CI ATTENDE L’APOCALISSE DEL GLOBALISMO UNIPOLARE.

 

CI ATTENDE L’APOCALISSE DEL GLOBALISMO UNIPOLARE.

 

 

UNIPOLARISMO VS MULTIPOLARISMO:

APOCALISSE IN ARRIVO?

Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – (01 Febbraio 2023) - Alessandro Fanetti – ci dice:

 

Pochi giorni fa mi è capitato di rivedere il cartone animato “Asterix e il Regno degli Dei”, basato sugli immortali scritti e disegni di René Goscinny e Albert Uderzo.

Le similitudini con ciò che abbiamo vissuto (e stiamo vivendo) dalla nascita del “momento unipolare” in avanti sono perfette e, nella loro semplicità, danno tutta una serie di spunti di riflessione per chiunque ne sia interessato.

Talvolta, in mezzo ad analisi, documentari, interviste e quant’altro di questo genere, un qualcosa di più leggero ma altrettanto significativo può essere utile per ampliare la platea di persone che cercano di comprendere il nostro “tempo geopolitico”.

 Dunque, è possibile affermare che la caduta del Muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell’URSS hanno portato alla nascita del periodo unipolare.

Anni nei quali il trionfo del liberalismo sembrava aver condotto alla “fine della storia”.

O almeno questo è quello che in e l’occidente hanno cercato di far credere.

Un mondo dove i valori di stampo liberale avevano preso il sopravvento.

Erano diventati “universali” e indiscutibili.

Anni nei quali l’esportazione della democrazia e gli interventi umanitari “a favore” delle popolazioni che li subivano venivano considerati salvifici.

Ben al di fuori del Diritto Internazionale o comunque con interpretazioni ultra-estensive e di comodo delle decisioni prese dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (vedi caso Libia).

Considerati salvifici sì, ma ahimè solamente dai mittenti e non dai destinatari.

Dall’Iraq alla Jugoslavia, solo per citarne alcuni, si è così ricreato un movimento popolare e di governi ostili a ciò che l’asse euroatlantico propugnava verbalmente e spesso metteva in pratica concretamente.

Un movimento non uniforme e pienamente compatto ma che ha nell’ “idea multipolare” e nell’”ostilità all’unipolarismo” guidato dagli USA il suo collante.

Dall’America Latina all’Asia, dall’Africa all’Oceania, movimenti popolari e cambiamenti politici stanno sconvolgendo lo status quo, creando cambiamenti significativi ai quattro angoli del globo.

Solo per citarne alcuni:

Rinvigorimento dei BRICS, con Paesi che fanno la fila per aderirvi.

Disallineamento dell’Arabia Saudita dalla “fu” granitica alleanza con Washington.

Stravolgimento della posizione francese in Africa, con l’espulsione dei contingenti militari di Parigi dal Mali e dal Burkina Faso (il Niger sarà il prossimo?).

Rinvigorimento dell’”ALBA – TCP” in America Latina & Caraibi, insieme al costante sviluppo della “CELAC”.

Costituzione di assi “inediti” (ma non troppo) e sorti proprio in ottica multipolare, come il rafforzamento negli ultimi anni delle relazioni iraniane in

America Latina (in particolar modo con il Venezuela).

Riposizionamento politico delle Isole Salomone in Oceania attraverso la stipula di un accordo con la Cina (in chiara funzione antioccidentale).

A guidare questo tentativo di cambiamento epocale e a fare da “faro multipolare” ci sono la Russia e la Cina, le quali pochi anni fa hanno sottoscritto una “partnership senza limiti” e anche oggi proseguono la loro profonda collaborazione nonostante le pressioni occidentali e il conflitto in Ucraina.

Proprio quest’ultimo è da considerarsi come la chiave di volta di questi cambiamenti, il pulsante che una volta premuto ha scatenato un’accelerazione decisiva al tentativo di modifica del panorama geopolitico globale e allo scontro unipolarismo vs multipolarismo (fino a questo momento sviluppatisi invece in modo più lento e meno diretto).

Scontro fra difensori dell’unipolarismo vs promotori del multipolarismo che si sta vedendo in vari contesti, fra i quali:

Continui interventi di Israele in Siria e Iran per limitare l’influenza di Teheran nella regione ed impedirgli di sviluppare un programma nucleare.

 Interventi sempre più massicci e decisi (come quello con droni del 28 gennaio 2023).

Alto rischio di espansione del conflitto, almeno a livello regionale.

Continue tensioni fra Taiwan e Repubblica Popolare Cinese, con l’isola ribelle fortemente sostenuta dagli USA.

Rischio altissimo di conflitto in quella zona, con probabile intervento esterno al momento dell’utilizzo delle armi.

Per dirla con il pensiero del Generale “Michael Minivan” della US Air Force (rese pubbliche il 28 gennaio), riportate fra gli altri da “MercoPress”:

“Il generale dell’aeronautica statunitense Michael Minivan ha scritto in un promemoria interno reso pubblico che prevedeva uno scontro armato con la Cina entro il 2025.

Il capo dell’”Air Mobility Command” ha predetto che la Cina avrebbe invaso Taiwan nel 2025 usando le elezioni presidenziali del 2024 a Taiwan e negli Stati Uniti rispettivamente come scusa e distrazione.

 “Il mio istinto mi dice che combatteremo nel 2025”, ha scritto il generale.

Il presidente cinese Xi Jinping “ha garantito il suo terzo mandato e ha fissato il suo consiglio di guerra nell’ottobre 2022.

Taiwan terrà le elezioni presidenziali nel 2024, il che darà una ragione a Xi.

Gli Stati Uniti terranno le elezioni presidenziali nel 2024, che daranno a Xi un’America distratta.

 La squadra, le ragioni e le opportunità di Xi saranno in armonia entro il 2025”, ha dichiarato Minivan.

 Il generale a quattro stelle ha anche detto ai suoi subordinati di allenarsi in modo più aggressivo e di occuparsi dei loro problemi legali personali. […] Nel frattempo, una portavoce dell’AMC ha confermato l’autenticità del promemoria di Minivan: “Il suo ordine si basa sugli sforzi fondamentali dell’”Air Mobility Command” dello scorso anno per preparare le forze di mobilità aerea per un futuro conflitto se la deterrenza fallisce.”

Ma è appunto il conflitto in Ucraina che ha scoperto le carte, che ha obbligato il mondo a schierarsi da una parte o dall’altra (chi in maniera più decisa e chi meno, ma comunque certamente in modo più lampante rispetto al pre – 24 febbraio 2022).

A tal proposito, il voto di marzo 2022 all’ “Assemblea Generale delle Nazioni Unite” sull’intervento russo in Ucraina è stato molto significativo:

141 Paesi che hanno condannato la Russia.

5 contrari.

35 astenuti (fra i quali l’India e la Cina, che in 2 fanno circa il 40% della popolazione globale).

L’importanza che ha e i rischi che il conflitto in Ucraina comporta sono dunque sotto gli occhi di tutti: esso non è, appunto, solamente uno scontro fra due Paesi ma riguarda anche modelli di sviluppo, visioni geopolitiche opposte e alleanze internazionali contrapposte.

Un conflitto che dunque non si limita a interessare le parti direttamente coinvolte ma abbraccia interessi e visioni del mondo che hanno l’intero globo come confine.

Per dirla con le parole di Aleksandr Dugin (molto vicine al pensiero dell’élite politica russa):

“[…] L’Occidente si aggrappa al sogno impossibile dell’egemonia. Il conflitto in Ucraina è la “prima guerra multipolare” del mondo, in cui la Russia sta combattendo per il diritto di ogni civiltà a scegliere il proprio cammino, mentre l’Occidente vuole mantenere il suo “globalismo egemonico totalitario” […].

 Il multipolarismo non è contro l’Occidente in quanto tale ma contro la pretesa di esso di essere il modello, di essere l’esempio unico della storia e della comprensione umana […].

Quando l’Unione Sovietica si era autodistrutta nel dicembre 1991, aveva lasciato alla “civiltà liberale occidentale globale” il controllo del mondo.

Questo egemone si sta ora rifiutando di accettare il futuro in cui sarebbe non uno dei due, ma uno dei pochi poli messo al suo giusto posto come solo una parte, non il tutto, dell’umanità […].

 

(Oggi) l’Occidente è “puro liberalismo totalitario” che pretende di avere la verità assoluta e cerca di imporla a tutti.

C’è un razzismo intrinseco nel liberalismo occidentale perché esso identifica l’esperienza storica, politica, culturale occidentale [come] universale […].

Nel multipolarismo non esiste nulla di universale e ogni civiltà può e deve sviluppare i propri valori.

In particolare, la Russia ha bisogno di superare secoli di dominio ideologico occidentale e di creare qualcosa di nuovo, fresco, creativo che tuttavia si opponga direttamente all’egemonia liberale occidentale, alla società aperta, all’individualismo, alla democrazia liberale[…].”

Uno scontro che, dunque, garantirà un “pre” e un “post” conflitto in Ucraina.

Il mondo non è e non sarà più lo stesso, in quanto si stanno scontrando visioni del mondo contrapposte con attori che non hanno la possibilità (anche volendolo) di tornare allo status pregresso senza stravolgimenti in un senso o nell’altro.

Una situazione esplosiva, dunque, che può finire realmente e a lungo termine solamente in due modi:

Un accordo che non contempli un semplice cessate il fuoco Russia – Ucraina ma che sia ampio e comprendente tutte le potenze globali.

La soluzione certamente più auspicabile. Semplificando, un nuovo Congresso di Vienna.

Ovviamente attualizzato ai giorni nostri.

Uno scontro diretto fra Potenze che rischierebbe di portare alla catastrofe nucleare.

Per dirla con le parole pronunciate nel 2015 (e oggi più che mai attuali) da un grande analista di nome Giulietto Chiesa:

“[…] Sono fortemente inquieto perché penso che siamo alla vigilia della guerra, di una grande guerra. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è l’inizio della terza guerra mondiale. […]. Possiamo fermare la guerra? Forse. Ma credo che ci siano delle ragioni molto pressanti perché questa guerra si sta facendo, si sta preparando sotto i nostri occhi e che la probabilità che si compia è molto più alta di quella che non si faccia. Ci troviamo in un grande pericolo. […] La crisi dell’Ucraina è l’inizio dell’offensiva degli Stati Uniti d’America e dell’Europa […].”

In conclusione, dunque, è realisticamente impossibile prevedere al 100% se una guerra diretta fra potenze nucleari scoppierà davvero.

Lo scontro fra chi difende l’ordine unipolare e chi promuove quello multipolare è fra giganti (in termini economici, culturali, militari, politici e sociali) e avventurarsi in certezze sarebbe sbagliato e fuorviante.

È possibile però affermare che le tante crisi drammatiche e pericolosissime che si sono e si stanno sviluppando in giro per il mondo (e che vedono la partecipazione delle potenze nucleari) non lasciano ben sperare in un futuro di sicurezza, pace e prosperità per tutti i popoli del pianeta.

Le continue escalation che stiamo vivendo, in primis quella in Ucraina, non lasciano spazio ad una Politica e a una Diplomazia in grado di provare a risolvere le differenti vedute in modo sostanzialmente pacifico.

E le crisi non militari ma dovute ad un sistema redistributivo e di ricchezza inadeguato sono anch’esse all’ordine del giorno ed esacerbano la situazione.

Il tutto condito da una sostanziale incomunicabilità fra i principali attori geopolitici in competizione.

“Che fare?”

direbbe dunque il “Padre della Rivoluzione d’Ottobre” anche a distanza di più i 100 anni dal suo scritto originale.

 

Urge un ripensamento completo dell’architettura geopolitica globale che ha retto le sorti del mondo nel post Guerra Fredda, venendo anche incontro alle richieste e alle aspettative dei nuovi attori che nel frattempo sono “usciti dal letargo”.

L’America Latina e i suoi popoli non sono più quelli della Dottrina Monroe, la Cina non è più quella dei “Trattati ineguali”, i popoli africani non sono più quelli della colonizzazione ottocentesca e l’Asia centrale non è più solamente quella del periodo sovietico.

Il mondo sta cambiando e l’élite politica deve comprenderlo, sedendosi quanto prima a un tavolo per discutere nuove e più condivise regole del gioco.

L’altra faccia della stessa medaglia è coperta dai popoli del mondo, i quali devono spingere per un cambiamento positivo delle relazioni internazionali e per la creazione di un sistema scevro da diseguaglianze scandalose come quelle odierne.

Per dirla con le parole di Papa Francesco:

“È necessario mobilitare tutte le conoscenze (e le coscienze) […] per superare la miseria, la povertà e le nuove schiavitù, nonché per evitare le guerre.”

(Alessandro Fanetti)

(Alessandro Fanetti, studioso di geopolitica e relazioni internazionali, autore del libro “Russia: alla ricerca della potenza perduta” - Edizioni Eiffel, 2021).

 

 

 

LA FINE DEL SISTEMA UNIPOLARE

E DEL GLOBALISMO.

 

Nuovogiornalenazionale.com – Silvano Danesi – (7 aprile 2022) – ci dice:

La guerra in Ucraina ha fatto saltare il banco del sistema unipolare e dell’annesso globalismo.

La Russia, con un atto di forza brutale, ha detto no all’idea che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la “storia fosse finita”, come sostiene Fukuyama e che si fosse aperta la strada per un mondo omogeneo ideologicamente, politicamente e socialmente.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Europa, teatro principale del conflitto, ha visto, di fatto, svanire il sistema degli stati sovrani, mantenuto formalmente, in quanto da Jalta è emerso un sistema bipolare, dove due grandi potenze, gli Usa e l’Urss, governavano il mondo e dirigevano gli Stati satelliti:

 gli uni accorpati nella Nato, gli altri del Patto di Varsavia.

Il resto del mondo, per intrinseca debolezza economica e politica, stava alle direttive del bipolarismo.

Con la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1991, è finita anche Jalta, il sistema bipolare è crollato e si è instaurato un sistema unipolare, con gli Stati Uniti al centro, unico gendarme del mondo.

Questo quadro ha fatto pensare agli ideatori del Nuovo Ordine Mondiale e del Grande Reset, ossia alle élite finanziarie, di poter costruire un mondo dove la Russia fosse una sorta di miniera regionale, geopoliticamente ininfluente e la Cina fosse la fabbrica del mondo, dotata di manodopera a bassissimo costo, quando non di schiavi per la bisogna (vedi Uiguri).

Sicuri della conquistata egemonia mondiale, gli Usa di Bill Clinton o, meglio, i registi finanziari, hanno portato, l’11 dicembre 2001, la Cina nel Wto, aprendo di fatto le porte ad un’evoluzione del Dragone che non si è democratizzato, ma si è potenziato fino al punto di diventare un competitore temibile, non solo economicamente.

Nel frattempo, con l’entrata in scena di Vladimir Putin, la Russia ha ripreso ad essere un soggetto geopolitico che non aveva nulla a che fare con le idee unipolari degli Usa e della finanza.

La presenza, sempre più solida, non solo economicamente, ma militarmente e, si deve aggiungere, ideologicamente, di Cina e Russia, ha costituito un freno alle mire espansive del globalismo finanziario e dei teorici del Nuovo Ordine Mondiale e del Grande Reset, fino a porre, in un crescendo di tensioni, la questione che è esplosa con la guerra in Ucraina.

Questione che è riassumibile, in sintesi, nel rifiuto dell’unipolarismo e nell’affermazione del multipolarismo.

 Affermazione che fa saltare il banco del globalismo finanziario, che deve riposizionarsi e che mette alle corde la logica dell’asse Bush-Clinton, la quale esprime, nella sua decadenza, un uomo come Joe Biden, ormai chiaramente inadatto al ruolo e vittima sacrificale nel caso di fallimento della attuale escalation anti russa.

In questo attuale scenario, la sovranità degli Stati affermata come frutto della pace di Westfalia (1648), langue, essendo gli Stati sovrani una pallida parvenza di quanto potrebbero essere, in un mondo asimmetrico, dove emergono potenze imperiali e dove l’Europa mostra tutta la sua inesistenza.

Tutte le chiacchiere della politica italiota, davvero ridicola quanto provinciale, sul sovranismo, non solo è stata sbertucciata dal sovranismo reale di Francia e Germania e della furbizia ipocrita dei paesi paradisi fiscali, come l’Olanda, ma è ridotta a nulla dall’emergere di ben altri sovranismi, quelli imperiali di Cina e di Russia, di fronte ai quali è palesemente fallita l’Europa della burocrazia delle misurazioni del cocomero e del cinismo finanziario.

L’Unione Europea, se fosse stata quella dei padri fondatori, ossia uno Stato federale e non una moneta e un’asfissiante burocrazia, oggi potrebbe svolgere un ruolo di potenza internazionale di equilibrio, sulla base dei principi che in Europa sono nati.

Così non è. Tra i morti lasciati sul campo da Putin c’è anche l’Unione Europea, quella della Merkel e di Maastricht e dei suoi camerieri.

Amen.

 

 

QUANDO UNA POLITICA A

FAVORE DEI CITTADINI ELETTORI.

Nuovogiornalenazionale.it - Antonio Foccillo – (7 aprile 2022) – ci dice:

 

Oggi tutto l’interesse viene spostato sulla guerra, dopo che per quasi tre anni è stato il covid, con la conseguenza che i cittadini vengono permeati alla paura.

 Ma tutto non nasce per caso.

Sono molti decenni, che è in atto nel mondo un processo di cambiamento, che ha modificato le regole del confronto politico e la geografia dello sviluppo e con le privatizzazioni, ha portato all’alienazione di buona parte di beni pubblici, impoverendo gli Stati e i cittadini.

 Tutti processi di uno strutturato percorso di accumulazione capitalistica, cominciati già nel 1968 con la rimessa in discussione del welfare state, continuati poi nel 1971, prima della crisi petrolifera, con la dichiarazione della non convertibilità del dollaro.

La leadership Usa e la diffusione delle idee neoliberiste si sono ulteriormente consolidate nel 1975, quando l’America insieme ai paesi occidentali, respingendo il progetto di un nuovo ordine economico internazionale, presentato dai paesi non allineati, ha definitamene conquistato l’assoluta supremazia nel periodo che va dal 1989 al 1991, grazie ai progetti gorbacioviano di perestroika e alla disgregazione dell’Europa dell’Est della URRSS.

 Parallelamente si registrava già nel ‘70 un rallentamento della crescita economica e dell’espansione dei mercati che, dal 1980 ad oggi è stato gestito adottando di volta in volta un insieme di misure sul cambio, sui tassi di interesse, sulle privatizzazioni, sulla deregulation.

 Questa gestione della congiuntura ha prodotto, all’interno dell’occidente, una crisi finanziaria mondiale i cui effetti sociali hanno rimesso in discussione gli assetti politici e lo stesso rapporto democratico all’interno di alcuni Stati occidentali.

Sono state approvate misure che hanno assicurato, a chi dispone di risorse, forme di arricchimento senza passare attraverso il sistema produttivo e hanno permesso alle banche nuove e più estese, forme di speculazione.

La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia ha creato un aggravio enorme delle disuguaglianze del profitto, con la conseguenza di un arretramento delle stesse forme e tutele politiche ed economiche che erano tipiche delle democrazie occidentali.

Il capitalismo finanziario ha reclamato sempre maggiori utili, con il processo denominato finanziarizzazione dell’economia, in un contesto economico di globalizzazione caratterizzata da una concorrenza molto forte e dura, dove ognuno intende aumentare la produttività, riducendo i costi.

Di conseguenza per far coincidere gli aspetti finanziari con gli interessi del capitale, si è operato e si continua a compiere la riduzione dei salari, dei contributi sociali e del sistema sociale nel suo insieme.

 Così il capitale ha disdetto lo Stato sociale e ha imposto la priorità delle sue esigenze, fedelmente tutelate dalle classi dirigenti, al punto che la crescita del profitto dell’impresa privata è divenuta il centro delle attività politiche ed economiche delle società neo liberiste.

Questa cosiddetta finanziarizzazione dell’economia ha creati un aggravio enorme della disuguaglianza nella distribuzione del profitto.

La “dittatura” del liberismo senza limiti si è esplicata nella capacità concessa ai mercati di poter influire nella democrazia degli Stati, arrivando a deporre governi legittimi che non hanno attuato in pieno le politiche neoliberiste, per sostituirli con tecnici rispondenti alle loro necessità.

 E la crisi economica che si è determinata è caduta tutta sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati e della gente comune, mentre la finanza ha registrato incrementi di accumulazione di capitale mai visti prima.

Poi per “entrare” e restare nell’Europa del libero mercato dei capitali, il prezzo pagato dalle popolazioni è stato ed è comunque troppo alto:

 aumento dei ritmi di lavoro, tagli ai salari reali, disoccupazione, lavoro precario, sottopagato, senza diritti, tagli allo stato sociale, aumento della povertà, emarginazione, peggioramento delle condizioni di vita.

Tutto questo ha cancellato per molti definitivamente qualsiasi progetto di vita futura, non solo per i giovani, ma anche per i lavoratori in attività.

Il margine di trattativa dei diritti e degli interessi delle categorie sociali termina completamente, perché il capitale finanziario è diventato creditore esigente degli Stati che si sono indebitati per salvare le banche private, sconvolte dalla crisi dei subprime.

È diventato assolutamente prioritario per gli Stati il pagamento del debito e il mantenimento della credibilità davanti ai mercati;

perciò, i politici non hanno più potuto fingere di agire “nell’interesse generale” e si sono rivelati e lo fanno anche oggi, essere prigionieri del capitale finanziario.  

I miraggi della sovranità popolare, della rappresentatività, della mediazione degli interessi sono svaniti ed è restato il regime che poco ha a che vedere con la democrazia.

L’evoluzione del sistema ci ha portato, nella prima fase, (monetarista, de regolamentatrice) della controrivoluzione neoliberista, ad un completo svuotamento dei contenuti della politica e nella sua seconda fase, dominata dalla economia del debito, ad una aperta sparizione delle forme democratiche annullate da uno stato di eccezione permanente, che continua ancora, prima con la pandemia e poi con la guerra.

 Sono state poche e lo sono ancora le voci che mettono in discussione il pensiero unico neoliberista e sono evidenti le difficoltà, ma come suggerisce Seneca a Lucilio:

 “A volte non è perché le cose sono siano difficili che non si osa, ma è perché non si osa che diventeranno difficili”.

Chi obbedisce acriticamente non si rende conti che la “crisi” è stata causata dalle istituzioni finanziarie che hanno chiesto a noi di salvare il sistema.

La cosa più ragionevole da farsi sarebbe stata quella di rifiutarsi di salvarlo perché esso non soddisferebbe e non soddisfa le nostre esigenze di libertà e democrazia.

Prima di raggiungere alla realizzazione dell’asservimento totale al pensiero unico e alla realizzazione comtiana (quella del governo dei banchieri), dobbiamo riprendere un’azione per far sì che la gente si renda consapevole dei rischi e che si batta per superare la crisi della rappresentanza politica.

Essa non è mai stata così avvertita e mai è stata più urgente.

Bisogna che si risolva in una rifondazione della democrazia su una base diversa di quella di oggi. In questo nuovo contesto, si ripropone la ripresa delle lotte dei lavoratori e dei cittadini, per imporre il rispetto del dettato costituzionale, mai così offeso ed umiliato, come da questi ultimi governi italiani, per bilanciare il potere di questa nuova e più feroce accumulazione del capitalismo finanziario, ancora più evidente nella guerra che si è scatenata in Ucraina.

 

  

SERVE ATTREZZARSI PER GESTIRE

UN PERIODO DI INCERTEZZE.

Nuovogiornalenazionale.com – Pietro Imberti – (7 aprile 2022) – ci dice:

Ma Draghi, quello di oggi che distribuisce “armi per la pace”, non era per caso lo stesso Mario Draghi che governava la Bce ai tempi di Angela Merkel?

Il nord Stream2 significa il raddoppio dello Stream 1, di cui la Germania e soprattutto l’Italia non potevano farne a meno.

L’operare in rapporto diretto Russia – Germania, consentiva alla Merkel di utilizzare il gasdotto per rafforzare, suo tramite, la distribuzione nei vari paesi europei.

Un general contractor che rafforzava la sua bilancia dei pagamenti in attivo.

La Merkel, che lealmente si è battuta per tenere fuori l’Ucraina dalla NATO - su consigli di Kissinger- aveva preteso che a guidare la Ue ci fosse Ursula Von der Leyen, già sua ministra della Difesa e oggi si trova sostanzialmente sul banco degli imputati.

La fiera della cultura del trasformismo - del mercato - prende corpo, nomi e forma, dove “lo stile “è messo sotto le scarpe.

 Le arlecchinate citate ieri sul nuovo giornale nazionale da Silvano Danesi sono esposte alla luce del sole senza la dovuta vergogna.

E da questo punto che parte la storia e la “sintesi principe” delle pagliacciate:

quella fiera dei cooptati utilizzati per servire i vari fronti aperti con il cinismo di una cultura del trasformismo quale stella polare di servizio.

Certo, ripensando alle gesta dei Napolitano o a quelle di Mattarella su cooptati e bombardamenti - Belgrado - e armi di servizio per la pace, in questi ultimi tempi, viene da domandarsi se non sia più che mai opportuno pensare da subito ad aprire un fronte politico che porti all’elezione diretta del Capo dello Stato .

L’esame di realtà sulle troppe arlecchinate in essere porta a dare risposte adeguate e a riprendersi in mano come Paese il proprio destino.

Zory Petzova, sul Nuovo Giornale Nazionale si chiede - come d’altronde in tanti -“perché Italia e Germania, invece di seguire la difesa dei propri interessi, stanno facendo scelte così scellerate, sostanzialmente come se fossero in totale balia degli anglosassoni?”.

Se da una parte entrambi i paesi sono in ostaggio di governanti "traditori", dall’altra parte solo una crisi insanabile potrà portare alla frammentazione dell’UE, da dove nasceranno nuovi schiarimenti e contese, nuovi soggetti e nuovi ponti, che sicuramente non avranno la natura forzata e patologica di quelli attuali.

Tutti i passaggi globali verso nuove configurazioni geopolitiche, dove una egemonia tramonta per cedere il posto ad altre, sono stati destabilizzanti e dolorosi, per cui questo attuale non farà eccezione.

Quello che è certo è che il quadro politico italiano, come appare ora, è sicuramente obsoleto e non è in grado di mettere al centro la difesa dei propri intessi primari. Non è neppure in grado di respingere i giochi di una politica estera che marginalizza l’Italia sempre di più sul piano della geopolitica.

Il dato politico più rilevante e allarmante è il seguente: gli inglesi usciti dalla UE con un referendum oggi con la guerra in Ucraina e con il cinico funambolesco aiuto di Zelensky di fatto governano gli interessi reali dell’Europa, con un gioco strano degli specchi, dove si evidenzia il doppio gioco all’interno dell’Europa di molti improvvisati leader, che per sopravvivere non si affidano certo al consenso democratico dei cittadini.

Chi più dà in questo momento dà l’idea di come stia cambiando i cardini dell’attuale globalizzazione è il più grande fondo d’investimento al mondo:

Black Rock - la Roccia Nera- di Larry Finck, che gestisce 10.000 miliardi di dollari.

Finch sostiene la svolta che deve mettere in mora l’utilizzo nel tempo di tutte le risorse energetiche fossili ed assumere e preme per una cultura da “capitalismo responsabile” guidato dal perimetro della finanza con l’obbiettivo di mettere la politica sul un piano di pura esecuzione dei voleri di questa frontiera.

Questa è la “chiave di lettura” che riguarda l’Ucraina, la Cina, la Russia e il restante mondo geografico.

Le dinamiche regressive attuali, pifferai tragici compresi, sono il prodotto stimolato da questa bussola che ha sostituito con la forza del controllo della finanza non più il pluralismo dell’informazione, ma i potenti veicoli della propaganda, legandola al condizionamento dei budget della pubblicità condizionata dai grandi fondi che a loro volta controllano le grandi multinazionali.

Dopo l’era dell’implementazione del terreno della paura determinata dal Covid, arriva Joey Sleepy, lo smemorato presidente USA sul cavallo della grande finanza, gridando voglio “uno scalpo “.

 

  

  

IL PASSATO CI DA FORZA PER IL FUTURO.

Nuovogiornalenazionale.com – Nino Orlandi – (7 aprile 2022) – ci dice:

 

Pare che tutto stia andando in rovina. E ci stia rovinando addosso.

 

Dopo 40 anni vissuti nel bel mezzo di uno scontro globale tra USA e URSS, tra NATO e Patto di Varsavia, tra mondo libero e regimi totalitari comunisti, con i missili sovietici puntati sulla nostra testa, eravamo tutti convinti – parlo per la mia generazione, ma anche per quelle che le sono succedute – che la pace fosse ormai una conquista irreversibile.

Ci fu perfino chi parlò, quando la caduta del Muro di Berlino anticipò la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di “fine della storia”.

 Che poi voleva dire, secondo quel signore, fine delle contrapposizioni, in un mondo visto ormai come un unico libero mercato.

 E, di conseguenza, fine delle guerre, tranne forse quelle commerciali, in cui dazi e sanzioni avrebbero preso il posto delle fanterie, dei cannoni e dei missili a testata nucleare.

Non era così, come si è visto.

 Non solo: per la prima volta, dopo 30 anni, dall’una parte e dall’altra si è paventato l’uso, “in casi estremi”, anche delle armi nucleari.

E allora, nostro malgrado, abbiamo dovuto ricordarci che l'homo sapiens non ha mai esitato, nel corso della sua “evoluzione”, ad usare tutte le armi che via via inventava.

La differenza col passato è che ora è in grado non solo di uccidere "gli altri", cioè quelli dell'altro clan, dell'altra tribù, o dell'altro Stato:

ora può cancellare in pochi minuti la specie umana e tutte le altre specie di animali e di piante che vivono sulla terra.

Ovviamente nessuno, neanche nel passato, voleva né la guerra, né i suoi compagni: morte, distruzione e carestia.

Nessuno, tranne i pochi che non rischiavano di morire, o di diventare più poveri, ma che, grazie alla guerra, aumentavano il loro potere e la loro ricchezza.

Ora rischiano di morire, e di veder morire i loro figli, anche quelli che una guerra di distruzione possono scatenarla.

Eppure hanno iniziato a girare intorno, col loro ditino, al pulsante che può far partire la guerra definitiva, quella dopo la quale non ce ne saranno più altre, perché non ci sarà più sulla terra nessun homo sapiens e nessun'altra specie che possa iniziarne un'altra.

Un’altra certezza, che pian piano si era consolidata nella mente degli appartenenti alla nostra specie, era che ormai nessuna malattia sarebbe stata più forte della nostra scienza.

Non c’era, pensavamo, nessun batterio, nessun virus, nessun microrganismo in grado di riprodurre, in questi tempi così evoluti, gli effetti devastati delle antiche “pesti”.

 A cominciare da quella Antonina che, nel corso del secondo secolo dopo Cristo, uccise dai 5 ai 30 milioni di persone ed avviò il declino di Roma, per finire a quella “del Manzoni” del 17° secolo, passando per tutte le altre.

 Ed invece.

E poi il benessere:

 il riscaldamento nelle abitazioni e negli edifici pubblici e di culto come un dato scontato, a partire dagli anni ’60.

E poi la disponibilità illimitata e l’accessibilità economica di beni come il gas da riscaldamento ed il carburante per le autovetture. E poi, e poi, e poi.

Siamo in guerra? No.

O forse sì, ma in una guerra diversa. È una guerra che non minaccia, almeno qui, le nostre vite e la nostra incolumità, ma mette in dubbio tante delle nostre certezze.

Forse è arrivato il momento in cui chi si ricorda di aver vissuto in case in cui non c'erano ancora i termosifoni, di aver pregato in chiese in cui non c'erano neanche le stufe, di aver avuto per 40 anni i missili sovietici puntati sulla sua testa, di aver comperato una FIAT 500 a rate di 20.000 lire al mese, ha il dovere di insegnare ai più giovani che non si deve aver paura del domani.

La generazione che quel passato lo ha vissuto, che è abituata a guardare il domani negli occhi e a dargli del tu, non avrà più un ruolo attivo da svolgere, ma di certo ne ha uno più importante:

quello di insegnare agli altri come si fa.

 

 

ALDO MORO, UN OMICIDIO POLITICO,

CHE RICORDA QUELLO DI FALCONE.

Nuovogiornalenazioanle.com - Gaetano Immè – (7 aprile 2022) – ci dice:

 

Le biblioteche sono stracolme di libri su Aldo Moro, di scrittori ed editori a volte non disinteressati, talvolta "benevoli" verso una parte politica, cosa questa che non aiuta i lettori ad attenersi ai fatti ed essere immuni da una vera e propria disinformazione, nutrita da non verità e furbesche illazioni.

Due sono le scoperte del ricercatore Gianluca Falanga (ascoltato fra l'altro dalla commissione Moro il 20 luglio 2016), portate a conoscenza dell’opinione pubblica italiana solo nel 2016 ad opera dalla Commissione Moro 2, del tutto ignorate.

La prima riguarda un dossier, rinvenuto nell’archivio della Stasi a Berlino, redatto l’8 giugno del 1978, che rivela come l’agguato di Via Fani fosse stato studiato e ordito "copiando" l’agguato che la RAF tedesca aveva sferrato, nell’autunno del 1977, contro l’industriale tedesco Hans Martin Schleyer.

La seconda consiste in un documento dell’archivio, de secretato, della Stasi, che certifica di un incontro fra il servizio segreto militare (GRU) del Patto di Varsavia e la Stasi stessa, avvenuto a gennaio del 1978, durante il quale i servizi segreti della Stasi furono informati che il comitato centrale del Pcus aveva definito un piano speciale contro l’eurocomunismo, una campagna condotta dal dirigente del Pcus Boris Ponomarev, colui che dirigeva gli aiuti ai partiti comunisti fratelli del Pcus.

Insomma il vero problema dell’Urss era il Pci di Berlinguer, come lo era per il Patto di Varsavia, per il Kgb, per il Gru e per la Stasi, dato che il Pci non avrebbe mai dovuto pensare di uscire autonomamente dalla logica di Yalta, come Moro lo stava inducendo a fare con l’eurocomunismo.

E dunque “l’operazione Fritz” (rapimento, processo e uccisione di Aldo Moro) non è assolutamente inverosimile che sia stata organizzata dai servizi segreti sovietici, con la partecipazione di elementi scelti della RAF tedesca e delle Brigate Rosse, con la stessa tecnica operativa e seguendo la stessa strategia con cui era già stato e con successo eseguito il rapimento e l’uccisione dell’industriale tedesco.

Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse, per cui questa ricostruzione, seppure rapida, viene elaborata senza illazioni, senza prospettazioni personali, ma basandosi esclusivamente sulle prove documentali scovate negli archivi de secretati della Stasi di Berlino Est, su fatti incontrovertibili che riguardano specificamente quel crimine e sulle istruzioni impartite dalla Direzione Strategica delle Brigate Rosse, specificamente quelle impartite con due Risoluzioni, quella del 1975 e quella successiva, del febbraio del 1978, in prossimità dell’omicidio di Moro.

La premessa necessaria è che si tenga conto che il rigido principio della “compartimentazione” non consentiva alla mano destra di sapere quello che stava facendo la mano sinistra e così la sua rigida applicazione ha reso autonomi e indipendenti fra di loro gli attori di questo dramma, ossia le B.R. e il Pci di Berlinguer.

Gli scopi dell’”operazione Fritz” erano diversi e diverse le “consegne”. Il commando composto da Brigate Rosse e da elementi della RAF, così come prescriveva la Risoluzione di febbraio 1978 della Direzione Strategica delle B.R., doveva rapire Moro (che per la Direzione Strategica era il responsabile del SIM, dello Stato italiano internazionale e multinazionale, il cuore dello stato borghese da abbattere e contro il quale veniva dichiarata guerra civile), sterminare la sua scorta, tenerlo prigioniero, processarlo e ucciderlo.

Al Pci due compiti.

Dapprima far conoscere al Patto di Varsavia il segretissimo “dossier Stay Behind” che Moro ignorava.

Per questo Moro non fu ucciso subito.

Per questo “L’Unità” fece esplodere, il 15 agosto del 1977, il caso riguardante la “fuga di Kappler” dal Celio (Kappler era libero dal 1976 ma malato, un malato che ha deciso di farsi curare al Celio).

Il sembra utile per “preparare il terreno” all’operazione Fritz, per accusare il Ministro della Difesa, Vito Lattanzio di essere il responsabile della fuga di Kappler, sostituito da Ruffilli, durante il cui mandato il segretissimo dossier della Nato è stato trafugato dalla cassaforte del Ministero della Difesa durante i 55 giorni di prigionia di Moro, per essere portato alle Brigate Rosse e dunque al Patto di Varsavia, avendo illuso “ un qualcuno”, certamente cittadino d’oltre Tevere, che sottrarre il dossier Stay Behind dalla cassaforte del Ministero della Difesa e portarlo alle Brigate Rosse per farglielo copiare, significasse liberare Moro da vivo (il dossier ricomparirà al Ministero della Difesa solo a luglio del 1980).

Secondo compito del Pci fu utilizzare politicamente l’eurocomunismo berlingueriano per attenuare o addirittura eliminare la preconcetta contrarietà degli Usa e della Cia nei confronti del Pci, affidando a Giorgio Napolitano  il compito di illustrare, alla politica e alla intelligence Usa, come il Pci fosse ormai profondamente diverso da quello del 1974 (sì alla Nato, sì agli euromissili, conquista di governare il paese ma per via politica, non insurrezionale),tanto da convinse l’intelligence Usa a richiamare a New York Steve Pieczenick, a non intervenire sul destino di  Moro e la politica americana che coltivare quel legame con il Pci avrebbe consentito agli Usa di poter, all’occorrenza, liberarsi dalla vecchia e corrotta classe dirigente democristiana e socialista e sostituirla con la dirigenza del Pci.

Il 16 marzo 1978 scatta l’”operazione Fritz” a Via Fani.

21 marzo 1978 un giovane di Viterbo, Roberto Lauricella, denuncia alla Questura di Viterbo di avere visto due automobili tedesche con a bordo alcuni uomini armati, descrive le armi e fornisce anche la targa completa della prima auto e uno spezzone della seconda auto.

La Questura di Viterbo riferisce a quella di Roma, il giovane verrà sentito dalla Polizia, verrà anche ascoltato come teste alla Prima Commissione Moro, ma nessuna autorità proseguì le indagini su questa pista tedesca (che poteva portare alla RAF e alle CR di Carlos).

Una pista forse sottovalutata, tanto più che dopo qualche tempo vennero rintracciati i proprietari delle due auto, due terroristi tedeschi e venne trovata anche una carta di identità italiana falsa addosso ad una terrorista tedesca.

 Il modulo dal quale era stata prodotta la carta di identità falsa apparteneva ad un blocco di documenti rubati dalle Brigate Rosse nel 1974 a Sala Comacina.

Napolitano torna a Roma il 19 aprile 1978.

20 aprile 1978: Steve Pieczenick dagli Usa fa presente che dal falso comunicato della Duchessa le Brigate Rosse, prima si parla solo del “processo del popolo a Moro e allo stato borghese”, si legge che non si parla più di processo a Moro, ma di scambio di prigionieri per liberare Moro vivo.

Era la evidente implicitamente condanna a morte di Aldo Moro.

27 aprile del 1978. Grande ricevimento all’Ambasciata inglese a Roma, a Porta Pia, pranzo di gala, invitati d’onore Giorgio Napolitano e altri due politici, Peggio e Pajetta, del Pci.

Napolitano e Peggio hanno sempre tergiversato sui motivi di quell’invito, di quel festeggiamento, ma resta fermo il fatto che la diplomazia inglese in quei giorni spediva ai suoi funzionari sparsi nel mondo come il Pci italiano non dovesse più considerarsi un pericolo.

Testimonia il Presidente della Commissione parlamentare Mitrokhin che, quando nel 2005 si recò a Budapest, il Procuratore generale ungherese gli mostrò una valigia di cuoio verde piena di carte:

«Qui ci sono disse tutte le prove sui brigatisti rossi diretti dal Kgb. Purtroppo non ho la libertà di consegnarveli senza l'autorizzazione russa a causa dei trattati bilaterali firmati dopo la fine della guerra fredda».

Ma il Pci abbandonò l’eurocomunismo e continuò a ricevere sostegni anche economici sovietici.

Tutto finì sepolto e nulla affiorò al riguardo.

9 maggio 1978 ha luogo la “ostensione” del cadavere di Moro e si darà inizio a quella che rivelerà una liturgia, dalla quale non è scaturita la verità dei fatti, che in pratica non ha aiutato a scoprire soprattutto i mandanti e le cause prime di questo gravissimo accadimento.

 

 

 

UCRAINA: EX CORRISPONDENTI CONTRO

LA PROPAGANDA DEI MEDIA ITALIANI.

Nuovogiornalenazionale.com -Redazione – (7 aprile 2022) – ci dice:

 

Pubblichiamo, su invito di un giornalista amico del nostro giornale, l'appello firmato da ex corrispondenti di grandi media (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore), al fine di offrire ai lettori la massima informazione.

Un gruppo di ex corrispondenti di grandi media (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore) ha gettato un grido di allarme con una lettera aperta e con successive dichiarazioni sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto russo-ucraino ormai dominante nei media italiani.

“Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi.

Anzi buonissimi e cattivissimi “, notano i firmatari.

“Basta con buoni e cattivi, in guerra. I dubbi sono preziosi".

Nella gran parte dei media italiani  viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin" affermano i firmatari tra cui noti ex corrispondenti di guerra come Massimo Alberizzi, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Alberto Negri e Giovanni Porzio.

“Qui nessuno sostiene – sottolineano- che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto.

 Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina.

 Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo.

Ma dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile?

 Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandiamo anche perché e come è nata questa guerra.

Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin “affermano i firmatari.

E aggiungono “manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”.

Alberto Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e Balcani osserva che “la maggior parte dei media è molto più interessata a fare spettacolo che a informare”.

” Questa guerra – aggiunge- è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari.

 Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà, che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena”.

La pensa così anche Toni Capuozzo, noto volto del Tg5, già vicedirettore e inviato di guerra in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan:

“L’influenza della politica da talk show è stata nefasta”, ha dichiarato al fattoquotidiano.it.

 “I talk show seguono una logica binaria: o sì o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre queste logiche sono deleterie.

Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita.

Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui:

lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza”.

Lo stesso Capuozzo ha aggiunto:

"Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos'è la guerra".

 “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così.

Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico.

 La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo”.

Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica, la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo”.

Massimo Albrizi, per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa ha dichiarato:

“Questa non è più informazione, è propaganda”.

’L’esempio più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo”.

“I fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.

 

  

90 GIORNI PER FERMARE

L’APOCALISSE NUCLEARE.

 Thebongiovannifamily.it - Francesca Panfili – (28-12-2022) – ci dice:

 

Il monito degli Extraterrestri ai potenti del mondo e ai cittadini del pianeta Terra.

Quelli che seguono sono gli avvertimenti, le previsioni e le proposte che Dio fa all’uomo in uno dei momenti più drammatici e bui che la storia umana sta vivendo.

ABBIAMO 3 MESI DI TEMPO PER SALVARE IL MONDO DALL’OLOCAUSTO NUCLEARE!

Questo è il monito dell’Altissimo all’uomo! E quanto segue serve a prendere coscienza di questo monito.

Il tempo drammatico che viviamo è scandito dalla frequenza del 6, risultato della somma dei numeri che compongono quest’anno.

In questo periodo vige l’energia arimannia che dirige le forze umane al compimento dell’autodistruzione.

 L’uomo ripercorre il grave errore del deicidio, questa volta condannando alla morte sé stesso e l’intero pianeta.

Dati i drammatici eventi, ancora una volta gli extraterrestri intervengono nella storia umana, contattando i potenti del mondo per tentare una proposta che possa evitare l’imminente catastrofe nucleare.

Un contatto così diretto non avveniva dai tempi più bui della guerra fredda. Questo contatto è avvenuto il 30 settembre, poco dopo il discorso di Putin alla nazione; un discorso che escatologicamente e militarmente indica l’agenda che guida l’azione del Presidente della Federazione Russa da qui ai prossimi mesi.

Data la componente spirituale e programmatica del discorso, occorre qui riportarne alcuni brevi stralci affinché le parole dell’extraterrestre Adoniesis, automedonte che guida Giorgio Bongiovanni, possano penetrare nei nostri spiriti con la forza e l’importanza che meritano per renderci consapevoli della fine che si approssima qualora non si intervenga per fermare la follia devastatrice dell’ecatombe nucleare.

Dalle parole di Putin del 30 settembre 2022:

“Difenderemo la nostra terra con tutte le nostre forze e i nostri mezzi e faremo tutto il possibile per garantire la sicurezza della nostra gente. Questa è la grande missione di liberazione del nostro popolo… Il mondo è entrato in un periodo di trasformazioni rivoluzionarie, che sono di natura fondamentale”

E poi la forte condanna al mondo occidentale, al globalismo, al neoliberismo e al neocolonialismo che caratterizza l’assetto unipolare venutosi a creare dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica ad oggi:

“L’Occidente ha cercato e continua a cercare nuove occasioni per attaccarci, per indebolire e distruggere la Russia – ciò che ha sempre sognato di fare – per frammentare il nostro Stato, per mettere i nostri popoli gli uni contro gli altri, e condannarli alla povertà e all’estinzione. Non riescono a sopportare il fatto che al mondo esista un paese così grande, enorme, con il proprio territorio, le proprie ricchezze naturali, le proprie risorse, con un popolo che non può e non potrà mai vivere secondo gli ordini di qualcun altro…

L’Occidente è pronto a passare sopra a qualsiasi cosa pur di preservare quel sistema neocoloniale che gli permette di fagocitare, in sostanza, di saccheggiare il mondo grazie al potere del dollaro e al diktat tecnologico, di raccogliere un vero e proprio tributo dall’umanità, di sottrarre le principali fonti di ricchezza immeritata, di ottenere la rendita dell’egemone.

 Il mantenimento di questa rendita è il loro motivo chiave, reale e del tutto egoistico.

 Ecco perché una totale de-organizzazione è nel loro interesse…

Ci tengo a sottolineare ancora una volta: è proprio nell’avidità, nell’intenzione di preservare il proprio potere illimitato, che ci sono le vere ragioni della guerra ibrida che l’“Occidente collettivo” sta conducendo contro la Russia. Non vogliono la nostra libertà, ma vogliono vederci come una colonia. Non vogliono cooperare in modo paritario, ma piuttosto derubarci. Vogliono vederci non come una società libera, ma come una folla di schiavi senz’anima…”

 

La dittatura delle élite occidentali è diretta contro tutte le società, compresi gli stessi popoli dei paesi occidentali.

Questa è una sfida per tutti.

Questa negazione totale dell’uomo, la sovversione della fede e dei valori tradizionali, la soppressione della libertà assumono le caratteristiche di una ‘religione al contrario’ – un vero e proprio satanismo.

 Nel Discorso della Montagna, Gesù Cristo, denunciando i falsi profeti, dice:

 “Dai loro frutti li riconoscerete”. E questi frutti velenosi sono già evidenti alle persone – non solo nel nostro paese, in tutti i paesi, comprese molte persone nello stesso Occidente”.

E poi la conclusione:

“Dietro di noi c’è la verità, dietro di noi c’è la Russia!”

Riportiamo queste parole di Putin per far comprendere bene ai lettori di questo sito lo scontro internazionale che stiamo vivendo.

Ci teniamo a sottolineare che da parte nostra non vi è alcuna intenzione o volontà di patteggiare con la Russia o con i poteri occidentali.

La nostra posizione è quella che ci hanno insegnato gli extraterrestri: NÉ CON L’ORIENTE, NÉ CON L’OCCIDENTE MA CON L’UMANITÀ DELLA TERRA.

È ai popoli del pianeta che ci rivolgiamo e che chiediamo di unirci in un ideale universale che non prevede fazioni, nazioni o frontiere ma che sposa i valori della pace, della giustizia e dell’amore.

Nelle parole di Putin troviamo un forte e feroce atto di condanna all’anticristo d’occidente dal quale il presidente russo si è dissociato, interpretando e favorendo quelle forze del male che si sono ribellate alla cultura globalista che permea ogni ambito della società occidentale.

È questo il contesto in cui si inserisce l’intervento extraterrestre con la proposta di una trattativa che contrasti la guerra.

Su ordine degli Esseri di Luce, gli extraterrestri grigi hanno contattato direttamente i potenti del mondo tramite i loro servizi segreti, immediatamente dopo l’ultimo discorso del presidente Putin alla nazione.

Questo contatto è quindi avvenuto il 30 settembre 2022.

Ne riportiamo ogni dettaglio qui di seguito e ancora una volta invitiamo i cittadini del mondo, amanti della vita e della creazione, ad unirci e a chiedere a gran voce in ogni piazza e con ogni mezzo disponibile: PACE SU TUTTE LE FRONTIERE.

Ecco quanto ci ha trasmesso Giorgio Bongiovanni il giorno 1° ottobre 2022:

‘Oggi vi darò il messaggio che mi ha dato Adoniesis, il mio automedonte.

Questo immenso Essere mi ha riferito che tutta la Confederazione Interstellare che ci visita ritiene che gli accadimenti internazionali che si stanno susseguendo rappresentano i momenti più gravi della storia dell’umanità.

Quelli che stiamo vivendo in questi giorni, da settembre, fino ad arrivare a dicembre 2022, sono tra gli attimi più terribili che l’umanità vive.

L’anno 2022 sommato ci dà il numero 6.

Se l’umanità resisterà fino a dicembre ed arriverà al 2023, la cui somma è 7, avrà possibilità di sopravvivere ancora per un po'.

 Se così però non avverrà e da qui a dicembre scoppierà una guerra mondiale, il numero 6, ossia il numero dell’anticristo, determinerà l’Apocalisse.

Si scatenerà l’Apocalisse!

Noi sappiamo che l’Apocalisse è un disegno di Dio.

È Lui che consente tutto questo.

Gesù diceva che le cose più terribili sarebbero accadute e che non si doveva avere timore perché anche gli scenari peggiori ‘devono accadere’.

Gesù quindi ci diceva che questi scenari terribili sono cose necessarie. Io umanamente non voglio che si compia una guerra nucleare e nemmeno voi penso. So che però non possiamo fermare i disegni di Dio.

I piani del Padre si devono attuare ma dovete comprendere quanto segue:

il libero arbitrio dell’uomo ha la capacità di accelerare gli eventi catastrofici ma anche la possibilità di accelerare con un miracolo la salvezza.

Quindi i disegni si devono compiere ma noi umani, non tutti ma soprattutto i potenti, possiamo accelerare la situazione catastrofica del mondo con una terza guerra mondiale o possiamo evitarla ancora per un po’.

Il comandante di questi Esseri, Adoniesis, insieme a Suo Figlio Cristo hanno dato ordine agli Esseri di Luce, coordinatori della Confederazione Interstellare, di contattare i potenti della terra che vogliono fare la guerra.

 Quindi una squadra di grigi, comandata dagli Esseri di Luce, ha contattato i servizi segreti di Russia, Cina e USA.

Questo è accaduto immediatamente dopo il discorso di Putin alla nazione.

Hanno contattato direttamente i tre stati più potenti del mondo e non gli altri capi delle potenze che possiedono l’atomica che sono comunque sotto il dominio di queste super potenze.

Gli extraterrestri grigi, come voi li chiamate, hanno detto che non mostreranno a tutto il mondo i loro mezzi (ufo) ma che gli avvistamenti saranno maggiori rispetto a prima.

Non ci sarà per ora un contatto massivo con l’umanità, anche se io spero che questo accada.

Gli ufo si mostreranno a tutti a condizione che l’umanità e i suoi potenti lavorino per la pace e non scatenino la terza guerra mondiale nucleare.

 Dato che i potenti del mondo non ascoltano i ripetuti richiami degli extraterrestri, loro se ne andranno non appena scoppierà un conflitto nucleare tra due o più nazioni, portando via con loro circa 10milioni di persone e qualche centinaio di milioni di bambini.

Porteranno fuori dal pianeta queste persone e le metteranno in salvo attendendo gli eventi che si susseguiranno sulla Terra.

Se moriranno 1 o 2 miliardi di persone gli extraterrestri non interverranno ma se verrà messa a rischio l’intera stabilità e sopravvivenza del pianeta allora interverranno perché non permetteranno la distruzione della Madre Terra.

 Gli extraterrestri interverranno nello stesso modo in cui sono intervenuti a Sodoma e Gomorra ossia con l’antimateria.

 Non useranno strumenti per ipnotizzare l’umanità e farla suicidare perché altrimenti anche i buoni si ammazzerebbero ma interverranno solo per salvare chi hanno scelto e selezionato.

 Questi Esseri hanno un’agenda con i nomi delle persone che posseggono i valori della Confederazione Interstellare e che si trovano nei 5 continenti.

Noi siamo tra queste persone candidate.

C’è ovviamente una condizione affinché la salvezza si verifichi che vi illustrerò nel dettaglio ma prima voglio parlarvi di quella che è la situazione geopolitica attuale.

Putin e la Russia non si fermeranno.

Questo voglio dirlo a tutti i capi di stato occidentali.

 L’oligarchia russa, i generali, i militari e la mafia interna spinge Putin ad usare l’arma atomica per intimidire il mondo.

Nella testa di questi personaggi folli c’è l’idea che se scoppiano due atomiche in Ucraina, quel paese si arrenderà, chiederà alla NATO di rispondere con i missili atomici ma l’Alleanza Atlantica non risponderà.

La NATO non dipende dagli USA e nemmeno dagli altri capi di stato.

 La forza militare della NATO dipende, in realtà, dai banchieri ossia da chi ha nelle mani i soldi e quindi dalla grande finanza internazionale rappresentata dai Rothschild, Elon Musk ed altri.

 È la finanza internazionale che comanda il mondo e che è controllata dai servizi segreti.

Perciò la richiesta degli extraterrestri sulla carta arriva ai presidenti degli stati ma in realtà loro vanno a parlare direttamente con chi comanda l’economia mondiale.

Ora non so cosa vogliono fare i potenti che governano il mondo ma ho ragione di credere che l’economia occidentale, avida di soldi, avvierà una trattativa segreta con Putin perché i soldi sono i soldi e con il denaro non si scherza.

Zelensky verrà mandato a casa.

 Se l’occidente metterà piede nelle tre regioni annesse alla Russia, Putin sparerà i missili nucleari perché questo rientra in quanto è scritto nella Costituzione russa: chi invade il territorio russo viene contrastato prima con le armi convenzionali ma se non si riesce a fermare si passa alle armi nucleari.

E allora chiedo all’occidente: vogliamo veramente morire? Vogliamo veramente andare in miseria? Perché in quel caso i banchieri, i tesori, le ricchezze verranno meno e moriranno con noi.

Se Putin spara i missili nucleari i soldi dei banchieri non li salveranno. Assisteremo alla morte economica del genere umano e alla morte fisica con le radiazioni: diventeremo tutti zombie per sopravvivere all’inverno nucleare.

Vogliamo fare questa fine, vi chiedo?

Sono assolutamente convinto, anzi spero di non sbagliarmi, che tra poco occidente, Russia e Cina si incontreranno e diranno a Zelensky di andarsene a casa.

Gli diranno che non possono compromettere soldi e tenore di vita conquistato per lui perché Putin spara davvero i missili nucleari.

Gli extraterrestri mi hanno detto poi una cosa terrorizzante:

 a largo di Augusta, a largo di Siragusa, a largo delle Malvinas ci sono 3 sottomarini nucleari russi potentissimi che possono sparare ognuno 10 missili nucleari.

Se questi ultimi dovessero partire, ogni missile si aprirebbe e possiederebbe 12-13 testate nucleari a missile.

Ogni testata è 1500 volte superiore alla bomba di Hiroshima.

Ciò significa che se ogni missile colpisce una città come Londra o Buenos Aires questa città viene completamente rasa al suolo.

Lo scudo spaziale occidentale potrebbe fermare solo alcuni di questi missili.

Gli altri colpirebbero comunque diverse città dell’Unione Europea e dell’America. Se noi occidentali metteremo piede nel territorio russo, Putin farà partire questi missili.

Dato che i grandi potenti del mondo vogliono continuare a vivere nella loro lussuria e nella loro perversione, loro daranno ordine al Pentagono e ai servizi segreti delle potenze nucleari di fermare il conflitto.

Parleranno loro stessi con Putin per convincerlo e calmarlo.

Proporranno un’Ucraina neutrale, assicureranno le 3 regioni russofone a Putin e faranno un passo indietro.

Una cosa da cui però non si tornerà indietro è questa: non ci sarà più una riconciliazione tra Russia e Occidente.

 La guerra fredda tra questi due paesi proseguirà per altri 10-15-20 anni fino a che non tornerà il Signore.

Ora io non so se tutto questo accadrà perché fino a dicembre vige il numero della bestia, il 6.

Se superiamo dicembre, arriveremo al numero 7 e se regnerà il 7 non accadrà questa guerra nel breve periodo.

Gli extraterrestri scenderanno quando sarà in pericolo la stabilità del pianeta. Servono alcune centinaia di atomiche per destabilizzare l’intero pianeta.

A quel punto loro interverrebbero.

 I grandi iniziati di tutti si sarebbero mai immaginati una civiltà che sta sull’orlo di distruggersi?

Penso che noi siamo fortunati ad esserci incarnati in questo tempo di rivelazione ma abbiamo anche una grave responsabilità: viviamo il momento finale dell’umanità ma questo tempo è anche il tempo di Cristo.

Voglio però tranquillizzarvi dicendovi che noi dobbiamo fare finta di niente.

Noi siamo servi, siamo i prescelti ma non gli eletti.

 L’elezione avviene solo con il sacrificio della vita ossia si diventa eletti e quindi salvi solo se si dà la nostra vita all’Opera altrimenti la salvezza ce la possiamo sognare.

Tutte le persone che lavorano ogni giorno nella pace, nella misericordia, nella giustizia, nella fratellanza e nell’attivismo sociale a favore della vita sono candidate all’elezione.

La risposta dei servizi segreti agli extraterrestri è stata: ‘Riferiremo’.

Ebbene riferite se volete sopravvivere!

Era necessario che le due potenze mondiali fossero informate.

 Biden non sapeva nulla della presenza extraterrestre e gli hanno detto che in questo conflitto quasi mondiale e nucleare c’è una terza potenza che può annullarci in qualsiasi momento e che vuole dialogare, o meglio, dare un messaggio.

Dato che noi siamo al servizio di questa potenza, la terza incomoda, noi siamo i loro messaggeri sulla terra. Io rappresento tutti voi.

 Noi siamo intoccabili perché siamo guardati a vista dai fratelli del Cielo, noi, i nostri bambini, le persone che amiamo e le nostre famiglie, se ci rispettano.

Tutto questo però non deve renderci egoistici ma deve sempre più farci avere il timore di Dio perché, mentre chi non sa niente può essere scusato e anche aiutato, noi no.

 Se non faremo ciò che dobbiamo fare moriremo nel corpo e nello spirito con la seconda morte.

Nella mafia si dice che quando entri nell’organizzazione o fai carriera o sei morto o collabori con la giustizia.

Nel positivo, possiamo dire che se esci dalla via che Dio ti ha riservato non muori ma rimani libero.

 Se esci e ti occupi degli altri va benissimo. Anche se mi odi sarai salvo perché io non sono geloso.

Se ami il Signore, lo servi, aiuti il prossimo e dai la faccia per cambiare la società, odii Giorgio Bongiovanni ma fai del bene, io non sono geloso perché il Signore ti salverà ma devi fare veramente del bene.

Si dà il caso che chi se ne è andato se segue il bene non mi odia ma mi rispetta.

Noi ci salviamo solo se operiamo.

Uno potrebbe dire che non gli interessa della sua salvezza ma che desidera solo che si salvino i suoi figli.

Allora io gli dico che loro non si salvano se i genitori non danno la vita per questa Causa operando per la Verità.

 I figli pagheranno le colpe dei genitori, è stato scritto, e quindi se noi ci avviciniamo a Cristo e poi facciamo un passo indietro i nostri figli pagheranno le nostre colpe ossia saranno la nostra prova e non la nostra consolazione.

Vi ho detto queste cose per certi versi terrificanti ma voglio tranquillizzarvi.

 Io vado avanti come se niente fosse ma come se tutto è ossia continuo con le nostre attività.

Vi dico poi una cosa che sembra assurda: noi dobbiamo andare avanti con più felicità di prima. Dobbiamo vivere come facevano i cristiani quando entravano nelle arene.

Noi siamo dentro l’arena. L’arena è il mondo.

Chi sta a guardarci mentre veniamo sbranati sono quei pazzi che vogliono fare la guerra nucleare.

 Le belve sono le armi atomiche e la guerra. (…)

(Francesca Panfili)

 

Usa: “Stop alla Distribuzione dei Vaccini.

 Sono Armi biologiche”.

Conoscenzealconfine.it – (3 Marzo 2023) - Antonio Oliverio – ci dice:

 

Potrebbero essere vietati dalla legge la produzione e la distribuzione del vaccino anti Covid in tutto lo stato della Florida, a seguito della risoluzione approvata dall’assemblea del Partito Repubblicano della contea di Lee, la più grande nonché la più popolosa del Sunshine State.

La risoluzione “Ban the Jab” (“Proibire l’iniezione”) è passata con la maggioranza dei due terzi.

Sta ora al governatore dello Stato della Florida, il repubblicano “Roni Desantis”, che deve scegliere se confermare lo stop ai vaccini.

La risoluzione, come leggiamo su “Il Giornale d’Italia”, è promossa da Joe Sanson, uno psicologo della contea di Lee, il quale ha dichiarato:

 “La Contea di Lee e il Partito Repubblicano saranno all’avanguardia in questa campagna per fermare il genocidio”, parlando poi, ancora in relazione ai vaccini, di vere e proprie “armi biologiche” e dunque

“l’Attorney General (omologo statunitense del nostro ministro della Giustizia, ma declinato nei singoli Stati che compongono gli USA, Ndr) deve prenderne atto immediatamente”, ha aggiunto.

Non ci sono grandi ragioni per dubitare che “Roni Desantis” non dia seguito alla risoluzione:

 infatti, il governatore della Florida, che in molti considerano possibile già futuro candidato alla presidenza degli Stati Uniti per il Grand old party, già in dicembre aveva presentato una petizione scritta, sostenendo che istituzioni ed esperti avessero spinto i cittadini a vaccinarsi essenzialmente “per un guadagno finanziario”.

 

Durante una tavola rotonda in Florida, Roni Desantis aveva argomentato la sua decisione di adire al Gran giurì – particolare giuria che, nell’ordinamento statunitense, valuta se le prove raccolte siano sufficienti per iniziare un processo penale – illustrando, dapprima, un concetto che racchiude tutto il senso della petizione:

“L’amministrazione Biden e le multinazionali farmaceutiche – aveva in quell’occasione affermato DeSantis – continuano a spingere la distribuzione su larga scala dei vaccini a base di mRNA sul pubblico, compresi i bambini di 6 mesi, attraverso una propaganda incessante che ignora gli eventi avversi reali”.

Ancor prima, nel marzo 2022, il capo del dipartimento della Sanità dello Stato della Florida, Joseph Ladano, emanando le nuove linee guida aveva dichiarato: “Non raccomanderemo i vaccini anti - Covid ai bambini sani”, e Roni Desantis, tra i più agguerriti oppositori delle politiche sanitarie dell’amministrazione guidata da Joe Biden, aveva appoggiato la decisione. Adesso potrebbe crearsi un precedente davvero importante.

(Antonio Oliverio) (ilparagone.it/attualita/covid-contea-florida-vieta-vaccini-attesa-decisione-governatore)

 

 

 

Crisi irreversibile della

vecchia sinistra italiana.

Pensalibero.it - Roberto Caputo - (2 Gennaio 2023) – ci dice:

Ora si è arrivati alla fase finale.

Dove però si ripete un vecchio e obsoleto rituale congressuale con primarie ormai senza valore alcuno.

Con un rischio molto vicino di una possibile scissione. Uno spettacolo tutto vintage. Mentre il M5S succhia i voti con una scelta meridionalista assistenzialista e una prassi moralista e giustizialista.

Non è solo la sconfitta elettorale alle politiche e l’ultimo scandalo europeo a determinare una pesante e forse irreversibile crisi della vecchia sinistra italiana. Tutto ha inizio da molto lontano.

 L’Italia del dopo guerra è stata l’unica nazione europea ad avere un fortissimo Partito Comunista, con stretti legami con il potere di Mosca.

Questo ha condizionato per anni la politica nel nostro Paese.

E neanche dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica il problema è andato a risolversi.

Vi sono stati solamente cambi di nomi, ma mai una scelta socialista o socialdemocratica.

 Per arrivare alla fusione a freddo tra ex comunisti ed ex democristiani che ha generato il PD. Anomalie italiane.

Ora si è arrivati alla fase finale.

Dove però si ripete un vecchio e obsoleto rituale congressuale con primarie ormai senza valore alcuno.

Con un rischio molto vicino di una possibile scissione.

Uno spettacolo tutto vintage.

Mentre il M5S succhia i voti con una scelta meridionalista assistenzialista e una prassi moralista e giustizialista. Per gli altri.

Ma una parte del PD lavora per una alleanza coi grillini

. Ignorando che l’elettore sceglie l’originale e non la brutta copia.

Con qualche vecchio furbo baffuto che ci lavora.

Oltretutto gli ultimi sondaggi indicano nell’elettore medio alto il piddino convinto. Ad oggi in Italia non esiste una sinistra liberale moderna e neppure un leader in grado di guidarla.

Adesso è il tempo della destra. Anzi della Meloni.

 (Roberto Caputo)

 

Se il nemico è la Cina,

la propaganda si vede meglio.

  Sinistrainrete.info - Dante Barontini – (17 gennaio 2023)  - ci dice:

 

Prendersela con i media italiani è come sparare sui pupazzetti al luna park. Immobili, ripetitivi, tutti uguali e tutti i giorni.

La tendenza al lecchinaggio servile, già connaturata nella struttura proprietaria delle testate (tutte di grandi gruppi che fanno i soldi in altri campi), è aggravata dall’evidente “ordine di scuderia” di creare un clima di guerra permanente verso “nemici esterni”.

Tra questi, oltre alla “cattiva Russia” – che almeno ha almeno attaccato un altro paese, dopo aver a lungo cercato una mediazione – c’è ovviamente la Cina.

Con la quale “noi” (i paesi europei) non abbiamo alcun contenzioso in sospeso e intratteniamo solidi rapporti economici, un interscambio molto profittevole.

È insomma economicamente da dementi prendersela con Pechino senza una ragione, eppure si fa.

Proponiamo all’attenzione, solo come esempio tra i tanti, questo titolo di Repubblica, che giubila in questo modo per la scoperta di un giacimento di terre rare… in Svezia.

A voler essere seri – resta difficile, in certi casi – bisognerebbe far notare che “un milione di tonnellate di ossidi di terre rare stimate” è una frazione infinitesima di quelle esistenti al mondo:

secondo l’insospettabile “United States Geological Survey “sono 120 milioni di tonnellate, di cui più di un terzo, 44 milioni di tonnellate, situate in Cina, 22 milioni in Vietnam, 21 milioni in Brasile, 12 milioni in Russia e 7 milioni in India.

Detto brutalmente, quasi la metà sono in “territorio nemico” (Russia e Cina), e pure con il Vietnam toccherebbe essere un po’ prudenti (ha già dato solide prove di indipendenza…).

In ogni caso un milione di tonnellate è meglio di niente (lo 0,8%), sono peraltro le uniche in Europa.

Ma con questi spiccioli “non ci si salva”.

Se poi passiamo alla descrizione della situazione sanitaria cinese, il delirio monta incontrollabile.

Su tutti i media sono apparse foto satellitari di fonte Usa (riprese dalla Cnn) in cui si enfatizza drammaticamente la costruzione di nuovi parcheggi nei pressi di ospedali o cimiteri.

Titolo tipo: “L’impennata dell’epidemia di Covid in Cina svelata dalle foto satellitari tra forni crematori e pompe funebri”.

Che laggiù ci sia stata un’”impennata” di contagi dopo la scelta di “riaprire tutto”, ovviamente, non lo nega nessuno.

Neanche le autorità di Pechino.

Da qui ad immaginare “milioni di morti”, “lunghe code davanti ai crematori”, una “frenata drammatica dell’economia” e – sotto sotto – un “impediamo che i turisti cinesi possano arrivare qui”, altrettanto ovviamente ce ne corre.

In fondo anche lì la maggior parte della popolazione si è vaccinata, hanno continuato a portare mascherine in luoghi pubblici, le varianti del virus si sono fatte meno mortali, ecc.

Se qui si può “riaprire tutto”, insomma, perché mai se lo fanno anche laggiù dovrebbe essere una tragedia?

 I virus non guardano al passaporto, giusto?

E dunque ci sembra importante riportare almeno brani di messaggi inviati da parte di italiani che vivono e lavorano da quelle parti.

Perché è abbastanza evidente che i “nostri” gazzettieri parlano della Cina come degli anni ‘50 si parlava dell’Urss: un “sistema chiuso”, “preda della censura” e da cui non entra e non esce nulla, tanto meno le notizie.

E invece oggi in Cina ci sono centinaia di migliaia di lavoratori stranieri (tecnici, dirigenti di azienda, manager di società in joint venture, ecc.) e persino… centinaia di giornalisti!

Tutta gente che entra ed esce dal paese, oggi senza restrizioni e periodi di quarantena.

Tutta gente che, soprattutto, telefona, scrive, chiacchiera, gira per le città, incontra ogni giorno cinesi di ogni tipo e classe (per ragioni di lavoro e non).

Gente che, insomma, scrive a volte persino a gentaccia come noi…

Qui due testimonianze proprio di questi giorni.

Da Shanghai, per esempio, ci scrivono che dopo la riapertura totale dell’8 gennaio

“I turisti cinesi si sono riversati in destinazioni come Thailandia, Singapore e Malesia in seguito all’allentamento delle restrizioni sui viaggi all’estero del Paese.

I dati della piattaforma di viaggio online Ctrip mostrano che dal 27 dicembre gli ordini di hotel thailandesi con un tempo di prenotazione superiore a 20 giorni hanno rappresentato il 44% degli ordini totali di hotel da parte dei passeggeri della Cina continentale.

 Alcuni viaggiatori hanno persino già prenotato un hotel all’estero per le vacanze di Capodanno nel 2024.

Secondo un sondaggio dell’ITB China pubblicato a dicembre, il 76% delle agenzie di viaggio cinesi ha indicato il sud-est asiatico come destinazione preferita dopo il ripristino del turismo in uscita.

Indonesia, Malesia, Filippine e Thailandia hanno annunciato che i viaggiatori in entrata dalla Cina non avranno bisogno di test COVID prima della partenza”.

Non sembra proprio di vivere in un incubo dominato dalla morte agli angoli delle strade… Ma forse Shangai non è il centro di questo (presunto) dramma, anche se i giornalisti italici ce l’hanno descritta – in questi stessi giorni – proprio con quelle tinte.

Da Pechino, la capitale, per ovvie ragioni molto più ricca di giornalisti occidentali a caccia di “scoop”, arriva quest’altra testimonianza, che prende di mira, tra l’altro, proprio il giornalista-italiano-tipo, evidentemente perché ne incrocia diversi…

“Qui a Pechino ormai si vive esattamente come da noi, tranne forse per le mascherine che qui ancora portano quasi tutti e restano obbligatorie sui mezzi e nei luoghi pubblici chiusi. Non viene più richiesto il tampone per nessun tipo di attività.

Dopo tre anni si possono di nuovo richiedere una serie di visti di più breve durata (business, riunioni familiari, studio ecc.), resta invece ancora sospesa l’emissione di visti turistici, non si sa per quanto.

Per entrare nel paese si chiede ancora un singolo tampone fatto nelle 48 ore precedenti alla partenza, ma una volta arrivati qui non ci sono più controlli e si è liberi di uscire.

Stanno tornando anche gli stranieri.

Uno dei problemi più grossi per la nostra stampa è che gli occidentali, giornalisti compresi, stanno tutti nei centri delle grandi città e non escono mai, non fanno inchiesta reale sul campo, nelle zone rurali.

Il loro giornalismo è fatto da una prospettiva esclusivamente iper-urbana e sui social network.

Per capire cosa sta succedendo realmente nelle città secondarie e nelle campagne ci si dovrebbe andare, ma non lo fanno.

È per questo che quando c’erano “le proteste contro la politica zero covid” avevamo i video, mentre ora non ci arriva più nulla.

La verità è che su tutta la Cina che non è Pechino o Shanghai centro, gli unici dati e le uniche notizie su cui possiamo contare sono quelle delle fonti governative e dei giornali locali, che certamente saranno di parte, ma non le si può semplicemente scartare con le solite accuse di censura e poca trasparenza, quando poi di inchiesta reale i giornalisti qui non hanno alcuna intenzione di farne.”

Il nostro anonimo “informatore” dimostra di conoscerne bene anche il modo di lavorare, che evidentemente ha visto da vicino.

“Escono di casa dal loro appartamento del centro per fare la spesa, fanno la foto a quattro persone in fila davanti a una farmacia qualunque, poi citano tre o quattro post polemici di qualche loro contatto su Weibo e riempiono il tutto con le solite frasi che sembrano ‘fatti giornalistici’ mentre invece sono solo retorica, tipo ‘al momento nessuno sa quanti morti realmente ci siano nel paese’, e voilà, ecco confezionato l’articolo settimanale sulla Cina e il covid.”

 (i dati comunque ci sono e vengono resi noti su base mensile: reuters.com/world/china/china-reports-59938-covid-related-hospital-deaths-since-dec-8-2023-01-14/)

E noi, qui, che dovremmo sperare che sia una miniera svedese (tra 15 anni, dicono i tecnici che hanno scoperto il giacimento) “a salvarci dalla Cina” …

In conclusione, è chiaro che questo non è “giornalismo”, ma semplice propaganda bellica.

E come sempre la propaganda è rivolta al proprio “interno”, a persuadere la propria popolazione (italiana ed europea) che “fuori c’è la jungla” ed è meglio non mettere in discussione la “nostra” classe dirigente (imprenditori, politici, giornalisti, ecc.). Perché potrebbe andarci molto peggio…

Però, come ogni propaganda bellica, porta la data di scadenza sulla confezione. “Puoi mentire a una persona per tutta la vita o puoi mentire a milioni di persone una sola volta. Ma non puoi mentire a tutti per sempre…”

E quando il volume della propaganda si alza troppo, quando le menzogne diventano fantasmagoriche e dunque ridicole, è segno che quella data diventa molto vicina…

 

 

 

UNESCO: Conferenza Globale

contro la Controinformazione.

Conoscenzealconfine.it – (5 Marzo 2023) – Redazione – ci dice:

Le elité si preparano a dichiarare guerra aperta alla controinformazione utilizzando la censura tecnocratica.

L’Unesco ha stilato le Linee Guida Globali per la Censura “Woke”

Il 22-23 Febbraio l’UNESCO ha organizzato una conferenza sulla “regolazione” dei social, in cui è stata discussa la seconda versione della bozza (unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000384031.locale=en) delle loro linee guida.

Se si legge oltre le finte belle parole messe lì per fare da specchietto per le allodole, si scopre un piano totalitario di censura.

Si considera la faccenda covid come una “crisi dell’informazione”) e si sostiene che gli stati devono aumentare la “media and information literacy” (p 8, p 19-20), cioè insegnare ad evitare i canali di controinformazione per utilizzare solo le fonti autorizzate dal governo.

La controinformazione “mette a rischio la democrazia e il godimento dei diritti umani” e per questo bisogna investire sui “fact checkers” (p.10, p. 24) e fare un uso massiccio dell’IA (15-17).

I social network devono mettere a disposizione dati per scopo di ricerca che riguardino “discorsi d’odio”, “disinformazione” e “violenza di genere” (p.18-19), e le norme della piattaforma devono essere redatte sulle basi dei desideri delle “minoranze”, che devono svolgere ruolo attivo nell’identificare i tipi di contenuti da rimuovere (p. 23).

Viene addirittura detto che esistono delle organizzazioni non meglio specificate che vanno in giro sui social network per offendere, minacciare e molestare donne a caso, per ridurre la fiducia della società nei confronti delle donne (p. 23) e per combattere questo bisogna creare degli algoritmi volti a rintracciare la “disinformazione di genere”, gli stereotipi e i discorsi “tossici” (p. 23-24)

La Narrazione della “Crisi dell’Informazione.”

Tutta la conferenza – finanziata dalla UE (unesco.org/en/internet-conference/supporters) – si è basata sul sostenere che il covid è stato un “disastro della democrazia” perché hanno permesso ai no vax di parlare e di esprimere delle idee dannose per la collettività (leplusimportant.org/documents/2023/02/information-as-a-public-good-which-platform-regulation-for-a-troubled-digital-era.pdf/).

Il clima emergenziale è stato esteso a qualsiasi forma di dissenso (unesco.org/en/articles/navigating-hate-speech-digital-sphere-role-education) che prenda come argomento un qualsiasi argomento woke, per cui chi dissente da questa ideologia deve essere censurato (articles.unesco.org/en/articles/role-policymakers-and-regulators-promoting-rights-based-approach-regulation-digital-platforms) nel nome della collettività e della democrazia (informationdemocracy.org/2023/02/07/event-of-the-forum-on-information-and-democracy-on-february-21-at-unesco/).

La loro tesi è che esiste un diritto della collettività ad avere “informazioni sicure” e che la controinformazione minacci questo diritto, e quindi vada censurata con ogni mezzo possibile (articles.unesco.org/en/articles/using-unesco-recommendation-ethics-ai-advance-ai-governance-around-world), giustificandosi dicendo che i giornalisti vengono aggrediti online (articles.unesco.org/en/articles/chilling-effect-psychosocial-effects-online-violence-journalists).

Si propongono di controllare anche l’informazione politica durante i periodi elettorali (articles.unesco.org/en/articles/freedom-expression-and-access-information-electoral-processes-challenges-facing-disinformation-and), arrivando al delirio puro, perché in nome della democrazia (iamcr.org/unesco-preconference) soffocano gli scandali sui politici dem (laptop di Hunter Biden) e impediscono a voci antisistema di diffondersi.

Usare la Controinformazione come Emergenza.

Tutto questo allarmismo per i social è nato da una frase di Biden in cui dichiarò che “i social uccidono le persone”, perché a detta sua non facciamo vaccinare le persone e poi queste muoiono di covid.

 Quindi tutto ciò è la diretta conseguenza della sconfitta che hanno subito e del trionfo della verità della controinformazione.

Sono ben consapevoli che il vero problema siamo noi.

E, invece di ignorarci, mandandoci al limite qualche sfigato come “David Sotto un Puente o BUTAC”, adesso vogliono eleggere noi a nuovo “covid”, cioè renderci il nuovo bersaglio dell’isteria di massa e del panico morale, e siccome la controinformazione ha sconfitto la loro narrazione pandemica, vogliono creare una narrazione proprio su di noi, e fare di noi una “pandemia”.

Del resto la retorica è la stessa, e hanno coniato e utilizzato pure il termine “infodemia”, paragonando la nostra attività a quella di un virus!

Conclusioni.

L’attacco nei confronti della controinformazione lo possiamo superare solo se ci uniamo e ci mostriamo privi di secondi fini, interessati solo alla verità, se miglioriamo costantemente la qualità delle nostre informazioni e se continuiamo con le prove a smontare ogni balla del mainstream.

(t.me/dereinzigeitalia)

(unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000384031.locale=en).

 

La sottile linea rossa: dopo Kabul

la NATO non può permettersi

di perdere anche Kiev.

 Agerecontr.it – Pepe Escobar - "CHRISTUS REX" – (18 OTTOBRE 2022) - STAFF – ci dice:

 (Pepe Escobar - Come Don Chisciotte)

Cominciamo con il “Pipelineistan”. Quasi sette anni fa, avevo mostrato come la Siria fosse l’ultima guerra del “Pipelineistan”.

Damasco aveva rifiutato il progetto – americano – di un gasdotto Qatar-Turchia, a vantaggio di Iran-Iraq-Siria (per il quale era stato firmato un memorandum d’intesa).

Ne era seguita una feroce e concertata campagna “Assad deve andarsene”: la guerra per procura come strada per il cambio di regime.

 La situazione era peggiorata esponenzialmente con la strumentalizzazione dell’ISIS – un altro capitolo della guerra del terrore (corsivo mio).

 La Russia aveva bloccato l’ISIS, impedendo così un cambio di regime a Damasco.

 Il gasdotto favorito dall’”Impero del Caos” aveva morso la polvere.

Ora l’Impero si è finalmente vendicato, facendo esplodere i gasdotti esistenti – Nord Stream (NS) e Nord Steam 2 (NS2) – che trasportavano o stavano per trasportare il gas russo ad un importante concorrente economico dell’Impero: l’UE.

Ormai sappiamo tutti che la condotta B di NS2 non è stata bombardata, né perforata, ed è pronta a partire.

 Riparare le altre tre linee danneggiate non sarebbe un problema: una questione di due mesi, secondo gli ingegneri navali. L’acciaio dei Nord Stream è più spesso di quello delle navi moderne. Gazprom si è offerta di ripararle, a patto che gli Europei si comportino da adulti e accettino severe condizioni di sicurezza.

Sappiamo tutti che questo non accadrà. Nulla di tutto ciò viene discusso dai media della NATO.

Ciò significa che il “Piano A dei soliti sospetti” rimane in vigore:

creare una voluta carenza di gas naturale che porti alla deindustrializzazione dell’Europa, il tutto come parte del “Grande Reset”, ribattezzato “La Grande Narrazione.”

Nel frattempo, il “Muppet Show “dell’UE sta discutendo il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia.

La Svezia si rifiuta di condividere con la Russia i risultati della losca “indagine” intra-NATO su chi ha fatto esplodere i Nord Stream.

Alla Settimana dell’energia russa, il Presidente Putin ha riassunto i fatti.

L’Europa incolpa la Russia per l’affidabilità delle sue forniture energetiche, anche se riceveva l’intero volume acquistato in base a contratti fissi.

Gli “orchestratori degli attacchi terroristici del Nord Stream sono coloro che ne traggono profitto.”

La riparazione delle condotte del Nord Stream “avrebbe senso solo nel caso in cui ne fossero garantiti il funzionamento e la sicurezza.”

L’acquisto di gas sul mercato spot causerà una perdita di 300 miliardi di euro per l’Europa.

L’aumento dei prezzi dell’energia non è dovuto all’”Operazione Militare Speciale” (OMS), ma alle politiche dell’Occidente.

Tuttavia, lo spettacolo dei “Dead Can Dance” deve continuare.

 Mentre l’UE si vieta da sola di acquistare energia dalla Russia, l’eurocrazia di Bruxelles aumenta il suo debito con il casinò finanziario.

I padroni imperiali ridono a crepapelle per questa forma di collettivismo, mentre continuano a trarre profitto utilizzando i mercati finanziari per saccheggiare e depredare intere nazioni.

Il che ci porta al punto cruciale:

 gli psicopatici straussiani/neo-conservatori che controllano la politica estera di Washington potrebbero – e la parola chiave è “potrebbero” – smettere di armare Kiev e avviare negoziati con Mosca solo dopo che i loro principali concorrenti industriali in Europa saranno falliti.

Ma anche questo non sarebbe sufficiente, perché uno dei principali mandati “invisibili” della NATO è quello di capitalizzare, con qualsiasi mezzo, le risorse alimentari della steppa pontico-caspica:

stiamo parlando di 1 milione di km2 di produzione alimentare, dalla Bulgaria fino alla Russia.

Judo a Kharkov,

 

La SMO si è rapidamente trasformata in una CTO (Counter-Terrorist Operation) “soft”, anche senza un annuncio ufficiale.

L’approccio senza fronzoli del nuovo comandante generale con piena carta bianca dal Cremlino, il generale Surovikin, alias “Armageddon,” parla da sé.

Non c’è assolutamente nulla che indichi una sconfitta russa lungo gli oltre 1.000 km del fronte.

La “ritirata da Kharkov” potrebbe essere stata un colpo da maestro:

 la prima fase di una mossa di judo che, ammantata di legalità, si è sviluppata in pieno dopo il bombardamento terroristico di Krymskiy Most – il ponte di Crimea.

Guardiamo alla ritirata da Kharkov come ad una trappola – come ad una finta dimostrazione di “debolezza” da parte di Mosca.

Questo ha portato le forze di Kiev – in realtà i loro referenti della NATO – a gongolare per la “fuga” della Russia, ad abbandonare ogni cautela e a darsi da fare, avviando persino una spirale di terrore, dall’assassinio di Darya Dugina al tentativo di distruzione del Krymskiy Most.

In termini di opinione pubblica del Sud globale, è già stato stabilito che il “Daily Morning Missile Show “del generale Armageddon è una risposta legale (corsivo mio) ad uno Stato terrorista.

 Putin potrebbe aver sacrificato (solo per un po’) un pezzo della scacchiera – Kharkov: dopo tutto, il mandato dell’OMU non è quello di non perdere terreno, ma di smilitarizzare l’Ucraina.

Mosca ha persino vinto dopo Kharkov: tutto l’equipaggiamento militare ucraino accumulato nell’area è stato lanciato in continue offensive, con l’unico risultato di impegnare l’esercito russo in un tiro al bersaglio senza sosta.

E poi c’è il vero colpo di scena: Kharkov ha messo in moto una serie di mosse che hanno permesso a Putin di dare scacco matto, attraverso una CTO “soft”, ma pesante di missili, riducendo l’Occidente collettivo ad un branco di polli senza testa.

Parallelamente, i soliti sospetti continuano a girare senza sosta la loro nuova “narrativa” nucleare.

Il Ministro degli Esteri Lavrov è stato costretto a ripetere ad nauseam che, secondo la dottrina nucleare russa, un attacco nucleare può avvenire solo in risposta ad un’offensiva “che metta in pericolo l’intera esistenza della Federazione Russa.”

 

L’obiettivo degli psicopatici assassini di Washington – nei loro sogni erotici – è quello di indurre Mosca ad usare le armi nucleari tattiche sul campo di battaglia.

Questo è stato un altro fattore che aveva spinto ad affrettare i tempi dell’attacco terroristico al ponte di Crimea, dopo che i piani dell’intelligence britannica erano stati elaborati da mesi.

Tutto ciò si è risolto in un nulla di fatto.

La macchina isterica della propaganda straussiana/neoconservatrice sta freneticamente, preventivamente, attaccando Putin: è “messo all’angolo,” sta “perdendo,” sta “diventando disperato” e quindi lancerà un’offensiva nucleare.

Non c’è da stupirsi che l’orologio del giorno del giudizio, creato dal “Bulletin of the Atomic Scientists “nel 1947, sia ora posizionato a soli 100 secondi dalla mezzanotte.

 Proprio “alle porte dell’Apocalisse.”

Ecco dove ci sta portando un gruppo di ricchi psicopatici americani.

La vita alle porte dell’Apocalisse.

Mentre l’Impero del Caos, della Menzogna e del Saccheggio è pietrificato dal sorprendente doppio fallimento di un massiccio attacco economico/militare, Mosca si sta sistematicamente preparando per la prossima offensiva militare.

Allo stato attuale, è chiaro che l’asse anglo-americano non negozierà.

Non ci ha mai provato negli ultimi 8 anni e non ha intenzione di cambiare rotta adesso, nemmeno incitato da un coro angelico che va da Elon Musk a Papa Francesco.

 

Invece di fare come Tamerlano e accumulare una piramide di teschi ucraini, Putin ha invocato “eoni” di pazienza taoista per evitare soluzioni militari.

Il Terrore sul ponte di Crimea potrebbe aver cambiato le carte in tavola.

Ma i guanti di velluto non sono stati tolti del tutto: La routine aerea quotidiana del generale Armageddon può ancora essere vista come un avvertimento – relativamente educato.

Anche nel suo ultimo, storico discorso, che conteneva un duro atto d’accusa contro l’Occidente, Putin ha chiarito di essere sempre aperto ai negoziati.

Tuttavia, Putin e il Consiglio di Sicurezza sanno bene perché gli Americani non possono negoziare.

L’Ucraina sarà anche solo una pedina del loro gioco, ma è pur sempre uno dei nodi geopolitici chiave dell’Eurasia: chi la controlla, gode di una maggiore profondità strategica.

I Russi sanno bene che i soliti sospetti sono ossessionati dall’idea di mandare all’aria il complesso processo di integrazione dell’Eurasia, a partire dalla BRI cinese.

Non c’è da stupirsi che importanti istanze di potere a Pechino siano “a disagio” con la guerra.

Perché questo è molto negativo per gli affari tra la Cina e l’Europa attraverso diversi corridoi trans-eurasiatici.

Putin e il Consiglio di Sicurezza russo sanno anche che la NATO ha abbandonato l’Afghanistan – un fallimento assolutamente miserabile – per puntare tutto sull’Ucraina. Quindi, perdere sia Kabul che Kiev sarebbe il colpo mortale definitivo: ciò significherebbe lasciare il XXI secolo eurasiatico tutto a favore del partenariato strategico Russia-Cina-Iran.

I sabotaggi – dai Nord Streams al Krymskiy Most – fanno capire il gioco della disperazione.

Gli arsenali della NATO sono praticamente vuoti.

 Ciò che resta è una guerra del terrore: la sirianizzazione, anzi l’ISIS-izzazione del campo di battaglia.

Gestita da una NATO cerebralmente morta, combattuta sul terreno da un’orda di carne da cannone con in più mercenari provenienti da almeno 34 nazioni.

Mosca potrebbe quindi essere costretta ad andare fino in fondo – come ha rivelato il sempre freddo Dmitry Medvedev:

 ora si tratta di eliminare un regime terroristico, smantellare totalmente il suo apparato politico-sicurezza e poi facilitare l’emergere di un’entità diversa.

 E se la NATO continuerà a bloccarla, lo scontro diretto sarà inevitabile.

La sottile linea rossa della NATO è che non può permettersi di perdere sia Kabul che Kiev.

Eppure ci sono voluti due attentati terroristici – in Pipelineistan e in Crimea – per imprimere una linea rossa molto più netta e bruciante:

la Russia non permetterà all’Impero di controllare l’Ucraina, costi quel che costi.

Questo è intrinsecamente legato al futuro del Partenariato della Grande Eurasia. Benvenuti nella vita alle porte dell’Apocalisse.

(strategic-culture.org) (strategic-culture.org/news/2022/10/12/the-thin-red-line-nato-cant-afford-to-lose-kabul-and-kiev/)

Attacco all'Eurasia.

Ereticamente42.rssing.com - Umberto Bianchi – (17 marzo 2022) – ci dice:

 

Come d'improvviso, la nostrana opinione pubblica assieme a quelle di mezza Europa, sembra essersi dimenticata del famigerato Covid.

I dati sulla pandemia vengono oramai frettolosamente e disinteressatamente snocciolati, l'emergenza sanitaria sembra squagliarsi dinnanzi all'avvicinarsi di una stentata stagione primaverile…

Fine dello stato d'emergenza dunque?

Fine delle paure e ritorno ad una sia pur difficile, normalità? Manco per nulla. Parafrasando un antico detto: “morta un'emergenza se ne fa un'altra”. E così, con una sollecitudine senza precedenti, i nostri non-eletti governanti ci hanno amorevolmente trasbordato verso un'altra ed ancor più esiziale emergenza: quella bellica.

L'Italietta del peloso buonismo, l'Italietta paci finta e così lesta nel condannar le altrui magagne, quell'Italietta sempre pronta ad incensare e magnificare “la Costituzione più bella del mondo”, ebbene quell'Italietta si è, d'improvviso trasformata in un paese dal cipiglio serioso ed aggressivo, animato da un linguaggio politico becero e massimalista.

 Erettasi a paladino delle (altrui…) libertà, senza badar a cavilli, distinguo, dettati giuridico-istituzionali, considerati ormai alla stregua di oggetti da anticaglia, la nostra Italietta ha deciso di mostrare i muscoli, tirando fuori fior di quattrini per fornir armi al regime-fantoccio di Zelenski ed al contempo, spalancando le porte (ed i cordoni della borsa...) ad un afflusso di migranti senza precedenti, dalle zone del conflitto.

Il tutto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ad una classe politica totalmente asservita ai diktat di un mainstream eterodiretto da Oltreoceano, ma anche per mostrare di non aver rinunciato al proprio volto buono, anzi buonista, facendo incetta di futuri cittadini italiani , sicuramente destinati ad ingrossare la fila del mercato di esseri umani, destinati a lavoro servile, prostituzione e criminalità.

In tutto questo, la cosa che lascia maggiormente stupiti, è la criminale idiozia con cui l'Europa tutta e l'Italia in particolare, si stanno avviando alla propria cosciente, autodistruzione.

Alla base di tutto questo sta un particolare, forse sfuggito ad una pubblica opinione tratta dai propri conati di buonismo, ovverosia che a nessuno è mai e poi mai, venuta l'idea di chiedere alla Federazione Russa,

in merito.

Eppure, se andiamo a ben vedere, la Russia, dal punto di vista geopolitico e geoeconomico, riveste un'importanza che né l'Ucraina, né i piccoli stati baltici, né altri attori dell'Europa orientale, rivestono.

La Russia si estende su una superficie che ricopre una bella porzione del nostro pianeta, è caratterizzata da immensi spazi e da numerose risorse naturali.

Con l'Italia, in particolare, il grande paese vanta una consolidata tradizione di fiorente interscambio economico e commerciale, nel quale rientrano anche, quelle forniture di gas, di cui oggi tanto si parla.

Non solo. La Federazione Russa rappresenta un vero e proprio ponte geostrategico tra Europa ed Asia, un suo ingresso nella Comunità Europea, avrebbe rappresentato un grandioso rafforzamento di quest'ultima, nella veste di vero e proprio blocco continentale.

 

Ed invece cosa ti fa, la tremebonda Europa di Bruxelles?

Senza esitazione alcuna, cerca di cooptare tra le proprie fila, tutta una serie di paesi alla Russia limitrofi, nell'ambito di quella che, senza troppi eufemismi, altri non è che un'a manovra di accerchiamento del grande paese.

Alla base di tutto questo vi sono, fondamentalmente due motivi, strettamente interrelati.

 Il primo, di ordine più immediato, riguarda la ragion d'essere dei vari gasdotti, colleganti la Russia al resto d'Europa e che gli Usa hanno sempre visto come un pugno nello stomaco ai propri interessi geoeconomici.

Pertanto, la recente e masochistica mossa tedesca di chiudere i rubinetti del gasdotto “nord stream”, è stata vista dall'amministrazione Usa come una vera e propria manna dal cielo, un viatico ad una massiccia esportazione del gas americano verso l'Europa,

Il secondo motivo, di ordine più generale, rientra in una più generale impostazione geopolitica e geostrategica, che vede il ripetersi di quello che sembra essere una costante della storia occidentale da quattro secoli a questa parte.

Il tentativo da parte delle potenze “talassocratiche”, Gran Bretagna prima e Stati Uniti poi, di esercitare un diretto dominio sul “kontinentalblock” eurasiatico, ovverosia su quell'immenso continuum continentale, che va dall'Irlanda a Vladivostock, denso di popoli, cultura e tradizioni che, senza timore, si può tranquillamente affermare, hanno letteralmente dato luce al mondo.

 Dall'assalto ai galeoni spagnoli che, dalle Americhe servivano carichi d'oro, con la pirateria dei vari Sir Francis Drake, passando per l'attacco all'impero napoleonico, sino all'eliminazione degli Imperi Centrali e poi successivamente.

Nello specifico, gli Usa nell'ordine mondiale bipolare, venutisi a prendere nell'immediato dopoguerra, hanno potuto consolidare le proprie posizioni ed il proprio modello socio-economico, (quello liberal capitalista), a discapito di un sempre più obsoleto e sclerotizzato modello sovietico .

La stessa caduta del Muro di Berlino, sembrava aver spalancato le porte a quella definizione che, Francis Fukuyama avrebbe “la fine della Storia”, ovverosia l'uniformazione dell’intero orbo terracqueo al modello liberista capitanato dagli Usa che avrebbe, pertanto, determinato la fine di qualunque competizione geopolitica o geostrategica che dir si voglia.

Invece, l'emergere di nuove realtà come la Cina, nel ruolo di “competitors” nei riguardi degli Usa, accompagnati dalla rinascita del ruolo di potenza continentale della Russia, ora non più sospinta da una stantia ideologia bolscevica ma, piuttosto da uno spirito che ci riporta con la memoria ad autori slavofili come Nicolaj Sergeevič Trubeckoj (1890-1938) e Lev Gumilëv (1912-1992).

 Fautori questi ultimi, di un acceso eurasismo, proprio in contrapposizione allo “smaccato atlantismo” di quei gruppi di potere finanziario, strettamente legati alla potenza talassocratica Usa.

 E pretesto migliore non poteva venire se non dall'annosa questione ucraina e dal suo passaggio, da una politica estera di neutralità ad un riposizionamento smaccatamente filo globalista, espresso dal desiderio di fare il proprio ingresso nella Nato.

Il che, avrebbe significato una forma di minaccia e di condizionamento geostrategico, da potersi esercitare in qualsiasi momento, nei confronti della Federazione Russa, verso la quale è da sempre esistito da parte del mondo “occidentale” un atteggiamento di snobistica demonizzazione.

Quello che dovrebbe essere un rapporto di proficuo partenariato tra est ed ovest dell'Eurasia, quello che poteva trasformarsi un'importante area di influenza sulle scelte di geopolitiche ed economiche a livello globale, è stata, invece, trasformata in un'area di frizione e scontro tra due realtà che, da questo scontro, usciranno solamente più indebolite.

Il tutto, a vantaggio della potenza Usa e dei centri di potere finanziario ad essi collegati.

L'intera vicenda è poi condita da una quanto mai faziosa ed narrazione unidirezionale, che vede nell'Ucraina l'unica, innocente, vittima sacrificale, dimenticando che, dal 2014 in poi, anno del colpo di mano filo occidentale a Kiev, le regioni russofone del Donbass e del Donetsk sono state sottoposte da parte del regime ucraino, ad un vero e proprio genocidio, con tanto di bombardamenti al fosforo ed altre consimili amenità, che si stima abbiano portato a ben 18.000 morti tra la popolazione civile di quelle zone.

Ora, chiarito il quadro, l'intervento militare russo assume ben altra valenza, rispetto a quella offertaci dai media embedded. Non di aggressione, bensì di un quanto mai disperato tentativo di uscire dall'accerchiamento Nato, si tratta.

 Tant'è che, una delle precondizioni poste da Putin all'esecutivo ucraino, era proprio quella della neutralità.

Precondizione che, nelle ultime ore, sembra esser stata accettata dalla Presidenza Zelenski, nel nome di una mossa dalla forte carica mediatica e propagandistica ed anche, molto probabilmente, visto l'elevato costo in termini di distruzioni e vittime che, la resistenza alle truppe russe sta comportando.

Il disegno globalista va facendosi sempre più palese, in tutti i suoi risvolti.

 Lo stato di emergenza globale sanitaria prima, ora quello per gli eventi bellici ucraini, fanno parte di un unico disegno volto a comprimere ed intimidire le opinioni pubbliche occidentali, al fine di aver le mani slegate, per infliggere il colpo finale all'ultimo ostacolo rimasto, al progetto di dominio su scala globale di Lor Signori: la Federazione Russa.

 In tutto questo, forte permane lo sconcerto, di fronte alla miopia ed alla malafede di una classe politica imbelle che, priva di qualsiasi forma di legittimazione popolare e totalmente asservita ad interessi ben lontani da quelli della gente, sta portando avanti una vera e propria tabella di marcia “contra Salus populi”.

A questo punto, di fronte ad aumenti di prezzi, criticità, crisi economiche e conseguente generale immiserimento, a fare la differenza, sarà l'esasperazione popolare.

 Quali che siano, le modalità e quali i tempi perché questo avvenga, è difficile dirlo, ma stiamo già sulla strada giusta.

 Il malcontento e la coscienza di quanto sta accadendo, sono oggi, più che mai, presentabili a livello epidermico, tra la gente.

Quella gente della quale, Lor Signori, si sono dimenticati ed alla quale registrati, prima o poi, pagano un prezzo salato.

(UMBERTO BIANCHI)

 

 

 

L’ossessione di Putin per l’Ucraina.

Internettuale.com – Redazione – (20-11-2022) – ci dice:

 

Le ragioni per cui il presidente russo Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina per la seconda (e stavolta globale) volta in meno di dieci anni riguardano soprattutto la strategia militare e la geopolitica:

 tra le altre cose Putin vuole impedire l’espansione della NATO in Ucraina (espansione che peraltro la NATO non ha nessuna intenzione di mettere in atto) e limitare la presenza politica e militare dell’Occidente vicino ai confini russi (che invece si è estesa negli ultimi vent’anni).

Un’altra ragione molto citata dallo stesso Putin, e usata soprattutto nella propaganda interna, riguarda la Storia.

Da diversi anni Putin sostiene pubblicamente che russi e ucraini siano «un solo popolo».

 Lo disse nel 2014 in occasione dell’annessione della Crimea, lo ha ripetuto frequentemente durante le interviste e negli interventi pubblici e lo ha spiegato lungamente in un pamphlet pubblicato nel luglio del 2021 e intitolato “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”, in cui Putin scriveva di «credere fermamente» che i due popoli siano «una sola unità».

Un intento palingenetico e panrusso che prende il nome di “Russkij Mir”

(approfondimento più avanti).

 

La convinzione che russi e ucraini siano un solo popolo si esprime anche nella sua conseguenza più evidente: un solo popolo non ha bisogno di due Stati, e chiunque provi a dividerlo sta andando contro la Storia.

Per questo Putin ritiene che la fine dell’Unione Sovietica, che comportò tra le altre cose la separazione tra Russia e Ucraina, abbia avuto come conseguenza la disastrosa «disintegrazione della Russia storica», intendendo con questo che i confini della Russia storicamente intesi dovrebbero comprendere anche il territorio ucraino (e quello della Bielorussia).

Portando poi questo ragionamento alle estreme conseguenze, più e più volte Putin e i suoi alleati politici hanno sostenuto che l’Ucraina «non è nemmeno uno Stato». In un’intervista di qualche tempo fa, Vladislav Surkov, consigliere di Putin sulla questione ucraina poi caduto in disgrazia, disse che l’Ucraina non è una nazione ma «uno stupefacente entusiasmo per l’etnografia, portato agli estremi».

Secondo vari esperti, Putin ha una specie di ossessione nei confronti dell’Ucraina, e quest’ossessione è condivisa con il resto dell’establishment russo che, come ha scritto di recente l’Economist, «non ha mai accettato l’indipendenza» del Paese.

L’ossessione si alimenta di interpretazioni parziali della Storia e teorie sulla formazione etnica dei popoli russo e ucraino, oltre che su pretese imperialistiche che risalgono al periodo sovietico, e in alcuni casi ancora prima, al periodo zarista.

Ma il problema principale, come stiamo vedendo in questi mesi di tensioni militari, e come si vede in realtà ormai da un decennio, è che l’ossessione russa nei confronti dell’Ucraina non è ricambiata.

Nel suo pamphlet, Putin ha scritto che la ragione principale per cui russi e ucraini (e anche i bielorussi) sarebbero oggi lo stesso popolo è che tutti sono «discendenti» del cosiddetto “Rus’ di Kiev”, cioè un insieme di tribù slave, baltiche e finniche che nel IX Secolo creò una lasca entità monarchica che si estendeva dal mare Bianco nel nord al mar Nero nel sud, e che dunque comprendeva parte dell’attuale territorio ucraino, bielorusso e russo.

L’unità del Rus’ di Kiev, consacrata dalla conversione al cristianesimo ortodosso, è per Putin il fondamento della cultura russa che ancora oggi lega assieme i tre popoli. Tutto questo, prima ancora che Mosca fosse fondata.

Molti storici oggi sostengono che questa interpretazione del “Rus’ di Kiev “debba essere considerata un mito.

Non tanto perché il Rus’ di Kiev non abbia avuto un ruolo nelle varie formazioni che sono venute dopo, quanto perché trarre conclusioni politiche da fatti storici avvenuti oltre un millennio fa è piuttosto irragionevole.

Inoltre il Rus’ di Kiev si divise ben presto.

Semplificando molto, fu invaso dai mongoli, che mantennero per qualche secolo il controllo della parte russa, mentre i territori dell’attuale Ucraina furono dominati in vari modi da lituani, polacchi, svedesi e in parte anche dall’impero austroungarico.

La lingua ucraina si sviluppò separatamente da quella russa, e per secoli l’aristocrazia ucraina, soprattutto nella parte occidentale del Paese, rimase legata all’Europa continentale.

Anche quando l’impero zarista conquistò nel XVIII Secolo buona parte dell’attuale territorio ucraino, i programmi di integrazione culturale e linguistica della “piccola Russia” (così era chiamata una parte di territorio ucraino sotto l’impero russo) non ebbero mai pieno successo.

I tentativi di integrazione proseguirono anche dopo la Rivoluzione russa, con risultati alterni.

Non contribuì alla causa russa il fatto che i coltivatori locali furono tra le principali vittime delle disastrose politiche agricole di Stalin, che unite alla repressione all’inizio degli anni Trenta provocarono la morte di milioni di ucraini (le stime variano dai tre ai cinque milioni di persone) e che oggi sono considerate un genocidio da molti ucraini (il famigerato “Holodomor”).

Ciò non significa che i legami storici, culturali e linguistici tra Russia e Ucraina non siano fortissimi:

 oggi la maggior parte degli ucraini è bilingue, e soprattutto nella parte orientale del Paese (quella occupata dalle forze separatiste filo-russe, per non parlare della Crimea, che è stata annessa) la maggior parte degli abitanti ha origine russa e parla il russo come lingua principale.

Questo vale anche per “Volodymyr Zelensky”, il presidente del paese, che viene dalle regioni orientali e, benché sia bilingue, parla il russo più fluentemente dell’ucraino.

Ma, come ha scritto l’Economist, mentre per la maggior parte degli ucraini questi legami e vicinanze fanno parte di un importante patrimonio storico, per i russi sono un elemento identitario: «Per secoli l’Ucraina ha determinato l’identità russa. […] L’idea che Kiev potesse essere soltanto la capitale di uno Stato vicino era impensabile per i russi.

Ma non lo era per gli ucraini».

L’Ucraina è sempre stata al centro dei progetti imperiali russi, e perdere il dominio sul Paese significava, di fatto, rinunciare alla possibilità di un impero.

 

Lo si vide con il crollo dell’Unione Sovietica, il cui scioglimento come entità politica fu deciso definitivamente nella notte dell’8 dicembre 1991 nella dacia di Belaveža, in Bielorussia, dopo un lunghissimo incontro tra il presidente russo Boris Eltsin, quello ucraino Leonid Kravchuk e quello bielorusso Stanislav Shushkevich.

 In quel periodo, l’economia russa era al collasso e fu Eltsin a farsi promotore, benché riluttante, della dissoluzione dell’Unione Sovietica, con l’obiettivo di concentrarsi soltanto sulla Russia, sganciare i pesi morti delle altre repubbliche e l’onere delle ambizioni imperiali sovietiche.

La decisione di dissolvere l’Unione Sovietica e rinunciare a ogni forma di controllo ufficiale su Ucraina e Bielorussa fu estremamente complessa, non soltanto perché l’Ucraina era la seconda economia dell’Unione e conservava sul suo territorio abbastanza testate nucleari da essere la terza potenza mondiale in questo settore (la questione poi fu risolta con l’accordo di Budapest del 1994).

 Quando Mikhail Gorbacëv, che era ancora presidente dell’Unione Sovietica, seppe della decisione di Eltsin, si infuriò, tra le altre cose perché sua madre era ucraina, e lui stesso aveva trascorso l’infanzia immerso nella cultura ucraina: rinunciare all’Ucraina significava rinunciare a un pezzo di identità.

In quel periodo Aleksandr Solženicyn, uno degli intellettuali russi più influenti del Novecento, aveva da poco pubblicato un saggio intitolato “Come ricostruire la nostra Russia” in cui, tra le altre cose, esortava l’Unione Sovietica a concedere l’indipendenza alle repubbliche sovietiche non slave (cioè quelle dell’Asia centrale), e a costruire un grande Stato slavo che comprendesse Russia, Ucraina, Bielorussia e parte del Kazakistan.

E se questo non fosse stato possibile, in ogni caso i legami tra i popoli slavi e russificati avrebbero dovuto essere mantenuti a ogni costo. Anche Aleksandr Solženicyn, come Putin e altri, citava tra le ragioni di questa unione il “Rus’ di Kiev” e la religione ortodossa, tra le altre cose.

Negli ultimi anni la Russia di Putin è intervenuta in tutti i paesi citati da Solženicyn, attraverso azioni militari o inviando aiuti ai dittatori locali.

Ma appunto, il problema principale di quest’ossessione russa per l’Ucraina è che non è ricambiata.

Già da decenni l’Ucraina e la sua società gravitano verso l’Europa e l’Occidente. Con l’accordo di Budapest del 1994, l’Ucraina accettò di consegnare tutte le sue armi nucleari in cambio della garanzia che la Russia avrebbe rispettato i suoi confini (promessa rimangiata due decenni dopo).

Nel 2004 la “rivoluzione arancione”, in difesa della vittoria elettorale del candidato filo europeo Viktor Yushenko, fu per Putin il primo allarme del fatto che rischiava di perdere la sua influenza sull’Ucraina, confermato poi dalle proteste di Kiev del 2014, che sfociarono nella tesa situazione attuale.

Oggi, il 90% degli ucraini vuole che il Paese resti indipendente, e il 75% vorrebbe entrare nell’Unione Europea.

 Perfino nella parte orientale del Paese, il famoso Donbass, dove buona parte della popolazione ha origini russe, quasi il 60% degli abitanti vorrebbe entrare nell’Unione.

E come ha detto la giornalista ucraina Nataliya Gumenyuk al New Yorker, per il regime di Vladimir Putin non costituisce una minaccia soltanto l’indipendenza dell’Ucraina, ma anche la sua libertà e democrazia, benché imperfette:

«Putin si sente offeso e tradito dall’Ucraina e dagli ucraini, non soltanto dal governo ucraino. E penso che per lui sia piuttosto importante provare che no, la democrazia in Ucraina non è davvero genuina, che è stata imposta dall’Occidente. Perché ammettere che le società possono essere democratiche autonomamente significa ammettere che il cambiamento è possibile in Bielorussia, in Georgia e perfino in Russia».

Le letture euroasianiste/cristianortodosse di Vladimir.

Per capire la visione putiniana è esemplare un’opera architettonica inaugurata nel 2020:

la Cattedrale delle forze Armate Russe a Kubinka, settanta chilometri da Mosca.

 La cattedrale è di color cachi, come il colore dell’uniforme dell’Armata Rossa.

 Il pavimento è costruito con la lega dei carri armati nazisti rimasti sul suolo russo dopo la vittoria contro la Germania nella Seconda Guerra Mondiale (che in Russia chiamano in un altro modo: “Grande Guerra Patriottica”).

Sulle pareti della cattedrale i soldati russi sono raffigurati accanto ai santi cristiani: non solo le truppe che hanno combattuto e vinto i nazisti, ma anche quelle che hanno invaso l’Ungheria, la Cecoslovacchia, l’Afghanistan, e, più di recente, hanno combattuto in Cecenia, in Georgia e, ancora, in Siria, tutte guerre sacralizzate.

 Un recupero della dimensione bellica del cristianesimo, la stessa che dominava in Europa all’epoca delle Crociate.

Da quando alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, nel 2007, si scagliò apertamente contro gli Stati Uniti e quelli che considera i suoi vassalli, gli europei, Putin ha affiancato alla politica una dimensione pienamente culturale, in una veste chiaramente ideologica.

Le sue nemiche sono le «tre vergogne»: democrazia, ecumenismo e globalizzazione.

In quello stesso anno dichiarò davanti alla Duma: «Vorrei che tutti capissero che i prossimi anni saranno decisivi. Ci sarà una grande battaglia tra chi guiderà il mondo e chi ne rimarrà alla periferia. Il risultato non dipenderà dalle potenzialità economiche, ma dalla volontà di ogni nazione, dalla sua energia interiore, ciò che Lev Gumilëv chiamava passionarnost:

 la capacità di spingersi oltre e imbracciare il cambiamento».

Gumilëv era uno studioso delle civiltà centroasiatiche, figlio di due importanti dissidenti del comunismo:

Nikolaj Gumilëv, ucciso dai bolscevichi nel 1921 e l’indimenticabile poetessa Anna Achmatova.

 Arrestato nel 1935, durante gli anni del terrore staliniano, Gumilëv fu rinchiuso in un campo di lavoro nel 1938.

Mentre vedeva i suoi compagni di prigionia morire di fatica oppure uccisi dal freddo, scavando accanto a loro il Canale del Mar Bianco, entrò in contatto, racconta, con una dimensione non razionale della Storia che guida i popoli.

Nella sua opera principale, “Etnogenesi e biosfera della Terra”, Gumilëv parla della “capacità di soffrire” e del “sacrificio” come segno innegabile della grandezza.

La “passionarnost”, appunto. E ben prima di Aleksandr Dugin, individuò lo spazio geografico e spirituale dell’Eurasia, un luogo che naturalmente si oppone al progresso e alla ragione che vengono dall’Europa e gli Stati Uniti.

Nella mente di Putin l’Occidente è irreparabilmente compromesso nei valori, in preda alla corruzione morale.

Dal punto di vista di Putin, l’instaurazione di un regime democratico a Kiev è una minaccia all’integrità della Russia, data la vicinanza non solo geografica ma culturale di quel Paese alla Russia, come se attraverso le porte dell’Ucraina potesse entrare in Russia il veleno della decadenza occidentale.

Secondo Putin, «la democrazia è un regime estraneo alla civiltà russa».

La sua concezione del potere è imperniata sulla stabilità, l’unica condizione che permette a un sovrano di occuparsi del destino di un popolo, trascurando le trivialità del governo.

Ma se il regime dell’alternanza funzionasse in Ucraina, data la fraternità dei due popoli, dimostrerebbe che esso non è affatto incompatibile con la Russia.

E questo minerebbe l’intera costruzione dell’alterità russa.

 

Il “Russkij Mir” e gli altri deliri pseudostorici.

È la domanda che tutto il mondo si pone con grande curiosità: «cosa passa nella testa di Putin?».

 Qual è il vero scopo dei suoi discorsi intimidatori alla televisione, pieni di incoerenze?

Per cercare di scoprirlo, può essere utile affidarsi alle analisi dei politologi, con le loro fonti colte e il loro metodo efficace.

 Ed è validissimo pure l’approccio storico-biografico, cerebrale, di matrice psicanalitica, che si concentra sull’analisi del suo linguaggio.

In tal modo si evidenziano persino le parentele del suo vocabolario con il lessico del Terzo Reich.

Basti notare che il leader russo, parlando di “soluzione finale” della questione ucraina, ha auspicato una okonchatelnoe reshenie (equivalente russo dell’Endloesung tedesco), richiamando proprio la “soluzione finale” prospettata dai nazisti contro gli ebrei a partire dalla Conferenza di Wannsee del 1942 (e poi i nazisti sarebbero in Ucraina…).

C’è però un’altra via, abbastanza inedita, per cercare di comprendere i recenti avvenimenti.

 Si tratta di recuperare nel substrato storico-antropologico e di analizzare alcuni concetti del pensiero post-sovietico, come la nozione di “Universo russo” (Russkij Mir), utili ad aggiungere un elemento nuovo al dibattito culturale.

Per esempio, emerge che la politica di Putin si appoggia su specifiche formulazioni pseudostoriche come la “Nuova Cronologia”:

una corrente di pensiero sconosciuta agli europei, ma estremamente popolare in Russia, nonostante le evidenti stranezze che presenta (o forse proprio per queste).

Analizzando nel dettaglio queste tendenze di pensiero, scopriremo il lato irrazionale della mentalità dello stesso leader russo e potremo ragionare sui suoi legami con un certo “assolutismo magico”.

Ci troveremo a muoverci tra invenzioni storiografiche, falsificazioni, cospiratori di regime e personaggi che sembrano usciti da uno dei romanzi d’appendice tanto cari a Umberto Eco — a tal proposito, non si può non pensare a romanzi come Il “pendolo di Foucault e Il cimitero di Praga”, costruiti proprio sulla contraffazione della Storia.

Da anni gli analisti osservano come Putin sia vicino a una ideologia molto attuale in Russia che si basa su una corrente filosofica nota come Noomachia (“Guerra tra civiltà”) e sulla dottrina politica già citata di Russkij Mir (“universo russo”). Quest’ultimo termine è stato scelto per definire l’utopia di uno Stato ideale che unisca tutti i territori nei quali vivono, o hanno vissuto, etnie russe.

Ivi comprese le terre dove vissero in tempi remoti, nell’era della mitica “civiltà primordiale slava”.

 È da qui che ha origine l’ossessione dei russi per la penisola di Crimea: secondo il concetto di “Russkij Mir”, le terre “ancestrali slave” prima o poi si concentreranno attorno alla poderosa Terza Roma, ossia Mosca, seguendo la profezia del mitico eremita Filoteo (1533 d.C.).

Per comporre i pezzi di questa Russia ideale, bisogna che nasca un superuomo, un moderno Messia.

Un canone arcano gli impone, prima di agire, di aspettare la data fatale: il momento in cui sarà finita una grande peste, la Morte Nera che falcerà i popoli, come indicato nell’Apocalisse.

 A quel punto la messe sarà pronta.

Il “Raccoglitore di tutte le terre russe” è l’appellativo che spetta al mitico condottiero, consacrato a ciò che nel suo ambiente è noto come “il Piano”.

Parlando ai giornalisti, nel corso di una conferenza stampa con Olaf Scholz il 15 febbraio 2022, Putin malignamente profetizzò enigmatico: «Tutto procederà secondo il Piano».

Alla domanda sulla consistenza del Piano si rifiutò di rispondere, tuttavia ribadì con insistenza: «Il Piano, noi sappiamo qual è».

Nel suo successivo discorso rivolto alla nazione russa ha poi ribadito: «Noi procediamo secondo il Piano».

(Il Piano, come possiamo vedere oggi, a quanto pare prevedeva bombardamenti di civili; prevedeva migliaia di orfani, vedove, incendi, bambini uccisi; prevedeva braccia e gambe strappate ai giovani soldati russi freschi di leva; prevedeva che la centrale atomica di Zaporizhia si trasformasse in una bomba a orologeria, che le scorie atomiche di Chernobyl fossero minacciate dai colpi dei razzi, che gli abitanti dell’Europa divenissero ostaggi dei ricatti energetici…)

La citata “Nuova Cronologia” non viene fuori dal nulla ma ha dietro l’ennesimo ideologo:

 è stata teorizzata dal professor Anatolij Fomenko.

Fomenko (qui il suo profilo Wikipedia) parte da una fantasiosa supposizione secondo la quale tutta la storia umana sarebbe stata falsificata a bella posta nel XVI Secolo da cronisti europei capeggiati da Joseph Justus Scaliger, italianizzato in Giuseppe Giusto Scaligero (1540–1609, storico, scrittore e umanista francese di origine italiana, inventore del giorno giuliano).

Per “falsificata” si intende proprio materialmente: sarebbero stati rimpiazzati tutti i libri in tutte le biblioteche del mondo, mettendo al loro posto «libri falsi, prodotti da conoscitori della calligrafia antica, con l’utilizzo di pergamene invecchiate e di inchiostri diluiti per farli sembrare pallidi, con l’apposizione di sigilli contraffatti» (!).

Astutamente, i regnanti di quell’Occidente chiassoso e frammentato si sarebbero messi in combutta con i Romanov, una «dinastia di veri impostori e falsari di stirpe tedesca», e con la loro complicità sarebbero riusciti a falsificare i libri di Storia, cancellando il glorioso passato dei russi.

In tal modo «fu inculcato ai russi un complesso di inferiorità» che segnò da allora in poi tutti gli eventi della Storia moderna.

Ora è arrivato il tempo di «ripristinare la giustizia e porre fine all’umiliazione storica del grande popolo russo». E incombe la minaccia che questa delirante “cronologia” possa persino entrare a fare parte dei programmi di studio della scuola dell’obbligo nella Federazione Russa.

Storia e struttura del “putinismo”.

Ci sono un luogo e una data di nascita del putinismo, sistema di potere di incerta natura, eppure candidato a sopravvivere al suo demiurgo:

 Lubjanka, quartiere generale del Servizio federale di sicurezza (FSB), agosto 1998. È allora che Vladimir Vladimirovič Putin, appena nominato capo dell’intelligence russa, comincia a piazzare ai piani alti del Servizio amici, colleghi, sodali trasferiti a Mosca dalla natia San Pietroburgo.

Molti sono lì ancora oggi, alcuni nella cerchia più stretta del presidente russo, centro di quella galassia che da oltre un ventennio si allarga, si contrae, perde pianeti e altri ne acquisisce.

Il putinismo è dinamico, materia plasmata nel tempo, con forme e contenuti in continuo movimento.

La salvezza dello Stato e la difesa dei suoi interessi sono da sempre la costante, corredata di mutevoli obiettivi e strumenti per perseguirli.

Putin arriva al potere sulla scia del caos degli anni Novanta, scelto da una cupola di oligarchi a cui serve un successore di Boris Eltsin, abbastanza malleabile da cambiare tutto per non cambiare niente e lasciarli quindi padroni del Cremlino.

Il prescelto si rivela però tutt’altro che mansueto.

 Putin si rivolta contro i suoi mandatari, espelle dal sistema chi non si sottomette, inserisce nei gangli del potere un esercito di amici e sodali dei tempi del KGB: fedeltà prima di tutto.

 Chi sottoscrive resta libero di fare più o meno quello che vuole.

L’unico comandamento che non ammette deroghe riguarda lo Stato, che deve tornare solido dentro per poter pesare fuori dai propri confini.

Il paradigma dell’organizzazione gerarchica è cambiato molto da quando Putin è entrato al Cremlino, Capodanno 2000.

 In principio c’era la “democrazia gestita”, con lo Stato, ovvero il nuovo capo, a decidere quando le regole democratiche potevano funzionare o invece serviva un’aggiustata.

Regime manuale, democrazia amministrata nell’accezione scelta dall’allora consigliere “Gleb Olegovič Pavlovskij”, lo stesso che coniò la dicitura “sistema Putin” per indicare il complesso mondo del potere putiniano.

I presupposti per la guida automatica verranno costruiti nel tempo.

Il “sistema” di inizio anni Duemila aveva una sua forma di pluralismo.

Vi erano rappresentati i tecnocrati liberal difensori delle riforme economiche e aperti all’Occidente, figure come Anatolij Čubajs, regista delle privatizzazioni degli anni Novanta sopravvissuto a ogni cambio di stagione (fino all’invasione dell’Ucraina, che lo ha convinto a espatriare).

C’erano gli “intellettuali” di San Pietroburgo, economisti, avvocati che credevano nel futuro europeo della Russia, nello Stato di diritto, nella società civile.

 Come i liberali, ammettevano che il cammino sarebbe stato lungo. Nel frattempo il Paese andava “gestito”.

E c’erano naturalmente i Siloviki, gli uomini degli apparati della forza, fautori dello Stato accentrato e controllore dell’economia dopo l’espulsione degli oligarchi degli anni Novanta e l’installazione dei nuovi magnati putiniani.

 I Siloviki della prima ora erano accomunati dal passato nel KGB o sulle rive della Neva.

Col tempo sono arrivati altri uomini forti da altre esperienze e regioni, ma lo spirito di corpo non è mutato:

tutti d’accordo che la missione della classe dirigente sia quella di riportare la Russia allo status di potenza, possibilmente “super”.

Con quale forma di governo, con quali istituzioni è sempre stata questione secondaria per i cekisti.

 E Putin è cekista in capo da oltre un ventennio.

[Il termine “čekist” viene usato comunemente per indicare gli agenti dei servizi russi. Deriva da Čeka (Črezvyčajnaja Kommissija), la “Commissione speciale per la lotta alla controrivoluzione e il sabotaggio presso il Consiglio dei commissari della Federazione Russa sovietica” che fu il primo organo di polizia sovietico, voluto da Lenin nel 1917.]

Gleb Pavlovskij e Anatolij Čubajs.

Tra il 2003 e il 2005, quando le “rivoluzioni colorate” accerchiano la Federazione Russa, il cambio manuale non basta più.

Le proteste di piazza stravolgono scena politica ed equilibri geopolitici in Ucraina, Georgia, Kirghizistan, per un soffio non segue l’Uzbekistan.

A Mosca si vede la mano americana.

L’alchimista politico del Cremlino, Vladislav Surkov, lancia la “democrazia sovrana”, teoria secondo cui la Russia debba seguire una via che tenga conto delle sue specificità e non seguire i dettami occidentali.

Quindi basta con le ricette imposte dall’esterno durante gli anni eltsiniani, quando non c’erano le forze per opporsi.

Il nuovo modello sa in realtà di antico, ritesse i legami tra centri di potere locale e il centro federale rappresentato da una figura forte, in grado di regolare il tutto. Era così ai tempi dello zar e delle gubernii e così sarà di nuovo, imbrigliando i troppi interessi regionali che producono instabilità.

 Tutto noto: l’autocrate come sintesi delle istanze generate dall’enorme territorio dell’impero, oggi Federazione multietnica, multiconfessionale, con mille forme di disparità.

Concretamente, dal 2004 in poi il processo elettorale viene sterilizzato e i soggetti federali depotenziati tramite il rafforzamento della verticale del potere.

E si rompe il tabù post-sovietico: la Russia, dice Surkov, ha bisogno di una ideologia.

Il problema è che l’idea di “democrazia sovrana” è strumentale, non può conquistare l’immaginario collettivo e presto non interessa più nessuno.

 Anche Putin smorza gli entusiasmi sul finire del suo secondo mandato.

Non gradisce che il concetto suoni “difensivo” e non centrato sulla società russa, poiché «la sovranità è qualcosa che ci parla dei nostri rapporti con il mondo esterno mentre la democrazia è una nostra dimensione interna».

Tuttavia, aggiunge, «la Russia è un Paese che non può esistere se non viene difesa la sua sovranità».

Fine di una stagione, ne inizia un’altra, tuttora in corso. Dopo quattro anni di pausa dal Cremlino nel nome del rispetto della costituzione, Putin vi torna nel 2012 tra le proteste che sono un’umiliazione e una sfida.

Il capo dello Stato è rincorso dall’idea sempre più fissa della minaccia americana, ora non solo ai confini ovest lambiti dall’espansione della NATO ma anche dentro, contro di lui personalmente.

Scatta così la svolta conservatrice e autoritaria da cui la Russia non tornerà più indietro.

 Famiglia, radici cristiane, memoria storica, patriottismo: negli ultimi dieci anni il putinismo nella sua funzione di collettore valoriale si è posizionato in crescente opposizione all’Occidente.

 La narrazione è imperniata sulla Russia sotto assedio, alternativa a una civilizzazione condannata a definitivo declino per negazione delle proprie radici.

 In questo senso è sottinteso un “soft power russo” a un certo punto messo alla prova con i sovranisti di mezza Europa.

Ma ufficialmente Mosca professa la non ingerenza: niente da insegnare e niente da imparare, ripetono da anni i vertici moscoviti, la Russia non esporta modelli di società, contrariamente a quanto fanno gli americani.

Forse anche perché un modello compiuto non c’è.

In ogni caso non c’è un’ideologia sistematizzata e nel tentativo di tenere assieme il tutto si affiancano elementi in contraddizione, come la multietnicità e l’etnonazionalismo russo, il cristianesimo fondativo e la multi confessionalità.

La revisione della costituzione russa del 2020 ha fissato gli ideali putiniani quali princìpi fondamentali dello Stato.

Nella Carta rinnovata è citato Dio (pur riaffermando la laicità dello Stato), la famiglia è centrale (e il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna), la «memoria degli avi» è da venerare, in particolare quella della grande vittoria sul nazismo.

 Lo Stato si impegna a difendere questi valori tradizionali, come pure a proteggere i russi che vivono all’estero, a tutelare l’«identità culturale russa».

Il primato dei russi sulle altre etnie non viene esplicitato, ma suggerito dalla definizione del russo come «lingua del popolo costitutivo, che fa parte dell’unione multietnica dei popoli eguali della Federazione».

Mentre le cronache di tutto il mondo si concentravano sull’estensione al 2036 della possibile permanenza di Putin al potere, la riforma ha aperto la strada a un filone legislativo votato alla difesa dell’ordine costituito e tradotto in nuove norme dalla “fotocopiatrice del Cremlino”, cioè la Duma, il parlamento.

I princìpi putiniani sono stati poi riversati nella nuova Strategia di sicurezza nazionale, pubblicata nel 2021.

Come prima necessità nell’aggiornamento strategico è indicata «la preservazione del popolo russo e lo sviluppo del suo potenziale umano».

Il documento prevede una fase di aumentata conflittualità con l’Occidente, il cui dominio «è al tramonto» e proprio per questo si fa «più pericoloso» per la Russia.

Queste generiche linee guida sono diventate manuale di uso quotidiano, compresa la «sicurezza dell’informazione» citata nella Strategia, che già faceva presagire ulteriori restrizioni per i media e per l’uso dei social.

Facili profezie in una Russia che si preparava alla fase bellica.

Alla stregua della nuova Strategia, la quasi-ideologia putiniana è difensiva e in fin dei conti manca di un progetto, di una visione capace di proiettarsi verso le generazioni future.

Si prefigura l’avvento di un mondo multipolare dove finalmente la Russia potrà «contare quando le spetta».

Si mette sul piatto l’apocalisse finale, con quell’afflato da Terza Roma che non lascerà mai posto a una Quarta, come profetizzava “Filofej di Pskov” nel XVI Sec. e come meno misticamente ammonisce oggi il Cremlino:

«Mosca potrebbe ricorrere all’arma nucleare in caso di minaccia esistenziale al Paese».

Se l’afflato ideologico potrebbe non durare, si prospetta longevo il paradigma del potere nei suoi attuali meccanismi, propagati dalla mancanza di istituzioni forti e dallo spirito corporativo dei gruppi che compongono le élite russe.

La commistione di interessi privati e pubblici fa da mastice, perché la tenuta dell’insieme è la migliore garanzia per il singolo tornaconto.

In grande sintesi, la corruzione che erode le istituzioni russe dall’interno rafforza i principati e gli accordi tra i vari potenti, mentre chi esce dal coro viene «sputato sul marciapiede».

L’economia con Putin non ha mai brillato: i numeri.

Spingere la Russia a investire sul debito pubblico italiano era uno degli scopi della missione 2018 di Giuseppe Conte in Russia.

 E durante il suo famigerato viaggio a Mosca il capo della Lega e ministro degli Interni (figura che fin da Minniti va più in giro del titolare degli Esteri), Matteo Salvini, era stato ancora più esplicito:

«Se voi russi avete titoli da comprare, noi abbiamo bisogno di vendere qualche miliardo di euro di BTP alle prossime aste, così lo spread si abbassa e siamo più tranquilli».

La Russia è sì un Paese geograficamente molto grande — è la nazione più estesa del mondo — e con capacità militari di primo piano: ma è un nano dal punto di vista economico.

 È da poco uscita da una recessione che ha messo a dura prova la tenuta dei suoi conti pubblici e che ha costretto Putin a una riforma delle pensioni con cui ha portato l’età di pensionamento per gli uomini a pochi anni dall’aspettativa di vita media (65 anni la prima, 67 la seconda: significa che un cittadino russo può aspettarsi di trascorrere in pensione in media appena due anni).

Un default lungo 20 anni:

tra un’inflazione galoppante, salari bassi e un sistema economico fondato principalmente su petrolio e gas, la Russia da anni vive in affanno.

 Ora le sanzioni occidentali in risposta all’invasione dell’Ucraina hanno fatto precipitare la situazione, velocizzando le crisi aziendali e il tracollo del rublo.

Con una esposizione di svariati miliardi di dollari, il Paese ora rischia davvero la bancarotta.

Il Pil russo è più basso di quello italiano.

Va detto però che Vladimir Putin non ha mai brillato per capacità economica.

Dal suo insediamento (nel 1999) in poi, la potenza è rimasta sulla carta: non è mai davvero diventata tale, a differenza — per esempio — della Cina.

 I numeri, confrontati con quelli del nostro Paese, aiutano a comprendere il quadro:

il Pil russo è stabilmente più basso rispetto a quello dell’Italia, a fronte di una popolazione di 144 milioni di abitanti, più del doppio di quella italiana.

Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2020, il prodotto interno lordo ammontava a 1.483 miliardi di dollari contro i 1.886 dell’Italia.

 Certo, da anni si sente il peso delle precedenti sanzioni, quelle adottate nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, che hanno rallentato la crescita.

Il picco massimo del Pil russo si è registrato nel 2013 con 2.229 miliardi di dollari, giusto leggermente meglio dell’Italia che in quell’anno si era attestata su 2.141, avvertendo l’onda lunga della recessione iniziata nel 2008.

Insomma, dati che non hanno mai fatto gridare al miracolo economico per la Russia, che successivamente ha subito il controsorpasso di Roma.

L’economia russa è dipendente dall’export di gas e petrolio.

Eppure Putin aveva promesso un vasto programma di ammodernamento del Paese dopo il tracollo economico del 1998 che aveva portato alla svalutazione del rublo.

Il governo si dichiarò inadempiente per quanto riguarda il debito interno. Allo stesso tempo annunciò una moratoria sul rimborso del debito estero.

 In questo contesto Putin, con grandi promesse, iniziò la sua scalata prendendo il posto di Boris Eltsin.

La ripartenza, in realtà, è stata legata principalmente all’aumento dei prezzi del petrolio, materia prima che è alla base dell’export russo, insieme al gas. Così l’export di queste materie prime ha fatto volano alla ripresa.

 Un balzo che comunque non hai raggiunto mai livelli occidentali. Ancora altre cifre sono significative.

Il reddito pro capite, nel 2020, era di 10.126 dollari, su livelli inferiori rispetto a quelli del 2008 quando era sopra gli 11 mila dollari.

 In 12 anni, insomma, c’è stata una contrazione.

L’apice, come prevedibile, è stato toccato nel 2013, prima delle sanzioni, con 15 mila dollari di reddito pro capite.

 Per rendere la proporzione, però, in quello stesso anno e quindi sempre dopo la lunga recessione, in Italia era superiore ai 35 mila euro.

Perciò, a leggerla con una lente decennale, l’èra di Putin è caratterizzata da una sostanziale stagnazione senza un miglioramento sostanziale.

 

Il livello di disoccupazione si attesta sul 4 per cento.

Qualche risultato migliore è giunto sull’occupazione. Il presidente russo ha raccolto un’eredità disastrosa, come era prevedibile: nel 1999 il tasso di disoccupazione era al 13 per cento.

Il trend positivo lo ha portato fino al 6 per cento del 2007.

Successivamente c’è stata una lieve nuova impennata, che ha portato il dato all’8,3 per cento nel 2008.

La curva, però, è tornata a calare negli anni successivi, toccando il minimo del 4,5 per cento nel 2019.

Dal 2020, infatti, è ripresa a salire andando sopra il 5 e proseguendo in maniera oscillante fino ai giorni precedenti all’invasione dell’Ucraina.

 Stando a quanto riferito dal Fondo Monetario Internazionale sarebbe di nuovo al 4 per cento.

L’inflazione oscilla tra il 7 e il 3 per cento.

Un altro indicatore dello stato di salute tutt’altro che eccellente riguarda l’inflazione.

A fronte di una crescita modesta, i prezzi sono sempre aumentati negli anni.

Nel 2021 secondo il Fondo Monetario Internazionale era del 5,9 per cento.

Nel 2020 del 3,4 per cento.

 E si parla di anni in cui la situazione era migliorata. Nel 2005 era al 12,7 per cento. Mentre nel 2015 è risalita toccando il 15,5 per cento.

 Muovendosi, negli anni successivi, tra il 7 e il 3 per cento.

Mentre i redditi restavano fermi. Come l’economia della Russia putiniana.

La Russia si conferma uno dei Paesi con più disuguaglianza al mondo.

Se ne è già parlato in uno dei primi capitoli di questa inchiesta. Uno dei dati economici che colpisce di più è quello relativo alla disuguaglianza. Nel “World Inequality Report 2018” pubblicato da “Thomas Piketty” e dal suo team emergeva come la forbice della ricchezza fosse tornata ai livelli del 1905, in epoca zarista.

 Se ai tempi della prima rivoluzione russa il 10 per cento più ricco della società riceveva il 47 per cento delle entrate nazionali e il 50 per cento più povero il 17 per cento, nel 2016 il 10 per cento dei ricchi si intascava il 45,5 per cento delle entrate mentre il 50 per cento dei meno abbienti solo il 17.

 Si stima che lo 0,01 per cento della popolazione russa guadagni 2524 volte più della media che si aggira sui 23 mila dollari.

Nel 2017 i russi sotto il livello di povertà erano più di 20 milioni, concentrati soprattutto in Siberia.

E contro la fame, si sa, non c’è propaganda che tenga.

Fare grandi nozze coi fichi secchi.

La vocazione imperiale sta nei cromosomi di una nazione, della sua classe dirigente, e non è solo questione di forza, ma anche di astuzia.

 E di Storia.

Questo Paese ha prodotto una delle grandi culture — tra letteratura, musica e arti — dell’umanità, e da molto tempo cerca di non essere inferiore a nessuno quanto ad armi e capacità strategica: ma ha sempre fatto vivere il suo popolo assai meno bene di quanto non si viva da tempo nelle terre bagnate da Reno, Senna, Po, Tamigi ed Ebro.

Eppure questo Paese vorrebbe porsi come modello di una nuova era, come un secolo fa si atteggiava a faro della rivoluzione mondiale.

A giugno 2019, intervistato dal Financial Times, Putin aveva decretato la fine del liberalismo (teoria storica con varie identità ma sempre basata su libertà individuali, consenso dei governati e uguaglianza di fronte alla legge) ormai «sopravvissuto a se stesso», che ha «esaurito i suoi scopi» e minato dalla crescente ostilità degli elettori verso l’immigrazione, il multiculturalismo e i valori laici a spese di quelli religiosi.

Putin vede in atto quindi anche nel mondo occidentale «una trasmigrazione dal liberalismo al nazional-populismo».

 E insiste sulla conseguente «fine dell’ordine internazionale creato dall’Occidente dopo il 1945».

 È un punto fermo moscovita a partire dalla crisi finanziaria del 2008: “la prova che l’Occidente non funziona più”.

Il guaio per il nuovo zar ex-agente del KGB è però che, in economia e finanza, neppure l’oriente russo ha mai funzionato.

Per Mosca una crisi profonda e uno smantellamento dell’Unione Europea sarebbe il coronamento di una politica secolare che ha visto nell’Europa occidentale da sempre una minaccia dovuta prima di tutto ai successi economici di quelle piccole nazioni oggi militarmente insignificanti ma, rispetto alla Russia, terribilmente più produttive anche se “moralmente corrotte” (cosa che una certa cultura russa ripete da almeno 150 anni).

Dagli zar a Lenin, a Stalin, a Putin, la “finlandizzazione” dell’Europa è stato un sogno, prima molto ardito nell’epoca d’oro dell’industrializzazione e del potere europeo (1830–1913), poi a portata di mano nel 1945 — non foss’altro per l’innaturale “ritorno” in Europa degli americani nel ’47, con la NATO, e, poco dopo, le istituzioni europee —.

Finlandizzazione, per i Russi, vuol dire una cosa molto semplice: simbiosi fra industria europea e materie prime russe, e rispetto dalla Vistola alla Manica per la diplomazia ex-sovietica e i suoi missili.

Putin, insomma, si offre agli europei come soluzione.

Per chi volesse un trattato sul putinismo, un lungo articolo uscito nel febbraio 2019 sulla “Nezavisimaya Gazeta” e riassunto subito da alcuni giornali occidentali è un testo base.

Lo ha scritto “Vladislav Surkov”, 55 anni, madre russa e padre ceceno, uomo d’affari e politico, già vicepremier e ideologo ufficioso della “russia putiniana” e dal 2013 consulente personale di Putin.

 Surkov è il padre della formula della “managed democracy”, affidata a «un capo capace di ascoltare capire e vedere», migliore di quella «illusione di poter scegliere» che la democrazia formale occidentale (la definivano così anche i bolscevichi) «promette e non mantiene».

Il putinismo è «l’ideologia del futuro», sostiene Surkov, e «l’algoritmo politico» di Putin ha capito le cause della volatilità e per questo è «sempre più seguito anche dai leader occidentali, spinti a offrire certezze e quindi nazionalismo».

 Il nazionalismo trionfante sarebbe la fine definitiva del sistema multilaterale americanocentrico e dell’Unione Europea, e una grande vittoria russa.

La Russia vive con Putin, dice Surkov, la quarta delle sue stagioni di grandezza (!), dopo quelle di Ivan il Terribile, di Pietro il Grande e di Lenin, e sarà presto riconosciuta come «faro del mondo intero» (!).

È ormai avviato «un secolo glorioso» per il sistema politico putiniano.

 Putin «gioca con i meccanismi mentali dell’Occidente», continua Surkov, «che non sanno come muoversi a fronte delle loro nuove prese di coscienza».

Le ambizioni putiniane non sono però supportate né da un accettabile funzionamento del sistema russo, che è una cleptocrazia dove lo stesso vertice ruba a man bassa, né da una sufficiente capacità produttiva.

 «Nonostante i suoi sogni di grandezza», dichiara “Nina L. Khrushcheva”, discendente del mitico “Nikita Sergeevič Chruščëv” (“Krusciov” era suo nonno), insegnante di relazioni internazionali alla New School di New York,

 «la Russia assomiglia a una piccola ex colonia dove ogni generale al potere vuole poter vantare un dottorato di ricerca solo per poter aumentare i suoi profitti».

Non è una storia del tutto nuova.

Piero Melograni, uno dei massimi storici italiani contemporanei, ricordava che l’Europa dell’Est, impero zarista incluso, era il 17% del prodotto mondiale nel 1913 e l’8% nel 1992 «dopo decenni di una disastrosa economia pianificata».

Oggi il salario medio russo secondo Rosstat è di circa 580 euro e arriva nelle maggiori città a circa 1.200 (statistiche ufficiali ai quali non molti credono: le cifre realistiche sono inferiori di quasi la metà), e solo grazie a un’economia in nero stimata doppia rispetto a quella italiana ci si arrangia e si tira avanti.

La guerra e il terrore.

La catastrofe intellettuale di Vladimir Putin.

— di “Paul Berman”.

Vladimir Putin potrebbe essere uscito di senno, ma è anche possibile che abbia semplicemente osservato le cose attraverso una particolare lente che appartiene alla tradizione russa.

E che abbia agito di conseguenza.

 Invadere i vicini non è, dopo tutto, una cosa inedita per un leader russo. È una cosa abituale. È senso pratico. È un’antica tradizione.

Ma quando cerca una retorica aggiornata che riesca a spiegare a se stesso e al mondo le ragioni di quest’antica tradizione, Putin fa fatica a trovare qualcosa.

Si aggrappa a retoriche politiche che risalgono a tempi ormai lontani.

 E si disintegrano nelle sue mani. Fa dei discorsi e scopre di essere senza parole, o quasi.

E questa potrebbe essere stata la prima battuta d’arresto, ben prima delle battute d’arresto patite dal suo esercito.

Però non si tratta di un fallimento psicologico. Si tratta di un fallimento filosofico. Gli fa difetto un adeguato linguaggio per fare analisi: e, di conseguenza, gli fa difetto la lucidità.

Il problema che Putin sta cercando di risolvere è l’eterno dilemma russo, e cioè il vero «indovinello, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma» che Winston Churchill attribuì alla Russia (e che non sarebbe mai riuscito a risolvere, anche se riteneva che l’«interesse nazionale» offrisse una chiave).

È il dilemma su che cosa fare riguardo a uno stranissimo e pericoloso squilibrio nella vita russa.

Lo squilibrio consiste nella coesistenza, da una parte, della grandeur della civiltà russa e della sua geografia (che costituisce un’enorme forza) e, dall’altra, di una strana e persistente incapacità di costruire uno Stato resiliente e affidabile (che costituisce un’enorme debolezza).

Nel corso dei secoli i leader russi hanno cercato di affrontare questo squilibrio costruendo le più criminali fra le tirannie, nella speranza che la brutalità avrebbe compensato la carenza di resilienza.

E hanno accompagnato la brutalità con una politica estera insolita, diversa da quella di qualunque altro Paese, una politica estera che sembrava servire allo scopo.

Grazie alla brutalità e all’insolita politica estera lo Stato russo è riuscire ad attraversare il XIX Secolo senza collassare — e questo è stato un successo.

 Ma nel XX Secolo lo Stato è collassato due volte.

Il primo collasso, nel 1917, consentì l’ascesa al potere di estremisti, di pazzi e di alcune delle peggiori sciagure della storia del mondo.

Nikita Chruščëv e Leonid Brežnev riportarono lo Stato a una condizione di stabilità.

Poi lo Stato russo crollò di nuovo.

Il secondo collasso, nell’epoca di Michail Gorbacëv e Boris Eltsin, non fu altrettanto disastroso

. Eppure, l’impero scomparve, scoppiarono delle guerre lungo i confini meridionali della Russia, l’economia si disintegrò e crollò l’aspettativa di vita.

Questa volta fu Putin a guidare la ripresa.

In Cecenia lo fece con un grado di criminalità che qualifica soltanto lui, tra i combattenti dell’attuale guerra, per un’accusa di genocidio o qualcosa del genere.

Ma Putin non è stato più abile di Chruščëv e di Brežnev nel tentativo di raggiungere un successo definitivo, e cioè la creazione di uno Stato russo abbastanza solido e resiliente da evitare ulteriori collassi.

 La cosa lo preoccupa.

 Con tutta evidenza lo getta nel panico.

E le sue preoccupazioni lo hanno condotto a considerare il problema dal punto di vista che in passato hanno adottato, uno dopo l’altro, tutti i suoi predecessori — un punto di vista che ha versioni diverse, ma che di fatto è sempre lo stesso.

Questo punto di vista è come una specie di paranoia climatica.

 Si tratta della paura che i princìpi caldi della filosofia liberale e delle pratiche repubblicane provenienti dall’Occidente, spostandosi verso Est, possano scontrarsi con le nubi ghiacciate dell’inverno russo e che da questa collisione nascano delle violente tempeste a cui nulla sopravvivrà.

 Si tratta, in breve, della convinzione secondo cui i pericoli per lo Stato russo sono esterni e ideologici e non interni e strutturali.

La prima di queste collisioni, quella originaria, prese una forma molto rozza e non ebbe le caratteristiche delle successive collisioni.

Ma fu traumatica.

Stiamo parlando dell’invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812, che mandò a sbattere la Rivoluzione Francese, in una sua forma deteriorata e dittatoriale, contro il medievalismo congelato degli zar.

 La collisione tra la Rivoluzione Francese e gli zar portò l’esercito francese fino all’incendio di Mosca e l’esercito zarista fino a Parigi.

Ma le collisioni tipiche, quelle che si sono verificate ripetutamente nel corso dei secoli, sono sempre state filosofiche, mentre gli aspetti militari sono rimasti confinati alla reazione russa.

 Un decennio dopo l’ingresso dell’esercito zarista a Parigi, una cerchia di aristocratici russi, influenzati dalla Rivoluzione Francese e da quella americana, adottò delle idee liberali.

E organizzò una cospirazione in nome di una nuova Russia liberale.

Questi aristocratici furono arrestati ed esiliati e il loro progetto fu sbriciolato.

Ma lo zar, che era allora Nicola I, non si fidò un granché della sua vittoria su di loro.

E reagì adottando una politica che proteggesse per sempre, in un modo migliore, lo Stato russo dai rischi di sovvertimento.

Nel 1830 scoppiò una nuova rivoluzione francese che diffuse analoghe aspettative liberali qui e là in Europa, e soprattutto in Polonia.

 Nicola I si rese conto che un rivitalizzarsi del liberalismo ai confini del suo Paese era destinato a rinvigorire le cospirazioni degli aristocratici liberali arrestati ed esiliati

 Reagì invadendo la Polonia.

E, per buona misura, inghiottì lo Stato polacco, inglobandolo nell’impero zarista.

Nel 1848, in Francia, scoppiò un’altra rivoluzione, che condusse ad ancor più diffuse insurrezioni liberali e repubblicane in tutta Europa — si trattò quasi di una rivoluzione continentale, e fu un’indicazione chiara che in Europa stava cercando di emergere con tutte le forze una nuova civiltà, che non era più monarchica né feudale e che non avrebbe più ubbidito ai voleri di nessuna chiesa che esercitasse il potere in un dato luogo, una nuova civiltà fatta di diritti umani e di pensiero razionale.

Ma la nuova civiltà era esattamente ciò che Nicola I aveva temuto.

 Lo zar reagì invadendo l’Ungheria. Queste due invasioni da lui condotte — quella della Polonia e quella dell’Ungheria — dal punto di vista di Nicola I furono guerre di difesa che avevano assunto la forma di guerra d’aggressione.

Erano “operazioni militari speciali” progettate per impedire il diffondersi di idee sovversive in Russia grazie alla distruzione dei vicini rivoluzionari, con l’ulteriore speranza di estirpare le aspirazioni rivoluzionarie da un territorio ancora più vasto.

Le guerre ebbero successo.

La rivoluzione continentale del 1848 andò incontro a una sconfitta continentale e Nicola I ebbe una parte importante in tutto questo.

Fu il “gendarme d’Europa”.

 E lo Stato zarista durò per altre due o tre generazioni, finché tutto quello che Nicola I aveva temuto alla fine accadde davvero e l’ispirazione proveniente dai socialdemocratici tedeschi e da altre correnti liberali e rivoluzionarie dell’Occidente penetrò disastrosamente proprio nella sua Russia.

Era il 1917.

 E lo zar era allora il suo bisnipote Nicola II.

Il fragile Stato russo andò a fondo.

 E riemerse come una dittatura comunista.

Ma la dinamica di base rimase la stessa.

Sui liberali e sulle correnti liberalizzatrici provenienti dall’Occidente Stalin aveva una visione identica a quella di Nicola I, anche se il vocabolario con cui Stalin esprimeva i suoi timori non era lo stesso usato dallo zar.

Stalin si impegnò a distruggere ogni aspirazione liberale o liberalizzatrice in Unione Sovietica.

Ma si impegnò a distruggerle anche in Germania — e anzi questo fu uno dei primi obiettivi della sua politica verso la Germania, che si prefiggeva di distruggere i socialdemocratici prima ancora che i nazisti.

 E lo fece anche in Spagna, durante la guerra civile: lì la sua politica si prefiggeva di distruggere gli elementi non comunisti della sinistra spagnola altrettanto (se non più) che di distruggere i fascisti.

Quando la Seconda Guerra Mondiale terminò, Stalin si impegnò a distruggere quelle stesse aspirazioni in tutte le parti d’Europa che erano cadute sotto il suo controllo.

È vero che era uno squilibrato.

Ma anche Chruščëv, che non era uno squilibrato, si rivelò essere un Nicola I.

Nel 1956, quando l’Ungheria comunista decise di esplorare delle possibilità vagamente liberali, Chruščëv individuò in questo un pericolo mortale per lo Stato russo e fece la stessa cosa che aveva fatto Nicola I.

 Invase l’Ungheria.

Poi salì al potere Brežnev.

E si rivelò uguale anche lui. T

ra i leader comunisti della Cecoslovacchia si fece strada un impulso liberale.

E Brežnev invase la Cecoslovacchia.

Questi erano i precedenti quando Putin, nel 2008, decise l’invasione su piccola scala di una Georgia che era da poco diventata liberale e rivoluzionaria.

 E quando poi, nel 2014, decise l’invasione della Crimea, che faceva parte della rivoluzionaria Ucraina.

Ciascuna di queste invasioni del XIX, XX e XXI Secolo avevano l’obiettivo di preservare lo Stato russo, impedendo che una brezza puramente filosofica di pensieri liberali e di esperimenti sociali potesse fluttuare al di là del confine.

 E gli stessi ragionamenti hanno condotto all’invasione più feroce di tutte, che è quella che sta avvenendo proprio ora.

 L’unica differenza è che Putin si è imbattuto in un problema di linguaggio, o di retorica, che non aveva afflitto nessuno dei suoi predecessori.

Nicola I, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, sapeva benissimo come descrivere le sue guerre contro le idee e i movimenti liberali dell’Europa Centrale.

Lo faceva evocando i principi di un ideale monarchico mistico e ortodosso. Lui sapeva a favore di che cosa e contro che cosa si batteva.

Era il campione della vera Cristianità e della tradizione consacrata ed era il nemico dell’ateismo satanico, dell’eresia e del disordine rivoluzionario.

I suoi princìpi suscitavano disgusto tra gli amici della Rivoluzione Francese e di quella americana.

Ma suscitavano rispetto e ammirazione tra gli amici dell’ideale monarchico e dell’ordine, che, anche grazie al suo aiuto, erano dominanti in Europa.

I suoi princìpi erano nobili, solenni, grandiosi e profondi.

Erano, per certi versi, dei princìpi universali e questo li rendeva degni della grandeur russa — erano dei princìpi buoni per l’intera umanità, sotto la guida della monarchia russa e della Chiesa ortodossa.

Erano dei princìpi vivi, fondati nella realtà del tempo, benché fossero nascosti dietro il fumo e l’incenso, e ponevano lo zar e i suoi consiglieri nella posizione di pensare con lucidità e in modo strategico.

Anche Stalin, Chruščëv e Brežnev sapevano come descrivere le loro guerre contro i liberali e i sovversivi.

 Lo facevano invocando i princìpi del comunismo.

 Anche questi princìpi erano grandiosi e universali.

 Erano i princìpi del progresso umano — anche in questo caso sotto la guida della Russia — dei princìpi buoni per il mondo intero.

Questi princìpi suscitavano sostegno e ammirazione in ogni Paese in cui c’era un forte partito comunista e talvolta anche fra i non comunisti, che accettavano l’argomentazione secondo cui le invasioni sovietiche erano antifasciste.

 Per queste ragioni, anche i princìpi comunisti erano altrettanto fondati nella realtà del tempo e questo metteva i leader comunisti nella posizione di fare i loro calcoli strategici con lucidità e sicurezza di sé.

Putin, invece, a quale dottrina filosofica potrebbe appellarsi?

I teorici putiniani avrebbero dovuto confezionargliene una, qualcosa di magnifico, che fosse capace di generare un linguaggio utile a sviluppare un pensiero sull’attuale situazione della Russia e sull’eterno dilemma dello Stato russo.

 Ma i teorici lo hanno deluso.

Avrebbe dovuto farli fucilare.

 Forse questo fallimento non è davvero colpa loro, ma questa non è una buona ragione per non fucilarli.

Non si può confezionare una dottrina filosofica a comando, nel modo in cui chi scrive i discorsi scrive un discorso.

Le dottrine forti o ci sono o non ci sono.

 E così Putin ha dovuto arrabattarsi con le idee che galleggiavano qua e là, afferrandone una e poi un’altra per poi legarle insieme con un nodo.

Non ha tratto quasi niente dal comunismo, fatta eccezione per l’odio verso il nazismo che è rimasto dalla Seconda Guerra Mondiale.

Anche lui ha posto molta enfasi sul suo antinazismo e questa enfasi ha avuto un ruolo importante nel suscitare quel supporto che Putin è riuscito a raccogliere fra i suoi compatrioti russi.

Ma, per altri versi, l’antinazismo non è un punto di forza della sua dottrina.

Negli ultimi anni, i neonazisti in Ucraina hanno avuto visibilità, anche se soltanto in forma di graffiti sul muro e di saltuarie manifestazioni di piazza.

 Ma non hanno avuto un ruolo né grande né piccolo.

Hanno avuto un ruolo irrilevante e questo significa che l’enfasi di Putin sui neonazisti ucraini, che è utile per la sua popolarità in Russia, introduce però una rilevante distorsione nel suo pensiero.

E da qui proveniva l’aspettativa, che è stata delusa, secondo cui un gran numero di ucraini, spaventati dai neonazisti, avrebbero guardato con gratitudine i carrarmati russi che transitavano lungo le strade.

Ma non c’è alcun altro elemento del comunismo che sopravvive nel suo pensiero. Al contrario, Putin ha ricordato con dispiacere come le dottrine comuniste ufficiali del passato avessero incoraggiato l’autonomia dell’Ucraina invece di incoraggiare la sua sottomissione nell’ambito di una più grande nazione russa.

La posizione di Lenin su quella che era abitualmente definita “questione nazionale” non è la sua stessa posizione.

Dal mistico ideale monarchico degli zar, invece, Putin ha tratto molte cose.

Ne ha tratto il senso di un’antica tradizione, che lo porta a evocare il ruolo di Kiev nella fondazione della nazione russa nel IX Secolo e le guerre di religione del XVII Secolo fra la Chiesa Ortodossa (i bravi ragazzi) e la Chiesa cattolica (i cattivi ragazzi).

L’ideale monarchico non è una forma di nazionalismo, ma Putin ha dato alla sua personale lettura del passato monarchico e religioso un’interpretazione nazionalista, al punto che la lotta dell’Ortodossia contro il Cattolicesimo si presenta come una lotta nazionale dei russi (che nella sua interpretazione comprendono gli ucraini) contro i polacchi.

Putin evoca l’eroica rivolta dei Cosacchi che fu guidata, nel XVII Secolo, dall’atamano “Bohdan Chmel’nyc’kyj”, anche se sceglie di tralasciare con discrezione il ruolo aggiuntivo di “Chmel’nyc’kyj” come leader di alcuni dei peggiori pogrom della storia.

Ma non c’è nulla di grandioso né di nobile nella lettura nazionalista del passato fatta da Putin.

La sua evocazione della storia della chiesa implica la grandezza della spiritualità ortodossa ma non sembra riflettere questa grandezza, quasi come se, per lui, l’Ortodossia fosse soltanto un pensiero secondario o un ornamento.

 Il suo nazionalismo ricorda soltanto in modo superficiale i vari nazionalismi romantici dell’Europa del XIX Secolo e degli anni che condussero alla Prima Guerra Mondiale.

Quei nazionalismi del passato tendevano a essere varianti di un moto comune all’interno del quale ciascun singolo nazionalismo, ribellandosi contro l’universalismo dei dittatori giacobini e degli imperi multietnici, rivendicava di svolgere una missione speciale per l’intera umanità.

Tuttavia il nazionalismo di Putin non rivendica alcuna missione speciale di questo tipo.

Non è un nazionalismo grandioso, ma un piccolo nazionalismo.

 È il nazionalismo di un piccolo Paese — un nazionalismo che ha una vocetta strana, come quella del nazionalismo serbo che negli anni Novanta sbraitava su avvenimenti del XIV Secolo.

È, sia chiaro, una voce arrabbiata: ma non ha il tono profondo e tonitruante dei comunisti.

 È la voce del rancore nei confronti dei vincitori della Guerra Fredda.

È la voce di un uomo la cui dignità è stata offesa.

 Le “invasioni di campo” di una NATO trionfante lo fanno infuriare.

E cova la sua rabbia.

Ma anche il suo rancore manca di grandeur.

E manca, in ogni caso, della capacità di dare spiegazioni.

Gli zar potevano spiegare perché la Russia aveva suscitato l’inimicizia dei rivoluzionari liberali e repubblicani:

ciò era avvenuto perché la Russia difendeva la “vera fede”, mentre i liberali e i repubblicani erano i nemici di Dio.

Allo stesso modo, anche i leader comunisti potevano spiegare perché l’Unione Sovietica si era fatta a sua volta dei nemici:

ciò era avvenuto perché i nemici del comunismo sovietico erano i difensori della classe capitalista e il comunismo costituiva il disfacimento del capitalismo.

Putin, invece, parla di “russofobia”, e questo implica un odio irrazionale, qualcosa che non si può spiegare.

E, nel suo rancore, non punta neppure a qualche virtuoso obiettivo supremo.

Gli zar credevano che avrebbero potuto offrire la vera fede all’umanità solo sconfiggendo i sovversivi e gli atei.

E i comunisti credevano che, dopo aver sconfitto i capitalisti e i fascisti, che sono lo strumento del capitalismo, la liberazione del mondo sarebbe stata a portata di mano.

Ma il rancore di Putin non indica un futuro radioso.

È un rancore che guarda al passato e che non ha un volto rivolto al futuro. Dall’utopia alla retropia, con l’esaltazione di un passato di potenza mondiale da rivendicare.

Stavolta, quindi, si tratta di un nazionalismo russo che non ha nulla che possa attirare il sostegno di qualcun altro.

In alcune parti del mondo ci sono persone che sostengono Putin nella guerra che sta conducendo in questo momento.

 Lo fanno perché albergano un loro personale rancore verso gli Stati Uniti e i Paesi ricchi.

O lo fanno perché conservano la gratitudine per aver ricevuto aiuto dall’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.

E ci sono serbi che sentono un legame fraterno.

Ma quasi nessuno sembra condividere le idee di Putin.

Non c’è niente che si possa condividere.

E non c’è nessuno in tutto il mondo che pensi che la distruzione dell’Ucraina inaugurerà una nuova epoca migliore di questa.

Questa dottrina non offre speranza.

 Offre isteria.

 Putin crede che sotto la presunta leadership nazista che si è impadronita dell’Ucraina milioni di russi che vivono all’interno dei confini dell’Ucraina siano vittima di un genocidio.

Talvolta pare che con la parola “genocidio” Putin intenda dire che dei russofoni con un’identità etnica russa siano costretti a parlare ucraino, cosa che li priverebbe della loro identità – e cosa di cui parla nel suo verbosissimo pamphlet del 2021.

Altre volte sembra invece che Putin si accontenti di lasciare intatta l’allusione a dei massacri.

In entrambi i casi, è apparso particolarmente poco convincente su un aspetto importante.

In nessuna parte del mondo qualcuno ha indetto una manifestazione per denunciare il genocidio di milioni di russi in Ucraina.

E come mai?

Perché Putin parla con il tono di un uomo che non aspira neanche a essere creduto, tranne che dalle persone che non hanno bisogno di essere convinte.

Eppure, lui si aggrappa alla sua idea.

Gli si addice.

Considera sé stesso una persona acculturata che pensa nel modo più raffinato — come qualcuno che non potrebbe mai invadere un altro Paese se non fosse capace di evocare una grandiosa filosofia.

Riguardo a questo punto, Putin sembra bramare delle rassicurazioni.

 Ed è facile immaginare che questo sia il motivo per il quale ha passato così tante ore al telefono con Emmanuel Macron, il presidente del Paese, la Francia, che è sempre stata la patria del prestigio intellettuale.

Ma il cuore del disastro è proprio l’attaccamento di Putin a questa idea di una filosofia grandiosa.

 Infatti, come può ragionare con lucidità un uomo che è immerso in idee piccine e ridicole come questa?

Lui sa di essere circondato dai problemi e dalle sfide del mondo reale, ma la sua immaginazione ribolle.

Ci sono i rancori che derivano dalla storia medievale, dalle guerre di religione e dalle gloriose imprese dei Cosacchi del XVII Secolo.

Ci sono i paralleli tra il Cattolicesimo polacco del passato e l’attuale “russofobia della NATO”.

C’è l’«orribile destino dei russi dell’Ucraina» che si trovano «nelle mani dei neonazisti sostenuti dall’Occidente».

E, in questo ribollire di rancori, la cosa migliore con cui Putin riesce a uscirsene è la politica estera dello zar Nicola I degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento.

Ora, è vero che dal punto di vista di un tradizionale realismo in politica estera tutto quel che è stato appena detto dovrebbe essere scartato come irrilevante.

 Il realismo è un’ideologia che accantona come cose insignificanti le ideologie e si attiene rigidamente ai rapporti di potere.

Questo può semplicemente significare che le farneticazioni nazionaliste di Putin sono abbastanza prive di senso, fatta eccezione per le lamentele che riguardano la NATO e le sue presunte «aggressioni», lamentele che sono giudicate non ideologiche.

Ed è questo il punto su cui dovremmo concentrare tutta la nostra attenzione.

Ma davvero dovremmo farlo?

Le persone che prendono seriamente le lamentele riguardo alla NATO parlano sempre del pericolo che corre la Russia come se fosse qualcosa di così ovvio da non aver bisogno di alcuna spiegazione.

Lo stesso Putin sottolinea gli “sconfinamenti a Est” della NATO e batte il pugno sul tavolo, ma si limita a questo, senza spiegare su cosa si basino le sue obiezioni.

 Si suppone che noi deduciamo che l’espansione della NATO costituisca un pericolo per la Russia perché, un qualche giorno, all’improvviso, gli eserciti della NATO potrebbero attraversare il confine entrando nel territorio russo, proprio come ha fatto l’esercito di Napoleone nel 1812.

Eppure, anche se dovessimo limitare l’analisi ai soli dati di fatto, come ci suggerisce di fare il realismo, dovremmo ricordare che nei più di settant’anni della sua esistenza la NATO non ha fornito il minimo elemento perché si possa pensare che essa sia qualcosa di più che un’alleanza difensiva.

Non c’è ragione alcuna per ritenere che un giorno, all’improvviso, la NATO, che è per principio antinapoleonica, si comporti in modo napoleonico.

La ragione per cui la NATO si è espansa verso Est è stata invece la disponibilità a stabilizzare l’Europa e di interrompere le dispute sui confini — una cosa che dovrebbe essere anche nell’interesse della Russia.

In ogni caso, che l’espansione della NATO abbia fatto infuriare Putin e lo abbia terrorizzato è una cosa indiscutibile.

 Ma perché? La risposta è ovvia.

Ed è ovvio il motivo per cui nessuno la vuole dire ad alta voce.

Alla fine, le rivoluzioni europee che avevano terrorizzato Nicola I, nonostante tutti i suoi sforzi, ebbero effettivamente luogo.

E sorsero delle repubbliche liberali.

 E, nel 1949, le repubbliche liberali si sono unite fra loro, come se credessero davvero che i principi liberali e repubblicani potessero dare avvio a una nuova civiltà.

 E protessero questa civiltà con un’alleanza militare: la NATO.

In questo modo, le repubbliche liberali produssero un’alleanza militare che conteneva in sé un’idea spirituale, e cioè la convinzione che il progetto liberale e repubblicano fosse meraviglioso.

 Ecco qui la rivoluzione del 1848, finalmente vittoriosa e protetta da un formidabile scudo.

E Putin individua il problema.

L’espansione verso Est della NATO lo fa infuriare e lo terrorizza perché ostacola la tradizionale politica estera russa, solida e conservatrice, stabilita da Nicola I: la politica di invadere i vicini.

 Là dove si è espansa la NATO, la Russia non può più invadere e quindi non possono essere smantellate le conquiste delle rivoluzioni liberali e repubblicane – o, quantomeno, non possono essere smantellate dall’esercito russo.

L’opposizione all’espansione della NATO coincide quindi con un’accettazione dell’espansionismo della Russia, un espansionismo davvero strano il cui obiettivo è sempre stato impedire il diffondersi verso Est delle idee rivoluzionarie.

Ma Putin non dice questo. Non lo dice nessuno.

 È una cosa che non si può dire.

Chiunque dovesse riconoscere che accetta la politica russa di invadere i vicini starebbe dicendo, di fatto, che decine di milioni di persone che vivono lungo il confine con la Russia, o nelle zone limitrofe, dovrebbero essere soggette alla più violenta e omicida delle oppressioni per la più banale delle ragioni, e cioè per proteggere la popolazione russa dal contatto con le idee e le convinzioni che noi stessi crediamo stiano alla base di una società sana.

 Per questo non lo dice nessuno.

E invece si consente che circoli la supposizione secondo cui la Russia correrebbe dei pericoli a causa della NATO, in quanto si troverebbe di fronte alla prospettiva di un’invasione napoleonica.

 Per dirla in breve, il “realismo” che rivendica di essere una fonte di lucidità intellettuale è invece fonte di annebbiamento intellettuale.

Ma, alla fine: perché Putin ha invaso l’Ucraina?

Non è per l’aggressione da parte della NATO.

 Non è a causa di quanto è accaduto a Kiev nel IX Secolo o di quanto è accaduto nelle guerre del XVII Secolo tra ortodossi e cattolici.

E non è a causa del fatto che l’Ucraina, con il presidente Volodymyr Zelensky, è diventata “nazista”.

Putin ha invaso l’Ucraina a causa della rivoluzione di Maidan del 2014.

La rivoluzione di Maidan è stata proprio una rivoluzione del 1848 — una classica sollevazione europea animata dalle stesse idee liberali e repubblicane del 1848, con lo stesso idealismo studentesco e con gli stessi gesti romantici e anche con le stesse barricate nelle strade, se non fosse che questa volta erano fatte di copertoni di gomma e non di legno.

La rivoluzione di Maidan ha rappresentato tutto ciò contro cui Nicola I si era impegnato a combattere nel 1848-49.

È stata dinamica, appassionata e capace di suscitare simpatia da parte di un gran numero di persone.

Alla fine la rivoluzione di Maidan è stata superiore alle rivoluzioni del 1848.

Non è sfociata in utopie folli o demagogiche, né in programmi di sterminio o nel caos.

È stata una rivoluzione moderata a favore di un’Ucraina moderata — una rivoluzione che ha offerto all’Ucraina un futuro percorribile e che, in questo modo, ha offerto nuove possibilità anche ai vicini dell’Ucraina.

 E, diversamente dalle rivoluzioni del 1848, non è fallita.

 Per questo Putin si è terrorizzato.

Ha reagito annettendo la Crimea e fomentando le sue guerre nelle province separatiste dell’Ucraina orientale, nella speranza di poter fare qualche ammaccatura al successo rivoluzionario.

Anche lui ha ottenuto alcune vittorie e forse anche gli ucraini hanno contributo a provocare loro stessi qualche ammaccatura.

Ma Putin ha visto che, ciò nonostante, lo spirito rivoluzionario continuava a diffondersi.

E ha visto che in Russia il suo avversario “Boris Nemcov” era diventato popolare. Questa cosa lo terrorizzava.

Nel 2015 Nemcov è stato opportunamente assassinato su un ponte a Mosca.

 Poi Putin ha visto farsi avanti “Alexei Navalnyj”, che gli faceva un’opposizione ancora più dura.

E ha visto che anche “Navalny”j stava diventando famoso, come se non ci fosse fine a questi fanatici riformatori e al loro fascino popolare.

Putin ha avvelenato “Navalnyi” e lo ha imprigionato.

Ed ecco che è scoppiata un’altra rivoluzione di Maidan, questa volta in Bielorussia.

E un’altra volta si sono fatti avanti dei leader rivoluzionari.

 Una di loro, “Svjatlana Cichanoŭskaja” di Minsk, si è candidata alle elezioni presidenziali del 2020 contro “Aljaksandr Lukashenko”, il delinquente della vecchia scuola.

E ha vinto! 

Anche se a Lukashenko è riuscita una manovra in stile “Stop the Steal” trumpiano e si è dichiarato vincitore.

Putin ha segnato un altro punto a suo favore nella sua eterna controrivoluzione su scala ridotta.

Ma, ciò nonostante, il successo della “Cichanoŭskaja” alle elezioni lo ha terrorizzato.

E Putin si è terrorizzato anche per l’ascesa di Zelensky che, a un primo sguardo, sarebbe potuto sembrare una nullità, un semplice comico televisivo, un politico con un programma accomodante e rassicurante.

Ma Putin ha letto la trascrizione della telefonata tra Zelensky e l’allora presidente americano Donald Trump, che dimostrava che Zelensky, in realtà, non era uno sciocco.

 Putin ha letto che Zelensky chiedeva armi.

 La trascrizione di quella telefonata avrebbe potuto persino dargli la sensazione che Zelensky potesse essere un’altra figura eroica dello stesso stampo delle persone che aveva già assassinato, avvelenato, imprigionato o rovesciato — che potesse essere un tipo inflessibile e quindi pericoloso.

Putin si è convinto che la rivoluzione di Maidan fosse destinata a diffondersi a Mosca e a San Pietroburgo, se non quest’anno, l’anno prossimo.

Si è quindi consultato con i fantasmi di “Brežnev, Chruščëv e Stalin” che gli hanno detto di rivolgersi al teorico-principe Nicola I.

E Nicola I ha detto a Putin che, se non avesse invaso l’Ucraina, lo Stato russo sarebbe crollato.

Era una questione di vita o di morte.

Putin avrebbe potuto reagire a questo consiglio presentando un progetto grazie al quale indirizzare la Russia in una direzione democratica e, allo stesso tempo, preservare la stabilità del Paese.

Avrebbe potuto scegliere di verificare, osservando l’Ucraina (dato che crede che gli ucraini siano un sottoinsieme del popolo russo), se il popolo russo è davvero in grado di creare una repubblica liberale.

O avrebbe potuto prendere l’Ucraina come modello invece che come nemico, un modello per capire come costruire quello Stato resiliente di cui la Russia ha sempre avuto bisogno.

Ma gli mancano gli strumenti di analisi che avrebbero potuto permettergli di pensare in questo modo.

La sua dottrina nazionalista non guarda al futuro, se non per individuare i disastri che incombono.

 La sua dottrina guarda al passato.

E così Putin ha fissato il suo sguardo nel XIX Secolo, e ha ceduto al suo fascino, nel modo in cui qualcuno potrebbe cedere al fascino della bottiglia — o della tomba.

Si è tuffato fin nelle profondità più selvagge della reazione zarista.

Il disastro che si è verificato è stato quindi, prima di tutto, un disastro intellettuale.

Si è trattato di un mostruoso fallimento dell’immaginazione russa.

E questo mostruoso fallimento ha determinato uno sprofondamento nella barbarie.

 E ha condotto l’eternamente-fragile Stato russo proprio davanti a quel pericolo che Putin era convinto di contribuire ad allontanare con le sue scelte.

Una lunghissima lista di crimini di guerra.

La brutalità della guerra in Ucraina non avrebbe dovuto sorprenderci.

Innanzitutto perché, come risulta ogni giorno più chiaro, non è iniziata il 24 febbraio 2022, ma nel febbraio 2014, subito dopo la destituzione da parte della società civile dell’allora leader pro-russo “Victor Yanukovich”.

Una rivoluzione, quella di piazza Maidan, che ha convinto Vladimir Putin a pianificare l’invio dei carri armati per riprendersi ciò che non ha mai smesso di considerare suo, e fermare l’espansione a Est dei valori occidentali.

 Ma anche perché gli ucraini avevano già iniziato a subire crimini di guerra:

nel 2014 Kiev aveva accettato, per la seconda volta, la giurisdizione della Corte di giustizia penale internazionale, pur non avendone ratificato il trattato di Roma del 2001, per portare in tribunale i crimini russi commessi durante l’invasione della Crimea e del Donbass e la creazione delle repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk.

 In senso inverso la Russia, pianificando la conquista, nel 2016 aveva deciso di uscire da quel trattato per non trovarsi a rispondere dei suoi crimini.

L’attuale procuratore Karim Khan il 2 marzo 2022, dopo il deferimento di ben 39 Stati, tra cui l’Italia, ha riaperto il fascicolo e annunciato un nuovo avvio dell’indagine che, oltre ai crimini commessi nelle regioni occupate, include anche quelli commessi a partire dal 24 febbraio 2022 sull’intero territorio ucraino.

 Crimini che non credevamo più possibili (ma contro cui ha subito puntato il dito il presidente USA Joe Biden, definendo senza mezzi termini Putin «un macellaio»).

Eppure l’aggressione russa dell’Ucraina, spacciata come liberazione, non è un avvenimento inusuale o sorprendente.

A guardare nei cassetti della storia di Mosca, di antecedenti simili, su scala minore o più lontani da Bruxelles, dunque da noi, se ne trovano tanti.

Troppo velocemente dimenticati o colpevolmente sottovalutati da quell’Europa che il 25 marzo 1947 aveva firmato il Trattato di Roma dicendo «mai più» e che oggi si ritrova difronte al ripetersi della Storia.

Dopo avere deportato migliaia di cittadini nel 2006, nel 2008 Mosca ha condotto una guerra lampo di una settimana in Georgia: nessun massacro ma un ampio bombardamento dei civili con bombe a grappolo.

 Risultato: l’Ossezia del Sud diventa Stato indipendente.

 Solo temporaneamente però. Il 31 marzo 2022 il leader separatista “Anatoly Bibilov” ha indetto un referendum per l’annessione immediata alla Russia da tenersi all’indomani delle “elezioni presidenziali” del 10 aprile.

Prima ancora — e siamo negli anni Novanta —, la Russia aveva aggredito la Cecenia, causando oltre 100mila morti, per lo più civili, distruggendo la capitale Grozny e utilizzando lo stupro e la tortura dei civili come arma di guerra.

E poi la Siria, dove nel 2015 Vladimir Putin è intervenuto militarmente a favore del presidente Bashar al-Assad, dopo averlo sostenuto economicamente per anni e avere rifiutato in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di avallarne le dimissioni chieste dal Consiglio stesso.

Con l’intervento russo non solo furono colpiti l’esercito dell’ISIS e l’esercito libero siriano ma anche ospedali e strutture sanitarie gestite da civili.

Come successo in Ucraina nel 2022: uno schema che si ripete.

Secondo l’“ong britannica Airwars”, gli incidenti contro i civili in Siria aumentarono di un terzo dopo l’intervento russo.

D’altronde le modalità belliche di Mosca sono note da decenni.

 Nel 1943 furono addirittura i nazisti a trovare a Katyn le tombe comuni di 21.768 cittadini polacchi, per lo più ufficiali dell’esercito e intellettuali, uccisi nel 1940 per mano dell’Nkvd, l’allora organo della sicurezza militare russa, dopo che, come da consueta propaganda, la Russia di Stalin aveva invaso la Polonia «in soccorso» dei fratelli bielorussi e ucraini rimasti intrappolati nel territorio polacco.

Furono Mikhail Gorbacëv e poi Boris Eltsin ad ammettere il massacro e, quest’ultimo, a scusarsene, anche se ancora rimane sconosciuta la sorte di altri 100mila ufficiali polacchi.

Pochi anni dopo, con la fine del nazismo, i russi «liberarono» i territori dell’Europa orientale.

Lo fecero a modo loro.

Con una serie di stupri di massa condotti contro le donne tedesche e polacche di età compresa tra i 9 e gli 80 anni.

Stupro punitivo come strumento di sottomissione.

 In barba a qualsiasi norma di diritto internazionale.

Gli eventi degli anni successivi sono ben documentati ancora oggi nelle capitali degli Stati baltici, della Polonia e dell’Est Europa più in generale, che non ha mai dimenticato gli orrori russi, e che oggi, con l’eccezione dell’Ungheria di Victor Orbán, è in prima linea nell’Unione a portare avanti la linea dura contro la violenza russa.

Decine di migliaia di oppositori torturati e uccisi, settemila solo a Smiersz, nella Polonia nordoccidentale, dove Ivan Sierov, crudele capo del KGB, famoso per avere detto di potere rompere qualsiasi osso nel corpo di un uomo senza ucciderlo, si era intestato il compito di eradicare i partigiani.

Sempre nel sangue sono finite prima la rivoluzione ungherese del 1956 e poi quella del 1968 a Praga, e negli anni Ottanta l’invasione dell’Afghanistan, durante la quale furono uccisi un milione e mezzo di abitanti, quasi tutti civili, con uno dei gadget mortali preferiti allora come oggi:

il giocattolo imbottito di esplosivo.

Ma oggi, a differenza di allora, e anche a differenza di quanto successo in Cecenia o in Siria, dove né aggressore né aggredito erano soggetti alla giurisdizione della Corte penale internazionale, i crimini potranno essere puniti.

Non tutti, certo.

Perché il crimine di aggressione ha bisogno dell’avallo del Consiglio di sicurezza dell’ONU, in cui siede la Russia, e perché nessuno può essere processato in contumacia.

Ma molti crimini di guerra e contro l’umanità lo potranno essere, a patto che sia dimostrata la relazione tra crimine e autore dello stesso.

«Lo sforzo deve essere tutto volto a reperire prove per attestare le responsabilità dirette», dice Marina Mancini, docente di Diritto internazionale penale alla Luiss di Roma: «Non solo quelle di Putin, per punire il quale sarebbe necessario un cambio di regime, al momento improbabile. Ma tra lui e il soldato semplice c’è una catena. Vale il principio della responsabilità del comandante sia per gli atti criminosi impartiti sia per quelli commessi dai suoi sottoposti che il capo non ha impedito o non ha punito».

Dunque ben vengano la Commissione speciale d’inchiesta annunciata dalla Commissione Europea, il portale “warcrime.gov.ua” istituito dalla procuratrice generale ucraina Irina Venediktova” tramite cui i cittadini possono fornire informazioni sui crimini di guerra, e anche il portale simile voluto sul suo sito dal Tribunale penale internazionale.

 Dall’inizio della guerra “Venediktova” di crimini ne ha contati oltre settemila, molti dei quali sono anche contro l’umanità, ovvero atti inumani commessi nell’ambito di un attacco sistematico contro la popolazione civile con un preciso disegno politico.

A dare indicazioni in questo senso è stata la stessa agenzia di stampa russa” Ria Novosti”, in quello che sembra un “Mein kampf” dei giorni nostri:

 «La maggioranza della popolazione ucraina è nazista e deve essere denazificata per cui è necessario eliminare chiunque abbia imbracciato le armi perché è responsabile del genocidio russo».

E ancora: «Il nazismo è travestito dal desiderio d’indipendenza.

Ma l’Ucraina non è uno Stato nazionale e ogni tentativo di costruirlo porta al nazismo.

 L’Ucraina deve dunque essere cancellata.

Le élite devono essere eliminate perché non rieducabili e la palude sociale che le sostiene deve subire la violenza della guerra per fare penitenza e ricevere una lezione storica».

In altre parole, o la resa o il massacro.

Altra scelta dai russi non è data.

A dispetto di ogni grido di pace.

Kakaya Russija, etò Ukraina!

Un pezzo consistente delle ragioni che hanno portato alla crisi in Ucraina risiede nella storia che Russia e Ucraina in parte condividono, e nella valutazione che l’una e l’altra ne fanno.

 Lo stesso Vladimir Putin, per giustificare l’invasione, ha ripercorso la storia dell’Ucraina dandone una versione distorta e falsa, sostenendo che non può esistere come Stato indipendente:

un’affermazione che Putin ha argomentato anche nel già citato “saggio storico” (!) “On the Historical Unity of Russians and Ukrainians”.

Capire la storia dell’Ucraina — ma anche la geografia — è quindi particolarmente importante per interpretare cosa sta succedendo.

Le prime migrazioni e gli insediamenti nel territorio in cui oggi si trova l’Ucraina risalgono alla preistoria, quando i Neanderthal, all’incirca 50mila anni fa, si stanziarono a nord del mar Nero.

Successivamente le regioni più interessate dagli insediamenti furono soprattutto tre: quella costiera sul mar Nero, dove poi sarebbero state costruite le prime colonie greche nel VII Secolo a.C., le steppe orientali e le foreste centrali e occidentali.

Il primo storico occidentale a occuparsi di questa zona fu Erodoto nel V Secolo a.C., nonostante pare che non ci fosse mai andato personalmente.

La zona costiera del mar Nero all’epoca era nota con il nome di “Ponto Eusino”, ed era un’autentica frontiera per Erodoto, nato ad Alicarnasso (oggi Turchia) e formatosi nelle moderne e dinamiche città greche.

Quando Erodoto scrisse le sue Storie, i greci sapevano poco o nulla di quei popoli che chiamavano “barbari”: sciti, cimmeri e sarmati.

 È in quel periodo che iniziò a formarsi l’identità di quello che oggi definiamo Occidente, in opposizione a una frontiera orientale che appariva lontana sia geograficamente che culturalmente.

Nei secoli successivi, l’odierna Ucraina fu terra di passaggio per varie altre popolazioni nomadi e seminomadi, dai goti provenienti dall’area baltica passando per gli unni, i bulgari e i peceneghi (una popolazione di ascendenza turca).

Nel frattempo, tra il V e il VI Secolo d.C., cominciarono a migrare in queste zone anche le prime popolazioni slave, stanziandosi nell’odierna Ucraina settentrionale e occidentale.

Gli slavi praticavano l’agricoltura, l’allevamento e altre attività produttive come la lavorazione dei tessuti e della ceramica.

 Costruirono anche i primi insediamenti fortificati che poi sarebbero diventate importanti città, tra cui anche Kiev.

Da allora, con il passare dei secoli e con il fondamentale contributo dei variaghi (vichinghi) provenienti dalla Scandinavia, Kiev diventò il centro di uno Stato medievale ancora oggi oggetto di controversie tra gli storici.

La cosiddetta” Rus’ di Kiev” — un nome che venne inventato dagli storici ottocenteschi — era composta da una serie di principati che ruotavano attorno a Kiev e che coprivano un territorio vastissimo, che partiva dal Mar Nero e arrivava fino alla Finlandia.

È scorretto comunque pensare che fosse uno “stato” con la concezione che ne abbiamo oggi: era piuttosto un insieme di entità statuali più piccole e legate tra loro, senza istituzioni politiche centrali, cosa peraltro comune anche in altri Stati medievali.

Il picco della potenza la “Rus’ di Kiev” fu intorno all’anno 1000, con i due regni di Volodymyr di Kiev (San Vladimiro) e Yaroslav il Saggio, che per primo introdusse un codice di leggi nel mondo slavo.

Dopo la morte di Yaroslav, la Rus’ attraversò una lunga fase di declino dovuta a dissidi interni tra i vari principati e alle continue invasioni dei mongoli che premevano da est.

I territori che appartenevano alla Rus’ finirono sotto il dominio di altri Stati, il Granducato di Lituania prima e la Confederazione polacco-lituana poi.

L’eredità storica della “Rus’ di Kiev” è una questione ancora oggi fondamentale per il nazionalismo ucraino.

Ma è importante anche per il nazionalismo russo propugnato da Putin: per lui, Ucraina e Russia sono una cosa sola, quindi è ovvio che la” Rus’ di Kiev” non fosse nient’altro che uno degli antenati dello Stato russo, nonostante in quell’epoca Mosca non fosse ancora stata fondata e l’impero zarista non esistesse.

Come ha scritto lo storico “Sergei Plokhy “nel suo libro “The Gates of Europe”:

Chi è il legittimo erede della” Rus’ kievana”?

Chi detiene le proverbiali chiavi per Kiev?

Queste domande hanno preoccupato la storiografia sulla Rus’ negli ultimi 250 anni.

 Inizialmente il dibattito si concentrò sulle origini dei prìncipi – erano scandinavi o slavi? – e poi, da metà Ottocento, si ampliò comprendendo la contesa russo-ucraina.

La questione rimane aperta:

“ Yaroslav” viene reclamato come parte della propria identità nazionale sia dai russi che dagli ucraini, ed entrambi lo utilizzano come simbolo nazionale, persino sulle banconote.

 I primi lo raffigurano con la barba tipica degli zar del Cinquecento, i secondi con i baffi da cosacco.

Una nuova fase di autonomia per il territorio ucraino si ebbe solo nel Seicento, quando i Cosacchi si ribellarono al dominio polacco.

Erano una comunità militare che si era sviluppata all’incirca un secolo prima, e che la Polonia aveva usato come armata per fare la guerra contro i turchi e i tatari.

 Ma i Cosacchi con il passare del tempo cominciarono ad avanzare pretese di autodeterminazione, e nel 1648 ci fu l’insurrezione di “Bogdan Khmelnytsky”, che portò a una rivoluzione e alla costituzione di un nuovo Stato, l’”Etmanato cosacco “(dal nome dei comandanti cosacchi, hetman).

L’”Etmanato” riuscì a mantenere l’indipendenza per oltre un secolo.

 La parte occidentale, comprendente le regioni della “Galizia2 e della “Volinia”, per un periodo tornò di nuovo in possesso della Confederazione polacco-lituana.

Ma quando questa si disgregò, a partire dal 1772, i territori vennero spartiti tra l’impero zarista (Volinia) e quello asburgico (Galizia).

È per questo motivo che ancora oggi la” Galizia” è una provincia molto differente dal resto dell’Ucraina, anche dal punto di vista culturale.

La parte orientale dello Stato cosacco rimase autonoma più a lungo, ma con l’ascesa di Caterina di Russia l’impero zarista tolse all’”Etmanato” la residua autonomia.

Durante il lungo dominio degli zar, l’Ucraina attraversò una fase di dura repressione, soprattutto nell’Ottocento.

Gli zar avevano timore che la cultura e la lingua ucraina minacciassero l’unità dell’impero, perciò vennero proibite le pubblicazioni in ucraino e venne represso lo sviluppo culturale e letterario di quella lingua.

Nonostante la repressione però gli ucraini cercarono di ribellarsi e di guadagnarsi l’indipendenza, in particolare durante la Prima Guerra Mondiale, quando il regime zarista era più debole.

Con la rivoluzione sovietica, l’Ucraina diventò una repubblica socialista, inizialmente con larga autonomia.

L’Unione Sovietica, secondo il suo primo leader Vladimir Lenin, doveva essere una federazione di repubbliche tra loro pari, perché il vero obiettivo non era l’egemonia di un Paese sull’altro bensì la diffusione della rivoluzione comunista nel mondo.

 Era una delle convinzioni principali anche di “Lev Trotsky”, che però Stalin isolò, estromise, esiliò e anni dopo fece assassinare quando diventò il leader sovietico alla morte di Lenin.

Stalin sosteneva invece l’idea del socialismo in un solo Paese, e rinunciò all’idea di esportare la rivoluzione in Europa.

 A partire dagli anni Trenta diede nuova importanza alla lingua e alla cultura russe, sostituendole a quelle delle altre repubbliche sovietiche, Ucraina compresa.

Stalin perseguì anche politiche folli di riorganizzazione agricola in Ucraina che portarono, tra il 1932 e il 1933, alla famigerata carestia (Holodomor) che uccise circa 4 milioni di persone nella sola Ucraina.

 Questo spiega perché quando i tedeschi invasero l’Ucraina nel 1941 molte persone li accolsero salutandoli con il pane e il sale, come dei “liberatori”.

Il 24 agosto 1991 l’Ucraina proclamò l’indipendenza, passando da “membro della famiglia delle nazioni sovietiche” a Stato sovrano e iniziando un lungo, e non privo di intoppi, cammino verso la democrazia.

Durante questo periodo è rimasta piuttosto divisa tra due idee diverse del proprio futuro:

da una parte c’è chi vede nella Russia un alleato e partner commerciale;

dall’altra invece chi vorrebbe maggiore integrazione con l’Occidente e in particolare con l’Unione Europea.

Il mondo intero si accorse di queste divisioni al momento della cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004, nel corso della quale gli ucraini protestarono in massa in difesa della vittoria elettorale del candidato filo-europeo “Viktor Yushenko”.

Nel 2008 la NATO accettò l’idea (per la verità forzata dal solo presidente George Bush jr.) che in un non meglio specificato futuro avrebbe accolto la richiesta dell’Ucraina di entrare nell’alleanza militare.

Oggi nessun Paese NATO intende davvero accogliere l’Ucraina nell’alleanza, ma la promessa del 2008 è usata tuttora dalla Russia come la prova che l’Occidente starebbe espandendo la propria influenza ai suoi danni.

Nel 1991, tre settimane prima della dichiarazione d’indipendenza ucraina dall’Unione Sovietica che avviò la smobilitazione finale dell’impero comunista, George Bush sr. al Soviet supremo di Kiev fece un discorso realista, patetico e disonorevole passato alla storia con il nome ingiurioso di “Chicken Kiev speech” (che gli affibbiò William Safire sul New York Times).

In quel discorso, l’allora presidente degli Stati Uniti disse che gli americani non avrebbero mai sostenuto coloro che cercavano l’indipendenza «per sostituire una dittatura lontana» (quella di Mosca) «con un nazionalismo suicida centrato sull’odio etnico».

 In quell’occasione Bush senior si fece messaggero degli interessi del Cremlino e del leader sovietico “Gorbacëv” che brigava per non far crollare l’Unione Sovietica sotto i tellurici movimenti di libertà dei suoi ex sudditi.

Secondo gli ucraini di allora, il presidente americano si mostrò più filosovietico degli stessi leader comunisti ucraini.

In altre parole, gli americani, in nome della realpolitik, non più tardi di trent’anni fa cercarono di frenare l’indipendentismo ucraino.

 Questo per dire quanto siano fallaci le argomentazioni di Putin sull’«interferenza americana e occidentale» in quell’area di confine — e quanto in realtà noi europei dobbiamo agli ucraini: il loro coraggio antitotalitario si è visto allora, nel 2014 a Maidan e nell’inverno 2022 sotto assedio.

“Euromaidan 2013”: gli Ucraini si sentono più europei che russi.

Ci fu una seconda rivoluzione poi a novembre del 2013, quando migliaia di persone protestarono nel movimento chiamato “Euromaidan”, a Kiev, contro la decisione del presidente “Viktor Yanukovich” di rifiutare un importante patto commerciale con l’Unione Europea, e poi più in generale contro il governo filorusso del Paese, accusato di corruzione.

Dopo mesi di tensioni, nell’inverno del 2014 “Yanukovich” decise di rispondere con la violenza, e a Kiev ci furono scontri duri tra le forze di sicurezza e i manifestanti con decine di morti e centinaia di feriti.

La rivoluzione però ottenne il suo obiettivo.

Il 22 febbraio “Yanukovich” — che anni dopo sarebbe stato condannato da un tribunale ucraino per alto tradimento — lasciò il Paese e scappò in Russia.

 A capo del governo fu nominato il filoeuropeo “Arseniy Yatsenyuk”.

Va peraltro ricordato che lo stratega della campagna elettorale di Donald Trump, “Paul Manafort”, è stato condannato (e poi graziato da Trump, che ammirava e ammira ancora oggi il pugno di ferro di Putin e gli deve in buona parte il successo elettorale del 2016 — e chissà cos’altro) per aver occultato svariati milioni di dollari ricevuti dal giro di “Viktor Yanukovich”, cui Manafort aveva guidato tre diverse campagne elettorali fino a quando, con un voto unanime del Parlamento di Kiev, “Yanukovich” è stato cacciato a pedate nel sedere verso la grande madre Russia.

Putin definì la rivoluzione ucraina «un colpo di Stato incostituzionale e una presa del potere militare», e poco dopo invase e occupò militarmente la Crimea.

Contestualmente, le regioni (oblast) di Luhansk e di Donetsk, nell’area orientale del Donbass, uscirono dal controllo dello Stato ucraino.

 La Russia sobillò, armò, aiutò e finanziò gruppi militari filo-russi anche nell’est dell’Ucraina, permettendo quindi ai ribelli del Donbass di prendere il controllo di parte del territorio.

Prima dell’invasione della Crimea, nel Donbass non esisteva un movimento politico che chiedesse l’annessione alla Russia, ma esistevano le premesse perché una richiesta di quel tipo avesse un certo sostegno nella popolazione locale: dall’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991 (per cui votò la maggioranza della popolazione ucraina, anche nell’est del Paese) le condizioni economiche per molte persone non sono mai migliorate, specialmente in una regione come il Donbass dove in precedenza si viveva meglio grazie all’industria del carbone.

 Per questo, negli anni è diffusa tra molti l’idea che le cose migliorerebbero se le regioni di Donetsk e Luhansk entrassero a far parte della Russia.

Anche perché molti degli abitanti del Donbass sono etnicamente e culturalmente russi:

molti a scuola hanno studiato la versione sovietica della Storia, parlano il russo, e guardano la televisione russa.

All’inizio del 2015 gli accordi di Minsk stabilirono la fine dei combattimenti e il ritorno all’Ucraina delle regioni ribelli, in cambio di più autonomia.

Ma benché fossero stati firmati sia dal governo ucraino sia da quello russo, gli accordi non furono mai davvero rispettati.

I combattimenti continuarono in maniera piuttosto intensa fino alla fine di quell’anno.

Da allora e fino all’invasione del 2022, la linea del fronte — lunga circa 400 chilometri — era rimasta più o meno invariata, e i combattimenti erano meno frequenti ed estesi, ma il Donbass era comunque una zona di guerra, con tanto di trincee e centri abitati abbandonati perché localizzati lungo la linea del fronte.

Negli anni, soprattutto tra il 2014 e il 2015, più di 13mila persone sono morte, sia militari che civili, e moltissime famiglie hanno dovuto abbandonare le proprie case e le proprie città.

Il governo ucraino aveva definito le due repubbliche autoproclamate «territori temporaneamente occupati» (dalla Russia) e chiamava il fronte «linea amministrativa».

 In Russia invece si parlava del conflitto nell’est dell’Ucraina come di una guerra civile.

 La divisione degli oblast in vigore fino all’invasione del 2022 di Donetsk e Luhansk non rifletteva comunque divisioni culturali, etniche o storiche pre-esistenti, era solo il risultato degli scontri del 2015.

 Anche se ufficialmente le due regioni erano gestite da leader ucraini, la Russia esercitava già un forte controllo.

Chi viveva nelle due repubbliche autoproclamate era invitato a richiedere la cittadinanza russa e abbandonare quella ucraina e poteva votare alle elezioni russe pur non avendo la cittadinanza vera e propria.

 

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