CONTROLLANO “DAVOS” E TUTTO IL MONDO OCCIDENTALE.

 

CONTROLLANO “DAVOS” E TUTTO IL MONDO OCCIDENTALE.

 

 

Davos, la vergogna dei più ricchi

e incapaci del pianeta.

 

Remocontro.it - Ennio Remondino – (17 Gennaio 2023) – ci dice:

  Un pianeta di sempre più ricchi e di sempre più poveri, e anche se sei un relativamente povero tra i ricchi ma se sei ancora una persona per bene, la cosa un po’ ti dovrebbe indignare.

Almeno il tempo di quello che a catechismo ci avevano insegnato come ‘esame di coscienza’.

Ma a Davos, “World Economic Forum”, l’esame di coscienza non è in programma, e la diseguaglianza sempre meglio organizzata e non conosce crisi.

Il nuovo rapporto di Oxfam all’apertura del “World Economic Forum” a Davos.

Sempre più ricchi e sempre più, molto più poveri.

La pandemia, i cambiamenti climatici, il caro energia e l’inflazione hanno prodotto pochi ‘grandi ricchi’ e moltiplicato i ‘sempre più ricchi’, ma senza esagerare. Assieme a molti poveri, e ai sempre più poveri.

 È quanto emerge dal rapporto Oxfam «La diseguaglianza non conosce crisi», pubblicato – come di consueto – all’apertura del World Economic Forum (Wef), a Davos, sulle Alpi svizzere, che già la località prescelta la dice lunga, che Cortenina D’Ampezzo passa per località da turismo popolare.

‘Cooperazione’ dove ognuno corre per sé.

Oltre 2700 i partecipanti, tanti economisti che le crisi spesso le causano e poi le analizzano, una cinquantina di Capi di Stato, ma quasi nessuno tra quelli che veramente contano e poi deludono, e poi ‘aria fritta’.

Ah, scusate, dimenticavamo il presidente ucraino Zelenzky in video, che non può mancare a nessun meeting, visto che trova persino il tempo di andare da Bruno Vespa a Porta a porta.

Colpevoli e anche pessimisti.

Ad eccezione del Cancelliere tedesco Olaf Scholz, non sarà presente nessun leader del G7, visto che di Grandi s’è persa la misura politica e visto che le aspettative sono basse, brutte, quasi pessime, e non fa bene mostrarsi al proprio elettore dove si parla di «recessione globale, mentre l’economia continuerà ad essere segnata dalle tensioni geopolitiche».

Per fortuna i ‘super-ricchi’ –informa Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam– hanno superato ogni record nei primi due anni della pandemia, inaugurando quelli che potremmo definire i «ruggenti anni ’20’ del nuovo millennio».

E noi siamo felici.

Globalizzazione in crisi?

Un mondo frammentato da guerra, nazionalismi e tensioni geopolitiche crescenti, ma ora i protagonisti di gran parte di queste disgrazie provano a dirci come forse ne usciremo, ovviamente dopo che tutti noi avremo pagato un prezzo molto salato.

 E visto che le disgrazie non vengono mai sole, il” World Economic Forum” ci avverte che dobbiamo prepararci, oltre che alla recessione globale nel 2023, anche a un disordine mondiale’, che sta trasformando la globalizzazione come l’avevamo conosciuta finora.

La colpa fu del rosso fiorellin

Non solo colpa della guerra della Russia -oggi assente per castigo- e neppure le barriere commerciali fra Stati Uniti e Cina, e della gara perversa tra Bruxelles e Washington che si scontrano (facendo finta di non farlo) su chi sussidia di più la propria industria per far andare a picco quella dell’amico concorrente.

 Colpa di chi manca?

Sarà per questo che al vertice di quest’anno nelle Alpi svizzere fanno più rumore gli assenti dei presenti:

mancano gli oligarchi russi, il presidente americano Joe Biden e il cinese Xi Jinping, come pure il francese Emmanuel Macron, il premier britannico Rishi Sunak, il canadese Justin Trudeau e il rieletto leader brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva.

Per fortuna gli amati miliardari …

In compenso, sulla lista degli invitati ci sono oltre 100 miliardari, rappresentanti sauditi e degli Emirati Arabi, innumerevoli Ceo e operatori finanziari di WALL Street.

Con la politica che formalmente decide, quasi assente.

Sospetto di codardia, il nostro, condiviso da chi, anche in Oxfam, ritiene che la loro assenza sia una dimostrazione di come l’economia globale non sia più materia su cui i capi di stato hanno il controllo, ormai esercitato da un ristretto manipolo di privati che noi non siamo chiamati ad eleggere.

Anzi, che in gran parte, neppure conosciamo.

Disuguaglianze favorite dal fisco?

I numeri parlano chiaro.

Dal 2020 l’1% dei più ricchi si è accaparrato quasi il doppio dell’incremento della ricchezza netta globale, rispetto al restante 99% della popolazione mondiale.

 Le fortune dei miliardari crescono alla velocità di 2,7 miliardi di dollari al giorno, mentre almeno 1 miliardo e 700 milioni di lavoratori vivono in paesi in cui l’inflazione supera l’incremento medio dei salari.

Quando il povero non servirà più neppure come forza lavoro.

Intanto i governi delle regioni più povere spendono oggi quattro volte di più per rimborsare i debiti rispetto a quanto destinano per la spesa pubblica in sanità.

 Col risultato che ogni quattro secondi una persona muore per mancanza di accesso alle cure, per gli impatti della crisi climatica, per fame, per violenza di genere.

Ovviamente, ‘Ça va sans dire’, il debito degli ultra poveri e con gli ultra ricchi.

Sempre meno tasse per i ricchi.

Come il malvagio delle favole, anche quello vera ama esagerare.

E dopo decenni di tagli alle tasse sui più ricchi, una tendenza che si traduce in povertà, migrazioni, conflitto sociale e crisi delle democrazie, basterebbe un’imposta del 5% sui grandi patrimoni «potrebbe generare per la lotta alla povertà affrancando dalla povertà fino a 2 miliardi di persone».

Ma noi siamo adulti e non crediamo più alle favole.

“World Economic Forum”, massoneria per ricchi.

«La percezione popolare è che il WEF sia un’organizzazione segreta e sinistra simile a qualcosa uscito da un romanzo di James Bond», si lascia scappare Larry Elliott sul “Guardian”.

A Davos solo passerella, dove non c’è nessuno tra quelli che alla fine decidono, salvo quei 100 miliardari di cui abbiamo detto.

Mentre qualcuno opportunamente ricorda che la prima Grande Guerra in Europa viene combattuta a poco più di duemila chilometri dalle piste innevate di Davos.

 

 

 

 

IL ‘NUOVO MONDO’ DI DAVOS:

 DALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA

 AL CONTROLLO SOCIALE?

 Centrostudilivatino.it – Maurizio Milano – (DIC 21, 2021) – ci dice:

Secondo Klaus Schwab, fondatore ed Executive Chairman del World Economic Forum (WEF) di Davos, il paradigma sociale ed economico dominante nel secondo dopoguerra, in crisi già da alcuni decenni, è giunto oramai al punto di non-ritorno.

Solo la conversione dallo “shareholder capitalism” allo “stakeholder capitalism del XXI secolo” potrà consentire alle “società capitalistiche di sopravvivere e prosperare nell’attuale era, caratterizzata da cambiamento climatico, globalizzazione e digitalizzazione”.

 La “soluzione” proposta, tuttavia, va nella direzione opposta a quella desiderabile, aggravando ulteriormente i mali che si pretenderebbe voler curare.

1. Nel suo recente libro Stakeholder Capitalism: “A Global Economy that Works for Progress, People and Plane”t, il prof. Klaus Schwab afferma che il modello sociale, economico e politico attuale è giunto al capolinea.

 Secondo il leader del WEF, le prime avvisaglie di tale crisi erano già evidenti negli anni 1970, a partire dal “Rapporto Meadows del 1972”, commissionato dal “Club di Roma» di Aurelio Peccei, che individuava i “limiti dello sviluppo” nella crescita “eccessiva” della popolazione rispetto alle risorse disponibili.

 I documenti e i programmi dell’ultimo mezzo secolo, concretizzatisi nelle varie Conferenze dell’ONU incentrate sul cosiddetto “sviluppo sostenibile” – dal “Rapporto Brundtland” della “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo” (WCED) del 1987 (in cui venne introdotta la nozione di “sostenibilità”) fino ad arrivare all’”Accordo di Parigi” sul clima nel 2015 con l’approvazione dell’”Agenda Onu 2030“, nella quale sono definiti “17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile” – hanno portato avanti una visione neo-malthusiana, in cui il focus iniziale sull’inadeguatezza delle risorse a sostenere il modello di crescita economica si è progressivamente spostato sui “presunti effetti negativi dell’uomo sull’ambiente.

A partire dal 1996, introdotta da “Mathis Wackernagel” e da “William Rees”, si è diffusa, infatti, l’ipotesi della cosiddetta “impronta ecologica “, che misurerebbe l’impatto negativo dell’uomo sulla Terra mediante un complesso indicatore aggiornato periodicamente dal WWF a partire dal 1999.

Per l’ideologia “verde” oggi dominante, la popolazione è indubbiamente considerata come la principale minaccia per la “salute” stessa del pianeta, anche al di là del solito tema dei presunti squilibri tra crescita della popolazione e risorse disponibili.

Il concetto di “sostenibilità” si inscrive quindi all’interno di un quadro di riferimento culturale che viene da molto lontano, ostile alla vita e alla famiglia naturale, anche se, ovviamente, non tutti ne sono consapevoli.

 Benedetto XVI, in “Caritas in veritate”, non parlava mai di “sviluppo sostenibile” bensì di “sviluppo umano integrale” che poi, in fondo, è l’unico sviluppo davvero “sostenibile”, anche sul piano materiale.

 L’invecchiamento demografico congiunto al crollo della natalità, infatti, comporta dei progressivi problemi di “sostenibilità” a livello economico e sociale a causa dei crescenti costi – sanitari, previdenziali ed assistenziali – che si scaricano su una popolazione in età lavorativa in costante contrazione.

Un rischio che persino la Cina ha compreso, introducendo a fine maggio 2021 la possibilità per le famiglie di avere fino a tre figli:

 è certamente la solita visione statalista e ideologica che considera le persone come una “massa” da manovrare a seconda dei mutevoli interessi economici e politici, ma comunque un segno evidente di come il “reale” alla lunga si imponga sempre sull’ideologia.

2. Schwab si focalizza poi sulla svolta definita come «neo-liberista», iniziata negli anni 1980 con la “Reaganomics e il “Thatcherismo”, incentrata “maggiormente su fondamentalismo del mercato e individualismo e meno sull’intervento statale o sull’implementazione di un contratto sociale”, giudicandola “un errore”.

 Egli afferma che il modello dominante – che definisce “sthareholder capitalism” perché la responsabilità delle imprese è limitata alla produzione di utili per gli azionisti, senza ulteriori implicazioni “sociali” – dev’essere urgentemente superato nella direzione di quello che definisce lo “stakeholder capitalism del XXI secolo”, dove debbono essere presi in considerazione tutti i “portatori di interesse”, dai clienti ai lavoratori, dai cittadini alle comunità, dai governi al pianeta, in una prospettiva non più locale o nazionale ma “globale”, che richiede quindi un nuovo “multilateralismo”.

In linea di principio, la logica dello “stakeholder capitalism” è anche condivisibile, giacché le imprese non vivono nel vacuum, ma in contesti sociali e politici.

Quindi, oltre alla generazione di profitto per i propri azionisti, servendo al meglio i clienti in una libera e leale concorrenza, è equo che sostengano i costi delle eventuali esternalità e si assumano responsabilità più ampie, secondo il principio del bene comune a cui tutti sono tenuti a contribuire.

Che cosa si intende però esattamente col termine “stakeholder capitalism del XXI secolo”?

Al cuore di tale modello secondo Schwab vi sono due realtà: le “persone” e il “pianeta”.

2.1. Le “persone”:

Schwab scrive che “il benessere delle persone in una società influisce su quello di altre persone in altre società, e spetta a tutti noi come cittadini globali ottimizzare il benessere di tutti”.

 I “cittadini globali” astratti indicati da Schwab esistono però solo nelle visioni ideologiche:

 le “persone” concrete hanno sempre relazioni, a partire dalla famiglia e dalla società circostante, e sono sempre portatrici di una storia – e di una geografia –, nonché di una visione del mondo.

Non esistono i “cittadini del mondo”, se non tra le élite tecnocratiche apolidi a cui si indirizza, evidentemente, il prof. Schwab.

Nella prospettiva evocata, la sussidiarietà e la stessa sovranità nazionale verrebbero sostituite da prospettive centralistiche e dirigistiche.

2.2. Il “pianeta”:

Schwab lo definisce come “lo stakeholder centrale nel sistema economico globale, la cui salute dovrebbe essere ottimizzata nelle decisioni effettuate da tutti gli altri stakeholder.

 In nessun altro punto ciò è divenuto più evidente come nella realtà del cambiamento climatico planetario e nei conseguenti eventi climatici estremi provocati”.

 La teoria del “riscaldamento globale” di supposta origine antropica (l’acronimo inglese è “AGW”: Anthropogenic Global Warming) e del più ampio concetto di “cambiamento climatico” che ne deriverebbe – al centro dell’attività dell ’ “Intergovernmental Panel on Climate Change” (IPCC), un’agenzia dell’Onu dedicata allo studio dell’impatto umano sul cambiamento climatico – è appunto soltanto una teoria, su cui molti scienziati autorevoli non concordano (per es. gli scienziati di fama mondiale Antonino Zichichi e Carlo Rubbia, per restare all’Italia), non una realtà, in quanto manca di conferme scientifiche certe.

A ben guardare, pur considerando l’uomo come il “cancro” del pianeta, l’ideologia ecologista pecca paradossalmente per eccesso di “antropocentrismo” perché attribuisce all’essere umano un potere che nei fatti è ben lungi da avere:

non è forse prometeico pretendere di abbassare la temperatura del pianeta come si fa col climatizzatore dell’ufficio e pensare di potere cambiare il clima della Terra come se fosse quello della serra dell’orto di casa?

 A ciò si aggiunga che tutte le previsioni catastrofistiche fatte in passato sull’evoluzione del clima e sugli impatti sul pianeta e sull’uomo si sono rivelate erronee.

Ovviamente, con ciò non si vuole sminuire l’importanza di contrastare l’inquinamento e di migliorare costantemente nella gestione dei beni creati, anche nel senso della cosiddetta “economia circolare” e nella continua innovazione tecnologica per ridurre gli sprechi: questa corretta “ecologia” non ha però nulla a che spartire con l’approccio ideologico e ostile all’uomo – e alla natalità – della decarbonizzazione e della transizione energetica degli approcci sopra indicati.

È ideologico, non scientifico, trasformare una teoria in una certezza, su cui poi impostare azioni di portata colossale e con costi astronomici.

 Nella prospettiva del cosiddetto “cambiamento climatico” – che è per definizione globale – è chiaro che la sovranità nazionale dovrebbe cedere il passo al multilateralismo e alla governance mondiale: a problemi globali soluzioni globali.

Cui prodest?

3. Schwab non ne parla nel libro citato, ma la “transizione ecologica” a guida ONU non si limiterà alle tematiche di tipo “energetico”, con l’abbandono dei combustibili fossili – che stanno già comportando fortissimi rialzi delle materie prime energetiche con ricadute in termini di dinamiche inflazionistiche sui prodotti e sui servizi –, ma si estenderà anche al cambio dei modelli alimentari, incentivando, ad esempio, la “conversione” al veganesimo e al consumo di “carne sintetica”; per non parlare della “suggestione” ad avere preferibilmente un solo figlio per famiglia, ad adottare uno stile di vita all’insegna dell’austerità, rinunciando a viaggiare per non inquinare oppure preferendo andare a piedi o in bicicletta e utilizzare solo i mezzi pubblici; e chissà cos’altro in futuro, perché la rivoluzione verde, come tutte le rivoluzioni, è un processo in divenire perenne, e quindi non può arrestarsi.

I costi saranno probabilmente stratosferici:

Bill Gates li stima in 5.000 miliardi di dollari annui, che potranno progressivamente scendere nel corso del tempo, grazie all’innovazione tecnologica, fino a “soli” 250 miliardi di dollari annui di extra-costo nel 2050.

Tale extra-costo è indicato col termine “green premium”.

 Sembra proprio che ogniqualvolta compare l’aggettivo “verde” dobbiamo preoccuparci:

 i nuovi e pesanti costi, infatti, hanno già iniziato a scaricarsi su contribuenti e consumatori, con inevitabili gravi alterazioni della concorrenza, e quindi delle stesse prospettive di crescita economica futura, a danno dei più e a beneficio delle industrie favorite da tali progetti, oltre che della cosiddetta “finanza sostenibile”. Per non parlare delle pesanti restrizioni alla libertà, che abbiamo già iniziato ad “assaporare”: una decrescita, insomma, davvero poco felice. 

4. Se lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del prof. Klaus Schwab si fonda su questi due pilastri, su “cittadini” ridotti a monadi e su un “pianeta” da difendere dagli attacchi dell’uomo – e quindi non più un “creato” che dell’uomo costituisce la dimora –, c’è da temere derive liberticide.

Mentre le società e l’iniziativa economica nascono logicamente e storicamente dal basso, a partire dalle persone concrete, inserite in famiglie e in comunità, per poi svilupparsi secondo logiche sussidiarie nei vari corpi intermedi, qui ci troviamo di fronte a una visione distopica fondata su un’antropologia distorta, e conseguentemente su una sociologia “rovesciata”.

Una prospettiva atomistica e materialistica, centralistica e dirigistica, dove i “migliori” vorrebbero guidare dal centro e dall’alto, come nella città ideale vagheggiata da molti utopisti che si sono industriati, nel corso dei secoli, di immaginare un “mondo migliore”.

 

5. Con riferimento ai pretesi “eccessi di libertà” dei “privati” che avrebbero portato fuori strada il paradigma di crescita impostosi nel secondo dopoguerra, occorre poi fare una precisazione.

 Di quali “privati” si sta parlando?

 I Paesi contemporanei sono caratterizzati tutti, chi più chi meno, da una presenza molto forte dello Stato nella vita economica e sociale, da un livello di pressione fiscale e contributiva importante, da un’elevata collusione dei grandi gruppi industriali e finanziari col potere politico – il cosiddetto capitalismo clientelare – e da un monopolio statale sul denaro, la cui quantità viene manipolata ad libitum dalle rispettive Banche centrali che negli ultimi lustri intervengono in modo sempre più attivo e spregiudicato per orientare i sistemi finanziari, e quindi economici, dei propri Paesi.

Negli stessi USA, considerati l’emblema dell’economia libera, il potere politico è colluso con i grandi gruppi privati e lo stesso andamento di WALL Street – nell’immaginario collettivo icona del “capitalismo selvaggio” e del “turbo-capitalismo” – dipende in realtà sempre più dalla politica, in particolare dalle politiche monetarie ultra-espansive attuate dal 2009 dalla Federal Reserve statunitense, solo formalmente indipendente dall’establishment politico-economico.

Non ci sono dubbi che esista una liaison malsana tra i grandi gruppi privati e la politica, in forte crescita nell’ultimo quarto di secolo, e ciò va denunciato col termine di “capitalismo clientelare”:

aumentando ulteriormente la spesa pubblica non si farebbe altro che accrescere ancora la quota di ricchezza nazionale gestita da tali élite politico-economiche, a tutto beneficio di chi è più vicino ai rubinetti della spesa e a danno di tutti gli altri che pagheranno il conto. Lo vedremo, molto probabilmente, con l’implementazione del Piano di rilancio europeo” denominato NextGenerationEU (il cosiddetto Recovery Fund), per la ricostruzione post-pandemica, a cui è collegato il piano di attuazione italiano (il cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR): entrambi di tipo top-down, basati sul debito e calati dall’alto in modo dirigistico-accentratore.

 Nel sistema che si sta disegnando, la piccola e la media impresa, che già hanno poca voce in capitolo adesso, rischiano di essere ancora più marginalizzate.

6. Com’è noto, infatti, la prospettiva di Davos è quella del “Great Reset” dei sistemi economici-sociali-politici attuali per andare verso un “New Normal”, una sorta di governance mondiale, dove delle “cabine di regia” sempre più alte, composte da organismi sovranazionali, Stati, Banche centrali, grandi gruppi finanziari ed economici, media globali, think tank come Davos, assumeranno il ruolo di direttori d’orchestra per decidere dove andare, con quali mezzi e in che modo, per “ricostruire il mondo in modo migliore”, secondo lo slogan “B3W-Build Back a Better World” del Presidente statunitense Joe Biden, condiviso dai Paesi del G7.

Ma come imporre tali cambiamenti?

 In un suo libro precedente, molto conosciuto, “COVID-19: The Great Reset”, il prof. Schwab scriveva che l’epidemia CoVid-19 costituisce una “grande opportunità” per “ripensare, re immaginare e resettare il nostro mondo”.

 Il leader del WEF sottolinea che al di là dei dati di fatto, della “realtà”, «”le nostre azioni e reazioni umane […] sono determinate dalle emozioni e dai sentimenti: le narrazioni guidano il nostro comportamento”, lasciando cioè intendere che, con uno story-telling adeguato, sarà possibile indurre un po’ per volta il cambiamento dall’alto, creando il consenso con un mix di bastone e di carota.

L’importanza della “narrazione” per guidare il cambiamento era già stata indicata da Schwab come una priorità in un altro suo testo del 2016 dedicato alla Quarta Rivoluzione Industriale, “The Fourth Industrial Revolution”:

il passaggio dalla narrazione alla propaganda rischia di essere molto veloce, e particolarmente pericoloso se si aggiunge al controllo dei flussi finanziari, a regolamentazioni sempre più rigide, fino alla stessa limitazione della libertà di movimento personale.

L’attuazione della “iniziativa del Grande Reset” verso il Brave New World post-pandemico” sembra procedere, in questi mesi, con quella «fretta» raccomandata da Schwab come condizione di efficacia.

 Schwab non ne parla ma è una strategia che ricorda molto quella della “Fabian Society”, il più antico think tank politico britannico, fondata a Londra nel 1884 e da allora punto di riferimento della sinistra mondiale:

 For the right moment you must wait […] but when the time comes you must strike hard”, cioè “devi attendere il momento giusto […] ma quando arriva devi colpire duramente”.

 L’immagine scelta dai fabiani, un lupo travestito da agnello, completa il quadro.

7. In conclusione, lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del prof. Schwab sembra delineare una sorta di “socialismo benevolo”, un’evoluzione su scala planetaria di quel mito evergreen che è lo Stato-assistenziale dei Paesi dell’Europa settentrionale.

 La collaborazione stretta tra grande finanza, big-tech, media e capitalismo clientelare è, ovviamente, necessaria alla realizzazione del progetto: promesse di “salute” e “sicurezza”, garantite dall’alto (nella forma di maggiori sussidi pubblici e di “reddito universale di cittadinanza”); più tasse, meno libertà (e meno responsabilità), meno privacy e meno scelta individuale.

Un “socialismo liberale”, insomma, un po’ gnostico e un po’ fabiano, che intende mantenere la sovrastruttura liberal-democratica, ridotta però a un guscio vuoto, mentre le risorse e le decisioni importanti sono destinate ad essere sempre più accentrate presso “tecnici” e “competenti”, presso “cabine di regia” sempre più lontane.

Una prospettiva distopica che ricorda più quella evocata nel “Nuovo Mondo” di Aldous Huxley (1894-1963) che non quella paventata in “1984” di George Orwell (1903-1950).

“Quos Deus perdere vult, dementat prius”:

qualsiasi progetto contrario alla natura dell’uomo e all’ordine delle cose è destinato inevitabilmente al fallimento finale, ma può tuttavia arrecare dei seri danni, per molti anni a venire.

Quando torneremo, dunque, alla normalità? “Quando? Mai”, scrive Schwab.

 Ė scritto nero su bianco, basta prendersi la briga di andare a leggere e studiare quello che scrive.

 Ciò non è rassicurante: occorre approfondire queste tematiche con un serio studio in ordine alla realtà delle cose e ai costi sociali, insostenibili per gli uomini concreti, che sono esigiti per la costruzione del “mondo migliore” immaginato da Schwab.

(Maurizio Milano)

 

 

 

 

ECOLOGIA AMBIENTALE ED ECOLOGIA

UMANA, UN ORDINE IN PERICOLO.

Centrostudilivantino.it – Redazione – (DIC 24, 2020) – ci dice:

 

 

Pubblichiamo l’Introduzione di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi al XII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân (Cantagalli, Siena 2020, pp. 256, euro 16) dal titolo Ambientalismo e globalismo: nuove ideologie politiche, con saggi di Airoma, Casciano (entrambi del Centro studi Rosario Livatino), Battisti, Cascioli, Gagliardi, Giaccio, Molion, Quagliariello.

Solo se la natura non è intesa naturalisticamente si può comprendere come oggi l’ambiente rappresenti una questione sociale.

Ogni forma di naturalismo, invece, lo degrada a utopia o a ideologia.

Cogliere l’ambiente come questione sociale significa assumerlo come avente una relazione intrinseca con l’uomo, come «problema morale».

 Di più: significa anche intenderlo come un ordine finalistico che l’uomo può disordinare.

Ma riconoscere questo implica di riconoscere che l’uomo aveva ed ha un dovere di ordinare, rispettando e sviluppando un ordine affidatogli, il che è un dovere morale.

Possiamo essere aiutati a cogliere pienamente l’ambiente come questione sociale utilizzando il concetto di “ecologia umana”, proprio sia delle scienze sociali sia del magistero sociale della Chiesa.

Per le scienze sociali, l’ecologia umana è la considerazione dell’ambiente non solo in termini ambientali o tecnici, ma anche in termini umani e sociali, sicché il degrado della natura è conseguenza ed insieme causa di disagio sociale e il disagio sociale è conseguenza e causa nello stesso tempo del degrado della natura.

Anche il magistero della Chiesa adopera il concetto di “ecologia umana”, ma in un senso diverso.

 Il paragrafo 38 dell’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II sottolinea come spesso – anche se mai a sufficienza – ci interessiamo dell’ambiente naturale, compreso l’impegno di molte associazioni per la salvaguardia di alcune specie animali ritenute necessarie all’equilibrio dell’ecosistema, mentre non ci impegniamo nella stessa maniera per salvaguardare l’ambiente umano:

«ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica ecologia umana».

Se, infatti, abbiamo un dovere di rispettare l’intenzione originaria di bene che Dio creatore vi ha messo, abbiamo un dovere ancora maggiore di rispettare «la struttura naturale morale dell’uomo» che pure «è stato donato a se stesso da Dio».

La natura non è solo l’ecosistema infra-umano.

 Anche l’uomo ha una propria natura.

All’uomo è data sia la natura fisica sia sé stesso come natura.

 Ambedue contengono un mandato perché rappresentano un disegno, ma di gran lunga superiore è il secondo a cui la stessa natura fisica è finalizzata.

La prima dimora di ognuno di noi, prima ancora dell’habitat fisico e sociale, siamo noi stessi.

 In questo modo la dimensione morale, umana e quindi sociale, non è più solo una delle quattro variabili che interagiscono nel sistema dell’ecologia naturale, come accadeva nel concetto di ecologia umana delle scienze sociali, ma diventa la primaria e la più importante.

Nasce così un’ottica completamente rinnovata circa il modo di guardare al problema ecologico:

esso non è più primariamente un problema ecostistemico, fisico, ingegneristico, non è più il problema, per usare l’espressione della Sollicitudo rei socialis, della «natura visibile»: è prima di tutto un problema umano.

Se l’uomo rispetta la sua propria ecologia, ossia si costruisce da uomo e crea una società in cui gli uomini possano respirare, ne conseguiranno anche una natura più respirabile e un’acqua più pulita.

Oggi gli elementi legati all’inquinamento umano, ossia al rispetto della natura della persona, influiscono talmente su quelli strettamente naturali al punto che qualcuno si chiede se si possa ancora parlare di natura.

La possibilità di procreare al di fuori di un contesto naturale, di intervenire sul Dna e quindi sulla natura di una persona, di riplasmare il proprio corpo sembrano determinare il netto primato della cultura sulla natura.

 È quindi evidente che se la cultura risponde ad esigenze di ecologia umana, se cioè è rispettosa dell’intangibile dignità della persona, ne deriverà anche un rispetto degli equilibri naturali stessi, viceversa la manipolazione-distruzione della natura sarà sempre più massiccia.

Oggi la bioingegneria è veramente il banco di prova dell’incontro possibile tra ecologia umana ed ecologia ambientale.

 Le moderne pandemie, sono solo secondariamente dei fenomeni naturali. Spesso nascono dal non rispetto dell’ecologia umana.

Il problema ambientale oggi viene concepito come il problema delle risorse non riproducibili o come la salvaguardia degli equilibri climatici o come la questione dell’energia.

 Il che è vero.

Non intendo minimizzare questi problemi, ma si sente anche la necessità di recuperare a fondo l’aspetto dell’ecologia umana come origine dell’equilibrio naturale o, se disattesa, come causa ultima del degrado.

Con tutto ciò non ho ancora parlato del principale problema culturale che oggi emerge dal rapporto tra l’umanità e la natura.

Mi riferisco al problema della tecnica che, oggi, diversamente dal passato, emerge con drammatica urgenza.

Oggi la tecnica tenda a presentarsi ormai “allo stato puro”, come “nudità del puro fare”.

L’appiattimento dell’uomo sul puro fare, la tecnicizzazione del suo mondo, ci impaurisce perché la vediamo accompagnata dall’indifferenza a quanto non sia tecnica.

 Siamo preoccupati sì dalla tecnica, ma soprattutto dal fatto che dietro ad essa non si intraveda nulla, o si intraveda il nulla, ponendosi l’uomo solo domande circa il “come”.

Questo intendo dire con l’espressione “nudità” della tecnica.

Oggi la tecnica tende a giustificarsi come mera presenza e come pura possibilità di fare.

Anche “Romano Guardini” indicava questo volto livido della tecnica.

 Nelle sue “Lettere dal Lago di Comoegli collegava il dominio della tecnica con la pretesa di portare alla luce la radice stessa della vita, ciò che in essa è più intimo: «si scoprono uno dopo l’altro nuovi rapporti; i fatti diventano leggi; lo sguardo si spinge ad esplorare sempre più da vicino le sorgenti primordiali della vita, le origini».

Questo rendere presente, questo portare alla luce, questo disincantare, questo mettere davanti ai nostri occhi, da un lato riduce lo spessore della realtà, appiattendola a quanto è presente nella sua nudità, dall’altro riduce lo spessore della coscienza umana che diventa, indifferentemente, un constatare una mera – e vuota – possibilità.

Joseph Ratzinger ha lucidamente messo a fuoco la dittatura della tecnica, che egli chiama Positivismo, secondo la quale «ciò che si sa fare, si può anche fare».

Egli aveva da tempo seguito lo sviluppo della tecnica e nell’opera Introduzione al Cristianesimo ne aveva descritto la genealogia.

 Secondo lui i passaggi sono stati tre: Cartesio ha trasformato il sapere in calcolo, Vico ha individuato la verità nel factum; Marx l’ha vista nel da farsi.

 Questa adesione al “novum” inteso come “faciendum” ha comportato di intendere l’alienazione come persistenza del passato (tradizione) e del trascendente (metafisica).

La dittatura della tecnica sta tutta nella sua nudità, ossia nel ritenere che tutto sia visibile e che tutto sia fattibile.

 Di più: nel pensare che l’essere delle cose consista nella visibilità e nella fattibilità.

La «dittatura del relativismo, denunciata più volte da Benedetto XVI, oggi prende soprattutto le sembianze della nudità della tecnica.

La nudità della tecnica comporta quindi che tutto sia visibile e tutto sia fattibile.

 Quanto al primo punto, Ratzinger notava che, per la fede «l’elemento non suscettibile di essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostra raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà» .

Quanto al secondo egli osservava che «La fede cristiana è un’opzione a favore di una realtà in cui il ricevere precede il fare; senza che per questo il fare venga sminuito di valore o addirittura dichiarato superfluo».

La nudità della tecnica è assolutamente incompatibile con la fede cristiana e, quindi, la fede cristiana è indispensabile per vincere la nudità della tecnica:

la ricostituzione di un senso ricevuto e non prodotto non potrà che avvenire attraverso un recupero del Logos, della ragione, ma oggi non può essere la ragione da sola a compiere questo sforzo, deve essere la fede cattolica la quale, facendolo, salva anche la ragione].

La fede può vincere il nichilismo della tecnica solo intendendosi espressione dell’Intelligenza del Principio, e quindi recuperando anche la ragione umana.

Una delle principali vie culturali per superare il nichilismo della tecnica è di rilanciare la dottrina cristiana della creazione come punto di partenza di una cultura del ricevere prima che del fare.

 La natura intesa come creazione, afferma Giovanni Paolo II, è una «vocazione».

Da un lato la natura è un “dono” e dall’altro è un “disegno” che è stato affidato all’uomo perché collabori alla sua realizzazione.

La natura, così intesa, è una “vocazione” per l’uomo: egli è chiamato a leggere nella propria natura personale in rapporto alla natura degli esseri infra-umani secondo il giusto ordine delle priorità, il disegno di Dio.

 Questa chiamata in cui consiste la creazione, secondo Guardini, ha l’effetto di produrre la consapevolezza reale del proprio “io”:

«L’uomo ha in assoluto la necessità di intendere se stesso come un io autonomo, solo perché scaturisce dalla chiamata di Dio e persiste nella forza di tale chiamata».

Ricevendo sé stesso come compito assieme all’intera natura fisica, l’uomo si costituisce nella propria eminente identità.

 «È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità.

Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo.

 La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a organizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona».

Il nichilismo della tecnica propone all’uomo di essere costruttore di se stesso ma in questo modo ne fa un “prodotto”.

Alla coscienza propone di limitarsi a constatare le pure possibilità di fare che le si presentano davanti in tutta la loro nudità.

All’io impone di non tenere conto di un “sé” come proprio ambito di significato oggettivo.

 Se l’uomo, così, ha solo diritti poco importa se a soddisfarli sia un apparato politico burocratico centralizzato oppure un mercato che soddisfa le voglie e trasforma i desideri in diritti.

Ambedue sono espressioni della tecnicizzazione.

 

 

 

 

Grande Tempesta Solare, Grande 14

volte la Terra, fa sentire i suoi Effetti.

Conoscenzealconfine.it – (26 Marzo 2023) - Guido da Landriano – ci dice:

Recentemente, il” Solar Dynamics Observatory (SDO) della NASA” ha osservato un tornado vorticoso vicino al Polo Nord del Sole.

Secondo quanto riferito, l’altezza del plasma in ebollizione è cresciuta fino a raggiungere quasi l’equivalente di 14 Terre messe insieme, il che implica che potrebbe essere il più grande fenomeno del genere dell’intero sistema solare.

Il Sole è una palla infuocata e massiccia di gas bollente e plasma composto da particelle calde e cariche.

Quando queste si muovono intorno al Sole, generano campi magnetici che si attorcigliano e formano una spirale, eruttando infine vaste nubi di plasma nello spazio circostante.

Questo fenomeno simile a un tornado è durato tre settimane prima di collassare definitivamente.

Secondo” Space Weather”, il filamento rotante ha iniziato a espandersi il 14 marzo ed è esploso il 18 marzo in una “nube di gas magnetizzato”.

 Questo flusso ha raggiunto l’altezza di 120 mila km.

Tutta questa attività solare, che non si è esaurita, ma è poi sfociata in una serie di tempeste, ha avuto i suoi effetti, un po’ inaspettati e spettacolari, anche sulla Terra.

Il 23-24 marzo, le aurore boreali si sono diffuse negli Stati Uniti fino al New Mexico (+32,8N) dopo questa forte tempesta elettromagnetica che è stata classificata come una delle più forti, categoria G4, cioè la più intensa degli ultimi 6 anni.

“Per circa 30 minuti abbiamo assistito alle aurore che danzavano e sobbollivano nel cielo sopra il Parco Nazionale di Yellowstone”, racconta” Michael Underwood”, che ha fotografato lo spettacolo luminoso dalle “Mammoth Hot Springs”, alla latitudine di +45 gradi: “

È stata la prima volta che ho visto l’aurora e spero che non sia l’ultima”, dice. “È stato uno spettacolo davvero incredibile”.

Altri avvistamenti degni di nota alle medie e basse latitudini sono stati effettuati in Virginia (+38,7N), Colorado (+40,4N), Missouri (+40,2N), di nuovo Colorado (+40,6N), Nebraska (+42,4N), di nuovo Nebraska (+41N) e North Carolina (+36,2N). Più della metà degli Stati Uniti si trovava nel raggio d’azione del fenomeno.

Non tutte le luci del cielo erano aurore boreali.

C’era anche uno “STEVE”:

STEVE (Strong Thermal Emission Velocity Enhancement) sembra un’aurora, ma non è così.

Il fenomeno è causato da nastri di gas caldi (3000°C) che attraversano la magnetosfera terrestre a velocità superiori a 6 km/s (13.000 mph). Questi nastri appaiono durante le forti tempeste geomagnetiche, rivelandosi con un tenue bagliore viola.

Questa tempesta straordinaria e sorprendente è iniziata il 23 marzo, quando i campi magnetici nello spazio intorno alla Terra si sono improvvisamente spostati.

 Nel gergo delle previsioni meteorologiche spaziali, “BsubZ ha virato verso sud”.

I campi magnetici che puntano verso sud possono aprire una crepa nella magnetosfera terrestre e, in effetti, questo è ciò che è accaduto.

Gli “scudi della Terra sono rimasti abbassati” per quasi 24 ore, permettendo al vento solare di penetrare e alla tempesta di raggiungere la categoria G4.

Questi sviluppi potrebbero essere stati causati dal passaggio ravvicinato di una CME inaspettata.

La nube temporalesca potrebbe aver lasciato il Sole il 20-21 marzo, quando i dati del coronografo SOHO erano insolitamente scarsi.

 Non sapevamo che sarebbe arrivata.

Per gli osservatori dell’aurora è stata una gradita sorpresa, ma ricordiamo che forti tempeste solari possono disturbare e interrompere le comunicazioni e perfino disturbare le linee elettriche. In una società fortemente dipendente dalle telecomunicazioni i possibili danni possono essere quindi enormi.

(Guido da Landriano)

(scenarieconomici.it/grande-tempesta-solare-grande-14-volte-la-terra-fa-sentire-i-suoi-effetti/)

 

 

 

 

La guerra invisibile dei

potenti contro i sudditi.

di Vittorio Stano.

Sinistrainrete.info – Vittorio Stano – (23-3-2023 )- ci dice:

 

 “Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete poveri; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi prenderò di comandarvi.”

Jean Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755).

 

Negli ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati.

Dai birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo con il suo libro “Dominio” ci guida nei luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.

Di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo.

 La rivolta dall’alto contro il basso ha investito tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia, l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi.

Ha sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito.

Insorgere contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci.

Il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento.

Ma ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.

Questa guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi.

Uno degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere:

meno male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza in ogni dominio imperiale.

Ma nemmeno l’impressionante rozzezza di questo presidente è riuscita a svegliarci dalla sonnolenza intellettuale in cui ci culliamo. Per rendercene conto basta osservare la sinistra occidentale:

quel che ne resta è ormai totalmente thatcheriano,

 nel senso che ha fatto suo il famoso slogan “TINA” (There Is No Alternative) della Lady di Ferro, visto che ha interiorizzato il capitalismo finanziario globale come unico futuro possibile per il pianeta.

È più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo!

Un baratro ci separa dagli anni ’60 quando quasi tutti si definivano “liberal”.

Oggi, 60anni dopo la parola “liberal” è diventata un’ingiuria.

Una guerra è stata combattuta.

Se non ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari non accorgendosi così delle tendenze di lungo periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci nascondono la foresta.

 La sinistra occidentale si straccia le vesti accusando il proprio retaggio culturale e politico di ideologismo.

 La destra invece ha mantenuto il proprio retaggio culturale, politico e ideologico. Anzi ha preso dalla sinistra quello che le serviva per iniziare la sua contro narrazione.

Per capire meglio il versante ideologico dello scontro bisogna concentrarsi su tutto ciò che è successo negli Stati Uniti, avendo questo una valenza planetaria.

 La prima avvisaglia dello scontro la dette il signor” John Merril OLIN” (1892-1982) proprietario della omonima corporation specializzata in industrie chimiche e belliche, fondata in Illinois e infine atterrata in Missouri.

 Creata nel 1953 la fondazione Olin rimase praticamente inattiva fino al 1969, anno in cui il magnate fu sdegnato dalla foto di militanti neri che facevano irruzione – fucili in mano e cartucce a bandoliera – nel rettorato dell’ateneo in cui lui aveva studiato da ragazzo, la Cornell University, nel nord dello Stato di New York.

Ricordiamoci di come doveva apparire l’America a un capitalista in quegli anni: università in subbuglio, ghetti neri in rivolta, la guerra in Vietnam indirizzata verso una disonorevole sconfitta, Bob Kennedy e Martin Luther King uccisi l’anno prima.

 È comprensibile che la foto della Cornell sconvolgesse John Olin e lo inducesse a dotare la fondazione di nuovi e ingenti mezzi e di consacrarla a un unico obiettivo:

 riportare le università all’ordine.

 Quel fatale memorandum del 1971.

L’azione della Olin Foundation rimase isolata fino al 23.8.1971 data in cui la storiografia ufficiale situa l’inizio della “grande offensiva conservatrice”.

Quel giorno Lewis F. Powell Jr. scrisse un memorandum alla Camera di Commercio degli USA intitolato:

 “Attacco al sistema americano di libera impresa”.

Il Memorandum non se la prendeva tanto con gli estremisti, quanto con i moderati.

 Le voci più inquietanti che si uniscono al coro delle critiche vengono da elementi rispettabili della società: dai campus, dai college, dai pulpiti, i media, le riviste intellettuali e letterarie, le arti, le scienze, i politici.

Come accade a tutti coloro che prevaricano, ai leghisti italiani che si sentono vittime degli immigrati, agli israeliani che si sentono vittime dei palestinesi, anche Powell sente che gli imprenditori americani sono vittime, sono accerchiati e in pericolo d’estinzione .

Gli imprenditori devono quindi attrezzarsi a condurre una guerra di guerriglia contro chi fa propaganda prendendo di mira il sistema, cercando insidiosamente e costantemente di sabotarlo.

 Perciò è essenziale che i portavoce del sistema siano molto più aggressivi che nel passato.

E il terreno principale dello scontro sono le università e le idee che esse producono perché è il campus la singola fonte più dinamica dell’attacco al sistema dell’impresa.

E perché le idee apprese all’università da questi giovani brillanti saranno poi messe in pratica per cambiare il sistema di cui è stato insegnato loro a diffidare, cercando lavoro nei centri del vero potere e influenza del paese:

 1) nei nuovi media, specie la TV;

2) nel governo, come membri del personale o come consulenti a vari livelli;

3) nella politica elettorale;

4) come insegnanti e scrittori;

 5) nelle facoltà a vari livelli d’istruzione.

E in molti casi questi intellettuali finiscono in agenzie di controllo o in dipartimenti statali che esercitano una grande autorità sul sistema delle imprese in cui non credono.

Le idee sono armi.

Le idee sono armi, le sole armi con cui altre idee possono essere combattute.

Per combattere questa guerra di guerriglia, diceva Powell, il padronato deve imparare la lezione appresa tanto tempo fa dal movimento operaio.

Questa lezione è che il potere politico è necessario; che tale potere deve essere coltivato assiduamente e che, quando necessario, deve essere usato anche aggressivamente e con determinazione, senza imbarazzo e reticenza.

 Una volta stabilito che la forza sta nell’organizzazione, in un’accorta pianificazione e messa in atto a lungo termine nella coerenza dell’azione per un numero indefinito di anni, nella scala del finanziamento disponibile, Powell passa ad articolare l’obiettivo su come riequilibrare le facoltà:

attraverso il finanziamento di corsi, di dipartimenti, cattedre, libri di testo, saggi e riviste, e poi si allarga il raggio all’istruzione secondaria, ai media, alla TV, alla pubblicità e alla politica, al rendere a tutti i livelli più amichevole la giustizia verso gli imprenditori.

L’appello di Powell fu ascoltato, non proprio nella forma che lui avrebbe voluto: una sorta di partito leninista del padronato.

 Fu ascoltato da un pugno di miliardari dell’America profonda.

Le tappe della riconquista.

La strategia che fondazioni come Olin, Bradley, Mellon Scaife, Richardson e Koch adottarono dopo il Memorandum di Powell fu esplicitata nel 1976 dall’allora 25enne Richard Fink :

…”una concisa direttiva per determinare come l’investimento nella struttura della produzione delle idee può fruttare maggiore progresso economico e sociale quando la struttura è ben sviluppata e ben integrata”.

Fink considerava le idee come prodotti di un investimento per una merce da imporre sul mercato: prima da produrre e poi da vendere.

Ma come facevano le fondazioni a scegliere a chi dare i soldi quando università, think tanks e gruppi di cittadini competono nel presentarsi come i migliori richiedenti in cui investire risorse?

Le università affermano di essere la reale fonte del cambiamento.

Generano le grandi idee e forniscono l’impalcatura concettuale per la trasformazione sociale […]

 I “think tanks” ritengono di essere i più degni di sostegno perché lavorano su problemi del mondo reale, non su temi astratti […]                                I movimenti di base affermano di meritare appoggio perché sono i più efficaci nel realizzare gli obiettivi.

 Loro combattono in trincea, e qui è dove la guerra è vinta o persa.

 La prima fase è l’investimento nella produzione di input fondamentali che chiamiamo “materie prime”.

La fase intermedia converte queste materie prime in prodotti a maggiore valore aggiunto se venduti ai consumatori.

 L’ultima fase consiste nella confezione, trasformazione e distribuzione del prodotto delle fasi precedenti per consumatori finali.

 

Applicato alla produzione e vendita di idee, questo modello si traduce in una prima fase che investe in “materie prime intellettuali”, cioè esplora e produce concetti astratti e teorie che, nell’arena pubblica, vengono ancora principalmente dalla ricerca condotta dagli studi nelle università.

Queste teorie però sono incomprensibili al pubblico e –seconda fase- per essere efficaci devono essere trasformate in una forma più pratica e maneggevole.

 Questo è il compito dei think tanks.

 Senza queste organizzazioni la teoria e il pensiero astratto avrebbero meno valore e meno impatto sulla nostra società.

Ma mentre i think tanks eccellono nello sviluppare nuove politiche e nell’articolare i loro benefici, sono meno capaci di produrre cambiamento.

Movimenti di base sono necessari nell’ultimo stadio per prendere le idee dei think tanks e tradurli in proposte che i cittadini possono capire e su cui possono agire.

…”Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente che deve andare dalla produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica” (Charles Koch).

Pensatoi d'assalto.

Uno dei più autorevoli think tank conservatori è la Heritage Foundation.

Aprì i battenti nel 1973 da un finanziamento di Joe Coors.

Arrivarono in seguito molte donazioni da parte di diversi magnati, finché all’inizio degli anni ’80 tra i finanziatori di Heritage figuravano le divisioni corazzate del capitalismo USA: Amoco, Amway, Boeing, Chase Manhattan Bank, Chevron, Down Chemical, Exxon, General Motor, Mesa Petroleum, Mobil Oil, Pfizer, Philip Morris, Procter & Gamble, RJ Reynolds, Union Carbide Union Pacific, etc…. È impressionante la somiglianza tra il modo in cui i think tanks conservatori hanno teleguidato Trump e il modo in cui telecomandarono Reagan.

Il 3.7.2020 la Fondazione Heritage nel suo sito web si poteva leggere:

 <<… La nazione è sotto attacco. Cosa fare per fermare il programma socialista della sinistra?>> Il giorno dopo Trump affermava: … “il paese è sotto assedio da parte del fascismo di sinistra”.

Il” think tank è un’entità peculiare il cui uso estensivo risale al dopoguerra.

Nel 2019 vengono enumerati 8249 think tanks nel mondo, il 52% si trova in Europa (2219) e Nord America.

 Dei 2058 think tanks nordamericani, il 91% è statunitense.

 Louis Althusser, intellettuale francese, negli anni ’80 riteneva il think tank un “apparato ideologico di tipo nuovo”, che si situava a monte degli apparati ideologici tradizionali (scuola, chiesa, indottrinamento militare) o anche più recenti (mass media, soprattutto radio, TV e oggi social network).

 I think tanks esistevano già nel 1916 ma la novità oggi è la loro non dissimulata faziosità, il loro prendere apertamente partito e perorare le cause più estreme, in uno scontro frontale con il precedente fariseismo bipartisan di facciata.

Questi nuovi think tanks da combattimento hanno un ruolo di primo piano nel fornire un arsenale intellettuale alla rivoluzione restauratrice.

I più noti think tanks d’assalto sono: il Manhattan Institute for Policy Research (MI), il Cato Institute, la Hoover Institution e l’American Enterprise Institute (Aei).

Il Manhattan Institute fu diretto anche da William Casey che ha diretto la CIA dal 1981 al 1987.

Tra i finanziatori compaiono oltre ai soliti miliardari conservatori noti, la fondazione di Bill & Melinda Gates.

 Le loro mani sono rintracciabili in tutte le campagne ideologiche della destra degli ultimi 40anni.

Ciò che chiedono, e ottengono, dai politici è la libertà da tutti i vincoli di legge, da tutti i regolamenti, compresi quelli che stabiliscono un salario minimo, limitano gli straordinari, vietano il lavoro minorile, ostacolano i monopoli, combattono l’inquinamento, delimitano lo sfruttamento delle risorse, tutti “lacciuoli” contro cui questi istituti si battono.

Hanno fatto propria l’utopia di “Stato minimo” propugnata in quegli anni da R. Nozik  e la sua concezione estrema dei diritti individuali (…per Nozik “un sistema libero dovrebbe permettere agli individui di vendersi in schiavitù”).

Inoltre fanno campagna contro il welfare state, contro il servizio sanitario, per limitare al massimo il ruolo dello Stato e cioè per ridurre il più possibile le tasse (…per Nozik le tasse sul lavoro non sono altro che “lavoro forzato”), per privatizzare la Social Security, la rete elettrica federale, l’intero apparato scolastico, le poste, la NASA.

Sono anche contro l’interventismo USA in politica estera e pretendono sussidi alle grandi corporation finanziati dai contribuenti.

Negli ultimi 20anni è diventato più difficile seguire traccia del denaro che porta dalle famiglie miliardarie ai think tanks, ma transitano attraverso enti intermedi, a statuto simile a quello delle fondazioni per quanto riguarda il regime fiscale, ma che hanno il vantaggio di garantire l’anonimato dei contribuenti.

Anche i contributi alle campagne elettorali sono diventati irrintracciabili dopo la sentenza della Corte Suprema del 2010 che rese lecite illimitate donazioni anonime.

La partita è truccata, però…

Una controffensiva efficace contro la rivoluzione conservatrice non può essere finanziata e alimentata da fondazioni “liberal”, da una ipotetica ala sinistra del capitale.

Come se per il capitale ci fossero due squadre in campo e una, quella ultraconservatrice, avesse trovato l’infallibile tattica per vincere.

Le fondazioni dell’ultradestra hanno stracciato quelle “liberal Dem Usa” non perché disponessero di più soldi, né perché attingessero a un serbatoio di menti più intelligenti, ma per la fondamentale asimmetria che in regime capitalistico sbilancia destra e sinistra verso un ipotetico centro.

L’asimmetria sta nel fatto che la destra non mette in discussione (né in pericolo) l’ordine capitalistico, il capitalismo come sistema, mentre la sinistra anche non estrema lo mette in discussione (ragion per cui, se messo alle strette, il capitale preferisce sempre la soluzione fascista a quella socialista: non per chissà quale malignità, ma per semplice volontà di sopravvivenza).

 Questo fa sì che ci possano essere fondazioni capitalistiche di estrema destra ma non di estrema sinistra.

La partita è truccata.

 Le fondazioni di estrema destra pesano di più perché veicolano, con determinazione quasi feroce, un messaggio estremo, utopico di capitalismo radicale, duro, puro, mentre le fondazioni di sinistra, liberal o progressiste, veicolano per forza di cose un messaggio moderato che già di per sé propone un compromesso tra capitale e lavoro.

Anche se la partita è truccata bisogna giocarla, altrimenti i padroni della terra vincono mano dopo mano senza che ce ne accorgiamo, come è avvenuto fino a ora. …

Non basta un futuro da incubo, e persino la distruzione del futuro stesso, che i “neoliberal Dem Usa” stanno plasmando non solo per noi bipedi umani, bensì per tutti i viventi di questo pianeta.

Non c’è ragione di escludere che credenze irrazionali come quelle per cui i mercati sono arabe fenici che nascono, si autoregolano e si rigenerano da sole, e per cui la convivenza umana è fondata sulla concorrenza (cioè che lo stare insieme è basato sul farsi la guerra!), non possano durare parecchi secoli o millenni, se coloro che le subiscono permettono senza reagire che queste stramberie dispongano delle loro vite.

Già il famoso “Memorandum di Powell” esortava esplicitamente a imparare le lezioni del movimento operaio e in pratica proponeva di costituire un “PARTITO LENINISTA del PADRONATO”.

 E ricordare quel Michael Joyce che diresse la fondazione Olin, secondo Forbes, s’ispirava a GRAMSCI quello dei “Quaderni del carcere”.

E tutti i” think tanks” della destra conservatrice  (ora liberal Dem Usa) che hanno plagiato i concetti di egemonia, ideologia, hanno usato a proprio vantaggio la nozione di lotta di classe.

A proposito di lotta di classe il miliardario Warren Buffet rispose candidamente a un giornalista del New York Times il 26.11.2006 che gli chiedeva se esistesse ancora la lotta di classe:

<<Certo che c’è la guerra di classe ma è la mia classe, la classe ricca, che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo>>.

 Cinque anni dopo Buffet ribadiva il concetto e affermava che i ricchi questa guerra di classe l’avevano già vinta!

E l’opinionista del Washington Post commentava: “se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata ingaggiata “from the top down” (dall’alto contro il basso), per decenni. E i ricchi hanno vinto.

Non è un esaltato a parlare di guerra di classe dall’alto contro il basso, è uno dei protagonisti di questa guerra: la loro vittoria è tale per cui loro di questa guerra possono parlare senza ritrosia, MENTRE NOI SOLO A NOMINARLA CI VERGOGNIAMO E SIAMO SUBITO SOSPETTATI DI ESTREMISMO.

 È stata una guerra ideologica totale.

 Ha avuto la sua pianificazione, le strategie, la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi.

 Insomma la counter-intellighentsia dei miliardari ha imparato un sacco dai suoi avversari.

Basti pensare che lo storico David Koch aveva commissionato una storia confidenziale delle attività politiche di suo fratello, scrisse di Charles Koch:

“Non gli bastava essere l’Engels o persino il Marx della rivoluzione libertaria (Dem Usa). Voleva essere il Lenin”.

 Fanno impressione tutti questi capitalisti o cantori del capitalismo che sognano di essere gli Engels, i Marx, i Gramsci, i Lenin del capitale.

 Non è solo una vaga ispirazione, o non solo modelli da imitare.

Sono proprio tattiche da imparare, strategie da riprendere, scelta degli obiettivi da assimilare.

Cominciamo dalla controrivoluzione ideologica di maggior successo foraggiata dalle fondazioni,” Law and Economics”.

C’è una precisa ragione storica per cui i miliardari ultraconservatori decisero di finanziare così massicciamente questa disciplina giuridica.

E la ragione è che la sinistra, i progressisti, i liberal dem Usa, avevano insegnato alla destra quanto decisiva potesse essere la magistratura nello scontro politico.

 Gli eventi sono ormai troppo lontani (tra 72 e 45 anni fa) e non li ricordiamo più o non ce ne rendiamo più conto, ma quasi tutte le vittorie conseguite nelle lotte per i diritti civili negli anni ’60 furono certo dovute alla pressione dei movimenti, all’eroismo e allo spirito di sacrificio dei militanti, ma furono sancite, consolidate e rese durature non da atti legislativi del congresso, bensì da sentenze della Corte Suprema, cioè da atti giudiziari.

 

 

La cruciale importanza dell'ideologia.

I neoliberali (DEM USA) hanno appreso dai loro avversari la cruciale importanza dell’ideologia.

Hanno imparato moltissimo su questo terreno, mentre è diventata una parolaccia per i benpensanti, per i progressisti da quartieri bene.

Persino Fogel, lo storico che aveva rivalutato l’economia schiavista, parlando dell’immagine dei neri che avevano gli abolizionisti razzisti, si stupiva di questa eccezionale dimostrazione del “potere dell’ideologia di cancellare la realtà.

Viene inventata la nozione di “imprenditore ideologico” per poter incorporare l’ideologia all’”universo neo liberal Dem Usa”, per poter appropriarsene, e usarla.

Quello che i “neo liberal Dem Usa” hanno imparato, assimilato e infine praticato, è l’idea che la società sia governata da un perpetuo scontro di classe, da una guerra tra dominati e dominanti.

Così negli ultimi 50anni, nel momento in cui i dominanti formalizzavano e scatenavano lo scontro di classe contro i dominati, uno degli strumenti di questa lotta consisteva nel convincere i sudditi CHE NON CI FOSSE NESSUNO SCONTRO, che le classi fossero una balzana invenzione di qualche esagitato e che, se fossero esistite un tempo, ormai si erano estinte, spazzate via dalla storia, e che tutto quel che sussisteva fosse una MITICA, ONNICOMPRENSIVA, VAGA, FLUTTUANTE “CLASSE MEDIA” e tutt’al più una sottoclasse di poveri immeritevoli.

Così mentre loro organizzavano la “guerra delle idee”, i loro avversari si crogiolavano (… e ci crogioliamo ancora) nella beata illusione di una società senza classi, senza conflitti d’interessi, obnubilati dall’immagine del sistema-paese, dell’impresa-Italia, di una concordanza d’ interessi, di un “remare tutti nella stessa direzione”, mentre i vincitori della guerra delle idee accumulavano e accumulano ricchezze e poteri inauditi.

La società sta diventando sempre più diseguale, tanto che 10 persone al mondo possiedono un patrimonio superiore a quello di metà del genere umano.

La crescita delle disuguaglianze è diventata una litania totalmente disconnessa dal problema del DOMINIO.

È anche chic citare i libri di Thomas Piketty sul tema.

Ma tutto lascia il tempo che trova.

 SIAMO DISEGUALI, e allora?

Il momento di imparare dagli avversari “Dem Usa progressisti” come lo sono in Italia” i governanti del partito democratico (sic) italiano”!

Visto che i dominanti hanno tanto imparato dai dominati, è forse giunto il momento che noi dominati impariamo da loro.

Per come hanno condotto la loro vittoriosa controrivoluzione, ci hanno mostrato con chiarezza i terreni dello scontro, che abbiamo via via incontrato:

l’ideologia, il fisco, la giustizia, l’istruzione, il debito.

Marines e miliardari del Midwest ci hanno fatto capire il ruolo decisivo dell’ideologia, ci hanno insegnato che il primo obiettivo è restituire allo scontro ideologico la dignità, la centralità che i dominati sembrano aver perso come senso comune perché “le idee sono armi” – le sole armi con cui altre possono essere combattute.

 Nell’era in cui i partiti di sinistra erano egemoni, avevano agito con successo come se capissero il ruolo degli intellettuali.

Sia per disegno, sia perché costretti o guidati dalle circostanze, hanno sempre diretto i loro sforzi ad acquisire l’appoggio di questa élite.

Per intellettuali F. von Hayek intende i “rivenditori di seconda mano delle idee”, un gruppo che non consiste solo di giornalisti, insegnanti, sacerdoti, conferenzieri, pubblicisti, commentatori radio (Hayek, 1949), narratori, disegnatori di cartoni animati, e artisti e tutti coloro che padroneggiavano la tecnica di trasmettere le idee.

Ma oggi si verifica un paradosso inverso a quello rilevato da Hayek che i portavoce delle “masse” conquistassero l’egemonia tirando dalla loro parte le élites.

Quando Hayek scriveva la sinistra era elettoralmente sovra rappresentata tra gli strati a infimo reddito, a capitale quasi nullo e a bassissima istruzione.

In 70anni la sua base elettorale è progressivamente cambiata finché oggi la sinistra è sovra rappresentata tra gli strati ad alta istruzione e reddito medio-alto e sottorappresentata tra i ceti a reddito esiguo e scarsa istruzione.

 Per dirla con Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Sinistra bramina contro destra mercante) oggi la sinistra rappresenta i “bramini”, mentre la destra( insieme ai Dem Italiani) rappresenterebbe i mercanti.

Il risultato collaterale di questa evoluzione è che la parte della popolazione a scarso reddito e a bassa istruzione, cioè la plebe, non viene più rappresentata da alcuna forza politica della destra o della sinistra tradizionali.

 In Italia gli intellettuali del PD sono ritenuti più importanti dei mercanti.

Mentre gli intellettuali della sinistra subiscono una fascinazione irresistibile dal denaro dei mercanti.

 La faccenda è confusa dal fatto che gli intellettuali di oggi, tutti sostanzialmente conservatori e conformisti al neoliberismo (dem Usa), si sentono di sinistra, proprio come effetto della controrivoluzione ideologica neoliberale di Davos che, cancellando le categorie di “lavoro” e di “sfruttamento”, ha fatto sparire le linee del conflitto;

ci ha immersi tutti in una sorta di marmellata sociale.

Forse dipende anche dal fatto che la sconfitta ideologica è così enorme che la stessa parola “sinistra” non si sa più cosa significhi.

Per me stare a sinistra vuol dire sempre e soltanto stare dalla parte dei dominati contro i dominanti, dalla parte dei lavoratori contro i capitalisti.

Il ruolo dell’ideologia, spiegava il generale Petraeus è fondamentale nel ricostruire la distinzione del chi sta con chi.

Nel farci prendere coscienza che non stiamo tutti dalla stessa parte.

Che non siamo tutti capitalisti del nostro capitale umano, ma che alcuni sono nostri avversari e noi siamo avversari di altri.

E questo ce lo hanno insegnato negli ultimi 50anni proprio loro con il loro linguaggio bellico.

Il primo passo per rilegittimare i conflitti, le “insurrezioni” (“tumulti” li chiamava Machiavelli) è la lotta contro l’eufemismo.

L’eufemismo non è solo ipocrisia. È tecnologia di potere, tecnica di comando.

 Uno splendido esempio è la parola RIFORMA.

Un tempo riforma era tutto ciò che migliorava lo stato delle persone.

 Oggi riforma è una minaccia che si pronuncia e si annuncia al popolo.

Il volgo appena sente di riforma delle pensioni, capisce che da vecchio rimarrà in mutande;

 riforma del welfare significa (per gli uomini di Davos) abolizione progressiva delle protezioni sociali;

 riforma della sanità significa (per i vari Gates) che moriremo senza essere curati. Allo stesso modo in Occidente “pluralista” è una società in cui tutti hanno le stesse opinioni, dove cioè si deve:

accettare il dogma del libero mercato frequentato dagli uomini di Davos; non avere pensieri o intenzioni che non siano moderati;

essere filoamericani in modo incondizionato e denunciare le benché minime tracce di antiamericanismo.

Infatti il capolavoro di eufemismo si manifesta nell’esercizio dell’impero da parte degli Stati Uniti: anzi eufemismo è la forma di impero democratico che hanno imposto al mondo.

Il capitale umano.

Nel neoliberismo il concetto chiave è la concorrenza.

 Insita nella concorrenza vi è non l’eguaglianza ma la diseguaglianza, poiché nella concorrenza – nella competizione – c’è un vincitore e un perdente: la concorrenza non solo è basata sulla diseguaglianza, ma la crea.

L’individuo è perciò considerato, sì, come operatore del mercato, ma in quanto competitore nella concorrenza.

 Ma chi è che compete nella concorrenza capitalistica?

A concorrere tra loro sono le imprese.

In quanto concorrente ogni individuo è considerato un imprenditore, anzi un’impresa di per sé: il manager di sé.

Nell’antropologia neoliberale di Dem Usa l’unità-individuo è un’unità-impresa e l’individuo è il proprietario di sé stesso.

 Non è certo un’idea che viene spontanea agli esseri umani, quella di entrare in rapporto con sé stessi in termini di proprietà.

Io personalmente non mi sono mai guardato allo specchio valutando la mia proprietà, o la proprietà di me.

Anzi il termine proprietà pare straordinariamente non pertinente se applicato al rapporto del sé con sé.

La prima conseguenza di questa impostazione è che SIAMO TUTTI PROPRIETARI, dal bracciante messicano al minatore nero sudafricano, al banchiere di WALL Street.

Ma di cosa siamo esattamente proprietari quando per esempio non possediamo denaro né oggetti materiali?

SIAMO PROPRIETARI DI NOI STESSI: cioè noi stessi costituiamo il nostro proprio capitale.

Ognuno è proprietario di sé, cioè del proprio capitale umano.

La specificità del capitale umano è che è parte dell’uomo.

 È umano perché è incarnato nell’uomo, e capitale perché è fonte di future soddisfazioni, o di futuri guadagni, o ambedue.

 Il capitale umano sta all’economia come l’anima sta alla religione.

Come, secondo le varie fedi ogni persona ha un’anima – non si vede ma c’è -, così in ognuno di noi c’è un capitale invisibile, immateriale, che intride l’individuo imprenditore di sé stesso.

SIAMO TUTTI CAPITALISTI quindi, dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.

Tecnologia del debito.

Se la rivoluzione informatica fornisce gli strumenti tecnologici di controllo a distanza, è la tecnologia del debito ad assicurarne la dimensione economica.

 È assai recente l’uso sistematico e codificato del debito – sia dei privati, sia degli Stati – come strumento politico e sociale.

 Fu Marx il primo a capire il ruolo che avrebbe giocato il debito pubblico nel capitalismo moderno.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria:

come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario.

Il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il gioco di Borsa e la bancocrazia moderna.

 L’indebitamento dello Stato era interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere.

 Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte del suo arricchimento.

Ogni anno un nuovo disavanzo.

Dopo 4 o 5 anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli.

 Qual è la causa del fatto che il patrimonio dello Stato cade nelle mani dell’alta finanza?

 È l’indebitamento continuamente crescente dello Stato.

 E qual è la causa dell’indebitamento dello Stato?

 È la permanente eccedenza delle spese sulle entrate, sproporzione che è nello stesso tempo la causa e l’effetto del sistema dei prestiti di Stato.

 Per sfuggire a questo indebitamento lo Stato deve limitare le proprie spese, cioè semplificare l’organismo governativo, ridurlo, governare il meno possibile, impiegare meno personale possibile.

 Già Marx nel 1850 notava che l’indebitamento pubblico costringe lo Stato a essere “frugale”.

 È solo nel XX secolo che il debito assurge a vero e proprio strumento di controllo politico.

Lo fa innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie, attraverso l’istituzione del “mutuo”.

l’Ottocento non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento disciplinatore di intere popolazioni:

chi si addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, per due ragioni:

 1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria;

2) il mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua (futura) proprietà per anni e decenni a venire.

 Il mutuo trentennale sulle case garantito dallo Stato del New Deal di F.D. Roosevelt.

Ancora oggi negli USA il 68% del debito dei nuclei familiari va sotto la voce “mutuo per la casa”.

Ma è dalla seconda guerra mondiale in poi che il debito delle famiglie è esploso negli USA e poi in quasi tutto il mondo.

Se il mutuo aveva rappresentato l’innovazione più foriera di conseguenze tra le due guerre mondiali, nei primi decenni del secondo dopoguerra l’innovazione finanziaria più rilevante fu la carta di credito.

Mutuo e carte di credito spiegano almeno in parte l’incredibile espansione dei prestiti ai privati.

 Nel 1950 il debito delle famiglie rappresentava il 23% del PIL mentre oggi costituisce il 67% (95% nel 2008).

 Se nel 1960 il debito delle famiglie era pari al 60% delle loro entrate annue, nel 1980 era salito al 75%, nel 1995 al 95% e nel 2019 al 120% (Italia 2023: 160%) quando il reddito medio annuo di ognuna dei 128,82 milioni di famiglie americane è di 89.930 dollari, ma il suo indebitamento è di 108.288 dollari.

Il debito è diventato la condizione di vita di quasi tutte le famiglie dei paesi sviluppati.

Ci si indebita per il mutuo della casa, per l’acquisto della macchina, per studiare all’università, per andare in vacanza, per una protesi dentale.

 L’indebitamento degli studenti.

Ma il caso più illuminante è certo quello del debito di studio, contratto per pagarsi l’università negli Stati Uniti.

 Nel terzo trimestre del 2019 il suo ammontare totale era di 1500 miliardi di dollari (più del PIL della Spagna).

Negli ultimi 10 anni il numero di persone di 60anni e oltre (più di 30 anni dopo aver terminato l’università) che sono ancora debitori per gli studi è quadruplicato passando da 700mila a 2,8 milioni di persone.

Tra le molte cause c’è quella delle spese d’iscrizione triplicate.

 Per le università quadriennali (sia pubbliche che private) l’iscrizione costava in media 7413 dollari per l’anno accademico 1975-76; nel 1985-86 era salita a 12.274 dollari; nel 2016-17 è stata di 26.599 dollari.

Nelle università private più quotate (quotate anche in Borsa, ad es. Harvard) nel 2016-17 l’iscrizione annua era di 41.468 dollari.

 Un mercato del lavoro avviato verso la recessione riduce la possibilità d’assunzione per i nuovi laureati che vengono così avviati verso l’insolvenza, una sorta di bancarotta generazionale.

L’indebitamento degli studenti è una manifestazione esemplare della strategia neoliberale introdotta dagli anni ’70:

 rimpiazzare i diritti sociali (diritto alla formazione, alla salute, alla pensione) con l’accesso al credito, cioè il “diritto” a contrarre debiti.

 Per le pensioni, non più una mutualizzazione dei contributi, ma un investimento individuale nei fondi pensione;

non più un aumento dei salari, ma crediti al consumo;

non più un servizio sanitario nazionale, ma assicurazioni individuali; non più diritto all’alloggio, ma fidi immobiliari…

Le spese di formazione, interamente a carico degli studenti, permettono di liberare risorse che lo Stato si affretta a trasferire alle imprese e alle famiglie più ricche, in particolare attraverso la riduzione delle tasse.

I veri assistiti non sono i poveri, i disoccupati, i malati, le madri single, MA LE IMPRESE dei RICCHI.

 

 

 

 

Sfruttamento e speculazione

dei cacciatori di terre.

 Infoaut.org – Saverio Pipitone – (13 marzo 2023) ci dice:

(La Bottega del Barbieri)

 

Lo strapotere delle “imprese-vampiro” dell’industria e della finanza.

Pronto Fantomas.

 Al telefono Alberto Moravia, Julio Cortázar, Octavio Paz e Susan Sontag (scrittori) chiedono aiuto al famigerato personaggio mascherato per fermare un pazzo armato di laser che stava incendiando le grandi biblioteche del mondo.

Il folle venne annientato, ma la cultura in fiamme era solo l’inizio e più di uno erano i mostri:

le società transnazionali, in combutta con le organizzazioni statali, che saccheggiavano le risorse dei popoli violandone i diritti fra minacce, attentati e inganni (tratto da “Fantomas” contro i vampiri multinazionali del 1975). 

Oggi è ancora così.

 Le “imprese-vampiro” dell’industria e della finanza, soprattutto americane ed europee, espropriano gli spazi vitali delle collettività o persone indigene e in particolar modo nel Sud del mondo.

Nell’ultimo ventennio hanno accaparrato terre per quasi 100 milioni di ettari, servendosi spesso dei supporti governativi e dei precari titoli di proprietà degli ignari abitanti.

Chi si oppone, soccombe.

 Nello stesso ventennio, oltre 2.400 attivisti sono stati uccisi e in migliaia espulsi, imprigionati e perseguitati, per difendere il territorio dalle occupazioni delle monocolture latifondiste ed estrazioni energetiche che inquinano gli ecosistemi e devastano le comunità locali.

In Guatemala, lo sgombero è forzato.

Nel villaggio di Chinebal le case di novanta famiglie di contadini o artigiani auto-sussistenti sono state demolite e bruciate, a seguito di un immediato e sommario sfratto giudiziario, per estendere le piantagioni di palma da olio della “NaturAceites”, appartenente al colosso agrochimico, edilizio e minerario “Tecun” dei Maegli Novella: due antiche dinastie di coloni europei che dal 1950, imparentatesi tra loro e sorretti da” Opus Dei” ed élite reazionarie, diventarono primi possidenti guatemaltechi privando i nativi delle ricchezze naturali.

 

In Argentina, Uruguay e Brasile, il suolo “sottoutilizzato” è preso e convertito alle colture intensive.

Sfruttato al massimo con transgenici, fertilizzanti e pesticidi sintetici, specialmente per la produzione di soia.

 Aziende che lì esercitano tali attività, su oltre 1 milione di ettari, sono le quotate: “Adecoagro”, lussemburghese, con principali azionisti diversi hedge fund – fondi speculativi per quadruplicare rapidamente il capitale – e poco tempo fa rilevante investitore era “Soros Fund Management” dell’influente imprenditore George Soros; “Cresud”, argentina, dei fratelli “Alejandro ed Eduardo Elstajn” che negli anni 1990, per entrare nell’agrobusiness, furono finanziati dallo stesso Soros;

BrasilAgro”, brasiliana, sempre degli Elstajn assieme al magnate immobiliare Elie Horn e banche d’affari internazionali:

“ BrasilAgro” è sospettata di acquisizioni fondiarie illecite e del disboscamento di 30.000 ettari nei suoi poderi nella regione rurale del “Matopiba” (acronimo delle iniziali degli stati federati Maranhão, Tocantins, Piauí, Bahia).

 

Pure gli insegnanti accaparrano terreni.

 Lo fanno tramite il “fondo pensione newyorkese TIAA”, dandogli il denaro da investire per rendite future.

Braccio operativo è la controllata “Nuveen” con un patrimonio agricolo globale di 810.000 ettari e 430 fattorie, di cui 1/3 in Brasile, seguono Australia e Stati Uniti, per la coltivazione di una quarantina di derrate, dalla canna da zucchero al grano, affidandone la gestione alle imprese di monocoltura intensiva con ripercussioni sulla biodiversità.

Fondatore è l’industriale Andrew Carnegie (1835-1919), il secondo uomo più ricco della storia che ispirò Paperon de’ Paperoni.

La famiglia visse in una lussuosa dimora a Central Park e nel 1930 vi lavorava una giovane cameriera giunta dalla Scozia per sfuggire alla povertà delle recinzioni dei borghesi e nobili sulle terre comuni; successivamente sposò un facoltoso immobiliarista ed ebbe cinque figli, educandoli all’etica protestante:

quando i due ultimogeniti giocavano con i mattoncini, uno di loro usava tutti i suoi pezzi e arraffava anche quelli del fratellino perché voleva costruire un grattacielo; da grande divenne accaparratore terriero e 45° presidente USA, Donald Trump.

Poi c’è Bill Gates, il nerd miliardario.

 Ha 110.000 ettari arabili dalla Florida a Washington con mais, riso, patate, cipolle e carote.

È investitore, per mezzo della” Gates Foundation Trust”, nei “fondi Kuramo” che controllano la “Plantations Huileries Congo” (PHC) con 21.000 ettari di palme da olio a Boteka, Lokutu e Yaligimba:

piantagioni congolesi nate all’inizio del secolo scorso con l’industriale inglese William Lever (1851-1925) – fondatore della multinazionale Unilever – ricevendo le terre in concessione dalle colonie belghe, dopo che le avevano razziate agli aborigeni.

 E l’abuso continua.

In Uganda, i diritti umani sono irretroattivi.

 Centinaia di residenti agricoli dei villaggi Kisaranda e Nyamutende hanno intentato un’azione giudiziaria contro il produttore su larga scala di cereali e semi oleosi “Agilis Partners” dei gemelli statunitensi “Philipp e Benjamin Prinz”, denunciando violenti sfollamenti ed espropri terrieri senza preavviso e risarcimento o reinsediamento.

L’Alta Corte gli ha rigettato l’istanza perché il fatto era antecedente all’applicazione della legge sui diritti umani.

In Costa d’Avorio, le licenze fondiarie sono retroattive.

 Il Ministero dell’agricoltura, nel retrodatare gli effetti dell’affitto di 11.000 ettari, fece perdere una disputa legale ad alcuni piccoli possidenti della regione di Iffou che chiedevano lo sfratto dell’azienda occupante “Sia”t con sede a Bruxelles: proprietario è Pierre Vandebeeck, membro dell’ordine coloniale della Corona del Belgio e dal 1970 cacciatore di terre fertili, iniziando come manager nella società di origini coloniali “Socfin”, che è quotata in Lussemburgo con primari azionisti i finanzieri milionari Hubert Fabri e Vincent Bolloré.

Siat e Socfin, rispettivamente su 68.000 e 192.000 ettari, piantano palma da olio e gomma in Africa e Asia, dalla Guinea alla Cambogia, portando disoccupazione, inflazione, miseria e degrado ambientale nelle comunità ancestrali che protestano al grido “restituiteci la nostra terra”.

Intanto la Banca Mondiale spinge alla speculazione e chimica agricola.

Per i paesi in via di sviluppo, prescrive: formalizzare le proprietà rurali, sia pubbliche che private, con catasto digitale, nel superamento dell’autoctono possesso consuetudinario, per la semplificazione delle procedure di cessione, trasferimento ed esproprio; deregolamentare le normative sui fitosanitari per aumentare la produttività.

 Lo scopo è favorire gli investimenti dei potentati economici alla ricerca di alti profitti.

In quelle terre, le colture vengono mercificate.

Destinazione d’uso è l’industria trasformatrice con grosse multinazionali – Unilever, Cargill, Mondelez, Kellogg’s, Nestlé, General Mills e altre che fabbricano cibi ultra-processati, pieni di grassi e privi di fibre o proteine, nell’omologazione della dieta mondiale:

è stimato che, entro il 2050, la domanda di questi prodotti crescerà fino al 70%, unitamente al calo di contenuto nutritivo per miliardi di individui che rischiano malattie e mortalità.

Fantomas:

 «da ora in poi dedicherò tutte le mie forze a lottare contro le imprese multinazionali e contro tutte le forme negative dell’imperialismo. Le risorse naturali di un paese sono di proprietà inalienabile del suo popolo. Non è nostro diritto rubarle o sfruttarle per agio e consumismo».

(Saverio Pipitone)

(saveriopipitone.blogspot.com/2023/03/sfruttamento-e-speculazione-dei.html)

 

 

 

Perché il comunismo

è duro a morire.

Ilpiacenza.it – Carlo Giarelli – (31-5-2021) – ci dice:

(il Piacenza Blog)

Sembrerebbe morto il comunismo, ma è solo una morte apparente.

Infatti esiste ancora un partito comunista non solo in Italia, ma in tanti altri paesi e addirittura una nazione come la Cina che si definisce comunista.

 È comunque vero rispetto al passato che non c’è più il comunismo, quello vero, di marca staliniana.

 Ma pur sotto mentite spoglie e con altrettanti stravolgimenti rispetto al carattere originario, esiste ancora un comunismo che anche se in difficoltà non muore nelle coscienze.

E non solo da parte dei vecchi sostenitori che un tempo affollavano i festival dell’Unità e che erano disposti a fare qualunque cosa pur di rivendicare la loro fede politica, ma anche nei giovani che del comunismo storico sanno poco o se sanno qualcosa sono disposti a rinverdire la vecchia ideologia.

Il perché del mantenimento in vita di una ideologia sconfitta dalla storia è presto detto.

 Perché non si tratta tanto di ideologia.

 O meglio perché l’ideologia, se mai ancora esiste, è solo una parte del credo comunista.

Oltre a questa il comunismo ha molte altre componenti.

 Esso è infatti un insieme di concezioni del pensiero con risvolti psicologici e quindi emozionali in cui si trovano un insieme di valori che hanno la capacità di mistificare l’apparenza al fine di non apparire mai semplici e banali, nonostante la loro  tragica e  sempre criminale realizzazione in tutte le forme  di regime che purtroppo si sono storicamente avvicendate.

Ribadisco allora che l’ideologia è solo una sua componente neppure prioritaria.

In sostanza prevale nel comunismo una componente utopica che appunto in quanto irrealizzabile stimola la mente a credere possibile quello che possibile non è.

A questo punto la deviazione utopica verso una concezione teologica e teogonica, diventa un processo conseguenziale.

E con questa il senso di una nuova religione che si sostituisce a quella cristiana, pone il comunismo a manifestare un atto di fede verso l’umanità.

 Ci ricorda molto bene questa condizione il filosofo tedesco Feuerbach, che può essere considerato l’iniziatore della dottrina comunista.

 Nel suo saggio: “L’essenza del cristianesimo” egli contesta la filosofia di Hegel, un altro filosofo comunista, dichiarandola con un certo disprezzo, una teologia filosofica che guarda al passato, ma che non ha futuro per mancanza di validi presupposti.

Alla scienza della logica di Hegel preferisce contrapporre la sua teologia riducendo la religione a pura antropologia.

Con questa scopriamo un’altra componente di questa nefasta dottrina, che spinge a credere come l’unica verità sia solo l’uomo e non la ragione astratta.

Dunque è l’uomo che volendo ma non potendo essere e divenire onnisciente ed immortale, deve inventarsi un Dio che rappresenti la soddisfazione di un desiderio.

In questo modo una nuova religione sostituisce quella cristiana.

 L’uomo allora non è l’immagine creata a somiglianza di Dio, ma è quest’ultimo che diventa immagine dell’uomo.

 Il capovolgimento dei valori si è attuato.

Tutto deve essere fatto per l’uomo, come poi dirà più compiutamente un certo Karl Marx ampliando la teoria dall’uomo per estenderla a tutta l’umanità.

 La quale deve ristabilire una equità fra la forza lavoro della maggioranza del popolo sfruttato rispetto alla minoranza che possedendo i mezzi di produzione, trae vantaggio da questo sfruttamento.

Con Marx un altro valore si aggiunge a quello da lui auspicato come comunismo.

La trasformazione della teologia e della conseguente filosofia in sociologia. 

L’impatto sulla gente è pienamente coinvolgente.

E pensare ad una società più giusta attraverso l’abolizione delle disuguaglianze alletta al punto le coscienze, da rendere possibile un paradiso in terra.

Con queste premesse si capisce bene come questa vocazione comunitaria non sia isolata.

Perché già aveva indotto un giovane domenicano, poi condannato e imprigionato per eresia e mi riferisco ad un certo Tommaso Campanella ad ipotizzare, siamo nel XVI secolo, nella sua “Città del sole” un governo dove tutto sia in comune.

Beni materiali e perfino beni sessuali in particolare le donne (degli uomini non si fa menzione).

Anche se ancora mancava il giusto lessico nel nominarlo, più comunismo di così era difficile immaginare.

Dunque come già detto il comunismo attrae le menti, specie quelle che ambiscono ad un nuovo ordine basato su quella utopia rivestita di religione e sociologia che appaga quegli spiriti (liberi?) che vagheggiano una umanità del tutti uguali dove non esistono soprusi e privilegi.

Detto così la teoria comunista vanta il suo fascino, ammettiamolo, tanto che molti almeno all’inizio della propria formazione intellettuale, hanno subito pesanti condizionamenti.

Reinventare la parola democrazia è stata allora il punto cardine di tali condizionamenti.

 La cosiddetta egemonia culturale di marca gramsciana ha fatto il resto arrivando addirittura ad ipotizzare una netta separazione fra i suoi   seguaci e tutti gli altri.

Attribuendo ai primi una virtù inventata al bisogno, che poi verrà chiamata dal segretario del Pci Berlinguer “superiorità morale”. 

E tutto questo in riferimento agli oppositori, considerati biechi conservatori, poco propensi agli allettamenti del pensiero progressista e impegnati solo a soddisfare i propri privilegi.

 L’intellighentia ed il mondo culturale in genere sono la prova di quanto detto.

 Vale a dire di questo stato di fatto.

Destra e sinistra sul piano pratico, ancora più che su quello politico, hanno creato un solco difficilmente valicabile.

Da una parte i buoni e dall’altra gli incolti detti anche antidemocratici e per giunta nemici da combattere.

Ecco allora il punto.

Nonostante lo stravolgimento dei fatti storici che come spesso accade per chi crede nell’utopia, trasforma la fantasia creativa in un evento criminale causa l’impossibilità di poterla realizzare.

 Cosicché nonostante le stragi compiute dai regimi comunisti che vantano il triste primato delle deportazioni e dello sterminio di intere popolazioni all’insegna del loro sbandierato e falso concetto di democrazia, onde riconoscere che ancora oggi il comunismo non è morto, una qualche ragione, come cerco di dimostrare, deve pur esserci.

Per questo dopo averlo tanto criticato, una qualche ragione, dobbiamo allo stesso Hegel.

 Secondo il quale non è la realtà a produrre le coscienze, ma sono queste ultime che sottoposte ad infiniti condizionamenti formano la realtà.

 Al punto che la coscienza si identifica con la realtà stessa.

 Tali influenze veicolate con subdola intelligenza fra la gente, rappresentano allora le cause di un pensiero morto nei fatti e nella ragione, ma non nella fantasia.

Per fare tutto questo processo di falsificazione, bisognava abolire la realtà storica nefasta e subdola, costruendo dei fantasmi.

 In sostanza dimenticando il passato criminale inventando la paura di un nemico che nonostante sia stato già condannato dalla storia, lui sì, era nei fatti già scomparso o ridotto ai minimi termini da parte di un piccolo gruppo di fanatici.

Dunque bisognava farlo ritornare in vita.

 Lo imponeva e lo impone lo spirito democratico di tutti coloro che al posto di vergognarsi delle loro attuali e superate idee, sono disposti ad usare l’arte del trasformismo.

Contrapponendo al loro pensiero di menti cosiddette colte, ancora irretite nella mai dimenticata utopia e che hanno ormai occupato i vari gangli del potere, il nero volto antidemocratico di un nuovo pericolo pubblico rappresentato dal fascismo. 

Tramite questo espediente i sinceri democratici possono continuare ad essere tali.

Non importa se poi la loro concezione democratica sia a senso unico.

 E se, come succede, diventa intollerante verso gli avversari, considerati non democratici e quindi non in diritto o di esistere, o comunque ancora in grado di manifestare le loro idee, che sono da condannare a priori.

Ritornando al titolo ecco allora perché il comunismo non muore, anche se   rivela un certo pudore a definirsi tale, preferendo adottare un lessico annacquato quale definirsi socialisti o addirittura “liberal Dem “alla moda americana.

E forse, per le ragioni dette, non morirà mai.

 Troppo abile nel travestirsi e troppo capace di modificare le coscienze.

 La sua forma di fede infatti oggi, invece di essere condannata, addirittura esorbita verso quell’altra che non chiamiamo cristianesimo.

 Ma noi siamo i soliti retrivi, ignoranti e biechi conservatori.

Liberali e “non liberal” che fra poco verremo chiamati fascisti.

Così è anche se non vi pare. 

La sconfitta di Macron è quella dell’Europa, ma la colpa non è del popolo

 

La sconfitta di Macron è quella dell’Europa,

ma la colpa non è del popolo.

Ilriformista.it - Astolfo Di Amato — (24 Giugno 2022) – ci dice:

 

L’esito delle elezioni francesi è stato visto da molti commentatori come un pericolo per l’Europa.

 L’affermazione di Mélenchon e, ancora di più, di Marine Le Pen viene interpretata come un fattore di disgregazione dell’Europa e, in questa prospettiva, indicato come un significativo segnale dell’avveramento della profezia di Putin, secondo cui le élite europee sarebbero destinate ad essere scardinate da un’ondata di nuovi radicalismi.

 Quanto avviene in Francia è, poi, messo in relazione con il successo che, stando ai sondaggi, avrebbe ormai consolidato in Italia il partito di Giorgia Meloni.

A prescindere dalle differenze ideologiche e dalla distanza, anche personale, tra Giorgia Meloni e Marine Le Pen, la loro affermazione sarebbe la diretta conseguenza dell’espansione di un radicalismo capace di divorare il progetto europeo, come tale tanto più pernicioso in un momento come questo, segnato dalla guerra in Ucraina e dalla contrapposizione, mai così netta, tra Russia e mondo occidentale.

Si tratta di una prospettiva certamente consolatoria, per chi ritiene di potersi collocare nella schiera dei buoni e dei benpensanti, i quali si sentono aggrediti da un voto popolare che non rispetta le loro “sagge” indicazioni.

Ma che ha, tra l’altro, l’evidente difetto di non dare per il futuro una prospettiva diversa da una vaga speranza che, a seguito del rimprovero di chi ne sa di più, il popolo di chi vota cambi opinione.

Se si prova a portare un rispetto autentico, e non di facciata, al popolo che vota ci si rende conto, tuttavia, che la prospettiva va rovesciata.

Il punto non è affatto quello di ricondurre il popolo che vota sulla retta strada, bensì quello di dare una prospettiva di soluzione ai problemi, che segnano la vita quotidiana, togliendo l’impressione, oggi fortissima, che la volontà degli elettori non conti nulla e che l’unica cosa che è loro concessa è quella di esprimere il proprio dissenso, per quel poco che vale, attraverso il voto.

In questa diversa prospettiva, diventa, innanzitutto, inevitabile registrare che l’inadeguatezza dell’Europa non può più essere occultata da una narrazione di un europeismo tanto assoluto, quanto privo di contenuti.

Sarà per la inadeguatezza della regola dell’unanimità o per il predominio, che nelle istituzioni europee, hanno gli uffici burocratici, fatto sta che l’Europa è troppo spesso lontana dai problemi dei cittadini.

Lasciando da parte la tragicomica questione, che pure esiste, di un potere che si manifesta nella determinazione della lunghezza dei piselli, resta il fatto che di fronte a questioni vitali, quali quelle sulle fonti energetiche o sulla organizzazione del mercato, le decisioni appaiono prese da una distanza siderale, che nessuna relazione ha con i cittadini.

Non ci si chiede, ad esempio, quale impatto possa aver avuto nella votazione francese la decisione, assunta in sede europea, di vietare, a partire dal 2035, la vendita di autovetture a benzina.

Anche in quel paese, come in Italia, l’industria automobilistica gioca un ruolo determinante nell’occupazione e nell’economia.

Una decisione del genere, gravida di conseguenze sull’occupazione e sull’economia, è stata presa tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti o solo della ideologia di quei paesi che, non avendo una industria automobilistica, nulla hanno da temere da una decisione del genere?

Basta questo esempio per rendersi conto che è l’Europa, che deve rendersi riconoscibile ai propri cittadini come soggetto politico rappresentativo dei loro interessi, invece che pretendere cieca osservanza.

 Del resto, la stessa vicenda dei fondi del “Pnrr”, che sono in corso di elargizione all’Italia, presenta non solo luci, ma anche ombre.

In alcuni momenti si avverte il sussiego con cui il ricco elargisce al povero, accompagnato dalla occhiuta determinazione di revocare tutto se non ci si comporta bene.

E sullo sfondo c’è sempre la minaccia di ripetere quanto già fatto con la Grecia.

A questo rapporto insoddisfacente con l’Europa si affianca, poi, per gli elettori, la frustrazione che accompagna la presa d’atto che il voto non è più strumento di scelta politica.

Se si guarda alle elezioni presidenziali francesi, che hanno visto la vittoria di Macron, sia la prima e sia la seconda volta, il voto non è stato “per”, ma “contro”.

Nessuno spazio ha avuto un dibattito serio sulle istanze avvertite dagli elettori di Marine Le Pen.

Il che ha fatto sì che programmi, disegno del futuro, aspettative di un nuovo ordine sono passate in ultimo piano, essendo l’unico obiettivo perseguito quello di sconfiggere chi viene rappresentato come un pericolo per la democrazia.

 Del resto, la stessa logica comincia a manifestarsi anche in Italia, ove si consideri il fuoco di sbarramento che inizia ad investire Giorgia Meloni, ignorando le istanze sociali che attraverso di lei cercano rappresentanza.

Se continua così, il voto del 2023 non sarà un voto su un programma di società, ma solo “contro” il preteso pericolo nero rappresentato da Giorgia Meloni.

 

Già questa situazione è sufficiente a dare conto di quanto profondo sia diventato il fosso che divide corpo elettorale ed élite che governano.

 In Italia, peraltro, esso è scavato ancora di più dalla consapevolezza, ormai granitica, che il voto popolare non conta niente di fronte alla volontà del palazzo.

Avere un presidente del consiglio non eletto dai cittadini è divenuta una prassi negli ultimi settennati presidenziali.

Ormai le elezioni sono considerate un pericolo per le istituzioni, con la conseguenza che la pratica democratica del voto invece di essere incentivata è volutamente ostacolata.

(Gli “uomini di Davos” non debbono essere eletti. ma cooptati dall’alto! N.D.R.)

Di fronte a tutto questo, ridurre le elezioni ad una battaglia contro il pericolo nero e per il mantenimento di un’Europa, la cui distanza dai cittadini è sempre più profonda, mette a rischio la tenuta democratica.

Il tasso di astensione registrato nelle recenti elezioni politiche francesi e nelle recenti elezioni amministrative italiane è un segnale inequivocabile di un cattivo stato di salute della democrazia.

 Rifugiarsi in una lamentosa constatazione del rischio di disgregazione dell’Europa significa volere sfuggire ad un serio confronto con la realtà.

(Astolfo Di Amato)

 

 

Un prof, 3 domande e la realtà salvano

i giovani dall’ideologia “green.”

Ilsussidiario.net – (02.12.2021) - Pietro Baroni – ci dice:

Un articolo di giornale sui danni dell’inquinamento, affisso nella bacheca della scuola, diventa l’occasione per un dialogo serio e non ideologico sull’ambiente (e non solo).

Vale la pena di perdere tempo a commentare un articolo di giornale affisso nella bacheca di una scuola (la mia), riguardante, tanto per cambiare, l’ambiente e i danni dell’inquinamento?

Probabilmente no, se non fosse per il bombardamento asfissiante cui vedo sottoposti quotidianamente i miei studenti e anche i miei figli, che frequentano in questi anni dall’asilo alle scuole medie.

Ho dunque la possibilità di assistere ad un vero stillicidio, martellante, che bersaglia da ogni dove le menti dei nostri bambini e giovani, come se non ci fosse un domani (ed è proprio questo il messaggio: non ci sarà un domani, se non fermeremo immediatamente l’uomo nella sua azione devastatrice).

“L’urlo estremo di speranza dell’ultima foresta europea”, questo il titolo del suddetto articolo (che non riporta la testata giornalistica, né la data), che campeggia nella bacheca del “Comitato Scolastico per l’Ambientenell’istituto superiore in cui insegno a Firenze (comitato che è diventato funzione strumentale dell’Istituto proprio all’inizio di quest’anno).

Mi fermo per ora solo al titolo.

 Proviamo a immedesimarci nella testa di un ragazzino di quattordici anni, che entrando a scuola legge, appeso nel corridoio di fronte alla sua classe, questo titolo, al centro della bacheca.

 Cosa penserà?

Prendiamo in analisi il titolo: “L’urlo estremo”.

La prima educazione (e qui siamo in una scuola che dovrebbe educare, istruendo) passa dal rispetto delle parole.

 L’urlo è prerogativa indiscussa dell’essere umano.

Urla un bambino, una donna, un vecchio, un ragazzo.

Urla un uomo di dolore, di terrore, di paura, di rabbia, di gioia, per trionfare o per inveire.

Un animale non urla: un animale guaisce, ulula, ringhia, abbaia, bramisce, ruggisce eccetera. Un animale non urla.

 Figuriamoci se può urlare una foresta!

Ma il messaggio è esattamente questo: la foresta urla, come e più di un essere umano.

“Estremo”, non c’è più niente da fare, siamo alla disperazione, alla fine dei giochi!

Cosa ci può essere di più tragico?

Poi c’è una inversione ossimorica: dopo l’“urlo estremo”, c’è la “speranza”.

 Altra parola irricevibile, se usata in questo contesto.

Nessuno nel mondo spera, tranne l’uomo.

 Spera un ragazzo, di non essere interrogato proprio quella mattina in latino;

spera una ragazza che quel ragazzo si giri, la guardi e corrisponda in qualche modo al suo batticuore;

spera una madre che suo figlio cresca nel bene e non si abbandoni al male;

spera un padre che il figlio trovi lavoro;

 spera ciascuno di essere un po’ più felice, quando si alza la mattina dal letto; spera il malato l’attimo prima di ricevere l’anestesia per una operazione a cuore aperto (questa sì una speranza estrema).

 Non spera un animale.

Un animale ha istinti, bisogni fisiologici, non speranze.

 La speranza è dell’uomo e solo dell’uomo (dico uomo, rivendicando orgogliosamente il significato esteso di questo termine a comprendere tutti gli esseri umani sia maschi che femmine!).

“Dell’ultima foresta europea”: e qui il colpo di grazia! Oddio!

È rimasta una sola foresta in tutta Europa?

 Non ne sapevo niente, ma cosa aspettavo a svegliarmi (woke)?

Poi vai a leggere l’articolo e incredibilmente viene fuori che si parla dell’ultima (?) foresta primaria d’Europa, dove per primaria si intende intatta e non “contaminata” da alcuna presenza umana.

Qualcosa di simile alla giungla delle zone ancora inesplorate del nostro pianeta.

 In cosa consisterebbe, allora, la speranza contenuta nel grido di questa ultima foresta?

Che l’uomo non la visiti mai.

 Ed ecco che si chiude il cerchio. L’uomo è il crudele aguzzino che fa urlare estremamente il pianeta.

L’articolo contiene poi frasi di questo tenore:

 “Finora [noi uomini] abbiamo pensato di essere speciali, ma non lo siamo più di un picchio, che sfrutta l’energia del sole per seccare le pigne che mangerà;

non siamo la specie più efficiente, le formiche e le api sono in numero maggiore;

 non siamo la specie più grande, forse siamo i più popolari, il nostro problema è che finora non abbiamo “visto” la Natura [rigorosamente con la maiuscola], l’abbiamo solo usata, depredata, rubata”.

L’uomo è l’orco delle fiabe, mentre, se ci fate caso, il lupo non è più il cattivo, ma solo l’incompreso (vedi recentissimi e tristissimi fatti di cronaca).

È questo il messaggio che diamo ai nostri studenti?

Ma cosa ce ne facciamo allora della cultura?

Se l’uomo è uguale a un picchio (ma sicuramente inferiore, perché il picchio non inquina), quale sarà mai il valore dello studio, della civiltà, della cultura, dell’istruzione?

 Della poesia, dell’arte, della filosofia, della scienza?

Ma allora che senso ha la scuola? L’impegno, la responsabilità che chiediamo ai nostri studenti?

Non contano nulla, anzi sono forse deleteri, armi pericolose in mano ad un pazzo. L’uomo è un errore di natura, uno sbaglio che dobbiamo eliminare il prima possibile, per salvare il pianeta.

Esagero?

Ho letto questo articolo nel cambio dell’ora, aspettando di entrare in classe, una prima del liceo linguistico.

 Una volta dentro, dimentico l’articolo e, spiegando latino, mi viene da usare questa espressione: “L’uomo è un essere meraviglioso!”.

 La reazione immediata e comune di tutta la classe è di silenzio imbarazzato e sulle facce di molti si dipinge un’espressione di disgusto.

Allarmato, faccio un rapido esame di coscienza a nome di tutta l’umanità e, effettivamente, mi vengono in mente le ingiustizie sociali, le guerre, i popoli affamati dallo sfruttamento di altri popoli, l’ultimo articolo letto su una madre afghana costretta a vendere la propria figlia per 500 euro con cui sfamare per il mese successivo il resto della famiglia;

la nuova tratta degli schiavi e tutte le brutture che gli uomini rovesciano gli uni sugli altri ogni giorno.

 Allora, un po’ inibito, chiedo ad una studentessa che mi pareva particolarmente contrariata dalla mia entusiastica affermazione:

 “Non pensi che l’uomo sia un essere meraviglioso?”.

E lei risponde duramente: “L’uomo fa schifo!”.

 Ferito da tanta spietata crudezza, chiedo perché.

 E lei risponde: “Perché l’uomo inquina e uccide gli animali”.

Ok, non esageravo!

 

Stiamo crescendo una generazione di esseri umani che pensa che l’essere umano faccia schifo (senza distinzioni, né pietà) e fa schifo perché inquina.

Sono cresciuto con i miei insegnanti che mi trasmettevano, chi più chi meno, questo messaggio:

il mondo sta aspettando voi per eliminare le piaghe della società, cioè la fame nel mondo, le ingiustizie sociali, la disoccupazione, le guerre (ci ricordiamo la serie di miss Italia che dicevano sempre di desiderare la pace nel mondo? Bei tempi!) eccetera.

Di colpo tutto questo non esiste più.

Non solo, per i giovani di oggi non esistono alcune persone malvagie che fanno il male, ma a loro sarà chiesto di combattere contro tutto questo.

 No, per i nostri giovani non esistono buoni e cattivi: fanno tutti schifo, perché fanno del male, semplicemente esistendo, al pianeta.

Che così perde (Lui, il pianeta!) la speranza.

Altro che peccato originale, questo è peccato ontologico!

E la cosa veramente inquietante è che questo messaggio pestifero passa innanzitutto dalla scuola, che fin dall’asilo sottopone le menti dei nostri figli a questo plagio indefesso.

Perché, forse, ancora all’asilo “l’ideologia gender” non la veicoliamo, ma la crociata sull’ambiente se la beccano tutta e per benino.

Di fronte ai volti chiusi e decisi dei miei studenti era evidente che non sarebbe servito a nulla opporre delle affermazioni, per quanto ragionevoli e fattuali.

 In un illuminante momento di ispirazione ho capito cosa dovevo fare.

Dovevo porre delle domande.

Ne ho fatte tante, ne riporto qui solo tre.

 

1) Rispetto a trent’anni fa, secondo voi, le foreste in Europa sono aumentate o diminuite?

Uno studente, come risvegliandosi d’improvviso, ha detto che si ricordava vagamente di aver letto una volta un articolo in cui si diceva che le foreste, contrariamente a quanto si ritiene, fossero aumentate (in Italia negli ultimi 10 anni sono aumentate di 587mila ettari).

Di qui una serie di esclamazioni di incredulità e di sorpresa. Io ho solo detto di andare a verificare su internet.

2) Avete mai visto una foca o un panda che si prendono cura dell’estinzione delle foche e dei panda?

Che fanno “Friday for future” contro la CO2?

 Che attaccano le navi giapponesi per impedire la caccia alle balene?

Questa domanda li ha impegnati in un grosso dibattito, al termine del quale hanno concluso che, sì, solo l’uomo si prende cura dell’ambiente.

 Lo può distruggere, a volte, ma sicuramente è l’unico che lo può salvare e curare. E che se ne può preoccupare.

3) Tu inquini e uccidi gli animali?

Qualcuno di voi inquina e/o uccide gli animali?

 Quante persone conoscete che inquinano e uccidono gli animali?

 A questa domanda è seguito un silenzio profondo.

Vuoi vedere che quando diciamo che l’uomo fa schifo, stiamo usando una categoria astratta?

Vuoi vedere che stiamo facendo fuori noi stessi e l’esperienza che quotidianamente abbiamo di noi stessi e degli esseri umani reali che ci circondano?

Allora a poco a poco è venuto fuori che certamente esistono persone che inquinano e uccidono gli animali, che anche noi a volte possiamo aver inquinato, anche volutamente, ma che tante persone (forse la maggior parte?) non lo fanno o cercano di non farlo e che noi di solito non lo facciamo o cerchiamo di non farlo.

Poi è suonata la campanella e la lezione è finita, ma i ragazzi erano entusiasti, le loro facce erano radiose, come liberate (non uso a caso questo termine) da una cappa di ottusità.

Avevano improvvisamente avuto la possibilità di ragionare, di provare a rispondere a domande, di confrontarsi fra possibilità diverse di risposta, di sostenere le proprie opinioni, dovendo superare delle obiezioni.

Non dovevano assentire supinamente al” Verbo proclamato”, che da sempre lì raggiunge in ogni loro luogo di aggregazione.

Chesterton diceva che lo stupido non è colui che non ha un pensiero, ma colui che non ha un secondo pensiero da opporre al primo.

Non è questo che dovrebbe fare una scuola?

Quando sono entrato alla lezione successiva, una di loro (proprio quella che aveva detto che l’uomo fa schifo) ha alzato la mano e mi ha chiesto:

“Prof, possiamo farle due domande?”, “Certo”, “Cos’è la libertà? Cos’è l’amore?”. “Perché mi fate queste domande?”,

“Perché con lei si può discutere di cose importanti”.

 

 

 

TIMORI ANTITECNOLOGICI.

Il capitalismo della sorveglianza è

davvero peggio del controllo dello Stato?

Sfatiamo qualche mito.

Agendadigitale.eu - Emmanuele Somma – (28 Nov. 2022) – ci dice:

 

Cultura E Società Digitali.

La logica conclusione dell’“intera teoria del capitalismo della sorveglianza” sta nella costituzione di una necessaria sorveglianza sul comportamento dei cittadini oltre quella dei già sorveglianti capitalisti:

quindi una sorveglianza al quadrato.

Come dire, cadere dalla padella nella brace.

 

L’espressione “Capitalismo della sorveglianza” è una formula di successo ma nasconde più problemi di quanti non ne spieghi.

Molto più del libro di” Shoshana Zuboff”, l’espressione “Capitalismo della Sorveglianza” ha conosciuto un successo planetario.

Catalizza, in una formula facile e ben spendibile, l’intera gamma dei timori antitecnologici di una popolazione che, ancora oggi a più di 30 anni di distanza dalla sua diffusione pubblica, vive Internet con paura e sospetto.

 Rappresenta anche una fortunata inversione di una formula altrettanto popolare e condivisa: “Sorveglianza del capitalismo”.

What Is Surveillance Capitalism?  “Shoshana Zuboff”

In verità, la tesi del capitalismo della sorveglianza ha una base teorica debole.

Propone una narrazione affascinante ma non giustificata da dati, fatti e conoscenze, e se mette in luce un aspetto deleterio dell’attuale fase storica, l’abuso dei profili online, contribuisce a nascondere problemi più gravi e preoccupanti.

Una breve sintesi della teoria del capitalismo della sorveglianza.

Soshana Zuboff ha (non) sintetizzato nelle 700 e passa pagine di “The Age of Surveillance Capitalism” la sua nuova teoria critica adatta al mondo attuale.

Anticipata da una serie di articoli sul “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, questa teoria si fonda su una ennesima riproposizione del classico confronto tra i fattori della produzione industriale.

 Una molto approfondita analisi delle componenti di questa teoria si trova nel lungo articolo di “Evgenyi Morozov “su “The Baffler”, intitolato evocativamente «I vestiti nuovi del capitalismo».

In sostanza, a parte lo sfortunato incidente di aver riproposto una dizione proveniente dalla precedente analisi marxista con lo stesso nome sul “Monthly Review” (molto più radicale), la Zuboff sostiene che il capitalismo ha cambiato pelle e dismesse completamente le forme, le leggi e gli obiettivi classici del sistema capitalista, sia entrato in una nuova fase in cui né lavoro, né capitale siano più al centro della scena, ma lo sono i dati e il loro sfruttamento.

La critica classica al capitalismo si è sempre basata sul fatto che, per via di qualche mai troppo ben identificato fattore, i capitalisti sarebbero stati in grado di convincere i lavoratori a offrire un surplus del proprio lavoro sulla base del quale verrebbe a costituirsi questo tanto contestato capitale con cui le classi borghesi dominerebbero indisturbate il mondo.

 A qualche centinaio di anni di distanza dalla definizione di questa teoria è quantomeno difficile liquidarla superficialmente anche se, dichiaratamente, non prende in considerazione una tanto grande varietà di fattori.

Queste mancanze hanno dato modo ad una infinità di scuole o pensatori, a sostegno o contro, di esercitarsi intellettualmente (con non troppe ricadute pratica, va detto).

 Le tante incarnazioni delle teorie critiche al capitalismo si sono esercitate nell’includere o escludere fattori o agenti, ragioni o patimenti.

 

Quella della” Zuboff” è una nuova incarnazione di teoria critica del capitalismo in cui però non c’è più bisogno del lavoro perché il surplus può essere estratto direttamente dai consumatori.

In questo strano modello di capitalismo, i lavoratori svaniscono e i consumatori fanno tutto da sé:

generano il valore e anche quel surplus che è estratto dalle aziende adattate a questo compito.

Il surplus è generato con la creazione di dati, tanti dati, troppi dati: un surplus appunto.

Le aziende accusate di essere capitaliste della sorveglianza non sono mai valutate in relazione al prodotto che offrono (il motore di ricerca per Google, il social network per Facebook, ecc.) o ai lavoratori che impiegano (programmatori, progettisti, creativi, ecc.), tutto quello che importa è l’espropriazione dei dati.

Il modello è un po’ sbilenco e non viene mai messo alla prova di una critica, in particolare viene trascurata ogni possibile logica alternativa, anche quelle ormai ben note nel campo.

 Il capitalismo della sorveglianza è pura invenzione narrativa, affascinante ma poco realistica.

Morozov ha gioco abbastanza facile ad azzoppare ognuna delle tesi su cui si fonda.

Una non-critica del capitalismo.

Due sono i principali punti d’attacco alla teoria del capitalismo della sorveglianza. Il primo è la contestazione del modello universalistico proposto dalla Zuboff, laddove sostiene una totale mutazione del capitalismo, e persino delle sue leggi fondamentali: il nuovo capitalismo è data-capitalism, o non è.

Questa critica, come detto, è molto ben svolta da Morozov.

 In sostanza si contesta che concentrandosi sul dettaglio dell’economia dei dati e della sorveglianza si perde di vista, ma soprattutto si finisce per giustificare, il corpo intero del modello capitalista di cui la connotazione “di sorveglianza” è invece solo una narrazione.

La posizione della Zuboff stessa è veramente ambigua sul tema quando, a differenza delle critiche più radicali del “Monthly Review”, e soprattutto in linea con il suo precedente libro “The Support Economy” appare essere affascinata da un “capitalismo del patrocinio” (advocacy capitalism), ovvero quello delle aziende che, proprio come quelle del capitalismo di sorveglianza, estraggono i dati dei consumatori, ma li usano solo per migliorare i propri servizi, dare suggerimenti ai clienti o indirizzarli verso nuovi prodotti.

Insomma, quelle che non forniscono prodotti di previsione (come si faccia questa suddivisione non è chiara, però).

Così come Google è sulla graticola in “The Age of Surveillance Capitalism”, Apple era sul podio in “The Support Economy”.

 

Zuboff non ha una storia professionale da anticapitalista e sebbene le sue tesi assorbano consistenza teorica da approcci storicamente critici con il capitalismo tout-court (come quelle di Toni Negri), non superano mai una soglia di verace opposizione al capitalismo.

Si potrebbe quindi dire che la teoria è molto più critica della “sorveglianza” che non del “capitalismo”.

 Ma anche questo appare poco giustificato perché al “capitalismo di patrocinio” (anche citato come capitalismo di difesa, in opposizione a quello di sorveglianza che quindi sarebbe un capitalismo di attacco), apprezzato dalla Zuboff e quasi proposto come alternativa salvifica, sono permesse le stesse identiche pratiche del capitalisti della sorveglianza, né la privacy dei consumatori verrebbe tanto meglio tutelata, ma in questo caso, poiché non sarebbe la previsione l’unità di prodotto, allora tutto andrebbe (magicamente?) bene.

 Ma c’è di più.

 

Una non-critica della sorveglianza.

Il secondo punto d’attacco alla teoria del capitalismo di sorveglianza è di natura strettamente politica.

La teoria vanta una completa mutazione del capitalismo, tanto che tutti ne sarebbero affetti, eppure sostiene la Zuboff che un’evoluzione possibile starebbe nell’esacerbare la falsa dicotomia tra imprese di capitalismo-sorvegliante (cattive) e imprese di capitalismo-patrocinante (buone), per riportare le prime, in forza di azioni legali o tramite moral suasion, alle seconde.

La dicotomia però permette di fare catalogazioni arbitrarie a seconda del punto di vista e soprattutto apre uno spazio di arbitraggio sui comportamenti delle imprese per stabilire cosa è sorveglianza e cosa è mero patrocinio.

 I suggerimenti di Amazon sono sorveglianza o patrocinio? Gli elettrocardiogrammi dell’iWatch per stimolare una vita più sana, cosa sono? Gli avvisi di Google Maps su quale strada è meno trafficata sanno di Grande Fratello o no? Quale di questa è una feature pericolosa e dunque condannabile?

Chi decide?

Questo ruolo di censore, sottratto alla scelta autonoma del consumatore, sempre paternalisticamente da tutelare, ricade sull’autorità pubblica che dovrà quindi esercitare una sorveglianza sul capitalismo di sorveglianza per discriminare i comportamenti adeguati da quelli inadeguati.

Ma i comportamenti di chi?

Il capitalismo di sorveglianza è un capitalismo di sorveglianza-sui-cittadini/consumatori;

quindi, la paternalistica mano dell’autorità pubblica pronta a sorvegliare i capitalisti della sorveglianza, che ormai non hanno più né lavoratori, né mezzi di produzione, ma solo il surplus generato dai cittadini, non potrà fare altro che sorvegliare… i cittadini stessi, ovvero quello che c’è in fondo alla catena del valore.

La logica conclusione dell’intera teoria del capitalismo della sorveglianza sta nella costituzione di una necessaria sorveglianza sul comportamento dei cittadini oltre quella dei già sorveglianti capitalisti: quindi una sorveglianza al quadrato.

Conclusioni

In definitiva, per tutelarsi dal regime narrativo del capitalismo della sorveglianza raccontato dalla Zuboff, sarà necessario offrirsi al regime burocratico statale e per sottrarsi dai poteri, ampi ma limitati, di un impero delle nuvole (secondo la definizione Vili Lehdonvirta nel suo Cloud Empires) bisogna consegnarsi ancora più completamente al potere degli Stati terreni.

Una riprova eclatante può ritrovarsi nell’azione dell’Unione Europea in vena di riconquistare la propria sovranità digitale, per mezzo della residency dei dati.

A questo punto, nessuno può pensare sia una casualità il fatto che tutta la propaganda europea si basi proprio sulle teorie del capitalismo della sorveglianza.

Al cittadino/consumatore, con buona pace dell’affermazione dei principi di autodeterminazione informativa, non resta che passare dalla padella della sorveglianza delle piattaforme alla brace della sorveglianza dei poteri pubblici.

Con una differenza, sotto la padella nessuna Zuboff ha dimostrato che ci sia un fuoco della sorveglianza acceso, quello che c’è potrebbe essere solo quello del solito capitalismo.

Che la brace dei poteri pubblici scotti, con le agenzie di intelligence, i captatori giudiziari, le indagini fiscali e via dicendo, è invece una certezza.

 

 

 

Alla ricerca di un nuovo ordine.

Ispionline.it – Ugo Tramballi – (21 Nov. 2022) – ci dice:

Delle tante pronunciate al G20, c'è una frase che più delle altre illustra la fase geopolitica nella quale stiamo entrando: “Non dobbiamo dividere di nuovo il mondo”.

 Lo ha detto Joko Widodo, il presidente indonesiano.

 È qualcosa di più di una generica esortazione alla pace.

 È come un avviso dei paesi emergenti, il Sud del mondo, alle grandi potenze: Usa/Occidente, Russia e Cina.

“Grazie, abbiamo già dato”.

Salvo qualche tensione nucleare, la lunga epoca della Guerra Fredda era in qualche modo ordinata perché non prevedeva terze vie fra Usa e Urss: il resto del mondo poteva stare da una parte o dall'altra.

 Non era una scelta indolore.

La guerra è stata fredda nello scontro ideologico diretto tra Washington e Mosca:

ma in America Latina, Africa, Medio ed Estremo Oriente, conflitti, golpe e rivoluzioni hanno causato milioni di morti e impedito lo sviluppo economico.

Secondo il nostro punto di vista occidentale, l’aggressione della Russia doveva essere portata doverosamente a Bali.

Pur nelle sue ambiguità diplomatiche, la dichiarazione finale del G20 ne riconosce la gravità e fa di Putin un paria della comunità internazionale.

Ma per molti potenziali grandi del G20 è stato invece come riproporre una continuazione della Guerra Fredda nella quale non intendono tornare.

Stati Uniti contro Russia.

Conta poco che oggi ci sia anche la Cina, che Pechino sia ormai molto più potente e influente di Mosca: due o tre, è sempre uno scontro fra superpotenze con ambizioni più ampie delle loro naturali sfere geografiche.

Lo scorso marzo aveva fatto scalpore che all'assemblea generale dell'Onu, India, Indonesia, alcuni altri e 17 paesi africani, si fossero astenuti dalla condanna all'aggressione russa.

 A Putin ha fatto comodo ma a chi si è astenuto importava relativamente.

Il voto intendeva sottolineare che quella ucraina era una guerra europea, per quanto dalle diramazioni economiche globali.

 E il fatto che avvenisse in Europa per noi era un pericolosissimo precedente;

 a loro segnalava invece un cambio di paradigma: d'ora in poi i conflitti e le alleanze saranno mobili, relativamente impegnative.

Il modello più riuscito di questo nuovo sistema on demand è l'India:

 qualche nemico, molti amici, nessun alleato.

 Cliente della Russia per l'energia;

 associato a Stati Uniti e Giappone nel contenimento delle ambizioni cinesi sull'Himalaya;

 partner della Cina nei commerci.

 Anche se all'ultimo congresso del Pcc Xi Jinping è tornato al marxleninismo, non ci sono più ideologie che impegnino; sia pure con qualche sfumatura diversa, il libero mercato è universale.

Dunque, non ci sono più barriere invalicabili che impediscano una geopolitica mobile.

 Già il G20 è un format nato nel 1999, a Guerra Fredda sepolta.

Tuttavia, le tre superpotenze e la guerra in Ucraina sono comunque state le protagoniste di questo consesso.

Quelle che davvero lo sono – la vecchia potenza americana che non dà segni di cedimento e la nuova cinese sempre più ambiziosa – hanno offerto segni confortanti.

 

Nel loro schietto incontro, Biden e Xi hanno riconosciuto le reciproche ambizioni e di essere legittimamente in competizione.

È stato come i primi faccia a faccio tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, alle metà degli anni Ottanta. I

l loro” agree to disagree”, riconoscere che non essere d'accordo non è un ostacolo, in pochi anni portò a intese strepitose.

Il passaggio a Bali della guerra in Ucraina è stato un nuovo disastro per Vladimir Putin:

 come la sconfitta militare, la presunzione di tenere la Nato lontana dalle sue frontiere, l'irresponsabile minaccia dell'arma nucleare.

 Le dichiarazioni di Serghei Lavrov, la sua partenza furtiva dall'Indonesia e subito dopo l'offensiva missilistica russa sulle città ucraine, hanno costretto anche i più riluttanti a sottoscrivere la dichiarazione finale del summit.

Se la Cina non ha mostrato palesemente la sua insofferenza per le azioni russe è solo perché sarebbe stato concedere una inammissibile vittoria a Joe Biden.

Ma una Russia fuori controllo richiede con più urgenza l'uso della diplomazia per trovare la strada fra le aspettative degli ucraini e le illusioni russe.

Il mondo che sta crescendo è più libero ma potenzialmente più pericoloso.

(Ugo Tramballi - Senior Advisor, ISPI)

 

 

 

 

Il nuovo ordine multipolare di Xi.

Affarinternazionali.it - Vittoria Mazzieri - China Files – (23 Marzo 2023) – ci dice:

 

Dalle “Due sessioni”, (in cinese 两会 lianghui), gli incontri dell’Assemblea nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese che si sono conclusi il 13 marzo scorso, la Cina ha rafforzato la pretesa di proporsi come “potenza responsabile”, capace di “mediare” tra attori terzi.

 Lo ha già dimostrato rivendicando come un proprio successo diplomatico l’accordo tra Iran e Arabia Saudita.

Ma il cambio di prospettiva estera è stato sottolineato anche nel discorso tenuto da Xi Jinping di fronte all’organo consultivo.

Alcuni osservatori hanno evidenziato una postura più proattiva sul fronte internazionale, che Xi ha proposto attraverso la reinterpretazione della formula di Deng Xiaoping.

 L’uomo artefice delle riforme, il “piccolo timoniere”, incoraggiava a “osservare con calma” e “mantenere le posizioni”.

Xi, enfatizzano i quotidiani nazionali, a “cercare attivamente il cambiamento”, “progredire nella stabilità”, “stare uniti e osare combattere”.

In questo scenario si iscrive la visita di tre giorni che Xi ha compiuto a Mosca, e che si è conclusa il 22 marzo.

Un “evento storico”, come descritto dal Quotidiano del popolo, che si configura come una manovra diplomatica in cui Pechino rinnova il tentativo di giocare un ruolo sulla guerra in Ucraina.

 Nel secondo giorno di colloqui tra i due “cari amici”, Vladimir Putin ha promesso di “studiare con attenzione” il “position paper” in cui a fine febbraio la Repubblica popolare ha proposto al mondo la sua visione sulla guerra in Ucraina (in quell’occasione definita “crisi”) e sul mondo a venire.

Un mondo multipolare.

Nessun modello di governo è universale e nessun singolo paese dovrebbe dettare l’ordine internazionale”, si legge nell’articolo scritto da Xi per la stampa russa poche ore prima della visita a Mosca.

Un mondo multipolare, con Pechino che ne raccoglie i frutti.

Più che configurarsi come un attore realmente capace di mediare il conflitto in Ucraina, la Repubblica popolare ribadisce l’importanza della “pace e del dialogo”.

 La Cina resta “dalla parte giusta della Storia”, come sostenuto dalla portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying durante i colloqui Xi-Putin.

 E nelle prossime ore sarebbe in programma anche una telefonata con Volodymyr Zelensky.

Nell’articolo riportato dai media russi precedente alla visita a Mosca, Xi Jinping ha enfatizzato il concetto di “sicurezza collettiva “.

Non solo, quindi, “sicurezza” come imprescindibile “fondamento dello sviluppo”, ma anche portatrice di una valenza “globale”: l’unico approccio mediante il quale si potrà pensare di raggiungere la risoluzione del conflitto.

Gli Stati Uniti, invece, vengono additati per diffondere una mentalità da Guerra fredda.

 La dichiarazione congiunta che è seguita ai colloqui tra i due leader chiama in causa il timore che Washington continui a minacciare la sicurezza globale per “garantirsi un vantaggio militare”.

Per risolvere la “crisi ucraina”, ribadisce il documento, è necessario “rispettare le legittime preoccupazioni di tutti i paesi in materia di sicurezza e prevenire la formazione di scontri tra blocchi”.

Conferme e nuove nomine.

Quello a Mosca è il primo viaggio fuori dai confini dopo la rielezione al terzo mandato del presidente della Repubblica popolare.

Una storica rielezione votata all’unanimità da membri del Parlamento il 10 marzo scorso.

Nei giorni successivi sono state assegnate le nuove nomine, tutte ampiamente attese, e molte delle quali ricoperte da funzionari fedeli a Xi.

 La figura più rilevante è quella dell’ex segretario di Partito a Shanghai Li Qiang, che subentra a Li Keqiang come nuovo premier.

In un momento caratterizzato da numerose “sfide”, dalla crisi demografica a quella del settore immobiliare, dalla contrattura del mercato occupazionale alle tensioni con gli Stati Uniti, Li dovrà occuparsi di rilanciare l’economia.

Ma dopo anni in cui il suo predecessore ha visto diminuire il suo potere decisionale, ci si chiede quale sarà la sua postura:

come detto al “South China Morning Post” dall’analista Wu Qiang, la nomina di una figura così vicina al leader “potrebbe dimostrare la debolezza del Consiglio di Stato”.

 Nel prossimo quinquennio, quindi, Li potrebbe operare nient’altro che come un fedele esecutore delle politiche di Xi.

Secondo altri osservatori, invece, proprio il suo stretto rapporto con il presidente potrebbe consentirgli una più ampia libertà di manovra.

Qin Gang, ex ambasciatore a Washington, è il neo ministro degli Esteri.

Il nuovo ministro della difesa è invece Li Shangfu: ingegnere aerospaziale, membro della Commissione militare centrale e sanzionato dagli Stati Uniti dal 2018 per aver acquistato caccia e sistemi di difesa aerea russi.

La sua nomina potrebbe avere un duplice significato: un messaggio a Washington sulla volontà di non piegarsi alle sanzioni, e un segnale di sostegno a Mosca.

 Zhao Leji, ex numero uno della Commissione centrale per l’ispezione disciplinare e uomo cardine nella lotta alla corruzione, è stato nominato a capo dell’”Assemblea nazionale del popolo”.

Riconfermato Yi Gang come governatore della Banca centrale.

Secondo il WALL Street Journal Yi manterrà la carica per alcuni mesi allo scopo di garantire stabilità durante le riforme che interesseranno il settore finanziario.

Ottimizzare” le istituzioni

Per abbracciare la stabilità sul fronte interno ed esterno e trainare uno sviluppo che sia resiliente alle sfide esterne, serve un controllo saldo dei settori strategici.

L’atteso piano di ristrutturazione delle istituzioni, pubblicato il 16 marzo, consentirà al Partito di farsi carico di alcune importanti funzioni prima svolte dal Consiglio di Stato.

 Segnale, come ha scritto lo studioso di lungo corso del contesto cinese “Bill Bishop”, che “il Partito continua a fagocitare lo Stato”.

 

I media statali ne hanno parlato come di un passo decisivo per “ottimizzare” e migliorare l’“efficienza” delle istituzioni.

Oltre alla ristrutturazione del ministero della Scienza e della Tecnologia, si prevede la creazione di una Commissione centrale per la scienza e la tecnologia sotto il controllo del Partito.

 La Commissione centrale per la finanza, invece, lavorerà insieme a un nuovo organismo statale, l’”Amministrazione nazionale di regolamentazione finanziaria”, che avrà il compito di supervisionare le attività bancarie e proteggere gli investitori.

Il piano di riforma, quindi, prevede la nascita di nuovi organismi che consentiranno un accentramento dei poteri statali nelle mani del Partito, e velocizzeranno l’approvazione delle leggi in caso di emergenza.

 Altro punto rilevante è la creazione di un’agenzia che permetterà a Pechino di ottimizzare la raccolta e la gestione dei dati.

Crescita economica.

Nel consueto rapporto che suggella l’inizio delle due sessioni, il premier uscente Li Keqiang ha presentato le direttive economiche per l’anno a venire.

Obiettivo ultimo, “stabilità”, parola comparsa per ben 33 volte nel discorso.

Ma anche sviluppo: sono stati annunciati finanziamenti speciali per i settori strategici come quello dei semiconduttori, che rispondono all’enfasi del leader sulla necessità di perseguire l’“autosufficienza tecnologica” e uno sviluppo guidato dall’innovazione.

Per il 2023 è stato fissato un obiettivo di crescita del Pil al 5%, di poco più cauto rispetto al 5,5% che Pechino aveva previsto per il 2022 (anno che si è concluso con una crescita di non oltre il 3%).

Come chiarito nei giorni successivi dal nuovo premier Li Qiang, perseguire i nuovi obiettivi di crescita “non sarà un compito facile”.

Li, tuttavia, ha usato toni ottimistici su questioni che negli ultimi anni hanno preoccupato l’opinione pubblica: la cifra record di 11,58 milioni di neolaureati previsti nel 2023 sarà capace di portare “vitalità ed energia” all’economia.

Rassicurazioni anche per il settore privato: il nuovo premier ha chiarito che la Cina proseguirà sulla strada delle riforme.

Stati Uniti e Taiwan.

Il 7 marzo, di fronte ai membri dell’organo consultivo, Xi ha accusato gli Stati Uniti di mettere in atto un’azione di “contenimento, accerchiamento e soppressione” del Paese, causando “gravi sfide senza precedenti allo sviluppo” della Repubblica popolare.

“L’accerchiamento e la soppressione”, ha ribadito Li Qiang, “non sono vantaggiosi per nessuno”.

 Affermazioni più critiche sono state pronunciate da Qin Gang: il nuovo ministro degli Esteri ha accusato Washington di voler deteriorare le relazioni con Pechino.

“Se gli Stati Uniti continuano a percorrere la strada sbagliata”, ha aggiunto, “ci saranno sicuramente conflitti e scontri”.

Parole che hanno allarmato alcuni osservatori occidentali, che hanno riconosciuto un’avvisaglia di uno scontro a breve termine.

Di fatto, la Repubblica popolare ha abbracciato un trend di crescita delle spese per il comparto militare.

Per il 2023 ci si aspetta un aumento del 7,2%, più dell’aumento del 7,1% dell’anno precedente.

 Come fatto più volte dallo stesso Xi Jinping, a inizio delle due sessioni Li Keqiang ha avvisato l’Esercito popolare di liberazione della necessità di aumentare la sua “prontezza a combattere”, nell’ottica di concludere nel 2027 la fase di ammodernamento militare lanciata nel 2015.

 Come in altre occasioni, il leader ha esortato le forze armate a diventare una “grande muraglia d’acciaio”, capace di salvaguardare la sicurezza e gli interessi di sviluppo della nazione.

Ma ai toni più espliciti nei confronti di Washington si è affiancata quella che Lorenzo Lamperti nella rubrica Taiwan Files ha definito una “posizione cauta sulla politica di Taiwan”.

Pechino ha cercato “di sminuire le speculazioni secondo cui l’isola potrebbe diventare la prossima Ucraina”.

Pur facendo riferimento agli “incessanti” sforzi di promuovere la “riunificazione” di Taipei alla “madrepatria”, Xi ha menzionato una “soluzione pacifica”, evitando i toni aggressivi usati in altre occasioni.

 

 

Gli obiettivi del piano per

la nuova industria ‘verde’ europea.

Affarinternazionali.it - Riccardo Bosticco – (27 Marzo 2023) – ci dice:

 

Gli sforzi volti al contrasto dei cambiamenti climatici intersecano in misura crescente la competizione tra grandi potenze.

Tra gli attori più decisivi, la Repubblica Popolare Cinese, gli Stati Uniti e l’Unione europea (Ue) si stanno muovendo per implementare una politica climatica efficace che tenga in considerazione le rispettive priorità sul piano strategico.

 In questo quadro, gli sforzi rispettivi riguardano anche la definizione di politiche industriali volte a produrre le capacità necessarie nel settore delle tecnologie rinnovabili, come le batterie elettriche e i fotovoltaici ma non solo, alla ricerca della leadership nel settore.

Politiche protezionistiche e competizione ‘verde.’

Da questo punto di vista, la Cina è l’attore che pare aver agito più efficacemente. Grazie a politiche industriali decennali e misure talvolta in contrasto con le regole della competizione, il Paese è venuto ad occupare un ruolo dominante nelle catene di valore verdi, specialmente nei settori delle batterie e della mobilità elettrica, del fotovoltaico, e delle turbine eoliche.

Tuttavia, il fatto che si trovi in una posizione vantaggiosa in un mercato in crescente espansione contrasta con gli interessi di altre potenze.

Nell’agosto 2022, l’amministrazione americana ha approvato “l’Inflation Reduction Act” (IRA), un pacchetto di misure che, assegnando quasi 370 miliardi di dollari al settore verde, mira a ottenere molteplici risultati, tra cui quello di accelerare la decarbonizzazione, aumentare la capacità di produzione domestica delle tecnologie rinnovabili, e ridurre la dipendenza tecnologica dalla Cina.

L’IRA amplia gli investimenti finalizzati alla riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030 e all’aumento degli impieghi nei settori verdi.

 Inoltre, offre incentivi sostanziali agli investimenti privati, nella forma di crediti d’imposta, che riguardano principalmente la mobilità elettrica.

Pone, però, come condizione agli incentivi la provenienza di materiali e batterie elettriche dal Nordamerica e, pertanto, rischia di porsi in contrasto con alcune regole del commercio internazionale.

Per queste ragioni, il piano americano ha provocato critiche e accuse di protezionismo da parte di molti paesi europei.

Ciononostante, diverse aziende europee hanno preso in considerazione la possibilità di trasferire la produzione oltreoceano.

 L’IRA rischia infatti di disincentivare gli investimenti verdi in Europa, spostandoli verso le più vantaggiose condizioni offerte dagli Stati Uniti.

Un Piano industriale verde europeo.

Di fronte a questa possibilità, l’Ue si è attivata per formulare una risposta adeguata.

 Lo scorso febbraio, la Commissione ha presentato il “Green Deal Industrial Plan” (GDIP) a complemento delle misure già presenti nel quadro del Green Deal.

Il piano, che prevede azioni di tipo regolatorio, commerciale e finanziario, ha l’obiettivo di rendere l’Europa il primo continente a impatto zero evitando che piani altrui, come l’IRA, ostacolino i potenziali investimenti in Europa, e riducendo la crescente dipendenza europea dalla Cina.

Aggiungendosi ad altri strumenti finora utilizzati, come i “Progetti di Interesse Comune”, canali di finanziamento che passano per la “Banca Europea degli Investimenti” e i sussidi in seno agli Stati membri, il GDIP mira a velocizzare l’approvazione dei progetti relativi alle tecnologie verdi all’interno del mercato europeo, accelerare gli investimenti ed i finanziamenti nel settore, e accrescere la sicurezza delle relative catene di approvvigionamento.

Infine, dopo la loro introduzione nella giornata di martedì 16 marzo, al GDIP sono annessi il “Critical Raw Materials Act”, volto a garantire l’approvvigionamento di minerali critici per la produzione delle tecnologie, e il “Net-Zero Industry Act” (NZIA), il quale definisce l’obiettivo di soddisfare attraverso la produzione domestica il 40% della domanda di tecnologie pulite entro il 2030 e ridurre la dipendenza dalle importazioni “Cleantech” dalla Cina.

Tuttavia, secondo Bruegel, l’NZIA mantiene una certa ambiguità e rimane da valutarne la consistenza con le disposizioni del commercio internazionale.

Tra geoeconomia e transizione energetica.

Il “tit-for-tat” nell’ambito degli incentivi alla produzione “cleantech” di cui finora si è parlato si inserisce in un quadro più ampio e frammentato.

La rivalità sino-americana in atto ormai da tempo e l’attuale guerra in Ucraina indicano infatti uno stato degli affari internazionali poco stabile e prevedibile, comportando inevitabili diffidenze e contrasti.

 

Servendosi della teoria geoeconomica, è possibile spiegare come strumenti di natura economica – come dazi, sussidi, accordi commerciali, ma anche forme di politica industriale – possano essere utilizzati a fini di natura geostrategica, seguendo una logica di guadagni relativi, per cui un’azione che avvantaggia X corrisponde ad una situazione svantaggiosa per Y nel medio-lungo termine.

 

L’IRA cadrebbe in questa categorizzazione poiché limita i sussidi secondo “local-content requirements” – ossia, pone come condizione ai finanziamenti la provenienza di tecnologie e materiali dal Nordamerica – e li giustifica con la necessità di migliorare le capacità produttive americane e ridurre la crescente fetta di mercato occupata dalla Cina.

 Allo stesso modo, il GDIP può rappresentare una soluzione di carattere geoeconomico all’IRA, dal quale l’UE è impattata in modo negativo, e alla crescente dipendenza dalle tecnologie di provenienza cinese.

D’altro canto, il Covid-19 prima e la guerra russa in Ucraina poi, hanno evidenziato la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento ed il loro potenziale impiego a fini strategici;

 per questo motivo, evitare nuove forme di interdipendenza con partner ambigui è più necessario che mai.

Ma come conciliare queste priorità con un’efficace azione climatica globale che vada al di là della competizione strategica?

Le priorità dell’Ue

Idealmente, la decarbonizzazione dell’economia dovrebbe avvenire con efficienza e rapidità, ma l’adeguamento a forme di rivalità strategica intralcia tale percorso, impedendo un’attenzione esclusiva agli obiettivi climatici.

Le azioni utili a garantirsi la leadership nei settori chiave della transizione e a proteggersi dalla vulnerabilità dei rischi presenti lungo le catene di valore, infatti, complicano i calcoli della decarbonizzazione e rischiano di minarne il percorso.

In questo quadro, l’Unione europea deve mostrarsi pronta a perseguire azioni illecite da parte degli altri attori internazionali e costruire catene di valore resilienti ad ogni eventualità, per cui è fondamentale scegliere attentamente i partner strategici, monitorare più intensamente i rischi presenti lungo “le supply chains”, e costruire un sistema di diversificazione delle fonti di approvvigionamento efficace.

Dall’altro lato, però, “la leadership climatica europea” dovrebbe evitare di ridurre le relazioni internazionali ad una pura logica di guadagni relativi, costruendo una strategia che, contemporaneamente, protegga il mercato da azioni illecite e accresca la cooperazione tra attori diversi ai fini della decarbonizzazione.

Per esempio, l’UE dovrebbe evitare i cosiddetti” local-content requirements”, che esacerberebbero dinamiche protezionistiche, e altre forme di elusione delle regole del commercio internazionale.

Nel lungo periodo, è necessario che compia investimenti di scala, garantisca la predicibilità delle azioni a tutti gli attori economici, semplifichi ulteriormente i processi di approvazione e finanziamento dei progetti, e costruisca un finora assente piano di investimenti europeo che dimostri la capacità europea di guardare al lungo periodo e, allo stesso tempo, di agire concretamente su di esso.

In sostanza, l’Ue dovrebbe mantenersi leale a due priorità:

 la prima e imprescindibile, la decarbonizzazione dell’economia; la seconda, la costruzione di una leadership europea che superi le dinamiche competitive che caratterizzano lo stato attuale delle relazioni internazionali.

Solo allora sarà possibile rendere strategie come il GDIP coerenti con una leadership che vada oltre alla progressiva frammentazione dell’ordine mondiale.

 

 

 

 

BRICS e nuovo ordine mondiale.

Parla Marco Ricceri.

 Ytali.com - ANNALISA BOTTANI – (7 Febbraio 2023) – ci dikce:

Interpretare i nuovi scenari e le nuove alleanze definiti anche a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Questa è l’importante sfida da cogliere per comprendere le prospettive

 di breve e medio periodo e le dinamiche che caratterizzeranno l’assetto internazionale.

In tale contesto, il coordinamento BRICS riveste un ruolo strategico, anche alla luce del suo futuro ampliamento.

Ne abbiamo parlato con il Professor Marco Ricceri, “segretario generale dell’Istituto di studi e ricerche Eurispes” ed esperto di politiche sociali e del lavoro europee.

 

“Una realtà strutturale, non congiunturale ed effimera”, così ha definito i BRICS nel corso della sua ultima conversazione con ytali.

A distanza di quasi tre anni, lo scenario politico mondiale è radicalmente cambiato, dalla diffusione della pandemia alla crisi economica globale, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa a nuovi disequilibri geopolitici che si stanno intensificando con il passare dei mesi, anche a fronte del rifiuto russo di cessare le ostilità.

A suo avviso, quali sono i fenomeni cruciali emersi in questi tre anni nell’ambito dei BRICS, che valgono ormai circa un quarto del Pil mondiale?

Con i BRICS siamo di fronte a un coordinamento importante tra Stati che svolgono un ruolo di primo piano sulla scena internazionale e che, contrariamente a molte previsioni, è riuscito a mantenersi attivo e consolidarsi in questi anni, intensificando – questo è il punto da sottolineare – sia la cooperazione interna sia la cooperazione esterna.

 È sufficiente esaminare i progetti e le iniziative comuni promossi con gli ultimi vertici nei più diversi ambiti di attività per avere un’idea precisa di questo processo di consolidamento interno ed esterno.

Come noto, i vertici degli ultimi anni – Mosca 2020, New Delhi 2021, Pechino 2022 – sono stati preparati e seguiti da numerosi incontri ai più diversi livelli, da quelli ministeriali a quelli di esperti, operatori economici, accademici e altro, che hanno disegnato e definito precise linee di cooperazione.

A titolo di esempio, si può citare il programma strategico di Partenariato Economico 2025 che ha individuato le aree di maggior intervento, dall’energia all’industria, dal digitale all’agricoltura, dal commercio ai servizi.

Nella proiezione esterna il coordinamento BRICS ha rilanciato i due progetti, BRICS Plus e BRICS Outreach, anche per rispondere alle richieste di adesione e/o di collaborazione con il raggruppamento che sono pervenute da numerosi Stati di diversi continenti, dall’America Latina all’Africa, dalla realtà mediterranea al Sud-Est asiatico.

 

BRICS+186 Paesi.

L’ultimo summit virtuale a guida cinese svoltosi a giugno dello scorso anno, secondo alcuni analisti, è stato una preziosa occasione per la Cina, che ha un ruolo predominante in termini economici, per delineare la proposta di un nuovo assetto multipolare che possa coinvolgere ulteriori Paesi in via di sviluppo (tra cui Argentina, Iran e Algeria che hanno già formalizzato la richiesta di adesione ai BRICS) e porsi quale alternativa ad alcuni soggetti politici occidentali (il G7, ad esempio).

Il vertice G20, tenutosi a Bali a novembre del 2022, tuttavia, non si è focalizzato solo sul confronto tra superpotenze, ossia Cina e Stati Uniti.

Altri Paesi membri (ad esempio, Brasile, India, Indonesia, Messico, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia), infatti, hanno richiesto il riconoscimento delle proprie istanze, manifestando la necessità di portare avanti la propria agenda, a prescindere dalle pressioni internazionali e dal conflitto in Ucraina, considerato una “distrazione dalla sicurezza e dallo sviluppo economico”.

Come ha influito l’esito di questi due vertici sui rapporti tra i Paesi BRICS e sull’implementazione delle progettualità congiunte?

Per capire l’impatto di questi due vertici – quello BRICS svoltosi a Pechino a giugno del 2022 e quello del G20 a Bali, in Indonesia, a novembre dello stesso anno, sui rapporti tra gli Stati del raggruppamento, bisogna riflettere su un dato importante di premessa: fin dalla loro costituzione formale nel 2009 e poi nel corso di tutti gli anni successivi i BRICS si sono sempre posti come riformatori, non come distruttori dell’ordine globale esistente e del relativo sistema di governance;

ad esempio, hanno sempre riconosciuto il ruolo centrale delle Nazioni Unite e di altre istituzioni internazionali quali lo stesso Fondo Monetario e l’Organizzazione mondiale del commercio, di cui ovviamente chiedono una riforma.

Anche al vertice informale del G20 a Bali, i BRICS hanno riconosciuto esplicitamente il ruolo del G20 quale principale strumento economico per la costruzione di un modello più equilibrato e valido di sviluppo globale.

Questa posizione BRICS è stata confermata anche negli ultimi incontri, cioè in una fase segnata dall’emergere di un processo inatteso di polarizzazione del sistema internazionale segnato da forti e crescenti tensioni e conflitti, com’è la guerra in Ucraina.

 Gli Stati BRICS presentano indubbiamente degli elementi di grande diversità tra loro, sul piano politico, economico, culturale, sociale, con tutti gli effetti che questa situazione comporta nel loro sistema di rapporti.

Ma ciò non toglie che riescano a mantenere fermo il loro obiettivo strategico di riforma del sistema di governance globale per la costruzione di un multilateralismo più equilibrato, in grado di correggere i grandi squilibri che pesano sulla vita della maggioranza della popolazione mondiale.

 

Il quartier generale dei BRICS e della New Development Bank si trova  a Shanghai.

Ritiene che l’avvio del processo di “de-dollarizzazione” del mercato finanziario globale e, dunque, di una fase post Bretton Woods, auspicato da alcuni Paesi, sia un obiettivo concreto oppure si è ancora molto lontani da una variazione, anche minima, dell’ordine attuale?

Questo è uno degli aspetti più significativi della cooperazione BRICS.

Leggendo i progetti in corso di attuazione, ci si rende ben conto dei passi avanti concreti che stanno facendo per costruire un loro originale sistema monetario per contribuire – questo è il punto che evidenziano – a una maggior stabilità ed equilibrio dei mercati finanziari mondiali.

I BRICS stanno procedendo nella formazione di una loro valuta comune, di comuni riserve di investimento, nel moltiplicare gli accordi reciproci riguardo all’impiego delle valute nazionali, un passaggio quest’ultimo che è visto con particolare favore anche da molti Stati esterni al coordinamento, emergenti e in via di sviluppo.

 Oltre alla loro banca di sviluppo – NDB – e al Fondo di Riserva – CRA, negli ultimi tempi i BRICS hanno creato diversi organismi importanti come l’Insurance Pool, il BRICS Exchange Alliance, hanno elaborato uno specifico programma di supporto alle relazioni commerciali denominato “Promozione commerciale finanziaria”, un programma per le operazioni speciali legate alle attività di esportazione-importazione etc.

Certo un impulso forte a intensificare le iniziative in questa direzione è venuto dalle tensioni emerse sulla scena internazionale, dalle sanzioni occidentali alla Russia alla caduta di molti elementi di fiducia tra i principali attori dello sviluppo mondiale. 

Vorrei soffermarmi brevemente sul ruolo dell’India.

Secondo quanto riportato dal New York Times, in base ad alcune previsioni “ottimistiche”, il Paese, ora al quinto posto, sarà la terza economia mondiale entro il 2030, dopo Stati Uniti e Cina.

 Secondo il ministro degli Esteri indiano, a causa dell’impatto determinato dalla guerra in Ucraina, l’ordine mondiale, ancora profondamente occidentale, sarà sostituito da un mondo basato sul “multiallineamento”, ove i Paesi potranno scegliere di perseguire le proprie politiche e i propri interessi.

Malgrado le recenti dichiarazioni del primo ministro Narendra Modi sulla guerra in Ucraina (“Now is not the time for war”), l’India ha mantenuto, comunque, stretti rapporti politici, economici e militari con la Russia, consolidando, nel contempo, l’alleanza con Stati Uniti e Giappone nell’ambito del piano strategico dell’Indo-Pacifico (l’Indo-Pacific Economic Framework), anche in un’ottica di contenimento del dominio cinese. Considerata la posizione di India e Cina, come potranno coesistere tali istanze nell’ambito della realtà dei BRICS?

In occasione dell’ultimo summit (Pechino, giugno 2022), il premier indiano Modi, dopo aver sottolineato che, a causa del Covid, questo era il terzo vertice svolto in videoconferenza, ha dichiarato: “Noi, Paesi membri dei BRICS, abbiamo una visione simile sulla governance dell’economia globale.

E di conseguenza la nostra reciproca collaborazione può dare un utile contributo alla ricostruzione globale post-Covid”.

 Quindi, ha richiamato il fatto che, nel corso degli anni, “abbiamo fatto un notevole numero di riforme istituzionali nei BRICS che hanno aumentato l’efficacia dell’organizzazione.

È un elemento di soddisfazione che, ad esempio, sia aumentato il numero dei soci della nostra nuova Banca di Sviluppo”, che “la nostra reciproca collaborazione sia aumentata in molte aree” come, ha citato tra le altre, “il coordinamento tra i dipartimenti doganali”, “la creazione di un sistema satellitare condiviso”.

La soddisfazione per il progresso dei BRICS espressa dal primo ministro indiano Modi e il suo impegno attivo nel coordinamento possono anche sembrare in contraddizione con la partecipazione dell’India ad altri diversi organismi di coordinamento internazionale.

In effetti, a ben riflettere, non lo sono, poiché gli assi strategici della politica BRICS riguardano la riforma del sistema di governance mondiale e lo sviluppo della cooperazione reciproca orientata a promuovere gli interessi dei singoli Stati membri. Rispetto a questi obiettivi, che sono stati definiti primari, i BRICS hanno classificato come di rilevanza secondaria le questioni aperte tra i singoli membri. È il caso delle tensioni tra India e Cina sul confine del Pakistan.

Un ultimo aspetto da non sottovalutare riguarda il fatto che l’India, secondo le previsioni Onu, in questo 2023 dovrebbe superare la Cina per numero di abitanti, raggiungendo 1,43 miliardi di persone, diventando così il Paese più popoloso del mondo; che la forza lavoro indiana (persone dai 15 ai 64 anni) aumenta ogni anno di almeno 10 milioni di unità, che la popolazione indiana ha un’età media di 27 anni, mentre quella cinese è di 39.

Anche questo richiamo dovrebbe aiutare a riflettere meglio perché le istanze dei BRICS e dell’India al suo interno trovano un impulso importante anche in questi processi di cambiamento demografico, ben diversi, ad esempio, da quelli in atto nel nostro sistema europeo.

Passiamo ora alla Russia.

A seguito dell’invasione dell’Ucraina, il Cremlino, stretto nella morsa dell’isolamento internazionale e delle sanzioni, ha messo in campo le proprie strategie di soft power per fomentare il risentimento di alcuni Paesi del Sud America, dell’Africa e dell’Asia che non si sentono adeguatamente rappresentati nell’ambito dell’assetto geopolitico attuale, con l’obiettivo di creare, in un’ottica “anticolonialista” (un termine ormai presente nella narrazione putiniana), un fronte antioccidentale.

 In tal senso, la transizione verso i BRICS Plus potrebbe essere l’occasione per raggiungere tale obiettivo.

Su quali ambiti, a suo avviso, punterà il Cremlino per costruire una base progettuale utile non solo nell’ambito dei BRICS, ma anche della politica interna?

Francamente non ho elementi per valutare lo stato e gli orientamenti dell’attuale politica interna della Russia.

Registro piuttosto il fatto che numerosi progetti portati avanti concretamente dal coordinamento BRICS sono di supporto agli interessi nazionali di quel Paese, come degli altri Stati membri: mi riferisco ai piani di investimenti nelle infrastrutture, nell’energia, alla discussione in corso tra i presidenti delle banche centrali BRICS sull’organizzazione di un sistema di pagamento comune, con riferimento a un’unica valuta convertibile.

Dai documenti ufficiali si apprende che si sta discutendo anche del possibile nome da dare a questa unità monetaria, la nuova moneta dei BRICS: “RULIND” oppure “R5” con riferimento alle iniziali delle monete dei cinque Stati membri.

Poi vi è un altro elemento da valutare con attenzione: la Russia è stata uno dei due principali promotori, insieme alla Cina, del coordinamento BRICS avviato nei primi anni Duemila.

Fin dall’inizio l’esigenza di tutela degli interessi nazionali si è combinata con quella dell’organizzazione di un diverso, più equilibrato multilateralismo.

Queste due esigenze sono valide anche nella situazione attuale.

Una situazione che registra, da un lato, il procedere dei processi di globalizzazione, sia pur con modalità del tutto diverse anche dal recente passato, e, dall’altro, l’emergere di richieste sempre più chiare e incisive da parte delle realtà emergenti che soffrono maggiormente gli effetti degli squilibri generati dall’unilateralismo. Insomma, sempre più diffusa è la domanda di una vera riforma dell’ordine globale, testimoniata dal moltiplicarsi di nuovi organismi di coordinamento regionali (si pensi al caso del MITKA) o del rilancio di quelli già esistenti.

 In queste condizioni, non vedo il formarsi di una “piattaforma antioccidentale” da parte della Russia, perché i BRICS sono strettamente intrecciati all’Occidente.

Vedo piuttosto un gran problema aperto che riguarda tutta la comunità internazionale: saper affrontare e risolvere la suddetta riforma, con lo stesso impegno, ad esempio, con cui si è arrivati a definire in sede Onu una valida strategia per lo sviluppo sostenibile condivisa da tutti gli Stati membri.

 

Xi Jinping visita il comando centrale dell’esercito popolare cinese, 28 gennaio 2022.

L’ampliamento della realtà BRICS dovrà procedere necessariamente per step.

 Si tratta di stabilire non solo lo status dei nuovi membri (osservatore e altri ruoli intermedi), ma anche i rapporti con la banca di riferimento (la New Development Bank), armonizzando gli obiettivi e le esigenze di Paesi alquanto eterogenei in termini socioeconomici, politici e culturali.

Senza dimenticare i Paesi che hanno manifestato l’interesse ad aderire, tra cui l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto e l’Indonesia, solo per citarne alcuni.

 Quali saranno i requisiti per l’adesione e il modello di governance previsto?

Il rilancio delle strategie BRICS Plus (nuovi membri) e BRICS Outreach (ampliamento della cooperazione esterna) coglie un’esigenza diffusa nelle realtà emergenti del mondo.

Questo è il dato su cui riflettere.

 All’interno dei BRICS la discussione, molto viva, verte sull’approccio da seguire nelle future adesioni: quale tipo di adesione promuovere, quale nuovo assetto istituzionale assumere, quale sistema decisionale?

All’esterno della realtà del coordinamento si diffondono le richieste di collaborazione e di adesione ai BRICS, sintomo di un interesse e di bisogni diffusi insoddisfatti, cui le istituzioni tradizionali non sembrano in grado di dare adeguate risposte.

 Due esempi, per maggiore chiarezza: cosa può significare per i futuri orientamenti di sviluppo dell’America Latina il fatto che, oltre al Brasile, membro fondatore dei BRICS, anche l’Argentina, di recente, ha maturato la richiesta di adesione al coordinamento?

Situazione simile si registra nell’area mediterranea ove tre Stati importanti – Turchia, Egitto e, di recente, Algeria – hanno chiesto di entrare a far parte dei BRICS.

 Sono scelte importanti che rappresentano in fondo un voltare le spalle all’Unione europea.

Certo i rapporti bilaterali tra gli Stati del Mediterraneo continueranno a mantenersi e ad approfondirsi, come è emerso anche con le recenti iniziative dell’Italia.

Ma sarebbe davvero miope non cogliere il significato anche politico delle scelte dei suddetti Stati in favore dei BRICS.

Penso che, in ambito Ue e dell’Unione per il Mediterraneo UpM, sarebbe quanto mai opportuna una riflessione approfondita sulle vere ragioni di queste scelte che incideranno su tutta l’area, che è anche di primario interesse per l’Italia.

Cyril Ramaphosa, è presidente del Sudafrica.

Quest’anno la presidenza del coordinamento dei BRICS spetta al Sudafrica.

 Quale ruolo svolgerà il Paese nella gestione ordinaria delle principali iniziative in programma e, allo stesso tempo, delle gravi criticità – in primis, il conflitto in Ucraina – che il sistema internazionale sta affrontando in questa fase?

Il Sudafrica ha espresso con molto chiarezza gli obiettivi della sua presidenza BRICS 2023.

Sul piano interno, poter usufruire della cooperazione degli altri Stati BRICS per sostenere con adeguate iniziative commerciali e di investimenti il proprio Piano Nazionale di Sviluppo.

Sul piano regionale, con riferimento al continente africano, impegnare i BRICS nel sostegno alle iniziative dell’Unione Africana (UA), il principale organismo di coordinamento del continente, e soprattutto al suo programma strategico dell’Agenda 2063.

 In sostanza, creare una sinergia stretta BRICS-Africa.

Sul piano internazionale, promuovere con i BRICS l’Agenda del Sud Globale (Global South), collegando questo impegno al raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile enunciati dall’Agenda 2030 dell’Onu.

A livello globale, infine, premere nelle sedi internazionali per garantire una rappresentanza adeguata ai Paesi emergenti e in via di sviluppo e una loro adeguata partecipazione alla governance dei processi globali.

Il neopresidente brasiliano Lula Inácio da Silva ora accetta le credenziali dell’ambasciatore di Cina a Brasilia Zhu Qingqiao

Nel 2015 l’Eurispes ha istituito un laboratorio dedicato ai BRICS.

 Su quali progetti è impegnato attualmente?

 La crescente repressione messa in atto dal Cremlino, la transizione verso una forma di governo che è possibile definire “totalitarismo ibrido” e la militarizzazione della società consentono ancora di avviare un dialogo con le istituzioni del Paese?

Il Laboratorio sui BRICS di Eurispes è un organismo aperto di riflessione e studio cui partecipano, su base volontaria, esperti e accademici delle più diverse discipline. È un organismo scientifico e culturale, non politico

. Abbiamo preso spunto per questa iniziativa da una riflessione di Romano Prodi, già presidente della Commissione europea, il quale segnalò che il Mediterraneo, area di primario interesse per l’Italia, non era più da considerare un “Mare nostrum” perché i maggiori processi di cambiamento facevano riferimento a Stati esterni, appartenenti al coordinamento BRICS, in primis Cina e Russia.

Da qui lo spunto ad approfondire la natura, gli obiettivi, le politiche di questo coordinamento poco conosciuto, un’analisi che si è sempre più estesa all’impatto dei BRICS nelle aree e nei settori internazionali su cui gravita anche l’interesse del nostro Paese.

 Il nostro approfondimento sul tema ha suscitato un crescente interesse, in Italia e all’estero, e la notevole partecipazione di esperti qualificati.

Siamo, quindi, di fronte a un’iniziativa di carattere scientifico.

Di fronte alla guerra in Ucraina, Eurispes, fin dall’inizio, ha preso una posizione molto netta e chiara di condanna della guerra e dell’aggressore russo, com’è testimoniato anche dalle considerazioni generali del presidente Fara pubblicate nell’ultimo Rapporto Italia 2022.

 Mi permetto di aggiungere al riguardo una riflessione strettamente personale, che non coinvolge minimamente l’Istituto e che ispira il mio impegno.

 Ogni giorno in Ucraina muore gente.

Di fronte a questa realtà mi devo spogliare di ogni sovrastruttura di pensiero e cercare l’essenziale: come contribuire a fermare questa tragedia?

 Politica? Economia? Armi? Sanzioni? Diplomazia?

Mi sembra che finora queste aree di intervento non abbiano funzionato.

 Può servire mantenere aperti i canali della collaborazione culturale e scientifica?

Sono i canali che parlano alle coscienze delle persone e forse è questa la sola strada da percorrere, nelle attuali condizioni.

La cultura e la scienza esprimono valori universali;

prospettano linee di progresso condiviso: altrimenti non possono essere definite tali.

Chi riceve il frutto delle nostre analisi e riflessioni può essere indotto a riflettere sul valore di scenari alternativi a quello della guerra, può riflettere e agire nel suo ambito di responsabilità e di azione per bloccare questa tragedia quotidiana.

È una possibilità, non una certezza, ma, comunque, è una via da percorrere.

Penso che sia un dovere, anche etico, lasciarla aperta.

In questa direzione si è espresso chiaramente anche il presidente Mattarella che ha richiamato l’importanza di mantenere aperti i canali degli scambi culturali e scientifici, come strumenti di pace.   

 

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