Dubbi sull’élite globale.

 

Dubbi sull’élite globale.

 

 

WGS: il nuovo vertice delle élite

per il Governo mondiale.

Lindipendente.online – (22-2-2023) – Redazione – Giorgia Audiello - ci dice:

 

Dal 13 al 15 febbraio scorsi si è svolto a Dubai (EAU) il World Government Summit (WGS, Vertice del Governo Mondiale), la più recente e aggiornata versione del più “datato” World.

Economic Forum di Davos. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, il nome dell’evento suggerisce più esplicitamente l’intenzione di creare una cooperazione e un’interdipendenza globale tale da permettere l’instaurazione di un vero e proprio “governo unico globale”, come del resto ha confermato il magnate Elon Musk intervenendo in videoconferenza al Vertice.

 Il summit ha visto la partecipazione di più di 250 ministri e più di 10.000 funzionari governativi, oltre a quella di 80 organizzazioni internazionali, regionali e governative.

Al summit hanno preso parte personalità quali Klaus Schwab, Fondatore e Presidente Esecutivo del World Economic Forum, nonché membro permanente del

WGS;

Kristalina Georgieva, amministratore delegato del Fondo monetario internazionale;

 Ngozi Okonjo-Iweala GCON, Direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio;

Dr Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Lo slogan dell’edizione 2023 era “Dare forma ai governi del futuro”, sottendendo implicitamente la demolizione degli Stati sovrani attraverso un modello di governance imposto dall’alto.

Sono sei i temi principali trattati durante le sessioni dell’incontro: «l’accelerazione dello sviluppo e della governance, il futuro delle società e dell’assistenza sanitaria, l’esplorazione delle frontiere, il governo della resilienza economica e della connettività, la progettazione e la sostenibilità della città globale e la definizione delle priorità Apprendimento e lavoro»,

come si legge sul sito dell’organizzazione.

All’interno delle sessioni si sono quindi approfonditi i temi cardine su cui si fonda la “governance globale” già affrontati ampiamente a Davos, quali la digitalizzazione di tutti gli aspetti della vita umana e sociale, il clima e l’economia verde, le epidemie, i vaccini e l’intelligenza artificiale.

Sono questi, infatti, gli elementi in grado di accelerare quell’interconnessione e cooperazione globale volta a dare vita ad un governo sempre più unificato e diretto da una élite globale coincidente soprattutto con il potere finanziario.

 In altre parole, sono quelle che il WEF ha definito “sfide globali” per affrontare le quali è necessario affidarsi alla governance 4.0 che prevede un governo sempre più accentrato e verticalizzato in cui il ruolo dei governi è destinato ad essere soppiantato dalle grandi istituzioni globali pubbliche e private.

L’intervento di Klaus Schwab al Vertice ha poi tolto ogni dubbio sui progetti futuri che la cupola internazionale sta tentando di imporre all’intera umanità, ossia l’alterazione della stessa natura umana per mezzo delle biotecnologie, delle neuroscienze e dell’ingegneria genetica, le quali promettono la possibilità di alterare il genoma umano, di modificarne il Dna e, addirittura, di leggere i pensieri della mente.

Nel loro insieme questi elementi concorrono alla definizione del cosiddetto “transumanesimo”.

Già nel suo libro dedicato alla WGS: il nuovo vertice delle élite per il Governo mondiale Quarta rivoluzione industriale, Schwab scriveva che «Il fatto che ora sia molto più facile manipolare con precisione il genoma umano all’interno di embrioni vitali significa che è probabile che in futuro vedremo l’avvento di neonati progettati che possiedono particolari caratteristiche o che sono resistenti a una specifica malattia».

Al WGS è stato spiegato, invece, che «Ci stiamo muovendo lungo un percorso di sviluppo esponenziale. L’intelligenza artificiale è una manifestazione di questo sviluppo, ma non solo l’intelligenza artificiale, ma anche i meta universi, le nuove tecnologie spaziali, la biologia sintetica.

La nostra vita tra circa dieci anni sarà molto diversa, sarà influenzata da tutte queste tecnologie. Chi le possiede, in un certo senso, possiederà il mondo».

 Non è mancato poi un riferimento alle grandi trasformazioni geopolitiche in corso, tra cui lo storico passaggio al “mondo multipolare” accelerato dalla guerra in Ucraina.

Secondo Schwab, i cambiamenti politici in atto nel mondo «stanno trasformando il globo da un mondo unipolare a un mondo multipolare.

«Questo ci impone di rafforzare la cooperazione e migliorare il coordinamento a livello di governi, paesi e istituzioni per mantenere i quadri della cooperazione internazionale».

A mettere in discussione il progetto di un governo globale, alterando quindi l’atmosfera del summit, è stato il magnate Elon Musk, fondatore di Tesla e Space X.

 «So che questo si chiama Vertice del governo mondiale, ma penso che dovremmo essere un po’ preoccupati nell’andare troppo nella direzione di un unico governo mondiale», ha affermato, infatti, il multimiliardario.

 Questo perché un unico governo mondiale potrebbe comportare un «collasso della civiltà»:

 se, infatti, si avesse una «singola civiltà», il “crollo” di quest’ultima coinvolgerebbe l’intero sistema e nulla ne resterebbe al di fuori.

Musk ha fatto l’esempio della caduta di Roma nel V secolo e del mondo islamico:

 «Mentre Roma stava cadendo, l’Islam stava crescendo, quindi avevi un califfato che andava bene mentre Roma andava terribilmente.

E questo finì per essere una fonte di conservazione della conoscenza e di molti progressi scientifici».

Ha aggiunto quindi che «se siamo troppo una singola civiltà, allora l’intera cosa potrebbe crollare».

Le intenzioni dell’élite globale circa l’intenzione di instaurare una governance sempre più unificata – con la relativa soppressione dei governi nazionali – sono ormai alla luce del sole, sebbene i rapidi mutamenti negli assetti internazionali e l’opposizione di una minoranza potrebbe quantomeno rallentare un progetto che il WEF persegue da sempre e che dal 2013 ha una sua più esplicita sede di dialogo e di progettazione nel WGS.

[di Giorgia Audiello).

 

 

POPULISMI.

La rabbia contro

le élite.

Ilsole24ore.com - Helmut K. Anheier – (26 ottobre 2017) – ci dice:

 

Come possiamo dare senso a un mondo che negli ultimi dieci anni si è sottratto all’idea condivisa da politici e intellettuali che fosse emerso un ordine globale immutabile, per quanto imperfetto, dopo la Guerra fredda?

 I quattro libri presi in esame rappresentano quattro risposte a questa domanda. Ma tutti partono dalla premessa che per rispondere a tale quesito bisogna necessariamente comprendere la perdita di unità e coerenza dell’Occidente.

E ciascun libro, pur offrendo prospettive diverse, è alle prese con tre questioni comuni al centro dell’attuale malessere politico dell’Occidente.

La prima: la crescente consapevolezza popolare e intellettuale che qualcosa non funzioni nelle società occidentali.

Nella sua introduzione a “The Great Regression”, Heinrich Geiselberger, curatore della casa editrice Suhrkamp Verlag, cita il fu Ulrich Beck:

“È solo quando l’ordine mondiale crolla che le persone iniziano a pensarci”.

 Beck faceva riferimento al capitalismo liberale dei mercati, l’ordine era in ascesa durante “gli anni d’oro ’90” fino ai 2000 – un periodo presumibilmente post-storico che era iniziato con il crollo dell’Unione sovietica.

La nostra certezza incondizionata su quell’ordine cessò improvvisamente con la crisi globale finanziaria del 2008.

La seconda riguarda il fallimento collettivo delle élite economiche e politiche nei diversi paesi e regioni.

A prescindere dal fatto che il potere delle élite rifletta o meno il valore o il privilegio, la meritocrazia o l’eredità, di fatto gestiscono la società.

 Quando pensano troppo a se o mancano di autorità morale, i cittadini iniziano a cercare altri rimedi, alcuni in modo più produttivo di altri.

La terza questione è l’ideologia reazionaria – le varie sfumature del populismo e del nazionalismo esclusivo che origina da sentimenti endemici di frustrazione e delusione – su cui hanno facilmente fatto leva gli imprenditori politici, soprattutto di destra.

Quando le persone si sentono politicamente allo sbando ed emarginati nel quadro di una crescente disuguaglianza economica, potrebbero dar seguito ai propri risentimenti avvallando i fantasiosi programmi di politici populisti.

Punto di rottura.

Non è in dubbio il fatto che il mondo del 2017 sia diverso da quello del 2007.

Ma dove siamo esattamente, e come siamo arrivati a questo punto?

Innanzitutto, vale la pena ricordare che la pace non è durata molto dopo la fine della Guerra fredda.

La minaccia del terrorismo e la prosecuzione di nuove guerre in Asia centrale e nel Medio Oriente hanno portato nuove insicurezze.

E poi le tre decadi di globalizzazione durante le quali la Cina è emersa come la seconda potenza economica del mondo hanno subito un brusco arresto a causa della crisi del 2008.

La crisi finanziaria si è rivelata essere il maggiore stress test economico del mondo dopo la Grande Depressione, nonché la maggiore sfida per i sistemi politici e sociali dopo la Seconda Guerra mondiale.

Non ha solamente minacciato mercati finanziari e valute, ma ha altresì messo a nudo una serie di carenze sul fronte delle politiche pubbliche e aperto le porte a un periodo di serrata austerità, crescente disoccupazione e sistemi di previdenza sociale in difficoltà.

 La globalizzazione sembrava essere in pericolo, insieme all’agenda neoliberale del cosiddetto Consenso di Washington. Alcuni commentatori, come il sociologo ed economista tedesco Wolfgang Streeck, hanno persino proclamato l’imminente fine del capitalismo stesso.

Allo stesso tempo, Internet, i social media e altri progressi tecnologici hanno accorciato le distanze del mondo cambiando profondamente il modo di comunicare.

Eppure, se da un lato le persone sono senza dubbio più libere, dall’altro sono anche meno sicure.

 Come tali, alcuni hanno risposto alla marginalizzazione economica e politica unendosi a ciò che Streeck definisce “great unwashed”, ossia la plebe, una massa di individui non istruiti – quelli che Hillary Clinton chiamava un “branco di miserabili”.

Durante questo periodo di cambiamento epocale, le élite globali, o almeno occidentali, hanno apparentemente perso il copione, e con esso il controllo sull’obbedienza dei cittadini.

Per capire cosa poter fare bisogna prima capire come si è arrivati a quel punto.

La grande paura.

In Age of Anger, il saggista e romanziere indiano “Pankaj Mishra” offre un’insolita e alquanto sconcertante diagnosi di una malattia che non ha apparentemente alcun rimedio.

 Mishra esamina il presente attraverso la storia delle idee, e giunge alla conclusione che ciò che stiamo vivendo non sono nient’altro che le ultime conseguenze del fallimento a lungo termine dell’Illuminismo, e del processo di modernizzazione riversato sul mondo.

Nella visione di Mishra, la storia della modernizzazione non è una storia di costante miglioramento del benessere e di inevitabile realizzazione di libertà, bensì una storia di brutalità e dominazione – a livello domestico con un’élite autoreferenziale e subdola, a livello internazionale con l’arroganza e il colonialismo occidentale.

Mishra schiera pensatori del calibro di Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Georges Sorel, Johann Gottfried Herder e Friedrich Nietzsche per dimostrare dove le élite hanno ripetutamente commesso errori e peggiorato le cose.

E tende un filo saldo di distruzione dalle sanguinose rivoluzioni del XVIII e XIX secolo fino al regno ancora più sanguinoso del fascismo e stalinismo nel XX secolo.

L’era corrente, poi, è un tassello di una storia centenaria di ignoranza, terrore e brutalità inflitta dalle élite occidentali.

Mishra scrive in modo pungente, e le sue argomentazioni sono talvolta brucianti, talvolta profondamente viziate.

Le sue prove sono frammentarie e selettive alla meglio, così come la sua lettura dei tanti filosofi e pensatori cui fa riferimento.

 Per Mishra, il retaggio dell’Illuminismo non è incarnato nelle odierne società civili libere e individualistiche, quanto nella perversione delle egoiste élite – punto.

Nel fare questa ampia e imprecisa dichiarazione, Mishra mostra di essere poco interessato alle prove empiriche, e non si preoccupa affatto di considerare contro-argomentazioni.

Per sposare la sua dichiarazione, dovremmo accettare che il progetto integrazionista della moderna Unione europea sia un continuum dello stalinismo (una tesi spesso sentita dai populisti dell’Europa centrale e dell’Est);

 e che i precedenti economici e politici dei paesi occidentali sono stati quasi del tutto negativi.

Age of Anger è un libro scoraggiante, perché in qualche modo tendenzioso, e perché Mishra si rifiuta di offrire una soluzione.

Iniziando e finendo con rabbia, il libro si mostra per lo meno fedele al proprio titolo.

I nuovi reazionari.

In “The Shipwrecked Mind,” lo scienziato politico della Columbia “Mark Lilla” offre una valutazione nel suo insieme più attenta ed equilibrata del momento attuale.

Anche lui consulta gli scritti di grandi pensatori, come Franz Rosenberg, Eric Voegelin e Leo Strauss, ognuno dei quali rispondeva ai cambiamenti economici, politici e sociali dell’epoca da reazionario, invece che da rivoluzionario.

Nella mente di Lilla, i reazionari non devono essere dei conservatori a livello politico.

Possono essere, come accade spesso, radicali, ma si oppongono alla tendenza della modernità di spingere le istituzioni umane in direzioni che ritengono discutibili o avventate.

Vanno contro corrente, e quindi finiscono in breve tempo per “naufragare”. Proprio perché non sono in grado di portare realmente indietro le lancette dell’orologio, i reazionari fungono da fine utile come contrappunto per gli impetuosi rivoluzionari.

 La loro idealizzazione del passato aiuta a plasmare il presente – o almeno a darne una lettura.

Ai reazionari piace porre la domanda retrospettiva: “Cosa succederebbe se..?”.

E come dimostrano i brillanti capitoli di Lilla sulla Riforma, si tratta di una domanda che spinge lettori o ascoltatori a un excursus intellettuale.

Ad esempio, come si sarebbe evoluta la civiltà occidentale se le tesi di Martin Lutero avessero scatenato una riforma del Cattolicesimo invece che la nascita del Protestantesimo?

Certamente la Guerra dei Trent’anni non avrebbe devastato l’Europa nel XVII secolo.

Ma una possibilità ancora più profonda è che, senza l’etica del lavoro protestante, il capitalismo non si sarebbe sviluppato come invece è accaduto.

 Il paese stesso di Lutero, la Germania, potrebbe non esistere oggi nella sua attuale forma.

 E il colonialismo – che ha arricchito l’Europa, e soprattutto l’Inghilterra – avrebbe potuto seguire un corso del tutto differente.

Ma questo tipo di esercizio storico serve a capire il mondo di oggi?

Prendiamo il capitolo di Lilla sulla Francia.

Dalla fine degli anni ’60, scrive, la Francia vive dei cambiamenti “che non piacciono quasi nessuno, e né gli intellettuali di sinistra né i politici centristi sembrano capaci di affrontarli in modo soddisfacente”.

La storia ci dice che, quando accade questo, i reazionari assumono un ruolo politico-interpretativo, offrendo un quadro e una visione del mondo alternativa per comprendere il profondo malcontento dei cittadini.

Oggi, gli intellettuali e gli scrittori francesi reazionari come Éric Zemmour e Michel Houellebecq stanno riempiendo il vuoto narrativo.

E così anche Marine Le Pen del Front National di estrema destra, per non parlare dei pensatori conservatori americani che prendono parte all’“alt-right”.

Chiaramente, la politica reazionaria può essere consequenziale quanto la politica rivoluzionaria, soprattutto quando i reazionari fanno uso di forme moderne di comunicazione.

Come ci hanno insegnato i populisti del passato e del presente, i metodi all’avanguardia possono essere sempre impiegati per creare idee ataviche.

La mente populista.

Gli intellettuali reazionari sono spesso solo a un passo dall’essere populisti – o almeno dall’essere catturati da ideologie populiste.

Ma cosa definisce la persuasione populista?

 A questa domanda tenta di dare una risposta Jan-Werner Mueller, scienziato politico di Princeton, in “What is Populism”?

Mueller sostiene che il populismo sia all’origine del regresso democratico così apparente in paesi quali Russia, Ungheria e Polonia, nonché nelle democrazie mature quali Stati Uniti, Francia, Germania, Finlandia e Austria.

Il suo libro offre un’analisi del fenomeno concisa e scevra da qualsiasi gergo oltre a una approfondita definizione del termine.

I populisti, spiega Mueller, “insistono sul fatto di essere gli unici rappresentanti legittimi” del “popolo”.

Sono “anti-elitari” e “anti-pluralisti”, e le loro posizioni sono “immuni alla confutazione empirica”.

 Il loro unico interesse nei processi democratici è di essere “confermati per ciò che hanno già deciso essere la volontà delle persone reali”.

E spesso puntano all’“occupazione dello stato, al clientelismo, alla corruzione di massa e alla soppressione di una società civile critica”.

Oltre a delineare una spiegazione chiara e puntuale di populismo, Mueller dà un consiglio ai “difensori della democrazia liberale”.

Nella sua visione, gli anti-populisti dovrebbero identificare e colmare i divari di rappresentazione democratica spesso sfruttati dai populisti.

 E per riconquistare gli elettori insoddisfatti serviranno politiche realistiche in grado di affrontare direttamente le loro preoccupazioni.

Ovviamente si tratta di un progetto a lungo termine, il cui successo dipenderà da se e quando l’ondata populista si infrangerà contro la sabbia della realtà politica.

In pratica, è sbagliato focalizzarsi sul perché il premier ungherese Viktor Orbán o il presidente Usa Donald Trump non siano adatti all’incarico, o su quanti danni possano infliggere al mondo.

Sarebbe meglio concentrarsi sui loro adepti e parlare onestamente dei motivi di malcontento pubblico, come ha fatto Emmanuel Macron quando ha inaspettatamente vinto le presidenziali francesi in primavera.

La malattia autoimmune della democrazia.

The Great Regression, un volume di saggistica che riunisce la voce di diversi autori, offre prospettive che trattano problematiche culturali, politiche ed economiche.

 In “Democracy fatigue” (la fatica della democrazia), l’antropologo indo-americano Arjun Appadurai punta a spiegare perché la democrazia liberale venga sempre più rifiutata a favore dell’autoritarismo populista.

Innanzitutto, osserva, i leader populisti hanno posto un nuovo accento sulla sovranità culturale.

 In Russia, le richieste di uno “spazio culturale unificato” non sono diverse da quelle che ora si sentono in Turchia, India, in alcuni paesi europei e negli Usa.

In un mondo globalizzato, sostiene Appadurai, la sovranità economica non è più la base della sovranità nazionale.

Come tali, i leader populisti intendono “promettere la purificazione culturale nazionale come strada verso la potenza politica globale”.

 

Se da un lato gli elettori possono essere d’accordo con le richieste populiste di “purificazione”, dall’altro potrebbero usare il proprio voto come mezzo per “uscire” dalla democrazia.

 Come ha dimostrato l’economista Albert O. Hirschman nel suo libro del 1970 Exit, Voice, and Loyalty, gli elettori insoddisfatti del sistema possono abbandonarlo – ecco l’exit, ossia l’uscita – oppure possono tentare di modificarlo – facendo sentire la propria voce.

 Appadurai giunge alla conclusione che mentre i leader populisti rifiutano la democrazia perché impedisce loro di perseguire il potere, i loro seguaci sono ampiamente vittime della “fatica della democrazia”.

Per leader e seguaci, la causa nazionalista di egemonia culturale è terreno comune.

Nel suo saggio “Majoritarian futures” (futuri maggioritari), lo scienziato sociale bulgaro Ivan Krastev affronta i paradossi della democrazia liberale in un contesto di approfondimento della globalizzazione.

Nelle odierne democrazie liberali, osserva, i cittadini si sentono sempre più impotenti, e ciò li ha resi cinici rispetto al sistema stesso.

 Il risultato è che le elezioni libere, pur garantendo inclusione politica per i gruppi di minoranza, hanno altresì iniziato a erodere i blocchi elettorali esistenti, mentre gli elettori delle fasce rurali e della classe operaia si aprono sempre più ai movimenti di destra e ai partiti populisti.

Un altro paradosso è che la svolta populista viene perlopiù alimentata dai tradizionali elettorati di sinistra.

A causa del cambiamento demografico e a una percepita “rivoluzione del migrante”, gli elettori della classe operaia temono che l’ordine morale si stia sgretolando attorno a loro.

 Secondo Krastev, è questa minaccia percepita, e non i reali eventi sul campo, a scatenare le reazioni ostili verso gli outsider come quelle viste in molti paesi europei in risposta agli influssi di profughi.

Il populismo può manifestarsi in maniera diversa a seconda del paese.

 Ma come dimostra Krastev, i regimi maggioritari emersi in Ungheria, Polonia e in altri paesi presentano caratteristiche comuni, inclusa la separazione tra democrazia e liberalismo e lo smantellamento delle istituzioni che mantengono l’equilibrio tra i vari poteri.

Promesse mancate.

In un altro saggio, “The return of the repressed as the beginning of the end of neoliberal capitalism” (il ritorno degli oppressi come inizio della fine del capitalismo neoliberale), Streeck sferra un’invettiva quasi leniniana sulla nostra attuale era.

Nella sua visione, l’ascesa del neoliberalismo – inclusa la creazione dei mercati liberi e i sistemi di global-governance – era inevitabile.

Il problema è che il neoliberalismo non ha mantenuto le promesse.

Anzi, sostiene Streeck, ha agevolato la transizione verso la post-democrazia, e ha dato il via a un’era di politica post-fattuale in cui le “menzogne degli esperti” sono utilizzate per garantire il consenso popolare e la resistenza al silenzio.

Per Streeck questo processo è iniziato molto tempo prima dell’ascesa delle “fake news” e del disprezzo per gli esperti che hanno spinto il voto sulla Brexit nel Regno Unito e l’elezione di Trump negli Usa.

 Il ritorno della plebe dall’apatia politica al voto popolare, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, è la prova del diffuso malcontento rispetto alla globalizzazione e alle storie neoliberali in generale.

Per Streeck, dipingere tali elettori con un termine di ampia portata come populismo non è particolarmente d’aiuto, perché ignora il fallimento cognitivo delle élite internazionali di fronte al “ritorno degli oppressi”.

 Streeck considera l’etichetta populista come un modo per respingere una nuova opposizione, affermando al contempo l’autorità morale dell’internazionalismo liberale e del capitalismo globale.

Il che non significa che secondo Streeck i populisti riusciranno a mettere fine alla crisi del capitalismo, anzi non faranno che complicare l’attuale “interregno”.

Infine, Streeck conclude che “la rieducazione antinazionale dall’alto produce il nazionalismo anti-elitario dal basso”.

 I progetti come l’integrazione europea possono funzionare solo con l’appoggio dei cittadini; non possono semplicemente essere imposti.

Come Mueller, anche Streeck consiglia alle élite politiche di focalizzarsi meno sullo spauracchio populista e più sui timori di un elettorato che si è risvegliato.

Dalla storia al futuro.

Va detto che tutti e quattro i libri sono perfettamente leggibili e non appesantiti da troppo gergo.

Sono più efficaci quando le dichiarazioni restano focalizzate e modeste, come nei saggi di Appadurai e Krastev, e più deboli quando eccedono, come nel caso di Mishra.

In generale, un approccio del tipo “cosa succederebbe se…?” sulla scia di Lilla sarebbe stato auspicabile, non per considerare le realtà controfattuali, ma per capire dove le cose hanno iniziato ad andare storto in Occidente.

Leggendo questi libri viene in mente Alexander Gerschenkron, il grande economista russo-americano, che sosteneva la necessità di una multa su parole come “necessità” o “necessario” negli scritti storici. Pochi eventi o accadimenti sono necessari o inevitabili, perché la storia umana non aderisce a una legge ferrea che non lascia spazio ad alternative.

La crisi finanziaria globale, ad esempio, non era necessaria; avrebbe potuto essere evitata con una migliore governance finanziaria.

Allo stesso modo, anche la Primavera araba non era destinata a fallire;

una migliore diplomazia avrebbe potuto produrre un risultato del tutto differente. Anche la nomina di Hitler a cancelliere della Germania nel 1933 non era inevitabile, dato che il Partito nazista ottenne solo un terzo dei voti nelle elezioni federali del 1932.

L’ascesa di Hitler fu favorita dalla politica del rischio calcolato appoggiata dalle élite politiche tedesche dell’epoca.

 E il resto, come si dice, è storia.

Analogamente, occorre fare attenzione quando si prevede la scomparsa dell’Occidente, la fine del capitalismo o il crollo della democrazia liberale.

Rientra nel potere delle élite prendere decisioni che portino beneficio a tutta la società, e non gli interessi meschini.

 Le élite hanno sicuramente fallito in tal senso nell’ultimo quarto di secolo, ma non devono continuare a sbagliare in futuro.

La prova è in ogni esempio di società che ha corretto il corso. Negli Usa sono state messe in atto una serie di azioni positive per rimediare al retaggio della schiavitù e della segregazione razziale nel paese.

In Europa l’Ue è stata creata per trascendere una lunga storia di ostilità nazionalista e guerra.

In Sud Africa, l’apartheid fu abolita in modo tale da riconciliare la minoranza bianca con il governo a maggioranza nera.

 In Germania, l’Ostpolitik preparò la strada per la caduta del Muro di Berlino.

 In Spagna, la morte del dittatore Francisco Franco aprì la strada alla nascita di una vibrante democrazia costituzionale.

Argentina e Grecia hanno seguito percorsi simili dopo il collasso delle rispettive giunte al governo.

E in Canada, il governo ha mantenuto l’unità nazionale attraverso il compromesso con i movimenti separatisti del Québéc.

Il più delle volte le élite hanno positivamente fatto la differenza nel mondo; e talvolta hanno agito per prevenire la deriva culturale, protetto le tradizionali fonti di identità e affrontato controversie politiche.

 Quando si decide a chi affidare la gestione delle nostre società, è comprensibile che tanti, intorbiditi dalla crescente precarietà della vita, dei mezzi di sussistenza e dell’identità, salgano su questo treno della perfidia.

 Ma questa non è l’unica storia che valga la pena tenere a mente.

(Helmut K. Anheier è presidente e professore di sociologia presso la Hertie School of Governance di Berlino.)

 Project Syndicate, 2017. www.project-syndicate.org)

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- Heinrich Geiselberger (a cura di), The Great Regression, Polity, 2017 (La grande regressione, La Feltrinelli, 2017).

- Mark Lilla, The Shipwrecked Mind: On Political Reason, New York Review of Books, 2016.

- Pankaj Mishra, Age of Anger: A History of the Present, Penguin, 2017 (L'età della rabbia, LaFeltrinelli, in uscita il 30 gennaio 2018).

- Jan-Werner Müller, What is Populism?  University of Pennsylvania Press, 2016 (Cos'è il populismo? Università Bocconi Editore, 2017).

 

 

 

 

 

Nuovo ordine mondiale,

teoria della cospirazione

e forza di Internet.

Ilsole24ore.com - Giancarlo Elia Valori – (25/07/2021) ci dice:

 

Internet è facile da far fermentare nell’opinione pubblica ed è esattamente il terreno fertile per le teorie del complotto che sono sufficienti per influenzare la politica e persino lo sviluppo politico.

 Giancarlo Elia Valori ripercorre le teorie sugli Illuminati fino al Gruppo Bilderberg che secondo le teorie cospirazioniste sono alla guida del mondo.

Gli Illuminati, una misteriosa organizzazione internazionale composta dalle migliori élite politiche e sociali del mondo, controlla il funzionamento del mondo intero dietro le quinte”.

Questa è la teoria della cospirazione più famosa al mondo sul Nuovo ordine mondiale.

Per centinaia di anni, le leggende sugli Illuminati sono state diffuse e molte persone oggi credono che gli Illuminati esistano ancora.

Si crede che gli Illuminati coprano vari campi come la politica globale, gli affari militari, la finanza e i mass media controllino il processo storico del mondo intero.

L’obiettivo finale è stabilire un Nuovo ordine mondiale.

Nessuno può provarlo, ma molte persone ci credono.

Questa è la cosa più paradossale delle teorie del complotto.

Nel film del 2009,” Angeli e Demoni” – basato sull’omonimo best seller di “Dan Brown”, il professor Langdon, interpretato da “Tom Hanks”, si è parlato della storia degli Illuminati, che si suppone siano nati in Europa nell’era dell’Illuminismo.

 Vi erano fisici, matematici e astronomi che mettevano in dubbio gli “insegnamenti errati” dell’autorità della Santa Sede e si dedicavano al campo scientifico della ricerca della verità.

Alla fine, gli Illuminati sono stati costretti a diventare un’organizzazione clandestina e hanno continuato a reclutare membri per centinaia di anni fino ad oggi.

In “Angeli e Demoni”, i fatti storici sono chiaramente discutibili, ed il film apparve dopo la grande crisi economica del 2007-2008.

La teoria della cospirazione sul Nuovo ordine mondiale circola da molto tempo ed è ricca di teorie misteriose che, però, convincono molte persone impotenti e insoddisfatte per lo stato attuale del pianeta.

 

Gli Illuminati, che sostengono l’istituzione di un Nuovo ordine mondiale, attraverso la pianificazione di una serie di eventi politici e finanziari (si dice che lo tsunami finanziario dei già menzionati 2007-2008 sia stato pianificato dagli Illuminati), tentano di influenzare il corso della storia mondiale, e infine stabilire un governo mondiale autoritario.

I sostenitori della teoria del Nuovo ordine mondiale credono che anche il potente governo degli Usa ora sia solo un governo fantoccio.

 Mentre un altro “governo ombra” composto da poche persone prende decisioni atte a mutare le sorti del pianeta.

Si potrebbe pensare che tutto quanto sopra affermato siano solo teorie strampalate.

Tuttavia, molte persone pensano che questo sia vero.

Secondo un sondaggio del 2013 condotto dalla “Public Policy Polling Foundation”, il 28% degli elettori statunitensi ritiene che il Nuovo ordine mondiale stia effettivamente affermandosi.

“Brian L. Keeley”, un professore di filosofia al “Pitts College,” che si dedica allo studio delle moderne teorie della cospirazione, crede che una caratteristica importante dei teorici della cospirazione sia che citino alcuni episodi banali e trascurati per poi proporre una spiegazione perfetta rispetto a un’imbarazzata risposta ufficiale.

Il motivo per cui la spiegazione della teoria della cospirazione può essere ampiamente diffusa è che non ha alcun processo di argomentazione da negare.

 È solo un giudizio che salta direttamente dall’ipotesi alla conclusione.

Nel processo di argomentazione, essa è solo un’interpretazione soggettiva dell’evento.

Nonostante ciò, per l’opinione pubblica che non comprende appieno l’incidente, la teoria del complotto fornisce una “spiegazione” per la parte sconosciuta dell’incidente suddetto, e questa “spiegazione” stessa non può essere negata (perché la sua stessa esistenza non è supportata da reali argomenti).

 Pertanto è riconosciuta l’argomentazione valida da molta gente.

Ad esempio, nessuno ha prove sostanziali per dimostrare che gli Illuminati esistano realmente, ma nessuno può provare che gli Illuminati siano puramente fittizi. Pertanto, non puoi negare la sua esistenza, perché la sua esistenza è “perfezione senza evidenza”.

L’editorialista “Martha Gill” ha scritto su “The Guardian”, descrivendo gli Illuminati come l’organizzazione di teoria della cospirazione più duratura nella storia del mondo.

“Le teorie della cospirazione relative alla missione di sbarco sulla luna del 1969, all’assassinio di Kennedy, agli attacchi dell’11 settembre, ecc., sono tutte limitate a un tempo, spazio e luoghi specifici.

Ma le teorie della cospirazione che supportano l’esistenza degli Illuminati possono collegarle.

 Però qualsiasi cosa su queste connessioni sono difficili da dimostrare”.

 In altre parole, i sostenitori delle” teorie del complotto” possono avere un’immaginazione comune e attribuire tutto a questa organizzazione, in modo che ogni fenomeno irrazionale nel mondo possa essere spiegato.

Sebbene nessuno possa provare la reale esistenza degli Illuminati, esiste davvero un presunto “governo ombra globale” nel mondo il cui nome è il Gruppo Bilderberg.

Il “Gruppo Bilderberg tiene ogni anno un incontro privato di livello mondiale e tra i partecipanti vi sono élite di tutti i ceti sociali come governo, affari, media, scienza e tecnologia.

Conosciuta come la “Conferenza più misteriosa del mondo”, il Gruppo Bilderberg invita ogni anno diversi personaggi politici e economici famosi a partecipare alle proprie riunioni.

 

Il principe” Bernhard van Lippe-Biesterfeld” (1911-2004) tenne il primo incontro nel 1954.

Poiché la sede dell’incontro si trovava nell’”Hotel Bilderberg” a Oosterbeek, il suo nome fu utilizzato come denominazione del gruppo.

L’esistenza del Gruppo Bilderberg non è un segreto, ma il contenuto discusso nelle conferenze è assolutamente confidenziale e i principali media non sono in grado di riferire sui contenuti dell’incontro.

Il Gruppo Bilderberg rilascia ogni anno un comunicato stampa per presentare i partecipanti alla conferenza e lo schema degli argomenti.

 Nel corso degli anni, i partecipanti sono venuti da molti luoghi, tra questi il principe “Filippo d’Edimburgo” (1921-2021) della famiglia reale britannica, il principe ereditario” Carlo”, i precedenti primi ministri britannici, il presidente francese “Macron”, il cancelliere tedesco “Merkel”, e gli ex presidenti degli Usa, “Bush”, “Clinton”, e pure “Bill Gates” ed altri giganti di Internet erano tra gli ospiti. Vi sono stati anche degli italiani, come pubblicato anni fa su un quotidiano del nostro Paese.

La conferenza 2018 si è tenuta a Torino, in Italia, a giugno. Secondo la descrizione del sito web ufficiale del Gruppo Bilderberg, gli argomenti principali includono il populismo europeo, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, la tecnologia dei computer quantistici e l’era della “post-verità”.

Naturalmente, il contenuto effettivo e i risultati della discussione dell’incontro non sono mai stati riportati.

Pertanto, il “Gruppo Bilderberg” è diventato naturalmente un locus in cui i teorici della cospirazione vogliono trarre materiali.

Essi descrivono il Gruppo Bilderberg come una vera prova della “teoria che un numero molto piccolo di élite controlli il mondo”, ed i partecipanti stiano pianificando un “Nuovo ordine mondiale”.

 

In merito a cose siano facciamo alcuni esempi.

Nel giugno 2018, anche la famiglia reale britannica è stata coinvolta in teorie cospirative.

 Quando il principe Harry e sua moglie Meghan hanno assistito a uno spettacolo, sono stati catturati dalla telecamera immobili, come due robot rigidi e ottusi.

Le clip correlate sono diventate virali su Internet in seguito e i netizen (cittadini della rete) erano in subbuglio:

molte persone credevano che gli illustri membri della famiglia reale fossero in realtà robot sviluppati dall’alta tecnologia.

Tuttavia, la direzione del museo di Londra, “Madame Tussauds”, in seguito ha spiegato l’arcano dichiarando che “Harry” e “Meghan” erano interpretati solo da due attori che sul volto indossavano maschere di cera a somiglianza estremamente alta, tutto per promuovere una mostra di statue di cera, ed inavvertitamente hanno causato un putiferio.

In quel breve video, “Harry” e “Meghan” non cambiavano aspetto facciale, le loro espressioni erano rigide, proprio come robot.

Di conseguenza, i teorici della cospirazione hanno usato questo come prova che erano robot segretamente fatti costruire dalla famiglia reale britannica.

Tale argomento è un’estensione delle “prove banali” di cui sopra.

I fautori dell’argomento ignorano qualsiasi procedura di argomentazione e traggono direttamente la conclusione finale attraverso le anzidette “prove banali”.

 E questa conclusione è di grande attualità e abbastanza accattivante.

Con la rapida diffusione di Internet, la “verità rapida” sarà naturalmente riconosciuta e ricercata da molte persone.

Credo che molte persone ricordino ancora l’“Effetto Mandela” che si è diffuso selvaggiamente su Internet nei primi anni come falso ricordo.

Si ritiene che il nome “Effetto Mandela” derivi da” Fiona Broome”, un’autoproclamata “consulente soprannaturale”, che ha creato un sito web chiamato “Effetto Mandela”.

I sostenitori dell’“Effetto Mandela” affermano di “ricordare” che l’ex presidente sudafricano Mandela morì in prigione negli anni Ottanta.

 Ma in realtà, dopo essere stato scarcerato, Mandela è stato presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999 ed è morto nel dicembre 2013.

Allora perché qualcuno dovrebbe credere a questa affermazione apparentemente assurda?

Internet è diventata una piattaforma di supporto con molti contenuti errati (fake news), irragionevolezza e mancanza di giustificazione.

 Quando qualcuno ha condiviso questo “falso ricordo” con altri su Internet, molte persone hanno creduto che fosse vero, e persino all’improvviso hanno rammentato di aver avuto questo ricordo: “Mandela morì in prigione quell’anno”.

Di conseguenza, le bugie incoerenti con i fatti continuano a fermentare.

La bugia viene ripetuta migliaia di volte e molte persone la considerano la verità: questa fase d’apprendimento è la prima regola sviante in Internet.

Nell’era di Internet, le caratteristiche multidimensionali e multipiattaforma hanno generato una serie di maligni “tumori” online di teorie del complotto.

 Inoltre, la loro capacità di diffusione non si limita alla stanza dei “credenti”. Poiché le piattaforme sociali online forniscono uno spazio di diffusione molto diffuso e ampio, uno la passa a dieci, dieci la diffondono a cento, cento a mille, e così si procede in fase geometrica, facendo diventare un argomento “caldo” su Internet quale verità assoluta.

 Chi vorrà credere è disposto naturalmente.

 Inoltre, queste false opinioni in Internet possono persino avere un impatto sul mondo reale.

 

Ad esempio, a livello politico, ora tutti possono commentare e partecipare all’agone online.

Affinché i politici ottengano il diritto di parola e stabiliscano l’agenda, la chiave è affidarsi alla direzione dell’opinione pubblica su Internet, e il discorso su Internet è diventato l’elemento dominante del discorso politico, e non viceversa.

 Le caratteristiche dei “social network” sono proprio il terreno fertile per le teorie del complotto.

 Internet è facile da far fermentare nell’opinione pubblica ed è esattamente il terreno fertile per le teorie del complotto.

Nel quadro odierno, le “teorie del complotto” sono sufficienti per influenzare la politica e persino lo sviluppo politico.

Una certa teoria del complotto guadagna un tot numero di sostenitori attraverso Internet e la promuove affinché diventi un’opinione pubblica molto dibattuta.

Di conseguenza, entra nello spazio politico reale giungendo dalla comunità virtuale e la sua influenza può mutare la direzione delle decisioni governative.

Guardando da un’altra angolazione, quando le teorie del complotto vengono immesse in Internet e continuano a proliferare – al di là dell’esistenza o meno degli Illuminati – esse stesse sono sufficienti per stabilire un Nuovo ordine mondiale: si cambiano le opinioni pubbliche del mondo reale, la composizione delle opinioni e il fondamento delle discussioni sociali, e quindi si colpiscono i Paesi del mondo, la politica, i governanti.

 

 

 

 

 

Sulle élite contemporanee.

  Gognablog.sherpa-gate.com – (2 Febbraio 2021) - Marino Badiale- ci dice:

(badiale-tringali.it - 12 dicembre 2019).

 

I. La revoca del mandato celeste.

Nelle analisi della situazione sociale e politica attuale nei paesi avanzati, è ormai un dato acquisito l’esistenza di una particolare frattura sociale e culturale.

Abbiamo da una parte un ceto, relativamente ristretto, di persone adattate alla nuova natura transnazionale del capitalismo contemporaneo:

 persone dotate di conoscenze e capacità (in primo luogo la conoscenza della lingua inglese, ma ovviamente non solo questo) che le rendono in grado di approfittare di occasioni di lavoro sparse in tutto il globo, prive di remore a spostarsi per approfittarne, impiegate in lavori a forte componente intellettuale e specialistica, capaci di tessere relazioni proficue con le persone più diverse, ma in sostanza appartenenti allo stesso milieu.

Si tratta del ristretto ceto di coloro che si sono pienamente inseriti nei meccanismi del capitalismo globalizzato e sono in grado di approfittare delle possibilità che la sua dinamica crea.

 All’interno di questo ceto spiccano ovviamente i detentori del potere, quelli che si ritrovano a Davos e in simili occasioni;

ma il ceto di cui stiamo parlando, pur ristretto, non è composto esclusivamente da uomini e donne di potere, ma da persone che condividono lo stile di vita e la visione del mondo degli attuali ceti dominanti.

Per chiarezza terminologica, parleremo di “élite dominanti” intendendo la ristretta cerchia di chi detiene un potere effettivo (per ripeterci: quelli che si incontrano a Davos), mentre useremo l’espressione “ceti medi elitari” o “ceti medi globalizzati” intendendo quello strato sociale che abbiamo descritto nelle prime righe, minoritario ma più ampio rispetto ai “signori di Davos”.

Parleremo infine di “élite contemporanee” intendendo l’insieme di questi due gruppi.

 

Alle élite contemporanee si contrappone la parte largamente maggioritaria della popolazione, che ha visto in questi decenni il peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita e la perdita dei diritti conquistati nella fase “keynesiano-socialdemocratica” del capitalismo del secondo dopoguerra.

 Si tratta di ceti legati a una dimensione di vita locale o al più nazionale, impegnati in lavori di scarsa qualificazione, non molto dotati delle competenze (linguistiche e culturali in generale) per muoversi nella “società globale”.

È noto che questa frattura sociale si esprime anche come frattura culturale e politica.

 I ceti del primo tipo sono in primo luogo sostenitori convinti dei processi di globalizzazione:

 possono magari ammettere che essa presenta anche dei problemi, ma tali problemi devono comunque essere superati mantenendone la sostanza;

 in secondo luogo aderiscono in genere alle ideologie mainstream in campo economico (sono cioè in sostanza liberisti, magari con sfumature diverse);

in terzo luogo condividono in gran parte i dettami del “politicamente corretto”;

 infine, sul piano delle scelte politico-elettorali, esprimono in genere preferenze per la cosiddetta “sinistra moderata”, ma possono dare appoggio anche a personaggi almeno apparentemente nuovi come Matteo Renzi in Italia ed Emmanuel Macron in Francia.

I ceti del secondo tipo esprimono invece, in modo spesso confuso ma con forza crescente, un rifiuto di molti aspetti di ciò che chiamiamo “globalizzazione”, e questo rifiuto si esprime politicamente nell’appoggio a movimenti, partiti e leader ascrivibili alla destra, una destra che spesso viene qualificata come “populista” o “sovranista” per esprimere in qualche modo gli aspetti di novità che la contraddistinguono rispetto alla destra liberale classica.

 

Se questa è la situazione, è chiaro che essa può portare a dinamiche piuttosto pericolose, a scontri distruttivi e laceranti del tessuto sociale, fino a mettere in questione la stessa democrazia.

 Ci si aspetterebbe quindi una discussione franca e spassionata per capire come evitare tali esiti.

 E ovviamente le attuali élite, che hanno in media una formazione intellettuale di più alto livello rispetto ai ceti subalterni, dovrebbero dimostrare la propria superiore capacità intellettuale proprio in questo tipo di riflessione.

 Purtroppo si deve constatare che la reazione delle élite di fronte a questa situazione è spesso piuttosto infantile:

le masse “populiste” vengono stigmatizzate come ignoranti, rozze, mentalmente limitate (e quindi intolleranti e razziste), fascistoidi.

Ora, questi aspetti possono certamente essere una componente del “grande rifiuto”, da parte di fasce sempre maggiori della popolazione, verso l’attuale organizzazione sociale, ma non è questo il punto.

 Il punto è che una élite è tale se riesce ad avere capacità egemonica, cioè se riesce a collegare a sé la gran massa della popolazione subalterna offrendo un compromesso per il quale le masse accettano la propria subalternità ricevendo in cambio la possibilità di vivere una vita decente, protetta per quanto possibile dagli alti e bassi delle vicende storiche.

 La fase del capitalismo “keynesiano-socialdemocratico” è stata appunto una fase di egemonia di questo tipo:

non c’era ovviamente nessuna rivoluzione nei rapporti di dominio, ma i ceti dominanti in quella fase hanno saputo costruire assieme ai ceti subalterni un compromesso soddisfacente, legando in maniera fortissima le masse a quella organizzazione sociale:

 è l’enorme capacità egemonica di quello che giustamente è stato chiamato “l’impero irresistibile  a costituire la base ultima dell’89, della vittoria finale del capitalismo sul suo antagonista storico.

Il capitalismo occidentale aveva conquistato le masse, il socialismo orientale aveva prodotto una massiccia reazione di rigetto.

Se questo è chiaro, dovrebbe anche apparire chiaro come la reazione attuale delle élite alla disaffezione delle masse sia del tutto infantile:

quello che è successo in questi decenni è la fine del compromesso “keynesiano-socialdemocratico”, e questa fine ovviamene implica anche la fine dell’egemonia basata su tale compromesso.

Ma allora, invece di lanciare alle masse epiteti ingiuriosi, una élite degna di questo nome deve ricostruire una egemonia, e cioè proporre un nuovo patto sociale, un nuovo grande compromesso fra dominanti e dominati.

Ma di questo non si vede oggi la minima traccia.

L’attuale situazione fa allora pensare che ci troviamo in un caso standard di “revoca del mandato celeste”.

Si tratta, come è noto, di una espressione ripresa dalla tradizione culturale cinese.

In tale tradizione, il sovrano è tale perché ha ricevuto dal Cielo il mandato di ben governare la società, mantenendola in armonia con i grandi cicli del cosmo.

Il sovrano è legittimo finché riesce in questo compito.

Quando emergono, nella società o nella natura (realtà non drasticamente opposte, in quella tradizione culturale), evidenti segnali di disarmonia, di contrasti, di rottura degli equilibri cosmici, il sovrano è delegittimato e la rivolta è legittima.

Si tratta di una impostazione culturale che non resta mera teoria ma si concretizza nelle tante rivolte che costellano la storia di quel grande paese, arrivando talvolta ad abbattere dinastie e a fondarne di nuove.

Se sfrondiamo questa narrazione dagli aspetti culturali tipici del mondo cinese, affascinanti ma lontani dalla nostra mentalità, quello che resta è l’idea che il sovrano, il ceto dominante, deve mantenere una armonia fra i vari gruppi sociali, e se questa manca viene meno la legittimità del potere. Tale armonia non può che basarsi su un compromesso nel quale i ceti dominati ottengono la possibilità di vivere una vita decente, secondo i parametri di quel dato momento storico e quella particolare cultura.

Nel mondo premoderno una vita decente era in sostanza una vita che mantenesse le stesse possibilità e disponibilità stabilite dalla tradizione.

Nel mondo moderno, il mondo che ha inventato la nozione di “progresso”, nel concetto di “vita decente” vi è non solo la possibilità di accedere a un determinato livello di consumi, ma anche l’idea di un progressivo miglioramento, l’idea cioè che nel corso della vita di ciascuno il livello di vita si alzerà e i figli godranno di una vita migliore rispetto ai genitori.

È evidente allora che il “trentennio dorato” 1945-1975 rappresenta appunto, come si diceva, un esempio di compromesso nel quale i ceti dominanti riuscivano a garantire una vita decente ai dominati, e ne ricavavano consenso ed egemonia.

È altrettanto chiaro, e spiegato nei dettagli in una letteratura ormai imponente, che i decenni seguiti agli anni Settanta hanno rappresentato la revoca di quel compromesso:

distruzione dei ceti medi, impoverimento dei ceti inferiori, aumento spettacolare delle disuguaglianze, fine dell’idea che i figli vivranno meglio dei genitori.

 I ceti dominanti hanno denunciato, nei fatti, il compromesso precedente, senza sostituirvi nessun progetto sociale che abbia le stesse capacità egemoniche.

Hanno in sostanza tolto senza dare nulla e senza preoccuparsi della caduta verticale del consenso e della coesione sociale.

 E rispondono alla crescente rabbia sociale con disprezzo moralistico verso i ceti subalterni.

 Si tratta insomma di uno strato dominante che ha perso ogni capacità egemonica, e che sarà abbattuto se non riesce a riconquistarla, impostando un nuovo grande compromesso sociale.

Il primo esempio storico che viene alla memoria è, ovviamente, la Rivoluzione Francese:

nel 1789 in Francia è stato necessario abbattere il potere dei ceti aristocratici per costruire una nuova società;

ma anche nella storia cinese è stato più volte necessario che le rivolte contadine contribuissero ad abbattere dinastie per lasciare spazio a nuovi gruppi dominanti.

 E non ha ovviamente nessuna importanza che i ceti da abbattere siano quasi sempre più colti e raffinati dei rivoltosi che li abbattono: non c’è dubbio che un aristocratico francese di fine Settecento fosse capace di una conversazione più colta e civile del sanculotto che lo accompagnava alla ghigliottina,

non c’è dubbio che il mandarino al servizio dell’imperatore caduto avesse molte più cose da insegnarci rispetto al contadino in rivolta:

tutto questo non ha nessuna importanza, se si è capito il senso di quanto finora detto.

Protesta di massa a Hong Kong.

Chi sicuramente capiva queste cose era Antonio Gramsci, che in una lettera alla cognata scriveva:

“La posizione del Croce verso il materialismo storico mi pare simile a quella degli uomini del Rinascimento verso la Riforma luterana: “dove entra Lutero, sparisce la civiltà”, diceva Erasmo, eppure gli storici e lo stesso Croce riconoscono oggi che Lutero e la Riforma sono stati l’inizio di tutta la filosofia e la civiltà moderna (…).

L’uomo del Rinascimento non comprendeva che un grande movimento di rinnovazione morale e intellettuale, in quanto si incarnava nelle vaste masse popolari, come avvenne per il Luteranesimo, assumesse immediatamente forme rozze e anche superstiziose e che ciò era inevitabile per il fatto stesso che il popolo tedesco, e non una piccola aristocrazia di grandi intellettuali, era il protagonista e il portabandiera della Riforma”.

Come si vede, Gramsci coglie qui con precisione il nesso fra la “rozzezza” di alcuni aspetti del movimento della Riforma e la sua importanza storica:

non che la rozzezza in sé sia un valore, beninteso, ma essa è un aspetto inevitabile di un grande movimento storico che, coinvolgendo le “vaste masse popolari”, appunto per questo nello stesso tempo esprime capacità di “rinnovazione morale e intellettuale” e “forme rozze” (almeno nell’immediato).

Il fatto che questo tipo di comprensione delle realtà storiche sia molto lontana, per quanto possiamo giudicare, dalle analisi prodotte, rispetto ai fenomeni di cui stiamo trattando, dalle élite contemporanee, dimostra una volta di più la loro incapacità di ricostruire un compromesso egemonico.

Il mandato celeste è stato revocato, ribellarsi è giusto.

II. Un orrore inaudito.

Quanto abbiamo fin qui detto delinea in fondo una storia piuttosto banale: un tipo di compromesso sociale, che ha funzionato per un periodo, entra in crisi, le élite non sanno inventarsi un diverso tipo di compromesso e si limitano ad approfittare della propria posizione di potere per accumulare benefici ostentando disprezzo per i ceti subalterni i quali, privati a poco a poco di quanto ottenuto in precedenza e in mancanza di prospettive di un nuovo compromesso, iniziano lentamente a contestare le élite.

Proprio l’incapacità delle élite di inventare un nuovo compromesso, e il loro rifugiarsi nel disprezzo di classe, mostrano con evidenza che esse non hanno più le capacità egemoniche necessarie al loro ruolo, e fanno quindi prevedere che esse saranno abbattute e sostituite con nuove élite.

Tutto questo, lo ripeto, è fondamentalmente banale, uno schema già visto tante volte.

Ma la situazione attuale non si limita a questo momento di “ripetizione”, ma presenta aspetti nuovi che ci spingono a delineare prospettive molto più drammatiche di una semplice rivoluzione, per quanto cruenta.

 La novità che sta emergendo con tutta evidenza nei giorni attuali è il disastro ecologico al quale ci sta portando l’organizzazione sociale attuale, cioè il capitalismo esteso ormai a tutto il globo.

Siamo di fronte alla prospettiva del crollo catastrofico dell’attuale civiltà.

Nel giudizio da dare sulle attuali élite globalizzate è allora da qui che bisogna partire: dal fatto che l’attuale organizzazione di economia e società ci sta portando verso un disastro di proporzioni mai viste nella storia umana.

Le élite del capitalismo globale hanno pesantissime responsabilità in questa situazione.

Limitiamoci qui al problema del cambiamento climatico, che è solo uno dei tanti nodi che verranno al pettine nei prossimi decenni.

Il bel libro di Nathaniel Rich documenta come gli aspetti essenziali del problema fossero già chiari alla fine degli anni Settanta, e come vi sia stato, lungo gli anni Ottanta, un serio tentativo, che ha coinvolto le massime cariche istituzionali negli USA, di arrivare a un trattato internazionale per limitare e bloccare le emissioni di diossido di carbonio.

 Questi tentativi non portarono però a nulla, e oggi possiamo dire che da questo punto di vista l’umanità ha sprecato quattro decenni che sarebbero stati cruciali per evitare il disastro oggi incipiente.

 Rich non fornisce spiegazioni per questo fallimento, ma a questo provvede, con la sua consueta chiarezza, Naomi Klein, che argomenta ciò che dovrebbe essere ovvio:

 la vittoria mondiale del capitalismo neoliberista globalizzato non poteva che portare al fallimento di quei tentativi, perché un sistema economico basato sulla concorrenza spietata nella ricerca del profitto, concorrenza estesa all’intero pianeta, non può tollerare nessun vincolo, nessuna limitazione;

mentre ovviamente un qualsiasi tipo di trattato sulla limitazione delle emissioni, se venisse davvero applicato, rappresenterebbe un vincolo all’espansione illimitata del capitale nella sua ricerca spasmodica del profitto.

Il punto è che le élite globali di cui stiamo parlando rappresentano proprio il ceto dominante e la principale base sociale di questo capitalismo, e sono quindi, tutti assieme, fondamentalmente responsabili del fatto che negli ultimi quarant’anni non si è agito per evitare di “perdere la Terra”, per evitare il baratro nel quale il modo di produzione capitalistico sta precipitando l’umanità intera.

Si potrebbe obiettare che tutto questo riguarda il passato, che oggi finalmente esiste un consenso, anche fra i ceti dominanti, sulla necessità di risolvere il drammatico problema del riscaldamento globale.

Sembra in effetti che negli ultimi anni si sia prodotto un cambiamento di questo tipo, che davvero una parte almeno dei ceti dominanti si sia convinta del fatto che la catastrofe annunciata da tempo sta arrivando, e che essa mette in questione anche il loro potere, i loro redditi, e forse persino le loro vite, assieme naturalmente a quelle di masse sterminate di altri esseri umani.

Il punto fondamentale è però che le élite non intendono rimettere in discussione il modo di produzione capitalistico, e quindi le misure che forse riusciranno a prendere per combattere il cambiamento climatico non potranno essere decisive, anche se, eventualmente, riusciranno a rinviare per qualche tempo, magari per qualche decennio, il crollo dell’attuale civiltà.

Facciamo solo un esempio: Greta Thunberg si è recata all’ONU, a New York, viaggiando su una barca a vela.

 Questa scelta non ha solo un carattere simbolico. Il suo significato è che davvero, se vogliamo salvarci, dobbiamo rinunciare ai viaggi in aereo e all’uso di navi a motore.

Ma è pensabile l’attuale organizzazione economica, l’attuale capitalismo globalizzato, senza la fitta rete di scambi commerciali che utilizzano massicciamente motori spinti dall’energia dei combustibili fossili?

Ovviamente no, e l’unica possibilità è allora lo smantellamento dell’attuale capitalismo globalizzato e la ricostruzione di forme di economia molto più localizzate, con una rete di scambi ridotta per volume ed estensione.

La domanda è ovvia: le attuali élite globalizzate progettano seriamente qualcosa del genere?

 Prospettano in qualche modo la necessità di ridurre gli scambi commerciali globali?

Ovviamente no, e questo esempio mostra come l’attuale conversione dei ceti dominanti (o almeno di una loro parte significativa) alle tematiche del “climate change” non sia tale da cambiare la direzione catastrofica nella quale l’attuale società si sta muovendo.

È allora questa la novità storica con la quale dobbiamo confrontarci, nel giudizio sulle élite contemporanee:

per la prima volta nella sua storia l’umanità si trova di fronte alla possibilità concreta del crollo dell’intera società umana mondiale.

 Si tratta di un evento che è difficile anche solo da pensare, e che, se dovesse realizzarsi, porterebbe sofferenze e orrori quali mai si sono visti nella storia umana.

Yves Cochet ritiene che il crollo sia molto vicino e che si possa ipotizzare la scomparsa di metà dell’attuale umanità, cioè la morte di tre o quattro miliardi di individui.

Ovviamente non possiamo accampare certezze assolute sul futuro, in particolare non possiamo pensare a una datazione precisa del crollo, ma ritengo che quello prospettato da Cochet sia il livello di orrore che possiamo aspettarci.

Per inquadrare e concludere questa discussione, proviamo allora a leggere “il presente come storia”: a vedere il nostro presente con gli occhi dei sopravvissuti al crollo dell’attuale civiltà.

Da quanto detto, appare evidente che, se un simile evento si produrrà, rappresenterà un orrore inaudito nella storia.

Ma è anche evidente che, se questo orrore arriverà, le attuali élite verranno deprecate dai sopravvissuti come gli esseri più orribili dell’intera storia umana. Appariranno, appariremo, espressione di una inaudita malvagità.

Una malvagità oggettiva, s’intende: non stiamo parlando delle soggettività dei singoli.

E questa è dunque la conclusione delle riflessioni fin qui svolte.

Non c’è dubbio che le attuali élite siano composte di persone educate, tolleranti, colte.

Ma questo non ha nessuna importanza, come non aveva nessuna importanza quanto fossero educati, tolleranti e colti gli aristocratici francesi a fine ‘700.

 Al momento del crollo, se crollo sarà, le attuali élite globalizzate, con tutta la loro tolleranza, educazione, cultura, riveleranno di essere nient’altro che una nuova manifestazione della banalità del male.

 

 

 

Il complice e il sovrano.

Gognablog.sherpa–gate.com – (29 Gennaio 2023) - Giorgio Agamben – ci dice:

(quodlibet.it - 3 dicembre 2022).

 

Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema che abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o anche soltanto di poter uscire.

 Credo che anche fra di noi non tutti si siano resi conto che quel che abbiamo di fronte è più e altro di un flagrante abuso nell’esercizio del potere o di un pervertimento – per quanto grave – dei principi del diritto e delle istituzioni pubbliche.

Credo che ci troviamo piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di quella del romanzo di Conrad, nessuna generazione può credere di poter impunemente scavalcare.

E se un giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme, di disfacimento.

Ho usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo borromeo, cioè un nodo in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli altri due.

 E se, come alcuni non senza ragione sostengono, la gravità di una situazione si misura dal numero delle uccisioni, credo che anche questo indice risulterà molto più elevato di quanto si è creduto o si finge di credere.

Prendendo in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che aveva usato per l’Europa nella seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che la nostra società ha «vomitato sé stessa».

Per questo io penso che non vi è per questa società una via di uscita dalla situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata, a meno che qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.

Ma non è di questo che volevo parlarvi;

mi preme piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e possiamo continuare a fare in una tale situazione.

 Io condivido infatti pienamente le considerazioni contenute in un documento che è stato fatto circolare da “Luca Marini” quanto all’impossibilità di una rappacificazione.

Non può esservi rappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto e fatto in questi due anni.

Non abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare di correggere.

Chi pensa questo s’illude.

 Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica.

In ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto penale: il complice – a patto di precisare che si tratta di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire assoluta, nel senso che cercherò di spiegare.

Nella terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha attuato una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione delittuosa di un altro soggetto, il reo.

Noi ci siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società – che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per essa innominabile.

Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca, una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della Repubblica o del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice medico – agiscono sempre come complici e mai come rei.

Credo che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova prospettiva il patto hobbesiano.

Il contratto sociale ha assunto, cioè, la figura – che è forse la sua vera, estrema figura – di un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di questo essere com-plici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.

Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.

Vi è anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la complicità non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e piuttosto fra l’uomo e il cittadino.

Hannah Arendt ha più volte mostrato quanto la relazione fra questi due termini sia ambigua e come nelle “Dichiarazioni dei diritti” sia in realtà in questione l’iscrizione della nascita, cioè della vita biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello Stato nazione moderno.

I diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il presupposto immediatamente dileguante del cittadino.

L’emergere in pianta stabile nel nostro tempo dell’uomo come tale è la spia di una crisi irreparabile in quella finzione dell’identità fra uomo e cittadino su cui si fonda la sovranità dello stato moderno.

Quella che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova configurazione di questo rapporto, in cui l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con questo una singolare relazione , nel senso che, con la natività del suo corpo, egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita dell’uomo, di cui assume la cura.

Questa complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua estrema – e speriamo ultima – configurazione.

La domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora sentirci obbligati rispetto a questa società?

O se, come credo, ci sentiamo malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati, secondo quali modalità e entro quali limiti possiamo rispondere a questa obbligazione e parlare pubblicamente?

Non ho una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di non poter più fare.

Io non posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in questione la stessa medicina.

Se non si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa letale.

Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare innanzitutto in questione il diritto e la costituzione.

 È forse necessario, per non parlare del presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi in esse i dispositivi di cui avevano bisogno per istaurare i loro regimi?

È possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.

Se ho evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in nome di vaghi principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo.

È come se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo omettere di guardare.

Non intendo con questo, svalutare o considerare inutile il lavoro critico che abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si continuerà a svolgere con rigore e acutezza.

 Questo lavoro può essere ed è senz’altro tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di cecità identificarlo semplicemente con una strategia a lungo termine.

In questa prospettiva molto resta ancora da fare e potrà essere fatto solo lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati.

 Il lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo una bella immagine di Anna Maria Ortese, solo là dove tutto è perduto, senza compromessi e senza nostalgie.

(Giorgio Agamben è un filosofo italiano.)

 

 

 

L’Ucraina sta affondando e

le élite occidentali cercano di defilarsi.

Ariannaeditrice.it - Unz.com - Mike Whitney – (04/02/2023) – ci dice:

 

Ciò che rende l’ultimo rapporto della “RAND Corporation” sull’Ucraina così significativo non è la qualità dell’analisi, ma il fatto che il più prestigioso “think-tank sulla sicurezza nazionale” abbia assunto una posizione opposta a quella della classe politica di Washington e dei suoi alleati globalisti.

Questo è un fatto molto importante.

Ricordate che le guerre non finiscono perché l’opinione pubblica si oppone ad esse. Questo è un mito.

 Le guerre finiscono quando emerge una spaccatura importante tra le élite che, a sua volta, porta ad un cambiamento di politica.

 Il nuovo rapporto della “RAND Corporation”, “Evitare una lunga guerra: la politica statunitense e la traiettoria del conflitto tra Russia e Ucraina,” rappresenta proprio questa spaccatura.

Indica che le élite più potenti sono in disaccordo con l’opinione della maggioranza perché ritengono che l’attuale politica stia danneggiando gli Stati Uniti.

Riteniamo che questo cambiamento di prospettiva sia destinato a guadagnare slancio e possa innescare una richiesta più assertiva di negoziati.

 In altre parole, il “rapporto RAND” potrebbe essere il primo passo verso la fine della guerra.

Consideriamo per un attimo questo estratto dal “preambolo del rapporto”:

“I costi e i rischi di una lunga guerra in Ucraina sono significativi e i suoi possibili sviluppi superano i probabili benefici per gli Stati Uniti.”

Questa citazione riassume efficacemente l’intero documento.

Pensateci:

Negli ultimi 11 mesi ci è stato ripetutamente detto che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto l’Ucraina “per tutto il tempo necessario.”

La citazione sopra riportata ci assicura che ciò non accadrà.

Gli Stati Uniti non hanno intenzione di minare i propri interessi per perseguire il sogno irrealizzabile di espellere la Russia dall’Ucraina.

 (Anche i falchi non credono più ad una possibilità del genere).

 I membri razionali dell’establishment della politica estera valuteranno le prospettive di successo dell’Ucraina e le soppeseranno rispetto alla crescente probabilità che il conflitto possa inaspettatamente sfuggire al controllo.

Questo, ovviamente, non sarebbe nell’interesse di nessuno e potrebbe innescare uno scontro diretto tra Russia e Stati Uniti.

 Inoltre, i responsabili politici statunitensi dovranno decidere se i sempre più numerosi danni collaterali valgono la spesa.

 In altre parole, la rottura delle linee di approvvigionamento, l’aumento dell’inflazione, la crescente carenza di energia e di cibo e la diminuzione delle scorte di armi sono un giusto compromesso per “indebolire la Russia?”

Molti direbbero: “No.”

Per certi versi, il “rapporto RAND” è solo il primo di una lunga serie di tessere del domino che cadono.

Man mano che aumenteranno le perdite ucraine sul campo di battaglia – e sarà sempre più evidente che la Russia controllerà tutto il territorio a est del fiume Dnieper – le falle nella strategia di Washington diventeranno più evidenti e saranno criticate ancor più aspramente.

 La gente metterà in dubbio la logica delle sanzioni economiche, che danneggiano i nostri alleati più stretti e aiutano la Russia.

 Si chiederanno perché gli Stati Uniti stiano seguendo una politica che ha provocato un forte allontanamento dal dollaro e dal debito americano.

 E si chiederanno perché gli Stati Uniti, a marzo, avessero deliberatamente sabotato un accordo di pace, quando le probabilità di una vittoria ucraina erano già prossime allo zero.

Il “rapporto della Rand” sembra anticipare tutte queste domande e il “cambiamento di umore” che ne seguirà.

Ecco perché gli autori spingono per i negoziati e per una rapida fine del conflitto. Questo è un estratto da un articolo di RT:

La RAND Corporation, un influente think tank d’élite per la sicurezza nazionale finanziato direttamente dal Pentagono, ha pubblicato uno storico rapporto in cui afferma che il prolungamento della guerra per procura danneggia attivamente gli Stati Uniti e i loro alleati e avverte Washington che dovrebbe evitare “un conflitto prolungato” in Ucraina…

(Il rapporto) inizia affermando che i combattimenti rappresentano “il conflitto interstatale più significativo degli ultimi decenni e che la sua evoluzione avrà conseguenze importanti” per Washington, tra cui il danneggiamento attivo degli “interessi” statunitensi.

Il rapporto chiarisce che, anche se gli Ucraini hanno combattuto, e le loro città sono state “spianate” e “l’economia decimata,” questi “interessi” non sono “sinonimi” di quelli di Kiev. (“Rand calls for swift end to war“, RT)

Sebbene il rapporto non affermi esplicitamente che “gli interessi degli Stati Uniti vengono danneggiati,” certamente lo lascia intendere.

 Non sorprende che il rapporto non menzioni i danni collaterali della guerra di Washington alla Russia, ma sicuramente questo aspetto deve essere stato in primo piano nella mente degli autori.

Dopo tutto, non sono i 100 miliardi di dollari o la fornitura di armi letali a costare così cari agli Stati Uniti.

 È l’emergere sempre più rapido di coalizioni internazionali e di istituzioni alternative che ha portato l’Impero statunitense sulla via della rovina.

 Partiamo dal presupposto che gli analisti del RAND vedano le stesse cose che vede ogni altro essere senziente, ovvero che l’errata conflagrazione di Washington con Mosca è un “ponte troppo lontano da raggiungere” e che il contraccolpo sarà immenso e straziante.

Da qui l’urgenza di porre fine alla guerra in tempi brevi.

 Ecco un estratto del rapporto, pubblicato in grassetto a metà del testo:

“Poiché evitare una lunga guerra è la priorità più alta dopo aver minimizzato i rischi di escalation, gli Stati Uniti dovrebbero adottare misure che rendano più probabile la fine del conflitto nel medio termine.”

È interessante notare che il rapporto, pur descrivendo in dettaglio i principali rischi di escalation (che includono una guerra più ampia con la NATO, un coinvolgimento nel conflitto di altri Paesi dell’UE e una guerra nucleare), non spiega perché proprio una “guerra lunga” sarebbe così dannosa per gli Stati Uniti.

Riteniamo che questa omissione sia intenzionale e che gli autori non vogliano ammettere che il ritorno di fiamma delle sanzioni e la formazione di coalizioni estere antiamericane stanno chiaramente minando i piani degli Stati Uniti per mantenere la loro presa sul potere globale.

 Tra le élite, questi discorsi sono proibiti.

Ecco come Chris Hedges ha riassunto la situazione in un articolo su “Consortium News”:

Il piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio Oriente.

Sta alimentando una crisi alimentare globale e devastando l’Europa con un’inflazione quasi a due cifre.

Ancora una volta, sta mettendo a nudo l’impotenza degli Stati Uniti e la bancarotta degli oligarchi al potere.

Come contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale negli Stati Uniti.

 Washington sta fornendo all’Ucraina sistemi d’arma sempre più sofisticati e aiuti per molti miliardi nel futile tentativo di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di salvare sé stessa. (“Ukraine — The War That Went Wrong”, Chris Hedges, Consortium News)

 

Hedges lo riassume perfettamente.

Il folle intervento di Washington sta spianando la strada alla più grande catastrofe strategica della storia degli Stati Uniti.

Eppure, ancora oggi, la stragrande maggioranza delle élite aziendali e bancarie sostiene risolutamente la politica esistente, ignorando gli evidenti segni di fallimento.

Un esempio per tutti: il “World Economic Forum” ha pubblicato sul suo sito web una dichiarazione di sostegno all’Ucraina. Eccola:

“L’essenza della nostra organizzazione è la fiducia nel rispetto, nel dialogo e negli sforzi di collaborazione e cooperazione. Pertanto, condanniamo profondamente l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, gli attacchi e le atrocità.

La nostra piena solidarietà è con il popolo ucraino e con tutti coloro che stanno soffrendo innocentemente a causa di questa guerra assolutamente inaccettabile. Faremo tutto il possibile per aiutare e sostenere attivamente gli sforzi umanitari e diplomatici.

Speriamo solo che – a lungo termine – la ragione prevalga e che emerga nuovamente lo spazio per la costruzione di ponti e la riconciliazione”. (Klaus Schwab and Børge Brende, World Economic Forum)

 

Nessuno dovrebbe sorprendersi di questo.

 Naturalmente, i globalisti si schiereranno dalla parte della loro squadra di demolizione espansionistica (la NATO) invece che dalla parte del più grande sostenitore mondiale dei valori tradizionali, dei confini e della sovranità nazionale.

Questo è ovvio.

 Tuttavia, il rapporto Rand suggerisce che il sostegno alla guerra non è più unanime tra le élite.

E, poiché, in ultima istanza sono le élite a decidere la politica, è sempre più probabile che questa cambi.

Consideriamo questa “scissione del consenso delle élite” come lo sviluppo più positivo degli ultimi 11 mesi.

L’unico modo in cui gli Stati Uniti potranno cambiare il loro approccio all’Ucraina è che un numero crescente tra le élite rinsavisca e ci faccia indietreggiare dal baratro.

 Speriamo che ciò accada, ma non ne siamo certi.

La parte meno persuasiva dell’intero rapporto è quella intitolata: “Impegni degli Stati Uniti e degli alleati per la sicurezza dell’Ucraina.”

Il problema è facile da capire.

Gli autori vogliono definire un piano per fornire sicurezza all’Ucraina al fine di incentivare i negoziati con la Russia.

Purtroppo, la Russia non ha intenzione di permettere all’Ucraina di far parte di un’alleanza di sicurezza sostenuta dall’Occidente, anzi, è proprio per questo che la Russia ha lanciato la sua invasione, per impedire l’adesione dell’Ucraina ad un’alleanza militare ostile (la NATO) legata agli Stati Uniti.

Si tratta di un argomento spinoso che senza dubbio costituirà un ostacolo in qualsiasi negoziato futuro.

 Ma si tratta di una questione su cui non ci può essere “margine di manovra.”

L’Ucraina – o ciò che ne rimane – dovrà essere permanentemente neutrale e tutti gli estremisti di estrema destra dovranno essere rimossi dal governo, dalle forze armate e dai servizi di sicurezza.

Mosca non sceglierà i leader dell’Ucraina, ma si assicurerà che questi non siano né nazisti né legati a organizzazioni nazionaliste di estrema destra.

Come abbiamo detto in precedenza, riteniamo che il rapporto RAND indichi che le élite sono ora divise sulla questione dell’Ucraina.

Riteniamo che questo sia uno sviluppo positivo che potrebbe portare a negoziati e alla fine della guerra.

 Tuttavia, non dovremmo ignorare il fatto che anche l’analisi più imparziale può pendere nella direzione di chi fornisce i finanziamenti.

 E questo potrebbe essere vero anche in questo caso.

Si tenga presente che la RAND Corporation è un think tank apartitico che, secondo il tenente colonnello in pensione dell’USAF Karen Kwiatkowski:

lavora per l’establishment della difesa e, se i finanziamenti dovessero esaurirsi, il thinktank non esisterebbe nella sua forma attuale.

Serve interamente gli interessi del governo statunitense e ne dipende.” (Lew Rockwell)

Questo suggerisce che il “rapporto RAND” potrebbe rappresentare il punto di vista del Pentagono e dell’establishment militare statunitense e, secondo loro, gli Stati Uniti starebbero correndo a testa bassa verso uno scontro diretto con la Russia.

 In altre parole, il rapporto potrebbe essere la prima bordata ideologica contro i neocon che gestiscono il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca.

Sospettiamo che questa spaccatura tra il Dipartimento della Guerra e lo “Stato” diventerà più visibile nei prossimi giorni.

Possiamo solo sperare che al Pentagono prevalga la fazione più accorta.

(unz.com)

(unz.com/mwhitney/ukraine-is-sinking-are-western-elites-bailing-out/).

 

 

 

Noi siamo la minaccia.

Ariannaeditrice.it - Fabio Massimo Parenti – (27/02/2023) – ci dice:

(La nostra) decisione non dovrebbe essere né filorussa né filo-ucraina, ma deve essere capace di riconoscere le realtà storiche, geografiche ed economiche coinvolte e cercare per gli ucraini un posto dignitoso e accettabile nella famiglia del tradizionale impero russo, di cui formano una parte inestricabile.

(George F. Kennan, 1948)

Le “chiacchiere” più recenti sulla guerra in Ucraina sono tutte incentrate su nomi di armamenti:

ogni santo giorno si pubblicano articoli su Himars, Javelin, Leopard, F16, missili, razzi, carri, aerei, sistemi di difesa ecc.

Ciò fa tornare alla mente le “chiacchiere” mediatiche ai tempi della crisi 2007-2008, in cui proliferavano gli acronimi dei mille derivati: MBS, ABC, CDS, CDO ecc.

Nell’uno come nell’altro caso, una coltre di tecnicismo veniva e viene messa in circolazione col fine ultimo, sembrerebbe, di non far capire alcunché ai lettori, sull’origine dei fenomeni e sui processi che determinano gli eventi.

Ma c’è di più.

Questo chiacchiericcio mediatico è utile invero a nascondere le responsabilità, a deresponsabilizzare gli esecutori di tutti gli errori che ci hanno portato fin qui.

Slogan vuoti e censura.

All’epoca della grande crisi finanziaria, i media raccontavano gli eventi con la poetica della complessità finanziaria, gettando fumo tecnicistico sulla reale comprensione del contesto, del processo e delle cause reali.

Tutto liquidato con qualche accenno alle distorsioni e ai fallimenti di mercato, attribuendo la responsabilità alla complessità del sistema finanziario, dei prodotti derivati e delle strategie di investimento.

In tal modo il discorso pubblico non faceva altro che allontanare il riconoscimento delle cause reali (in primis la deregolamentazione pluridecennale dei mercati) e delle responsabilità politiche.

 Anche oggi, in questa fase di grande incertezza geopolitico-economica, in Europa ed Asia Pacifico, il discorso pubblico e le scelte politiche sembrano totalmente irrazionali e miopi.

Ciò che ci interessa evidenziare è la logica politica sottostante il funzionamento dei grandi media:

 liquidando da subito la contestualizzazione dei processi storico-geografici, ovverosia quelli che hanno portato a “stringere” ulteriormente il “nodo” storico rappresentato dallo spazio ucraino, la tanto ridondante quanto inaccurata e onnipresente formula (o meglio “empty slogan”) “dell’aggredito e dell’aggressore” ha sancito la banalizzazione del presente, l’evaporazione dei processi diacronici, la censura delle analisi e delle spiegazioni critiche, impedendo di fatto qualsiasi dibattito realmente costruttivo per lavorare alacremente su compromessi e negoziati.

Il primo accordo raggiunto dalle parti nel marzo 2022 fu affossato da UK-US, mentre la posizione della Cina, riproposta ieri, sulla soluzione politica della crisi Ucraina troverà purtroppo l’opposizione di quelle entità, appena citate, che vogliono continuare ad ampliare il conflitto.

La costruzione del mostro.

I media veicolano continuamente paure e supposte “minacce” provenienti dall’esterno del nostro “giardino”, prestandosi alla vecchia tecnica di costante fabbricazione del pericolo esterno – rappresentato da sedicenti “mostri” da sconfiggere o contenere.

E chi sarebbero questi “mostri”?

Paesi, interi paesi, stati-civiltà, trattati alla stregua di popoli inferiori, che coincidono guarda caso proprio con quei paesi che stanno legittimamente riorganizzando l’economia e la politica mondiale secondo canali e modalità relazionali di tipo cooperativo (si pensi all’allargamento della SCO e dei BRICS).

 E sono proprio quei paesi che, ieri come oggi, cercano una via di uscita dall’età del dominio di un solo paese.

Ecco allora media e politica, a braccetto con alcuni potentati economici, impegnati ad ostacolare ogni interpretazione differente, che possa svelare falsità e manipolazioni e rivelare allo stesso tempo realtà opposte allo storytelling usa-europeo.

 Con le parole di Sachs: “L’implacabile narrazione occidentale secondo cui l’Occidente è nobile, mentre la Russia e la Cina sono malvagie, è ingenua e straordinariamente pericolosa.

 È un tentativo di manipolare l’opinione pubblica, invece di fare i conti con una diplomazia molto reale e pressante”.

La minaccia interna.

Sembra surreale il modo superficiale, banalizzante e fazioso con cui i “grandi” media continuano a “narrare” la guerra russo-ucraina, che, come noto, è una guerra voluta e perseguita da alcuni strateghi Usa ormai da molti anni, nella teoria come nella prassi.

Si tratta di una guerra globale rivolta contro la Russia, oggi, ma proiettata contestualmente verso la Cina, l’Iran e tutti coloro che osano non seguire più l’agenda uni-polarista ed imperialista degli Usa.

 Ciò è stato più volte analizzato e spiegato da autorevolissimi studiosi e politici statunitensi prima di altri.

E non tutti costoro hanno appoggiato tali disegni strategici.

 Sicuramente personalità come Brzezinski, Kaplan, Nuland ne sono stati strenui sostenitori:

hanno teorizzato, consigliato ed operato a favore dell’assorbimento dell’Ucraina nello spazio nordatlantico in funzione antirussa, nonché della separazione dell’UE dal resto dell’Asia.

 Uno degli ultimi atti più eclatanti riguarda il sabotaggio – annunciato, realizzato e celebrato – dei gasdotti baltici.

Altre autorevoli personalità, tuttavia, come lo studioso e diplomatico George Kennan, i professori Stephen Cohen e John Mearsheimer hanno rilevato chiaramente i rischi e i pericoli esiziali delle manovre di accerchiamento in Eurasia, in particolare nello spazio ucraino.

In questo proliferare mediatico-politico di elogi bellici faziosi, di scenari di nuovi olocausti o Armageddon nucleare (cit. Biden) emergono chiaramente i macro-interessi economico-politici dell’apparato industriale militare e di intelligence americano, desideroso di destrutturare i processi di integrazione euroasiatica, con al centro Russia, Iran e Cina.

 Non deve sorprendere, pertanto, che Washington non si muova in alcun modo per un cessate il fuoco e una trattativa in Ucraina (sorprendente è invece la servile viltà europea), bensì per collegare questo scenario di guerra vasta – da alimentare a discapito di tutta l’Europa e dell’economia mondiale – a quello cinese.

Siamo nella fase della promozione della guerra con tutti i mezzi mediatici e politici possibili, finanche sostenendo il più pericoloso (e per questo spregevole) nazionalismo etnico.

Riguardo quest’ultimo aspetto è doveroso ricordare l’esistenza di migliaia di documenti secretati, de-secretati e in parte riclassificati, che si riferiscono a numerose operazioni sotto copertura, come ad esempio l’operazione “Belladonna” del 1946 e la successiva “Aerodynamic” (1949-1970), e che confermano inequivocabilmente gli sforzi dell’intelligence Usa a sostegno delle forze ultranazionaliste in funzione antisovietica.

Da questo materiale si evince chiaramente che “negli anni ’50 la CIA aveva stabilito con successo una rete di controspionaggio con i nazionalisti clandestini ucraini”.

 L’obiettivo di fondo, come esplicitato nei documenti de secretati nel 1966, è il “sostegno” alle “fiammate nazionaliste” in aree molto sparse dell’Unione Sovietica, in particolare in Ucraina.

 Insomma, una storia che viene da lontano e che è continuata fino ai giorni nostri.

Ed è qui che va collocato il ruolo del più grande “broker” di armi al mondo, l’apparato Usa, anche in questa nuova crisi.

Un paese che, per mezzo di una super minoranza (neoconservatrice e straussiana bipartisan), soffia sul fuoco della guerra non solo in Europa ma anche nell’Asia-Pacifico e chiede armi a mezzo mondo per continuare ad alimentare la guerra in Ucraina, fiaccare la Russia ed accerchiare la Cina.

Crediamo sia doveroso rifiutare l’idea dell’inevitabilità della guerra ed imparare a riconoscere che la vera minaccia alla stabilità mondiale e alla coesistenza tra i popoli proviene proprio dall’interno dei nostri sistemi.

(Fabio Massimo Parenti)

 

C’è vita oltre il “liberal capitalismo”?

Ariannaeditrice.it- Roberto Pecchioli – (27/02/2023) – ci dice:

 

C’è vita oltre il liberal capitalismo?

 Ce lo chiedevamo passeggiando- dopo anni di assenza- nel quartiere dove siamo cresciuti.

 Rivedere le cose a distanza di tempo restituisce la prospettiva.

 Oltre al deserto commerciale, ci ha colpito vedere in uno spazio limitato ben tre grandi strutture sanitarie private.

La privatizzazione di tutto avanza a passo di carica: presto non avremo nulla e saremo felici, secondo i “padroni universali”.

 Ci toglieranno l’automobile, la casa, il denaro contante e instaureranno l’impero globale neofeudale della Tecnica.

Ai servi dovranno bastare i nuovi diritti nella sfera pulsionale per compensare la riduzione a schiavi.

In Italia, il dibattito economico corrente riguarda il cosiddetto “Superbonus”, le provvidenze fiscali a favore dell’edilizia introdotte dal secondo governo Conte, che Draghi non poté cassare e che il governo Meloni- la cui continuità con il precedente è impressionante – sta abolendo. 

Concentrati esclusivamente sul costo per le casse pubbliche – le cifre tanto diverse fornite da sostenitori e detrattori confermano che neppure la matematica è neutra- si dimentica di valutare due elementi fondamentali.

Uno è il carattere di moneta del credito d’imposta cedibile: il banchiere centrale di governo ne comprese in un attimo la portata negativa per gli interessi di cui è dirigente apicale.

L’altra è l’impatto generale sull’economia, il “moltiplicatore keynesiamo” che è stato positivo, pur se sovrastimato.

Entrambe le questioni sono rilevanti in quanto contraddicono la narrativa economico-finanziaria dominante, il liberismo senza limiti associato al globalismo e alla mistica delle “autorità monetarie” private, le uniche in grado, secondo la vulgata cara alla finanza, di governare i flussi del denaro.

 Un credito fiscale cedibile è indubbiamente moneta, quindi sovranità, mentre una misura governativa capace di riattivare un comparto decisivo come quello edilizio è intervento pubblico in economia.

Cartellino rosso: la dogmatica liberista non può accettare deviazioni tanto pericolose (per lei).

È invece felice di constatare che i posti letto negli ospedali pubblici sono diminuiti del quaranta per cento in vent’anni (da 310 mila a 190 mila).

 Le lobby hanno lavorato bene; chi può si cura nel privato, magari indebitandosi per la gioia del creditore, degli altri nessuno si occupa.

Che muoiano, altro obiettivo delle oligarchie.

Un docente giapponese ha apertamente teorizzato l’eutanasia per gli ultrasessantacinquenni: una vera tombola per lorsignori.

 Meno pensioni, meno spesa sanitaria, in più la soluzione perfetta al problema dell’invecchiamento della popolazione.

 L’uovo di Colombo: bisognava pensarci.

Una riflessione che torna al punto di partenza:

manca, nell’Occidente terminale, il pensiero antagonista in ogni ambito, ma il silenzio diventa assordante in campo economico.

 L’ordoliberismo, ovvero il liberismo che diventa legge entrando nei codici e nelle costituzioni (pensiamo all’imposizione del pareggio di bilancio che parifica gli Stati a società anonime) ha sostituito il vecchio ordoliberalismo convinto che lo Stato dovesse fornire regole giuridiche – quindi limiti- a tutela dell’equità sociale e di un livello minimo di protezione dei ceti deboli.

Eppure, il fallimento del sistema uscito dall’implosione sovietica e dalla vittoria del modello neoliberista è sotto gli occhi di tutti.

Non si può accettare un’organizzazione economica, finanziaria, sociale e un modello antropologico in cui poche centinaia di persone hanno una ricchezza pari a quella di miliardi di esseri umani.

 Occorre ripristinare la dimensione pubblica e statuale- indipendentemente dalle forme e dalle dimensioni- sottraendo alla cupola dei monarchi assoluti del mondo il controllo delle nostre vite e, concretamente, la proprietà di tutto.

Non esistono più beni comuni, neppure la vita umana e la salute.

 Alla proprietà privata di tutti i “mezzi di produzione” – la definizione marxiana – si è aggiunto il possesso delle grandi infrastrutture, autostrade, ferrovie, porti, oleodotti, reti informatiche- sino alla privatizzazione dell’acqua, senza la quale finisce la vita.

Padroni anche della tecnica e della tecnologia- mai così potenti e pervasive- monopolisti della ricerca e delle sue applicazioni, possiedono, attraverso le multinazionali del farmaco e delle sementi, le chiavi della salute e dell’alimentazione.

Dal punto di vista finanziario, padroni dell’emissione monetaria, l’imbroglio universale del debito pubblico, che è credito privato dei re senza corona, hanno stretto il cappio attorno al collo degli Stati, dei popoli, perfino di chi non è ancora nato, tutti debitori del Signore per il solo fatto di far parte dell’umanità.

Sotto il profilo comportamentale, costringono miliardi di persone alla competizione sfrenata, la “santa” concorrenza della quale loro si disfano distruggendo ogni realtà estranea all’oligopolio globale.

La lotta di tutti contro tutti fomenta inimicizia e divisione;

conviene sempre agli stessi.

Il filosofo Byung Chul Han spiega che siamo arrivati allo stadio ultimo, quello dell’autosfruttamento.

 È la generazione sfortunata degli “imprenditori di sé stessi”, precari della vita, del lavoro, sradicati dalla comunità, individualisti all’eccesso.

 Per questo, conclude sconsolato, è impossibile una rivoluzione.

La coazione a produrre, a competere assume esplicitamente le forme dell’autosfruttamento e dell’autodistruzione, in cui sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

 Le conseguenze devastanti del capitalismo giunto al suo culmine ricordano la freudiana pulsione di morte.

La malattia di massa postmoderna si chiama” burnout”, la patologia di chi si sente esaurito, inadeguato, diventando apatico, bruciato dentro.

È una sindrome che preoccupa l’oligarchia in quanto spesso si manifesta nel lavoro, ma è insieme sintomo e conseguenza della disumanizzazione, della mercificazione di tutto, anche di sé stessi;

un mondo che consuma e insieme si consuma e ci consuma come candele al lumicino.

Ci si sente perdenti dell’esistenza in quanto non si è conseguito il successo, la ricchezza, non si è vinto nell’assurda competizione per tutto.

 L’orribile vittoria del sistema, che impedisce la lotta oppositiva, è far credere che la colpa è nostra, per incapacità o inadeguatezza: un darwinismo sociale in cui vince il peggiore, il più spietato, il più disumano.

Il colpevole è l’attuale sistema socioeconomico, diventato antropologia negativa. Va attaccato, disvelato, destrutturato, combattuto a partire dai suoi principi economici, sociali, finanziari.

 Il liberal capitalismo non è un sistema come gli altri, è una visione totalizzante della vita, un’ideologia della seduzione: il capitalismo dei “like”.

Va demistificato ribaltando innanzitutto i suoi postulati economici.

Qui sta purtroppo, la nostra debolezza. Che fare? 

Nessuno sembra più discutere i fondamenti.

Tutti, o quasi, allineati all’imperativo categorico liberista.

In Occidente – e in Italia in particolare- nessuna forza politica e nessuna cultura contesta più il dominio dell’oligarchia privata.

 Silenzio sulla sovranità monetaria regalata alle banche, applausi per ogni perdita di potere degli Stati- cioè dei popoli – indifferenza o rassegnazione per il trasferimento verso l’alto della piramide della ricchezza, del potere, delle decisioni.

Dove sono finite le elaborazioni socialiste e marxiste, la dottrina sociale della Chiesa, le idee di cogestione, partecipazione, autogestione, cooperazione, quella “senza fini di speculazione privata”, di cui all’articolo 45 della costituzione, il corporativismo cristiano e “nazionale”? 

Chi rivendica- il Titolo III della Carta, di impianto solidarista, partecipativo e non liberista?

Occorre che intellettuali di diverse discipline- economia, filosofia, sociologia, scienze umane- tornino a ragionare di massimi sistemi, ossia revochino in dubbio i dogmi ordoliberisti proponendo concrete alternative.

Non che manchino le voci critiche- specie sul versante della moneta- ma sono più impegnati in conventicole litigiose e contrapposizioni incapacitanti che nella proposta.

 Inoltre, non trovano sponde accademiche né politiche.

Non conosciamo programmi di governo – per quel che valgono, tenuto conto del “pilota automatico” della governance economico-finanziaria transnazionale privatizzata- che si propongano modelli distinti da quello unico, il “liberismo globalista del Washington Consensus”.

Pure, quella stagione sta finendo, travolta dalla realtà e dal declino dell’unipolarismo americano.

 Nessuno osa progettare qualcosa che vada oltre il breve termine, l’interesse degli stakeholders, gli azionisti e i portatori di grandi interessi decisi a realizzare profitto immediato senza riguardo per il futuro, le ricadute umane, il bene comune.

È diventato difficile- tanto è radicato il discorso ufficiale- affermare che non siamo più depositanti nelle banche, ma investitori con tutto il rischio a nostro carico, sino alla condizione di chi è tenuto per legge a ripianare i fallimenti bancari.

La stessa religione del PIL (Prodotto Interno Lordo) andrebbe in parte rivista, giacché il calcolo è una somma aritmetica comprendente perfino i proventi stimati della malavita.

Ad esempio, le spese sanitarie private a cui siamo costretti contribuiscono a gonfiare il calcolo, ma non a dare conto della negatività del fenomeno che si limitano a contabilizzare.

Paradossalmente, se usciamo di casa per una passeggiata, ai fini del PIL è preferibile che un’auto pirata ci investa: spese ospedaliere, riparazioni, cure mediche, pratiche assicurative.

Strano sistema che misura il ben-avere ma non il ben-essere. 

Richard Easterlin dimostrò che l’aumento del reddito non ha effetto sulla felicità, che diminuisce descrivendo una curva verso il basso.

Adam Smith diceva che non è la benevolenza dal macellaio a procurare la carne sulla nostra tavola, ma il suo interesse.

Vero, ma non si può ridurre la complessità dell’esperienza umana al tornaconto economico.

Nella Commedia, Dante fa dire a Ulisse che l’uomo non è un bruto, ma un essere fatto per seguire “virtude e canoscenza”. Quanto alla concorrenza, fior di liberisti ammettono che non può esistere senza un mercato davvero aperto.

I giganti impediscono invece l’entrata di nuovi soggetti mentre espellono progressivamente prima i piccoli, poi i medi, infine anche i grandi agenti economici, determinando ferrei oligopoli e monopoli.

L’ appello è alle forze politiche e culturali, esteso a tutti gli uomini di buona volontà, perché tornino a interrogarsi sulla necessità morale, nonché sulla convenienza pratica, di sistemi economici, sociali e finanziari diversi dall’” unico” liberista/globalista.

 Serve recuperare la dimensione umana:

 l’economia è per l’uomo, non il contrario, è la lotta eterna dell’homo sapiens contro la scarsità.

Il primo passo è individuare i settori da sottrarre al monopolio incontrollato del profitto.

 Difficile stilare un elenco di beni comuni, ma almeno l’acqua, la salute, le grandi infrastrutture, le reti di comunicazione elettronica e informatica, l’emissione monetaria, devono essere al riparo dalla speculazione.

 Meglio se sono gestite da strutture che rispondono ai cittadini.

In altri ambiti, come la previdenza, deve restare prevalente la mano pubblica: non si può lasciare il denaro dei lavoratori nelle mani dei fondi speculativi, per quante normative possano circoscriverne il campo d’azione.

L’elenco è complesso, e potrebbe comprendere settori economici, servizi e infrastrutture la cui importanza va oltre gli interessi dei governi in carica e delle generazioni presenti, riguardando interessi di lungo periodo che hanno bisogno della decisione politica e richiedono investimenti a debito sostenuti da istituzioni pubbliche sovrane.

Si può e si deve dibattere su tutto, senza preconcetti e senza pregiudizi.

Progetto significa speranza, futuro, concretezza.

Basta con l’acronimo della menzogna:

 TINA, there is no alternative.

 A tutto c’è alternativa, fuorché alla morte;

dimostriamo che c’è vita oltre il liberal capitalismo, presto, subito, o l’operazione di riduzione dell’umanità a gregge neofeudale si compirà con conseguenze che andranno oltre le generazioni oggi viventi.

Non possiamo ipotecare la vita dei posteri.

Difficile programma in tempi di individualismo, di dittatura del presente.

 Che cosa hanno fatto per me i posteri?

 Si chiedeva Marx.

Groucho, l’attore, non Karl, il comunista… 

 

 

 

 

Credere, Obbedire, Soccombere.

Ariannaeditrice.it - Gianandrea Gaiani – (26/02/2023) – ci dice:

 

Dopo un anno di guerra in Ucraina non è ancora chiaro chi potrà forse vincere il conflitto sul campo di battaglia ma tra gli sconfitti senza appello, “senza se e senza ma” ci sono i media occidentali, in particolare quelli europei, in special modo la gran parte di quelli italiani.

Studi televisivi riempiti con bandiere giallo-blu, anchor-man che tolgono l’audio in diretta a un discorso di Vladimir Putin atteso dal mondo intero “per non dare spazio alla propaganda russa”, conduttori che prendono le distanze dalle dichiarazioni di ospiti che indugiano nello sposare ogni tweet della propaganda di Kiev o nell’accusare solo i russi per ogni responsabilità e nefandezza di questa guerra.

Che dire poi delle interviste al presidente ucraino Volodymyr Zelensky talmente in ginocchio da far apparire equilibrata e pure aggressiva la “mitica” intervista di Gianni Minà a Fidel Castro del 1987?

Nessuna domanda scomoda sulle opposizioni messe al bando, il patrimonio personale del presidente e di diversi ministri e generali,  le leggi che soffocano la libertà di stampa ed espressione, la corruzione dilagante anche a danno dei militari  che ha portato alla rimozione di molti funzionari, il rapporto di Amnesty International che accusa le truppe ucraine di crimini di guerra, le armi donate dall’Occidente rinvenute su fronti bellici in altri continenti, le rappresaglie sui “collaborazionisti” nelle città riconquistate, i video che mostrano le truppe di Kiev ferire o uccidere prigionieri…solo per citare alcuni dei temi più eclatanti.

Aggiungiamoci poi opinionisti statunitensi che attribuiscono patenti di “affidabilità atlantica” a politici e commentatori oppure i professori e giornalisti da anni organici con università e think-tank d’oltre Atlantico o con istituzioni della NATO che presentano il conflitto ucraino come la lotta tra il Bene e il Male, tra Democrazia e Tirannia.

Uno dei centri studi statunitensi che più di altri si è distinto pubblicando analisi e mappe quotidiane del conflitto, l’”Institute for the Study of the War” (ISW), ha utilizzato queste parole per la sua campagna di raccolta fondi.

Abbiamo bisogno di finanziamenti per aggiungere più membri al team e continuare il nostro lavoro nel 2023 e oltre.

 L’eroica resistenza dell’Ucraina contro l’invasione non provocata di Vladimir Putin salvaguarda la sicurezza di europei e americani.

I notevoli successi dell’Ucraina in questa devastante guerra testimoniano la forza di un popolo libero che lotta per la sua sopravvivenza contro un brutale dittatore.

L’invasione di Putin può creare pericolosi precedenti per altri aspiranti aggressori e la difesa dell’Ucraina per altri paesi liberi e indipendenti.

L’Ucraina ci ispira a fare tesoro delle nostre libertà e a riconoscere i sacrifici che richiedono”.

Da un centro studi sarebbe lecito attendersi un approccio più equilibrato, meno incline a slogan “scongelati” dal freezer della Guerra Fredda.

Ma non c’è nulla da fare, la tendenza dominante oggi in Occidente è la piena militanza all’insegna del “Credere e Obbedire”.

Libertà e Democrazia.

Persino ai tempi dell’URSS e del Patto di Varsavia il confronto era più pacato, argomentato, strutturato e all’epoca c’erano davvero i filo-sovietici, comunisti sostenuti e finanziati dal Cremlino.

Eppure già ben prima dell’attacco russo del 24 febbraio, era evidente che l’Ucraina non potesse venire considerata un paradiso della democrazia e dei diritti umani e civili, come abbiamo raccontato su Analisi Difesa fin dal giugno scorso:

79° posto nel Global Democracy Index 2020 redatto da The Economist, 92° (dietro alla Birmania) nel Ranking of Countries by Quality of Democracy stilato nel 2020 dall’Università di Wurzburg, 122° su 180 nel “Corruption Perceptions Index” che nel 2021, 98° posto nello Human Freedom Index, 130° nella classifica delle libertà economiche e 106° nel 2022 nella classifica della Libertà di Stampa redatta da Reporter Sans Frontiéres (dietro a Gabon e Ciad).

Si tratta di classifiche stilate prima dell’inizio dell’attacco russo e quindi prima che il governo ucraino ponesse fuori legge 12 partiti (incluso il secondo per consensi elettorali), reprimesse più duramente la stampa (l’ultima legge-bavaglio è del 30 dicembre 2022) e punisse i reati di opinione, incluso quello di contraddire la narrazione ufficiale sulla guerra che di fatto impedisce a chiunque di parlare del conflitto in termini di guerra civile.

Termine idoneo a un conflitto in atto da 9 anni e che vede milioni di ucraini vivere nei territori in mano ai russi o fuggiti in Russia e decine di migliaia di combattenti ucraini combattere al fianco dei russi.

 Ma parlare di guerra civile è vietato dal regime di Kiev e anche quasi tutti i media occidentali si sono adeguati,

Credere e Obbedire!

Il trionfo della propaganda.

Del resto con la guerra in Ucraina se ne sono viste e sentite di tutti i colori. Opinionisti a conoscenza del tasso alcoolico dei carristi russi e giornali on-line che propongono un’intervista sulla caduta del governo Draghi ma solo se viene attribuita alle “ombre russe”;

per radio, TV e giornali i militari russi sono sempre criminali, incapaci, ubriaconi e codardi, i loro bombardamenti sono sempre indiscriminati e contro i civili e i loro generali sono sempre stati soprannominati “macellai” in Siria.

E se qualcuno fa notare tali eccessi è un “filorusso” e un “putiniano”, bersaglio delle liste di proscrizione redatte da qualche giornale e dei centri studi che realizzano analisi preoccupate per il peso e l’influenza della propaganda russa in Italia.

Che certo esiste ma dovrebbe preoccuparci almeno quanto quella, molto più strutturata e influente, dei nostri “alleati”.

Basti osservare che ogni notizia diffusa da fonti ucraine è stata raccontata come un fatto assodato anche quando era palesemente forzata o inattendibile mentre quelle diffuse dai russi vengono citate solo se è possibile smentirle o se ammettono perdite e sconfitte.

Per non correre rischi, i media russi sono stati subito bannati e censurati in un’Europa che è così sicura dei propri valori e principi liberali e democratici su cui dice di fondarsi da temere persino il confronto con la narrazione altrui.

Da quando la città di Kherson è tornata sotto il controllo degli ucraini ogni giorno agenzie e giornali riprendono le notizie da Kiev dei bombardamenti russi che colpiscono sempre e solo civili e ospedali:

la stessa città è stata sotto il fuoco dell’artiglieria ucraina per sette mesi quando era sotto controllo russo, al punto che migliaia di civili sono stati fatti evacuare ma di quei bombardamenti non parlava nessuno.

In più occasioni le foto dei bombardamenti ucraini sulla città di Donetsk, capitale dei secessionisti del Donbass, sono state utilizzate dai media italiani ed europei con didascalie che descrivevano bombardamenti russi su città ucraine.

Ogni ritirata russa è una disfatta totale e ogni progresso ucraino una vittoria folgorante.

Le brigate ucraine mandate al massacro a Soledar e Bakhmut sono un tema trattato solo da qualche testata anglosassone e la sconfitta delle forze di Kiev in questi settori viene ignorata o sminuita nella sua entità.

I combattenti del Gruppo Wagner sono “mercenari”, europei e americani che combattono con l’uniforme ucraina “volontari”.

Credere e Obbedire!

Buoni e Cattivi.

La narrazione di un anno di guerra in Ucraina l’ha dettata la NATO con le sue ossessive note di linguaggio che definiscono in ogni discorso o documento ufficiale l’aggressione russa all’Ucraina “brutale” e “non provocata”.

 I nostri media si sono rapidamente e per la stragrande maggioranza adeguati: nessun dubbio, nessuna valutazione, nessuna analisi deve mettere in discussione il verbo diffuso a piene mani dai principali giornali e da TV.

Persino i “dogmi politically correct” sono stati sacrificati sull’altare della causa giallo-blu:

resta vietato discriminare le persone per la loro etnia, il colore della pelle o la religione ma atleti e artisti vengono banditi da competizioni ed esibizioni solo perché russi e potranno forse ricevere qualche indulgenza solo abiurando la loro colpa.

Putin.

Il governo lituano è arrivato a lamentare che le regole contro i “messaggi d’odio” che impediscono di apostrofare adeguatamente i russi sui social media.

 Persino il premio Pulitzer Seymour Hersh è stato messo alla berlina (un altro “putiniano”?) quando ha osato realizzare un’inchiesta che indica negli Stati Uniti e in alcuni loro alleati del Nord Europa i responsabili degli attentati ai gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico, vicenda su cui è stranamente calato un silenzio assordante.

Censure, attacchi personali e liste di proscrizione contro chi osa contestare narrazione del mainstream non sono peraltro una novità, le prove generali vennero messe a punto durante l’epidemia di Covid 19, come evidenziammo oltre un anno or sono.

Anche oggi le poche eccezioni al dilagante “pensiero unico” dettato da un orwelliano “Ministero della Verità” hanno dimostrato che si può fare informazione ascoltando più campane, valutando più aspetti, allargando gli orizzonti per comprendere e trovare soluzioni e risposte, rinunciando a un grottesco tifo da stadio.

Ci siamo sorbiti propaganda e fake-news su una dozzina di malattie letali che avrebbero portato entro breve alla tomba Putin e Lavrov, previsioni che davano l’economia russa al collasso dopo poche settimane di sanzioni, il bollettino quotidiano dei servizi segreti britannici (tipico prodotto delle Psy Ops il cui scopo è influenzare l’opinione pubblica) ci disse già nella tarda primavera del 2022 che i russi stavano esaurendo i missili.

E poi il “revival” di alcuni classici della propaganda bellica come gli stupri programmati, il bombardamento di scuole e ospedali, le stragi dei bambini nelle incubatrici e la distribuzione di viagra ai soldati russi perché violentassero più ucraine possibile.

I più attenti ricorderanno che le stesse notizie erano state fatte filtrare nei confronti dei soldati iracheni in Kuwait, dei miliziani dell’Isis e delle truppe libiche di Muammar Gheddafi: cioè tutti i “cattivi” di turno.

Certo, anche in Russia e in Ucraina i media si sono prestasti alla propaganda governativa ma a Mosca come a Kiev, vale la pena ricordarlo, vi sono leggi che puniscono severamente chi diffonde “disinformazione” anche perché si tratta di nazioni in guerra mentre in Europa (per ora) non lo siamo.

Invece di spiegare gli aspetti complessi, di fare inchieste e approfondimenti, l’informazione si è in molti casi messa al servizio della propaganda che ha invece il compito di semplificare gli aspetti complessi per trasformarli in slogan e note di linguaggio.

Credere e Obbedire!

Aggressori e aggrediti.

La più importante in questa guerra è la distinzione tra “”aggressori e aggrediti”, cioè tra i russi e gli ucraini che dovrebbe indurre tutti noi a separare meglio i “buoni” dai “cattivi”.

Se consideriamo la guerra in Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 gli aggressori sono i russi ma se andiamo a ritroso solo di una decina di giorni qualche dubbio potrebbe coglierci poiché le truppe di Kiev iniziarono a bombardare pesantemente i territori del Donbass in mano ai secessionisti.

 I russi sostengono si trattasse della preparazione all’offensiva contro i territori in mano ai filo-russi, Kiev nega.

Se andiamo indietro fino al 2014, passando dalla violazione degli accordi di Minsk, dalla secessione del Donbass e dalla discriminazione dei russi d’Ucraina dopo il golpe/rivoluzione del Maidan voluto e pilotato da Stati Uniti e alcuni alleati NATO (che non a caso hanno infarcito di loro consiglieri e qualche ministro il governo di Arseny Yatsenyuk) diventa più difficile attribuire nettamente le patenti di “aggressore” e “aggredito”.

Ancor di più se si ripercorrono tutti i tentativi russi di negoziare con USA e NATO lo stop all’ampliamento all’est dell’Alleanza Atlantica e la realizzazione delle basi missilistiche americane in Europa Orientale, ufficialmente per proteggerci contro i missili balistici iraniani!

Certo, tutti temi complessi che richiedono illustrazioni articolate e quanto meno un po’ di memoria storica:

 ingredienti odiati da propagandisti e censori sempre a caccia di formule che semplifichino i concetti e additino chiaramente il nemico.

Se così non fosse la dilagante propaganda USA/NATO avrebbe colto tutti i rischi di autogoal insiti nella formula “aggressore e aggredito”.

Perché se in Ucraini i cattivi sono i secessionisti del Donbass come facevano quelli del Kosovo (provincia della Serbia agli effetti del diritto internazionale) a esseri buoni?

E se la secessione delle province russofono e filò-russe del sud est ucraino è illegale come può essere invece legale che il Kosovo sia divenuto indipendente e si sia candidato a entrare nella UE e nella NATO?

Se i russi sono gli “aggressori” in Ucraina allora dobbiamo essere pronti ad accettare che dal Balcani all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, gli aggressori eravamo noi.

Una narrazione “fanciullesca”

Del resto affrontare temi quali guerra, geopolitica e interessi nazionali con gli occhi di un fanciullo che ha bisogno di distinguere i buoni dai cattivi non ci aiuterà a uscire da una guerra in cui gli europei recitano il ruolo di un gregge di comparse e di cui sono le prime vittime in termini economici e di sicurezza.

“Credere e Obbedire” ma non “Combattere”!

Quello lo lasciamo fare volentieri agli ucraini con le armi che doniamo loro. Sosteniamo che combattono per noi, per la Democrazia e la Libertà ma il risultato è “Armiamoci e partite!” 

 Eppure molte delle testate oggi prone alle note di linguaggio scritte da USA e NATO e genuflesse davanti ai proclami di Zelensky (anche quando insulta politici italiani) sono le stesse che fino a un anno or sono pubblicavano inchieste, interviste e reportage che riferivano della deriva nazista e illiberale dell’Ucraina post 2014.

Difficile dimenticare che prima del 24 febbraio 2022 abbondavano analisi e interviste a tanti politici ed esperti che non esitavano a evidenziare la necessità di tenere conto delle richieste russe in termini di sicurezza dei loro confini e a criticare l’allargamento a est della NATO come fattore di provocazione militare nei confronti di Mosca.

Non tutti i media hanno accettato l’omologazione né tutti i giornalisti anche se duole notare come una lettera aperta che critica aspramente la deriva propagandistica dell’informazione italiana pubblicata a inizio gennaio sia stata firmata solo da 10 reporter di guerra, tutti nomi di grande prestigio, ma quasi tutti da tempo in pensione.

Il problema certo non è solo italiano.

Sul britannico The Guardian, il 13 maggio 2014 John Pilger scriveva: “In Ucraina, gli Stati Uniti ci stanno portando alla guerra con la Russia. Il ruolo di Washington in Ucraina e il suo sostegno al regime neonazista ha gravi conseguenze per il resto del mondo”.

Il nazismo ignorato.

Il tema del nazismo in Ucraina e delle sue radici storiche è stato trattato da molti media negli otto anni trascorsi tra il 2014 e l’attacco russo (Analisi Difesa se ne occupò già nel febbraio 2014 con l’editoriale “Quei nazisti ucraini che piacciono tanto a NATO e Ue”) dopo il quale invece è diventato tabù, specie per i media italiani.

Il tema merita approfondimenti senza preconcetti perché in Ucraina come nelle Repubbliche Baltiche le truppe del Terzo Reich nel 1941 vennero accolte da molti come i liberatori dall’occupazione sovietica stalinista e in Ucraina continuò fino al 1956 la resistenza ai sovietici dei seguaci di Stepan Bandera, la cui figura è stata recentemente resa più presentabile anche con la modifica di migliaia di pagine web.

Tema dolente quest’ultimo, che dovrebbe indurci a rivalutare la “vecchia” carta stampata, almeno finché non tornerà di moda bruciare i libri come già si fa in Ucraina con quelli scritti in lingua russa.

 Da un anno i nostri media hanno affrontato il tema del nazismo ucraino (cavalcato dalla propaganda russa) semplicemente negandolo nonostante reggimenti e brigate di Kiev si ispirino ai reparti di SS degli anni ’40.

C’è persino chi ha celebrato il reggimento Azov assediato a Mariupol (ennesima battaglia raccontata a senso unico) paragonandoli ai 300 spartani alle Termopili e negandone la fede nazista.

 Le immagini diffuse dai russi dopo la caduta dell’Azovtsal hanno mostrato citazioni e simboli hitleriani tatuati sui corpi dei combattenti ucraini e stranieri. Immagini scivolate via senza commenti e approfondimenti, in gran parte oscurate dalla censura contro le TV russe.

Credere e Obbedire!

Decorati da Zelensky.

Abbiamo accettato senza battere ciglio che il direttore del quotidiano Repubblica, Maurizio Molinari, abbia ricevuto nel novembre scorso dal presidente ucraino l’Ordine al Merito di III classe per il sostegno all’Ucraina, come ci ha ricordato il 24 novembre 2022 un articolo dello stesso quotidiano.

Decorata pere motivazioni analoghe ma con l’Ordine della Principessa Olga (lo stesso consegnato da Zelensky anche alla speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi) l’inviata del Tg1 in Ucraina Stefania Battistini.

Che esponenti politici ricevano decorazioni da Kiev non stupisce considerato il posizionamento di gran parte dell’Occidente nella guerra in atto ma le medaglie di un belligerante ai giornalisti italiani dovrebbero suscitare qualche perplessità anche all’Ordine dei Giornalisti.

Il confine tra informazione, anche orientata e faziosa, e pura propaganda è stato ampiamente superato.

La piena disponibilità di molti media europei (un po’ meno in quelli statunitensi, forse perché già bruciartisi con “l’eccesso di patriottismo” durante le guerre post 11 settembre 2001) all’assumere una posizione prona di fronte alla propaganda di Kiev e anglo-americana deve suscitare qualche dubbio.

Specie dopo le rivelazioni della reporter danese Matilde Kimer , che ha rivelato che i servizi segreti ucraini [SBU] avevano annullato il suo permesso di lavoro e lo avrebbero restituito solo se avesse accettato di pubblicare informazioni e immagini fornite dallo stesso SBU.

Kimer avrebbe dovuto accettare di produrre una serie di “buone storie” sulla guerra, basate interamente su video e fotografie fornitele dai servizi ucraini.

La notizia ha avuto un’ampia eco in Danimarca e in altre nazioni, molto meno in Italia.

Eppure qualche domanda dovremmo forse porcela.

Quanti giornalisti hanno subito richieste e diktat simili a quelli rivolti a Matilde Kimer?

La giornalista danese è stata finora l’unica a denunciare simili pressioni e questo non sembra essere un buon segno.

A un anno dall’avvio dell’operazione militare speciale in Ucraina la gran parte dei media continua a propinarci una narrazione militante e partigiana ma sempre meno aderente alla realtà e soprattutto priva di elementi fondamentali idonei a tenere in considerazione gli interessi nazionali e se la postura assunta da Italia ed Europa in questo conflitto consenta o meno di perseguirli.

Ci troviamo nel mezzo della prima guerra convenzionale combattuta sul nostro continente dal 1945 e le sue gravi conseguenze strategiche, energetiche ed economiche hanno colpito duramente l’Europa e l’Italia mentre il futuro potrebbe portarci a fare i conti con sviluppi e realtà concrete ben diversi da quelli prefigurati dalle fanfare propagandistiche che ci siamo sorbiti finora.

Credere, Obbedire, Soccombere.

 

 

 

Un anno di guerra e

tutti gli errori degli esperti.

Ariannaeditrice.it - Antonio Terenzio – (26/02/2023) – ci dice:

Siamo qui a commentare un anno di guerra in Ucraina, un conflitto alle porte dell’Europa orientale che non vede tregua e che probabilmente non ne vedrà per molti anni a venire.

L’Occidente a guida angloamericana è deciso a portare avanti un conflitto fino alle estreme conseguenze, con lo scopo irremovibile di piegare la Russia.

Nuovi sistemi di arma come missili, ma soprattutto carri Abrams e Leopard saranno consegnati all’esercito di Kiev che rilancia con la richiesta di Jet militari.

“Stefano Magn”i su “Atlantico Quotidiano”, Un anno di guerra in Ucraina: il decalogo di errori degli “esperti” (nicolaporro.it), ha steso un elenco dei dieci errori commessi dagli analisti di relazioni internazionali riguardo il conflitto russo-ucraino e proveremo qui a smentire le sue osservazioni non facendo affidamento alla propaganda occidentale, ma cercando di attenerci ad una visione realistica, senza scivolare nel tifo da stadio che caratterizza lo scontro tra putiniani ed antiputiniani dall’inizio delle ostilità.

Facciamo nostra la premessa dell’autore quando sostiene che nel momento in cui scriviamo non sappiamo quanti morti, quanto equipaggiamento è stato distrutto e quale sia l’entità dello shock sulle popolazioni civili, ma analizzeremo tutte falsificazioni e la lettura ideologica degli eventi che l’autore fa e che riflettono la narrazione del mainstream:

1) Nel XXI secolo le guerre non si combattono più.

Questa illusione è stata immediatamente sfatata il 24 Febbrario 2022 con l’avvio dell’”operazione militare speciale” da parte delle forze russe in una campagna bellica in pieno stile novecentesco.

È questo l’aspetto più lampante di una guerra combattuta, con armi mobilitate, artiglieria, carri armati, missili e trincee.

Fin qui tutti d’accordo, meno che sulla premessa di Magni che dice una chiara falsità storica:

La guerra combattuta dai russi in Ucraina sin dal 2014 altro non era che la preparazione alla guerra vera e propria”.

 Fake news di chiara impronta filoccidentale.

 La Russia decide per un attacco su larga scala non a seguito della guerra a bassa intensità condotta nel Donbass, ma a causa del rifiuto di Zelensky di rimanere fuori dalla NATO.

Il Presidente ucraino stava inoltre preparando un attacco col proprio esercito sulle regioni filo-russe del Donbass e della Crimea.

 2) La Russia non invaderà l’Ucraina.

 Qui effettivamente ci sono cascati tutti, anche lo scrivente, per non parlare dei Lucio Caracciolo e dei Dario Fabbri, i quali hanno ridotto le minacce di invasione a mera “info war” tra intelligence.

“Colpa dei giornalisti ma anche dei governi europei, perché non credevano agli allarmi lanciati dagli Usa, persuasi dall’idea dell’impossibilità che conflitti convenzionali potessero ritornare su suolo Europeo in pieno XXI secolo”.

Poi secondo Magni, “per il pregiudizio positivo nei confronti della Russia” (autocrazia votata al male) da parte dei paesi legati economicamente a Mosca, come Germania, Francia ed Italia”.

 Già, perché avere rapporti economici ed energetici vitali con il Cremlino è già un peccato d’origine, però va bene comprare lo “shale gas “da Washington a prezzo triplicato e stravolgere le nostre politiche energetiche rischiando di farci entrare in recessione e far saltare le nostre aziende.

3) La minaccia cinese all’ordine mondiale liberale.

Secondo Magni “lo sbaglio degli strateghi americani è stato quello di rivolgere troppa attenzione alla Cina (dottrina Blinken) e non alla Russia, la quale ha invece dichiarato guerra all’Occidente.

 Il pregiudizio ideologico deriva da una interpretazione economicistica delle relazioni internazionali e dalla forte crescita economica della Cina, unita alla sua potenza demografica, mentre la Russia è in declino demografico ed ha un Pil pari a quello della Spagna.

Secondo Magni la storia potrebbe dimostrare  che tanto più un impero è in declino, tanto più diventa pericoloso.

IL giornalista di AQ dimentica la prima lezione da rispettare nelle relazioni tra imperi e grandi potenze:

mai superare le linee rosse, perché è proprio su quelle linee che si giocano gli equilibri della sicurezza internazionale.

La Russia è stata costantemente minacciata nel suo esterno prossimo attraverso l’utilizzo di finte rivoluzioni democratiche sobillate dall’esterno (rivoluzioni colorate) alle quali l’Ucraina non ha fatto eccezione.

 Secondo la dottrina Brezinski l’Ucraina è un paese fondamentale per la sicurezza della Russia e farla entrare nella NATO o continuare ad armarla come sta facendo l’Occidente a guida Atlantica, equivale a minacciare l’esistenza stessa della Federazione Russa.

4) “L’Ucraina sarà battuta in tre giorni, al massimo una settimana” La balla delle balle, la più grande castroneria divulgata ai quattro venti dalla grancassa mediatica occidentalista.

Secondo testimonianze di storici, analisti o fonti dirette ed insospettabili di filo putinisimo come l’inviato Rai, Mark Innaro:

” In Russia non si è mai parlato di guerra lampo, ma di una guerra che sarebbe durata minimo un anno”.

Ancora Magni:

” L’errore commesso dalle intelligence russa e americana, convinte entrambe che l’Ucraina non avesse speranze, è dovuto ad un misto di pregiudizi positivi nei confronti dell’esercito russo e negativi per quello ucraino”.

Verrebbe da obiettare: come mai, se gli americani non nutrono speranze nell’esercito ucraino, continuano ad armarlo fino ai denti e a sostenere le autorità di Kiev?

Ma il meglio deve ancora arrivare:

” La realtà ha invece dimostrato che quello russo non è il secondo esercito del mondo, ma una forza armata degna di un paese del terzo mondo”.

Ora si può dire tutto, ma qui si supera non solo il livello di bassa propaganda, ma il senso del ridicolo.

 L’autore continua a tacciare l’esercito russo di dilettantismo e di “non essere all’altezza di un conflitto moderno”, quando nel momento in cui scriviamo l’artiglieria russa sta letteralmente macinando l’esercito ucraino a Bahkmut.

Solite falsificazioni dettate dallo spirito di fazione, senza il supporto di dati realistici e smentite in maniera autoevidente dalla disperazione del burattino di Kiev, che continua a chiedere il sostegno dell’Europa e degli Usa in armamenti.

5) L’Ucraina è un paese diviso.

“Quindi si credeva che la metà orientale accogliesse i russi a braccia aperte, perché politicamente schierata contro la rivoluzione filo-occidentale del Maidan e linguisticamente russofona”.

Per rivoluzione filoccidentale, Magni evidentemente intende il golpe orchestrato dalla Cia e dalla Nuland con tanto di cecchini georgiani (intervistati anche dalla BBC) a sparare sulla folla e truppe nazi-atlantiste dell’Azov a scatenare la guerra civile, vero?

Restiamo basiti di fronte a tanta ignoranza sui fatti e disonestà intellettuale.

L’elenco delle fesserie è ancora lungo, non vi arrendete adesso.

“Ma già le ultime elezioni presidenziali, segnavano un cambiamento, per chi lo sapeva leggere:

Zelensky ha stravinto ad Est come ad Ovest del Paese.

 La Guerra ha dimostrato ulteriormente che l’Ucraina è compatta”.

Infatti Zelensky veniva dalla zona russofona, poi dopo le pressioni angloamericane provoca un’ azione scellerata con il rifiuto dello status di neutralità, esponendo il suo popolo ed il suo paese all’aggressione militare di Mosca.

“Per lo meno nessuno vuole stare sotto i russi, nemmeno se è russofono” (e noi scemi che abbiamo creduto che ci fosse una guerra civile alimentata dall’esterno) o abita in città con una lunga tradizione storica russa, come Odessa e Kharkiv”.

 Per stessa ammissione di Stefano Magni, non possiamo valutare l’effetto dello shock sulla popolazione inerte che subisce morte e devastazione, allo stesso modo dovremmo domandarci quanti ucraini non russofoni desiderino la fine delle ostilità ed incrimino Zelensky per il suo operato.

6) L’unipolarismo è finito.

“Magari domani, ma certamente non oggi, come questa guerra sta dimostrando chiaramente”.

Non c’è miglior servo di chi è contento di servire il proprio padrone.

Magni evidentemente non si rende conto che questa è una guerra degli Usa contro Europa e Russia, come ha anche ricordato l’analista Gianandrea Gaiani.

Putin è stato trascinato in una guerra contro l’Occidente non perché ne volesse la fine, ma perché non gli è stata lasciata altra opzione, dato il continuo rifornimento di armi e le tre maxi esercitazioni militari realizzate dalla NATO tra il Mar Nero ed il Mar Baltico dal 2018 in poi (Alessandro Orsini docet).

“La Guerra dimostra che persino le briciole dell’arsenale statunitense sono sufficienti a fermare un anno il grosso del “secondo esercito al mondo”.

L’autore fa l’esempio degli Himars progettati come fuoco di contro artiglieria:

Gli Usa non hanno rivali. Dunque il “Grosso dell’esercito russo”, meno di 200 mila soldati impiegati su un totale di 25 milioni di effettivi a disposizione, mentre l’esercito russo avanza inesorabilmente decimando quello ucraino: se questa è informazione.

7) L’Occidente in crisi e profondamente diviso.

 “L’occidente non è del tutto coeso ma di fronte ad una minaccia palese ha saputo ritrovare la sua unità, di qua e di là dall’atlantico”. Errata corrige.

 L’Europa (concetto diverso da Occidente) ha rinvigorito la sua subordinazione nei confronti degli USA e a causa della sua inconsistenza come attore geopolitico autonomo, si è prestata ai disegni degli strateghi del Pentagono: Dividerla dalla sua alleata naturale con la quale condivide interessi vitali: la Russia.

“Putin contava sulla dipendenza di parte dell’Europa continentale dal suo gas.

Ma persino la Germania ha saputo dimostrare di potersene liberare in meno di un anno”

Già, i tedeschi saranno stati contentissimi del sabotaggio del Nord Stream II da parte degli angloamericani con i norvegesi, e di dover impiegare oltre 200 miliardi di Euro per la copertura delle bollette di aziende e famiglie.

La notizia è stata ripresa anche in America da un famoso giornalista di inchiesta Seymour Herch, che ha svelato l’uovo di colombo con prove evidenti.

“Non sono scoppiate gravi crisi economiche e sociali, su cui i russi puntavano e nessuno ha abbandonato la NATO, anzi: Finlandia e Svezia hanno chiesto di entrarvi.” Già, avevamo bisogno di infiammare anche il fronte nord.

8) La Guerra non si vince con le sanzioni

. Qui Magni sembra recuperare un minimo di onestà intellettuale nel riconoscere che le sanzioni non hanno mai abbattuto un regime nel lungo periodo. “L’amministrazione Biden e gli alleati europei, anche qui, hanno dato troppa importanza, ad una lettura economicistica delle relazioni internazionali e della società russa.”

Per poi riperdere credibilità un attimo dopo: “Davvero gli occidentali pensavano che i russi si sarebbero ribellati contro Putin o che gli oligarchi lo avrebbero ucciso?

I Russi, a quanto pare non pensano esclusivamente al loro benessere: tengono anche conto del potere (per chi collabora) e del terrore (per chi prova a rifiutarsi), che sono spinte altrettanto forti, se non di più. Specialmente in guerra.”

 La solita solfa del regime sovietico che tiene in ostaggio un intero popolo in un clima terrore, pronto o a reprimere o eliminare qualsiasi voce del dissenso.

Si vede che Magni oltre ad essere infoibato di propaganda occidentale oltre i limiti del consentito, ignora la natura del popolo russo, fortemente patriottico, Putin o non Putin, che il ricordo dei disastrosi anni ’90 è sempre vivo nella memoria ed i fanatici del liberalismo democratico sono visti come il fumo negli occhi.

Per togliersi ogni dubbio, basta vedere che dietro “Russia Unita” il partito facente capo a Vladimir Putin, ci sono i comunisti eredi di Zuganov (non proprio la versione di quelli guidati da Elly Shlein) e i nazionalisti eredi di Zirinosky: La rivoluzione arancione può attendere.

8) “I russi non sopporterebbero troppe perdite.

E invece sì e in una misura che noi non immaginiamo da un secolo”.

“Il fatto che la NATO abbia fornito all’Ucraina armi solo difensive ma a corto raggio, si basava, oltre che sulla paura dell’escalation, anche sulla convinzione che infliggere perdite colossali ai russi, sul campo di battaglia sarebbe stato sufficiente a indurli a più miti consigli”.

Va bene parteggiare per qualcuno, però con juidicio.

I russi sopportano perdite umane perché sono un popolo che vive ancora nella dimensione storica e non post-storica come la nostra. La Nato ha fornito armi difensive perché l’obiettivo della guerra è insanguinare la Russia usando gli ucraini come carne da cannone e finora, al netto della propaganda controfattuale, è l’esercito ucraino ad aver subito perdite colossali: il mondo alla rovescia.

 “Per vincere la guerra occorre vincere le battaglie, non basta logorare il nemico. I prossimi aiuti militari devono essere mirati a raggiungere obiettivi più ambiziosi”, come lo scatenamento di un conflitto nucleare? Intelligenza questa sconosciuta.

9) “Le guerre nucleari sono impossibili?

Nessuno qui si augura che questo luogo comune venga sfatato. Ed è chiaro che i russi hanno tutto l’interesse ad alimentare la paura dell’escalation nucleare per spaventare gli ucraini e noi”.

I russi, non la NATO che continua ad armare Kiev ed escludere ogni trattativa di pace, previa umiliazione ed annichilimento della Russia.

“Però la Russia ha già violato il tabù dell’invasione, in Paese sovrano, in Europa e sotto il naso della NATO”.

 Certo, doveva accettare la NATO ad un tiro di schioppo da Mosca e con un governo fantoccio infiltrato da fazioni ultranazionaliste armate dall’Occidente, decise a tutto pur di distruggere la Russia.

Ricordiamo che il Financial Time rivelò che il 19 febbraio scorso, il Cancelliere tedesco Sholtz inviò a Zelensky la proposta di adesione all’UE in cambio della neutralità di Kiev, ottenendo in cambio un rifiuto del Presidente ucraino.

 “Putin si è lanciato in un’impresa del tutto irrazionale secondo i nostri parametri”. I nostri appunto, che non tengono conto delle esigenze di Mosca in materia di sicurezza, dato il continuo avanzamento della NATO nei territori ex sovietici dal ’98 ad oggi. Va ricordato allo smemorato commentatore, la promessa fatta da Bush padre a Gorbaciov nel 91, che la NATO “non si sarebbe spostata di un pollice” oltre il fiume Oder nella Germania orientale.

 A schierarsi contro l’entrata dei Paesi dell’est nella NATO, ci furono l’alto diplomatico statunitense George Kennan (ideatore della “dottrina del Conteniment” in piena guerra fredda), Henry Kissinger e Joe Biden.

“La sua minaccia reiterata di usare l’atomica è assecondata da un’opinione pubblica russa, che contrariamente alla nostra, non ha paura della bomba: o reagisce con passività, oppure ne chiede l’uso a gran voce, sui social network, così come nelle piazze”. Già, non ha paura della guerra atomica perché i russi sono di amianto e possono resistere alle radiazioni… Ma sono soggiogati e terrorizzati o sono fedeli al regime putiniano?

 Magni facesse pace col cervello.

E per finire:

”Non possiamo contare sulla razionalità di una attore che si è dimostrato irrazionale, sotto ogni aspetto” La NATO che ha bombardato e distrutto Paesi sovrani come la Serbia, l’Iraq, la Libia e spostato il suo fronte sempre più ad est, ha dimostrato grande rispetto Diritto Internazionale ed equilibrio invece.

“Anche qui c’è la risposta giusta a quella sbagliata. La risposta sbagliata, da parte nostra, sarebbe quella di costringere l’Ucraina alla resa, per paura della guerra nucleare.

La risposta giusta è invece quella di potenziare il nostro deterrente”.

Al prezzo di un paese distrutto, di milioni di sfollati e di decine di migliaia di morti, facile fare il bullo da tastiera con la pelle degli altri.

“E non basta far sapere a Putin, in caso di escalation, ‘perderemmo tutti’. Bisognerà fargli capire, proprio, che in caso di escalation, sarà lui a perdere tutto”.

Caro Stefano Magli, in caso di escalation atomica (che non avverrà mai speriamo) nemmeno quelli come te avranno la possibilità di sparare più imbecillità ricolme di fanatismo bellicista, ma sarà autodistruzione assicurata e a perdere saremo tutti.

 

 

Il declino economico degli

Stati Uniti e l’instabilità globale.

Lafionda.org – (20 settembre 2022) - Fabrizio Russo – ci dice:

Le minacce ai pilastri su cui si reggono gli USA.

Gli Stati Uniti sono emersi dalla Seconda Guerra Mondiale come la principale potenza economica e militare del mondo.

Settanta anni dopo, circa, il potere americano è in declino, una diretta conseguenza di decenni di politiche economiche neoliberiste, che spendono ingenti somme di denaro pubblico per l’esercito e il raggiungimento della “parità” economico-militare con Russia e Cina.

 Queste politiche hanno eroso la forza economica degli USA e stanno minando il ruolo del dollaro in veste di valuta di riserva mondiale, pilastri chiave del loro potere globale.

 In realtà, tutti i pilastri che sostengono il potere degli Stati Uniti sono ora minacciati dai decenni di politiche economiche neoliberiste sconsiderate.

 Il punto nodale è il collegamento tra il continuo declino economico e sociale negli Stati Uniti/UE (collettivamente indicati come “l’Occidente”) ed una politica estera statunitense sempre più sconsiderata, oltre al ruolo svolto dalle “Media Corporation” nel promuovere queste politiche presso il pubblico americano/UE di fronte all’ascesa di Russia, Cina assieme ad altri paesi del sud del mondo.

Ruolo delle” Media Corporation”.

Primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti:

“Il Congresso non promulgherà alcuna legge sul rispetto di un’istituzione religiosa, o vietandone il libero esercizio; o abbreviare la libertà di parola o di stampa; o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di presentare una petizione al governo per una riparazione delle lamentele.”

È luogo comune, da tempo affermato, che la stampa (alias il proverbiale “quarto potere”) negli Stati Uniti è “libera” e “indipendente” ed “essenziale per il funzionamento di una società libera”, rivestendo la funzione di “cane da guardia” sulle azioni e sulle politiche del governo.

Un ruolo, quindi, vitale per proteggere la “libertà” dei cittadini americani.

Una volta, quando a ragione nasceva il mito degli USA paladini della libertà, era effettivamente così. Purtroppo oggi è diverso e, come spesso accade, le cose non sono sempre come sembrano.

In una recente intervista con Brian Berletic, “Mark Sleboda” ha commentato che

 “i media occidentali sono allineati ai desiderata dell’Esecutivo, sui temi di politica estera, a un livello tale che farebbe arrossire i dittatori conclamati”.

Assodato che non vi siano dubbi sul fatto che i media occidentali (leggi “media corporativi”) stiano effettivamente promuovendo la politica estera degli Stati Uniti, bisogna aggiungere che non è il governo degli Stati Uniti a formulare queste politiche, ma è piuttosto l’élite al potere che le formula e sviluppa, utilizzando fondazioni finanziate da aziende e “think tank” ‘, istituzioni accademiche e politici di spicco.

Tra questi, i principali includono:

il Council on Foreign Relations (CFR), Rand Corporation, Rockefeller Foundation, American Heritage Foundation, Atlantic Council, Brookings, Center for Strategic and International Studies (CSIS). Istituzioni accademiche come The Kennedy School (Harvard), Hoover Institution (Stanford), Walsh School of Foreign Service (Georgetown) e la School of Advanced International Studies (Johns Hopkins), che non solo forniscono “esperti” e funzionari governativi.

Infatti una volta formulate, queste politiche vengono “vendute” al pubblico americano da media compiacenti e ben allineati.

 Come?

Beh qualche particolare per dedurlo con facilità: circa il 90% dei media statunitensi è controllato da sei grandi società:

Comcast, Walt Disney, AT&T, Paramount Global, Sony e Fox, con una capitalizzazione di mercato combinata di circa $ 500 miliardi.

 Come altre grandi società, i conglomerati dei media hanno gli stessi interessi di classe dell’élite finanziaria, cioè promuovere politiche che aumentino il potere e i profitti delle corporazioni e mantengano l’egemonia globale degli Stati Uniti.

 I cosiddetti media “pubblici”, come la National Public Radio (NPR) e la BBC, nel Regno Unito, funzionano in modo simile.

 I media, che funzionano con logiche aziendali, sono strettamente integrati con grandi interessi finanziari, fungendo da “cheerleader” per il Pentagono e la politica estera degli Stati Uniti.

Non sorprende quindi che le principali emittenti radiotelevisive, il The New York Times (NYT), il Wall St. Journal (WSJ), il Washington Post, etc. etc., siano poco più che una cassa di risonanza per l’élite dominante USA e quindi funzionino principalmente come il “ministero della propaganda” per i molti grandi interessi finanziari.

Qualsiasi giornalista, analista militare, alias ‘generale della TV’, ecc. che ‘esce dalla linea’ – ad esempio dicendo la verità sulla debacle militare che sta affrontando l’Ucraina, in mezzo a pochi e ben orchestrati successi – sarà severamente rimproverato o si ritroverà senza lavoro.

 Qualche esempio:

1) La CBS ha recentemente pubblicato un documentario in cui afferma che solo il 30% degli “aiuti militari” inviati in Ucraina è effettivamente arrivato.

Il video è stato rimosso in seguito alle denunce del governo ucraino.

2) David Sanger (laureato ad Harvard) è il principale corrispondente da Washington per il NYT e anche un membro del Council on Foreign Relations (CFR), i cui membri includono dirigenti aziendali, banchieri e altri rappresentanti dell’élite dominante.

3) David Ignatius (laureato ad Harvard) è un editorialista di affari esteri per il WaPo e ha stretti legami con la comunità dell’intelligence, la CIA e il Pentagono.

Sanger e Ignatius servono come esperti per il predominio globale degli Stati Uniti, promuovendo l’uso della forza militare per sostenere gli interessi americani.

Quando non segui la linea aziendale…

4) Gary Webb era un giornalista che lavorava per il San Jose Mercury News. Nel 1996, Webb ha pubblicato una serie di articoli, “Dark Alliance”, descrivendo come i ribelli dei Contra nicaraguensi, lavorando a stretto contatto con la CIA, hanno fornito crack alla comunità nera di Los Angeles e hanno utilizzato i proventi di queste vendite per acquistare armi e rovesciare il governo del Fronte di Liberazione Nazionale Sandinista di Daniel Ortega.

Dopo la pubblicazione della serie Dark Alliance, le Media Corporation sono diventate “isteriche”, denunciando Webb e rovinando di fatto la sua carriera; si è suicidato nel 2004.

5) Julian Assange – Nel 2010, Wikileaks, fondata da Julian Assange, ha pubblicato una serie di indiscrezioni ottenute da Chelsea Manning, analista dell’intelligence dell’esercito americano, che documentano i crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan.

Dopo la pubblicazione di queste fughe di notizie, il governo americano ha avviato un’indagine penale su WikiLeaks.

Nel 2010, la Svezia ha emesso un mandato d’arresto per Assange per accuse di cattiva condotta sessuale.

 Per evitare l’estradizione, Assange ha cercato rifugio presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra.

Nel 2019, Assange è stato arrestato dalla polizia britannica presso l’ambasciata ecuadoriana e trasferito a Belmarsh, una prigione maschile di categoria A in Londra.

Fino a quel momento, Julian Assange non era stato formalmente accusato.

 

Gli Stati Uniti sono stati quasi continuamente coinvolti in conflitti militari palesi e nascosti dal 1940 e, di conseguenza, la guerra e la violenza associata sono state normalizzate e istituzionalizzate dai media “corporativi”, al punto che queste politiche sono prontamente accettate da un pubblico americano relativamente docile e ignorante.

Quando i governi stranieri ritenuti ostili agli interessi corporativi statunitensi limitano la “libertà” di stampa, vengono immediatamente etichettati come regimi repressivi/terroristici e potenziali candidati per un attacco diretto e un cambio di “regime” dal Dipartimento di Stato USA.

 Parafrasando un detto statunitense:

 Apparentemente, ciò che è “buono per l’oca” è “non buono per l’uomo”.

 Come sottolineato in precedenza, qualsiasi giornalista che minacci l’impero americano rischia di perdere il lavoro, o peggio rischia la reclusione o la morte.

Declino accelerato del capitalismo americano in fase avanzata.

Molteplici fattori hanno contribuito al declino del potere economico americano. Questi includono le politiche economiche, la spesa astronomica di denaro dei contribuenti per l’esercito e la guerra, l’instabilità sociale e l’ascesa dell’asse Cina-Russia-Iran.

Politiche economiche.

Dalla metà degli anni ’70, i responsabili politici statunitensi hanno perseguito politiche economiche neoliberiste:

deregolamentazione finanziaria, austerità, tagli alle tasse per i ricchi, attacchi al lavoro e delocalizzazione del lavoro, che hanno portato alla massiccia crescita del settore FIRE dell’economia composto da finanza, assicurazioni e immobili.

Queste politiche hanno accelerato la crisi finanziaria globale (GFC) 2007-2008, il più grande shock finanziario dalla Grande Depressione.

 

Invece che risolvere i gravi problemi strutturali che deve affrontare il capitalismo americano che ha creato questa crisi, la FED ha utilizzato il Tesoro come un “salvadanaio” di fatto, supportato dai contribuenti, per sostenere i mercati azionari, le obbligazioni, i prezzi reali eccessivi di banche ed immobili e [ancora] molti titoli Corporate “insolventi”.

 In prospettiva, dal 2009 la FED ha iniettato oltre $ 40 trilioni nei mercati finanziari, aumentando così la ricchezza dell’élite finanziaria, il proverbiale ‘1%’.

 Non sorprende che negli ultimi 5 anni i disavanzi del governo statunitense siano aumentati di circa 2 trilioni di dollari all’anno, superando attualmente i 30 trilioni di dollari.

 Questa cifra non include il debito degli enti locali, delle imprese o dei consumatori. Ciò spinge a porsi l’ovvia domanda:

per quanto tempo la FED può continuare questo comportamento “orgiastico”, stampando denaro e accrescendo il debito?

Spesa militare e guerra.

Fin dall’inizio, gli Stati Uniti sono stati costruiti su furti e violenze, giustificati dalla religione “cristiana” e dalla “supremazia dell’uomo bianco”.

 Il primo insediamento britannico permanente in Nord America fu fondato a Jamestown, in Virginia, nel 1607.

Un decennio dopo, gli schiavi africani furono introdotti dai commercianti di schiavi olandesi.

 Nel corso dei successivi 250 anni, il governo degli Stati Uniti avrebbe continuato a rubare terre ed a trasferire/uccidere circa il 90% della popolazione indigena.

 A metà del 19° secolo, gli Stati Uniti erano la principale economia mondiale, in gran parte costruita sul cotone prodotto dagli schiavi neri.

Avanti veloce di 150 anni ed osserviamo che, gli Stati Uniti, sono stati quasi continuamente in guerra dal 1940.

 Il 9/11 è stato una manna dal cielo per i militari:

 i contribuenti statunitensi hanno speso circa 21 trilioni di dollari (7,2 trilioni di dollari destinati agli appaltatori militari) per la militarizzazione post-9/11.

 Lo stanziamento militare per il 2023 supera i 760 miliardi di dollari.

Nonostante questa generosità dei contribuenti, il Pentagono non ha “vinto” una guerra dal 1945, è stato costretto a lasciare l’Afghanistan dopo aver speso 2 trilioni di dollari e deve affrontare le incombenti debacle strategiche in Iraq, Siria, Libia, Yemen e (probabilmente) Ucraina.

 Questo ha mostrato vividamente, al resto del mondo, i limiti della potenza militare americana.

Sfortunatamente, dopo aver speso così tanto capitale finanziario e umano, il Pentagono sembra incapace di districarsi da questi conflitti poiché farlo sarebbe un’ammissione di fallimento e, per estensione, debolezza militare.

 Ciò è chiaramente sotteso alla decisione di Joe Biden di rimuovere le truppe statunitensi dall’Afghanistan nel 2021 e dalla “reprimenda” che ha ricevuto dalle media corporations e dal “popolo” del Congresso.

Caos politico e instabilità sociale.

Sentiamo spesso dire che la società statunitense è progredita al punto che il paese sembra essere sempre più ingovernabile.

In effetti, la società americana è afflitta dalla disuguaglianza economica, da razzismo e da violenza onnipresente.

La classe operaia americana ha assistito al crollo del proprio tenore di vita, risultato di decenni di politiche economiche neoliberiste, tra cui l’esternalizzazione del lavoro, austerità, crescita stagnante del reddito e, dopo la pandemia di Covid 19, inflazione elevata, riflessa dall’aumento dei costi di affitto, trasporti, energia, generi alimentari, cure mediche ed altri generi di prima necessità.

 Per mettere tutto ciò in prospettiva, il 60% degli americani non ha $ 500 di risparmi e quindi una costosa riparazione auto, un’emergenza medica o la perdita di lavoro corrispondono, praticamente, alla rovina finanziaria.

Contemporaneamente, la ricchezza dei miliardari americani è aumentata di circa 1 trilione di dollari durante la pandemia di Covid19.

Rafforzamento della contrapposizione BRICS/SCO vs. USA/NATO.

Dall’altro lato, stiamo assistendo al continuo aumento del potere globale e dell’influenza di Russia, Cina e nazioni alleate, su più fronti, compreso quello organizzativo, economico e militare.

 I BRICS e la Shanghai Cooperation Organization (SCO) si stanno espandendo.

I membri originari dei BRICS includevano Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Iran e Argentina hanno recentemente presentato domanda di ammissione, mentre il Regno dell’Arabia Saudita (KSA), la Turchia e l’Egitto stanno preparando la domanda d’ingresso per il prossimo anno.

SCO è la più grande istituzione economica regionale del mondo: copre il 60% dell’Eurasia con una popolazione che supera i 3,2 miliardi e un PIL combinato degli stati membri pari a circa il 25% del totale globale.

 Il commercio tra BRICS e gli stati membri della SCO viene inoltre effettuato utilizzando sempre di più valute locali.

Il sistema di pagamento “Mir” gestito dal “Russian National Card Payment System “è un concorrente diretto di Visa e Mastercard ed ora accettato in tutta la Federazione Russa e in 13 paesi tra cui India, Turchia e Corea del Sud e sarà presto utilizzato in Iran.

 Le nazioni BRICS stanno sviluppando una valuta globale per il commercio internazionale che competerà direttamente con il dollaro.

La Russia sta sviluppando una nuova piattaforma commerciale internazionale per i metalli preziosi: il Moscow World Standard (MWS).

Il ministero delle finanze russo ritiene che questa nuova struttura internazionale indipendente “normalizzerà il funzionamento dell’industria dei metalli preziosi” e fungerà da alternativa alla “London Bullion Market Association” (LBMA; lbma.org.uk), che da anni è accusato di manipolare, sistematicamente, il prezzo di mercato dei metalli preziosi per deprimerne i corsi.

 Nel complesso, queste politiche sono state progettate per ridurre significativamente la dipendenza delle economie in Russia, Cina, India ed altri paesi del Sud del mondo dagli Stati Uniti/UE ed eliminare la dipendenza dal dollaro USA e dal Sistema della Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunications (SWIFT) nei pagamenti collegati al commercio internazionale.

 Senza dubbio ciò viene realizzato in stretta sintonia con la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, il cui obiettivo è collegare l’Asia con l’Africa e l’Europa tramite reti terrestri e marittime al fine di migliorare l’integrazione regionale, aumentare il commercio e stimolare la crescita economica.

 Questo processo ha ricevuto un’accelerazione con l’emanazione delle sanzioni USA/EU nei confronti di Russia, Iran e Cina (per motivi diversi).

Nell’ultimo decennio, la potenza militare di Russia, Cina e Iran si è notevolmente rafforzata.

L’esercito russo è un leader mondiale nei sistemi di difesa aerea e nelle armi ipersoniche, che sono “impermeabili” a qualsiasi sistema di difesa aerea attualmente dispiegato da USA/NATO.

 Negli ultimi 25 anni, la Cina ha modernizzato le sue forze armate, concentrandosi sulla Marina di liberazione popolare e sull’aeronautica militare. La Cina ha sviluppato un robusto arsenale missilistico che include missili balistici intercontinentali (ICBM).

 Il Pentagono ora considera la Cina una “forza militare formidabile” e una “grande sfida” per la Marina degli Stati Uniti nel Pacifico occidentale.

La Repubblica islamica dell’Iran ha anche sviluppato una formidabile capacità militare difensiva, che pone l’Iran tra i principali “intermediari di potere” nella regione.

Il Center for Strategic and International Studies (CSIS) ha concluso:

“L’Iran possiede il più grande e diversificato arsenale missilistico del Medio Oriente, con migliaia di missili balistici e da crociera, alcuni in grado di colpire anche Israele e l’Europa sudorientale”.

 L’Iran ha ripetutamente avvertito gli USA/NATO che può prendere di mira le basi militari statunitensi nella regione, inclusa la base di Al Udeid in Qatar, la più grande base statunitense in Medio Oriente.

 Stiamo assistendo, quindi, a una maggiore assertività dall’asse Russia-Cina-Iran in Siria, Ucraina e Pacifico occidentale.

Tendenza chiaramente confermata dal discorso del presidente russo Vladimir Putin al Forum economico internazionale di San Pietroburgo a giugno, quando il medesimo ha dichiarato la fine dell’“era del mondo unipolare”.

 Il Pentagono viene sfidato sempre più spesso dall’asse Russia-Cina-Iran in Europa orientale, Medio Oriente e Pacifico occidentale.

Ucraina: un’altra debacle di USA/NATO.

Per un’informazione storica di base riguardo l’Ucraina e le sue relazioni con la Russia, ricordiamo che è il secondo paese più grande d’Europa dopo la Russia e occupa una posizione strategica nell’Europa orientale, condividendo un confine di circa 2300 km (1227 mi) con la Russia.

Nel 2021, l’Ucraina aveva il secondo esercito più grande (circa 200.000 militari), dopo le forze armate russe, in Europa e ha il non invidiabile primato di essere uno dei paesi più corrotti al mondo.

 Storicamente, la popolazione prevalentemente di lingua russa nella regione del Donbas, nell’Ucraina orientale, ha sempre mantenuto stretti legami con la Russia.

Nel febbraio 2014 ha avuto luogo il colpo di stato di Maidan, supportato e “sollecitato” dagli Stati Uniti, che ha sostituito il presidente eletto democraticamente Victor Yanukovich con un politico-economista-avvocato di estrema destra fobico per la Russia, “Arseniy Yatsenyuk”.

Non sorprende quindi che il governo ucraino sia stato presto dominato da un’alleanza di organizzazioni fasciste di estrema destra tra cui il “Settore Destro e Svoboda” e partiti oligarchici, come l”a Patria”.

Questo era prevedibile, visto che questi gruppi erano le fazioni più violentemente anti-russe in Ucraina e sono ancora molto attivi nel governo e nell’esercito.

 Subito dopo il colpo di stato, le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk dichiararono la loro indipendenza, dando inizio alla guerra nel Donbas.

 Negli 8 anni successivi, gli USA/NATO avrebbero addestrato circa 100.000 soldati ucraini e incanalato miliardi di dollari in aiuti militari, che sono stati utilizzati per equipaggiare l’esercito ucraino e fortificare le posizioni adiacenti alle Repubbliche di Donetsk e Luhansk.

Questo incremento di forze terrestri è stato accompagnato da un aumento dei bombardamenti delle aree residenziali nella regione del Donbas da parte dell’esercito ucraino, creando le premesse per una potenziale invasione di questa regione.

 In risposta all’escalation degli attacchi delle forze ucraine, la Russia ha riconosciuto le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk come stati sovrani il 21 febbraio 2022, appena prima dell’invasione russa del 24 febbraio 2022, descrivendo questa campagna come un’operazione militare speciale (SMO).

Affrontando un esercito ucraino ben addestrato, ben equipaggiato e trincerato, le forze russe sono riuscite a prendere il controllo di circa il 20% (~47.000 miglia quadrate) dell’Ucraina meridionale e stanno rimuovendo gradualmente le forze ucraine da questa regione.

 Questo territorio contiene terreni agricoli di prim’ordine e ricchi di risorse.

 Sembra che la Russia abbia pianificato l’annessione del territorio litoraneo che si estende dalla regione di Donetsk/Luhansk a Odessa.

 Una volta che ciò dovesse accadere, qualsiasi futuro stato ucraino non avrà più uno sbocco sul mare e non accederà direttamente al Mar Nero, oltre a perdere anche territori economicamente assai preziosi.

 L’analista militare “Andrei Martyanov” ha affermato che l’Occidente combinato non ha i mezzi materiali e tecnologici per combattere la Russia nell’Europa orientale senza perdere in modo catastrofico.

“Le armi occidentali si sono rivelate, in larga parte, nient’altro che articoli commerciali non progettati per combattere la guerra moderna, inoltre nessuna economia occidentale, compresi gli Stati Uniti, ha comunque la capacità di produrle oggi nelle quantità necessarie”.

L’Occidente nel suo insieme ha risposto all’invasione russa bloccando l’apertura del gasdotto Nord Stream 2, che doveva fornire gas naturale russo direttamente alla Germania, ha imposto sanzioni alle esportazioni di energia russe e ha disconnesso le banche russe dal sistema SWIFT.

 Con “sbigottimento” di USA/NATO (“ma dove vivono? Su Marte?”), queste azioni hanno portato a forti aumenti dei costi energetici dell’UE, rafforzando allo stesso tempo – almeno sul breve termine – l’economia russa.

 Il “The New York Times” (NYT) ha però pubblicato di recente un editoriale lamentando il fatto che, nonostante le sanzioni occidentali, la Russia sta facendo più soldi che mai con le esportazioni di energia in Cina, India e altri paesi.

Nonostante la continua condanna, da parte di USA e della UE, della SMO russa in Ucraina, molte nazioni non hanno criticato la guerra:

 solo 1/3 dei membri delle Nazioni Unite ha sostenuto una nuova risoluzione anti-russa votata in agosto.

Pertanto, il calo del sostegno internazionale all’Ucraina, insieme al successo della SMO russo, indica che il paese, verosimilmente, in futuro non avrà i suoi confini attuali (ante-conflitto).

Osservazioni conclusive.

Il declino del capitalismo americano è in fase avanzata ed è in corso dalla metà degli anni ’70, ma è stato accelerato dalla GFC, dalla pandemia di Covid-19, dai cambiamenti climatici e dalla SMO russo in Ucraina.

Non sorprende che l’élite al potere e i suoi rappresentanti a Washington abbiano risposto spostando i costi di questo declino sul pubblico, che ha visto il loro tenore di vita precipitare – con l’aumento, anche, dei senzatetto – ha imposto una legislazione di stampo reazionario come la criminalizzazione della gravidanza da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha aumentato la violenza di stato contro i lavoratori e le persone di colore, mentre si impegnava in una politica estera astronomicamente costosa e sconsiderata.

Pare che l’élite dominante veda l’asse Russia-Cina-Iran come un intollerabile ostacolo al mantenimento del potere globale USA, riflesso nella guerra in corso in Ucraina, che è di fatto una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia.

Ovviamente, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’energia russa hanno fatto salire i prezzi globali dell’energia: i prezzi del gas naturale nell’UE sono 14 volte superiori alla media degli ultimi 10 anni.

 Di conseguenza, il Regno Unito e l’UE rischiano di non disporre di quantità sufficienti di gas naturale per l’inverno, mentre l’industria dell’UE non sarà in grado di competere con i suoi rivali in Asia, ai quali viene fornita energia russa a condizioni assai più economiche.

La continua presenza delle truppe statunitensi in Iraq e in Siria è un tentativo disperato di mantenere il controllo sulle riserve energetiche del Medio Oriente.

 L’incoscienza di questa occupazione si manifesta con i continui attacchi israeliani alle forze siriane e alleate iraniane (attacchi sostenuti da Israele e USA), aumentando le possibilità di una guerra con l’Iran, che può rapidamente intensificarsi, incendiando potenzialmente l’intera regione del Golfo Persico.

Sembra, infine, che gli Stati Uniti stiano abbandonando la politica “Una Cina” che ha guidato le relazioni tra i due paesi per quasi cinque decenni e si stiano preparando a riconoscere Taiwan come uno stato “indipendente”, una linea rossa invalicabile per la Repubblica popolare cinese.

 Senza dubbio, questa è stata una delle motivazioni dell’invio della Presidente della Camera Nancy Pelosi, una persona con un patrimonio netto superiore a $ 100 milioni dalla “liberale” San Francisco, in visita Taiwan.

 Il Pentagono incoraggia inoltre attivamente il Giappone, ad armarsi per un eventuale opposizione all’espansione cinese nell’area.

 Questo pone la domanda ovvia: il Giappone ha imparato qualcosa dalla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale? Come ha sottolineato Glen Ford, gli egemoni non hanno “alleati”, hanno solo subordinati.

Il declino del capitalismo americano in fase avanzata è progredito al punto che la sopravvivenza stessa dell’impero americano è ora subordinata alla stampa infinita di denaro per sostenere i mercati finanziari e l’esercito.

 Questo filo a cui sono appesi sta però diventando sempre più tenue, poiché l’ “orgiastica” tornata di stampa di denaro e debito ha creato bolle gigantesche in ogni classe di attività – “tutto in bolla”, si potrebbe dire – alimentando l’inflazione e minacciando di far deragliare il ruolo di valuta di riserva mondiale del dollaro e la vitalità del capitalismo occidentale.

Considerando lo stato di debolezza delle economie USA/EU, quali incentivi economici hanno gli USA per incoraggiare i paesi dell’Indo-Pacifico a ridurre il commercio con la Cina?

Ovviamente, questo è un argomento nato morto!

 L’oligarchia al potere è ben consapevole del declino economico degli Stati Uniti e, disperata, sta tentando di affrontare direttamente l’asse Russia-Cina-Iran, che ha raggiunto la parità economica e militare (superiorità?) con USA/NATO.

Si profilano tempi pericolosi davanti a noi e serve un elevato grado di consapevolezza per affrontarli correttamente e proficuamente.

(Fabrizio Russo)

 

 

NEOPLEBE, CLASSE CREATIVA, ÉLITE:

LA NUOVA ITALIA.

 Perunaltracitta.org – Redazione – (9 Gennaio 2023) – ci dice:

 

Pubblichiamo, con il gentile permesso della casa editrice, questo brano dove i due autori teorizzano una partizione sociale che possa sostituire alcune categorie che non sono più attuali.

Questa una breve sinossi:

Tramontate le società nazionali, si sono create delle nuove faglie.

Al posto delle classi, dei ceti, dei gruppi, si è costituita una nuova triade sociale.

L’élite (sempre più in declino), una classe creativa in crescita e una estesa neo plebe molto eterogenea, formata dagli strati sociali più deboli che stanno scivolando in basso e sono a permanente rischio di secessione.

L’attuale configurazione globale delle società ha portato a trasformazioni sociali inattese.

Ormai tramontate le società nazionali, si sono create nuove linee di frattura: inclusi-esclusi, cosmopoliti-locali, concentrati-estesi.

 Si è formata così una nuova triade sociale da analizzare dal punto di vista qualitativo e quantitativo.

In questo libro viene misurata con dati sia nazionali che disaggregati localmente, tra Nord, Centro e Sud, tra regioni, province e città.

 Il quadro proposto raffigura l’Italia tra il 2008 e il 2020, ma ha una proiezione europea e mondiale.

Ciò che scopriamo è che in Italia l’élite è diminuita in quantità e qualità, la neo plebe è cresciuta fino a rappresentare la maggioranza della popolazione, mentre la classe creativa è in costante aumento e potrebbe rappresentare la nuova classe dirigente, per ora senza potere.

Dati che ci interrogano su questioni attualissime: quale mondo ci troveremo a gestire così polarizzato tra poche grandi concentrazioni metropolitane e immense aree di sfruttamento estensivo?

Quali conseguenze sociali e politiche avranno le dinamiche tra una élite in storico declino, una massa priva di sapere e dei saperi senza potere?

(Paolo Perulli – Luciano Vettoretto, Neoplebe, classe creativa, élite, Laterza, Bari)

(È questo il brano -pp.3-27)

 1. La triade sociale. Un quadro inedito.

La società italiana, come del resto quella europea e occidentale, è cambiata profondamente negli ultimi decenni senza che l’immagine che abbiamo di essa sia stata aggiornata in modo significativo.

 Eppure, la distanza tra la situazione di oggi e quella degli anni ’80 è impressionante.

I lavori di Paolo Sylos Labini (1976, 1985) ne sono il migliore documento.

 Il grande economista, che nel 2003 previde la crisi finanziaria del 2007-2008 e per primo mostrò la gravità della crescita del debito, compì negli anni ’70 e ’80 la migliore analisi delle classi sociali in Italia.

 La borghesia imprenditoriale appariva in lieve crescita, passando dal 2% del 1951 al 3% del 1983.

Esplosiva risultava essere la crescita delle classi medie urbane che, nel trentennio postbellico, passavano dal 29% al 48%.

La classe operaia era stabile, passando nello stesso periodo dal 41% al 43%, mentre i coltivatori diretti crollavano dal 28% al 6%.

Secondo Sylos Labini questa forma della società industriale rifletteva cinque robuste tendenze:

– la riduzione del divario tra stipendi e salari (egualitarismo);

– l’erosione dei profitti delle grandi imprese (perdita di competitività);

– la flessione dell’orario di lavoro (aumento della produttività);

– la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese;

– la crescita dell’intervento pubblico nell’economia.

La sua previsione era che la società evolvesse verso una grande classe media articolata in tre strati di piccola borghesia, composita ma robusta, con gruppi emergenti:

 intellettuali e scienziati, tecnici e specialisti e quegli “intellettuali di tipo nuovo” di cui parla Antonio Gramsci (1966) con cui la classe operaia avrebbe dovuto tendere ad allearsi.

Se misuriamo queste tendenze con l’oggi, scopriamo che si sono completamente invertite.

 Le grandi imprese hanno aumentato i profitti oligopolistici, a partire da quelle del web.

La divaricazione tra quota dei profitti e quota del lavoro a favore dei primi è diventata esplosiva.

 I dati su reddito e ricchezza mostrano l’accrescersi della dicotomia tra strato ricco (1%) e strati poveri.

L’orario di lavoro è aumentato in ragione della crescita di forme di lavoro autonomo e flessibile che prolungano il tempo di lavoro sul tempo di vita.

Le forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa si sono interrotte.

 L’intervento pubblico nell’economia è regredito lasciando il campo a estese privatizzazioni, almeno a partire dagli anni ’90.

La dicotomia garantiti-non garantiti è diventata insufficiente a censire le posizioni deboli presenti in tutti gli strati sociali intermedi e inferiori.                    

Il quadro generale riflette uno scivolamento verso il basso – riduzione media di reddito e ricchezza delle famiglie, nuovi poveri specie di età giovane, aumento record di giovani che non lavorano né studiano, i Neet –, mentre la ricchezza si concentra verso l’alto della scala sociale.

Nonostante questo quadro mutato, usiamo tuttora categorie come imprenditori e dirigenti per qualificare l’élite economica, parliamo di classe politica per lo strato di governo, e poi di ceti medi, di classe operaia, pur verificando che tali classi e ceti si sono sfaldati in modo irreversibile.

 La loro rappresentazione sfocata va di pari passo con la loro mancanza di rappresentanza.

Dunque, se vogliamo mettere a fuoco il volto della società attuale è necessario aggiornare il lessico.

Ci ha provato di recente Luca Ricolfi (2019) introducendo la categoria “società signorile di massa”.

 Una categoria che coglie alcuni tratti di un fenomeno interessante.

Individua correttamente una crescita della rendita parassitaria e del consumo vistoso.

Tuttavia, non convince appieno poiché attribuisce il signoraggio a una categoria sociale spuria:

una generazione che vive consumando la ricchezza di quella precedente.

Di certo, però, contribuisce a spiegare sia l’ascesa sia la caduta della classe media.

Ascesa, quando essa insegue la propria promozione sociale mediante il lavoro e l’impresa, cui si aggiungono le rendite rese possibili dal risparmio e dagli investimenti in titoli pubblici, che fino all’introduzione dell’euro sono stati la via dell’alimentazione della classe media.

 Caduta, quando essa resta vittima della finanziarizzazione e subisce in prima persona gli effetti della crisi del debito.

 Sappiamo quanto le crisi bancarie hanno impoverito ceti medi e perfino operai e sono di palmare evidenza gli effetti della crisi del debito che ha prodotto la riduzione dei servizi pubblici – istruzione dei figli, sanità e assistenza degli anziani – cui si cerca di far fronte con un keynesismo privato, economicamente rovinoso.

In realtà non è corretto considerare la classe media il baricentro della società, cosa che abbiamo continuato a fare tanto durante la sua lunga ascesa quanto nel suo attuale declassamento.

 Il quadro sociale è assai più complesso e composito, come vedremo nel dettaglio nelle pagine che seguiranno.

Quello che possiamo affermare fin da subito è che difettiamo di un’analisi a tutto tondo dei nuovi strati che consideri insieme gli aspetti acquisitivi e remunerativi di successo o di declino e il sistema di credenze e valori che sempre accompagnano il loro emergere o precipitare.

 Vale, intanto, per la crisi dell’élite.

 Abbisogna di una comprensione l’avvenuta caduta dello spirito del capitalismo, della weberiana razionalizzazione e sistemazione delle condotte di vita dei suoi protagonisti imprenditoriali, delle loro qualità carismatiche.

 Basta tornare al decennio appena trascorso e valutare la crisi dell’élite economica e politica espressa dalle crisi finanziarie e bancarie dopo il 2008.

 In questo contesto, l’élite – imprenditoriale e rentier – si è separata dalla classe media, impoverita e impaurita, tornando a una condizione ottocentesca con due zone sociali contrapposte:

“la città dei nobili e del potere da una parte” e quella del commercio e del guadagno a rischio dall’altra.

L’élite ha, infatti, mantenuto il suo stile di vita, il suo privilegio immune alle crisi ricorrenti, né ha ricostruito quel tessuto dell’etica professionale, delle ‘buone opere’ che contribuiscono al benessere sociale e della fiducia razionalmente controllata.

Ma questo discorso non vale solo per l’élite, vale anche per gli altri strati.

La crisi della classe media che produce e risparmia è, come vedremo, il frutto anche della caduta dello spirito di comunità della borghesia cittadina proprio di una fase di urbanizzazione anomica, estensiva e caotica.

 Allo stesso modo, l’espansione recente dello strato che denomineremo ‘neoplebe’ è il frutto anche della delusione degli strati declassati nei confronti di una escatologia e di una fede collettiva in un riscatto sociale cui aspirare.

 Sono nuove forme della distinzione sociale, quell’habitus che riveste gli appartenenti ai diversi strati e li differenzia l’uno dall’altro e che, per essere comprese, richiedono di un lavoro di scavo à la Pierre Bourdieu (ma prima ancora à la Balzac!).

Ancora non disponiamo di buone analisi sul rapporto conflittuale tra i valori e le visioni del mondo dei diversi strati o sul riflesso di quanto accade nel mondo sulla coscienza degli attori sociali.

 Eppure, l’analisi conflittuale era alla base della sociologia weberiana e simmeliana, per non dire di quella marxiana, tutte in ‘divergente accordo’.

 Il linguaggio degli interessi di ciascun gruppo o strato era ancorato alla rispettiva Weltanschauung, al proprio punto di vista sul mondo.

L’egemonia neoliberale ha rimosso le tracce di tutto questo perché crede che tutti assumano il medesimo punto di vista concorrenziale e agonista:

 il linguaggio della solidarietà e della coesione, il conflitto produttivo tra agire economico e agire politico, la natura istituente delle diverse azioni sociali sono tutte questioni stralciate e negate dal pensiero unico dominante.

Inutile dire che andrebbe invece ricostruito un pluralismo conflittuale in seno alla società.

Un pluralismo conflittuale che tenga conto degli interessi di preda di certi gruppi, della rivendicazione di riforme sociali, dell’interesse comune, così come è sempre stato fatto dai classici per le società a noi precedenti.

2. Élite, classe creativa e neo plebe.

Quale composizione sociale mostra, dunque, la società italiana attuale secondo la nostra analisi?

Anzitutto diciamo quale fonte abbiamo utilizzato per arrivare a tale nuova configurazione sociale.

La nostra analisi si basa sulla rilevazione dell’archivio micro.STAT operata sulle forze lavoro e prende in considerazione il periodo 2008-2020 (dati trasversali trimestrali-microdati ad uso pubblico storici secondo la definizione dell’Istat).

Si tratta di un’indagine campionaria con un grado elevato di numerosità.

Al primo trimestre 2020, infatti, raccoglie più di 93.000 interviste, di cui più di 23.000 ad occupati.

Partendo dal primo trimestre del 2008, la nostra analisi fa riferimento a una situazione pre-crisi finanziaria e arrivando fino al primo trimestre 2020 comprende la situazione pre-crisi pandemica.

La variabile principale utilizzata è la professione, disaggregata a livello di tre digit, ovvero il massimo livello di disaggregazione possibile e affidabile.

 Il criterio è il livello di competenza, definito a partire dalla natura del lavoro (manuale, intellettuale ecc.) e dal grado di conoscenza necessario per il suo svolgimento, acquisita per via formale o tramite esperienza.

I livelli di competenza sono quattro, gerarchicamente ordinati.

 Il primo è quello dei lavori di routine di natura manuale, svolti con mezzi di produzione elementari, spesso legati alla fatica fisica.

L’ultimo è quello delle professioni che sono chiamate alla soluzione di problemi o a processi decisionali complessi tali da richiedere un esteso corpus di conoscenze teoriche e pratiche.

Le conoscenze e le competenze richieste sono di solito ottenute con un percorso di istruzione pari o superiore alla laurea di secondo livello.

Tali criteri permettono di distinguere la diversa intensità di conoscenza incorporata in ciascuna professione, nonché i livelli di comando e controllo che, in via generale, ciascuna professione esercita sulle altre.

 Per questa via è possibile leggere le professioni come una forma della relazione non solo economica, ma anche sociale.

Queste relazioni sono specchio degli intrecci tra professioni e istituzioni, funzionale in particolare per quelle legate alla formazione o all’ingresso formale in domini specifici (ordini professionali, impiego pubblico).

Le professioni sono ordinate secondo livelli crescenti di disaggregazione.

Il livello che usiamo nella nostra analisi utilizza 129 classi professionali che aggreghiamo in tre strati principali: élite, classe creativa, neo plebe.

Il primo strato è quello delle élites del potere politico, economico-finanziario e burocratico.

 Rientrano in questo strato le classi occupazionali legate ai più elevati livelli decisionali (guida, comando, controllo) nelle sfere del governo, dell’amministrazione pubblica e dei servizi di welfare, della magistratura, delle organizzazioni di interessi (partiti, sindacati ecc.), degli imprenditori e amministratori di grandi aziende, dei direttori e dirigenti generali e dipartimentali di aziende.

 Lo strato delle élites è completato da un sub-strato di occupazioni di controllo e comando locale dei processi di management e direzione, che definiamo ‘strato di servizio’ alle élites.

 Si tratta dell’insieme delle classi occupazionali che esercitano la razionalità tecnica, con un livello significativo di competenze e supervisione-controllo del lavoro esecutivo nelle diverse sfere economiche e scientifiche:

sono, appunto, i tecnici (della gestione dei processi produttivi di beni e servizi, delle attività finanziarie e assicurative, dei rapporti coi mercati, della distribuzione commerciale ecc.).

Un segmento spurio, ma di prevalente razionalità tecnica, non creativa, funzionale al controllo e comando delle élites.

Questa nostra idea di uno strato del potere e di un sub-strato funzionale ad esso riprende e modifica l’impostazione classica di Gaetano Mosca (1994), che definisce la classe politica dirigente della società e sotto di essa uno strato di servizio funzionale.

Il secondo strato, la classe creativa (usiamo qui il termine classe in senso più ampio introducendo principi diversi dalla posizione economica, e soprattutto quello di ‘capitale culturale’), comprende le classi occupazionali tipiche dell’economia della conoscenza, la knowledge economy orientata alla progettazione, invenzione o ampliamento delle conoscenze negli ambiti della produzione scientifica, tecnica e culturale che richiedono elevati livelli di competenze.

Questo strato include specialisti delle scienze ‘dure’, economisti e specialisti di management e finanza, scienziati sociali e delle discipline storico-umanistiche, medici, architetti e ingegneri, le occupazioni a maggior qualificazione nella sfera artistica, culturale e delle lesure, e il nuovo segmento dei professionisti indipendenti, gli Independent professionals e i freelancers ad alto contenuto di conoscenza.

A questo strato si è scelto di aggiungere gli imprenditori di aziende di piccola dimensione nei settori economici knowledge intensive e ad alto valore aggiunto (chimica, farmaceutica, fabbricazione di computer, biomedicale e altri prodotti elettronici, autoveicoli, meccanica di precisione, attività editoriali e di informazione, telecomunicazioni, ricerca e sviluppo, marketing).

 Questo segmento sta pienamente dentro la knowledge economy, e per questa via esercita impatti rilevanti sul sistema socio-economico nel suo insieme e risulta in genere associato a stili di management e produzione (forse anche a stili di vita) molto vicini a quelli delle attività creative.

Anche la classe creativa ha un suo segmento di servizio:

 come per le élites, si tratta di figure di supporto, di razionalità tecnica applicata alle sfere più propriamente scientifiche e culturali, che richiedono capitale culturale istituzionalizzato ed esperienza.

La principale di esse è la figura degli insegnanti, che alimentano l’istruzione e la formazione: in qualche modo forniscono la materia prima della classe creativa.

Il terzo strato, la neo plebe, è una galassia che comprende:

i vecchi ceti medi, la “new and old petty bourgeoisi”e, la nuova classe operaia legata ai processi di digitalizzazione e automazione, l’ormai ridotto segmento degli imprenditori della piccola impresa tradizionale, i mestieri tradizionali, il ceto impiegatizio a modesta qualificazione e le ‘burocrazie di strada’, il proletariato dei servizi (e, in misura minore, i salariati agricoli e le mansioni non qualificate nel manifatturiero).

 Insieme lavoro dipendente e indipendente, manuale e non manuale, protetto e non protetto (soprattutto in relazione alle sfere del pubblico e del privato), occupazioni tradizionalmente maschili o femminili investite, nel corso del tempo, da incertezza, insicurezza, impatti della digitalizzazione, effetti delle migrazioni, declino del prestigio sociale e dell’identità di classe o ceto.

All’interno di questa galassia molto eterogenea si rintracciano gradi diversi di esposizione.

Massimamente esposti sono gli occupati nei mestieri e produzioni tradizionali, laddove le loro credenziali educative, esperienze, capitale relazionale e propensione al rischio non li mettono nelle condizioni di connettersi alle nuove domande di consumo (come invece avviene per i ‘nuovi contadini’ o i produttori di beni singolari e/o di lusso).

Molto esposte sono le mansioni specifiche del ceto impiegatizio ormai rese obsolete dalla digitalizzazione.

Così come in crescita è un proletariato dei servizi sul crinale tra lavoro regolare e irregolare, stabilità e precarietà, sussistenza e povertà, classe e underclass.

In definitiva, sono i servants degli strati del potere economico, burocratico o dei creativi, e persino degli strati a medio-basso reddito, in forma di supporto domestico e di cura degli anziani.

Di questa galassia è parte, infine, il lavoro operaio.

Sono i conduttori e operatori di impianti e macchine, da quelli più tradizionali e in crisi (costruzioni, agricoltura) a quelli investiti dall’innovazione tecnologica: digitalizzazione, automazione, robotizzazione.

Un segmento che appare problematico, con modeste capacità di adattamento ai processi socio-economici contemporanei e tuttavia – in particolare nel segmento operaio dell’innovazione tecnologica – non privo della possibilità di stabilire una relazione politico-sociale non subalterna in una coalizione di interessi o in alleanza con la classe creativa nel contesto delle trasformazioni della “knowledge economy”.

Questa la fisionomia generale dei tre strati.

 La domanda da porci ora è come si trasmette e, prima ancora, come si forma, come muta nel tempo la visione del mondo di un’élite, di una classe creativa intermedia, di una classe non privilegiata, se non ai margini?

 È il tema classico della sociologia, eppure disatteso e abbandonato perché sommerso da un infinito, inutile e dannoso predominio dei media che costruiscono stereotipi più che pensiero critico.

 Proviamo ad approfondire la questione, analizzando, più in dettaglio, la natura, la storia e la composizione di ciascuno strato.

2.1. Élite.

Contare, contarsi, annettersi sono per Bourdieu (1988) le caratteristiche dell’élite, la sua ricerca di distinzione e il suo habitus, che si interiorizza e insieme si indossa come una divisa.

 Sapere di essere al proprio posto, con le proprie iniziali sulla biancheria esteriore e su quella interiore della coscienza, è nelle parole ironiche di Robert Musil (1974) l’attributo della classe superiore.

Inoltre, essa possiede un senso del piazzamento, cioè sa porsi, se necessario, al centro della scena pubblica con ogni mezzo.

Ma sa, in virtù di quel tratto di riserbo e a volte di segretezza che caratterizza da sempre i detentori del potere, anche ritrarsi e velare la propria influenza e le proprie relazioni.

Le reti di cui fa parte sono professionali, lobbistiche, finanziarie, sportive.

Sono la connessione e le conoscenze dirette, capillari, di ambienti economici e politici privilegiati a fare la differenza:

non tanto la competenza, ma l’appartenenza, l’essere connessi a un sistema inter organizzativo di potere e ‘sentire’ di farne parte (Pizzorno 1970).

 Le società di consulenza, come ad esempio McKinsey & Company, sono l’officina delle élites.

 Da lì provengono i dirigenti delle banche, delle compagnie di assicurazione, delle imprese e dei ministeri, coloro che hanno sostenuto senza particolari scrupoli la globalizzazione, certi di trarne vantaggio.

L’élite è sostenuta da ricche famiglie iperprotettive, da una competizione basata sull’accesso a strumenti di potere.

 L’élite crede e si riproduce in miti, fedi, network, autorappresentazioni.

 La sua nuova etica è meritocratica.

 Il merito è uno dei miti, il più diffuso, dell’élite, pur essendo il meno verificabile. Lo spiega bene Michael Sandel nel suo libro “The Tyranny of Merit” (2020):

entrare alla “Bocconi” o a “Sciences Po”, o acquisire un “Mba” a Londra o a Boston è fatto legato al denaro più che al merito.

 Ciò nonostante è la via maestra per far avanzare un’élite tanto nelle democrazie liberali quanto nelle autocrazie illiberali.

L’autorappresentazione delle élites è affidata a modelli culturali e forme di consumo, insieme ‘vistoso’ e fonte di arricchimento esclusivo (Boltanski, Esquerre 2019).

Come risultava già dalle analisi di “Torsten Veblen”, un marchio dell’élite è, infatti, il consumo a cui ne è strettamente connesso un altro:

il solido senso di sicurezza derivante dall’abitudine a dirigere una grande azienda e a disporre di ingenti risorse finanziarie.

A volgere lo sguardo indietro alla storia, si potrebbe sostenere che l’autocoscienza e il progresso hanno fatto parte del bagaglio occidentale e ideologico dell’élite.

 In questa direzione ha giocato un ruolo essenziale il rapporto tra élites e chierici, i detentori del sapere e – spesso – sapienti interessati.

Nella città occidentale del Medioevo il mestiere dell’intellettuale produceva corporazioni al pari di altre attività economiche, sciogliendo il legame con le scuole cattedrali e con le sfere religiose.

Nell’Ottocento le classi della conoscenza prodotta per via accademica divennero anche un segmento di funzionari pubblici.

Il nesso tra credenziali educative e formazione delle élites viene rafforzato in Francia e in Germania dove, a inizio secolo, si afferma l’università humboldtiana, come formazione delle classi dirigenti tratte da tutti gli strati sociali (Cassese 1990).

 Questa autonomia delle istituzioni formative nello sviluppo politico europeo si declina in modo ancora diverso nel Regno Unito, con la riforma di Oxford e Cambridge a metà Ottocento, e negli Stati Uniti dove, negli stessi anni, si afferma il modello del land-grant college da cui nascono le università politecniche come il Mit, con finanziamento federale.

Così trova spazio il modello dell’università privata:

per prima Harvard, nata per coltivare i ‘nuovi mandarini’, quei “Boston Brahmins” che hanno dato presidenti, industriali e governatori alla nazione.

Non diversamente in Europa: il peso dell’impresa economica, finanziaria e globale, nella gestione dei programmi formativi è sempre maggiore.

Ma ormai l’élite è largamente inconsapevole di un tale retaggio illuminista e borghese.

 In Italia, soprattutto.

Qui, almeno dagli anni ’90 in poi, l’élite economica e quella politica si sono identificate con una variante locale del populismo, che crede nel denaro e nel privilegio come modello ostentato per mettere il popolo, la neo plebe, in condizione di servitù volontaria (Viroli 2010).

Nell’acquiescenza di gran parte dell’élite politica, questo modello ha generato un ‘sistema di corte’ i cui premi più diffusi sono il denaro e la cooptazione dei ‘cortigiani’ in incarichi ufficiali e istituzionali.

Per un ventennio abbiamo assistito alla progressiva trasformazione dell’Italia in una grande corte (con una correzione parziale a partire dal 2011 dovuta però più a fattori esogeni, quali gli effetti della grave crisi finanziaria, che a virtù endogene).

Così, nonostante la globalizzazione richieda alla politica e all’economia un orizzonte per lo meno europeo e una relazione dinamica con altre élites, tra tutte quelle orientali, noi viviamo la paradossale ripresa di un rapporto padrone-servo che è premoderno e pre- borghese, portato di un modello di populismo sovranista.

 

Del resto, l’élite economica italiana appartiene a una storia minore, di ‘piccolo capitalismo’.

Non compare tra i super ricchi del Pianeta, il famoso 1%.

Su 100 super ricchi mondiali, 12 sono degli Stati Uniti, 9 della Svizzera e 9 di Singapore, 7 di Lussemburgo e altrettanti del Canada, 6 sono del Giappone, 5 del Regno Unito, 3 della Francia e altrettanti della Norvegia, 2 di Taiwan, Corea, Olanda, Irlanda, Germania, Cipro, 1 di Russia, Brasile, Sud Africa.

I restanti Paesi non raggiungono il valore di 1.

A spiegare la natura più introversa e a bassa crescita dell’élite economica italiana è il capitalismo familiare, assai più forte in Italia che altrove.

 Quello della famiglia è un valore appariscente, a lungo indagato soprattutto dal Censis.

 Famiglia e borgo, radici locali e piccola scala sono stati esaltati o criticati, a seconda dei punti di vista, come fattore chiave della crescita o della mancata crescita italiana.

Giuseppe Berta (2016) ha messo in evidenza che – tramontata la grande impresa dinastica – il capitalismo italiano non può che essere di piccola dimensione, quella studiata da Giorgio Fuà (1980) una generazione fa.

 Si aggiunge a questo il fatto che non c’è un ricambio della classe dirigente, la stessa da quarant’anni («Dialoghi Internazionali» 6/2007), la quale blocca l’accesso ai media e alla visibilità in generale dei talenti che lavorano a progetti innovativi di grande valore, fungendo da grande cappa generazionale.

La nostra élite è locale, radicata, tradizionalista, non aperta e cosmopolita come accade in altri paesi.

Di certo c’è una buona mobilità sovraregionale, soprattutto delle élites imprenditoriali.

Tuttavia, le élites imprenditoriali sono molto più che altrove connesse a una località, anche nel caso di grandi imprese multinazionali:

Ferrero resta ad Alba in provincia di Cuneo, anche se la sua sede finanziaria e logistica è da tempo in Lussemburgo;

Del Vecchio resta nel Bellunese, nonostante il suo impero sia mondializzato nella produzione, distribuzione e finanziarizzazione.

Più travagliato è il cammino della Fiat, poi Fca, poi Stellantis, verso un orizzonte globalizzato.

 Se però prendiamo in considerazione le 3.500 medie imprese del Nord Italia, scopriamo che sono chiari esempi di un ‘capitalismo di territorio’, anche laddove hanno avviato la delocalizzazione delle produzioni in Asia o altrove.

Un esempio tra tanti, la “Curti Industries”.

Azienda ravennate di meccanica che opera dalla componentistica all’aerospazio, fondata da un semplice dipendente, ora leader nel settore, che resta radicata a Castel Bolognese per scelta e per cultura.

 O Bonfiglioli, un gruppo familiare con proiezioni globali, essendo il quinto player mondiale nel suo settore, attivo nella meccatronica dei riduttori e ben radicato nella sua sede bolognese di Lippo di Calderara di Reno, riprogettata secondo i dettami di industria 4.0.

Una scelta di fedeltà che in parte si spiega con il fatto che il territorio in cui queste imprese sono inserite è ricco di poli tecnologici, ricerca pubblica, cultura tecnica, istituti professionali.

In realtà, secondo Luciano Gallino (1982), abbiamo a che fare con un’identificazione radicata in sottosistemi più interni della personalità (etnica, regionale, religiosa) che massimizza il successo riproduttivo biculturale dell’individuo, una identità più stabile di quella – elusiva – che passa attraverso l’appartenenza a diverse associazioni.

C’è da dire che l’élite economica italiana che è stata sin qui capace di coniugare progettazione e produzione, disegno e manifattura, ha avuto un’impronta – per così dire – più culturale rispetto ad altre élites nazionali.

 Su tutti vale l’esempio di Milano:

qui si è formata una élite che ha fatto da ponte tra industria e classe creativa, e non tanto grazie al Politecnico e alle altre Università che certamente hanno dato un innegabile contributo, ma che sono istituzioni che esistono in ogni grande città del mondo.

Il quid in più cui abbiamo assistito nel dopoguerra (1950-1970) è stato l’incontro tra imprenditore e artista.

 Ci riferiamo, ad esempio, all’incontro tra un imprenditore del design e della luce come Ernesto Gismondi, fondatore di Artemide, e designer come Gio Ponti, Vico Magistretti, Richard Sapper, persino il regista Luca Ronconi.

 Non a caso l’Encyclopedie definiva artisti “gli operai che eccellono in quelle arti meccaniche che richiedono intelligenza” (Supiot 2020).

Un ponte che si è interrotto, ma che andrebbe ricostruito, tanto più nell’epoca dell’economia cognitiva guidata dal digitale.

 

La domanda è:

 può l’attuale élite alzare lo sguardo oltre sé stessa?

Nutriamo qualche dubbio al riguardo.

 Le recenti crisi finanziarie e quelle bancarie hanno evidenziato aspetti oscuri dell’intreccio tra le élites economiche e le élites politiche.

Coloro che siedono nei consigli di amministrazione delle banche e delle imprese sono gli stessi che offrono al mondo politico servizi e ricevono consenso e potere di influenza.

Persino la filantropia dell’élite, da Bill Gates in giù, serve a influire sulla sfera del potere e a ribadire la superiorità di una rete di interessi.

Mentre un secolo fa il cosmopolitismo delle élites era circoscritto a un club esclusivo di pochi, oggi una densa rete di società di consulenza, imprese multinazionali, finanza e tecnologia avvolge il Pianeta e fa delle società nazionali un ambito troppo ristretto per le élites stesse

 Esse perdono il senso dello Stato in nome di credenze globaliste: la tecnologia, l’interconnessione, l’appartenenza a uno spazio cosmopolitico, la città globale ecc.

Questo serve a dirci che l’aristocrazia finanziaria ha preso possesso del mondo, attraverso le banche internazionali, le multinazionali e le società di consulenza – come sostenne per tempo Sylos Labini già negli anni ’70?

Sylos Labini ne elencava i settori e le aree:

 speculazioni edilizie, esportazioni di capitali, petrolio sono le aree del profitto speculativo.

 Per Karl Marx, che ne scriveva nel 1848-1850, l’aristocrazia finanziaria non era altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese:

i suoi guadagni e i suoi piaceri erano malsani e sregolati, come quelli della plebe.

Una chiave interessante, questa, per capire la paradossale alleanza tra élite e neo plebe contemporanea.

Guardiamo alla caduta del linguaggio della classe dominante:

è una cartina di tornasole anche per capire il declino dell’élite economica e politica.

Quell’habitus linguistico che si apprende nel mercato specializzato della famiglia e della scuola e si sviluppa con la frequentazione precoce e costante dei mercati specializzati dell’economia e della politica non si manifesta più con la sicurezza e il distacco cui abbiamo assistito nel passato.

 Il linguaggio dell’élite basato su un’elevata censura, sulla messa in forma e sull’eufemizzazione (Bourdieu 1988), cioè su aspetti distintivi di ‘norma realizzata’, oggi si scompone in un linguaggio dei media di comunicazione che rende tutto indistinto e omogeneo, l’opposto della ‘distinzione’.

 

In questo linguaggio comune si trova l’estrema conseguenza prevista da Alexis de Tocqueville nella sua opera” Democrazia in America”, per cui quando gli uomini non più costretti al proprio posto nella società si vedono e comunicano costantemente l’uno con l’altro, tutte le parole del linguaggio si mescolano.

Ma Tocqueville riferiva questo fenomeno a una società, quella democratica, che ha abolito le caste e in cui le classi si riempiono di nuove reclute e diventano indistinguibili.

L’opposto, quindi, della distinzione di Bourdieu.

 Questa ‘discussione impossibile’ tra il liberale ottocentesco Tocqueville e il radicale novecentesco Bourdieu mostra come la democrazia si sia nel frattempo imbastardita e immobilizzata.

In Italia più che altrove, prima la televisione commerciale e poi i media digitali hanno espresso un livello di volgarità che unifica verso il basso élite, piccola borghesia e neo plebe in un unico metalinguaggio pratico.

 L’insulto pronunciato in televisione e nei social media, che Bourdieu definisce “idios logos”, sostituisce l’atto ufficiale di nomina con cui si concede un titolo, che egli definisce omologie.

 Entrambi, l’insulto e la nomina, sono atti di istituzione o di destituzione fondati socialmente.

D’altra parte, concetti astratti, non visibili, come nazione, Stato, sovranità, democrazia, rappresentanza, burocrazia, che secondo Giovanni Sartori (2000) caratterizzano la cittadinanza libera, sfuggono del tutto a “homo videns”.

2.2. Classe creativa.

Prima dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, l’individuo creativo è il Faust di Goethe, colui che ha un pensiero e una volontà volti a uno scopo.

Il suo alter ego è Prometeo, il titano che porta la tecnica utile agli uomini.

E da quando è Prometeo a primeggiare è la creazione come impresa tecnica a occupare pienamente la scena.

In sociologia il termine “creativo” è stato introdotto da William Thomas e Florian Znaniecki con il loro lavoro” The Polish Peasant in Europe and America” (1918-1920).

Nella grande trasformazione sociale prodotta dall’immigrazione e dall’urbanizzazione di inizio Novecento emergono tre tipologie di individuo:

 il filisteo, il bohémien e il creativo.

Rispetto ai primi due, rigidamente tradizionalisti o incoerenti, l’individuo creativo trova in sé le risorse per un avanzamento sociale, per la ricerca di scopi definiti, esprime una maggiore capacità di adattamento che lo aiuta ad avere successo nella vita.

 La personalità più sistematica del creativo lo avvicina all’individualismo strumentale, a colui che domina la società industriale attraverso istituzioni e norme sociali ben precise.

Così, il tipo creativo appartiene alla moderna divisione sociale del lavoro e ha la forma di un tipo auto-diretto, rivolto a uno scopo, inserito in istituzioni e agenzie di socializzazione che agiscono in tal senso.

Se le società industriali avanzate hanno prodotto numerosi individui creativi è perché esse favoriscono una personalità acquisitiva e strumentale.

Le istituzioni stimolano e premiano l’indipendenza, la competenza, la responsabilità individuale.

Questa visione alla Talcott Parsons (1983) spiega bene a nostro avviso perché il tipo creativo americano abbia trovato ampi spazi di prevalenza rispetto a società più chiuse e castali come quelle europee o asiatiche.

Creativo è sin qui un individuo, un tipo:

l’inventore contrapposto all’uomo che tira a campare, l’innovatore (che risale al pensiero economico di Joseph Schumpeter), il professionista della conoscenza applicata (un’idea più recente che dobbiamo a Peter Drucker).

Ma da qui a diventare una classe il salto è grande. Presuppone una auto sostituzione, cioè la trasformazione di un ordine sociale dato o di suoi sistemi parziali ad opera di processi interni (Luhmann 1983).

Occorrerebbe che il primato funzionale della creatività di origine tecnico-scientifica e professionale fosse in grado di autonomizzarsi e perfino di sostituire il primato funzionale della società economica avvenuto nella modernità.

Il primato funzionale dell’economia è correlato con l’individualismo dell’uomo economico, mentre “il primato della società creativa” dovrebbe reggersi su un individuo sociale con specifiche caratteristiche.

E allora:

quali fattori possono promuovere un tale processo di auto sostituzione?

In primo luogo fattori di tipo esogeno, come eventi dirompenti esterni a ciascuno di noi che impongono di rivedere le priorità e le scelte di ciascuno.

La crisi climatica ambientale globale consente di capire ciò che intendiamo.

 ‘Noi sapevamo’ (grazie alla scienza e alla tecnica), ma non abbiamo potuto evitare il processo di degradazione naturale in corso.

 Avremmo potuto farlo solo autonomizzando la scienza e la tecnica, dando ad esse, cioè, il potere di affermare la propria riflessività pratica, scongiurando gli esiti catastrofici cui il primato funzionale dell’economia ha spinto il Pianeta.

Poi ci sono fattori di tipo endogeno.

Tecnologia, tolleranza e talento sono stati presentati come i drivers funzionali della classe creativa.

I creativi sono aperti, liberal, progressisti.

 Ma non hanno ancora acquisito una responsabilità che li ponga al centro della vita politica.

Non si impegnano in azioni collettive.

Questo è quanto sostiene Richard Florida nel suo libro “The Rise of The Creative Class” (2019), coniando anche la definizione di classe creativa.

Ciò anche se rappresenta circa 1/3 delle forze di lavoro della società americana, cui si contrappongono 2/3 di classi di servizio postindustriali, a bassi salari e precarie.

Una quantità non troppo dissimile da quanto da noi calcolato per l’Italia.

 

La ragione è forse spiegata da Tocqueville e illustrata da Jon Elster (2009) con la domanda: “Ci sono classi in America?”.

Sembrerebbe di no.

Il continuo turnover individuale, la mobilità sociale e geografica non favoriscono la formazione di una ‘classe per sé’ che si impegni nell’azione collettiva.

La classe creativa ha un altro padre nobile rivendicato da Florida, quel “Peter Drucker “che, forte della sua formazione mitteleuropea e poi approdato in America, per primo (nel lontano 1959) definisce il lavoratore della conoscenza come il futuro manipolatore di informazione.

 Una categoria però sfuggente e – ancora una volta – non una ‘classe per sé’.

Più circoscritta e tecnocratica è la categoria di ‘esperti’, quelli che posseggono cioè uno specifico e certificato expertise.

 Molte teorie li hanno considerati detentori di “un potere tecnocratico”, scambiando, in realtà, per potere quella che è solo competenza (cum petere, chiedere insieme).

 I ricercatori e gli esperti hanno rispetto alla classe creativa un profilo più nettamente tecnico, meno socialmente visibile.

Anche se da loro dipendono le prossime generazioni di innovazioni, i vaccini che ci salveranno dai virus, le macchine intelligenti che ci faranno muovere in auto a guida autonoma, i prossimi devices che guideranno il lavoro e il consumo di interi continenti.

È dunque vistosa la sproporzione tra il grande ruolo professionale e il più modesto ruolo sociale dei creativi.

Se essi rimarranno ‘artisti’ usati dal capitalismo della conoscenza, ‘inventori’ a disposizione del capitalismo delle piattaforme digitali, è difficile immaginarne un ruolo da classe generale.

Se invece prenderanno coscienza che la loro capacità di innovare ha un’utilità sociale estesa, di ciò potrà beneficiare anche la neo plebe, la parte più grande e svantaggiata della società.

Per assumere tale ruolo il primo passo da compiere è la messa in discussione dell’attuale distribuzione dei diritti di proprietà nelle filiere produttive.

 Sebbene i creativi, i Freelancer, i lavoratori della conoscenza, i fornitori di input siano figure che concorrono alla creazione del valore, allo stato attuale non è loro riconosciuto alcun accesso a diritti di proprietà condivisi.

Essi restano in capo alle élites proprietarie e agli azionisti finanziari.

Questo il primo, principale interesse da intaccare da parte della classe creativa per ritagliarsi un nuovo ruolo sociale.

2.3. Neo plebe.

Non c’è nulla di spregiativo nel termine che qui usiamo.

Piuttosto, c’è insoddisfazione per gli altri modi di nominare lo strato basso della società.

Sottoproletariato, Lumpenproletariat (proletariato degli stracci) è, sì, termine spregiativo che indica una classe pericolosa.

 In sociologia il più usato è sottoclasse (underclass).

Tutti questi termini presuppongono un sotto rispetto a un sopra:

 per esempio, la classe operaia che sta sotto e la classe media che sta sopra, o più sopra.

Questa è una prospettiva non più attuale, una visione che altera la realtà del processo di scivolamento in corso dell’intera ‘società di mezzo’ verso il basso.

Non si possono più confinare i fenomeni della povertà alla sola underclass.

Non più protetta dai sistemi assicurativi e di welfare, certo mescolata a fenomeni diversi come l’evasione fiscale e il lavoro nero o grigio, la povertà affiora dall’intera società.

In questo senso la ‘società dei due terzi’, quella garantita, contrapposta a un terzo non garantito, va aggiornata e, per certi versi, rovesciata.

Sembra più esplicativa l’idea di “proletaroide” usata da Max Weber (1981) e da Theodor Geiger (1932) nella Germania di inizio Novecento:

 uno strato che cresce ai margini, ma include la classe media impoverita, il lavoro intellettuale precario e malpagato, accanto al proletariato dei servizi.

Il progresso tecnologico legato all’intelligenza artificiale affiderà alle macchine il lavoro qualificato e ciò andrà a nutrire su larga scala la neo plebe, fasce di popolazione prive di formazione adeguata, di skills e conoscenze oggi necessarie.

La tecnologia è selettiva e ingegnerizzata, funziona per le società avanzate, ma rischia di escludere una parte significativa del mondo.

Per fare solo un esempio: un tempo c’erano più linee telefoniche fisse a Manhattan che in tutta l’Africa sub-sahariana.

 Oggi la diffusione di Internet segue la stessa dinamica selettiva.

 Ecco perché nei paesi avanzati la neo plebe è destinata a crescere.

Ma come si vede e si rappresenta la neo plebe?

Finora è stata rappresentata da altri:

il pensiero classico e poi quello borghese l’hanno stigmatizzata come pezzenti (Platone) o poveri, Pöbel (Hegel);

il pensiero marxista e quello leninista l’hanno elevata a proletariato.

Tocqueville parla della ‘razza’ dei poveri come uno strato permanente e fisso, con poche vie di scampo, contrapposto ai ricchi, uno strato fluido i cui componenti sono sempre a rischio di diventare poveri.

“Il lavoro forma”, sostiene Hegel: è il lavoro che permette al servo di uscire fuori da sé e di assumere una permanenza.

 Ma cosa accade se non c’è lavoro, o esso è esercitato in forme tali da non garantire permanenza ma solo precarietà?

 Gran parte del lavoro contemporaneo è di questa natura.

 

2.Le linee di frattura-

 

1. Inclusi – esclusi.

Prima di iniziare l’analisi quantitativa della triade sociale che abbiamo delineato fin qui, è necessario guardare alla trasformazione radicale da cui siamo investiti dal punto di vista delle nuove fratture sociali.

Con lo sfaldamento delle società nazionali del passato, che avevano un carattere stabile e duraturo, e con l’avanzata di nuove società globali planetarie si stanno formando delle nuove falde, degli strati sociali che non corrispondono più a tradizionali classi, ceti o gruppi.

 Sembra prendere corpo la visione di Friedrich Nietzsche (2000) secondo cui non siamo affatto materiale per una società: lo si capisce guardando da vicino le nuove linee di frattura della società contemporanea.

La prima linea di frattura è certamente quella tra inclusi e esclusi.

Non è unanime il giudizio sull’ampiezza di questa frattura.

 Secondo i sostenitori della tesi della convergenza di lungo periodo, il XXI secolo è più equo e meno diseguale, basta valutare l’uscita dalla povertà di ampie aree del mondo in via di sviluppo.

Secondo altri la distanza tra inclusi ed esclusi è, invece, aumentata:

 le diseguaglianze, le distanze, si sono accresciute rispetto al XX secolo, che aveva visto diminuire le differenze grazie al welfare state, alle politiche sociali e al ruolo dei sindacati.

 Come ha dimostrato Thomas Piketty (2019), i meccanismi di mercato inevitabilmente producono e dilatano le distanze sociali se non si interviene correggendoli.

Lasciati liberi di operare sul lungo periodo non possono che far crescere le disuguaglianze poiché incuranti della platea degli esclusi dal mercato del lavoro, dalla distribuzione dei redditi, dalla ricchezza finanziaria e immobiliare.

Se la politica non opera delle correzioni spostando reddito da una classe all’altra, sostenendo i più poveri, redistribuendo la ricchezza, allargando l’accesso alla conoscenza e alla sanità, l’esclusione sociale è destinata a crescere.

Guardiamo per un momento a cosa è accaduto al nostro paese dal dopoguerra per intervento politico:

 negli anni ’60 si ottiene l’istruzione pubblica per tutti ed è dei ’70 la realizzazione di un servizio sanitario nazionale.

A partire dagli anni ’80, questo processo virtuoso si è interrotto:

 neoliberismo e terza via e, negli anni ’90, l’inizio delle privatizzazioni, sono stati fatali alle classi medie e basse della società.

Il risultato su grande scala del processo che abbiamo sinteticamente descritto è stato proprio l’assottigliamento della classe media, quella in cui si riconosceva la maggioranza della popolazione (il 60% secondo molte stime) e a cui aspirava di appartenere la restante parte.

Si è assottigliata notevolmente, ed è scivolata verso il basso andando a alimentare appunto un’estesa neo plebe.

Contestualmente l’élite, l’1% dei ricchi mondiali, ha aumentato le sue posizioni di vantaggio grazie agli Stati fiscalmente generosi, al predominio della ricchezza finanziaria e delle rendite, al peso della successione ereditaria.

Ma non è tutto.

 Quella classe creativa di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo è anch’essa coinvolta in un processo di inclusione/esclusione.

 La disconnessione tra sapere e potere è, infatti, il fenomeno emergente del nostro tempo:

chi è incluso nella conoscenza non è affatto incluso nel potere, che segue una logica propria, autoreferenziale.

 Il potere si impossessa del sapere e lo utilizza ai propri fini:

l’algoritmo ne è la principale espressione.

Quindi, nonostante la sua crescita progressiva, la classe creativa, sapiente ma priva di potere, erede della società civile hegeliana, è messa in una posizione che rende difficile la sua trasformazione in ‘classe generale’.

Facciamo un esempio utilizzando la triangolazione che si viene a creare tra proprietari delle piattaforme, providers di contenuti e utenti.

Risulta immediatamente evidente che il potere è distribuito in modo asimmetrico: l’utente usa la piattaforma, ma è da essa usato per i dati che fornisce e che sono alla base della profilazione;

 il provider, dal canto suo, fornisce i contenuti ma è pagato solo sulla base di contratti iniqui (lavoro intellettuale sottopagato e privo di garanzie) (Stark, Pais 2020).

Da questo punto di vista, l’utente delle piattaforme è un caso estremo di ‘servitù volontaria’ nei confronti del dominio tecnico e il provider un caso altrettanto estremo di ‘autosfruttamento’ delle proprie capacità lavorative e cognitive.

 I diritti di proprietà intellettuale non tutelano affatto i sapienti, ma i potenti, almeno fintanto che una modifica degli” intellectual property rights” potrà consegnare a chi esercita la conoscenza, cioè la classe creativa, la effettiva titolarità di quanto essa ha saputo produrre.

Ma di questo abbiamo già detto.

Che fare?

Occorre lavorare per una prosperità inclusiva, come sostengono alcuni economisti.

Dani Rodrik e Stefanie Stancheva (2021) ci offrono uno schema semplice e chiaro (tab. 2.1) per correggere il divario tra inclusi ed esclusi, rappresentando la società come suddivisa in tre strati secondo dei criteri più tradizionali dei nostri, ovvero “bassi redditi”, “classe media”, “redditi elevati”.

 Osserviamolo insieme.

 

Tab. 2.1. Uno schema per la prosperità inclusiva.

A quale stadio dell’economia interviene la politica.

Pre-produzione -           Produzione         -   Post-produzione.

Di quale segmento di reddito deve prendersi cura:        

Bassi redditi-          Istruzione primaria, formazione professionale.

            Salario minimo, apprendistato Trasferimenti sociali, reddito minimo garantito, politiche di pieno impiego.

Classe media: Scuola pubblica secondaria e terziaria, formazione continua  Politiche industriali, licenze professionali, training, contrattazione collettiva Assicurazioni contro la disoccupazione, pensioni.

Redditi elevati:       

Eredità, tassazione di donazioni e di immobili.    

Crediti fiscali su ricerca e sviluppo, politiche antitrust   

Politiche fiscali su redditi elevati, ricchezza, impresa.

(Fonte: Rodrik, Stancheva 2021).

 

La colonna più importante della tabella 2.1 è la prima, poiché riguarda lo stadio che precede la fase della produzione.

 È qui che si possono ottenere i più importanti progressi verso una prosperità inclusiva.

Una politica pubblica efficace può ridurre l’esclusione sociale e limitare la creazione di “bad jobs”, di cattivi lavori a bassa o nulla qualificazione elevando l’istruzione e la formazione della neo plebe.

Questo strato, infatti, è andato ingrossandosi non tanto a causa del prevalere di mansioni elementari di cura, assistenza, pulizia o produzione, quanto per la mancanza di politiche che elevano la qualità del lavoro, a partire dalla sua qualificazione.

Va da sé che un simile processo di educazione, se declinato a livello di istruzione superiore e terziaria (universitaria e post-universitaria), può aiutare la classe media a divenire classe creativa, estendendo e approfondendo la sua capacità di elaborare innovazioni e soluzioni responsabili.

 Uno studio americano ha stimato che in 50 anni la quota del reddito nazionale che va ai laureati è passata negli Stati Uniti dal 5% al 18%, mentre quella che va al lavoro dequalificato è scesa dal 57% al 40%.

È importante tenere presente che, tanto quando parliamo di innalzamento dell’istruzione primaria quanto di quella superiore e terziaria, stiamo parlando non solo di educazione, ma di inclusione nella cittadinanza sociale.

C’è poi da considerare l’effetto che avrebbe una reale politica di intervento sulla ricchezza dell’élite, lo strato sociale superiore.

Si tratta di ricchezza ereditata, frutto di rendite, parassitaria, non di ricchezza creata dal lavoro.

Negli ultimi quattro decenni, lo squilibrio a favore di questo strato privilegiato della società è pesante.

In questa tabella non viene considerato un aspetto tra i più essenziali ai fini di una prosperità inclusiva:

 quello dei diritti di proprietà.

Includere i creatori di valore – i creativi, i lavoratori intellettuali, gli scienziati applicati – nella proprietà oggi esclusiva degli imprenditori e degli azionisti, rovesciando la prassi dello share­holder value, rappresenterebbe una riforma dell’impresa e del diritto societario di enorme importanza.

 E includere i lavoratori nella gestione dell’impresa attraverso propri rappresentanti nei consigli (come accade in Germania) o mediante altre forme di partecipazione agli utili (come è avvenuto in Giappone e altri paesi avanzati specie tra gli anni ’50 e’80 del Novecento) sarebbe un potente incentivo per accrescere la produttività sociale dell’impresa – ormai stagnante in molti paesi – e per stabilizzare la domanda di lavoro da parte delle imprese, oggi sottoposta a un eccesso di fluttuazioni e a una frammentazione contrattuale insostenibile.

Ma passiamo ad esaminare la seconda colonna della tabella:

 quella relativa allo stadio della produzione, quello che ha subìto i maggiori cambiamenti nel passaggio da XX a XXI secolo.

Qui si sono affermati quei processi mondiali di dislocazione che hanno portato interi comparti dell’industria a trasferirsi dai paesi avanzati ai paesi arretrati mediante colossali investimenti di capitale.

 Una neo accumulazione primitiva ha interessato dapprima la Corea e le tigri asiatiche, poi la Cina, grazie all’enorme afflusso di capitali Occidentali.

Un processo che ha modificato per sempre la geografia della forza-lavoro mondiale.

In termini concreti:

in Occidente si sono persi milioni di posti di lavoro stabili e ben retribuiti nell’industria ed è emersa una neo plebe dequalificata nei servizi;

 in Oriente è aumentata a dismisura una forza-lavoro a basso costo che lavora in condizioni semi-schiavistiche nelle fabbriche cinesi, vietnamite, malesi, indiane, pakistane, bangladesi nella piena violazione dei diritti umani e sociali.

Precarietà, degradazione del lavoro, nuovi regimi di sfruttamento: questi gli ingredienti qualificanti della ‘grande trasformazione’.

 Se si vuole seriamente invertire la marcia introducendo forme di stabilità, di qualificazione e di tutela minima universali, il salario minimo è uno degli strumenti per stabilizzare i mercati del lavoro, ma la via maestra per sottrarre il lavoro alla precarietà e all’arbitrio rimane la contrattazione collettiva.

Il tanto temuto aumento dei costi del lavoro per le imprese sarà più che compensato da un forte aumento di produttività.

Un ruolo inclusivo rilevante potrebbero giocarlo le politiche industriali di orientamento delle scelte imprenditoriali e di investimento verso produzioni più qualificate e ambientalmente sostenibili.

 Il” carbon footprint”, l’impronta del carbonio di un’impresa o di una città, andrebbe esteso all’intera catena globale del valore includendo i fornitori e i paesi in via di sviluppo (come raccomanda il Parlamento Europeo).

In questo modo interi settori sarebbero riqualificati e lo spettro delle nostre produzioni sarebbe spostato verso l’alto di gamma.           

I risultati sarebbero una ridislocazione mondiale della produzione (il cosiddetto reshoring delle produzioni in passato delocalizzate ne sarebbe solo un esempio, perché molti settori nuovi sono ancora da creare) e un aumento della qualità e della affidabilità dei prodotti e dei mercati.

 A questo si riferiscono, nella seconda colonna della tabella 2.1, i crediti alla ricerca e sviluppo che devono spingere verso queste nuove direzioni tutte le imprese – grandi e piccole – e le filiere – composte di imprese, fornitori, clienti.

 Inoltre, le grandi piattaforme digitali (ad esempio, Amazon o Google) vanno ricondotte alla logica della concorrenza, grazie a una nuova politica antitrust che, impedendone la concentrazione e il monopolio, persegua non l’ideologia del benessere del consumatore, ma l’analisi strutturale dei settori.

Infine, esaminiamo la terza colonna della tabella 2.1, quella più tradizionale della redistribuzione, che abbraccia le classiche politiche di welfare e le politiche fiscali che dovrebbero riequilibrare, a favore degli esclusi, la distribuzione del reddito e della ricchezza.

 È il reddito minimo universale l’orizzonte nuovo e necessario del XXI secolo: un orizzonte che davvero può aiutare gli esclusi, quell’ampia neo plebe che si è formata nell’epoca del lavoro automatizzato e digitale.

Altrimenti si realizzeranno le peggiori profezie e distopie che da Aldous Huxley (1991) in poi hanno prefigurato una società futura di ‘uomini alfa’ e sotto di loro un iceberg sommerso di individui ‘beta’, ‘gamma’, ‘delta’, ‘epsilon’:

 la fabbricazione scientifica pianificata di uomini standardizzati (Schmitt 2001) in una gigantesca struttura castale di esclusi che finirebbe per significare la perdita di ogni umanità.

 

2. Cosmopoliti/locali.

Dopo la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni ’90, si iniziò a parlare di una ‘cultura mondiale’.

I più avvertiti osservarono che, a guardar bene, non era in atto alcun processo di uniformazione: semplicemente la diversità si presentava organizzata.

Per la prima volta il mondo appariva come un unico network di relazioni sociali e tra le varie regioni – ma sarebbe meglio dire continenti – si era creato non solo un flusso di persone o di beni, ma anche una condivisione di significati (o almeno di conoscenze).

 Per la verità, erano le città a integrarsi attraverso fitti scambi economici e a costituire una rete di città globali, come hanno mostrato Zbigniew Brzezinski (1970), Saskia Sassen (1991) e poi molti altri.

Prima di allora, cosmopolita si definiva colui che scavalcava i confini locali per spaziare in un ambito nazionale.

Uno studioso della metropoli come Simmel, a inizio Novecento, si esprimeva in questo senso e più avanti la ricerca di Robert Merton (1957) sui ‘modelli di influenza’ in una media città americana confermava questa visione:

 cosmopolita era colui che adottava un orizzonte più ampio, quello nazionale, rispetto a chi viveva nel ristretto ambito locale.

Tanto che è stato proprio Merton a introdurre nel vocabolario sociologico la coppia di termini cosmopoliti/locali…

 

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