PAESI INDEBITATI CONTRO PAESI CREDITORI.
PAESI
INDEBITATI CONTRO PAESI CREDITORI.
Il
Quadro è Lampante,
sotto
il nostro Naso.
Conoscenzealconfine.it
– (10 Febbraio 2023) - Nicoletta Forcieri - ci dice:
La
cosa è così semplice e lampante: vogliono smembrare la Russia, già da anni
oramai, e hanno cominciato a farlo dall’Ucraina (colpo di stato 2014, embarghi
economici e finanziari da anni, persecuzioni di massa dei russi, addestramento
milizie neonazi).
Modello
Yugoslavia.
Perché?
L’Ucraina è ricchissima di terre rare e di grano.
Ma non
solo.
Putin
è un sovranista scomodo, che ha fatto un po’ di pulizia tra gli oligarchi
traditori.
Putin
è riuscito laddove stava riuscendo Moro e quella classe DC stanca del dominio
Usa, o meglio fedele al dettato costituzionale: una sorta di economia mista.
Non vi
è niente di peggio per la “cricca finanziario-kazara” di un paese affrancato che persegua
l’economia mista.
Tutela
della proprietà privata di tutti e della libertà d’impresa, ma limitata da fini
sociali e cooperativi esercitati dallo Stato.
Essi
governano e controllano i popoli considerati allevamenti intensivi sempre
meglio con il neoliberismo o con il comunismo e adesso, colmo del paradosso, ci vogliono imporre una sorta di
capitalcomunismo, “non avrai nulla e sarai felice”, ridotto in schiavitù nella società
dell’internet trasparente e della sorveglianza ma “reddito universale per tutti”, cioè le briciole magari allietate
dagli occhiali del meta verso.
Sempre
loro hanno imposto la sharia, il fondamentalismo islamico, il velo integrale,
il terrorismo di Isis ecc. nelle violentate nazioni arabo petrolifere, per
asservire meglio quei popoli al sacrificio sull’altare del petrodollaro.
Sempre
loro imposero l’apartheid nella ricchissima Sudafrica, dominio di
Oppenheimer/Rothschild per le miniere di diamanti.
Sempre loro ci hanno imposto l’apartheid “pseudo
sanitario” con mascherine, lockdown, licenziamenti e delazioni negli ultimi
anni di Pan demenza.
Sempre
loro hanno dominato nelle parvenze di democrazie nostrane istituite nel dopo
guerra, perché finché non si estirpa il male alla radice non esiste democrazia
che tenga.
Il
male alla radice è proprio questo:
il mancato controllo democratico ed equo della
creazione monetaria, che non sia in capo a una banda di banchieri che poi in
Italia sono diventati la finanza anglosassone americana, non in capo ad enti
giuridici che barano nei bilanci.
Finché
non si ripristina la proprietà popolare della moneta, qualsiasi regime
economico finirà con il totalitarismo.
Con la
moneta debito si finisce sempre periodicamente e matematicamente nei cicli
recessivi e inflazionistici.
È
innato in questo tipo di moneta considerata MERCE e DEBITO, in un regime di
separazione artificiosa e criminale tra sistema bancario e governo/parlamento/stato
e popolo, senza un pagatore di ultima istanza.
L’euro
ha tante pecche, la prima delle quali è che è nato come derivato del dollaro e
del sistema della Federal Reserve.
Cosa
significa?
Significa che l’euro per valere ha bisogno di riserve
in dollari,
ne hanno bisogno gli istituti di credito, per emettere credito anche in euro e
per commerciare con il mondo, un commercio spinto al parossismo dai pazzi
globalisti (in primis le istituzioni e la casa reale di Olanda, ma qua le
competizioni di sprecano in Europa).
Significa
che l’euro per valere deve aderire al FMI che ha intronizzato il dollaro, FMI e
petrodollaro adesso messi a repentaglio dalle loro stesse folli politiche
atlantiste.
Significa
infine che tutta l’Europa è un satellite degli USA.
E qua
dico una banalità.
Ma il quadro si complica perché l’Europa non è
monolitica: avete mai pensato al ruolo della Gran Bretagna?
Basti pensare che la Fed nasce in origine
dalla Banca d’Inghilterra da cui ancora succhia la sua tela di ragno.
Intanto Ungheria e Turchia stanno remando
contro.
Anche la Serbia. E poi vedremo.
Nell’altro
schieramento, Russia, Cina, Brics che si sta delineando sempre più chiaramente,
si esprime la volontà di creare un “mondo multipolare” con altre valute
internazionali, e la Russia sta procedendo a ripulire l’Africa da antichi
colonialismi, non con la forza, ma con la richiesta di aiuto degli africani
stessi, vedasi ad esempio la cacciata delle basi francesi dal Mali e dal
Burkina Faso, due paesi principali della Francafrique.
Infine
il modello distruzione stato sociale ed economia mista in Italia lo abbiamo
vissuto in pieno con le stagioni delle stragi, di cui gli omicidi Moro e Mattei
sono emblematici, e delle privatizzazioni, che non sono assolutamente da
disgiungere, lo smantellamento dell’IRI e del sistema di banche pubbliche e di
interesse nazionale, regalando, SI’ PROPRIO REGALANDO, asset strategici ai
nostri nemici, a magnati stranieri, a chi si nasconde dietro al giochetto
simbolico della creazione monetaria in forma di liability a chi vogliono loro.
E qua
rinvio ad esempio al ruolo altamente ambiguo della Cina, con la presa delle
nostre infrastrutture energetiche di Terna, Italgas e Snam attraverso una
filiale di un’azienda di Stato cinese con base a Londra.
L’epigono dell’ambivalenza cinese e delle
privatizzazioni che hanno attraversato anche quel paese, in chiave rothschildiana
Londra centrica.
Ecco,
Putin dopo l’era glasnost e il pupazzo Eltsine, ha tentato e in parte vi è
riuscito, di creare una economia mista, sovrana.
Ma c’è
di più.
Quello
che ferisce e aggredisce la mafia kazaniana, quella che sempre più
sfacciatamente ostenta i suoi simboli satanisti, molachiani, ermafroditi,
cannibalisti nello show bizz, nei media, nelle feste, nei discorsi e persino
nelle leggi, è proprio la visione e il credo religioso su cui poggia la forza
di volontà e la determinazione russe, la Chiesa ortodossa capace di imprimere
un fortissimo carisma sul “gregge” russo e di contrastare efficacemente la
visione distopica e diabolica di un Occidente babeliano in pieno decadimento
storico, filosofico, alimentare, economico, sanitario, e chi più ne ha più ne
metta.
Pertanto
basti analizzare i precedenti:
Libia, tentativo in Siria, Afghanistan,
Libano, Iraq, ecc., l’intreccio di business nel passato tra talebani e CIA nel
controllo del commercio di eroina, basti considerare le sovvenzionate
rivoluzioni “colorate” che in parte si notano anche qua nella forma “green” di
fanatizzati giovani che ostruiscono il traffico o imbrattano i monumenti e le
opere d’arte per “la battaglia al cambiamento climatico”, oppure movimenti come
qualche tempo fa quello delle sardine, dove non certo brillanti personaggi
venivano “spinti” alla ribalta dei media.
Tutto
sponsorizzato da Soros o per lo meno, spinto e “raccomandato” dai media, cassa
di risonanza di quei poteri.
Ecco,
è quanto. Il quadro è lampante.
Forza
e coraggio, che la verità si sta facendo strada.
(Nicoletta
Forcieri)
(mittdolcino.com/2023/02/06/il-quadro-e-lampante-sotto-il-nostro-naso/)
LA
DISTOPIA UNIPOLARE DI YUVAL HARARI
CONTRO
IL GRANDE PARTENARIATO
EURASIATICO:
DUE PARADIGMI
TECNOLOGICI
SI SCONTRANO.
Comedonchisciotte.org
- Verdiana Siddi- (24 Giugno 2022) – ci dice:
(Matthew Ehret - canadianpatriot.org)
GEOPOLITICA-
TRANSUMANESIMO.
In
un’intervista del maggio 2022, il guru del World Economic Forum del Grande
Reset, Yuval Noah Harari, ha condiviso la sua visione distopica della prossima
fase evolutiva dell’umanità.
Secondo la sua valutazione, il problema
principale per l’élite di governo che gestisce il mondo non sarà risolvere la
guerra o la fame, ma piuttosto gestire l’emergente “nuova classe inutile
globale”.
Nelle
sue osservazioni Harari ha profetizzato l’imminente era post-rivoluzionaria
causata dal “progresso tecnologico”, affermando che:
Penso
che la domanda più grande forse nell’economia e nella politica dei prossimi
decenni sarà cosa fare con tutte queste persone inutili?
Il
problema è più che altro la noia e come fare con loro e come troveranno un
senso nella vita, quando sono fondamentalmente senza senso, senza valore?
La mia ipotesi migliore, al momento, è una
combinazione di droghe e giochi per computer come soluzione per [la maggior
parte].
Sta
già accadendo… Penso che una volta che sei superfluo, non hai più potere.
Le
riflessioni del consigliere misantropo di Klaus Schwab sono purtroppo opinioni
che sono passate dalla frangia dei romanzi di fantascienza distopica di qualche
decennio fa allo zeitgeist mainstream del XXI secolo.
Nella
nostra epoca confusa, transumanisti “esperti” come Harari hanno promosso il
punto di vista secondo cui la crescita tecnologica stessa provoca “mangiatori
inutili”, piuttosto
che la tolleranza della classe oligarchica parassitaria che un tempo era meglio
compresa essere al centro dei mali dell’umanità, generazioni fa.
Laddove
un tempo il progresso tecnologico era inteso come un processo liberatorio che
portava i frutti del lavoro mentale (alias: scienza e tecnologia) al servizio
dei bisogni dell’umanità, con l’effetto di liberare l’umanità dal vivere come
bestie nella piantagione di un signore, i transumanisti hanno capovolto la
filosofia del progresso tecnologico.
La
religione del sistema chiuso del transumanesimo.
Questa
nuova e bizzarra filosofia sostiene che abbiamo sbagliato a pensare alla
tecnologia come conseguenza dell’esplorazione dell’universo oggettivo da parte
della mente e dell’applicazione delle scoperte per migliorare la nostra vita
soggettiva. Inoltre, nega che la “mente” sia qualcosa di più della somma degli
atomi non viventi che compongono il cervello fisico.
Al
contrario, la “nuova saggezza” emersa sulla scia della rivoluzione cibernetica
degli anni Sessanta afferma che la tecnologia cresce con una vita tutta sua,
agendo come un “elan vital” sintetico e deterministico, senza alcun riguardo per il pensiero
umano o il libero arbitrio.
Harari
lo afferma esplicitamente, dicendo che:
Se si
hanno abbastanza dati e abbastanza potenza di calcolo, si possono capire le
persone meglio di quanto esse capiscano sé stesse e quindi si possono
manipolare in modi che prima erano impossibili e, in una situazione del genere,
i vecchi sistemi democratici smettono di funzionare.
Dobbiamo
reinventare la democrazia in questa nuova era in cui gli esseri umani sono
ormai animali hackerabili.
L’idea
che gli esseri umani abbiano un’“anima” o uno “spirito” e il libero arbitrio… è
finita.
Seguendo
le teorie di Marshall McCluhan, Sir Julian Huxley, il fondatore della
cibernetica Norbert Wiener, il gesuita transumanista Pierre Teilhard de Chardin
e l’erede intellettuale di Chardin, Ray Kurzweil, questi nuovi sacerdoti della quarta
rivoluzione industriale hanno predicato un nuovo vangelo all’umanità.
Come figura di spicco del Grande Progetto
Narrativo del WEF, Harari ha descritto questo nuovo vangelo dicendo:
Non
abbiamo risposte nella Bibbia [su] cosa fare quando gli esseri umani non sono
più utili all’economia.
Servono
ideologie completamente nuove, religioni completamente nuove che probabilmente
emergeranno dalla Silicon Valley… e non dal Medio Oriente.
E
probabilmente daranno alle persone visioni basate sulla tecnologia.
Tutto ciò che le vecchie religioni
promettevano:
felicità
e giustizia e persino la vita eterna, ma QUI SULLA TERRA con l’aiuto della
tecnologia e non dopo la morte con l’aiuto di qualche essere soprannaturale.
Avendo
sostituito Dio con i tecnocrati della Silicon Valley, Harari viene certamente
venduto come un “Mosè” della nuova era post-umana che i suoi stessi padroni
vogliono inaugurare nel mondo.
Questa
religione sintetica è di stampo neodarwiniano e ha alcuni assunti da vacca
sacra alla base del suo credo.
Uno di
questi presupposti è che i processi stocastici casuali (e quindi
intrinsecamente inconoscibili) su piccola scala definiscono una tendenza
generale delle tecnologie a crescere inesorabilmente verso stati sempre
maggiori di un fenomeno chiamato “complessità” (cioè l’aumento della quantità e
della velocità di trasmissione dell’interazione delle parti di un sistema nello
spazio e nel tempo).
Piuttosto
che ipotizzare che una direzione morale plasmi il flusso dell’evoluzione verso
l’alto, come presumevano le precedenti generazioni di pensatori prima del culto
della cibernetica, questi nuovi riformatori si affrettarono ad affermare che le
sciocche nozioni di “meglio” o “peggio” non hanno alcun significato.
Questi autoproclamati “Uber menschen” hanno riconosciuto
che la morale, proprio come Dio, il patriottismo, l’anima o la libertà, sono
concetti astratti creati dall’uomo che non hanno alcuna esistenza ontologica
nell’universo meccanicistico, freddo e in definitiva senza scopo in cui si
presume che esistiamo.
Nonostante
la casualità del comportamento stocastico che si presume “organizzi” tutti i
sistemi apparentemente ordinati, questi sommi sacerdoti credono fermamente in
un rigido insieme deterministico di “leggi” che modellano il nostro rapporto
sempre più complesso con la tecnologia.
Ad
esempio, si afferma che gli esseri umani sono destinati a subire
l’irreversibile perdita dei poteri mentali della specie ad ogni apparente
aumento della tecnologia, con l’I.A. che inevitabilmente sostituirà le obsolete
forme di vita organiche come i mammiferi hanno sostituito i dinosauri.
A
questo proposito, Harari ha affermato che:
Gli
esseri umani hanno solo due abilità di base – fisiche e cognitive.
Quando
le macchine ci hanno sostituito nelle abilità fisiche, siamo passati a lavori
che richiedono abilità cognitive. … Se l’intelligenza artificiale diventa
migliore di noi in questo campo, non c’è un terzo campo in cui gli esseri umani
possano spostarsi.
Come
tutti i transumanisti, Harari presume che queste “menti hackerabili” prive di
anima o di scopo siano solo l’effetto del comportamento chimico ed elettrico
totale degli atomi contenuti nel cervello e quindi quando risponde che questi esseri umani (da cui,
curiosamente, si esclude sempre) non hanno altro scopo se non quello di essere
resi “felici” dalla nuova religione sintetica, si riferisce solo alle droghe e
ai videogiochi che stimolano gli impulsi chimici che lui definisce la “causa”
della felicità.
La
nozione di felicità causata da stimoli non materiali come la gioia della
scoperta, la gioia dell’insegnamento e la gioia di creare qualcosa di nuovo e
vero non ha alcun ruolo nel freddo calcolo di questi esseri umani che aspirano
a diventare macchine immortali.
È
interessante notare che questa è la manifestazione psicobiologica della
dottrina geopolitica del pensiero hobbesiano a somma zero, che richiede che
tutti gli “interi” siano considerati semplicemente come la somma delle parti
che li compongono.
Gli
aderenti all’una o all’altra filosofia partono dal presupposto che qualsiasi
sistema materiale esistente in un dato “ora” è tutto ciò che può esistere,
poiché si nega l’esistenza di un cambiamento creativo o di principi universali.
Una
mente così patetica è costretta a presumere che la seconda legge della
termodinamica (alias: l’entropia) sia l’unica legge dominante che dà forma a
tutti i cambiamenti in ogni sistema chiuso che cerca di comprendere, dalla
biosfera, al cervello, all’economia e all’intero universo, ignorando tutte le
prove del cambiamento creativo, del disegno e dello scopo incorporati
nell’intero tessuto dello spaziotempo.
Transumanisti
e umanisti
Abbiamo
già notato che i sacerdoti transumanisti hanno predicato che i poteri della
mente umana si riducono irrevocabilmente a ogni aumento della “tecnologia”.
Naturalmente,
perché una tesi così assurda possa essere sostenuta, è anche necessario che
solo le tecnologie “informatiche” vengano prese in considerazione, altrimenti
si corre il rischio di riconoscere che le tecnologie produttive più elevate
liberino effettivamente gli esseri umani dalla vita manuale e ripetitiva della
banalità e liberino i loro poteri di ragione creativa che 12 ore al giorno di
lavoro bruto non hanno mai permesso di far sbocciare.
Quando
si introducono in questa equazione le tecnologie che riguardano l’aumento dei poteri
produttivi dell’umanità (come ad esempio le fonti energetiche sempre più
efficienti che consentono maggiori poteri d’azione pro capite e per chilometro
quadrato, come descritto nei cinque decenni di scritti del defunto economista
americano Lyndon LaRouche), allora crolla anche l’argomentazione che afferma
che “l’irrilevanza
dell’umanità aumenta in modo direttamente proporzionale al miglioramento della
tecnologia”.
Inoltre,
quando si ammette che la definizione di scienza e tecnologia possa essere estesa
di diritto al dominio della politica e della legge morale, l’argomentazione
crolla ulteriormente.
Infatti,
che lo si sappia o meno, le forme di governo e i sistemi di economia politica
sono, in realtà, forme di tecnologia con diversi progetti e modelli realizzati
con obiettivi oggettivi che vengono o meno raggiunti a seconda della saggezza o
della follia di chi elabora leggi e costituzioni.
A
differenza dei progetti di macchine convenzionali che funzionano secondo la
pura meccanica deterministica della fisica, indipendentemente dal libero
arbitrio, la
macchina del governo si forma ed è a sua volta plasmata dall’applicazione
intenzionale dei pensieri umani in una danza di fenomeni soggettivi e
oggettivi.
Quali
standard esistono per giudicare le forme “migliori” o “peggiori” di tecnologie
di governo?
Per
rispondere a questa domanda, è utile ascoltare le sagge parole del grande
“poeta della libertà” tedesco Friedrich Schiller, che nel 1791 scrisse “La
Legislazione della Sparta di Licurgo contro l’Atene di Solone”:
In
generale, possiamo stabilire una regola per giudicare le istituzioni politiche:
esse sono buone e lodevoli solo nella misura in cui fanno fiorire tutte le
forze insite nelle persone, nella misura in cui promuovono il progresso della cultura,
o almeno non lo ostacolano.
Questa regola vale sia per le leggi religiose
che per quelle politiche: entrambe sono spregevoli se limitano un potere della
mente umana, se impongono alla mente qualsiasi tipo di stagnazione.
Non
sarebbe possibile giustificare una legge, ad esempio, che, sebbene in un
determinato momento apparisse più opportuna, fosse un’aggressione contro
l’umanità e gli intenti lodevoli di qualsiasi tipo.
Sarebbe immediatamente diretta contro il Bene
più alto, contro il fine più alto della società.
Nei
suoi numerosi saggi, il grande scienziato, inventore e statista Benjamin
Franklin spiegò al mondo che il governo non era una “scienza del controllo” o
una “scienza della stabilità”, come molte élite dei suoi tempi e dei nostri
desiderano supporre.
Franklin
e altri importanti scienziati-statisti nel corso della Storia ritenevano che il
governo fosse meglio inteso come una tecnologia applicata che fa progredire una
“scienza della felicità” la cui espressione pratica, come ogni espressione
tecnologica di concetti scientifici, è dotata dei semi del proprio
auto-miglioramento infusi nel progetto.
Da qui
il brillante concetto dei documenti fondativi americani del 1776 e del 1787,
che istituivano un principio operativo fondato sulla nozione di costante
auto-perfezionamento, con la formulazione apparentemente contraddittoria di
“un’unione più perfetta” (un logico si lamenterebbe che questa costruzione è
un’assurdità, dal momento che qualcosa è perfetto/statico o migliore/mutevole,
ma non può essere entrambi).
Fortunatamente
Franklin e i suoi alleati erano scienziati e non logici e quindi sapevano bene
come comportarsi.
Questa
nuova forma di governo “del, dal e per il popolo” non doveva mai diventare una
macchina fissa, cristallizzata o statica in nessun momento, perché a quei tempi
si capiva meglio che se si fosse imposta una tale stasi, facendo sì che le
strutture formali soffocassero lo spirito creativo che aveva dato vita a quella
legge, allora
quella sciocca società era destinata alla decadenza, alla stupefazione e alla
tirannia assoluta.
Naturalmente,
la società era condannata se tale corruzione avesse preso piede troppo a lungo
ed è per questo che Franklin e gli altri autori della Dichiarazione d’Indipendenza
scrissero che:
Ogni
volta che una qualsiasi forma di governo diventa distruttiva di questi fini, è
diritto del popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo, ponendo
le sue basi su tali principi e organizzando i suoi poteri in tale forma, come a
loro sembrerà più probabile per ottenere la loro sicurezza e felicità.
L’eredità
anti-malthusiana dimenticata dell’America.
Questo
principio di auto-perfezionamento sia nella scienza che nella tecnologia e
nella politica statale fu enunciato brillantemente dal consigliere economico di
Abraham Lincoln, Henry C. Carey (1793-1879), che confutò la lugubre scienza
degli economisti della Compagnia britannica delle Indie orientali J.S. Mill e
David Ricardo, i quali avanzarono la pseudo-scientifica “legge dei rendimenti
decrescenti”.
Questa presunta “legge” presupponeva una
svalutazione deterministica della terra nel corso del tempo, mentre le rendite
aumentavano in base a una “legge di sfruttamento” dei non idonei da parte dei
“più idonei”.
Queste
teorie del sistema chiuso avanzate da tutti gli economisti imperiali britannici
non solo furono la base su cui Marx ed Engel elaborarono la loro teoria della
“lotta di classe” (ignorando completamente l’esistenza della scuola economica
anti-imperiale allora attiva negli Stati Uniti), ma furono anche la base del revival neo-malthusiano del Club
di Roma del 1968, che vide l’uso di modelli informatici per giustificare i
presunti “limiti fissi alla crescita dell’umanità”.
Questi modelli sono stati incorporati nel Forum
economico mondiale durante l’evento del 1973 che ha visto la stesura del
“Manifesto di Davos” che delinea le nozioni di Schwab sul “capitalismo degli
azionisti”.
Nel
suo “Unity of Law” (pubblicato nel 1872)[2], Henry C. Carey dimostrò non solo
che il progresso tecnologico faceva sì che le terre improduttive diventassero
più produttive nel tempo, ma anche che il potere di sostenere la vita aumentava
anziché diminuire con l’aumento dei rendimenti per tutte le parti in un sistema
di cooperazione reciproca a somma non zero.
Carey
si concentrò sul semplice rapporto tra la mentalità umana e la forza della
natura come interazione reciproca nel tempo.
In questa interazione tra le cosiddette forze
“soggettive” della mente e le forze “oggettive” delle leggi della natura, si è
stabilita una coerenza tra l’umanità e le leggi scoperte della creazione.
Carey
dice di questa interazione:
Quanto
più perfetto è questo potere [di autodirezione], tanto maggiore è la tendenza a
un maggiore controllo della mente sulla materia;
il
misero schiavo della natura cede gradualmente il posto al padrone della natura,
nel quale il sentimento di responsabilità verso la sua famiglia, il suo Paese, il
suo Creatore e sé stesso, cresce con l’aumento del potere di guidare e dirigere
le vaste e varie forze poste al suo comando.
Dal
1787 all’assassinio di John F. Kennedy nel 1963, l’andamento generale della
repubblica statunitense, in particolare e del mondo occidentale, più in
generale, è stato certamente turbolento e spesso autodistruttivo, in gran parte a causa della mano
sovversiva delle operazioni dello Stato profondo “Deep State”, incentrate su
Londra e attive in tutto il mondo.
Ma
nonostante queste turbolenze, ha prevalso un’etica generale fondata sull’amore
per il progresso tecnologico, Dio, la nazione, la verità e la famiglia e, per
la maggior parte, la tendenza di ogni generazione a vivere in un mondo migliore
di quello lasciato dalle generazioni precedenti era la norma.
All’interno di questo sistema di valori, era
generalmente inteso che gli obiettivi morali, scientifici e politici della
specie erano uniti in un unico arazzo di auto-perfezionamento e libertà.
Parlando
all’Accademia Nazionale delle Scienze il 22 ottobre 1963, il Presidente Kennedy
prese di mira il marciume degli ideologi del sistema chiuso che allora
cominciavano ad agganciarsi alle leve della politica e della cultura dicendo:
Malthus
sostenne un secolo e mezzo fa che l’uomo, utilizzando tutte le risorse
disponibili, avrebbe premuto per sempre sui limiti della sussistenza,
condannando così l’umanità a un futuro indefinito di miseria e povertà.
Ora
possiamo cominciare a sperare e, credo, a sapere che Malthus non esprimeva una
legge di natura, ma solo i limiti della saggezza scientifica e sociale.
Un
secolo prima, anche Henry C. Carey aveva attaccato Malthus per nome dicendo
che:
Di
tutti gli espedienti per schiacciare ogni sentimento cristiano e per sviluppare
il culto di sé che il mondo abbia mai visto, non ce n’è stato nessuno che abbia
il diritto di rivendicare un rango così alto come quello che è stato, e che
ancora oggi viene quotidianamente, assegnato alla legge malthusiana della
popolazione.
Nonostante
le forti voci contrarie dei malthusiani e degli eugenisti, i fatti materiali
del rapporto dell’uomo con la natura negli ultimi mille anni confermano le idee
di Franklin, Carey e Kennedy.
Ogni
volta che le persone hanno goduto di libertà politiche e opportunità economiche
adeguate, l’umanità ha aumentato non solo le sue “capacità di carico” in modi
che nessun’altra specie animale avrebbe potuto fare, passando da un miliardo di
anime nel 1800 a quasi 8 miliardi di oggi, ma anche balzando da un’aspettativa
di vita media di 40 anni nel 1800 (negli Stati Uniti) a 78 anni oggi. Nel
frattempo, la produttività pro capite è tendenzialmente aumentata insieme
all’emancipazione politica (almeno fino al colpo di stato economico-finanziario
del 1971, per quanto riguarda la società transatlantica).
L’Eurasia
e la difesa della legge naturale.
Mentre
nell’ultimo mezzo secolo la coerenza con la legge naturale (sia scientifica che
morale) è stata abbandonata nel mondo occidentale, lasciando il posto a una
pseudo-religione transumanista e neo-eugenetica alla base di un ordine
unipolare basato su regole, la fiaccola è stata raccolta da importanti statisti
dell’Eurasia che hanno deciso di resistere alla tendenza verso una distopia neo-feudale.
Nel
suo discorso programmatico del 17 luglio al XXV Forum economico internazionale
di San Pietroburgo, il Presidente Putin ha descritto il suo concetto di crescita
tecnologica, miglioramento industriale e multipolarità nei seguenti termini:
Lo
sviluppo tecnologico è un’area trasversale che definirà l’attuale decennio e
l’intero XXI secolo. Nel corso della prossima riunione del Consiglio per lo
Sviluppo Strategico esamineremo in modo approfondito i nostri approcci alla
costruzione di un’economia innovativa basata sulla tecnologia, una tecno-economia.
Le
cose da discutere sono tante. La cosa più importante è che devono essere prese
molte decisioni manageriali nell’ambito dell’istruzione ingegneristica, del
trasferimento della ricerca all’economia reale e della fornitura di risorse
finanziarie per le aziende high-tech in rapida crescita.
I
cambiamenti nell’economia globale, nelle finanze e nelle relazioni
internazionali stanno avvenendo a un ritmo e a una scala sempre maggiori.
La
tendenza a favore di un modello di crescita multipolare al posto della
globalizzazione è sempre più marcata.
Naturalmente,
costruire e plasmare un nuovo ordine mondiale non è un compito facile. Dovremo
affrontare molte sfide, rischi e fattori che oggi è difficile prevedere o
anticipare.
Tuttavia,
è ovvio che spetta agli Stati sovrani forti, quelli che non seguono una
traiettoria imposta da altri, stabilire le regole del nuovo ordine mondiale.
Solo gli Stati potenti e sovrani possono dire
la loro in questo ordine mondiale emergente.
Altrimenti,
sono destinati a diventare o a rimanere colonie prive di qualsiasi diritto.
Confrontate
questi concetti con la visione desolante di Harari e dei suoi mecenati
transumanisti, devotamente impegnati in un ordine unipolare di stasi e di fine della
Storia, quando Harari descrive il ruolo della tecnologia nella creazione di una
nuova classe inutile globale “post-rivoluzionaria”, per sempre sotto il dominio
dell’emergente “casta alta” di élite dai colletti d’oro di Davos:
La
casta alta che domina la nuova tecnologia non sfrutterà i poveri. Semplicemente non avrà bisogno di
loro. Ed è molto più difficile ribellarsi all’irrilevanza che allo
sfruttamento.
Dal
momento che la tecnologia ha reso inutile la maggior parte dell’umanità e che
la nuova forma emergente di governo unipolare tecnotronico renderà obsoleto
ogni potenziale di rivoluzione, la domanda che Harari si pone è: cosa si farà con la
piaga dei mangiatori inutili sparsi per il mondo?
Qui
Harari segue le orme tracciate dalla sua precedente anima gemella Aldous Huxley
durante la sua famigerata conferenza “Ultimate Revolution” del 1962 al Berkley
College, sottolineando l’importante ruolo svolto da droghe e videogiochi:
Penso
che la domanda più grande in economia e in politica nei prossimi decenni sarà:
“Cosa fare
con tutte queste persone inutili?”.
Non
credo che abbiamo un modello economico per questo… il problema è più che altro
la noia e cosa fare con loro e come troveranno un senso nella vita quando sono
fondamentalmente senza senso, senza valore?
La mia
ipotesi migliore, al momento, è una combinazione di droghe e giochi per
computer.
Guardando
ai due paradigmi diametralmente opposti che si scontrano sul sistema operativo
che plasmerà il ruolo della tecnologia, dell’economia, della diplomazia, della
scienza e del progresso industriale nel XXI secolo e oltre, vale la pena chiedersi quale
preferireste che plasmasse la vita dei vostri figli.
(Matthew
Ehret).
(canadianpatriot.org/2022/06/21/yuval-hararis-unipolar-dystopia-vs-the-greater-eurasian-partnership-two-technological-paradigms-clash)
IL
PARLAMENTO EUROPEO
ABBRACCIA
IL CRIMINALE
DI
GUERRA ZELENSKYY.
Comedonchisciotte.org
– Markus – (09 Febbraio 2023) – ci dice:
(Kurt Nimmo) – (kurtnimmo.substack.com).
L'uomo
in verde riceve la standing ovation per le torture e gli omicidi dei Russi
etnici.
Giovedì,
la Reuters ha riportato che Zelenskyy e il suo entourage “avevano saputo,
durante un vertice, che diversi leader dell’Unione Europea erano pronti a
fornire a Kyiv [un certo numero di] aerei da combattimento per aiutare a
respingere l’invasione della Russia.”
“La
questione degli armamenti a lungo raggio e dei jet da combattimento per
l’Ucraina è stata risolta,” ha dichiarato Andriy Yermak, capo dello staff di
Zelenskyy. “I dettagli devono ancora essere messi a punto.”
Il
“tabù” dell’invio di armi in grado di colpire a centinaia di chilometri all’interno
della Russia sta per essere infranto, secondo Reuters, l’agenzia di “news” che
aveva collaborato con la CIA.
“Il
signor Zelensky ha ricevuto una standing ovation prima, durante e dopo il suo
discorso ai legislatori europei,” ha riportato The Hindu.
“Dopo il suo discorso [Zelensky] ha tenuto in
alto una bandiera dell’UE e l’intero parlamento è rimasto in cupo silenzio
mentre venivano suonati l’inno nazionale ucraino e quello europeo, l’Inno alla
gioia.'”
Più
che altro, un inno all’omicidio di massa.
La
Presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, ha dichiarato che il
“prossimo passo” sarà quello di fornire agli ultranazionalisti “sistemi a lungo
raggio” e jet da combattimento.
La
Metsola ha detto che la “risposta” allo sforzo russo di denazificare e
disarmare il regime di Kiev “deve essere proporzionale alla minaccia, e la
minaccia è esistenziale.”
La
Metsola, arrivata alla presidenza del Parlamento Europeo tramite un voto
segreto espresso dagli eurodeputati (non dai cittadini europei), sta portando
la guerra al livello successivo.
L’UE
sta incoraggiando il regime ultranazionalista di Kiev a riprendere la pulizia
etnica, le torture, gli stupri e gli altri crimini di guerra commessi nel
Donbass e ovunque gli Ucraini osino parlare russo, frequentare una chiesa
ortodossa, celebrare le tradizioni russe o esprimersi contro le atrocità
commesse dai teppisti neonazisti.
La
Metsola e i suoi colleghi collaborazionisti dovrebbero leggere “Crimini di guerra delle forze armate
e di sicurezza dell’Ucraina: torture e trattamenti disumani,” un secondo rapporto sui crimini di
guerra neonazisti in Ucraina pubblicato dall’ “Organizzazione per la Sicurezza
e la Cooperazione in Europa” (OSCE).
Il
documento, in formato PDF, rivela in modo raccapricciante i crimini di guerra commessi
dallo stato ucraino dopo il colpo di stato del Maidan, a Kiev, orchestrato dal
governo statunitense, che aveva portato al potere dei neonazisti dichiarati.
I dati
raccolti dal primo rapporto della “Fondazione per gli studi sulla democrazia”
permettono di concludere che le torture e i trattamenti disumani inflitti dalle
Forze di sicurezza dell’Ucraina (SBU), dalle Forze Armate ucraine, dalla
Guardia Nazionale e da altre formazioni del Ministero dell’Interno
dell’Ucraina, nonché da gruppi armati illegali, come Settore Destro, non solo
sono continuati, ma stanno aumentando di scala e stanno diventando sistematici.
Secondo
il rapporto,
I
prigionieri sono stati sottoposti a scariche elettriche, picchiati in modo
crudele e per più giorni di seguito con diversi oggetti (sbarre di ferro, mazze da baseball,
bastoni, calci di fucile, baionette, manganelli di gomma).
Le
tecniche ampiamente utilizzate dalle forze armate e di sicurezza ucraine
includono il waterboarding, lo strangolamento con la “garrota banderista” e
altri tipi di strangolamento.
In
alcuni casi i prigionieri, a scopo intimidatorio, sono stati mandati su campi
minati o investiti con veicoli militari, con esito fatale.
Altri
metodi di tortura utilizzati dalle forze armate e di sicurezza ucraine includono la frantumazione delle
ossa, il pugnalamento e i tagli da coltello, la marchiatura con oggetti
arroventati, lo sparare su diverse parti del corpo con armi di piccolo calibro.
I
prigionieri catturati dalle forze armate e di sicurezza ucraine vengono tenuti
per giorni a temperature gelide, senza accesso al cibo o all’assistenza medica
e spesso sono costretti ad assumere sostanze psicotrope che causano forti
sofferenze.
La
maggioranza assoluta dei prigionieri viene sottoposta a finte fucilazioni
accompagnate da minacce di morte e di stupro nei confronti delle proprie
famiglie.
Molti
dei torturati non sono membri delle forze di autodifesa delle Repubbliche
popolari di Donetsk e Luhansk (DPR e LPR).
La “Convenzione
sui diritti umani” “proibisce in termini assoluti la tortura, a prescindere da altre
circostanze,” e lo stato che commette queste violazioni “è responsabile delle
azioni di tutte le sue agenzie, come la polizia, le forze di sicurezza, altri
funzionari delle forze dell’ordine e qualsiasi altro organismo statale che
tenga un individuo sotto il proprio controllo, sia che agisca su ordine o di
propria iniziativa,” scrivono gli autori.
In
altre parole, ci sono prove più che sufficienti per condannare l’“Uomo in Verde
e i suoi sodali ultranazionalisti per gravi crimini di guerra”.
Inoltre, il governo degli Stati Uniti e
l’Unione Europea sono colpevoli di aver sostenuto e facilitato i crimini sopra
elencati.
A questi vanno aggiunti i proprietari e i
dirigenti dei media di propaganda bellica.
I
responsabili di questi crimini di guerra nell’UE e nel governo statunitense cercano di impedire alla Russia di
proteggere i civili a Donetsk, Luhansk, Mariupol, Melitopol, Kherson e in
Crimea.
È giusto dire che sono criminali di guerra e
apologeti del terrore neonazista.
Infine,
il prossimo video è estremamente disgustoso:
un criminale di guerra e la sua complice negli
omicidi di massa, nella tortura e nello stupro che si baciano davanti alla
telecamera.
In un
mondo più sano e meno crudele, entrambe queste nauseabonde creature sarebbero
in un tribunale simile a quello che aveva condannato a morte Martin Bormann,
Hermann Goering, Wilhelm Keitel, Julius Streicher e altri nazisti impenitenti.
(Kurt
Nimmo) – (kurtnimmo.substack.com)
(kurtnimmo.substack.com/p/european-parliament-embraces-war).
FRASCA
(ISS): “IL VACCINO COVID
PROVOCA
MIOCARDITI E DANNEGGIA
IL
SISTEMA IMMUNITARIO.
Comedonchisciotte.org
– Dott.ssa Loredana Frasca – (8-2-2023) – ci dice:
(ilgiornaleditalia.it)
“MI
SUICIDEREI SE PERDESSI MIO FIGLIO PER AVERGLIELO SOMMINISTRATO.
DOBBIAMO
DIRE LA VERITÀ.”
La
ricercatrice dell'ISS, in un'intervista esclusiva a” Il Giornale d'Italia”,
mette in guardia sulla sicurezza del vaccino anti-Covid dopo la pubblicazione
dell'articolo:
"Ci
sono evidenze scientifiche a supporto della tesi. Numerose persone sono morte o
hanno riscontrato reazioni avverse per colpa del siero".
"La Spike è stata trovata nel cuore, o
meglio l'RNA messaggero è stato trovato nel fegato dopo che era stato inoculato
il vaccino. Non resta nel braccio."
In
un’intervista esclusiva a Il Giornale d’Italia, Loredana Frasca, immunologa e
ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità, ha parlato del vaccino
anti-Covid e delle reazioni avverse.
L’esperta
ha pubblicato di recente, sulla rivista “Pathogens” lo studio “Safety of
COVID-19 Vaccines in Patients with Autoimmune Diseases, in Patients with
Cardiac Issues, and in the Healthy Population” che si occupa, fra le varie
cose, anche dei rischi derivanti dalla somministrazione del vaccino
anti-Covid in “soggetti sani, con malattie autoimmuni e con problemi cardiaci”.
“Ci
sono evidenze scientifiche a supporto della tesi.
Numerose
persone sono morte o hanno riscontrato reazioni avverse per colpa del vaccino“,
ha spiegato la dottoressa, riportando i dati emersi in altri studi sulle
miocarditi, soprattutto nei bambini, e sulla proteina Spike.
“La
Spike è stata trovata nel cuore di persone che hanno avuto la miocardite dopo
il vaccino.
Invece, l’RNA messaggero è stato trovato nel
fegato di persone che hanno avuto un’epatite dopo il vaccino.
Ormai
è assodato che non resta nel braccio – ha spiegato l’esperta – questo è il
problema dei vaccini a RNA messaggero”.
Vaccino
anti-Covid non è efficace contro le attuali varianti: ricontrollare rapporto
rischi-benefici e reazioni avverse.
“Il
vaccino anti-Covid non è efficace verso le attuali varianti. Ci sono varie
pubblicazioni al riguardo.
A questo punto, visti anche gli eventi
avversi, è necessario verificare il rapporto rischio-beneficio.
Questo
andrebbe fatto per le persone giovani, per le persone anziane e per chi ha
fragilità come le malattie autoimmuni.
Ho
fatto presente che la comunità scientifica sarà chiamata a discutere se dovrà
ancora incoraggiare i vaccini, peraltro con Omicron, o se dovrà fare una
discussione più accurata sugli eventi avversi e sulla loro frequenza.
Mi sembrava qualcosa di normale, ma loro
l’hanno presa male”, ha rivelato la dottoressa Loredana Frasca in un’intervista
esclusiva a Il Giornale d’Italia, riferendosi anche allo studio condotto per
l’Istituto Superiore di Sanità e da cui però l’istituto stesso ha preso le
distanze.
“C’è
libertà nella ricerca.
Anche altre volte mi è stato chiesto di fare
una review su certi argomenti. Io non dovevo fare altro che scrivere la verità.
Io lavoro in scienza e coscienza.
Se a me i dati dicono una cosa – ha proseguito
l’esperta – io scrivo quella cosa. Non è giusto evitare di scrivere quello che
dicono i dati.
Questi
argomenti riguardano tutti, perché siamo stati tutti obbligati a fare i
vaccini.
Anche
i nostri figli dai 12 anni in su sono stati obbligati, anche solo per poter
fare sport.
Se
loro non avessero obbligato la gente e avessero lasciato la libertà di scelta,
forse le cose sarebbero andate in modo più soft.
Invece così la gente poi si accanisce contro
di loro”.
Frasca:
“Tanti
danneggiati da vaccino anti-Covid: tra le reazioni avverse il cancro, la
riattivazione di malattie pregresse e la morte”
“Io
conosco tantissimi danneggiati da vaccino. Ho fatto il vaccino
Johnson&Johnson e mi sono fermata a una dose e comunque ho degli eventi
avversi a mesi di distanza e so che si tratta di questo, mi sono confrontata.
Ad un
mio parente si è riattivato il cancro dopo il vaccino, una mia conoscente è
morta dopo la somministrazione del vaccino.
Ormai è di dominio pubblico quello che sta succedendo.
A me dà fastidio il fatto che tengano il vaso
di pandora chiuso.
Io ho
fatto una cosa scientifica. Persino la controinformazione spinta mi ha dato
anche addosso sostenendo che io facevo finta di criticare il vaccino, ma in
realtà non si aspettavano nulla da persone che sono dentro al sistema come me.
Ma il
mio non era un articolo polemico, ma scientifico, in cui ho riportato tutte le evidenze
“.
Quanto
alle reazioni avverse al vaccino anti-Covid, la dottoressa Frasca ha precisato:
“Di
persone danneggiate dal Covid ne conosco solo una che attraverso alcuni
trattamenti che sto facendo anche io, è guarita e sta bene, mentre danneggiate
dal vaccino ne conosco tantissime”.
Io
conosco gente che ha avuto un peggioramento. (omissis) aveva un’afasia, parlava
però.
Invece
da quando ha fatto le dosi non parla più, è impossibile parlarci al telefono,
mentre bene o male prima si faceva capire.
Il
padre di una mia amica idem e, dopo quattro dosi, ad un mese dalla quarta dose
si è preso il Covid.
Allora
a che ti serve?
Io mi
sono fatta una dose di Johnson & Johnson della quale mi sono pentita
amaramente perché all’inizio mi ero fidata: ho pensato con la Pfizer no ma
quest’altro sì.
Però poi vedendo quello che è successo se
tornassi indietro non me lo farei.
Io me lo sono fatto quando ancora non c’era
neanche il super Green pass, non c’era neanche il Green pass.
L’ho fatto perché dovevo fare un viaggio
all’estero.
Poi dicevo “vabbè almeno sto tranquilla perché han messo il Green pass per
entrare all’istituto”.
Poi
però mi sono proprio pentita.
Ho
avuto una paura vedendo quello che usciva nelle pubblicazioni… io sono stata
terrorizzata.
Comunque
io questa estate sono stata male, non si sa quante volte mi è venuto l’herpes…
Ti dico la verità: ho avuto paura per la mia salute e ce l’ho ancora adesso…
vado a farmi le analisi spesso.
Nel tempo
ho visto che sapevano sempre più cose e io mi sono allarmata io stessa. Meno male che almeno a mio figlio più
grande non l’ho fatto fare questo vaccino sennò veramente mi sarei messa le
mani nei capelli se gli succedeva qualche cosa”.
Vaccino
anti-Covid ai bambini e reazioni avverse, lo studio thailandese: “Più di una miocardite e problemi
cardiaci ogni 300 vaccinati”.
“Alcuni
lavori si sono basati sulla sorveglianza attiva delle reazioni avverse.
Uno in
America e uno in Thailandia.
Quello
thailandese è molto interessante perché i ragazzi della scuola sono stati
monitorati con elettrocardiogrammi che hanno misurato anche la troponina c.
Su 300
ragazzi hanno trovato che il 2,5% aveva problemi a livello cardiaco e rilevato
miocarditi conclamate, miocarditi subcliniche e altre alterazioni.
Dunque più di 1 a 300.
Poi c’è un altro studio fatto in una scuola
americana, in cui a tutti gli studenti sono stati fatti elettrocardiogramma e
analisi della troponina.
Anche lì è stata rilevata un’alta frequenza di
problemi e alterazioni a livello cardiaco.
C’è
una tabella nella quale ho inserito la frequenza di miocarditi come verificata
dallo studio e ho indicato se si trattava di una sorveglianza attiva o una
sorveglianza passiva.
Perché
nella sorveglianza passiva nei giovani si trova una frequenza di uno a 10mila,
ma altri studi dicono 1 a 6mila.
Altri
dicono 1 a 3.300.
Tuttavia
nella sorveglianza passiva, ma anche in quella attiva abbiamo alcuni studi che
arrivano a 1 a 1.000.
1,4 persone giovani ogni mille. Quindi
maggiore di uno su mille. Questi articoli esistono”.
“Con
le malattie autoimmuni i giovani sono soggetti a miocarditi per problematiche
autoimmuni.
La
miocardite stessa in realtà è anch’essa una malattia autoimmune, con produzione
di anticorpi contro il cuore.
Le
persone con le malattie autoimmuni sono soggette a sviluppare sempre più
autoimmunità (puoi avere più di una malattia autoimmune nella stessa persona):
se hai la psoriasi poi puoi avere la artrite psoriatica.
Se hai
lupus cutaneo può evolvere in lupus sistemico.
Anche
il cuore viene attaccato per autoimmunità in certi casi.
Se noi consideriamo che nei giovani c’è un
elevato rischio di miocardite, e se consideriamo che tra i fragili ci sono tanti
giovani, ci sono tanti ragazzini con malattie autoimmuni o altre patologie,
allora io vado a compromettere ancora di più la salute dei bambini?
Perché gli faccio anche il vaccino così può
venire anche la miocardite con alta frequenza?
Alcuni
dicono ‘il vaccino lo facciamo solo ai fragili’, ma fra i fragili ci sono anche
i giovani.
Ci
sono i bambini.
Allora già questi hanno una vita compromessa e
io gliela comprometto ancora di più?
Poi comunque c’è uno sviluppo di autoimmunità
dopo il vaccino che è molto alto, al livello di sintomi come la sclerosi
multipla.
Ho saputo che nei pazienti con la sclerosi
multipla è stata trovata spesso una riattivazione della malattia.
Nel 5% dei casi fino al 19% dei casi c’è una
recrudescenza della malattia.
Perché gliela devo far venire al paziente se
quando viene il Covid io lo posso curare?”.
Vaccini
anti-Covid: la proteina Spike non rimane nel braccio, ma va dappertutto, anche
nel fegato e nel cuore.
“Avevo
partecipato a un convegno al Gemelli a inizio pandemia.
Quello che avevano riscontrato nelle ricerche
è che si sviluppavano degli autoanticorpi durante il Covid, perché è qualcosa
che induce l’autoimmunità ed è la stessa cosa che fanno i vaccini.
C’è il
meccanismo d’azione principe, quello di cui ho voluto parlare, quello
fondamentale: se prendo un mRNA incapsulato in un liposoma, non rimane nel
braccio ma va dappertutto.
Ci
sono lavori chiari sui liposomi, fanno vedere che non restano nel sito di
iniezione, ma vanno in circolo.
Quindi
se io faccio entrare i liposomi in qualsiasi cellula del sistema immunitario o
una cellula somatica, questa cellula subirà un attacco da parte del sistema
immunitario.
Per cui avrò una sindrome che è simile all’autoimmunità.
Ho
citato lavori dove la Spike è stata trovata nel cuore di persone che hanno
avuto la miocardite dopo il vaccino, o meglio l’RNA messaggero è stato trovato
nel fegato dopo che era stato inoculato il vaccino.
Esistevano
cellule che riconoscevano la Spike nel fegato e attaccavano il fegato. Sono
tutte evidenze, non me le sono inventate io.
Ormai
è assodato che non resta nel braccio.
Questo
è il problema dei vaccini a RNA messaggero.
Sono pericolosi per questo, perché non puoi
controllare la quantità di antigene e non puoi controllare dove l’antigene è
espresso e per quanto tempo”.
“Noi
immunologi quando studiamo la presentazione antigienica sulla risposta immune e
autoimmune, sappiamo quali sono le cellule coinvolte, alcune anche durante una
risposta antivirale, alcune cellule presentano gli antigeni virali, ma non
tutte perché c’è anche un tropismo da parte dei virus.
Qui
invece, questo vaccino sembra un virus che entra in qualsiasi cellula
indiscriminatamente, comprese le cellule del sistema immunitario.
Esistono
evidenze scientifiche che spiegano come il vaccino può alterare l’immunità.
Sono tanti meccanismi, ma un immunologo li
conosce.
Altri
lo capiscono, io ho un collega che mi ha detto:
‘Si è
vero, la Spike è una tossina‘, e allora? Secondo me la gente è stata
lobotomizzata.
Io ho
parlato anche con altri ricercatori che conosco, mi hanno dato retta ma alla
fine dicono che non vogliono ascoltare.
Ma ci
sono le evidenze, non vogliono ascoltare, per me invece c’è questo meccanismo,
per me e tanti altri immunologi e medici che la vedono come me.
Poi
l’ho letto in altri immunologi e medici americani.
La maggior parte di quello che ho spiegato era
suffragato da pubblicazioni ed evidenze scientifiche, perché è così che si
scrive un lavoro.
Uno
dice ‘può succedere questo, può succedere quest’altro’, si è vero, può
succedere qualsiasi cosa, ma che potevano succedere determinate cose l’ho
capito un anno e mezzo fa e non avrei mai potuto scrivere una review perché
adesso ci sono le evidenze scientifiche per scriverla, i dati a supporto.
Prima
no, erano supposizioni”.
Ho
agito in scienza e coscienza e ne ho parlato ora perché ci sono evidenze.
“Sono
un ricercatore che ha agito in scienza e coscienza e che soltanto adesso ha
potuto scrivere una cosa del genere perché solo ora ci sono evidenze chiare sui
meccanismi molecolari che sottendono al meccanismo d’azione di questi vaccini.
Perché
prima non c’era evidenza scientifica, non c’erano autopsie sulle miocarditi
indotte da vaccino.
La
tabella che io ho fatto ha cercato di fare ordine.
Allora
io ho dovuto fare ordine scrivendo quali erano i lavori di sorveglianza attiva,
quali parametri erano stati analizzati e quali lavori erano di sorveglianza
passiva, che sono diversi perché le miocarditi possono essere anche
subcliniche.
Io
posso avere un’alterazione del cuore e non me ne accorgo.
Lo
vedo solo se faccio l’ecocardiogramma e vado a misurarmi la troponina.
Ci
sono i trial iniziali che spiegano che il vaccino è efficace.
Il
problema è che adesso non è più così.
Nello
studio di Pescara sono esclusi tutti quelli che hanno problemi subclinici (non
transitate per un ospedale) che però nel tempo si possono aggravare, così come
le morti improvvise.
Ma
quel lavoro è impreciso: non ha analizzato i vaccinati e i non vaccinati per lo
stesso tempo. (520 giorni i non vaccinati, 200 i vaccinati, ndr).
Da
quella tabella si evince che i non vaccinati sono stati seguiti per un tempo
più che doppio e quindi come si fa a paragonare?
Io
dico la verità, il mio impegno a studiare tutta la vita non è stato per fare
carriera.
Io volevo fare il ricercatore da quando avevo 11 anni
per fare qualcosa per l’umanità e non pensavo di doverlo fare in questo modo,
scrivendo una review del genere, avrei voluto scoprire qualcosa come un
farmaco.
È una
questione di onestà intellettuale, se qualcuno avesse detto ‘cambia il titolo
del lavoro o scrivilo diversamente’ io non l’avrei scritto.
Poi io
non avevo bisogno di scrivere questo lavoro perché ne ho scritti e pubblicati
tanti.
Per
fortuna sto facendo delle ricerche interessanti, quindi un lavoro in più o meno
non mi costava niente.
Ma dal
momento che me l’hanno chiesto e mi si è data l’opportunità di fare chiarezza
su una situazione grazie alla mia expertise, l’ho voluto fare per dare un
servizio alla società perché di persone danneggiate dal vaccino ne conosco
tante, tantissime, e penso che le conoscano tutti perché con chiunque parlo mi
dicono la stessa cosa”.
Nei 15
giorni dopo il vaccino Covid, i vaccinati vengono contagiati di più rispetto ai
non vaccinati.
“Le
evidenze giornaliere sembrano indicare che tutti quelli che si sono fatti 3 e 4
dosi si sono presi il Covid.
Quel lavoro non l’ho citato perché era
sull’efficacia e non sulla sicurezza;
lavoro
fatto in Israele e pubblicato sul “new England of journal of medicine” dove
c’era un tabella supplementare in cui si vedeva benissimo che le persone
vaccinate nei primi 15 giorni si prendevano il Covid più di quelli non
vaccinati.
C’è
anche una spiegazione scientifica.
I
problemi delle vaccinazioni potrebbero avere allungato la durata del Covid,
perché spingono la mutazione e si creano nuove varianti.
Lo penso perché i virus sono sempre mutati
sotto la pressione selettiva del sistema immunitario e quindi in questo caso la
pressione selettiva l’ha fatta la vaccinazione, in particolare la proteina
Spike.
Fondamentalmente
la risposta indotta dal vaccino è una risposta molto ristretta, mentre invece
la risposta naturale è una risposta ampia, ad ampio spettro.
Infatti
la variante delta è venuta fuori mentre vaccinavano in Inghilterra.
Frajese
l’ho sentito parlare tante volte e anche lui chiaramente ha espresso tutto
quello che penso.
Anche
lui la pensa nello stesso modo rispetto anche all’attacco autoimmune e
all’iperstimolazione del sistema immunitario.
Io
sono immunologa cellulare e mi sono occupata di tante cose:
risposte
ai trapianti, risposte agli agenti infettivi, in particolare al virus
dell’epatite C.
Mi
sono occupata anche del fenomeno della tolleranza immunologica.
Per
questo poi ho trattato le malattie autoimmuni e ho studiato la presentazione
antigenica.
Ho
fatto tante cose.
Ho
fatto una parte del dottorato all’Imperial college a Londra. Poi tra il 2007 e
2008 ho lavorato a Houston.
Ultimamente dal 2011 al 2015 ho lavorato in
Svizzera e all’università di Losanna e poi all’università di Ginevra.
Quindi mi sono occupata di questi argomenti e
ho fatto tanta esperienza anche in posti diversi oltre che all’Istituto
Superiore di Sanità.
Anche all’università La Sapienza. Penso di avere abbastanza
esperienza”.
I
bambini e i giovani non vanno vaccinati perché rischiano la miocardite.
“Secondo
me non vanno vaccinati perché comunque possono avere anche loro la miocardite.
Se non
l’hanno avuta è perché, a mio modesto parere, la partita di RNA che gli
somministrano è inferiore.
Quindi
diciamo che molto probabilmente il vaccino è pure poco efficace e anche per
questo ha meno affetti avversi.
Questa è la mia idea.
I bambini non hanno rischiato neanche col
primo Covid e non hanno rischiato con le altre varianti.
A
maggior ragione non vedo perché rischierebbero con la variante Omicron quando
poi si può curare”.
“Mi
suiciderei se perdessi mio figlio dandogli un farmaco pericoloso”.
“Addirittura
io so gli Usa hanno autorizzato dai sei mesi addirittura… dai sei mesi ai 4
anni, perché comunque il cosiddetto trial, che poi è una cosa ridicola per il
numero di test, è stato approvato.
È stato fatto un trial dalla Pfizer per i
bambini da sei mesi a quattro anni compiuti. Adesso come adesso, io so che vogliono
implementare anche questo tipo di vaccino nei bambini.
Quello
che dico io è “poveri genitori”.
Poveri
i genitori di bambini fragili che fanno questo tipo di vaccinazione ai loro
bambini e poi questi bambini si sentono male.
Se un
giorno questi genitori capiscono quello che hanno fatto… cioè se io fossi uno
di questi genitori mi suiciderei se perdessi mio figlio per colpa mia.
Un
conto è perderlo perché il bambino sta male di suo, un conto è perderlo perché
io non ho capito che gli stavano dando un farmaco pericoloso.
Diciamo
che quando ho scritto questa review ho pure pensare ai bambini, soprattutto ai
bambini fragili.
Ho
pensato anche ai ragazzi fragili e ai giovani fragili perché un giovane maschio
fragile rischia la miocardite tantissimo.
Quindi
io lo devo aggravare?
Ad uno
con la sclerosi multipla gli devo far venire pure la miocardite?
A uno
che c’ha malformazioni? Io non lo so dove siamo arrivati.
Io
comunque sto in contatto anche con ricercatori all’estero.
Mi dicono: “Eh ormai il Covid è finito, ma che
ti importa”. Però mi dicono pure: “Ma in Italia parlano sempre di Covid?”.
Qui in Svizzera ce lo siamo dimenticati, in
Italia ne parlano continuamente eppure non è che l’abbiamo solo noi.
Siamo
gli unici che ne parlano.
Me lo
chiedono i colleghi: “Ancora con questo Covid? Ma quando la finite?”. Questo perché devono vendere, non lo
so perché, molto probabilmente ci sono degli interessi.
Io
faccio fatica a capire. I miei figli non faranno questi vaccini, mai. Uno ha 11
anni e mezzo e quindi io non l’ho fatto vaccinare.
Non ci penso proprio.
Poi
c’è un ragazzo nell’età peggiore, 22 anni.
Non
l’ho fatto vaccinare perché sapevo già che era l’età in cui si rischia
tantissimo la miocardite”.
Le
miocarditi ai minori sono state inserite tra gli effetti avversi nel bugiardino
dei vaccini.
Da
quanto ho sentito dire, ci sono cure per chi ha fatto il vaccino.
La cosa più importante è controllare la
Troponina I e poi il Didimero, che è un indice di probabilità dei microtrombi,
oltre all’emocromo completo.
Bisogna prendere poi il “glutadione, lo zinco
e la vitamina C, che elimina la Spike” e riducono lo stress ossidativo e le
infiammazioni.
In
particolare:
Per le
analisi che hanno consigliato a me: emocromo, pcr, ves, PT, PTT, ANA, AMA,
ASMA, D-dimero, fibrinogeno, Troponina I.
Se
vuoi poi colesterolo, perché i lipidi contengono colesterolo (HDL, LDL), le
transaminasi AST/GOT, Gamma GT, ALT.
Io di
mia iniziativa, ma consiglio di consultare sempre il proprio medico, ho preso “Glutatione,
Zinco (per esempio Zincodyn), vitamina C”.
“Quercetina” per aiutarmi a fronte di alcuni
sintomi attribuibili al vaccino.
Qualcuno
mi ha fatto fare analisi per anticorpi anti virus di Epstain Barr, perché a
volte si riattiva.
Ma
soprattutto se uno si sente stanco.
In
quel caso devono fare IGG e IGM per EBV (sono due antigeni, non li ricordo, ma
i laboratori di analisi lo sanno).
Ogni
tanto controlla gli anticorpi anti-Spike, devono diminuire, se non diminuiscono
vuol dire che spike è ancora in circolo.
(si
abbassa col NAC, mi hanno detto, sarebbe il “Fluimucil”, preso per 10gg con un
limone la mattina, poi una settimana di pausa, poi altri 10 GG.
A me è
passato quello che avevo: erano contratture muscolari, dolori articolari.
Purtroppo
l’herpes mi ha perseguitato per 2 mesi, poi con l’Aciclovir è andato via. Ma se
stanno bene stai tranquillo.
Comunque
per il cuore Troponina è fondamentale. Se vuoi toglierti ogni dubbio fare un
ecocardiogramma”.
(Loredana Frasca è una ricercatrice
accademica dell’Istituto Superiore di Sanità.) (ilgiornaleditalia.it/news/salute/452039/frasca-iss-vaccino-covid-miocarditi-danneggia-sistema-immunitario.html)
L’UCRAINA
STA AFFONDANDO E
LE
ÉLITE OCCIDENTALI CERCANO DI DEFILARSI.
Comedonchisciotte.org
- Mike Whitney - unz.com – (04 Febbraio 2023) – ci dice:
GUERRA
ESERCITO USA – RUSSIA.
Ciò
che rende l’ultimo rapporto della” RAND Corporation” sull’Ucraina così
significativo non è la qualità dell’analisi, ma il fatto che il più prestigioso
think-tank sulla sicurezza nazionale abbia assunto una posizione opposta a
quella della classe politica di Washington e dei suoi alleati globalisti.
Questo è un fatto molto importante.
Ricordate che le guerre non finiscono perché
l’opinione pubblica si oppone ad esse.
Questo
è un mito.
Le
guerre finiscono quando emerge una spaccatura importante tra le élite che, a
sua volta, porta ad un cambiamento di politica.
Il nuovo rapporto della “RAND Corporation”, “Evitare una lunga guerra: la politica
statunitense e la traiettoria del conflitto tra Russia e Ucraina,” rappresenta proprio questa
spaccatura.
Indica
che le élite più potenti sono in disaccordo con l’opinione della maggioranza
perché ritengono che l’attuale politica stia danneggiando gli Stati Uniti.
Riteniamo che questo cambiamento di
prospettiva sia destinato a guadagnare slancio e possa innescare una richiesta
più assertiva di negoziati.
In
altre parole, il “rapporto RAND” potrebbe essere il primo passo verso la fine
della guerra.
Consideriamo
per un attimo questo estratto dal preambolo del rapporto:
“I
costi e i rischi di una lunga guerra in Ucraina sono significativi e i suoi possibili
sviluppi superano i probabili benefici per gli Stati Uniti.”
Questa
citazione riassume efficacemente l’intero documento.
Pensateci:
Negli
ultimi 11 mesi ci è stato ripetutamente detto che gli Stati Uniti avrebbero
sostenuto l’Ucraina “per tutto il tempo necessario.”
La
citazione sopra riportata ci assicura che ciò non accadrà.
Gli
Stati Uniti non hanno intenzione di minare i propri interessi per perseguire il
sogno irrealizzabile di espellere la Russia dall’Ucraina.
(Anche
i falchi non credono più ad una possibilità del genere).
I membri razionali dell’establishment della
politica estera valuteranno le prospettive di successo dell’Ucraina e le
soppeseranno rispetto alla crescente probabilità che il conflitto possa
inaspettatamente sfuggire al controllo.
Questo,
ovviamente, non sarebbe nell’interesse di nessuno e potrebbe innescare uno
scontro diretto tra Russia e Stati Uniti.
Inoltre, i responsabili politici statunitensi
dovranno decidere se i sempre più numerosi danni collaterali valgono la spesa.
In
altre parole, la rottura delle linee di approvvigionamento, l’aumento
dell’inflazione, la crescente carenza di energia e di cibo e la diminuzione
delle scorte di armi sono un giusto compromesso per “indebolire la Russia?”
Molti
direbbero: “No.”
Per
certi versi, il “rapporto RAND “è solo il primo di una lunga serie di tessere
del domino che cadono.
Man
mano che aumenteranno le perdite ucraine sul campo di battaglia – e sarà sempre
più evidente che la Russia controllerà tutto il territorio a est del fiume
Dnieper – le falle nella strategia di Washington diventeranno più evidenti e
saranno criticate ancor più aspramente.
La
gente metterà in dubbio la logica delle sanzioni economiche, che danneggiano i
nostri alleati più stretti e aiutano la Russia.
Si
chiederanno perché gli Stati Uniti stiano seguendo una politica che ha
provocato un forte allontanamento dal dollaro e dal debito americano.
E si
chiederanno perché gli Stati Uniti, a marzo, avessero deliberatamente sabotato
un accordo di pace, quando le probabilità di una vittoria ucraina erano già
prossime allo zero.
Il “rapporto della Rand “sembra anticipare
tutte queste domande e il “cambiamento di umore” che ne seguirà.
Ecco
perché gli autori spingono per i negoziati e per una rapida fine del conflitto.
Questo è un estratto da un articolo di RT:
La “RAND
Corporation”, un influente think tank d’ “élite per la sicurezza nazionale”
finanziato direttamente dal Pentagono, ha pubblicato uno storico rapporto in
cui afferma che il prolungamento della guerra per procura danneggia attivamente
gli Stati Uniti e i loro alleati e avverte Washington che dovrebbe evitare “un
conflitto prolungato” in Ucraina…
(Il
rapporto) inizia affermando che i combattimenti rappresentano “il conflitto
interstatale più significativo degli ultimi decenni e che la sua evoluzione
avrà conseguenze importanti” per Washington, tra cui il danneggiamento attivo
degli “interessi” statunitensi.
Il
rapporto chiarisce che, anche se gli Ucraini hanno combattuto, e le loro città
sono state “spianate” e “l’economia decimata,” questi “interessi” non sono
“sinonimi” di quelli di Kiev. (“Rand calls for swift end to war“, RT)
Sebbene
il rapporto non affermi esplicitamente che “gli interessi degli Stati Uniti
vengono danneggiati,” certamente lo lascia intendere.
Non
sorprende che il rapporto non menzioni i danni collaterali della guerra di
Washington alla Russia, ma sicuramente questo aspetto deve essere stato in
primo piano nella mente degli autori.
Dopo
tutto, non sono i 100 miliardi di dollari o la fornitura di armi letali a
costare così cari agli Stati Uniti.
È
l’emergere sempre più rapido di coalizioni internazionali e di istituzioni
alternative che ha portato l’Impero statunitense sulla via della rovina.
Partiamo dal presupposto che gli analisti del
RAND vedano le stesse cose che vede ogni altro essere senziente, ovvero che
l’errata conflagrazione di Washington con Mosca è un “ponte troppo lontano da
raggiungere” e che il contraccolpo sarà immenso e straziante.
Da qui
l’urgenza di porre fine alla guerra in tempi brevi.
Ecco
un estratto del rapporto, pubblicato in grassetto a metà del testo:
“Poiché
evitare una lunga guerra è la priorità più alta dopo aver minimizzato i rischi
di escalation, gli Stati Uniti dovrebbero adottare misure che rendano più
probabile la fine del conflitto nel medio termine.”
È
interessante notare che il rapporto, pur descrivendo in dettaglio i principali
rischi di escalation (che includono una guerra più ampia con la NATO, un
coinvolgimento nel conflitto di altri Paesi dell’UE e una guerra nucleare), non spiega perché proprio una
“guerra lunga” sarebbe così dannosa per gli Stati Uniti.
Riteniamo
che questa omissione sia intenzionale e che gli autori non vogliano ammettere
che il ritorno di fiamma delle sanzioni e la formazione di coalizioni estere
antiamericane stanno chiaramente minando i piani degli Stati Uniti per
mantenere la loro presa sul potere globale.
Tra le
élite, questi discorsi sono proibiti.
Ecco
come Chris Hedges ha riassunto la situazione in un articolo su “Consortium News”:
Il
piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la
Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio
Oriente.
Sta alimentando una crisi alimentare globale e
devastando l’Europa con un’inflazione quasi a due cifre.
Ancora
una volta, sta mettendo a nudo l’impotenza degli Stati Uniti e la bancarotta
degli oligarchi al potere.
Come
contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il
Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di
riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale
negli Stati Uniti.
Washington
sta fornendo all’Ucraina sistemi d’arma sempre più sofisticati e aiuti per
molti miliardi nel futile tentativo di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di
salvare se stessa. (“Ukraine
— The War That Went Wrong”, Chris Hedges, Consortium News)
Hedges
lo riassume perfettamente.
Il
folle intervento di Washington sta spianando la strada alla più grande
catastrofe strategica della storia degli Stati Uniti.
Eppure, ancora oggi, la stragrande maggioranza
delle élite aziendali e bancarie sostiene risolutamente la politica esistente,
ignorando gli evidenti segni di fallimento.
Un
esempio per tutti: il “World Economic Forum” di Klaus Schwab ha pubblicato sul suo sito web una
dichiarazione di sostegno all’Ucraina.
Eccola:
L’essenza
della nostra organizzazione è la fiducia nel rispetto, nel dialogo e negli
sforzi di collaborazione e cooperazione. Pertanto, condanniamo profondamente
l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, gli attacchi e le atrocità.
La
nostra piena solidarietà è con il popolo ucraino e con tutti coloro che stanno
soffrendo innocentemente a causa di questa guerra assolutamente inaccettabile.
Faremo tutto il possibile per aiutare e sostenere attivamente gli sforzi
umanitari e diplomatici.
Speriamo
solo che – a lungo termine – la ragione prevalga e che emerga nuovamente lo
spazio per la costruzione di ponti e la riconciliazione”.
(Klaus Schwab and Børge Brende, World Economic Forum).
Nessuno
dovrebbe sorprendersi di questo.
Naturalmente, i globalisti si schiereranno
dalla parte della loro squadra di demolizione espansionistica (la NATO) invece
che dalla parte del più grande sostenitore mondiale dei valori tradizionali,
dei confini e della sovranità nazionale.
Questo
è ovvio.
Tuttavia, il rapporto Rand suggerisce che il
sostegno alla guerra non è più unanime tra le élite.
E, poiché, in ultima istanza sono le élite a decidere
la politica, è sempre più probabile che questa cambi.
Consideriamo
questa “scissione
del consenso delle élite” come lo sviluppo più positivo degli ultimi 11 mesi.
L’unico modo in cui gli Stati Uniti potranno
cambiare il loro approccio all’Ucraina è che un numero crescente tra le élite
rinsavisca e ci faccia indietreggiare dal baratro.
Speriamo
che ciò accada, ma non ne siamo certi.
La
parte meno persuasiva dell’intero rapporto è quella intitolata: “Impegni degli Stati Uniti e degli
alleati per la sicurezza dell’Ucraina.”
Il
problema è facile da capire.
Gli
autori vogliono definire un piano per fornire sicurezza all’Ucraina al fine di
incentivare i negoziati con la Russia.
Purtroppo,
la Russia non ha intenzione di permettere all’Ucraina di far parte di
un’alleanza di sicurezza sostenuta dall’Occidente, anzi, è proprio per questo
che la Russia ha lanciato la sua invasione, per impedire l’adesione
dell’Ucraina ad un’alleanza militare ostile (la NATO) legata agli Stati Uniti.
Si tratta di un argomento spinoso che senza
dubbio costituirà un ostacolo in qualsiasi negoziato futuro.
Ma si
tratta di una questione su cui non ci può essere “margine di manovra.”
L’Ucraina – o ciò che ne rimane – dovrà essere
permanentemente neutrale e tutti gli estremisti di estrema destra dovranno
essere rimossi dal governo, dalle forze armate e dai servizi di sicurezza.
Mosca non sceglierà i leader dell’Ucraina, ma
si assicurerà che questi non siano né nazisti né legati a organizzazioni
nazionaliste di estrema destra.
Come
abbiamo detto in precedenza, riteniamo che il “rapporto RAND” indichi che le
élite sono ora divise sulla questione dell’Ucraina.
Riteniamo
che questo sia uno sviluppo positivo che potrebbe portare a negoziati e alla
fine della guerra.
Tuttavia, non dovremmo ignorare il fatto che
anche l’analisi più imparziale può pendere nella direzione di chi fornisce i finanziamenti.
E
questo potrebbe essere vero anche in questo caso.
Si
tenga presente che “la RAND Corporation” è un think tank apartitico che,
secondo il tenente colonnello in pensione dell’USAF Karen Kwiatkowski:
“lavora
per l’establishment della difesa e, se i finanziamenti dovessero esaurirsi, il
think tank non esisterebbe nella sua forma attuale.
Serve interamente gli interessi del governo
statunitense e ne dipende.” (Lew Rockwell)
Questo
suggerisce che il “rapporto RAND” potrebbe rappresentare il punto di vista del
Pentagono e dell’establishment militare statunitense e, secondo loro, gli Stati
Uniti starebbero correndo a testa bassa verso uno scontro diretto con la
Russia.
In
altre parole, il rapporto potrebbe essere la prima bordata ideologica contro i
neocon che gestiscono il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca.
Sospettiamo che questa spaccatura tra il “Dipartimento
della Guerra” e lo “Stato” diventerà più visibile nei prossimi giorni.
Possiamo solo sperare che al Pentagono
prevalga la fazione più accorta.
(Mike
Whitney- unz.com) - (unz.com/mwhitney/ukraine-is-sinking-are-western-elites-bailing-out/)
Klaus
Schawb e Thierry Malleret,
“Covid
19: The great reset”.
Nuova-direzione.it
- Alessandro Visalli – (21/03/2021) – ci dice:
(tempofertile.blogspot.com/2021/03/klaus-schawb-e-thierry-malleret-covid.html)
Il
prof Schwab è un ingegnere che ha anche un dottorato in economia alla famosa
Università di Friburgo, in pratica la patria dell’ordo-liberalesimo, con un
master in Public Administration ad Harvard, fondatore del “Word Economic Forum”
ed autore di un libro di grande successo come “The Fourth Industrial
Revolution” nel 2016.
Si tratta, insomma, di una persona con un
curriculum accademico indiscutibile, apprezzabilmente interdisciplinare, e di
certissima derivazione ideologica-culturale.
Uno
dei papi del capitalismo contemporaneo, insomma.
(Ora
costruisce bombe atomiche nella sua fabbrica in Sud Africa. Tutto illegalmente.
Ndr.)
Thierry
Malleret è più giovane, sulle sue spalle sarà caduta la redazione di gran parte
del libro.
Si
occupa di analisi predittiva (una remunerante specializzazione) e di Global
Risk al Forum.
Educato
alla Sorbona in scienze sociali e specializzato ad Oxford in storia dell’economia
(master) ed economia (dottorato).
Si è
mosso tra banche d’affari, think thank, impegni accademici e servizio presso il
primo ministro francese.
Questo
libro fa parte di una proliferante letteratura.
Un
tipo di letteratura divulgativa ed esortativa, molto generica e
contemporaneamente molto larga nella visione, fatta per tradursi in
presentazioni da convegno attraenti e stimolanti, dirette ad un pubblico di
manager e imprenditori che hanno bisogno di sentirsi consapevoli, aggiornati e
progressisti con poco sforzo.
Una
lettura da weekend sul bordo della piscina.
Una
letteratura quindi di medio successo, diretta ad una élite mondiale ma anche a
quel vasto mondo che aspira a diventarlo.
Ed una letteratura che ha diversi versanti,
quello più aziendalista e quello più statalista, più liberal e più
conservative, più basato sull’economia e più sulle scienze sociali e politiche.
Un esempio di impostazione statalista, liberal
e fondata sull’economico è quella di Mariana Mazzucato in testi come “Il valore
di tutto” (2018), o “Mission economy” (2021).
In
questi due testi, di cui il primo costituisce la base teorica del secondo,
l’economista inglese cerca di rimettere in questione la pretesa dell’economia
finanziarizzata (e concentrata sul “shareholders value”) di contribuire allo
sviluppo sociale in favore di una economia che metta insieme settore pubblico e
privato intorno a “missioni” e sia concentrata sull’effettiva creazione di
valore per tutti gli “Stakeholders”.
Nella
stessa direzione, ma con uno scopo più limitato, va il libro di Stephanie
Kelton “Il mito del deficit”, che si sforza di affermare il punto di vista
della Teoria Monetaria Moderna (MMT) e per questa via una “economia per il
popolo” che riesca a superare i miti dei limiti alla spesa pubblica e del
debito.
Invece della politica monetaria la funzione
della stabilizzazione macroeconomica è affidata, in questa prospettiva, alla
spesa discrezionale per ottenere una economia migliore per tutti.
La
proposta di maggiore sostanza è di inserire una “funzione di guida automatica” attraverso una regola
anticongiunturale di assunzione in pubblici servizi altamente decentralizzati e
scelti dalle comunità.
Uno
sguardo più concentrato sull’evoluzione delle tecniche, e rivolto a soluzioni
meno radicali, se pure in direzione di maggiore regolazione (in particolare
della Gig Economy) e protezione dell’occupazione e dei prevedibilmente tanti
nuovi disoccupati, è presente nel libro di Richard Baldwin “Rivoluzione
globotica” del 2019.
Sguardi
attenti all’economico, ma con una prospettiva piuttosto ampia e socialmente
densa, sono quelli degli ultimi libri di Paul Collier “Il futuro del
capitalismo” (2018), e di Raghuram Rajan “Il terzo pilastro” (2019), oppure, da
una prospettiva più liberal, di Thomas Piketty “Capitale e ideologia” (2020).
Collier identifica “nuove ansie”, in modo non
dissimile da tutti gli altri, e cerca di trovare soluzioni in una nuova etica
da rifondare nel sistema economico e sociale.
In
modo non dissimile da Rajan e Fukuyama, l’autore riafferma la necessità di
coesione e identità sociale ma ricerca un modo di riaverla compatibile con le
condizioni di frammentazione e pluralismo della modernità.
Paradossalmente
la risposta non è né nella aerea identità mondiale (che si muterebbe in
dispotismo) né nella obsoleta identità statale, ma in quella dei “luoghi”.
Intorno a questo concetto si può anche
ricostruire un’etica di impresa nel rapporto con il territorio e la creazione
di una società inclusiva che rimetta sotto controllo i tre “divari” essenziali:
di classe, geografico e globale.
Anche
l’ex banchiere centrale indiano ed ex professore di finanza alla Booth School
of Economics di Chicago, Rajan, sostiene la necessità di ritrovare una via di
mezzo (un “terzo pilastro”) tra Stato e mercati ed inquadra in un vasto
discorso storico il disequilibrio provocato dalla svolta neoliberale che porta
all’affermazione del populismo.
Senza
dimenticare di allargare a Cina e India il suo sguardo torna a proporre quindi
un “localismo inclusivo” che attribuisca potere alle comunità e le protegga con
una “rete di sicurezza”.
Le
comunità da rivitalizzare dovranno essere basate sulla prossimità (come per
Collier) e sia sul sostegno dello Stato come essere dotate di una sovranità
responsabile non indifferente alle responsabilità internazionali.
Anche qui per le imprese si tratta di passare
dalla massimizzazione del profitto a quella del valore.
Thomas
Piketty, con la sua consueta generosità espositiva, ricostruisce a largo raggio
i “regimi della disuguaglianza” nella storia dell’umanità fino a giungere a
quella che chiama “la società dei proprietari” (anche detta “capitalismo”).
Da
questa nella fucina del XX secolo è emersa sia la soluzione socialdemocratica
sia, in seguito, l’“ipercapitalismo”.
Il testo, enormemente lungo e prolisso, si
limita in ultima analisi a rilanciare il progetto federale europeo in senso
sociale affinché si sottragga a quella che chiama la “trappola
social-nativista”, e ad avviare il superamento del capitalismo attraverso gli
istituti della “proprietà provvisoria” (per via fiscale) e della deliberazione
aziendale.
Quindi
si possono leggere, in una prospettiva più ampia e sensibile agli assetti
geopolitici in mutamento, i nuovi libri di Branko Milanovic “Capitalismo contro
capitalismo” (2019) e di Francis Fukuyama “Identità (2018).
Milanovic distingue le forme ideal tipiche del
“capitalismo liberal-meritocratico” e del “capitalismo politico”.
Il
primo liberale ed occidentale, il secondo orientale e illiberale (ovvero
“comunista”).
Nella
prefazione la crisi post-Covid è identificata come causa di tre principali
effetti:
la recrudescenza dello scontro tra Usa e Cina
(ovvero tra due “capitalismi” nella sua classificazione);
la
riduzione delle supply chain mondiali e quindi della iper-mondializzazione;
la
rivalutazione del ruolo dello Stato nella vita economica.
Da
ultimo, Fukuyama, in un libro concentrato sul problema della crescita dei
populisti, evidenzia il bisogno di “thymos”, riconoscimento, dignità, identità,
dai quali non ci si può sottrarre.
L’impostazione
che danno gli autori di “Covid-19 The Grand Reset” è compatibile con buona parte di
questa letteratura, e non di rado la cita in alcuni passaggi chiave.
Come
la Mazzucato propongono di passare dalla cattura del valore per gli azionisti
alla creazione per gli “Stakeholders”, come la Kelton superano l’ossessione per
il deficit pubblico e la paura dell’inflazione, come Baldwin descrivono gli
effetti della transizione tecnologica e la percepiscono anche come una minaccia
davanti alla quale occorre far fronte con più protezione, con Collier e Rajan
hanno in comune l’attenzione al territorio ed ai luoghi, come alle identità.
Temono come Milanovic il protagonismo della
Cina e la crescita dei populismi come Fukuyama.
Tuttavia,
la soluzione che propongono è molto meno centrata sul protagonismo statuale
rispetto alla Mazzuccato ed alla Kelton (con riferimento al piano di occupazione),
è meno localista di Collier e Rajan e su questo molto più in sintonia con
Piketty.
Si
tratta di una soluzione integralmente elitista e fondata sul protagonismo delle
grandi aziende globali, alle quali chiedono un deciso cambio di prospettiva e
quindi di farsi carico della responsabilità sociale verso le comunità, e dei
relativi oneri.
Si
tratta, in un certo senso e sul piano retorico, di una svolta effettiva: la
ripresa della generazione dei beni pubblici intenzionalmente guidata e della
conseguente pianificazione.
Ma guidata, e qui c’è tutta la differenza possibile,
dai grandi attori di mercato.
Ovvero,
in altri termini, pensata per garantirne la centralità anche dopo il
neoliberismo come lo abbiamo conosciuto.
Bisogna
essere attenti, il capitalismo avrà anche un suo “spirito”, ma è capace di
adattarsi a sempre nuovi ambienti, plurale e decentrato, metamorfico.
Lontano
dall’essere derivato e diretto dalla tecnica e dall’economico il sistema di
regolazione è sempre essenzialmente fondato su una egemonia e questa porta in
esistenza delle distribuzioni e delle soggettività, nuove istituzioni,
opportunità.
La letteratura citata dunque cerca
consapevolmente di rigenerare il capitalismo affinché all’ordine segua
l’ordine, ed alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione
neoliberale segua quella dei medesimi (al contempo cambiati).
Se la
crisi del modo di regolazione ‘fordista’, al calare del millennio, estremizzò e
al tempo pervertì gli elementi di questo, allargandoli su scala mondiale
attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro
nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo), qui si
tratta di ripetere l’operazione.
Estremizzare e pervertire, per
superare/confermare l’ordine sociale esistente e saltare nel prossimo.
Nel
post “Il Proconsole imperiale” avevo compiuto il breve divertissement di
ricordare l’inno all’”ordo rinascendo” di Rutilio Namaziano, scritto nel 417
d.c.
In
esso il senatore di origine romano-gallica esprime lo sforzo terminale di una
illustre ed antica cultura politico-istituzionale di elaborare le strategie
necessarie perché i privilegi e le prerogative siano salvate dal disfacimento.
Per
rilegittimarsi al governo, ricorda Rutilio ai suoi pari, bisogna esercitare una
frenata potestas, una moderazione, e risuscitare in tal modo l’entusiasmo ed il
consenso popolare intorno a sé, ovvero intorno alla virtus, al meritum, ai
boni.
Con il
suo poemetto, in altre parole, cerca di richiamare tutti i membri dell’ordine,
i vecchi come i nuovi, i vari lignaggi, ad una coscienza comune.
Quella
di essere, alla fine, la pars melior humani generis.
L’unica
che può indicare, in mezzo alle rovine di un mondo che finisce, la “legge della
rinascita”.
Ovvero
il principio del risorgere dalle proprie stesse rovine.
Come
sappiamo non funzionerà. Dopo sessanta anni, l’ultimo imperatore d’occidente
sarà deposto.
In
“Covid-19: the great reset”, i due autori tentano qualcosa che assomiglia al
tentativo della casta senatoria nel tardo Impero Romano.
Con la
stessa buona fede e protervia propongono di essere incaricati dalla società, in
quanto “clarissimi e boni”, di risolvere i problemi che essi stessi hanno
provocato.
Un
tentativo condotto nella stessa linea del libro successivo, “Stakeholder
Capitalism”, con Peter Vanham, in uscita in questi giorni.
E,
peraltro sulla traccia dei suoi libri precedenti ed in linea con il “Manifesto
di Davos”.
L’operazione
ideologica che è tentata in questi testi è di enorme ambizione, non va
sottovalutata.
Si
tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento
dell’economia neoliberale, eccessivamente concentrata sul breve termine,
sull’arricchimento come rapina invece che come giusto effetto della creazione
di valore, sull’esaltazione delle parti peggiori dell’uomo, sulla distruzione
della natura entro e fuori di esso, per rovesciarlo in un successo dei medesimi
attori.
Una
vera e propria rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta
dalle élite per le élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di
egemonia e di controllo del mondo e, forse, della rivoluzione (come arriva a
dire, cercando di stimolare il senso di sopravvivenza del capitalismo).
Si
tratta di un tentativo di riaggregazione di classe, anche oltre e sopra le
differenze e le fratture geopolitiche in via di allargamento.
Una
riaggregazione necessaria e decisiva per ricandidarsi alla gestione da una
posizione più salda.
Ci vuole
una straordinaria dose di pazienza per ascoltarli, ma ci proveremo.
Il
libro è strutturato in alcuni “Macro reset” e “Micro reset”.
I
“Macro Reset”, ovvero la risistemazione (che è contemporaneamente un
azzeramento, ed una rimessa a posto) sono insieme economici, sociali,
geopolitici, ambientali e tecnologici.
Al
contempo i “Micro Reset” riguardano alcune tendenze come l’accelerazione della
digitalizzazione, la maggiore resilienza delle catene logistiche mondiali, le
modifiche nel governo e un nuovo capitalismo orientato agli interessi
(“Stakeholders capitalism”).
Ma
riguardano anche una rimessa a posto del sistema produttivo nel suo insieme,
con un drastico processo di de-densificazione e cambiamenti importanti
nell’ambiente.
Infine, per gli autori ci sarà un cambiamento
antropologico, niente di meno che la “ridefinizione dell’umanità”, e delle
scelte morali.
Cosa
che porrà in questione le definizioni della sanità mentale e del benessere
stesso.
In
definitiva saranno da cambiare interamente le nostre priorità.
Occorre
fare due precisazioni prima di procedere con la lettura:
in
primo luogo tutta la ricostruzione è fondata sulla teoria della complessità,
organicamente contraria alla ricerca di nessi e meccanismi causali
gerarchicamente ordinati (di una spiegazione comprensiva).
L’effetto è di una sorta di affastellarsi
orizzontale di quadri interpretativi e di fenomeni.
Dichiaratamente
interdipendenti, e soggetti al primato della velocità.
Chi
volesse cercare l’esplicazione di una qualche legge di sviluppo, o di una
teleologia resterebbe quindi deluso.
La
seconda precisazione, necessaria per non leggere in modo sbagliato le previsioni
contenute nel libro, è che sono, appunto, previsioni, non prescrizioni.
Molte
delle conseguenze più gravi e distruttive dell’evento pandemico sono
semplicemente descritte, gli autori non necessariamente le giudicano positive o
le desiderano.
In effetti non si impegnano a farci
comprendere fino a che punto le giudichino in ultima analisi positive (anche se
in alcuni casi si può supporre sia così, perché ogni descrizione è sempre
almeno in parte normativa), perché il loro punto è strettamente un altro: che fare?
Tenendo
conto di ciò la crisi del Covid-19 è essenzialmente interpretata come un
potentissimo acceleratore di dinamiche disparate, se pure intrecciate.
Se si
parte dalla risistemazione tecnologica l’enfasi passa sull’accelerazione delle
trasformazioni digitali ed i cambiamenti nei consumi e nella regolazione.
Invece, se si muove dall’azzeramento (certo
creativo) economico il Covid-19 introduce elementi di incertezza (tra i quali
la scelta tra salvare le vite e l’economia) nel nesso tra crescita economica e
occupazione, politiche monetarie e fiscali, alternativa tra deflazione ed
inflazione, destino del dollaro americano.
Dalla
risistemazione sociale si muove dall’attuale ineguaglianza verso un nuovo
contratto sociale e la ripresa del “big goverment”.
Sul
piano geopolitico si tratta di muoversi nella crescita della rivalità tra Usa e
Cina, oltre che la tendenza ad una nuova regionalizzazione.
E per
l’ambiente affrontare i rischi pandemici e dell’inquinamento, mettendo insieme
per l’avvenire le politiche ambientali e quelle pandemiche.
Questa
è la mappa del libro.
Insomma,
in poco meno di 300 pagine il testo cerca di dare una sintetica immagine del
mondo e del suo destino, alla portata di un weekend di un manager o politico
medio.
Si parte dalla qualifica di crisi senza
paralleli nella storia moderna attribuita alla dinamica mondiale attivata dal
coronavirus, e dalla chiara enunciazione, fatta a giugno 2020, del fatto che la
pandemia è intervenuta ad accelerare linee di faglia, fallimenti di
cooperazione, che non torneranno mai più al loro posto.
Il mondo di domani sarà quindi necessariamente
e completamente diverso dal mondo di ieri.
Avremo
due ere, “prima
del coronavirus” (BC) e “dopo il coronavirus” (AC).
Quindi
“The Great
reset” è,
con le parole degli autori, “un tentativo di identificare i cambiamenti futuri
e di apportare un modesto contributo a delineare ciò che potrebbe assomigliare
alla forma più desiderabile e sostenibile di questi”.
(Fare esperimenti genetici sulla razza
umana non sono certo operazioni desiderabili! Ndr.)
La
proposta degli autori è di mettere a fuoco un framework concettuale
semplificato che aiuti a riflettere in questa situazione di estrema tensione e
disordine per creare senso in essa (“making sens of it”).
L’obiettivo
è dunque esplicitamente politico.
I
cambiamenti sistemici che propongono di considerare drasticamente accelerati
dalla crisi pandemica sono i seguenti, e tutti già in corso:
– La ritirata parziale dalla
globalizzazione,
– La crescente separazione tra le
economie di Usa e Cina,
– L’accelerazione dell’automazione,
– Le preoccupazioni per la crescente
sorveglianza,
– Il nazionalismo e la paura per
l’immigrazione,
– Il crescente potere della tecnologia.
Il
punto è che queste accelerazioni potrebbero rendere possibili cose prima
inconcepibili, come forme di politica monetaria (helicopter money e MMT), il
cambiamento delle priorità sociali, radicali forme di tassazione e di welfare,
drastici riallineamenti geopolitici.
Potrebbero,
anzi dovrebbero.
Se non
lo faranno si andrà incontro ad una fase di torbidi, di conflitti, forse di
guerre e di rivoluzioni.
(Le rivoluzioni avverranno contro le
opere demoniache delle élite al potere! Ndr.)
Vediamo
meglio, però, la dimensione Macro della ‘risistemazione’.
Per
cominciale viene esplicitato il framework ideologico: il mondo del XXI secolo è
segnato essenzialmente dalla “interdipendenza”;
prodotta
dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico essa viene definita
testualmente come “reciproca dipendenza”, anzi, per essere proprio precisi,
come una “dynamic of reciprocal dependence among the elements that compose a
system”.
Dunque, il mondo è orizzontale,
concettualmente attraversato da dipendenze, che, però, mettono tutti sullo
stesso piano.
Un “sistema” nel quale le parti non possono
fare le une a meno delle altre.
Quindi
“iperconnesso”, “concatenato”.
Insomma,
nel quale sono “tutti nella stessa barca”.
(Per chi ci vuole salire su quella
barca demoniaca! Ndr.)
Potrebbe
sembrare ovvio e non problematico (se si sceglie di non far caso a che si tratta di una
nave per la tratta degli schiavi, e la maggioranza dei passeggeri sono in
catene).
È
chiaro che se si segue pacificamente l’immagine della “stessa barca” e dei
felici passeggeri di 193 “cabine separate”, allora i rischi diventano tutti
interconnessi, sistemici, orizzontali, interdipendenti.
È in
questa specifica mossa, posta all’avvio del libro e inavvertita quasi, che si
radica l’invito di affidamento all’ordine capitalista, ed ai suoi migliori
campioni, le grandi imprese raccolte a Davos (ed altrove).
Come
proponeva Quinto Aurelio Simmaco, ideologo nella stessa linea di Rutilio
Namaziano e negli stessi anni, mentre l’impero si apprestava a cadere ed era
pieno di ‘barbari’, i “nobili clarissimi”, membri dell’Ordo, erano “la luce del
mondo” e per questo autorizzati a gestire il governo degli altri uomini.
Non
era dal potere politico (in quel caso imperiale, nel nostro nazionale) che
derivava la virtus, ma dall’investitura dei pari e dalla tradizione stessa.
Ma, qui l’astuzia della costruzione ideologica:
non si
tratta di avere solo il diritto a governare (come vuole in fondo il
neoliberismo rozzo nel quale siamo stati fino ad ora) ma anche il dovere.
L’intero
discorso di Schwab si muove su questa antica traccia: la virtus è un dono che
non può restare infruttuoso.
Nessun disimpegno è ammesso, c’è una identità
profonda tra il bene collettivo e la responsabilità e capacità del sistema
delle grandi imprese di conseguirlo.
Lo “Stakeholders capitalism”, appunto.
Saranno loro, direttamente, a doversi fare carico
dei beni pubblici da distribuire, dei giochi da organizzare, della coesione,
del controllo, e della pace.
(Occorre chiarire che i beni pubblici
da distribuire dovranno comprendere anche tutti gli ex beni privati. Quindi
solo ladri e delinquenti possono ordire simili operazioni “commerciali inaudite”!
Ndr.)
Dicevamo
che siamo su una nave negriera che, purtuttavia, viene descritta dai nostri
come se fosse un transatlantico nel quale (è vero) ci sono cabine di prima e
seconda classe, e talvolta dei disordini, ma anche una salda guida che deve
solo riconoscersi come tale per far andare tutto al suo posto.
Riconoscersi
come guida significa, necessariamente, accoglierne la responsabilità. Ciò è
tutto.
(Occorre dire e scrivere che solo dei
banditi possono ordire simili opere demoniache! Ndr.)
O
meglio lo sarebbe, se non fosse che in questo modo della situazione nel quale
il mondo è si perde l’essenza: si perdono le catene da rompere.
In
fondo tutto dipende da pochi slittamenti di senso, da alcuni incroci nei quali
si forma la coesione di senso del nuovo paradigma.
Uno di
questi è che la dipendenza di tanta parte del mondo da poca altra, e dei molti
dai pochi, è riletta dagli autori come “interdipendenza”.
A tal
fine viene fatto uso del cosiddetto pensiero della complessità.
Per
Schwab ed il suo coautore il primo fattore di analisi è dunque prendere atto
che la “interdipendenza” orizzontale invalida il pensiero a “silo”, capace solo
di dividere i singoli problemi in compartimenti specialistici.
Nell’esempio che fa il libro, i disastri
infettivi hanno effetti diretti sui “fallimenti della governance globale”,
sull’instabilità sociale, la disoccupazione, le crisi fiscali e le migrazioni
involontarie.
E
ognuna di queste aree di crisi ne influenza altre nelle dimensioni economiche,
societarie, geopolitiche, ambientali e tecnologiche.
Il
secondo fattore caratterizzante è la “velocità”.
La cui
prima espressione è il 52% della popolazione mondiale oggi collegata ad
internet, il miliardo e mezzo di smartphone, i 22 miliardi di device connessi
con la Iot.
Tutto,
perciò, si muove più velocemente, incluse le infezioni, e come risultato tutti
operiamo ormai in una “real-time society”, in una nuova cultura
dell’immediatezza, ossessionata dalla velocità, che apparentemente fornisce
tutto just-in-time.
(Una vera e propria dittatura
dell’urgenza e nella gara a chi arraffa il malloppo per primo! Ndr)
Che
(anche qui fa capolino l’ideologia) rende ancora più evidente lo scollamento
con la lentezza della decisionalità pubblica.
Secondo
decisivo slittamento e cerniera.
Il
terzo è la “complessità”.
Ovvero
“ciò che non capiamo o troviamo difficile capire”, ovvero (come voleva Simon),
“un insieme fatto di un gran numero di parti in interazione in modo non
semplice”.
Parti
nelle quali non ci sono collegamenti causali visibili tra gli elementi, e che
sono quindi virtualmente impossibili da predire.
Un esempio è ovviamente la pandemia stessa,
che è un sistema adattivo complesso composto di molte differenti componenti o
frammenti di informazione (in campi che vanno dalla biologia alla psicologia).
Un sistema dunque difficilissimo da prevedere
e nel quale ogni parte si interconnette con tutte le altre secondo una logica
ricorsiva e quindi oscura.
Un
sistema molto più grande della somma delle sue parti.
Dunque,
il punto fondamentale è che “la complessità crea limiti alla nostra conoscenza e comprensione
delle cose”
fino a che potrebbe soverchiare la capacità dei “decision maker” di prendere
decisioni ben informate.
(Ma le mafie criminali nel mondo sono
sempre molto erudite nelle cose che loro
gradiscono! Ndr.)
È per questo che, in profonda continuità con
l’ispirazione più profonda della ideologia neoliberale, la soluzione dei
problemi non è la ripresa del potere statuale, della democrazia popolare, o del
primato delle leggi sugli interessi individuali, ma lo “Stakeholders
capitalism”.
Ovvero
è la rinnovata centralità, ma nella responsabilità, dell’ordine delle imprese
(grandi), rilette come primarie fornitrici di beni pubblici.
Beni pubblici che queste possono creare e
distribuire in fondo proprio perché decentrate, complesse, informate (ognuna
dei suoi specifici stakeholders).
Abbiamo
quindi una lettura della situazione informata all’obiettivo di essere semplice
e desiderabile, che sceglie di leggere il mondo sotto la triplice lente di una
interdipendenza orizzontale, della velocità e della complessità.
Che lo
pensa decentrato, libero, imperniato su un ordine di “boni” e di “clarissimi”,
chiamati al governo dalla loro stessa “virtù”.
Ma
vediamo ora quale è la situazione, quali i “Reset” (ristrutturazioni, messe al
loro posto, azzeramenti).
I
reset economici.
Ci
sono quindi le ristrutturazioni, risistemazioni, messe a posto e azzeramenti
(tutto insieme) di tipo economico.
(Azzeramenti
totali come sono di specifica competenza delle mafie criminali! Ndr.)
Secondo
alcune analisi recenti gli effetti sulla crescita economica si faranno sentire
per almeno 40 anni, e non andrà come le altre volte (nelle quali alla fine
l’elevata mortalità cambiò i rapporti di forza in favore dei lavoratori),
perché la tecnologia cambierà il mix.
Inoltre, come ha detto Jin Qi (un importante
scienziato cinese), questa epidemia tenderà a restare e coesistere per lungo
tempo, diventando stagionale.
Né ha
veramente senso il presunto trade-off tra salute ed economia: comunque se non
si risolve il problema le persone non torneranno alla loro vita precedente,
dunque “il
governo dei delinquenti deve essere autorizzato a fare tutto quel che è
necessario, spendendo tutto quel che costa negli interessi della nostra vita e
salute collettiva per riportare l’economia alla sostenibilità”.
Nello
svolgere la ricostruzione dei massivi impatti dell’epidemia (al giugno 2020),
gli autori finiscono per concentrarsi anche sull’impatto della tecnologia sul
mondo del lavoro.
È chiaro che l’automazione è distruttiva, ma
nel tempo incrementa la produttività e la ricchezza, che alla fine provoca una
maggiore domanda di beni e servizi e quindi nuovi tipi di lavori che
riassorbono la disoccupazione.
(Ma gli uomini della mafia non sono
mai disoccupati! Ndr.)
È corretto, scrivono (si tratta in fondo della
cara vecchia Legge di Say), ma in quanto tempo?
Inoltre, la pandemia stessa, e le sue misure
di distanziamento sociale, ha accelerato enormemente questi processi di
distruzione.
Processi
che, di necessità, provocheranno centinaia di migliaia, o milioni, di lavori
persi.
L’analisi degli autori è sotto questo profilo
ormai standard: man mano che i consumatori preferiscono servizi automatizzati
ai loro omologhi faccia-a-faccia quel che accadrà ai call center si estenderà.
Il
processo di automazione, che non è mai lineare, subirà un salto in
corrispondenza della recessione economica, e sempre più imprese messe alle
strette cercheranno di aumentare la produttività (intesa come rendimento per
unità di capitale investito), sostituendo i lavoratori a bassa competenza con
l’automazione.
I lavoratori a bassa competenza impegnati in
lavori di routine (nella manifattura come nei servizi, la ristorazione o la
logistica) ne saranno dunque colpiti.
Il mercato del lavoro si polarizzerà tra pochi
lavoratori ad alte competenze e salari e tutti gli altri.
Nel
futuro più remoto, invece, potremmo assistere a ondate di nuova occupazione in
modi e forme oggi non prevedibili.
Nell’era
post-pandemia la nuova normalità economica potrebbe essere quindi
caratterizzata da una crescita più bassa, con declino della popolazione in
molti territori e nazioni.
In queste condizioni per gli autori dobbiamo
cogliere l’occasione di avere una “pausa di riflessione” e introdurre modifiche
istituzionali e delle scelte politiche.
Come
avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando fu promossa la Conferenza di
Bretton Woods e si espanse in Europa il Welfare State.
A questo punto l’analisi si sposta decisamente
verso la dimensione utopica.
Si
immagina che le “nuove norme sociali” possano superare l’ossessione della mera
crescita quantitativa registrata dal Pil, in favore di una crescita fondata
piuttosto su fattori intangibili come il rispetto per l’ambiente, la
responsabilità sociale, l’empatia e generosità.
(I
mafiosi sono sempre molto “generosi” con il denaro degli altri! Ndr.)
In questo contesto i nuovi driver di crescita,
in grado di riattivare il sistema economico in un “inclusivo e sostenibile
dinamismo”, potrebbero essere, per gli autori, la green economy (energie green,
ecoturismo, economia circolare), e le varie forme di economia sociale che crei
lavori nei settori dei servizi alle persone, educazione e salute.
In una
sezione del libro che non sembra affatto diversa da quanto proposto, come
abbiamo visto, nel recente libro di una delle figure di punta della MMT,
Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, Klaus Schwab ed il suo coautore
dichiarano che nella fase post-pandemica saranno necessarie “decisive, massive
e rapide” politiche fiscali e monetarie.
(Le banche potranno finalmente essere
libere di dare il denaro creato dal nulla alle bande mafiose! Ndr.)
Cosa che, del resto, è avvenuta immediatamente
dopo l’avvio della emergenza sia con riferimento alle politiche monetarie
(acquisti di titoli da parte delle Banche Centrali), sia a quelle fiscali
(supporti alle imprese ed ai cittadini, e forme senza precedenti di versamenti
diretti sul conto corrente di milioni di loro).
La
sostenibilità a breve termine di questa enorme espansione di spesa pubblica è
stata garantita dall’intervento delle Banche Centrali al fine di contenere il
costo degli interessi sul debito.
È stata quindi abbattuta la barriera
“artificiale” tra gli interventi delle Banche Centrali e quelli fiscali, e sono
emerse anche ipotesi teoriche che sistematizzano questo approccio.
Tra
queste gli autori citano la MMT e la pratica dell’helicopter money.
Del
resto in condizioni di interessi vicini allo zero le normali politiche
monetarie sui tassi di interesse sono disattivate, quindi non restano che gli
stimoli indiretti ai deficit fiscali intenzionali.
In
questi semplici termini (e semplicistici a diretta ammissione) secondo gli
autori la MMT direbbe che il governo centrale può spendere emettendo debito che
le Banche Centrali compreranno.
Il deficit sarà quindi monetizzato e il
governo potrà usare le risorse come vuole, senza preoccuparsi in prima battuta
della copertura fiscale delle spese.
(Ai mafiosi non interessa il debito
pubblico dello stato! Ndr.)
Il
rischio è però che un governo che abbia in questo modo “l’albero dei soldi
magico” possa stimolare involontariamente la partenza di un’inflazione fuori di
controllo.
In altre parole, il QE perpetuo potrebbe
esserne una causa e l’helicopter money uno dei veicoli di trasmissione.
La
ragione addotta è che non ci sono limiti teorici a quanto denaro una Banca
Centrale può creare, solo il limite dopo il quale la reflazione diventa
inflazione.
Potrebbe
essere una minaccia, ma non è all’agenda oggi.
Per ora abbiamo la prevalenza di impulsi
deflazionari, creati potentemente e strutturalmente dalla tecnologia e dal
tendenziale invecchiamento (entrambi per natura deflazionari) e
dall’eccezionalmente alto tasso di disoccupazione.
Tutte
dinamiche che il clima post-pandemico esaspererà.
Quindi
nei prossimi anni ci dovremmo trovare in condizioni simili a quelli del
Giappone negli ultimi venti anni: debolezza strutturale della domanda,
inflazione molto bassa, e interessi ultra-bassi.
Condizioni
nelle quali, a dire il vero, il Giappone ha reagito con efficacia per gli
autori.
Un
altro fattore della situazione potrebbe essere il declino della centralità del
dollaro, anche esso in corso da molto tempo.
Cosa
che potrebbe essere accelerata dalla tendenziale insostenibilità della spesa
pubblica americana (le sole medicare, medicaid e social security ammontano,
senza spese militari ed altri investimenti, al 112% delle tasse federali
riscosse).
Del
resto a breve termine non ci sono alternative, non la moneta cinese, fino a che
non liberalizzerà i controlli sui capitali, non l’euro, che è sempre sotto
minaccia di dissoluzione, non un paniere di monete, ancora sperimentale.
Il
“reset” sociale.
A
questo punto il libro inizia a trattare le ristrutturazioni sociali.
Ed
anche qui il canovaccio interpretativo è il medesimo: la pandemia interviene
esacerbando i problemi preesistenti, e determinati in particolare dalle
ineguaglianze, dalle difficoltà di azione dei governi e dalla disgregazione
sociale.
Ci
sono state risposte molto diverse anche in paesi simili, in funzione
dell’organizzazione preesistente, della rapidità delle decisioni, dei costi e
ampiezza del sistema sanitario, la fiducia nella politica, il senso di
solidarietà interna.
Quindi, per Schwab, il periodo post-pandemico
causerà, probabilmente, “un periodo di massiva redistribuzione della ricchezza
verso i poveri e dal capitale al lavoro.
In secondo luogo, il Covid-19 suonerà la morte
del neoliberalismo, un corpo di idee e politiche che possono grosso modo essere
definite come volte a favorire la competizione sulla solidarietà, la
distruzione creativa sull’intervento dei governi, e la crescita economica sul
benessere sociale”.
Una
teoria che è stata sotto attacco per molti anni, e qualificata come “feticismo
del mercato”, ma che per gli autori riceverà ora il “coup de grace”.
Non a caso i due paesi che hanno subito più
perdite sono anche quelli che lo guidavano (Uk e Usa).
La
pandemia ha, del resto, esacerbato tutte le ineguaglianze preesistenti e può essere
al momento chiamata come “un grande divisore (unequalizer)”, che rende ancora
più insopportabile la tensione.
Inoltre, ha reso più stridente la
contraddizione tra i lavoratori più necessari (infermieri, operatori di
logistica, alcune classi di operai) e il semplice fatto che si tratta anche dei
meno pagati e dei più esposti al mercato.
Quelli
che vedono sistematicamente più a rischio il loro lavoro. Come dicono gli
autori in Uk, ad esempio, il 60% dei lavoratori nel settore di cura operano con contratti-zero-ore
e quindi sono i più esposti e meno pagati.
Ora
nell’epoca post-pandemica queste ineguaglianze sociali si incrementeranno nel
breve termine, tuttavia nel periodo successivo il vasto senso di oltraggio
renderà queste dinamiche non più a lungo politicamente accettabili e si imporrà
un ridisegno.
Ciò
anche a causa dei disordini sociali che nel prossimo futuro saranno esacerbati
dall’estensione della povertà e disoccupazione, oltre che dei disordini
razziali (il libro è scritto poco dopo la morte di George Floyd).
Tutto
ciò provocherà “il ritorno del ‘big’ governement” (come noto formula simbolica
dell’espansione del welfare jhonsoniano).
In questa situazione si fa fatica a pensare
che si possano affrontare i problemi con soluzioni integralmente marked-based,
quindi il delicato bilanciamento tra pubblico e privato si sposterà in favore
del primo.
È stato rivelato che nell’assicurazione
sociale non è efficiente affidare la responsabilità dei migliori interessi
sociali al mercato.
Emerge
perciò un’idea che era anatema solo pochi anni fa: che affidare gli interessi
pubblici alle economie che corrono da sole senza supervisione può avere effetti
devastanti.
Dalla formula della Thatcher si passa perciò a
quella della Mazzucato “non il profitto ma la partnership dei fondi pubblici
con il business è la molla dell’interesse pubblico”.
Per
Schwab accadrà qualcosa come quel che avvenne negli anni 30, il governo
deciderà di riscrivere le regole del gioco permanentemente, non tollerando
massiva disoccupazione e insicurezza sociale.
Si
avrà un massivo potenziamento dell’assicurazione sociale, dei benefici alla
disoccupazione, la retrocessione del “shareholder value” (valore degli
azionisti) e la messa in primo piano dello “stakeholder capitalism”, la
riduzione della finanziarizzazione, l’affermazione di misure per rendere
illegale il buy-back azionario, nazionalizzazioni, riforme fiscali, ricerca
pubblica.
Tutte
cose messe in evidenza anche da Joseph Stiglitz.
(Forse le bande criminali mafiose
hanno qualcosa da riferire in merito! Ndr)
Insomma,
quello che gli autori propongono di considerare è una completa riconsiderazione
del contratto sociale.
Quello
attuale, ossessionato dal rischio della crescita dell’inflazione, ha generato
un senso diffuso di esclusione e marginalizzazione, e un sentimento di
ingiustizia.
Quel
che bisogna fare è adattare il welfare state alle nuove condizioni e rafforzare
le persone (empowering) e responsabilizzarle a domandare un contratto sociale
giusto.
La pandemia accelera questa transizione, e
cristallizza la scelta rendendo impossibile il ritorno allo status
pre-pandemico sotto questo profilo.
Che
forma prenderà questo nuovo contratto sociale?
Non ci
sono soluzioni uniche, perché dipendono dalla storia dei singoli paesi, un “buon”
contratto per la Cina è diverso da uno per gli Usa, la Svezia o la Nigeria.
Ma
l’assoluta necessità post pandemica renderà indispensabile avere una forte, se
non universale, assistenza sociale, sanità pubblica e servizi di base;
una
rafforzata protezione per i lavoratori (ad esempio per i lavoratori della
gig-economy, nei quali gli impiegati a tempo pieno sono sostituiti da
contractor e freelancers).
Un altro aspetto critico illustrato dagli
autori è il rischio della società della sorveglianza, anche in questa direzione
saranno necessarie regole pubbliche e discussione pubblica.
(Ma se i sorveglianti vengono forniti
dal sistema mafioso delinquenziale si deve presumere che siano adatti allo
scopo da raggiungere! Ndr.)
Il
“Reset” geopolitico.
Ancora,
un’altra dimensione del “reset” sarà geopolitica.
La
pandemia interviene su una situazione nella quale il vuoto di governance
globale e la crescita di varie forme di nazionalismi stavano aprendo un vuoto.
Si
prefigura quindi il rischio concreto di un’anarchia post-pandemica nella quale
varie forme di rampante nazionalismo si confrontano nel progressivo
riequilibrio in corso tra est e ovest.
Gli
autori citano in proposito la cosiddetta “trappola di Tucidide”.
Il
problema è il venire meno del “bene pubblico globale” della “egemonia”
americana (controllo delle vie di mare, lotta al terrorismo, …), senza che vi
sia un sostituto.
Entreremo
dunque in una “età dell’entropia” nella quale si affermeranno intense lotte per
l’influenza e tensioni non mosse dalla ideologia (con l’eccezione dell’Islam)
ma dal nazionalismo e dalla competizione per le risorse.
Insomma, una era di “deficit di ordine
globale”.
Gli scenari plausibili vanno dalla guerra tra
Cina e Usa, all’implosione e fallimento degli stati o petrostati, fragili, la
possibile disgregazione della Ue.
Quattro questioni sono in particolare
sottolineate, in relazione all’accelerazione determinata dalla crisi pandemica
ma sulla base di dinamiche in corso: l’erosione della mondializzazione;
l’assenza
di governance globale;
l’incremento della rivalità tra Usa e Cina; la
caduta di fragili e fallimentari stati.
La
globalizzazione, in primo luogo, secondo il loro racconto era una vaga nozione
che si riferiva allo scambio globale tra nazioni di beni, servizi, persone e
capitali e di dati.
Essa
ha portato centinaia di milioni di persone fuori della povertà, ma da parecchi
anni hanno cominciato a prendere il centro della scena i contraccolpi politici
e sociali determinati dai costi asimmetrici (in particolare in termini di
disoccupazione nel settore manifatturiero nelle zone ad alti salari).
Ora,
l’opinione degli autori in merito è netta: l’economia mondiale è così
interconnessa che la mondializzazione non può finire, ma è possibile che
rallenti ed anche che si inverta.
L’epidemia ha fatto proprio questo, il rischio
ha comportato limitazioni, controlli dei confini, protezionismi e il rischio
della ripresa di varie forme di nazionalismo.
Come
mostrò il “trilemma di Rodrik” la democrazia è possibile, in associazione con
gli stati nazionali (ovvero quella che conosciamo e l’unica di fatto esistente)
solo se la mondializzazione viene contenuta.
Per contrasto, ricordano gli autori, la
mondializzazione e gli stati nazionali sono possibili in coesistenza solo se
non c’è democrazia.
Infine, democrazia e mondializzazione
presuppongono la scomparsa degli stati nazionali indipendenti (ovvero una
qualche forma di impero mondiale).
L’Unione Europea è stata spesso utilizzata
come modello ed esempio della pertinenza del modello concettuale.
Combinare
l’integrazione economica con la democrazia implica che molte decisioni essenziali
sono prese a livello sopranazionale, rompendo la sovranità del livello
sottostante.
Nel
contesto attuale, quindi, il ‘trilemma’ suggerisce che “la globalizzazione deve
necessariamente essere contenuta se noi vogliamo conservare qualche sovranità
nazionale o qualche democrazia”.
(Ma la democrazia all’interno delle
bande mafiose delinquenziali non è un obiettivo perseguibile! Ndr)
La
crescita dei nazionalismi rende il ritiro della globalizzazione dunque
inevitabile in gran parte del mondo e mostra che il rigetto della
globalizzazione da parte degli elettori “è una risposta razionale quando
l’economia è forte e l’ineguaglianza alta”.
La
forma più visibile di progressiva deglobalizzazione è nel suo “reattore
nucleare”: le global supply chain.
L’accorciamento
o la rilocalizzazione delle catene di fornitura sono incoraggiati da: 1) il
fatto che il business vede che esiste un trade-off tra resilienza ed efficienza
in esse;
2) la pressione politica che va dalla destra
alla sinistra.
Chiaramente
il completo ritiro delle “supply chain globali” comporterebbe la necessità di
ciclopici investimenti pluriennali per ristrutturare interamente e potenziare
le infrastrutture, porti, linee ferroviarie, nuove aree industriali, come sta
facendo peraltro il governo giapponese che ha accantonato 243 miliardi per le
operazioni di uscita dalla Cina delle sue imprese.
Il più probabile scenario è quindi intermedio:
la regionalizzazione.
La
creazione di molteplici e parzialmente separate aree di free trade, sul modello
europeo, come del resto è in corso da tempo.
Il Covid accelera infatti la divergenza tra
Nord America, Europa ed Asia, incoraggiando tutti a guadagnare una sorta di
auto-sufficienza interna, e ridurre l’intrico delle supply chain mondiali.
Che
forma prenderà tutto questo?
Potrebbe anche andare male, ripetendo il
cammino della storia nella quale un ciclo di antiglobalizzazione si impose, per
gli autori, negli anni trenta, come risultato della Grande Depressione,
danneggiando le maggiori economie.
Lo
scenario della ripresa del nazionalismo non è comunque inevitabile ma bisognerà
aspettarsi, per un certo numero di anni, una tensione essenziale tra le forze
del nazionalismo e quelle dell’apertura lungo tre dimensioni critiche:
le istituzioni globali, i commerci e i
movimenti di capitale.
Complessivamente
nei prossimi anni sarà quindi inevitabile che qualche grado di
deglobalizzazione avvenga, spinta dalla crescita del nazionalismo e della
frammentazione internazionale.
Questo non significa che sia meglio
ripristinare lo status quo ex ante (l’pre-globalizzazione, per gli autori, è
caduta di fronte ai suoi costi sociali e politici e non è più difendibile
politicamente) ma solo che è importante limitare la possibile caduta verticale
e libera della stessa, cosa che secondo loro comporterebbe danni maggiori e
sofferenze sociali.
Una ritirata totale dalla globalizzazione
provocherebbe infatti guerre commerciali e militari, danni a tutte le regioni
economiche, inoltre crisi sociali e scontri etnici o nazionalismi difensivi.
La
situazione richiede perciò azioni immediate ed energiche, nelle conclusioni
proveranno a dire come.
Questo
è uno degli snodi chiave della costruzione egemonica ed ideologica tentata: si
deve agire per evitare il peggio per tutti, e tocca a “noi”.
Chiaramente
il processo di deglobalizzazione rende anche più difficile la “global
governance”, ovvero il “processo di cooperazione tra attori internazionali
animato dall’obiettivo di provvedere a risposte ai problemi globali”.
Include
nella definizione la totalità delle istituzioni (pubbliche e soprattutto
private), politiche, norme, procedure e iniziative attivate attraverso le
diverse nazioni per rendere prevedibile e stabile il cambiamento.
Ciò, in particolare dopo la crisi Covid, è
reso più difficile dal conflitto tra gli imperativi locali, che sono a
corto-termine, e i cambiamenti globali a lungo termine.
Nulla come la reazione alla crisi pandemica lo
mostra con maggiore evidenza, ognuno si è battuto da solo e tutti hanno cercato
di salvarsi per primi, chiudendo agli altri le frontiere, sequestrando i flussi
di passaggio di materiale medico, etc.
Parte
di questo scenario è dato dal conflitto crescente tra Usa e Cina (che, però,
non è del tipo di quello tra gli Usa e l’Urss, perché ad opinione degli autori
questa non cerca di imporre la sua ideologia al mondo).
Secondo il citato Wang Jisi le relazioni sono
al loro peggio dal 1979 e il disaccoppiamento economico e tecnologico è ormai
“irreversibile” e volto a dividere il sistema globale in due parti (come
avverte anche Wang Huiyao, Presidente del Centro per la Cina e la
Globalizzazione di Beijing).
Ovviamente per analizzare questa situazione
bisogna ricordare che i due punti di vista cinese e americano sono influenzati in
modo decisivo dalla loro storia e dalla posizione che riveste in essa alcuni
fatti cruciali, per i cinesi l’umiliazione ottocentesca e per gli Usa la loro
posizione di preminenza nel dopoguerra.
Ma
anche sapere che la pandemia ha avvantaggiato la Cina perché il virus rende
inefficace il vantaggio americano di tipo militare (che è al momento
insuperabile). Ha fatto quindi prevalere il “soft power” cinese, più efficace per combattere la
pandemia ed ha inoltre esposto aspetti della società americana scioccanti come
il fallimento sanitario o il razzismo.
Inoltre,
la Cina è stata in primo piano nell’inviare soccorsi, come ha ricordato Kishore
Mahububani.
D’altra
parte, gli Usa hanno ancora fattori strutturali di forza altamente dominanti,
dal sistema universitario al vertice mondiale, alla preminenza del dollaro.
Il confronto è quindi aperto ed incerto.
Il
reset ambientale.
Un
altro settore nel quale possono essere individuate delle risistemazioni
cruciali è l’ambiente.
Apparentemente
si tratta di una relazione lasca, ma anche qui i rischi sistemici (in prima
istanza geopolitici, sociali e tecnologici) si ripercuotono molto velocemente
in un mondo altamente interconnesso, e, inoltre, producono relazioni e risposte
non lineari che sono difficili, se non impossibili, da prevedere.
Una
delle differenze è che la pandemia richiede risposte immediate e si vede quindi
bene la relazione causale, cosa che non avviene per la sfida principale del
riscaldamento climatico.
Tuttavia,
per gli autori la causa è comune, al fondo la pandemia è causata da una
disastrosa zoonosi, la quale è stata resa più probabile dall’insieme del
cambiamento climatico e dall’estensione delle attività umane dovuta alla iper mondializzazione.
Gli
autori citano l’ormai classico “Spillover” e la lettera al Congresso Usa nella
quale più di cento gruppi ambientalisti e di protezione della biodiversità
segnalavano come negli ultimi cinquanta anni i disastri causati da zoonosi
siano quadruplicati.
E
indicavano l’agricoltura responsabile di almeno la metà di questi.
Ma ci sono anche evidenze, sostiene il libro,
di una relazione tra l’inquinamento dell’aria e i rischi pandemici variando il
livello di letalità e, tramite altri meccanismi, la relazione tra le aree più
inquinate e quelle a maggiore tasso di mortalità da Covid.
D’altra parte, è stata registrata una
diminuzione delle emissioni climalteranti in relazione agli arresti delle
attività, la quale, tuttavia, non è stata sufficiente neppure con un terzo
della popolazione chiusa in casa.
Dunque,
è necessario un cambiamento strutturale del modo di produrre energia e dei
comportamenti di consumo.
Per
queste ragioni la pandemia dominerà anche questa agenda nel prossimo futuro.
Il
prossimo UN Cop-26 (poi rinviato a questa estate) dovrà scegliere tra due
possibili narrative:
secondo
la prima la crisi è così grave che conviene mettere da parte per un poco le
misure climatiche e cercare di spingere con tutti i mezzi possibili la ripresa;
la seconda cercherà di cogliere l’occasione
per rilanciare le due agende insieme.
Questa
seconda è la direzione presa da alcuni decision-maker influenti che propongono
la transizione
energetica come
occasione per un nuovo e massivo ciclo di investimenti occasionato dalla stessa
crisi pandemica e dalla necessità stringente di rispondervi con massive
politiche fiscali.
In
altre parole, se si deve investire per far ripartire il sistema economico
conviene farlo partire in altra direzione, risolvendo i problemi pregressi climatici.
Il
“Reset” tecnologico.
Infine,
avremo un rimescolamento ed accelerazione drastico nel settore tecnologico.
Su
questo terreno gli autori ricordano la pubblicazione nel 2016 del libro “La quarta rivoluzione industriale”.
Da
allora i cambiamenti tecnologici sono stati sorprendentemente veloci,
giustificando la diagnosi di un cambiamento epocale in arrivo.
AI,
volo dei droni, traduzioni simultanee, i device mobili che diventano sempre più
parte della nostra vita personale e professionale.
L’automazione
ed i robot che stanno penetrando nella produzione e nel business in modo sempre
più accelerato.
L’innovazione
nella genetica e nella biologia sintetica che è sempre più vicina al nostro
orizzonte.
Tutto
questo sarà accelerato dalla pandemia, che catalizzerà nuove tecnologie e
“turbo cambierà” ogni business digitale o dimensione digitale dei business
esistenti.
La trasformazione digitale vedrà la pandemia
come potentissimo catalizzatore.
In questi mesi di blocco forzato delle
attività milioni di persone sono state costrette dalle circostanze a mutare le
proprie abitudini, collegarsi in remoto, farsi portare i pasti, consegnare le
merci, etc…
per Schwab quando l’emergenza terminerà molte
cose torneranno, dato che siamo animali sociali, ma alcune pratiche si saranno
consolidate (in fondo è molto più economico e facile fare una riunione con
zoom, magari tra quattro o cinque città diverse, che non viaggiare per
incontrarsi una mattina).
Questa
trasformazione ha con l’occasione superato di slancio anche i rallentamenti che
i regolatori avevano fino ad ora posto a molte tecnologie (pensiamo ai diritti
di volo con i droni, o la resistenza alla telemedicina).
Parimenti
nel mondo economico sarà spinta sempre di più l’automazione e tutte le forme di
telelavoro (il cosiddetto “smart-working”);
ciò tanto più quanto i collegamenti fisici
potrebbero essere resi più difficili dalla frammentazione del contesto della
mondializzazione.
Sarà
quindi avviato un ciclo di “turbo adozione” in moltissimi settori; Jd.com e
Alibaba, giganti dell’e-commerce cinesi, sono ad esempio convinti che nell’arco
di dodici mesi la consegna dei pacchi sarà integralmente automatizzata.
Una
grande attenzione bisognerà prestare anche alla robotica industriale ed al
machine learning.
I
cosiddetti Robotic
Process Automation (RPA) favoriranno la creazione di aree di business più
efficienti e in grado di rivaleggiare sempre di più con i lavoratori umani.
Ma una
lezione che viene dall’est è che una efficiente metodologia, tecnologicamente
assistita, di “contact tracing” è un potente fattore di successo contro il
Covid-19.
Mentre
la sua efficacia è dimostrata, al contempo pone acuti problemi di privacy. Per
cui al di là di Cina, Hong Kong, South Corea, che hanno imposto direttamente
misure massive di controllo coercitive (a volte incrociando i dati con le altre
fonti, come la rete di videosorveglianza urbana e le spese con carta di
credito, altre, come a Hong Kong, arrivando fino ad imporre il braccialetto
elettronico ai visitatori) altri paesi, come Singapore, hanno optato per
soluzioni meno invasive basate sul bluetooth che non intercetta il segnale
oltre i due metri e trasmette i dati al server del Ministero della Salute solo
se necessario.
È
l’applicazione “Trace Together” che sembra essere stato il modello della
nostra.
Tuttavia,
come evidenziano gli autori, in questo caso resta il problema che le app
volontarie sono del tutto inefficaci se, come accade in Italia, troppi
rifiutano di scaricarla per paura di fornire i propri dati alle agenzie
governative.
Con 5,2 miliardi di smartphone esistenti
attualmente è chiaro che ci sarebbe la piena possibilità tecnologica (il nostro
gestore sa sempre dove siamo, fino a che il nostro dispositivo è acceso) di
tracciare in tempo reale, ma ci sono al momento insuperabili problemi di
uniformazione e messa in contatto dei dati.
(Ma le bande mafiose hanno molti dati
da fornire! Ndr.)
Del
resto, ormai ogni aspetto della nostra vita è tracciabile, ogni esperienza
digitale, potenzialmente ogni passo nelle nostre città.
C’è
quindi un forte rischio di distopia e gli autori non lo nascondono in alcun
modo.
In
questo contesto viene citato il libro di grande successo di Shoshana Zuboff,
“Il
capitalismo della sorveglianza”.
Come
ha scritto Yuval Harari abbiamo davanti la scelta fondamentale tra una
sorveglianza totalitaria (sviluppata ai fini di protezione sanitaria o dal
terrorismo) e il potere dei cittadini.
Si
tratta del rischio, continuano, di un “oscuro futuro di uno stato della
sorveglianza techno-totalitario”, esercitato tramite le bande mafiose.
I
Micro-reset.
Nella
seconda parte del libro vengono dettagliate le micro-trasformazioni che
potrebbero prodursi nell’industria e nel business.
Chiaramente
per molte industrie la crisi pandemica ha prodotto effetti devastanti, per
altre è stata un’occasione di ripensare la propria organizzazione.
Ad
esempio, per molti settori di intrattenimento, viaggi od ospitalità, un ritorno
alla condizione pre-pandemica è inimmaginabile per ogni futuro vicino e forse
per sempre.
Per
altri, come i settori manifatturieri o del cibo, è più questione di trovare la
via per aggiustarsi allo shock e di ricapitalizzarsi per la nuova tendenza (con
più tecnologie digitali).
Le cose più ovvie saranno: incoraggiare il “remote
working”;
ridurre i viaggi e le riunioni faccia-a-faccia
in favore di interazioni virtuali; accelerare la digitalizzazione di ogni
soluzione.
Tutto
ciò non è affatto nuovo, ma ora diventa per molti una questione di vita e di
morte.
Come diretto risultato la IoT sarà enormemente
potenziata allo specifico scopo di rendere digitale e controllare in remoto
quanti più aspetti possibile dei cicli di produzione.
Manutenzione,
inventario, strategie di sicurezza possono essere controllate via computer.
Ma la
trasformazione impatterà anche sulle “global supply chain”, costringendole a
riorganizzarsi.
L’insieme dei fenomeni messi in movimento,
direttamente ed indirettamente, dalla pandemia, costringeranno a ridurre e
rilocalizzare le “supply chain” troppo estese, o intrecciate, e ad elaborare
produzioni alternative o piani per il rischio di interruzioni e distruzioni.
Ogni
business dovrà “ripensare le sue operazioni e probabilmente sacrificare l’idea
di massimizzare la propria efficienza e profitti per potenziare la ‘sicurezza
dell’offerta e la resilienza”, al fine di proteggersi contro un cambio regolatorio,
o di un fornitore specifico.
I
costi di produzione inevitabilmente saliranno, ma sarà il prezzo della
sicurezza.
Nell’epoca
post-pandemica, dunque, il business sarà soggetto a molta più interferenza da
parte del governo rispetto a prima.
Saranno implementate regole più stringenti (ad
esempio, sul riacquisto di azioni, o la distribuzione di dividendi) per
pratiche giudicate immorali, dal momento che le imprese molto spesso dovranno
chiedere l’aiuto per ristrutturarsi.
Ma
anche riceveranno istruzioni su cosa produrre, al fine di garantire un plafond
di produzioni strategiche di area (regionale).
La massimizzazione dei profitti e lo
short-terminism non sarà più favorito o tollerato, perché rende tutti più
fragili in vista di future crisi.
Inoltre, sempre secondo gli autori, nel mondo
la pressione a ridurre la protezione sociale e abbassare i salari cesserà e si
invertirà.
Molto
probabilmente nel mondo post-pandemico diventeranno centrali le lotte per i
salari minimi e il potenziamento dei sindacati.
Molto
probabilmente le compagnie dovranno adattarsi se vorranno accedere ai fondi
pubblici e la “gig economy “soffrirà di questo più di ogni altro settore, “il
governo le forzerà a offrire ai lavoratori contratti con i benefici e le protezioni
sociali e sanitarie” tutto regolamentato dalla “democrazia” esercitata dalle
bande mafiose.
Ma gli
effetti annunciati più importanti sono su turismo e sul settore
dell’entertainment, dove le cose devono avvenire oggi “di persona” (l’elenco è
terrificante, e comprende in effetti l’enorme cifra dell’80% del totale dei
posti di lavoro in Usa).
Attività
come viaggi e vacanze, bar e ristoranti, eventi sportivi, cinema e teatri,
concerti e festival, conferenze e convegni, musei e librerie, educazione,
saranno costrette a ridefinirsi.
Anzi,
per come la mettono “essi non potranno trovare spazio nel mondo virtuale o, se
lo potranno, solo in una forma monca e subottimale”.
Durante l’intera epidemia, per mesi e forse un
anno (il libro è uscito sei mesi fa) dovranno adattarsi e una ridotta capacità.
Più
specificamente, la trasformazione favorirà le grandi catene, mentre distruggerà
fino al 75% dei piccoli esercizi.
Al
capo opposto le grandi compagnie di viaggi, ad esempio aeree, andranno incontro
ad un mutamento cataclismico che avrà carattere permanente (venendo esacerbato
dal mutamento delle abitudini di viaggio delle imprese).
Ma l’impatto sugli aeroporti si propagherà già
per le connessioni a monte ed a valle, colpendo le catene di “auto rent”, le imprese
che costruiscono aerei e l’intera lunga catena di fornitori.
Quindi
ci sono stati, e ci saranno, impatti sui comportamenti di acquisto e
sull’educazione.
Insomma,
ci saranno numerosi ed in parte imprevedibili impatti su diverse filiere,
alcune in incremento ed altre in decremento.
Anche
gli impatti sulla vita urbana delle grandi città potrebbero essere davvero
molto grandi, perché anche se solo una piccola parte degli abitanti e users
sceglierà di non frequentarle più, cercando luoghi più verdi, decentrati,
comodi ed economici, tante attività dagli elevati costi fissi, la cui
profittabilità è impostata al margine subiranno egualmente durissimi e durevoli
contraccolpi.
E
subirà notevolissimi contraccolpi il settore del “commercial real estate” che è
un essenziale driver della crescita economica globale.
Potrebbe
crearsi un eccesso di offerta di uffici e servizi centrali (il recente
abbandono repentino del progetto decennale del nuovo stadio della Roma, da
parte di una proprietà che è specificamente nel business del turismo e del
lusso è un segnale chiaro in tale direzione) che porterà ad una enorme catena
di fallimenti di portata sistemica.
In
molte grandi città i prezzi delle case, ed in particolare dei locali
commerciali ed affitti, cadranno per un lungo periodi di tempo,
inevitabilmente.
La possibilità di lavorare in remoto, al
contrario, determinerà la crescita delle regioni e delle città (piccole
probabilmente) nelle quali la qualità della vita è migliore, in particolare
fino a che i prezzi delle case resteranno accessibili.
Qualcosa
di altrettanto distruttivo potrebbe avvenire ai grandi campus, il cui business
model potrebbe andare in bancarotta.
Ma ci
saranno effetti anche sul “big teach”, la salute e l’industria del benessere,
il settore finanziario, l’industria automobilistica e quella energetica.
Alcune di queste saranno ovviamente
avvantaggiate dal clima indotto dalla pandemia, tra queste il “big teach”, che
è un settore ad alta resilienza, e il settore della salute, ovviamente
centrale.
È
probabile che saranno anche potenziate e favorite dal governo le attività
sportive (in particolare all’aperto), per i loro effetti salutari e
socializzanti.
Altri
settori spinti alla trasformazione, ma anche favoriti, saranno quello finanziario
al dettaglio (che si sposterà sempre più on line, riducendo i costi), quello del
automotive, e quello della produzione elettrica che andrà incontro alla
inevitabile transizione, con massivi investimenti.
Inoltre,
le banche, sotto un altro profilo, si troveranno al centro della tempesta.
Dovranno infatti far fronte alla crisi di liquidità dei clienti e di”
non-performimg loans” che cresceranno enormemente.
I
Reset individuali.
Quindi
ci sono i cambiamenti individuali.
Attraverso
i suoi effetti che il testo classifica come “Macro” e “Micro” la pandemia avrà
comunque importanti conseguenze anche a livello individuale.
In primo luogo, essa ha già costretto la
maggioranza della popolazione del mondo ad auto isolarsi da amici e familiari,
a cambiare completamente i propri piani personali e professionali, e ha creato
profonde insicurezze economiche, psicologiche e di sicurezza fisica.
Ci ha ricordato la nostra fragilità umana e
quella delle nostre società.
D’altra
parte, una prima impressione è stata che la pandemia potesse unire le persone
(ci sono stati episodi spontanei di tipo comunitario, solidaristico), ma in una
seconda si è visto che in realtà le ha separate.
Ma la
reazione più rilevante è l’incertezza.
L’essere
umano ha bisogno sempre di avere qualche certezza e non sapere cosa avverrà, o
perché, induce un profondo turbamento che può arrivare ad un senso di vergogna
e disonore.
Questo
insieme di confuse ragioni induce molti a cercare di ridurre lo stress cercando
un rifugio nel pensiero in “bianco o nero” e in soluzioni semplicistiche, per
questo secondo gli autori proliferano teorie cospiratorie e una enorme
propagazione di rumore, fake news, falsità e altre strane idee.
Inoltre,
la pandemia ha scatenato un dibattito con importanti implicazioni morali circa
la salvaguardia a tutti i costi della crescita economica a discapito della
salute dei più deboli.
Su
questo terreno le scuole libertarie e utilitariste si sono scontrate con quelle
incentrate sui beni comuni in una disputa difficile da risolvere.
Gli
autori ricordano che inizialmente sono state assunte posizioni di stretta
protezione ed anche di apertura (in Uk), che successivamente sono state
abbandonate quando i costi hanno cominciato a manifestarsi pienamente.
Nell’immediato
post-pandemia non potrà quindi essere portata avanti indefinitamente la
chiusura (anche la crisi economica uccide le persone, come ha scritto Amartya
Sen).
E, del resto, ormai è chiaro che essa produce
ingenti danni anche riferiti alla sanità mentale.
Occorrerà
perciò trovare un compromesso che dipende essenzialmente, per ognuno di noi,
dai valori che considera preminenti.
Ciò
potrebbe costituire un’occasione di ripensare le nostre priorità e
comportamenti.
Migliorando la nostra creatività, gestione del
tempo, comportamenti di consumo, amore per la natura e ben essere.
In
conclusione.
La
crisi del Covid ha esasperato tutte le linee di faglia che erano presenti nella
nostra società, ineguaglianze, senso di ingiustizia, incremento della divisione
geopolitica, polarizzazione politica, crescita del deficit pubblico e dell’alto
livello del debito, inesistente governance globale, eccessiva
finanziarizzazione, degrado dell’ambiente.
Cosa
ci riserva il futuro?
Sarà solo un lampo prima del tuono, o andrà
meglio?
Per
gli autori in effetti noi non lo sappiamo, “ma quel che sappiamo è che se non
riavviamo il mondo di oggi quello di domani sarà profondamente peggiore”.
Per
evitarlo dobbiamo a loro parere, è anzi assolutamente necessario, avviare un
“gran Reset”.
Dove,
però, il termine va letto come riorganizzazione.
Se non
riusciamo infatti a riparare i mali che sono da tempi radicati nella nostra
società e nella sua economia aumenterà il rischio che, come è più volte
accaduto, “alla fine un ripristino sarà imposto da shock violenti come
conflitti e persino rivoluzioni”.
È per
questo che la pandemia, con tutte le sue sofferenze, “rappresenta una rara
finestra di opportunità per riflettere, re immaginare e ripristinare il nostro
mondo”.
Si
tratta, seguendo una facile retorica, di fare del mondo un posto meno divisivo,
meno inquinato, distruttivo, più inclusivo, equo e giusto.
(E a questo ci penseranno le bande
mafiose criminali! Ndr.)
Schwab,
rivolgendosi ai suoi interlocutori, le élite economiche del mondo, dichiara quindi espressamente che
non fare nulla non è una opzione.
Chi resisterà, dicendo che in fondo il mondo
si è sempre riassestato dopo ogni crisi, che la ricchezza sta continuamente
aumentando e che tutto andrà a posto da solo, si sbaglia; trascura che quelle
della crescita della ricchezza sono solo medie, bisogna vedere dove va, il
numero di persone che sono affondate e non si vedono in quelle medie cresce
sempre di più.
La rabbia cresce, come il caso di George Floyd
mostra.
In quella mobilitazione, in corso mentre il
testo veniva scritto, una gigantesca esplosione di sentimenti repressi e di
lunga frustrazione per l’ingiustizia ha creato un immediato movimento di massa.
Certo,
non è difficile vedere che l’epidemia è leggera rispetto a quelle del passato
quanto a tasso di mortalità, ma questa considerazione può indurre in errore.
Il mondo strettamente interconnesso
contemporaneo e l’insieme dei molti problemi che ha con sé la rende egualmente
un detonatore micidiale.
Perciò quel che accadrà è che nel mondo
post-pandemico le questioni di giustizia, la stagnazione dei redditi “per una
vasta maggioranza” e la ridefinizione del complessivo contratto sociale si
imporranno all’agenda.
Insieme ad esse si imporranno le questioni ambientali
e quelle dello sviluppo della tecnologia a favore dell’intera società, e solo
non di pochi privilegiati.
Come
il testo ammette tutti questi problemi c’erano anche prima, ma ora sono al
centro del tavolo e ci rimarranno.
Secondo
la stringente posizione ideologica degli autori l’assoluto prerequisito per
affrontarli e risolverli è quindi solo la collaborazione e cooperazione tra i
paesi del mondo.
(Non
progrediremo senza l’opera delle bande criminali mafiose! Ndr.)
In altre parole, perché sia attivata un’era di
maggiore cooperazione e non di nazionalismo e separazione è necessario che
appena l’economia riparte siano implementati realmente i “2030 Sustainable
Development Goals” delle Nazioni Unite e si proceda ad una profonda
ristrutturazione che mobiliti le migliori forze.
Questo
auspicio è alla fine il “Gran Reset”: che dalla caduta venga la forza di
rialzarsi.
Non
bisogna leggere molte delle cose scritte in questo libro come se fossero false
per il solo fatto che lo dice il direttore del “World Economic Forum” di Davos.
Molte
sono giuste, e alcune sembrano addirittura prefigurare una sorta di necessaria
“svolta keynesiana”.
Molte
sono le cose che abbiamo anche noi sempre detto.
Per
certi versi sono le stesse che dice la MMT, o che ripete sempre la Mazzucato.
È prevista una certa ritirata della
mondializzazione, ed un avanzamento della funzione di regolazione e spesa
pubblica.
È
chiaramente e dichiaratamente annunciata la fine del neoliberismo.
Tuttavia,
è il senso dell’operazione che è diverso.
Diverso
è l’interlocutore, come altro il soggetto chiamato a mobilitarsi.
Si
tratta di cambiare tutto per non cambiare niente.
Tommasi
di Lampedusa deve essere una delle letture serali del nostro.
L’orizzonte
non è una nuova versione del “embebbled capitalism” (o “liberalism”, come
scrisse John Ruggie) di Bretton Woods, ma una maggiore centralità
nell’organizzazione sociale e nella stabilizzazione delle grandi imprese.
È quindi uno “Stakeholders capitalism”.
Qualcosa che può ricordare il sistema
privatizzato del welfare ludico del tardo Impero Romano, anche lì in un
contesto di dissoluzione sociale e di altissima dispersione dei centri di
potere.
Come
propose allora Simmaco, la classe (senatoria) si può compattare intorno al
compito di essere per conto dell’autorità pubblica editor, individualmente e
collettivamente, dei giochi cistercensi (e gladiatorii) che esibiscono il
potere, aggregano spettatori e clientes, controllano e organizzano il consenso.
Si
tratta quindi di trovarne l’equivalente in un welfare privatizzato,
inestricabilmente corporate e di stato.
Una
centralità tra impresa e territorio che è fatta di” noblesse oblige” da parte
di questa e di grata accoglienza da parte del cliente, pubblico, beneficiario,
dipendente, … tutto questo ma non cittadino.
Lo
dice meglio, e più esplicitamente, anche la “McKinsey”:
– L’economia di libero mercato è una delle ragioni più
importanti per la creazione di ricchezza e miglioramento della qualità della
vita di cui l’umanità ha goduto nelle ultime generazioni,
– Eppure, c’è rabbia e sfiducia
palpabili nei confronti dell’idea di capitalismo, e del ruolo del business in
molte società,
– Già prima che il Covid-19 cambiasse
il mondo il 60% delle persone pensava che il capitalismo stesse facendo più
male che bene in 22 paesi su 28 interpellati,
– Quindi gli uomini di affari (capi mafia) non possono stare dietro le quinte,
devono prendere l’iniziativa,
– È un’opportunità per un cambiamento
positivo, la missione non è di servire gli azionisti ma clienti, fornitori,
lavoratori e comunità.
Insomma,
giù nella stiva, legati alle catene e privi di luce ed acqua, mentre il
naufragio si avvicina arriva una voce dall’alto.
I capitani dicono di fidarsi, loro sanno cosa
è bene per tutti e sanno come portare la nave in porto, si prenderanno carico
di ogni cosa.
Questa
sarebbe la fine del neoliberismo per Schwab.
Certo,
il neoliberalismo ha avuto un inizio al termine del ciclo keynesiano, e come
tutto avrà fine.
Ma non
è ancora il momento.
Il
mondo ha un problema
che si
chiama debito.
Ma c’è
chi sta meglio.
Formiche.net
- Gianfranco Polillo – (24/12/2021) – ci dice:
Il
debito globale ha raggiunto i 226 trilioni di dollari, collocandosi ormai al
256 per cento del Pil mondiale.
Un’accelerazione
particolarmente intensa a causa della pandemia.
Ma non
tutti i Paesi sono nei guai allo stesso modo.
L’Italia,
per esempio…
È
allarme rosso.
È
stato soprattutto il Fondo monetario ad esternare tutta la sua preoccupazione:
il debito globale – ha titolato in un suo ultimo e recente report – ha
raggiunto i 226 trilioni di dollari.
Collocandosi,
ormai al 256 per cento del Pil mondiale.
L’accelerazione
è stata particolarmente intensa nel 2020, a causa della pandemia.
Vi ha
contribuito, da un lato la maggiore spesa pubblica che si è resa necessaria per
supportare famiglie ed imprese, alle prese con il lockdown;
dall’altro
la forte caduta del Pil (meno 3,1 a livello globale), che ha coinvolto, seppure
in misura diversa, tutti i Paesi:
meno
4,5 per cento per le economie avanzate e 2,1 per quelle emergenti.
Nel
2020 l’aumento percentuale maggiore si è verificato per il debito pubblico.
“Durante
la pandemia, – annota il report – i governi e le banche centrali hanno garantito
ulteriori prestiti al settore privato per proteggere vite e garantire mezzi di
sussistenza”.
Negli
anni precedenti, tuttavia, era stato soprattutto il debito privato a mettere a
segno i maggiori progressi.
Rispetto
al 1970, infatti, mentre il primo era aumentato del 99 per cento, quello
privato aveva fatto registrare una crescita totale del 156 per cento:
98 per cento per le imprese non finanziarie e
58 per cento per le famiglie.
Percentuale
quest’ultima in continua crescita, a causa delle contraddizioni storiche di
questa fase di sviluppo.
Oggi
il credito al consumo, specie nei Paesi più sviluppati, come Stati Uniti o Gran
Bretagna, rappresenta quel business che consente ai ceti meno abbienti di poter
avere una vita meno grama.
Almeno
fin quando i debiti contratti non dovranno essere rimborsati.
Il
che, stando almeno a quello che si intravede all’orizzonte, potrebbe avvenire
quanto prima.
Da un
lato la ripresa del processo inflazionistico, indotto dal caro energia e dalla
riorganizzazione delle grandi catene di approvvigionamento, dall’altro i
propositi delle principali Banche centrali – Fed e Bce – decise a contrastarla,
facendo leva sui tradizionali strumenti di controllo del ciclo:
rialzo
dei tassi di interesse e riduzione degli acquisti di titoli sia pubblici che
privati. Contrasto che potrebbe determinare un vero e proprio corto circuito.
Al
momento si prevede una progressiva riduzione degli acquisti netti di attività
finanziaria, fino al loro azzeramento.
Seguirà,
quindi, un progressivo aumento dei tassi d’interesse e solo alla fine una
(parziale) riduzione degli stock di titoli accumulati, a seguito del
quantitative easing (Qe).
Questo
almeno il programma delle due Banche centrali sulle due sponde dell’Atlantico.
Con
una FED più aggressiva ed una BCE più riflessiva.
Diversa,
soprattutto, la tempistica.
L’aumento
dei tassi di interesse negli Stati Uniti è previsto per il prossimo
marzo-aprile 2022, in Europa solo alla fine dell’anno.
Opposta,
a quanto sembrerebbe, la scelta sulla conservazione dei titoli tenuti in
portafoglio.
La Fed
appare meno determinata, mentre la Bce è orientata a chiudere la Pepp (Pandemic
emergency purchase programme) per rafforzare l’altro programma (Asset Purchase
Programme – App), seppure in misura inferiore rispetto alle aspettative dei
mercati.
Differenze di comportamento che si
giustificano con la diversità della fase ciclica. Rispetto al 4,9 per cento
della zona euro, negli Usa l’inflazione viaggia ad un tasso del 6,8 per cento.
Inoltre la strategia dell’”average inflation
targeting” sembra aver esaurito i margini a sua disposizione:
a
causa del rialzo intervenuto nel tasso di inflazione che ha più che compensato
i precedenti mesi di bonaccia, facendolo crescere, nel medio periodo, oltre il
limite del 2 per cento.
Ma per
tornare all’Eurozona: gli acquisti della Bce, nell’ambito del programma App,
passeranno dagli attuali 20 a 40 miliardi al mese, nel secondo trimestre del
2022.
Nel
terzo trimestre scenderanno a 30, per poi stabilizzarsi a 20 da ottobre in
avanti.
Il roll-over, ossia il reinvestimento dei
proventi derivanti dai titoli posseduti, continuerà almeno fino alla fine del
2024.
Al
tempo stesso vi potrà essere una deviazione dalle capital keys.
I nuovi investimenti non dovranno più essere
rigidamente proporzionali, come in passato, dando maggiore flessibilità alla
politica monetaria e tradursi in un possibile vantaggio per i Paesi (Italia in
testa) più indebitati.
L’impatto
dei cambiamenti annunciati può incidere sulla solvibilità del debito (pubblico
e privato).
Specie se si considera il dinamismo dei
movimenti finanziari connessi con la posizione patrimoniale estera di ciascun
Paese.
In questo caso, oltre la loro dimensione
complessiva conta soprattutto loro ripartizione.
Come
risulta evidente dalla tabella del Fmi relativa ai Top ten: i dieci Paesi che
presentano i maggiori squilibri nei rapporti con il resto del mondo.
Gli
Usa rimangono i principali debitori.
Il
signoraggio sul dollaro consente loro di non preoccuparsi eccessivamente del
problema, almeno fin quando le varie Banche centrali saranno costrette ad
accumulare dollari nelle loro riserve valutarie.
Rispetto
al 2015, gli ultimi dati (2020) mostrano un notevole peggioramento. All’inizio
il loro peso era pari al 56,6 per cento del totale complessivo dei Paesi più
indebitati con l’estero.
Nel
2020 questa percentuale sale al 70 per cento.
Ne
guadagnano gli altri nove, che vedono il loro debito scendere, almeno in
percentuale sull’intero campione.
Tutti
meno che la Francia.
La sua posizione debitoria passa dal 2,3 al
4,3 per cento.
Sul
fronte opposto, quello dei crediti, si assiste ad un maggior livellamento, a
scapito del Giappone che scende dal 27,8 al 21,5.
Guadagnano,
nell’ordine: la Germania che passa dall’11,6 al 15,9 per cento;
il
Canada dal 3,3 al 6,6 e l’Olanda dal 3,8 al 7 per cento.
Dall’insieme
di queste valutazioni risulta abbastanza evidente che l’eventuale giudizio
sulla solvibilità finanziaria di un qualsivoglia Paese non può che fondarsi sul
comparing dei dati riguardanti tutti e tre gli elementi:
vale a
dire debito pubblico, privato e posizione netta con l’estero.
Solo
questo raffronto consente, infatti di svelare, alcuni piccoli misteri.
Paesi che, in passato, sono risultati
solidissimi, pur avendo un enorme debito pubblico.
E
Paesi che sono stati sanzionati duramente dal mercato, nonostante un debito
pubblico più che contenuto.
Appartengono
indubbiamente alla prima categoria il Giappone ed il Belgio, alla seconda la
Spagna.
Il
Giappone ha il più alto debito pubblico del mondo.
Nel 2020, secondo i dati del Fmi, è stato pari
al 254,1 per cento del Pil, con una crescita relativamente regolare, a partire
dal 1995 (92,5 per cento del Pil), pari a poco meno il 4 per annuo.
Il
debito privato, invece, ha avuto, nello stesso periodo un andamento
discendente, al ritmo dell’1 per cento all’anno, passando dal 288,5 del 1995,
al 221,9 del 2020.
Comunque
sia, il debito complessivo è risultato essere il più alto in assoluto a livello
mondiale, raggiungendo nel 2020 un valore pari al 476,1 per cento del Pil.
Eppure
nonostante ciò la solvibilità finanziaria del Giappone è a prova di bomba, al
punto, che nelle fasi di turbolenza dei mercati, lo yen è stato sempre
considerato un bene rifugio.
La spiegazione è tutta nella sua posizione
patrimoniale.
Il
Giappone è il primo creditore nei confronti dell’estero: nel 2020 i suoi
crediti verso il resto del mondo ammontavano al 68,2 per cento del Pil, per un
importo pari a 3.440 miliardi di dollari.
Più di
una volta e mezzo il Pil italiano.
Il
caso del Belgio è per molti versi simile.
All’inizio, nel 1995, il suo debito pubblico
era addirittura superiore a quello italiano: 131,3 per cento del Pil, contro il
119,4.
Poi nel 2000 il pareggio e quindi il
miglioramento.
Nel
2020 sarà pari al 114,1 del Pil, contro il 155,8 per cento dell’Italia.
Nel
1995 il suo debito privato era già più alto, rispetto all’Italia (151,5 del Pil
contro il 123,1).
Da allora il suo tasso di crescita era stato
di gran lunga più sostenuto: un tasso medio annuo del 2,3 per cento, contro
l’1,5 italiano.
Risultato
finale: 273,5 del Pil, rispetto al 180,2 del Bel Paese.
Il
debito globale belga, nel 2020, risulta comunque, seppur di poco, superiore a
quello italiano.
Ma nel 2011, quando si temeva che il contagio
greco potesse colpire i paesi più fragili dell’Eurozona, l’Italia pagò il
prezzo di un attacco speculativo contro i suoi titoli.
Nel
Belgio, invece, nemmeno un piccolo sussulto.
Grazie
al suo forte credito nei confronti dell’estero (il 51,4 per cento del Pil),
mentre il debito italiano, sempre verso l’estero, era del 18,2 per cento.
Per la
Spagna e gli altri Gipsi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia),
costretti a subire le cure del Fondo salva Stati e dello stesso MES (il
Meccanismo europeo di stabilità, dal quale l’Italia si salvò per il rotto della
cuffia), fu diverso. L
’effetto
domino, come si ricorderà, partì da Atene, per colpire poi Dublino e quindi
estendersi a Lisbona e Madrid.
Roma
fu coinvolta solo alla fine e le conseguenze, soprattutto politiche oltre che
economiche e finanziarie, furono devastanti.
L’ultima
coda velenosa fu quella di Cipro che rischiò la definitiva bancarotta.
Vi
furono analogie tra queste diverse storie e profonde differenze.
Tutte
avevano in comune un eccesso di debito pubblico e di debito privato.
Il
debito globale oscillava dal 290 per cento del Pil della Grecia, al 400 per
cento del Portogallo.
Allora, tuttavia, si dette particolare
importanza non tanto all’indebitamento globale, quanto al peso del debito
pubblico che era profondamente diverso da Paese a Paese.
Si
andava dal 147,5 per cento del Pil della Grecia, al 60,5 per cento della
Spagna. Quindi, stando almeno alla declaratoria di Maastricht, la Spagna poteva
essere annoverata tra i Paesi più virtuosi, avendo un rapporto debito
pubblico/Pil di gran lunga inferiore alle medie dell’Eurozona.
Ed
invece in Spagna, almeno fino al 2011, lo spread sui suoi titoli, i Bonos,
aveva superato di almeno di 100 punti quello sui Cct italiani.
Del
tutto trascurata fu anche la relativa posizione nei confronti con l’estero.
Le cui
differenze contribuiscono a spiegare la dinamica della crisi.
Il
debito estero greco era pari al 99,8 per cento del Pil; quello irlandese al
113,8; il Portogallo viaggiava sull’onda di un indebitamento estero del 107,2
per cento del Pil, di un pizzico superiore a quello spagnolo ch’era pari al 91
per cento.
Il che spiega perché i due Paesi, tra le mille
cose che li legava, erano uniti in un tragico destino.
Il
debito estero italiano era invece pari al 20,1 per cento del Pil: situazione di
relativa tranquillità destinata a compensare le preoccupazioni inerenti la
dimensione del debito pubblico.
E, in
effetti, il Bel Paese fu tra gli ultimi ad essere coinvolto nella crisi, anche
a causa di una situazione politica interna, che non lasciava molto ben sperare.
La
diversa natura dell’indebitamento spiega anche il diffondersi della crisi e la
sua velocità.
Il
debito pubblico è quello più stabile.
In
genere i relativi titoli finiscono in pancia degli intermediari creditizi, sui
quali il controllo della Banca centrale è penetrante.
Anche
il debito privato è relativamente fermo: alla sua origine sono, in prevalenza,
contratti e finanziamenti bancari.
Negli
ultimi anni, specie in Paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, il peso
del cosiddetto “Shadow banking” (quell’insieme di intermediari finanziari che
non sono sottoposti a supervisione normativa) è fortemente cresciuto.
In
passato operava soprattutto nel comparto dell’edilizia, oggi nel credito al
consumo.
Anche
in questo caso, tuttavia, trattandosi, in genere, di subprime l’attenzione
degli operatori è massima.
I
finanziamenti legati, invece, alla dinamica delle partite correnti della
bilancia dei pagamenti, dal cui cumulo deriva la situazione patrimoniale nei
confronti con l’estero, sono regolati da un semplice automatismo.
I Paesi in surplus, come il Giappone, la
Germania, l’Olanda o la Danimarca avendo un eccesso di risparmio, che non
utilizzano al proprio interno, finanziano i Paesi in deficit, per il tramite
del sistema finanziario internazionale.
Ovviamente si tratta di hot money: fondi che
sono trasferiti, con estrema rapidità, da un Paese all’altro alla ricerca del
maggior rendimento, ma anche pronti alla fuga al primo segnale di pericolo.
“Sudden
stop”:
secondo la nuova terminologia coniata per indicare la rapidità di quei
passaggi.
Ed
ecco allora spiegato il perché, nello spazio di qualche settimana, i rapporti
tra i Bonos spagnoli ed i Cct italiani, in termini di spread, subirono quel
drastico rovesciamento.
Quindi
massima attenzione per il fenomeno.
Al di là della dimensione degli eventuali
debiti – che comunque conta – la loro pericolosità è data dalla loro
possibilità di innescare fenomeni più perniciosi.
Possono
essere la miccia che fa brillare la mina e far tracimare l’intera struttura del
debito (pubblico e privato) accumulato in precedenza.
Questo,
almeno, è il lascito della crisi del 2011.
Come detto in precedenza, in Italia, quel
debito estero, pari solo al 20,1 per cento del Pil, era solo la punta di un
iceberg la cui massa era rappresentata, da un debito complessivo, pari al 300,1
per cento del Pil.
Bastò
quindi poco per innescare la crisi.
Per
fortuna, da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.
Mentre
in Spagna ed in Portogallo (ma non in Grecia e Irlanda) si assiste ad un
leggerissimo miglioramento, in Italia i progressi sono stati ragguardevoli.
Da una
posizione debitoria, si è rapidamente passati ad una creditoria, che alla fine
dello scorso anno era pari al 2,4 per cento del Pil.
Ma che
a distanza di soli sei mesi, secondo i dati dell’ultimo Bollettino economico
della Banca d’Italia, è più che raddoppiata:
“89,6
miliardi di euro, pari al 5,2 per cento del Pil, in aumento di 39,1 miliardi
rispetto alla fine di marzo.”
Un
dinamismo degno d’attenzione, specie se questa realtà è confrontata con quella
della Francia.
Che,
invece, si trova a vivere una realtà ben più preoccupante: non solo essere
catalogata dal Fmi tra i dieci Paesi con il più alto debito estero in relazione
al Pil, ma costretta ad assistere ad un continuo e progressivo peggioramento
della sua posizione debitoria.
Storie
diverse, quindi.
Di cui
si dovrà tener conto, quando si tratterà di ridiscutere le nuove regole del
Patto di stabilità.
Sotto
la punta dell’iceberg: sulla
cancellazione
del debito africano.
Aics.gov.it
– Marco Lupi – (5-1-2021) – ci dice:
(Marco
Zupi - Direttore Scientifico CeSPI)
Lezioni
dalla storia e il ruolo delle istituzioni finanziarie ed economiche
internazionali.
È
impressionante come la memoria collettiva sia selettiva: nonostante il problema
del debito estero insostenibile si sia già ripresentato varie volte negli
ultimi decenni, infatti, si riesce a dimenticare la storia o, peggio, si finge
di dimenticarla.
Sul
finire degli anni Ottanta, sotto l’impulso di Alex Langer, si costituì in
Italia la ‘Campagna
Nord-Sud: Biosfera, Sopravvivenza dei popoli, Debito’, per trasformare il debito estero
del Terzo mondo in un comune debito ecologico, mettendo in discussione
principi, determinanti e conseguenze della crisi debitoria, collegando problemi
debitori a crisi ambientale e ingiustizia.
Nel
1990 fui ospite dell’Università dello Zambia per un semestre.
Un tema politico fondamentale allora per quel
Paese e il resto del continente africano era quello delle condizionalità
macroeconomiche – imposte da un decennio dal “Fondo Monetario Internazionale”
coi piani di stabilizzazione e dalla “Banca Mondiale” coi programmi di
aggiustamento strutturale – legate al mantra neoliberista della
deregolamentazione, liberalizzazione commerciale e finanziaria e
privatizzazione.
Il
vincolo della dipendenza dai crediti internazionali e le difficoltà
nell’onorare i termini di pagamento degli oneri debitori furono il motivo
ricorrente in tutto il continente e non solo.
Qualche
cifra di allora, utilizzando i dati del Fondo Monetario Internazionale:
da una stima di 8 miliardi di dollari nel
1970, il debito estero totale dei Paesi africani (esclusi gli arretrati) salì a
circa 174 miliardi di dollari alla fine del 1987, compreso il debito a breve
termine stimato a 12 miliardi di dollari.
Misurato
in dollari statunitensi costanti (1980), il debito totale dell’Africa alla fine
del 1987 era quasi sette volte e mezzo il livello del 1970.
Il
totale dei pagamenti del servizio del debito dei Paesi africani passò da meno
di 1 miliardo di dollari nel 1970 a quasi 18 miliardi nel 1987, al netto degli
arretrati e delle misure di cancellazione del debito già adottate.
Il rapporto tra i pagamenti del servizio del
debito e le esportazioni di beni e servizi passò in Africa da una stima dell’8
per cento nel 1970 al 33per cento nel 1987, sempre al netto della
rinegoziazione e degli arretrati.
L’indebitamento totale in proporzione alle
esportazioni di beni e servizi aumentò dal 73 per cento alla fine del 1970 al
322 per cento alla fine del 1987.
Il
rapporto tra il debito estero totale e il Pil passò dal 16 per cento alla fine
del 1970 al 70 per cento alla fine del 1987.
Nella seconda metà degli anni Ottanta furono
adottate diverse iniziative di riduzione del debito estero di Paesi altamente
indebitati, con un particolare attivismo del G7, soprattutto degli Stati Uniti,
e il coinvolgimento di crediti bancari contro la minaccia di insolvenza sul
sistema bancario internazionale (Piani Baker e Brady).
Il
problema dell’indebitamento estero dei Paesi in via di sviluppo fu però ben
lontano dal potersi dire risolto.
Le
drammatiche conseguenze, in termini sociali, economici, politici ed ambientali,
del debito estero erano già allora purtroppo note, soprattutto, ovviamente,
alle popolazioni dei Paesi indebitati.
Il meccanismo dell’indebitamento estero
interagisce con altri circuiti economico-finanziari che, muovendosi talvolta in
maniera più sotterranea, nella sostanza possono risultare altrettanto poco
orientati a promuovere lo sviluppo socio-economico delle popolazioni, la cura
del welfare e dell’ambiente.
Gli
effetti negativi così generati si sommano fino a creare una spirale perversa di
aggravamento delle condizioni di povertà, disuguaglianze e degrado ambientale.
I diversi flussi del capitalismo finanziario,
pubblici e privati, legati al commercio, agli investimenti e agli aiuti
disegnano una mappa complessa di relazioni nel quadro del sistema finanziario
internazionale.
Nel
1996, a fianco delle misure di cancellazione parziale di debito da parte dei
governi dei Paesi creditori, per la prima volta – col lancio dell’iniziativa
Hipc (Heavily Indebted Poor Countries) per la riduzione del debito dei Paesi
altamente indebitati, molti dei quali africani – le istituzioni finanziarie
internazionali furono coinvolte nella cancellazione di parte del proprio
credito.
L’iniziativa
fu poi rafforzata, in termini di maggiore generosità, a seguito del vertice G7
di Colonia del 1999.
L’Italia
decise nel 2000 di contribuire attivamente all’iniziativa, assumendo, anche sul
piano bilaterale, precise responsabilità.
Si
trattò di una mobilitazione ampia del Paese, che vide i governi di allora
prendere solennemente degli impegni;
il Parlamento varare in tempi eccezionalmente
rapidi una legge in materia (la legge n. 209/2000) prima di quanto avessero
fatto gli altri Paesi membri del G7; la società civile promuovere una campagna
nazionale (Sdebitarsi), a fianco di simili campagne internazionali;
il
mondo cattolico riunirsi attorno all’iniziativa della Conferenza episcopale
italiana; il mondo degli artisti sostenere queste campagne
(come
nel caso dell’apparizione del cantante Jovanotti al festival di Sanremo).
Nel
2006, l’iniziativa Hipc dovette subire un nuovo intervento di rafforzamento,
attraverso la” Multilateral Debt Relief Initiative” (Mdri), per produrre
effetti significativi.
A
dispetto dell’emergenza che sembrava dover imporre risposte immediate, nel 2015
il Ciad non aveva ancora completato l’iter per ottenere tutti i benefici
dell’iniziativa.
Nel 2018, il debito estero totale dell’Africa
era stimato a 417 miliardi di dollari e il 36 per cento era dovuto ad
organizzazioni multilaterali come la “Banca Mondiale” e il “Fmi”, il 32 per cento
a creditori bilaterali (di cui il 20 per cento alla Cina, questo sì una novità
rispetto ai decenni passati) e un altro 32 per cento a creditori privati.
Intanto, il numero dei Paesi africani ad alto
rischio o in difficoltà di indebitamento era più che raddoppiato, passando da 8
nel 2013 a 18 nel 2018.
Nel
2019 più di 30 Paesi africani hanno speso più per il pagamento del debito che
per la sanità pubblica.
Secondo
la Banca Mondiale, circa il 40 per cento dei Paesi dell’Africa subsahariana
erano in difficoltà o a rischio di indebitamento nello stesso anno.
Nel
2020, la crisi pandemica del Covid-19 sta aggravando pesantemente la situazione
perché ha portato ad un calo dei prezzi delle materie prime e ad un aumento dei
costi delle importazioni africane, mentre i proventi del turismo, delle rimesse
e delle materie prime sono diminuiti.
Molti
Paesi africani stanno vivendo la più grande fuga di capitali mai registrata e
un rapido ritiro degli investimenti internazionali.
Il Fmi
prevede per il 2020 una contrazione economica record del 3 per cento in Africa,
mentre il rapporto debito/Pil è raddoppiato nell’ultimo decennio, raggiungendo
il 57 per cento.
Da qui
la decisione di G20 e Club di Parigi di prorogare di 6 mesi la “Debt Service
Suspension Initiative” (Dssi) che interessa 73 Paesi (di cui la metà africani)
fino al 30 giugno 2021, e l’impegno del G20 a fare ancora di più.
Lo
Zambia, a novembre del 2020, con un onere debitorio di circa 12 miliardi di
dollari (80 per cento del Pil), non rispettando l’impegno di restituzione di
una tranche di circa 42 milioni di dollari di debito estero diventa il primo
possibile caso africano di default nel contesto della pandemia.
In
questo quadro, nel 2021 l’Italia si avvarrà della prossima presidenza di turno
del G20 per cercare di assicurare un ulteriore alleggerimento del debito degli
Stati africani.
È un bene che ciò avvenga?
Certamente sì, perché misure emergenziali sono
necessarie.
Sarà
sufficiente per invertire la rotta degli squilibri della finanza
internazionale? Quasi sicuramente no, perché prevale la tendenza a leggere in
termini appunto solo emergenziali le crisi invece strutturali che si susseguono
regolarmente.
Il
fatto che, come ricorda la “Commissione economica delle Nazioni Unite per
l’Africa”, i paesi ammissibili alla Dssi spendano 92 milioni di dollari al
giorno per il pagamento del debito quando potrebbero destinarli ai problemi
amplificati dalla pandemia, risuona tragicamente simile a quanto si diceva
venti o trenta anni fa.
Le
contraddizioni di fondo non sono mai state affrontate e risolte e si sono
occultamente accumulate.
Si è trattato solo di «tempo guadagnato», per
citare Wolfgang Streeck.
Gli
episodi di crisi finanziaria sono purtroppo solo esempi e sintomi di
un’instabilità finanziaria strutturale e di una marginalizzazione delle
priorità di sviluppo che la matrice neoliberista del senso comune è sin qui
riuscita a ignorare.
Debiti
Paesi in via di sviluppo:
G7
attacca Pechino-CINA.
Asianews.it
– (15-10-2022) – Redazione – ci dice:
I
cinesi non partecipano ai dialoghi multilaterali sulla riduzione del debito
delle nazioni più povere.
La Cina vuole che anche “Banca mondiale” e “Fondo
monetario internazionale” accettino un taglio.
Quest’anno
gli Stati in via di sviluppo devono restituire debiti esteri per 35 miliardi di
dollari: il 40% è dovuto a Pechino.
Pechino
(AsiaNews) – Secondo le economie avanziate del G7, la Cina è il principale
ostacolo negli sforzi multilaterali per ristrutturare il debito estero dei
Paesi in via di sviluppo, appesantito dagli effetti della pandemia da Covid-19,
dell’invasione russa dell’Ucraina e della relativa crisi energetica.
Lo ha
detto ieri la segretaria Usa al Tesoro Janet Yellen durante un incontro con
alcuni suoi omologhi africani.
Yellen
ha spiegato di aver discusso la necessità di portare Pechino al tavolo delle
trattative.
Il
ministro tedesco delle Finanze e il suo collega spagnolo hanno espresso lo
stesso disappunto.
I
cinesi ribattono che non parteciperanno a schemi di riduzione del debito se “Banca
mondiale” e “Fondo monetario internazionale” (Fmi) non accetteranno tagli a
quanto loro dovuto.
Nel
2020 il G20 ha lanciato un meccanismo per coinvolgere Cina e India nella
ristrutturazione dei debiti delle nazioni più povere, al quale hanno aderito
subito il Club di Parigi, che riunisce le economie occidentali, l’Fmi e diversi
creditori privati.
Solo quest’anno,
i Paesi in via di sviluppo devono restituire debiti esteri per 35 miliardi di
dollari: il 40% è dovuto alla Cina, riporta la Banca mondiale.
Pechino
è il primo prestatore mondiale per gli Stati a basso reddito, soprattutto in
Africa, Asia centrale, sud-est asiatico e Pacifico.
Nella maggior parte sono nazioni che hanno
ricevuto fondi sotto la bandiera della “Belt and Road Initiative”, il
megaprogetto di Xi Jinping per accrescere il peso geopolitico della Cina con
investimenti infrastrutturali in tutto il mondo.
In
termini assoluti, alla fine del 2020 i Paesi più indebitati con Pechino sono
Pakistan (77,3 miliardi di dollari), Angola (36,3 miliardi), Etiopia (7,9
miliardi), Kenya (7,4 miliardi) e Sri Lanka (6,8 miliardi).
In
valori percentuali rispetto al Pil sono Gibuti (43%), Angola (41%), Maldive
(38%), Laos (30%) e Repubblica democratica del Congo (29%).
Gli
Usa a rischio default:
il
problema del debito americano
orizzontipolitici.it
- Mattia Moretta – (8 Febbraio 2022) – ci dice:
Il 18
ottobre, per gli Stati Uniti d’America, poteva essere la data del default.
Lo
spettro di una crisi del debito americano, nodo ancora irrisolto fino a pochi
giorni fa, non ha fatto altro che incrementare i malumori dei democratici, che
avevano chiesto di sospendere il tetto sul debito federale, visto che questo ha
raggiunto cifre da capogiro nell’ultimo periodo.
Un
accordo è stato trovato, con l’innalzamento del debito pubblico fino a fine
anno, ma da lì in poi sarà tutto da rivedere, causa la scadenza del
provvedimento.
Per
approfondire il problema, è necessario capire: com’è composto il debito
americano? Cosa aspettarsi da un nodo, quello del tetto al debito, ancora
difficile da sciogliere?
Antefatto:
i primi malumori
Già a
fine settembre, la Segretaria del Tesoro Janet Yellen avvertiva, in una lettera
ai leader del Congresso, di una situazione pericolosa: l’aumento del costo del debito e un
merito creditizio in bilico avrebbero potuto portare ad una “catastrofe”.
La
stessa dichiarava, nel documento presentato alla “National Association for
Business Economics”, che quanto prima il Congresso avrebbe dovuto evitare lo
shutdown – procedura che blocca le attività amministrative del Governo ogni
volta che il Congresso non riesce ad approvare la legge di bilancio – e
aumentare il tetto del debito.
Sosteneva,
infatti, come la seconda emergenza sarebbe stata più grave della prima, in
quanto potenziale rischio di un crollo finanziario e conseguente recessione per
l’economia statunitense.
E
conseguentemente, a inizio ottobre Biden ha evitato lo showdown, firmando la
legge che stanzia fino a dicembre nuovi fondi per il sostentamento del governo
federale – ottenendo il via libera poche ore prima da parte di ambo i rami del
Congresso.
Tuttavia, questa non conteneva la sospensione,
fortemente richiesta dai democratici, del tetto del debito federale, arrivato
alla cifra record di circa 28500 miliardi di dollari.
Persino
Jamie Dimon, attuale amministratore delegato di JPMorgan Chase, la più grande
banca al mondo, ha espresso timori quanto all’evento “potenzialmente
catastrofico” di una eventuale insolvenza creditizia da parte degli Usa.
Inoltre,
un portavoce di Morgan Stanley ha avvertito la possibilità di un default del
credito statunitense.
Infine, anche il presidente della “Federal
reserve” Jay Powell ha asserito che, a seguito di un eventuale default, la
banca centrale statunitense sarebbe debole nel “proteggere completamente”
l’economia americana dai rischi che ne deriverebbero.
Elementi,
questi, che hanno messo seriamente a rischio la tenuta del sistema finanziario
americano.
Il compromesso
in extremis.
Ad
ogni modo, a inizio ottobre un accordo è stato trovato.
Chuck Schumer, leader dei senatori
democratici, ha confermato infatti il via libera, da parte del Senato,
all’innalzamento del tetto del debito fino al 3 dicembre, che si realizza
nell’aggiunta di circa 480 miliardi di dollari per evitare il default.
Così facendo, il tetto del debito raggiunge la
cifra di circa 28900 miliardi di dollari. Qualche giorno dopo, il 12 ottobre
anche la Camera statunitense ha approvato il provvedimento, di fatto lasciando
la palla alle mani di Joe Biden, che è chiamato a convertire la proposta in
legge prima del 18 ottobre in quanto, secondo il Tesoro, da questa data in poi
non sarebbe più possibile pagare i debiti della nazione senza un’azione del
Congresso.
Tale provvedimento, tuttavia, va
necessariamente aggiornato nel giro di due mesi, vista la scadenza del 3
dicembre.
Il
debito pubblico americano.
Il
debito pubblico americano, che segue una traiettoria di forte aumento anche per
l’anno 2021, ha raggiunto cifre da capogiro nell’ultimo periodo.
Secondo
“Trading Economics” questo ammontava, a settembre 2021, a 28.428,919 milioni di
dollari, tra le cifre più alte della storia del paese.
Il
rapporto debito/Pil, ora di poco superiore al 100%, sta lentamente raggiungendo
i valori caratteristici del secondo conflitto mondiale, quando ha sfiorato il
120%.
Sebbene
per l’America questi rappresentino valori da continuare a monitorare, rimangono
ad ogni modo inferiori a quelli dell’Italia.
Il
debito italiano, infatti, nel 2020 ha sfiorato il 160% del Pil, un valore che è
stato raggiunto solo durante il primo conflitto mondiale.
L’ultima
volta che il Belpaese aveva un rapporto di poco inferiore al 100% era il 1991,
l’anno antecedente alla firma del Trattato di Maastricht.
Il
debito pubblico americano, da qualche anno a questa parte, è tenuto d’occhio
dalle principali istituzioni mondiali – finanziarie e non solo – anche per
altre ragioni.
Non solo presenta – come si evince dal grafico
– un indice quasi ininterrottamente crescente dal 2001 ad oggi.
Già a marzo 2017, infatti, il “debt-to-revenue
ratio” – ossia il rapporto tra il debito accumulato e le entrate dello stesso
periodo preso in considerazione – presentava un valore superiore a 10.
In altre parole, il debito pubblico era pari a dieci
volte le entrate.
Questo
valore è diminuito notevolmente nel 2019, scendendo a poco più di 3, ma rimane
un valore da monitorare visto l’impatto della crisi da Covid-19.
L’ammontare
di questo debito è notevole, ed è dovuto prevalentemente all’accumulo di
deficit importanti negli ultimi decenni, in particolar modo durante la
presidenza Obama.
Nel
periodo del suo mandato, gli Usa hanno vissuto “da protagonisti” la Grande
recessione, la crisi che ha stravolto il sistema finanziario americano.
Per
questa ragione, Barack Obama ha deciso, a inizio mandato, di contenere gli
effetti della crisi mediante un massiccio programma di “quantitative easing”,
il quale ha portato ad un incremento assoluto del debito pubblico americano pari
a circa 9300 miliardi di dollari.
Ad
oggi, tale debito è posseduto prevalentemente dal Giappone:
Tokyo infatti, ad Agosto 2019, deteneva oltre
1120 miliardi di dollari del debito americano, contro i 1100 miliardi detenuti
dalla Cina.
Circa 7000 miliardi di dollari dell’intero
debito sono in mani straniere, circa un quarto del totale; di questi, “solo” 45
miliardi di dollari sono in mani italiane.
E se
l’America dichiarasse default?
Da un
eventuale default dell’economia americana ne conseguirebbe una reazione a
catena devastante per molti paesi del mondo.
Gli
Stati Uniti,” too big too fail,” in questi giorni hanno vissuto un’esperienza –
il rischio di una crisi del debito – non del tutto nuova alla Casa Bianca.
Già
nel 2011, il Congresso è intervenuto negli ultimi giorni disponibili per
trovare un accordo.
Tuttavia, anche in quell’occasione, ogni
rischio derivante da una potenziale crisi è venuto meno.
E anche in questa occasione, per il momento
sono più lontani i timori di una potenziale crisi del debito.
Ad
ogni modo, se questa nel futuro prossimo dovesse palesarsi, la Fed avrebbe a
disposizione numerosi strumenti per intervenire a tutela dell’economia
americana nella sua totalità.
In
primis, come suggeriva Bill English, ex membro del Fomc – “Federal Open Market
Committee”, “braccio operativo” della Fed – in una conferenza del 2011, questa
potrebbe negoziare i titoli del tesoro a prezzo di mercato, per utilizzarli poi
tramite varie operazioni – come il prestito di titoli – per mantenere il
rendimento contenuto.
Tale
approccio, tuttavia, funziona fintanto che l’insolvenza si limiti a riflettere
un’impasse politica e non un’eventuale incapacità di fondo degli Stati Uniti di
adempiere ai propri obblighi.
Così
facendo, tutti i pagamenti sui titoli in default sarebbero presumibilmente
effettuati dopo un breve ritardo, e i titoli rimarrebbero a rischio
estremamente basso.
Oppure,
potrebbe fornire garanzie collaterali per incrementare l’appetibilità dei
titoli sul mercato, magari riacquistando anche solo una parte dei titoli per
alleviare il rialzo dei tassi – che ne deriverebbe a causa delle disfunzioni
del mercato.
Il ruolo di garante infatti, non verrebbe
esercitato dallo Stato, in quanto assente a causa del default.
Per
ora i rischi di un potenziale default sono lontani, ma la Fed guarda attenta al
3 dicembre, data in cui dovranno necessariamente essere aggiornati gli accordi
del Congresso, pena conseguenze devastanti per l’economia statunitense e non
solo.
L’Africa
finanzia il mondo.
Osservatoriodiritti.it
– (11-2-2020) - Marco Cochi – ci dice:
Secondo
il report "Honest accounts" il saldo tra entrate e uscite è negativo
per 41 miliardi $.
«L’Africa
finanzia il resto del mondo per l’ammontare di 41,3 miliardi di dollari
l’anno».
È quanto emerge dal nuovo rapporto “Honest
Accounts 2017.
Come
il mondo beneficia della ricchezza dell’Africa”, frutto dell’impegno congiunto
dell’organizzazione britannica di cittadinanza attiva “Global Justice Now”, del
movimento internazionale per l’annullamento del debito dei paesi più poveri “Jubilee
Debt Campaign “e di un gruppo di Ong europee e africane.
Il
sorprendente dato è originato dall’esame dei flussi economici e finanziari di
47 paesi africani.
Il
risultato è che nel 2015 il continente ha ricevuto 161,6 miliardi dollari sotto
forma di prestiti internazionali, aiuti allo sviluppo e rimesse dei migranti,
mentre l’ammontare complessivo delle uscite è stato pari a 202,9 miliardi di
dollari.
Nello
specifico, i paesi africani hanno ricevuto circa 19 miliardi di dollari in
sovvenzioni e aiuti allo sviluppo, ma più del triplo di questi fondi, 68
miliardi, è uscito dal continente in attività finanziarie illecite.
Di questa enorme fetta di torta, corrispondente a
oltre il 6% del Pil dell’intera Africa, una buona parte, 48,2 miliardi di
dollari, è legata al cosiddetto fenomeno del “trade misinvoicing”, ossia alle false fatturazioni
commerciali delle multinazionali.
A
questa cifra, inoltre, vanno aggiunti 32,4 miliardi di dollari di profitti
delle multinazionali che, semplicemente, vengono riportati nei paesi dove le
società hanno la loro sede.
Nulla
di illegale, in questo caso, ma comunque un altro grosso pezzo di ricchezza
creata in Africa e goduta altrove.
E poi
ci sono il rimborso del debito da parte di governi e settore privato (quasi 30
miliardi in tutto), gli utili inviati nei paradisi fiscali dopo aver sfruttato
le risorse africane, la pesca e la caccia di frodo, il disboscamento illegale.
Senza
contare l’effetto di impoverimento prodotto dal cosiddetto “brain drain”, ossia
la perdita di giovani talenti africani, che migrano a causa dei dissesti
naturali e dei conflitti.
Il
vero ruolo degli aiuti esteri.
Gli
autori del rapporto sono molto critici sul ruolo esercitato dagli aiuti esteri
erogati dai governi occidentali nel continente, sostenendo che spesso si tratta
semplicemente di finanziamenti per promuovere la privatizzazione dei servizi
pubblici, il libero scambio e gli investimenti privati.
«Se lo
scopo degli aiuti è quello di supportare lo sviluppo dell’Africa, dovrebbe
allora essere slegato da interessi corporativi occidentali», afferma lo studio.
Viene
poi evidenziato che l’Africa ha un grande potenziale minerario ed energetico,
manodopera qualificata, nuove imprese in forte espansione, un vasto mercato
interno e una straordinaria biodiversità.
La sua
popolazione dovrebbe dunque prosperare, mentre l’economia del continente
dovrebbe crescere con tassi annuali a doppia cifra, pari ad almeno il doppio
del 5% attuale.
Al
contrario, molte persone che vivono nei 47 paesi presi in esame restano
intrappolate nella povertà, mentre gran parte della ricchezza del continente
defluisce sistematicamente verso i paesi più sviluppati, in gran parte ex
colonizzatori.
La
relazione rileva inoltre le responsabilità che i governi occidentali e le
istituzioni finanziarie internazionali hanno nel depauperamento del continente,
per avervi
introdotto politiche economiche che alimentano la povertà.
Per
esempio, lo studio descrive come le compagnie estrattive che esportano
minerali, gas e petrolio, ottengono ingenti profitti pagando esigue tasse
grazie a rilevanti incentivi fiscali.
Misure
tributarie mirate, messe in atto dai governi occidentali per favorire generose
riduzioni delle imposte alle multinazionali.
L’impatto
del cambiamento climatico.
Sono
prese in esame con estrema attenzione anche le perdite associate agli effetti
avversi del cambiamento climatico, nonostante l’Africa abbia contribuito in
misura irrisoria allo storico accumulo dei gas a effetto serra, rispetto ai
paesi sviluppati.
Il
costo di adattamento per prevenire l’impatto del cambiamento climatico nel
continente è stimato in 10,6 miliardi all’anno, mentre per la mitigazione dei
fenomeni ad esso correlati sarebbero necessari circa altri 26 miliardi, nei
quali è compresa l’adozione di sistemi di conversione dell’energia da fonti
rinnovabili.
Un processo di trasformazione molto più
oneroso rispetto all’Europa o all’America, perché in Africa mancano le
infrastrutture e la tecnologia necessarie.
Arrivando
alle conclusioni, la ricerca dimostra che quello di cui i paesi africani hanno
veramente bisogno è che il resto del mondo fermi i saccheggi retaggio
dell’epoca coloniale, la cui natura di base rimane invariata.
Per
questo, gli aiuti internazionali andrebbero riconsiderati come una sorta di
risarcimento per i danni causati al continente.
I
ricercatori di “Honest Accounts” non formulano però solo critiche, ma
propongono anche alcune soluzioni concrete.
Tra
queste, un maggiore coinvolgimento della società civile del continente e di
quella dei paesi che beneficiano della sua ricchezza per contrastare la
corruzione, eliminare le politiche fiscali svantaggiose e i troppi squilibri
che impediscono lo sviluppo dell’Africa.
La
mappa del rischio del debito
sovrano
emergente stilata
da
PGIM Fixed Income.
Financialounge.com
- Leo Campagna – Giancarlo Perasso - (1° Dicembre 2022) – ci dicono:
Giancarlo
Perasso (PGIM Fixed Income) spiega perché l’attenzione è concentrata su 15
Paesi inclusi nell'indice di riferimento del debito sovrano (l'EMBIGD di J.P. Morgan
tra i quali Ghana, Kenya, Mongolia e Nigeria).
Debito
sovrano economia Giancarlo Perasso PGIM Fixed Income.
Come
se non bastassero gli effetti provocati dalla pandemia, a mettere a dura prova
le finanze pubbliche di molti Paesi emergenti si sono aggiunti la guerra in
Ucraina, con l'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, dei fertilizzanti e
dell'energia, l'inasprimento globale delle condizioni monetarie e la forza
dollaro USA.
SOSPENSIONE
DEL SERVIZIO DEL DEBITO (DSSI).
“Prevediamo
un aumento delle ristrutturazioni del debito sovrano dei mercati emergenti e ci
aspettiamo che questi processi si svolgano in gran parte nell'ambito del “Common
Framework”, lanciato dal G20 nel novembre 2020” fa sapere Giancarlo Perasso,
Lead Economist, CEEMEA, PGIM Fixed Income.
Il
Common Framework è il passo successivo all’iniziativa per la sospensione del
servizio del debito (DSSI).
Quest’ultima,
lanciata dal G20 nell’aprile 2020 quale risposta alla crisi pandemica, prevede
la moratoria temporanea sul pagamento del debito dei Paesi più poveri e
maggiormente indebitati al fine di liberare risorse per la spesa sociale e
sanitaria.
GLI
OBIETTIVI DEL “COMMON FRAMEWORK”.
Gli
obiettivi del “Common Framework” non si limitano alla riduzione del debito ma
tendono a includere la Cina e altri membri, insieme ai creditori del Club di
Parigi, cioè le organizzazioni finanziarie dei 22 paesi più ricchi del mondo
che rinegoziano il debito pubblico bilaterale dei Paesi del Sud del mondo.
Per
farlo il “Common Framework” divide i creditori in due gruppi: i creditori ufficiali bilaterali e
i creditori privati.
CLUB
DI PARIGI E CINA, INDIA E ARABIA SAUDITA.
I
prestiti dei creditori multilaterali non possono essere modificati dal momento
che mantengono il proprio status di "super-seniority".
I
creditori ufficiali comprendono i membri del Club di Parigi e, inoltre, Cina,
India e Arabia Saudita.
I Paesi eleggibili per l'Iniziativa di “Sospensione
del Servizio del Debito” (DSSI) possono chiedere l'attuazione del “Common
Framework” nel caso in cui il loro debito estero sia ritenuto insostenibile da “FMI”
e “Banca Mondiale”, che sono responsabili delle analisi tecniche.
FOCUS
SU 15 PAESI
“Mentre
al momento sono tre i Paesi che hanno richiesto l'utilizzo del “Common
Framework” per la riduzione del debito (Ciad, Etiopia e Zambia), la nostra
attenzione è concentrata sui 15 Paesi nell'indice di riferimento del debito
sovrano (l'EMBIGD di J.P. Morgan) che possono partecipare al Common Framework”
riferisce Perasso.
Questi
Paesi, nessuno dei quali può essere considerato come avente accesso al mercato,
devono far fronte a riscatti complessivi di Eurobond per un valore di poco più
di 14 miliardi di dollari da qui alla fine del 2025.
UN
SEMPLICE SCHEMA A COLORI
Per
identificare i Paesi più a rischio, e quindi i più probabili candidati a richiedere
l'applicazione del “Common Framework”, abbiamo costruito un semplice schema a
colori (Figura 2) nel quale più scura è la cella, peggiore è la situazione del
Paese, mentre il verde rappresenta la rilevazione più positiva.
GHANA,
KENYA, MONGOLIA E NIGERIA.
Per
esempio mentre Ghana, Kenya e Mongolia necessitano di ulteriori analisi per
valutare la sostenibilità del debito, la Nigeria evidenzia l'onere del debito
più basso a fronte però della crescita prevista peggiore tra i Paesi esaminati.
Resta
il fatto che il “Common Framework” è ancora agli inizi e stanno emergendo le
difficoltà tipiche delle fasi iniziali.
UNA
SOLUZIONE COME QUELLA PREVISTA DAL “PIANO BRADY”.
È
probabile che gli operatori di mercato e i Paesi debitori siano disposti a
sottoscrivere una soluzione come quella per esempio prevista dal” Piano Brady”,
sebbene sembra difficile ipotizzarla nel breve periodo alla luce dell'attuale
mancanza di cooperazione internazionale.
“Un’altra
soluzione possibile potrebbe essere un “Common Framework “rafforzato in cui la
valutazione della sostenibilità del debito (Debt Sustainability Assessment,
DSA) sia effettuata congiuntamente da “FMI” e “Banca Mondiale”, creditori
ufficiali e creditori privati” conclude il Lead Economist, CEEMEA, PGIM Fixed
Income.
La
Russia è davvero a rischio default?
Altreconomia.it
- Alessandro Volpi — (27 Maggio 2022) – ci dice:
Da più
parti si alimenta l’idea che Mosca sia sull’orlo del fallimento, incapace di
pagare una tranche del proprio debito in dollari.
Non
sembra essere così.
Il punto della situazione ed elementi utili
per comprendere il ruolo degli speculatori puri in questa “roulette
finanziaria”.
I
giornali italiani annunciano con grande rilievo un possibile default, un
fallimento, della Russia determinato dalla sua impossibilità di pagare una
tranche del proprio debito in dollari.
Il governo degli Stati Uniti, tramite il
Dipartimento al Tesoro, non consentirebbe infatti più alle banche americane di
pagare per conto della Russia le obbligazioni in scadenza.
In
realtà è forse utile chiarire meglio che cosa significherebbe un “default
russo”.
In
questo momento la Russia ha un debito pubblico molto basso, meno di 300
miliardi di dollari rispetto ad un Prodotto interno lordo di quasi 1.700
miliardi di dollari.
Si
tratta, peraltro, di un debito collocato all’estero solo in minima parte, per
circa una ventina di miliardi di dollari l’anno.
Dunque, grazie al prezzo stellare dell’energia
siamo di fronte ad una quantità di titoli assai contenuta, il cui mancato
collocamento non comporterebbe grossi problemi per la Federazione russa, come
del resto dimostra la sostanziale tenuta del rublo e la riduzione, dopo un
iniziale incremento, dei tassi d’interesse.
Semmai
il mancato pagamento metterebbe in difficoltà i creditori esteri che detengono
quelle somme e più in generale le banche estere che sono esposte su più piani
con la Russia, non tanto sul versante del debito ma su quello dei crediti
concessi a società pubbliche, e private russe, i cui rating si ridurrebbero
mettendo a repentaglio crediti “occidentali” per un centinaio di miliardi.
In estrema sintesi un eventuale default russo
oggi non avrebbe nulla a che vedere con quello del 1998 che colpiva un’economia
sgangheratissima e dipendente dai capitali esteri;
ad
essere danneggiati sarebbero piuttosto i creditori internazionali più esposti
in Russia, tra cui appunto alcune banche italiane.
Si ha
quindi l’impressione che esista una narrazione destinata ad alimentare l’idea
di una Russia sull’orlo del baratro e finalizzata a giustificare l’ulteriore
invio di armi, quasi si trattasse dell’ultima spinta finale.
Purtroppo non sembra essere così.
C’è
però un aspetto meno noto che merita di essere messo in evidenza relativo a
questo continuo richiamo ad un possibile fallimento russo.
In queste settimane si sono impennati i prezzi
dei cosiddetti “credit default swap” sul debito russo;
in
altre parole, si sono impennati i prezzi delle “assicurazioni” contro il
rischio di un fallimento russo, cresciuti di oltre l’80%.
A
questo riguardo occorre far notare che, normalmente, tali assicurazioni
dovrebbero essere comprate da chi ha titoli del debito russo per assicurarsi
contro il pericolo del suo fallimento.
In verità la quasi totalità di queste
assicurazioni sono comprate da soggetti che non hanno titoli del debito russo
ma vogliono lucrare sulle assicurazioni in quanto tali.
In
sintesi, comprano l’assicurazione a 10, immaginano che le notizie sul probabile
fallimento del debito facciano salire il prezzo di quell’assicurazione e, in
effetti, vendono a 20 a qualcuno che scommette che il prezzo salirà ancora.
Intanto la stampa e i media gridano che la
Russia sta per fallire e il gioco è fatto.
Del
resto, quanto sta accadendo in relazione al debito russo è avvenuto e avviene
per i titoli del debito pubblico di molti Paesi, soprattutto nel caso in cui
siano particolarmente deboli;
in
quei casi si scommette sul “fallimento” vero e proprio perché chi ha comprato
l’assicurazione -naturalmente senza il titolo di debito- punta a farsi pagare
la polizza e le dinamiche dei prezzi si basano proprio sul rapporto tra prezzo
dell’assicurazione e valore della “polizza”.
Per le
migliaia di speculatori puri non conta neppure la polizza perché l’idea è di
vendere all’ultimissimo giro.
Siamo
nel regno della roulette finanziaria, che questa volta è “russa” ma che
purtroppo ormai è la chiave del turbocapitalismo;
almeno fino a quando non si deciderà di
vendere le “assicurazioni” solo a chi ha il titolo assicurato; in fondo non
sarebbe così difficile.
(Alessandro
Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze
politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di
trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.)
Come
rendere utile l’orribile Mes.
Il
“Fondo salva-Stati” resta
un
“prodotto senza acquirenti”.
Micromega.net
- Carlo Clericetti – (21 Febbraio 2022
Nessuno vuole mettersi alla mercé di un
istituto di diritto privato e con sede in un paradiso fiscale che per “tutelare
l’interesse dei creditori” può imporre misure rovinose.
Ma con un’”Agenzia del debito”, la politica
europea potrebbe essere decisamente migliore.
Un’azienda
che si accorgesse che un suo prodotto non lo vuole nessuno, nonostante vari
tentativi di promozione, deciderebbe di eliminarlo.
Non
così i politici e tecnocrati europei, che ben si possono paragonare a un
management aziendale, vista la loro fede nelle virtù taumaturgiche del mercato.
Il
“prodotto” è il Mes, il cosiddetto “Fondo salva-Stati”, che ogni tanto viene
periodicamente riproposto nel tentativo di giustificare la sua esistenza e
anche di trovare un impiego per il suo capitale di 80 miliardi versati dagli
Stati che giacciono inutilizzati.
L’organismo
è stato istituito in seguito alla crisi del 2008, e in questi anni ha cambiato
nomi (ESF, ESFS) e regolamenti.
L’ultima
riforma, che lo rende se possibile ancora peggiore, è stata approvata
dall’Eurogruppo nel novembre 2020 (e poi anche dal Parlamento italiano, in
dicembre), ma manca ancora la ratifica definitiva del nostro governo:
se i
problemi solo burocratici di cui ha parlato il ministro Daniele Franco fossero
invece un espediente per prendere altro tempo, sarebbe un ottimo segnale.
Il Mes
deriva da un trattato intergovernativo, è un istituto di diritto privato
lussemburghese ed è guidato da un “Consiglio dei governatori” di cui fanno
parte i ministri delle Finanze dei Paesi membri.
Il suo
direttore generale, il tedesco Klaus Regling, ha ampi poteri.
Il suo statuto prevede che debba fare gli
interessi dei creditori, che abbia l’ultima parola sulla solvibilità di chi vi
ricorre e che in base a questo giudizio possa imporre condizionalità che
possono arrivare fino alla ristrutturazione del debito.
Chi ne fa parte è esente da ogni
responsabilità civile e penale.
Quando
Draghi pronunciò il famoso “whatever it takes” e predispose il programma di
sostegno ai Paesi che fossero attaccati dalla speculazione, fu stabilito che la
condizione per accedere a quegli aiuti fosse la stipula di un accordo con il
Mes, in base al quale il Paese in questione deve procedere a un piano di
risanamento.
Detto
in chiaro, questo significa l’intervento della famigerata Troika (Fmi, Bce,
Commissione), gli “uomini in nero” che in pratica prendono possesso del Paese,
fanno approvare leggi scritte sotto dettatura, impongono drastici tagli (al
welfare, ai salari, alle pensioni, ai dipendenti pubblici), privatizzazioni,
svendite di beni pubblici, in ossequio al “Maastricht consensus”.
Il loro intervento in Grecia, raccontato dall’allora
ministro delle Finanze Yanis Varoufakis nel suo libro “Adulti nella stanza”, è
stato un perfetto esempio di come si depreda un Paese lasciandolo in macerie.
Si
dice che il ricorso al Mes comporti uno stigma per il Paese interessato, perché
sarebbe la dimostrazione di un suo sostanziale fallimento e quindi della sua
inaffidabilità come debitore.
Ma
dopo l’intervento in Grecia è stata la Troika a guadagnarsi uno stigma, cioè un
marchio d’infamia, e quindi anche il Mes che è lo strumento che può imporla.
Così,
quando allo scoppio della pandemia il Mes ha offerto un credito a basso costo a
tutti i Paesi che lo volessero, proclamando che le sole condizionalità
richieste erano che quei soldi fossero usati per affrontare l’emergenza,
nemmeno uno dei Paesi europei vi ha fatto ricorso.
Non è
servito a nulla nemmeno il “marketing istituzionale”, cioè la lettera con cui
il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e il commissario
all’Economia Paolo Gentiloni assicuravano che non ci sarebbero state altre
condizioni.
Nessuno l’ha presa sul serio, perché le condizionalità
del Mes sono previste dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE), e non basta una letterina per annullarle, sarebbe necessaria una
modifica del Trattato.
Così,
nonostante ogni tanto qualcuno lo riproponga per questo o quell’impiego, il Mes
resta un “prodotto senza acquirenti”.
Nessuno
vuole mettersi alla mercé di un istituto – che, come detto, è di diritto
privato e con sede in un paradiso fiscale – che per “tutelare l’interesse dei
creditori” può imporre misure rovinose.
La più
recente apparizione semi-ufficiale del Mes è nella proposta italo-francese
collegata all’intervento sul “Financial Times” di Draghi e Macron.
In
essa si propone la costituzione di un’”Agenzia del debito” che – si dice in una
nota – potrebbe essere il Mes o un altro organismo di nuova costituzione.
A che
serve un’Agenzia del debito?
Stanno
montando le pressioni perché la Bce non solo smetta di acquistare titoli
pubblici (il PEPP, il programma varato in occasione della pandemia, terminerà
con marzo; c’è ancora l’altro programma, l’APP, ma in riduzione ed è molto
probabile che anche quello volga al termine), ma cominci a programmare lo
smaltimento di quelli acquistati finora, per esempio smettendo gradualmente di
rinnovarli.
Non
solo da un paio d’anni la Bce sta assorbendo importi pari a tutte le nuove
emissioni, ma quelli che ha sono tanti, circa un quarto dell’intero debito
pubblico europeo.
Già la
prospettiva della fine degli acquisti sta facendo salire i tassi.
Un
segnale di non rinnovo, seppure attuato in maniera molto graduale, provocherebbe
certamente un deciso aumento.
Con la conseguente impennata del costo dei
debiti che in questi anni sono molto aumentati ovunque.
E
dunque si sta cercando un sistema per evitare tutto questo.
Il
sistema potrebbe essere appunto la creazione di un’”Agenzia del debito”, che
rilevi quei titoli dal bilancio della Banca centrale e li rinnovi emettendo
propri titoli, che – essendo l’”Agenzia garantita dalle istituzioni europee” –
potrebbero essere collocati a un tasso molto favorevole.
La proposta italo-francese ipotizza che rilevi
il debito fatto per la pandemia, e, eventualmente, anche quello conseguente
alla crisi del 2008.
La
proposta risolverebbe il problema dei titoli nel bilancio Bce e probabilmente
riuscirebbe ad evitare un rialzo generalizzato dei tassi, ma non manca di punti
critici.
Il
primo è senza dubbio l’idea di affidare il compito al Mes, o almeno al Mes così
com’è oggi.
D’altronde,
si può dubitare che su questo si troverebbe l’accordo, visti i precedenti.
Il
secondo è che limitarsi al debito della pandemia non sarebbe risolutivo per i
Paesi più indebitati.
Per
l’Italia si tratterebbe di 19,2 punti: certo, un rapporto debito/pil al 130% è
meglio di uno al 150, ma il problema del rientro resta pesante.
Il terzo: non risolverebbe il problema dell’aumento
dei tassi sui debiti emessi dagli Stati che il mercato considera più rischiosi.
Certo,
sarebbe un passo di grande rilievo dal punto di vista dei princìpi.
Si
tratterebbe di fatto dell’abbattimento di altri due tabù: quello della messa in
comune dei debiti (in piccola parte, ma, appunto, conta il principio); e quello
di una loro parziale sterilizzazione (idem).
E sono
proprio questi due punti che rendono assai problematica l’accettazione del
piano da parte dei tedeschi e dei loro alleati, che sono sempre dichiarati
ferocemente contrari a soluzioni del genere.
Tanto
varrebbe, allora, combattere per un’altra soluzione, per certi aspetti simile,
ma assai più efficace.
Anche
questa propone un’Agenzia del debito (EDA): le sue caratteristiche essenziali
sono state illustrate in un breve saggio di Massimo Amato (Bocconi) e Francesco
Saraceno (Sciences Po e Luiss) e ancora più in sintesi su “lavoce.info” a
firma, oltre che dei due, di Carlo Favero (Bocconi).
Questa
Agenzia assorbirebbe non solo i titoli posseduti da Bce, ma diventerebbe un
unico intermediario tra gli Stati e il mercato.
Facciamo un esempio.
Lo
Stato X ha titoli in scadenza per – diciamo – 200 miliardi, più un deficit da
finanziare di altri 30.
L’Agenzia
emette titoli, da collocare sul mercato, per un importo nominale di 230
miliardi, che gira allo Stato X in cambio dei suoi titoli, che diventano senza
scadenza.
Lo Stato in questione pagherà gli interessi
all’Agenzia, e qualora voglia ha facoltà di rimborsare la parte che vuole del
suo debito.
L’Agenzia,
come nella proposta precedente, riuscirà a collocare i suoi titoli a un tasso
tra i più favorevoli, mentre il tasso che ogni Stato dovrà pagare all’agenzia
dipenderà dalla sua situazione.
Sarà
la Commissione europea a determinarlo, non in modo discrezionale ma in base a
parametri oggettivi: per esempio, il rispetto delle regole europee (quelle di
cui si sta discutendo la modifica) in materia di finanza pubblica e di riforme.
I
“disciplinati” pagherebbero meno, chi sgarra di più.
Quest’ultimo
aspetto è considerato dagli autori decisivo per poter affermare che non si sta
proponendo una mutualizzazione dei debiti (come avverrebbe, anche se per una
parte limitata, nella proposta italo-francese):
«Quando
in pizzeria tu prendi una margherita e io una pizza al tartufo, se “facciamo
alla romana” e dividiamo in due il conto, stiamo mutualizzando.
Se
ognuno si paga la sua pizza, no».
Lo stesso principio vale per eventuali casi di
default (se un Paese non è in grado di pagare una o più rate in scadenza), che
verrebbe fronteggiato con il capitale dell’EDA alla cui accumulazione gli Stati
hanno contribuito in misura diversa in rapporto alla loro “rischiosità”;
nel
caso del Mes, invece, in questa eventualità tutti gli Stati sarebbero chiamati
a versare una quota in base alla loro popolazione e pil, anche se sono
considerati “sicuri” dai mercati.
La
durata media del debito europeo è di 7-8 anni, e dunque in quest’arco di tempo
tutti i debiti degli Stati sarebbero assorbiti dall’EDA, i cui titoli
costituirebbero quel safe asset (impiego sicuro) che non solo è ricercato dagli
operatori, ma serve anche alla banca centrale per la gestione della politica
monetaria.
Gli
Stati sarebbero protetti dalle oscillazioni dei mercati che molto spesso non
sono generate da analisi dell’economia reale, ma dall’opportunità di realizzare
guadagni speculativi.
Ma
senza avere nessun regalo, dato che, come detto, chi ha i conti meno in ordine
paga un tasso di interesse più alto.
Questo
scoraggerebbe anche il “moral hazard”, cioè un maggiore lassismo nella politica
economica perché ci si sente più protetti.
Torniamo
al problema iniziale.
Come
può essere utile il Mes?
È
molto semplice: gettando alle ortiche il suo orribile statuto e le sue temibili
condizionalità e trasformandosi nell’EDA, con gli 80 miliardi di capitale che
sarebbero sufficienti a far partire il nuovo istituto.
Questo ovviamente non esaurirebbe la questione della
riforma delle regole europee, ma darebbe una base più solida a qualsiasi schema
si decida poi di concordare.
L’EDA
si integrerebbe bene nella proposta italo-francese, e non si vede perché la
Spagna dovrebbe essere contraria.
Lo scoglio è la Germania.
Se ci fosse l’accordo dei tedeschi,
diventerebbe difficile opporsi alle prime quattro economie europee.
L’ostacolo
è essenzialmente ideologico: potrebbero accettare, i tedeschi, una soluzione
che toglie ai mercati quel potere arbitrario di provocare – per guadagno – la
rovina di un’economia?
Bisognerebbe
ammettere che i mercati non hanno sempre ragione, e che i loro comportamenti
sono determinati dal quadro istituzionale in cui operano.
Se non ci fosse stato il “whatever it take”s,
probabilmente l’euro non esisterebbe più.
Se il governo americano non avesse deciso di
far fallire la Lehman Brothers, la crisi del 2008 sarebbe stata assai diversa e
meno grave.
Se ci fosse l’Agenzia del debito, la politica
europea potrebbe essere migliore.
Lo capiranno?
Commenti
Posta un commento