione di colpi.
Non
l’ennesima guerretta persa o pareggiata dal 1945 in poi.
Rien ne va plus?
I declinisti timorosi di perdere tutto,
perplessi sulla tenuta del fronte interno, invitano a restringere l’angolo
d’impegno esterno […]
Se l’America scansa la scelta, saranno gli
sfidanti a imporle le proprie.
Convinti
di potersi manifestare molto più aggressivi grazie allo sfasamento del leader.
Cina e
Russia paiono disposte a rischiare la guerra, quanto meno in retorica (ma in
geopolitica la distanza tra parole e cose può svelarsi minore di quanto
appaia).
Da tre generazioni i pesi massimi non si affrontano
più in battaglia, se non per via indiretta.
Contingenza fortunosa o nuova legge storica?
Preferiremmo
non sciogliere la riserva.
Ma se
il lettore pretende, riluttando, indicheremmo busta numero uno.
Fuga
da kiev.
Un altro aspetto importante sottolineato invece da
Giannini è quello di una coalizione di alleati, quelli europei, estremamente
divisi, la cui dipendenza energetica da Mosca è anche dovuta alle
sconclusionate politiche neo-coloniali condotte da nazioni come la Francia che,
dopo aver definitivamente minato le basi dell’approvvigionamento energetico
italiano in Libia, si è poi trovata a vedersele contese da due avversari dal
ben diverso potenziale militare: Turchia e Russia.
Divisioni
dovute ad interessi geo-politici, economici e finanziari che restano assopite,
nel caso europeo, soltanto per l’ambiguo legame rappresentato dall’Unione
Europea e dalla “comune” appartenenza alla NATO.
Divisioni che dovrebbero far capire, anche ai
più testardi e duri di comprendonio, come il cosiddetto secolo breve si stia
invece rivelando come uno dei più lunghi della Storia, considerato che il ‘900
iniziato con il primo conflitto mondiale non è ancora mai finito e che anzi
vede tornare ripetutamente alla ribalta gli stessi fattori geopolitici, sociali
ed economici che finirono col determinare due guerre mondiali, un numero
imprecisato di dittature, di rivoluzioni e controrivoluzioni e, soprattutto di
stragi infinite.
In
ogni angolo del pianeta, ma anche qui in Europa dove le stesse contraddizioni
attuali già segnarono il cammino del martirio dei paesi balcanici negli anni
’90.
Come,
forse, anche il presidente ucraino Zelensky ha iniziato a comprendere di fronte
all’attuale disparità che intercorre tra le ridondanti promesse europee e
americane ed effettiva volontà di intervento a favore del suo governo.
Per
questo motivo le ultime righe di questo primo intervento non sono destinate ad
individuare le linee di sviluppo militare, geo-politico e strategico inerenti
all’attacco russo all’Ucraina, ma, principalmente, a sottolineare i ritardi e
gli errori, troppo spesso clamorosi, di tutti coloro che pur sentendosi parte
di un’opposizione all’esistente hanno preferito chiudere gli occhi, illudersi e
rivolgersi ad obiettivi apparentemente già belli e pronti, con tanto di
simulacri di movimenti nelle piazze, piuttosto che dedicare tempo e attenzione
a ciò che da tempo bolliva nella pentola degli apprendisti stregoni del
capitale e delle sue esigenze.
Perdendo
così l’occasione sia di farsi trovare pronti al momento dell’esplodere del
conflitto, sia di meritare qualsiasi riconoscimento o merito politico “reale”
per poter affrontare i difficili tempi che verranno.
Accontentandosi magari e ancora una volta di
accodarsi a movimenti pacifisti di stampo umanitario che non serviranno ad
altro che a motivare ancor di più la partecipazione a guerre che, sia da un
lato che dall’altro del fronte, non appartengono a chi vuole liberarsi da un
modo di produzione immondo. Ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud.
Così
mentre il capitale riuscirà probabilmente ancora a volgere a proprio favore
un’altra situazione difficile, come ha già saputo fare con l’emergenza
pandemica, avanzando fin da subito le richieste di riapertura di centrali a
carbone o nucleari per far fronte alla nuova emergenza energetica, gli
antagonisti da riporto continueranno a discettare, sulle orme di un
incartapecorito Agamben, su libertà individuale, democrazia formale ed altre
quisquilie, dimenticando che qualsiasi discorso di opposizione all’esistente deve
per forza di cose ruotare, senza se e senza ma, intorno ai due assi del
conflitto tra capitale e lavoro (guerra di classe) e dell’opposizione alle
insanabili contraddizioni inter imperialistiche (guerra imperialista)
intersecantisi sul piano cartesiano delle possibilità di rovesciamento reale
del modo di produzione attuale.
Unica
bussola possibile per orientarsi nel caos della disinformazione, della
propaganda, della paranoia, della drammatizzazione mediatica e della muffa
ideologica che vengono propinate come verità assolute da entrambe le parti in
conflitto.
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