CI ATTENDE L’APOCALISSE DEL GLOBALISMO UNIPOLARE.
CI
ATTENDE L’APOCALISSE DEL GLOBALISMO UNIPOLARE.
UNIPOLARISMO
VS MULTIPOLARISMO:
APOCALISSE
IN ARRIVO?
Comedonchisciotte.org
- Redazione CDC – (01 Febbraio 2023) - Alessandro Fanetti – ci dice:
Pochi
giorni fa mi è capitato di rivedere il cartone animato “Asterix e il Regno degli Dei”, basato sugli immortali scritti e
disegni di René Goscinny e Albert Uderzo.
Le
similitudini con ciò che abbiamo vissuto (e stiamo vivendo) dalla nascita del “momento unipolare” in avanti sono perfette e, nella
loro semplicità, danno tutta una serie di spunti di riflessione per chiunque ne
sia interessato.
Talvolta,
in mezzo ad analisi, documentari, interviste e quant’altro di questo genere, un
qualcosa di più leggero ma altrettanto significativo può essere utile per ampliare la platea di
persone che cercano di comprendere il nostro “tempo geopolitico”.
Dunque, è possibile affermare che la caduta
del Muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell’URSS hanno portato alla
nascita del periodo unipolare.
Anni
nei quali il trionfo del liberalismo sembrava aver condotto alla “fine della
storia”.
O
almeno questo è quello che in e l’occidente hanno cercato di far credere.
Un
mondo dove i valori di stampo liberale avevano preso il sopravvento.
Erano
diventati “universali” e indiscutibili.
Anni
nei quali l’esportazione della democrazia e gli interventi umanitari “a favore”
delle popolazioni che li subivano venivano considerati salvifici.
Ben al
di fuori del Diritto Internazionale o comunque con interpretazioni
ultra-estensive e di comodo delle decisioni prese dal Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite (vedi caso Libia).
Considerati
salvifici sì, ma ahimè solamente dai mittenti e non dai destinatari.
Dall’Iraq
alla Jugoslavia, solo per citarne alcuni, si è così ricreato un movimento
popolare e di governi ostili a ciò che l’asse euroatlantico propugnava verbalmente e spesso metteva in
pratica concretamente.
Un
movimento non uniforme e pienamente compatto ma che ha nell’ “idea multipolare”
e nell’”ostilità all’unipolarismo” guidato dagli USA il suo collante.
Dall’America
Latina all’Asia, dall’Africa all’Oceania, movimenti popolari e cambiamenti
politici stanno sconvolgendo lo status quo, creando cambiamenti significativi
ai quattro angoli del globo.
Solo
per citarne alcuni:
Rinvigorimento
dei BRICS, con Paesi che fanno la fila per aderirvi.
Disallineamento
dell’Arabia Saudita dalla “fu” granitica alleanza con Washington.
Stravolgimento
della posizione francese in Africa, con l’espulsione dei contingenti militari
di Parigi dal Mali e dal Burkina Faso (il Niger sarà il prossimo?).
Rinvigorimento
dell’”ALBA – TCP” in America Latina & Caraibi, insieme al costante sviluppo
della “CELAC”.
Costituzione
di assi “inediti” (ma non troppo) e sorti proprio in ottica multipolare, come il rafforzamento negli ultimi
anni delle relazioni iraniane in
America
Latina (in particolar modo con il Venezuela).
Riposizionamento
politico delle Isole Salomone in Oceania attraverso la stipula di un accordo
con la Cina (in chiara funzione antioccidentale).
A
guidare questo tentativo di cambiamento epocale e a fare da “faro multipolare”
ci sono la Russia e la Cina, le quali pochi anni fa hanno sottoscritto una
“partnership senza limiti” e anche oggi proseguono la loro profonda
collaborazione nonostante le pressioni occidentali e il conflitto in Ucraina.
Proprio
quest’ultimo è da considerarsi come la chiave di volta di questi cambiamenti,
il pulsante che una volta premuto ha scatenato un’accelerazione decisiva al tentativo di
modifica del panorama geopolitico globale e allo scontro unipolarismo vs
multipolarismo (fino a questo momento sviluppatisi invece in modo più lento e meno
diretto).
Scontro
fra difensori dell’unipolarismo vs promotori del multipolarismo che si sta
vedendo in vari contesti, fra i quali:
Continui
interventi di Israele in Siria e Iran per limitare l’influenza di Teheran nella
regione ed impedirgli di sviluppare un programma nucleare.
Interventi sempre più massicci e decisi (come
quello con droni del 28 gennaio 2023).
Alto
rischio di espansione del conflitto, almeno a livello regionale.
Continue
tensioni fra Taiwan e Repubblica Popolare Cinese, con l’isola ribelle
fortemente sostenuta dagli USA.
Rischio
altissimo di conflitto in quella zona, con probabile intervento esterno al
momento dell’utilizzo delle armi.
Per
dirla con il pensiero del Generale “Michael Minivan” della US Air Force (rese
pubbliche il 28 gennaio), riportate fra gli altri da “MercoPress”:
“Il
generale dell’aeronautica statunitense Michael Minivan ha scritto in un
promemoria interno reso pubblico che prevedeva uno scontro armato con la Cina
entro il 2025.
Il
capo dell’”Air Mobility Command” ha predetto che la Cina avrebbe invaso Taiwan
nel 2025 usando le elezioni presidenziali del 2024 a Taiwan e negli Stati Uniti
rispettivamente come scusa e distrazione.
“Il mio istinto mi dice che combatteremo nel
2025”, ha scritto il generale.
Il
presidente cinese Xi Jinping “ha garantito il suo terzo mandato e ha fissato il
suo consiglio di guerra nell’ottobre 2022.
Taiwan
terrà le elezioni presidenziali nel 2024, il che darà una ragione a Xi.
Gli
Stati Uniti terranno le elezioni presidenziali nel 2024, che daranno a Xi
un’America distratta.
La squadra, le ragioni e le opportunità di Xi
saranno in armonia entro il 2025”, ha dichiarato Minivan.
Il generale a quattro stelle ha anche detto ai
suoi subordinati di allenarsi in modo più aggressivo e di occuparsi dei loro
problemi legali personali. […] Nel frattempo, una portavoce dell’AMC ha
confermato l’autenticità del promemoria di Minivan: “Il suo ordine si basa sugli sforzi
fondamentali dell’”Air Mobility Command” dello scorso anno per preparare le
forze di mobilità aerea per un futuro conflitto se la deterrenza fallisce.”
Ma è
appunto il conflitto in Ucraina che ha scoperto le carte, che ha obbligato il
mondo a schierarsi da una parte o dall’altra (chi in maniera più decisa e chi
meno, ma comunque certamente in modo più lampante rispetto al pre – 24 febbraio
2022).
A tal
proposito, il voto di marzo 2022 all’ “Assemblea Generale delle Nazioni Unite”
sull’intervento russo in Ucraina è stato molto significativo:
141 Paesi
che hanno condannato la Russia.
5
contrari.
35
astenuti (fra i quali l’India e la Cina, che in 2 fanno circa il 40% della
popolazione globale).
L’importanza
che ha e i rischi che il conflitto in Ucraina comporta sono dunque sotto gli
occhi di tutti: esso non è, appunto, solamente uno scontro fra due Paesi ma
riguarda anche modelli di sviluppo, visioni geopolitiche opposte e alleanze
internazionali contrapposte.
Un
conflitto che dunque non si limita a interessare le parti direttamente
coinvolte ma abbraccia interessi e visioni del mondo che hanno l’intero globo
come confine.
Per
dirla con le parole di Aleksandr Dugin (molto vicine al pensiero dell’élite
politica russa):
“[…] L’Occidente si aggrappa al sogno
impossibile dell’egemonia. Il conflitto in Ucraina è la “prima guerra
multipolare” del mondo, in cui la Russia sta combattendo per il diritto di ogni
civiltà a scegliere il proprio cammino, mentre l’Occidente vuole mantenere il
suo “globalismo egemonico totalitario” […].
Il multipolarismo non è contro l’Occidente in quanto tale ma contro la pretesa
di esso di essere il modello, di essere l’esempio unico della storia e della
comprensione umana […].
Quando
l’Unione Sovietica si era autodistrutta nel dicembre 1991, aveva lasciato alla
“civiltà liberale
occidentale globale” il controllo del mondo.
Questo
egemone si sta ora rifiutando di accettare il futuro in cui sarebbe non uno dei
due, ma uno dei pochi poli messo al suo giusto posto come solo una parte, non
il tutto, dell’umanità […].
(Oggi)
l’Occidente
è “puro liberalismo totalitario” che pretende di avere la verità assoluta e cerca di
imporla a tutti.
C’è un
razzismo intrinseco nel liberalismo occidentale perché esso identifica
l’esperienza storica, politica, culturale occidentale [come] universale […].
Nel
multipolarismo non esiste nulla di universale e ogni civiltà può e deve
sviluppare i propri valori.
In
particolare, la Russia ha bisogno di superare secoli di dominio ideologico
occidentale e di creare qualcosa di nuovo, fresco, creativo che tuttavia si
opponga direttamente all’egemonia liberale occidentale, alla società aperta,
all’individualismo, alla democrazia liberale[…].”
Uno
scontro che, dunque, garantirà un “pre” e un “post” conflitto in Ucraina.
Il
mondo non è e non sarà più lo stesso, in quanto si stanno scontrando visioni
del mondo contrapposte con attori che non hanno la possibilità (anche
volendolo) di tornare allo status pregresso senza stravolgimenti in un senso o
nell’altro.
Una
situazione esplosiva, dunque, che può finire realmente e a lungo termine
solamente in due modi:
Un
accordo che non contempli un semplice cessate il fuoco Russia – Ucraina ma che
sia ampio e comprendente tutte le potenze globali.
La
soluzione certamente più auspicabile. Semplificando, un nuovo Congresso di
Vienna.
Ovviamente
attualizzato ai giorni nostri.
Uno
scontro diretto fra Potenze che rischierebbe di portare alla catastrofe
nucleare.
Per
dirla con le parole pronunciate nel 2015 (e oggi più che mai attuali) da un
grande analista di nome Giulietto Chiesa:
“[…]
Sono fortemente inquieto perché penso che siamo alla vigilia della guerra, di
una grande guerra. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è l’inizio
della terza guerra mondiale. […]. Possiamo fermare la guerra? Forse. Ma credo che
ci siano delle ragioni molto pressanti perché questa guerra si sta facendo, si
sta preparando sotto i nostri occhi e che la probabilità che si compia è molto
più alta di quella che non si faccia. Ci troviamo in un grande pericolo. […] La
crisi dell’Ucraina è l’inizio dell’offensiva degli Stati Uniti d’America e
dell’Europa […].”
In
conclusione, dunque, è realisticamente impossibile prevedere al 100% se una
guerra diretta fra potenze nucleari scoppierà davvero.
Lo
scontro fra chi difende l’ordine unipolare e chi promuove quello multipolare è
fra giganti (in termini economici, culturali, militari, politici e sociali) e
avventurarsi in certezze sarebbe sbagliato e fuorviante.
È
possibile però affermare che le tante crisi drammatiche e pericolosissime che
si sono e si stanno sviluppando in giro per il mondo (e che vedono la
partecipazione delle potenze nucleari) non lasciano ben sperare in un futuro di
sicurezza, pace e prosperità per tutti i popoli del pianeta.
Le
continue escalation che stiamo vivendo, in primis quella in Ucraina, non
lasciano spazio ad una Politica e a una Diplomazia in grado di provare a
risolvere le differenti vedute in modo sostanzialmente pacifico.
E le
crisi non militari ma dovute ad un sistema redistributivo e di ricchezza
inadeguato sono anch’esse all’ordine del giorno ed esacerbano la situazione.
Il
tutto condito da una sostanziale incomunicabilità fra i principali attori
geopolitici in competizione.
“Che
fare?”
direbbe
dunque il “Padre della Rivoluzione d’Ottobre” anche a distanza di più i 100
anni dal suo scritto originale.
Urge
un ripensamento completo dell’architettura geopolitica globale che ha retto le
sorti del mondo nel post Guerra Fredda, venendo anche incontro alle richieste e
alle aspettative dei nuovi attori che nel frattempo sono “usciti dal letargo”.
L’America
Latina e i suoi popoli non sono più quelli della Dottrina Monroe, la Cina non è
più quella dei “Trattati ineguali”, i popoli africani non sono più quelli della
colonizzazione ottocentesca e l’Asia centrale non è più solamente quella del
periodo sovietico.
Il
mondo sta cambiando e l’élite politica deve comprenderlo, sedendosi quanto
prima a un tavolo per discutere nuove e più condivise regole del gioco.
L’altra
faccia della stessa medaglia è coperta dai popoli del mondo, i quali devono
spingere per un cambiamento positivo delle relazioni internazionali e per la
creazione di un sistema scevro da diseguaglianze scandalose come quelle
odierne.
Per
dirla con le parole di Papa Francesco:
“È
necessario mobilitare tutte le conoscenze (e le coscienze) […] per superare la
miseria, la povertà e le nuove schiavitù, nonché per evitare le guerre.”
(Alessandro
Fanetti)
(Alessandro
Fanetti, studioso di geopolitica e relazioni internazionali, autore del libro “Russia:
alla ricerca della potenza perduta” - Edizioni Eiffel, 2021).
LA
FINE DEL SISTEMA UNIPOLARE
E DEL
GLOBALISMO.
Nuovogiornalenazionale.com
– Silvano Danesi – (7 aprile 2022) – ci dice:
La
guerra in Ucraina ha fatto saltare il banco del sistema unipolare e
dell’annesso globalismo.
La
Russia, con un atto di forza brutale, ha detto no all’idea che, dopo la caduta
dell’Unione Sovietica, la “storia fosse finita”, come sostiene Fukuyama e che
si fosse aperta la strada per un mondo omogeneo ideologicamente, politicamente
e socialmente.
Dopo
la fine della seconda guerra mondiale, l’Europa, teatro principale del
conflitto, ha visto, di fatto, svanire il sistema degli stati sovrani,
mantenuto formalmente, in quanto da Jalta è emerso un sistema bipolare, dove
due grandi potenze, gli Usa e l’Urss, governavano il mondo e dirigevano gli
Stati satelliti:
gli uni accorpati nella Nato, gli altri del
Patto di Varsavia.
Il
resto del mondo, per intrinseca debolezza economica e politica, stava alle
direttive del bipolarismo.
Con la
caduta dell’Unione Sovietica, nel 1991, è finita anche Jalta, il sistema bipolare è crollato e si è
instaurato un sistema unipolare, con gli Stati Uniti al centro, unico gendarme
del mondo.
Questo
quadro ha fatto pensare agli ideatori del Nuovo Ordine Mondiale e del Grande
Reset, ossia alle élite finanziarie, di poter costruire un mondo dove la Russia fosse una
sorta di miniera regionale, geopoliticamente ininfluente e la Cina fosse la
fabbrica del mondo, dotata di manodopera a bassissimo costo, quando non di
schiavi per la bisogna (vedi Uiguri).
Sicuri
della conquistata egemonia mondiale, gli Usa di Bill Clinton o, meglio, i
registi finanziari, hanno portato, l’11 dicembre 2001, la Cina nel Wto, aprendo
di fatto le porte ad un’evoluzione del Dragone che non si è democratizzato, ma
si è potenziato fino al punto di diventare un competitore temibile, non solo
economicamente.
Nel
frattempo, con l’entrata in scena di Vladimir Putin, la Russia ha ripreso ad
essere un soggetto geopolitico che non aveva nulla a che fare con le idee
unipolari degli Usa e della finanza.
La
presenza, sempre più solida, non solo economicamente, ma militarmente e, si
deve aggiungere, ideologicamente, di Cina e Russia, ha costituito un freno alle mire
espansive del globalismo finanziario e dei teorici del Nuovo Ordine Mondiale e
del Grande Reset, fino a porre, in un crescendo di tensioni, la questione che è
esplosa con la guerra in Ucraina.
Questione
che è riassumibile, in sintesi, nel rifiuto dell’unipolarismo e
nell’affermazione del multipolarismo.
Affermazione che fa saltare il banco del globalismo
finanziario, che deve riposizionarsi e che mette alle corde la logica dell’asse
Bush-Clinton, la quale esprime, nella sua decadenza, un uomo come Joe Biden, ormai
chiaramente inadatto al ruolo e vittima sacrificale nel caso di fallimento
della attuale escalation anti russa.
In
questo attuale scenario, la sovranità degli Stati affermata come frutto della
pace di Westfalia (1648), langue, essendo gli Stati sovrani una pallida
parvenza di quanto potrebbero essere, in un mondo asimmetrico, dove emergono
potenze imperiali e dove l’Europa mostra tutta la sua inesistenza.
Tutte
le chiacchiere della politica italiota, davvero ridicola quanto provinciale,
sul sovranismo, non solo è stata sbertucciata dal sovranismo reale di Francia e
Germania e della furbizia ipocrita dei paesi paradisi fiscali, come l’Olanda, ma è ridotta a nulla dall’emergere di
ben altri sovranismi, quelli imperiali di Cina e di Russia, di fronte ai quali
è palesemente fallita l’Europa della burocrazia delle misurazioni del cocomero
e del
cinismo finanziario.
L’Unione
Europea, se fosse stata quella dei padri fondatori, ossia uno Stato federale e non una
moneta e un’asfissiante burocrazia, oggi potrebbe svolgere un ruolo di potenza
internazionale di equilibrio, sulla base dei principi che in Europa sono nati.
Così
non è. Tra
i morti lasciati sul campo da Putin c’è anche l’Unione Europea, quella della
Merkel e di Maastricht e dei suoi camerieri.
Amen.
QUANDO
UNA POLITICA A
FAVORE
DEI CITTADINI ELETTORI.
Nuovogiornalenazionale.it
- Antonio Foccillo – (7 aprile 2022) – ci dice:
Oggi
tutto l’interesse viene spostato sulla guerra, dopo che per quasi tre anni è
stato il covid, con la conseguenza che i cittadini vengono permeati alla paura.
Ma tutto non nasce per caso.
Sono
molti decenni, che è in atto nel mondo un processo di cambiamento, che ha
modificato le regole del confronto politico e la geografia dello sviluppo e con
le privatizzazioni, ha portato all’alienazione di buona parte di beni pubblici,
impoverendo gli Stati e i cittadini.
Tutti processi di uno strutturato percorso di
accumulazione capitalistica, cominciati già nel 1968 con la rimessa in
discussione del welfare state, continuati poi nel 1971, prima della crisi
petrolifera, con la dichiarazione della non convertibilità del dollaro.
La leadership
Usa e la diffusione delle idee neoliberiste si sono ulteriormente consolidate
nel 1975, quando l’America insieme ai paesi occidentali, respingendo il
progetto di un nuovo ordine economico internazionale, presentato dai paesi non
allineati, ha definitamene conquistato l’assoluta supremazia nel periodo che va
dal 1989 al 1991, grazie ai progetti gorbacioviano di perestroika e alla
disgregazione dell’Europa dell’Est della URRSS.
Parallelamente si registrava già nel ‘70 un
rallentamento della crescita economica e dell’espansione dei mercati che, dal
1980 ad oggi è stato gestito adottando di volta in volta un insieme di misure
sul cambio, sui tassi di interesse, sulle privatizzazioni, sulla deregulation.
Questa gestione della congiuntura ha prodotto,
all’interno dell’occidente, una crisi finanziaria mondiale i cui effetti
sociali hanno rimesso in discussione gli assetti politici e lo stesso rapporto
democratico all’interno di alcuni Stati occidentali.
Sono
state approvate misure che hanno assicurato, a chi dispone di risorse, forme di
arricchimento senza passare attraverso il sistema produttivo e hanno permesso
alle banche nuove e più estese, forme di speculazione.
La
cosiddetta finanziarizzazione dell’economia ha creato un aggravio enorme delle
disuguaglianze del profitto, con la conseguenza di un arretramento delle stesse
forme e tutele politiche ed economiche che erano tipiche delle democrazie
occidentali.
Il
capitalismo finanziario ha reclamato sempre maggiori utili, con il processo
denominato finanziarizzazione dell’economia, in un contesto economico di
globalizzazione caratterizzata da una concorrenza molto forte e dura, dove
ognuno intende aumentare la produttività, riducendo i costi.
Di
conseguenza per far coincidere gli aspetti finanziari con gli interessi del
capitale, si è operato e si continua a compiere la riduzione dei salari, dei
contributi sociali e del sistema sociale nel suo insieme.
Così il capitale ha disdetto lo Stato sociale
e ha imposto la priorità delle sue esigenze, fedelmente tutelate dalle classi
dirigenti, al punto che la crescita del profitto dell’impresa privata è
divenuta il centro delle attività politiche ed economiche delle società neo liberiste.
Questa
cosiddetta finanziarizzazione dell’economia ha creati un aggravio enorme della
disuguaglianza nella distribuzione del profitto.
La
“dittatura” del liberismo senza limiti si è esplicata nella capacità concessa
ai mercati di poter influire nella democrazia degli Stati, arrivando a deporre
governi legittimi che non hanno attuato in pieno le politiche neoliberiste, per
sostituirli con tecnici rispondenti alle loro necessità.
E la crisi economica che si è determinata è caduta
tutta sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati e della gente comune, mentre
la finanza ha registrato incrementi di accumulazione di capitale mai visti
prima.
Poi
per “entrare” e restare nell’Europa del libero mercato dei capitali, il prezzo
pagato dalle popolazioni è stato ed è comunque troppo alto:
aumento dei ritmi di lavoro, tagli ai salari
reali, disoccupazione, lavoro precario, sottopagato, senza diritti, tagli allo
stato sociale, aumento della povertà, emarginazione, peggioramento delle
condizioni di vita.
Tutto
questo ha cancellato per molti definitivamente qualsiasi progetto di vita
futura, non solo per i giovani, ma anche per i lavoratori in attività.
Il
margine di trattativa dei diritti e degli interessi delle categorie sociali
termina completamente, perché il capitale finanziario è diventato creditore esigente
degli Stati che si sono indebitati per salvare le banche private, sconvolte
dalla crisi dei subprime.
È
diventato assolutamente prioritario per gli Stati il pagamento del debito e il
mantenimento della credibilità davanti ai mercati;
perciò,
i politici non hanno più potuto fingere di agire “nell’interesse generale” e si
sono rivelati e lo fanno anche oggi, essere prigionieri del capitale
finanziario.
I
miraggi della sovranità popolare, della rappresentatività, della mediazione
degli interessi sono svaniti ed è restato il regime che poco ha a che vedere con la
democrazia.
L’evoluzione
del sistema ci ha portato, nella prima fase, (monetarista, de regolamentatrice)
della controrivoluzione neoliberista, ad un completo svuotamento dei contenuti
della politica e nella sua seconda fase, dominata dalla economia del debito, ad una aperta
sparizione delle forme democratiche annullate da uno stato di eccezione permanente,
che continua ancora, prima con la pandemia e poi con la guerra.
Sono state poche e lo sono ancora le voci che
mettono in discussione il pensiero unico neoliberista e sono evidenti le
difficoltà, ma come suggerisce Seneca a Lucilio:
“A volte non è perché le cose sono siano
difficili che non si osa, ma è perché non si osa che diventeranno difficili”.
Chi
obbedisce acriticamente non si rende conti che la “crisi” è stata causata dalle
istituzioni finanziarie che hanno chiesto a noi di salvare il sistema.
La
cosa più ragionevole da farsi sarebbe stata quella di rifiutarsi di salvarlo
perché esso non soddisferebbe e non soddisfa le nostre esigenze di libertà e
democrazia.
Prima
di raggiungere alla realizzazione dell’asservimento totale al pensiero unico e
alla realizzazione comtiana (quella del governo dei banchieri), dobbiamo
riprendere un’azione per far sì che la gente si renda consapevole dei rischi e
che si batta per superare la crisi della rappresentanza politica.
Essa
non è mai stata così avvertita e mai è stata più urgente.
Bisogna
che si risolva in una rifondazione della democrazia su una base diversa di
quella di oggi. In questo nuovo contesto, si ripropone la ripresa delle lotte
dei lavoratori e dei cittadini, per imporre il rispetto del dettato
costituzionale, mai così offeso ed umiliato, come da questi ultimi governi
italiani, per
bilanciare il potere di questa nuova e più feroce accumulazione del capitalismo
finanziario, ancora più evidente nella guerra che si è scatenata in Ucraina.
SERVE
ATTREZZARSI PER GESTIRE
UN
PERIODO DI INCERTEZZE.
Nuovogiornalenazionale.com
– Pietro Imberti – (7 aprile 2022) – ci dice:
Ma
Draghi, quello di oggi che distribuisce “armi per la pace”, non era per caso lo
stesso Mario Draghi che governava la Bce ai tempi di Angela Merkel?
Il
nord Stream2 significa il raddoppio dello Stream 1, di cui la Germania e
soprattutto l’Italia non potevano farne a meno.
L’operare
in rapporto diretto Russia – Germania, consentiva alla Merkel di utilizzare il
gasdotto per rafforzare, suo tramite, la distribuzione nei vari paesi europei.
Un
general contractor che rafforzava la sua bilancia dei pagamenti in attivo.
La
Merkel, che lealmente si è battuta per tenere fuori l’Ucraina dalla NATO - su
consigli di Kissinger- aveva preteso che a guidare la Ue ci fosse Ursula Von der
Leyen, già sua ministra della Difesa e oggi si trova sostanzialmente sul banco
degli imputati.
La
fiera della cultura del trasformismo - del mercato - prende corpo, nomi e
forma, dove “lo stile “è messo sotto le scarpe.
Le arlecchinate citate ieri sul nuovo giornale
nazionale da Silvano Danesi sono esposte alla luce del sole senza la dovuta
vergogna.
E da
questo punto che parte la storia e la “sintesi principe” delle pagliacciate:
quella
fiera dei cooptati utilizzati per servire i vari fronti aperti con il cinismo
di una cultura del trasformismo quale stella polare di servizio.
Certo,
ripensando alle gesta dei Napolitano o a quelle di Mattarella su cooptati e
bombardamenti - Belgrado - e armi di servizio per la pace, in questi ultimi
tempi, viene
da domandarsi se non sia più che mai opportuno pensare da subito ad aprire un
fronte politico che porti all’elezione diretta del Capo dello Stato .
L’esame
di realtà sulle troppe arlecchinate in essere porta a dare risposte adeguate e
a riprendersi in mano come Paese il proprio destino.
Zory
Petzova, sul Nuovo Giornale Nazionale si chiede - come d’altronde in tanti -“perché Italia e Germania, invece di
seguire la difesa dei propri interessi, stanno facendo scelte così scellerate,
sostanzialmente come se fossero in totale balia degli anglosassoni?”.
Se da
una parte entrambi i paesi sono in ostaggio di governanti
"traditori", dall’altra parte solo una crisi insanabile potrà portare
alla frammentazione dell’UE, da dove nasceranno nuovi schiarimenti e contese,
nuovi soggetti e nuovi ponti, che sicuramente non avranno la natura forzata e
patologica di quelli attuali.
Tutti
i passaggi globali verso nuove configurazioni geopolitiche, dove una egemonia
tramonta per cedere il posto ad altre, sono stati destabilizzanti e dolorosi,
per cui questo attuale non farà eccezione.
Quello
che è certo è che il quadro politico italiano, come appare ora, è sicuramente
obsoleto e non è in grado di mettere al centro la difesa dei propri intessi
primari. Non
è neppure in grado di respingere i giochi di una politica estera che marginalizza
l’Italia sempre di più sul piano della geopolitica.
Il
dato politico più rilevante e allarmante è il seguente: gli inglesi usciti dalla UE con un
referendum oggi con la guerra in Ucraina e con il cinico funambolesco aiuto di
Zelensky di fatto governano gli interessi reali dell’Europa, con un gioco
strano degli specchi, dove si evidenzia il doppio gioco all’interno dell’Europa
di molti improvvisati leader, che per sopravvivere non si affidano certo al
consenso democratico dei cittadini.
Chi
più dà in questo momento dà l’idea di come stia cambiando i cardini
dell’attuale globalizzazione è il più grande fondo d’investimento al mondo:
Black
Rock - la Roccia Nera- di Larry Finck, che gestisce 10.000 miliardi di dollari.
Finch
sostiene la
svolta che deve mettere in mora l’utilizzo nel tempo di tutte le risorse
energetiche fossili ed assumere e preme per una cultura da “capitalismo
responsabile” guidato dal perimetro della finanza con l’obbiettivo di mettere
la politica sul un piano di pura esecuzione dei voleri di questa frontiera.
Questa
è la “chiave di lettura” che riguarda l’Ucraina, la Cina, la Russia e il
restante mondo geografico.
Le
dinamiche regressive attuali, pifferai tragici compresi, sono il prodotto
stimolato da questa bussola che ha sostituito con la forza del controllo della
finanza non più il pluralismo dell’informazione, ma i potenti veicoli della
propaganda, legandola al condizionamento dei budget della pubblicità
condizionata dai grandi fondi che a loro volta controllano le grandi
multinazionali.
Dopo
l’era dell’implementazione del terreno della paura determinata dal Covid,
arriva Joey Sleepy, lo smemorato presidente USA sul cavallo della grande finanza, gridando voglio “uno scalpo “.
IL
PASSATO CI DA FORZA PER IL FUTURO.
Nuovogiornalenazionale.com
– Nino Orlandi – (7 aprile 2022) – ci dice:
Pare
che tutto stia andando in rovina. E ci stia rovinando addosso.
Dopo
40 anni vissuti nel bel mezzo di uno scontro globale tra USA e URSS, tra NATO e
Patto di Varsavia, tra mondo libero e regimi totalitari comunisti, con i
missili sovietici puntati sulla nostra testa, eravamo tutti convinti – parlo
per la mia generazione, ma anche per quelle che le sono succedute – che la pace
fosse ormai una conquista irreversibile.
Ci fu
perfino chi parlò, quando la caduta del Muro di Berlino anticipò la
dissoluzione dell’Unione Sovietica, di “fine della storia”.
Che poi voleva dire, secondo quel signore, fine delle
contrapposizioni, in un mondo visto ormai come un unico libero mercato.
E, di conseguenza, fine delle guerre, tranne
forse quelle commerciali, in cui dazi e sanzioni avrebbero preso il posto delle
fanterie, dei cannoni e dei missili a testata nucleare.
Non
era così, come si è visto.
Non solo: per la prima volta, dopo 30 anni,
dall’una parte e dall’altra si è paventato l’uso, “in casi estremi”, anche
delle armi nucleari.
E
allora, nostro malgrado, abbiamo dovuto ricordarci che l'homo sapiens non ha
mai esitato, nel corso della sua “evoluzione”, ad usare tutte le armi che via
via inventava.
La
differenza col passato è che ora è in grado non solo di uccidere "gli
altri", cioè quelli dell'altro clan, dell'altra tribù, o dell'altro Stato:
ora
può cancellare in pochi minuti la specie umana e tutte le altre specie di
animali e di piante che vivono sulla terra.
Ovviamente
nessuno, neanche nel passato, voleva né la guerra, né i suoi compagni: morte,
distruzione e carestia.
Nessuno,
tranne i pochi che non rischiavano di morire, o di diventare più poveri, ma
che, grazie alla guerra, aumentavano il loro potere e la loro ricchezza.
Ora
rischiano di morire, e di veder morire i loro figli, anche quelli che una
guerra di distruzione possono scatenarla.
Eppure
hanno iniziato a girare intorno, col loro ditino, al pulsante che può far
partire la guerra definitiva, quella dopo la quale non ce ne saranno più altre,
perché non ci sarà più sulla terra nessun homo sapiens e nessun'altra specie
che possa iniziarne un'altra.
Un’altra
certezza, che pian piano si era consolidata nella mente degli appartenenti alla
nostra specie, era che ormai nessuna malattia sarebbe stata più forte della nostra
scienza.
Non
c’era, pensavamo, nessun batterio, nessun virus, nessun microrganismo in grado
di riprodurre, in questi tempi così evoluti, gli effetti devastati delle
antiche “pesti”.
A cominciare da quella Antonina che, nel corso del
secondo secolo dopo Cristo, uccise dai 5 ai 30 milioni di persone ed avviò il
declino di Roma, per finire a quella “del Manzoni” del 17° secolo, passando per
tutte le altre.
Ed invece.
E poi
il benessere:
il riscaldamento nelle abitazioni e negli
edifici pubblici e di culto come un dato scontato, a partire dagli anni ’60.
E poi
la disponibilità illimitata e l’accessibilità economica di beni come il gas da
riscaldamento ed il carburante per le autovetture. E poi, e poi, e poi.
Siamo
in guerra? No.
O
forse sì, ma in una guerra diversa. È una guerra che non minaccia, almeno
qui, le nostre vite e la nostra incolumità, ma mette in dubbio tante delle
nostre certezze.
Forse
è arrivato il momento in cui chi si ricorda di aver vissuto in case in cui non
c'erano ancora i termosifoni, di aver pregato in chiese in cui non c'erano
neanche le stufe, di aver avuto per 40 anni i missili sovietici puntati sulla
sua testa, di aver comperato una FIAT 500 a rate di 20.000 lire al mese, ha il
dovere di insegnare ai più giovani che non si deve aver paura del domani.
La
generazione che quel passato lo ha vissuto, che è abituata a guardare il domani
negli occhi e a dargli del tu, non avrà più un ruolo attivo da svolgere, ma di
certo ne ha uno più importante:
quello
di insegnare agli altri come si fa.
ALDO
MORO, UN OMICIDIO POLITICO,
CHE
RICORDA QUELLO DI FALCONE.
Nuovogiornalenazioanle.com
- Gaetano Immè – (7 aprile 2022) – ci dice:
Le
biblioteche sono stracolme di libri su Aldo Moro, di scrittori ed editori a
volte non disinteressati, talvolta "benevoli" verso una parte
politica, cosa questa che non aiuta i lettori ad attenersi ai fatti ed essere
immuni da una vera e propria disinformazione, nutrita da non verità e furbesche
illazioni.
Due
sono le scoperte del ricercatore Gianluca Falanga (ascoltato fra l'altro dalla
commissione Moro il 20 luglio 2016), portate a conoscenza dell’opinione
pubblica italiana solo nel 2016 ad opera dalla Commissione Moro 2, del tutto
ignorate.
La
prima riguarda un dossier, rinvenuto nell’archivio della Stasi a Berlino,
redatto l’8 giugno del 1978, che rivela come l’agguato di Via Fani fosse stato
studiato e ordito "copiando" l’agguato che la RAF tedesca aveva
sferrato, nell’autunno del 1977, contro l’industriale tedesco Hans Martin
Schleyer.
La
seconda consiste in un documento dell’archivio, de secretato, della Stasi, che
certifica di un incontro fra il servizio segreto militare (GRU) del Patto di
Varsavia e la Stasi stessa, avvenuto a gennaio del 1978, durante il quale i
servizi segreti della Stasi furono informati che il comitato centrale del Pcus
aveva definito un piano speciale contro l’eurocomunismo, una campagna condotta
dal dirigente del Pcus Boris Ponomarev, colui che dirigeva gli aiuti ai partiti
comunisti fratelli del Pcus.
Insomma
il vero problema dell’Urss era il Pci di Berlinguer, come lo era per il Patto
di Varsavia, per il Kgb, per il Gru e per la Stasi, dato che il Pci non avrebbe
mai dovuto pensare di uscire autonomamente dalla logica di Yalta, come Moro lo
stava inducendo a fare con l’eurocomunismo.
E
dunque “l’operazione
Fritz”
(rapimento, processo e uccisione di Aldo Moro) non è assolutamente inverosimile
che sia stata organizzata dai servizi segreti sovietici, con la partecipazione
di elementi scelti della RAF tedesca e delle Brigate Rosse, con la stessa tecnica operativa e seguendo
la stessa strategia con cui era già stato e con successo eseguito il rapimento
e l’uccisione dell’industriale tedesco.
Moro è
stato ucciso dalle Brigate Rosse, per cui questa ricostruzione, seppure rapida, viene
elaborata senza illazioni, senza prospettazioni personali, ma basandosi
esclusivamente sulle prove documentali scovate negli archivi de secretati della
Stasi di Berlino Est, su fatti incontrovertibili che riguardano specificamente
quel crimine e sulle istruzioni impartite dalla Direzione Strategica delle
Brigate Rosse, specificamente quelle impartite con due Risoluzioni, quella del
1975 e quella successiva, del febbraio del 1978, in prossimità dell’omicidio di
Moro.
La
premessa necessaria è che si tenga conto che il rigido principio della
“compartimentazione” non consentiva alla mano destra di sapere quello che stava
facendo la mano sinistra e così la sua rigida applicazione ha reso autonomi e
indipendenti fra di loro gli attori di questo dramma, ossia le B.R. e il Pci di
Berlinguer.
Gli
scopi dell’”operazione Fritz” erano diversi e diverse le “consegne”. Il commando composto da Brigate Rosse
e da elementi della RAF, così come prescriveva la Risoluzione di febbraio 1978 della
Direzione Strategica delle B.R., doveva rapire Moro (che per la Direzione
Strategica era il responsabile del SIM, dello Stato italiano internazionale e
multinazionale, il cuore dello stato borghese da abbattere e contro il quale
veniva dichiarata guerra civile), sterminare la sua scorta, tenerlo
prigioniero, processarlo e ucciderlo.
Al Pci
due compiti.
Dapprima
far conoscere al Patto di Varsavia il segretissimo “dossier Stay Behind” che Moro
ignorava.
Per
questo Moro non fu ucciso subito.
Per
questo “L’Unità”
fece esplodere, il 15 agosto del 1977, il caso riguardante la “fuga di Kappler”
dal Celio (Kappler
era libero dal 1976 ma malato, un malato che ha deciso di farsi curare al
Celio).
Il
sembra utile per “preparare il terreno” all’operazione Fritz, per accusare il
Ministro della Difesa, Vito Lattanzio di essere il responsabile della fuga di
Kappler, sostituito da Ruffilli, durante il cui mandato il segretissimo dossier
della Nato è stato trafugato dalla cassaforte del Ministero della Difesa
durante i 55 giorni di prigionia di Moro, per essere portato alle Brigate Rosse
e dunque al Patto di Varsavia, avendo illuso “ un qualcuno”, certamente cittadino d’oltre
Tevere, che sottrarre il dossier Stay Behind dalla cassaforte del Ministero
della Difesa e portarlo alle Brigate Rosse per farglielo copiare, significasse
liberare Moro da vivo (il dossier ricomparirà al Ministero della Difesa solo a
luglio del 1980).
Secondo
compito del Pci fu utilizzare politicamente l’eurocomunismo berlingueriano per
attenuare o addirittura eliminare la preconcetta contrarietà degli Usa e della
Cia nei confronti del Pci, affidando a Giorgio Napolitano il compito di illustrare, alla politica e
alla intelligence Usa, come il Pci fosse ormai profondamente diverso da quello
del 1974 (sì alla Nato, sì agli euromissili, conquista di governare il paese ma
per via politica, non insurrezionale),tanto da convinse l’intelligence Usa
a richiamare a New York Steve Pieczenick, a non intervenire sul destino di Moro e la politica americana che coltivare
quel legame con il Pci avrebbe consentito agli Usa di poter, all’occorrenza,
liberarsi dalla vecchia e corrotta classe dirigente democristiana e socialista
e sostituirla con la dirigenza del Pci.
Il 16
marzo 1978 scatta l’”operazione Fritz” a Via Fani.
21
marzo 1978 un giovane di Viterbo, Roberto Lauricella, denuncia alla Questura di
Viterbo di avere visto due automobili tedesche con a bordo alcuni uomini
armati, descrive le armi e fornisce anche la targa completa della prima auto e
uno spezzone della seconda auto.
La
Questura di Viterbo riferisce a quella di Roma, il giovane verrà sentito dalla
Polizia, verrà anche ascoltato come teste alla Prima Commissione Moro, ma
nessuna autorità proseguì le indagini su questa pista tedesca (che poteva portare alla RAF e alle
CR di Carlos).
Una
pista forse sottovalutata, tanto più che dopo qualche tempo vennero
rintracciati i proprietari delle due auto, due terroristi tedeschi e venne
trovata anche una carta di identità italiana falsa addosso ad una terrorista
tedesca.
Il modulo dal quale era stata prodotta la
carta di identità falsa apparteneva ad un blocco di documenti rubati dalle
Brigate Rosse nel 1974 a Sala Comacina.
Napolitano
torna a Roma il 19 aprile 1978.
20
aprile 1978: Steve Pieczenick dagli Usa fa presente che dal falso comunicato della
Duchessa le Brigate Rosse, prima si parla solo del “processo del popolo a Moro
e allo stato borghese”, si legge che non si parla più di processo a Moro, ma di
scambio di prigionieri per liberare Moro vivo.
Era la
evidente implicitamente condanna a morte di Aldo Moro.
27
aprile del 1978. Grande ricevimento all’Ambasciata inglese a Roma, a Porta Pia, pranzo di
gala, invitati d’onore Giorgio Napolitano e altri due politici, Peggio e
Pajetta, del Pci.
Napolitano
e Peggio hanno sempre tergiversato sui motivi di quell’invito, di quel
festeggiamento, ma resta fermo il fatto che la diplomazia inglese in quei
giorni spediva ai suoi funzionari sparsi nel mondo come il Pci italiano non
dovesse più considerarsi un pericolo.
Testimonia
il Presidente della Commissione parlamentare Mitrokhin che, quando nel 2005 si
recò a Budapest, il Procuratore generale ungherese gli mostrò una valigia di
cuoio verde piena di carte:
«Qui
ci sono disse tutte le prove sui brigatisti rossi diretti dal Kgb. Purtroppo
non ho la libertà di consegnarveli senza l'autorizzazione russa a causa dei
trattati bilaterali firmati dopo la fine della guerra fredda».
Ma il
Pci abbandonò l’eurocomunismo e continuò a ricevere sostegni anche economici
sovietici.
Tutto
finì sepolto e nulla affiorò al riguardo.
9
maggio 1978 ha luogo la “ostensione” del cadavere di Moro e si darà inizio a
quella che rivelerà una liturgia, dalla quale non è scaturita la verità dei fatti, che
in pratica non ha aiutato a scoprire soprattutto i mandanti e le cause prime di
questo gravissimo accadimento.
UCRAINA:
EX CORRISPONDENTI CONTRO
LA
PROPAGANDA DEI MEDIA ITALIANI.
Nuovogiornalenazionale.com
-Redazione – (7 aprile 2022) – ci dice:
Pubblichiamo,
su invito di un giornalista amico del nostro giornale, l'appello firmato da ex corrispondenti
di grandi media (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore),
al fine di offrire ai lettori la massima informazione.
Un
gruppo di ex corrispondenti di grandi media (Corriere, Rai, Ansa, Tg5,
Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore) ha gettato un grido di allarme con una
lettera aperta e con successive dichiarazioni sui rischi della narrazione
schierata e iper-semplicistica del conflitto russo-ucraino ormai dominante nei
media italiani.
“Siamo
inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono
divisi acriticamente in buoni e cattivi.
Anzi
buonissimi e cattivissimi “, notano i firmatari.
“Basta
con buoni e cattivi, in guerra. I dubbi sono preziosi".
Nella
gran parte dei media italiani “viene accreditato soltanto un
pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di
Putin"
affermano i firmatari tra cui noti ex corrispondenti di guerra come Massimo
Alberizzi, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Alberto Negri e Giovanni Porzio.
“Qui
nessuno sostiene – sottolineano- che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto.
Lui è quello che ha scatenato la guerra e
invaso brutalmente l’Ucraina.
Lui è quello che ha lanciato missili
provocando dolore e morte. Certo.
Ma
dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile?
Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo
popolo, ma ci domandiamo anche perché e come è nata questa guerra.
Non
possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di
Putin “affermano i firmatari.
E
aggiungono “manca
nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi
profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”.
Alberto
Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e
Balcani osserva che “la maggior parte dei media è molto più interessata a fare
spettacolo che a informare”.
”
Questa guerra – aggiunge- è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi
conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari.
Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà,
che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma
confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena”.
La
pensa così anche Toni Capuozzo, noto volto del Tg5, già vicedirettore e inviato
di guerra in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan:
“L’influenza
della politica da talk show è stata nefasta”, ha dichiarato al
fattoquotidiano.it.
“I talk show seguono una logica binaria: o sì
o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre
queste logiche sono deleterie.
Se ci
facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice:
Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita.
Ma una
volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati
fin qui:
lì
verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe
esercitare l’intelligenza”.
Lo
stesso Capuozzo ha aggiunto:
"Sembra
che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere
traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non
conoscere cos'è la guerra".
“Viene accreditato soltanto un pensiero
dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e
quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma
non è così.
Dobbiamo
renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di
rivelare al grande pubblico.
La propaganda ha una sola vittima: il
giornalismo”.
Quegli
stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che
colpiscono in profondità l’opinione pubblica, la preparano a una
pericolosissima corsa al riarmo”.
Massimo
Albrizi,
per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa ha dichiarato:
“Questa
non è più informazione, è propaganda”.
’L’esempio
più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non
verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e
indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo”.
“I
fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo
più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.
90
GIORNI PER FERMARE
L’APOCALISSE
NUCLEARE.
Thebongiovannifamily.it - Francesca Panfili –
(28-12-2022) – ci dice:
Il
monito degli Extraterrestri ai potenti del mondo e ai cittadini del pianeta
Terra.
Quelli
che seguono sono gli avvertimenti, le previsioni e le proposte che Dio fa
all’uomo in uno dei momenti più drammatici e bui che la storia umana sta
vivendo.
ABBIAMO
3 MESI DI TEMPO PER SALVARE IL MONDO DALL’OLOCAUSTO NUCLEARE!
Questo
è il monito dell’Altissimo all’uomo! E quanto segue serve a prendere coscienza
di questo monito.
Il
tempo drammatico che viviamo è scandito dalla frequenza del 6, risultato della
somma dei numeri che compongono quest’anno.
In
questo periodo vige l’energia arimannia che dirige le forze umane al compimento
dell’autodistruzione.
L’uomo ripercorre il grave errore del
deicidio, questa volta condannando alla morte sé stesso e l’intero pianeta.
Dati i
drammatici eventi, ancora una volta gli extraterrestri intervengono nella
storia umana, contattando i potenti del mondo per tentare una proposta che
possa evitare l’imminente catastrofe nucleare.
Un
contatto così diretto non avveniva dai tempi più bui della guerra fredda.
Questo contatto è avvenuto il 30 settembre, poco dopo il discorso di Putin alla
nazione; un discorso che escatologicamente e militarmente indica l’agenda che
guida l’azione del Presidente della Federazione Russa da qui ai prossimi mesi.
Data
la componente spirituale e programmatica del discorso, occorre qui riportarne
alcuni brevi stralci affinché le parole dell’extraterrestre Adoniesis,
automedonte che guida Giorgio Bongiovanni, possano penetrare nei nostri spiriti
con la forza e l’importanza che meritano per renderci consapevoli della fine
che si approssima qualora non si intervenga per fermare la follia devastatrice
dell’ecatombe nucleare.
Dalle
parole di Putin del 30 settembre 2022:
“Difenderemo
la nostra terra con tutte le nostre forze e i nostri mezzi e faremo tutto il
possibile per garantire la sicurezza della nostra gente. Questa è la grande
missione di liberazione del nostro popolo… Il mondo è entrato in un periodo di
trasformazioni rivoluzionarie, che sono di natura fondamentale”
E poi
la forte condanna al mondo occidentale, al globalismo, al neoliberismo e al
neocolonialismo che caratterizza l’assetto unipolare venutosi a creare dalla
dissoluzione dell’Unione Sovietica ad oggi:
“L’Occidente
ha cercato e continua a cercare nuove occasioni per attaccarci, per indebolire
e distruggere la Russia – ciò che ha sempre sognato di fare – per frammentare
il nostro Stato, per mettere i nostri popoli gli uni contro gli altri, e
condannarli alla povertà e all’estinzione. Non riescono a sopportare il fatto
che al mondo esista un paese così grande, enorme, con il proprio territorio, le
proprie ricchezze naturali, le proprie risorse, con un popolo che non può e non
potrà mai vivere secondo gli ordini di qualcun altro…
L’Occidente
è pronto a passare sopra a qualsiasi cosa pur di preservare quel sistema
neocoloniale che gli permette di fagocitare, in sostanza, di saccheggiare il
mondo grazie al potere del dollaro e al diktat tecnologico, di raccogliere un
vero e proprio tributo dall’umanità, di sottrarre le principali fonti di
ricchezza immeritata, di ottenere la rendita dell’egemone.
Il mantenimento di questa rendita è il loro
motivo chiave, reale e del tutto egoistico.
Ecco perché una totale de-organizzazione è nel
loro interesse…
Ci
tengo a sottolineare ancora una volta: è proprio nell’avidità, nell’intenzione
di preservare il proprio potere illimitato, che ci sono le vere ragioni della
guerra ibrida che l’“Occidente collettivo” sta conducendo contro la Russia. Non
vogliono la nostra libertà, ma vogliono vederci come una colonia. Non vogliono
cooperare in modo paritario, ma piuttosto derubarci. Vogliono vederci non come
una società libera, ma come una folla di schiavi senz’anima…”
La
dittatura delle élite occidentali è diretta contro tutte le società, compresi
gli stessi popoli dei paesi occidentali.
Questa
è una sfida per tutti.
Questa
negazione totale dell’uomo, la sovversione della fede e dei valori
tradizionali, la soppressione della libertà assumono le caratteristiche di una
‘religione al contrario’ – un vero e proprio satanismo.
Nel Discorso della Montagna, Gesù Cristo, denunciando
i falsi profeti, dice:
“Dai loro frutti li riconoscerete”. E questi frutti velenosi sono già
evidenti alle persone – non solo nel nostro paese, in tutti i paesi, comprese
molte persone nello stesso Occidente”.
E poi
la conclusione:
“Dietro
di noi c’è la verità, dietro di noi c’è la Russia!”
Riportiamo
queste parole di Putin per far comprendere bene ai lettori di questo sito lo
scontro internazionale che stiamo vivendo.
Ci
teniamo a sottolineare che da parte nostra non vi è alcuna intenzione o volontà
di patteggiare con la Russia o con i poteri occidentali.
La
nostra posizione è quella che ci hanno insegnato gli extraterrestri: NÉ CON
L’ORIENTE, NÉ CON L’OCCIDENTE MA CON L’UMANITÀ DELLA TERRA.
È ai
popoli del pianeta che ci rivolgiamo e che chiediamo di unirci in un ideale
universale che non prevede fazioni, nazioni o frontiere ma che sposa i valori
della pace, della giustizia e dell’amore.
Nelle
parole di Putin troviamo un forte e feroce atto di condanna all’anticristo
d’occidente dal quale il presidente russo si è dissociato, interpretando e
favorendo quelle forze del male che si sono ribellate alla cultura globalista
che permea ogni ambito della società occidentale.
È
questo il contesto in cui si inserisce l’intervento extraterrestre con la proposta
di una trattativa che contrasti la guerra.
Su
ordine degli Esseri di Luce, gli extraterrestri grigi hanno contattato
direttamente i potenti del mondo tramite i loro servizi segreti, immediatamente
dopo l’ultimo discorso del presidente Putin alla nazione.
Questo
contatto è quindi avvenuto il 30 settembre 2022.
Ne
riportiamo ogni dettaglio qui di seguito e ancora una volta invitiamo i
cittadini del mondo, amanti della vita e della creazione, ad unirci e a
chiedere a gran voce in ogni piazza e con ogni mezzo disponibile: PACE SU TUTTE
LE FRONTIERE.
Ecco
quanto ci ha trasmesso Giorgio Bongiovanni il giorno 1° ottobre 2022:
‘Oggi
vi darò il messaggio che mi ha dato Adoniesis, il mio automedonte.
Questo
immenso Essere mi ha riferito che tutta la Confederazione Interstellare che ci
visita ritiene che gli accadimenti internazionali che si stanno susseguendo
rappresentano i momenti più gravi della storia dell’umanità.
Quelli
che stiamo vivendo in questi giorni, da settembre, fino ad arrivare a dicembre
2022, sono tra gli attimi più terribili che l’umanità vive.
L’anno
2022 sommato ci dà il numero 6.
Se
l’umanità resisterà fino a dicembre ed arriverà al 2023, la cui somma è 7, avrà
possibilità di sopravvivere ancora per un po'.
Se così però non avverrà e da qui a dicembre
scoppierà una guerra mondiale, il numero 6, ossia il numero dell’anticristo,
determinerà l’Apocalisse.
Si
scatenerà l’Apocalisse!
Noi
sappiamo che l’Apocalisse è un disegno di Dio.
È Lui
che consente tutto questo.
Gesù
diceva che le cose più terribili sarebbero accadute e che non si doveva avere
timore perché anche gli scenari peggiori ‘devono accadere’.
Gesù
quindi ci diceva che questi scenari terribili sono cose necessarie. Io
umanamente non voglio che si compia una guerra nucleare e nemmeno voi penso. So
che però non possiamo fermare i disegni di Dio.
I
piani del Padre si devono attuare ma dovete comprendere quanto segue:
il
libero arbitrio dell’uomo ha la capacità di accelerare gli eventi catastrofici
ma anche la possibilità di accelerare con un miracolo la salvezza.
Quindi
i disegni si devono compiere ma noi umani, non tutti ma soprattutto i potenti,
possiamo accelerare la situazione catastrofica del mondo con una terza guerra
mondiale o possiamo evitarla ancora per un po’.
Il
comandante di questi Esseri, Adoniesis, insieme a Suo Figlio Cristo hanno dato
ordine agli Esseri di Luce, coordinatori della Confederazione Interstellare, di
contattare i potenti della terra che vogliono fare la guerra.
Quindi una squadra di grigi, comandata dagli
Esseri di Luce, ha contattato i servizi segreti di Russia, Cina e USA.
Questo
è accaduto immediatamente dopo il discorso di Putin alla nazione.
Hanno
contattato direttamente i tre stati più potenti del mondo e non gli altri capi
delle potenze che possiedono l’atomica che sono comunque sotto il dominio di
queste super potenze.
Gli
extraterrestri grigi, come voi li chiamate, hanno detto che non mostreranno a
tutto il mondo i loro mezzi (ufo) ma che gli avvistamenti saranno maggiori
rispetto a prima.
Non ci
sarà per ora un contatto massivo con l’umanità, anche se io spero che questo
accada.
Gli
ufo si mostreranno a tutti a condizione che l’umanità e i suoi potenti lavorino
per la pace e non scatenino la terza guerra mondiale nucleare.
Dato che i potenti del mondo non ascoltano i
ripetuti richiami degli extraterrestri, loro se ne andranno non appena
scoppierà un conflitto nucleare tra due o più nazioni, portando via con loro
circa 10milioni di persone e qualche centinaio di milioni di bambini.
Porteranno
fuori dal pianeta queste persone e le metteranno in salvo attendendo gli eventi
che si susseguiranno sulla Terra.
Se
moriranno 1 o 2 miliardi di persone gli extraterrestri non interverranno ma se
verrà messa a rischio l’intera stabilità e sopravvivenza del pianeta allora
interverranno perché non permetteranno la distruzione della Madre Terra.
Gli extraterrestri interverranno nello stesso
modo in cui sono intervenuti a Sodoma e Gomorra ossia con l’antimateria.
Non useranno strumenti per ipnotizzare
l’umanità e farla suicidare perché altrimenti anche i buoni si ammazzerebbero
ma interverranno solo per salvare chi hanno scelto e selezionato.
Questi Esseri hanno un’agenda con i nomi delle
persone che posseggono i valori della Confederazione Interstellare e che si
trovano nei 5 continenti.
Noi
siamo tra queste persone candidate.
C’è
ovviamente una condizione affinché la salvezza si verifichi che vi illustrerò
nel dettaglio ma prima voglio parlarvi di quella che è la situazione geopolitica
attuale.
Putin
e la Russia non si fermeranno.
Questo
voglio dirlo a tutti i capi di stato occidentali.
L’oligarchia russa, i generali, i militari e la mafia
interna spinge Putin ad usare l’arma atomica per intimidire il mondo.
Nella
testa di questi personaggi folli c’è l’idea che se scoppiano due atomiche in
Ucraina, quel paese si arrenderà, chiederà alla NATO di rispondere con i
missili atomici ma l’Alleanza Atlantica non risponderà.
La
NATO non dipende dagli USA e nemmeno dagli altri capi di stato.
La forza militare della NATO dipende, in
realtà, dai banchieri ossia da chi ha nelle mani i soldi e quindi dalla grande
finanza internazionale rappresentata dai Rothschild, Elon Musk ed altri.
È la finanza internazionale che comanda il
mondo e che è controllata dai servizi segreti.
Perciò
la richiesta degli extraterrestri sulla carta arriva ai presidenti degli stati
ma in realtà loro vanno a parlare direttamente con chi comanda l’economia
mondiale.
Ora
non so cosa vogliono fare i potenti che governano il mondo ma ho ragione di
credere che l’economia occidentale, avida di soldi, avvierà una trattativa
segreta con Putin perché i soldi sono i soldi e con il denaro non si scherza.
Zelensky
verrà mandato a casa.
Se l’occidente metterà piede nelle tre regioni
annesse alla Russia, Putin sparerà i missili nucleari perché questo rientra in
quanto è scritto nella Costituzione russa: chi invade il territorio russo viene
contrastato prima con le armi convenzionali ma se non si riesce a fermare si
passa alle armi nucleari.
E
allora chiedo all’occidente: vogliamo veramente morire? Vogliamo veramente
andare in miseria? Perché in quel caso i banchieri, i tesori, le ricchezze
verranno meno e moriranno con noi.
Se
Putin spara i missili nucleari i soldi dei banchieri non li salveranno.
Assisteremo alla morte economica del genere umano e alla morte fisica con le
radiazioni: diventeremo tutti zombie per sopravvivere all’inverno nucleare.
Vogliamo
fare questa fine, vi chiedo?
Sono
assolutamente convinto, anzi spero di non sbagliarmi, che tra poco occidente,
Russia e Cina si incontreranno e diranno a Zelensky di andarsene a casa.
Gli
diranno che non possono compromettere soldi e tenore di vita conquistato per
lui perché Putin spara davvero i missili nucleari.
Gli
extraterrestri mi hanno detto poi una cosa terrorizzante:
a largo di Augusta, a largo di Siragusa, a
largo delle Malvinas ci sono 3 sottomarini nucleari russi potentissimi che
possono sparare ognuno 10 missili nucleari.
Se
questi ultimi dovessero partire, ogni missile si aprirebbe e possiederebbe
12-13 testate nucleari a missile.
Ogni
testata è 1500 volte superiore alla bomba di Hiroshima.
Ciò
significa che se ogni missile colpisce una città come Londra o Buenos Aires
questa città viene completamente rasa al suolo.
Lo
scudo spaziale occidentale potrebbe fermare solo alcuni di questi missili.
Gli
altri colpirebbero comunque diverse città dell’Unione Europea e dell’America.
Se noi occidentali metteremo piede nel territorio russo, Putin farà partire
questi missili.
Dato
che i grandi potenti del mondo vogliono continuare a vivere nella loro lussuria
e nella loro perversione, loro daranno ordine al Pentagono e ai servizi segreti
delle potenze nucleari di fermare il conflitto.
Parleranno
loro stessi con Putin per convincerlo e calmarlo.
Proporranno
un’Ucraina neutrale, assicureranno le 3 regioni russofone a Putin e faranno un passo
indietro.
Una
cosa da cui però non si tornerà indietro è questa: non ci sarà più una
riconciliazione tra Russia e Occidente.
La guerra fredda tra questi due paesi
proseguirà per altri 10-15-20 anni fino a che non tornerà il Signore.
Ora io
non so se tutto questo accadrà perché fino a dicembre vige il numero della
bestia, il 6.
Se
superiamo dicembre, arriveremo al numero 7 e se regnerà il 7 non accadrà questa
guerra nel breve periodo.
Gli
extraterrestri scenderanno quando sarà in pericolo la stabilità del pianeta. Servono alcune centinaia di atomiche
per destabilizzare l’intero pianeta.
A quel
punto loro interverrebbero.
I grandi iniziati di tutti si sarebbero mai
immaginati una civiltà che sta sull’orlo di distruggersi?
Penso
che noi siamo fortunati ad esserci incarnati in questo tempo di rivelazione ma
abbiamo anche una grave responsabilità: viviamo il momento finale
dell’umanità ma questo tempo è anche il tempo di Cristo.
Voglio
però tranquillizzarvi dicendovi che noi dobbiamo fare finta di niente.
Noi
siamo servi, siamo i prescelti ma non gli eletti.
L’elezione avviene solo con il sacrificio
della vita ossia si diventa eletti e quindi salvi solo se si dà la nostra vita
all’Opera altrimenti la salvezza ce la possiamo sognare.
Tutte
le persone che lavorano ogni giorno nella pace, nella misericordia, nella
giustizia, nella fratellanza e nell’attivismo sociale a favore della vita sono
candidate all’elezione.
La
risposta dei servizi segreti agli extraterrestri è stata: ‘Riferiremo’.
Ebbene
riferite se volete sopravvivere!
Era
necessario che le due potenze mondiali fossero informate.
Biden non sapeva nulla della presenza
extraterrestre e gli hanno detto che in questo conflitto quasi mondiale e
nucleare c’è una terza potenza che può annullarci in qualsiasi momento e che
vuole dialogare, o meglio, dare un messaggio.
Dato
che noi siamo al servizio di questa potenza, la terza incomoda, noi siamo i
loro messaggeri sulla terra. Io rappresento tutti voi.
Noi siamo intoccabili perché siamo guardati a
vista dai fratelli del Cielo, noi, i nostri bambini, le persone che amiamo e le
nostre famiglie, se ci rispettano.
Tutto
questo però non deve renderci egoistici ma deve sempre più farci avere il
timore di Dio perché, mentre chi non sa niente può essere scusato e anche
aiutato, noi no.
Se non faremo ciò che dobbiamo fare moriremo
nel corpo e nello spirito con la seconda morte.
Nella
mafia si dice che quando entri nell’organizzazione o fai carriera o sei morto o
collabori con la giustizia.
Nel
positivo, possiamo dire che se esci dalla via che Dio ti ha riservato non muori
ma rimani libero.
Se esci e ti occupi degli altri va benissimo.
Anche se mi odi sarai salvo perché io non sono geloso.
Se ami
il Signore, lo servi, aiuti il prossimo e dai la faccia per cambiare la
società, odii Giorgio Bongiovanni ma fai del bene, io non sono geloso perché il
Signore ti salverà ma devi fare veramente del bene.
Si dà
il caso che chi se ne è andato se segue il bene non mi odia ma mi rispetta.
Noi ci
salviamo solo se operiamo.
Uno
potrebbe dire che non gli interessa della sua salvezza ma che desidera solo che
si salvino i suoi figli.
Allora
io gli dico che loro non si salvano se i genitori non danno la vita per questa
Causa operando per la Verità.
I figli pagheranno le colpe dei genitori, è
stato scritto, e quindi se noi ci avviciniamo a Cristo e poi facciamo un passo
indietro i nostri figli pagheranno le nostre colpe ossia saranno la nostra
prova e non la nostra consolazione.
Vi ho
detto queste cose per certi versi terrificanti ma voglio tranquillizzarvi.
Io vado avanti come se niente fosse ma come se
tutto è ossia continuo con le nostre attività.
Vi
dico poi una cosa che sembra assurda: noi dobbiamo andare avanti con più felicità
di prima. Dobbiamo
vivere come facevano i cristiani quando entravano nelle arene.
Noi
siamo dentro l’arena. L’arena è il mondo.
Chi
sta a guardarci mentre veniamo sbranati sono quei pazzi che vogliono fare la
guerra nucleare.
Le belve sono le armi atomiche e la guerra. (…)
(Francesca
Panfili)
Usa:
“Stop alla Distribuzione dei Vaccini.
Sono Armi biologiche”.
Conoscenzealconfine.it
– (3 Marzo 2023) - Antonio Oliverio – ci dice:
Potrebbero
essere vietati dalla legge la produzione e la distribuzione del vaccino anti
Covid in tutto lo stato della Florida, a seguito della risoluzione approvata
dall’assemblea del Partito Repubblicano della contea di Lee, la più grande
nonché la più popolosa del Sunshine State.
La
risoluzione “Ban the Jab” (“Proibire l’iniezione”) è passata con la maggioranza
dei due terzi.
Sta
ora al governatore dello Stato della Florida, il repubblicano “Roni Desantis”,
che deve scegliere se confermare lo stop ai vaccini.
La
risoluzione, come leggiamo su “Il Giornale d’Italia”, è promossa da Joe Sanson,
uno psicologo della contea di Lee, il quale ha dichiarato:
“La Contea di Lee e il Partito Repubblicano
saranno all’avanguardia in questa campagna per fermare il genocidio”, parlando poi, ancora in relazione
ai vaccini, di vere e proprie “armi biologiche” e dunque
“l’Attorney
General (omologo statunitense del nostro ministro della Giustizia, ma declinato
nei singoli Stati che compongono gli USA, Ndr) deve prenderne atto
immediatamente”, ha aggiunto.
Non ci
sono grandi ragioni per dubitare che “Roni Desantis” non dia seguito alla
risoluzione:
infatti, il governatore della Florida, che in
molti considerano possibile già futuro candidato alla presidenza degli Stati
Uniti per il Grand old party, già in dicembre aveva presentato una petizione scritta,
sostenendo che istituzioni ed esperti avessero spinto i cittadini a vaccinarsi
essenzialmente “per un guadagno finanziario”.
Durante
una tavola rotonda in Florida, Roni Desantis aveva argomentato la sua decisione
di adire al Gran giurì – particolare giuria che, nell’ordinamento statunitense,
valuta se le prove raccolte siano sufficienti per iniziare un processo penale –
illustrando, dapprima, un concetto che racchiude tutto il senso della
petizione:
“L’amministrazione
Biden e le multinazionali farmaceutiche – aveva in quell’occasione affermato
DeSantis – continuano a spingere la distribuzione su larga scala dei vaccini a
base di mRNA sul pubblico, compresi i bambini di 6 mesi, attraverso una
propaganda incessante che ignora gli eventi avversi reali”.
Ancor
prima, nel marzo 2022, il capo del dipartimento della Sanità dello Stato della
Florida, Joseph Ladano, emanando le nuove linee guida aveva dichiarato: “Non
raccomanderemo i vaccini anti - Covid ai bambini sani”, e Roni Desantis, tra i
più agguerriti oppositori delle politiche sanitarie dell’amministrazione
guidata da Joe Biden, aveva appoggiato la decisione. Adesso potrebbe crearsi un
precedente davvero importante.
(Antonio
Oliverio) (ilparagone.it/attualita/covid-contea-florida-vieta-vaccini-attesa-decisione-governatore)
Crisi
irreversibile della
vecchia
sinistra italiana.
Pensalibero.it
- Roberto Caputo - (2 Gennaio 2023) – ci dice:
Ora si
è arrivati alla fase finale.
Dove
però si ripete un vecchio e obsoleto rituale congressuale con primarie ormai
senza valore alcuno.
Con un
rischio molto vicino di una possibile scissione. Uno spettacolo tutto vintage.
Mentre il M5S succhia i voti con una scelta meridionalista assistenzialista e
una prassi moralista e giustizialista.
Non è
solo la sconfitta elettorale alle politiche e l’ultimo scandalo europeo a
determinare una pesante e forse irreversibile crisi della vecchia sinistra
italiana. Tutto ha inizio da molto lontano.
L’Italia del dopo guerra è stata l’unica
nazione europea ad avere un fortissimo Partito Comunista, con stretti legami
con il potere di Mosca.
Questo
ha condizionato per anni la politica nel nostro Paese.
E
neanche dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica il problema
è andato a risolversi.
Vi
sono stati solamente cambi di nomi, ma mai una scelta socialista o
socialdemocratica.
Per arrivare alla fusione a freddo tra ex
comunisti ed ex democristiani che ha generato il PD. Anomalie italiane.
Ora si
è arrivati alla fase finale.
Dove
però si ripete un vecchio e obsoleto rituale congressuale con primarie ormai
senza valore alcuno.
Con un
rischio molto vicino di una possibile scissione.
Uno
spettacolo tutto vintage.
Mentre
il M5S succhia i voti con una scelta meridionalista assistenzialista e una
prassi moralista e giustizialista. Per gli altri.
Ma una
parte del PD lavora per una alleanza coi grillini
.
Ignorando che l’elettore sceglie l’originale e non la brutta copia.
Con
qualche vecchio furbo baffuto che ci lavora.
Oltretutto
gli ultimi sondaggi indicano nell’elettore medio alto il piddino convinto. Ad
oggi in Italia non esiste una sinistra liberale moderna e neppure un leader in
grado di guidarla.
Adesso
è il tempo della destra. Anzi della Meloni.
(Roberto Caputo)
Se il
nemico è la Cina,
la
propaganda si vede meglio.
Sinistrainrete.info - Dante Barontini – (17
gennaio 2023) - ci dice:
Prendersela
con i media italiani è come sparare sui pupazzetti al luna park. Immobili,
ripetitivi, tutti uguali e tutti i giorni.
La
tendenza al lecchinaggio servile, già connaturata nella struttura proprietaria
delle testate (tutte di grandi gruppi che fanno i soldi in altri campi), è aggravata dall’evidente “ordine di scuderia” di creare un clima di guerra
permanente verso “nemici esterni”.
Tra
questi, oltre alla “cattiva Russia” – che almeno ha almeno attaccato un altro
paese, dopo aver a lungo cercato una mediazione – c’è ovviamente la Cina.
Con la
quale “noi” (i paesi europei) non abbiamo alcun contenzioso in sospeso e
intratteniamo solidi rapporti economici, un interscambio molto profittevole.
È
insomma economicamente da dementi prendersela con Pechino senza una ragione,
eppure si fa.
Proponiamo
all’attenzione, solo come esempio tra i tanti, questo titolo di Repubblica, che
giubila in
questo modo per la scoperta di un giacimento di terre rare… in Svezia.
A
voler essere seri – resta difficile, in certi casi – bisognerebbe far notare
che “un milione di tonnellate di ossidi di terre rare stimate” è una frazione
infinitesima di quelle esistenti al mondo:
secondo
l’insospettabile “United States Geological Survey “sono 120 milioni di tonnellate, di
cui più di un terzo, 44 milioni di tonnellate, situate in Cina, 22 milioni in
Vietnam, 21 milioni in Brasile, 12 milioni in Russia e 7 milioni in India.
Detto
brutalmente, quasi la metà sono in “territorio nemico” (Russia e Cina), e pure con il Vietnam toccherebbe
essere un po’ prudenti (ha già dato solide prove di indipendenza…).
In
ogni caso un milione di tonnellate è meglio di niente (lo 0,8%), sono peraltro
le uniche in Europa.
Ma con
questi spiccioli “non ci si salva”.
Se poi
passiamo alla descrizione della situazione sanitaria cinese, il delirio monta
incontrollabile.
Su
tutti i media sono apparse foto satellitari di fonte Usa (riprese dalla Cnn) in
cui si enfatizza drammaticamente la costruzione di nuovi parcheggi nei pressi
di ospedali o cimiteri.
Titolo
tipo: “L’impennata
dell’epidemia di Covid in Cina svelata dalle foto satellitari tra forni
crematori e pompe funebri”.
Che
laggiù ci sia stata un’”impennata” di contagi dopo la scelta di “riaprire
tutto”, ovviamente, non lo nega nessuno.
Neanche
le autorità di Pechino.
Da qui
ad immaginare “milioni di morti”, “lunghe code davanti ai crematori”, una
“frenata drammatica dell’economia” e – sotto sotto – un “impediamo che i
turisti cinesi possano arrivare qui”, altrettanto ovviamente ce ne corre.
In
fondo anche lì la maggior parte della popolazione si è vaccinata, hanno
continuato a portare mascherine in luoghi pubblici, le varianti del virus si
sono fatte meno mortali, ecc.
Se qui
si può “riaprire tutto”, insomma, perché mai se lo fanno anche laggiù dovrebbe
essere una tragedia?
I virus non guardano al passaporto, giusto?
E
dunque ci sembra importante riportare almeno brani di messaggi inviati da parte
di italiani che vivono e lavorano da quelle parti.
Perché
è abbastanza evidente che i “nostri” gazzettieri parlano della Cina come degli
anni ‘50 si parlava dell’Urss: un “sistema chiuso”, “preda della censura” e da
cui non entra e non esce nulla, tanto meno le notizie.
E
invece oggi in Cina ci sono centinaia di migliaia di lavoratori stranieri
(tecnici, dirigenti di azienda, manager di società in joint venture, ecc.) e
persino… centinaia di giornalisti!
Tutta
gente che entra ed esce dal paese, oggi senza restrizioni e periodi di
quarantena.
Tutta
gente che, soprattutto, telefona, scrive, chiacchiera, gira per le città,
incontra ogni giorno cinesi di ogni tipo e classe (per ragioni di lavoro e
non).
Gente
che, insomma, scrive a volte persino a gentaccia come noi…
Qui
due testimonianze proprio di questi giorni.
Da
Shanghai, per esempio, ci scrivono che dopo la riapertura totale dell’8 gennaio
“I
turisti cinesi si sono riversati in destinazioni come Thailandia, Singapore e
Malesia in seguito all’allentamento delle restrizioni sui viaggi all’estero del
Paese.
I dati
della piattaforma di viaggio online Ctrip mostrano che dal 27 dicembre gli ordini di hotel
thailandesi con un tempo di prenotazione superiore a 20 giorni hanno
rappresentato il 44% degli ordini totali di hotel da parte dei passeggeri della
Cina continentale.
Alcuni viaggiatori hanno persino già prenotato
un hotel all’estero per le vacanze di Capodanno nel 2024.
Secondo
un sondaggio dell’ITB China pubblicato a dicembre, il 76% delle agenzie di
viaggio cinesi ha indicato il sud-est asiatico come destinazione preferita dopo
il ripristino del turismo in uscita.
Indonesia,
Malesia, Filippine e Thailandia hanno annunciato che i viaggiatori in entrata
dalla Cina non avranno bisogno di test COVID prima della partenza”.
Non
sembra proprio di vivere in un incubo dominato dalla morte agli angoli delle
strade… Ma
forse Shangai non è il centro di questo (presunto) dramma, anche se i
giornalisti italici ce l’hanno descritta – in questi stessi giorni – proprio
con quelle tinte.
Da
Pechino, la capitale, per ovvie ragioni molto più ricca di giornalisti
occidentali a caccia di “scoop”, arriva quest’altra testimonianza, che prende
di mira, tra l’altro, proprio il giornalista-italiano-tipo, evidentemente
perché ne incrocia diversi…
“Qui a
Pechino ormai si vive esattamente come da noi, tranne forse per le mascherine
che qui ancora portano quasi tutti e restano obbligatorie sui mezzi e nei
luoghi pubblici chiusi. Non viene più richiesto il tampone per nessun tipo di
attività.
Dopo
tre anni si possono di nuovo richiedere una serie di visti di più breve durata
(business, riunioni familiari, studio ecc.), resta invece ancora sospesa
l’emissione di visti turistici, non si sa per quanto.
Per
entrare nel paese si chiede ancora un singolo tampone fatto nelle 48 ore precedenti
alla partenza, ma una volta arrivati qui non ci sono più controlli e si è
liberi di uscire.
Stanno
tornando anche gli stranieri.
Uno
dei problemi più grossi per la nostra stampa è che gli occidentali, giornalisti
compresi, stanno tutti nei centri delle grandi città e non escono mai, non
fanno inchiesta reale sul campo, nelle zone rurali.
Il
loro giornalismo è fatto da una prospettiva esclusivamente iper-urbana e sui
social network.
Per
capire cosa sta succedendo realmente nelle città secondarie e nelle campagne ci
si dovrebbe andare, ma non lo fanno.
È per
questo che quando c’erano “le proteste contro la politica zero covid” avevamo i
video, mentre ora non ci arriva più nulla.
La verità
è che su tutta la Cina che non è Pechino o Shanghai centro, gli unici dati e le
uniche notizie su cui possiamo contare sono quelle delle fonti governative e
dei giornali locali, che certamente saranno di parte, ma non le si può
semplicemente scartare con le solite accuse di censura e poca trasparenza, quando poi di inchiesta reale i
giornalisti qui non hanno alcuna intenzione di farne.”
Il
nostro anonimo “informatore” dimostra di conoscerne bene anche il modo di
lavorare, che evidentemente ha visto da vicino.
“Escono
di casa dal loro appartamento del centro per fare la spesa, fanno la foto a
quattro persone in fila davanti a una farmacia qualunque, poi citano tre o
quattro post polemici di qualche loro contatto su Weibo e riempiono il tutto
con le solite frasi che sembrano ‘fatti giornalistici’ mentre invece sono solo
retorica, tipo ‘al momento nessuno sa quanti morti realmente ci siano nel
paese’, e voilà, ecco confezionato l’articolo settimanale sulla Cina e il
covid.”
(i dati comunque ci sono e vengono resi noti su base
mensile: reuters.com/world/china/china-reports-59938-covid-related-hospital-deaths-since-dec-8-2023-01-14/)
E noi,
qui, che dovremmo sperare che sia una miniera svedese (tra 15 anni, dicono i
tecnici che hanno scoperto il giacimento) “a salvarci dalla Cina” …
In
conclusione, è chiaro che questo non è “giornalismo”, ma semplice propaganda
bellica.
E come
sempre la propaganda è rivolta al proprio “interno”, a persuadere la propria
popolazione (italiana ed europea) che “fuori c’è la jungla” ed è meglio non
mettere in discussione la “nostra” classe dirigente (imprenditori, politici,
giornalisti, ecc.). Perché potrebbe andarci molto peggio…
Però,
come ogni propaganda bellica, porta la data di scadenza sulla confezione. “Puoi mentire a una persona per tutta
la vita o puoi mentire a milioni di persone una sola volta. Ma non puoi mentire
a tutti per sempre…”
E quando
il volume della propaganda si alza troppo, quando le menzogne diventano
fantasmagoriche e dunque ridicole, è segno che quella data diventa molto
vicina…
UNESCO:
Conferenza Globale
contro
la Controinformazione.
Conoscenzealconfine.it
– (5 Marzo 2023) – Redazione – ci dice:
Le
elité si preparano a dichiarare guerra aperta alla controinformazione
utilizzando la censura tecnocratica.
L’Unesco
ha stilato le Linee Guida Globali per la Censura “Woke”
Il
22-23 Febbraio l’UNESCO ha organizzato una conferenza sulla “regolazione” dei
social, in cui è stata discussa la seconda versione della bozza (unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000384031.locale=en) delle loro linee guida.
Se si
legge oltre le finte belle parole messe lì per fare da specchietto per le
allodole, si scopre un piano totalitario di censura.
Si
considera la faccenda covid come una “crisi dell’informazione”) e si sostiene
che gli stati devono aumentare la “media and information literacy” (p 8, p
19-20), cioè insegnare ad evitare i canali di controinformazione per utilizzare
solo le fonti autorizzate dal governo.
La
controinformazione “mette a rischio la democrazia e il godimento dei diritti
umani” e per questo bisogna investire sui “fact checkers” (p.10, p. 24) e fare
un uso massiccio dell’IA (15-17).
I
social network devono mettere a disposizione dati per scopo di ricerca che
riguardino “discorsi d’odio”, “disinformazione” e “violenza di genere”
(p.18-19), e le norme della piattaforma devono essere redatte sulle basi dei
desideri delle “minoranze”, che devono svolgere ruolo attivo nell’identificare
i tipi di contenuti da rimuovere (p. 23).
Viene
addirittura detto che esistono delle organizzazioni non meglio specificate che
vanno in giro sui social network per offendere, minacciare e molestare donne a
caso, per ridurre la fiducia della società nei confronti delle donne (p. 23) e
per combattere questo bisogna creare degli algoritmi volti a rintracciare la
“disinformazione di genere”, gli stereotipi e i discorsi “tossici” (p. 23-24)
La
Narrazione della “Crisi dell’Informazione.”
Tutta
la conferenza – finanziata dalla UE (unesco.org/en/internet-conference/supporters)
– si è
basata sul sostenere che il covid è stato un “disastro della democrazia” perché
hanno permesso ai no vax di parlare e di esprimere delle idee dannose per la
collettività (leplusimportant.org/documents/2023/02/information-as-a-public-good-which-platform-regulation-for-a-troubled-digital-era.pdf/).
Il
clima emergenziale è stato esteso a qualsiasi forma di dissenso (unesco.org/en/articles/navigating-hate-speech-digital-sphere-role-education) che prenda come argomento un
qualsiasi argomento woke, per cui chi dissente da questa ideologia deve essere
censurato (articles.unesco.org/en/articles/role-policymakers-and-regulators-promoting-rights-based-approach-regulation-digital-platforms) nel nome della collettività e della
democrazia (informationdemocracy.org/2023/02/07/event-of-the-forum-on-information-and-democracy-on-february-21-at-unesco/).
La
loro tesi è che esiste un diritto della collettività ad avere “informazioni
sicure” e
che la controinformazione minacci questo diritto, e quindi vada censurata con
ogni mezzo possibile (articles.unesco.org/en/articles/using-unesco-recommendation-ethics-ai-advance-ai-governance-around-world), giustificandosi dicendo che i
giornalisti vengono aggrediti online (articles.unesco.org/en/articles/chilling-effect-psychosocial-effects-online-violence-journalists).
Si
propongono di controllare anche l’informazione politica durante i periodi
elettorali (articles.unesco.org/en/articles/freedom-expression-and-access-information-electoral-processes-challenges-facing-disinformation-and), arrivando al delirio puro, perché in
nome della democrazia (iamcr.org/unesco-preconference) soffocano gli scandali sui politici
dem (laptop
di Hunter Biden) e impediscono a voci antisistema di diffondersi.
Usare
la Controinformazione come Emergenza.
Tutto
questo allarmismo per i social è nato da una frase di Biden in cui dichiarò che
“i social
uccidono le persone”, perché a detta sua non facciamo vaccinare le persone e poi
queste muoiono di covid.
Quindi tutto ciò è la diretta conseguenza della
sconfitta che hanno subito e del trionfo della verità della controinformazione.
Sono
ben consapevoli che il vero problema siamo noi.
E,
invece di ignorarci, mandandoci al limite qualche sfigato come “David Sotto un Puente
o BUTAC”, adesso vogliono eleggere noi a nuovo “covid”, cioè renderci il nuovo
bersaglio dell’isteria di massa e del panico morale, e siccome la
controinformazione ha sconfitto la loro narrazione pandemica, vogliono creare
una narrazione proprio su di noi, e fare di noi una “pandemia”.
Del
resto la retorica è la stessa, e hanno coniato e utilizzato pure il termine
“infodemia”, paragonando la nostra attività a quella di un virus!
Conclusioni.
L’attacco
nei confronti della controinformazione lo possiamo superare solo se ci uniamo e
ci mostriamo privi di secondi fini, interessati solo alla verità, se
miglioriamo costantemente la qualità delle nostre informazioni e se continuiamo
con le prove a smontare ogni balla del mainstream.
(t.me/dereinzigeitalia)
(unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000384031.locale=en).
La
sottile linea rossa: dopo Kabul
la
NATO non
può permettersi
di
perdere anche Kiev.
Agerecontr.it – Pepe Escobar - "CHRISTUS
REX" – (18 OTTOBRE 2022) - STAFF – ci dice:
(Pepe Escobar - Come Don Chisciotte)
Cominciamo
con il “Pipelineistan”. Quasi sette anni fa, avevo mostrato come la Siria fosse
l’ultima guerra del “Pipelineistan”.
Damasco
aveva rifiutato il progetto – americano – di un gasdotto Qatar-Turchia, a
vantaggio di Iran-Iraq-Siria (per il quale era stato firmato un memorandum d’intesa).
Ne era
seguita una feroce e concertata campagna “Assad deve andarsene”: la guerra per procura come strada
per il cambio di regime.
La situazione era peggiorata esponenzialmente
con la strumentalizzazione dell’ISIS – un altro capitolo della guerra del
terrore (corsivo mio).
La Russia aveva bloccato l’ISIS, impedendo
così un cambio di regime a Damasco.
Il gasdotto favorito dall’”Impero del Caos”
aveva morso la polvere.
Ora
l’Impero si è finalmente vendicato, facendo esplodere i gasdotti esistenti –
Nord Stream (NS) e Nord Steam 2 (NS2) – che trasportavano o stavano per
trasportare il gas russo ad un importante concorrente economico dell’Impero:
l’UE.
Ormai
sappiamo tutti che la condotta B di NS2 non è stata bombardata, né perforata, ed è pronta a
partire.
Riparare le altre tre linee danneggiate non
sarebbe un problema: una questione di due mesi, secondo gli ingegneri navali.
L’acciaio dei Nord Stream è più spesso di quello delle navi moderne. Gazprom si è offerta di ripararle, a
patto che gli Europei si comportino da adulti e accettino severe condizioni di
sicurezza.
Sappiamo
tutti che questo non accadrà. Nulla di tutto ciò viene discusso dai media della NATO.
Ciò significa che il “Piano A dei
soliti sospetti” rimane in vigore:
creare
una voluta carenza di gas naturale che porti alla deindustrializzazione
dell’Europa, il tutto come parte del “Grande Reset”, ribattezzato “La Grande
Narrazione.”
Nel
frattempo, il “Muppet Show “dell’UE sta discutendo il nono pacchetto di
sanzioni contro la Russia.
La
Svezia si rifiuta di condividere con la Russia i risultati della losca
“indagine” intra-NATO su chi ha fatto esplodere i Nord Stream.
Alla
Settimana dell’energia russa, il Presidente Putin ha riassunto i fatti.
L’Europa
incolpa la Russia per l’affidabilità delle sue forniture energetiche, anche se
riceveva l’intero volume acquistato in base a contratti fissi.
Gli
“orchestratori degli attacchi terroristici del Nord Stream sono coloro che ne
traggono profitto.”
La
riparazione delle condotte del Nord Stream “avrebbe senso solo nel caso in cui
ne fossero garantiti il funzionamento e la sicurezza.”
L’acquisto
di gas sul mercato spot causerà una perdita di 300 miliardi di euro per
l’Europa.
L’aumento
dei prezzi dell’energia non è dovuto all’”Operazione Militare Speciale” (OMS),
ma alle politiche dell’Occidente.
Tuttavia,
lo spettacolo dei “Dead Can Dance” deve continuare.
Mentre l’UE si vieta da sola di acquistare energia
dalla Russia, l’eurocrazia di Bruxelles aumenta il suo debito con il casinò
finanziario.
I
padroni imperiali ridono a crepapelle per questa forma di collettivismo, mentre
continuano a trarre profitto utilizzando i mercati finanziari per saccheggiare
e depredare intere nazioni.
Il che
ci porta al punto cruciale:
gli psicopatici straussiani/neo-conservatori
che controllano la politica estera di Washington potrebbero – e la parola
chiave è “potrebbero” – smettere di armare Kiev e avviare negoziati con Mosca
solo dopo che i loro principali concorrenti industriali in Europa saranno
falliti.
Ma
anche questo non sarebbe sufficiente, perché uno dei principali mandati
“invisibili” della NATO è quello di capitalizzare, con qualsiasi mezzo, le
risorse alimentari della steppa pontico-caspica:
stiamo
parlando di 1 milione di km2 di produzione alimentare, dalla Bulgaria fino alla
Russia.
Judo a
Kharkov,
La SMO
si è
rapidamente trasformata in una CTO (Counter-Terrorist Operation) “soft”, anche senza un annuncio ufficiale.
L’approccio
senza fronzoli del nuovo comandante generale con piena carta bianca dal
Cremlino, il generale Surovikin, alias “Armageddon,” parla da sé.
Non
c’è assolutamente nulla che indichi una sconfitta russa lungo gli oltre 1.000
km del fronte.
La “ritirata
da Kharkov” potrebbe essere stata un colpo da maestro:
la prima fase di una mossa di judo che,
ammantata di legalità, si è sviluppata in pieno dopo il bombardamento
terroristico di Krymskiy Most – il ponte di Crimea.
Guardiamo
alla ritirata da Kharkov come ad una trappola – come ad una finta dimostrazione
di “debolezza” da parte di Mosca.
Questo
ha portato le forze di Kiev – in realtà i loro referenti della NATO – a
gongolare per la “fuga” della Russia, ad abbandonare ogni cautela e a darsi da
fare, avviando persino una spirale di terrore, dall’assassinio di Darya Dugina al
tentativo di distruzione del Krymskiy Most.
In
termini di opinione pubblica del Sud globale, è già stato stabilito che il “Daily
Morning Missile Show “del generale Armageddon è una risposta legale (corsivo
mio) ad uno Stato terrorista.
Putin potrebbe aver sacrificato (solo per un
po’) un pezzo della scacchiera – Kharkov: dopo tutto, il mandato dell’OMU non è
quello di non perdere terreno, ma di smilitarizzare l’Ucraina.
Mosca
ha persino vinto dopo Kharkov: tutto l’equipaggiamento militare ucraino
accumulato nell’area è stato lanciato in continue offensive, con l’unico
risultato di impegnare l’esercito russo in un tiro al bersaglio senza sosta.
E poi
c’è il vero colpo di scena: Kharkov ha messo in moto una serie di mosse che
hanno permesso a Putin di dare scacco matto, attraverso una CTO “soft”, ma
pesante di missili, riducendo l’Occidente collettivo ad un branco di polli
senza testa.
Parallelamente,
i soliti sospetti continuano a girare senza sosta la loro nuova “narrativa”
nucleare.
Il
Ministro degli Esteri Lavrov è stato costretto a ripetere ad nauseam che,
secondo la dottrina nucleare russa, un attacco nucleare può avvenire solo in
risposta ad un’offensiva “che metta in pericolo l’intera esistenza della
Federazione Russa.”
L’obiettivo
degli psicopatici assassini di Washington – nei loro sogni erotici – è quello
di indurre Mosca ad usare le armi nucleari tattiche sul campo di battaglia.
Questo
è stato un altro fattore che aveva spinto ad affrettare i tempi dell’attacco
terroristico al ponte di Crimea, dopo che i piani dell’intelligence britannica
erano stati elaborati da mesi.
Tutto
ciò si è risolto in un nulla di fatto.
La
macchina isterica della propaganda straussiana/neoconservatrice sta
freneticamente, preventivamente, attaccando Putin: è “messo all’angolo,” sta
“perdendo,” sta “diventando disperato” e quindi lancerà un’offensiva nucleare.
Non
c’è da stupirsi che l’orologio del giorno del giudizio, creato dal “Bulletin of
the Atomic Scientists “nel 1947, sia ora posizionato a soli 100 secondi dalla
mezzanotte.
Proprio “alle porte dell’Apocalisse.”
Ecco
dove ci sta portando un gruppo di ricchi psicopatici americani.
La
vita alle porte dell’Apocalisse.
Mentre
l’Impero del Caos, della Menzogna e del Saccheggio è pietrificato dal
sorprendente doppio fallimento di un massiccio attacco economico/militare, Mosca si sta sistematicamente
preparando per la prossima offensiva militare.
Allo
stato attuale, è chiaro che l’asse anglo-americano non negozierà.
Non ci
ha mai provato negli ultimi 8 anni e non ha intenzione di cambiare rotta
adesso, nemmeno incitato da un coro angelico che va da Elon Musk a Papa
Francesco.
Invece
di fare come Tamerlano e accumulare una piramide di teschi ucraini, Putin ha
invocato “eoni” di pazienza taoista per evitare soluzioni militari.
Il
Terrore sul ponte di Crimea potrebbe aver cambiato le carte in tavola.
Ma i
guanti di velluto non sono stati tolti del tutto: La routine aerea quotidiana del
generale Armageddon può ancora essere vista come un avvertimento –
relativamente educato.
Anche
nel suo ultimo, storico discorso, che conteneva un duro atto d’accusa contro
l’Occidente, Putin ha chiarito di essere sempre aperto ai negoziati.
Tuttavia,
Putin e il Consiglio di Sicurezza sanno bene perché gli Americani non possono
negoziare.
L’Ucraina
sarà anche solo una pedina del loro gioco, ma è pur sempre uno dei nodi
geopolitici chiave dell’Eurasia: chi la controlla, gode di una maggiore
profondità strategica.
I
Russi sanno bene che i soliti sospetti sono ossessionati dall’idea di mandare
all’aria il complesso processo di integrazione dell’Eurasia, a partire dalla
BRI cinese.
Non
c’è da stupirsi che importanti istanze di potere a Pechino siano “a disagio”
con la guerra.
Perché
questo è molto negativo per gli affari tra la Cina e l’Europa attraverso
diversi corridoi trans-eurasiatici.
Putin
e il Consiglio di Sicurezza russo sanno anche che la NATO ha abbandonato
l’Afghanistan – un fallimento assolutamente miserabile – per puntare tutto
sull’Ucraina. Quindi, perdere sia Kabul che Kiev sarebbe il colpo mortale definitivo:
ciò significherebbe lasciare il XXI secolo eurasiatico tutto a favore del partenariato
strategico Russia-Cina-Iran.
I
sabotaggi – dai Nord Streams al Krymskiy Most – fanno capire il gioco della
disperazione.
Gli
arsenali della NATO sono praticamente vuoti.
Ciò che resta è una guerra del terrore: la
sirianizzazione, anzi l’ISIS-izzazione del campo di battaglia.
Gestita
da una NATO cerebralmente morta, combattuta sul terreno da un’orda di carne da
cannone con in più mercenari provenienti da almeno 34 nazioni.
Mosca
potrebbe quindi essere costretta ad andare fino in fondo – come ha rivelato il
sempre freddo Dmitry Medvedev:
ora si tratta di eliminare un regime
terroristico, smantellare totalmente il suo apparato politico-sicurezza e poi
facilitare l’emergere di un’entità diversa.
E se la NATO continuerà a bloccarla, lo
scontro diretto sarà inevitabile.
La
sottile linea rossa della NATO è che non può permettersi di perdere sia Kabul
che Kiev.
Eppure
ci sono voluti due attentati terroristici – in Pipelineistan e in Crimea – per imprimere una linea rossa molto
più netta e bruciante:
la
Russia non permetterà all’Impero di controllare l’Ucraina, costi quel che
costi.
Questo
è intrinsecamente legato al futuro del Partenariato della Grande Eurasia. Benvenuti
nella vita alle porte dell’Apocalisse.
(strategic-culture.org)
(strategic-culture.org/news/2022/10/12/the-thin-red-line-nato-cant-afford-to-lose-kabul-and-kiev/)
Attacco
all'Eurasia.
Ereticamente42.rssing.com
- Umberto
Bianchi – (17 marzo 2022) – ci dice:
Come
d'improvviso, la nostrana opinione pubblica assieme a quelle di mezza Europa,
sembra essersi dimenticata del famigerato Covid.
I dati
sulla pandemia vengono oramai frettolosamente e disinteressatamente
snocciolati, l'emergenza sanitaria sembra squagliarsi dinnanzi all'avvicinarsi
di una stentata stagione primaverile…
Fine
dello stato d'emergenza dunque?
Fine
delle paure e ritorno ad una sia pur difficile, normalità? Manco per nulla.
Parafrasando un antico detto: “morta un'emergenza se ne fa un'altra”. E così, con una sollecitudine
senza precedenti, i nostri non-eletti governanti ci hanno amorevolmente
trasbordato verso un'altra ed ancor più esiziale emergenza: quella bellica.
L'Italietta
del peloso buonismo, l'Italietta paci finta e così lesta nel condannar le
altrui magagne, quell'Italietta sempre pronta ad incensare e magnificare “la Costituzione più bella del
mondo”,
ebbene quell'Italietta si è, d'improvviso trasformata in un paese dal cipiglio
serioso ed aggressivo, animato da un linguaggio politico becero e massimalista.
Erettasi a paladino delle (altrui…) libertà, senza badar a cavilli, distinguo,
dettati giuridico-istituzionali, considerati ormai alla stregua di oggetti da
anticaglia, la nostra Italietta ha deciso di mostrare i muscoli, tirando fuori
fior di quattrini per fornir armi al regime-fantoccio di Zelenski ed al
contempo, spalancando le porte (ed i cordoni della borsa...) ad un afflusso di
migranti senza precedenti, dalle zone del conflitto.
Il
tutto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ad una classe politica
totalmente asservita ai diktat di un mainstream eterodiretto da Oltreoceano, ma anche per mostrare di non aver
rinunciato al proprio volto buono, anzi buonista, facendo incetta di futuri cittadini
italiani , sicuramente destinati ad ingrossare la fila del mercato di esseri
umani, destinati a lavoro servile, prostituzione e criminalità.
In
tutto questo, la cosa che lascia maggiormente stupiti, è la criminale idiozia con cui
l'Europa tutta e l'Italia in particolare, si stanno avviando alla propria
cosciente, autodistruzione.
Alla
base di tutto questo sta un particolare, forse sfuggito ad una pubblica
opinione tratta dai propri conati di buonismo, ovverosia che a nessuno è mai e poi
mai, venuta l'idea di chiedere alla Federazione Russa,
in
merito.
Eppure,
se andiamo a ben vedere, la Russia, dal punto di vista geopolitico e
geoeconomico, riveste un'importanza che né l'Ucraina, né i piccoli stati
baltici, né altri attori dell'Europa orientale, rivestono.
La
Russia si estende su una superficie che ricopre una bella porzione del nostro
pianeta, è caratterizzata da immensi spazi e da numerose risorse naturali.
Con
l'Italia, in particolare, il grande paese vanta una consolidata tradizione di
fiorente interscambio economico e commerciale, nel quale rientrano anche,
quelle forniture di gas, di cui oggi tanto si parla.
Non
solo. La Federazione Russa rappresenta un vero e proprio ponte geostrategico
tra Europa ed Asia, un suo ingresso nella Comunità Europea, avrebbe rappresentato
un grandioso rafforzamento di quest'ultima, nella veste di vero e proprio
blocco continentale.
Ed
invece cosa ti fa, la tremebonda Europa di Bruxelles?
Senza
esitazione alcuna, cerca di cooptare tra le proprie fila, tutta una serie di
paesi alla Russia limitrofi, nell'ambito di quella che, senza troppi eufemismi,
altri non è che un'a manovra di accerchiamento del grande paese.
Alla
base di tutto questo vi sono, fondamentalmente due motivi, strettamente
interrelati.
Il primo, di ordine più immediato, riguarda
la ragion d'essere dei vari gasdotti, colleganti la Russia al resto d'Europa e
che gli Usa hanno sempre visto come un pugno nello stomaco ai propri interessi
geoeconomici.
Pertanto,
la recente e masochistica mossa tedesca di chiudere i rubinetti del gasdotto “nord
stream”, è stata vista dall'amministrazione Usa come una vera e propria manna
dal cielo, un viatico ad una massiccia esportazione del gas americano verso
l'Europa,
Il
secondo motivo, di ordine più generale, rientra in una più generale impostazione
geopolitica e geostrategica, che vede il ripetersi di quello che sembra essere
una costante della storia occidentale da quattro secoli a questa parte.
Il
tentativo da parte delle potenze “talassocratiche”, Gran Bretagna prima e Stati
Uniti poi, di esercitare un diretto dominio sul “kontinentalblock” eurasiatico,
ovverosia su quell'immenso continuum continentale, che va dall'Irlanda a
Vladivostock, denso di popoli, cultura e tradizioni che, senza timore, si può
tranquillamente affermare, hanno letteralmente dato luce al mondo.
Dall'assalto ai galeoni spagnoli che, dalle
Americhe servivano carichi d'oro, con la pirateria dei vari Sir Francis Drake,
passando per l'attacco all'impero napoleonico, sino all'eliminazione degli
Imperi Centrali e poi successivamente.
Nello
specifico, gli Usa nell'ordine mondiale bipolare, venutisi a prendere
nell'immediato dopoguerra, hanno potuto consolidare le proprie posizioni ed il
proprio modello socio-economico, (quello liberal capitalista), a discapito di
un sempre più obsoleto e sclerotizzato modello sovietico .
La
stessa caduta del Muro di Berlino, sembrava aver spalancato le porte a quella
definizione che, Francis Fukuyama avrebbe “la fine della Storia”, ovverosia l'uniformazione dell’intero
orbo terracqueo al modello liberista capitanato dagli Usa che avrebbe,
pertanto, determinato la fine di qualunque competizione geopolitica o
geostrategica che dir si voglia.
Invece,
l'emergere di nuove realtà come la Cina, nel ruolo di “competitors” nei
riguardi degli Usa, accompagnati dalla rinascita del ruolo di potenza
continentale della Russia, ora non più sospinta da una stantia ideologia
bolscevica ma, piuttosto da uno spirito che ci riporta con la memoria ad autori
slavofili come Nicolaj Sergeevič Trubeckoj (1890-1938) e Lev Gumilëv
(1912-1992).
Fautori questi ultimi, di un acceso eurasismo,
proprio in contrapposizione allo “smaccato atlantismo” di quei gruppi di potere
finanziario, strettamente legati alla potenza talassocratica Usa.
E pretesto migliore non poteva venire se non
dall'annosa questione ucraina e dal suo passaggio, da una politica estera di
neutralità ad un riposizionamento smaccatamente filo globalista, espresso dal
desiderio di fare il proprio ingresso nella Nato.
Il
che, avrebbe significato una forma di minaccia e di condizionamento
geostrategico, da potersi esercitare in qualsiasi momento, nei confronti della
Federazione Russa, verso la quale è da sempre esistito da parte del mondo
“occidentale” un atteggiamento di snobistica demonizzazione.
Quello
che dovrebbe essere un rapporto di proficuo partenariato tra est ed ovest
dell'Eurasia, quello che poteva trasformarsi un'importante area di influenza
sulle scelte di geopolitiche ed economiche a livello globale, è stata, invece,
trasformata in un'area di frizione e scontro tra due realtà che, da questo
scontro, usciranno solamente più indebolite.
Il
tutto, a vantaggio della potenza Usa e dei centri di potere finanziario ad essi
collegati.
L'intera
vicenda è poi condita da una quanto mai faziosa ed narrazione unidirezionale,
che vede nell'Ucraina l'unica, innocente, vittima sacrificale, dimenticando
che, dal 2014 in poi, anno del colpo di mano filo occidentale a Kiev, le
regioni russofone del Donbass e del Donetsk sono state sottoposte da parte del
regime ucraino, ad un vero e proprio genocidio, con tanto di bombardamenti al
fosforo ed altre consimili amenità, che si stima abbiano portato a ben 18.000
morti tra la popolazione civile di quelle zone.
Ora,
chiarito il quadro, l'intervento militare russo assume ben altra valenza,
rispetto a quella offertaci dai media embedded. Non di aggressione, bensì di un
quanto mai disperato tentativo di uscire dall'accerchiamento Nato, si tratta.
Tant'è che, una delle precondizioni poste da
Putin all'esecutivo ucraino, era proprio quella della neutralità.
Precondizione
che, nelle ultime ore, sembra esser stata accettata dalla Presidenza Zelenski,
nel nome di una mossa dalla forte carica mediatica e propagandistica ed anche,
molto probabilmente, visto l'elevato costo in termini di distruzioni e vittime
che, la resistenza alle truppe russe sta comportando.
Il
disegno globalista va facendosi sempre più palese, in tutti i suoi risvolti.
Lo stato di emergenza globale sanitaria prima,
ora quello per gli eventi bellici ucraini, fanno parte di un unico disegno
volto a comprimere ed intimidire le opinioni pubbliche occidentali, al fine di
aver le mani slegate, per infliggere il colpo finale all'ultimo ostacolo
rimasto, al
progetto di dominio su scala globale di Lor Signori: la Federazione Russa.
In tutto questo, forte permane lo sconcerto, di fronte alla miopia ed alla
malafede di una classe politica imbelle che, priva di qualsiasi forma di
legittimazione popolare e totalmente asservita ad interessi ben lontani da
quelli della gente, sta portando avanti una vera e propria tabella di marcia “contra Salus populi”.
A
questo punto, di fronte ad aumenti di prezzi, criticità, crisi economiche e
conseguente generale immiserimento, a fare la differenza, sarà l'esasperazione
popolare.
Quali che siano, le modalità e quali i tempi
perché questo avvenga, è difficile dirlo, ma stiamo già sulla strada giusta.
Il malcontento e la coscienza di quanto sta
accadendo, sono oggi, più che mai, presentabili a livello epidermico, tra la
gente.
Quella
gente della quale, Lor Signori, si sono dimenticati ed alla quale registrati,
prima o poi, pagano un prezzo salato.
(UMBERTO
BIANCHI)
L’ossessione
di Putin per l’Ucraina.
Internettuale.com
– Redazione – (20-11-2022) – ci dice:
Le
ragioni per cui il presidente russo Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina per la
seconda (e stavolta globale) volta in meno di dieci anni riguardano soprattutto
la strategia militare e la geopolitica:
tra le altre cose Putin vuole impedire
l’espansione della NATO in Ucraina (espansione che peraltro la NATO non ha
nessuna intenzione di mettere in atto) e limitare la presenza politica e militare
dell’Occidente vicino ai confini russi (che invece si è estesa negli ultimi
vent’anni).
Un’altra
ragione molto citata dallo stesso Putin, e usata soprattutto nella propaganda
interna, riguarda la Storia.
Da
diversi anni Putin sostiene pubblicamente che russi e ucraini siano «un solo
popolo».
Lo disse nel 2014 in occasione dell’annessione
della Crimea, lo ha ripetuto frequentemente durante le interviste e negli
interventi pubblici e lo ha spiegato lungamente in un pamphlet pubblicato nel
luglio del 2021 e intitolato “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”, in
cui Putin scriveva di «credere fermamente» che i due popoli siano «una sola
unità».
Un
intento palingenetico e panrusso che prende il nome di “Russkij Mir”
(approfondimento più avanti).
La
convinzione che russi e ucraini siano un solo popolo si esprime anche nella sua
conseguenza più evidente: un solo popolo non ha bisogno di due Stati, e
chiunque provi a dividerlo sta andando contro la Storia.
Per
questo Putin ritiene che la fine dell’Unione Sovietica, che comportò tra le
altre cose la separazione tra Russia e Ucraina, abbia avuto come conseguenza la
disastrosa «disintegrazione della Russia storica», intendendo con questo che i
confini della Russia storicamente intesi dovrebbero comprendere anche il
territorio ucraino (e quello della Bielorussia).
Portando
poi questo ragionamento alle estreme conseguenze, più e più volte Putin e i
suoi alleati politici hanno sostenuto che l’Ucraina «non è nemmeno uno Stato».
In un’intervista di qualche tempo fa, Vladislav Surkov, consigliere di Putin
sulla questione ucraina poi caduto in disgrazia, disse che l’Ucraina non è una
nazione ma «uno stupefacente entusiasmo per l’etnografia, portato agli
estremi».
Secondo
vari esperti, Putin ha una specie di ossessione nei confronti dell’Ucraina, e
quest’ossessione è condivisa con il resto dell’establishment russo che, come ha
scritto di recente l’Economist, «non ha mai accettato l’indipendenza» del
Paese.
L’ossessione
si alimenta di interpretazioni parziali della Storia e teorie sulla formazione
etnica dei popoli russo e ucraino, oltre che su pretese imperialistiche che
risalgono al periodo sovietico, e in alcuni casi ancora prima, al periodo
zarista.
Ma il
problema principale, come stiamo vedendo in questi mesi di tensioni militari, e
come si vede in realtà ormai da un decennio, è che l’ossessione russa nei
confronti dell’Ucraina non è ricambiata.
Nel
suo pamphlet, Putin ha scritto che la ragione principale per cui russi e
ucraini (e anche i bielorussi) sarebbero oggi lo stesso popolo è che tutti sono
«discendenti» del cosiddetto “Rus’ di Kiev”, cioè un insieme di tribù slave,
baltiche e finniche che nel IX Secolo creò una lasca entità monarchica che si
estendeva dal mare Bianco nel nord al mar Nero nel sud, e che dunque
comprendeva parte dell’attuale territorio ucraino, bielorusso e russo.
L’unità
del Rus’ di Kiev, consacrata dalla conversione al cristianesimo ortodosso, è
per Putin il fondamento della cultura russa che ancora oggi lega assieme i tre
popoli. Tutto questo, prima ancora che Mosca fosse fondata.
Molti
storici oggi sostengono che questa interpretazione del “Rus’ di Kiev “debba
essere considerata un mito.
Non
tanto perché il Rus’ di Kiev non abbia avuto un ruolo nelle varie formazioni
che sono venute dopo, quanto perché trarre conclusioni politiche da fatti
storici avvenuti oltre un millennio fa è piuttosto irragionevole.
Inoltre
il Rus’ di Kiev si divise ben presto.
Semplificando
molto, fu invaso dai mongoli, che mantennero per qualche secolo il controllo
della parte russa, mentre i territori dell’attuale Ucraina furono dominati in
vari modi da lituani, polacchi, svedesi e in parte anche dall’impero
austroungarico.
La
lingua ucraina si sviluppò separatamente da quella russa, e per secoli
l’aristocrazia ucraina, soprattutto nella parte occidentale del Paese, rimase
legata all’Europa continentale.
Anche
quando l’impero zarista conquistò nel XVIII Secolo buona parte dell’attuale
territorio ucraino, i programmi di integrazione culturale e linguistica della
“piccola Russia” (così era chiamata una parte di territorio ucraino sotto
l’impero russo) non ebbero mai pieno successo.
I
tentativi di integrazione proseguirono anche dopo la Rivoluzione russa, con
risultati alterni.
Non
contribuì alla causa russa il fatto che i coltivatori locali furono tra le
principali vittime delle disastrose politiche agricole di Stalin, che unite
alla repressione all’inizio degli anni Trenta provocarono la morte di milioni
di ucraini (le stime variano dai tre ai cinque milioni di persone) e che oggi
sono considerate un genocidio da molti ucraini (il famigerato “Holodomor”).
Ciò
non significa che i legami storici, culturali e linguistici tra Russia e
Ucraina non siano fortissimi:
oggi la maggior parte degli ucraini è
bilingue, e soprattutto nella parte orientale del Paese (quella occupata dalle
forze separatiste filo-russe, per non parlare della Crimea, che è stata
annessa) la maggior parte degli abitanti ha origine russa e parla il russo come
lingua principale.
Questo
vale anche per “Volodymyr Zelensky”, il presidente del paese, che viene dalle
regioni orientali e, benché sia bilingue, parla il russo più fluentemente
dell’ucraino.
Ma,
come ha scritto l’Economist, mentre per la maggior parte degli ucraini questi
legami e vicinanze fanno parte di un importante patrimonio storico, per i russi
sono un elemento identitario: «Per secoli l’Ucraina ha determinato l’identità
russa. […] L’idea che Kiev potesse essere soltanto la capitale di uno Stato
vicino era impensabile per i russi.
Ma non
lo era per gli ucraini».
L’Ucraina
è sempre stata al centro dei progetti imperiali russi, e perdere il dominio sul
Paese significava, di fatto, rinunciare alla possibilità di un impero.
Lo si
vide con il crollo dell’Unione Sovietica, il cui scioglimento come entità
politica fu deciso definitivamente nella notte dell’8 dicembre 1991 nella dacia
di Belaveža, in Bielorussia, dopo un lunghissimo incontro tra il presidente
russo Boris Eltsin, quello ucraino Leonid Kravchuk e quello bielorusso
Stanislav Shushkevich.
In quel periodo, l’economia russa era al
collasso e fu Eltsin a farsi promotore, benché riluttante, della dissoluzione
dell’Unione Sovietica, con l’obiettivo di concentrarsi soltanto sulla Russia,
sganciare i pesi morti delle altre repubbliche e l’onere delle ambizioni
imperiali sovietiche.
La
decisione di dissolvere l’Unione Sovietica e rinunciare a ogni forma di
controllo ufficiale su Ucraina e Bielorussa fu estremamente complessa, non
soltanto perché l’Ucraina era la seconda economia dell’Unione e conservava sul
suo territorio abbastanza testate nucleari da essere la terza potenza mondiale
in questo settore (la questione poi fu risolta con l’accordo di Budapest del
1994).
Quando Mikhail Gorbacëv, che era ancora
presidente dell’Unione Sovietica, seppe della decisione di Eltsin, si infuriò,
tra le altre cose perché sua madre era ucraina, e lui stesso aveva trascorso
l’infanzia immerso nella cultura ucraina: rinunciare all’Ucraina significava
rinunciare a un pezzo di identità.
In
quel periodo Aleksandr Solženicyn, uno degli intellettuali russi più influenti
del Novecento, aveva da poco pubblicato un saggio intitolato “Come ricostruire
la nostra Russia” in cui, tra le altre cose, esortava l’Unione Sovietica a
concedere l’indipendenza alle repubbliche sovietiche non slave (cioè quelle
dell’Asia centrale), e a costruire un grande Stato slavo che comprendesse
Russia, Ucraina, Bielorussia e parte del Kazakistan.
E se
questo non fosse stato possibile, in ogni caso i legami tra i popoli slavi e
russificati avrebbero dovuto essere mantenuti a ogni costo. Anche Aleksandr
Solženicyn, come Putin e altri, citava tra le ragioni di questa unione il “Rus’
di Kiev” e la religione ortodossa, tra le altre cose.
Negli
ultimi anni la Russia di Putin è intervenuta in tutti i paesi citati da
Solženicyn, attraverso azioni militari o inviando aiuti ai dittatori locali.
Ma
appunto, il problema principale di quest’ossessione russa per l’Ucraina è che
non è ricambiata.
Già da
decenni l’Ucraina e la sua società gravitano verso l’Europa e l’Occidente. Con
l’accordo di Budapest del 1994, l’Ucraina accettò di consegnare tutte le sue
armi nucleari in cambio della garanzia che la Russia avrebbe rispettato i suoi
confini (promessa rimangiata due decenni dopo).
Nel
2004 la “rivoluzione arancione”, in difesa della vittoria elettorale del
candidato filo europeo Viktor Yushenko, fu per Putin il primo allarme del fatto
che rischiava di perdere la sua influenza sull’Ucraina, confermato poi dalle
proteste di Kiev del 2014, che sfociarono nella tesa situazione attuale.
Oggi,
il 90% degli ucraini vuole che il Paese resti indipendente, e il 75% vorrebbe
entrare nell’Unione Europea.
Perfino nella parte orientale del Paese, il
famoso Donbass, dove buona parte della popolazione ha origini russe, quasi il
60% degli abitanti vorrebbe entrare nell’Unione.
E come
ha detto la giornalista ucraina Nataliya Gumenyuk al New Yorker, per il regime
di Vladimir Putin non costituisce una minaccia soltanto l’indipendenza dell’Ucraina,
ma anche la sua libertà e democrazia, benché imperfette:
«Putin
si sente offeso e tradito dall’Ucraina e dagli ucraini, non soltanto dal
governo ucraino. E penso che per lui sia piuttosto importante provare che no,
la democrazia in Ucraina non è davvero genuina, che è stata imposta
dall’Occidente. Perché ammettere che le società possono essere democratiche
autonomamente significa ammettere che il cambiamento è possibile in
Bielorussia, in Georgia e perfino in Russia».
Le
letture euroasianiste/cristianortodosse di Vladimir.
Per
capire la visione putiniana è esemplare un’opera architettonica inaugurata nel
2020:
la
Cattedrale delle forze Armate Russe a Kubinka, settanta chilometri da Mosca.
La cattedrale è di color cachi, come il colore
dell’uniforme dell’Armata Rossa.
Il pavimento è costruito con la lega dei carri
armati nazisti rimasti sul suolo russo dopo la vittoria contro la Germania
nella Seconda Guerra Mondiale (che in Russia chiamano in un altro modo: “Grande Guerra Patriottica”).
Sulle
pareti della cattedrale i soldati russi sono raffigurati accanto ai santi
cristiani: non solo le truppe che hanno combattuto e vinto i nazisti, ma anche
quelle che hanno invaso l’Ungheria, la Cecoslovacchia, l’Afghanistan, e, più di
recente, hanno combattuto in Cecenia, in Georgia e, ancora, in Siria, tutte
guerre sacralizzate.
Un recupero della dimensione bellica del
cristianesimo, la stessa che dominava in Europa all’epoca delle Crociate.
Da
quando alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, nel 2007, si scagliò
apertamente contro gli Stati Uniti e quelli che considera i suoi vassalli, gli
europei, Putin ha affiancato alla politica una dimensione pienamente culturale,
in una veste chiaramente ideologica.
Le sue
nemiche sono le «tre vergogne»: democrazia, ecumenismo e globalizzazione.
In
quello stesso anno dichiarò davanti alla Duma: «Vorrei che tutti capissero che
i prossimi anni saranno decisivi. Ci sarà una grande battaglia tra chi guiderà
il mondo e chi ne rimarrà alla periferia. Il risultato non dipenderà dalle
potenzialità economiche, ma dalla volontà di ogni nazione, dalla sua energia
interiore, ciò che Lev Gumilëv chiamava passionarnost:
la capacità di spingersi oltre e imbracciare il
cambiamento».
Gumilëv
era uno studioso delle civiltà centroasiatiche, figlio di due importanti
dissidenti del comunismo:
Nikolaj
Gumilëv, ucciso dai bolscevichi nel 1921 e l’indimenticabile poetessa Anna
Achmatova.
Arrestato nel 1935, durante gli anni del
terrore staliniano, Gumilëv fu rinchiuso in un campo di lavoro nel 1938.
Mentre
vedeva i suoi compagni di prigionia morire di fatica oppure uccisi dal freddo,
scavando accanto a loro il Canale del Mar Bianco, entrò in contatto, racconta,
con una dimensione non razionale della Storia che guida i popoli.
Nella
sua opera principale, “Etnogenesi e biosfera della Terra”, Gumilëv parla della
“capacità di soffrire” e del “sacrificio” come segno innegabile della
grandezza.
La “passionarnost”,
appunto. E ben prima di Aleksandr Dugin, individuò lo spazio geografico e
spirituale dell’Eurasia, un luogo che naturalmente si oppone al progresso e
alla ragione che vengono dall’Europa e gli Stati Uniti.
Nella
mente di Putin l’Occidente è irreparabilmente compromesso nei valori, in preda
alla corruzione morale.
Dal
punto di vista di Putin, l’instaurazione di un regime democratico a Kiev è una
minaccia all’integrità della Russia, data la vicinanza non solo geografica ma
culturale di quel Paese alla Russia, come se attraverso le porte dell’Ucraina
potesse entrare in Russia il veleno della decadenza occidentale.
Secondo
Putin, «la democrazia è un regime estraneo alla civiltà russa».
La sua
concezione del potere è imperniata sulla stabilità, l’unica condizione che
permette a un sovrano di occuparsi del destino di un popolo, trascurando le
trivialità del governo.
Ma se
il regime dell’alternanza funzionasse in Ucraina, data la fraternità dei due
popoli, dimostrerebbe che esso non è affatto incompatibile con la Russia.
E questo
minerebbe l’intera costruzione dell’alterità russa.
Il
“Russkij Mir” e gli altri deliri pseudostorici.
È la
domanda che tutto il mondo si pone con grande curiosità: «cosa passa nella
testa di Putin?».
Qual è il vero scopo dei suoi discorsi
intimidatori alla televisione, pieni di incoerenze?
Per
cercare di scoprirlo, può essere utile affidarsi alle analisi dei politologi,
con le loro fonti colte e il loro metodo efficace.
Ed è validissimo pure l’approccio
storico-biografico, cerebrale, di matrice psicanalitica, che si concentra
sull’analisi del suo linguaggio.
In tal
modo si evidenziano persino le parentele del suo vocabolario con il lessico del
Terzo Reich.
Basti
notare che il leader russo, parlando di “soluzione finale” della questione
ucraina, ha auspicato una okonchatelnoe reshenie (equivalente russo
dell’Endloesung tedesco), richiamando proprio la “soluzione finale” prospettata dai nazisti contro gli
ebrei a partire dalla Conferenza di Wannsee del 1942 (e poi i nazisti sarebbero
in Ucraina…).
C’è
però un’altra via, abbastanza inedita, per cercare di comprendere i recenti
avvenimenti.
Si tratta di recuperare nel substrato
storico-antropologico e di analizzare alcuni concetti del pensiero post-sovietico,
come la nozione di “Universo russo” (Russkij Mir), utili ad aggiungere un elemento
nuovo al dibattito culturale.
Per
esempio, emerge che la politica di Putin si appoggia su specifiche formulazioni
pseudostoriche come la “Nuova Cronologia”:
una
corrente di pensiero sconosciuta agli europei, ma estremamente popolare in
Russia, nonostante le evidenti stranezze che presenta (o forse proprio per
queste).
Analizzando
nel dettaglio queste tendenze di pensiero, scopriremo il lato irrazionale della
mentalità dello stesso leader russo e potremo ragionare sui suoi legami con un
certo “assolutismo
magico”.
Ci
troveremo a muoverci tra invenzioni storiografiche, falsificazioni, cospiratori
di regime e personaggi che sembrano usciti da uno dei romanzi d’appendice tanto
cari a Umberto Eco — a tal proposito, non si può non pensare a romanzi come Il “pendolo
di Foucault e Il cimitero di Praga”, costruiti proprio sulla contraffazione
della Storia.
Da
anni gli analisti osservano come Putin sia vicino a una ideologia molto attuale
in Russia che si basa su una corrente filosofica nota come Noomachia (“Guerra tra civiltà”) e sulla
dottrina politica già citata di Russkij Mir (“universo russo”). Quest’ultimo
termine è stato scelto per definire l’utopia di uno Stato ideale che unisca
tutti i territori nei quali vivono, o hanno vissuto, etnie russe.
Ivi
comprese le terre dove vissero in tempi remoti, nell’era della mitica “civiltà primordiale slava”.
È da qui che ha origine l’ossessione dei russi
per la penisola di Crimea: secondo il concetto di “Russkij Mir”, le terre “ancestrali slave” prima
o poi si concentreranno attorno alla poderosa Terza Roma, ossia Mosca, seguendo
la profezia del mitico eremita Filoteo (1533 d.C.).
Per
comporre i pezzi di questa Russia ideale, bisogna che nasca un superuomo, un
moderno Messia.
Un
canone arcano gli impone, prima di agire, di aspettare la data fatale: il
momento in cui sarà finita una grande peste, la Morte Nera che falcerà i
popoli, come indicato nell’Apocalisse.
A quel punto la messe sarà pronta.
Il
“Raccoglitore di tutte le terre russe” è l’appellativo che spetta al mitico
condottiero, consacrato a ciò che nel suo ambiente è noto come “il Piano”.
Parlando
ai giornalisti, nel corso di una conferenza stampa con Olaf Scholz il 15
febbraio 2022, Putin malignamente profetizzò enigmatico: «Tutto procederà secondo il Piano».
Alla
domanda sulla consistenza del Piano si rifiutò di rispondere, tuttavia ribadì
con insistenza: «Il Piano, noi sappiamo qual è».
Nel
suo successivo discorso rivolto alla nazione russa ha poi ribadito: «Noi procediamo secondo il Piano».
(Il Piano,
come possiamo vedere oggi, a quanto pare prevedeva bombardamenti di civili;
prevedeva migliaia di orfani, vedove, incendi, bambini uccisi; prevedeva
braccia e gambe strappate ai giovani soldati russi freschi di leva; prevedeva
che la centrale atomica di Zaporizhia si trasformasse in una bomba a
orologeria, che le scorie atomiche di Chernobyl fossero minacciate dai colpi
dei razzi, che gli abitanti dell’Europa divenissero ostaggi dei ricatti
energetici…)
La
citata “Nuova Cronologia” non viene fuori dal nulla ma ha dietro l’ennesimo
ideologo:
è stata teorizzata dal professor Anatolij
Fomenko.
Fomenko (qui il suo profilo Wikipedia) parte
da una fantasiosa supposizione secondo la quale tutta la storia umana sarebbe
stata falsificata a bella posta nel XVI Secolo da cronisti europei capeggiati
da Joseph
Justus Scaliger, italianizzato in Giuseppe Giusto Scaligero (1540–1609, storico,
scrittore e umanista francese di origine italiana, inventore del giorno
giuliano).
Per
“falsificata” si intende proprio materialmente: sarebbero stati rimpiazzati
tutti i libri in tutte le biblioteche del mondo, mettendo al loro posto «libri
falsi, prodotti da conoscitori della calligrafia antica, con l’utilizzo di
pergamene invecchiate e di inchiostri diluiti per farli sembrare pallidi, con
l’apposizione di sigilli contraffatti» (!).
Astutamente,
i regnanti di quell’Occidente chiassoso e frammentato si sarebbero messi in
combutta con i Romanov, una «dinastia di veri impostori e falsari di stirpe
tedesca», e con la loro complicità sarebbero riusciti a falsificare i libri di
Storia, cancellando il glorioso passato dei russi.
In tal
modo «fu
inculcato ai russi un complesso di inferiorità» che segnò da allora in poi tutti
gli eventi della Storia moderna.
Ora è
arrivato il tempo di «ripristinare la giustizia e porre fine all’umiliazione
storica del grande popolo russo». E incombe la minaccia che questa delirante “cronologia” possa persino entrare a fare parte
dei programmi di studio della scuola dell’obbligo nella Federazione Russa.
Storia
e struttura del “putinismo”.
Ci
sono un luogo e una data di nascita del putinismo, sistema di potere di incerta
natura, eppure candidato a sopravvivere al suo demiurgo:
Lubjanka, quartiere generale del Servizio
federale di sicurezza (FSB), agosto 1998. È allora che Vladimir Vladimirovič
Putin, appena nominato capo dell’intelligence russa, comincia a piazzare ai
piani alti del Servizio amici, colleghi, sodali trasferiti a Mosca dalla natia
San Pietroburgo.
Molti
sono lì ancora oggi, alcuni nella cerchia più stretta del presidente russo,
centro di quella galassia che da oltre un ventennio si allarga, si contrae,
perde pianeti e altri ne acquisisce.
Il
putinismo è dinamico, materia plasmata nel tempo, con forme e contenuti in
continuo movimento.
La
salvezza dello Stato e la difesa dei suoi interessi sono da sempre la costante,
corredata di mutevoli obiettivi e strumenti per perseguirli.
Putin
arriva al potere sulla scia del caos degli anni Novanta, scelto da una cupola
di oligarchi a cui serve un successore di Boris Eltsin, abbastanza malleabile
da cambiare tutto per non cambiare niente e lasciarli quindi padroni del
Cremlino.
Il
prescelto si rivela però tutt’altro che mansueto.
Putin si rivolta contro i suoi mandatari,
espelle dal sistema chi non si sottomette, inserisce nei gangli del potere un
esercito di amici e sodali dei tempi del KGB: fedeltà prima di tutto.
Chi sottoscrive resta libero di fare più o
meno quello che vuole.
L’unico
comandamento che non ammette deroghe riguarda lo Stato, che deve tornare solido
dentro per poter pesare fuori dai propri confini.
Il
paradigma dell’organizzazione gerarchica è cambiato molto da quando Putin è
entrato al Cremlino, Capodanno 2000.
In principio c’era la “democrazia gestita”,
con lo Stato, ovvero il nuovo capo, a decidere quando le regole democratiche
potevano funzionare o invece serviva un’aggiustata.
Regime
manuale, democrazia amministrata nell’accezione scelta dall’allora consigliere “Gleb
Olegovič Pavlovskij”, lo stesso che coniò la dicitura “sistema Putin” per indicare il complesso mondo del
potere putiniano.
I
presupposti per la guida automatica verranno costruiti nel tempo.
Il
“sistema” di inizio anni Duemila aveva una sua forma di pluralismo.
Vi
erano rappresentati i tecnocrati liberal difensori delle riforme economiche e
aperti all’Occidente, figure come Anatolij Čubajs, regista delle privatizzazioni degli
anni Novanta sopravvissuto a ogni cambio di stagione (fino all’invasione
dell’Ucraina, che lo ha convinto a espatriare).
C’erano
gli “intellettuali” di San Pietroburgo, economisti,
avvocati che credevano nel futuro europeo della Russia, nello Stato di diritto,
nella società civile.
Come i liberali, ammettevano che il cammino sarebbe
stato lungo. Nel frattempo il Paese andava “gestito”.
E
c’erano naturalmente i Siloviki, gli uomini degli apparati della forza, fautori dello Stato
accentrato e controllore dell’economia dopo l’espulsione degli oligarchi degli
anni Novanta e l’installazione dei nuovi magnati putiniani.
I Siloviki della prima ora erano accomunati dal
passato nel KGB o sulle rive della Neva.
Col
tempo sono arrivati altri uomini forti da altre esperienze e regioni, ma lo
spirito di corpo non è mutato:
tutti
d’accordo che la missione della classe dirigente sia quella di riportare la
Russia allo status di potenza, possibilmente “super”.
Con
quale forma di governo, con quali istituzioni è sempre stata questione
secondaria per i cekisti.
E Putin è cekista in capo da oltre un
ventennio.
[Il
termine “čekist” viene usato comunemente per indicare gli agenti dei servizi
russi. Deriva da Čeka
(Črezvyčajnaja Kommissija), la “Commissione speciale per la lotta alla
controrivoluzione e il sabotaggio presso il Consiglio dei commissari della
Federazione Russa sovietica” che fu il primo organo di polizia sovietico, voluto da
Lenin nel 1917.]
Gleb
Pavlovskij e Anatolij Čubajs.
Tra il
2003 e il 2005, quando le “rivoluzioni colorate” accerchiano la Federazione
Russa, il cambio manuale non basta più.
Le
proteste di piazza stravolgono scena politica ed equilibri geopolitici in
Ucraina, Georgia, Kirghizistan, per un soffio non segue l’Uzbekistan.
A
Mosca si vede la mano americana.
L’alchimista
politico del Cremlino, Vladislav Surkov, lancia la “democrazia sovrana”, teoria
secondo cui la Russia debba seguire una via che tenga conto delle sue
specificità e non seguire i dettami occidentali.
Quindi
basta con le ricette imposte dall’esterno durante gli anni eltsiniani, quando
non c’erano le forze per opporsi.
Il
nuovo modello sa in realtà di antico, ritesse i legami tra centri di potere
locale e il centro federale rappresentato da una figura forte, in grado di
regolare il tutto. Era così ai tempi dello zar e delle gubernii e così sarà di
nuovo, imbrigliando i troppi interessi regionali che producono instabilità.
Tutto noto: l’autocrate come sintesi delle
istanze generate dall’enorme territorio dell’impero, oggi Federazione
multietnica, multiconfessionale, con mille forme di disparità.
Concretamente,
dal 2004 in poi il processo elettorale viene sterilizzato e i soggetti federali
depotenziati tramite il rafforzamento della verticale del potere.
E si
rompe il tabù post-sovietico: la Russia, dice Surkov, ha bisogno di una ideologia.
Il
problema è che l’idea di “democrazia sovrana” è strumentale, non può conquistare
l’immaginario collettivo e presto non interessa più nessuno.
Anche Putin smorza gli entusiasmi sul finire
del suo secondo mandato.
Non
gradisce che il concetto suoni “difensivo” e non centrato sulla società russa,
poiché «la sovranità è qualcosa che ci parla dei nostri rapporti con il mondo
esterno mentre la democrazia è una nostra dimensione interna».
Tuttavia,
aggiunge, «la
Russia è un Paese che non può esistere se non viene difesa la sua sovranità».
Fine
di una stagione, ne inizia un’altra, tuttora in corso. Dopo quattro anni di
pausa dal Cremlino nel nome del rispetto della costituzione, Putin vi torna nel
2012 tra le proteste che sono un’umiliazione e una sfida.
Il
capo dello Stato è rincorso dall’idea sempre più fissa della minaccia
americana, ora non solo ai confini ovest lambiti dall’espansione della NATO ma
anche dentro, contro di lui personalmente.
Scatta
così la svolta conservatrice e autoritaria da cui la Russia non tornerà più
indietro.
Famiglia, radici cristiane, memoria storica,
patriottismo: negli ultimi dieci anni il putinismo nella sua funzione di
collettore valoriale si è posizionato in crescente opposizione all’Occidente.
La narrazione è imperniata sulla Russia sotto
assedio, alternativa a una civilizzazione condannata a definitivo declino per
negazione delle proprie radici.
In questo senso è sottinteso un “soft power
russo” a un certo punto messo alla prova con i sovranisti di mezza Europa.
Ma
ufficialmente Mosca professa la non ingerenza: niente da insegnare e niente da
imparare, ripetono da anni i vertici moscoviti, la Russia non esporta modelli
di società, contrariamente a quanto fanno gli americani.
Forse
anche perché un modello compiuto non c’è.
In
ogni caso non c’è un’ideologia sistematizzata e nel tentativo di tenere assieme
il tutto si affiancano elementi in contraddizione, come la multietnicità e
l’etnonazionalismo russo, il cristianesimo fondativo e la multi confessionalità.
La
revisione della costituzione russa del 2020 ha fissato gli ideali putiniani
quali princìpi fondamentali dello Stato.
Nella
Carta rinnovata è citato Dio (pur riaffermando la laicità dello Stato), la
famiglia è centrale (e il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna), la
«memoria degli avi» è da venerare, in particolare quella della grande vittoria
sul nazismo.
Lo Stato si impegna a difendere questi valori
tradizionali, come pure a proteggere i russi che vivono all’estero, a tutelare
l’«identità culturale russa».
Il
primato dei russi sulle altre etnie non viene esplicitato, ma suggerito dalla
definizione del russo come «lingua del popolo costitutivo, che fa parte
dell’unione multietnica dei popoli eguali della Federazione».
Mentre
le cronache di tutto il mondo si concentravano sull’estensione al 2036 della
possibile permanenza di Putin al potere, la riforma ha aperto la strada a un
filone legislativo votato alla difesa dell’ordine costituito e tradotto in
nuove norme dalla “fotocopiatrice del Cremlino”, cioè la Duma, il parlamento.
I
princìpi putiniani sono stati poi riversati nella nuova Strategia di sicurezza
nazionale, pubblicata nel 2021.
Come
prima necessità nell’aggiornamento strategico è indicata «la preservazione del
popolo russo e lo sviluppo del suo potenziale umano».
Il
documento prevede una fase di aumentata conflittualità con l’Occidente, il cui
dominio «è al tramonto» e proprio per questo si fa «più pericoloso» per la Russia.
Queste
generiche linee guida sono diventate manuale di uso quotidiano, compresa la
«sicurezza dell’informazione» citata nella Strategia, che già faceva presagire
ulteriori restrizioni per i media e per l’uso dei social.
Facili
profezie in una Russia che si preparava alla fase bellica.
Alla
stregua della nuova Strategia, la quasi-ideologia putiniana è difensiva e in
fin dei conti manca di un progetto, di una visione capace di proiettarsi verso
le generazioni future.
Si
prefigura l’avvento di un mondo multipolare dove finalmente la Russia potrà
«contare quando le spetta».
Si
mette sul piatto l’apocalisse finale, con quell’afflato da Terza Roma che non
lascerà mai posto a una Quarta, come profetizzava “Filofej di Pskov” nel XVI
Sec. e come meno misticamente ammonisce oggi il Cremlino:
«Mosca
potrebbe ricorrere all’arma nucleare in caso di minaccia esistenziale al
Paese».
Se
l’afflato ideologico potrebbe non durare, si prospetta longevo il paradigma del
potere nei suoi attuali meccanismi, propagati dalla mancanza di istituzioni
forti e dallo spirito corporativo dei gruppi che compongono le élite russe.
La
commistione di interessi privati e pubblici fa da mastice, perché la tenuta
dell’insieme è la migliore garanzia per il singolo tornaconto.
In
grande sintesi, la corruzione che erode le istituzioni russe dall’interno
rafforza i principati e gli accordi tra i vari potenti, mentre chi esce dal
coro viene «sputato sul marciapiede».
L’economia
con Putin non ha mai brillato: i numeri.
Spingere
la Russia a investire sul debito pubblico italiano era uno degli scopi della
missione 2018 di Giuseppe Conte in Russia.
E durante il suo famigerato viaggio a Mosca il
capo della Lega e ministro degli Interni (figura che fin da Minniti va più in
giro del titolare degli Esteri), Matteo Salvini, era stato ancora più
esplicito:
«Se
voi russi avete titoli da comprare, noi abbiamo bisogno di vendere qualche
miliardo di euro di BTP alle prossime aste, così lo spread si abbassa e siamo
più tranquilli».
La
Russia è sì un Paese geograficamente molto grande — è la nazione più estesa del
mondo — e con capacità militari di primo piano: ma è un nano dal punto di vista
economico.
È da poco uscita da una recessione che ha
messo a dura prova la tenuta dei suoi conti pubblici e che ha costretto Putin a
una riforma delle pensioni con cui ha portato l’età di pensionamento per gli
uomini a pochi anni dall’aspettativa di vita media (65 anni la prima, 67 la
seconda: significa che un cittadino russo può aspettarsi di trascorrere in
pensione in media appena due anni).
Un
default lungo 20 anni:
tra
un’inflazione galoppante, salari bassi e un sistema economico fondato
principalmente su petrolio e gas, la Russia da anni vive in affanno.
Ora le sanzioni occidentali in risposta
all’invasione dell’Ucraina hanno fatto precipitare la situazione, velocizzando
le crisi aziendali e il tracollo del rublo.
Con
una esposizione di svariati miliardi di dollari, il Paese ora rischia davvero
la bancarotta.
Il Pil
russo è più basso di quello italiano.
Va
detto però che Vladimir Putin non ha mai brillato per capacità economica.
Dal
suo insediamento (nel 1999) in poi, la potenza è rimasta sulla carta: non è mai
davvero diventata tale, a differenza — per esempio — della Cina.
I numeri, confrontati con quelli del nostro
Paese, aiutano a comprendere il quadro:
il Pil
russo è stabilmente più basso rispetto a quello dell’Italia, a fronte di una
popolazione di 144 milioni di abitanti, più del doppio di quella italiana.
Secondo
i dati della Banca Mondiale, nel 2020, il prodotto interno lordo ammontava a
1.483 miliardi di dollari contro i 1.886 dell’Italia.
Certo, da anni si sente il peso delle
precedenti sanzioni, quelle adottate nel 2014 dopo l’annessione della Crimea,
che hanno rallentato la crescita.
Il
picco massimo del Pil russo si è registrato nel 2013 con 2.229 miliardi di
dollari, giusto leggermente meglio dell’Italia che in quell’anno si era
attestata su 2.141, avvertendo l’onda lunga della recessione iniziata nel 2008.
Insomma,
dati che non hanno mai fatto gridare al miracolo economico per la Russia, che
successivamente ha subito il controsorpasso di Roma.
L’economia
russa è dipendente dall’export di gas e petrolio.
Eppure
Putin aveva promesso un vasto programma di ammodernamento del Paese dopo il
tracollo economico del 1998 che aveva portato alla svalutazione del rublo.
Il
governo si dichiarò inadempiente per quanto riguarda il debito interno. Allo
stesso tempo annunciò una moratoria sul rimborso del debito estero.
In questo contesto Putin, con grandi promesse,
iniziò la sua scalata prendendo il posto di Boris Eltsin.
La
ripartenza, in realtà, è stata legata principalmente all’aumento dei prezzi del
petrolio, materia prima che è alla base dell’export russo, insieme al gas. Così
l’export di queste materie prime ha fatto volano alla ripresa.
Un balzo che comunque non hai raggiunto mai
livelli occidentali. Ancora altre cifre sono significative.
Il
reddito pro capite, nel 2020, era di 10.126 dollari, su livelli inferiori
rispetto a quelli del 2008 quando era sopra gli 11 mila dollari.
In 12 anni, insomma, c’è stata una
contrazione.
L’apice,
come prevedibile, è stato toccato nel 2013, prima delle sanzioni, con 15 mila
dollari di reddito pro capite.
Per rendere la proporzione, però, in quello
stesso anno e quindi sempre dopo la lunga recessione, in Italia era superiore
ai 35 mila euro.
Perciò,
a leggerla con una lente decennale, l’èra di Putin è caratterizzata da una
sostanziale stagnazione senza un miglioramento sostanziale.
Il
livello di disoccupazione si attesta sul 4 per cento.
Qualche
risultato migliore è giunto sull’occupazione. Il presidente russo ha raccolto
un’eredità disastrosa, come era prevedibile: nel 1999 il tasso di
disoccupazione era al 13 per cento.
Il
trend positivo lo ha portato fino al 6 per cento del 2007.
Successivamente
c’è stata una lieve nuova impennata, che ha portato il dato all’8,3 per cento
nel 2008.
La
curva, però, è tornata a calare negli anni successivi, toccando il minimo del
4,5 per cento nel 2019.
Dal
2020, infatti, è ripresa a salire andando sopra il 5 e proseguendo in maniera
oscillante fino ai giorni precedenti all’invasione dell’Ucraina.
Stando a quanto riferito dal Fondo Monetario
Internazionale sarebbe di nuovo al 4 per cento.
L’inflazione
oscilla tra il 7 e il 3 per cento.
Un
altro indicatore dello stato di salute tutt’altro che eccellente riguarda
l’inflazione.
A
fronte di una crescita modesta, i prezzi sono sempre aumentati negli anni.
Nel
2021 secondo il Fondo Monetario Internazionale era del 5,9 per cento.
Nel
2020 del 3,4 per cento.
E si parla di anni in cui la situazione era
migliorata. Nel 2005 era al 12,7 per cento. Mentre nel 2015 è risalita toccando
il 15,5 per cento.
Muovendosi, negli anni successivi, tra il 7 e
il 3 per cento.
Mentre
i redditi restavano fermi. Come l’economia della Russia putiniana.
La
Russia si conferma uno dei Paesi con più disuguaglianza al mondo.
Se ne
è già parlato in uno dei primi capitoli di questa inchiesta. Uno dei dati
economici che colpisce di più è quello relativo alla disuguaglianza. Nel “World
Inequality Report 2018” pubblicato da “Thomas Piketty” e dal suo team emergeva
come la forbice della ricchezza fosse tornata ai livelli del 1905, in epoca
zarista.
Se ai tempi della prima rivoluzione russa il
10 per cento più ricco della società riceveva il 47 per cento delle entrate
nazionali e il 50 per cento più povero il 17 per cento, nel 2016 il 10 per
cento dei ricchi si intascava il 45,5 per cento delle entrate mentre il 50 per
cento dei meno abbienti solo il 17.
Si stima che lo 0,01 per cento della
popolazione russa guadagni 2524 volte più della media che si aggira sui 23 mila
dollari.
Nel
2017 i russi sotto il livello di povertà erano più di 20 milioni, concentrati
soprattutto in Siberia.
E
contro la fame, si sa, non c’è propaganda che tenga.
Fare
grandi nozze coi fichi secchi.
La
vocazione imperiale sta nei cromosomi di una nazione, della sua classe
dirigente, e non è solo questione di forza, ma anche di astuzia.
E di Storia.
Questo
Paese ha prodotto una delle grandi culture — tra letteratura, musica e arti —
dell’umanità, e da molto tempo cerca di non essere inferiore a nessuno quanto
ad armi e capacità strategica: ma ha sempre fatto vivere il suo popolo assai
meno bene di quanto non si viva da tempo nelle terre bagnate da Reno, Senna,
Po, Tamigi ed Ebro.
Eppure
questo Paese vorrebbe porsi come modello di una nuova era, come un secolo fa si
atteggiava a faro della rivoluzione mondiale.
A
giugno 2019, intervistato dal Financial Times, Putin aveva decretato la fine
del liberalismo (teoria storica con varie identità ma sempre basata su libertà
individuali, consenso dei governati e uguaglianza di fronte alla legge) ormai
«sopravvissuto a se stesso», che ha «esaurito i suoi scopi» e minato dalla
crescente ostilità degli elettori verso l’immigrazione, il multiculturalismo e
i valori laici a spese di quelli religiosi.
Putin
vede in atto quindi anche nel mondo occidentale «una trasmigrazione dal
liberalismo al nazional-populismo».
E insiste sulla conseguente «fine dell’ordine
internazionale creato dall’Occidente dopo il 1945».
È un punto fermo moscovita a partire dalla
crisi finanziaria del 2008: “la prova che l’Occidente non funziona più”.
Il
guaio per il nuovo zar ex-agente del KGB è però che, in economia e finanza,
neppure l’oriente russo ha mai funzionato.
Per
Mosca una crisi profonda e uno smantellamento dell’Unione Europea sarebbe il
coronamento di una politica secolare che ha visto nell’Europa occidentale da
sempre una minaccia dovuta prima di tutto ai successi economici di quelle
piccole nazioni oggi militarmente insignificanti ma, rispetto alla Russia,
terribilmente più produttive anche se “moralmente corrotte” (cosa che una certa
cultura russa ripete da almeno 150 anni).
Dagli
zar a Lenin, a Stalin, a Putin, la “finlandizzazione” dell’Europa è stato un
sogno, prima molto ardito nell’epoca d’oro dell’industrializzazione e del
potere europeo (1830–1913), poi a portata di mano nel 1945 — non foss’altro per
l’innaturale “ritorno” in Europa degli americani nel ’47, con la NATO, e, poco
dopo, le istituzioni europee —.
Finlandizzazione,
per i Russi, vuol dire una cosa molto semplice: simbiosi fra industria europea
e materie prime russe, e rispetto dalla Vistola alla Manica per la diplomazia
ex-sovietica e i suoi missili.
Putin,
insomma, si offre agli europei come soluzione.
Per
chi volesse un trattato sul putinismo, un lungo articolo uscito nel febbraio
2019 sulla “Nezavisimaya Gazeta” e riassunto subito da alcuni giornali
occidentali è un testo base.
Lo ha
scritto “Vladislav Surkov”, 55 anni, madre russa e padre ceceno, uomo d’affari
e politico, già vicepremier e ideologo ufficioso della “russia putiniana” e dal
2013 consulente personale di Putin.
Surkov è il padre della formula della “managed
democracy”, affidata a «un capo capace di ascoltare capire e vedere», migliore
di quella «illusione di poter scegliere» che la democrazia formale occidentale (la
definivano così anche i bolscevichi) «promette e non mantiene».
Il
putinismo è «l’ideologia del futuro», sostiene Surkov, e «l’algoritmo politico»
di Putin ha capito le cause della volatilità e per questo è «sempre più seguito
anche dai leader occidentali, spinti a offrire certezze e quindi nazionalismo».
Il nazionalismo trionfante sarebbe la fine
definitiva del sistema multilaterale americanocentrico e dell’Unione Europea, e
una grande vittoria russa.
La
Russia vive con Putin, dice Surkov, la quarta delle sue stagioni di grandezza
(!), dopo quelle di Ivan il Terribile, di Pietro il Grande e di Lenin, e sarà
presto riconosciuta come «faro del mondo intero» (!).
È
ormai avviato «un secolo glorioso» per il sistema politico putiniano.
Putin «gioca con i meccanismi mentali
dell’Occidente», continua Surkov, «che non sanno come muoversi a fronte delle
loro nuove prese di coscienza».
Le
ambizioni putiniane non sono però supportate né da un accettabile funzionamento
del sistema russo, che è una cleptocrazia dove lo stesso vertice ruba a man
bassa, né da una sufficiente capacità produttiva.
«Nonostante i suoi sogni di grandezza»,
dichiara “Nina L. Khrushcheva”, discendente del mitico “Nikita Sergeevič
Chruščëv” (“Krusciov” era suo nonno), insegnante di relazioni internazionali
alla New School di New York,
«la Russia assomiglia a una piccola ex colonia
dove ogni generale al potere vuole poter vantare un dottorato di ricerca solo
per poter aumentare i suoi profitti».
Non è
una storia del tutto nuova.
Piero
Melograni, uno dei massimi storici italiani contemporanei, ricordava che
l’Europa dell’Est, impero zarista incluso, era il 17% del prodotto mondiale nel
1913 e l’8% nel 1992 «dopo decenni di una disastrosa economia pianificata».
Oggi
il salario medio russo secondo Rosstat è di circa 580 euro e arriva nelle
maggiori città a circa 1.200 (statistiche ufficiali ai quali non molti credono:
le cifre realistiche sono inferiori di quasi la metà), e solo grazie a un’economia in nero
stimata doppia rispetto a quella italiana ci si arrangia e si tira avanti.
La
guerra e il terrore.
La
catastrofe intellettuale di Vladimir Putin.
— di “Paul Berman”.
Vladimir
Putin potrebbe essere uscito di senno, ma è anche possibile che abbia
semplicemente osservato le cose attraverso una particolare lente che appartiene
alla tradizione russa.
E che
abbia agito di conseguenza.
Invadere i vicini non è, dopo tutto, una cosa
inedita per un leader russo. È una cosa abituale. È senso pratico. È un’antica
tradizione.
Ma
quando cerca una retorica aggiornata che riesca a spiegare a se stesso e al
mondo le ragioni di quest’antica tradizione, Putin fa fatica a trovare
qualcosa.
Si
aggrappa a retoriche politiche che risalgono a tempi ormai lontani.
E si disintegrano nelle sue mani. Fa dei
discorsi e scopre di essere senza parole, o quasi.
E
questa potrebbe essere stata la prima battuta d’arresto, ben prima delle
battute d’arresto patite dal suo esercito.
Però
non si tratta di un fallimento psicologico. Si tratta di un fallimento
filosofico. Gli fa difetto un adeguato linguaggio per fare analisi: e, di
conseguenza, gli fa difetto la lucidità.
Il
problema che Putin sta cercando di risolvere è l’eterno dilemma russo, e cioè
il vero «indovinello,
avvolto in un mistero, all’interno di un enigma» che Winston Churchill attribuì alla
Russia (e che non sarebbe mai riuscito a risolvere, anche se riteneva che
l’«interesse nazionale» offrisse una chiave).
È il
dilemma su che cosa fare riguardo a uno stranissimo e pericoloso squilibrio
nella vita russa.
Lo
squilibrio consiste nella coesistenza, da una parte, della grandeur della
civiltà russa e della sua geografia (che costituisce un’enorme forza) e,
dall’altra, di una strana e persistente incapacità di costruire uno Stato
resiliente e affidabile (che costituisce un’enorme debolezza).
Nel
corso dei secoli i leader russi hanno cercato di affrontare questo squilibrio
costruendo le più criminali fra le tirannie, nella speranza che la brutalità
avrebbe compensato la carenza di resilienza.
E
hanno accompagnato la brutalità con una politica estera insolita, diversa da
quella di qualunque altro Paese, una politica estera che sembrava servire allo
scopo.
Grazie
alla brutalità e all’insolita politica estera lo Stato russo è riuscire ad
attraversare il XIX Secolo senza collassare — e questo è stato un successo.
Ma nel XX Secolo lo Stato è collassato due
volte.
Il
primo collasso, nel 1917, consentì l’ascesa al potere di estremisti, di pazzi e
di alcune delle peggiori sciagure della storia del mondo.
Nikita
Chruščëv e Leonid Brežnev riportarono lo Stato a una condizione di stabilità.
Poi lo
Stato russo crollò di nuovo.
Il
secondo collasso, nell’epoca di Michail Gorbacëv e Boris Eltsin, non fu
altrettanto disastroso
.
Eppure, l’impero scomparve, scoppiarono delle guerre lungo i confini
meridionali della Russia, l’economia si disintegrò e crollò l’aspettativa di
vita.
Questa
volta fu Putin a guidare la ripresa.
In
Cecenia lo fece con un grado di criminalità che qualifica soltanto lui, tra i
combattenti dell’attuale guerra, per un’accusa di genocidio o qualcosa del genere.
Ma
Putin non è stato più abile di Chruščëv e di Brežnev nel tentativo di
raggiungere un successo definitivo, e cioè la creazione di uno Stato russo
abbastanza solido e resiliente da evitare ulteriori collassi.
La cosa lo preoccupa.
Con tutta evidenza lo getta nel panico.
E le
sue preoccupazioni lo hanno condotto a considerare il problema dal punto di
vista che in passato hanno adottato, uno dopo l’altro, tutti i suoi
predecessori — un punto di vista che ha versioni diverse, ma che di fatto è sempre
lo stesso.
Questo
punto di vista è come una specie di paranoia climatica.
Si tratta della paura che i princìpi caldi
della filosofia liberale e delle pratiche repubblicane provenienti
dall’Occidente, spostandosi verso Est, possano scontrarsi con le nubi
ghiacciate dell’inverno russo e che da questa collisione nascano delle violente
tempeste a cui nulla sopravvivrà.
Si tratta, in breve, della convinzione secondo
cui i pericoli per lo Stato russo sono esterni e ideologici e non interni e
strutturali.
La
prima di queste collisioni, quella originaria, prese una forma molto rozza e
non ebbe le caratteristiche delle successive collisioni.
Ma fu
traumatica.
Stiamo
parlando dell’invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812, che mandò
a sbattere la Rivoluzione Francese, in una sua forma deteriorata e
dittatoriale, contro il medievalismo congelato degli zar.
La collisione tra la Rivoluzione Francese e
gli zar portò l’esercito francese fino all’incendio di Mosca e l’esercito
zarista fino a Parigi.
Ma le
collisioni tipiche, quelle che si sono verificate ripetutamente nel corso dei
secoli, sono sempre state filosofiche, mentre gli aspetti militari sono rimasti
confinati alla reazione russa.
Un decennio dopo l’ingresso dell’esercito
zarista a Parigi, una cerchia di aristocratici russi, influenzati dalla
Rivoluzione Francese e da quella americana, adottò delle idee liberali.
E
organizzò una cospirazione in nome di una nuova Russia liberale.
Questi
aristocratici furono arrestati ed esiliati e il loro progetto fu sbriciolato.
Ma lo
zar, che era allora Nicola I, non si fidò un granché della sua vittoria su di
loro.
E
reagì adottando una politica che proteggesse per sempre, in un modo migliore,
lo Stato russo dai rischi di sovvertimento.
Nel
1830 scoppiò una nuova rivoluzione francese che diffuse analoghe aspettative
liberali qui e là in Europa, e soprattutto in Polonia.
Nicola I si rese conto che un rivitalizzarsi
del liberalismo ai confini del suo Paese era destinato a rinvigorire le
cospirazioni degli aristocratici liberali arrestati ed esiliati
Reagì invadendo la Polonia.
E, per
buona misura, inghiottì lo Stato polacco, inglobandolo nell’impero zarista.
Nel
1848, in Francia, scoppiò un’altra rivoluzione, che condusse ad ancor più
diffuse insurrezioni liberali e repubblicane in tutta Europa — si trattò quasi
di una rivoluzione continentale, e fu un’indicazione chiara che in Europa stava
cercando di emergere con tutte le forze una nuova civiltà, che non era più
monarchica né feudale e che non avrebbe più ubbidito ai voleri di nessuna
chiesa che esercitasse il potere in un dato luogo, una nuova civiltà fatta di
diritti umani e di pensiero razionale.
Ma la
nuova civiltà era esattamente ciò che Nicola I aveva temuto.
Lo zar reagì invadendo l’Ungheria. Queste due
invasioni da lui condotte — quella della Polonia e quella dell’Ungheria — dal
punto di vista di Nicola I furono guerre di difesa che avevano assunto la forma
di guerra d’aggressione.
Erano “operazioni militari speciali” progettate per impedire il
diffondersi di idee sovversive in Russia grazie alla distruzione dei vicini
rivoluzionari, con l’ulteriore speranza di estirpare le aspirazioni
rivoluzionarie da un territorio ancora più vasto.
Le
guerre ebbero successo.
La
rivoluzione continentale del 1848 andò incontro a una sconfitta continentale e
Nicola I ebbe una parte importante in tutto questo.
Fu il
“gendarme d’Europa”.
E lo Stato zarista durò per altre due o tre
generazioni, finché tutto quello che Nicola I aveva temuto alla fine accadde
davvero e l’ispirazione proveniente dai socialdemocratici tedeschi e da altre
correnti liberali e rivoluzionarie dell’Occidente penetrò disastrosamente
proprio nella sua Russia.
Era il
1917.
E lo zar era allora il suo bisnipote Nicola
II.
Il
fragile Stato russo andò a fondo.
E riemerse come una dittatura comunista.
Ma la
dinamica di base rimase la stessa.
Sui
liberali e sulle correnti liberalizzatrici provenienti dall’Occidente Stalin
aveva una visione identica a quella di Nicola I, anche se il vocabolario con
cui Stalin esprimeva i suoi timori non era lo stesso usato dallo zar.
Stalin
si impegnò a distruggere ogni aspirazione liberale o liberalizzatrice in Unione
Sovietica.
Ma si
impegnò a distruggerle anche in Germania — e anzi questo fu uno dei primi
obiettivi della sua politica verso la Germania, che si prefiggeva di
distruggere i socialdemocratici prima ancora che i nazisti.
E lo fece anche in Spagna, durante la guerra
civile: lì la sua politica si prefiggeva di distruggere gli elementi non
comunisti della sinistra spagnola altrettanto (se non più) che di distruggere i
fascisti.
Quando
la Seconda Guerra Mondiale terminò, Stalin si impegnò a distruggere quelle
stesse aspirazioni in tutte le parti d’Europa che erano cadute sotto il suo
controllo.
È vero
che era uno squilibrato.
Ma
anche Chruščëv, che non era uno squilibrato, si rivelò essere un Nicola I.
Nel
1956, quando l’Ungheria comunista decise di esplorare delle possibilità
vagamente liberali, Chruščëv individuò in questo un pericolo mortale per lo
Stato russo e fece la stessa cosa che aveva fatto Nicola I.
Invase l’Ungheria.
Poi
salì al potere Brežnev.
E si
rivelò uguale anche lui. T
ra i
leader comunisti della Cecoslovacchia si fece strada un impulso liberale.
E
Brežnev invase la Cecoslovacchia.
Questi
erano i precedenti quando Putin, nel 2008, decise l’invasione su piccola scala
di una Georgia che era da poco diventata liberale e rivoluzionaria.
E quando poi, nel 2014, decise l’invasione
della Crimea, che faceva parte della rivoluzionaria Ucraina.
Ciascuna
di queste invasioni del XIX, XX e XXI Secolo avevano l’obiettivo di preservare
lo Stato russo, impedendo che una brezza puramente filosofica di pensieri
liberali e di esperimenti sociali potesse fluttuare al di là del confine.
E gli stessi ragionamenti hanno condotto
all’invasione più feroce di tutte, che è quella che sta avvenendo proprio ora.
L’unica differenza è che Putin si è imbattuto
in un problema di linguaggio, o di retorica, che non aveva afflitto nessuno dei
suoi predecessori.
Nicola
I, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, sapeva benissimo come
descrivere le sue guerre contro le idee e i movimenti liberali dell’Europa
Centrale.
Lo
faceva evocando i principi di un ideale monarchico mistico e ortodosso. Lui
sapeva a favore di che cosa e contro che cosa si batteva.
Era il
campione della vera Cristianità e della tradizione consacrata ed era il nemico
dell’ateismo satanico, dell’eresia e del disordine rivoluzionario.
I suoi
princìpi suscitavano disgusto tra gli amici della Rivoluzione Francese e di
quella americana.
Ma
suscitavano rispetto e ammirazione tra gli amici dell’ideale monarchico e
dell’ordine, che, anche grazie al suo aiuto, erano dominanti in Europa.
I suoi
princìpi erano nobili, solenni, grandiosi e profondi.
Erano,
per certi versi, dei princìpi universali e questo li rendeva degni della
grandeur russa — erano dei princìpi buoni per l’intera umanità, sotto la guida
della monarchia russa e della Chiesa ortodossa.
Erano
dei princìpi vivi, fondati nella realtà del tempo, benché fossero nascosti
dietro il fumo e l’incenso, e ponevano lo zar e i suoi consiglieri nella
posizione di pensare con lucidità e in modo strategico.
Anche
Stalin, Chruščëv e Brežnev sapevano come descrivere le loro guerre contro i
liberali e i sovversivi.
Lo facevano invocando i princìpi del
comunismo.
Anche questi princìpi erano grandiosi e
universali.
Erano i princìpi del progresso umano — anche
in questo caso sotto la guida della Russia — dei princìpi buoni per il mondo
intero.
Questi
princìpi suscitavano sostegno e ammirazione in ogni Paese in cui c’era un forte
partito comunista e talvolta anche fra i non comunisti, che accettavano
l’argomentazione secondo cui le invasioni sovietiche erano antifasciste.
Per queste ragioni, anche i princìpi comunisti
erano altrettanto fondati nella realtà del tempo e questo metteva i leader
comunisti nella posizione di fare i loro calcoli strategici con lucidità e
sicurezza di sé.
Putin, invece, a quale dottrina
filosofica potrebbe appellarsi?
I
teorici putiniani avrebbero dovuto confezionargliene una, qualcosa di
magnifico, che fosse capace di generare un linguaggio utile a sviluppare un
pensiero sull’attuale situazione della Russia e sull’eterno dilemma dello Stato
russo.
Ma i teorici lo hanno deluso.
Avrebbe
dovuto farli fucilare.
Forse questo fallimento non è davvero colpa
loro, ma questa non è una buona ragione per non fucilarli.
Non si
può confezionare una dottrina filosofica a comando, nel modo in cui chi scrive
i discorsi scrive un discorso.
Le
dottrine forti o ci sono o non ci sono.
E così Putin ha dovuto arrabattarsi con le
idee che galleggiavano qua e là, afferrandone una e poi un’altra per poi
legarle insieme con un nodo.
Non ha
tratto quasi niente dal comunismo, fatta eccezione per l’odio verso il nazismo che è
rimasto dalla Seconda Guerra Mondiale.
Anche
lui ha posto molta enfasi sul suo antinazismo e questa enfasi ha avuto un ruolo
importante nel suscitare quel supporto che Putin è riuscito a raccogliere fra i
suoi compatrioti russi.
Ma,
per altri versi, l’antinazismo non è un punto di forza della sua dottrina.
Negli
ultimi anni, i neonazisti in Ucraina hanno avuto visibilità, anche se soltanto
in forma di graffiti sul muro e di saltuarie manifestazioni di piazza.
Ma non hanno avuto un ruolo né grande né
piccolo.
Hanno
avuto un ruolo irrilevante e questo significa che l’enfasi di Putin sui
neonazisti ucraini, che è utile per la sua popolarità in Russia, introduce però
una rilevante distorsione nel suo pensiero.
E da
qui proveniva l’aspettativa, che è stata delusa, secondo cui un gran numero di
ucraini, spaventati dai neonazisti, avrebbero guardato con gratitudine i carrarmati
russi che transitavano lungo le strade.
Ma non
c’è alcun altro elemento del comunismo che sopravvive nel suo pensiero. Al
contrario, Putin ha ricordato con dispiacere come le dottrine comuniste
ufficiali del passato avessero incoraggiato l’autonomia dell’Ucraina invece di
incoraggiare la sua sottomissione nell’ambito di una più grande nazione russa.
La
posizione di Lenin su quella che era abitualmente definita “questione
nazionale” non è la sua stessa posizione.
Dal
mistico ideale monarchico degli zar, invece, Putin ha tratto molte cose.
Ne ha
tratto il senso di un’antica tradizione, che lo porta a evocare il ruolo di
Kiev nella fondazione della nazione russa nel IX Secolo e le guerre di
religione del XVII Secolo fra la Chiesa Ortodossa (i bravi ragazzi) e la Chiesa
cattolica (i cattivi ragazzi).
L’ideale
monarchico non è una forma di nazionalismo, ma Putin ha dato alla sua personale
lettura del passato monarchico e religioso un’interpretazione nazionalista, al
punto che la lotta dell’Ortodossia contro il Cattolicesimo si presenta come una
lotta nazionale dei russi (che nella sua interpretazione comprendono gli
ucraini) contro i polacchi.
Putin
evoca l’eroica rivolta dei Cosacchi che fu guidata, nel XVII Secolo,
dall’atamano “Bohdan Chmel’nyc’kyj”, anche se sceglie di tralasciare con discrezione
il ruolo aggiuntivo di “Chmel’nyc’kyj” come leader di alcuni dei peggiori
pogrom della storia.
Ma non
c’è nulla di grandioso né di nobile nella lettura nazionalista del passato
fatta da Putin.
La sua
evocazione della storia della chiesa implica la grandezza della spiritualità
ortodossa ma non sembra riflettere questa grandezza, quasi come se, per lui,
l’Ortodossia fosse soltanto un pensiero secondario o un ornamento.
Il suo nazionalismo ricorda soltanto in modo
superficiale i vari nazionalismi romantici dell’Europa del XIX Secolo e degli
anni che condussero alla Prima Guerra Mondiale.
Quei
nazionalismi del passato tendevano a essere varianti di un moto comune
all’interno del quale ciascun singolo nazionalismo, ribellandosi contro
l’universalismo dei dittatori giacobini e degli imperi multietnici, rivendicava
di svolgere una missione speciale per l’intera umanità.
Tuttavia
il nazionalismo di Putin non rivendica alcuna missione speciale di questo tipo.
Non è
un nazionalismo grandioso, ma un piccolo nazionalismo.
È il nazionalismo di un piccolo Paese — un
nazionalismo che ha una vocetta strana, come quella del nazionalismo serbo che
negli anni Novanta sbraitava su avvenimenti del XIV Secolo.
È, sia
chiaro, una voce arrabbiata: ma non ha il tono profondo e tonitruante dei
comunisti.
È la voce del rancore nei confronti dei
vincitori della Guerra Fredda.
È la
voce di un uomo la cui dignità è stata offesa.
Le “invasioni di campo” di una NATO trionfante
lo fanno infuriare.
E cova
la sua rabbia.
Ma
anche il suo rancore manca di grandeur.
E
manca, in ogni caso, della capacità di dare spiegazioni.
Gli
zar potevano spiegare perché la Russia aveva suscitato l’inimicizia dei
rivoluzionari liberali e repubblicani:
ciò
era avvenuto perché la Russia difendeva la “vera fede”, mentre i liberali e i
repubblicani erano i nemici di Dio.
Allo
stesso modo, anche i leader comunisti potevano spiegare perché l’Unione
Sovietica si era fatta a sua volta dei nemici:
ciò
era avvenuto perché i nemici del comunismo sovietico erano i difensori della
classe capitalista e il comunismo costituiva il disfacimento del capitalismo.
Putin,
invece, parla di “russofobia”, e questo implica un odio irrazionale, qualcosa
che non si può spiegare.
E, nel
suo rancore, non punta neppure a qualche virtuoso obiettivo supremo.
Gli
zar credevano che avrebbero potuto offrire la vera fede all’umanità solo
sconfiggendo i sovversivi e gli atei.
E i
comunisti credevano che, dopo aver sconfitto i capitalisti e i fascisti, che
sono lo strumento del capitalismo, la liberazione del mondo sarebbe stata a
portata di mano.
Ma il
rancore di Putin non indica un futuro radioso.
È un
rancore che guarda al passato e che non ha un volto rivolto al futuro. Dall’utopia alla retropia, con
l’esaltazione di un passato di potenza mondiale da rivendicare.
Stavolta,
quindi, si tratta di un nazionalismo russo che non ha nulla che possa attirare
il sostegno di qualcun altro.
In
alcune parti del mondo ci sono persone che sostengono Putin nella guerra che
sta conducendo in questo momento.
Lo fanno perché albergano un loro personale
rancore verso gli Stati Uniti e i Paesi ricchi.
O lo
fanno perché conservano la gratitudine per aver ricevuto aiuto dall’Unione
Sovietica durante la Guerra Fredda.
E ci
sono serbi che sentono un legame fraterno.
Ma
quasi nessuno sembra condividere le idee di Putin.
Non
c’è niente che si possa condividere.
E non
c’è nessuno in tutto il mondo che pensi che la distruzione dell’Ucraina
inaugurerà una nuova epoca migliore di questa.
Questa
dottrina non offre speranza.
Offre isteria.
Putin crede che sotto la presunta leadership
nazista che si è impadronita dell’Ucraina milioni di russi che vivono
all’interno dei confini dell’Ucraina siano vittima di un genocidio.
Talvolta
pare che con la parola “genocidio” Putin intenda dire che dei russofoni con
un’identità etnica russa siano costretti a parlare ucraino, cosa che li
priverebbe della loro identità – e cosa di cui parla nel suo verbosissimo
pamphlet del 2021.
Altre
volte sembra invece che Putin si accontenti di lasciare intatta l’allusione a
dei massacri.
In
entrambi i casi, è apparso particolarmente poco convincente su un aspetto
importante.
In
nessuna parte del mondo qualcuno ha indetto una manifestazione per denunciare
il genocidio di milioni di russi in Ucraina.
E come
mai?
Perché
Putin parla con il tono di un uomo che non aspira neanche a essere creduto,
tranne che dalle persone che non hanno bisogno di essere convinte.
Eppure,
lui si aggrappa alla sua idea.
Gli si
addice.
Considera
sé stesso una persona acculturata che pensa nel modo più raffinato — come
qualcuno che non potrebbe mai invadere un altro Paese se non fosse capace di
evocare una grandiosa filosofia.
Riguardo
a questo punto, Putin sembra bramare delle rassicurazioni.
Ed è facile immaginare che questo sia il
motivo per il quale ha passato così tante ore al telefono con Emmanuel Macron,
il presidente del Paese, la Francia, che è sempre stata la patria del prestigio
intellettuale.
Ma il
cuore del disastro è proprio l’attaccamento di Putin a questa idea di una
filosofia grandiosa.
Infatti, come può ragionare con lucidità un
uomo che è immerso in idee piccine e ridicole come questa?
Lui sa
di essere circondato dai problemi e dalle sfide del mondo reale, ma la sua
immaginazione ribolle.
Ci
sono i rancori che derivano dalla storia medievale, dalle guerre di religione e
dalle gloriose imprese dei Cosacchi del XVII Secolo.
Ci
sono i paralleli tra il Cattolicesimo polacco del passato e l’attuale
“russofobia della NATO”.
C’è
l’«orribile destino dei russi dell’Ucraina» che si trovano «nelle mani dei
neonazisti sostenuti dall’Occidente».
E, in
questo ribollire di rancori, la cosa migliore con cui Putin riesce a uscirsene
è la politica estera dello zar Nicola I degli anni Trenta e Quaranta
dell’Ottocento.
Ora, è
vero che dal punto di vista di un tradizionale realismo in politica estera
tutto quel che è stato appena detto dovrebbe essere scartato come irrilevante.
Il realismo è un’ideologia che accantona come
cose insignificanti le ideologie e si attiene rigidamente ai rapporti di
potere.
Questo
può semplicemente significare che le farneticazioni nazionaliste di Putin sono
abbastanza prive di senso, fatta eccezione per le lamentele che riguardano la
NATO e le sue presunte «aggressioni», lamentele che sono giudicate non
ideologiche.
Ed è
questo il punto su cui dovremmo concentrare tutta la nostra attenzione.
Ma
davvero dovremmo farlo?
Le persone
che prendono seriamente le lamentele riguardo alla NATO parlano sempre del
pericolo che corre la Russia come se fosse qualcosa di così ovvio da non aver
bisogno di alcuna spiegazione.
Lo
stesso Putin sottolinea gli “sconfinamenti a Est” della NATO e batte il pugno
sul tavolo, ma si limita a questo, senza spiegare su cosa si basino le sue
obiezioni.
Si suppone che noi deduciamo che l’espansione
della NATO costituisca un pericolo per la Russia perché, un qualche giorno,
all’improvviso, gli eserciti della NATO potrebbero attraversare il confine
entrando nel territorio russo, proprio come ha fatto l’esercito di Napoleone
nel 1812.
Eppure,
anche se dovessimo limitare l’analisi ai soli dati di fatto, come ci suggerisce
di fare il realismo, dovremmo ricordare che nei più di settant’anni della sua
esistenza la NATO non ha fornito il minimo elemento perché si possa pensare che
essa sia qualcosa di più che un’alleanza difensiva.
Non
c’è ragione alcuna per ritenere che un giorno, all’improvviso, la NATO, che è per
principio antinapoleonica, si comporti in modo napoleonico.
La
ragione per cui la NATO si è espansa verso Est è stata invece la disponibilità
a stabilizzare l’Europa e di interrompere le dispute sui confini — una cosa che
dovrebbe essere anche nell’interesse della Russia.
In
ogni caso, che l’espansione della NATO abbia fatto infuriare Putin e lo abbia
terrorizzato è una cosa indiscutibile.
Ma perché? La risposta è ovvia.
Ed è
ovvio il motivo per cui nessuno la vuole dire ad alta voce.
Alla
fine, le rivoluzioni europee che avevano terrorizzato Nicola I, nonostante
tutti i suoi sforzi, ebbero effettivamente luogo.
E
sorsero delle repubbliche liberali.
E, nel 1949, le repubbliche liberali si sono
unite fra loro, come se credessero davvero che i principi liberali e
repubblicani potessero dare avvio a una nuova civiltà.
E protessero questa civiltà con un’alleanza
militare: la NATO.
In
questo modo, le repubbliche liberali produssero un’alleanza militare che
conteneva in sé un’idea spirituale, e cioè la convinzione che il progetto
liberale e repubblicano fosse meraviglioso.
Ecco qui la rivoluzione del 1848, finalmente
vittoriosa e protetta da un formidabile scudo.
E
Putin individua il problema.
L’espansione
verso Est della NATO lo fa infuriare e lo terrorizza perché ostacola la
tradizionale politica estera russa, solida e conservatrice, stabilita da Nicola
I: la politica di invadere i vicini.
Là dove si è espansa la NATO, la Russia non
può più invadere e quindi non possono essere smantellate le conquiste delle
rivoluzioni liberali e repubblicane – o, quantomeno, non possono essere
smantellate dall’esercito russo.
L’opposizione
all’espansione della NATO coincide quindi con un’accettazione
dell’espansionismo della Russia, un espansionismo davvero strano il cui
obiettivo è sempre stato impedire il diffondersi verso Est delle idee
rivoluzionarie.
Ma
Putin non dice questo. Non lo dice nessuno.
È una cosa che non si può dire.
Chiunque
dovesse riconoscere che accetta la politica russa di invadere i vicini starebbe
dicendo, di fatto, che decine di milioni di persone che vivono lungo il confine
con la Russia, o nelle zone limitrofe, dovrebbero essere soggette alla più
violenta e omicida delle oppressioni per la più banale delle ragioni, e cioè
per proteggere la popolazione russa dal contatto con le idee e le convinzioni
che noi stessi crediamo stiano alla base di una società sana.
Per questo non lo dice nessuno.
E
invece si consente che circoli la supposizione secondo cui la Russia correrebbe
dei pericoli a causa della NATO, in quanto si troverebbe di fronte alla
prospettiva di un’invasione napoleonica.
Per dirla in breve, il “realismo” che
rivendica di essere una fonte di lucidità intellettuale è invece fonte di
annebbiamento intellettuale.
Ma,
alla fine: perché Putin ha invaso l’Ucraina?
Non è
per l’aggressione da parte della NATO.
Non è a causa di quanto è accaduto a Kiev nel
IX Secolo o di quanto è accaduto nelle guerre del XVII Secolo tra ortodossi e
cattolici.
E non
è a causa del fatto che l’Ucraina, con il presidente Volodymyr Zelensky, è
diventata “nazista”.
Putin
ha invaso l’Ucraina a causa della rivoluzione di Maidan del 2014.
La
rivoluzione di Maidan è stata proprio una rivoluzione del 1848 — una classica
sollevazione europea animata dalle stesse idee liberali e repubblicane del
1848, con lo stesso idealismo studentesco e con gli stessi gesti romantici e
anche con le stesse barricate nelle strade, se non fosse che questa volta erano
fatte di copertoni di gomma e non di legno.
La
rivoluzione di Maidan ha rappresentato tutto ciò contro cui Nicola I si era
impegnato a combattere nel 1848-49.
È
stata dinamica, appassionata e capace di suscitare simpatia da parte di un gran
numero di persone.
Alla
fine la rivoluzione di Maidan è stata superiore alle rivoluzioni del 1848.
Non è
sfociata in utopie folli o demagogiche, né in programmi di sterminio o nel
caos.
È
stata una rivoluzione moderata a favore di un’Ucraina moderata — una
rivoluzione che ha offerto all’Ucraina un futuro percorribile e che, in questo
modo, ha offerto nuove possibilità anche ai vicini dell’Ucraina.
E, diversamente dalle rivoluzioni del 1848,
non è fallita.
Per questo Putin si è terrorizzato.
Ha
reagito annettendo la Crimea e fomentando le sue guerre nelle province
separatiste dell’Ucraina orientale, nella speranza di poter fare qualche
ammaccatura al successo rivoluzionario.
Anche
lui ha ottenuto alcune vittorie e forse anche gli ucraini hanno contributo a
provocare loro stessi qualche ammaccatura.
Ma
Putin ha visto che, ciò nonostante, lo spirito rivoluzionario continuava a
diffondersi.
E ha
visto che in Russia il suo avversario “Boris Nemcov” era diventato popolare.
Questa cosa lo terrorizzava.
Nel
2015 Nemcov è stato opportunamente assassinato su un ponte a Mosca.
Poi Putin ha visto farsi avanti “Alexei
Navalnyj”, che gli faceva un’opposizione ancora più dura.
E ha
visto che anche “Navalny”j stava diventando famoso, come se non ci fosse fine a
questi fanatici riformatori e al loro fascino popolare.
Putin
ha avvelenato “Navalnyi” e lo ha imprigionato.
Ed
ecco che è scoppiata un’altra rivoluzione di Maidan, questa volta in
Bielorussia.
E
un’altra volta si sono fatti avanti dei leader rivoluzionari.
Una di loro, “Svjatlana Cichanoŭskaja” di
Minsk, si è candidata alle elezioni presidenziali del 2020 contro “Aljaksandr
Lukashenko”, il delinquente della vecchia scuola.
E ha
vinto!
Anche
se a Lukashenko è riuscita una manovra in stile “Stop the Steal” trumpiano e si
è dichiarato vincitore.
Putin
ha segnato un altro punto a suo favore nella sua eterna controrivoluzione su
scala ridotta.
Ma,
ciò nonostante, il successo della “Cichanoŭskaja” alle elezioni lo ha
terrorizzato.
E
Putin si è terrorizzato anche per l’ascesa di Zelensky che, a un primo sguardo,
sarebbe potuto sembrare una nullità, un semplice comico televisivo, un politico
con un programma accomodante e rassicurante.
Ma
Putin ha letto la trascrizione della telefonata tra Zelensky e l’allora
presidente americano Donald Trump, che dimostrava che Zelensky, in realtà, non
era uno sciocco.
Putin ha letto che Zelensky chiedeva armi.
La trascrizione di quella telefonata avrebbe
potuto persino dargli la sensazione che Zelensky potesse essere un’altra figura
eroica dello stesso stampo delle persone che aveva già assassinato, avvelenato,
imprigionato o rovesciato — che potesse essere un tipo inflessibile e quindi
pericoloso.
Putin
si è convinto che la rivoluzione di Maidan fosse destinata a diffondersi a
Mosca e a San Pietroburgo, se non quest’anno, l’anno prossimo.
Si è
quindi consultato con i fantasmi di “Brežnev, Chruščëv e Stalin” che gli hanno
detto di rivolgersi al teorico-principe Nicola I.
E
Nicola I ha detto a Putin che, se non avesse invaso l’Ucraina, lo Stato russo
sarebbe crollato.
Era
una questione di vita o di morte.
Putin
avrebbe potuto reagire a questo consiglio presentando un progetto grazie al
quale indirizzare la Russia in una direzione democratica e, allo stesso tempo,
preservare la stabilità del Paese.
Avrebbe
potuto scegliere di verificare, osservando l’Ucraina (dato che crede che gli
ucraini siano un sottoinsieme del popolo russo), se il popolo russo è davvero
in grado di creare una repubblica liberale.
O
avrebbe potuto prendere l’Ucraina come modello invece che come nemico, un
modello per capire come costruire quello Stato resiliente di cui la Russia ha
sempre avuto bisogno.
Ma gli
mancano gli strumenti di analisi che avrebbero potuto permettergli di pensare
in questo modo.
La sua
dottrina nazionalista non guarda al futuro, se non per individuare i disastri che
incombono.
La sua dottrina guarda al passato.
E così
Putin ha fissato il suo sguardo nel XIX Secolo, e ha ceduto al suo fascino, nel
modo in cui qualcuno potrebbe cedere al fascino della bottiglia — o della
tomba.
Si è
tuffato fin nelle profondità più selvagge della reazione zarista.
Il
disastro che si è verificato è stato quindi, prima di tutto, un disastro
intellettuale.
Si è
trattato di un mostruoso fallimento dell’immaginazione russa.
E
questo mostruoso fallimento ha determinato uno sprofondamento nella barbarie.
E ha condotto l’eternamente-fragile Stato
russo proprio davanti a quel pericolo che Putin era convinto di contribuire ad
allontanare con le sue scelte.
Una
lunghissima lista di crimini di guerra.
La
brutalità della guerra in Ucraina non avrebbe dovuto sorprenderci.
Innanzitutto
perché, come risulta ogni giorno più chiaro, non è iniziata il 24 febbraio
2022, ma nel febbraio 2014, subito dopo la destituzione da parte della società
civile dell’allora leader pro-russo “Victor Yanukovich”.
Una
rivoluzione, quella di piazza Maidan, che ha convinto Vladimir Putin a
pianificare l’invio dei carri armati per riprendersi ciò che non ha mai smesso
di considerare suo, e fermare l’espansione a Est dei valori occidentali.
Ma anche perché gli ucraini avevano già
iniziato a subire crimini di guerra:
nel
2014 Kiev aveva accettato, per la seconda volta, la giurisdizione della Corte
di giustizia penale internazionale, pur non avendone ratificato il trattato di
Roma del 2001, per portare in tribunale i crimini russi commessi durante
l’invasione della Crimea e del Donbass e la creazione delle repubbliche
separatiste di Luhansk e Donetsk.
In senso inverso la Russia, pianificando la
conquista, nel 2016 aveva deciso di uscire da quel trattato per non trovarsi a
rispondere dei suoi crimini.
L’attuale
procuratore Karim Khan il 2 marzo 2022, dopo il deferimento di ben 39 Stati,
tra cui l’Italia, ha riaperto il fascicolo e annunciato un nuovo avvio
dell’indagine che, oltre ai crimini commessi nelle regioni occupate, include
anche quelli commessi a partire dal 24 febbraio 2022 sull’intero territorio
ucraino.
Crimini che non credevamo più possibili (ma
contro cui ha subito puntato il dito il presidente USA Joe Biden, definendo senza
mezzi termini Putin «un macellaio»).
Eppure
l’aggressione russa dell’Ucraina, spacciata come liberazione, non è un
avvenimento inusuale o sorprendente.
A
guardare nei cassetti della storia di Mosca, di antecedenti simili, su scala
minore o più lontani da Bruxelles, dunque da noi, se ne trovano tanti.
Troppo
velocemente dimenticati o colpevolmente sottovalutati da quell’Europa che il 25
marzo 1947 aveva firmato il Trattato di Roma dicendo «mai più» e che oggi si
ritrova difronte al ripetersi della Storia.
Dopo
avere deportato migliaia di cittadini nel 2006, nel 2008 Mosca ha condotto una
guerra lampo di una settimana in Georgia: nessun massacro ma un ampio
bombardamento dei civili con bombe a grappolo.
Risultato: l’Ossezia del Sud diventa Stato
indipendente.
Solo temporaneamente però. Il 31 marzo 2022 il
leader separatista “Anatoly Bibilov” ha indetto un referendum per l’annessione
immediata alla Russia da tenersi all’indomani delle “elezioni presidenziali”
del 10 aprile.
Prima
ancora — e siamo negli anni Novanta —, la Russia aveva aggredito la Cecenia,
causando oltre 100mila morti, per lo più civili, distruggendo la capitale
Grozny e utilizzando lo stupro e la tortura dei civili come arma di guerra.
E poi
la Siria, dove nel 2015 Vladimir Putin è intervenuto militarmente a favore del
presidente Bashar al-Assad, dopo averlo sostenuto economicamente per anni e
avere rifiutato in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di
avallarne le dimissioni chieste dal Consiglio stesso.
Con
l’intervento russo non solo furono colpiti l’esercito dell’ISIS e l’esercito
libero siriano ma anche ospedali e strutture sanitarie gestite da civili.
Come
successo in Ucraina nel 2022: uno schema che si ripete.
Secondo
l’“ong britannica Airwars”, gli incidenti contro i civili in Siria aumentarono
di un terzo dopo l’intervento russo.
D’altronde
le modalità belliche di Mosca sono note da decenni.
Nel 1943 furono addirittura i nazisti a
trovare a Katyn le tombe comuni di 21.768 cittadini polacchi, per lo più
ufficiali dell’esercito e intellettuali, uccisi nel 1940 per mano dell’Nkvd,
l’allora organo della sicurezza militare russa, dopo che, come da consueta
propaganda, la Russia di Stalin aveva invaso la Polonia «in soccorso» dei
fratelli bielorussi e ucraini rimasti intrappolati nel territorio polacco.
Furono
Mikhail Gorbacëv e poi Boris Eltsin ad ammettere il massacro e, quest’ultimo, a
scusarsene, anche se ancora rimane sconosciuta la sorte di altri 100mila
ufficiali polacchi.
Pochi
anni dopo, con la fine del nazismo, i russi «liberarono» i territori
dell’Europa orientale.
Lo
fecero a modo loro.
Con
una serie di stupri di massa condotti contro le donne tedesche e polacche di
età compresa tra i 9 e gli 80 anni.
Stupro
punitivo come strumento di sottomissione.
In barba a qualsiasi norma di diritto
internazionale.
Gli
eventi degli anni successivi sono ben documentati ancora oggi nelle capitali
degli Stati baltici, della Polonia e dell’Est Europa più in generale, che non
ha mai dimenticato gli orrori russi, e che oggi, con l’eccezione dell’Ungheria
di Victor Orbán, è in prima linea nell’Unione a portare avanti la linea dura
contro la violenza russa.
Decine
di migliaia di oppositori torturati e uccisi, settemila solo a Smiersz, nella
Polonia nordoccidentale, dove Ivan Sierov, crudele capo del KGB, famoso per
avere detto di potere rompere qualsiasi osso nel corpo di un uomo senza
ucciderlo, si era intestato il compito di eradicare i partigiani.
Sempre
nel sangue sono finite prima la rivoluzione ungherese del 1956 e poi quella del
1968 a Praga, e negli anni Ottanta l’invasione dell’Afghanistan, durante la
quale furono uccisi un milione e mezzo di abitanti, quasi tutti civili, con uno
dei gadget mortali preferiti allora come oggi:
il
giocattolo imbottito di esplosivo.
Ma
oggi, a differenza di allora, e anche a differenza di quanto successo in
Cecenia o in Siria, dove né aggressore né aggredito erano soggetti alla
giurisdizione della Corte penale internazionale, i crimini potranno essere
puniti.
Non
tutti, certo.
Perché
il crimine di aggressione ha bisogno dell’avallo del Consiglio di sicurezza
dell’ONU, in cui siede la Russia, e perché nessuno può essere processato in
contumacia.
Ma
molti crimini di guerra e contro l’umanità lo potranno essere, a patto che sia
dimostrata la relazione tra crimine e autore dello stesso.
«Lo
sforzo deve essere tutto volto a reperire prove per attestare le responsabilità
dirette», dice Marina Mancini, docente di Diritto internazionale penale alla
Luiss di Roma: «Non solo quelle di Putin, per punire il quale sarebbe
necessario un cambio di regime, al momento improbabile. Ma tra lui e il soldato
semplice c’è una catena. Vale il principio della responsabilità del comandante
sia per gli atti criminosi impartiti sia per quelli commessi dai suoi
sottoposti che il capo non ha impedito o non ha punito».
Dunque
ben vengano la Commissione speciale d’inchiesta annunciata dalla Commissione
Europea, il portale “warcrime.gov.ua” istituito dalla procuratrice generale
ucraina Irina Venediktova” tramite cui i cittadini possono fornire informazioni
sui crimini di guerra, e anche il portale simile voluto sul suo sito dal Tribunale penale internazionale.
Dall’inizio della guerra “Venediktova” di
crimini ne ha contati oltre settemila, molti dei quali sono anche contro
l’umanità, ovvero atti inumani commessi nell’ambito di un attacco sistematico
contro la popolazione civile con un preciso disegno politico.
A dare
indicazioni in questo senso è stata la stessa agenzia di stampa russa” Ria
Novosti”, in quello che sembra un “Mein kampf” dei giorni nostri:
«La maggioranza della popolazione ucraina è
nazista e deve essere denazificata per cui è necessario eliminare chiunque
abbia imbracciato le armi perché è responsabile del genocidio russo».
E
ancora: «Il nazismo è travestito dal desiderio d’indipendenza.
Ma
l’Ucraina non è uno Stato nazionale e ogni tentativo di costruirlo porta al
nazismo.
L’Ucraina deve dunque essere cancellata.
Le
élite devono essere eliminate perché non rieducabili e la palude sociale che le
sostiene deve subire la violenza della guerra per fare penitenza e ricevere una
lezione storica».
In
altre parole, o la resa o il massacro.
Altra
scelta dai russi non è data.
A
dispetto di ogni grido di pace.
Kakaya
Russija, etò Ukraina!
Un
pezzo consistente delle ragioni che hanno portato alla crisi in Ucraina risiede
nella storia che Russia e Ucraina in parte condividono, e nella valutazione che
l’una e l’altra ne fanno.
Lo stesso Vladimir Putin, per giustificare
l’invasione, ha ripercorso la storia dell’Ucraina dandone una versione distorta
e falsa, sostenendo che non può esistere come Stato indipendente:
un’affermazione
che Putin ha argomentato anche nel già citato “saggio storico” (!) “On the Historical Unity of Russians
and Ukrainians”.
Capire
la storia dell’Ucraina — ma anche la geografia — è quindi particolarmente
importante per interpretare cosa sta succedendo.
Le
prime migrazioni e gli insediamenti nel territorio in cui oggi si trova
l’Ucraina risalgono alla preistoria, quando i Neanderthal, all’incirca 50mila anni fa, si
stanziarono a nord del mar Nero.
Successivamente
le regioni più interessate dagli insediamenti furono soprattutto tre: quella
costiera sul mar Nero, dove poi sarebbero state costruite le prime colonie
greche nel VII Secolo a.C., le steppe orientali e le foreste centrali e occidentali.
Il
primo storico occidentale a occuparsi di questa zona fu Erodoto nel V Secolo a.C., nonostante pare che non ci fosse mai
andato personalmente.
La
zona costiera del mar Nero all’epoca era nota con il nome di “Ponto Eusino”, ed era un’autentica frontiera per
Erodoto, nato ad Alicarnasso (oggi Turchia) e formatosi nelle moderne e
dinamiche città greche.
Quando
Erodoto scrisse le sue Storie, i greci sapevano poco o nulla di quei popoli che
chiamavano “barbari”: sciti, cimmeri e sarmati.
È in quel periodo che iniziò a formarsi
l’identità di quello che oggi definiamo Occidente, in opposizione a una
frontiera orientale che appariva lontana sia geograficamente che culturalmente.
Nei
secoli successivi, l’odierna Ucraina fu terra di passaggio per varie altre
popolazioni nomadi e seminomadi, dai goti provenienti dall’area baltica
passando per gli unni, i bulgari e i peceneghi (una popolazione di ascendenza
turca).
Nel
frattempo, tra il V e il VI Secolo d.C., cominciarono a migrare in queste zone
anche le prime popolazioni slave, stanziandosi nell’odierna Ucraina
settentrionale e occidentale.
Gli
slavi praticavano l’agricoltura, l’allevamento e altre attività produttive come
la lavorazione dei tessuti e della ceramica.
Costruirono anche i primi insediamenti
fortificati che poi sarebbero diventate importanti città, tra cui anche Kiev.
Da
allora, con il passare dei secoli e con il fondamentale contributo dei variaghi
(vichinghi) provenienti dalla Scandinavia, Kiev diventò il centro di uno Stato
medievale ancora oggi oggetto di controversie tra gli storici.
La
cosiddetta” Rus’ di Kiev” — un nome che venne inventato dagli storici
ottocenteschi — era composta da una serie di principati che ruotavano attorno a
Kiev e che coprivano un territorio vastissimo, che partiva dal Mar Nero e
arrivava fino alla Finlandia.
È
scorretto comunque pensare che fosse uno “stato” con la concezione che ne
abbiamo oggi: era piuttosto un insieme di entità statuali più piccole e legate
tra loro, senza istituzioni politiche centrali, cosa peraltro comune anche in
altri Stati medievali.
Il
picco della potenza la “Rus’ di Kiev” fu intorno all’anno 1000, con i due regni
di Volodymyr di Kiev (San Vladimiro) e Yaroslav il Saggio, che per primo
introdusse un codice di leggi nel mondo slavo.
Dopo
la morte di Yaroslav, la Rus’ attraversò una lunga fase di declino dovuta a
dissidi interni tra i vari principati e alle continue invasioni dei mongoli che
premevano da est.
I
territori che appartenevano alla Rus’ finirono sotto il dominio di altri Stati,
il Granducato di Lituania prima e la Confederazione polacco-lituana poi.
L’eredità
storica della “Rus’ di Kiev” è una questione ancora oggi fondamentale per il
nazionalismo ucraino.
Ma è
importante anche per il nazionalismo russo propugnato da Putin: per lui,
Ucraina e Russia sono una cosa sola, quindi è ovvio che la” Rus’ di Kiev” non
fosse nient’altro che uno degli antenati dello Stato russo, nonostante in
quell’epoca Mosca non fosse ancora stata fondata e l’impero zarista non
esistesse.
Come
ha scritto lo storico “Sergei Plokhy “nel suo libro “The Gates of Europe”:
Chi è
il legittimo erede della” Rus’ kievana”?
Chi
detiene le proverbiali chiavi per Kiev?
Queste
domande hanno preoccupato la storiografia sulla Rus’ negli ultimi 250 anni.
Inizialmente il dibattito si concentrò sulle
origini dei prìncipi – erano scandinavi o slavi? – e poi, da metà Ottocento, si
ampliò comprendendo la contesa russo-ucraina.
La
questione rimane aperta:
“
Yaroslav” viene reclamato come parte della propria identità nazionale sia dai
russi che dagli ucraini, ed entrambi lo utilizzano come simbolo nazionale,
persino sulle banconote.
I primi lo raffigurano con la barba tipica degli zar
del Cinquecento, i secondi con i baffi da cosacco.
Una
nuova fase di autonomia per il territorio ucraino si ebbe solo nel Seicento,
quando i Cosacchi si ribellarono al dominio polacco.
Erano
una comunità militare che si era sviluppata all’incirca un secolo prima, e che
la Polonia aveva usato come armata per fare la guerra contro i turchi e i
tatari.
Ma i Cosacchi con il passare del tempo
cominciarono ad avanzare pretese di autodeterminazione, e nel 1648 ci fu
l’insurrezione di “Bogdan Khmelnytsky”, che portò a una rivoluzione e alla
costituzione di un nuovo Stato, l’”Etmanato cosacco “(dal nome dei comandanti
cosacchi, hetman).
L’”Etmanato”
riuscì a mantenere l’indipendenza per oltre un secolo.
La parte occidentale, comprendente le regioni
della “Galizia2 e della “Volinia”, per un periodo tornò di nuovo in possesso
della Confederazione polacco-lituana.
Ma
quando questa si disgregò, a partire dal 1772, i territori vennero spartiti tra
l’impero zarista (Volinia) e quello asburgico (Galizia).
È per
questo motivo che ancora oggi la” Galizia” è una provincia molto differente dal
resto dell’Ucraina, anche dal punto di vista culturale.
La
parte orientale dello Stato cosacco rimase autonoma più a lungo, ma con
l’ascesa di Caterina di Russia l’impero zarista tolse all’”Etmanato” la residua
autonomia.
Durante
il lungo dominio degli zar, l’Ucraina attraversò una fase di dura repressione,
soprattutto nell’Ottocento.
Gli
zar avevano timore che la cultura e la lingua ucraina minacciassero l’unità
dell’impero, perciò vennero proibite le pubblicazioni in ucraino e venne
represso lo sviluppo culturale e letterario di quella lingua.
Nonostante
la repressione però gli ucraini cercarono di ribellarsi e di guadagnarsi
l’indipendenza, in particolare durante la Prima Guerra Mondiale, quando il
regime zarista era più debole.
Con la
rivoluzione sovietica, l’Ucraina diventò una repubblica socialista,
inizialmente con larga autonomia.
L’Unione
Sovietica, secondo il suo primo leader Vladimir Lenin, doveva essere una
federazione di repubbliche tra loro pari, perché il vero obiettivo non era
l’egemonia di un Paese sull’altro bensì la diffusione della rivoluzione
comunista nel mondo.
Era una delle convinzioni principali anche di “Lev
Trotsky”, che però Stalin isolò, estromise, esiliò e anni dopo fece assassinare
quando diventò il leader sovietico alla morte di Lenin.
Stalin
sosteneva invece l’idea del socialismo in un solo Paese, e rinunciò all’idea di
esportare la rivoluzione in Europa.
A partire dagli anni Trenta diede nuova
importanza alla lingua e alla cultura russe, sostituendole a quelle delle altre
repubbliche sovietiche, Ucraina compresa.
Stalin
perseguì anche politiche folli di riorganizzazione agricola in Ucraina che
portarono, tra il 1932 e il 1933, alla famigerata carestia (Holodomor) che
uccise circa 4 milioni di persone nella sola Ucraina.
Questo spiega perché quando i tedeschi
invasero l’Ucraina nel 1941 molte persone li accolsero salutandoli con il pane
e il sale, come dei “liberatori”.
Il 24
agosto 1991 l’Ucraina proclamò l’indipendenza, passando da “membro della famiglia
delle nazioni sovietiche” a Stato sovrano e iniziando un lungo, e non privo di
intoppi, cammino verso la democrazia.
Durante
questo periodo è rimasta piuttosto divisa tra due idee diverse del proprio
futuro:
da una
parte c’è chi vede nella Russia un alleato e partner commerciale;
dall’altra
invece chi vorrebbe maggiore integrazione con l’Occidente e in particolare con
l’Unione Europea.
Il
mondo intero si accorse di queste divisioni al momento della cosiddetta “rivoluzione
arancione” del 2004, nel corso della quale gli ucraini protestarono in massa in
difesa della vittoria elettorale del candidato filo-europeo “Viktor Yushenko”.
Nel
2008 la NATO accettò l’idea (per la verità forzata dal solo presidente George
Bush jr.) che in un non meglio specificato futuro avrebbe accolto la richiesta
dell’Ucraina di entrare nell’alleanza militare.
Oggi
nessun Paese NATO intende davvero accogliere l’Ucraina nell’alleanza, ma la
promessa del 2008 è usata tuttora dalla Russia come la prova che l’Occidente
starebbe espandendo la propria influenza ai suoi danni.
Nel
1991, tre settimane prima della dichiarazione d’indipendenza ucraina
dall’Unione Sovietica che avviò la smobilitazione finale dell’impero comunista,
George Bush sr. al Soviet supremo di Kiev fece un discorso realista, patetico e
disonorevole passato alla storia con il nome ingiurioso di “Chicken Kiev speech” (che gli affibbiò William Safire sul
New York Times).
In
quel discorso, l’allora presidente degli Stati Uniti disse che gli americani
non avrebbero mai sostenuto coloro che cercavano l’indipendenza «per sostituire
una dittatura lontana» (quella di Mosca) «con un nazionalismo suicida centrato
sull’odio etnico».
In quell’occasione Bush senior si fece
messaggero degli interessi del Cremlino e del leader sovietico “Gorbacëv” che
brigava per non far crollare l’Unione Sovietica sotto i tellurici movimenti di
libertà dei suoi ex sudditi.
Secondo
gli ucraini di allora, il presidente americano si mostrò più filosovietico
degli stessi leader comunisti ucraini.
In
altre parole, gli americani, in nome della realpolitik, non più tardi di
trent’anni fa cercarono di frenare l’indipendentismo ucraino.
Questo per dire quanto siano fallaci le
argomentazioni di Putin sull’«interferenza americana e occidentale» in
quell’area di confine — e quanto in realtà noi europei dobbiamo agli ucraini: il loro coraggio antitotalitario si è
visto allora, nel 2014 a Maidan e nell’inverno 2022 sotto assedio.
“Euromaidan
2013”: gli Ucraini si sentono più europei che russi.
Ci fu
una seconda rivoluzione poi a novembre del 2013, quando migliaia di persone
protestarono nel movimento chiamato “Euromaidan”, a Kiev, contro la decisione
del presidente “Viktor Yanukovich” di rifiutare un importante patto commerciale
con l’Unione Europea, e poi più in generale contro il governo filorusso del
Paese, accusato di corruzione.
Dopo
mesi di tensioni, nell’inverno del 2014 “Yanukovich” decise di rispondere con
la violenza, e a Kiev ci furono scontri duri tra le forze di sicurezza e i
manifestanti con decine di morti e centinaia di feriti.
La
rivoluzione però ottenne il suo obiettivo.
Il 22
febbraio “Yanukovich” — che anni dopo sarebbe stato condannato da un tribunale
ucraino per alto tradimento — lasciò il Paese e scappò in Russia.
A capo del governo fu nominato il filoeuropeo “Arseniy
Yatsenyuk”.
Va
peraltro ricordato che lo stratega della campagna elettorale di Donald Trump, “Paul
Manafort”, è stato condannato (e poi graziato da Trump, che ammirava e ammira
ancora oggi il pugno di ferro di Putin e gli deve in buona parte il successo
elettorale del 2016 — e chissà cos’altro) per aver occultato svariati milioni
di dollari ricevuti dal giro di “Viktor Yanukovich”, cui Manafort aveva guidato
tre diverse campagne elettorali fino a quando, con un voto unanime del
Parlamento di Kiev, “Yanukovich” è stato cacciato a pedate nel sedere verso la
grande madre Russia.
Putin
definì la rivoluzione ucraina «un colpo di Stato incostituzionale e una presa del
potere militare», e poco dopo invase e occupò militarmente la Crimea.
Contestualmente,
le regioni (oblast) di Luhansk e di Donetsk, nell’area orientale del Donbass,
uscirono dal controllo dello Stato ucraino.
La Russia sobillò, armò, aiutò e finanziò
gruppi militari filo-russi anche nell’est dell’Ucraina, permettendo quindi ai
ribelli del Donbass di prendere il controllo di parte del territorio.
Prima
dell’invasione della Crimea, nel Donbass non esisteva un movimento politico che
chiedesse l’annessione alla Russia, ma esistevano le premesse perché una
richiesta di quel tipo avesse un certo sostegno nella popolazione locale:
dall’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991 (per cui votò la maggioranza
della popolazione ucraina, anche nell’est del Paese) le condizioni economiche
per molte persone non sono mai migliorate, specialmente in una regione come il
Donbass dove in precedenza si viveva meglio grazie all’industria del carbone.
Per questo, negli anni è diffusa tra molti
l’idea che le cose migliorerebbero se le regioni di Donetsk e Luhansk
entrassero a far parte della Russia.
Anche
perché molti degli abitanti del Donbass sono etnicamente e culturalmente russi:
molti
a scuola hanno studiato la versione sovietica della Storia, parlano il russo, e
guardano la televisione russa.
All’inizio
del 2015 gli accordi di Minsk stabilirono la fine dei combattimenti e il
ritorno all’Ucraina delle regioni ribelli, in cambio di più autonomia.
Ma
benché fossero stati firmati sia dal governo ucraino sia da quello russo, gli
accordi non furono mai davvero rispettati.
I
combattimenti continuarono in maniera piuttosto intensa fino alla fine di
quell’anno.
Da
allora e fino all’invasione del 2022, la linea del fronte — lunga circa 400
chilometri — era rimasta più o meno invariata, e i combattimenti erano meno
frequenti ed estesi, ma il Donbass era comunque una zona di guerra, con tanto
di trincee e centri abitati abbandonati perché localizzati lungo la linea del
fronte.
Negli
anni, soprattutto tra il 2014 e il 2015, più di 13mila persone sono morte, sia
militari che civili, e moltissime famiglie hanno dovuto abbandonare le proprie
case e le proprie città.
Il
governo ucraino aveva definito le due repubbliche autoproclamate «territori
temporaneamente occupati» (dalla Russia) e chiamava il fronte «linea
amministrativa».
In Russia invece si parlava del conflitto
nell’est dell’Ucraina come di una guerra civile.
La divisione degli oblast in vigore fino
all’invasione del 2022 di Donetsk e Luhansk non rifletteva comunque divisioni
culturali, etniche o storiche pre-esistenti, era solo il risultato degli
scontri del 2015.
Anche se ufficialmente le due regioni erano
gestite da leader ucraini, la Russia esercitava già un forte controllo.
Chi
viveva nelle due repubbliche autoproclamate era invitato a richiedere la
cittadinanza russa e abbandonare quella ucraina e poteva votare alle elezioni
russe pur non avendo la cittadinanza vera e propria.
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