Dubbi sull’élite globale.
Dubbi
sull’élite globale.
WGS:
il nuovo vertice delle élite
per il
Governo mondiale.
Lindipendente.online
– (22-2-2023) – Redazione – Giorgia Audiello - ci dice:
Dal 13
al 15 febbraio scorsi si è svolto a Dubai (EAU) il World Government Summit
(WGS, Vertice del Governo Mondiale), la più recente e aggiornata versione del
più “datato” World.
Economic
Forum di Davos. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, il nome dell’evento suggerisce
più esplicitamente l’intenzione di creare una cooperazione e un’interdipendenza
globale tale da permettere l’instaurazione di un vero e proprio “governo unico globale”,
come del resto ha confermato il magnate Elon Musk intervenendo in videoconferenza
al Vertice.
Il summit ha visto la partecipazione di più di
250 ministri e più di 10.000 funzionari governativi, oltre a quella di 80
organizzazioni internazionali, regionali e governative.
Al
summit hanno preso parte personalità quali Klaus Schwab, Fondatore e Presidente
Esecutivo del World Economic Forum, nonché membro permanente del
WGS;
Kristalina
Georgieva, amministratore
delegato del Fondo monetario internazionale;
Ngozi Okonjo-Iweala GCON, Direttore generale
dell’Organizzazione mondiale del commercio;
Dr
Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità.
Lo
slogan dell’edizione 2023 era “Dare forma ai governi del futuro”, sottendendo
implicitamente la demolizione degli Stati sovrani attraverso un modello di
governance imposto dall’alto.
Sono
sei i temi principali trattati durante le sessioni dell’incontro: «l’accelerazione dello sviluppo e
della governance, il futuro delle società e dell’assistenza sanitaria,
l’esplorazione delle frontiere, il governo della resilienza economica e della
connettività, la progettazione e la sostenibilità della città globale e la
definizione delle priorità Apprendimento e lavoro»,
come
si legge sul sito dell’organizzazione.
All’interno
delle sessioni si sono quindi approfonditi i temi cardine su cui si fonda la “governance globale” già affrontati ampiamente a Davos,
quali la
digitalizzazione di tutti gli aspetti della vita umana e sociale, il clima e
l’economia verde, le epidemie, i vaccini e l’intelligenza artificiale.
Sono
questi, infatti, gli elementi in grado di accelerare quell’interconnessione e
cooperazione globale volta a dare vita ad un governo sempre più unificato e diretto da una élite globale coincidente
soprattutto con il potere finanziario.
In altre parole, sono quelle che il WEF ha definito “sfide globali” per affrontare le quali è
necessario affidarsi
alla governance 4.0 che prevede un governo sempre più accentrato e
verticalizzato in cui il ruolo dei governi è destinato ad essere soppiantato
dalle grandi istituzioni globali pubbliche e private.
L’intervento
di Klaus Schwab al Vertice ha poi tolto ogni dubbio sui progetti futuri che la cupola internazionale sta tentando
di imporre all’intera umanità, ossia l’alterazione della stessa natura umana per mezzo delle
biotecnologie, delle neuroscienze e dell’ingegneria genetica, le quali promettono la possibilità
di alterare il genoma umano, di modificarne il Dna e, addirittura, di leggere i
pensieri della mente.
Nel
loro insieme questi elementi concorrono alla definizione del cosiddetto “transumanesimo”.
Già
nel suo libro dedicato alla WGS: il nuovo vertice delle élite per il Governo mondiale Quarta
rivoluzione industriale, Schwab scriveva che «Il fatto che ora sia molto più facile
manipolare con precisione il genoma umano all’interno di embrioni vitali
significa che è probabile che in futuro vedremo l’avvento di neonati progettati
che possiedono particolari caratteristiche o che sono resistenti a una
specifica malattia».
Al WGS
è stato spiegato, invece, che «Ci stiamo muovendo lungo un percorso di sviluppo
esponenziale. L’intelligenza artificiale è una manifestazione di questo sviluppo, ma
non solo l’intelligenza artificiale, ma anche i meta universi, le nuove
tecnologie spaziali, la biologia sintetica.
La
nostra vita tra circa dieci anni sarà molto diversa, sarà influenzata da tutte
queste tecnologie. Chi le possiede, in un certo senso, possiederà il mondo».
Non è mancato poi un riferimento alle grandi
trasformazioni geopolitiche in corso, tra cui lo storico passaggio al “mondo multipolare”
accelerato dalla guerra in Ucraina.
Secondo
Schwab, i cambiamenti politici in atto nel mondo «stanno trasformando il globo
da un mondo unipolare a un mondo multipolare.
«Questo
ci impone di rafforzare la cooperazione e migliorare il coordinamento a livello
di governi, paesi e istituzioni per mantenere i quadri della cooperazione internazionale».
A
mettere in discussione il progetto di un governo globale, alterando quindi l’atmosfera del summit,
è stato il magnate Elon Musk, fondatore di Tesla e Space X.
«So che questo si chiama Vertice del governo mondiale, ma penso che dovremmo essere un po’
preoccupati nell’andare troppo nella direzione di un unico governo mondiale»,
ha affermato, infatti, il multimiliardario.
Questo perché un unico governo mondiale
potrebbe comportare un «collasso della civiltà»:
se, infatti, si avesse una «singola civiltà», il “crollo” di quest’ultima
coinvolgerebbe l’intero sistema e nulla ne resterebbe al di fuori.
Musk
ha fatto l’esempio della caduta di Roma nel V secolo e del mondo islamico:
«Mentre Roma stava cadendo, l’Islam stava
crescendo, quindi avevi un califfato che andava bene mentre Roma andava
terribilmente.
E
questo finì per essere una fonte di conservazione della conoscenza e di molti
progressi scientifici».
Ha
aggiunto quindi che «se siamo troppo una singola civiltà, allora l’intera cosa
potrebbe crollare».
Le
intenzioni dell’élite globale circa l’intenzione di instaurare una governance
sempre più unificata – con la relativa soppressione dei governi nazionali –
sono ormai alla luce del sole, sebbene i rapidi mutamenti negli assetti
internazionali e l’opposizione di una minoranza potrebbe quantomeno rallentare
un progetto che il WEF persegue da sempre e che dal 2013 ha una sua più esplicita
sede di dialogo e di progettazione nel WGS.
[di
Giorgia Audiello).
POPULISMI.
La
rabbia contro
le
élite.
Ilsole24ore.com
- Helmut K. Anheier – (26 ottobre 2017) – ci dice:
Come
possiamo dare senso a un mondo che negli ultimi dieci anni si è sottratto
all’idea condivisa da politici e intellettuali che fosse emerso un ordine
globale immutabile, per quanto imperfetto, dopo la Guerra fredda?
I quattro libri presi in esame rappresentano
quattro risposte a questa domanda. Ma tutti partono dalla premessa che per
rispondere a tale quesito bisogna necessariamente comprendere la perdita di
unità e coerenza dell’Occidente.
E
ciascun libro, pur offrendo prospettive diverse, è alle prese con tre questioni
comuni al centro dell’attuale malessere politico dell’Occidente.
La
prima: la
crescente consapevolezza popolare e intellettuale che qualcosa non funzioni
nelle società occidentali.
Nella
sua introduzione a “The Great Regression”, Heinrich Geiselberger, curatore
della casa editrice Suhrkamp Verlag, cita il fu Ulrich Beck:
“È
solo quando l’ordine mondiale crolla che le persone iniziano a pensarci”.
Beck faceva riferimento al capitalismo
liberale dei mercati, l’ordine era in ascesa durante “gli anni d’oro ’90” fino
ai 2000 – un periodo presumibilmente post-storico che era iniziato con il
crollo dell’Unione sovietica.
La
nostra certezza incondizionata su quell’ordine cessò improvvisamente con la
crisi globale finanziaria del 2008.
La
seconda riguarda
il fallimento collettivo delle élite economiche e politiche nei diversi paesi e
regioni.
A
prescindere dal fatto che il potere delle élite rifletta o meno il valore o il
privilegio, la meritocrazia o l’eredità, di fatto gestiscono la società.
Quando pensano troppo a se o mancano di
autorità morale, i cittadini iniziano a cercare altri rimedi, alcuni in modo più
produttivo di altri.
La
terza questione è l’ideologia reazionaria – le varie sfumature del populismo e del
nazionalismo esclusivo che origina da sentimenti endemici di frustrazione e
delusione – su cui hanno facilmente fatto leva gli imprenditori politici,
soprattutto di destra.
Quando
le persone si sentono politicamente allo sbando ed emarginati nel quadro di una
crescente disuguaglianza economica, potrebbero dar seguito ai propri
risentimenti avvallando i fantasiosi programmi di politici populisti.
Punto
di rottura.
Non è
in dubbio il fatto che il mondo del 2017 sia diverso da quello del 2007.
Ma
dove siamo esattamente, e come siamo arrivati a questo punto?
Innanzitutto,
vale la pena ricordare che la pace non è durata molto dopo la fine della Guerra
fredda.
La
minaccia del terrorismo e la prosecuzione di nuove guerre in Asia centrale e
nel Medio Oriente hanno portato nuove insicurezze.
E poi
le tre decadi di globalizzazione durante le quali la Cina è emersa come la
seconda potenza economica del mondo hanno subito un brusco arresto a causa
della crisi del 2008.
La
crisi finanziaria si è rivelata essere il maggiore stress test economico del
mondo dopo la Grande Depressione, nonché la maggiore sfida per i sistemi politici e sociali
dopo la Seconda Guerra mondiale.
Non ha
solamente minacciato mercati finanziari e valute, ma ha altresì messo a nudo
una serie di carenze sul fronte delle politiche pubbliche e aperto le porte a
un periodo di serrata austerità, crescente disoccupazione e sistemi di
previdenza sociale in difficoltà.
La globalizzazione sembrava essere in
pericolo, insieme all’agenda neoliberale del cosiddetto Consenso di Washington. Alcuni commentatori, come il
sociologo ed economista tedesco Wolfgang Streeck, hanno persino proclamato
l’imminente fine del capitalismo stesso.
Allo
stesso tempo, Internet, i social media e altri progressi tecnologici hanno
accorciato le distanze del mondo cambiando profondamente il modo di comunicare.
Eppure,
se da un lato le persone sono senza dubbio più libere, dall’altro sono anche
meno sicure.
Come tali, alcuni hanno risposto alla
marginalizzazione economica e politica unendosi a ciò che Streeck definisce “great unwashed”, ossia la plebe, una massa di individui non istruiti
– quelli
che Hillary Clinton chiamava un “branco di miserabili”.
Durante
questo periodo di cambiamento epocale, le élite globali, o almeno occidentali,
hanno apparentemente perso il copione, e con esso il controllo sull’obbedienza
dei cittadini.
Per
capire cosa poter fare bisogna prima capire come si è arrivati a quel punto.
La
grande paura.
In Age
of Anger,
il saggista e romanziere indiano “Pankaj Mishra” offre un’insolita e alquanto
sconcertante diagnosi di una malattia che non ha apparentemente alcun rimedio.
Mishra esamina il presente attraverso la storia delle
idee, e
giunge alla conclusione che ciò che stiamo vivendo non sono nient’altro che le ultime
conseguenze del fallimento a lungo termine dell’Illuminismo, e del processo di
modernizzazione riversato sul mondo.
Nella
visione di Mishra, la storia della modernizzazione non è una storia di costante
miglioramento del benessere e di inevitabile realizzazione di libertà, bensì
una storia di brutalità e dominazione – a livello domestico con un’élite
autoreferenziale e subdola, a livello internazionale con l’arroganza e il
colonialismo occidentale.
Mishra
schiera pensatori del calibro di Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Georges
Sorel, Johann Gottfried Herder e Friedrich Nietzsche per dimostrare dove le
élite hanno ripetutamente commesso errori e peggiorato le cose.
E
tende un filo saldo di distruzione dalle sanguinose rivoluzioni del XVIII e XIX
secolo fino al regno ancora più sanguinoso del fascismo e stalinismo nel XX
secolo.
L’era
corrente, poi, è un tassello di una storia centenaria di ignoranza, terrore e
brutalità inflitta dalle élite occidentali.
Mishra
scrive in modo pungente, e le sue argomentazioni sono talvolta brucianti, talvolta
profondamente viziate.
Le sue
prove sono frammentarie e selettive alla meglio, così come la sua lettura dei
tanti filosofi e pensatori cui fa riferimento.
Per Mishra, il retaggio dell’Illuminismo non è
incarnato nelle odierne società civili libere e individualistiche, quanto nella
perversione delle egoiste élite – punto.
Nel
fare questa ampia e imprecisa dichiarazione, Mishra mostra di essere poco
interessato alle prove empiriche, e non si preoccupa affatto di considerare
contro-argomentazioni.
Per
sposare la sua dichiarazione, dovremmo accettare che il progetto integrazionista della
moderna Unione europea sia un continuum dello stalinismo (una tesi spesso sentita dai
populisti dell’Europa centrale e dell’Est);
e che i precedenti economici e politici dei
paesi occidentali sono stati quasi del tutto negativi.
Age of
Anger è un libro scoraggiante, perché in qualche modo tendenzioso, e perché
Mishra si rifiuta di offrire una soluzione.
Iniziando
e finendo con rabbia, il libro si mostra per lo meno fedele al proprio titolo.
I
nuovi reazionari.
In “The Shipwrecked Mind,” lo scienziato politico della
Columbia “Mark Lilla” offre una valutazione nel suo insieme più attenta ed
equilibrata del momento attuale.
Anche
lui consulta gli scritti di grandi pensatori, come Franz Rosenberg, Eric
Voegelin e Leo Strauss, ognuno dei quali rispondeva ai cambiamenti economici,
politici e sociali dell’epoca da reazionario, invece che da rivoluzionario.
Nella
mente di Lilla, i reazionari non devono essere dei conservatori a livello
politico.
Possono
essere, come accade spesso, radicali, ma si oppongono alla tendenza della
modernità di spingere le istituzioni umane in direzioni che ritengono
discutibili o avventate.
Vanno
contro corrente, e quindi finiscono in breve tempo per “naufragare”. Proprio
perché non sono in grado di portare realmente indietro le lancette
dell’orologio, i reazionari fungono da fine utile come contrappunto per gli
impetuosi rivoluzionari.
La loro idealizzazione del passato aiuta a
plasmare il presente – o almeno a darne una lettura.
Ai
reazionari piace porre la domanda retrospettiva: “Cosa succederebbe se..?”.
E come
dimostrano i brillanti capitoli di Lilla sulla Riforma, si tratta di una
domanda che spinge lettori o ascoltatori a un excursus intellettuale.
Ad
esempio, come si sarebbe evoluta la civiltà occidentale se le tesi di Martin
Lutero avessero scatenato una riforma del Cattolicesimo invece che la nascita
del Protestantesimo?
Certamente
la Guerra dei Trent’anni non avrebbe devastato l’Europa nel XVII secolo.
Ma una
possibilità ancora più profonda è che, senza l’etica del lavoro protestante, il
capitalismo non si sarebbe sviluppato come invece è accaduto.
Il paese stesso di Lutero, la Germania,
potrebbe non esistere oggi nella sua attuale forma.
E il colonialismo – che ha arricchito
l’Europa, e soprattutto l’Inghilterra – avrebbe potuto seguire un corso del
tutto differente.
Ma
questo tipo di esercizio storico serve a capire il mondo di oggi?
Prendiamo
il capitolo di Lilla sulla Francia.
Dalla
fine degli anni ’60, scrive, la Francia vive dei cambiamenti “che non piacciono
quasi nessuno, e né gli intellettuali di sinistra né i politici centristi
sembrano capaci di affrontarli in modo soddisfacente”.
La
storia ci dice che, quando accade questo, i reazionari assumono un ruolo
politico-interpretativo, offrendo un quadro e una visione del mondo alternativa
per comprendere il profondo malcontento dei cittadini.
Oggi,
gli intellettuali e gli scrittori francesi reazionari come Éric Zemmour e
Michel Houellebecq stanno riempiendo il vuoto narrativo.
E così
anche Marine Le Pen del Front National di estrema destra, per non parlare dei
pensatori conservatori americani che prendono parte all’“alt-right”.
Chiaramente,
la politica reazionaria può essere consequenziale quanto la politica
rivoluzionaria, soprattutto quando i reazionari fanno uso di forme moderne di
comunicazione.
Come
ci hanno insegnato i populisti del passato e del presente, i metodi
all’avanguardia possono essere sempre impiegati per creare idee ataviche.
La
mente populista.
Gli
intellettuali reazionari sono spesso solo a un passo dall’essere populisti – o
almeno dall’essere catturati da ideologie populiste.
Ma
cosa definisce la persuasione populista?
A questa domanda tenta di dare una risposta
Jan-Werner Mueller, scienziato politico di Princeton, in “What is Populism”?
Mueller
sostiene che il populismo sia all’origine del regresso democratico così
apparente in paesi quali Russia, Ungheria e Polonia, nonché nelle democrazie
mature quali Stati Uniti, Francia, Germania, Finlandia e Austria.
Il suo
libro offre un’analisi del fenomeno concisa e scevra da qualsiasi gergo oltre a
una approfondita definizione del termine.
I
populisti, spiega Mueller, “insistono sul fatto di essere gli unici
rappresentanti legittimi” del “popolo”.
Sono
“anti-elitari” e “anti-pluralisti”, e le loro posizioni sono “immuni alla
confutazione empirica”.
Il loro unico interesse nei processi
democratici è di essere “confermati per ciò che hanno già deciso essere la
volontà delle persone reali”.
E
spesso puntano all’“occupazione dello stato, al clientelismo, alla corruzione
di massa e alla soppressione di una società civile critica”.
Oltre
a delineare una spiegazione chiara e puntuale di populismo, Mueller dà un
consiglio ai “difensori della democrazia liberale”.
Nella
sua visione, gli anti-populisti dovrebbero identificare e colmare i divari di
rappresentazione democratica spesso sfruttati dai populisti.
E per riconquistare gli elettori insoddisfatti
serviranno politiche realistiche in grado di affrontare direttamente le loro
preoccupazioni.
Ovviamente
si tratta di un progetto a lungo termine, il cui successo dipenderà da se e
quando l’ondata populista si infrangerà contro la sabbia della realtà politica.
In
pratica, è sbagliato focalizzarsi sul perché il premier ungherese Viktor Orbán
o il presidente Usa Donald Trump non siano adatti all’incarico, o su quanti
danni possano infliggere al mondo.
Sarebbe
meglio concentrarsi sui loro adepti e parlare onestamente dei motivi di
malcontento pubblico, come ha fatto Emmanuel Macron quando ha inaspettatamente
vinto le presidenziali francesi in primavera.
La
malattia autoimmune della democrazia.
The
Great Regression, un volume di saggistica che riunisce la voce di diversi autori, offre
prospettive che trattano problematiche culturali, politiche ed economiche.
In “Democracy fatigue” (la fatica della democrazia), l’antropologo indo-americano Arjun
Appadurai punta
a spiegare perché la democrazia liberale venga sempre più rifiutata a favore dell’autoritarismo
populista.
Innanzitutto,
osserva, i leader populisti hanno posto un nuovo accento sulla sovranità
culturale.
In Russia, le richieste di uno “spazio
culturale unificato” non sono diverse da quelle che ora si sentono in Turchia,
India, in alcuni paesi europei e negli Usa.
In un
mondo globalizzato, sostiene Appadurai, la sovranità economica non è più la
base della sovranità nazionale.
Come
tali, i leader populisti intendono “promettere la purificazione culturale
nazionale come strada verso la potenza politica globale”.
Se da
un lato gli elettori possono essere d’accordo con le richieste populiste di
“purificazione”, dall’altro potrebbero usare il proprio voto come mezzo per “uscire”
dalla democrazia.
Come ha dimostrato l’economista Albert O. Hirschman nel
suo libro del 1970 Exit, Voice, and Loyalty, gli elettori insoddisfatti del
sistema possono abbandonarlo – ecco l’exit, ossia l’uscita – oppure possono
tentare di modificarlo – facendo sentire la propria voce.
Appadurai giunge alla conclusione che mentre i leader populisti
rifiutano la democrazia perché impedisce loro di perseguire il potere, i loro seguaci sono ampiamente
vittime della “fatica della democrazia”.
Per
leader e seguaci, la causa nazionalista di egemonia culturale è terreno comune.
Nel
suo saggio “Majoritarian futures” (futuri maggioritari), lo scienziato sociale
bulgaro Ivan Krastev affronta i paradossi della democrazia liberale in un
contesto di approfondimento della globalizzazione.
Nelle
odierne democrazie liberali, osserva, i cittadini si sentono sempre più
impotenti, e ciò li ha resi cinici rispetto al sistema stesso.
Il risultato è che le elezioni libere, pur
garantendo inclusione politica per i gruppi di minoranza, hanno altresì
iniziato a erodere i blocchi elettorali esistenti, mentre gli elettori delle
fasce rurali e della classe operaia si aprono sempre più ai movimenti di destra
e ai partiti populisti.
Un
altro paradosso è che la svolta populista viene perlopiù alimentata dai
tradizionali elettorati di sinistra.
A
causa del cambiamento demografico e a una percepita “rivoluzione del migrante”,
gli elettori della classe operaia temono che l’ordine morale si stia
sgretolando attorno a loro.
Secondo Krastev, è questa minaccia percepita, e non
i reali eventi sul campo, a scatenare le reazioni ostili verso gli outsider
come quelle viste in molti paesi europei in risposta agli influssi di profughi.
Il
populismo può manifestarsi in maniera diversa a seconda del paese.
Ma come dimostra Krastev, i regimi
maggioritari emersi in Ungheria, Polonia e in altri paesi presentano
caratteristiche comuni, inclusa la separazione tra democrazia e liberalismo e
lo smantellamento delle istituzioni che mantengono l’equilibrio tra i vari
poteri.
Promesse
mancate.
In un
altro saggio, “The return of the repressed as the beginning of the end of neoliberal
capitalism”
(il ritorno degli oppressi come inizio della fine del capitalismo neoliberale),
Streeck
sferra un’invettiva quasi leniniana sulla nostra attuale era.
Nella
sua visione, l’ascesa del neoliberalismo – inclusa la creazione dei mercati
liberi e i sistemi di global-governance – era inevitabile.
Il
problema è che il neoliberalismo non ha mantenuto le promesse.
Anzi,
sostiene Streeck, ha agevolato la transizione verso la post-democrazia, e ha
dato il via a un’era di politica post-fattuale in cui le “menzogne degli esperti” sono utilizzate per garantire il
consenso popolare e la resistenza al silenzio.
Per
Streeck questo processo è iniziato molto tempo prima dell’ascesa delle “fake
news” e del disprezzo per gli esperti che hanno spinto il voto sulla Brexit nel
Regno Unito e l’elezione di Trump negli Usa.
Il ritorno della plebe dall’apatia politica al
voto popolare, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, è la prova del
diffuso malcontento rispetto alla globalizzazione e alle storie neoliberali in
generale.
Per
Streeck, dipingere
tali elettori con un termine di ampia portata come populismo non è
particolarmente d’aiuto, perché ignora il fallimento cognitivo delle élite
internazionali di fronte al “ritorno degli oppressi”.
Streeck considera l’etichetta populista come un modo per respingere una nuova
opposizione, affermando al contempo l’autorità morale dell’internazionalismo liberale
e del capitalismo globale.
Il che non significa che secondo
Streeck i populisti riusciranno a mettere fine alla crisi del capitalismo, anzi non faranno che complicare
l’attuale “interregno”.
Infine,
Streeck conclude che “la rieducazione antinazionale dall’alto produce il
nazionalismo anti-elitario dal basso”.
I progetti come l’integrazione europea possono
funzionare solo con l’appoggio dei cittadini; non possono semplicemente essere
imposti.
Come
Mueller, anche Streeck consiglia alle élite politiche di focalizzarsi meno
sullo spauracchio populista e più sui timori di un elettorato che si è
risvegliato.
Dalla
storia al futuro.
Va
detto che tutti e quattro i libri sono perfettamente leggibili e non
appesantiti da troppo gergo.
Sono
più efficaci quando le dichiarazioni restano focalizzate e modeste, come nei
saggi di Appadurai
e Krastev,
e più deboli quando eccedono, come nel caso di Mishra.
In
generale, un approccio del tipo “cosa succederebbe se…?” sulla scia di Lilla sarebbe stato auspicabile, non per considerare le realtà
controfattuali, ma per capire dove le cose hanno iniziato ad andare storto in
Occidente.
Leggendo
questi libri viene in mente Alexander Gerschenkron, il grande economista
russo-americano, che sosteneva la necessità di una multa su parole come “necessità” o
“necessario” negli scritti storici. Pochi eventi o accadimenti sono necessari o
inevitabili, perché la storia umana non aderisce a una legge ferrea che non
lascia spazio ad alternative.
La
crisi finanziaria globale, ad esempio, non era necessaria; avrebbe potuto essere evitata con
una migliore governance finanziaria.
Allo
stesso modo, anche la Primavera araba non era destinata a fallire;
una
migliore diplomazia avrebbe potuto produrre un risultato del tutto differente. Anche la nomina di Hitler a
cancelliere della Germania nel 1933 non era inevitabile, dato che il Partito
nazista ottenne solo un terzo dei voti nelle elezioni federali del 1932.
L’ascesa
di Hitler fu favorita dalla politica del rischio calcolato appoggiata dalle
élite politiche tedesche dell’epoca.
E il resto, come si dice, è storia.
Analogamente,
occorre fare attenzione quando si prevede la scomparsa dell’Occidente, la fine
del capitalismo o il crollo della democrazia liberale.
Rientra
nel potere delle élite prendere decisioni che portino beneficio a tutta la
società, e non gli interessi meschini.
Le élite hanno sicuramente fallito in tal senso
nell’ultimo quarto di secolo, ma non devono continuare a sbagliare in futuro.
La
prova è in ogni esempio di società che ha corretto il corso. Negli Usa sono state messe in atto
una serie di azioni positive per rimediare al retaggio della schiavitù e della
segregazione razziale nel paese.
In
Europa l’Ue è stata creata per trascendere una lunga storia di ostilità
nazionalista e guerra.
In Sud
Africa, l’apartheid fu abolita in modo tale da riconciliare la minoranza bianca
con il governo a maggioranza nera.
In Germania, l’Ostpolitik preparò la strada per la
caduta del Muro di Berlino.
In Spagna, la morte del dittatore Francisco
Franco aprì la strada alla nascita di una vibrante democrazia costituzionale.
Argentina
e Grecia hanno seguito percorsi simili dopo il collasso delle rispettive giunte
al governo.
E in
Canada, il governo ha mantenuto l’unità nazionale attraverso il compromesso con
i movimenti separatisti del Québéc.
Il più
delle volte le élite hanno positivamente fatto la differenza nel mondo; e
talvolta hanno agito per prevenire la deriva culturale, protetto le
tradizionali fonti di identità e affrontato controversie politiche.
Quando si decide a chi affidare la gestione
delle nostre società, è comprensibile che tanti, intorbiditi dalla crescente
precarietà della vita, dei mezzi di sussistenza e dell’identità, salgano su questo treno della
perfidia.
Ma questa non è l’unica storia che valga la
pena tenere a mente.
(Helmut K. Anheier è presidente e
professore di sociologia presso la Hertie School of Governance di Berlino.)
“Project Syndicate, 2017. www.project-syndicate.org)
-------------------
-
Heinrich Geiselberger (a cura di), The Great Regression, Polity, 2017 (La grande
regressione, La Feltrinelli, 2017).
- Mark Lilla, The Shipwrecked Mind: On Political
Reason, New York Review of Books, 2016.
- Pankaj Mishra, Age of Anger: A History of the
Present, Penguin, 2017 (L'età della rabbia, LaFeltrinelli, in uscita il 30
gennaio 2018).
- Jan-Werner Müller, What is Populism?
University of Pennsylvania Press, 2016 (Cos'è il populismo? Università
Bocconi Editore, 2017).
Nuovo
ordine mondiale,
teoria
della cospirazione
e
forza di Internet.
Ilsole24ore.com
- Giancarlo Elia Valori – (25/07/2021) ci dice:
Internet
è facile da far fermentare nell’opinione pubblica ed è esattamente il terreno
fertile per le teorie del complotto che sono sufficienti per influenzare la
politica e persino lo sviluppo politico.
Giancarlo Elia Valori ripercorre le teorie
sugli Illuminati fino al Gruppo Bilderberg che secondo le teorie cospirazioniste
sono alla guida del mondo.
“Gli Illuminati, una misteriosa
organizzazione internazionale composta dalle migliori élite politiche e sociali
del mondo, controlla il funzionamento del mondo intero dietro le quinte”.
Questa
è la teoria della cospirazione più famosa al mondo sul Nuovo ordine mondiale.
Per
centinaia di anni, le leggende sugli Illuminati sono state diffuse e molte
persone oggi credono che gli Illuminati esistano ancora.
Si
crede che gli Illuminati coprano vari campi come la politica globale, gli
affari militari, la finanza e i mass media controllino il processo storico del
mondo intero.
L’obiettivo
finale è stabilire un Nuovo ordine mondiale.
Nessuno
può provarlo, ma molte persone ci credono.
Questa
è la cosa più paradossale delle teorie del complotto.
Nel
film del 2009,” Angeli e Demoni” – basato sull’omonimo best seller di “Dan
Brown”, il professor Langdon, interpretato da “Tom Hanks”, si è parlato della storia degli
Illuminati, che si suppone siano nati in Europa nell’era dell’Illuminismo.
Vi erano fisici, matematici e astronomi che
mettevano in dubbio gli “insegnamenti errati” dell’autorità della Santa Sede e si dedicavano al campo scientifico
della ricerca della verità.
Alla
fine, gli Illuminati sono stati costretti a diventare un’organizzazione
clandestina e hanno continuato a reclutare membri per centinaia di anni fino ad
oggi.
In “Angeli
e Demoni”, i fatti storici sono chiaramente discutibili, ed il film apparve
dopo la grande crisi economica del 2007-2008.
La
teoria della cospirazione sul Nuovo ordine mondiale circola da molto tempo ed è
ricca di teorie misteriose che, però, convincono molte persone impotenti e
insoddisfatte per lo stato attuale del pianeta.
Gli
Illuminati, che sostengono l’istituzione di un Nuovo ordine mondiale,
attraverso la pianificazione di una serie di eventi politici e finanziari (si
dice che lo tsunami finanziario dei già menzionati 2007-2008 sia stato
pianificato dagli Illuminati), tentano di influenzare il corso della storia
mondiale, e infine stabilire un governo mondiale autoritario.
I
sostenitori della teoria del Nuovo ordine mondiale credono che anche il potente
governo degli Usa ora sia solo un governo fantoccio.
Mentre un altro “governo ombra” composto da
poche persone prende decisioni atte a mutare le sorti del pianeta.
Si
potrebbe pensare che tutto quanto sopra affermato siano solo teorie
strampalate.
Tuttavia,
molte persone pensano che questo sia vero.
Secondo
un sondaggio del 2013 condotto dalla “Public Policy Polling Foundation”, il 28%
degli elettori statunitensi ritiene che il Nuovo ordine mondiale stia
effettivamente affermandosi.
“Brian
L. Keeley”,
un professore di filosofia al “Pitts College,” che si dedica allo studio delle
moderne teorie della cospirazione, crede che una caratteristica importante dei
teorici della cospirazione sia che citino alcuni episodi banali e trascurati
per poi proporre una spiegazione perfetta rispetto a un’imbarazzata risposta
ufficiale.
Il
motivo per cui la spiegazione della teoria della cospirazione può essere
ampiamente diffusa è che non ha alcun processo di argomentazione da negare.
È solo un giudizio che salta direttamente
dall’ipotesi alla conclusione.
Nel processo
di argomentazione, essa è solo un’interpretazione soggettiva dell’evento.
Nonostante
ciò, per l’opinione pubblica che non comprende appieno l’incidente, la teoria
del complotto fornisce una “spiegazione” per la parte sconosciuta
dell’incidente suddetto, e questa “spiegazione” stessa non può essere negata
(perché la sua stessa esistenza non è supportata da reali argomenti).
Pertanto è riconosciuta l’argomentazione
valida da molta gente.
Ad
esempio, nessuno ha prove sostanziali per dimostrare che gli Illuminati
esistano realmente, ma nessuno può provare che gli Illuminati siano puramente
fittizi. Pertanto,
non puoi negare la sua esistenza, perché la sua esistenza è “perfezione senza
evidenza”.
L’editorialista
“Martha Gill” ha scritto su “The Guardian”, descrivendo gli Illuminati come
l’organizzazione di teoria della cospirazione più duratura nella storia del
mondo.
“Le
teorie della cospirazione relative alla missione di sbarco sulla luna del 1969,
all’assassinio di Kennedy, agli attacchi dell’11 settembre, ecc., sono tutte
limitate a un tempo, spazio e luoghi specifici.
Ma le
teorie della cospirazione che supportano l’esistenza degli Illuminati possono
collegarle.
Però qualsiasi cosa su queste connessioni sono
difficili da dimostrare”.
In altre parole, i sostenitori delle” teorie
del complotto” possono avere un’immaginazione comune e attribuire tutto a
questa organizzazione, in modo che ogni fenomeno irrazionale nel mondo possa
essere spiegato.
Sebbene
nessuno possa provare la reale esistenza degli Illuminati, esiste davvero un
presunto “governo
ombra globale” nel mondo il cui nome è il Gruppo Bilderberg.
Il “Gruppo
Bilderberg tiene ogni anno un incontro privato di livello mondiale e tra i
partecipanti vi sono élite di tutti i ceti sociali come governo, affari, media,
scienza e tecnologia.
Conosciuta
come la “Conferenza
più misteriosa del mondo”, il Gruppo Bilderberg invita ogni anno diversi personaggi
politici e economici famosi a partecipare alle proprie riunioni.
Il
principe” Bernhard van Lippe-Biesterfeld” (1911-2004) tenne il primo incontro
nel 1954.
Poiché
la sede dell’incontro si trovava nell’”Hotel Bilderberg” a Oosterbeek, il suo
nome fu utilizzato come denominazione del gruppo.
L’esistenza
del Gruppo Bilderberg non è un segreto, ma il contenuto discusso nelle
conferenze è assolutamente confidenziale e i principali media non sono in grado
di riferire sui contenuti dell’incontro.
Il
Gruppo Bilderberg rilascia ogni anno un comunicato stampa per presentare i
partecipanti alla conferenza e lo schema degli argomenti.
Nel corso degli anni, i partecipanti sono
venuti da molti luoghi, tra questi il principe “Filippo d’Edimburgo”
(1921-2021) della famiglia reale britannica, il principe ereditario” Carlo”, i
precedenti primi ministri britannici, il presidente francese “Macron”, il
cancelliere tedesco “Merkel”, e gli ex presidenti degli Usa, “Bush”, “Clinton”,
e pure “Bill Gates” ed altri giganti di Internet erano tra gli ospiti. Vi sono stati anche degli italiani,
come pubblicato anni fa su un quotidiano del nostro Paese.
La
conferenza 2018 si è tenuta a Torino, in Italia, a giugno. Secondo la descrizione del sito web
ufficiale del Gruppo Bilderberg, gli argomenti principali includono il populismo europeo, lo sviluppo
dell’intelligenza artificiale, la tecnologia dei computer quantistici e l’era
della “post-verità”.
Naturalmente,
il contenuto effettivo e i risultati della discussione dell’incontro non sono
mai stati riportati.
Pertanto,
il “Gruppo Bilderberg” è diventato naturalmente un locus in cui i teorici della
cospirazione vogliono trarre materiali.
Essi
descrivono il Gruppo Bilderberg come una vera prova della “teoria che un numero
molto piccolo di élite controlli il mondo”, ed i partecipanti stiano
pianificando un “Nuovo ordine mondiale”.
In
merito a cose siano facciamo alcuni esempi.
Nel
giugno 2018, anche la famiglia reale britannica è stata coinvolta in teorie
cospirative.
Quando il principe Harry e sua moglie Meghan
hanno assistito a uno spettacolo, sono stati catturati dalla telecamera
immobili, come due robot rigidi e ottusi.
Le
clip correlate sono diventate virali su Internet in seguito e i netizen (cittadini
della rete) erano in subbuglio:
molte
persone credevano che gli illustri membri della famiglia reale fossero in
realtà robot sviluppati dall’alta tecnologia.
Tuttavia,
la direzione del museo di Londra, “Madame Tussauds”, in seguito ha spiegato l’arcano
dichiarando che “Harry” e “Meghan” erano interpretati solo da due attori che
sul volto indossavano maschere di cera a somiglianza estremamente alta, tutto per promuovere una mostra di
statue di cera, ed inavvertitamente hanno causato un putiferio.
In
quel breve video, “Harry” e “Meghan” non cambiavano aspetto facciale, le loro
espressioni erano rigide, proprio come robot.
Di
conseguenza, i teorici della cospirazione hanno usato questo come prova che
erano robot segretamente fatti costruire dalla famiglia reale britannica.
Tale
argomento è un’estensione delle “prove banali” di cui sopra.
I
fautori dell’argomento ignorano qualsiasi procedura di argomentazione e
traggono direttamente la conclusione finale attraverso le anzidette “prove
banali”.
E questa conclusione è di grande attualità e
abbastanza accattivante.
Con la
rapida diffusione di Internet, la “verità rapida” sarà naturalmente
riconosciuta e ricercata da molte persone.
Credo
che molte persone ricordino ancora l’“Effetto Mandela” che si è diffuso
selvaggiamente su Internet nei primi anni come falso ricordo.
Si
ritiene che il nome “Effetto Mandela” derivi da” Fiona Broome”,
un’autoproclamata “consulente soprannaturale”, che ha creato un sito web
chiamato “Effetto Mandela”.
I
sostenitori dell’“Effetto Mandela” affermano di “ricordare” che l’ex presidente
sudafricano Mandela morì in prigione negli anni Ottanta.
Ma in realtà, dopo essere stato scarcerato, Mandela è
stato presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999 ed è morto nel dicembre 2013.
Allora
perché qualcuno dovrebbe credere a questa affermazione apparentemente assurda?
Internet
è diventata una piattaforma di supporto con molti contenuti errati (fake news),
irragionevolezza e mancanza di giustificazione.
Quando qualcuno ha condiviso questo “falso ricordo”
con altri su Internet, molte persone hanno creduto che fosse vero, e persino
all’improvviso hanno rammentato di aver avuto questo ricordo: “Mandela morì in
prigione quell’anno”.
Di
conseguenza, le bugie incoerenti con i fatti continuano a fermentare.
La
bugia viene ripetuta migliaia di volte e molte persone la considerano la
verità: questa fase d’apprendimento è la prima regola sviante in Internet.
Nell’era
di Internet, le caratteristiche multidimensionali e multipiattaforma hanno
generato una serie di maligni “tumori” online di teorie del complotto.
Inoltre, la loro capacità di diffusione non si
limita alla stanza dei “credenti”. Poiché le piattaforme sociali online
forniscono uno spazio di diffusione molto diffuso e ampio, uno la passa a
dieci, dieci la diffondono a cento, cento a mille, e così si procede in fase
geometrica, facendo diventare un argomento “caldo” su Internet quale verità
assoluta.
Chi vorrà credere è disposto naturalmente.
Inoltre, queste false opinioni in Internet
possono persino avere un impatto sul mondo reale.
Ad
esempio, a livello politico, ora tutti possono commentare e partecipare
all’agone online.
Affinché
i politici ottengano il diritto di parola e stabiliscano l’agenda, la chiave è
affidarsi alla direzione dell’opinione pubblica su Internet, e il discorso su
Internet è diventato l’elemento dominante del discorso politico, e non
viceversa.
Le caratteristiche dei “social network” sono
proprio il terreno fertile per le teorie del complotto.
Internet è facile da far fermentare
nell’opinione pubblica ed è esattamente il terreno fertile per le teorie del
complotto.
Nel
quadro odierno, le “teorie del complotto” sono sufficienti per influenzare la
politica e persino lo sviluppo politico.
Una
certa teoria del complotto guadagna un tot numero di sostenitori attraverso
Internet e la promuove affinché diventi un’opinione pubblica molto dibattuta.
Di
conseguenza, entra nello spazio politico reale giungendo dalla comunità
virtuale e la sua influenza può mutare la direzione delle decisioni
governative.
Guardando
da un’altra angolazione, quando le teorie del complotto vengono immesse in
Internet e continuano a proliferare – al di là dell’esistenza o meno degli
Illuminati – esse stesse sono sufficienti per stabilire un Nuovo ordine mondiale: si cambiano le opinioni pubbliche
del mondo reale, la composizione delle opinioni e il fondamento delle
discussioni sociali, e quindi si colpiscono i Paesi del mondo, la politica, i
governanti.
Sulle élite contemporanee.
Gognablog.sherpa-gate.com – (2 Febbraio 2021)
- Marino Badiale- ci dice:
(badiale-tringali.it
- 12 dicembre 2019).
I. La
revoca del mandato celeste.
Nelle
analisi della situazione sociale e politica attuale nei paesi avanzati, è ormai
un dato acquisito l’esistenza di una particolare frattura sociale e culturale.
Abbiamo
da una parte un ceto, relativamente ristretto, di persone adattate alla nuova
natura transnazionale del capitalismo contemporaneo:
persone dotate di conoscenze e capacità (in primo
luogo la conoscenza della lingua inglese, ma ovviamente non solo questo) che le
rendono in grado di approfittare di occasioni di lavoro sparse in tutto il globo,
prive di remore a spostarsi per approfittarne, impiegate in lavori a forte
componente intellettuale e specialistica, capaci di tessere relazioni proficue
con le persone più diverse, ma in sostanza appartenenti allo stesso milieu.
Si
tratta del ristretto ceto di coloro che si sono pienamente inseriti nei
meccanismi del capitalismo globalizzato e sono in grado di approfittare delle
possibilità che la sua dinamica crea.
All’interno di questo ceto spiccano ovviamente
i detentori del potere, quelli che si ritrovano a Davos e in simili occasioni;
ma il
ceto di cui stiamo parlando, pur ristretto, non è composto esclusivamente da
uomini e donne di potere, ma da persone che condividono lo stile di vita e la
visione del mondo degli attuali ceti dominanti.
Per
chiarezza terminologica, parleremo di “élite dominanti” intendendo la ristretta cerchia di
chi detiene un potere effettivo (per ripeterci: quelli che si incontrano a
Davos), mentre useremo l’espressione “ceti medi elitari” o “ceti medi
globalizzati” intendendo quello strato sociale che abbiamo descritto nelle prime righe,
minoritario
ma più ampio rispetto ai “signori di Davos”.
Parleremo
infine di “élite
contemporanee” intendendo l’insieme di questi due gruppi.
Alle
élite contemporanee si contrappone la parte largamente maggioritaria della
popolazione,
che ha visto in questi decenni il peggioramento delle proprie condizioni di
lavoro e di vita e la perdita dei diritti conquistati nella fase “keynesiano-socialdemocratica” del capitalismo del secondo
dopoguerra.
Si tratta di ceti legati a una dimensione di
vita locale o al più nazionale, impegnati in lavori di scarsa qualificazione,
non molto dotati delle competenze (linguistiche e culturali in generale) per
muoversi nella “società globale”.
È noto
che questa frattura sociale si esprime anche come frattura culturale e
politica.
I ceti del primo tipo sono in primo luogo sostenitori
convinti dei processi di globalizzazione:
possono magari ammettere che essa presenta
anche dei problemi, ma tali problemi devono comunque essere superati
mantenendone la sostanza;
in secondo luogo aderiscono in genere alle ideologie
mainstream in campo economico (sono cioè in sostanza liberisti, magari con
sfumature diverse);
in
terzo luogo condividono in gran parte i dettami del “politicamente
corretto”;
infine, sul piano delle scelte politico-elettorali,
esprimono in genere preferenze per la cosiddetta “sinistra moderata”, ma possono dare appoggio anche a personaggi almeno apparentemente
nuovi come Matteo Renzi in Italia ed Emmanuel Macron in Francia.
I ceti
del secondo tipo esprimono invece, in modo spesso confuso ma con forza
crescente, un
rifiuto di molti aspetti di ciò che chiamiamo “globalizzazione”, e questo rifiuto si esprime
politicamente nell’appoggio a movimenti, partiti e leader ascrivibili alla
destra, una
destra che spesso viene qualificata come “populista” o “sovranista” per
esprimere in qualche modo gli aspetti di novità che la contraddistinguono rispetto
alla destra liberale classica.
Se
questa è la situazione, è chiaro che essa può portare a dinamiche piuttosto
pericolose, a scontri distruttivi e laceranti del tessuto sociale, fino a
mettere in questione la stessa democrazia.
Ci si aspetterebbe quindi una discussione
franca e spassionata per capire come evitare tali esiti.
E ovviamente le attuali élite, che hanno in
media una formazione intellettuale di più alto livello rispetto ai ceti
subalterni, dovrebbero dimostrare la propria superiore capacità intellettuale
proprio in questo tipo di riflessione.
Purtroppo si deve constatare che la reazione
delle élite di fronte a questa situazione è spesso piuttosto infantile:
le
masse “populiste” vengono stigmatizzate come ignoranti, rozze, mentalmente
limitate (e quindi intolleranti e razziste), fascistoidi.
Ora,
questi aspetti possono certamente essere una componente del “grande rifiuto”, da parte di fasce sempre maggiori
della popolazione, verso l’attuale organizzazione sociale, ma non è questo il
punto.
Il punto è che una élite è tale se riesce ad avere
capacità egemonica, cioè se riesce a collegare a sé la gran massa della
popolazione subalterna offrendo un compromesso per il quale le masse accettano la
propria subalternità ricevendo in cambio la possibilità di vivere una vita
decente,
protetta per quanto possibile dagli alti e bassi delle vicende storiche.
La fase del capitalismo
“keynesiano-socialdemocratico” è stata appunto una fase di egemonia di questo tipo:
non
c’era ovviamente nessuna rivoluzione nei rapporti di dominio, ma i ceti
dominanti in quella fase hanno saputo costruire assieme ai ceti subalterni un
compromesso soddisfacente, legando in maniera fortissima le masse a quella
organizzazione sociale:
è l’enorme capacità egemonica di quello che
giustamente è stato chiamato “l’impero irresistibile”
a costituire la base ultima dell’89, della vittoria finale del
capitalismo sul suo antagonista storico.
Il
capitalismo occidentale aveva conquistato le masse, il socialismo orientale
aveva prodotto una massiccia reazione di rigetto.
Se
questo è chiaro, dovrebbe anche apparire chiaro come la reazione attuale delle
élite alla disaffezione delle masse sia del tutto infantile:
quello
che è successo in questi decenni è la fine del compromesso
“keynesiano-socialdemocratico”, e questa fine ovviamene implica anche la fine
dell’egemonia basata su tale compromesso.
Ma
allora, invece di lanciare alle masse epiteti ingiuriosi, una élite degna di questo nome deve
ricostruire una egemonia, e cioè proporre un nuovo patto sociale, un nuovo
grande compromesso fra dominanti e dominati.
Ma di
questo non si vede oggi la minima traccia.
L’attuale
situazione fa allora pensare che ci troviamo in un caso standard di “revoca del mandato celeste”.
Si
tratta, come è noto, di una espressione ripresa dalla tradizione culturale
cinese.
In
tale tradizione, il sovrano è tale perché ha ricevuto dal Cielo il mandato di
ben governare la società, mantenendola in armonia con i grandi cicli del cosmo.
Il
sovrano è legittimo finché riesce in questo compito.
Quando
emergono, nella società o nella natura (realtà non drasticamente opposte, in
quella tradizione culturale), evidenti segnali di disarmonia, di contrasti, di
rottura degli equilibri cosmici, il sovrano è delegittimato e la rivolta è legittima.
Si
tratta di una impostazione culturale che non resta mera teoria ma si
concretizza nelle tante rivolte che costellano la storia di quel grande paese,
arrivando talvolta ad abbattere dinastie e a fondarne di nuove.
Se
sfrondiamo questa narrazione dagli aspetti culturali tipici del mondo cinese,
affascinanti ma lontani dalla nostra mentalità, quello che resta è l’idea che il
sovrano, il ceto dominante, deve mantenere una armonia fra i vari gruppi
sociali, e se questa manca viene meno la legittimità del potere. Tale armonia non può che basarsi su un compromesso nel quale i ceti
dominati ottengono la possibilità di vivere una vita decente, secondo i
parametri di quel dato momento storico e quella particolare cultura.
Nel
mondo premoderno una vita decente era in sostanza una vita che mantenesse le
stesse possibilità e disponibilità stabilite dalla tradizione.
Nel
mondo moderno, il mondo che ha inventato la nozione di “progresso”, nel
concetto di “vita decente” vi è non solo la possibilità di accedere a un
determinato livello di consumi, ma anche l’idea di un progressivo
miglioramento, l’idea cioè che nel corso della vita di ciascuno il livello di
vita si alzerà e i figli godranno di una vita migliore rispetto ai genitori.
È
evidente allora che il “trentennio dorato” 1945-1975 rappresenta appunto, come si diceva,
un esempio di compromesso nel quale i ceti dominanti riuscivano a garantire una
vita decente ai dominati, e ne ricavavano consenso ed egemonia.
È
altrettanto chiaro, e spiegato nei dettagli in una letteratura ormai imponente,
che i decenni seguiti agli anni Settanta hanno rappresentato la revoca di quel
compromesso:
distruzione
dei ceti medi, impoverimento dei ceti inferiori, aumento spettacolare delle
disuguaglianze, fine dell’idea che i figli vivranno meglio dei genitori.
I ceti dominanti hanno denunciato, nei fatti,
il compromesso precedente, senza sostituirvi nessun progetto sociale che abbia
le stesse capacità egemoniche.
Hanno
in sostanza tolto senza dare nulla e senza preoccuparsi della caduta verticale
del consenso e della coesione sociale.
E rispondono alla crescente rabbia sociale con
disprezzo moralistico verso i ceti subalterni.
Si tratta insomma di uno strato dominante che ha perso
ogni capacità egemonica, e che sarà abbattuto se non riesce a riconquistarla,
impostando un nuovo grande compromesso sociale.
Il
primo esempio storico che viene alla memoria è, ovviamente, la Rivoluzione Francese:
nel
1789 in Francia è stato necessario abbattere il potere dei ceti aristocratici
per costruire una nuova società;
ma
anche nella storia cinese è stato più volte necessario che le rivolte contadine
contribuissero ad abbattere dinastie per lasciare spazio a nuovi gruppi
dominanti.
E non ha ovviamente nessuna importanza che i ceti da
abbattere siano quasi sempre più colti e raffinati dei rivoltosi che li
abbattono: non c’è dubbio che un aristocratico francese di fine Settecento
fosse capace di una conversazione più colta e civile del sanculotto che lo
accompagnava alla ghigliottina,
non
c’è dubbio che il mandarino al servizio dell’imperatore caduto avesse molte più
cose da insegnarci rispetto al contadino in rivolta:
tutto
questo non ha nessuna importanza, se si è capito il senso di quanto finora
detto.
Protesta
di massa a Hong Kong.
Chi
sicuramente capiva queste cose era Antonio Gramsci, che in una lettera alla
cognata scriveva:
“La
posizione del Croce verso il materialismo storico mi pare simile a quella degli
uomini del Rinascimento verso la Riforma luterana: “dove entra Lutero, sparisce
la civiltà”, diceva Erasmo, eppure gli storici e lo stesso Croce riconoscono
oggi che Lutero e la Riforma sono stati l’inizio di tutta la filosofia e la
civiltà moderna (…).
L’uomo
del Rinascimento non comprendeva che un grande movimento di rinnovazione morale
e intellettuale, in quanto si incarnava nelle vaste masse popolari, come
avvenne per il Luteranesimo, assumesse immediatamente forme rozze e anche
superstiziose e che ciò era inevitabile per il fatto stesso che il popolo
tedesco, e non una piccola aristocrazia di grandi intellettuali, era il
protagonista e il portabandiera della Riforma”.
Come
si vede, Gramsci coglie qui con precisione il nesso fra la “rozzezza” di alcuni
aspetti del movimento della Riforma e la sua importanza storica:
non
che la rozzezza in sé sia un valore, beninteso, ma essa è un aspetto
inevitabile di un grande movimento storico che, coinvolgendo le “vaste masse
popolari”, appunto per questo nello stesso tempo esprime capacità di
“rinnovazione morale e intellettuale” e “forme rozze” (almeno nell’immediato).
Il
fatto che questo tipo di comprensione delle realtà storiche sia molto lontana,
per quanto possiamo giudicare, dalle analisi prodotte, rispetto ai fenomeni di
cui stiamo trattando, dalle élite contemporanee, dimostra una volta di più la
loro incapacità di ricostruire un compromesso egemonico.
Il
mandato celeste è stato revocato, ribellarsi è giusto.
II. Un
orrore inaudito.
Quanto
abbiamo fin qui detto delinea in fondo una storia piuttosto banale: un tipo di
compromesso sociale, che ha funzionato per un periodo, entra in crisi, le élite
non sanno inventarsi un diverso tipo di compromesso e si limitano ad
approfittare della propria posizione di potere per accumulare benefici
ostentando disprezzo per i ceti subalterni i quali, privati a poco a poco di
quanto ottenuto in precedenza e in mancanza di prospettive di un nuovo
compromesso, iniziano lentamente a contestare le élite.
Proprio
l’incapacità delle élite di inventare un nuovo compromesso, e il loro
rifugiarsi nel disprezzo di classe, mostrano con evidenza che esse non hanno
più le capacità egemoniche necessarie al loro ruolo, e fanno quindi prevedere
che esse saranno abbattute e sostituite con nuove élite.
Tutto
questo, lo ripeto, è fondamentalmente banale, uno schema già visto tante volte.
Ma la
situazione attuale non si limita a questo momento di “ripetizione”, ma presenta
aspetti nuovi che ci spingono a delineare prospettive molto più drammatiche di
una semplice rivoluzione, per quanto cruenta.
La novità che sta emergendo con tutta evidenza
nei giorni attuali è il disastro ecologico al quale ci sta portando
l’organizzazione sociale attuale, cioè il capitalismo esteso ormai a tutto il
globo.
Siamo
di fronte alla prospettiva del crollo catastrofico dell’attuale civiltà.
Nel
giudizio da dare sulle attuali élite globalizzate è allora da qui che bisogna
partire: dal fatto che l’attuale organizzazione di economia e società ci sta
portando verso un disastro di proporzioni mai viste nella storia umana.
Le
élite del capitalismo globale hanno pesantissime responsabilità in questa
situazione.
Limitiamoci
qui al problema
del cambiamento climatico, che è solo uno dei tanti nodi che verranno al pettine nei
prossimi decenni.
Il bel
libro di Nathaniel Rich documenta come gli aspetti essenziali del problema fossero
già chiari alla fine degli anni Settanta, e come vi sia stato, lungo gli anni
Ottanta, un serio tentativo, che ha coinvolto le massime cariche istituzionali
negli USA, di
arrivare a un trattato internazionale per limitare e bloccare le emissioni di
diossido di carbonio.
Questi tentativi non portarono però a nulla, e
oggi possiamo dire che da questo punto di vista l’umanità ha sprecato quattro
decenni che sarebbero stati cruciali per evitare il disastro oggi incipiente.
Rich non fornisce spiegazioni per questo
fallimento, ma a questo provvede, con la sua consueta chiarezza, Naomi Klein,
che argomenta ciò che dovrebbe essere ovvio:
la vittoria mondiale del capitalismo
neoliberista globalizzato non poteva che portare al fallimento di quei
tentativi, perché un sistema economico basato sulla concorrenza spietata nella
ricerca del profitto, concorrenza estesa all’intero pianeta, non può tollerare
nessun vincolo, nessuna limitazione;
mentre
ovviamente un
qualsiasi tipo di trattato sulla limitazione delle emissioni, se venisse davvero applicato, rappresenterebbe un vincolo
all’espansione illimitata del capitale nella sua ricerca spasmodica del
profitto.
Il
punto è che le élite globali di cui stiamo parlando rappresentano proprio il
ceto dominante e la principale base sociale di questo capitalismo, e sono
quindi, tutti assieme, fondamentalmente responsabili del fatto che negli ultimi
quarant’anni non si è agito per evitare di “perdere la Terra”, per evitare il baratro nel quale il
modo di produzione capitalistico sta precipitando l’umanità intera.
Si
potrebbe obiettare che tutto questo riguarda il passato, che oggi finalmente
esiste un consenso, anche fra i ceti dominanti, sulla necessità di risolvere il
drammatico problema del riscaldamento globale.
Sembra
in effetti che negli ultimi anni si sia prodotto un cambiamento di questo tipo,
che davvero una parte almeno dei ceti dominanti si sia convinta del fatto che
la catastrofe annunciata da tempo sta arrivando, e che essa mette in questione
anche il loro potere, i loro redditi, e forse persino le loro vite, assieme
naturalmente a quelle di masse sterminate di altri esseri umani.
Il
punto fondamentale è però che le élite non intendono rimettere in discussione
il modo di produzione capitalistico, e quindi le misure che forse riusciranno a
prendere per combattere il cambiamento climatico non potranno essere decisive,
anche se, eventualmente, riusciranno a rinviare per qualche tempo, magari per
qualche decennio, il crollo dell’attuale civiltà.
Facciamo
solo un esempio: Greta Thunberg si è recata all’ONU, a New York, viaggiando su una barca a
vela.
Questa scelta non ha solo un carattere simbolico. Il suo significato è che davvero, se
vogliamo salvarci, dobbiamo rinunciare ai viaggi in aereo e all’uso di navi a
motore.
Ma è
pensabile l’attuale organizzazione economica, l’attuale capitalismo
globalizzato, senza la fitta rete di scambi commerciali che utilizzano
massicciamente motori spinti dall’energia dei combustibili fossili?
Ovviamente
no, e l’unica possibilità è allora lo smantellamento dell’attuale capitalismo
globalizzato e la ricostruzione di forme di economia molto più localizzate, con
una rete di scambi ridotta per volume ed estensione.
La
domanda è ovvia: le attuali élite globalizzate progettano seriamente qualcosa
del genere?
Prospettano in qualche modo la necessità di
ridurre gli scambi commerciali globali?
Ovviamente
no, e questo esempio mostra come l’attuale conversione dei ceti dominanti (o
almeno di una loro parte significativa) alle tematiche del “climate change”
non sia tale da cambiare la direzione catastrofica nella quale l’attuale
società si sta muovendo.
È
allora questa la novità storica con la quale dobbiamo confrontarci, nel
giudizio sulle élite contemporanee:
per la
prima volta nella sua storia l’umanità si trova di fronte alla possibilità
concreta del crollo dell’intera società umana mondiale.
Si tratta di un evento che è difficile anche
solo da pensare, e che, se dovesse realizzarsi, porterebbe sofferenze e orrori
quali mai si sono visti nella storia umana.
Yves
Cochet ritiene che il crollo sia molto vicino e che si possa ipotizzare la
scomparsa di metà dell’attuale umanità, cioè la morte di tre o quattro miliardi
di individui.
Ovviamente
non possiamo accampare certezze assolute sul futuro, in particolare non
possiamo pensare a una datazione precisa del crollo, ma ritengo che quello
prospettato da Cochet sia il livello di orrore che possiamo aspettarci.
Per
inquadrare e concludere questa discussione, proviamo allora a leggere “il presente come storia”: a vedere il nostro presente con gli
occhi dei sopravvissuti al crollo dell’attuale civiltà.
Da
quanto detto, appare evidente che, se un simile evento si produrrà,
rappresenterà un orrore inaudito nella storia.
Ma è
anche evidente che, se questo orrore arriverà, le attuali élite verranno
deprecate dai sopravvissuti come gli esseri più orribili dell’intera storia
umana. Appariranno, appariremo, espressione di una inaudita malvagità.
Una
malvagità oggettiva, s’intende: non stiamo parlando delle soggettività dei singoli.
E
questa è dunque la conclusione delle riflessioni fin qui svolte.
Non
c’è dubbio che le attuali élite siano composte di persone educate, tolleranti,
colte.
Ma
questo non ha nessuna importanza, come non aveva nessuna importanza quanto
fossero educati, tolleranti e colti gli aristocratici francesi a fine ‘700.
Al momento del crollo, se crollo sarà, le
attuali élite globalizzate, con tutta la loro tolleranza, educazione, cultura,
riveleranno di essere nient’altro che una nuova manifestazione della banalità
del male.
Il
complice e il sovrano.
Gognablog.sherpa–gate.com
– (29 Gennaio 2023) - Giorgio Agamben –
ci dice:
(quodlibet.it - 3 dicembre 2022).
Vorrei
condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema che
abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o anche
soltanto di poter uscire.
Credo che anche fra di noi non tutti si siano resi
conto che quel che abbiamo di fronte è più e altro di un flagrante abuso
nell’esercizio del potere o di un pervertimento – per quanto grave – dei
principi del diritto e delle istituzioni pubbliche.
Credo che
ci troviamo piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di quella
del romanzo di Conrad, nessuna generazione può credere di poter impunemente
scavalcare.
E se
un giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura
della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai
raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme,
di disfacimento.
Ho
usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo borromeo, cioè un nodo
in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli altri due.
E se, come alcuni non senza ragione
sostengono, la gravità di una situazione si misura dal numero delle uccisioni,
credo che anche questo indice risulterà molto più elevato di quanto si è
creduto o si finge di credere.
Prendendo
in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che aveva usato per l’Europa nella
seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che la nostra società ha «vomitato sé
stessa».
Per
questo io penso che non vi è per questa società una via di uscita dalla
situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata, a meno che
qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.
Ma non
è di questo che volevo parlarvi;
mi
preme piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e
possiamo continuare a fare in una tale situazione.
Io condivido infatti pienamente le
considerazioni contenute in un documento che è stato fatto circolare da “Luca
Marini” quanto all’impossibilità di una rappacificazione.
Non
può esservi rappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto
e fatto in questi due anni.
Non
abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno
professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare
di correggere.
Chi
pensa questo s’illude.
Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso,
una nuova figura dell’uomo e del cittadino, per usare due termini familiari
alla nostra tradizione politica.
In
ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che
vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto
penale: il
complice –
a patto di precisare che si tratta di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire
assoluta, nel senso che cercherò di spiegare.
Nella
terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha attuato una
condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione
delittuosa di un altro soggetto, il reo.
Noi ci
siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società –
che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per
essa innominabile.
Una
situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca,
una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della Repubblica o
del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice medico –
agiscono sempre come complici e mai come rei.
Credo
che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova
prospettiva il patto hobbesiano.
Il
contratto sociale ha assunto, cioè, la figura – che è forse la sua vera,
estrema figura – di un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente
coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici
e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di
questo essere com-plici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.
Una
società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura,
perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e
semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.
Vi è
anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la complicità
non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e piuttosto fra l’uomo e
il cittadino.
Hannah
Arendt ha più volte mostrato quanto la relazione fra questi due termini sia
ambigua e come nelle “Dichiarazioni dei diritti” sia in realtà in questione l’iscrizione
della nascita, cioè della vita biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello
Stato nazione moderno.
I
diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il
presupposto immediatamente dileguante del cittadino.
L’emergere
in pianta stabile nel nostro tempo dell’uomo come tale è la spia di una crisi
irreparabile in quella finzione dell’identità fra uomo e cittadino su cui si
fonda la sovranità dello stato moderno.
Quella
che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova configurazione di questo rapporto,
in cui l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con
questo una singolare relazione , nel senso che, con la natività del suo corpo,
egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi
politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita
dell’uomo, di cui assume la cura.
Questa
complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua
estrema – e speriamo ultima – configurazione.
La
domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora
sentirci obbligati rispetto a questa società?
O se,
come credo, ci sentiamo malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati,
secondo quali modalità e entro quali limiti possiamo rispondere a questa
obbligazione e parlare pubblicamente?
Non ho
una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di
non poter più fare.
Io non
posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è
stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in
questione la stessa medicina.
Se non
si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse
l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo
sperare di arrestarne la corsa letale.
Io non
posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il
diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare
innanzitutto in questione il diritto e la costituzione.
È forse necessario, per non parlare del
presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere
in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi in esse i
dispositivi di cui avevano bisogno per istaurare i loro regimi?
È
possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione
e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.
Se ho
evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in nome di vaghi
principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una
precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo.
È come
se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si fingeva
di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo omettere
di guardare.
Non
intendo con questo, svalutare o considerare inutile il lavoro critico che
abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si continuerà a svolgere
con rigore e acutezza.
Questo lavoro può essere ed è senz’altro
tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di cecità identificarlo semplicemente
con una strategia a lungo termine.
In
questa prospettiva molto resta ancora da fare e potrà essere fatto solo
lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati.
Il lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo
una bella immagine di Anna Maria Ortese, solo là dove tutto è perduto, senza
compromessi e senza nostalgie.
(Giorgio
Agamben è un filosofo italiano.)
L’Ucraina
sta affondando e
le
élite occidentali cercano di defilarsi.
Ariannaeditrice.it
- Unz.com - Mike Whitney – (04/02/2023) – ci dice:
Ciò
che rende l’ultimo rapporto della “RAND Corporation” sull’Ucraina così
significativo non è la qualità dell’analisi, ma il fatto che il più prestigioso
“think-tank sulla sicurezza nazionale” abbia assunto una posizione opposta a
quella della classe politica di Washington e dei suoi alleati globalisti.
Questo
è un fatto molto importante.
Ricordate
che le guerre non finiscono perché l’opinione pubblica si oppone ad esse.
Questo è un mito.
Le guerre finiscono quando emerge una
spaccatura importante tra le élite che, a sua volta, porta ad un cambiamento di
politica.
Il nuovo rapporto della “RAND Corporation”, “Evitare una lunga guerra: la
politica statunitense e la traiettoria del conflitto tra Russia e Ucraina,” rappresenta proprio questa
spaccatura.
Indica
che le élite più potenti sono in disaccordo con l’opinione della maggioranza
perché ritengono che l’attuale politica stia danneggiando gli Stati Uniti.
Riteniamo
che questo cambiamento di prospettiva sia destinato a guadagnare slancio e
possa innescare una richiesta più assertiva di negoziati.
In altre parole, il “rapporto RAND” potrebbe essere il primo passo verso
la fine della guerra.
Consideriamo
per un attimo questo estratto dal “preambolo del rapporto”:
“I
costi e i rischi di una lunga guerra in Ucraina sono significativi e i suoi
possibili sviluppi superano i probabili benefici per gli Stati Uniti.”
Questa
citazione riassume efficacemente l’intero documento.
Pensateci:
Negli
ultimi 11 mesi ci è stato ripetutamente detto che gli Stati Uniti avrebbero
sostenuto l’Ucraina “per tutto il tempo necessario.”
La
citazione sopra riportata ci assicura che ciò non accadrà.
Gli
Stati Uniti non hanno intenzione di minare i propri interessi per perseguire il
sogno irrealizzabile di espellere la Russia dall’Ucraina.
(Anche i falchi non credono più ad una
possibilità del genere).
I membri razionali dell’establishment della
politica estera valuteranno le prospettive di successo dell’Ucraina e le
soppeseranno rispetto alla crescente probabilità che il conflitto possa
inaspettatamente sfuggire al controllo.
Questo,
ovviamente, non sarebbe nell’interesse di nessuno e potrebbe innescare uno
scontro diretto tra Russia e Stati Uniti.
Inoltre, i responsabili politici statunitensi
dovranno decidere se i sempre più numerosi danni collaterali valgono la spesa.
In altre parole, la rottura delle linee di
approvvigionamento, l’aumento dell’inflazione, la crescente carenza di energia
e di cibo e la diminuzione delle scorte di armi sono un giusto compromesso per
“indebolire la Russia?”
Molti
direbbero: “No.”
Per
certi versi, il “rapporto RAND” è solo il primo di una lunga serie di tessere
del domino che cadono.
Man
mano che aumenteranno le perdite ucraine sul campo di battaglia – e sarà sempre
più evidente che la Russia controllerà tutto il territorio a est del fiume
Dnieper – le falle nella strategia di Washington diventeranno più evidenti e
saranno criticate ancor più aspramente.
La gente metterà in dubbio la logica delle
sanzioni economiche, che danneggiano i nostri alleati più stretti e aiutano la
Russia.
Si chiederanno perché gli Stati Uniti stiano
seguendo una politica che ha provocato un forte allontanamento dal dollaro e
dal debito americano.
E si chiederanno perché gli Stati Uniti, a
marzo, avessero deliberatamente sabotato un accordo di pace, quando le
probabilità di una vittoria ucraina erano già prossime allo zero.
Il
“rapporto della Rand” sembra anticipare tutte queste domande e il “cambiamento
di umore” che ne seguirà.
Ecco
perché gli autori spingono per i negoziati e per una rapida fine del conflitto.
Questo è un estratto da un articolo di RT:
La
RAND Corporation, un influente think tank d’élite per la sicurezza nazionale
finanziato direttamente dal Pentagono, ha pubblicato uno storico rapporto in cui
afferma che il prolungamento della guerra per procura danneggia attivamente gli
Stati Uniti e i loro alleati e avverte Washington che dovrebbe evitare “un
conflitto prolungato” in Ucraina…
(Il
rapporto) inizia affermando che i combattimenti rappresentano “il conflitto
interstatale più significativo degli ultimi decenni e che la sua evoluzione
avrà conseguenze importanti” per Washington, tra cui il danneggiamento attivo
degli “interessi” statunitensi.
Il
rapporto chiarisce che, anche se gli Ucraini hanno combattuto, e le loro città
sono state “spianate” e “l’economia decimata,” questi “interessi” non sono
“sinonimi” di quelli di Kiev. (“Rand calls for swift end to war“, RT)
Sebbene
il rapporto non affermi esplicitamente che “gli interessi degli Stati Uniti
vengono danneggiati,” certamente lo lascia intendere.
Non sorprende che il rapporto non menzioni i
danni collaterali della guerra di Washington alla Russia, ma sicuramente questo
aspetto deve essere stato in primo piano nella mente degli autori.
Dopo
tutto, non sono i 100 miliardi di dollari o la fornitura di armi letali a
costare così cari agli Stati Uniti.
È l’emergere sempre più rapido di coalizioni
internazionali e di istituzioni alternative che ha portato l’Impero
statunitense sulla via della rovina.
Partiamo dal presupposto che gli analisti del
RAND vedano le stesse cose che vede ogni altro essere senziente, ovvero che
l’errata conflagrazione di Washington con Mosca è un “ponte troppo lontano da raggiungere” e che il contraccolpo sarà immenso
e straziante.
Da qui
l’urgenza di porre fine alla guerra in tempi brevi.
Ecco un estratto del rapporto, pubblicato in
grassetto a metà del testo:
“Poiché
evitare una lunga guerra è la priorità più alta dopo aver minimizzato i rischi
di escalation, gli Stati Uniti dovrebbero adottare misure che rendano più
probabile la fine del conflitto nel medio termine.”
È
interessante notare che il rapporto, pur descrivendo in dettaglio i principali
rischi di escalation (che includono una guerra più ampia con la NATO, un coinvolgimento
nel conflitto di altri Paesi dell’UE e una guerra nucleare), non spiega perché
proprio una “guerra lunga” sarebbe così dannosa per gli Stati Uniti.
Riteniamo
che questa omissione sia intenzionale e che gli autori non vogliano ammettere
che il ritorno di fiamma delle sanzioni e la formazione di coalizioni estere
antiamericane stanno chiaramente minando i piani degli Stati Uniti per
mantenere la loro presa sul potere globale.
Tra le élite, questi discorsi sono proibiti.
Ecco
come Chris Hedges ha riassunto la situazione in un articolo su “Consortium News”:
Il
piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la
Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio
Oriente.
Sta
alimentando una crisi alimentare globale e devastando l’Europa con
un’inflazione quasi a due cifre.
Ancora
una volta, sta mettendo a nudo l’impotenza degli Stati Uniti e la bancarotta
degli oligarchi al potere.
Come
contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il
Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di
riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale
negli Stati Uniti.
Washington sta fornendo all’Ucraina sistemi
d’arma sempre più sofisticati e aiuti per molti miliardi nel futile tentativo
di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di salvare sé stessa. (“Ukraine — The War That Went Wrong”,
Chris Hedges, Consortium News)
Hedges
lo riassume perfettamente.
Il
folle intervento di Washington sta spianando la strada alla più grande
catastrofe strategica della storia degli Stati Uniti.
Eppure,
ancora oggi, la stragrande maggioranza delle élite aziendali e bancarie
sostiene risolutamente la politica esistente, ignorando gli evidenti segni di
fallimento.
Un
esempio per tutti: il “World Economic Forum” ha pubblicato sul suo sito web una
dichiarazione di sostegno all’Ucraina. Eccola:
“L’essenza
della nostra organizzazione è la fiducia nel rispetto, nel dialogo e negli
sforzi di collaborazione e cooperazione. Pertanto, condanniamo profondamente
l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, gli attacchi e le atrocità.
La
nostra piena solidarietà è con il popolo ucraino e con tutti coloro che stanno
soffrendo innocentemente a causa di questa guerra assolutamente inaccettabile.
Faremo tutto il possibile per aiutare e sostenere attivamente gli sforzi
umanitari e diplomatici.
Speriamo
solo che – a lungo termine – la ragione prevalga e che emerga nuovamente lo
spazio per la costruzione di ponti e la riconciliazione”. (Klaus Schwab and Børge Brende, World
Economic Forum)
Nessuno
dovrebbe sorprendersi di questo.
Naturalmente, i globalisti si schiereranno
dalla parte della loro squadra di demolizione espansionistica (la NATO) invece
che dalla parte del più grande sostenitore mondiale dei valori tradizionali,
dei confini e della sovranità nazionale.
Questo
è ovvio.
Tuttavia, il rapporto Rand suggerisce che il
sostegno alla guerra non è più unanime tra le élite.
E,
poiché, in ultima istanza sono le élite a decidere la politica, è sempre più
probabile che questa cambi.
Consideriamo
questa “scissione
del consenso delle élite” come lo sviluppo più positivo degli ultimi 11 mesi.
L’unico
modo in cui gli Stati Uniti potranno cambiare il loro approccio all’Ucraina è
che un numero crescente tra le élite rinsavisca e ci faccia indietreggiare dal
baratro.
Speriamo che ciò accada, ma non ne siamo
certi.
La
parte meno persuasiva dell’intero rapporto è quella intitolata: “Impegni degli Stati Uniti e degli
alleati per la sicurezza dell’Ucraina.”
Il
problema è facile da capire.
Gli
autori vogliono definire un piano per fornire sicurezza all’Ucraina al fine di
incentivare i negoziati con la Russia.
Purtroppo,
la Russia non ha intenzione di permettere all’Ucraina di far parte di
un’alleanza di sicurezza sostenuta dall’Occidente, anzi, è proprio per questo
che la Russia ha lanciato la sua invasione, per impedire l’adesione
dell’Ucraina ad un’alleanza militare ostile (la NATO) legata agli Stati Uniti.
Si
tratta di un argomento spinoso che senza dubbio costituirà un ostacolo in
qualsiasi negoziato futuro.
Ma si tratta di una questione su cui non ci
può essere “margine di manovra.”
L’Ucraina
– o ciò che ne rimane – dovrà essere permanentemente neutrale e tutti gli
estremisti di estrema destra dovranno essere rimossi dal governo, dalle forze
armate e dai servizi di sicurezza.
Mosca
non sceglierà i leader dell’Ucraina, ma si assicurerà che questi non siano né
nazisti né legati a organizzazioni nazionaliste di estrema destra.
Come
abbiamo detto in precedenza, riteniamo che il rapporto RAND indichi che le
élite sono ora divise sulla questione dell’Ucraina.
Riteniamo
che questo sia uno sviluppo positivo che potrebbe portare a negoziati e alla
fine della guerra.
Tuttavia, non dovremmo ignorare il fatto che
anche l’analisi più imparziale può pendere nella direzione di chi fornisce i
finanziamenti.
E questo potrebbe essere vero anche in questo
caso.
Si
tenga presente che la RAND Corporation è un think tank apartitico che, secondo
il tenente colonnello in pensione dell’USAF Karen Kwiatkowski:
“lavora per l’establishment della
difesa e, se i finanziamenti dovessero esaurirsi, il thinktank non esisterebbe
nella sua forma attuale.
Serve
interamente gli interessi del governo statunitense e ne dipende.” (Lew
Rockwell)
Questo
suggerisce che il “rapporto RAND” potrebbe rappresentare il punto di vista del
Pentagono e dell’establishment militare statunitense e, secondo loro, gli Stati
Uniti starebbero correndo a testa bassa verso uno scontro diretto con la Russia.
In altre parole, il rapporto potrebbe essere
la prima bordata ideologica contro i neocon che gestiscono il Dipartimento di
Stato e la Casa Bianca.
Sospettiamo
che questa spaccatura tra il Dipartimento della Guerra e lo “Stato” diventerà
più visibile nei prossimi giorni.
Possiamo
solo sperare che al Pentagono prevalga la fazione più accorta.
(unz.com)
(unz.com/mwhitney/ukraine-is-sinking-are-western-elites-bailing-out/).
Noi
siamo la minaccia.
Ariannaeditrice.it
- Fabio Massimo Parenti – (27/02/2023) – ci dice:
(La
nostra) decisione non dovrebbe essere né filorussa né filo-ucraina, ma deve
essere capace di riconoscere le realtà storiche, geografiche ed economiche
coinvolte e cercare per gli ucraini un posto dignitoso e accettabile nella
famiglia del tradizionale impero russo, di cui formano una parte inestricabile.
(George F. Kennan, 1948)
Le
“chiacchiere” più recenti sulla guerra in Ucraina sono tutte incentrate su nomi
di armamenti:
ogni
santo giorno si pubblicano articoli su Himars, Javelin, Leopard, F16, missili,
razzi, carri, aerei, sistemi di difesa ecc.
Ciò fa
tornare alla mente le “chiacchiere” mediatiche ai tempi della crisi 2007-2008,
in cui proliferavano gli acronimi dei mille derivati: MBS, ABC, CDS, CDO ecc.
Nell’uno
come nell’altro caso, una coltre di tecnicismo veniva e viene messa in
circolazione col fine ultimo, sembrerebbe, di non far capire alcunché ai
lettori, sull’origine dei fenomeni e sui processi che determinano gli eventi.
Ma c’è
di più.
Questo
chiacchiericcio mediatico è utile invero a nascondere le responsabilità, a
deresponsabilizzare gli esecutori di tutti gli errori che ci hanno portato fin
qui.
Slogan
vuoti e censura.
All’epoca
della grande crisi finanziaria, i media raccontavano gli eventi con la poetica
della complessità finanziaria, gettando fumo tecnicistico sulla reale
comprensione del contesto, del processo e delle cause reali.
Tutto
liquidato con qualche accenno alle distorsioni e ai fallimenti di mercato,
attribuendo la responsabilità alla complessità del sistema finanziario, dei
prodotti derivati e delle strategie di investimento.
In tal
modo il discorso pubblico non faceva altro che allontanare il riconoscimento
delle cause reali (in primis la deregolamentazione pluridecennale dei mercati)
e delle responsabilità politiche.
Anche oggi, in questa fase di grande incertezza
geopolitico-economica, in Europa ed Asia Pacifico, il discorso pubblico e le
scelte politiche sembrano totalmente irrazionali e miopi.
Ciò
che ci interessa evidenziare è la logica politica sottostante il funzionamento
dei grandi media:
liquidando da subito la contestualizzazione
dei processi storico-geografici, ovverosia quelli che hanno portato a
“stringere” ulteriormente il “nodo” storico rappresentato dallo spazio ucraino,
la tanto ridondante quanto inaccurata e onnipresente formula (o meglio “empty
slogan”) “dell’aggredito e dell’aggressore” ha sancito la banalizzazione del
presente, l’evaporazione dei processi diacronici, la censura delle analisi e
delle spiegazioni critiche, impedendo di fatto qualsiasi dibattito realmente
costruttivo per lavorare alacremente su compromessi e negoziati.
Il
primo accordo raggiunto dalle parti nel marzo 2022 fu affossato da UK-US,
mentre la posizione della Cina, riproposta ieri, sulla soluzione politica della
crisi Ucraina troverà purtroppo l’opposizione di quelle entità, appena citate,
che vogliono continuare ad ampliare il conflitto.
La
costruzione del mostro.
I
media veicolano continuamente paure e supposte “minacce” provenienti
dall’esterno del nostro “giardino”, prestandosi alla vecchia tecnica di
costante fabbricazione del pericolo esterno – rappresentato da sedicenti
“mostri” da sconfiggere o contenere.
E chi
sarebbero questi “mostri”?
Paesi,
interi paesi, stati-civiltà, trattati alla stregua di popoli inferiori, che
coincidono guarda caso proprio con quei paesi che stanno legittimamente
riorganizzando l’economia e la politica mondiale secondo canali e modalità
relazionali di tipo cooperativo (si pensi all’allargamento della SCO e dei
BRICS).
E sono proprio quei paesi che, ieri come oggi,
cercano una via di uscita dall’età del dominio di un solo paese.
Ecco
allora media e politica, a braccetto con alcuni potentati economici, impegnati
ad ostacolare ogni interpretazione differente, che possa svelare falsità e
manipolazioni e rivelare allo stesso tempo realtà opposte allo storytelling
usa-europeo.
Con le parole di Sachs: “L’implacabile narrazione
occidentale secondo cui l’Occidente è nobile, mentre la Russia e la Cina sono
malvagie, è ingenua e straordinariamente pericolosa.
È un tentativo di manipolare l’opinione
pubblica, invece di fare i conti con una diplomazia molto reale e pressante”.
La
minaccia interna.
Sembra
surreale il modo superficiale, banalizzante e fazioso con cui i “grandi” media
continuano a “narrare” la guerra russo-ucraina, che, come noto, è una guerra
voluta e perseguita da alcuni strateghi Usa ormai da molti anni, nella teoria
come nella prassi.
Si
tratta di una guerra globale rivolta contro la Russia, oggi, ma proiettata
contestualmente verso la Cina, l’Iran e tutti coloro che osano non seguire più
l’agenda uni-polarista ed imperialista degli Usa.
Ciò è stato più volte analizzato e spiegato da
autorevolissimi studiosi e politici statunitensi prima di altri.
E non
tutti costoro hanno appoggiato tali disegni strategici.
Sicuramente personalità come Brzezinski,
Kaplan, Nuland ne sono stati strenui sostenitori:
hanno
teorizzato, consigliato ed operato a favore dell’assorbimento dell’Ucraina
nello spazio nordatlantico in funzione antirussa, nonché della separazione
dell’UE dal resto dell’Asia.
Uno degli ultimi atti più eclatanti riguarda
il sabotaggio – annunciato, realizzato e celebrato – dei gasdotti baltici.
Altre
autorevoli personalità, tuttavia, come lo studioso e diplomatico George Kennan,
i professori Stephen Cohen e John Mearsheimer hanno rilevato chiaramente i
rischi e i pericoli esiziali delle manovre di accerchiamento in Eurasia, in
particolare nello spazio ucraino.
In
questo proliferare mediatico-politico di elogi bellici faziosi, di scenari di
nuovi olocausti o Armageddon nucleare (cit. Biden) emergono chiaramente i
macro-interessi economico-politici dell’apparato industriale militare e di
intelligence americano, desideroso di destrutturare i processi di integrazione
euroasiatica, con al centro Russia, Iran e Cina.
Non deve sorprendere, pertanto, che Washington
non si muova in alcun modo per un cessate il fuoco e una trattativa in Ucraina
(sorprendente è invece la servile viltà europea), bensì per collegare questo
scenario di guerra vasta – da alimentare a discapito di tutta l’Europa e
dell’economia mondiale – a quello cinese.
Siamo
nella fase della promozione della guerra con tutti i mezzi mediatici e politici
possibili, finanche sostenendo il più pericoloso (e per questo spregevole)
nazionalismo etnico.
Riguardo
quest’ultimo aspetto è doveroso ricordare l’esistenza di migliaia di documenti
secretati, de-secretati e in parte riclassificati, che si riferiscono a
numerose operazioni sotto copertura, come ad esempio l’operazione “Belladonna”
del 1946 e la successiva “Aerodynamic” (1949-1970), e che confermano
inequivocabilmente gli sforzi dell’intelligence Usa a sostegno delle forze
ultranazionaliste in funzione antisovietica.
Da
questo materiale si evince chiaramente che “negli anni ’50 la CIA aveva
stabilito con successo una rete di controspionaggio con i nazionalisti
clandestini ucraini”.
L’obiettivo di fondo, come esplicitato nei
documenti de secretati nel 1966, è il “sostegno” alle “fiammate nazionaliste”
in aree molto sparse dell’Unione Sovietica, in particolare in Ucraina.
Insomma, una storia che viene da lontano e che
è continuata fino ai giorni nostri.
Ed è
qui che va collocato il ruolo del più grande “broker” di armi al mondo,
l’apparato Usa, anche in questa nuova crisi.
Un
paese che, per mezzo di una super minoranza (neoconservatrice e straussiana
bipartisan), soffia sul fuoco della guerra non solo in Europa ma anche
nell’Asia-Pacifico e chiede armi a mezzo mondo per continuare ad alimentare la
guerra in Ucraina, fiaccare la Russia ed accerchiare la Cina.
Crediamo
sia doveroso rifiutare l’idea dell’inevitabilità della guerra ed imparare a
riconoscere che la vera minaccia alla stabilità mondiale e alla coesistenza tra
i popoli proviene proprio dall’interno dei nostri sistemi.
(Fabio
Massimo Parenti)
C’è
vita oltre il “liberal capitalismo”?
Ariannaeditrice.it-
Roberto Pecchioli – (27/02/2023) – ci dice:
C’è
vita oltre il liberal capitalismo?
Ce lo chiedevamo passeggiando- dopo anni di
assenza- nel quartiere dove siamo cresciuti.
Rivedere le cose a distanza di tempo
restituisce la prospettiva.
Oltre al deserto commerciale, ci ha colpito
vedere in uno spazio limitato ben tre grandi strutture sanitarie private.
La
privatizzazione di tutto avanza a passo di carica: presto non avremo nulla e
saremo felici, secondo i “padroni universali”.
Ci toglieranno l’automobile, la casa, il denaro
contante e instaureranno l’impero globale neofeudale della Tecnica.
Ai
servi dovranno bastare i nuovi diritti nella sfera pulsionale per compensare la
riduzione a schiavi.
In
Italia, il dibattito economico corrente riguarda il cosiddetto “Superbonus”, le
provvidenze fiscali a favore dell’edilizia introdotte dal secondo governo
Conte, che Draghi non poté cassare e che il governo Meloni- la cui continuità
con il precedente è impressionante – sta abolendo.
Concentrati
esclusivamente sul costo per le casse pubbliche – le cifre tanto diverse
fornite da sostenitori e detrattori confermano che neppure la matematica è
neutra- si dimentica di valutare due elementi fondamentali.
Uno è
il carattere di moneta del credito d’imposta cedibile: il banchiere centrale di
governo ne comprese in un attimo la portata negativa per gli interessi di cui è
dirigente apicale.
L’altra
è l’impatto generale sull’economia, il “moltiplicatore keynesiamo” che è stato positivo, pur se
sovrastimato.
Entrambe
le questioni sono rilevanti in quanto contraddicono la narrativa
economico-finanziaria dominante, il liberismo senza limiti associato al
globalismo e alla mistica delle “autorità monetarie” private, le uniche in
grado, secondo la vulgata cara alla finanza, di governare i flussi del denaro.
Un credito fiscale cedibile è indubbiamente
moneta, quindi sovranità, mentre una misura governativa capace di riattivare un
comparto decisivo come quello edilizio è intervento pubblico in economia.
Cartellino
rosso: la dogmatica liberista non può accettare deviazioni tanto pericolose
(per lei).
È
invece felice di constatare che i posti letto negli ospedali pubblici sono
diminuiti del quaranta per cento in vent’anni (da 310 mila a 190 mila).
Le lobby hanno lavorato bene; chi può si cura
nel privato, magari indebitandosi per la gioia del creditore, degli altri
nessuno si occupa.
Che
muoiano, altro obiettivo delle oligarchie.
Un
docente giapponese ha apertamente teorizzato l’eutanasia per gli
ultrasessantacinquenni: una vera tombola per lorsignori.
Meno pensioni, meno spesa sanitaria, in più la
soluzione perfetta al problema dell’invecchiamento della popolazione.
L’uovo di Colombo: bisognava pensarci.
Una
riflessione che torna al punto di partenza:
manca,
nell’Occidente terminale, il pensiero antagonista in ogni ambito, ma il
silenzio diventa assordante in campo economico.
L’ordoliberismo, ovvero il liberismo che
diventa legge entrando nei codici e nelle costituzioni (pensiamo
all’imposizione del pareggio di bilancio che parifica gli Stati a società
anonime) ha sostituito il vecchio ordoliberalismo convinto che lo Stato dovesse
fornire regole giuridiche – quindi limiti- a tutela dell’equità sociale e di un
livello minimo di protezione dei ceti deboli.
Eppure,
il fallimento del sistema uscito dall’implosione sovietica e dalla vittoria del
modello neoliberista è sotto gli occhi di tutti.
Non si
può accettare un’organizzazione economica, finanziaria, sociale e un modello
antropologico in cui poche centinaia di persone hanno una ricchezza pari a
quella di miliardi di esseri umani.
Occorre ripristinare la dimensione pubblica e
statuale- indipendentemente dalle forme e dalle dimensioni- sottraendo alla cupola
dei monarchi assoluti del mondo il controllo delle nostre vite e,
concretamente, la proprietà di tutto.
Non
esistono più beni comuni, neppure la vita umana e la salute.
Alla proprietà privata di tutti i “mezzi di
produzione” – la definizione marxiana – si è aggiunto il possesso delle grandi
infrastrutture, autostrade, ferrovie, porti, oleodotti, reti informatiche- sino
alla privatizzazione dell’acqua, senza la quale finisce la vita.
Padroni
anche della tecnica e della tecnologia- mai così potenti e pervasive-
monopolisti della ricerca e delle sue applicazioni, possiedono, attraverso le
multinazionali del farmaco e delle sementi, le chiavi della salute e
dell’alimentazione.
Dal
punto di vista finanziario, padroni dell’emissione monetaria, l’imbroglio universale
del debito pubblico, che è credito privato dei re senza corona, hanno stretto
il cappio attorno al collo degli Stati, dei popoli, perfino di chi non è ancora
nato, tutti debitori del Signore per il solo fatto di far parte dell’umanità.
Sotto
il profilo comportamentale, costringono miliardi di persone alla competizione
sfrenata, la “santa” concorrenza della quale loro si disfano distruggendo ogni
realtà estranea all’oligopolio globale.
La
lotta di tutti contro tutti fomenta inimicizia e divisione;
conviene
sempre agli stessi.
Il
filosofo Byung Chul Han spiega che siamo arrivati allo stadio ultimo, quello
dell’autosfruttamento.
È la generazione sfortunata degli
“imprenditori di sé stessi”, precari della vita, del lavoro, sradicati dalla
comunità, individualisti all’eccesso.
Per questo, conclude sconsolato, è impossibile
una rivoluzione.
La
coazione a produrre, a competere assume esplicitamente le forme dell’autosfruttamento
e dell’autodistruzione, in cui sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che
rende la vita degna di essere vissuta.
Le conseguenze devastanti del capitalismo
giunto al suo culmine ricordano la freudiana pulsione di morte.
La
malattia di massa postmoderna si chiama” burnout”, la patologia di chi si sente
esaurito, inadeguato, diventando apatico, bruciato dentro.
È una
sindrome che preoccupa l’oligarchia in quanto spesso si manifesta nel lavoro,
ma è insieme sintomo e conseguenza della disumanizzazione, della mercificazione
di tutto, anche di sé stessi;
un
mondo che consuma e insieme si consuma e ci consuma come candele al lumicino.
Ci si
sente perdenti dell’esistenza in quanto non si è conseguito il successo, la
ricchezza, non si è vinto nell’assurda competizione per tutto.
L’orribile vittoria del sistema, che impedisce
la lotta oppositiva, è far credere che la colpa è nostra, per incapacità o
inadeguatezza: un darwinismo sociale in cui vince il peggiore, il più spietato,
il più disumano.
Il
colpevole è l’attuale sistema socioeconomico, diventato antropologia negativa.
Va attaccato, disvelato, destrutturato, combattuto a partire dai suoi principi
economici, sociali, finanziari.
Il liberal capitalismo non è un sistema come
gli altri, è una visione totalizzante della vita, un’ideologia della seduzione:
il capitalismo dei “like”.
Va
demistificato ribaltando innanzitutto i suoi postulati economici.
Qui
sta purtroppo, la nostra debolezza. Che fare?
Nessuno
sembra più discutere i fondamenti.
Tutti,
o quasi, allineati all’imperativo categorico liberista.
In
Occidente – e in Italia in particolare- nessuna forza politica e nessuna
cultura contesta più il dominio dell’oligarchia privata.
Silenzio sulla sovranità monetaria regalata alle
banche, applausi per ogni perdita di potere degli Stati- cioè dei popoli –
indifferenza o rassegnazione per il trasferimento verso l’alto della piramide
della ricchezza, del potere, delle decisioni.
Dove
sono finite le elaborazioni socialiste e marxiste, la dottrina sociale della
Chiesa, le idee di cogestione, partecipazione, autogestione, cooperazione,
quella “senza fini di speculazione privata”, di cui all’articolo 45 della
costituzione, il corporativismo cristiano e “nazionale”?
Chi
rivendica- il Titolo III della Carta, di impianto solidarista, partecipativo e
non liberista?
Occorre
che intellettuali di diverse discipline- economia, filosofia, sociologia,
scienze umane- tornino a ragionare di massimi sistemi, ossia revochino in
dubbio i dogmi ordoliberisti proponendo concrete alternative.
Non
che manchino le voci critiche- specie sul versante della moneta- ma sono più
impegnati in conventicole litigiose e contrapposizioni incapacitanti che nella
proposta.
Inoltre, non trovano sponde accademiche né
politiche.
Non
conosciamo programmi di governo – per quel che valgono, tenuto conto del
“pilota automatico” della governance economico-finanziaria transnazionale
privatizzata- che si propongano modelli distinti da quello unico, il “liberismo
globalista del Washington Consensus”.
Pure,
quella stagione sta finendo, travolta dalla realtà e dal declino
dell’unipolarismo americano.
Nessuno osa progettare qualcosa che vada oltre
il breve termine, l’interesse degli stakeholders, gli azionisti e i portatori di
grandi interessi decisi a realizzare profitto immediato senza riguardo per il
futuro, le ricadute umane, il bene comune.
È diventato
difficile- tanto è radicato il discorso ufficiale- affermare che non siamo più
depositanti nelle banche, ma investitori con tutto il rischio a nostro carico,
sino alla condizione di chi è tenuto per legge a ripianare i fallimenti
bancari.
La
stessa religione del PIL (Prodotto Interno Lordo) andrebbe in parte rivista,
giacché il calcolo è una somma aritmetica comprendente perfino i proventi
stimati della malavita.
Ad
esempio, le spese sanitarie private a cui siamo costretti contribuiscono a
gonfiare il calcolo, ma non a dare conto della negatività del fenomeno che si
limitano a contabilizzare.
Paradossalmente,
se usciamo di casa per una passeggiata, ai fini del PIL è preferibile che
un’auto pirata ci investa: spese ospedaliere, riparazioni, cure mediche,
pratiche assicurative.
Strano
sistema che misura il ben-avere ma non il ben-essere.
Richard
Easterlin dimostrò che l’aumento del reddito non ha effetto sulla felicità, che
diminuisce descrivendo una curva verso il basso.
Adam
Smith diceva che non è la benevolenza dal macellaio a procurare la carne sulla
nostra tavola, ma il suo interesse.
Vero,
ma non si può ridurre la complessità dell’esperienza umana al tornaconto
economico.
Nella
Commedia, Dante fa dire a Ulisse che l’uomo non è un bruto, ma un essere fatto
per seguire “virtude e canoscenza”. Quanto alla concorrenza, fior di liberisti ammettono che non
può esistere senza un mercato davvero aperto.
I
giganti impediscono invece l’entrata di nuovi soggetti mentre espellono
progressivamente prima i piccoli, poi i medi, infine anche i grandi agenti
economici, determinando ferrei oligopoli e monopoli.
L’
appello è alle forze politiche e culturali, esteso a tutti gli uomini di buona
volontà, perché tornino a interrogarsi sulla necessità morale, nonché sulla
convenienza pratica, di sistemi economici, sociali e finanziari diversi dall’”
unico” liberista/globalista.
Serve recuperare la dimensione umana:
l’economia è per l’uomo, non il contrario, è
la lotta eterna dell’homo sapiens contro la scarsità.
Il
primo passo è individuare i settori da sottrarre al monopolio incontrollato del
profitto.
Difficile stilare un elenco di beni comuni, ma
almeno l’acqua, la salute, le grandi infrastrutture, le reti di comunicazione
elettronica e informatica, l’emissione monetaria, devono essere al riparo dalla
speculazione.
Meglio se sono gestite da strutture che
rispondono ai cittadini.
In
altri ambiti, come la previdenza, deve restare prevalente la mano pubblica: non
si può lasciare il denaro dei lavoratori nelle mani dei fondi speculativi, per
quante normative possano circoscriverne il campo d’azione.
L’elenco
è complesso, e potrebbe comprendere settori economici, servizi e infrastrutture
la cui importanza va oltre gli interessi dei governi in carica e delle
generazioni presenti, riguardando interessi di lungo periodo che hanno bisogno
della decisione politica e richiedono investimenti a debito sostenuti da
istituzioni pubbliche sovrane.
Si può
e si deve dibattere su tutto, senza preconcetti e senza pregiudizi.
Progetto
significa speranza, futuro, concretezza.
Basta
con l’acronimo della menzogna:
TINA, there is no alternative.
A tutto c’è alternativa, fuorché alla morte;
dimostriamo
che c’è vita oltre il liberal capitalismo, presto, subito, o l’operazione di
riduzione dell’umanità a gregge neofeudale si compirà con conseguenze che
andranno oltre le generazioni oggi viventi.
Non
possiamo ipotecare la vita dei posteri.
Difficile
programma in tempi di individualismo, di dittatura del presente.
Che cosa hanno fatto per me i posteri?
Si chiedeva Marx.
Groucho,
l’attore, non Karl, il comunista…
Credere,
Obbedire, Soccombere.
Ariannaeditrice.it
- Gianandrea Gaiani – (26/02/2023) – ci dice:
Dopo
un anno di guerra in Ucraina non è ancora chiaro chi potrà forse vincere il
conflitto sul campo di battaglia ma tra gli sconfitti senza appello, “senza se
e senza ma” ci sono i media occidentali, in particolare quelli europei, in
special modo la gran parte di quelli italiani.
Studi
televisivi riempiti con bandiere giallo-blu, anchor-man che tolgono l’audio in
diretta a un discorso di Vladimir Putin atteso dal mondo intero “per non dare spazio alla propaganda
russa”,
conduttori che prendono le distanze dalle dichiarazioni di ospiti che indugiano
nello sposare ogni tweet della propaganda di Kiev o nell’accusare solo i russi
per ogni responsabilità e nefandezza di questa guerra.
Che
dire poi delle interviste al presidente ucraino Volodymyr Zelensky talmente in
ginocchio da far apparire equilibrata e pure aggressiva la “mitica” intervista
di Gianni Minà a Fidel Castro del 1987?
Nessuna
domanda scomoda sulle opposizioni messe al bando, il patrimonio personale del
presidente e di diversi ministri e generali,
le leggi che soffocano la libertà di stampa ed espressione, la
corruzione dilagante anche a danno dei militari
che ha portato alla rimozione di molti funzionari, il rapporto di
Amnesty International che accusa le truppe ucraine di crimini di guerra, le
armi donate dall’Occidente rinvenute su fronti bellici in altri continenti, le
rappresaglie sui “collaborazionisti” nelle città riconquistate, i video che
mostrano le truppe di Kiev ferire o uccidere prigionieri…solo per citare alcuni
dei temi più eclatanti.
Aggiungiamoci
poi opinionisti statunitensi che attribuiscono patenti di “affidabilità
atlantica” a politici e commentatori oppure i professori e giornalisti da anni
organici con università e think-tank d’oltre Atlantico o con istituzioni della NATO che
presentano il conflitto ucraino come la lotta tra il Bene e il Male, tra
Democrazia e Tirannia.
Uno
dei centri studi statunitensi che più di altri si è distinto pubblicando
analisi e mappe quotidiane del conflitto, l’”Institute for the Study of the War” (ISW), ha utilizzato queste parole
per la sua campagna di raccolta fondi.
“Abbiamo bisogno di finanziamenti per
aggiungere più membri al team e continuare il nostro lavoro nel 2023 e oltre.
L’eroica resistenza dell’Ucraina contro
l’invasione non provocata di Vladimir Putin salvaguarda la sicurezza di europei
e americani.
I
notevoli successi dell’Ucraina in questa devastante guerra testimoniano la
forza di un popolo libero che lotta per la sua sopravvivenza contro un brutale
dittatore.
L’invasione
di Putin può creare pericolosi precedenti per altri aspiranti aggressori e la
difesa dell’Ucraina per altri paesi liberi e indipendenti.
L’Ucraina
ci ispira a fare tesoro delle nostre libertà e a riconoscere i sacrifici che
richiedono”.
Da un
centro studi sarebbe lecito attendersi un approccio più equilibrato, meno
incline a slogan “scongelati” dal freezer della Guerra Fredda.
Ma non
c’è nulla da fare, la tendenza dominante oggi in Occidente è la piena militanza
all’insegna del “Credere e Obbedire”.
Libertà
e Democrazia.
Persino
ai tempi dell’URSS e del Patto di Varsavia il confronto era più pacato,
argomentato, strutturato e all’epoca c’erano davvero i filo-sovietici,
comunisti sostenuti e finanziati dal Cremlino.
Eppure
già ben prima dell’attacco russo del 24 febbraio, era evidente che l’Ucraina non
potesse venire considerata un paradiso della democrazia e dei diritti umani e
civili,
come abbiamo raccontato su Analisi Difesa fin dal giugno scorso:
79° posto nel Global Democracy Index 2020
redatto da The Economist, 92° (dietro alla Birmania) nel Ranking of Countries by Quality
of Democracy stilato nel 2020 dall’Università di Wurzburg, 122° su 180 nel “Corruption Perceptions
Index” che nel 2021, 98° posto nello Human Freedom Index, 130° nella classifica delle
libertà economiche e 106° nel 2022 nella classifica della Libertà di Stampa redatta da Reporter
Sans Frontiéres (dietro a Gabon e Ciad).
Si
tratta di classifiche stilate prima dell’inizio dell’attacco russo e quindi
prima che il governo ucraino ponesse fuori legge 12 partiti (incluso il secondo
per consensi elettorali), reprimesse più duramente la stampa (l’ultima
legge-bavaglio è del 30 dicembre 2022) e punisse i reati di opinione, incluso quello di contraddire la
narrazione ufficiale sulla guerra che di fatto impedisce a chiunque di parlare
del conflitto in termini di guerra civile.
Termine
idoneo a un conflitto in atto da 9 anni e che vede milioni di ucraini vivere
nei territori in mano ai russi o fuggiti in Russia e decine di migliaia di
combattenti ucraini combattere al fianco dei russi.
Ma parlare di guerra civile è vietato dal
regime di Kiev e anche quasi tutti i media occidentali si sono adeguati,
Credere
e Obbedire!
Il
trionfo della propaganda.
Del
resto con la guerra in Ucraina se ne sono viste e sentite di tutti i colori.
Opinionisti a conoscenza del tasso alcoolico dei carristi russi e giornali
on-line che propongono un’intervista sulla caduta del governo Draghi ma solo se
viene attribuita alle “ombre russe”;
per
radio, TV e giornali i militari russi sono sempre criminali, incapaci,
ubriaconi e codardi, i loro bombardamenti sono sempre indiscriminati e contro i
civili e i loro generali sono sempre stati soprannominati “macellai” in Siria.
E se
qualcuno fa notare tali eccessi è un “filorusso” e un “putiniano”, bersaglio
delle liste di proscrizione redatte da qualche giornale e dei centri studi che
realizzano analisi preoccupate per il peso e l’influenza della propaganda russa
in Italia.
Che
certo esiste ma dovrebbe preoccuparci almeno quanto quella, molto più
strutturata e influente, dei nostri “alleati”.
Basti
osservare che ogni notizia diffusa da fonti ucraine è stata raccontata come un
fatto assodato anche quando era palesemente forzata o inattendibile mentre
quelle diffuse dai russi vengono citate solo se è possibile smentirle o se
ammettono perdite e sconfitte.
Per
non correre rischi, i media russi sono stati subito bannati e censurati in
un’Europa che è così sicura dei propri valori e principi liberali e democratici
su cui dice di fondarsi da temere persino il confronto con la narrazione
altrui.
Da
quando la città di Kherson è tornata sotto il controllo degli ucraini ogni
giorno agenzie e giornali riprendono le notizie da Kiev dei bombardamenti russi
che colpiscono sempre e solo civili e ospedali:
la
stessa città è stata sotto il fuoco dell’artiglieria ucraina per sette mesi
quando era sotto controllo russo, al punto che migliaia di civili sono stati
fatti evacuare ma di quei bombardamenti non parlava nessuno.
In più
occasioni le
foto dei bombardamenti ucraini sulla città di Donetsk, capitale dei
secessionisti del Donbass, sono state utilizzate dai media italiani ed europei con
didascalie che descrivevano bombardamenti russi su città ucraine.
Ogni
ritirata russa è una disfatta totale e ogni progresso ucraino una vittoria
folgorante.
Le
brigate ucraine mandate al massacro a Soledar e Bakhmut sono un tema trattato
solo da qualche testata anglosassone e la sconfitta delle forze di Kiev in questi
settori viene ignorata o sminuita nella sua entità.
I
combattenti del Gruppo Wagner sono “mercenari”, europei e americani che
combattono con l’uniforme ucraina “volontari”.
Credere
e Obbedire!
Buoni
e Cattivi.
La
narrazione di un anno di guerra in Ucraina l’ha dettata la NATO con le sue
ossessive note di linguaggio che definiscono in ogni discorso o documento
ufficiale l’aggressione russa all’Ucraina “brutale” e “non provocata”.
I nostri media si sono rapidamente e per la
stragrande maggioranza adeguati: nessun dubbio, nessuna valutazione, nessuna
analisi deve mettere in discussione il verbo diffuso a piene mani dai
principali giornali e da TV.
Persino
i “dogmi politically correct” sono stati sacrificati sull’altare della causa
giallo-blu:
resta
vietato discriminare le persone per la loro etnia, il colore della pelle o la
religione ma atleti e artisti vengono banditi da competizioni ed esibizioni
solo perché russi e potranno forse ricevere qualche indulgenza solo abiurando
la loro colpa.
Putin.
Il
governo lituano è arrivato a lamentare che le regole contro i “messaggi d’odio”
che impediscono di apostrofare adeguatamente i russi sui social media.
Persino il premio Pulitzer Seymour Hersh è stato messo
alla berlina (un altro “putiniano”?) quando ha osato realizzare un’inchiesta che indica negli Stati Uniti e in alcuni
loro alleati del Nord Europa i responsabili degli attentati ai gasdotti Nord
Stream nel Mar Baltico, vicenda su cui è stranamente calato un silenzio assordante.
Censure,
attacchi personali e liste di proscrizione contro chi osa contestare narrazione
del mainstream non sono peraltro una novità, le prove generali vennero messe a
punto durante l’epidemia di Covid 19, come evidenziammo oltre un anno or sono.
Anche
oggi le poche eccezioni al dilagante “pensiero unico” dettato da un orwelliano “Ministero della Verità” hanno dimostrato che si può fare
informazione ascoltando più campane, valutando più aspetti, allargando gli orizzonti per
comprendere e trovare soluzioni e risposte, rinunciando a un grottesco tifo da
stadio.
Ci
siamo sorbiti propaganda e fake-news su una dozzina di malattie letali che
avrebbero portato entro breve alla tomba Putin e Lavrov, previsioni che davano
l’economia russa al collasso dopo poche settimane di sanzioni, il bollettino
quotidiano dei servizi segreti britannici (tipico prodotto delle Psy Ops il cui
scopo è influenzare l’opinione pubblica) ci disse già nella tarda primavera del
2022 che i russi stavano esaurendo i missili.
E poi
il “revival” di alcuni classici della propaganda bellica come gli stupri
programmati, il bombardamento di scuole e ospedali, le stragi dei bambini nelle
incubatrici e la distribuzione di viagra ai soldati russi perché violentassero
più ucraine possibile.
I più
attenti ricorderanno che le stesse notizie erano state fatte filtrare nei
confronti dei soldati iracheni in Kuwait, dei miliziani dell’Isis e delle
truppe libiche di Muammar Gheddafi: cioè tutti i “cattivi” di turno.
Certo,
anche in Russia e in Ucraina i media si sono prestasti alla propaganda
governativa ma a Mosca come a Kiev, vale la pena ricordarlo, vi sono leggi che
puniscono severamente chi diffonde “disinformazione” anche perché si tratta di
nazioni in guerra mentre in Europa (per ora) non lo siamo.
Invece
di spiegare gli aspetti complessi, di fare inchieste e approfondimenti,
l’informazione si è in molti casi messa al servizio della propaganda che ha
invece il compito di semplificare gli aspetti complessi per trasformarli in
slogan e note di linguaggio.
Credere
e Obbedire!
Aggressori
e aggrediti.
La più
importante in questa guerra è la distinzione tra “”aggressori e aggrediti”,
cioè tra i russi e gli ucraini che dovrebbe indurre tutti noi a separare meglio
i “buoni” dai “cattivi”.
Se
consideriamo la guerra in Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 gli aggressori
sono i russi ma se andiamo a ritroso solo di una decina di giorni qualche
dubbio potrebbe coglierci poiché le truppe di Kiev iniziarono a bombardare
pesantemente i territori del Donbass in mano ai secessionisti.
I russi sostengono si trattasse della
preparazione all’offensiva contro i territori in mano ai filo-russi, Kiev nega.
Se
andiamo indietro fino al 2014, passando dalla violazione degli accordi di
Minsk, dalla secessione del Donbass e dalla discriminazione dei russi d’Ucraina
dopo il golpe/rivoluzione del Maidan voluto e pilotato da Stati Uniti e alcuni
alleati NATO (che non a caso hanno infarcito di loro consiglieri e qualche
ministro il governo di Arseny Yatsenyuk) diventa più difficile attribuire
nettamente le patenti di “aggressore” e “aggredito”.
Ancor
di più se si ripercorrono tutti i tentativi russi di negoziare con USA e NATO
lo stop all’ampliamento all’est dell’Alleanza Atlantica e la realizzazione
delle basi missilistiche americane in Europa Orientale, ufficialmente per
proteggerci contro i missili balistici iraniani!
Certo,
tutti temi complessi che richiedono illustrazioni articolate e quanto meno un
po’ di memoria storica:
ingredienti odiati da propagandisti e censori
sempre a caccia di formule che semplifichino i concetti e additino chiaramente
il nemico.
Se
così non fosse la dilagante propaganda USA/NATO avrebbe colto tutti i rischi di
autogoal insiti nella formula “aggressore e aggredito”.
Perché
se in Ucraini i cattivi sono i secessionisti del Donbass come facevano quelli
del Kosovo (provincia della Serbia agli effetti del diritto internazionale) a
esseri buoni?
E se
la secessione delle province russofono e filò-russe del sud est ucraino è
illegale come può essere invece legale che il Kosovo sia divenuto indipendente
e si sia candidato a entrare nella UE e nella NATO?
Se i
russi sono gli “aggressori” in Ucraina allora dobbiamo essere pronti ad
accettare che dal Balcani all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, gli aggressori
eravamo noi.
Una
narrazione “fanciullesca”
Del
resto affrontare temi quali guerra, geopolitica e interessi nazionali con gli
occhi di un fanciullo che ha bisogno di distinguere i buoni dai cattivi non ci
aiuterà a uscire da una guerra in cui gli europei recitano il ruolo di un
gregge di comparse e di cui sono le prime vittime in termini economici e di
sicurezza.
“Credere
e Obbedire” ma non “Combattere”!
Quello
lo lasciamo fare volentieri agli ucraini con le armi che doniamo loro. Sosteniamo che combattono per noi,
per la Democrazia e la Libertà ma il risultato è “Armiamoci e partite!”
Eppure molte delle testate oggi prone alle note di
linguaggio scritte da USA e NATO e genuflesse davanti ai proclami di Zelensky
(anche quando insulta politici italiani) sono le stesse che fino a un anno or
sono pubblicavano inchieste, interviste e reportage che riferivano della deriva
nazista e illiberale dell’Ucraina post 2014.
Difficile
dimenticare che prima del 24 febbraio 2022 abbondavano analisi e interviste a
tanti politici ed esperti che non esitavano a evidenziare la necessità di
tenere conto delle richieste russe in termini di sicurezza dei loro confini e a
criticare l’allargamento a est della NATO come fattore di provocazione militare
nei confronti di Mosca.
Non
tutti i media hanno accettato l’omologazione né tutti i giornalisti anche se
duole notare come una lettera aperta che critica aspramente la deriva
propagandistica dell’informazione italiana pubblicata a inizio gennaio sia
stata firmata solo da 10 reporter di guerra, tutti nomi di grande prestigio, ma
quasi tutti da tempo in pensione.
Il
problema certo non è solo italiano.
Sul
britannico The Guardian, il 13 maggio 2014 John Pilger scriveva: “In Ucraina, gli Stati Uniti ci stanno
portando alla guerra con la Russia. Il ruolo di Washington in Ucraina e il suo
sostegno al regime neonazista ha gravi conseguenze per il resto del mondo”.
Il
nazismo ignorato.
Il
tema del nazismo in Ucraina e delle sue radici storiche è stato trattato da
molti media negli otto anni trascorsi tra il 2014 e l’attacco russo (Analisi
Difesa se ne occupò già nel febbraio 2014 con l’editoriale “Quei nazisti
ucraini che piacciono tanto a NATO e Ue”) dopo il quale invece è diventato
tabù, specie per i media italiani.
Il
tema merita approfondimenti senza preconcetti perché in Ucraina come nelle
Repubbliche Baltiche le truppe del Terzo Reich nel 1941 vennero accolte da
molti come i liberatori dall’occupazione sovietica stalinista e in Ucraina
continuò fino al 1956 la resistenza ai sovietici dei seguaci di Stepan Bandera,
la cui figura è stata recentemente resa più presentabile anche con la modifica
di migliaia di pagine web.
Tema
dolente quest’ultimo, che dovrebbe indurci a rivalutare la “vecchia” carta
stampata, almeno finché non tornerà di moda bruciare i libri come già si fa in
Ucraina con quelli scritti in lingua russa.
Da un anno i nostri media hanno affrontato il tema del
nazismo ucraino (cavalcato dalla propaganda russa) semplicemente negandolo
nonostante reggimenti e brigate di Kiev si ispirino ai reparti di SS degli anni
’40.
C’è
persino chi ha celebrato il reggimento Azov assediato a Mariupol (ennesima
battaglia raccontata a senso unico) paragonandoli ai 300 spartani alle
Termopili e negandone la fede nazista.
Le immagini diffuse dai russi dopo la caduta
dell’Azovtsal hanno mostrato citazioni e simboli hitleriani tatuati sui corpi
dei combattenti ucraini e stranieri. Immagini scivolate via senza commenti e
approfondimenti, in gran parte oscurate dalla censura contro le TV russe.
Credere
e Obbedire!
Decorati
da Zelensky.
Abbiamo
accettato senza battere ciglio che il direttore del quotidiano Repubblica, Maurizio Molinari, abbia ricevuto nel novembre scorso
dal presidente ucraino l’Ordine al Merito di III classe per il sostegno all’Ucraina, come ci ha ricordato il 24 novembre
2022 un articolo dello stesso quotidiano.
Decorata
pere motivazioni analoghe ma con l’Ordine della Principessa Olga (lo stesso consegnato da Zelensky
anche alla speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi) l’inviata del Tg1 in Ucraina Stefania
Battistini.
Che
esponenti politici ricevano decorazioni da Kiev non stupisce considerato il
posizionamento di gran parte dell’Occidente nella guerra in atto ma le medaglie
di un belligerante ai giornalisti italiani dovrebbero suscitare qualche
perplessità anche all’Ordine dei Giornalisti.
Il
confine tra informazione, anche orientata e faziosa, e pura propaganda è stato
ampiamente superato.
La
piena disponibilità di molti media europei (un po’ meno in quelli statunitensi,
forse perché già bruciartisi con “l’eccesso di patriottismo” durante le guerre
post 11 settembre 2001) all’assumere una posizione prona di fronte alla propaganda di
Kiev e anglo-americana deve suscitare qualche dubbio.
Specie
dopo le rivelazioni della reporter danese Matilde Kimer , che ha rivelato che i
servizi segreti ucraini [SBU] avevano annullato il suo permesso di lavoro e lo
avrebbero restituito solo se avesse accettato di pubblicare informazioni e
immagini fornite dallo stesso SBU.
Kimer
avrebbe dovuto accettare di produrre una serie di “buone storie” sulla guerra,
basate interamente su video e fotografie fornitele dai servizi ucraini.
La
notizia ha avuto un’ampia eco in Danimarca e in altre nazioni, molto meno in
Italia.
Eppure
qualche domanda dovremmo forse porcela.
Quanti
giornalisti hanno subito richieste e diktat simili a quelli rivolti a Matilde
Kimer?
La
giornalista danese è stata finora l’unica a denunciare simili pressioni e
questo non sembra essere un buon segno.
A un
anno dall’avvio dell’operazione militare speciale in Ucraina la gran parte dei
media continua a propinarci una narrazione militante e partigiana ma sempre
meno aderente alla realtà e soprattutto priva di elementi fondamentali idonei a
tenere in considerazione gli interessi nazionali e se la postura assunta da
Italia ed Europa in questo conflitto consenta o meno di perseguirli.
Ci
troviamo nel mezzo della prima guerra convenzionale combattuta sul nostro
continente dal 1945 e le sue gravi conseguenze strategiche, energetiche ed
economiche hanno colpito duramente l’Europa e l’Italia mentre il futuro
potrebbe portarci a fare i conti con sviluppi e realtà concrete ben diversi da
quelli prefigurati dalle fanfare propagandistiche che ci siamo sorbiti finora.
Credere,
Obbedire, Soccombere.
Un
anno di guerra e
tutti
gli errori degli esperti.
Ariannaeditrice.it
- Antonio Terenzio – (26/02/2023) – ci dice:
Siamo
qui a commentare un anno di guerra in Ucraina, un conflitto alle porte
dell’Europa orientale che non vede tregua e che probabilmente non ne vedrà per
molti anni a venire.
L’Occidente
a guida angloamericana è deciso a portare avanti un conflitto fino alle estreme
conseguenze, con lo scopo irremovibile di piegare la Russia.
Nuovi
sistemi di arma come missili, ma soprattutto carri Abrams e Leopard saranno
consegnati all’esercito di Kiev che rilancia con la richiesta di Jet militari.
“Stefano
Magn”i su “Atlantico Quotidiano”, Un anno di guerra in Ucraina: il decalogo di errori degli
“esperti” (nicolaporro.it), ha steso un elenco dei dieci
errori commessi dagli analisti di relazioni internazionali riguardo il
conflitto russo-ucraino e proveremo qui a smentire le sue osservazioni non
facendo affidamento alla propaganda occidentale, ma cercando di attenerci ad
una visione realistica, senza scivolare nel tifo da stadio che caratterizza lo
scontro tra putiniani ed antiputiniani dall’inizio delle ostilità.
Facciamo
nostra la premessa dell’autore quando sostiene che nel momento in cui scriviamo
non sappiamo quanti morti, quanto equipaggiamento è stato distrutto e quale sia
l’entità dello shock sulle popolazioni civili, ma analizzeremo tutte falsificazioni
e la lettura ideologica degli eventi che l’autore fa e che riflettono la
narrazione del mainstream:
1) Nel
XXI secolo le guerre non si combattono più.
Questa
illusione è stata immediatamente sfatata il 24 Febbrario 2022 con l’avvio
dell’”operazione militare speciale” da parte delle forze russe in una campagna
bellica in pieno stile novecentesco.
È
questo l’aspetto più lampante di una guerra combattuta, con armi mobilitate,
artiglieria, carri armati, missili e trincee.
Fin
qui tutti d’accordo, meno che sulla premessa di Magni che dice una chiara
falsità storica:
”La guerra combattuta dai russi in
Ucraina sin dal 2014 altro non era che la preparazione alla guerra vera e
propria”.
Fake news di chiara impronta filoccidentale.
La Russia decide per un attacco su larga scala
non a seguito della guerra a bassa intensità condotta nel Donbass, ma a causa
del rifiuto di Zelensky di rimanere fuori dalla NATO.
Il
Presidente ucraino stava inoltre preparando un attacco col proprio esercito
sulle regioni filo-russe del Donbass e della Crimea.
2) La Russia non invaderà l’Ucraina.
Qui effettivamente ci sono cascati tutti, anche lo scrivente,
per non parlare dei Lucio Caracciolo e dei Dario Fabbri, i quali hanno ridotto
le minacce di invasione a mera “info war” tra intelligence.
“Colpa
dei giornalisti ma anche dei governi europei, perché non credevano agli allarmi
lanciati dagli Usa, persuasi dall’idea dell’impossibilità che conflitti convenzionali
potessero ritornare su suolo Europeo in pieno XXI secolo”.
Poi
secondo Magni, “per il pregiudizio positivo nei confronti della Russia”
(autocrazia votata al male) da parte dei paesi legati economicamente a Mosca,
come Germania, Francia ed Italia”.
Già, perché avere rapporti economici ed
energetici vitali con il Cremlino è già un peccato d’origine, però va bene
comprare lo “shale gas “da Washington a prezzo triplicato e stravolgere le
nostre politiche energetiche rischiando di farci entrare in recessione e far
saltare le nostre aziende.
3) La
minaccia cinese all’ordine mondiale liberale.
Secondo
Magni “lo sbaglio degli strateghi americani è stato quello di rivolgere troppa
attenzione alla Cina (dottrina Blinken) e non alla Russia, la quale ha invece
dichiarato guerra all’Occidente.
Il pregiudizio ideologico deriva da una interpretazione
economicistica delle relazioni internazionali e dalla forte crescita economica
della Cina, unita alla sua potenza demografica, mentre la Russia è in declino
demografico ed ha un Pil pari a quello della Spagna.
Secondo
Magni la storia potrebbe dimostrare che
tanto più un impero è in declino, tanto più diventa pericoloso.
IL
giornalista di AQ dimentica la prima lezione da rispettare nelle relazioni tra imperi
e grandi potenze:
mai
superare le linee rosse, perché è proprio su quelle linee che si giocano gli
equilibri della sicurezza internazionale.
La
Russia è stata costantemente minacciata nel suo esterno prossimo attraverso
l’utilizzo di finte rivoluzioni democratiche sobillate dall’esterno
(rivoluzioni colorate) alle quali l’Ucraina non ha fatto eccezione.
Secondo la dottrina Brezinski l’Ucraina è un
paese fondamentale per la sicurezza della Russia e farla entrare nella NATO o
continuare ad armarla come sta facendo l’Occidente a guida Atlantica, equivale
a minacciare l’esistenza stessa della Federazione Russa.
4)
“L’Ucraina sarà battuta in tre giorni, al massimo una settimana” La balla delle
balle, la più grande castroneria divulgata ai quattro venti dalla grancassa
mediatica occidentalista.
Secondo
testimonianze di storici, analisti o fonti dirette ed insospettabili di filo putinisimo
come l’inviato Rai, Mark Innaro:
” In
Russia non si è mai parlato di guerra lampo, ma di una guerra che sarebbe durata
minimo un anno”.
Ancora
Magni:
”
L’errore commesso dalle intelligence russa e americana, convinte entrambe che
l’Ucraina non avesse speranze, è dovuto ad un misto di pregiudizi positivi nei
confronti dell’esercito russo e negativi per quello ucraino”.
Verrebbe
da obiettare: come mai, se gli americani non nutrono speranze nell’esercito
ucraino, continuano ad armarlo fino ai denti e a sostenere le autorità di Kiev?
Ma il
meglio deve ancora arrivare:
” La
realtà ha invece dimostrato che quello russo non è il secondo esercito del
mondo, ma una forza armata degna di un paese del terzo mondo”.
Ora si
può dire tutto, ma qui si supera non solo il livello di bassa propaganda, ma il
senso del ridicolo.
L’autore continua a tacciare l’esercito russo
di dilettantismo e di “non essere all’altezza di un conflitto moderno”, quando
nel momento in cui scriviamo l’artiglieria russa sta letteralmente macinando
l’esercito ucraino a Bahkmut.
Solite
falsificazioni dettate dallo spirito di fazione, senza il supporto di dati realistici
e smentite in maniera autoevidente dalla disperazione del burattino di Kiev,
che continua a chiedere il sostegno dell’Europa e degli Usa in armamenti.
5)
L’Ucraina è un paese diviso.
“Quindi
si credeva che la metà orientale accogliesse i russi a braccia aperte, perché
politicamente schierata contro la rivoluzione filo-occidentale del Maidan e
linguisticamente russofona”.
Per
rivoluzione filoccidentale, Magni evidentemente intende il golpe orchestrato
dalla Cia e dalla Nuland con tanto di cecchini georgiani (intervistati anche
dalla BBC) a sparare sulla folla e truppe nazi-atlantiste dell’Azov a scatenare
la guerra civile, vero?
Restiamo
basiti di fronte a tanta ignoranza sui fatti e disonestà intellettuale.
L’elenco
delle fesserie è ancora lungo, non vi arrendete adesso.
“Ma
già le ultime elezioni presidenziali, segnavano un cambiamento, per chi lo
sapeva leggere:
Zelensky
ha stravinto ad Est come ad Ovest del Paese.
La Guerra ha dimostrato ulteriormente che
l’Ucraina è compatta”.
Infatti
Zelensky veniva dalla zona russofona, poi dopo le pressioni angloamericane
provoca un’ azione scellerata con il rifiuto dello status di neutralità,
esponendo il suo popolo ed il suo paese all’aggressione militare di Mosca.
“Per
lo meno nessuno vuole stare sotto i russi, nemmeno se è russofono” (e noi scemi
che abbiamo creduto che ci fosse una guerra civile alimentata dall’esterno) o
abita in città con una lunga tradizione storica russa, come Odessa e Kharkiv”.
Per stessa ammissione di Stefano Magni, non
possiamo valutare l’effetto dello shock sulla popolazione inerte che subisce
morte e devastazione, allo stesso modo dovremmo domandarci quanti ucraini non
russofoni desiderino la fine delle ostilità ed incrimino Zelensky per il suo
operato.
6)
L’unipolarismo è finito.
“Magari
domani, ma certamente non oggi, come questa guerra sta dimostrando
chiaramente”.
Non
c’è miglior servo di chi è contento di servire il proprio padrone.
Magni
evidentemente non si rende conto che questa è una guerra degli Usa contro
Europa e Russia, come ha anche ricordato l’analista Gianandrea Gaiani.
Putin
è stato trascinato in una guerra contro l’Occidente non perché ne volesse la
fine, ma perché non gli è stata lasciata altra opzione, dato il continuo
rifornimento di armi e le tre maxi esercitazioni militari realizzate dalla NATO
tra il Mar Nero ed il Mar Baltico dal 2018 in poi (Alessandro Orsini docet).
“La
Guerra dimostra che persino le briciole dell’arsenale statunitense sono
sufficienti a fermare un anno il grosso del “secondo esercito al mondo”.
L’autore
fa l’esempio degli Himars progettati come fuoco di contro artiglieria:
Gli
Usa non hanno rivali. Dunque il “Grosso dell’esercito russo”, meno di 200 mila
soldati impiegati su un totale di 25 milioni di effettivi a disposizione,
mentre l’esercito russo avanza inesorabilmente decimando quello ucraino: se
questa è informazione.
7)
L’Occidente in crisi e profondamente diviso.
“L’occidente non è del tutto coeso ma di fronte ad una
minaccia palese ha saputo ritrovare la sua unità, di qua e di là
dall’atlantico”. Errata corrige.
L’Europa (concetto diverso da Occidente) ha
rinvigorito la sua subordinazione nei confronti degli USA e a causa della sua
inconsistenza come attore geopolitico autonomo, si è prestata ai disegni degli
strateghi del Pentagono: Dividerla dalla sua alleata naturale con la quale condivide
interessi vitali: la Russia.
“Putin
contava sulla dipendenza di parte dell’Europa continentale dal suo gas.
Ma
persino la Germania ha saputo dimostrare di potersene liberare in meno di un
anno”
Già, i
tedeschi saranno stati contentissimi del sabotaggio del Nord Stream II da parte
degli angloamericani con i norvegesi, e di dover impiegare oltre 200 miliardi
di Euro per la copertura delle bollette di aziende e famiglie.
La
notizia è stata ripresa anche in America da un famoso giornalista di inchiesta Seymour Herch, che ha svelato l’uovo di colombo con
prove evidenti.
“Non
sono scoppiate gravi crisi economiche e sociali, su cui i russi puntavano e
nessuno ha abbandonato la NATO, anzi: Finlandia e Svezia hanno chiesto di
entrarvi.” Già, avevamo bisogno di infiammare anche il fronte nord.
8) La
Guerra non si vince con le sanzioni
. Qui
Magni sembra recuperare un minimo di onestà intellettuale nel riconoscere che
le sanzioni non hanno mai abbattuto un regime nel lungo periodo.
“L’amministrazione Biden e gli alleati europei, anche qui, hanno dato troppa
importanza, ad una lettura economicistica delle relazioni internazionali e
della società russa.”
Per
poi riperdere credibilità un attimo dopo: “Davvero gli occidentali pensavano
che i russi si sarebbero ribellati contro Putin o che gli oligarchi lo
avrebbero ucciso?
I
Russi, a quanto pare non pensano esclusivamente al loro benessere: tengono
anche conto del potere (per chi collabora) e del terrore (per chi prova a
rifiutarsi), che sono spinte altrettanto forti, se non di più. Specialmente in
guerra.”
La solita solfa del regime sovietico che tiene
in ostaggio un intero popolo in un clima terrore, pronto o a reprimere o
eliminare qualsiasi voce del dissenso.
Si
vede che Magni oltre ad essere infoibato di propaganda occidentale oltre i
limiti del consentito, ignora la natura del popolo russo, fortemente
patriottico, Putin o non Putin, che il ricordo dei disastrosi anni ’90 è sempre
vivo nella memoria ed i fanatici del liberalismo democratico sono visti come il
fumo negli occhi.
Per
togliersi ogni dubbio, basta vedere che dietro “Russia Unita” il partito
facente capo a Vladimir Putin, ci sono i comunisti eredi di Zuganov (non
proprio la versione di quelli guidati da Elly Shlein) e i nazionalisti eredi di
Zirinosky: La rivoluzione arancione può attendere.
8) “I
russi non sopporterebbero troppe perdite.
E
invece sì e in una misura che noi non immaginiamo da un secolo”.
“Il
fatto che la NATO abbia fornito all’Ucraina armi solo difensive ma a corto
raggio, si basava, oltre che sulla paura dell’escalation, anche sulla
convinzione che infliggere perdite colossali ai russi, sul campo di battaglia
sarebbe stato sufficiente a indurli a più miti consigli”.
Va
bene parteggiare per qualcuno, però con juidicio.
I
russi sopportano perdite umane perché sono un popolo che vive ancora nella
dimensione storica e non post-storica come la nostra. La Nato ha fornito armi
difensive perché l’obiettivo della guerra è insanguinare la Russia usando gli
ucraini come carne da cannone e finora, al netto della propaganda
controfattuale, è l’esercito ucraino ad aver subito perdite colossali: il mondo
alla rovescia.
“Per vincere la guerra occorre vincere le
battaglie, non basta logorare il nemico. I prossimi aiuti militari devono
essere mirati a raggiungere obiettivi più ambiziosi”, come lo scatenamento di
un conflitto nucleare? Intelligenza questa sconosciuta.
9) “Le
guerre nucleari sono impossibili?
Nessuno
qui si augura che questo luogo comune venga sfatato. Ed è chiaro che i russi
hanno tutto l’interesse ad alimentare la paura dell’escalation nucleare per
spaventare gli ucraini e noi”.
I
russi, non la NATO che continua ad armare Kiev ed escludere ogni trattativa di
pace, previa umiliazione ed annichilimento della Russia.
“Però
la Russia ha già violato il tabù dell’invasione, in Paese sovrano, in Europa e
sotto il naso della NATO”.
Certo, doveva accettare la NATO ad un tiro di
schioppo da Mosca e con un governo fantoccio infiltrato da fazioni
ultranazionaliste armate dall’Occidente, decise a tutto pur di distruggere la
Russia.
Ricordiamo
che il Financial Time rivelò che il 19 febbraio scorso, il Cancelliere tedesco
Sholtz inviò a Zelensky la proposta di adesione all’UE in cambio della
neutralità di Kiev, ottenendo in cambio un rifiuto del Presidente ucraino.
“Putin si è lanciato in un’impresa del tutto
irrazionale secondo i nostri parametri”. I nostri appunto, che non tengono
conto delle esigenze di Mosca in materia di sicurezza, dato il continuo
avanzamento della NATO nei territori ex sovietici dal ’98 ad oggi. Va ricordato
allo smemorato commentatore, la promessa fatta da Bush padre a Gorbaciov nel
91, che la NATO “non si sarebbe spostata di un pollice” oltre il fiume Oder
nella Germania orientale.
A schierarsi contro l’entrata dei Paesi
dell’est nella NATO, ci furono l’alto diplomatico statunitense George Kennan
(ideatore della “dottrina del Conteniment” in piena guerra fredda), Henry
Kissinger e Joe Biden.
“La
sua minaccia reiterata di usare l’atomica è assecondata da un’opinione pubblica
russa, che contrariamente alla nostra, non ha paura della bomba: o reagisce con
passività, oppure ne chiede l’uso a gran voce, sui social network, così come
nelle piazze”. Già, non ha paura della guerra atomica perché i russi sono di
amianto e possono resistere alle radiazioni… Ma sono soggiogati e terrorizzati
o sono fedeli al regime putiniano?
Magni facesse pace col cervello.
E per
finire:
”Non
possiamo contare sulla razionalità di una attore che si è dimostrato
irrazionale, sotto ogni aspetto” La NATO che ha bombardato e distrutto Paesi
sovrani come la Serbia, l’Iraq, la Libia e spostato il suo fronte sempre più ad
est, ha dimostrato grande rispetto Diritto Internazionale ed equilibrio invece.
“Anche
qui c’è la risposta giusta a quella sbagliata. La risposta sbagliata, da parte
nostra, sarebbe quella di costringere l’Ucraina alla resa, per paura della
guerra nucleare.
La risposta
giusta è invece quella di potenziare il nostro deterrente”.
Al
prezzo di un paese distrutto, di milioni di sfollati e di decine di migliaia di
morti, facile fare il bullo da tastiera con la pelle degli altri.
“E non
basta far sapere a Putin, in caso di escalation, ‘perderemmo tutti’. Bisognerà
fargli capire, proprio, che in caso di escalation, sarà lui a perdere tutto”.
Caro
Stefano Magli, in caso di escalation atomica (che non avverrà mai speriamo)
nemmeno quelli come te avranno la possibilità di sparare più imbecillità
ricolme di fanatismo bellicista, ma sarà autodistruzione assicurata e a perdere
saremo tutti.
Il
declino economico degli
Stati
Uniti e l’instabilità globale.
Lafionda.org
– (20 settembre 2022) - Fabrizio Russo – ci dice:
Le
minacce ai pilastri su cui si reggono gli USA.
Gli
Stati Uniti sono emersi dalla Seconda Guerra Mondiale come la principale
potenza economica e militare del mondo.
Settanta
anni dopo, circa, il potere americano è in declino, una diretta conseguenza di decenni
di politiche economiche neoliberiste, che spendono ingenti somme di denaro
pubblico per l’esercito e il raggiungimento della “parità” economico-militare
con Russia e Cina.
Queste politiche hanno eroso la forza economica degli
USA e stanno minando il ruolo del dollaro in veste di valuta di riserva
mondiale, pilastri chiave del loro potere globale.
In realtà, tutti i pilastri che sostengono il
potere degli Stati Uniti sono ora minacciati dai decenni di politiche
economiche neoliberiste sconsiderate.
Il punto nodale è il collegamento tra il continuo
declino economico e sociale negli Stati Uniti/UE (collettivamente indicati come
“l’Occidente”) ed una politica estera statunitense sempre più sconsiderata, oltre al ruolo svolto dalle “Media
Corporation” nel promuovere queste politiche presso il pubblico americano/UE di
fronte all’ascesa di Russia, Cina assieme ad altri paesi del sud del mondo.
Ruolo
delle” Media Corporation”.
Primo
emendamento della costituzione degli Stati Uniti:
“Il
Congresso non promulgherà alcuna legge sul rispetto di un’istituzione
religiosa, o vietandone il libero esercizio; o abbreviare la libertà di parola
o di stampa; o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di presentare
una petizione al governo per una riparazione delle lamentele.”
È
luogo comune, da tempo affermato, che la stampa (alias il proverbiale “quarto
potere”) negli Stati Uniti è “libera” e “indipendente” ed “essenziale per il
funzionamento di una società libera”, rivestendo la funzione di “cane da
guardia” sulle azioni e sulle politiche del governo.
Un
ruolo, quindi, vitale per proteggere la “libertà” dei cittadini americani.
Una
volta, quando a ragione nasceva il mito degli USA paladini della libertà, era
effettivamente così. Purtroppo oggi è diverso e, come spesso accade, le cose non
sono sempre come sembrano.
In una
recente intervista con Brian Berletic, “Mark Sleboda” ha commentato che
“i media occidentali sono allineati ai
desiderata dell’Esecutivo, sui temi di politica estera, a un livello tale che
farebbe arrossire i dittatori conclamati”.
Assodato
che non vi siano dubbi sul fatto che i media occidentali (leggi “media
corporativi”) stiano effettivamente promuovendo la politica estera degli Stati
Uniti, bisogna aggiungere che non è il governo degli Stati Uniti a formulare
queste politiche, ma è piuttosto l’élite al potere che le formula e sviluppa,
utilizzando fondazioni finanziate da aziende e “think tank” ‘, istituzioni
accademiche e politici di spicco.
Tra
questi, i principali includono:
il
Council on Foreign Relations (CFR), Rand Corporation, Rockefeller Foundation,
American Heritage Foundation, Atlantic Council, Brookings, Center for Strategic
and International Studies (CSIS). Istituzioni accademiche come The Kennedy
School (Harvard), Hoover Institution (Stanford), Walsh School of Foreign
Service (Georgetown) e la School of Advanced International Studies (Johns
Hopkins), che non solo forniscono “esperti” e funzionari governativi.
Infatti
una volta formulate, queste politiche vengono “vendute” al pubblico
americano da media compiacenti e ben allineati.
Come?
Beh
qualche particolare per dedurlo con facilità: circa il 90% dei media
statunitensi è controllato da sei grandi società:
Comcast,
Walt Disney, AT&T, Paramount Global, Sony e Fox, con una capitalizzazione
di mercato combinata di circa $ 500 miliardi.
Come altre grandi società, i conglomerati dei media
hanno gli stessi interessi di classe dell’élite finanziaria, cioè promuovere
politiche che aumentino il potere e i profitti delle corporazioni e mantengano
l’egemonia globale degli Stati Uniti.
I cosiddetti media “pubblici”, come la
National Public Radio (NPR) e la BBC, nel Regno Unito, funzionano in modo
simile.
I media, che funzionano con logiche aziendali,
sono strettamente integrati con grandi interessi finanziari, fungendo da “cheerleader” per il Pentagono e la politica
estera degli Stati Uniti.
Non
sorprende quindi che le principali emittenti radiotelevisive, il The New York
Times (NYT), il Wall St. Journal (WSJ), il Washington Post, etc. etc., siano
poco più che una cassa di risonanza per l’élite dominante USA e quindi
funzionino principalmente come il “ministero della propaganda” per i molti
grandi interessi finanziari.
Qualsiasi
giornalista, analista militare, alias ‘generale della TV’, ecc. che ‘esce dalla
linea’ – ad
esempio dicendo la verità sulla debacle militare che sta affrontando l’Ucraina,
in mezzo a pochi e ben orchestrati successi – sarà severamente rimproverato o si
ritroverà senza lavoro.
Qualche esempio:
1) La CBS ha recentemente pubblicato un documentario
in cui afferma che solo il 30% degli “aiuti militari” inviati in Ucraina è
effettivamente arrivato.
Il
video è stato rimosso in seguito alle denunce del governo ucraino.
2) David Sanger (laureato ad Harvard) è il principale
corrispondente da Washington per il NYT e anche un membro del Council on Foreign Relations (CFR), i cui membri includono dirigenti
aziendali, banchieri e altri rappresentanti dell’élite dominante.
3) David Ignatius (laureato ad Harvard) è un
editorialista di affari esteri per il WaPo e ha stretti legami con la comunità dell’intelligence, la CIA e il
Pentagono.
Sanger
e Ignatius servono
come esperti per il predominio globale degli Stati Uniti, promuovendo l’uso della forza
militare per sostenere gli interessi americani.
Quando
non segui la linea aziendale…
4) Gary Webb era un giornalista che lavorava per
il San Jose Mercury News. Nel 1996, Webb ha pubblicato una serie di articoli, “Dark Alliance”, descrivendo come i
ribelli dei Contra nicaraguensi, lavorando a stretto contatto con la CIA, hanno
fornito crack alla comunità nera di Los Angeles e hanno utilizzato i proventi
di queste vendite per acquistare armi e rovesciare il governo del Fronte di
Liberazione Nazionale Sandinista di Daniel Ortega.
Dopo
la pubblicazione della serie Dark Alliance, le Media Corporation sono diventate
“isteriche”,
denunciando Webb e rovinando di fatto la sua carriera; si è suicidato nel 2004.
5)
Julian Assange – Nel 2010, Wikileaks, fondata da Julian Assange, ha pubblicato una serie
di indiscrezioni ottenute da Chelsea Manning, analista dell’intelligence dell’esercito americano,
che documentano i crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan.
Dopo
la pubblicazione di queste fughe di notizie, il governo americano ha avviato
un’indagine penale su WikiLeaks.
Nel
2010, la Svezia ha emesso un mandato d’arresto per Assange per accuse di
cattiva condotta sessuale.
Per evitare l’estradizione, Assange ha cercato
rifugio presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra.
Nel
2019, Assange è stato arrestato dalla polizia britannica presso l’ambasciata
ecuadoriana e trasferito a Belmarsh, una prigione maschile di categoria A in
Londra.
Fino a
quel momento, Julian Assange non era stato formalmente accusato.
Gli
Stati Uniti sono stati quasi continuamente coinvolti in conflitti militari
palesi e nascosti dal 1940 e, di conseguenza, la guerra e la violenza associata
sono state normalizzate e istituzionalizzate dai media “corporativi”, al punto
che queste politiche sono prontamente accettate da un pubblico americano
relativamente docile e ignorante.
Quando
i governi stranieri ritenuti ostili agli interessi corporativi statunitensi
limitano la “libertà” di stampa, vengono immediatamente etichettati come regimi
repressivi/terroristici e potenziali candidati per un attacco diretto e un
cambio di “regime” dal Dipartimento di Stato USA.
Parafrasando un detto statunitense:
Apparentemente, ciò che è “buono per l’oca” è
“non buono per l’uomo”.
Come sottolineato in precedenza, qualsiasi
giornalista che minacci l’impero americano rischia di perdere il lavoro, o
peggio rischia la reclusione o la morte.
Declino
accelerato del capitalismo americano in fase avanzata.
Molteplici
fattori hanno contribuito al declino del potere economico americano. Questi includono le politiche
economiche, la spesa astronomica di denaro dei contribuenti per l’esercito e la
guerra, l’instabilità sociale e l’ascesa dell’asse Cina-Russia-Iran.
Politiche
economiche.
Dalla
metà degli anni ’70, i responsabili politici statunitensi hanno perseguito
politiche economiche neoliberiste:
deregolamentazione
finanziaria, austerità, tagli alle tasse per i ricchi, attacchi al lavoro e
delocalizzazione del lavoro, che hanno portato alla massiccia crescita del settore FIRE
dell’economia composto da finanza, assicurazioni e immobili.
Queste
politiche hanno accelerato la crisi finanziaria globale (GFC) 2007-2008, il più grande shock finanziario
dalla Grande Depressione.
Invece
che risolvere i gravi problemi strutturali che deve affrontare il capitalismo
americano che ha creato questa crisi, la FED ha utilizzato il Tesoro come un
“salvadanaio” di fatto, supportato dai contribuenti, per sostenere i mercati
azionari, le obbligazioni, i prezzi reali eccessivi di banche ed immobili e
[ancora] molti titoli Corporate “insolventi”.
In prospettiva, dal 2009 la FED ha iniettato
oltre $ 40 trilioni nei mercati finanziari, aumentando così la ricchezza
dell’élite finanziaria, il proverbiale ‘1%’.
Non sorprende che negli ultimi 5 anni i
disavanzi del governo statunitense siano aumentati di circa 2 trilioni di
dollari all’anno, superando attualmente i 30 trilioni di dollari.
Questa cifra non include il debito degli enti
locali, delle imprese o dei consumatori. Ciò spinge a porsi l’ovvia domanda:
per
quanto tempo la FED può continuare questo comportamento “orgiastico”, stampando
denaro e accrescendo il debito?
Spesa
militare e guerra.
Fin
dall’inizio, gli Stati Uniti sono stati costruiti su furti e violenze,
giustificati dalla religione “cristiana” e dalla “supremazia dell’uomo bianco”.
Il primo insediamento britannico permanente in
Nord America fu fondato a Jamestown, in Virginia, nel 1607.
Un
decennio dopo, gli schiavi africani furono introdotti dai commercianti di
schiavi olandesi.
Nel corso dei successivi 250 anni, il governo degli
Stati Uniti avrebbe continuato a rubare terre ed a trasferire/uccidere circa il
90% della popolazione indigena.
A metà del 19° secolo, gli Stati Uniti erano
la principale economia mondiale, in gran parte costruita sul cotone prodotto
dagli schiavi neri.
Avanti
veloce di 150 anni ed osserviamo che, gli Stati Uniti, sono stati quasi
continuamente in guerra dal 1940.
Il 9/11 è stato una manna dal cielo per i militari:
i contribuenti statunitensi hanno speso circa
21 trilioni di dollari (7,2 trilioni di dollari destinati agli appaltatori
militari) per la militarizzazione post-9/11.
Lo stanziamento militare per il 2023 supera i
760 miliardi di dollari.
Nonostante
questa generosità dei contribuenti, il Pentagono non ha “vinto” una guerra dal
1945, è stato costretto a lasciare l’Afghanistan dopo aver speso 2 trilioni di
dollari e deve affrontare le incombenti debacle strategiche in Iraq, Siria,
Libia, Yemen e (probabilmente) Ucraina.
Questo ha mostrato vividamente, al resto del
mondo, i limiti della potenza militare americana.
Sfortunatamente,
dopo aver speso così tanto capitale finanziario e umano, il Pentagono sembra
incapace di districarsi da questi conflitti poiché farlo sarebbe un’ammissione
di fallimento e, per estensione, debolezza militare.
Ciò è chiaramente sotteso alla decisione di Joe Biden
di rimuovere le truppe statunitensi dall’Afghanistan nel 2021 e dalla
“reprimenda” che ha ricevuto dalle media corporations e dal “popolo” del
Congresso.
Caos
politico e instabilità sociale.
Sentiamo
spesso dire che la società statunitense è progredita al punto che il paese
sembra essere sempre più ingovernabile.
In
effetti, la società americana è afflitta dalla disuguaglianza economica, da
razzismo e da violenza onnipresente.
La
classe operaia americana ha assistito al crollo del proprio tenore di vita,
risultato di decenni di politiche economiche neoliberiste, tra cui
l’esternalizzazione del lavoro, austerità, crescita stagnante del reddito e,
dopo la pandemia di Covid 19, inflazione elevata, riflessa dall’aumento dei
costi di affitto, trasporti, energia, generi alimentari, cure mediche ed altri
generi di prima necessità.
Per mettere tutto ciò in prospettiva, il 60% degli
americani non ha $ 500 di risparmi e quindi una costosa riparazione auto,
un’emergenza medica o la perdita di lavoro corrispondono, praticamente, alla
rovina finanziaria.
Contemporaneamente,
la ricchezza dei miliardari americani è aumentata di circa 1 trilione di
dollari durante la pandemia di Covid19.
Rafforzamento
della contrapposizione BRICS/SCO vs. USA/NATO.
Dall’altro
lato, stiamo assistendo al continuo aumento del potere globale e dell’influenza
di Russia, Cina e nazioni alleate, su più fronti, compreso quello
organizzativo, economico e militare.
I BRICS e la Shanghai Cooperation Organization
(SCO) si stanno espandendo.
I
membri originari dei BRICS includevano Brasile, Russia, India, Cina e Sud
Africa. Iran e Argentina hanno recentemente presentato domanda di ammissione,
mentre il Regno dell’Arabia Saudita (KSA), la Turchia e l’Egitto stanno
preparando la domanda d’ingresso per il prossimo anno.
SCO è
la più grande istituzione economica regionale del mondo: copre il 60% dell’Eurasia con una
popolazione che supera i 3,2 miliardi e un PIL combinato degli stati membri pari
a circa il 25% del totale globale.
Il commercio tra BRICS e gli stati membri
della SCO viene inoltre effettuato utilizzando sempre di più valute locali.
Il
sistema di pagamento “Mir” gestito dal “Russian National Card Payment System “è
un concorrente diretto di Visa e Mastercard ed ora accettato in tutta la
Federazione Russa e in 13 paesi tra cui India, Turchia e Corea del Sud e sarà
presto utilizzato in Iran.
Le nazioni BRICS stanno sviluppando una valuta
globale per il commercio internazionale che competerà direttamente con il
dollaro.
La
Russia sta sviluppando una nuova piattaforma commerciale internazionale per i
metalli preziosi: il Moscow World Standard (MWS).
Il
ministero delle finanze russo ritiene che questa nuova struttura internazionale
indipendente “normalizzerà il funzionamento dell’industria dei metalli preziosi” e fungerà da alternativa alla “London Bullion Market Association” (LBMA; lbma.org.uk), che da anni è accusato di
manipolare, sistematicamente, il prezzo di mercato dei metalli preziosi per
deprimerne i corsi.
Nel complesso, queste politiche sono state
progettate per ridurre significativamente la dipendenza delle economie in
Russia, Cina, India ed altri paesi del Sud del mondo dagli Stati Uniti/UE ed
eliminare la dipendenza dal dollaro USA e dal Sistema della Society for Worldwide
Interbank Financial Telecommunications (SWIFT) nei pagamenti collegati al commercio
internazionale.
Senza dubbio ciò viene realizzato in stretta
sintonia con la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, il cui obiettivo è collegare l’Asia con
l’Africa e l’Europa tramite reti terrestri e marittime al fine di migliorare
l’integrazione regionale, aumentare il commercio e stimolare la crescita
economica.
Questo processo ha ricevuto un’accelerazione
con l’emanazione delle sanzioni USA/EU nei confronti di Russia, Iran e Cina (per motivi diversi).
Nell’ultimo
decennio, la potenza militare di Russia, Cina e Iran si è notevolmente
rafforzata.
L’esercito
russo è un leader mondiale nei sistemi di difesa aerea e nelle armi
ipersoniche, che sono “impermeabili” a qualsiasi sistema di difesa aerea
attualmente dispiegato da USA/NATO.
Negli ultimi 25 anni, la Cina ha modernizzato
le sue forze armate, concentrandosi sulla Marina di liberazione popolare e
sull’aeronautica militare. La Cina ha sviluppato un robusto arsenale
missilistico che include missili balistici intercontinentali (ICBM).
Il Pentagono ora considera la Cina una “forza militare
formidabile” e una “grande sfida” per la Marina degli Stati Uniti nel Pacifico
occidentale.
La
Repubblica islamica dell’Iran ha anche sviluppato una formidabile capacità militare
difensiva, che pone l’Iran tra i principali “intermediari di potere” nella
regione.
Il
Center for Strategic and International Studies (CSIS) ha concluso:
“L’Iran
possiede il più grande e diversificato arsenale missilistico del Medio Oriente,
con migliaia di missili balistici e da crociera, alcuni in grado di colpire
anche Israele e l’Europa sudorientale”.
L’Iran ha ripetutamente avvertito gli USA/NATO
che può prendere di mira le basi militari statunitensi nella regione, inclusa
la base di Al Udeid in Qatar, la più grande base statunitense in Medio Oriente.
Stiamo assistendo, quindi, a una maggiore
assertività dall’asse Russia-Cina-Iran in Siria, Ucraina e Pacifico
occidentale.
Tendenza
chiaramente confermata dal discorso del presidente russo Vladimir Putin al
Forum economico internazionale di San Pietroburgo a giugno, quando il medesimo ha dichiarato la
fine dell’“era del mondo unipolare”.
Il Pentagono viene sfidato sempre più spesso
dall’asse Russia-Cina-Iran in Europa orientale, Medio Oriente e Pacifico
occidentale.
Ucraina:
un’altra debacle di USA/NATO.
Per
un’informazione storica di base riguardo l’Ucraina e le sue relazioni con la
Russia, ricordiamo che è il secondo paese più grande d’Europa dopo la Russia e
occupa una posizione strategica nell’Europa orientale, condividendo un confine
di circa 2300 km (1227 mi) con la Russia.
Nel
2021, l’Ucraina aveva il secondo esercito più grande (circa 200.000 militari),
dopo le forze armate russe, in Europa e ha il non invidiabile primato di essere
uno dei paesi più corrotti al mondo.
Storicamente, la popolazione prevalentemente
di lingua russa nella regione del Donbas, nell’Ucraina orientale, ha sempre
mantenuto stretti legami con la Russia.
Nel
febbraio 2014 ha avuto luogo il colpo di stato di Maidan, supportato e
“sollecitato” dagli Stati Uniti, che ha sostituito il presidente eletto
democraticamente Victor Yanukovich con un politico-economista-avvocato di
estrema destra fobico per la Russia, “Arseniy Yatsenyuk”.
Non
sorprende quindi che il governo ucraino sia stato presto dominato da
un’alleanza di organizzazioni fasciste di estrema destra tra cui il “Settore
Destro e Svoboda” e partiti oligarchici, come l”a Patria”.
Questo
era prevedibile, visto che questi gruppi erano le fazioni più violentemente
anti-russe in Ucraina e sono ancora molto attivi nel governo e nell’esercito.
Subito dopo il colpo di stato, le Repubbliche
popolari di Donetsk e Luhansk dichiararono la loro indipendenza, dando inizio
alla guerra nel Donbas.
Negli 8 anni successivi, gli USA/NATO
avrebbero addestrato circa 100.000 soldati ucraini e incanalato miliardi di
dollari in aiuti militari, che sono stati utilizzati per equipaggiare
l’esercito ucraino e fortificare le posizioni adiacenti alle Repubbliche di
Donetsk e Luhansk.
Questo
incremento di forze terrestri è stato accompagnato da un aumento dei
bombardamenti delle aree residenziali nella regione del Donbas da parte
dell’esercito ucraino, creando le premesse per una potenziale invasione di
questa regione.
In risposta all’escalation degli attacchi
delle forze ucraine, la Russia ha riconosciuto le Repubbliche popolari di
Donetsk e Luhansk come stati sovrani il 21 febbraio 2022, appena prima
dell’invasione russa del 24 febbraio 2022, descrivendo questa campagna come un’operazione militare speciale (SMO).
Affrontando
un esercito ucraino ben addestrato, ben equipaggiato e trincerato, le forze
russe sono riuscite a prendere il controllo di circa il 20% (~47.000 miglia
quadrate) dell’Ucraina meridionale e stanno rimuovendo gradualmente le forze
ucraine da questa regione.
Questo territorio contiene terreni agricoli di
prim’ordine e ricchi di risorse.
Sembra che la Russia abbia pianificato l’annessione
del territorio litoraneo che si estende dalla regione di Donetsk/Luhansk a
Odessa.
Una volta che ciò dovesse accadere, qualsiasi
futuro stato ucraino non avrà più uno sbocco sul mare e non accederà
direttamente al Mar Nero, oltre a perdere anche territori economicamente assai
preziosi.
L’analista militare “Andrei Martyanov” ha
affermato che l’Occidente combinato non ha i mezzi materiali e tecnologici per
combattere la Russia nell’Europa orientale senza perdere in modo catastrofico.
“Le
armi occidentali si sono rivelate, in larga parte, nient’altro che articoli
commerciali non progettati per combattere la guerra moderna, inoltre nessuna
economia occidentale, compresi gli Stati Uniti, ha comunque la capacità di
produrle oggi nelle quantità necessarie”.
L’Occidente
nel suo insieme ha risposto all’invasione russa bloccando l’apertura del
gasdotto Nord Stream 2, che doveva fornire gas naturale russo direttamente alla
Germania, ha imposto sanzioni alle esportazioni di energia russe e ha
disconnesso le banche russe dal sistema SWIFT.
Con “sbigottimento” di USA/NATO (“ma dove
vivono? Su Marte?”), queste azioni hanno portato a forti aumenti dei costi
energetici dell’UE, rafforzando allo stesso tempo – almeno sul breve termine –
l’economia russa.
Il “The New York Times” (NYT) ha però pubblicato di
recente un editoriale lamentando il fatto che, nonostante le sanzioni
occidentali, la Russia sta facendo più soldi che mai con le esportazioni di
energia in Cina, India e altri paesi.
Nonostante
la continua condanna, da parte di USA e della UE, della SMO russa in Ucraina,
molte nazioni non hanno criticato la guerra:
solo 1/3 dei membri delle Nazioni Unite ha
sostenuto una nuova risoluzione anti-russa votata in agosto.
Pertanto,
il calo del sostegno internazionale all’Ucraina, insieme al successo della SMO
russo, indica che il paese, verosimilmente, in futuro non avrà i suoi confini
attuali (ante-conflitto).
Osservazioni
conclusive.
Il
declino del capitalismo americano è in fase avanzata ed è in corso dalla metà
degli anni ’70, ma è stato accelerato dalla GFC, dalla pandemia di Covid-19,
dai cambiamenti climatici e dalla SMO russo in Ucraina.
Non
sorprende che l’élite al potere e i suoi rappresentanti a Washington abbiano risposto spostando i costi di
questo declino sul pubblico, che ha visto il loro tenore di vita precipitare –
con l’aumento, anche, dei senzatetto – ha imposto una legislazione di stampo
reazionario come la criminalizzazione della gravidanza da parte della Corte
Suprema degli Stati Uniti, ha aumentato la violenza di stato contro i lavoratori
e le persone di colore, mentre si impegnava in una politica estera
astronomicamente costosa e sconsiderata.
Pare
che l’élite dominante veda l’asse Russia-Cina-Iran come un intollerabile
ostacolo al mantenimento del potere globale USA, riflesso nella guerra in corso
in Ucraina, che è di fatto una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia.
Ovviamente,
le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’energia russa hanno fatto salire i
prezzi globali dell’energia: i prezzi del gas naturale nell’UE sono 14 volte superiori
alla media degli ultimi 10 anni.
Di conseguenza, il Regno Unito e l’UE rischiano di non
disporre di quantità sufficienti di gas naturale per l’inverno, mentre
l’industria dell’UE non sarà in grado di competere con i suoi rivali in Asia,
ai quali viene fornita energia russa a condizioni assai più economiche.
La
continua presenza delle truppe statunitensi in Iraq e in Siria è un tentativo
disperato di mantenere il controllo sulle riserve energetiche del Medio Oriente.
L’incoscienza di questa occupazione si
manifesta con i continui attacchi israeliani alle forze siriane e alleate
iraniane (attacchi sostenuti da Israele e USA), aumentando le possibilità di
una guerra con l’Iran, che può rapidamente intensificarsi, incendiando
potenzialmente l’intera regione del Golfo Persico.
Sembra,
infine, che gli Stati Uniti stiano abbandonando la politica “Una Cina” che ha
guidato le relazioni tra i due paesi per quasi cinque decenni e si stiano
preparando a riconoscere Taiwan come uno stato “indipendente”, una linea rossa
invalicabile per la Repubblica popolare cinese.
Senza dubbio, questa è stata una delle
motivazioni dell’invio della Presidente della Camera Nancy Pelosi, una persona
con un patrimonio netto superiore a $ 100 milioni dalla “liberale” San Francisco,
in visita Taiwan.
Il Pentagono incoraggia inoltre attivamente il
Giappone, ad armarsi per un eventuale opposizione all’espansione cinese
nell’area.
Questo pone la domanda ovvia: il Giappone ha imparato qualcosa
dalla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale? Come ha sottolineato Glen Ford,
gli egemoni non hanno “alleati”, hanno solo subordinati.
Il
declino del capitalismo americano in fase avanzata è progredito al punto che la
sopravvivenza stessa dell’impero americano è ora subordinata alla stampa infinita
di denaro per sostenere i mercati finanziari e l’esercito.
Questo filo a cui sono appesi sta però diventando
sempre più tenue, poiché l’ “orgiastica” tornata di stampa di denaro e debito
ha creato bolle gigantesche in ogni classe di attività – “tutto in bolla”, si
potrebbe dire – alimentando l’inflazione e minacciando di far deragliare il
ruolo di valuta di riserva mondiale del dollaro e la vitalità del capitalismo
occidentale.
Considerando
lo stato di debolezza delle economie USA/EU, quali incentivi economici hanno
gli USA per incoraggiare i paesi dell’Indo-Pacifico a ridurre il commercio con
la Cina?
Ovviamente,
questo è un argomento nato morto!
L’oligarchia al potere è ben consapevole del declino
economico degli Stati Uniti e, disperata, sta tentando di affrontare
direttamente l’asse Russia-Cina-Iran, che ha raggiunto la parità economica e
militare (superiorità?) con USA/NATO.
Si
profilano tempi pericolosi davanti a noi e serve un elevato grado di
consapevolezza per affrontarli correttamente e proficuamente.
(Fabrizio
Russo)
NEOPLEBE,
CLASSE CREATIVA, ÉLITE:
LA
NUOVA ITALIA.
Perunaltracitta.org – Redazione – (9 Gennaio
2023) – ci dice:
Pubblichiamo,
con il gentile permesso della casa editrice, questo brano dove i due autori
teorizzano una partizione sociale che possa sostituire alcune categorie che non
sono più attuali.
Questa
una breve sinossi:
Tramontate
le società nazionali, si sono create delle nuove faglie.
Al
posto delle classi, dei ceti, dei gruppi, si è costituita una nuova triade
sociale.
L’élite
(sempre più in declino), una classe creativa in crescita e una estesa neo plebe
molto eterogenea, formata dagli strati sociali più deboli che stanno scivolando in basso
e sono a permanente rischio di secessione.
L’attuale
configurazione globale delle società ha portato a trasformazioni sociali
inattese.
Ormai
tramontate le società nazionali, si sono create nuove linee di frattura:
inclusi-esclusi, cosmopoliti-locali, concentrati-estesi.
Si è formata così una nuova triade sociale da
analizzare dal punto di vista qualitativo e quantitativo.
In
questo libro viene misurata con dati sia nazionali che disaggregati localmente,
tra Nord, Centro e Sud, tra regioni, province e città.
Il quadro proposto raffigura l’Italia tra il
2008 e il 2020, ma ha una proiezione europea e mondiale.
Ciò
che scopriamo è che in Italia l’élite è diminuita in quantità e qualità, la neo plebe è cresciuta fino a rappresentare la
maggioranza della popolazione, mentre la classe creativa è in costante aumento e potrebbe
rappresentare la nuova classe dirigente, per ora senza potere.
Dati
che ci interrogano su questioni attualissime: quale mondo ci troveremo a
gestire così polarizzato tra poche grandi concentrazioni metropolitane e
immense aree di sfruttamento estensivo?
Quali
conseguenze sociali e politiche avranno le dinamiche tra una élite in storico
declino, una massa priva di sapere e dei saperi senza potere?
(Paolo
Perulli – Luciano Vettoretto, Neoplebe, classe creativa, élite, Laterza, Bari)
(È
questo il brano -pp.3-27)
1. La triade sociale. Un quadro inedito.
La
società italiana, come del resto quella europea e occidentale, è cambiata
profondamente negli ultimi decenni senza che l’immagine che abbiamo di essa sia
stata aggiornata in modo significativo.
Eppure, la distanza tra la situazione di oggi
e quella degli anni ’80 è impressionante.
I
lavori di Paolo Sylos Labini (1976, 1985) ne sono il migliore documento.
Il grande economista, che nel 2003 previde la
crisi finanziaria del 2007-2008 e per primo mostrò la gravità della crescita
del debito, compì negli anni ’70 e ’80 la migliore analisi delle classi sociali
in Italia.
La borghesia imprenditoriale appariva in lieve
crescita, passando dal 2% del 1951 al 3% del 1983.
Esplosiva
risultava essere la crescita delle classi medie urbane che, nel trentennio
postbellico, passavano dal 29% al 48%.
La
classe operaia era stabile, passando nello stesso periodo dal 41% al 43%,
mentre i coltivatori diretti crollavano dal 28% al 6%.
Secondo
Sylos Labini questa forma della società industriale rifletteva cinque robuste
tendenze:
– la
riduzione del divario tra stipendi e salari (egualitarismo);
–
l’erosione dei profitti delle grandi imprese (perdita di competitività);
– la
flessione dell’orario di lavoro (aumento della produttività);
– la
partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese;
– la
crescita dell’intervento pubblico nell’economia.
La sua
previsione era che la società evolvesse verso una grande classe media articolata
in tre strati di piccola borghesia, composita ma robusta, con gruppi emergenti:
intellettuali e scienziati, tecnici e specialisti e
quegli “intellettuali
di tipo nuovo” di cui parla Antonio Gramsci (1966) con cui la classe operaia avrebbe
dovuto tendere ad allearsi.
Se
misuriamo queste tendenze con l’oggi, scopriamo che si sono completamente
invertite.
Le grandi imprese hanno aumentato i profitti
oligopolistici, a partire da quelle del web.
La
divaricazione tra quota dei profitti e quota del lavoro a favore dei primi è
diventata esplosiva.
I dati su reddito e ricchezza mostrano
l’accrescersi della dicotomia tra strato ricco (1%) e strati poveri.
L’orario
di lavoro è aumentato in ragione della crescita di forme di lavoro autonomo e
flessibile che prolungano il tempo di lavoro sul tempo di vita.
Le
forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa si sono
interrotte.
L’intervento pubblico nell’economia è
regredito lasciando il campo a estese privatizzazioni, almeno a partire dagli
anni ’90.
La
dicotomia garantiti-non garantiti è diventata insufficiente a censire le
posizioni deboli presenti in tutti gli strati sociali intermedi e inferiori.
Il
quadro generale riflette uno scivolamento verso il basso – riduzione media di
reddito e ricchezza delle famiglie, nuovi poveri specie di età giovane, aumento
record di giovani che non lavorano né studiano, i Neet –, mentre la ricchezza si
concentra verso l’alto della scala sociale.
Nonostante
questo quadro mutato, usiamo tuttora categorie come imprenditori e dirigenti
per qualificare l’élite economica, parliamo di classe politica per lo strato di
governo, e poi di ceti medi, di classe operaia, pur verificando che tali classi
e ceti si sono sfaldati in modo irreversibile.
La loro rappresentazione sfocata va di pari passo con
la loro mancanza di rappresentanza.
Dunque,
se vogliamo mettere a fuoco il volto della società attuale è necessario
aggiornare il lessico.
Ci ha
provato di recente Luca Ricolfi (2019) introducendo la categoria “società
signorile di massa”.
Una categoria che coglie alcuni tratti di un
fenomeno interessante.
Individua
correttamente una crescita della rendita parassitaria e del consumo vistoso.
Tuttavia,
non convince appieno poiché attribuisce il signoraggio a una categoria sociale
spuria:
una
generazione che vive consumando la ricchezza di quella precedente.
Di
certo, però, contribuisce a spiegare sia l’ascesa sia la caduta della classe
media.
Ascesa, quando essa insegue la propria
promozione sociale mediante il lavoro e l’impresa, cui si aggiungono le rendite
rese possibili dal risparmio e dagli investimenti in titoli pubblici, che fino
all’introduzione dell’euro sono stati la via dell’alimentazione della classe
media.
Caduta, quando essa resta vittima della
finanziarizzazione e subisce in prima persona gli effetti della crisi del
debito.
Sappiamo quanto le crisi bancarie hanno impoverito
ceti medi e perfino operai e sono di palmare evidenza gli effetti della crisi
del debito che ha prodotto la riduzione dei servizi pubblici – istruzione dei
figli, sanità e assistenza degli anziani – cui si cerca di far fronte con un
keynesismo privato, economicamente rovinoso.
In
realtà non è corretto considerare la classe media il baricentro della società,
cosa che abbiamo continuato a fare tanto durante la sua lunga ascesa quanto nel
suo attuale declassamento.
Il quadro sociale è assai più complesso e
composito, come vedremo nel dettaglio nelle pagine che seguiranno.
Quello
che possiamo affermare fin da subito è che difettiamo di un’analisi a tutto
tondo dei nuovi strati che consideri insieme gli aspetti acquisitivi e
remunerativi di successo o di declino e il sistema di credenze e valori che
sempre accompagnano il loro emergere o precipitare.
Vale, intanto, per la crisi dell’élite.
Abbisogna di una comprensione l’avvenuta
caduta dello spirito del capitalismo, della weberiana razionalizzazione e
sistemazione delle condotte di vita dei suoi protagonisti imprenditoriali,
delle loro qualità carismatiche.
Basta tornare al decennio appena trascorso e
valutare la crisi dell’élite economica e politica espressa dalle crisi
finanziarie e bancarie dopo il 2008.
In questo contesto, l’élite – imprenditoriale
e rentier – si è separata dalla classe media, impoverita e impaurita, tornando a una condizione
ottocentesca con due zone sociali contrapposte:
“la
città dei nobili e del potere da una parte” e quella del commercio e del
guadagno a rischio dall’altra.
L’élite
ha, infatti, mantenuto il suo stile di vita, il suo privilegio immune alle
crisi ricorrenti, né ha ricostruito quel tessuto dell’etica professionale,
delle ‘buone opere’ che contribuiscono al benessere sociale e della fiducia
razionalmente controllata.
Ma
questo discorso non vale solo per l’élite, vale anche per gli altri strati.
La crisi
della classe media che produce e risparmia è, come vedremo, il frutto anche
della caduta dello spirito di comunità della borghesia cittadina proprio di una
fase di urbanizzazione anomica, estensiva e caotica.
Allo stesso modo, l’espansione recente dello
strato che denomineremo ‘neoplebe’ è il frutto anche della delusione degli strati declassati nei
confronti di una escatologia e di una fede collettiva in un riscatto sociale
cui aspirare.
Sono nuove forme della distinzione sociale, quell’habitus che riveste gli
appartenenti ai diversi strati e li differenzia l’uno dall’altro e che, per
essere comprese, richiedono di un lavoro di scavo à la Pierre Bourdieu (ma
prima ancora à la Balzac!).
Ancora
non disponiamo di buone analisi sul rapporto conflittuale tra i valori e le
visioni del mondo dei diversi strati o sul riflesso di quanto accade nel mondo
sulla coscienza degli attori sociali.
Eppure, l’analisi conflittuale era alla base
della sociologia weberiana e simmeliana, per non dire di quella marxiana, tutte
in ‘divergente accordo’.
Il linguaggio degli interessi di ciascun
gruppo o strato era ancorato alla rispettiva Weltanschauung, al proprio punto
di vista sul mondo.
L’egemonia
neoliberale ha rimosso le tracce di tutto questo perché crede che tutti assumano il
medesimo punto di vista concorrenziale e agonista:
il linguaggio della solidarietà e della coesione, il conflitto produttivo tra agire
economico e agire politico, la natura istituente delle diverse azioni sociali sono tutte
questioni stralciate e negate dal pensiero unico dominante.
Inutile
dire che andrebbe invece ricostruito un pluralismo conflittuale in seno alla
società.
Un
pluralismo conflittuale che tenga conto degli interessi di preda di certi gruppi,
della rivendicazione di riforme sociali, dell’interesse comune, così come è
sempre stato fatto dai classici per le società a noi precedenti.
2.
Élite, classe creativa e neo plebe.
Quale
composizione sociale mostra, dunque, la società italiana attuale secondo la
nostra analisi?
Anzitutto
diciamo quale fonte abbiamo utilizzato per arrivare a tale nuova configurazione
sociale.
La
nostra analisi si basa sulla rilevazione dell’archivio micro.STAT operata sulle forze lavoro e prende in considerazione il periodo
2008-2020 (dati
trasversali trimestrali-microdati ad uso pubblico storici secondo la
definizione dell’Istat).
Si
tratta di un’indagine campionaria con un grado elevato di numerosità.
Al
primo trimestre 2020, infatti, raccoglie più di 93.000 interviste, di cui più
di 23.000 ad occupati.
Partendo
dal primo trimestre del 2008, la nostra analisi fa riferimento a una situazione
pre-crisi finanziaria e arrivando fino al primo trimestre 2020 comprende la
situazione pre-crisi
pandemica.
La
variabile principale utilizzata è la professione, disaggregata a livello di tre
digit, ovvero il massimo livello di disaggregazione possibile e affidabile.
Il criterio è il livello di competenza, definito a partire dalla natura del
lavoro (manuale, intellettuale ecc.) e dal grado di conoscenza necessario
per il suo svolgimento, acquisita per via formale o tramite esperienza.
I
livelli di competenza sono quattro, gerarchicamente ordinati.
Il primo è quello dei lavori di routine di natura manuale, svolti con mezzi
di produzione elementari, spesso legati alla fatica fisica.
L’ultimo
è quello delle professioni che sono chiamate alla soluzione di problemi o a processi
decisionali complessi tali da richiedere un esteso corpus di conoscenze
teoriche e pratiche.
Le
conoscenze e le competenze richieste sono di solito ottenute con un percorso di
istruzione pari o superiore alla laurea di secondo livello.
Tali
criteri permettono di distinguere la diversa intensità di conoscenza incorporata
in ciascuna professione, nonché i livelli di comando e controllo che, in via
generale, ciascuna professione esercita sulle altre.
Per questa via è possibile leggere le
professioni come una forma della relazione non solo economica, ma anche sociale.
Queste
relazioni sono specchio degli intrecci tra professioni e istituzioni,
funzionale in particolare per quelle legate alla formazione o all’ingresso
formale in domini specifici (ordini professionali, impiego pubblico).
Le
professioni sono ordinate secondo livelli crescenti di disaggregazione.
Il
livello che usiamo nella nostra analisi utilizza 129 classi professionali che
aggreghiamo in tre strati principali: élite, classe creativa, neo plebe.
Il
primo strato è quello delle élites del potere politico, economico-finanziario e
burocratico.
Rientrano in questo strato le classi occupazionali
legate ai più elevati livelli decisionali (guida, comando, controllo) nelle
sfere del governo, dell’amministrazione pubblica e dei servizi di welfare,
della magistratura, delle organizzazioni di interessi (partiti, sindacati
ecc.), degli imprenditori e amministratori di grandi aziende, dei direttori e
dirigenti generali e dipartimentali di aziende.
Lo strato delle élites è completato da un sub-strato
di occupazioni di controllo e comando locale dei processi di management e
direzione, che definiamo ‘strato di servizio’ alle élites.
Si tratta dell’insieme delle classi
occupazionali che esercitano la razionalità tecnica, con un livello
significativo di competenze e supervisione-controllo del lavoro esecutivo nelle
diverse sfere economiche e scientifiche:
sono,
appunto, i tecnici (della gestione dei processi produttivi di beni e servizi,
delle attività finanziarie e assicurative, dei rapporti coi mercati, della
distribuzione commerciale ecc.).
Un
segmento spurio, ma di prevalente razionalità tecnica, non creativa, funzionale
al controllo e comando delle élites.
Questa
nostra idea di uno strato del potere e di un sub-strato funzionale ad esso
riprende e modifica l’impostazione classica di Gaetano Mosca (1994), che definisce la classe politica
dirigente della società e sotto di essa uno strato di servizio funzionale.
Il
secondo strato, la classe creativa (usiamo qui il termine classe in senso più ampio
introducendo principi diversi dalla posizione economica, e soprattutto quello
di ‘capitale culturale’), comprende le classi occupazionali tipiche dell’economia della
conoscenza, la knowledge economy orientata alla progettazione, invenzione o ampliamento delle
conoscenze negli ambiti della produzione scientifica, tecnica e culturale che
richiedono elevati livelli di competenze.
Questo
strato include specialisti delle scienze ‘dure’, economisti e specialisti di
management e finanza, scienziati sociali e delle discipline
storico-umanistiche, medici, architetti e ingegneri, le occupazioni a maggior
qualificazione nella sfera artistica, culturale e delle lesure, e il nuovo
segmento dei professionisti indipendenti, gli Independent professionals e i
freelancers ad alto contenuto di conoscenza.
A
questo strato si è scelto di aggiungere gli imprenditori di aziende di piccola
dimensione nei settori economici knowledge intensive e ad alto valore aggiunto
(chimica, farmaceutica, fabbricazione di computer, biomedicale e altri prodotti
elettronici, autoveicoli, meccanica di precisione, attività editoriali e di
informazione, telecomunicazioni, ricerca e sviluppo, marketing).
Questo segmento sta pienamente dentro la knowledge
economy, e per questa via esercita impatti rilevanti sul sistema
socio-economico nel suo insieme e risulta in genere associato a stili di
management e produzione (forse anche a stili di vita) molto vicini a quelli
delle attività creative.
Anche
la classe creativa ha un suo segmento di servizio:
come per le élites, si tratta di figure di
supporto, di razionalità tecnica applicata alle sfere più propriamente
scientifiche e culturali, che richiedono capitale culturale istituzionalizzato
ed esperienza.
La principale
di esse è la figura degli insegnanti, che alimentano l’istruzione e la
formazione: in qualche modo forniscono la materia prima della classe creativa.
Il
terzo strato, la neo plebe, è una galassia che comprende:
i
vecchi ceti medi, la “new and old petty bourgeoisi”e, la nuova classe operaia
legata ai processi di digitalizzazione e automazione, l’ormai ridotto segmento
degli imprenditori della piccola impresa tradizionale, i mestieri tradizionali,
il ceto impiegatizio a modesta qualificazione e le ‘burocrazie di strada’, il
proletariato dei servizi (e, in misura minore, i salariati agricoli e le mansioni non
qualificate nel manifatturiero).
Insieme lavoro dipendente e indipendente,
manuale e non manuale, protetto e non protetto (soprattutto in relazione alle sfere
del pubblico e del privato), occupazioni tradizionalmente maschili o femminili investite, nel corso del tempo, da
incertezza, insicurezza, impatti della digitalizzazione, effetti delle
migrazioni, declino del prestigio sociale e dell’identità di classe o ceto.
All’interno
di questa galassia molto eterogenea si rintracciano gradi diversi di
esposizione.
Massimamente
esposti sono gli occupati nei mestieri e produzioni tradizionali, laddove le loro credenziali
educative, esperienze, capitale relazionale e propensione al rischio non li
mettono nelle condizioni di connettersi alle nuove domande di consumo (come
invece avviene per i ‘nuovi contadini’ o i produttori di beni singolari e/o di
lusso).
Molto
esposte sono le mansioni specifiche del ceto impiegatizio ormai rese obsolete
dalla digitalizzazione.
Così
come in crescita è un proletariato dei servizi sul crinale tra lavoro regolare
e irregolare, stabilità e precarietà, sussistenza e povertà, classe e
underclass.
In
definitiva, sono i servants degli strati del potere economico, burocratico o
dei creativi, e persino degli strati a medio-basso reddito, in forma di
supporto domestico e di cura degli anziani.
Di
questa galassia è parte, infine, il lavoro operaio.
Sono i
conduttori e operatori di impianti e macchine, da quelli più tradizionali e in
crisi (costruzioni, agricoltura) a quelli investiti dall’innovazione
tecnologica: digitalizzazione, automazione, robotizzazione.
Un
segmento che appare problematico, con modeste capacità di adattamento ai processi
socio-economici contemporanei e tuttavia – in particolare nel segmento operaio
dell’innovazione tecnologica – non privo della possibilità di stabilire una
relazione politico-sociale non subalterna in una coalizione di interessi o in
alleanza con la classe creativa nel contesto delle trasformazioni della “knowledge
economy”.
Questa
la fisionomia generale dei tre strati.
La domanda da porci ora è come si trasmette e, prima
ancora, come si forma, come muta nel tempo la visione del mondo di un’élite, di
una classe creativa intermedia, di una classe non privilegiata, se non ai
margini?
È il tema classico della sociologia, eppure
disatteso e abbandonato perché sommerso da un infinito, inutile e dannoso
predominio dei media che costruiscono stereotipi più che pensiero critico.
Proviamo ad approfondire la questione, analizzando,
più in dettaglio, la natura, la storia e la composizione di ciascuno strato.
2.1.
Élite.
Contare,
contarsi, annettersi sono per Bourdieu (1988) le caratteristiche dell’élite, la
sua ricerca di distinzione e il suo habitus, che si interiorizza e insieme si
indossa come una divisa.
Sapere di essere al proprio posto, con le
proprie iniziali sulla biancheria esteriore e su quella interiore della
coscienza, è nelle parole ironiche di Robert Musil (1974) l’attributo della classe superiore.
Inoltre,
essa possiede un senso del piazzamento, cioè sa porsi, se necessario, al centro
della scena pubblica con ogni mezzo.
Ma sa,
in virtù di quel tratto di riserbo e a volte di segretezza che caratterizza da
sempre i detentori del potere, anche ritrarsi e velare la propria influenza e
le proprie relazioni.
Le
reti di cui fa parte sono professionali, lobbistiche, finanziarie, sportive.
Sono
la connessione e le conoscenze dirette, capillari, di ambienti economici e
politici privilegiati a fare la differenza:
non
tanto la competenza, ma l’appartenenza, l’essere connessi a un sistema inter organizzativo
di potere e ‘sentire’ di farne parte (Pizzorno 1970).
Le società di consulenza, come ad esempio McKinsey
& Company, sono l’officina delle élites.
Da lì provengono i dirigenti delle banche, delle
compagnie di assicurazione, delle imprese e dei ministeri, coloro che hanno
sostenuto senza particolari scrupoli la globalizzazione, certi di trarne
vantaggio.
L’élite
è sostenuta da ricche famiglie iperprotettive, da una competizione basata
sull’accesso a strumenti di potere.
L’élite crede e si riproduce in miti, fedi,
network, autorappresentazioni.
La sua nuova etica è meritocratica.
Il merito è uno dei miti, il più diffuso,
dell’élite, pur essendo il meno verificabile. Lo spiega bene Michael Sandel nel
suo libro “The Tyranny of Merit” (2020):
entrare
alla “Bocconi” o a “Sciences Po”, o acquisire un “Mba” a Londra o a Boston è
fatto legato al denaro più che al merito.
Ciò nonostante è la via maestra per far avanzare
un’élite tanto nelle democrazie liberali quanto nelle autocrazie illiberali.
L’autorappresentazione
delle élites è affidata a modelli culturali e forme di consumo, insieme
‘vistoso’ e fonte di arricchimento esclusivo (Boltanski, Esquerre 2019).
Come
risultava già dalle analisi di “Torsten Veblen”, un marchio dell’élite è,
infatti, il consumo a cui ne è strettamente connesso un altro:
il
solido senso di sicurezza derivante dall’abitudine a dirigere una grande
azienda e a disporre di ingenti risorse finanziarie.
A
volgere lo sguardo indietro alla storia, si potrebbe sostenere che
l’autocoscienza e il progresso hanno fatto parte del bagaglio occidentale e
ideologico dell’élite.
In questa direzione ha giocato un ruolo
essenziale il rapporto tra élites e chierici, i detentori del sapere e – spesso
– sapienti interessati.
Nella
città occidentale del Medioevo il mestiere dell’intellettuale produceva
corporazioni al pari di altre attività economiche, sciogliendo il legame con le
scuole cattedrali e con le sfere religiose.
Nell’Ottocento
le classi della conoscenza prodotta per via accademica divennero anche un
segmento di funzionari pubblici.
Il
nesso tra credenziali educative e formazione delle élites viene rafforzato in
Francia e in Germania dove, a inizio secolo, si afferma l’università
humboldtiana, come formazione delle classi dirigenti tratte da tutti gli strati
sociali (Cassese 1990).
Questa autonomia delle istituzioni formative
nello sviluppo politico europeo si declina in modo ancora diverso nel Regno
Unito, con la riforma di Oxford e Cambridge a metà Ottocento, e negli Stati
Uniti dove, negli stessi anni, si afferma il modello del land-grant college da
cui nascono le università politecniche come il Mit, con finanziamento federale.
Così
trova spazio il modello dell’università privata:
per
prima Harvard, nata per coltivare i ‘nuovi mandarini’, quei “Boston Brahmins”
che hanno dato presidenti, industriali e governatori alla nazione.
Non
diversamente in Europa: il peso dell’impresa economica, finanziaria e globale, nella
gestione dei programmi formativi è sempre maggiore.
Ma
ormai l’élite è largamente inconsapevole di un tale retaggio illuminista e
borghese.
In Italia, soprattutto.
Qui,
almeno dagli anni ’90 in poi, l’élite economica e quella politica si sono
identificate con una variante locale del populismo, che crede nel denaro e nel
privilegio come modello ostentato per mettere il popolo, la neo plebe, in
condizione di servitù volontaria (Viroli 2010).
Nell’acquiescenza
di gran parte dell’élite politica, questo modello ha generato un ‘sistema di
corte’ i cui premi più diffusi sono il denaro e la cooptazione dei ‘cortigiani’
in incarichi ufficiali e istituzionali.
Per un
ventennio abbiamo assistito alla progressiva trasformazione dell’Italia in una
grande corte (con una correzione parziale a partire dal 2011 dovuta però più a fattori
esogeni, quali gli effetti della grave crisi finanziaria, che a virtù
endogene).
Così,
nonostante la globalizzazione richieda alla politica e all’economia un
orizzonte per lo meno europeo e una relazione dinamica con altre élites, tra
tutte quelle orientali, noi viviamo la paradossale ripresa di un rapporto
padrone-servo che è premoderno e pre- borghese, portato di un modello di populismo
sovranista.
Del
resto, l’élite economica italiana appartiene a una storia minore, di ‘piccolo
capitalismo’.
Non
compare tra i super ricchi del Pianeta, il famoso 1%.
Su 100
super ricchi mondiali, 12 sono degli Stati Uniti, 9 della Svizzera e 9 di
Singapore, 7 di Lussemburgo e altrettanti del Canada, 6 sono del Giappone, 5
del Regno Unito, 3 della Francia e altrettanti della Norvegia, 2 di Taiwan,
Corea, Olanda, Irlanda, Germania, Cipro, 1 di Russia, Brasile, Sud Africa.
I
restanti Paesi non raggiungono il valore di 1.
A
spiegare la natura più introversa e a bassa crescita dell’élite economica
italiana è il capitalismo familiare, assai più forte in Italia che altrove.
Quello della famiglia è un valore
appariscente, a lungo indagato soprattutto dal Censis.
Famiglia e borgo, radici locali e piccola
scala sono stati esaltati o criticati, a seconda dei punti di vista, come
fattore chiave della crescita o della mancata crescita italiana.
Giuseppe
Berta (2016) ha messo in evidenza che – tramontata la grande impresa dinastica
– il capitalismo italiano non può che essere di piccola dimensione, quella
studiata da Giorgio Fuà (1980) una generazione fa.
Si aggiunge a questo il fatto che non c’è un ricambio
della classe dirigente, la stessa da quarant’anni («Dialoghi Internazionali»
6/2007), la
quale blocca l’accesso ai media e alla visibilità in generale dei talenti che
lavorano a progetti innovativi di grande valore, fungendo da grande cappa
generazionale.
La
nostra élite è locale, radicata, tradizionalista, non aperta e cosmopolita come
accade in altri paesi.
Di
certo c’è una buona mobilità sovraregionale, soprattutto delle élites
imprenditoriali.
Tuttavia,
le élites imprenditoriali sono molto più che altrove connesse a una località,
anche nel caso di grandi imprese multinazionali:
Ferrero
resta ad Alba in provincia di Cuneo, anche se la sua sede finanziaria e
logistica è da tempo in Lussemburgo;
Del
Vecchio resta nel Bellunese, nonostante il suo impero sia mondializzato nella
produzione, distribuzione e finanziarizzazione.
Più
travagliato è il cammino della Fiat, poi Fca, poi Stellantis, verso un
orizzonte globalizzato.
Se però prendiamo in considerazione le 3.500
medie imprese del Nord Italia, scopriamo che sono chiari esempi di un ‘capitalismo di territorio’, anche laddove hanno avviato la
delocalizzazione delle produzioni in Asia o altrove.
Un
esempio tra tanti, la “Curti Industries”.
Azienda
ravennate di meccanica che opera dalla componentistica all’aerospazio, fondata
da un semplice dipendente, ora leader nel settore, che resta radicata a Castel
Bolognese per scelta e per cultura.
O Bonfiglioli, un gruppo familiare con
proiezioni globali, essendo il quinto player mondiale nel suo settore, attivo
nella meccatronica dei riduttori e ben radicato nella sua sede bolognese di
Lippo di Calderara di Reno, riprogettata secondo i dettami di industria 4.0.
Una
scelta di fedeltà che in parte si spiega con il fatto che il territorio in cui
queste imprese sono inserite è ricco di poli tecnologici, ricerca pubblica,
cultura tecnica, istituti professionali.
In
realtà, secondo Luciano Gallino (1982), abbiamo a che fare con
un’identificazione radicata in sottosistemi più interni della personalità
(etnica, regionale, religiosa) che massimizza il successo riproduttivo biculturale
dell’individuo, una identità più stabile di quella – elusiva – che passa
attraverso l’appartenenza a diverse associazioni.
C’è da
dire che l’élite economica italiana che è stata sin qui capace di coniugare
progettazione e produzione, disegno e manifattura, ha avuto un’impronta – per
così dire – più culturale rispetto ad altre élites nazionali.
Su tutti vale l’esempio di Milano:
qui si
è formata una élite che ha fatto da ponte tra industria e classe creativa, e
non tanto grazie al Politecnico e alle altre Università che certamente hanno
dato un innegabile contributo, ma che sono istituzioni che esistono in ogni
grande città del mondo.
Il
quid in più cui abbiamo assistito nel dopoguerra (1950-1970) è stato l’incontro
tra imprenditore e artista.
Ci riferiamo, ad esempio, all’incontro tra un
imprenditore del design e della luce come Ernesto Gismondi, fondatore di
Artemide, e designer come Gio Ponti, Vico Magistretti, Richard Sapper, persino
il regista Luca Ronconi.
Non a caso l’Encyclopedie definiva artisti “gli operai che eccellono in quelle
arti meccaniche che richiedono intelligenza” (Supiot 2020).
Un
ponte che si è interrotto, ma che andrebbe ricostruito, tanto più nell’epoca dell’economia cognitiva
guidata dal digitale.
La
domanda è:
può l’attuale élite alzare lo sguardo oltre sé stessa?
Nutriamo
qualche dubbio al riguardo.
Le recenti crisi finanziarie e quelle bancarie
hanno evidenziato aspetti oscuri dell’intreccio tra le élites economiche e le
élites politiche.
Coloro
che siedono nei consigli di amministrazione delle banche e delle imprese sono
gli stessi che offrono al mondo politico servizi e ricevono consenso e potere
di influenza.
Persino
la filantropia dell’élite, da Bill Gates in giù, serve a influire sulla sfera
del potere e a ribadire la superiorità di una rete di interessi.
Mentre
un secolo fa il cosmopolitismo delle élites era circoscritto a un club
esclusivo di pochi, oggi una densa rete di società di consulenza, imprese
multinazionali, finanza e tecnologia avvolge il Pianeta e fa delle società
nazionali un ambito troppo ristretto per le élites stesse
Esse perdono il senso dello Stato in nome di
credenze globaliste: la tecnologia, l’interconnessione, l’appartenenza a uno
spazio cosmopolitico, la città globale ecc.
Questo
serve a dirci che l’aristocrazia finanziaria ha preso possesso del mondo, attraverso
le banche internazionali, le multinazionali e le società di consulenza – come
sostenne per tempo Sylos Labini già negli anni ’70?
Sylos
Labini ne elencava i settori e le aree:
speculazioni edilizie, esportazioni di
capitali, petrolio sono le aree del profitto speculativo.
Per Karl Marx, che ne scriveva nel 1848-1850,
l’aristocrazia finanziaria non era altro che la riproduzione del
sottoproletariato alla sommità della società borghese:
i suoi
guadagni e i suoi piaceri erano malsani e sregolati, come quelli della plebe.
Una
chiave interessante, questa, per capire la paradossale alleanza tra élite e neo
plebe contemporanea.
Guardiamo
alla caduta del linguaggio della classe dominante:
è una
cartina di tornasole anche per capire il declino dell’élite economica e
politica.
Quell’habitus
linguistico che si apprende nel mercato specializzato della famiglia e della
scuola e si sviluppa con la frequentazione precoce e costante dei mercati specializzati
dell’economia e della politica non si manifesta più con la sicurezza e il
distacco cui abbiamo assistito nel passato.
Il linguaggio dell’élite basato su un’elevata censura,
sulla messa in forma e sull’eufemizzazione (Bourdieu 1988), cioè su aspetti
distintivi di ‘norma realizzata’, oggi si scompone in un linguaggio dei media
di comunicazione che rende tutto indistinto e omogeneo, l’opposto della
‘distinzione’.
In
questo linguaggio comune si trova l’estrema conseguenza prevista da Alexis de
Tocqueville nella sua opera” Democrazia in America”, per cui quando gli uomini
non più costretti al proprio posto nella società si vedono e comunicano
costantemente l’uno con l’altro, tutte le parole del linguaggio si mescolano.
Ma
Tocqueville riferiva questo fenomeno a una società, quella democratica, che ha
abolito le caste e in cui le classi si riempiono di nuove reclute e diventano
indistinguibili.
L’opposto,
quindi, della distinzione di Bourdieu.
Questa ‘discussione impossibile’ tra il liberale ottocentesco
Tocqueville e il radicale novecentesco Bourdieu mostra come la democrazia si sia nel
frattempo imbastardita e immobilizzata.
In
Italia più che altrove, prima la televisione commerciale e poi i media digitali
hanno espresso un livello di volgarità che unifica verso il basso élite,
piccola borghesia e neo plebe in un unico metalinguaggio pratico.
L’insulto pronunciato in televisione e nei
social media, che Bourdieu definisce “idios logos”, sostituisce l’atto
ufficiale di nomina con cui si concede un titolo, che egli definisce omologie.
Entrambi, l’insulto e la nomina, sono atti di
istituzione o di destituzione fondati socialmente.
D’altra
parte, concetti astratti, non visibili, come nazione, Stato, sovranità,
democrazia, rappresentanza, burocrazia, che secondo Giovanni Sartori (2000)
caratterizzano la cittadinanza libera, sfuggono del tutto a “homo videns”.
2.2.
Classe creativa.
Prima
dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, l’individuo creativo è il Faust
di Goethe, colui che ha un pensiero e una volontà volti a uno scopo.
Il suo
alter ego è Prometeo, il titano che porta la tecnica utile agli uomini.
E da
quando è Prometeo a primeggiare è la creazione come impresa tecnica a occupare
pienamente la scena.
In
sociologia il termine “creativo” è stato introdotto da William Thomas e Florian
Znaniecki con il loro lavoro” The Polish Peasant in Europe and America”
(1918-1920).
Nella
grande trasformazione sociale prodotta dall’immigrazione e dall’urbanizzazione
di inizio Novecento emergono tre tipologie di individuo:
il filisteo, il bohémien e il creativo.
Rispetto
ai primi due, rigidamente tradizionalisti o incoerenti, l’individuo creativo trova in sé le
risorse per un avanzamento sociale, per la ricerca di scopi definiti, esprime
una maggiore capacità di adattamento che lo aiuta ad avere successo nella vita.
La personalità più sistematica del creativo lo
avvicina all’individualismo strumentale, a colui che domina la società
industriale attraverso istituzioni e norme sociali ben precise.
Così,
il tipo creativo appartiene alla moderna divisione sociale del lavoro e ha la
forma di un tipo auto-diretto, rivolto a uno scopo, inserito in istituzioni e
agenzie di socializzazione che agiscono in tal senso.
Se le
società industriali avanzate hanno prodotto numerosi individui creativi è
perché esse favoriscono una personalità acquisitiva e strumentale.
Le
istituzioni stimolano e premiano l’indipendenza, la competenza, la
responsabilità individuale.
Questa
visione alla Talcott Parsons (1983) spiega bene a nostro avviso perché il tipo
creativo americano abbia trovato ampi spazi di prevalenza rispetto a società
più chiuse e castali come quelle europee o asiatiche.
Creativo
è sin qui un individuo, un tipo:
l’inventore
contrapposto all’uomo che tira a campare, l’innovatore (che risale al pensiero
economico di Joseph Schumpeter), il professionista della conoscenza applicata (un’idea più recente che dobbiamo a
Peter Drucker).
Ma da
qui a diventare una classe il salto è grande. Presuppone una auto sostituzione, cioè la trasformazione di un ordine
sociale dato o di suoi sistemi parziali ad opera di processi interni (Luhmann 1983).
Occorrerebbe
che il
primato funzionale della creatività di origine tecnico-scientifica e
professionale fosse in grado di autonomizzarsi e perfino di sostituire il
primato funzionale della società economica avvenuto nella modernità.
Il
primato funzionale dell’economia è correlato con l’individualismo dell’uomo
economico, mentre
“il primato della società creativa” dovrebbe reggersi su un individuo sociale
con specifiche caratteristiche.
E
allora:
quali
fattori possono promuovere un tale processo di auto sostituzione?
In
primo luogo fattori di tipo esogeno, come eventi dirompenti esterni a ciascuno di noi che
impongono di rivedere le priorità e le scelte di ciascuno.
La
crisi climatica ambientale globale consente di capire ciò che intendiamo.
‘Noi sapevamo’ (grazie alla scienza e alla tecnica),
ma non abbiamo potuto evitare il processo di degradazione naturale in corso.
Avremmo potuto farlo solo autonomizzando la
scienza e la tecnica, dando ad esse, cioè, il potere di affermare la propria
riflessività pratica, scongiurando gli esiti catastrofici cui il primato
funzionale dell’economia ha spinto il Pianeta.
Poi ci
sono fattori di tipo endogeno.
Tecnologia,
tolleranza e talento sono stati presentati come i drivers funzionali della
classe creativa.
I
creativi sono aperti, liberal, progressisti.
Ma non hanno ancora acquisito una
responsabilità che li ponga al centro della vita politica.
Non si
impegnano in azioni collettive.
Questo
è quanto sostiene Richard Florida nel suo libro “The Rise of The Creative Class”
(2019), coniando
anche la definizione di classe creativa.
Ciò
anche se rappresenta circa 1/3 delle forze di lavoro della società americana,
cui si contrappongono 2/3 di classi di servizio postindustriali, a bassi salari
e precarie.
Una
quantità non troppo dissimile da quanto da noi calcolato per l’Italia.
La
ragione è forse spiegata da Tocqueville e illustrata da Jon Elster (2009) con
la domanda: “Ci sono classi in America?”.
Sembrerebbe
di no.
Il
continuo turnover individuale, la mobilità sociale e geografica non favoriscono
la formazione di una ‘classe per sé’ che si impegni nell’azione collettiva.
La
classe creativa ha un altro padre nobile rivendicato da Florida, quel “Peter
Drucker “che, forte della sua formazione mitteleuropea e poi approdato in
America, per primo (nel lontano 1959) definisce il lavoratore della
conoscenza come il futuro manipolatore di informazione.
Una categoria però sfuggente e – ancora una
volta – non
una ‘classe per sé’.
Più
circoscritta e tecnocratica è la categoria di ‘esperti’, quelli che posseggono cioè uno
specifico e certificato expertise.
Molte teorie li hanno considerati detentori di
“un potere tecnocratico”, scambiando, in realtà, per potere quella che è solo
competenza (cum
petere, chiedere insieme).
I ricercatori e gli esperti hanno rispetto alla classe creativa
un profilo più nettamente tecnico, meno socialmente visibile.
Anche
se da loro dipendono le prossime generazioni di innovazioni, i vaccini che ci
salveranno dai virus, le macchine intelligenti che ci faranno muovere in auto a
guida autonoma, i prossimi devices che guideranno il lavoro e il consumo di
interi continenti.
È
dunque vistosa la sproporzione tra il grande ruolo professionale e il più
modesto ruolo sociale dei creativi.
Se
essi rimarranno ‘artisti’ usati dal capitalismo della conoscenza, ‘inventori’ a
disposizione del capitalismo delle piattaforme digitali, è difficile immaginarne un ruolo da
classe generale.
Se
invece prenderanno coscienza che la loro capacità di innovare ha un’utilità
sociale estesa, di ciò potrà beneficiare anche la neo plebe, la parte più
grande e svantaggiata della società.
Per
assumere tale ruolo il primo passo da compiere è la messa in discussione
dell’attuale distribuzione dei diritti di proprietà nelle filiere produttive.
Sebbene i creativi, i Freelancer, i lavoratori
della conoscenza, i fornitori di input siano figure che concorrono alla creazione del
valore, allo
stato attuale non è loro riconosciuto alcun accesso a diritti di proprietà
condivisi.
Essi
restano in capo alle élites proprietarie e agli azionisti finanziari.
Questo
il primo, principale interesse da intaccare da parte della classe creativa per
ritagliarsi un nuovo ruolo sociale.
2.3.
Neo plebe.
Non
c’è nulla di spregiativo nel termine che qui usiamo.
Piuttosto,
c’è insoddisfazione per gli altri modi di nominare lo strato basso della
società.
Sottoproletariato,
Lumpenproletariat (proletariato degli stracci) è, sì, termine spregiativo che
indica una classe pericolosa.
In sociologia il più usato è sottoclasse
(underclass).
Tutti
questi termini presuppongono un sotto rispetto a un sopra:
per esempio, la classe operaia che sta sotto e
la classe media che sta sopra, o più sopra.
Questa
è una prospettiva non più attuale, una visione che altera la realtà del
processo di scivolamento in corso dell’intera ‘società di mezzo’ verso il
basso.
Non si
possono più confinare i fenomeni della povertà alla sola underclass.
Non
più protetta dai sistemi assicurativi e di welfare, certo mescolata a fenomeni
diversi come l’evasione fiscale e il lavoro nero o grigio, la povertà affiora
dall’intera società.
In
questo senso la ‘società dei due terzi’, quella garantita, contrapposta a un
terzo non garantito, va aggiornata e, per certi versi, rovesciata.
Sembra
più esplicativa l’idea di “proletaroide” usata da Max Weber (1981) e da Theodor Geiger (1932) nella Germania di inizio Novecento:
uno strato che cresce ai margini, ma include la classe media
impoverita, il lavoro intellettuale precario e malpagato, accanto al
proletariato dei servizi.
Il
progresso tecnologico legato all’intelligenza artificiale affiderà alle
macchine il lavoro qualificato e ciò andrà a nutrire su larga scala la neo plebe,
fasce di popolazione prive di formazione adeguata, di skills e conoscenze oggi
necessarie.
La
tecnologia è selettiva e ingegnerizzata, funziona per le società avanzate, ma
rischia di escludere una parte significativa del mondo.
Per
fare solo un esempio: un tempo c’erano più linee telefoniche fisse a Manhattan
che in tutta l’Africa sub-sahariana.
Oggi la diffusione di Internet segue la stessa
dinamica selettiva.
Ecco perché nei paesi avanzati la neo plebe è
destinata a crescere.
Ma
come si vede e si rappresenta la neo plebe?
Finora
è stata rappresentata da altri:
il
pensiero classico e poi quello borghese l’hanno stigmatizzata come pezzenti
(Platone) o poveri, Pöbel (Hegel);
il
pensiero marxista e quello leninista l’hanno elevata a proletariato.
Tocqueville
parla della ‘razza’ dei poveri come uno strato permanente e fisso, con poche
vie di scampo, contrapposto ai ricchi, uno strato fluido i cui componenti sono
sempre a rischio di diventare poveri.
“Il
lavoro forma”, sostiene Hegel: è il lavoro che permette al servo di uscire fuori da sé e
di assumere una permanenza.
Ma cosa accade se non c’è lavoro, o esso è
esercitato in forme tali da non garantire permanenza ma solo precarietà?
Gran parte del lavoro contemporaneo è di
questa natura.
2.Le
linee di frattura-
1.
Inclusi – esclusi.
Prima
di iniziare l’analisi quantitativa della triade sociale che abbiamo delineato
fin qui, è necessario guardare alla trasformazione radicale da cui siamo
investiti dal punto di vista delle nuove fratture sociali.
Con lo
sfaldamento delle società nazionali del passato, che avevano un carattere
stabile e duraturo, e con l’avanzata di nuove società globali planetarie si
stanno formando delle nuove falde, degli strati sociali che non corrispondono
più a tradizionali classi, ceti o gruppi.
Sembra prendere corpo la visione di Friedrich
Nietzsche (2000) secondo cui non siamo affatto materiale per una società: lo si capisce guardando da vicino le
nuove linee di frattura della società contemporanea.
La
prima linea di frattura è certamente quella tra inclusi e esclusi.
Non è
unanime il giudizio sull’ampiezza di questa frattura.
Secondo i sostenitori della tesi della
convergenza di lungo periodo, il XXI secolo è più equo e meno diseguale, basta
valutare l’uscita dalla povertà di ampie aree del mondo in via di sviluppo.
Secondo
altri la distanza tra inclusi ed esclusi è, invece, aumentata:
le diseguaglianze, le distanze, si sono
accresciute rispetto al XX secolo, che aveva visto diminuire le differenze
grazie al welfare state, alle politiche sociali e al ruolo dei sindacati.
Come ha dimostrato Thomas Piketty (2019), i meccanismi
di mercato inevitabilmente producono e dilatano le distanze sociali se non si
interviene correggendoli.
Lasciati
liberi di operare sul lungo periodo non possono che far crescere le
disuguaglianze poiché incuranti della platea degli esclusi dal mercato del
lavoro, dalla distribuzione dei redditi, dalla ricchezza finanziaria e
immobiliare.
Se la
politica non opera delle correzioni spostando reddito da una classe all’altra,
sostenendo i più poveri, redistribuendo la ricchezza, allargando l’accesso alla
conoscenza e alla sanità, l’esclusione sociale è destinata a crescere.
Guardiamo
per un momento a cosa è accaduto al nostro paese dal dopoguerra per intervento
politico:
negli anni ’60 si ottiene l’istruzione
pubblica per tutti ed è dei ’70 la realizzazione di un servizio sanitario
nazionale.
A
partire dagli anni ’80, questo processo virtuoso si è interrotto:
neoliberismo e terza via e, negli anni ’90, l’inizio
delle privatizzazioni, sono stati fatali alle classi medie e basse della
società.
Il
risultato su grande scala del processo che abbiamo sinteticamente descritto è
stato proprio l’assottigliamento della classe media, quella in cui si
riconosceva la maggioranza della popolazione (il 60% secondo molte stime) e a
cui aspirava di appartenere la restante parte.
Si è
assottigliata notevolmente, ed è scivolata verso il basso andando a alimentare
appunto un’estesa neo plebe.
Contestualmente
l’élite, l’1% dei ricchi mondiali, ha aumentato le sue posizioni di vantaggio
grazie agli Stati fiscalmente generosi, al predominio della ricchezza
finanziaria e delle rendite, al peso della successione ereditaria.
Ma non
è tutto.
Quella classe creativa di cui abbiamo parlato nel
precedente capitolo è anch’essa coinvolta in un processo di
inclusione/esclusione.
La disconnessione tra sapere e potere è,
infatti, il fenomeno emergente del nostro tempo:
chi è
incluso nella conoscenza non è affatto incluso nel potere, che segue una logica
propria, autoreferenziale.
Il potere si impossessa del sapere e lo
utilizza ai propri fini:
l’algoritmo
ne è la principale espressione.
Quindi,
nonostante la sua crescita progressiva, la classe creativa, sapiente ma priva
di potere, erede della società civile hegeliana, è messa in una posizione che
rende difficile la sua trasformazione in ‘classe generale’.
Facciamo
un esempio utilizzando la triangolazione che si viene a creare tra proprietari
delle piattaforme, providers di contenuti e utenti.
Risulta
immediatamente evidente che il potere è distribuito in modo asimmetrico: l’utente usa la piattaforma, ma è da
essa usato per i dati che fornisce e che sono alla base della profilazione;
il provider, dal canto suo, fornisce i contenuti ma è
pagato solo sulla base di contratti iniqui (lavoro intellettuale sottopagato e
privo di garanzie) (Stark, Pais 2020).
Da
questo punto di vista, l’utente delle piattaforme è un caso estremo di ‘servitù
volontaria’ nei confronti del dominio tecnico e il provider un caso altrettanto
estremo di ‘autosfruttamento’ delle proprie capacità lavorative e cognitive.
I diritti di proprietà intellettuale non tutelano
affatto i sapienti, ma i potenti, almeno fintanto che una modifica degli”
intellectual property rights” potrà consegnare a chi esercita la conoscenza,
cioè la classe creativa, la effettiva titolarità di quanto essa ha saputo
produrre.
Ma di
questo abbiamo già detto.
Che
fare?
Occorre
lavorare per una prosperità inclusiva, come sostengono alcuni economisti.
Dani
Rodrik e Stefanie Stancheva (2021) ci offrono uno schema semplice e chiaro
(tab. 2.1) per correggere il divario tra inclusi ed esclusi, rappresentando la
società come suddivisa in tre strati secondo dei criteri più tradizionali dei
nostri, ovvero “bassi redditi”, “classe media”, “redditi elevati”.
Osserviamolo insieme.
Tab.
2.1. Uno schema per la prosperità inclusiva.
A
quale stadio dell’economia interviene la politica.
Pre-produzione
- Produzione - Post-produzione.
Di
quale segmento di reddito deve prendersi cura:
Bassi
redditi- Istruzione primaria,
formazione professionale.
Salario minimo, apprendistato Trasferimenti sociali, reddito minimo
garantito, politiche di pieno impiego.
Classe
media: Scuola pubblica secondaria e terziaria,
formazione continua Politiche industriali,
licenze professionali, training, contrattazione collettiva Assicurazioni contro la disoccupazione,
pensioni.
Redditi
elevati:
Eredità,
tassazione di donazioni e di immobili.
Crediti
fiscali su ricerca e sviluppo, politiche antitrust
Politiche
fiscali su redditi elevati, ricchezza, impresa.
(Fonte: Rodrik, Stancheva 2021).
La
colonna più importante della tabella 2.1 è la prima, poiché riguarda lo stadio
che precede la fase della produzione.
È qui che si possono ottenere i più importanti
progressi verso una prosperità inclusiva.
Una
politica pubblica efficace può ridurre l’esclusione sociale e limitare la
creazione di “bad jobs”, di cattivi lavori a bassa o nulla qualificazione
elevando l’istruzione e la formazione della neo plebe.
Questo
strato, infatti, è andato ingrossandosi non tanto a causa del prevalere di
mansioni elementari di cura, assistenza, pulizia o produzione, quanto per la
mancanza di politiche che elevano la qualità del lavoro, a partire dalla sua
qualificazione.
Va da
sé che un simile processo di educazione, se declinato a livello di istruzione
superiore e terziaria (universitaria e post-universitaria), può aiutare la
classe media a divenire classe creativa, estendendo e approfondendo la sua
capacità di elaborare innovazioni e soluzioni responsabili.
Uno studio americano ha stimato che in 50 anni
la quota del reddito nazionale che va ai laureati è passata negli Stati Uniti
dal 5% al 18%, mentre quella che va al lavoro dequalificato è scesa dal 57% al
40%.
È
importante tenere presente che, tanto quando parliamo di innalzamento
dell’istruzione primaria quanto di quella superiore e terziaria, stiamo
parlando non solo di educazione, ma di inclusione nella cittadinanza sociale.
C’è
poi da considerare l’effetto che avrebbe una reale politica di intervento sulla
ricchezza dell’élite, lo strato sociale superiore.
Si
tratta di ricchezza ereditata, frutto di rendite, parassitaria, non di
ricchezza creata dal lavoro.
Negli
ultimi quattro decenni, lo squilibrio a favore di questo strato privilegiato
della società è pesante.
In
questa tabella non viene considerato un aspetto tra i più essenziali ai fini di
una prosperità inclusiva:
quello dei diritti di proprietà.
Includere
i creatori di valore – i creativi, i lavoratori intellettuali, gli scienziati
applicati – nella proprietà oggi esclusiva degli imprenditori e degli
azionisti, rovesciando la prassi dello shareholder value, rappresenterebbe una riforma
dell’impresa e del diritto societario di enorme importanza.
E includere i lavoratori nella gestione
dell’impresa attraverso propri rappresentanti nei consigli (come accade in
Germania) o mediante altre forme di partecipazione agli utili (come è avvenuto
in Giappone e altri paesi avanzati specie tra gli anni ’50 e’80 del Novecento)
sarebbe un potente incentivo per accrescere la produttività sociale
dell’impresa – ormai stagnante in molti paesi – e per stabilizzare la domanda
di lavoro da parte delle imprese, oggi sottoposta a un eccesso di fluttuazioni
e a una frammentazione contrattuale insostenibile.
Ma
passiamo ad esaminare la seconda colonna della tabella:
quella relativa allo stadio della produzione, quello che ha subìto i maggiori
cambiamenti nel passaggio da XX a XXI secolo.
Qui si
sono affermati quei processi mondiali di dislocazione che hanno portato interi
comparti dell’industria a trasferirsi dai paesi avanzati ai paesi arretrati
mediante colossali investimenti di capitale.
Una neo accumulazione primitiva ha interessato
dapprima la Corea e le tigri asiatiche, poi la Cina, grazie all’enorme afflusso
di capitali Occidentali.
Un
processo che ha modificato per sempre la geografia della forza-lavoro mondiale.
In
termini concreti:
in
Occidente si sono persi milioni di posti di lavoro stabili e ben retribuiti
nell’industria ed è emersa una neo plebe dequalificata nei servizi;
in Oriente è aumentata a dismisura una
forza-lavoro a basso costo che lavora in condizioni semi-schiavistiche nelle
fabbriche cinesi, vietnamite, malesi, indiane, pakistane, bangladesi nella
piena violazione dei diritti umani e sociali.
Precarietà,
degradazione del lavoro, nuovi regimi di sfruttamento: questi gli ingredienti
qualificanti della ‘grande trasformazione’.
Se si vuole seriamente invertire la marcia
introducendo forme di stabilità, di qualificazione e di tutela minima
universali, il salario minimo è uno degli strumenti per stabilizzare i mercati
del lavoro, ma la via maestra per sottrarre il lavoro alla precarietà e
all’arbitrio rimane la contrattazione collettiva.
Il
tanto temuto aumento dei costi del lavoro per le imprese sarà più che
compensato da un forte aumento di produttività.
Un
ruolo inclusivo rilevante potrebbero giocarlo le politiche industriali di
orientamento delle scelte imprenditoriali e di investimento verso produzioni
più qualificate e ambientalmente sostenibili.
Il” carbon footprint”, l’impronta del carbonio
di un’impresa o di una città, andrebbe esteso all’intera catena globale del
valore includendo i fornitori e i paesi in via di sviluppo (come raccomanda il
Parlamento Europeo).
In
questo modo interi settori sarebbero riqualificati e lo spettro delle nostre
produzioni sarebbe spostato verso l’alto di gamma.
I
risultati sarebbero una ridislocazione mondiale della produzione (il cosiddetto
reshoring delle produzioni in passato delocalizzate ne sarebbe solo un esempio,
perché molti settori nuovi sono ancora da creare) e un aumento della qualità e
della affidabilità dei prodotti e dei mercati.
A questo si riferiscono, nella seconda colonna
della tabella 2.1, i crediti alla ricerca e sviluppo che devono spingere verso
queste nuove direzioni tutte le imprese – grandi e piccole – e le filiere –
composte di imprese, fornitori, clienti.
Inoltre, le grandi piattaforme digitali (ad
esempio, Amazon o Google) vanno ricondotte alla logica della concorrenza,
grazie a una nuova politica antitrust che, impedendone la concentrazione e il
monopolio, persegua non l’ideologia del benessere del consumatore, ma l’analisi
strutturale dei settori.
Infine,
esaminiamo la terza colonna della tabella 2.1, quella più tradizionale della
redistribuzione, che abbraccia le classiche politiche di welfare e le politiche
fiscali che dovrebbero riequilibrare, a favore degli esclusi, la distribuzione
del reddito e della ricchezza.
È il reddito minimo universale l’orizzonte nuovo e
necessario del XXI secolo: un orizzonte che davvero può aiutare gli esclusi,
quell’ampia neo plebe che si è formata nell’epoca del lavoro automatizzato e
digitale.
Altrimenti
si realizzeranno le peggiori profezie e distopie che da Aldous Huxley (1991) in
poi hanno prefigurato una società futura di ‘uomini alfa’ e sotto di loro un
iceberg sommerso di individui ‘beta’, ‘gamma’, ‘delta’, ‘epsilon’:
la fabbricazione scientifica pianificata di
uomini standardizzati (Schmitt 2001) in una gigantesca struttura castale di
esclusi che finirebbe per significare la perdita di ogni umanità.
2.
Cosmopoliti/locali.
Dopo
la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni ’90, si iniziò a parlare
di una
‘cultura mondiale’.
I più
avvertiti osservarono che, a guardar bene, non era in atto alcun processo di
uniformazione: semplicemente la diversità si presentava organizzata.
Per la
prima volta il mondo appariva come un unico network di relazioni sociali e tra le varie regioni – ma sarebbe
meglio dire continenti – si era creato non solo un flusso di persone o di beni,
ma anche una condivisione di significati (o almeno di conoscenze).
Per la verità, erano le città a integrarsi
attraverso fitti scambi economici e a costituire una rete di città globali,
come hanno mostrato Zbigniew Brzezinski (1970), Saskia Sassen (1991) e poi
molti altri.
Prima
di allora, cosmopolita si definiva colui che scavalcava i confini locali per
spaziare in un ambito nazionale.
Uno
studioso della metropoli come Simmel, a inizio Novecento, si esprimeva in
questo senso e più avanti la ricerca di Robert Merton (1957) sui ‘modelli di
influenza’ in una media città americana confermava questa visione:
cosmopolita era colui che adottava un orizzonte più
ampio, quello nazionale, rispetto a chi viveva nel ristretto ambito locale.
Tanto
che è stato proprio Merton a introdurre nel vocabolario sociologico la coppia
di termini cosmopoliti/locali…
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