CONTROLLANO “DAVOS” E TUTTO IL MONDO OCCIDENTALE.
CONTROLLANO “DAVOS” E TUTTO IL MONDO OCCIDENTALE.
Davos,
la vergogna dei più ricchi
e
incapaci del pianeta.
Remocontro.it
- Ennio Remondino – (17 Gennaio 2023) – ci dice:
Un pianeta di sempre più ricchi e di sempre più
poveri, e anche se sei un relativamente povero tra i ricchi ma se sei ancora
una persona per bene, la cosa un po’ ti dovrebbe indignare.
Almeno
il tempo di quello che a catechismo ci avevano insegnato come ‘esame di
coscienza’.
Ma a
Davos, “World Economic Forum”, l’esame di coscienza non è in programma, e la
diseguaglianza sempre meglio organizzata e non conosce crisi.
Il
nuovo rapporto di Oxfam all’apertura del “World Economic Forum” a Davos.
Sempre
più ricchi e sempre più, molto più poveri.
La
pandemia, i cambiamenti climatici, il caro energia e l’inflazione hanno
prodotto pochi ‘grandi ricchi’ e moltiplicato i ‘sempre più ricchi’, ma senza
esagerare. Assieme a molti poveri, e ai sempre più poveri.
È quanto emerge dal rapporto Oxfam «La diseguaglianza non conosce crisi», pubblicato – come di consueto –
all’apertura del World Economic Forum (Wef), a Davos, sulle Alpi svizzere, che
già la località prescelta la dice lunga, che Cortenina D’Ampezzo passa per
località da turismo popolare.
‘Cooperazione’
dove ognuno corre per sé.
Oltre
2700 i partecipanti, tanti economisti che le crisi spesso le causano e poi le
analizzano, una cinquantina di Capi di Stato, ma quasi nessuno tra quelli che
veramente contano e poi deludono, e poi ‘aria fritta’.
Ah,
scusate, dimenticavamo il presidente ucraino Zelenzky in video, che non può
mancare a nessun meeting, visto che trova persino il tempo di andare da Bruno
Vespa a Porta a porta.
Colpevoli
e anche pessimisti.
Ad
eccezione del Cancelliere tedesco Olaf Scholz, non sarà presente nessun leader
del G7, visto che di Grandi s’è persa la misura politica e visto che le aspettative
sono basse, brutte, quasi pessime, e non fa bene mostrarsi al proprio elettore
dove si parla di «recessione
globale, mentre l’economia continuerà ad essere segnata dalle tensioni
geopolitiche».
Per
fortuna i ‘super-ricchi’ –informa Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam– hanno
superato ogni record nei primi due anni della pandemia, inaugurando quelli che
potremmo definire i «ruggenti anni ’20’ del nuovo millennio».
E noi
siamo felici.
Globalizzazione
in crisi?
Un
mondo frammentato da guerra, nazionalismi e tensioni geopolitiche crescenti, ma
ora i protagonisti di gran parte di queste disgrazie provano a dirci come forse
ne usciremo, ovviamente dopo che tutti noi avremo pagato un prezzo molto
salato.
E visto che le disgrazie non vengono mai sole,
il” World Economic Forum” ci avverte che dobbiamo prepararci, oltre che alla
recessione globale nel 2023, anche a un ‘disordine mondiale’, che sta
trasformando la globalizzazione come l’avevamo conosciuta finora.
La
colpa fu del rosso fiorellin…
Non
solo colpa della guerra della Russia -oggi assente per castigo- e neppure le
barriere commerciali fra Stati Uniti e Cina, e della gara perversa tra
Bruxelles e Washington che si scontrano (facendo finta di non farlo) su chi
sussidia di più la propria industria per far andare a picco quella dell’amico
concorrente.
Colpa di chi manca?
Sarà
per questo che al vertice di quest’anno nelle Alpi svizzere fanno più rumore
gli assenti dei presenti:
mancano
gli oligarchi russi, il presidente americano Joe Biden e il cinese Xi Jinping,
come pure il francese Emmanuel Macron, il premier britannico Rishi Sunak, il
canadese Justin Trudeau e il rieletto leader brasiliano Luiz Inácio Lula da
Silva.
Per
fortuna gli amati miliardari …
In
compenso, sulla lista degli invitati ci sono oltre 100 miliardari,
rappresentanti sauditi e degli Emirati Arabi, innumerevoli Ceo e operatori
finanziari di WALL Street.
Con la
politica che formalmente decide, quasi assente.
Sospetto
di codardia, il nostro, condiviso da chi, anche in Oxfam, ritiene che la loro
assenza sia una dimostrazione di come l’economia globale non sia più materia su
cui i capi di stato hanno il controllo, ormai esercitato da un ristretto
manipolo di privati che noi non siamo chiamati ad eleggere.
Anzi,
che in gran parte, neppure conosciamo.
Disuguaglianze
favorite dal fisco?
I
numeri parlano chiaro.
Dal
2020 l’1% dei più ricchi si è accaparrato quasi il doppio dell’incremento della
ricchezza netta globale, rispetto al restante 99% della popolazione mondiale.
Le fortune dei miliardari crescono alla
velocità di 2,7 miliardi di dollari al giorno, mentre almeno 1 miliardo e 700
milioni di lavoratori vivono in paesi in cui l’inflazione supera l’incremento
medio dei salari.
Quando
il povero non servirà più neppure come forza lavoro.
Intanto
i governi delle regioni più povere spendono oggi quattro volte di più per
rimborsare i debiti rispetto a quanto destinano per la spesa pubblica in sanità.
Col risultato che ogni quattro secondi una
persona muore per mancanza di accesso alle cure, per gli impatti della crisi
climatica, per fame, per violenza di genere.
Ovviamente,
‘Ça va sans dire’, il debito degli ultra poveri e con gli ultra ricchi.
Sempre
meno tasse per i ricchi.
Come
il malvagio delle favole, anche quello vera ama esagerare.
E dopo
decenni di tagli alle tasse sui più ricchi, una tendenza che si traduce in
povertà, migrazioni, conflitto sociale e crisi delle democrazie, basterebbe
un’imposta del 5% sui grandi patrimoni «potrebbe generare per la lotta alla
povertà affrancando dalla povertà fino a 2 miliardi di persone».
Ma noi
siamo adulti e non crediamo più alle favole.
“World
Economic Forum”, massoneria per ricchi.
«La
percezione popolare è che il WEF sia un’organizzazione segreta e sinistra
simile a qualcosa uscito da un romanzo di James Bond», si lascia scappare Larry
Elliott sul “Guardian”.
A
Davos solo passerella, dove non c’è nessuno tra quelli che alla fine decidono,
salvo quei 100 miliardari di cui abbiamo detto.
Mentre
qualcuno opportunamente ricorda che la prima Grande Guerra in Europa viene
combattuta a poco più di duemila chilometri dalle piste innevate di Davos.
IL
‘NUOVO MONDO’ DI DAVOS:
DALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA
AL CONTROLLO SOCIALE?
Centrostudilivatino.it – Maurizio Milano – (DIC
21, 2021) – ci dice:
Secondo
Klaus Schwab, fondatore ed Executive Chairman del World Economic Forum (WEF) di
Davos, il paradigma sociale ed economico dominante nel secondo dopoguerra, in
crisi già da alcuni decenni, è giunto oramai al punto di non-ritorno.
Solo
la conversione dallo “shareholder capitalism” allo “stakeholder capitalism del
XXI secolo” potrà consentire alle “società capitalistiche di sopravvivere e
prosperare nell’attuale era, caratterizzata da cambiamento climatico,
globalizzazione e digitalizzazione”.
La “soluzione” proposta, tuttavia, va nella direzione
opposta a quella desiderabile, aggravando ulteriormente i mali che si
pretenderebbe voler curare.
1. Nel suo recente libro Stakeholder
Capitalism: “A Global Economy that Works for Progress, People and Plane”t, il
prof. Klaus Schwab afferma che il modello sociale, economico e politico attuale
è giunto al capolinea.
Secondo il leader del WEF, le prime avvisaglie
di tale crisi erano già evidenti negli anni 1970, a partire dal “Rapporto
Meadows del 1972”, commissionato dal “Club di Roma» di Aurelio Peccei, che
individuava i “limiti dello sviluppo” nella crescita “eccessiva” della
popolazione rispetto alle risorse disponibili.
I documenti e i programmi dell’ultimo mezzo
secolo, concretizzatisi nelle varie Conferenze dell’ONU incentrate sul
cosiddetto “sviluppo
sostenibile”
– dal “Rapporto Brundtland” della “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo” (WCED) del 1987 (in cui venne
introdotta la nozione di “sostenibilità”) fino ad arrivare all’”Accordo di Parigi” sul clima nel 2015
con l’approvazione dell’”Agenda Onu 2030“, nella quale sono definiti “17
Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile” – hanno portato avanti una visione neo-malthusiana, in cui il focus iniziale
sull’inadeguatezza delle risorse a sostenere il modello di crescita economica
si è progressivamente spostato sui “presunti effetti negativi dell’uomo
sull’ambiente”.
A
partire dal 1996, introdotta da “Mathis Wackernagel” e da “William Rees”, si è
diffusa, infatti, l’ipotesi della cosiddetta “impronta ecologica “, che
misurerebbe l’impatto negativo dell’uomo sulla Terra mediante un complesso
indicatore aggiornato periodicamente dal WWF a partire dal 1999.
Per
l’ideologia “verde” oggi dominante, la popolazione è indubbiamente considerata
come la principale minaccia per la “salute” stessa del pianeta, anche al di là
del solito tema dei presunti squilibri tra crescita della popolazione e risorse
disponibili.
Il
concetto di “sostenibilità” si inscrive quindi all’interno di un quadro di
riferimento culturale che viene da molto lontano, ostile alla vita e alla
famiglia naturale, anche se, ovviamente, non tutti ne sono consapevoli.
Benedetto XVI, in “Caritas in veritate”, non parlava
mai di “sviluppo sostenibile” bensì di “sviluppo umano integrale” che poi, in
fondo, è l’unico sviluppo davvero “sostenibile”, anche sul piano materiale.
L’invecchiamento demografico congiunto al crollo della
natalità, infatti, comporta dei progressivi problemi di “sostenibilità” a
livello economico e sociale a causa dei crescenti costi – sanitari,
previdenziali ed assistenziali – che si scaricano su una popolazione in età
lavorativa in costante contrazione.
Un
rischio che persino la Cina ha compreso, introducendo a fine maggio 2021 la
possibilità per le famiglie di avere fino a tre figli:
è certamente la solita visione statalista e
ideologica che considera le persone come una “massa” da manovrare a seconda dei
mutevoli interessi economici e politici, ma comunque un segno evidente di come il “reale” alla lunga si imponga
sempre sull’ideologia.
2.
Schwab si focalizza poi sulla svolta definita come «neo-liberista», iniziata
negli anni 1980 con la “Reaganomics e il “Thatcherismo”, incentrata
“maggiormente su fondamentalismo del mercato e individualismo e meno
sull’intervento statale o sull’implementazione di un contratto sociale”,
giudicandola “un errore”.
Egli afferma che il modello dominante – che definisce “sthareholder capitalism” perché la responsabilità delle
imprese è limitata alla produzione di utili per gli azionisti, senza ulteriori
implicazioni “sociali” – dev’essere urgentemente superato nella direzione di
quello che definisce lo “stakeholder capitalism del XXI secolo”, dove debbono essere presi in
considerazione tutti i “portatori di interesse”, dai clienti ai lavoratori, dai
cittadini alle comunità, dai governi al pianeta, in una prospettiva non più locale o
nazionale ma “globale”, che richiede quindi un nuovo “multilateralismo”.
In
linea di principio, la logica dello “stakeholder capitalism” è anche condivisibile, giacché le
imprese non vivono nel vacuum, ma in contesti sociali e politici.
Quindi,
oltre alla generazione di profitto per i propri azionisti, servendo al meglio i
clienti in una libera e leale concorrenza, è equo che sostengano i costi delle
eventuali esternalità e si assumano responsabilità più ampie, secondo il
principio del bene comune a cui tutti sono tenuti a contribuire.
Che
cosa si intende però esattamente col termine “stakeholder capitalism del XXI
secolo”?
Al
cuore di tale modello secondo Schwab vi sono due realtà: le “persone” e il
“pianeta”.
2.1. Le “persone”:
Schwab
scrive che “il benessere delle persone in una società influisce su quello di altre
persone in altre società, e spetta a tutti noi come cittadini globali
ottimizzare il benessere di tutti”.
I “cittadini globali” astratti indicati da Schwab
esistono però solo nelle visioni ideologiche:
le “persone” concrete hanno sempre relazioni, a partire
dalla famiglia e dalla società circostante, e sono sempre portatrici di una
storia – e di una geografia –, nonché di una visione del mondo.
Non
esistono i “cittadini del mondo”, se non tra le élite tecnocratiche apolidi a
cui si indirizza, evidentemente, il prof. Schwab.
Nella
prospettiva evocata, la sussidiarietà e la stessa sovranità nazionale
verrebbero sostituite da prospettive centralistiche e dirigistiche.
2.2. Il “pianeta”:
Schwab
lo
definisce come “lo stakeholder centrale nel sistema economico globale, la cui salute
dovrebbe essere ottimizzata nelle decisioni effettuate da tutti gli altri
stakeholder.
In nessun altro punto ciò è divenuto più
evidente come nella realtà del cambiamento climatico planetario e nei
conseguenti eventi climatici estremi provocati”.
La teoria del “riscaldamento globale” di supposta
origine antropica (l’acronimo inglese è “AGW”: Anthropogenic Global Warming) e del più ampio concetto di
“cambiamento climatico” che ne deriverebbe – al centro dell’attività dell ’ “Intergovernmental
Panel on Climate Change” (IPCC), un’agenzia dell’Onu dedicata allo studio
dell’impatto umano sul cambiamento climatico – è appunto soltanto una teoria, su cui molti scienziati autorevoli
non concordano (per es. gli scienziati di fama mondiale Antonino Zichichi e
Carlo Rubbia, per restare all’Italia), non una realtà, in quanto manca di conferme
scientifiche certe.
A ben
guardare, pur considerando l’uomo come il “cancro” del pianeta, l’ideologia
ecologista pecca paradossalmente per eccesso di “antropocentrismo” perché
attribuisce all’essere umano un potere che nei fatti è ben lungi da avere:
non è
forse prometeico pretendere di abbassare la temperatura del pianeta come si fa
col climatizzatore dell’ufficio e pensare di potere cambiare il clima della Terra come
se fosse quello della serra dell’orto di casa?
A ciò si aggiunga che tutte le previsioni
catastrofistiche fatte in passato sull’evoluzione del clima e sugli impatti sul
pianeta e sull’uomo si sono rivelate erronee.
Ovviamente,
con ciò non si vuole sminuire l’importanza di contrastare l’inquinamento e di
migliorare costantemente nella gestione dei beni creati, anche nel senso della
cosiddetta “economia circolare” e nella continua innovazione tecnologica per
ridurre gli sprechi: questa corretta “ecologia” non ha però nulla a che
spartire con l’approccio ideologico e ostile all’uomo – e alla natalità – della
decarbonizzazione e della transizione energetica degli approcci sopra indicati.
È
ideologico, non scientifico, trasformare una teoria in una certezza, su cui poi
impostare azioni di portata colossale e con costi astronomici.
Nella prospettiva del cosiddetto “cambiamento
climatico” – che è per definizione globale – è chiaro che la sovranità
nazionale dovrebbe cedere il passo al multilateralismo e alla governance
mondiale: a problemi globali soluzioni globali.
Cui
prodest?
3. Schwab non ne parla nel libro citato,
ma la “transizione ecologica” a guida ONU non si limiterà alle tematiche di
tipo “energetico”, con l’abbandono dei combustibili fossili – che stanno già comportando
fortissimi rialzi delle materie prime energetiche con ricadute in termini di
dinamiche inflazionistiche sui prodotti e sui servizi –, ma si estenderà anche al cambio dei modelli alimentari,
incentivando, ad esempio, la “conversione” al veganesimo e al consumo di “carne
sintetica”;
per non parlare della “suggestione” ad avere preferibilmente un solo figlio per
famiglia, ad
adottare uno stile di vita all’insegna dell’austerità, rinunciando a viaggiare
per non inquinare oppure preferendo andare a piedi o in bicicletta e utilizzare
solo i mezzi pubblici; e chissà cos’altro in futuro, perché la rivoluzione verde, come
tutte le rivoluzioni, è un processo in divenire perenne, e quindi non può
arrestarsi.
I
costi saranno probabilmente stratosferici:
Bill
Gates li stima in 5.000 miliardi di dollari annui, che potranno
progressivamente scendere nel corso del tempo, grazie all’innovazione
tecnologica, fino a “soli” 250 miliardi di dollari annui di extra-costo nel
2050.
Tale
extra-costo è indicato col termine “green premium”.
Sembra proprio che ogniqualvolta compare
l’aggettivo “verde” dobbiamo preoccuparci:
i nuovi e pesanti costi, infatti, hanno già
iniziato a scaricarsi su contribuenti e consumatori, con inevitabili gravi
alterazioni della concorrenza, e quindi delle stesse prospettive di crescita
economica futura, a danno dei più e a beneficio delle industrie favorite da
tali progetti, oltre che della cosiddetta “finanza sostenibile”. Per non parlare delle pesanti
restrizioni alla libertà, che abbiamo già iniziato ad “assaporare”: una
decrescita, insomma, davvero poco felice.
4. Se lo “stakeholder capitalism del XXI
secolo” del prof. Klaus Schwab si fonda su questi due pilastri, su “cittadini” ridotti a monadi e su
un “pianeta” da difendere dagli attacchi dell’uomo – e quindi non più un “creato” che
dell’uomo costituisce la dimora –, c’è da temere derive liberticide.
Mentre
le società e l’iniziativa economica nascono logicamente e storicamente dal
basso, a partire dalle persone concrete, inserite in famiglie e in comunità,
per poi svilupparsi secondo logiche sussidiarie nei vari corpi intermedi, qui ci troviamo di fronte a una
visione distopica fondata su un’antropologia distorta, e conseguentemente su una
sociologia “rovesciata”.
Una
prospettiva atomistica e materialistica, centralistica e dirigistica, dove i
“migliori” vorrebbero guidare dal centro e dall’alto, come nella città ideale
vagheggiata da molti utopisti che si sono industriati, nel corso dei secoli, di
immaginare un “mondo migliore”.
5. Con riferimento ai pretesi “eccessi
di libertà” dei “privati” che avrebbero portato fuori strada il paradigma di
crescita impostosi nel secondo dopoguerra, occorre poi fare una precisazione.
Di quali “privati” si sta parlando?
I Paesi contemporanei sono caratterizzati
tutti, chi più chi meno, da una presenza molto forte dello Stato nella vita
economica e sociale, da un livello di pressione fiscale e contributiva
importante, da un’elevata collusione dei grandi gruppi industriali e finanziari
col potere politico – il cosiddetto capitalismo clientelare – e da un monopolio
statale sul denaro, la cui quantità viene manipolata ad libitum dalle
rispettive Banche centrali che negli ultimi lustri intervengono in modo sempre
più attivo e spregiudicato per orientare i sistemi finanziari, e quindi
economici, dei propri Paesi.
Negli
stessi USA, considerati l’emblema dell’economia libera, il potere politico è
colluso con i grandi gruppi privati e lo stesso andamento di WALL Street –
nell’immaginario collettivo icona del “capitalismo selvaggio” e del “turbo-capitalismo” – dipende in realtà sempre più
dalla politica, in particolare dalle politiche monetarie ultra-espansive
attuate dal 2009 dalla Federal Reserve statunitense, solo formalmente
indipendente dall’establishment politico-economico.
Non ci
sono dubbi che esista una liaison malsana tra i grandi gruppi privati e la
politica, in forte crescita nell’ultimo quarto di secolo, e ciò va denunciato
col termine di “capitalismo clientelare”:
aumentando
ulteriormente la spesa pubblica non si farebbe altro che accrescere ancora la
quota di ricchezza nazionale gestita da tali élite politico-economiche, a tutto
beneficio di chi è più vicino ai rubinetti della spesa e a danno di tutti gli
altri che pagheranno il conto. Lo vedremo, molto probabilmente, con
l’implementazione del “Piano di rilancio europeo” denominato NextGenerationEU (il cosiddetto Recovery Fund), per la
ricostruzione post-pandemica, a cui è collegato il piano di attuazione italiano
(il
cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR): entrambi di tipo top-down, basati sul
debito e calati dall’alto in modo dirigistico-accentratore.
Nel sistema che si sta disegnando, la piccola e la
media impresa, che già hanno poca voce in capitolo adesso, rischiano di essere
ancora più marginalizzate.
6. Com’è noto, infatti, la prospettiva
di Davos è quella del “Great Reset” dei sistemi economici-sociali-politici
attuali per andare verso un “New Normal”, una sorta di governance mondiale,
dove delle “cabine di regia” sempre più alte, composte da organismi
sovranazionali, Stati, Banche centrali, grandi gruppi finanziari ed economici,
media globali, think tank come Davos, assumeranno il ruolo di direttori
d’orchestra per decidere dove andare, con quali mezzi e in che modo, per
“ricostruire il mondo in modo migliore”, secondo lo slogan “B3W-Build Back a
Better World” del Presidente statunitense Joe Biden, condiviso dai Paesi del
G7.
Ma
come imporre tali cambiamenti?
In un suo libro precedente, molto conosciuto, “COVID-19: The Great Reset”, il prof. Schwab scriveva che l’epidemia CoVid-19 costituisce una
“grande opportunità” per “ripensare, re immaginare e resettare il nostro mondo”.
Il leader del WEF sottolinea che al di là dei
dati di fatto, della “realtà”, «”le nostre azioni e reazioni umane […] sono
determinate dalle emozioni e dai sentimenti: le narrazioni guidano il nostro
comportamento”, lasciando
cioè intendere che, con uno story-telling adeguato, sarà possibile indurre un
po’ per volta il cambiamento dall’alto, creando il consenso con un mix di
bastone e di carota.
L’importanza
della “narrazione” per guidare il cambiamento era già stata indicata da Schwab
come una priorità in un altro suo testo del 2016 dedicato alla Quarta Rivoluzione Industriale, “The
Fourth Industrial Revolution”:
il
passaggio dalla narrazione alla propaganda rischia di essere molto veloce, e
particolarmente pericoloso se si aggiunge al controllo dei flussi finanziari, a
regolamentazioni sempre più rigide, fino alla stessa limitazione della libertà
di movimento personale.
L’attuazione
della “iniziativa
del Grande Reset” verso il Brave New World post-pandemico” sembra procedere, in questi mesi, con
quella «fretta» raccomandata da Schwab come condizione di efficacia.
Schwab non ne parla ma è una strategia che
ricorda molto quella della “Fabian Society”, il più antico think tank politico
britannico, fondata a Londra nel 1884 e da allora punto di riferimento della
sinistra mondiale:
“For the right moment you must wait […] but when the
time comes you must strike hard”, cioè “devi attendere il momento giusto […] ma
quando arriva devi colpire duramente”.
L’immagine scelta dai fabiani, un lupo travestito da
agnello, completa il quadro.
7. In conclusione, lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del prof. Schwab sembra delineare
una sorta di “socialismo benevolo”, un’evoluzione su scala planetaria di quel mito evergreen che
è lo Stato-assistenziale dei Paesi dell’Europa settentrionale.
La collaborazione stretta tra grande finanza,
big-tech, media e capitalismo clientelare è, ovviamente, necessaria alla realizzazione del
progetto: promesse di “salute” e “sicurezza”, garantite dall’alto (nella forma di maggiori sussidi pubblici
e di “reddito universale di cittadinanza”); più tasse, meno libertà (e meno
responsabilità), meno privacy e meno scelta individuale.
Un
“socialismo liberale”, insomma, un po’ gnostico e un po’ fabiano, che intende
mantenere la
sovrastruttura liberal-democratica, ridotta però a un guscio vuoto, mentre le risorse e le decisioni
importanti sono destinate ad essere sempre più accentrate presso “tecnici” e
“competenti”, presso “cabine di regia” sempre più lontane.
Una
prospettiva distopica che ricorda più quella evocata nel “Nuovo Mondo” di
Aldous Huxley (1894-1963) che non quella paventata in “1984” di George Orwell
(1903-1950).
“Quos
Deus perdere vult, dementat prius”:
qualsiasi
progetto contrario alla natura dell’uomo e all’ordine delle cose è destinato
inevitabilmente al fallimento finale, ma può tuttavia arrecare dei seri danni,
per molti anni a venire.
Quando
torneremo, dunque, alla normalità? “Quando? Mai”, scrive Schwab.
Ė scritto nero su bianco, basta prendersi la
briga di andare a leggere e studiare quello che scrive.
Ciò non è rassicurante: occorre approfondire queste
tematiche con un serio studio in ordine alla realtà delle cose e ai costi
sociali, insostenibili per gli uomini concreti, che sono esigiti per la
costruzione del “mondo migliore” immaginato da Schwab.
(Maurizio
Milano)
ECOLOGIA
AMBIENTALE ED ECOLOGIA
UMANA,
UN ORDINE IN PERICOLO.
Centrostudilivantino.it
– Redazione – (DIC 24, 2020) – ci dice:
Pubblichiamo
l’Introduzione di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi al XII Rapporto sulla Dottrina
sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân
(Cantagalli, Siena 2020, pp. 256, euro 16) dal titolo Ambientalismo e globalismo: nuove
ideologie politiche, con saggi di Airoma, Casciano (entrambi del Centro studi
Rosario Livatino), Battisti, Cascioli, Gagliardi, Giaccio, Molion,
Quagliariello.
Solo
se la natura non è intesa naturalisticamente si può comprendere come oggi
l’ambiente rappresenti una questione sociale.
Ogni
forma di naturalismo, invece, lo degrada a utopia o a ideologia.
Cogliere
l’ambiente come questione sociale significa assumerlo come avente una relazione
intrinseca con l’uomo, come «problema morale».
Di più: significa anche intenderlo come un ordine
finalistico che l’uomo può disordinare.
Ma
riconoscere questo implica di riconoscere che l’uomo aveva ed ha un dovere di
ordinare, rispettando e sviluppando un ordine affidatogli, il che è un dovere
morale.
Possiamo
essere aiutati a cogliere pienamente l’ambiente come questione sociale
utilizzando il concetto di “ecologia umana”, proprio sia delle scienze sociali sia del magistero
sociale della Chiesa.
Per le
scienze sociali, l’ecologia umana è la considerazione dell’ambiente non solo in
termini ambientali o tecnici, ma anche in termini umani e sociali, sicché il
degrado della natura è conseguenza ed insieme causa di disagio sociale e il
disagio sociale è conseguenza e causa nello stesso tempo del degrado della
natura.
Anche
il magistero della Chiesa adopera il concetto di “ecologia umana”, ma in un senso diverso.
Il paragrafo 38 dell’enciclica Centesimus
annus di Giovanni Paolo II sottolinea come spesso – anche se mai a sufficienza
– ci
interessiamo dell’ambiente naturale, compreso l’impegno di molte associazioni
per la salvaguardia di alcune specie animali ritenute necessarie all’equilibrio
dell’ecosistema, mentre non ci impegniamo nella stessa maniera per
salvaguardare l’ambiente umano:
«ci si
impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica
ecologia umana».
Se,
infatti, abbiamo un dovere di rispettare l’intenzione originaria di bene che
Dio creatore vi ha messo, abbiamo un dovere ancora maggiore di rispettare «la
struttura naturale morale dell’uomo» che pure «è stato donato a se stesso da
Dio».
La
natura non è solo l’ecosistema infra-umano.
Anche l’uomo ha una propria natura.
All’uomo
è data sia la natura fisica sia sé stesso come natura.
Ambedue contengono un mandato perché rappresentano un
disegno, ma di gran lunga superiore è il secondo a cui la stessa natura fisica
è finalizzata.
La
prima dimora di ognuno di noi, prima ancora dell’habitat fisico e sociale,
siamo noi stessi.
In questo modo la dimensione morale, umana e
quindi sociale, non è più solo una delle quattro variabili che interagiscono
nel sistema dell’ecologia naturale, come accadeva nel concetto di ecologia
umana delle scienze sociali, ma diventa la primaria e la più importante.
Nasce
così un’ottica completamente rinnovata circa il modo di guardare al problema
ecologico:
esso
non è più primariamente un problema ecostistemico, fisico, ingegneristico, non
è più il problema, per usare l’espressione della Sollicitudo rei socialis,
della «natura visibile»: è prima di tutto un problema umano.
Se
l’uomo rispetta la sua propria ecologia, ossia si costruisce da uomo e crea una
società in cui gli uomini possano respirare, ne conseguiranno anche una natura
più respirabile e un’acqua più pulita.
Oggi
gli elementi legati all’inquinamento umano, ossia al rispetto della natura
della persona, influiscono talmente su quelli strettamente naturali al punto
che qualcuno si chiede se si possa ancora parlare di natura.
La
possibilità di procreare al di fuori di un contesto naturale, di intervenire
sul Dna e quindi sulla natura di una persona, di riplasmare il proprio corpo
sembrano determinare il netto primato della cultura sulla natura.
È quindi evidente che se la cultura risponde
ad esigenze di ecologia umana, se cioè è rispettosa dell’intangibile dignità
della persona, ne deriverà anche un rispetto degli equilibri naturali stessi,
viceversa la manipolazione-distruzione della natura sarà sempre più massiccia.
Oggi
la bioingegneria è veramente il banco di prova dell’incontro possibile tra
ecologia umana ed ecologia ambientale.
Le moderne pandemie, sono solo secondariamente
dei fenomeni naturali. Spesso nascono dal non rispetto dell’ecologia umana.
Il
problema ambientale oggi viene concepito come il problema delle risorse non
riproducibili o come la salvaguardia degli equilibri climatici o come la
questione dell’energia.
Il che è vero.
Non
intendo minimizzare questi problemi, ma si sente anche la necessità di
recuperare a fondo l’aspetto dell’ecologia umana come origine dell’equilibrio
naturale o, se disattesa, come causa ultima del degrado.
Con
tutto ciò non ho ancora parlato del principale problema culturale che oggi
emerge dal rapporto tra l’umanità e la natura.
Mi
riferisco al problema della tecnica che, oggi, diversamente dal passato, emerge
con drammatica urgenza.
Oggi
la tecnica tenda a presentarsi ormai “allo stato puro”, come “nudità del puro
fare”.
L’appiattimento
dell’uomo sul puro fare, la tecnicizzazione del suo mondo, ci impaurisce perché
la vediamo accompagnata dall’indifferenza a quanto non sia tecnica.
Siamo preoccupati sì dalla tecnica, ma
soprattutto dal fatto che dietro ad essa non si intraveda nulla, o si intraveda
il nulla, ponendosi l’uomo solo domande circa il “come”.
Questo
intendo dire con l’espressione “nudità” della tecnica.
Oggi
la tecnica tende a giustificarsi come mera presenza e come pura possibilità di
fare.
Anche “Romano
Guardini” indicava questo volto livido della tecnica.
Nelle sue “Lettere dal Lago di Como” egli collegava il dominio della
tecnica con la pretesa di portare alla luce la radice stessa della vita, ciò
che in essa è più intimo: «si scoprono uno dopo l’altro nuovi rapporti; i fatti
diventano leggi; lo sguardo si spinge ad esplorare sempre più da vicino le sorgenti
primordiali della vita, le origini».
Questo
rendere presente, questo portare alla luce, questo disincantare, questo mettere
davanti ai nostri occhi, da un lato riduce lo spessore della realtà,
appiattendola a quanto è presente nella sua nudità, dall’altro riduce lo
spessore della coscienza umana che diventa, indifferentemente, un constatare
una mera – e vuota – possibilità.
Joseph
Ratzinger ha lucidamente messo a fuoco la dittatura della tecnica, che egli
chiama Positivismo, secondo la quale «ciò che si sa fare, si può anche fare».
Egli
aveva da tempo seguito lo sviluppo della tecnica e nell’opera Introduzione al
Cristianesimo ne aveva descritto la genealogia.
Secondo lui i passaggi sono stati tre:
Cartesio ha trasformato il sapere in calcolo, Vico ha individuato la verità nel
factum; Marx l’ha vista nel da farsi.
Questa adesione al “novum” inteso come “faciendum”
ha comportato di intendere l’alienazione come persistenza del passato
(tradizione) e del trascendente (metafisica).
La
dittatura della tecnica sta tutta nella sua nudità, ossia nel ritenere che
tutto sia visibile e che tutto sia fattibile.
Di più: nel pensare che l’essere delle cose
consista nella visibilità e nella fattibilità.
La
«dittatura del relativismo, denunciata più volte da Benedetto XVI, oggi prende
soprattutto le sembianze della nudità della tecnica.
La
nudità della tecnica comporta quindi che tutto sia visibile e tutto sia
fattibile.
Quanto al primo punto, Ratzinger notava che,
per la fede «l’elemento non suscettibile di essere visto, quello che non può
assolutamente entrare nel nostra raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è
anzi l’autentica realtà» .
Quanto
al secondo egli osservava che «La fede cristiana è un’opzione a favore di una realtà
in cui il ricevere precede il fare; senza che per questo il fare venga sminuito
di valore o addirittura dichiarato superfluo».
La
nudità della tecnica è assolutamente incompatibile con la fede cristiana e,
quindi, la fede cristiana è indispensabile per vincere la nudità della tecnica:
la
ricostituzione di un senso ricevuto e non prodotto non potrà che avvenire
attraverso un recupero del Logos, della ragione, ma oggi non può essere la
ragione da sola a compiere questo sforzo, deve essere la fede cattolica la
quale, facendolo, salva anche la ragione].
La
fede può vincere il nichilismo della tecnica solo intendendosi espressione
dell’Intelligenza del Principio, e quindi recuperando anche la ragione umana.
Una
delle principali vie culturali per superare il nichilismo della tecnica è di
rilanciare la dottrina cristiana della creazione come punto di partenza di una
cultura del ricevere prima che del fare.
La natura intesa come creazione, afferma Giovanni
Paolo II, è una «vocazione».
Da un
lato la natura è un “dono” e dall’altro è un “disegno” che è stato affidato
all’uomo perché collabori alla sua realizzazione.
La
natura, così intesa, è una “vocazione” per l’uomo: egli è chiamato a leggere
nella propria natura personale in rapporto alla natura degli esseri infra-umani
secondo il giusto ordine delle priorità, il disegno di Dio.
Questa chiamata in cui consiste la creazione,
secondo Guardini, ha l’effetto di produrre la consapevolezza reale del proprio
“io”:
«L’uomo
ha in assoluto la necessità di intendere se stesso come un io autonomo, solo
perché scaturisce dalla chiamata di Dio e persiste nella forza di tale chiamata».
Ricevendo
sé stesso come compito assieme all’intera natura fisica, l’uomo si costituisce
nella propria eminente identità.
«È nella risposta all’appello di Dio,
contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua
trascendente dignità.
Ogni
uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua
umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo.
La negazione di Dio priva la persona del suo
fondamento e, di conseguenza, induce a organizzare l’ordine sociale
prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona».
Il
nichilismo della tecnica propone all’uomo di essere costruttore di se stesso ma
in questo modo ne fa un “prodotto”.
Alla
coscienza propone di limitarsi a constatare le pure possibilità di fare che le
si presentano davanti in tutta la loro nudità.
All’io
impone di non tenere conto di un “sé” come proprio ambito di significato oggettivo.
Se l’uomo, così, ha solo diritti poco importa
se a soddisfarli sia un apparato politico burocratico centralizzato oppure un mercato che
soddisfa le voglie e trasforma i desideri in diritti.
Ambedue
sono espressioni della tecnicizzazione.
Grande
Tempesta Solare, Grande 14
volte
la Terra, fa sentire i suoi Effetti.
Conoscenzealconfine.it
– (26 Marzo 2023) - Guido da Landriano – ci dice:
Recentemente,
il” Solar
Dynamics Observatory (SDO) della NASA” ha osservato un tornado vorticoso vicino al
Polo Nord del Sole.
Secondo
quanto riferito, l’altezza del plasma in ebollizione è cresciuta fino a
raggiungere quasi l’equivalente di 14 Terre messe insieme, il che implica che
potrebbe essere il più grande fenomeno del genere dell’intero sistema solare.
Il
Sole è una palla infuocata e massiccia di gas bollente e plasma composto da
particelle calde e cariche.
Quando
queste si muovono intorno al Sole, generano campi magnetici che si
attorcigliano e formano una spirale, eruttando infine vaste nubi di plasma
nello spazio circostante.
Questo
fenomeno simile a un tornado è durato tre settimane prima di collassare
definitivamente.
Secondo”
Space Weather”, il filamento rotante ha iniziato a espandersi il 14 marzo ed è
esploso il 18 marzo in una “nube di gas magnetizzato”.
Questo flusso ha raggiunto l’altezza di 120 mila km.
Tutta
questa attività solare, che non si è esaurita, ma è poi sfociata in una serie
di tempeste, ha avuto i suoi effetti, un po’ inaspettati e spettacolari, anche
sulla Terra.
Il
23-24 marzo, le aurore boreali si sono diffuse negli Stati Uniti fino al New
Mexico (+32,8N) dopo questa forte tempesta elettromagnetica che è stata classificata come una
delle più forti, categoria G4, cioè la più intensa degli ultimi 6 anni.
“Per
circa 30 minuti abbiamo assistito alle aurore che danzavano e sobbollivano nel
cielo sopra il Parco Nazionale di Yellowstone”, racconta” Michael Underwood”,
che ha fotografato lo spettacolo luminoso dalle “Mammoth Hot Springs”, alla
latitudine di +45 gradi: “
È
stata la prima volta che ho visto l’aurora e spero che non sia l’ultima”, dice.
“È stato uno spettacolo davvero incredibile”.
Altri
avvistamenti degni di nota alle medie e basse latitudini sono stati effettuati
in Virginia (+38,7N), Colorado (+40,4N), Missouri (+40,2N), di nuovo Colorado
(+40,6N), Nebraska (+42,4N), di nuovo Nebraska (+41N) e North Carolina
(+36,2N). Più della metà degli Stati Uniti si trovava nel raggio d’azione del
fenomeno.
Non
tutte le luci del cielo erano aurore boreali.
C’era
anche uno “STEVE”:
STEVE
(Strong
Thermal Emission Velocity Enhancement) sembra un’aurora, ma non è così.
Il
fenomeno è causato da nastri di gas caldi (3000°C) che attraversano la
magnetosfera terrestre a velocità superiori a 6 km/s (13.000 mph). Questi
nastri appaiono durante le forti tempeste geomagnetiche, rivelandosi con un
tenue bagliore viola.
Questa
tempesta straordinaria e sorprendente è iniziata il 23 marzo, quando i campi
magnetici nello spazio intorno alla Terra si sono improvvisamente spostati.
Nel gergo delle previsioni meteorologiche
spaziali, “BsubZ ha virato verso sud”.
I
campi magnetici che puntano verso sud possono aprire una crepa nella
magnetosfera terrestre e, in effetti, questo è ciò che è accaduto.
Gli
“scudi della Terra sono rimasti abbassati” per quasi 24 ore, permettendo al
vento solare di penetrare e alla tempesta di raggiungere la categoria G4.
Questi
sviluppi potrebbero essere stati causati dal passaggio ravvicinato di una CME
inaspettata.
La
nube temporalesca potrebbe aver lasciato il Sole il 20-21 marzo, quando i dati
del coronografo SOHO erano insolitamente scarsi.
Non sapevamo che sarebbe arrivata.
Per
gli osservatori dell’aurora è stata una gradita sorpresa, ma ricordiamo che
forti tempeste solari possono disturbare e interrompere le comunicazioni e
perfino disturbare le linee elettriche. In una società fortemente dipendente
dalle telecomunicazioni i possibili danni possono essere quindi enormi.
(Guido
da Landriano)
(scenarieconomici.it/grande-tempesta-solare-grande-14-volte-la-terra-fa-sentire-i-suoi-effetti/)
La
guerra invisibile dei
potenti
contro i sudditi.
di
Vittorio Stano.
Sinistrainrete.info
– Vittorio Stano – (23-3-2023 )- ci dice:
“Riassumiamo in quattro parole il patto
sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi
siete poveri; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi
abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta
per la pena che io mi prenderò di comandarvi.”
Jean
Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755).
Negli
ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i
poveri, dei governanti contro i governati.
Dai
birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai
premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo con il suo libro “Dominio” ci guida nei
luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.
Di una
vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi
ce ne accorgessimo.
La rivolta dall’alto contro il basso ha investito
tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia,
l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della
famiglia, di noi stessi.
Ha
sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque
arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito.
Insorgere
contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non
impariamo da chi continua a sconfiggerci.
Il
lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento.
Ma
ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in
clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.
Questa
guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero
della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi.
Uno
degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci
ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di
potere:
meno
male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la
crudezza in ogni dominio imperiale.
Ma
nemmeno l’impressionante rozzezza di questo presidente è riuscita a svegliarci
dalla sonnolenza intellettuale in cui ci culliamo. Per rendercene conto basta osservare
la sinistra occidentale:
quel
che ne resta è ormai totalmente thatcheriano,
nel senso che ha fatto suo il famoso slogan
“TINA” (There Is No Alternative) della Lady di Ferro, visto che ha
interiorizzato il capitalismo finanziario globale come unico futuro possibile per il
pianeta.
È più
facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo!
Un
baratro ci separa dagli anni ’60 quando quasi tutti si definivano “liberal”.
Oggi,
60anni dopo la parola “liberal” è diventata un’ingiuria.
Una
guerra è stata combattuta.
Se non
ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione progressista prevale la tendenza
a sottostimare gli avversari non accorgendosi così delle tendenze di lungo
periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci
nascondono la foresta.
La sinistra occidentale si straccia le vesti
accusando il proprio retaggio culturale e politico di ideologismo.
La destra invece ha mantenuto il proprio
retaggio culturale, politico e ideologico. Anzi ha preso dalla sinistra quello
che le serviva per iniziare la sua contro narrazione.
Per
capire meglio il versante ideologico dello scontro bisogna concentrarsi su
tutto ciò che è successo negli Stati Uniti, avendo questo una valenza
planetaria.
La prima avvisaglia dello scontro la dette il
signor” John Merril OLIN” (1892-1982) proprietario della omonima corporation
specializzata in industrie chimiche e belliche, fondata in Illinois e infine
atterrata in Missouri.
Creata nel 1953 la fondazione Olin rimase praticamente
inattiva fino al 1969, anno in cui il magnate fu sdegnato dalla foto di
militanti neri che facevano irruzione – fucili in mano e cartucce a bandoliera
– nel rettorato dell’ateneo in cui lui aveva studiato da ragazzo, la Cornell
University, nel nord dello Stato di New York.
Ricordiamoci
di come doveva apparire l’America a un capitalista in quegli anni: università
in subbuglio, ghetti neri in rivolta, la guerra in Vietnam indirizzata verso
una disonorevole sconfitta, Bob Kennedy e Martin Luther King uccisi l’anno
prima.
È comprensibile che la foto della Cornell
sconvolgesse John Olin e lo inducesse a dotare la fondazione di nuovi e ingenti
mezzi e di consacrarla a un unico obiettivo:
riportare le università all’ordine.
Quel fatale memorandum del 1971.
L’azione
della Olin Foundation rimase isolata fino al 23.8.1971 data in cui la
storiografia ufficiale situa l’inizio della “grande offensiva conservatrice”.
Quel
giorno Lewis F. Powell Jr. scrisse un memorandum alla Camera di Commercio degli
USA intitolato:
“Attacco al sistema americano di libera
impresa”.
Il
Memorandum non se la prendeva tanto con gli estremisti, quanto con i moderati.
Le voci più inquietanti che si uniscono al
coro delle critiche vengono da elementi rispettabili della società: dai campus,
dai college, dai pulpiti, i media, le riviste intellettuali e letterarie, le
arti, le scienze, i politici.
Come
accade a tutti coloro che prevaricano, ai leghisti italiani che si sentono
vittime degli immigrati, agli israeliani che si sentono vittime dei
palestinesi, anche Powell sente che gli imprenditori americani sono vittime,
sono accerchiati e in pericolo d’estinzione .
Gli
imprenditori devono quindi attrezzarsi a condurre una guerra di guerriglia
contro chi fa propaganda prendendo di mira il sistema, cercando insidiosamente
e costantemente di sabotarlo.
Perciò è essenziale che i portavoce del
sistema siano molto più aggressivi che nel passato.
E il
terreno principale dello scontro sono le università e le idee che esse
producono perché è il campus la singola fonte più dinamica dell’attacco al
sistema dell’impresa.
E
perché le idee apprese all’università da questi giovani brillanti saranno poi
messe in pratica per cambiare il sistema di cui è stato insegnato loro a
diffidare, cercando lavoro nei centri del vero potere e influenza del paese:
1) nei nuovi media, specie la TV;
2) nel
governo, come membri del personale o come consulenti a vari livelli;
3)
nella politica elettorale;
4)
come insegnanti e scrittori;
5) nelle facoltà a vari livelli d’istruzione.
E in
molti casi questi intellettuali finiscono in agenzie di controllo o in
dipartimenti statali che esercitano una grande autorità sul sistema delle
imprese in cui non credono.
Le
idee sono armi.
Le
idee sono armi, le sole armi con cui altre idee possono essere combattute.
Per
combattere questa guerra di guerriglia, diceva Powell, il padronato deve
imparare la lezione appresa tanto tempo fa dal movimento operaio.
Questa
lezione è che il potere politico è necessario; che tale potere deve essere
coltivato assiduamente e che, quando necessario, deve essere usato anche
aggressivamente e con determinazione, senza imbarazzo e reticenza.
Una volta stabilito che la forza sta
nell’organizzazione, in un’accorta pianificazione e messa in atto a lungo
termine nella coerenza dell’azione per un numero indefinito di anni, nella
scala del finanziamento disponibile, Powell passa ad articolare l’obiettivo su
come riequilibrare le facoltà:
attraverso
il finanziamento di corsi, di dipartimenti, cattedre, libri di testo, saggi e
riviste, e poi si allarga il raggio all’istruzione secondaria, ai media, alla
TV, alla pubblicità e alla politica, al rendere a tutti i livelli più
amichevole la giustizia verso gli imprenditori.
L’appello
di Powell fu ascoltato, non proprio nella forma che lui avrebbe voluto: una
sorta di partito leninista del padronato.
Fu ascoltato da un pugno di miliardari dell’America
profonda.
Le
tappe della riconquista.
La
strategia che fondazioni come Olin, Bradley, Mellon Scaife, Richardson e Koch
adottarono dopo il Memorandum di Powell fu esplicitata nel 1976 dall’allora
25enne Richard Fink :
…”una concisa direttiva per determinare
come l’investimento nella struttura della produzione delle idee può fruttare
maggiore progresso economico e sociale quando la struttura è ben sviluppata e
ben integrata”.
Fink
considerava le idee come prodotti di un investimento per una merce da imporre
sul mercato: prima da produrre e poi da vendere.
Ma
come facevano le fondazioni a scegliere a chi dare i soldi quando università,
think tanks e gruppi di cittadini competono nel presentarsi come i migliori
richiedenti in cui investire risorse?
Le
università affermano di essere la reale fonte del cambiamento.
Generano
le grandi idee e forniscono l’impalcatura concettuale per la trasformazione
sociale […]
I “think tanks” ritengono di essere i più degni di
sostegno perché lavorano su problemi del mondo reale, non su temi astratti […] I movimenti di base affermano di meritare appoggio
perché sono i più efficaci nel realizzare gli obiettivi.
Loro combattono in trincea, e qui è dove la
guerra è vinta o persa.
La prima fase è l’investimento nella produzione di
input fondamentali che chiamiamo “materie prime”.
La
fase intermedia converte queste materie prime in prodotti a maggiore valore
aggiunto se venduti ai consumatori.
L’ultima fase consiste nella confezione,
trasformazione e distribuzione del prodotto delle fasi precedenti per
consumatori finali.
Applicato
alla produzione e vendita di idee, questo modello si traduce in una prima fase
che investe in “materie prime intellettuali”, cioè esplora e produce concetti
astratti e teorie che, nell’arena pubblica, vengono ancora principalmente dalla
ricerca condotta dagli studi nelle università.
Queste
teorie però sono incomprensibili al pubblico e –seconda fase- per essere
efficaci devono essere trasformate in una forma più pratica e maneggevole.
Questo è il compito dei think tanks.
Senza queste organizzazioni la teoria e il
pensiero astratto avrebbero meno valore e meno impatto sulla nostra società.
Ma
mentre i think tanks eccellono nello sviluppare nuove politiche e
nell’articolare i loro benefici, sono meno capaci di produrre cambiamento.
Movimenti
di base sono necessari nell’ultimo stadio per prendere le idee dei think tanks
e tradurli in proposte che i cittadini possono capire e su cui possono agire.
…”Realizzare
un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e
orizzontalmente che deve andare dalla produzione di idee allo sviluppo di una
politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione
politica” (Charles Koch).
Pensatoi
d'assalto.
Uno
dei più autorevoli think tank conservatori è la Heritage Foundation.
Aprì i
battenti nel 1973 da un finanziamento di Joe Coors.
Arrivarono
in seguito molte donazioni da parte di diversi magnati, finché all’inizio degli
anni ’80 tra i finanziatori di Heritage figuravano le divisioni corazzate del
capitalismo USA: Amoco, Amway, Boeing, Chase Manhattan Bank, Chevron, Down
Chemical, Exxon, General Motor, Mesa Petroleum, Mobil Oil, Pfizer, Philip
Morris, Procter & Gamble, RJ Reynolds, Union Carbide Union Pacific, etc…. È impressionante la somiglianza tra
il modo in cui i think tanks conservatori hanno teleguidato Trump e il modo in
cui telecomandarono Reagan.
Il
3.7.2020 la Fondazione Heritage nel suo sito web si poteva leggere:
<<… La nazione è sotto attacco. Cosa fare per
fermare il programma socialista della sinistra?>> Il giorno dopo Trump
affermava: … “il paese è sotto assedio da parte del fascismo di sinistra”.
Il”
think tank è un’entità peculiare il cui uso estensivo risale al dopoguerra.
Nel
2019 vengono enumerati 8249 think tanks nel mondo, il 52% si trova in Europa
(2219) e Nord America.
Dei 2058 think tanks nordamericani, il 91% è
statunitense.
Louis Althusser, intellettuale francese, negli
anni ’80 riteneva il think tank un “apparato ideologico di tipo nuovo”, che si situava a monte degli apparati
ideologici tradizionali (scuola, chiesa, indottrinamento militare) o anche più
recenti (mass media, soprattutto radio, TV e oggi social network).
I think tanks esistevano già nel 1916 ma la novità
oggi è la loro non dissimulata faziosità, il loro prendere apertamente partito
e perorare le cause più estreme, in uno scontro frontale con il precedente
fariseismo bipartisan di facciata.
Questi
nuovi think tanks da combattimento hanno un ruolo di primo piano nel fornire un
arsenale intellettuale alla rivoluzione restauratrice.
I più
noti think tanks d’assalto sono: il Manhattan Institute for Policy Research (MI), il
Cato Institute, la Hoover Institution e l’American Enterprise Institute (Aei).
Il
Manhattan Institute fu diretto anche da William Casey che ha diretto la CIA dal
1981 al 1987.
Tra i
finanziatori compaiono oltre ai soliti miliardari conservatori noti, la
fondazione di Bill & Melinda Gates.
Le loro mani sono rintracciabili in tutte le
campagne ideologiche della destra degli ultimi 40anni.
Ciò
che chiedono, e ottengono, dai politici è la libertà da tutti i vincoli di
legge, da tutti i regolamenti, compresi quelli che stabiliscono un salario minimo,
limitano gli straordinari, vietano il lavoro minorile, ostacolano i monopoli,
combattono l’inquinamento, delimitano lo sfruttamento delle risorse, tutti
“lacciuoli” contro cui questi istituti si battono.
Hanno
fatto propria l’utopia di “Stato minimo” propugnata in quegli anni da R.
Nozik e la sua concezione estrema dei
diritti individuali (…per Nozik “un sistema libero dovrebbe permettere agli individui di
vendersi in schiavitù”).
Inoltre
fanno campagna contro il welfare state, contro il servizio sanitario, per limitare al massimo il
ruolo dello Stato e cioè per ridurre il più possibile le tasse (…per Nozik le
tasse sul lavoro non sono altro che “lavoro forzato”), per privatizzare la
Social Security, la rete elettrica federale, l’intero apparato scolastico, le
poste, la NASA.
Sono
anche contro l’interventismo USA in politica estera e pretendono sussidi alle
grandi corporation finanziati dai contribuenti.
Negli
ultimi 20anni è diventato più difficile seguire traccia del denaro che porta
dalle famiglie miliardarie ai think tanks, ma transitano attraverso enti
intermedi, a statuto simile a quello delle fondazioni per quanto riguarda il
regime fiscale, ma che hanno il vantaggio di garantire l’anonimato dei
contribuenti.
Anche
i contributi alle campagne elettorali sono diventati irrintracciabili dopo la
sentenza della Corte Suprema del 2010 che rese lecite illimitate donazioni
anonime.
La
partita è truccata, però…
Una
controffensiva efficace contro la rivoluzione conservatrice non può essere
finanziata e alimentata da fondazioni “liberal”, da una ipotetica ala sinistra
del capitale.
Come
se per il capitale ci fossero due squadre in campo e una, quella ultraconservatrice,
avesse trovato l’infallibile tattica per vincere.
Le
fondazioni dell’ultradestra hanno stracciato quelle “liberal Dem Usa” non
perché disponessero di più soldi, né perché attingessero a un serbatoio di
menti più intelligenti, ma per la fondamentale asimmetria che in regime
capitalistico sbilancia destra e sinistra verso un ipotetico centro.
L’asimmetria
sta nel fatto che la destra non mette in discussione (né in pericolo) l’ordine
capitalistico, il capitalismo come sistema, mentre la sinistra anche non
estrema lo mette in discussione (ragion per cui, se messo alle strette, il capitale preferisce sempre la
soluzione fascista a quella socialista: non per chissà quale malignità, ma
per semplice volontà di sopravvivenza).
Questo fa sì che ci possano essere fondazioni
capitalistiche di estrema destra ma non di estrema sinistra.
La
partita è truccata.
Le fondazioni di estrema destra pesano di più
perché veicolano, con determinazione quasi feroce, un messaggio estremo,
utopico di capitalismo radicale, duro, puro, mentre le fondazioni di sinistra,
liberal o progressiste, veicolano per forza di cose un messaggio moderato che
già di per sé propone un compromesso tra capitale e lavoro.
Anche
se la partita è truccata bisogna giocarla, altrimenti i padroni della terra
vincono mano dopo mano senza che ce ne accorgiamo, come è avvenuto fino a ora.
…
Non
basta un futuro da incubo, e persino la distruzione del futuro stesso, che i “neoliberal Dem Usa” stanno
plasmando non solo per noi bipedi umani, bensì per tutti i viventi di questo
pianeta.
Non
c’è ragione di escludere che credenze irrazionali come quelle per cui i mercati
sono arabe fenici che nascono, si autoregolano e si rigenerano da sole, e per cui la convivenza umana è
fondata sulla concorrenza (cioè che lo stare insieme è basato sul farsi la guerra!),
non possano durare parecchi secoli o millenni, se coloro che le subiscono
permettono senza reagire che queste stramberie dispongano delle loro vite.
Già il
famoso “Memorandum di Powell” esortava esplicitamente a imparare le lezioni del
movimento operaio e in pratica proponeva di costituire un “PARTITO LENINISTA
del PADRONATO”.
E ricordare quel Michael Joyce che diresse la
fondazione Olin, secondo Forbes, s’ispirava a GRAMSCI quello dei “Quaderni del
carcere”.
E
tutti i” think tanks” della destra conservatrice (ora liberal Dem Usa) che hanno plagiato i
concetti di egemonia, ideologia, hanno usato a proprio vantaggio la nozione di
lotta di classe.
A
proposito di lotta di classe il miliardario Warren Buffet rispose candidamente a un giornalista
del New York Times il 26.11.2006 che gli chiedeva se esistesse ancora la lotta
di classe:
<<Certo
che c’è la guerra di classe ma è la mia classe, la classe ricca, che la sta
conducendo, e noi stiamo vincendo>>.
Cinque anni dopo Buffet ribadiva il concetto e
affermava che i ricchi questa guerra di classe l’avevano già vinta!
E
l’opinionista del Washington Post commentava: “se una guerra di classe c’è stata in
questo paese, è stata ingaggiata “from the top down” (dall’alto contro il
basso), per decenni. E i ricchi hanno vinto.
Non è
un esaltato a parlare di guerra di classe dall’alto contro il basso, è uno dei
protagonisti di questa guerra: la loro vittoria è tale per cui loro di questa
guerra possono parlare senza ritrosia, MENTRE NOI SOLO A NOMINARLA CI
VERGOGNIAMO E SIAMO SUBITO SOSPETTATI DI ESTREMISMO.
È stata una guerra ideologica totale.
Ha avuto la sua pianificazione, le strategie,
la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi.
Insomma la counter-intellighentsia dei
miliardari ha imparato un sacco dai suoi avversari.
Basti
pensare che lo storico David Koch aveva commissionato una storia confidenziale
delle attività politiche di suo fratello, scrisse di Charles Koch:
“Non
gli bastava essere l’Engels o persino il Marx della rivoluzione libertaria (Dem
Usa). Voleva essere il Lenin”.
Fanno impressione tutti questi capitalisti o cantori
del capitalismo che sognano di essere gli Engels, i Marx, i Gramsci, i Lenin
del capitale.
Non è solo una vaga ispirazione, o non solo
modelli da imitare.
Sono
proprio tattiche da imparare, strategie da riprendere, scelta degli obiettivi
da assimilare.
Cominciamo
dalla controrivoluzione ideologica di maggior successo foraggiata dalle
fondazioni,” Law and Economics”.
C’è
una precisa ragione storica per cui i miliardari ultraconservatori decisero di
finanziare così massicciamente questa disciplina giuridica.
E la
ragione è che la sinistra, i progressisti, i liberal dem Usa, avevano insegnato
alla destra quanto decisiva potesse essere la magistratura nello scontro
politico.
Gli eventi sono ormai troppo lontani (tra 72 e
45 anni fa) e non li ricordiamo più o non ce ne rendiamo più conto, ma quasi
tutte le vittorie conseguite nelle lotte per i diritti civili negli anni ’60
furono certo dovute alla pressione dei movimenti, all’eroismo e allo spirito di
sacrificio dei militanti, ma furono sancite, consolidate e rese durature non da
atti legislativi del congresso, bensì da sentenze della Corte Suprema, cioè da atti
giudiziari.
La
cruciale importanza dell'ideologia.
I
neoliberali (DEM USA) hanno appreso dai loro avversari la cruciale importanza
dell’ideologia.
Hanno
imparato moltissimo su questo terreno, mentre è diventata una parolaccia per i
benpensanti, per i progressisti da quartieri bene.
Persino
Fogel, lo storico che aveva rivalutato l’economia schiavista, parlando
dell’immagine dei neri che avevano gli abolizionisti razzisti, si stupiva di
questa eccezionale dimostrazione del “potere dell’ideologia di cancellare
la realtà”.
Viene
inventata la nozione di “imprenditore ideologico” per poter incorporare l’ideologia all’”universo neo liberal
Dem Usa”,
per poter appropriarsene, e usarla.
Quello
che i “neo liberal Dem Usa” hanno imparato, assimilato e infine praticato, è
l’idea che la società sia governata da un perpetuo scontro di classe, da una
guerra tra dominati e dominanti.
Così
negli ultimi 50anni, nel momento in cui i dominanti formalizzavano e
scatenavano lo scontro di classe contro i dominati, uno degli strumenti di
questa lotta consisteva nel convincere i sudditi CHE NON CI FOSSE NESSUNO
SCONTRO, che le classi fossero una balzana invenzione di qualche esagitato e
che, se fossero esistite un tempo, ormai si erano estinte, spazzate via dalla
storia, e che tutto quel che sussisteva fosse una MITICA, ONNICOMPRENSIVA,
VAGA, FLUTTUANTE “CLASSE MEDIA” e tutt’al più una sottoclasse di poveri
immeritevoli.
Così
mentre loro organizzavano la “guerra delle idee”, i loro avversari si crogiolavano
(… e ci crogioliamo ancora) nella beata illusione di una società senza classi,
senza conflitti d’interessi, obnubilati dall’immagine del sistema-paese,
dell’impresa-Italia, di una concordanza d’ interessi, di un “remare tutti nella
stessa direzione”, mentre i vincitori della guerra delle idee accumulavano e
accumulano ricchezze e poteri inauditi.
La
società sta diventando sempre più diseguale, tanto che 10 persone al mondo
possiedono un patrimonio superiore a quello di metà del genere umano.
La
crescita delle disuguaglianze è diventata una litania totalmente disconnessa
dal problema del DOMINIO.
È
anche chic citare i libri di Thomas Piketty sul tema.
Ma
tutto lascia il tempo che trova.
SIAMO DISEGUALI, e allora?
Il
momento di imparare dagli avversari “Dem Usa progressisti” come lo sono in
Italia” i governanti del partito democratico (sic) italiano”!
Visto
che i dominanti hanno tanto imparato dai dominati, è forse giunto il momento
che noi dominati impariamo da loro.
Per
come hanno condotto la loro vittoriosa controrivoluzione, ci hanno mostrato con
chiarezza i terreni dello scontro, che abbiamo via via incontrato:
l’ideologia,
il fisco, la giustizia, l’istruzione, il debito.
Marines
e miliardari del Midwest ci hanno fatto capire il ruolo decisivo
dell’ideologia, ci hanno insegnato che il primo obiettivo è restituire allo
scontro ideologico la dignità, la centralità che i dominati sembrano aver perso
come senso comune perché “le idee sono armi” – le sole armi con cui altre
possono essere combattute.
Nell’era in cui i partiti di sinistra erano egemoni,
avevano agito con successo come se capissero il ruolo degli intellettuali.
Sia
per disegno, sia perché costretti o guidati dalle circostanze, hanno sempre
diretto i loro sforzi ad acquisire l’appoggio di questa élite.
Per
intellettuali F. von Hayek intende i “rivenditori di seconda mano delle
idee”, un
gruppo che non consiste solo di giornalisti, insegnanti, sacerdoti,
conferenzieri, pubblicisti, commentatori radio (Hayek, 1949), narratori,
disegnatori di cartoni animati, e artisti e tutti coloro che padroneggiavano la
tecnica di trasmettere le idee.
Ma
oggi si verifica un paradosso inverso a quello rilevato da Hayek che i
portavoce delle “masse” conquistassero l’egemonia tirando dalla loro parte le
élites.
Quando
Hayek scriveva la sinistra era elettoralmente sovra rappresentata tra gli
strati a infimo reddito, a capitale quasi nullo e a bassissima istruzione.
In
70anni la sua base elettorale è progressivamente cambiata finché oggi la
sinistra è sovra rappresentata tra gli strati ad alta istruzione e reddito
medio-alto e sottorappresentata tra i ceti a reddito esiguo e scarsa istruzione.
Per dirla con Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Sinistra
bramina contro destra mercante) oggi la sinistra rappresenta i “bramini”, mentre la destra(
insieme ai Dem Italiani) rappresenterebbe i mercanti.
Il
risultato collaterale di questa evoluzione è che la parte della popolazione a
scarso reddito e a bassa istruzione, cioè la plebe, non viene più rappresentata
da alcuna forza politica della destra o della sinistra tradizionali.
In Italia gli intellettuali del PD sono
ritenuti più importanti dei mercanti.
Mentre
gli intellettuali della sinistra subiscono una fascinazione irresistibile dal
denaro dei mercanti.
La faccenda è confusa dal fatto che gli
intellettuali di oggi, tutti sostanzialmente conservatori e conformisti al
neoliberismo (dem Usa), si sentono di sinistra, proprio come effetto della controrivoluzione ideologica
neoliberale di Davos che, cancellando le categorie di “lavoro” e di “sfruttamento”,
ha fatto sparire le linee del conflitto;
ci ha
immersi tutti in una sorta di marmellata sociale.
Forse
dipende anche dal fatto che la sconfitta ideologica è così enorme che la stessa
parola “sinistra” non si sa più cosa significhi.
Per me
stare a sinistra vuol dire sempre e soltanto stare dalla parte dei dominati
contro i dominanti, dalla parte dei lavoratori contro i capitalisti.
Il
ruolo dell’ideologia, spiegava il generale Petraeus è fondamentale nel
ricostruire la distinzione del chi sta con chi.
Nel
farci prendere coscienza che non stiamo tutti dalla stessa parte.
Che
non siamo tutti capitalisti del nostro capitale umano, ma che alcuni sono
nostri avversari e noi siamo avversari di altri.
E
questo ce lo hanno insegnato negli ultimi 50anni proprio loro con il loro
linguaggio bellico.
Il
primo passo per rilegittimare i conflitti, le “insurrezioni” (“tumulti” li
chiamava Machiavelli) è la lotta contro l’eufemismo.
L’eufemismo
non è solo ipocrisia. È tecnologia di potere, tecnica di comando.
Uno splendido esempio è la parola RIFORMA.
Un
tempo riforma era tutto ciò che migliorava lo stato delle persone.
Oggi riforma è una minaccia che si pronuncia e si
annuncia al popolo.
Il
volgo appena sente di riforma delle pensioni, capisce che da vecchio rimarrà in
mutande;
riforma del welfare significa (per gli uomini di Davos)
abolizione progressiva delle protezioni sociali;
riforma della sanità significa (per i vari
Gates) che moriremo senza essere curati. Allo stesso modo in Occidente
“pluralista” è una società in cui tutti hanno le stesse opinioni, dove cioè si
deve:
accettare
il dogma del libero mercato frequentato dagli uomini di Davos; non avere
pensieri o intenzioni che non siano moderati;
essere
filoamericani in modo incondizionato e denunciare le benché minime tracce di
antiamericanismo.
Infatti
il capolavoro di eufemismo si manifesta nell’esercizio dell’impero da parte
degli Stati Uniti: anzi eufemismo è la forma di impero democratico che hanno
imposto al mondo.
Il
capitale umano.
Nel
neoliberismo il concetto chiave è la concorrenza.
Insita nella concorrenza vi è non
l’eguaglianza ma la diseguaglianza, poiché nella concorrenza – nella
competizione – c’è un vincitore e un perdente: la concorrenza non solo è basata
sulla diseguaglianza, ma la crea.
L’individuo
è perciò considerato, sì, come operatore del mercato, ma in quanto competitore
nella concorrenza.
Ma chi è che compete nella concorrenza
capitalistica?
A
concorrere tra loro sono le imprese.
In
quanto concorrente ogni individuo è considerato un imprenditore, anzi
un’impresa di per sé: il manager di sé.
Nell’antropologia
neoliberale di Dem Usa l’unità-individuo è un’unità-impresa e l’individuo è il
proprietario di sé stesso.
Non è certo un’idea che viene spontanea agli
esseri umani, quella di entrare in rapporto con sé stessi in termini di
proprietà.
Io
personalmente non mi sono mai guardato allo specchio valutando la mia
proprietà, o la proprietà di me.
Anzi
il termine proprietà pare straordinariamente non pertinente se applicato al
rapporto del sé con sé.
La
prima conseguenza di questa impostazione è che SIAMO TUTTI PROPRIETARI, dal
bracciante messicano al minatore nero sudafricano, al banchiere di WALL Street.
Ma di
cosa siamo esattamente proprietari quando per esempio non possediamo denaro né
oggetti materiali?
SIAMO
PROPRIETARI DI NOI STESSI: cioè noi stessi costituiamo il nostro proprio
capitale.
Ognuno
è proprietario di sé, cioè del proprio capitale umano.
La
specificità del capitale umano è che è parte dell’uomo.
È umano perché è incarnato nell’uomo, e
capitale perché è fonte di future soddisfazioni, o di futuri guadagni, o
ambedue.
Il capitale umano sta all’economia come l’anima sta
alla religione.
Come,
secondo le varie fedi ogni persona ha un’anima – non si vede ma c’è -, così in
ognuno di noi c’è un capitale invisibile, immateriale, che intride l’individuo
imprenditore di sé stesso.
SIAMO
TUTTI CAPITALISTI quindi, dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.
Tecnologia
del debito.
Se la
rivoluzione informatica fornisce gli strumenti tecnologici di controllo a
distanza, è la tecnologia del debito ad assicurarne la dimensione economica.
È assai recente l’uso sistematico e codificato
del debito – sia dei privati, sia degli Stati – come strumento politico e
sociale.
Fu Marx il primo a capire il ruolo che avrebbe giocato
il debito pubblico nel capitalismo moderno.
Il
debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione
originaria:
come
con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è
improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza
che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio
inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario.
Il
debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti
negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il
gioco di Borsa e la bancocrazia moderna.
L’indebitamento dello Stato era interesse
diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo
delle Camere.
Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e
proprio oggetto della sua speculazione e la fonte del suo arricchimento.
Ogni
anno un nuovo disavanzo.
Dopo 4
o 5 anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova
occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della
bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più
sfavorevoli.
Qual è la causa del fatto che il patrimonio
dello Stato cade nelle mani dell’alta finanza?
È l’indebitamento continuamente crescente
dello Stato.
E qual è la causa dell’indebitamento dello
Stato?
È la permanente eccedenza delle spese sulle
entrate, sproporzione che è nello stesso tempo la causa e l’effetto del sistema
dei prestiti di Stato.
Per sfuggire a questo indebitamento lo Stato
deve limitare le proprie spese, cioè semplificare l’organismo governativo,
ridurlo, governare il meno possibile, impiegare meno personale possibile.
Già Marx nel 1850 notava che l’indebitamento
pubblico costringe lo Stato a essere “frugale”.
È solo nel XX secolo che il debito assurge a
vero e proprio strumento di controllo politico.
Lo fa
innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie,
attraverso l’istituzione del “mutuo”.
l’Ottocento
non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento
disciplinatore di intere popolazioni:
chi si
addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, per
due ragioni:
1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e
quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria;
2) il
mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua
(futura) proprietà per anni e decenni a venire.
Il mutuo trentennale sulle case garantito
dallo Stato del New Deal di F.D. Roosevelt.
Ancora
oggi negli USA il 68% del debito dei nuclei familiari va sotto la voce “mutuo
per la casa”.
Ma è
dalla seconda guerra mondiale in poi che il debito delle famiglie è esploso
negli USA e poi in quasi tutto il mondo.
Se il
mutuo aveva rappresentato l’innovazione più foriera di conseguenze tra le due
guerre mondiali, nei primi decenni del secondo dopoguerra l’innovazione finanziaria
più rilevante fu la carta di credito.
Mutuo
e carte di credito spiegano almeno in parte l’incredibile espansione dei
prestiti ai privati.
Nel 1950 il debito delle famiglie
rappresentava il 23% del PIL mentre oggi costituisce il 67% (95% nel 2008).
Se nel 1960 il debito delle famiglie era pari
al 60% delle loro entrate annue, nel 1980 era salito al 75%, nel 1995 al 95% e
nel 2019 al 120% (Italia 2023: 160%) quando il reddito medio annuo di ognuna
dei 128,82 milioni di famiglie americane è di 89.930 dollari, ma il suo
indebitamento è di 108.288 dollari.
Il
debito è diventato la condizione di vita di quasi tutte le famiglie dei paesi
sviluppati.
Ci si
indebita per il mutuo della casa, per l’acquisto della macchina, per studiare all’università,
per andare in vacanza, per una protesi dentale.
L’indebitamento degli studenti.
Ma il
caso più illuminante è certo quello del debito di studio, contratto per pagarsi
l’università negli Stati Uniti.
Nel terzo trimestre del 2019 il suo ammontare
totale era di 1500 miliardi di dollari (più del PIL della Spagna).
Negli
ultimi 10 anni il numero di persone di 60anni e oltre (più di 30 anni dopo aver
terminato l’università) che sono ancora debitori per gli studi è quadruplicato
passando da 700mila a 2,8 milioni di persone.
Tra le
molte cause c’è quella delle spese d’iscrizione triplicate.
Per le università quadriennali (sia pubbliche
che private) l’iscrizione costava in media 7413 dollari per l’anno accademico
1975-76; nel 1985-86 era salita a 12.274 dollari; nel 2016-17 è stata di 26.599
dollari.
Nelle
università private più quotate (quotate anche in Borsa, ad es. Harvard) nel
2016-17 l’iscrizione annua era di 41.468 dollari.
Un mercato del lavoro avviato verso la
recessione riduce la possibilità d’assunzione per i nuovi laureati che vengono
così avviati verso l’insolvenza, una sorta di bancarotta generazionale.
L’indebitamento
degli studenti è una manifestazione esemplare della strategia neoliberale introdotta
dagli anni ’70:
rimpiazzare i diritti sociali (diritto alla
formazione, alla salute, alla pensione) con l’accesso al credito, cioè il
“diritto” a contrarre debiti.
Per le pensioni, non più una mutualizzazione
dei contributi, ma un investimento individuale nei fondi pensione;
non
più un aumento dei salari, ma crediti al consumo;
non
più un servizio sanitario nazionale, ma assicurazioni individuali; non più
diritto all’alloggio, ma fidi immobiliari…
Le
spese di formazione, interamente a carico degli studenti, permettono di
liberare risorse che lo Stato si affretta a trasferire alle imprese e alle
famiglie più ricche, in particolare attraverso la riduzione delle tasse.
I veri
assistiti non sono i poveri, i disoccupati, i malati, le madri single, MA LE
IMPRESE dei RICCHI.
Sfruttamento
e speculazione
dei
cacciatori di terre.
Infoaut.org – Saverio Pipitone – (13 marzo
2023) ci dice:
(La
Bottega del Barbieri)
Lo strapotere
delle “imprese-vampiro” dell’industria e della finanza.
Pronto
Fantomas.
Al telefono Alberto Moravia, Julio Cortázar,
Octavio Paz e Susan Sontag (scrittori) chiedono aiuto al famigerato personaggio
mascherato per fermare un pazzo armato di laser che stava incendiando le grandi
biblioteche del mondo.
Il
folle venne annientato, ma la cultura in fiamme era solo l’inizio e più di uno
erano i mostri:
le
società transnazionali, in combutta con le organizzazioni statali, che
saccheggiavano le risorse dei popoli violandone i diritti fra minacce,
attentati e inganni (tratto da “Fantomas” contro i vampiri multinazionali del
1975).
Oggi è
ancora così.
Le “imprese-vampiro” dell’industria e della
finanza, soprattutto americane ed europee, espropriano gli spazi vitali delle
collettività o persone indigene e in particolar modo nel Sud del mondo.
Nell’ultimo
ventennio hanno accaparrato terre per quasi 100 milioni di ettari, servendosi
spesso dei supporti governativi e dei precari titoli di proprietà degli ignari
abitanti.
Chi si
oppone, soccombe.
Nello stesso ventennio, oltre 2.400 attivisti
sono stati uccisi e in migliaia espulsi, imprigionati e perseguitati, per
difendere il territorio dalle occupazioni delle monocolture latifondiste ed
estrazioni energetiche che inquinano gli ecosistemi e devastano le comunità
locali.
In
Guatemala, lo sgombero è forzato.
Nel
villaggio di Chinebal le case di novanta famiglie di contadini o artigiani
auto-sussistenti sono state demolite e bruciate, a seguito di un immediato e
sommario sfratto giudiziario, per estendere le piantagioni di palma da olio
della “NaturAceites”, appartenente al colosso agrochimico, edilizio e minerario
“Tecun” dei Maegli Novella: due antiche dinastie di coloni europei che dal
1950, imparentatesi tra loro e sorretti da” Opus Dei” ed élite reazionarie,
diventarono primi possidenti guatemaltechi privando i nativi delle ricchezze
naturali.
In
Argentina, Uruguay e Brasile, il suolo “sottoutilizzato” è preso e convertito
alle colture intensive.
Sfruttato
al massimo con transgenici, fertilizzanti e pesticidi sintetici, specialmente
per la produzione di soia.
Aziende che lì esercitano tali attività, su
oltre 1 milione di ettari, sono le quotate: “Adecoagro”, lussemburghese, con principali
azionisti diversi hedge fund – fondi speculativi per quadruplicare rapidamente
il capitale – e poco tempo fa rilevante investitore era “Soros Fund Management” dell’influente imprenditore George
Soros; “Cresud”,
argentina,
dei fratelli “Alejandro ed Eduardo Elstajn” che negli anni 1990, per entrare
nell’agrobusiness, furono finanziati dallo stesso Soros;
“BrasilAgro”, brasiliana, sempre degli Elstajn assieme al magnate immobiliare Elie Horn e banche d’affari internazionali:
“
BrasilAgro” è sospettata di acquisizioni fondiarie illecite e del disboscamento
di 30.000 ettari nei suoi poderi nella regione rurale del “Matopiba” (acronimo delle iniziali degli stati
federati Maranhão,
Tocantins, Piauí, Bahia).
Pure
gli insegnanti accaparrano terreni.
Lo fanno tramite il “fondo pensione newyorkese TIAA”, dandogli il denaro da investire per
rendite future.
Braccio
operativo è la controllata “Nuveen” con un patrimonio agricolo globale di 810.000 ettari e 430
fattorie, di cui 1/3 in Brasile, seguono Australia e Stati Uniti, per la
coltivazione di una quarantina di derrate, dalla canna da zucchero al grano, affidandone la gestione alle imprese
di monocoltura intensiva con ripercussioni sulla biodiversità.
Fondatore
è l’industriale Andrew Carnegie (1835-1919), il secondo uomo più ricco della
storia che ispirò Paperon de’ Paperoni.
La
famiglia visse in una lussuosa dimora a Central Park e nel 1930 vi lavorava una
giovane cameriera giunta dalla Scozia per sfuggire alla povertà delle
recinzioni dei borghesi e nobili sulle terre comuni; successivamente sposò un facoltoso
immobiliarista ed ebbe cinque figli, educandoli all’etica protestante:
quando
i due ultimogeniti giocavano con i mattoncini, uno di loro usava tutti i suoi
pezzi e arraffava anche quelli del fratellino perché voleva costruire un
grattacielo; da grande divenne accaparratore terriero e 45° presidente USA,
Donald Trump.
Poi
c’è Bill Gates, il nerd miliardario.
Ha 110.000 ettari arabili dalla Florida a Washington
con mais, riso, patate, cipolle e carote.
È
investitore, per mezzo della” Gates Foundation Trust”, nei “fondi Kuramo” che controllano la “Plantations Huileries Congo” (PHC) con 21.000 ettari di palme da
olio a Boteka,
Lokutu e Yaligimba:
piantagioni
congolesi nate all’inizio del secolo scorso con l’industriale inglese William Lever (1851-1925) – fondatore
della multinazionale Unilever – ricevendo le terre in concessione dalle colonie
belghe, dopo che le avevano razziate agli aborigeni.
E l’abuso continua.
In
Uganda, i diritti umani sono irretroattivi.
Centinaia di residenti agricoli dei villaggi Kisaranda e Nyamutende hanno intentato un’azione giudiziaria
contro il
produttore su larga scala di cereali e semi oleosi “Agilis Partners” dei
gemelli statunitensi “Philipp e Benjamin Prinz”, denunciando violenti sfollamenti ed
espropri terrieri senza preavviso e risarcimento o reinsediamento.
L’Alta
Corte gli ha rigettato l’istanza perché il fatto era antecedente
all’applicazione della legge sui diritti umani.
In
Costa d’Avorio, le licenze fondiarie sono retroattive.
Il Ministero dell’agricoltura, nel retrodatare
gli effetti dell’affitto di 11.000 ettari, fece perdere una disputa legale ad
alcuni piccoli possidenti della regione di Iffou che chiedevano lo sfratto
dell’azienda occupante “Sia”t con sede a Bruxelles: proprietario è Pierre Vandebeeck, membro dell’ordine coloniale della
Corona del Belgio e dal 1970 cacciatore di terre fertili, iniziando come manager nella
società di origini coloniali “Socfin”, che è quotata in Lussemburgo con primari azionisti i
finanzieri milionari Hubert Fabri e Vincent Bolloré.
Siat e
Socfin,
rispettivamente su 68.000 e 192.000 ettari, piantano palma da olio e gomma in
Africa e Asia, dalla Guinea alla Cambogia, portando disoccupazione, inflazione,
miseria e degrado ambientale nelle comunità ancestrali che protestano al grido “restituiteci la nostra terra”.
Intanto
la Banca
Mondiale spinge
alla speculazione e chimica agricola.
Per i
paesi in via di sviluppo, prescrive: formalizzare le proprietà rurali, sia pubbliche che private,
con catasto digitale, nel superamento dell’autoctono possesso consuetudinario, per la semplificazione delle procedure di
cessione, trasferimento ed esproprio; deregolamentare le normative sui
fitosanitari per aumentare la produttività.
Lo scopo è favorire gli investimenti dei
potentati economici alla ricerca di alti profitti.
In
quelle terre, le colture vengono mercificate.
Destinazione
d’uso è l’industria trasformatrice con grosse multinazionali – Unilever, Cargill, Mondelez,
Kellogg’s, Nestlé, General Mills e altre – che fabbricano cibi ultra-processati,
pieni di grassi e privi di fibre o proteine, nell’omologazione della dieta
mondiale:
è
stimato che, entro il 2050, la domanda di questi prodotti crescerà fino al 70%,
unitamente al calo di contenuto nutritivo per miliardi di individui che
rischiano malattie e mortalità.
Fantomas:
«da ora in poi dedicherò tutte le mie forze a lottare
contro le imprese multinazionali e contro tutte le forme negative
dell’imperialismo. Le risorse naturali di un paese sono di proprietà
inalienabile del suo popolo. Non è nostro diritto rubarle o sfruttarle per agio
e consumismo».
(Saverio Pipitone)
(saveriopipitone.blogspot.com/2023/03/sfruttamento-e-speculazione-dei.html)
Perché
il comunismo
è duro
a morire.
Ilpiacenza.it
– Carlo Giarelli – (31-5-2021) – ci dice:
(il Piacenza Blog)
Sembrerebbe
morto il comunismo, ma è solo una morte apparente.
Infatti
esiste ancora un partito comunista non solo in Italia, ma in tanti altri paesi
e addirittura una nazione come la Cina che si definisce comunista.
È comunque vero rispetto al passato che non c’è più il
comunismo, quello vero, di marca staliniana.
Ma pur sotto mentite spoglie e con altrettanti
stravolgimenti rispetto al carattere originario, esiste ancora un comunismo che
anche se in difficoltà non muore nelle coscienze.
E non
solo da parte dei vecchi sostenitori che un tempo affollavano i festival
dell’Unità e che erano disposti a fare qualunque cosa pur di rivendicare la
loro fede politica, ma anche nei giovani che del comunismo storico sanno poco o
se sanno qualcosa sono disposti a rinverdire la vecchia ideologia.
Il
perché del mantenimento in vita di una ideologia sconfitta dalla storia è
presto detto.
Perché non si tratta tanto di ideologia.
O meglio perché l’ideologia, se mai ancora esiste, è
solo una parte del credo comunista.
Oltre
a questa il comunismo ha molte altre componenti.
Esso è infatti un insieme di concezioni del
pensiero con risvolti psicologici e quindi emozionali in cui si trovano un
insieme di valori che hanno la capacità di mistificare l’apparenza al fine di
non apparire mai semplici e banali, nonostante la loro tragica e
sempre criminale realizzazione in tutte le forme di regime che purtroppo si sono storicamente
avvicendate.
Ribadisco
allora che l’ideologia è solo una sua componente neppure prioritaria.
In
sostanza prevale nel comunismo una componente utopica che appunto in quanto
irrealizzabile stimola la mente a credere possibile quello che possibile non è.
A
questo punto la deviazione utopica verso una concezione teologica e teogonica,
diventa un processo conseguenziale.
E con
questa il senso di una nuova religione che si sostituisce a quella cristiana,
pone il comunismo a manifestare un atto di fede verso l’umanità.
Ci ricorda molto bene questa condizione il
filosofo tedesco Feuerbach, che può essere considerato l’iniziatore della
dottrina comunista.
Nel suo saggio: “L’essenza del cristianesimo” egli contesta la filosofia di
Hegel, un altro filosofo comunista, dichiarandola con un certo disprezzo, una
teologia filosofica che guarda al passato, ma che non ha futuro per mancanza di
validi presupposti.
Alla
scienza della logica di Hegel preferisce contrapporre la sua teologia riducendo
la religione a pura antropologia.
Con
questa scopriamo un’altra componente di questa nefasta dottrina, che spinge a credere
come l’unica verità sia solo l’uomo e non la ragione astratta.
Dunque
è l’uomo che volendo ma non potendo essere e divenire onnisciente ed immortale,
deve inventarsi un Dio che rappresenti la soddisfazione di un desiderio.
In
questo modo una nuova religione sostituisce quella cristiana.
L’uomo allora non è l’immagine creata a
somiglianza di Dio, ma è quest’ultimo che diventa immagine dell’uomo.
Il capovolgimento dei valori si è attuato.
Tutto
deve essere fatto per l’uomo, come poi dirà più compiutamente un certo Karl
Marx ampliando la teoria dall’uomo per estenderla a tutta l’umanità.
La quale deve ristabilire una equità fra la
forza lavoro della maggioranza del popolo sfruttato rispetto alla minoranza che
possedendo i mezzi di produzione, trae vantaggio da questo sfruttamento.
Con
Marx un altro valore si aggiunge a quello da lui auspicato come comunismo.
La
trasformazione della teologia e della conseguente filosofia in sociologia.
L’impatto
sulla gente è pienamente coinvolgente.
E
pensare ad una società più giusta attraverso l’abolizione delle disuguaglianze
alletta al punto le coscienze, da rendere possibile un paradiso in terra.
Con
queste premesse si capisce bene come questa vocazione comunitaria non sia
isolata.
Perché
già aveva indotto un giovane domenicano, poi condannato e imprigionato per
eresia e mi riferisco ad un certo Tommaso Campanella ad ipotizzare, siamo nel
XVI secolo, nella sua “Città del sole” un governo dove tutto sia in comune.
Beni
materiali e perfino beni sessuali in particolare le donne (degli uomini non si
fa menzione).
Anche
se ancora mancava il giusto lessico nel nominarlo, più comunismo di così era
difficile immaginare.
Dunque
come già detto il comunismo attrae le menti, specie quelle che ambiscono ad un
nuovo ordine basato su quella utopia rivestita di religione e sociologia che
appaga quegli spiriti (liberi?) che vagheggiano una umanità del tutti uguali
dove non esistono soprusi e privilegi.
Detto
così la teoria comunista vanta il suo fascino, ammettiamolo, tanto che molti
almeno all’inizio della propria formazione intellettuale, hanno subito pesanti
condizionamenti.
Reinventare
la parola democrazia è stata allora il punto cardine di tali condizionamenti.
La cosiddetta egemonia culturale di marca
gramsciana ha fatto il resto arrivando addirittura ad ipotizzare una netta
separazione fra i suoi seguaci e tutti
gli altri.
Attribuendo
ai primi una virtù inventata al bisogno, che poi verrà chiamata dal
segretario del Pci Berlinguer “superiorità morale”.
E
tutto questo in riferimento agli oppositori, considerati biechi conservatori,
poco propensi agli allettamenti del pensiero progressista e impegnati solo a
soddisfare i propri privilegi.
L’intellighentia ed il mondo culturale in
genere sono la prova di quanto detto.
Vale a dire di questo stato di fatto.
Destra
e sinistra sul piano pratico, ancora più che su quello politico, hanno creato
un solco difficilmente valicabile.
Da una
parte i buoni e dall’altra gli incolti detti anche antidemocratici e per giunta
nemici da combattere.
Ecco
allora il punto.
Nonostante
lo stravolgimento dei fatti storici che come spesso accade per chi crede
nell’utopia, trasforma la fantasia creativa in un evento criminale causa
l’impossibilità di poterla realizzare.
Cosicché nonostante le stragi compiute dai
regimi comunisti che vantano il triste primato delle deportazioni e dello
sterminio di intere popolazioni all’insegna del loro sbandierato e falso
concetto di democrazia, onde riconoscere che ancora oggi il comunismo non è
morto, una qualche ragione, come cerco di dimostrare, deve pur esserci.
Per
questo dopo averlo tanto criticato, una qualche ragione, dobbiamo allo stesso
Hegel.
Secondo il quale non è la realtà a produrre le
coscienze, ma sono queste ultime che sottoposte ad infiniti condizionamenti
formano la realtà.
Al punto che la coscienza si identifica con la
realtà stessa.
Tali influenze veicolate con subdola
intelligenza fra la gente, rappresentano allora le cause di un pensiero morto
nei fatti e nella ragione, ma non nella fantasia.
Per
fare tutto questo processo di falsificazione, bisognava abolire la realtà
storica nefasta e subdola, costruendo dei fantasmi.
In sostanza dimenticando il passato criminale
inventando la paura di un nemico che nonostante sia stato già condannato dalla
storia, lui sì, era nei fatti già scomparso o ridotto ai minimi termini da
parte di un piccolo gruppo di fanatici.
Dunque
bisognava farlo ritornare in vita.
Lo imponeva e lo impone lo spirito democratico
di tutti coloro che al posto di vergognarsi delle loro attuali e superate idee,
sono disposti ad usare l’arte del trasformismo.
Contrapponendo
al loro pensiero di menti cosiddette colte, ancora irretite nella mai
dimenticata utopia e che hanno ormai occupato i vari gangli del potere, il nero
volto antidemocratico di un nuovo pericolo pubblico rappresentato dal
fascismo.
Tramite
questo espediente i sinceri democratici possono continuare ad essere tali.
Non
importa se poi la loro concezione democratica sia a senso unico.
E se, come succede, diventa intollerante verso
gli avversari, considerati non democratici e quindi non in diritto o di
esistere, o comunque ancora in grado di manifestare le loro idee, che sono da
condannare a priori.
Ritornando
al titolo ecco allora perché il comunismo non muore, anche se rivela un certo pudore a definirsi tale, preferendo adottare un lessico
annacquato quale definirsi socialisti o addirittura “liberal Dem “alla moda
americana.
E
forse, per le ragioni dette, non morirà mai.
Troppo abile nel travestirsi e troppo capace di
modificare le coscienze.
La sua forma di fede infatti oggi, invece di
essere condannata, addirittura esorbita verso quell’altra che non chiamiamo
cristianesimo.
Ma noi siamo i soliti retrivi, ignoranti e
biechi conservatori.
Liberali
e “non liberal” che fra poco verremo chiamati fascisti.
Così è
anche se non vi pare.
La
sconfitta di Macron è quella dell’Europa, ma la colpa non è del popolo
La
sconfitta di Macron è quella dell’Europa,
ma la
colpa non è del popolo.
Ilriformista.it
- Astolfo Di Amato — (24 Giugno 2022) – ci dice:
L’esito
delle elezioni francesi è stato visto da molti commentatori come un pericolo
per l’Europa.
L’affermazione di Mélenchon e, ancora di più, di
Marine Le Pen viene interpretata come un fattore di disgregazione dell’Europa
e, in questa prospettiva, indicato come un significativo segnale
dell’avveramento della profezia di Putin, secondo cui le élite europee
sarebbero destinate ad essere scardinate da un’ondata di nuovi radicalismi.
Quanto avviene in Francia è, poi, messo in
relazione con il successo che, stando ai sondaggi, avrebbe ormai consolidato in
Italia il partito di Giorgia Meloni.
A
prescindere dalle differenze ideologiche e dalla distanza, anche personale, tra
Giorgia Meloni e Marine Le Pen, la loro affermazione sarebbe la diretta
conseguenza dell’espansione di un radicalismo capace di divorare il progetto
europeo, come tale tanto più pernicioso in un momento come questo, segnato
dalla guerra in Ucraina e dalla contrapposizione, mai così netta, tra Russia e
mondo occidentale.
Si
tratta di una prospettiva certamente consolatoria, per chi ritiene di potersi
collocare nella schiera dei buoni e dei benpensanti, i quali si sentono
aggrediti da un voto popolare che non rispetta le loro “sagge” indicazioni.
Ma che
ha, tra l’altro, l’evidente difetto di non dare per il futuro una prospettiva
diversa da una vaga speranza che, a seguito del rimprovero di chi ne sa di più,
il popolo di chi vota cambi opinione.
Se si
prova a portare un rispetto autentico, e non di facciata, al popolo che vota ci
si rende conto, tuttavia, che la prospettiva va rovesciata.
Il
punto non è affatto quello di ricondurre il popolo che vota sulla retta strada,
bensì quello di dare una prospettiva di soluzione ai problemi, che segnano la
vita quotidiana, togliendo l’impressione, oggi fortissima, che la volontà degli
elettori non conti nulla e che l’unica cosa che è loro concessa è quella di
esprimere il proprio dissenso, per quel poco che vale, attraverso il voto.
In
questa diversa prospettiva, diventa, innanzitutto, inevitabile registrare che
l’inadeguatezza dell’Europa non può più essere occultata da una narrazione di
un europeismo tanto assoluto, quanto privo di contenuti.
Sarà
per la inadeguatezza della regola dell’unanimità o per il predominio, che nelle
istituzioni europee, hanno gli uffici burocratici, fatto sta che l’Europa è
troppo spesso lontana dai problemi dei cittadini.
Lasciando
da parte la tragicomica questione, che pure esiste, di un potere che si
manifesta nella determinazione della lunghezza dei piselli, resta il fatto che
di fronte a questioni vitali, quali quelle sulle fonti energetiche o sulla
organizzazione del mercato, le decisioni appaiono prese da una distanza
siderale, che nessuna relazione ha con i cittadini.
Non ci
si chiede, ad esempio, quale impatto possa aver avuto nella votazione francese
la decisione, assunta in sede europea, di vietare, a partire dal 2035, la
vendita di autovetture a benzina.
Anche
in quel paese, come in Italia, l’industria automobilistica gioca un ruolo
determinante nell’occupazione e nell’economia.
Una
decisione del genere, gravida di conseguenze sull’occupazione e sull’economia,
è stata presa tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti o solo della
ideologia di quei paesi che, non avendo una industria automobilistica, nulla
hanno da temere da una decisione del genere?
Basta
questo esempio per rendersi conto che è l’Europa, che deve rendersi
riconoscibile ai propri cittadini come soggetto politico rappresentativo dei
loro interessi, invece che pretendere cieca osservanza.
Del resto, la stessa vicenda dei fondi del “Pnrr”, che
sono in corso di elargizione all’Italia, presenta non solo luci, ma anche
ombre.
In
alcuni momenti si avverte il sussiego con cui il ricco elargisce al povero,
accompagnato dalla occhiuta determinazione di revocare tutto se non ci si
comporta bene.
E
sullo sfondo c’è sempre la minaccia di ripetere quanto già fatto con la Grecia.
A
questo rapporto insoddisfacente con l’Europa si affianca, poi, per gli elettori,
la frustrazione che accompagna la presa d’atto che il voto non è più strumento
di scelta politica.
Se si
guarda alle elezioni presidenziali francesi, che hanno visto la vittoria di
Macron, sia la prima e sia la seconda volta, il voto non è stato “per”, ma
“contro”.
Nessuno
spazio ha avuto un dibattito serio sulle istanze avvertite dagli elettori di
Marine Le Pen.
Il che
ha fatto sì che programmi, disegno del futuro, aspettative di un nuovo ordine
sono passate in ultimo piano, essendo l’unico obiettivo perseguito quello di
sconfiggere chi viene rappresentato come un pericolo per la democrazia.
Del resto, la stessa logica comincia a
manifestarsi anche in Italia, ove si consideri il fuoco di sbarramento che
inizia ad investire Giorgia Meloni, ignorando le istanze sociali che attraverso
di lei cercano rappresentanza.
Se
continua così, il voto del 2023 non sarà un voto su un programma di società, ma
solo “contro” il preteso pericolo nero rappresentato da Giorgia Meloni.
Già
questa situazione è sufficiente a dare conto di quanto profondo sia diventato
il fosso che divide corpo elettorale ed élite che governano.
In Italia, peraltro, esso è scavato ancora di
più dalla consapevolezza, ormai granitica, che il voto popolare non conta
niente di fronte alla volontà del palazzo.
Avere
un presidente del consiglio non eletto dai cittadini è divenuta una prassi
negli ultimi settennati presidenziali.
Ormai
le elezioni sono considerate un pericolo per le istituzioni, con la conseguenza
che la pratica democratica del voto invece di essere incentivata è volutamente
ostacolata.
(Gli “uomini
di Davos” non debbono essere eletti. ma cooptati dall’alto! N.D.R.)
Di
fronte a tutto questo, ridurre le elezioni ad una battaglia contro il pericolo
nero e per il mantenimento di un’Europa, la cui distanza dai cittadini è sempre
più profonda, mette a rischio la tenuta democratica.
Il
tasso di astensione registrato nelle recenti elezioni politiche francesi e
nelle recenti elezioni amministrative italiane è un segnale inequivocabile di
un cattivo stato di salute della democrazia.
Rifugiarsi in una lamentosa constatazione del rischio
di disgregazione dell’Europa significa volere sfuggire ad un serio confronto
con la realtà.
(Astolfo
Di Amato)
Un
prof, 3 domande e la realtà salvano
i
giovani dall’ideologia “green.”
Ilsussidiario.net
– (02.12.2021) - Pietro Baroni – ci
dice:
Un
articolo di giornale sui danni dell’inquinamento, affisso nella bacheca della
scuola, diventa l’occasione per un dialogo serio e non ideologico sull’ambiente
(e non solo).
Vale
la pena di perdere tempo a commentare un articolo di giornale affisso nella
bacheca di una scuola (la mia), riguardante, tanto per cambiare, l’ambiente e i
danni dell’inquinamento?
Probabilmente
no, se non fosse per il bombardamento asfissiante cui vedo sottoposti
quotidianamente i miei studenti e anche i miei figli, che frequentano in questi
anni dall’asilo alle scuole medie.
Ho
dunque la possibilità di assistere ad un vero stillicidio, martellante, che
bersaglia da ogni dove le menti dei nostri bambini e giovani, come se non ci
fosse un domani (ed è proprio questo il messaggio: non ci sarà un domani, se non fermeremo
immediatamente l’uomo nella sua azione devastatrice).
“L’urlo
estremo di speranza dell’ultima foresta europea”, questo il titolo del suddetto
articolo (che non riporta la testata giornalistica, né la data), che campeggia
nella bacheca del “Comitato Scolastico per l’Ambiente” nell’istituto superiore in cui
insegno a Firenze (comitato che è diventato funzione strumentale dell’Istituto
proprio all’inizio di quest’anno).
Mi
fermo per ora solo al titolo.
Proviamo a immedesimarci nella testa di un
ragazzino di quattordici anni, che entrando a scuola legge, appeso nel
corridoio di fronte alla sua classe, questo titolo, al centro della bacheca.
Cosa penserà?
Prendiamo
in analisi il titolo: “L’urlo estremo”.
La
prima educazione (e qui siamo in una scuola che dovrebbe educare, istruendo)
passa dal rispetto delle parole.
L’urlo è prerogativa indiscussa dell’essere umano.
Urla
un bambino, una donna, un vecchio, un ragazzo.
Urla
un uomo di dolore, di terrore, di paura, di rabbia, di gioia, per trionfare o
per inveire.
Un
animale non urla: un animale guaisce, ulula, ringhia, abbaia, bramisce,
ruggisce eccetera. Un animale non urla.
Figuriamoci se può urlare una foresta!
Ma il
messaggio è esattamente questo: la foresta urla, come e più di un essere umano.
“Estremo”,
non c’è più niente da fare, siamo alla disperazione, alla fine dei giochi!
Cosa
ci può essere di più tragico?
Poi
c’è una inversione ossimorica: dopo l’“urlo estremo”, c’è la “speranza”.
Altra parola irricevibile, se usata in questo
contesto.
Nessuno
nel mondo spera, tranne l’uomo.
Spera un ragazzo, di non essere interrogato
proprio quella mattina in latino;
spera
una ragazza che quel ragazzo si giri, la guardi e corrisponda in qualche modo
al suo batticuore;
spera
una madre che suo figlio cresca nel bene e non si abbandoni al male;
spera
un padre che il figlio trovi lavoro;
spera ciascuno di essere un po’ più felice,
quando si alza la mattina dal letto; spera il malato l’attimo prima di ricevere
l’anestesia per una operazione a cuore aperto (questa sì una speranza estrema).
Non spera un animale.
Un
animale ha istinti, bisogni fisiologici, non speranze.
La speranza è dell’uomo e solo dell’uomo (dico uomo, rivendicando
orgogliosamente il significato esteso di questo termine a comprendere tutti gli
esseri umani sia maschi che femmine!).
“Dell’ultima
foresta europea”: e qui il colpo di grazia! Oddio!
È rimasta
una sola foresta in tutta Europa?
Non ne sapevo niente, ma cosa aspettavo a svegliarmi (woke)?
Poi
vai a leggere l’articolo e incredibilmente viene fuori che si parla dell’ultima
(?) foresta primaria d’Europa, dove per primaria si intende intatta e non
“contaminata” da alcuna presenza umana.
Qualcosa
di simile alla giungla delle zone ancora inesplorate del nostro pianeta.
In cosa consisterebbe, allora, la speranza
contenuta nel grido di questa ultima foresta?
Che
l’uomo non la visiti mai.
Ed ecco che si chiude il cerchio. L’uomo è il
crudele aguzzino che fa urlare estremamente il pianeta.
L’articolo
contiene poi frasi di questo tenore:
“Finora [noi uomini] abbiamo pensato di essere
speciali, ma non lo siamo più di un picchio, che sfrutta l’energia del sole per
seccare le pigne che mangerà;
non
siamo la specie più efficiente, le formiche e le api sono in numero maggiore;
non siamo la specie più grande, forse siamo i
più popolari, il nostro problema è che finora non abbiamo “visto” la Natura [rigorosamente con la maiuscola], l’abbiamo solo usata, depredata,
rubata”.
L’uomo
è l’orco delle fiabe, mentre, se ci fate caso, il lupo non è più il cattivo, ma
solo l’incompreso (vedi recentissimi e tristissimi fatti di cronaca).
È
questo il messaggio che diamo ai nostri studenti?
Ma
cosa ce ne facciamo allora della cultura?
Se
l’uomo è uguale a un picchio (ma sicuramente inferiore, perché il picchio non inquina),
quale sarà mai il valore dello studio, della civiltà, della cultura,
dell’istruzione?
Della poesia, dell’arte, della filosofia,
della scienza?
Ma
allora che senso ha la scuola? L’impegno, la responsabilità che chiediamo ai
nostri studenti?
Non
contano nulla, anzi sono forse deleteri, armi pericolose in mano ad un pazzo.
L’uomo è un errore di natura, uno sbaglio che dobbiamo eliminare il prima
possibile, per salvare il pianeta.
Esagero?
Ho
letto questo articolo nel cambio dell’ora, aspettando di entrare in classe, una
prima del liceo linguistico.
Una volta dentro, dimentico l’articolo e,
spiegando latino, mi viene da usare questa espressione: “L’uomo è un essere meraviglioso!”.
La reazione immediata e comune di tutta la
classe è di silenzio imbarazzato e sulle facce di molti si dipinge
un’espressione di disgusto.
Allarmato,
faccio un rapido esame di coscienza a nome di tutta l’umanità e,
effettivamente, mi vengono in mente le ingiustizie sociali, le guerre, i popoli affamati
dallo sfruttamento di altri popoli, l’ultimo articolo letto su una madre
afghana costretta a vendere la propria figlia per 500 euro con cui sfamare per
il mese successivo il resto della famiglia;
la
nuova tratta degli schiavi e tutte le brutture che gli uomini rovesciano gli
uni sugli altri ogni giorno.
Allora, un po’ inibito, chiedo ad una
studentessa che mi pareva particolarmente contrariata dalla mia entusiastica
affermazione:
“Non pensi che l’uomo sia un essere
meraviglioso?”.
E lei
risponde duramente: “L’uomo fa schifo!”.
Ferito da tanta spietata crudezza, chiedo
perché.
E lei risponde: “Perché l’uomo inquina e
uccide gli animali”.
Ok,
non esageravo!
Stiamo
crescendo una generazione di esseri umani che pensa che l’essere umano faccia
schifo (senza distinzioni, né pietà) e fa schifo perché inquina.
Sono
cresciuto con i miei insegnanti che mi trasmettevano, chi più chi meno, questo
messaggio:
il
mondo sta aspettando voi per eliminare le piaghe della società, cioè la fame
nel mondo, le ingiustizie sociali, la disoccupazione, le guerre (ci ricordiamo la serie di miss
Italia che dicevano sempre di desiderare la pace nel mondo? Bei tempi!) eccetera.
Di
colpo tutto questo non esiste più.
Non
solo, per i giovani di oggi non esistono alcune persone malvagie che fanno il
male, ma a loro sarà chiesto di combattere contro tutto questo.
No, per i nostri giovani non esistono buoni e
cattivi: fanno tutti schifo, perché fanno del male, semplicemente esistendo, al
pianeta.
Che
così perde (Lui, il pianeta!) la speranza.
Altro
che peccato originale, questo è peccato ontologico!
E la
cosa veramente inquietante è che questo messaggio pestifero passa innanzitutto
dalla scuola, che fin dall’asilo sottopone le menti dei nostri figli a questo
plagio indefesso.
Perché,
forse, ancora all’asilo “l’ideologia gender” non la veicoliamo, ma la crociata
sull’ambiente se la beccano tutta e per benino.
Di
fronte ai volti chiusi e decisi dei miei studenti era evidente che non sarebbe
servito a nulla opporre delle affermazioni, per quanto ragionevoli e fattuali.
In un illuminante momento di ispirazione ho
capito cosa dovevo fare.
Dovevo
porre delle domande.
Ne ho
fatte tante, ne riporto qui solo tre.
1) Rispetto a trent’anni fa, secondo
voi, le foreste in Europa sono aumentate o diminuite?
Uno
studente, come risvegliandosi d’improvviso, ha detto che si ricordava vagamente
di aver letto una volta un articolo in cui si diceva che le foreste,
contrariamente a quanto si ritiene, fossero aumentate (in Italia negli ultimi 10 anni sono
aumentate di 587mila ettari).
Di qui
una serie di esclamazioni di incredulità e di sorpresa. Io ho solo detto di
andare a verificare su internet.
2)
Avete mai visto una foca o un panda che si prendono cura dell’estinzione delle
foche e dei panda?
Che
fanno “Friday for future” contro la CO2?
Che attaccano le navi giapponesi per impedire
la caccia alle balene?
Questa
domanda li ha impegnati in un grosso dibattito, al termine del quale hanno
concluso che, sì, solo l’uomo si prende cura dell’ambiente.
Lo può distruggere, a volte, ma sicuramente è
l’unico che lo può salvare e curare. E che se ne può preoccupare.
3) Tu inquini e uccidi gli animali?
Qualcuno
di voi inquina e/o uccide gli animali?
Quante persone conoscete che inquinano e
uccidono gli animali?
A questa domanda è seguito un silenzio
profondo.
Vuoi
vedere che quando diciamo che l’uomo fa schifo, stiamo usando una categoria
astratta?
Vuoi
vedere che stiamo facendo fuori noi stessi e l’esperienza che quotidianamente
abbiamo di noi stessi e degli esseri umani reali che ci circondano?
Allora
a poco a poco è venuto fuori che certamente esistono persone che inquinano e
uccidono gli animali, che anche noi a volte possiamo aver inquinato, anche
volutamente, ma che tante persone (forse la maggior parte?) non lo fanno o cercano di
non farlo e che noi di solito non lo facciamo o cerchiamo di non farlo.
Poi è
suonata la campanella e la lezione è finita, ma i ragazzi erano entusiasti, le
loro facce erano radiose, come liberate (non uso a caso questo termine) da una
cappa di ottusità.
Avevano
improvvisamente avuto la possibilità di ragionare, di provare a rispondere a
domande, di confrontarsi fra possibilità diverse di risposta, di sostenere le
proprie opinioni, dovendo superare delle obiezioni.
Non
dovevano assentire supinamente al” Verbo proclamato”, che da sempre lì
raggiunge in ogni loro luogo di aggregazione.
Chesterton
diceva che lo stupido non è colui che non ha un pensiero, ma colui che non ha
un secondo pensiero da opporre al primo.
Non è
questo che dovrebbe fare una scuola?
Quando
sono entrato alla lezione successiva, una di loro (proprio quella che aveva
detto che l’uomo fa schifo) ha alzato la mano e mi ha chiesto:
“Prof,
possiamo farle due domande?”, “Certo”, “Cos’è la libertà? Cos’è l’amore?”.
“Perché mi fate queste domande?”,
“Perché
con lei si può discutere di cose importanti”.
TIMORI
ANTITECNOLOGICI.
Il
capitalismo della sorveglianza è
davvero
peggio del controllo dello Stato?
Sfatiamo
qualche mito.
Agendadigitale.eu
- Emmanuele Somma – (28 Nov. 2022) – ci dice:
Cultura
E Società Digitali.
La
logica conclusione dell’“intera teoria del capitalismo della sorveglianza” sta nella costituzione di una
necessaria sorveglianza sul comportamento dei cittadini oltre quella dei già
sorveglianti capitalisti:
quindi
una
sorveglianza al quadrato.
Come
dire, cadere dalla padella nella brace.
L’espressione
“Capitalismo
della sorveglianza” è una formula di successo ma nasconde più problemi di
quanti non ne spieghi.
Molto
più del libro di” Shoshana Zuboff”, l’espressione “Capitalismo della Sorveglianza” ha
conosciuto un successo planetario.
Catalizza,
in una formula facile e ben spendibile, l’intera gamma dei timori
antitecnologici di una popolazione che, ancora oggi a più di 30 anni di
distanza dalla sua diffusione pubblica, vive Internet con paura e sospetto.
Rappresenta anche una fortunata inversione di
una formula altrettanto popolare e condivisa: “Sorveglianza del capitalismo”.
What
Is Surveillance Capitalism? “Shoshana Zuboff”
In
verità, la tesi del capitalismo della sorveglianza ha una base teorica debole.
Propone
una narrazione affascinante ma non giustificata da dati, fatti e conoscenze, e se mette in luce un aspetto
deleterio dell’attuale fase storica, l’abuso dei profili online, contribuisce a
nascondere problemi più gravi e preoccupanti.
Una
breve sintesi della teoria del capitalismo della sorveglianza.
Soshana
Zuboff ha (non) sintetizzato nelle 700 e passa pagine di “The Age of
Surveillance Capitalism” la sua nuova teoria critica adatta al mondo attuale.
Anticipata
da una serie di articoli sul “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, questa teoria si
fonda su una ennesima riproposizione del classico confronto tra i fattori della
produzione industriale.
Una molto approfondita analisi delle
componenti di questa teoria si trova nel lungo articolo di “Evgenyi Morozov “su
“The Baffler”, intitolato evocativamente «I vestiti nuovi del capitalismo».
In
sostanza, a parte lo sfortunato incidente di aver riproposto una dizione
proveniente dalla precedente analisi marxista con lo stesso nome sul “Monthly
Review” (molto più radicale), la Zuboff sostiene che il capitalismo ha cambiato pelle e
dismesse completamente le forme, le leggi e gli obiettivi classici del sistema
capitalista, sia entrato in una nuova fase in cui né lavoro, né capitale siano
più al centro della scena, ma lo sono i dati e il loro sfruttamento.
La
critica classica al capitalismo si è sempre basata sul fatto che, per via di
qualche mai troppo ben identificato fattore, i capitalisti sarebbero stati in
grado di convincere i lavoratori a offrire un surplus del proprio lavoro sulla
base del quale verrebbe a costituirsi questo tanto contestato capitale con cui
le classi borghesi dominerebbero indisturbate il mondo.
A qualche centinaio di anni di distanza dalla
definizione di questa teoria è quantomeno difficile liquidarla superficialmente
anche se, dichiaratamente, non prende in considerazione una tanto grande
varietà di fattori.
Queste
mancanze hanno dato modo ad una infinità di scuole o pensatori, a sostegno o
contro, di esercitarsi intellettualmente (con non troppe ricadute pratica, va
detto).
Le tante incarnazioni delle teorie critiche al
capitalismo si sono esercitate nell’includere o escludere fattori o agenti,
ragioni o patimenti.
Quella
della” Zuboff” è una nuova incarnazione di teoria critica del capitalismo in
cui però non c’è più bisogno del lavoro perché il surplus può essere estratto
direttamente dai consumatori.
In
questo strano modello di capitalismo, i lavoratori svaniscono e i consumatori
fanno tutto da sé:
generano
il valore e anche quel surplus che è estratto dalle aziende adattate a questo
compito.
Il
surplus è generato con la creazione di dati, tanti dati, troppi dati: un
surplus appunto.
Le
aziende accusate di essere capitaliste della sorveglianza non sono mai valutate
in relazione al prodotto che offrono (il motore di ricerca per Google, il
social network per Facebook, ecc.) o ai lavoratori che impiegano
(programmatori, progettisti, creativi, ecc.), tutto quello che importa è
l’espropriazione dei dati.
Il
modello è un po’ sbilenco e non viene mai messo alla prova di una critica, in
particolare viene trascurata ogni possibile logica alternativa, anche quelle
ormai ben note nel campo.
Il capitalismo della sorveglianza è pura
invenzione narrativa, affascinante ma poco realistica.
Morozov
ha gioco abbastanza facile ad azzoppare ognuna delle tesi su cui si fonda.
Una
non-critica del capitalismo.
Due
sono i principali punti d’attacco alla teoria del capitalismo della
sorveglianza. Il primo è la contestazione del modello universalistico proposto
dalla Zuboff, laddove sostiene una totale mutazione del capitalismo, e persino
delle sue leggi fondamentali: il nuovo capitalismo è data-capitalism, o non è.
Questa
critica, come detto, è molto ben svolta da Morozov.
In sostanza si contesta che concentrandosi sul
dettaglio dell’economia dei dati e della sorveglianza si perde di vista, ma
soprattutto si finisce per giustificare, il corpo intero del modello
capitalista di cui la connotazione “di sorveglianza” è invece solo una
narrazione.
La
posizione della Zuboff stessa è veramente ambigua sul tema quando, a differenza
delle critiche più radicali del “Monthly Review”, e soprattutto in linea con il
suo precedente libro “The Support Economy” appare essere affascinata da un “capitalismo
del patrocinio” (advocacy capitalism), ovvero quello delle aziende che,
proprio come quelle del capitalismo di sorveglianza, estraggono i dati dei
consumatori, ma li usano solo per migliorare i propri servizi, dare
suggerimenti ai clienti o indirizzarli verso nuovi prodotti.
Insomma,
quelle che non forniscono prodotti di previsione (come si faccia questa
suddivisione non è chiara, però).
Così
come Google è sulla graticola in “The Age of Surveillance Capitalism”, Apple
era sul podio in “The Support Economy”.
Zuboff
non ha una storia professionale da anticapitalista e sebbene le sue tesi
assorbano consistenza teorica da approcci storicamente critici con il
capitalismo tout-court (come quelle di Toni Negri), non superano mai una soglia
di verace opposizione al capitalismo.
Si
potrebbe quindi dire che la teoria è molto più critica della “sorveglianza” che
non del “capitalismo”.
Ma anche questo appare poco giustificato
perché al “capitalismo di patrocinio” (anche citato come capitalismo di difesa,
in opposizione a quello di sorveglianza che quindi sarebbe un capitalismo di
attacco), apprezzato dalla Zuboff e quasi proposto come alternativa salvifica, sono permesse le stesse identiche
pratiche del capitalisti della sorveglianza, né la privacy dei consumatori
verrebbe tanto meglio tutelata, ma in questo caso, poiché non sarebbe la
previsione l’unità di prodotto, allora tutto andrebbe (magicamente?) bene.
Ma c’è di più.
Una
non-critica della sorveglianza.
Il
secondo punto d’attacco alla teoria del capitalismo di sorveglianza è di natura
strettamente politica.
La
teoria vanta una completa mutazione del capitalismo, tanto che tutti ne
sarebbero affetti, eppure sostiene la Zuboff che un’evoluzione possibile starebbe
nell’esacerbare la falsa dicotomia tra imprese di capitalismo-sorvegliante
(cattive) e imprese di capitalismo-patrocinante (buone), per riportare le
prime, in forza di azioni legali o tramite moral suasion, alle seconde.
La
dicotomia però permette di fare catalogazioni arbitrarie a seconda del punto di
vista e soprattutto apre uno spazio di arbitraggio sui comportamenti delle
imprese per stabilire cosa è sorveglianza e cosa è mero patrocinio.
I suggerimenti di Amazon sono sorveglianza o
patrocinio?
Gli elettrocardiogrammi dell’iWatch per stimolare una vita più sana, cosa sono?
Gli avvisi di Google Maps su quale strada è meno trafficata sanno di Grande
Fratello o no? Quale di questa è una feature pericolosa e dunque condannabile?
Chi
decide?
Questo
ruolo di censore, sottratto alla scelta autonoma del consumatore, sempre
paternalisticamente da tutelare, ricade sull’autorità pubblica che dovrà quindi
esercitare una sorveglianza sul capitalismo di sorveglianza per discriminare i
comportamenti adeguati da quelli inadeguati.
Ma i
comportamenti di chi?
Il
capitalismo di sorveglianza è un capitalismo di
sorveglianza-sui-cittadini/consumatori;
quindi,
la paternalistica mano dell’autorità pubblica pronta a sorvegliare i
capitalisti della sorveglianza, che ormai non hanno più né lavoratori, né mezzi
di produzione, ma solo il surplus generato dai cittadini, non potrà fare altro
che sorvegliare… i cittadini stessi, ovvero quello che c’è in fondo alla catena
del valore.
La
logica conclusione dell’intera teoria del capitalismo della sorveglianza sta
nella costituzione di una necessaria sorveglianza sul comportamento dei
cittadini oltre quella dei già sorveglianti capitalisti: quindi una
sorveglianza al quadrato.
Conclusioni
In
definitiva, per tutelarsi dal regime narrativo del capitalismo della
sorveglianza raccontato dalla Zuboff, sarà necessario offrirsi al regime
burocratico statale e per sottrarsi dai poteri, ampi ma limitati, di un impero
delle nuvole (secondo la definizione Vili Lehdonvirta nel suo Cloud Empires)
bisogna consegnarsi ancora più completamente al potere degli Stati terreni.
Una
riprova eclatante può ritrovarsi nell’azione dell’Unione Europea in vena di
riconquistare la propria sovranità digitale, per mezzo della residency dei dati.
A
questo punto, nessuno può pensare sia una casualità il fatto che tutta la
propaganda europea si basi proprio sulle teorie del capitalismo della
sorveglianza.
Al
cittadino/consumatore, con buona pace dell’affermazione dei principi di
autodeterminazione informativa, non resta che passare dalla padella della sorveglianza
delle piattaforme alla brace della sorveglianza dei poteri pubblici.
Con
una differenza, sotto la padella nessuna Zuboff ha dimostrato che ci sia un
fuoco della sorveglianza acceso, quello che c’è potrebbe essere solo quello del
solito capitalismo.
Che la
brace dei poteri pubblici scotti, con le agenzie di intelligence, i captatori
giudiziari, le indagini fiscali e via dicendo, è invece una certezza.
Alla
ricerca di un nuovo ordine.
Ispionline.it
– Ugo Tramballi – (21 Nov. 2022) – ci dice:
Delle
tante pronunciate al G20, c'è una frase che più delle altre illustra la fase
geopolitica nella quale stiamo entrando: “Non dobbiamo dividere di nuovo il
mondo”.
Lo ha detto Joko Widodo, il presidente indonesiano.
È qualcosa di più di una generica esortazione
alla pace.
È come un avviso dei paesi emergenti, il Sud del
mondo, alle grandi potenze: Usa/Occidente, Russia e Cina.
“Grazie,
abbiamo già dato”.
Salvo
qualche tensione nucleare, la lunga epoca della Guerra Fredda era in qualche
modo ordinata perché non prevedeva terze vie fra Usa e Urss: il resto del mondo
poteva stare da una parte o dall'altra.
Non era una scelta indolore.
La
guerra è stata fredda nello scontro ideologico diretto tra Washington e Mosca:
ma in
America Latina, Africa, Medio ed Estremo Oriente, conflitti, golpe e
rivoluzioni hanno causato milioni di morti e impedito lo sviluppo economico.
Secondo
il nostro punto di vista occidentale, l’aggressione della Russia doveva essere
portata doverosamente a Bali.
Pur
nelle sue ambiguità diplomatiche, la dichiarazione finale del G20 ne riconosce
la gravità e fa di Putin un paria della comunità internazionale.
Ma per
molti potenziali grandi del G20 è stato invece come riproporre una
continuazione della Guerra Fredda nella quale non intendono tornare.
Stati
Uniti contro Russia.
Conta
poco che oggi ci sia anche la Cina, che Pechino sia ormai molto più potente e
influente di Mosca: due o tre, è sempre uno scontro fra superpotenze con
ambizioni più ampie delle loro naturali sfere geografiche.
Lo
scorso marzo aveva fatto scalpore che all'assemblea generale dell'Onu, India,
Indonesia, alcuni altri e 17 paesi africani, si fossero astenuti dalla condanna
all'aggressione russa.
A Putin ha fatto comodo ma a chi si è astenuto
importava relativamente.
Il
voto intendeva sottolineare che quella ucraina era una guerra europea, per
quanto dalle diramazioni economiche globali.
E il fatto che avvenisse in Europa per noi era
un pericolosissimo precedente;
a loro segnalava invece un cambio di
paradigma: d'ora in poi i conflitti e le alleanze saranno mobili, relativamente
impegnative.
Il
modello più riuscito di questo nuovo sistema on demand è l'India:
qualche nemico, molti amici, nessun alleato.
Cliente della Russia per l'energia;
associato a Stati Uniti e Giappone nel
contenimento delle ambizioni cinesi sull'Himalaya;
partner della Cina nei commerci.
Anche se all'ultimo congresso del Pcc Xi
Jinping è tornato al marxleninismo, non ci sono più ideologie che impegnino; sia pure con qualche sfumatura
diversa, il libero mercato è universale.
Dunque,
non ci sono più barriere invalicabili che impediscano una geopolitica mobile.
Già il G20 è un format nato nel 1999, a Guerra Fredda
sepolta.
Tuttavia,
le tre superpotenze e la guerra in Ucraina sono comunque state le protagoniste
di questo consesso.
Quelle
che davvero lo sono – la vecchia potenza americana che non dà segni di
cedimento e la nuova cinese sempre più ambiziosa – hanno offerto segni
confortanti.
Nel
loro schietto incontro, Biden e Xi hanno riconosciuto le reciproche ambizioni e di essere legittimamente in
competizione.
È
stato come i primi faccia a faccio tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, alle
metà degli anni Ottanta. I
l loro”
agree to disagree”, riconoscere che non essere d'accordo non è un ostacolo, in pochi anni portò a intese
strepitose.
Il
passaggio a Bali della guerra in Ucraina è stato un nuovo disastro per Vladimir
Putin:
come la sconfitta militare, la presunzione di tenere
la Nato lontana dalle sue frontiere, l'irresponsabile minaccia dell'arma
nucleare.
Le dichiarazioni di Serghei Lavrov, la sua
partenza furtiva dall'Indonesia e subito dopo l'offensiva missilistica russa
sulle città ucraine, hanno costretto anche i più riluttanti a sottoscrivere la
dichiarazione finale del summit.
Se la
Cina non ha mostrato palesemente la sua insofferenza per le azioni russe è solo
perché sarebbe stato concedere una inammissibile vittoria a Joe Biden.
Ma una
Russia fuori controllo richiede con più urgenza l'uso della diplomazia per
trovare la strada fra le aspettative degli ucraini e le illusioni russe.
Il
mondo che sta crescendo è più libero ma potenzialmente più pericoloso.
(Ugo
Tramballi - Senior Advisor, ISPI)
Il
nuovo ordine multipolare di Xi.
Affarinternazionali.it
- Vittoria Mazzieri - China Files – (23 Marzo 2023) – ci dice:
Dalle
“Due sessioni”, (in cinese 两会 lianghui), gli incontri dell’Assemblea nazionale del popolo e della
Conferenza politica consultiva del popolo cinese che si sono conclusi il 13
marzo scorso, la Cina ha rafforzato la pretesa di proporsi come “potenza
responsabile”, capace di “mediare” tra attori terzi.
Lo ha già dimostrato rivendicando come un
proprio successo diplomatico l’accordo tra Iran e Arabia Saudita.
Ma il
cambio di prospettiva estera è stato sottolineato anche nel discorso tenuto da
Xi Jinping di fronte all’organo consultivo.
Alcuni
osservatori hanno evidenziato una postura più proattiva sul fronte
internazionale, che Xi ha proposto attraverso la reinterpretazione della
formula di Deng Xiaoping.
L’uomo artefice delle riforme, il “piccolo
timoniere”, incoraggiava a “osservare con calma” e “mantenere le posizioni”.
Xi,
enfatizzano i quotidiani nazionali, a “cercare attivamente il cambiamento”,
“progredire nella stabilità”, “stare uniti e osare combattere”.
In
questo scenario si iscrive la visita di tre giorni che Xi ha compiuto a Mosca,
e che si è conclusa il 22 marzo.
Un
“evento storico”, come descritto dal Quotidiano del popolo, che si configura
come una manovra diplomatica in cui Pechino rinnova il tentativo di giocare un
ruolo sulla guerra in Ucraina.
Nel secondo giorno di colloqui tra i due “cari amici”,
Vladimir Putin ha promesso di “studiare con attenzione” il “position paper” in
cui a fine febbraio la Repubblica popolare ha proposto al mondo la sua visione
sulla guerra in Ucraina (in quell’occasione definita “crisi”) e sul mondo a
venire.
Un
mondo multipolare.
“Nessun
modello di governo è universale e nessun singolo paese dovrebbe dettare
l’ordine internazionale”, si legge nell’articolo scritto da Xi per la stampa
russa poche ore prima della visita a Mosca.
Un
mondo multipolare, con Pechino che ne raccoglie i frutti.
Più
che configurarsi come un attore realmente capace di mediare il conflitto in
Ucraina, la Repubblica popolare ribadisce l’importanza della “pace e del
dialogo”.
La Cina resta “dalla parte giusta della
Storia”, come sostenuto dalla portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying
durante i colloqui Xi-Putin.
E nelle prossime ore sarebbe in programma
anche una telefonata con Volodymyr Zelensky.
Nell’articolo
riportato dai media russi precedente alla visita a Mosca, Xi Jinping ha
enfatizzato il concetto di “sicurezza collettiva “.
Non
solo, quindi, “sicurezza” come imprescindibile “fondamento dello sviluppo”, ma
anche portatrice di una valenza “globale”: l’unico approccio mediante il quale
si potrà pensare di raggiungere la risoluzione del conflitto.
Gli
Stati Uniti, invece, vengono additati per diffondere una mentalità da Guerra
fredda.
La dichiarazione congiunta che è seguita ai
colloqui tra i due leader chiama in causa il timore che Washington continui a
minacciare la sicurezza globale per “garantirsi un vantaggio militare”.
Per
risolvere la “crisi ucraina”, ribadisce il documento, è necessario “rispettare
le legittime preoccupazioni di tutti i paesi in materia di sicurezza e
prevenire la formazione di scontri tra blocchi”.
Conferme
e nuove nomine.
Quello
a Mosca è il primo viaggio fuori dai confini dopo la rielezione al terzo
mandato del presidente della Repubblica popolare.
Una
storica rielezione votata all’unanimità da membri del Parlamento il 10 marzo
scorso.
Nei
giorni successivi sono state assegnate le nuove nomine, tutte ampiamente
attese, e molte delle quali ricoperte da funzionari fedeli a Xi.
La figura più rilevante è quella dell’ex segretario di
Partito a Shanghai Li Qiang, che subentra a Li Keqiang come nuovo premier.
In un
momento caratterizzato da numerose “sfide”, dalla crisi demografica a quella
del settore immobiliare, dalla contrattura del mercato occupazionale alle
tensioni con gli Stati Uniti, Li dovrà occuparsi di rilanciare l’economia.
Ma
dopo anni in cui il suo predecessore ha visto diminuire il suo potere
decisionale, ci si chiede quale sarà la sua postura:
come
detto al “South China Morning Post” dall’analista Wu Qiang, la nomina di una
figura così vicina al leader “potrebbe dimostrare la debolezza del Consiglio di
Stato”.
Nel prossimo quinquennio, quindi, Li potrebbe operare
nient’altro che come un fedele esecutore delle politiche di Xi.
Secondo
altri osservatori, invece, proprio il suo stretto rapporto con il presidente
potrebbe consentirgli una più ampia libertà di manovra.
Qin
Gang, ex ambasciatore a Washington, è il neo ministro degli Esteri.
Il
nuovo ministro della difesa è invece Li Shangfu: ingegnere aerospaziale, membro
della Commissione militare centrale e sanzionato dagli Stati Uniti dal 2018 per
aver acquistato caccia e sistemi di difesa aerea russi.
La sua
nomina potrebbe avere un duplice significato: un messaggio a Washington sulla
volontà di non piegarsi alle sanzioni, e un segnale di sostegno a Mosca.
Zhao Leji, ex numero uno della Commissione centrale
per l’ispezione disciplinare e uomo cardine nella lotta alla corruzione, è
stato nominato a capo dell’”Assemblea nazionale del popolo”.
Riconfermato
Yi Gang come governatore della Banca centrale.
Secondo
il WALL Street Journal Yi manterrà la carica per alcuni mesi allo scopo di
garantire stabilità durante le riforme che interesseranno il settore
finanziario.
“Ottimizzare”
le istituzioni
Per
abbracciare la stabilità sul fronte interno ed esterno e trainare uno sviluppo
che sia resiliente alle sfide esterne, serve un controllo saldo dei settori
strategici.
L’atteso
piano di ristrutturazione delle istituzioni, pubblicato il 16 marzo, consentirà
al Partito di farsi carico di alcune importanti funzioni prima svolte dal
Consiglio di Stato.
Segnale, come ha scritto lo studioso di lungo
corso del contesto cinese “Bill Bishop”, che “il Partito continua a fagocitare
lo Stato”.
I
media statali ne hanno parlato come di un passo decisivo per “ottimizzare” e
migliorare l’“efficienza” delle istituzioni.
Oltre
alla ristrutturazione del ministero della Scienza e della Tecnologia, si
prevede la creazione di una Commissione centrale per la scienza e la tecnologia
sotto il controllo del Partito.
La Commissione centrale per la finanza,
invece, lavorerà insieme a un nuovo organismo statale, l’”Amministrazione
nazionale di regolamentazione finanziaria”, che avrà il compito di
supervisionare le attività bancarie e proteggere gli investitori.
Il
piano di riforma, quindi, prevede la nascita di nuovi organismi che
consentiranno un accentramento dei poteri statali nelle mani del Partito, e
velocizzeranno l’approvazione delle leggi in caso di emergenza.
Altro punto rilevante è la creazione di
un’agenzia che permetterà a Pechino di ottimizzare la raccolta e la gestione
dei dati.
Crescita
economica.
Nel
consueto rapporto che suggella l’inizio delle due sessioni, il premier uscente
Li Keqiang ha presentato le direttive economiche per l’anno a venire.
Obiettivo
ultimo, “stabilità”, parola comparsa per ben 33 volte nel discorso.
Ma
anche sviluppo: sono stati annunciati finanziamenti speciali per i settori strategici
come quello dei semiconduttori, che rispondono all’enfasi del leader sulla
necessità di perseguire l’“autosufficienza tecnologica” e uno sviluppo guidato
dall’innovazione.
Per il
2023 è stato fissato un obiettivo di crescita del Pil al 5%, di poco più cauto
rispetto al 5,5% che Pechino aveva previsto per il 2022 (anno che si è concluso con una
crescita di non oltre il 3%).
Come
chiarito nei giorni successivi dal nuovo premier Li Qiang, perseguire i nuovi
obiettivi di crescita “non sarà un compito facile”.
Li,
tuttavia, ha usato toni ottimistici su questioni che negli ultimi anni hanno
preoccupato l’opinione pubblica: la cifra record di 11,58 milioni di
neolaureati previsti nel 2023 sarà capace di portare “vitalità ed energia”
all’economia.
Rassicurazioni
anche per il settore privato: il nuovo premier ha chiarito che la Cina
proseguirà sulla strada delle riforme.
Stati
Uniti e Taiwan.
Il 7
marzo, di fronte ai membri dell’organo consultivo, Xi ha accusato gli Stati
Uniti di mettere in atto un’azione di “contenimento, accerchiamento e
soppressione” del Paese, causando “gravi sfide senza precedenti allo sviluppo”
della Repubblica popolare.
“L’accerchiamento
e la soppressione”, ha ribadito Li Qiang, “non sono vantaggiosi per nessuno”.
Affermazioni più critiche sono state
pronunciate da Qin Gang: il nuovo ministro degli Esteri ha accusato Washington
di voler deteriorare le relazioni con Pechino.
“Se
gli Stati Uniti continuano a percorrere la strada sbagliata”, ha aggiunto, “ci
saranno sicuramente conflitti e scontri”.
Parole
che hanno allarmato alcuni osservatori occidentali, che hanno riconosciuto
un’avvisaglia di uno scontro a breve termine.
Di
fatto, la Repubblica popolare ha abbracciato un trend di crescita delle spese
per il comparto militare.
Per il
2023 ci si aspetta un aumento del 7,2%, più dell’aumento del 7,1% dell’anno
precedente.
Come fatto più volte dallo stesso Xi Jinping,
a inizio delle due sessioni Li Keqiang ha avvisato l’Esercito popolare di
liberazione della necessità di aumentare la sua “prontezza a combattere”,
nell’ottica di concludere nel 2027 la fase di ammodernamento militare lanciata
nel 2015.
Come in altre occasioni, il leader ha esortato
le forze armate a diventare una “grande muraglia d’acciaio”, capace di
salvaguardare la sicurezza e gli interessi di sviluppo della nazione.
Ma ai
toni più espliciti nei confronti di Washington si è affiancata quella che Lorenzo
Lamperti nella rubrica Taiwan Files ha definito una “posizione cauta sulla
politica di Taiwan”.
Pechino
ha cercato “di sminuire le speculazioni secondo cui l’isola potrebbe diventare
la prossima Ucraina”.
Pur
facendo riferimento agli “incessanti” sforzi di promuovere la “riunificazione”
di Taipei alla “madrepatria”, Xi ha menzionato una “soluzione pacifica”,
evitando i toni aggressivi usati in altre occasioni.
Gli
obiettivi del piano per
la
nuova industria ‘verde’ europea.
Affarinternazionali.it
- Riccardo Bosticco – (27 Marzo 2023) – ci dice:
Gli
sforzi volti al contrasto dei cambiamenti climatici intersecano in misura
crescente la competizione tra grandi potenze.
Tra
gli attori più decisivi, la Repubblica Popolare Cinese, gli Stati Uniti e
l’Unione europea (Ue) si stanno muovendo per implementare una politica
climatica efficace che tenga in considerazione le rispettive priorità sul piano
strategico.
In questo quadro, gli sforzi rispettivi
riguardano anche la definizione di politiche industriali volte a produrre le
capacità necessarie nel settore delle tecnologie rinnovabili, come le batterie
elettriche e i fotovoltaici ma non solo, alla ricerca della leadership nel
settore.
Politiche
protezionistiche e competizione ‘verde.’
Da
questo punto di vista, la Cina è l’attore che pare aver agito più efficacemente.
Grazie a politiche industriali decennali e misure talvolta in contrasto con le
regole della competizione, il Paese è venuto ad occupare un ruolo dominante
nelle catene di valore verdi, specialmente nei settori delle batterie e della
mobilità elettrica, del fotovoltaico, e delle turbine eoliche.
Tuttavia,
il fatto che si trovi in una posizione vantaggiosa in un mercato in crescente
espansione contrasta con gli interessi di altre potenze.
Nell’agosto
2022, l’amministrazione americana ha approvato “l’Inflation Reduction Act”
(IRA), un pacchetto di misure che, assegnando quasi 370 miliardi di dollari al
settore verde, mira a ottenere molteplici risultati, tra cui quello di
accelerare la decarbonizzazione, aumentare la capacità di produzione domestica
delle tecnologie rinnovabili, e ridurre la dipendenza tecnologica dalla Cina.
L’IRA
amplia gli investimenti finalizzati alla riduzione delle emissioni del 40%
entro il 2030 e all’aumento degli impieghi nei settori verdi.
Inoltre, offre incentivi sostanziali agli
investimenti privati, nella forma di crediti d’imposta, che riguardano
principalmente la mobilità elettrica.
Pone,
però, come condizione agli incentivi la provenienza di materiali e batterie
elettriche dal Nordamerica e, pertanto, rischia di porsi in contrasto con
alcune regole del commercio internazionale.
Per
queste ragioni, il piano americano ha provocato critiche e accuse di
protezionismo da parte di molti paesi europei.
Ciononostante,
diverse aziende europee hanno preso in considerazione la possibilità di
trasferire la produzione oltreoceano.
L’IRA rischia infatti di disincentivare gli
investimenti verdi in Europa, spostandoli verso le più vantaggiose condizioni
offerte dagli Stati Uniti.
Un
Piano industriale verde europeo.
Di
fronte a questa possibilità, l’Ue si è attivata per formulare una risposta
adeguata.
Lo scorso febbraio, la Commissione ha
presentato il “Green Deal Industrial Plan” (GDIP) a complemento delle misure
già presenti nel quadro del Green Deal.
Il
piano, che prevede azioni di tipo regolatorio, commerciale e finanziario, ha
l’obiettivo di rendere l’Europa il primo continente a impatto zero evitando che
piani altrui, come l’IRA, ostacolino i potenziali investimenti in Europa, e
riducendo la crescente dipendenza europea dalla Cina.
Aggiungendosi
ad altri strumenti finora utilizzati, come i “Progetti di Interesse Comune”,
canali di finanziamento che passano per la “Banca Europea degli Investimenti” e
i sussidi in seno agli Stati membri, il GDIP mira a velocizzare l’approvazione
dei progetti relativi alle tecnologie verdi all’interno del mercato europeo,
accelerare gli investimenti ed i finanziamenti nel settore, e accrescere la
sicurezza delle relative catene di approvvigionamento.
Infine,
dopo la loro introduzione nella giornata di martedì 16 marzo, al GDIP sono
annessi il “Critical Raw Materials Act”, volto a garantire l’approvvigionamento
di minerali critici per la produzione delle tecnologie, e il “Net-Zero Industry
Act” (NZIA), il quale definisce l’obiettivo di soddisfare attraverso la
produzione domestica il 40% della domanda di tecnologie pulite entro il 2030 e
ridurre la dipendenza dalle importazioni “Cleantech” dalla Cina.
Tuttavia,
secondo Bruegel, l’NZIA mantiene una certa ambiguità e rimane da valutarne la
consistenza con le disposizioni del commercio internazionale.
Tra
geoeconomia e transizione energetica.
Il “tit-for-tat”
nell’ambito degli incentivi alla produzione “cleantech” di cui finora si è
parlato si inserisce in un quadro più ampio e frammentato.
La
rivalità sino-americana in atto ormai da tempo e l’attuale guerra in Ucraina
indicano infatti uno stato degli affari internazionali poco stabile e
prevedibile, comportando inevitabili diffidenze e contrasti.
Servendosi
della teoria geoeconomica, è possibile spiegare come strumenti di natura
economica – come dazi, sussidi, accordi commerciali, ma anche forme di politica
industriale – possano essere utilizzati a fini di natura geostrategica,
seguendo una logica di guadagni relativi, per cui un’azione che avvantaggia X
corrisponde ad una situazione svantaggiosa per Y nel medio-lungo termine.
L’IRA
cadrebbe in questa categorizzazione poiché limita i sussidi secondo “local-content
requirements” – ossia, pone come condizione ai finanziamenti la provenienza di
tecnologie e materiali dal Nordamerica – e li giustifica con la necessità di
migliorare le capacità produttive americane e ridurre la crescente fetta di
mercato occupata dalla Cina.
Allo stesso modo, il GDIP può rappresentare
una soluzione di carattere geoeconomico all’IRA, dal quale l’UE è impattata in
modo negativo, e alla crescente dipendenza dalle tecnologie di provenienza
cinese.
D’altro
canto, il Covid-19 prima e la guerra russa in Ucraina poi, hanno evidenziato la
vulnerabilità delle catene di approvvigionamento ed il loro potenziale impiego
a fini strategici;
per questo motivo, evitare nuove forme di
interdipendenza con partner ambigui è più necessario che mai.
Ma
come conciliare queste priorità con un’efficace azione climatica globale che
vada al di là della competizione strategica?
Le
priorità dell’Ue
Idealmente,
la decarbonizzazione dell’economia dovrebbe avvenire con efficienza e rapidità,
ma l’adeguamento a forme di rivalità strategica intralcia tale percorso,
impedendo un’attenzione esclusiva agli obiettivi climatici.
Le
azioni utili a garantirsi la leadership nei settori chiave della transizione e
a proteggersi dalla vulnerabilità dei rischi presenti lungo le catene di
valore, infatti, complicano i calcoli della decarbonizzazione e rischiano di
minarne il percorso.
In
questo quadro, l’Unione europea deve mostrarsi pronta a perseguire azioni
illecite da parte degli altri attori internazionali e costruire catene di
valore resilienti ad ogni eventualità, per cui è fondamentale scegliere
attentamente i partner strategici, monitorare più intensamente i rischi
presenti lungo “le supply chains”, e costruire un sistema di diversificazione
delle fonti di approvvigionamento efficace.
Dall’altro
lato, però, “la leadership climatica europea” dovrebbe evitare di ridurre le
relazioni internazionali ad una pura logica di guadagni relativi, costruendo
una strategia che, contemporaneamente, protegga il mercato da azioni illecite e
accresca la cooperazione tra attori diversi ai fini della decarbonizzazione.
Per
esempio, l’UE dovrebbe evitare i cosiddetti” local-content requirements”, che
esacerberebbero dinamiche protezionistiche, e altre forme di elusione delle
regole del commercio internazionale.
Nel
lungo periodo, è necessario che compia investimenti di scala, garantisca la
predicibilità delle azioni a tutti gli attori economici, semplifichi
ulteriormente i processi di approvazione e finanziamento dei progetti, e
costruisca un finora assente piano di investimenti europeo che dimostri la
capacità europea di guardare al lungo periodo e, allo stesso tempo, di agire
concretamente su di esso.
In
sostanza, l’Ue dovrebbe mantenersi leale a due priorità:
la prima e imprescindibile, la
decarbonizzazione dell’economia; la seconda, la costruzione di una leadership europea che
superi le dinamiche competitive che caratterizzano lo stato attuale delle
relazioni internazionali.
Solo
allora sarà possibile rendere strategie come il GDIP coerenti con una
leadership che vada oltre alla progressiva frammentazione dell’ordine mondiale.
BRICS
e nuovo ordine mondiale.
Parla
Marco Ricceri.
Ytali.com - ANNALISA BOTTANI – (7 Febbraio
2023) – ci dikce:
Interpretare
i nuovi scenari e le nuove alleanze definiti anche a seguito dell’invasione
dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Questa è l’importante sfida da
cogliere per comprendere le prospettive
di breve e medio periodo e le dinamiche che
caratterizzeranno l’assetto internazionale.
In
tale contesto, il coordinamento BRICS riveste un ruolo strategico, anche alla
luce del suo futuro ampliamento.
Ne
abbiamo parlato con il Professor Marco Ricceri, “segretario generale
dell’Istituto di studi e ricerche Eurispes” ed esperto di politiche sociali e
del lavoro europee.
“Una
realtà strutturale, non congiunturale ed effimera”, così ha definito i BRICS
nel corso della sua ultima conversazione con ytali.
A
distanza di quasi tre anni, lo scenario politico mondiale è radicalmente
cambiato, dalla diffusione della pandemia alla crisi economica globale,
dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa a nuovi
disequilibri geopolitici che si stanno intensificando con il passare dei mesi,
anche a fronte del rifiuto russo di cessare le ostilità.
A suo
avviso, quali sono i fenomeni cruciali emersi in questi tre anni nell’ambito
dei BRICS, che valgono ormai circa un quarto del Pil mondiale?
Con i
BRICS siamo di fronte a un coordinamento importante tra Stati che svolgono un
ruolo di primo piano sulla scena internazionale e che, contrariamente a molte
previsioni, è riuscito a mantenersi attivo e consolidarsi in questi anni,
intensificando – questo è il punto da sottolineare – sia la cooperazione
interna sia la cooperazione esterna.
È sufficiente esaminare i progetti e le
iniziative comuni promossi con gli ultimi vertici nei più diversi ambiti di
attività per avere un’idea precisa di questo processo di consolidamento interno
ed esterno.
Come
noto, i vertici degli ultimi anni – Mosca 2020, New Delhi 2021, Pechino 2022 –
sono stati preparati e seguiti da numerosi incontri ai più diversi livelli, da
quelli ministeriali a quelli di esperti, operatori economici, accademici e
altro, che hanno disegnato e definito precise linee di cooperazione.
A
titolo di esempio, si può citare il programma strategico di Partenariato
Economico 2025 che ha individuato le aree di maggior intervento, dall’energia
all’industria, dal digitale all’agricoltura, dal commercio ai servizi.
Nella
proiezione esterna il coordinamento BRICS ha rilanciato i due progetti, BRICS
Plus e BRICS Outreach, anche per rispondere alle richieste di adesione e/o di
collaborazione con il raggruppamento che sono pervenute da numerosi Stati di
diversi continenti, dall’America Latina all’Africa, dalla realtà mediterranea
al Sud-Est asiatico.
BRICS+186
Paesi.
L’ultimo
summit virtuale a guida cinese svoltosi a giugno dello scorso anno, secondo
alcuni analisti, è stato una preziosa occasione per la Cina, che ha un ruolo
predominante in termini economici, per delineare la proposta di un nuovo
assetto multipolare che possa coinvolgere ulteriori Paesi in via di sviluppo
(tra cui Argentina, Iran e Algeria che hanno già formalizzato la richiesta di
adesione ai BRICS) e porsi quale alternativa ad alcuni soggetti politici
occidentali (il G7, ad esempio).
Il
vertice G20, tenutosi a Bali a novembre del 2022, tuttavia, non si è
focalizzato solo sul confronto tra superpotenze, ossia Cina e Stati Uniti.
Altri
Paesi membri (ad esempio, Brasile, India, Indonesia, Messico, Arabia Saudita,
Sudafrica e Turchia), infatti, hanno richiesto il riconoscimento delle proprie
istanze, manifestando la necessità di portare avanti la propria agenda, a
prescindere dalle pressioni internazionali e dal conflitto in Ucraina,
considerato una “distrazione dalla sicurezza e dallo sviluppo economico”.
Come
ha influito l’esito di questi due vertici sui rapporti tra i Paesi BRICS e
sull’implementazione delle progettualità congiunte?
Per
capire l’impatto di questi due vertici – quello BRICS svoltosi a Pechino a
giugno del 2022 e quello del G20 a Bali, in Indonesia, a novembre dello stesso
anno, sui rapporti tra gli Stati del raggruppamento, bisogna riflettere su un
dato importante di premessa: fin dalla loro costituzione formale nel 2009 e poi
nel corso di tutti gli anni successivi i BRICS si sono sempre posti come
riformatori, non come distruttori dell’ordine globale esistente e del relativo
sistema di governance;
ad
esempio, hanno sempre riconosciuto il ruolo centrale delle Nazioni Unite e di
altre istituzioni internazionali quali lo stesso Fondo Monetario e
l’Organizzazione mondiale del commercio, di cui ovviamente chiedono una
riforma.
Anche
al vertice informale del G20 a Bali, i BRICS hanno riconosciuto esplicitamente
il ruolo del G20 quale principale strumento economico per la costruzione di un
modello più equilibrato e valido di sviluppo globale.
Questa
posizione BRICS è stata confermata anche negli ultimi incontri, cioè in una
fase segnata dall’emergere di un processo inatteso di polarizzazione del
sistema internazionale segnato da forti e crescenti tensioni e conflitti, com’è
la guerra in Ucraina.
Gli Stati BRICS presentano indubbiamente degli
elementi di grande diversità tra loro, sul piano politico, economico,
culturale, sociale, con tutti gli effetti che questa situazione comporta nel
loro sistema di rapporti.
Ma ciò
non toglie che riescano a mantenere fermo il loro obiettivo strategico di
riforma del sistema di governance globale per la costruzione di un
multilateralismo più equilibrato, in grado di correggere i grandi squilibri che
pesano sulla vita della maggioranza della popolazione mondiale.
Il
quartier generale dei BRICS e della New Development Bank si trova a Shanghai.
Ritiene
che l’avvio del processo di “de-dollarizzazione” del mercato finanziario
globale e, dunque, di una fase post Bretton Woods, auspicato da alcuni Paesi,
sia un obiettivo concreto oppure si è ancora molto lontani da una variazione,
anche minima, dell’ordine attuale?
Questo
è uno degli aspetti più significativi della cooperazione BRICS.
Leggendo
i progetti in corso di attuazione, ci si rende ben conto dei passi avanti
concreti che stanno facendo per costruire un loro originale sistema monetario
per contribuire – questo è il punto che evidenziano – a una maggior stabilità
ed equilibrio dei mercati finanziari mondiali.
I
BRICS stanno procedendo nella formazione di una loro valuta comune, di comuni
riserve di investimento, nel moltiplicare gli accordi reciproci riguardo
all’impiego delle valute nazionali, un passaggio quest’ultimo che è visto con
particolare favore anche da molti Stati esterni al coordinamento, emergenti e
in via di sviluppo.
Oltre alla loro banca di sviluppo – NDB – e al
Fondo di Riserva – CRA, negli ultimi tempi i BRICS hanno creato diversi
organismi importanti come l’Insurance Pool, il BRICS Exchange Alliance, hanno
elaborato uno specifico programma di supporto alle relazioni commerciali
denominato “Promozione commerciale finanziaria”, un programma per le operazioni
speciali legate alle attività di esportazione-importazione etc.
Certo
un impulso forte a intensificare le iniziative in questa direzione è venuto
dalle tensioni emerse sulla scena internazionale, dalle sanzioni occidentali
alla Russia alla caduta di molti elementi di fiducia tra i principali attori
dello sviluppo mondiale.
Vorrei
soffermarmi brevemente sul ruolo dell’India.
Secondo
quanto riportato dal New York Times, in base ad alcune previsioni
“ottimistiche”, il Paese, ora al quinto posto, sarà la terza economia mondiale
entro il 2030, dopo Stati Uniti e Cina.
Secondo il ministro degli Esteri indiano, a
causa dell’impatto determinato dalla guerra in Ucraina, l’ordine mondiale,
ancora profondamente occidentale, sarà sostituito da un mondo basato sul
“multiallineamento”, ove i Paesi potranno scegliere di perseguire le proprie
politiche e i propri interessi.
Malgrado
le recenti dichiarazioni del primo ministro Narendra Modi sulla guerra in
Ucraina (“Now is not the time for war”), l’India ha mantenuto, comunque,
stretti rapporti politici, economici e militari con la Russia, consolidando,
nel contempo, l’alleanza con Stati Uniti e Giappone nell’ambito del piano
strategico dell’Indo-Pacifico (l’Indo-Pacific Economic Framework), anche in
un’ottica di contenimento del dominio cinese. Considerata la posizione di India
e Cina, come potranno coesistere tali istanze nell’ambito della realtà dei
BRICS?
In
occasione dell’ultimo summit (Pechino, giugno 2022), il premier indiano Modi,
dopo aver sottolineato che, a causa del Covid, questo era il terzo vertice
svolto in videoconferenza, ha dichiarato: “Noi, Paesi membri dei BRICS, abbiamo
una visione simile sulla governance dell’economia globale.
E di
conseguenza la nostra reciproca collaborazione può dare un utile contributo
alla ricostruzione globale post-Covid”.
Quindi, ha richiamato il fatto che, nel corso
degli anni, “abbiamo fatto un notevole numero di riforme istituzionali nei
BRICS che hanno aumentato l’efficacia dell’organizzazione.
È un
elemento di soddisfazione che, ad esempio, sia aumentato il numero dei soci
della nostra nuova Banca di Sviluppo”, che “la nostra reciproca collaborazione
sia aumentata in molte aree” come, ha citato tra le altre, “il coordinamento tra
i dipartimenti doganali”, “la creazione di un sistema satellitare condiviso”.
La
soddisfazione per il progresso dei BRICS espressa dal primo ministro indiano
Modi e il suo impegno attivo nel coordinamento possono anche sembrare in
contraddizione con la partecipazione dell’India ad altri diversi organismi di
coordinamento internazionale.
In
effetti, a ben riflettere, non lo sono, poiché gli assi strategici della
politica BRICS riguardano la riforma del sistema di governance mondiale e lo
sviluppo della cooperazione reciproca orientata a promuovere gli interessi dei
singoli Stati membri. Rispetto a questi obiettivi, che sono stati definiti
primari, i BRICS hanno classificato come di rilevanza secondaria le questioni
aperte tra i singoli membri. È il caso delle tensioni tra India e Cina sul
confine del Pakistan.
Un
ultimo aspetto da non sottovalutare riguarda il fatto che l’India, secondo le
previsioni Onu, in questo 2023 dovrebbe superare la Cina per numero di
abitanti, raggiungendo 1,43 miliardi di persone, diventando così il Paese più
popoloso del mondo; che la forza lavoro indiana (persone dai 15 ai 64 anni)
aumenta ogni anno di almeno 10 milioni di unità, che la popolazione indiana ha
un’età media di 27 anni, mentre quella cinese è di 39.
Anche
questo richiamo dovrebbe aiutare a riflettere meglio perché le istanze dei
BRICS e dell’India al suo interno trovano un impulso importante anche in questi
processi di cambiamento demografico, ben diversi, ad esempio, da quelli in atto
nel nostro sistema europeo.
Passiamo
ora alla Russia.
A
seguito dell’invasione dell’Ucraina, il Cremlino, stretto nella morsa
dell’isolamento internazionale e delle sanzioni, ha messo in campo le proprie
strategie di soft power per fomentare il risentimento di alcuni Paesi del Sud
America, dell’Africa e dell’Asia che non si sentono adeguatamente rappresentati
nell’ambito dell’assetto geopolitico attuale, con l’obiettivo di creare, in
un’ottica “anticolonialista” (un termine ormai presente nella narrazione
putiniana), un fronte antioccidentale.
In tal senso, la transizione verso i BRICS
Plus potrebbe essere l’occasione per raggiungere tale obiettivo.
Su
quali ambiti, a suo avviso, punterà il Cremlino per costruire una base
progettuale utile non solo nell’ambito dei BRICS, ma anche della politica
interna?
Francamente
non ho elementi per valutare lo stato e gli orientamenti dell’attuale politica
interna della Russia.
Registro
piuttosto il fatto che numerosi progetti portati avanti concretamente dal
coordinamento BRICS sono di supporto agli interessi nazionali di quel Paese,
come degli altri Stati membri: mi riferisco ai piani di investimenti nelle
infrastrutture, nell’energia, alla discussione in corso tra i presidenti delle
banche centrali BRICS sull’organizzazione di un sistema di pagamento comune,
con riferimento a un’unica valuta convertibile.
Dai
documenti ufficiali si apprende che si sta discutendo anche del possibile nome
da dare a questa unità monetaria, la nuova moneta dei BRICS: “RULIND” oppure
“R5” con riferimento alle iniziali delle monete dei cinque Stati membri.
Poi vi
è un altro elemento da valutare con attenzione: la Russia è stata uno dei due
principali promotori, insieme alla Cina, del coordinamento BRICS avviato nei
primi anni Duemila.
Fin
dall’inizio l’esigenza di tutela degli interessi nazionali si è combinata con
quella dell’organizzazione di un diverso, più equilibrato multilateralismo.
Queste
due esigenze sono valide anche nella situazione attuale.
Una
situazione che registra, da un lato, il procedere dei processi di
globalizzazione, sia pur con modalità del tutto diverse anche dal recente
passato, e, dall’altro, l’emergere di richieste sempre più chiare e incisive da
parte delle realtà emergenti che soffrono maggiormente gli effetti degli
squilibri generati dall’unilateralismo. Insomma, sempre più diffusa è la
domanda di una vera riforma dell’ordine globale, testimoniata dal moltiplicarsi
di nuovi organismi di coordinamento regionali (si pensi al caso del MITKA) o
del rilancio di quelli già esistenti.
In queste condizioni, non vedo il formarsi di
una “piattaforma antioccidentale” da parte della Russia, perché i BRICS sono
strettamente intrecciati all’Occidente.
Vedo
piuttosto un gran problema aperto che riguarda tutta la comunità
internazionale: saper affrontare e risolvere la suddetta riforma, con lo stesso
impegno, ad esempio, con cui si è arrivati a definire in sede Onu una valida
strategia per lo sviluppo sostenibile condivisa da tutti gli Stati membri.
Xi
Jinping visita il comando centrale dell’esercito popolare cinese, 28 gennaio
2022.
L’ampliamento
della realtà BRICS dovrà procedere necessariamente per step.
Si tratta di stabilire non solo lo status dei
nuovi membri (osservatore e altri ruoli intermedi), ma anche i rapporti con la
banca di riferimento (la New Development Bank), armonizzando gli obiettivi e le
esigenze di Paesi alquanto eterogenei in termini socioeconomici, politici e
culturali.
Senza
dimenticare i Paesi che hanno manifestato l’interesse ad aderire, tra cui
l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto e l’Indonesia, solo per citarne alcuni.
Quali saranno i requisiti per l’adesione e il
modello di governance previsto?
Il
rilancio delle strategie BRICS Plus (nuovi membri) e BRICS Outreach
(ampliamento della cooperazione esterna) coglie un’esigenza diffusa nelle
realtà emergenti del mondo.
Questo
è il dato su cui riflettere.
All’interno dei BRICS la discussione, molto
viva, verte sull’approccio da seguire nelle future adesioni: quale tipo di
adesione promuovere, quale nuovo assetto istituzionale assumere, quale sistema
decisionale?
All’esterno
della realtà del coordinamento si diffondono le richieste di collaborazione e
di adesione ai BRICS, sintomo di un interesse e di bisogni diffusi
insoddisfatti, cui le istituzioni tradizionali non sembrano in grado di dare
adeguate risposte.
Due esempi, per maggiore chiarezza: cosa può significare
per i futuri orientamenti di sviluppo dell’America Latina il fatto che, oltre
al Brasile, membro fondatore dei BRICS, anche l’Argentina, di recente, ha
maturato la richiesta di adesione al coordinamento?
Situazione
simile si registra nell’area mediterranea ove tre Stati importanti – Turchia,
Egitto e, di recente, Algeria – hanno chiesto di entrare a far parte dei BRICS.
Sono scelte importanti che rappresentano in
fondo un voltare le spalle all’Unione europea.
Certo
i rapporti bilaterali tra gli Stati del Mediterraneo continueranno a mantenersi
e ad approfondirsi, come è emerso anche con le recenti iniziative dell’Italia.
Ma
sarebbe davvero miope non cogliere il significato anche politico delle scelte
dei suddetti Stati in favore dei BRICS.
Penso
che, in ambito Ue e dell’Unione per il Mediterraneo UpM, sarebbe quanto mai
opportuna una riflessione approfondita sulle vere ragioni di queste scelte che
incideranno su tutta l’area, che è anche di primario interesse per l’Italia.
Cyril
Ramaphosa, è presidente del Sudafrica.
Quest’anno
la presidenza del coordinamento dei BRICS spetta al Sudafrica.
Quale ruolo svolgerà il Paese nella gestione
ordinaria delle principali iniziative in programma e, allo stesso tempo, delle
gravi criticità – in primis, il conflitto in Ucraina – che il sistema
internazionale sta affrontando in questa fase?
Il
Sudafrica ha espresso con molto chiarezza gli obiettivi della sua presidenza
BRICS 2023.
Sul
piano interno, poter usufruire della cooperazione degli altri Stati BRICS per
sostenere con adeguate iniziative commerciali e di investimenti il proprio
Piano Nazionale di Sviluppo.
Sul
piano regionale, con riferimento al continente africano, impegnare i BRICS nel
sostegno alle iniziative dell’Unione Africana (UA), il principale organismo di
coordinamento del continente, e soprattutto al suo programma strategico
dell’Agenda 2063.
In sostanza, creare una sinergia stretta
BRICS-Africa.
Sul
piano internazionale, promuovere con i BRICS l’Agenda del Sud Globale (Global
South), collegando questo impegno al raggiungimento degli obiettivi dello
sviluppo sostenibile enunciati dall’Agenda 2030 dell’Onu.
A
livello globale, infine, premere nelle sedi internazionali per garantire una
rappresentanza adeguata ai Paesi emergenti e in via di sviluppo e una loro
adeguata partecipazione alla governance dei processi globali.
Il
neopresidente brasiliano Lula Inácio da Silva ora accetta le credenziali
dell’ambasciatore di Cina a Brasilia Zhu Qingqiao
Nel
2015 l’Eurispes ha istituito un laboratorio dedicato ai BRICS.
Su quali progetti è impegnato attualmente?
La crescente repressione messa in atto dal
Cremlino, la transizione verso una forma di governo che è possibile definire
“totalitarismo ibrido” e la militarizzazione della società consentono ancora di
avviare un dialogo con le istituzioni del Paese?
Il
Laboratorio sui BRICS di Eurispes è un organismo aperto di riflessione e studio
cui partecipano, su base volontaria, esperti e accademici delle più diverse
discipline. È un organismo scientifico e culturale, non politico
.
Abbiamo preso spunto per questa iniziativa da una riflessione di Romano Prodi,
già presidente della Commissione europea, il quale segnalò che il Mediterraneo,
area di primario interesse per l’Italia, non era più da considerare un “Mare
nostrum” perché i maggiori processi di cambiamento facevano riferimento a Stati
esterni, appartenenti al coordinamento BRICS, in primis Cina e Russia.
Da qui
lo spunto ad approfondire la natura, gli obiettivi, le politiche di questo
coordinamento poco conosciuto, un’analisi che si è sempre più estesa
all’impatto dei BRICS nelle aree e nei settori internazionali su cui gravita
anche l’interesse del nostro Paese.
Il nostro approfondimento sul tema ha
suscitato un crescente interesse, in Italia e all’estero, e la notevole
partecipazione di esperti qualificati.
Siamo,
quindi, di fronte a un’iniziativa di carattere scientifico.
Di
fronte alla guerra in Ucraina, Eurispes, fin dall’inizio, ha preso una
posizione molto netta e chiara di condanna della guerra e dell’aggressore
russo, com’è testimoniato anche dalle considerazioni generali del presidente Fara
pubblicate nell’ultimo Rapporto Italia 2022.
Mi permetto di aggiungere al riguardo una
riflessione strettamente personale, che non coinvolge minimamente l’Istituto e
che ispira il mio impegno.
Ogni giorno in Ucraina muore gente.
Di
fronte a questa realtà mi devo spogliare di ogni sovrastruttura di pensiero e
cercare l’essenziale: come contribuire a fermare questa tragedia?
Politica? Economia? Armi? Sanzioni?
Diplomazia?
Mi
sembra che finora queste aree di intervento non abbiano funzionato.
Può servire mantenere aperti i canali della
collaborazione culturale e scientifica?
Sono i
canali che parlano alle coscienze delle persone e forse è questa la sola strada
da percorrere, nelle attuali condizioni.
La
cultura e la scienza esprimono valori universali;
prospettano
linee di progresso condiviso: altrimenti non possono essere definite tali.
Chi
riceve il frutto delle nostre analisi e riflessioni può essere indotto a
riflettere sul valore di scenari alternativi a quello della guerra, può riflettere
e agire nel suo ambito di responsabilità e di azione per bloccare questa
tragedia quotidiana.
È una
possibilità, non una certezza, ma, comunque, è una via da percorrere.
Penso
che sia un dovere, anche etico, lasciarla aperta.
In
questa direzione si è espresso chiaramente anche il presidente Mattarella che
ha richiamato l’importanza di mantenere aperti i canali degli scambi culturali
e scientifici, come strumenti di pace.
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