HANNO VENDUTO IL NOSTRO FUTURO AI CINESI.
HANNO VENDUTO IL NOSTRO FUTURO AI CINESI.
L'impronta
cinese sulle auto elettriche
in
Europa: nel 2025 ne
saranno
importate 800 mila.
Dmove.it
-Pasquale Agizza – (8 novembre 2022) – ci dice:
La
Cina è sempre più la patria della produzione automobilistica e l'Europa un
importatore netto.
È
questo il futuro prossimo tratteggiato dagli analisti di “PwC”.
Al predominio produttivo corrisponderà un
aumento sempre più forte delle vendite in Europa.
Pensare
alla Cina come la patria della produzione dell’automobile e l’Europa nel ruolo
di semplice importatore era fantascienza fino a qualche anno fa.
Eppure
sarà questo il futuro prossimo, almeno secondo gli analisti di “PwC”.
La
produzione di auto elettriche sarà infatti sempre più orientata verso la Cina e
ad avvantaggiarsi di questa situazione saranno soprattutto i marchi autoctoni.
Il
rapporto affronta la questione da due punti di vista:
il
primo relativo alla produzione e il secondo relativo alla penetrazione nel
mercato.
Per
quel che riguarda la produzione, “PwC” stima che entro il 2025 saranno più di
800 mila le auto costruite in Cina ed esportate in Europa.
In questo numero sono annoverate sia le auto
prodotte in Cina da marchi europei e americani - Tesla, BMW, Renault, Polestar
etc. - che quelle prodotte in Cina e poi vendute in Europa dai marchi cinesi.
Per
capire l’enormità di questo dato, basti pensare che “PwC” stima in meno di 600
mila le auto prodotte e vendute in Europa nel 2025.
Per la
prima volta nella storia, dunque, l’Europa si troverà con un saldo negativo fra
le auto esportate e quelle importate.
La stima è un saldo negativo di 221 mila
veicoli nel 2025, destinato poi a crescere negli anni seguenti.
MINI
elettrica, addio all’Inghilterra: sarà prodotta in Cina, negli stabilimenti “Great
Wall Motors”
Il
predominio produttivo potrebbe presto diventare anche predominio sul mercato.
E con
l’addio ai motori a combustione interna a partire dal 2035, e il conseguente
passaggio all’elettrico, anche i rapporti di forza dell’industria
automobilistica sarebbero destinati a cambiare.
I
marchi storici del mercato automobilistico vedranno le loro quote di mercato
assottigliarsi sempre più, proprio a scapito dei produttori cinesi.
Una
situazione già visibile oggi, ma che nei prossimi anni sarebbe destinata ad
aumentare in maniera vertiginosa.
Sono
tanti i marchi cinesi già sbarcati in Europa e, secondo l’analista di “PwC”
“Germania Felix Kuhnert”, le compagnie asiatiche saranno sempre più competitive
nel Vecchio Continente.
Dando
un’occhiata alle prospettive future, uno dei capifila di quella che possiamo a
ragione definire l’invasione cinese sarà MG, storico marchio inglese acquistato
nel 2007 da SAIC (Corporation Shanghai Automotive Industry).
In
ambito elettrico, MG propone in Italia la MG 5 - prima station wagon elettrica
al mondo -, la MG 4 e l’interessante MG Marvel R.
La
nuova elettrica MG4 di MG Motor arriva in Italia in tre versioni a partire da
29.990 euro.
Da
poco meno di un anno è sbarcata in Italia anche “Aiways”, altro marchio di casa
a Shanghai.
Il 2023 sarà un anno importantissimo per la
casa cinese, visto che all’U5 si affiancherà l’ambizioso U6, SUV coupé
accreditato di un’autonomia di 410 km e più di 200 cavalli di potenza.
L’importanza
rivestita dall’Europa per i produttori cinesi si è palesata al Salone dell’Auto
di Parigi:
nell’ambito della kermesse parigina è stato
ufficializzato lo sbarco nel Vecchio Continente di due pezzi da novanta
dell’industria cinese: Great Wall Motors - con i marchi ORA e WEY - e BYD, azienda leader nel campo delle
batterie famosa anche per l’impressionante integrazione verticale raggiunta nei
suoi stabilimenti.
BYD si
espande: i suoi veicoli arriveranno anche in Svezia e in Germania entro la fine
dell'anno.
Sono
due, però, i marchi su cui gli analisti sembrano scommettere: Chery - già attiva in Europa tramite
fornitura di componenti alla italiana DR Automobiles - e XPeng.
Chery
è una vera e propria autorità dell’export cinese:
da 19 anni consecutivi è il marchio automobilistico
cinese che vende di più all’estero, con 80 nazioni servite e più di 2 milioni
di auto vendute fuori dai confini cinesi.
“XPeng”
è indicata da più parti come la “Tesla cinese”.
Del
marchio americano cerca di imitare stile e integrazione delle tecnologie, ma a
differenziarla da Tesla è l’ottimo rapporto qualità/prezzo delle sue proposte. XPeng è già presente in Norvegia,
Svezia e Olanda, ma l’intenzione è quella di aprirsi a nuovi mercati per
aumentare i numeri in Europa.
La
Cina si
sta comprando l’Italia (e noi glielo
lasciamo
fare, perché siamo nei guai).
Linkiesta.it - Alberto Negri – (30 agosto
2018) – ci dice:
Qualche
settimana fa, il vertice Conte-Trump, ora quello tra Tria e Xi Jinping.
Con
l’obiettivo di cercare sponde potenti, in vista di una possibile tempesta
finanziaria. In cambio di qualunque cosa.
Si
parte per vendere e si finisce per comprare.
Sembrava
che il ministro dell’Economia Giovanni Tria fosse andato in Cina per vendere i
titoli del debito italiano e invece è venuto da Pechino l’annuncio che la Banca
d’Italia inizierà a diversificare le proprie riserve valutarie includendo il
renminbi e quindi titoli di stato cinesi. Non è una novità che dai cinesi compriamo
quasi tutto: la Cina è tornata a essere una fabbrica-mondo come lo fu fino alla
vigilia della rivoluzione industriale europea.
Importiamo
dalla Cina molto di più di quanto esportiamo: quasi il doppio.
È il
terzo Paese del mondo per valore delle merci che l’Italia importa dall’estero,
dopo Germania e Francia.
Dalla
Cina arrivano prodotti per un valore quasi doppio rispetto, per esempio, a
quelli che arrivano dagli Stati Uniti (28,4 miliardi di euro contro 15
miliardi lo scorso anno, secondo i dati del ministero per lo Sviluppo
economico).
Per
ogni euro che spendiamo in merci prodotte nel loro Paese, i cinesi spendono
meno di 50 centesimi in prodotti italiani.
Quindi
la nostra bilancia commerciale (che a livello complessivo è in attivo) rispetto
alla Cina è negativa:
alle aziende cinesi sono rimasti 15 miliardi
di euro di differenza lo scorso anno, spesi dagli italiani.
La
Cina è un destino, non solo segnato dalla storia ma dal presente e dal futuro.
È la
seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, anche se il suo prodotto
interno lordo è poco più di sei volte quello dell’Italia, secondo i dati della
Banca mondiale:
in dollari la produzione cinese vale 12,2 milioni di
miliardi e quella dell’Italia 1,9 milioni di miliardi.
La
Cina però cresce con tassi di sviluppo molto superiori al nostro e quindi la
distanza si sta allargando a dismisura.
Basti pensare che vent’anni fa, nel 1998, il
Pil dell’Italia era del 20% più alto di quello cinese.
Noi andiamo piano, la Cina vola.
Eppure
le cose non sono così nette quando si scende nel dettaglio, che però è anche
sostanza.
Fca,
Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà
industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione.
Il
picco degli investimenti è dovuto soprattutto al fatto che tra il 2014 e il
2015, il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito
una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.
In
realtà l’annuncio che la Banca d’Italia compra titoli cinesi nasconde un
preciso intento diplomatico ed economico.
Il
messaggio è indiretto ma chiaro agli interlocutori internazionali: Italia e
Cina hanno l’obiettivo comune di difendere la stabilità finanziaria
internazionale, i liberi commerci e sviluppare ulteriormente i rapporti
economici per cui, dopo gli investimenti diretti già effettuati e le
potenzialità ancora inespresse, Pechino ha un interesse concreto alla stabilità
italiana.
La
verità è che i cinesi dagli italiani comprano assai ma soprattutto quello che a
loro interessa, nell’ottica di una strategia di espansione in Europa e nel
Mediterraneo.
Dal
calcio (Inter e Milan) alle quote in gruppi strategici, la Cina è dall’inizio
del 2014 sempre più presente nell’industria italiana.
Gli
investimenti cinesi vanno dai 400 milioni di euro di Shanghai Electric in
Ansaldo Energia all’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso
dell’energia elettrica di Pechino, China State Grid, per un valore complessivo
di 2,81 miliardi di euro.
Interessati
dalle mire cinesi sono stati anche i gruppi dell’agroalimentare, come il brand
Filippo Berio, controllato da Salov, in cui il gruppo cinese Bright Food ha acquisito
una quota di maggioranza, o quelli della moda, con il passaggio di Krizia al
gruppo di Shenzhen, Marisfrolg.
Tra
gli investimenti più recenti, da ricordare, nel 2017, l’acquisizione del gruppo
biomedicale Esaote da parte di un consorzio nel quale figura anche Yufeng
Capital, co-fondato dal patron di Alibaba, il gigante dell’e-commerce cinese,
Jack Ma.
Questo,
sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i
collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia.
Ed è questo che hanno chiesto anche al
ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste – e la
nuova zona franca – come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo
dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez.
L’interesse
della Cina verso l’Italia non è sfuggito ai nostri concorrenti:
secondo
uno studio pubblicato nel 2017 dal “Mercator Institute for China Studies di
Berlino” e dal gruppo di consulenza “Rhodium Group”, tra il 2000 e il 2016,
l’Italia è stata al terzo posto, tra i Paesi dell’Unione Europea, come meta
degli investimenti cinesi, a quota 12,8 miliardi di euro.
Hanno
fatto meglio solo la Gran Bretagna, a quota 23,6 miliardi, e la Germania, in
seconda posizione con 18,8 miliardi di euro.
La tendenza è cambiata alla fine del 2016
quando Pechino ha dato un taglio allo shopping sfrenato dei gruppi cinesi
all’estero per concentrarsi sui progetti di sviluppo industriale e su quelli
che rientrano nell’iniziativa di sviluppo infrastrutturale tra Asia, Europa e
Africa” Belt and Road”, lanciata dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.
Questo,
sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i
collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia.
Ed è
questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il
mirino sul porto di Trieste – e la nuova zona franca – come punto di approdo in
Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano
Indiano e Suez.
Da
quando i cinesi gestiscono il Pireo, il traffico dei container è aumentato di 6
volte, e il porto è passato dalla 93esima posizione mondiale alla 36esima,
diventando il terminal con la crescita più rapida al mondo.
Dietro
a questa strategia cinese non ci sono solo i commerci.
Secondo i dati sulla spesa militare globale
diffusi dal “Sipri” la Cina è il secondo paese per spesa militare complessiva
dopo gli Stati Uniti, che con oltre 600 miliardi di dollari contro 225
conservano saldamente la prima posizione.
Quello che colpisce è lo straordinario aumento
della spesa militare cinese, più che raddoppiata dal 2008 a oggi, mentre gli
Usa l’hanno diminuita del 14%.
Un
evento di portata storica per la semplice ragione che certifica la Cina come
potenza non solo economica ma anche militare: un evento che ci riguarda
direttamente.
Da più
di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio
privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta” agevolata
dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi.
È
proprio l’“hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza
militare globale proiettata anche verso il Mediterraneo oltre che in Africa, su
un palcoscenico dove dominano Washington e la Nato.
Forse
ancora non a lungo: anche per questo l’Italia ha un ruolo non secondario nelle
strategie cinesi.
Prospettive
cinesi su
un
inevitabile destino.
Ilmanifesto.it
- Simone Pieranni – (10-2-2023) – ci dice:
NÉ
INTELLIGENTE NÉ ARTIFICIALE. «Scenari dal futuro dell’Ia» di Chen Qiufan: spaccato
di come sarà il mondo di domani.
Da
tempo la Cina è considerata la potenza globale nella posizione migliore per lo
sviluppo dell’Intelligenza artificiale.
A monte di questa constatazione ci sono i
soldi che Pechino ha messo a disposizione, la spinta data dalla leadership in
questo campo (Jiang Zemin già negli anni 90’ considerava la corsa all’Ia
fondamentale per il futuro del paese e lo stesso Xi Jinping ha citato più volte
il tema nei suoi discorsi) e l’immensa mole di dati che le aziende cinesi possono
utilizzare per migliorare i propri algoritmi.
Il lancio di ChatGpt da parte di “Open Ai” ad
esempio, non poteva che diventare l’ennesimo “momento Sputnik” per il comparto tecnologico cinese
(come accaduto dopo la vittoria sul campione nazionale di “Go” da parte di “Alpha
Go “di Google, il primo software a sconfiggere un umano che avrebbe spinto il
Pcc a spingere sull’acceleratore dell’innovazione autoctona.
Nei
giorni scorsi Baidu, il principale motore di ricerca cinese, ha annunciato il
lancio della sua “Chat Gpt “a marzo, ma sembra che anche” Tencent” e “Tik Tok “stiano
lavorando a qualcosa del genere.
La
scena tecnologica cinese, ancora prima che diventasse riconosciuta a livello
globale, è stata descritta da “Lee Kai-Fu,” taiwanese con esperienze in Google,
Apple e Microsoft, esperto di tecnologia in Cina e da qualche tempo impegnato
in una società di venture capital a finanziare proprio progetti tecnologici
(anche) in Cina.
Quando
uscì “AI Superpowers”: China, Silicon Valley, and “the New World Order” nel
2018 in pochi avrebbero scommesso sull’impeto tecnologico cinese.
Il suo libro permise di vedere gli avanzamenti
di Pechino diventata via via una rivale degli Usa in un campo solitamente
considerato “proprio” dell’Occidente.
Bisogna
anche specificare che il suo libro portò a un esito quasi opposto:
da fabbrica del mondo, nelle narrazioni
occidentali la Cina è cominciata a diventare un pericoloso avversario capace di
utilizzare la tecnologia con funzioni iper repressive e non solo in casa
propria.
Un’altra
deriva è stata la seguente:
sopravvalutare
la Cina in un settore nel quale esistono ancora molti punti deboli (i
semiconduttori, ad esempio) e questioni di governance non chiarissime.
Adesso,
con la Cina tornata tra i “cattivi”, si tende nuovamente a diminuire la
risonanza globale dell’innovazione tecnologica cinese, forse nell’ottica,
anche, di consolarsi:
alla
fine l’Occidente non sarà schiantato dalla Cina, sembrano dire alcuni commenti
relativi allo scontro sui semiconduttori.
“Lee
Kai-Fu” ha però avuto il merito di aprire un mondo, all’interno del quale hanno
trovato il proprio spazio anche gli scrittori di fantascienza.
Nel 2018 usciva “Ai Superpowers” ma tre anni
prima, nel 2015, Liu Cixin era stato il primo cinese a vincere il “premio Hugo”
per la fantascienza con il suo Il problema dei tre corpi.
In tre
anni la Cina diventa un fenomeno interessante sotto molti punti di vista e
tanti scrittori, dopo “Liu”, hanno trovato attenzione internazionale.
Uno di
questi è “Chen
Qiufan”,
soprannominato il “Gibson cinese”: Chen è un autore che utilizza il cosiddetto
realismo fantascientifico, provando a raccontare quanto è “già” futuro.
I loro
due profili si sono incontrati in modo perfetto in “Ai 2041”, Scenari dal
futuro dell’intelligenza artificiale (Luiss University press, 2023), un libro
nel quale Chen indaga attraverso la fiction l’impatto dell’”Ia” nella nostra vita quotidiana in un
domani non troppo distante dai giorni nostri e “Kai-Fu” ne analizza le
specifiche tecniche, fornendo una specie di “hardware” all’impianto funzionale
di Chen.
Ne
esce un libro che ci offre uno spaccato di come potrebbe essere il nostro mondo
tra poco, attraverso l’esplorazione di diverse applicazioni di “Ai”:
dal “deep learning” al “deep fake”, dalla “robotica”
a “simil ChatGpt”.
Il
tentativo è sviluppare questo concetto, espresso nell’introduzione di “Lee
Kai-Fu”:
l’Ia è la tecnologia fondamentale del nostro
presente, ma rappresenta soprattutto il nostro inevitabile destino.
I due
autori non hanno l’intento di spaventare, sono entrambi fondamentalmente
ottimisti.
Ma se Kai-Fu racconta il funzionamento dell’Ia
applicata a diverse situazioni, Chen trasfigura questa freddezza in racconti
che ci restituiscono i rischi di uno sviluppo tecnologico senza alcun
controllo, ribadendo così quanto nel mondo degli esperti di “Ia” si dice da
tempo:
che
più che prevedere cosa potremo fare con l’“Ia”, sarebbe il caso di
regolamentarne già ora le applicazioni, ben sapendo che il suo avanzamento è un
mistero, ad oggi, ancora per tutti.
Così
le Big
Tech cinesi da innovatori
sono
mutate in predatori.
Come
finirà?
Econopoly.ilsole24ore.com - Maurizio Sgroi – (08
Luglio 2021) – ci dice:
SISTEMA
SOLARE.
Poiché
l’emersione delle grandi compagnie di internet nell’empireo del mondo
finanziario è l’autentica novità del decennio appena trascorso, vale la pena
sfogliare un bel “paper della Bis” che racconta in poche pagine il caso cinese,
forse il più avanzato osservato nelle cronache recenti.
Al
punto da risultare istruttivo abbastanza da informare il dibattito in corso,
dove osservatori più o meno preoccupati (o interessati) si domandano se tale
fenomeno non finisca col cambiare radicalmente le coordinate del sistema
finanziario, facendolo virare verso una sorta di Far West dove i regolatori
possono fare poco o nulla.
Quest’impotenza,
alla quale sembra che il governo cinese voglia tutt’altro che rassegnarsi, e lo
dimostra anche il recente caso che ha coinvolto “Didi”, è figlia della
dimensione a dir poco esagerata che queste entità hanno finito col raggiungere,
che si apprezza bene se si confronta la loro capitalizzazione con quella delle
principali industrie finanziarie.
E non
si tratta solo di soldi.
Il vero tesoro di queste compagnie sono gli utenti.
In
Cina, negli ultimi vent’anni, il numero degli utilizzatori di internet si è
triplicato, raggiungendo i 900 milioni nel 2020.
Questa
orda è stata l’autentico combustibile che ha mandato in orbita le compagnie
cinesi che lavorano nel cloud.
All’inizio
della loro storia, tuttavia, i progetti erano molto più semplici rispetto a
quelli che sono emersi successivamente.
“Alibaba”
si occupava di e-commerce, “Tencent” di messaggistica istantanea: nulla di
particolarmente esoterico.
Ma poi, proprio in conseguenza dell’approdo
massiccio di “user” sulle loro piattaforme, questi servizi elementari hanno
finito col diventare sofisticati, offrendo via via opportunità finanziarie, dai
microprestiti ai pagamenti istantanei.
Il
culmine di questa espansione si è raggiunto nell’agosto scorso, quando “Ant
Group”, braccio dei servizi finanziari di” Alibaba”, ha presentato richiesta di
quotazione in borsa a Hong Kong e Shanghai per raccogliere 30 miliardi di
dollari.
La
quotazione, poi bloccata dai regolatori cinesi, avrebbe ulteriormente
rafforzato il potere di” Alibaba” e avrebbe condotto “Ant Group “a superare di
gran lunga il valore delle principali banche cinesi.
Insomma:
la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Rimane
il fatto:
i campioni hi tech cinesi hanno fatto moltissima strada e probabilmente ne
faranno altrettanta.
Capire
le ragioni del loro successo può essere utile a conoscere meglio non solo
l’economia che ruota a questi fenomeni, ma anche il peso che ha in questa
evoluzione il ruolo del governo, poco meno che determinante nel caso cinese, al
pari almeno del numero della popolazione.
Quest’ultima,
a ben vedere, fa la differenza, alimentando quelle “network esternalities” alla base del successo delle reti
sociali finanziarie.
In sostanza, l’abbondanza di dati favorisce la
fioritura di servizi finanziari che consentono di monetizzare questi dati.
Il più classico dei circoli virtuosi.
Il “cloud” consente, ad esempio, di profilare
gli individui al punto da elaborare un merito di credito assai più raffinato di
quello solitamente elaborato dagli istituti finanziari.
In tal
senso le “big tech” sono capaci di “spiazzare” le banche.
Inoltre, facendo circolare denaro all’interno
delle loro reti, interferiscono con il sistema dei pagamenti e perciò suscitano
anche le preoccupazioni delle banche centrali.
Tutto
questo spiega perché molti osservatori guardino a queste entità come
“aggressivi invasori” di un ambiente storicamente protetto: quello finanziario.
Gli” autori del paper”, al contrario, guardano alle
big tech come “finanzieri accidentali”.
Ossia
come soggetti per i quali il sorgere dei servizi finanziari è stata una
conseguenza del loro operare all’interno del cloud.
Un punto di vista, se vogliamo ancora più
radicale:
se i servizi finanziari nascono spontaneamente
all’interno del cloud, purché si abbia abbastanza massa critica per attivarli,
non vuol dire allora che in quella realtà le Big Tech siano naturalmente
destinate ad affermarsi come protagonisti?
Gli
esempi riportati dal “paper” sembrano confermare questa possibilità.
Nel
maggio del 2003 “Alibaba “lanciò il suo servizio “customer-to-customer” (C2C)
di e-commerce “Taobao”, dove venivano proposti numerosi prodotti.
Tuttavia il numero di transazioni rimaneva
limitato:
di
fatto mancava la fiducia fra venditori e compratori e questo impediva di
attivare i pagamenti.
Mancava,
insomma, una terza parte che garantisse al venditore il pagamento della merce
spedita e al compratore la spedizione della merce pagata, sul modello “PayPal”,
per intenderci.
Solo che in Cina un sistema esterno, che solitamente
richiede un numero di carta di credito per funzionare, non poteva essere
attivato perché la diffusione di carte di credito era ancora bassa.
Che fare quindi?
A
ottobre dello stesso anno, per risolvere il problema, “Alibaba” introdusse una
nuova funzione, quella delle “secured transaction”:
Taobao avrebbe trattenuto il pagamento del
compratore in un deposito a garanzia e avrebbe trasferito il denaro solo dopo
che l’acquirente avesse confermato di aver ricevuto la merce.
In
sostanza, Taobao
interpretava
un ruolo squisitamente finanziario di intermediazione.
Già
nei primi mesi del 2004, il 70% dei prodotti venduti dalla piattaforma
offrivano il servizio “secured” e il risultato fu una crescita notevole delle transazioni,
al punto che alla fine dello stesso anno “Alibaba” decise di fondare” Alipay”
proprio per gestire queste transazioni.
Da lì
sarebbe nata “Ant financial”, divenuta poi “Ant Group” nel 2020, l’anno della
(mancata) quotazione. Un classico caso in cui la domanda di un servizio – i
pagamenti sicuri –“ gen” era l’offerta e quindi l’entità chiamata ad
amministrarla.
Un
altro esempio istruttivo è quello dei pagamenti istantanei. “Tencent” fu
fondata nel 1999 allo scopo di offrire normali servizi di messaggistica, un
business in cui è molto difficile guadagnare.
L’azienda
cinese puntò sulla “personalizzazione” dell’identità digitale dello “user “sviluppando
nel 2003 una propria applicazione (Tencent QQ show) che consentiva ai clienti di
personalizzare le loro immagini virtuali aggiungendo ad esempio vestiti
virtuali o altri accessori personali.
Il
programma ebbe un successo straordinario.
Nei
primi sei mesi cinque milioni di user spesero in media cinque yuan a persona
per questo servizio, che poteva essere pagato in “Q-coin”, con cambio 1 a 1 con
lo yuan.
Gli user potevano pagare questi “Q-coin” o
tramite credit card o tramite credito telefonico, confermandosi quest’ultimo un
potente attivatore di pagamenti virtuali.
Tecnicamente
è come se “Tencent “abbia attivato un suo sistema dei pagamenti privato.
Anche
qui, la storia si conclude con il braccio operativo che gestisce questi
pagamenti che diventa una compagnia a parte,” Tenpay”, nel 2005, diventando la
prima piattaforma di pagamento di terze parti.
Queste
due storie, dove da un lato le inadeguatezze del sistema finanziario
tradizionale (carte di credito poco diffuse con “Alibaba”) e il bisogno di
promuovere un business saturo (il QQ di Tencent), generano nuovi servizi finanziari,
ce ne comunicano un’altra:
nulla
di questo sarebbe potuto accadere se il governo non avesse costruito e
sviluppato le reti, a cominciare da quelle mobili.
Già
nel 2009 in Cina era attiva la rete 3G e sia “Ant financial” che “Tencent” ne
approfittarono subito per sfruttare con le loro “app” la maggior velocità di
trasmissione.
Il risultato fu che nel giugno 2020, quindi un
decennio dopo, il numero degli utenti di messaggi istantanei e di pagamenti
mobili arrivò, rispettivamente, a 930 e 800 milioni, con un valore di
transazioni dei pagamenti mobili con terze parti pari al 230% del Pil.
E questo, vale la pena sottolinearlo ancora una
volta, grazie al governo che intanto, già a fine 2013, aveva già rilasciato
quattro licenze per il 4G, consentendo agli operatori mobili cinesi di
investire pesantemente sulle reti.
Alla fine del 2019 la Cina aveva già 5,4
milioni di stazioni “4G”, oltre la metà di quelle totali al mondo.
In
più, i cinesi hanno avuto la possibilità di comprare smartphone a prezzi molto
bassi, col risultato che gli utenti “4G” nel 2019 raggiunsero quota 1,3
miliardi.
E la portabilità delle transazioni finanziarie
si è confermata un potente attivatore delle transazioni.
Chi
compra un biglietto aereo con lo smartphone, può usarlo molto più facilmente di
chi lo compra col pc.
Un
altro elemento che ha favorito la crescita dei due giganti cinesi è stato –
classicamente – la competizione.
“Alipay” è stato a lungo il soggetto dominante
nei pagamenti mobili cinesi fino a quando, nel 2011, “Tencent” ha lanciato “WeChat”,
un “’app di social network” per scambiare con gli amici materiali digitali.
Nel 2013 “Tencent” integrò i pagamenti gestiti
da “Tenpay” nell’applicazione, generando” WeChatPay”.
All’inizio
la quota di mercato di questa entità si collocò intorno al 10-15%, a fronte
dell’80% di” Alipay”.
Ma nel 2014 “WeChat” lanciò la funzione “red packet”.
Si
tratta di una tradizione cinese:
quella
di consegnare un po’ di denaro chiuso in un pacchetto rosso ai giovani durante
le festività.
Inserire
questa possibilità fra i servizi offerti aumentò significativamente il numero
di operazioni di “WeChat”, che un paio di anni dopo aveva già raggiunto la
quota di mercato del 40%.
Ma
forse la sorpresa maggiore per gli osservatori è arrivata da un altro segmento:
quello degli investimenti.
Ogni
account associato a un “user “tende ad avere dei fondi liquidi che giacciono
inutilizzati.
Da qui
la decisione di “Ant financial “di mettere in piedi un fondo monetario a metà
del 2013 con la collaborazione di un gestore di asset (Tianhong).
La
nuova creatura, “Yu’ebao”, piacque più di quanto si potesse prevedere.
Il numero dei sottoscrittori arrivò a 43
milioni.
Nel
2017 superò addirittura il fondo del mercato monetario di JP Morgan basato su
titoli del governo Usa, diventando il più grande fondo monetario al mondo con
1,1 trilioni di yuan di asset, pari a 117 miliardi di dollari.
L’ultimo
tassello che completa il quadro della penetrazione finanziaria delle “Big Tech
cinesi” è il microcredito.
In
Cina per molti individui o piccoli imprenditori è difficile ottenere credito
bancario, come accade in molte economie emergenti.
Nulla
di strano che sin dai primi anni 2000 “Alibaba”, che come abbiamo visto aveva
già la tecnologia, avesse sviluppato un sistema di “credit record” attingendo
dati dalle transazioni svolte sulla sua piattaforma e-commerce, che molto
facilmente sono divenute analisi sul “merito di credito”.
Questo
ha generato la possibilità di chiedere “microprestiti alle banche”, che però
non si fecero convincere.
Probabilmente
le procedure bancarie non prevedevano come “garanzia il merito di credito” di
un utente promosso da “Alibaba”.
Anche
qui, la soluzione fu di provvedere in proprio.
“Alibaba”
si fece assegnare una licenza di micro-prestatore e sviluppò il suo sistema
interno di “credit scoring” – Zhima credit – per approvare rapidamente i
microprestiti.
Venne creato il “modello 310” che richiede 3 minuti per essere
approvato e un (1) secondo per avere la risposta “con zero interventi umani”.
Alla
fine del 2012 “Ant” è riuscita ad approvare 100 milioni di yuan di
micro-prestiti in 36 minuti durante una campagna promozionale.
Il business crebbe talmente rapidamente da
raddoppiare fra il 2014 e il 2017.
Nel 2019 la piattaforma di finanza digitale ha
sorpassato per la prima volta quella dei pagamenti digitali, diventando la
prima fonte di ricavi del gruppo. “Ant” aveva scoperto di essere una banca.
Questa
trasformazione in banca ha avuto notevoli effetti sul sistema finanziario
cinese.
Per
sostenere la sua attività di prestito, infatti, “Ant” ha iniziato a raccogliere
fondi nel mercato dei capitali emettendo obbligazioni con i microprestiti come
sottostante.
Queste
obbligazioni, emesse dalle sussidiarie di “Ant”, crebbero sostanzialmente fra
il 2016 e il 2017.
A
settembre di quell’anno le due compagnie emisero 44 miliardi di yuan di “asset
back securities” (ABS) pari al 30% di tutti gli “ABS cinesi” emessi quel mese.
Il regolatore cinese dovette intervenire per
promuovere regole più stringenti.
E
questo ci porta all’ultimo passaggio che queste “entità tecnologiche” hanno
percorso per promuovere i loro affari: la trasformazione “ufficiale” in
banca.
Non
appena – era il 2014 – il governo cinese annunciò che presto avrebbe concesso
licenze per nuove banche private, sia “Ant” che “Tencen”t crearono le loro
banche, “MyBank” (Ant) e “WeBank” (Tencent).
Tuttavia questo business non è mai davvero
decollato.
Gli asset totali, a fine 2018, per l’una e per l’altra
ammontavano rispettivamente a 96 e 220 miliardi di yuan, molto al di sotto
della media di sette trilioni di yuan di una banca di medio taglio in Cina.
Questo
ci dice un’altra cosa:
dove davvero i giganti di internet fanno la differenza
è nei servizi che non esistono, non in quelli che esistono già.
Anche
perché i regolatori tendono comunque a proteggere gli “incumbent”.
E
questo costringe le Big Tech a spingere sul pedale dell’innovazione.
Nel
2018, ad esempio, le banche internet promossero nuovi prodotti per attrarre
depositanti.
Questa
rappresentazione sintetica della grande avventura delle Big Tech cinesi è
sufficiente per inquadrare meglio quale sia il campo da gioco nel quale le
potenze economiche emergenti sfidano le grandi istituzioni ufficiali, con il
governo nel ruolo insieme di arbitro e di costruttore del contesto.
E si capisce anche bene la conclusione del “paper”,
quando osserva che non è stata una logica predatoria a spingere allo sviluppo
finanziario di queste entità, quanto piuttosto la capacità di riempire i
numerosi spazi vuoti che esistevano nel sistema, o di crearne di nuovi.
Però,
una volta che questi servizi finanziari nati per necessità diventano la
principale fonte di profitto, ecco che la mutazione da “finanzieri per caso” a “predatori
finanziari” può avvenire molto rapidamente.
E considerando il volume di dati (e di
clienti) che hanno come sottostante, queste compagnie possono facilmente
diventare un rischio globale, non solo cinese.
Specie
adesso che la “diffusione del cloud,” per la quale certo le vecchie banche sono
meno attrezzate, è diventata pandemica.
Tutto
questo lascia aperte molte domande, alle quali in teoria dovrebbero rispondere
i governi.
La
strada più facile da percorrere è sicuramente quella di frenare l’avanzata di
queste entità.
Forse
in Cina, e anche altrove, prevarrà un’altra visione: quella di inglobarle in un più ampio
modello di governance globale.
Ma
questa è tutta un’altra storia. E non è detto che abbia un lieto fine.
(Twitter
@maitre_a_panZer)
Io,
robot: la Cina si prepara
alla
fabbrica del futuro.
Ing.it – (30/09/2022) – AdviseOnly – ci dice:
La
manodopera inizia a scarseggiare, ma la produzione cinese deve tenere il passo
con la domanda globale. La soluzione? È nei robot.
Ti
affascinano i robot? La Cina sì, ne è affascinata: ma è un classico caso di
necessità che si deve fare virtù.
Perché
per una serie di motivi – che adesso vedremo – la manodopera cinese ha iniziato
a scarseggiare.
E per compensarne la minor disponibilità, la
seconda economia mondiale si sta rivolgendo proprio a loro: i robot.
Qualche
giorno fa, “l’International Federation of Robotics” si è presentata.
Quel
che ne è emerso è che “il mercato della robotica industriale in Cina” ha
registrato una forte crescita, con un nuovo record di 243.300 installazioni
nell’anno e un incremento del 44% rispetto all’anno precedente.
POST
926 Robot cinesi.
“La
Cina ha guidato la ripresa globale dopo la pandemia di Covid-19 e da sola rappresenta
la metà delle installazioni di robot a livello mondiale nel 2021”, ha
sottolineato “Marina Bill”, presidente della “Federazione Internazionale di
Robotica”.
La crescita è stata forte in tutti i settori,
con l’elettrico e l’elettronico che si sono rivelati predominanti, in scia a un
aumento del 30%, a quota 81.600 installazioni.
Ma
anche l’industria automobilistica ha registrato una forte ripresa, trainata
principalmente dalla produzione di veicoli elettrici.
Il balzo è stato dell’89%, con 50.700
installazioni.
La
Cina si riscopre robotica: perché?
In
parte perché sta recuperando il suo ritardo rispetto ai Paesi più ricchi.
Ma c’è
anche un tema di fabbriche che devono adattarsi al calo di manodopera a basso
costo e all’aumento dei salari.
Ricordi l’invecchiamento della popolazione?
È un Megatrend – come si dice in gergo – che fino a
non molto tempo fa ha riguardato principalmente le economie avanzate.
In merito, si son sempre menzionati due
esempi: quello del Giappone e il nostro, l’Italia.
Ora, però, il trend inizia a interessare anche
i Paesi cosiddetti emergenti.
"La
Cina ha una delle popolazioni che stanno più rapidamente invecchiando al mondo.
Secondo
le proiezioni, la popolazione cinese con più di 60 anni d’età raggiungerà il
28% entro il 2040, a causa dell’allungamento della speranza di vita e del calo
dei tassi di fertilità."
Nel
2019, gli anziani di età pari o superiore a 60 anni erano 254 milioni, mentre
quelli di età pari o superiore a 65 anni ammontavano a 176 milioni.
Entro
il 2040, l’OMS stima che ben 402 milioni di persone – pari appunto al 28% della
popolazione totale – avranno superato i 60 anni.
Questo
Megatrend, già in corso, sta dando un grosso contributo alla carenza di
manodopera, spingendo per converso il ricorso alla robotica.
E
d’altro canto, l’impiego di dispositivi robotici fa sì che le fabbriche possano
non solo compensare le carenze di manodopera, ma anche mantenere bassi i costi:
occorrono meno operai (certamente più qualificati), e su meno turni.
Rendendo perciò meno vantaggioso per le
aziende occidentali lo spostamento della produzione verso altri mercati
emergenti o direttamente a casa loro.
I
robot sono importanti anche per altri motivi.
Il
ricorso alla robotica è decisivo per almeno altri tre ordini di motivi. Dopo aver registrato un incremento
medio annuo del 9% tra il 2000 e il 2010, nel decennio successivo la produzione
per ora lavorata in Cina è cresciuta “solo” del 7,4% all’anno, evidenziando
quindi un rallentamento.
Malgrado
le tensioni commerciali con gli Stati Uniti e la crescente ansia dell’Occidente
circa un’eccessiva dipendenza dai prodotti cinesi, la Cina è ancora la fabbrica
del mondo:
rappresenta infatti il 29% del settore
manifatturiero globale, secondo i dati delle Nazioni Unite.
La
produzione, insomma, deve tenere il passo con la domanda.
Molti
lavoratori tra i più giovani preferiscono impieghi più flessibili nel settore
dei servizi, che in Cina è in espansione, al lavoro in fabbrica.
A
tutto ciò va aggiunto il fatto che il lungo boom della migrazione interna si
sta avviando al tramonto.
Si
fanno strada nuove professioni.
Allo
stesso tempo, come fa notare l’”International Federation of Robotics”, le
autorità statali puntano a incrementare le opportunità di lavoro e imprenditoriali
tra i laureati.
A giugno, il “ministero delle Risorse Umane e della
Sicurezza Sociale” ha indicato in un annuncio il varo di 18 nuove professioni, fra le
quali quella di “tecnico di ingegneria robotica”.
Una
figura chiamata a concentrarsi sulla ricerca e lo sviluppo di algoritmi di
controllo e sistemi operativi per i robot, oltre che sull’utilizzo della” digital simulation technology”.
“La
Cina ha ancora un alto potenziale di crescita”, ha dichiarato Marina Bill.
“La densità robotica del Paese nell’industria
manifatturiera ammonta a 246 robot industriali ogni 10.000 dipendenti, cosa che
nel 2020 la collocava al nono posto a livello mondiale”.
Un
progresso notevole, comunque, se si pensa che dieci anni fa la densità di robot
nel Paese era di sole 15 unità.
Investire
nei “Megatrend”: il futuro della robotica.
La
robotica – e l’automazione che, insieme alla meccanica e ai software, ne sono alla base – è tra le tendenze che
stanno cambiando il volto dell’economia e della società, spinta a sua volta da
altre tendenze, come appunto l’invecchiamento della popolazione.
In
Cina, ma non solo. Come ogni altro “Megatrend”, è destinata a dispiegare i suoi
effetti nei decenni a venire.
Una
tendenza a lungo temine, così come a lungo termine dovrebbe essere l’orizzonte
temporale di un portafoglio d’investimento.
Nel
quale potrebbe trovare spazio anche un tocco di robotica.
Il
2023 è l'anno giusto per introdurre
la
Cina nel portafoglio core?
Carmignac.it
– (3 Febbraio 2023) – Redazione – ci dice:
Dopo
due anni difficili per le azioni cinesi a causa di un giro di vite normativo,
delle tensioni geopolitiche e della recessione economica, il 2023 si
preannuncia più promettente per gli investitori.
Recentemente
i mercati finanziari cinesi hanno registrato una volatilità elevata per una
serie di decisioni politiche e altri eventi che hanno alimentato l’ansia degli
investitori esteri, per esempio l’inasprimento delle normative per alcuni
settori di attività, i guai finanziari del gigante immobiliare “Evergrande”, le
normative più severe sulla trasparenza delle società cinesi quotate negli Stati
Uniti, senza dimenticare la rigida politica” Zero-Covid “e i timori di
un’invasione di Taiwan all’indomani dello scoppio del conflitto in Ucraina.
Il
2023 – l’anno cinese del Coniglio, simbolo di pace, prosperità, ritorno alla
normalità e altro ancora – potrebbe aprire un nuovo capitolo per gli
investitori.
Molti
cambiamenti essenziali avvenuti recentemente nel paese indicano una
normalizzazione dell’economia e dei mercati finanziari e potrebbero far
emergere molte opportunità, in particolare nei settori correlati ai beni di
consumo.
Un
futuro più brillante.
Prospettive
di crescita solide, alimentate dalla domanda interna.
Altri
buoni motivi per prendere in considerazione le azioni Cinesi.
Tutti
gli indicatori volgono nuovamente al bello per le azioni cinesi.
Sui cinque fattori di rischio che gravavano sulle
azioni cinesi nel 2021 e 2022 (verifiche normative rigorose, crisi immobiliare,
politica zero-Covid, politiche locali, tensioni tra Cina e Stati Uniti),
quattro si sono in larga misura risolti ora che Pechino ha posto fine al giro
di vite normativo decidendo anche di sostenere il settore privato, compresi i
colossi internet e i costruttori immobiliari.
Per
quanto riguarda il quinto fattore di rischio, le tensioni tra Stati Uniti e
Cina, che sono tornate a salire dopo l'incidente del "pallone spia
cinese", a nostro avviso non subiranno un'escalation.
Vediamo la ripresa economica post-Covid come
un potente driver per le azioni cinesi nel 2023.
Il
governo cinese ha attuato una serie di cambiamenti concreti dopo il Congresso
del Partito comunista di ottobre.
La
novità più significativa è stata la revoca della rigorosa politica di contrasto
al Covid, una decisione abbastanza affrettata ma dettata dalla necessità, che
ha permesso la riapertura del paese l’8 gennaio.
Inoltre,
il governo sta orientando la sua politica a favore della crescita economica;
alla “Conferenza centrale sul lavoro economico” (il principale consesso
economico del paese), per esempio, alcuni esponenti di punta del governo hanno
annunciato che il rilancio della domanda interna sarebbe stato una priorità per
il 2023.
Anche
se la rapidità della riapertura dell’economia cinese potrebbe causare alcune
difficoltà nel breve termine, ci attendiamo un aumento del PIL già nel primo
semestre con un dato annuo al 5,0% circa, il che farebbe della Cina l’unica
grande economia mondiale a registrare un’accelerazione della crescita del PIL.
Prospettive
di crescita solide, alimentate dalla domanda interna.
Tutti
questi fattori fanno presagire un aumento della spesa al consumo cinese, che a
sua volta dovrebbe far crescere negli anni a venire i ricavi delle società
cinesi nei settori correlati ai beni di consumo.
Una
recrudescenza dei contagi da Covid potrebbe pesare sulla spesa al consumo nel
primo trimestre, ma la situazione dovrebbe migliorare già nel secondo trimestre
grazie alle misure di stimolo della crescita e dei consumi varate da Pechino e
al fatto che sia le autorità locali che i cittadini stanno imparando ad
affrontare il Covid in maniera più efficace.
Inoltre,
le famiglie cinesi hanno un risparmio in eccesso di quasi 18 mila miliardi di
renminbi (2,5 mila miliardi di euro), compresi 4 mila miliardi di renminbi
accumulati dal 2020, in primo luogo a causa dei lockdown.
L’eccesso
di risparmio dovrebbe determinare un aumento della spesa per i consumi.
Si
prospetta anche una ripresa del mercato del lavoro: quasi un posto di lavoro su
cinque in Cina implica un contatto fisico, di conseguenza la revoca della
politica anti-Covid e la riapertura totale dell’economia cinese possono
stimolare sia la dinamica delle assunzioni sia la spesa per i consumi,
alimentando la ripresa dei consumi delle famiglie.
Altri
fattori di crescita strutturale della domanda nazionale cinese sono: una
popolazione di ben 1,4 miliardi di persone;
un PIL
pro capite di oltre USD 12.500; un tasso di consumo delle famiglie in crescita;
un aumento quintuplicato dei consumi totali delle famiglie tra il 2005 e il
2020.
Inoltre,
se si analizzano i consumi delle famiglie cinesi in percentuale del PIL, questo
dato è ora pari al 54,3%, sensibilmente più basso rispetto ai paesi sviluppati
(82,6% negli USA1, per esempio), c’è quindi un ampio margine per l’espansione
della spesa cinese al consumo.
Altri
buoni motivi per prendere in considerazione le azioni Cinesi.
Ci
sono molti altri buoni motivi per investire in Cina. Il mercato conta più di
6.000 società quotate, per una capitalizzazione di borsa complessiva di oltre
USD 19 mila miliardi, seconda solo agli Stati Uniti.
È
quindi semplicemente un mercato azionario che non può essere trascurato dagli
investitori oggi.
Eppure,
nonostante le dimensioni e le condizioni attuali del mercato, le società cinesi
costituiscono appena il 3,6% dell’indice “MSCI All Country World” (costituito
da azioni di circa 50 paesi), rispetto al 60,4% delle società statunitensi e al
5,6% di quelle giapponesi.
Le
aziende cinesi presentano valutazioni interessanti.
Il
rapporto prezzo-utili medio (che indica quanto gli investitori sono disposti a
pagare oggi il titolo di una società sulla base degli utili futuri) è di circa
11 per le azioni cinesi, di poco inferiore alla media decennale, mentre le
azioni globali si scambiano a un rapporto prezzo-utili di circa 15.
Inoltre, la maggior parte delle società cinesi
ha tagliato i costi negli ultimi tre anni, quindi la crescita del fatturato
dovrebbe tramutarsi in un aumento degli utili nel 2023.
Le
azioni cinesi possono essere un efficace strumento di diversificazione del
portafoglio in termini di esposizione geografica e di tematiche di
investimento.
Ravvisiamo
un forte potenziale soprattutto in quattro ambiti principali della New economy
cinese:
1)
innovazione industriale e tecnologica;
2)
salute;
3)
transizione ecologica;
4)
miglioramento dei consumi.
Dopo
20 mesi difficili, il 2023 potrebbe essere l’anno della rinascita per i mercati
finanziari cinesi.
Anche
se alcuni rischi non sono da trascurare (una nuova ondata di Covid, gli
sviluppi geopolitici), crediamo che molti possano essere limitati attraverso
una gestione attiva del portafoglio.
Un
approccio di investimento agile, selettivo e fondato su una visione di lungo
termine (coerente con l’anno del Coniglio) è più che mai fondamentale per il
2023.
Ginevra
mostra il film che
la
Cina vuole che nessuno veda.
Swinfo.it
– (12 – 3 – 2023) – Jamil Chade - Ai Weiwei – ci dicono:
(Ai
Weiwei guarda da una finestra).
Persona non grata nel suo paese d'origine, la
Cina, Ai Weiwei ora vive in Portogallo e non vede un futuro luminoso per
l'umanità.
Questo
fine settimana, il film ‘Coronation’ di Ai Weiwei è stato proiettato al Festival del
film e forum internazionale sui diritti umani di Ginevra, dopo essere stato
rifiutato da tutti i principali festival e piattaforme di streaming in
Occidente a causa delle pressioni cinesi.
Esiliato
in Portogallo, racconta a swissinfo.ch come è riuscito a girare a Wuhan e le
sue fosche prospettive per la democrazia, i diritti umani e la libertà
d'espressione.
Il
mondo probabilmente non saprà mai cosa sia veramente successo a Wuhan poco più
di un anno fa.
L'avvertimento
viene da Ai Weiwei, un artista cinese che ora vive in Portogallo.
"Questo
è probabilmente il film più importante sulla pandemia e sulla Cina." (Ai Weiwei).
Il suo
film ‘Coronation’ (2020) è una rara finestra aperta sulla crisi sanitaria
cinese.
Ma ha
presto scoperto che la censura non è limitata al Partito Comunista Cinese.
I
principali festival cinematografici in Europa e Nord America si sono rifiutati
di proiettare il film, né è stato possibile distribuirlo attraverso le
principali piattaforme come Netflix e Amazon.
Gli
svizzeri, tuttavia, non si sono piegati alle pressioni cinesi.
Questo
fine settimana, il film di Weiwei sarà proiettato al “Festival del film e forum
internazionale sui diritti umani” di Ginevra.
Si
tratta solo di un gesto simbolico, perché l'artista in esilio non crede che la
Svizzera possa esercitare alcun tipo di influenza.
"Le sanzioni svizzere non avrebbero alcun
effetto sulla Cina", ha dichiarato al quotidiano zurighese “Tages Anzeiger”.
Nell'intervista
a “swissinfo”, Weiwei non si fa illusioni:
l'onda democratica degli ultimi 40 anni sta
per finire e la censura sarà la regola nel mondo post-pandemico.
swissinfo.ch: Lei non è il benvenuto in Cina. Come
ha fatto a girare a Wuhan?
Ai
Weiwei: Ho filmato la prima pandemia, nel
2003, quando la Sars è apparsa in Cina, quindi non è la prima volta che
affronto questo argomento.
Giro film d'inchiesta in Cina da molto tempo,
il che mi ha spesso messo in difficoltà.
So come filmare e cosa filmare.
Avevamo
colleghi e artisti in isolamento a Wuhan.
Sapevamo che sarebbe stata una storia
drammaticamente triste.
Ma non
avrei mai previsto che sarebbe stata un'esplosione globale e che saremmo ancora
oggi nella stessa situazione, un anno dopo, con migliaia di persone che muoiono
ogni giorno, e nessun segno che la pandemia scomparirà.
Ho
contattato le persone che conosco e di cui mi fido.
Ho dato loro indicazioni ogni giorno dopo che
le immagini mi venivano inviate.
È stato incredibilmente difficile a causa
della situazione di isolamento.
La
gente non poteva muoversi. Ma avevamo persone in sei ospedali e anche in
caserme temporaneamente allestite per occuparsi dei pazienti.
Cosa
voleva mostrare?
Abbiamo
cercato di mostrare i diversi punti di vista. Non solo degli ospedali e dei
medici, ma anche delle persone, quelle abbandonate e dimenticate.
La grande maggioranza della gente è senza
voce. Quando non hai voce, non conti. O sei solo un numero.
Le
emozioni e i valori non sono più rilevanti.
I
musei elvetici non si dimenticano di Ai Weiwei.
Questo
contenuto è stato pubblicato il 18 mag. 2011.
L’artista
langue forse in una prigione cinese, la sua voce dissidente continua però a
farsi sentire in tutto il mondo, anche in Svizzera. Il museo...
Il suo
film sarà proiettato al Festival del film di Ginevra, questo fine settimana.
Ma abbiamo visto che le piattaforme globali
non hanno trasmesso il film.
Cosa
ci fa capire tutto ciò sull'influenza della Cina?
Sono
molto orgoglioso di quello che abbiamo fatto.
Questo
è probabilmente il film più importante sulla pandemia e sulla Cina.
Quello
che volevo mostrare è come la Cina si muove nel mondo politico.
E come
il mondo capisce la Cina.
Ironicamente,
la prima lezione che ho ricevuto non è stata dalla Cina, ma dall'Occidente.
Tutti
i maggiori festival cinematografici del mondo dove abbiamo cercato di
presentare il film, Toronto, New York e i maggiori distributori online come
Netflix e Amazon, all'inizio hanno tutti amato il film.
Ma
alla fine, la risposta che abbiamo ricevuto è sempre stata la stessa: non
possiamo accettare il vostro film.
Come
ha reagito?
Capisco
la situazione.
Il mercato cinematografico è ormai cinese. Proprio il
mese scorso la Cina ha superato gli Stati Uniti e ora è il più grande mercato
cinematografico del mondo.
Per
quanto riguarda i festival, o sono sotto autocensura o sotto la pressione della
Cina.
Possono
presentare solo film che hanno il "Sigillo del dragone", riconosciuto
dal dipartimento di propaganda comunista cinese.
"L'ondata
di 30 o 40 anni di democratizzazione sta finendo."
(Ai
Weiwei).
End of
insertion.
Ottenere
questo sigillo è praticamente impossibile. Molti dei miei colleghi in Cina non
lo otterranno mai, sebbene ci provino da anni.
Quindi,
anche se non critico la Cina, loro [i festival e le piattaforme
cinematografiche] non possono essere associati al mio nome. Questo
influenzerebbe il loro potenziale commerciale in Cina, dove lo stato è l'unico
acquirente.
Ma
anche l'industria cinematografica privata occidentale ha rifiutato di
proiettare il mio film a Berlino.
Ho
capito che hanno una solida presenza in Cina e semplicemente non possono farlo.
Non
possono permettersi di perdere i loro affari.
Non è
qualcosa di giusto o sbagliato.
L'Occidente
ha rinunciato alle sue libertà a favore del capitale e del profitto.
(Il film “Coronation” di Weiwei.)
Quello
che lei sta dicendo è che la questione della libertà di espressione affronta
sfide non solo in Cina ma anche in Occidente. Come pensa che il mondo uscirà
dalla pandemia su questo tema?
Quando
si parla di libertà di espressione, sappiamo tutti che vivremo in condizioni
molto peggiori. Ovunque.
In Cina, siamo sotto stretto controllo e
sorveglianza, come in un film di fantascienza, solo che è tutto molto reale.
In
Occidente, abbiamo appena sentito come le grandi aziende hanno venduto
informazioni sugli utenti alle aziende cinesi.
Tutto
in Cina è sotto il controllo del governo.
Così le autorità possono controllare le
informazioni sugli individui anche in Occidente.
Pensa
che sarà così per sempre?
Questa
è la nuova realtà.
A causa della globalizzazione, le grandi
aziende sono profondamente coinvolte con la Cina e non c'è confine, ideologia o
qualsiasi tipo di argomento che tenga. Si parla solo di profitti. I cinesi
stanno strategicamente vincendo.
L'ondata
di 30 o 40 anni di democratizzazione sta finendo.
Se si guarda a quello che sta succedendo negli
Stati Uniti o in Brasile e in tanti altri stati, capiamo che la democrazia e lo
Stato liberale hanno subito un brutto contraccolpo.
Molti
di questi Paesi stanno vivendo una forte crisi interna, dando così un grande
vantaggio agli stati autoritari.
Leader
come Bolsonaro, Vladimir Putin o il cinese Xi Jinping sono uomini forti che
sono riusciti abilmente a ottenere ciò che volevano. Dureranno ancora a lungo e
non c’è modo di fermarli.
Il
lavoro di Ai Weiwei è sempre stato legato a pressanti questioni politiche e
sociali, come la condizione dei rifugiati.
'Law of the Journey' (2017) è stato
originariamente commissionato ed esposto dal Museo nazionale di Praga
(Repubblica Ceca) e portato in un magazzino a “Cockatoo Island”, in Australia,
come parte della mostra della “Biennale di Sydney”. (Zan Wimberley)
Come
valuta la reazione dell'Occidente?
A.W.: L'Occidente non ha valori chiari.
Quando un giornalista del Washington Post viene ucciso in un'ambasciata, il
governo americano fa finta di niente.
Se
l'Occidente può accettare questo, non ha una posizione morale da sostenere. Julian Assange è ancora in prigione.
Ha
solo fornito una piattaforma per rivelare alcuni segreti di Stato.
Ma se
cose come questa sono permesse, la cosiddetta libertà di parola è uno scherzo.
Ti è
permesso di parlare solo di qualcosa che loro accetteranno.
Non ti
permetteranno mai di parlare di qualcosa di veramente cruciale o di mettere in
discussione l'establishment.
L'Organizzazione
mondiale della sanità (OMS) ha inviato una missione a Wuhan. Ma pensa davvero
che un giorno sapremo davvero cosa è successo un anno fa con la pandemia?
No,
non lo credo.
Il
regime comunista è molto potente e forte e mantenere questo segreto è in cima
alla loro agenda.
L'OMS ha fatto una visita molto superficiale.
Anche
loro (l'OMS) sono responsabili, poiché all'inizio della crisi hanno indicato
che la malattia non era trasmissibile tra gli esseri umani.
Questo
è assurdo.
Siamo
di fronte a un mostro molto più grande.
In
termini geopolitici, cosa pensa succederà sul pianeta nel periodo
post-pandemia?
Stiamo
vivendo un momento di fragilità.
Non
credo che la pandemia possa allarmare la gente in modo da farle elaborare una
strategia chiara per affrontare ciò che la società umana si troverà ad
affrontare in futuro.
Per
molti versi, abbiamo a che fare con realtà che non hanno precedenti per
l’umanità.
La tecnologia, gli stati potenti come la Cina
e l'incapacità dell'Occidente di affrontare quello stato autoritario, più gli
enormi problemi climatici.
Tutto
questo mette in forte discussione il nostro futuro.
Una
Guerra è in atto… e
si
Combatte nelle Nostre Menti.
Conoscenzealconfine.it
– (13 Marzo 2023) – Antonella Werner – ci dice:
La
sceneggiata Covid ha disvelato al mondo, per chi ha saputo coglierlo, che c’era
e c’è, una guerra in atto da tanto, tanto tempo, il cui campo di battaglia è la
nostra mente e l’obiettivo è la nostra anima.
Sotto
l’effetto delle loro bombe che si chiamano “pensiero unico dominante” hanno minato la società con i loro
indiscutibili dogmi, materialismo e “Scienzah”, lanciando al contempo anatemi contro
tutti coloro che avessero osato dissentire.
Oggi
il mondo è spaccato in due.
Chi
vede l’invisibile, ed ha saltato lo steccato, e chi invece crede solo a ciò che
vede e sta ancora brancolando nel buio inseguendo, come fanno le falene, un
fascio di luce.
Hanno
consegnato le torce a giornalisti prezzolati che raccontano fandonie, a medici
che anziché stare in corsia reclamizzano sieri mortali, a cantanti sguaiati ed
indecenti che dovrebbero insegnare come si ama, a oche giulive che non sanno
nemmeno la tabellina del cinque ma che proprio in virtù di questo stanno sulle
copertine patinate.
Seguire
qualcuno è l’unica cosa che riescono a fare dal momento che hanno rinunciato al
proprio logos.
Certo costa fatica formarsi ed informarsi…
meglio non perdere tempo alla ricerca della Verità.
È più
comodo farsi bastare ciò che viene offerto.
Inutile
però insistere con questi soggetti.
Non abbiate volontà di convincerli, non serve.
Si tratta di intraprendere un percorso
personale, ed ognuno lo deve fare guidato dal proprio libero arbitrio.
Prima
anch’io cercavo di convincerli, di farli ragionare, oggi ho capito che è solo
tempo perso.
Sono degli energivori che tolgono le forze e basta. Mi
hanno fatto prima rabbia, poi pena, ma ora mi sono indifferenti.
Li
chiamo anime perse che hanno perso tutto per inseguire i pensieri pensati
anziché sforzarsi a farsene di propri.
Spiace,
ma è così.
(t.me/antonellawerner)
SoftBank
si dilegua dal
colosso
cinese Alibaba?
Starmag.it – (5 Agosto 2022) - Chiara Rossi –
ci dice:
(Softbank
Nvidia Arm)
Softbank
ha venduto un terzo della quota in Alibaba e ne ricava 22 miliardi.
La
svolta del conglomerato giapponese, storico finanziatore di “Jack Ma”, arriva quando il colosso
dell’e-commerce cinese sta affrontando complicazioni
Softbank
si preparare a cedere la sua quota di Alibaba.
Il
conglomerato giapponese Softbank ha sottoscritto contratti derivati sulla
vendita con opzione di riscatto per circa un terzo della sua storica quota sul
gigante dell’e-commerce cinese Alibaba, da cui ha ricavato circa 22 miliardi di
dollari.
Lo
riferisce il “Financial Times” sulla base delle documentazioni contabili
prodotte dal gruppo nipponico, che ora si ritrova con oltre metà della sua
partecipazione sulla società cinese impegnata in contratti di vendita analoghi.
Il
tutto si verifica mentre la “US Securities and Exchange Commission” (Sec) ha aggiunto Alibaba a un elenco di
oltre 250 società cinesi che potrebbero subire il “delisting a Wall Street” a
causa del mancato rispetto dei requisiti di revisione finanziaria.
Alibaba
si “sforzerà” di mantenere la quotazione di New York nonostante l’aggiunta alla”
watchlist della Sec “,ha affermato la società lunedì in una dichiarazione alla
borsa di Hong Kong.
Le nuove regole contabili è il fronte su cui
si è aperto un nuovo contenzioso tra Washington e Pechino.
Il gruppo ha fatto richiesta di quotazione
primaria al mercato di Hong Kong.
Tuttavia,
ieri il titolo di Alibaba ha guadagnato l’1,5%, grazie a una trimestrale
migliore delle attese.
Nonostante
Alibaba abbia battuto le stime, è la prima volta che l’azienda registra una
crescita piatta.
Il
gruppo cinese dell’e-commerce ha registrato un leggero calo dei ricavi
trimestrali per la prima volta nella sua storia.
Tutti
i dettagli.
SOFTBANK
DISMETTE QUOTE DI ALIBABA.
Softbank, il gruppo guidato dal miliardario
fondatore “Masayoshi
Son”, ha
venduto quest’anno circa un terzo della sua partecipazione in Alibaba.
A meno
di futuri ripensamenti, e relative massicce spese, la quota di Softbank nel
risulterà drasticamente ridotta.
Una svolta storica, secondo il quotidiano
finanziario londinese, dato che il gruppo era stato tra i principali
finanziatori della società di “Jack Ma” quando era una startup, con un
finanziamento di circa 20 milioni di dollari 20 anni fa, che sono andati a
lievitare e che il gruppo nipponico non ha mai liquidato.
Queste
vendite prevedono appunto un patto di riscatto con cui la società potrebbe
riappropriarsi delle azioni.
Ma
secondo il Ft è improbabile che venga esercitato.
La
scommessa di SoftBank su Alibaba durante la sua nascita aveva reso il suo ceo Masayoshi Son l’uomo più ricco del
Giappone nell’ultimo
decennio. Tuttavia,
ha perso questo titolo quando le azioni di Alibaba sono diminuite a causa delle
pressioni normative.
LA
STRETTA DI PECHINO SUL COLOSSO CINESE.
Nel
frattempo, in Cina il colosso tecnologico fondato da “Jack Ma” ha affrontato
un’indagine antitrust e una multa da 2,8 miliardi di dollari l’anno scorso.
Negli
ultimi tempi il fondatore “Jack Ma” è quasi scomparso dalla vista del pubblico.
E ora sta ora pianificando di rinunciare al
controllo della consociata di “Alibaba, Ant Group”, secondo il Journal.
Da
oltre un anno “Ant Group” è nel mirino delle autorità di regolamentazione del
mercato di Pechino.
Nel
2020 le autorità cinesi hanno bloccato in extremis l’offerta pubblica iniziale
(Ipo) da oltre 34 miliardi di dollari che avrebbe dovuto portare la compagnia
sulle borse di Shenzhen e Hong Kong.
LO
SCENARIO GEOPOLITICO.
Non si
può escludere nemmeno che tra le considerazioni che hanno portato Softbank a
queste transazioni vi siano anche elementi di natura geopolitica sulle
crescenti tensioni che si stanno creando tra Usa e alleati da una parte, tra cui il Giappone, e Russia e Cina e diversi paesi
emergenti dall’altra su una molteplicità di episodi, tra cui la guerra in Ucraina e le
mire cinesi su Taiwan.
IL
PRIMO CALO DEL FATTURATO NELLA STORIA DI ALIBABA.
Infine,
il gruppo cinese dell’e-commerce Alibaba ha registrato un leggero calo dei
ricavi trimestrali per la prima volta nella sua storia.
Per il primo trimestre dell’anno fiscale
2022-2023 il fatturato è stato di 205,55 miliardi di yuan, dai 205,7 miliardi
di yuan dello stesso periodo del 2021.
L’utile netto si attesta a 22,73 miliardi di
yuan contro i 18,72 miliardi di yuan attesi dal consensus degli analisti.
Nel
trimestre, Alibaba ha dovuto affrontare una serie di venti contrari, tra cui
una recrudescenza del Covid in Cina che ha portato al blocco delle principali
città e un’economia cinese fiacca nel secondo trimestre.
In una
nota il gruppo ha parlato di un ‘declino’ delle attività commerciali compensato
da quelle sul cloud.
“Dopo aprile e maggio relativamente deboli, a
giugno vediamo segni di ripresa nella nostra attività”, ha affermato il ceo del
gruppo” Daniel Zhang”.
Xi
Jinping, il nuovo Mao che ha comprato
mezza
Italia e controlla il Mediterraneo.
Lavocedinewyork.com
– (18 settembre 2020) - Elisabetta de Dominis – ci dice:
Gennaro
Sangiuliano ha presentato il suo libro sul leader della Cina a “Pordenonelegge”
e con lui abbiamo capito a chi è stato venduto il nostro futuro...
Di
Maio e Mattarella celebrano il concubinato con il gigante gonfio d'affari.
22
marzo 2019: Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si incontra con il
Presidente della Repubblica Popolare Cinese XI Jinping.
Gennaro
Sangiuliano ha presentato il suo libro a Pordenone.
Gennaro
Sangiuliano, direttore del tg2, a soli 58 anni ha al suo attivo circa una
ventina di saggi, oltre ad alcune direzioni in quotidiani nazionali, diverse
cattedre universitarie, una laurea in giurisprudenza, un master in diritto
privato europeo e un PhD in diritto ed economia.
Davanti
a un simile curriculum vitae non posso non osservare che invece in Italia siamo
governati da un bel numero di ignoranti, tuttavia abbiamo ancora delle belle
teste pensanti, le quali non hanno preso la scorciatoia per occupare qualche
posto di potere.
Non so quando ci libereremo di quegli incolti,
ma so che, se non introdurremo un criterio di competenza anche nella scelta dei
nostri candidati politici, l'Italia è destinata a scomparire.
Il
grado culturale denota la comprensione e, se non si è appreso, quanto si riesce
a comprendere?
Quanto
si riesce a difendere il proprio Paese e a non svenderlo al mercato cinese?
Democrazia
non è “uno vale uno”, non lo era nemmeno per gli antichi Greci che
sottoponevano i candidati a un esame attitudinale, la docimasia.
Il fatto è che “abbiamo confuso
l'assemblearismo permanente con la democrazia”, ha sottolineato Sangiuliano a
Pordenonelegge, durante la presentazione della sua ultima biografia: Il nuovo Mao. Xi Jinping e l'ascesa
al potere nella Cina di oggi (Mondadori).
Sangiuliano
ha esordito avvertendo che “la Cina possiede il 2% di Generali, Unicredito, Intesa San
Paolo, Monte Paschi; ha acquisito la Pirelli, uno dei marchi storici del
capitalismo italiano, il 30 % della nostra rete energetica”.
Perché
l'Italia ha permesso questi giganteschi investimenti?
E
nell'indifferenza dei media nazionali, la Cina ha raggiunto il controllo del
Mediterraneo, comprandone i porti che vi si affacciano, e la maggioranza
societaria di alcuni importanti porti italiani.
Sta
attuando il piano del suo presidente Xi Jingping:
Una
cintura, una strada.
Che
una sola cintura sia l'unica via la dice lunga in termini egemonici e che poi
gli sia stato dato il serafico nome di “La nuova via della seta” non deve trarre in inganno.
Perché, come ci ha raccontato Sangiuliano,
dietro a quel sorriso rassicurante e quell'aria gentile il presidente cinese
cela una personalità strutturata, forgiata nelle avversità.
Nato
nel '53 come un “principe rosso”, figlio di un dirigente del partito comunista
molto vicino a Mao, Xi Jinping a 15 anni finisce in un campo di rieducazione a
dare per due anni da mangiare ai maiali, a causa della caduta in disgrazia del
padre.
Mao
aveva fatto sua la pratica di Stalin di liberarsi dopo tot anni dei collaboratori
più stretti affinché non prendessero troppo potere.
Ma nel
'74 Xi Jinping riuscirà ad entrare nel
partito maoista – la sua richiesta era stata respinta una decina di volte – e
inizierà l'ascesa politica dalla gavetta:
prima governatore di alcune province cinesi,
poi sindaco di Shanghai, carica che gli spianerà la strada al potere.
Il
presidente cinese sta realizzando il suo progetto neo-nazionalista fondato
sulla riproposta del marxismo come religione politica e del confucianesimo come
dogma culturale.
Quindi
la politica come religione e la religione come radice culturale.
Ecco come ti indottrino la massa: “Noi siamo una cosa sola: una sola è
la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra storia”.
Così i cittadini-sudditi portano l'acqua al mulino
cinese per farlo diventare il più potente del mondo e superare l'America,
sottomessi all'uomo che è già il più potente del mondo, poiché ha avocato a sé
le cariche di presidente, segretario del partito e capo delle forze armate.
“Sulla
Cina Trump ci ha visto bene” ha sottolineato Sangiuliano.
“Non è
a favore dei dazi, ma li ha utilizzati come strumento per costringere Xi
Jinping a sedersi al tavolo delle trattative.
C'era troppo sbilanciamento economico: 800
miliardi di esportazioni dalla Cina in America, 200 di importazione.
E da
lì anche Merkel e Macron hanno preteso venisse rispettato il principio di
reciprocità.
Invece
l'Italia ha sottoscritto il “Memorandum con la Cina” senza chiedere alcuna
contropartita”.
Siamo
alla frutta?
O
abbiamo confuso il profumo dei soldi con il profumo della frutta?
Fatto
sta che gli italiani hanno sempre avuto un debole per l'esotico e, mentre i
nostri politici si abbronzano lungo qualche spiaggia, i cinesi ci trasformano in una
repubblica delle banane vendendoci isole gonfiabili con tanto di palma.
Ci adatteremo a galleggiare sul finto “ma”
economico?
Forse
ha ragione Xi Jinping: “La democrazia non è un valore, l'armonia è un valore”, dove ognuno sta al suo posto e svolge il ruolo che gli viene
prefissato dal presidente semidio.
E
chissenefrega di” pensare con la propria testa” se la bocca ha da mangiare in
abbondanza? Chissenefrega “della libertà” se abbiamo soldi in tasca per andare
dove ci pare?
Noi
non siamo i buoni e i cinesi i cattivi, ma è certo che oggi siamo gli indiani e
loro i cowboy.
Dialogare
non significa cedere, ma accordarsi.
Commerciare
non significa farsi acquistare, ma acquistare.
E difendere i nostri valori culturali significa una
cosa sola: difendere
la libertà.
“Sempre con la schiena dritta” ha concluso Sangiuliano.
(Elisabetta
de Dominis)
IN
CINA E ASIA – LA CINA ANNUNCIA
GLI
OBIETTIVI PER IL 2023
China-files.com – Vittorio Mazzieri e Francesco
Mattogno – (6 Marzo 2023) – ci dicono:
I
titoli di oggi:
La
Cina annuncia gli obiettivi per il 2023.
Due
sessioni: nuove leggi per contrastare le sanzioni straniere.
Due
casi di omicidi di donne in Cina scatenano il web.
Miliardario
americano denuncia blocco dei depositi in Cina.
Leader
dell’opposizione cambogiana condannato per tradimento.
Seul
propone nuovo accordo sul lavoro forzato.
Nel giorno
di apertura dell’Assemblea nazionale del popolo (Anp), il premier cinese Li
Keqiang ha presentato il suo ultimo rapporto di lavoro prima del pensionamento.
Si
tratta del resoconto con il quale la seconda carica del paese riassume le
politiche chiave dell’anno appena trascorso e spiega i programmi per quello che
verrà.
Come
riportato dal “South China Morning Post”, prima di tutto” Li “ha dichiarato che
l’obiettivo di crescita del PIL per il 2023 è stato fissato al 5%.
Al
ribasso rispetto alla previsione del 5,5% del 2022, ma più alto dell’effettivo
3% poi raggiunto dalla Repubblica popolare.
Per
quanto riguarda le altre prospettive economiche, il premier ha annunciato
grandi finanziamenti a settori chiave come quello dei “chip” e maggiori
investimenti nell’assistenza agli anziani e nelle politiche di natalità.
Vista
l’instabilità economica globale, la politica monetaria dovrà essere “prudente”
e “mirata”, ha detto.
Il
governo dovrà avere un maggior ruolo nello sviluppo tecnologico ma, con
l’obiettivo di mirare all’autosufficienza nella scienza e nella tecnologia, le
imprese resteranno i “motori dell’innovazione”.
La
Cina, ha dichiarato “Li”, cercherà di intensificare gli sforzi per attrarre
investimenti esteri e adotterà le misure necessarie per aderite all’accordo di
libero scambio del CPTPP, il “Partenariato transpacifico”.
Il budget per la spesa militare del 2023
aumenterà del 7,2% rispetto all’anno scorso (lieve incremento rispetto al 7,1%
del 2021).
“ Li “ha
poi menzionato la “Belt and Road Iniziative” (BRI), attraverso la quale,
secondo le sue parole, il governo cinese ha promosso anche nel 2022 una
“cooperazione di alta qualità” con i paesi aderenti.
Sul
piano politico, il premier ha sottolineato la “vittoria sul Covid” (senza mai menzionare la politica
Zero Covid).
È
stata elogiata l’applicazione del principio di “un paese due sistemi” valido per le regioni
amministrative speciali di Hong Kong e Macao, e affermato che la Cina adotterà
misure risolute per opporsi all’indipendenza di Taiwan e promuovere la
“riunificazione”.
Giudizio positivo anche per la “diplomazia con caratteristiche cinesi” che ha “salvaguardato la sovranità e gli
interessi” della Cina, promuovendo la “pace nel mondo” e la promozione del
multilateralismo.
Secondo
l’analisi del “Nikkei Asia”, durante il suo discorso di un’ora il premier ha
menzionato la parola “stabilità” 33 volte, rendendolo uno dei termini più usati
(non è mai stata citata invece la “prosperità comune”).
“ Li
Keqiang “è stato applaudito sia all’inizio che alla fine dell’intervento:
al
termine delle “due sessioni” a prendere il suo posto come nuovo premier della
Repubblica popolare sarà molto probabilmente “Li Qiang”, che nel suo ultimo
ruolo ha servito come Segretario del Partito comunista a Shanghai.
DUE
SESSIONI: NUOVE
LEGGI PER CONTRASTARE LE SANZIONI STRANIERE.
Negli
ultimi anni, funzionari e aziende cinesi sono stati colpiti da sanzioni
occidentali che sono state motivate, tra le altre cose, dalle accuse a Pechino per le
violazioni dei diritti umani ai danni delle minoranze etniche.
La
guerra in Ucraina potrebbe aggravare ulteriormente la situazione, visti i
legami tra Cina e Russia.
Ma ora
la Repubblica popolare ricorrerà a mezzi legali per contrastare l’impatto delle
sanzioni straniere.
Lo scorso sabato il portavoce della prima
sessione del 14esima Assemblea nazionale del popolo (NPC)” Wang Chao” ha
dichiarato che sono già iniziati i lavori a riguardo: già lo scorso anno era stata
pubblicata una bozza di legge che prevederebbe l’adozione di contromisure nel
caso di minaccia agli interessi chiave del paese.
La
Cina, ha detto “Wang”, si oppone con fermezza al cosiddetto “giurisdizione a braccio lungo” (in inglese, “long-arm
jurisdiction”), pratiche che consentono a un tribunale di esercitare la propria
giurisdizione su persone e società in altri stati: senza menzionare direttamente gli Stati
Uniti,”
Wang” ha aggiunto che “alcuni paesi hanno continuate ad abusare dell’applicazione
extraterritoriale delle loro leggi nazionali in violazione del diritto
internazionale, con l’obiettivo di [..] servire i propri interessi”.
Di
fronte a questi atti descritti come “egemonici e ostili”, è “assolutamente giustificabile e
necessario”
che il paese prenda provvedimenti.
MILIARDARIO
AMERICANO DENUNCIA BLOCCO DEI DEPOSITI IN CINA.
Nonostante
le rassicurazioni di” Li Keqiang” sull’apertura dell’economia cinese, le cose
non sembrano più essere quelle dei tempi di “Deng Xiaoping”.
A
pensarlo è il miliardario americano Mark Mobius, che ha dichiarato a FOX Business di non riuscire a portare i propri
soldi fuori dalla Cina a causa dei controlli sui capitali esercitati dal
governo di Pechino.
Secondo
“Mobius” il denaro, depositato su un conto con” HSBC” a Shanghai, non è
trattenuto esplicitamente.
Per poterlo prelevare serve però un “resoconto degli ultimi 20 anni su
come ho fatto quei soldi, pazzesco”, dice l’investitore.
Stando
a quanto riportato da Reuters, “Mobius” è stato per decenni uno più grandi
fautori degli investimenti nel mercato cinese, ma ora afferma che “il governo sta diventando sempre più
orientato al controllo dell’economia”.
Il suo suggerimento agli investitori è quindi
di fare “molta
attenzione”,
e che India
e Brasile potrebbero rappresentare dei mercati alternativi a quello della
Repubblica popolare.
DUE
CASI DI OMICIDI DI DONNE IN CINA SCATENANO IL WEB.
Due
donne agli opposti dello spettro sociale, entrambe uccise dai propri mariti,
hanno riacceso il dibattito sulle violenze domestiche in Cina.
La
prima, una ventiquattrenne dello Henan, è stata pugnalata a morte la scorsa
settimana.
I
resti smembrati della seconda, la modella Abby Chou, sono stati ritrovati nei
giorni scorsi.
Le
indagini hanno inchiodato il marito e due membri della sua famiglia.
Si tratta degli ultimi omicidi perpetrati a Hong Kong
con dinamiche simili, tutti commessi da uomini ai danni di donne.
Le reazioni sui social non si sono fatte
attendere.
Molti commenti hanno messo in discussione gli
appelli del governo a sposarsi e a fare più figli, campagne e misure
legislative lanciate da Pechino per compensare la crisi demografica del paese.
“Sembra
che non sposarsi e non avere figli è davvero la cosa più sicura per noi”, ha
scritto una utente sul web.
Se la
nuova Legge sulla protezione dei diritti e degli interessi delle donne varata
lo scorso ottobre include tutele legali per le donne vittime di violenza, le
misure sono state criticate come poco concrete.
I
servizi per l’infanzia sono inaccessibili a molti, e manca un sostegno
inadeguato alle madri lavoratrici.
Altri hanno sottolineato le difficoltà che emergono
nell’abbandonare matrimoni violenti, soprattutto dopo l’introduzione di un “periodo di riflessione” obbligatorio
di 30 giorni per le coppie che intendono divorziare.
HONG
KONG: ANNULLATA ALL’ULTIMO MANIFESTAZIONE SUI DIRITTI DELLE DONNE.
Sabato
è stata annullata all’ultimo minuto una manifestazione sui diritti delle donne
a Hong Kong:
sarebbe
stata la prima grande protesta per i diritti civili approvata nella Regione
amministrativa cinese da anni.
Come
riportato dalla Reuters, inizialmente la polizia aveva emesso una lettera di
“non obiezione”, dando la possibilità agli organizzatori di indire la
manifestazione a condizione che non fosse contraria agli interessi di sicurezza
nazionale.
L’Associazione
delle lavoratrici di Hong Kong (questo il nome dell’ente organizzatore) sarebbe quindi scesa in piazza per
chiedere più diritti sul lavoro, diritti delle donne e uguaglianza di genere.
Poco prima dell’inizio della manifestazione,
però, ecco il dietrofront della polizia. Secondo le forze dell’ordine di Hong
Kong alcuni gruppi violenti avrebbero avuto intenzione di unirsi alla protesta.
Di fronte alle domande dei giornalisti, che
chiedevano se la polizia volesse evitare una protesta che avrebbe potuto
mettere in imbarazzo Pechino proprio durante le “due sessioni”, il sovrintendente Dennis Cheng si
è però mostrato evasivo e non ha specificato le motivazioni precise alla base
del cambio di linea.
LEADER
DELL’OPPOSIZIONE CAMBOGIANA CONDANNATO PER TRADIMENTO.
Kem
Sokha, oppositore
del leader cambogiano Hun Sen, è stato riconosciuto colpevole di tradimento.
L’ex
leader del partito “Cambodia National Rescue Party” (CNRP) era stato arrestato
nel 2017 con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per spodestare Hun
Sen.
Il suo partito era stato disciolto subito dopo, e
all’uomo era stato vietato di partecipare alla politica.
Ora,
dopo anni, è giunto il verdetto.
L’ambasciatore statunitense W Patrick Murphu ha definito le accuse del
governo cambogiano “teorie cospirative inventate”.
Altre
critiche giungono dai gruppi per i diritti umani: secondo Amnesty International il
sistema giudiziario cambogiano ha “dimostrato ancora una volta la sua
sconcertante mancanza di indipendenza“;
“Human
Rights Watch “ha lanciato un appello affinché il politico venga rilasciato “immediatamente e senza condizioni”.
Il
vicedirettore di HRW “Phil Robertson” ha aggiunto che la condanna è servita a “Hun
Sen” come stratagemma per “eliminare il sistema democratico del paese”, e “spegnere ogni
speranza che ci possano essere delle vere elezioni generali a luglio”.
SEUL
PROPONE NUOVO ACCORDO SUL LAVORO FORZATO.
La
Corea del Sud sospenderà il contenzioso intrapreso nei confronti del Giappone
presso l’”Organizzazione mondiale del commercio” (Omc).
L’annuncio
segue la proposta di un accordo con Tokyo riguardante lo sfruttamento del
lavoro coreano in tempo di guerra.
Nel
2019, in risposta alla storica disputa, il Giappone aveva imposto alcuni limiti
alle esportazioni verso la Corea del Sud di materiali per il settore
tecnologico.
Secondo
la nuova iniziativa, a compensare le vittime del lavoro forzato non sarà il governo nipponico, bensì una fondazione governativa
supportata dalle società sudcoreane che avevano ricevuto fondi dal Giappone
nell’ambito di un precedente accordo firmato nel 1965.
(Vittoria
Mazzieri e Francesco Mattogno)
Economia
cinese: Occhio
ai
prossimi 15 anni.
ispionline.it – (4 Mar. 2021) -Filippo Fasulo
– ci dice:
Le Due
Sessioni.
In
occasione della riunione annuale plenaria del parlamento cinese, le cosiddette “Due
Sessioni”, si definiscono le politiche economiche per il 2021, per i prossimi
cinque anni e per i prossimi quindici anni.
Si
mettono, dunque, le basi per uno sviluppo futuro che le aziende italiane devono
ben conoscere per definire le proprie strategie.
Quanto
all’anno in corso, l’interrogativo principale nelle anticipazioni era sulla
eventuale rinuncia a un obiettivo di crescita del Pil predeterminato per il
2021.
Una pratica questa che nel corso degli anni
aveva costretto Pechino ad affannose rincorse all’ultimo decimale per non
venire meno alla parola data, dovendo però fare affidamento sull’aumento della
spesa pubblica, non più sostenibile dopo lo stimolo del 2008 che aveva
compensato il calo della domanda internazionale in conseguenza della crisi
finanziaria internazionale.
La decisione finale è stata quella di fissare
un target di crescita “superiore al 6%” che risulta inferiore a quello che si
poteva evincere sommando i target fissati dalle province (+6,8%) e di quasi due
punti sotto alle previsioni dell’IMF e della Banca Mondiale di un rimbalzo nel 2021 al
+8%.
Si tratta dunque di una scelta conservativa
che lascia margine d’azione.
Nelle
prossime settimane, inoltre, verrà approvato il “Quattordicesimo piano
quinquennale”, le cui linee guida sono già state identificate in occasione del
Quinto Plenum – la riunione plenaria del comitato centrale del PCC – dello
scorso ottobre.
La
novità è che per la prima volta da un orizzonte quinquennale ci si è
posizionati su uno di quindici anni, identificando il percorso al 2035 come
punto di passaggio fondamentale per conseguire i risultati di “piena
modernizzazione” che nel 2049 potranno far dichiarare al Partito che il “Sogno
Cinese preconizzato da Xi Jinping nel 2012 “è finalmente realtà.
Quali
le linee allora?
L’elemento centrale è quello della doppia circolazione, un’immagine costruita
sull’integrazione fra una dimensione internazionale fatta di interscambio e flussi
di investimento (circolazione esterna) e una domestica caratterizzata da consumi interni e aumento
della qualità della produzione in funzione di una sostanziale autarchia
tecnologica nei settori strategici (circolazione interna).
Il punto fondamentale è la coesistenza delle
due circolazioni, ma dando un sempre maggiore peso a quella interna.
In sintesi, come riportato da “Zichen Wang”
nel suo blog “Pekingnology” riprendendo le parole di “Xi Jinping”, tutto ruota
attorno allo
“spirito del Quinto Plenum” che si traduce in un contesto di fondo che prende
il nome di “nuovo livello di sviluppo” e che caratterizzerà gli anni dal 2021
al 2049, con un “tagliando” nel 2035.
Una
“nuova filosofia di sviluppo” che dovrà essere innovativo, coordinato, verde,
aperto e condiviso; e, infine, un “nuovo paradigma di sviluppo” ovvero la messa
in pratica di questi concetti e che prende le vesti della strategia della
doppia circolazione.
Una
sfida non semplice.
Bene,
se la “teoria” è definita, resta da mettere a punto la “pratica”.
Il 2020, infatti, si è chiuso dimostrando come
la transizione da una economia dipendente dalle esportazioni e dagli
investimenti – un problema già identificato ai tempi del “new normal” del 2015, quando si decise proprio di
definire un nuovo modello di sviluppo passando dalla quantità alla qualità –
non sarà un compito semplice.
I
tempi diversi del manifestarsi dell’epidemia in Cina e nel resto del mondo e le
risposte alla crisi economica non coincidenti – stimoli alla produzione in Cina
e sostegno ai consumi nel resto del mondo – hanno generato un disallineamento
per cui, proprio nell’anno in cui Pechino avrebbe dovuto ridurre il proprio
surplus commerciale con gli USA come da accordi stipulati il 15 gennaio con
Trump nel Phase-1 Agreement, la bilancia commerciale ha raggiunto il valore
positivo di 535 miliardi di dollari con una crescita del 27%.
Allo
stesso tempo, il contributo delle esportazioni nette alla crescita del Pil si è
attestato nell’anno della pandemia al 28%, il valore di gran lunga più alto di
questo secolo e che nell’ultimo decennio aveva sfiorato il 10% solo nel 2015
conseguendo invece valori negativi in più occasioni.
Specularmente,
le vendite al dettaglio sono ben lontane dalla tanto auspicata “ripresa a v” –
a un calo netto si affianca una altrettanto netta ripresa – che ha
contraddistinto la produzione manifatturiera.
Se nel
dicembre del 2019 il tasso di crescita mensile delle vendite era stabilmente
attorno all’8%, il valore del 2020 è di un +3,9% frutto di un calo superiore al
20% nei primi due mesi dell’anno e di una ripresa che però non è mai andata
oltre il +5% di novembre, rallentando ancora al +4,6% in dicembre.
I
consumi, dunque, sono tornati a crescere già ad agosto, ma non hanno ancora
ripreso il passo che avevano prima della pandemia.
La
volontà di Pechino di spingere sui consumi interni è, però, ampiamente
consolidata.
Tra
gli ostacoli da superare c’è l’armonizzazione degli interessi di breve periodo
– mantenere alti tassi di crescita attraverso export e investimenti – o
conseguire la revisione strutturale verso i consumi interni, ma probabilmente a
spese della crescita nell’immediato.
Avere
un target di crescita non troppo elevato è allora sicuramente d’aiuto in favore
delle riforme strutturali, anche se un eventuale risultato troppo sotto la
previsione ormai consolidata di un rimbalzo all’8% nel 2021 potrebbe innestarsi
come soglia, quantomeno psicologica, per valutare l’andamento della ripresa
cinese.
Imprese
italiane: che fare?
Definito
il contesto, come dovrebbero comportarsi le aziende italiane in affari con la
Cina?
Alcune
utili indicazioni emergono dal rapporto elaborato dal “Centro Studi per
l’Impresa della Fondazione Italia Cina “(CeSIF) intitolato “Il ruolo delle PMI nelle relazioni
fra Italia e Cina”:
analisi
di scenario e indicazioni di soci e imprese che contiene i risultati di un
questionario sottoposto a 180 PMI rispetto alla loro attività con la Cina e le
conseguenti percezioni.
In più
di una risposta, le aziende hanno indicato di vedere la Cina soprattutto come
mercato di sbocco per i propri prodotti, preferendo questa opzione
all’indicazione della Cina come sede per la produzione di prodotti a basso
costo.
Nonostante
il prezzo inferiore sia ancora individuato come una delle ragioni della forza
competitiva di aziende cinesi presenti nello stesso settore, nel questionario
viene attribuita poca importanza alla possibilità di spostare la produzione in
Cina per andare incontro a minori vincoli ambientali o contrattuali.
Una
tale prospettiva ben si sposa con la promozione della circolazione interna, una indicazione del fatto che le
aziende italiane hanno compreso pienamente il senso della transizione in corso
della Cina da luogo della produzione a luogo del consumo.
Con
una qualche sorpresa, dal questionario è inoltre emerso come la risposta alla
crescita qualitativa della produzione industriale cinese non dovrebbe limitarsi
a chiusure doganali, quanto piuttosto concretizzarsi in una crescita della
competitività italiana grazie a maggiori investimenti in ricerca e sviluppo.
Si
tratta di una dimostrazione di grande maturità e consapevolezza sulla dimensione
dei processi in corso in Cina, che, come descritto in precedenza, hanno un
orizzonte trentennale e dunque vanno affrontati alla radice.
Per
cogliere le opportunità derivanti dalla crescita del mercato emerge con forza
l’esigenza di presentarsi con partner italiani o europei dopo aver seguito un
percorso di accompagnamento promosso da enti o associazioni di categoria
nazionali o territoriali.
Infine,
il digitale rappresenta allo stesso tempo la porta d’ingresso per chi ne ha
compreso il valore in Cina e il massimo ostacolo per chi non riesce ad adattarsi a una
modalità di vendita che con la pandemia ha preso ancora più piede.
Nel 2020, mentre le vendite al dettaglio sono
calate del 3,9%, quelle digitali sono cresciute del 14,8% e oggi rappresentano
il 24,9% del totale.
Capitalismo
cinese e americano,
chi è
meglio? (l’Europa
assente).
Madrugada.blogs.com
– (09 gennaio 2023) - Andrea Gandini – ci dice:
(Andrea
Gandini, Economista, analista del futuro sostenibile)
Quello
che è capitato all’imprenditore (e maggior miliardario) cinese “Jack Ma” è
significativo della differenza che forse correrà tra il capitalismo americano e
quello cinese nei prossimi anni.
E
l’Europa (se ci fosse) avrebbe molto da imparare su come costruire una società
migliore di quella dei due poli/leader mondiali.
Jack
Ma, un insegnante di inglese, ha inventato nel 2011 Alibaba, un e-commerce molto più grande di
Amazon;
poi il pagamento elettronico con Alipay (usata da oltre un miliardo di
cinesi).
Ha
creato una sua banca ed è insieme un imprenditore e un banchiere-finanziario,
il più ricco cinese (50 miliardi di patrimonio nel 2020 per Forbes).
Il
presidente cinese “Xi Jinpig” però non vede più di buon occhio questi “miliardari
privati “che fanno quello che vogliono (seppure nelle norme cinesi) e, a mio
avviso, lo
Stato cinese ha deciso di “condizionare” i suoi colossi tecnologici (Alibaba,
Tencent, ByteDance e le altri grandi imprese) e finanziari regolamentandone
l’attività in settori che hanno raggiunto un’influenza senza pari sulla vita
quotidiana dei cinesi.
La
leadership comunista ha così deciso due anni fa, osservando formalmente le
leggi cinesi, di avviare una “indagine” su “ANT Group” (che controlla Alibaba) che è
sfociata in una multa da 2,8 miliardi di dollari, nello spezzettamento della
società monopolista di e-commerce, nella vendita del quotidiano” South China
Morning Post”, nell’impedire la quotazione alla borsa di Hong Kong (che avrebbe
portato all’ingresso di azionisti stranieri).
L’ultimo atto è stato ridimensionare “Jack Ma” (sceso
dal 53% al 6,2% dei diritti di voto), per cui ora comanda un consiglio di 10
persone, tra cui lui (il fondatore), un rappresentante del personale, uno del
management, e altri 7 “azionisti”, dietro cui si nasconde sicuramente lo Stato
Cinese (e la politica).
Gli
Stati Uniti hanno permesso alla Cina di entrare nel WTO nel 2001 sotto la
pressione delle multinazionali americane e di una nuova fase del
turbo-capitalismo, per assemblare nelle affidabili fabbriche cinesi i loro
prodotti, realizzando profitti molto maggiori per il minor costo del lavoro
cinese rispetto a quello americano.
La Cina garantiva in cambio di diventare una
“economia di mercato”, dando alle imprese occidentali gli stessi diritti che
hanno in tutto il mondo (nel mercato “libero”) come, per esempio, quello di
poter acquistare il controllo anche di aziende cinesi o il 50%, cosa che non è
mai avvenuta.
Nessuno però in questi 22 anni in Occidente ha
mai protestato…forse per non compromettere gli affari delle imprese Usa e
occidentali troppo grandi.
In
questi ultimi 20 anni si sono così avvantaggiati molti milionari americani, è
decollata la finanza, gli Stati si sono indebitati moltissimo (il debito
pubblico e privato globale ha superato i 300mila miliardi di dollari, pari al
360% del pil mondiale, era il 100% nel 1970), ma anche i cinesi sono diventati
milionari, tra tutti “Jack Ma”.
La
Cina pare voglia cambiare:
dopo
20 anni di liberismo cinese, mette sotto controllo sia la finanza privata che
le grandi aziende (non solo tech) onde evitare di perderle (tramite quotazione
alle borse di Hong Kong o altrove), e per indicare come Stato quali sono i
settori da sviluppare e usare parte dell’arricchimento per redistribuirlo alle
zone povere.
Lo Stato cinese vuole dire la sua su quale sviluppo,
per esempio, indicare l’importanza dei semiconduttori (di cui oggi Taiwan è il
primo produttore mondiale e su cui ha mire militari) che la Cina considera
strategico per il suo futuro.
Inoltre vuole redistribuire parte della
ricchezza dei miliardari per creare più eguaglianza e investire nelle
aree rurali.
Il
paradosso è che sia uno Stato dispotico che si preoccupa dei divari sociali e
vuole che sia il pubblico e i cittadini a discutere e decidere quali siano gli
orientamenti a lungo termine della società (e non le imprese o la finanza
cinese).
Un
tema che dovrebbe riguardare piuttosto “le nostre democrazie, sempre più
disinteressate alla scuola e all’indipendenza della stampa (che evita di fare
buone domande…)”, dice nel suo libro “En finir avec le règne de l’illusion
financière” Jacques de Larosière (per 20 anni direttore del Tesoro francese,
direttore del FMI e governatore della banca di Francia).
È
molto preoccupato che “la socializzazione del rischio di un debito enorme” possa riversarsi sulle economie
occidentali desertificando redditi e lavoro e “di Governi che vivono nella paura di
mercati finanziari ormai dominanti”.
Per
l’Occidente le azioni cinesi sono dispotiche e violazioni del “libero mercato”,
ma non è detto che la maggioranza dei cittadini (cinesi, ma forse anche
americani ed europei) sarebbe contraria a vedere ridimensionato il ruolo dei
grandi miliardari privati e della finanza, per dare un ruolo maggiore allo
Stato nell’economia, o riportare la finanza a fare il suo mestiere al servizio di
imprese e famiglie (anziché speculare) o usare parte dell’immensa ricchezza privata
per aiutare i poveri.
È su
queste questioni dirimenti per le persone in carne ed ossa che si
confronteranno Cina e Stati Uniti nel prossimo decennio e potrebbe proprio
succedere che la “competizione” aiuti a riformare il capitalismo a “quote più
normali”, come successe nei primi gloriosi 30 anni del secondo dopoguerra nella
competizione tra Usa e URSS.
Il
problema è l’Europa che non c’è più.
Siamo
diventati alleati e proni agli Stati Uniti.
In
Europa questa iniziativa pubblica potrebbe anche venire più che dai partiti,
dalle Associazioni dei consumatori e dai sindacati che potrebbero indicare cosa fare e comunque avviare
la discussione pubblica.
L’esatto
contrario di quanto avvenuto col “PNRR”, dove tutto è stato deciso dall’alto,
senza alcuna consultazione pubblica e popolare, dei Comuni, tantomeno delle
associazioni o dei sindacati, per cui ci troveremo bellissime realizzazioni,
spesso costosissime, a volte inutili e, se va bene, che poco rispondono alla
“Ripresa”, ma, più spesso a visioni di breve periodo che nulla hanno a che fare
con la ripresa dell’intrapresa e del lavoro.
Come
nel caso delle mille case della salute, dove l’impossibilità di assumere
personale, ci darà bellissime strutture piene di attrezzature senza personale.
Si
deve prendere atto che redistribuire la ricchezza o indicare quali siano i veri
bisogni da soddisfare per l’umanità non interessa al capitalismo liberista.
Solo
un’azione collettiva promossa dalla partecipazione dei cittadini tramite le sue
associazioni, può individuare i veri bisogni dell’umanità, non certo il “libero
mercato”.
La crisi del capitalismo in Usa e Europa, al di là
dello stereotipo per cui noi siamo “liberi” e “loro” (cinesi, russi, ecc.) sono
sotto regimi dispotici (che è vero), dimostra che se, accanto ai diritti civili
occidentali, non si affermano anche i diritti sociali sostanziali, non ci potrà
essere vero sviluppo e vero consenso.
Non
sarà gridando che in “Oriente” non sono rispettati come da noi i diritti
civili, che si potrà invertire l’enorme e crescente disagio sociale (che
procede da 20 anni), ma aumentando l’occupazione, i salari, il welfare che
conta (scuola, sanità, trasporti e pensioni).
Infine riducendo le crescenti ed enormi
disuguaglianze.
Lo
strapotere cinese sul litio
minaccia
il futuro della mobilità.
Wired.it – Amit Katwala – (28 ottobre 2022) – ci dice:
Il
dominio della Cina nel settore delle batterie agli ioni di litio rischia di
ostacolare il passaggio dell'Occidente ai veicoli elettrici.
Il
porto industriale di Kwinana, sulla costa occidentale dell'Australia, è un
microcosmo dell'industria energetica globale.
Dal
1955 ha ospitato una delle più grandi raffinerie di petrolio della regione, di
proprietà della British Petroleum, quando si chiamava ancora Anglo-Persian Oil
Company.
Un
tempo era responsabile del 70 per cento delle forniture di carburante dell'Australia
Occidentale.
Le carcasse metalliche dei vecchi serbatoi
dominano ancora la costa, arrugginendosi lentamente con l'aria salata.
La
raffineria ha chiuso nel marzo 2021, ma sotto la terra rossa della regione non
c'è solo il petrolio: l'Australia ospita anche quasi la metà delle forniture
mondiali di litio.
I
camion e i macchinari sono tornati a ronzare, ma ora fanno parte della corsa
per assicurarsi le fonti di energia pulita del futuro, una corsa dominata dalla
Cina.
Il
dominio cinese.
Negli
ultimi 30 anni, il litio è diventato una risorsa preziosa. È un componente essenziale delle
batterie del telefono o del portatile su cui state leggendo questo articolo,
oltre che delle auto elettriche che presto domineranno le strade.
Ma
fino a poco tempo fa il litio estratto in Australia doveva essere raffinato e
lavorato altrove.
E
quando si tratta della lavorazione di questo materiale, la Cina ha una marcia
in più.
Nel
2021 superpotenza si è accaparrata circa il 40 per cento delle 93mila
tonnellate di litio grezzo estratte a livello globale.
In
tutta la Cina centinaia di “gigafactory “stanno sfornando milioni di batterie
per veicoli elettrici sia per il mercato nazionale che per le case
automobilistiche straniere come Bmw, Volkswagen e Tesla.
Secondo
le stime di “BloombergNef”, la quota di mercato cinese delle batterie agli ioni di litio potrebbe
raggiungere l'80 per cento.
Sei
dei dieci maggiori produttori di batterie per veicoli elettrici hanno sede in
Cina e uno di loro, Catl, produce tre batterie su dieci nel settore a livello globale.
Questa
posizione dominante si estende alla catena di approvvigionamento.
Le
aziende cinesi hanno firmato accordi preferenziali con i paesi che hanno grandi
disponibilità di litio e hanno beneficiato di ingenti investimenti governativi
nelle complesse attività di estrazione e produzione.
La
situazione sta innervosendo il resto del mondo, con gli Stati Uniti e l'Europa
che cercano di interrompere la propria dipendenza dal litio cinese prima che
sia troppo tardi.
Una
batteria per un'auto elettrica contiene tra i 30 e i 60 chilogrammi di litio.
Si
stima che entro il 2034 i soli Stati Uniti avranno bisogno di 500mila tonnellate
di litio non raffinato all'anno per la produzione di auto elettriche.
Si
tratta di una quantità superiore all'offerta globale del 2020.
Alcuni
esperti temono il ripetersi della crisi petrolifera scatenata dall'invasione
dell'Ucraina da parte della Russia, e che le conseguenti tensioni geopolitiche
sfocino in una guerra di sanzioni.
Uno
scenario del genere potrebbe portare la Cina a interrompere la fornitura di
batterie in una fase in cui le case automobilistiche occidentali ne hanno
grande bisogno per sostenere la transizione alla mobilità elettrica.
La
rincorsa di Europa e Stati Uniti.
“Se la
Cina decide di dedicarsi esclusivamente al mercato interno, le batterie agli
ioni di litio saranno più costose al di fuori della Cina.
Ciò
rende gli sforzi occidentali per espandere la capacità di produzione delle
batterie più urgenti che mai”, spiega “Andrew Barron,” professore della”
Swansea University”.
Questi
sforzi stanno prendendo forma, anche se lentamente. Se tutto va secondo i
piani, negli Stati Uniti sorgeranno 13 nuove “gigafactory entro il 2025”, a cui
se ne aggiungeranno altre 35 in Europa entro il 2035.
Queste
“gigafactory” avranno però bisogno di parecchio litio.
A
marzo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato l'intenzione di
utilizzare il “Defense production act “per finanziare l'estrazione di litio e
di altri materiali critici per le batterie a livello nazionale sotto l'egida
della sicurezza nazionale.
Dall'altra parte dell'Atlantico, l'Unione
europea sta portando avanti una legislazione per cercare di creare una catena
di approvvigionamento di batterie ecologiche in Europa, con particolare
attenzione al riciclo del litio.
Tuttavia
tra la miniera e la produzione manca ancora un tassello importante. Trasformare il minerale di litio nel
carbonato o nell'idrossido di litio necessario per le batterie è un'operazione
costosa e complessa.
Ci
vogliono anni per far decollare un impianto di lavorazione o una “gigafactory”,
e gli Stati Uniti potrebbero impiegare decenni e una cifra stimata in 175
miliardi di dollari per raggiungere la Cina, che controlla almeno i due terzi
della capacità di lavorazione del litio a livello mondiale.
Una
posizione che potrebbe garantirle un dominio incontrastato nel mercato delle
batterie per gli anni a venire.
Senza
investimenti urgenti in questa fase intermedia, il litio estratto da nuove
miniere negli Stati Uniti e in Europa (anche nel vecchio continente si torna a
scavare) potrebbe dover essere spedito in Asia e poi nuovamente raffinato prima
di poter essere utilizzato nelle auto elettriche, aumentando le emissioni,
minando l'indipendenza energetica delle regioni e fornendo di fatto un assist
alla Cina.
L'onnipresenza
cinese.
A
prima vista, “Kwinana “sembra muoversi nella giusta direzione.
A nord della vecchia raffineria è stato
costruito un nuovo impianto per la lavorazione del litio, che a maggio ha
trasformato per la prima volta con successo un minerale di litio chiamato”
spodumene” in idrossido di litio pronto per le batterie.
Ma
nemmeno questo dà all'Australia la possibilità di raffinare e vendere
liberamente il proprio litio.
L'impianto è infatti una joint venture e il
suo azionista di maggioranza è “Tianqi Lithium”, una società mineraria e
manifatturiera cinese che controlla quasi la metà della produzione mondiale di
litio.
Nella
catena di approvvigionamento globale delle batterie, la Cina è ovunque.
“Tianqi Lithium” possiede anche partecipazioni in “Sqm”, la più grande società mineraria
cilena, e in “Greenbushes”, la più grande miniera di litio australiana.
Sia “Tianqi
Lithium” che la sua rivale nazionale “Ganfeng Lithium” hanno firmato accordi in
tutto il "triangolo del litio" del Sud America, una regione delle Ande ricca di
minerali all'incrocio tra Argentina, Bolivia e Cile.
La
storia si ripete anche per altri materiali rari necessari per le batterie: la
Cina controlla il 70 per cento dell'industria mineraria della Repubblica
Democratica del Congo, dove si trova quasi tutto il cobalto mondiale, un altro componente fondamentale
delle batterie agli ioni di litio.
Oltre
a bloccare le forniture globali di litio, la Cina ha anche iniziato a espandere
la produzione interna: ora è il terzo produttore di litio dopo Australia e Cile,
sebbene detenga meno del 10 per cento delle forniture mondiali.
Questo
dominio non si è concretizzato da un giorno all'altro.
Nel 2015 la Cina ha fatto del litio una priorità
nazionale nell'ambito della sua strategia industriale "Made in 2025".
Circa
60 miliardi di dollari in sovvenzioni per i veicoli elettrici hanno contribuito
a creare un mercato e la relativa catena di fornitura di batterie.
Le
aziende produttrici di batterie hanno investito miliardi nelle fonti nazionali
di litio con modalità irrealizzabili in altre parti del mondo.
I
progetti nel settore al di fuori della Cina sono stati alla mercé dei mercati,
rallentando ed espandendosi a seconda del prezzo del litio.
Ma gli
investimenti interni sono stati quasi costanti.
Di
conseguenza, la Cina è l'unico paese in grado di produrre litio dalle materie
prime alle batterie finite senza dover ricorrere a prodotti chimici o
componenti importati.
Una
complessa co-dipendenza.
Ma la
Cina non produce abbastanza litio per soddisfare il suo appetito interno.
Inoltre,
solo il 10 per cento circa del materiale che entra in una batteria è
effettivamente litio.
Il paese si affida ancora alle importazioni di
cobalto, nichel, rame e grafite, che per ora garantiscono un certo grado di
cooperazione reciproca.
"È davvero un sistema intrecciato.
Il mondo occidentale e la Cina sono in un
certo senso co-dipendenti.
Se la Cina decide di non esportare batterie
per veicoli elettrici, i paesi occidentali potrebbero decidere di non esportare
il nichel in Cina.
La Cina non ha le raffinerie per produrre nichel di
massima purezza", spiega “Lukasz Bednarski”, analista di materiali per batterie e autore di Lithium: The Global Race for Battery
Dominance and the New Energy Revolution.
L'equilibrio
di potere potrebbe cambiare quando entrambe le parti investiranno nell'”indipendenza
energetica”.
Mentre
l'Occidente si affretta a costruire miniere e fabbriche, la Cina sta iniziando
a sfruttare fonti inesplorate di litio nello Xinjiang e nei laghi salati
dell'altopiano tibetano.
Non senza costi umani:
un reportage del New York Times ha trovato prove di lavoro forzato
nelle attività minerarie nello Xinjiang, un potenziale punto di rottura se
le sanzioni volte a proteggere la minoranza uigura del paese dovessero impedire
alle aziende occidentali di importare prodotti chimici estratti in quella
regione.
In
definitiva, la disponibilità di litio potrebbe non essere un problema.
Con
l'aumento dei prezzi, potrebbero diventare economicamente più vantaggiose nuove
tecnologie, come per esempio, un metodo per estrarre il litio dall'acqua di
mare.
Nel breve, tuttavia, le difficoltà di
approvvigionamento potrebbero ostacolare il passaggio ai veicoli elettrici:
"Potrebbero
verificarsi degli intoppi negli anni in cui il prezzo della materia prima sale
alle stelle e si verificano temporanee carenze sul mercato", sottolinea
Bednarski.
I
produttori di auto cinesi in tal caso avranno un enorme vantaggio.
Già
oggi, marchi cinesi come “Nio” e produttori europei di proprietà cinese come “Mg”
stanno lanciando in Occidente i veicoli elettrici più economici sul mercato.
"Le aziende occidentali di proprietà cinese avranno un enorme vantaggio
rispetto ai loro concorrenti europei o statunitensi", spiega Barron.
Una
volta operativo, “l'impianto di Kwinana” spedirà all'anno 24mila tonnellate di idrossido di
litio australiano.
Ma il
materiale, estratto in Australia per le batterie costruite in Corea del Sud e
Svezia e destinate ai veicoli elettrici venduti in Europa e negli Stati Uniti,
dipende dalla Cina in ogni fase del suo viaggio.
Lo scheletro della vecchia raffineria è ancora
in piedi, un monumento alla corsa secolare ai combustibili fossili che ha
rimodellato il mondo.
Oggi però
è iniziata una nuova corsa, e a sedere al posto di guida c'è saldamente la
Cina.
Globalizzazione,
bolle
e crack bancari.
Sbilanciamoci.info
- Alessandro Messina – (14 Marzo 2023) – ci dice:
Una
nuova gallina dalle uova d’oro è rimasta spennata. Si tratta della ormai
celeberrima Silicon Valley Bank, fallita pochi giorni fa per una maldestra
gestione finanziaria. Vediamo storia, modello di business, buone e cattive
notizie collegate a questa vicenda.
La
storia: nata
a fine anni ‘80, la SVB è una banca che ha registrato la sua crescita esplosiva
negli ultimi tre anni (a fine 2022 i depositi totali ammontavano a circa 200
miliardi, saliti del 233% dai circa 60 di fine 2020), e la cui parabola ha
affiancato quella delle start-up, dei fantomatici “unicorni” (società che dopo
pochi anni dall’avvio promettono rendimenti 10-20-30 volte il capitale
investito) e, per dirla tutta, del mito dei soldi facili che tanto piace a Wall
Street.
Il Ceo Greg Becker, in questa intervista di due anni
fa, la presentava come “l’unica banca globale dell’innovazione”, da cui il
richiamo – nel nome – all’area geografica che più l’immaginario di questo
ventennio associa alle start-up tecnologiche, appunto la Silicon Valley,
situata a sud di San Francisco.
Il
modello di business: la SVB aveva molte delle caratteristiche peggiori
dell’economia delle start-up che dichiarava di voler finanziare.
Viveva di marketing, di aspettative visionarie
generate nei clienti, ma poi usava fragili schemi finanziari alla Ponzi (o alla
Madoff, se preferite un caso più recente).
Raccoglieva
a vista o a breve termine soldi da clienti attratti dal mito delle start-up e
li investiva in titoli in grado di dare un rendimento adeguato a sé e per i
propri depositanti, perché a lungo termine.
Un gioco pericoloso per qualunque banca, basato sul
disallineamento tra durata media della raccolta e durata media degli
investimenti, e che ha potuto funzionare bene negli anni recenti, con i
rendimenti dei mercati che viaggiavano col segno più a due cifre, e con tanta
liquidità a costo zero o quasi sui conti correnti.
Ma
quando il mercato ha girato, nel 2022, causa inflazione, fine del quantitative
easing, guerra e connessi spettri di recessione, tutta la pericolosità del
gioco è emersa e la SVB ha cominciato a dover registrare perdite su quelle
parti di attivo collegate al prezzo dei titoli obbligazionari o governativi su
cui aveva investito gran parte del proprio portafoglio. Roba da manuale di
economia…
Le
buone notizie: il governo Usa è intervenuto prontamente a garanzia dei depositi, la
dimostrazione che la crisi Lehman del 2008 è servita a qualcosa (quindici anni
fa l’amministrazione Bush scelse la strada del fallimento della storica banca
dei fratelli Lehman, in crisi per lo scoppio della bolla dei subprime,
sottovalutando gravemente gli effetti sistemici che da lì si sarebbero
innescati). Inoltre, SVB è parecchio più piccola, con un attivo di circa 212
miliardi di dollari, meno del 25 per cento a valori correnti di quanto fosse
Lehman (l’attivo
di Lehman era 640 miliardi nel 2008, equivalenti a circa 864 miliardi odierni).
Va
anche sottolineato che la SVB è andata in crisi perché i propri depositi sono
più corporate – di imprese o intermediari che investono in imprese – che
retail, di persone.
Dunque
sono significativamente più grandi della media.
Una
maggiore frammentazione della raccolta avrebbe reso meno impattante la corsa
allo sportello che si è scatenata la scorsa settimana.
Questa
non è propriamente una buona notizia, ma rende meno minacciosa la possibilità
di estensione della crisi al sistema bancario più tipicamente rivolto alle
famiglie e alle piccole imprese.
Le
cattive notizie: non sono del tutto scongiurati i rischi di crisi sistemica, perché
sempre più fitte sono ormai le connessioni globali tra i mercati, e grande è la
bolla della finanza – soprattutto di fondi e operatori speculativi – che negli
ultimi anni ha alimentato le ipertrofiche valutazioni delle start-up.
Il
mondo di queste ultime già sta soffrendo:
è
stato calcolato, ad esempio, che il 34 per cento delle imprese tecnologiche
innovative nel Regno Unito, tra quelle investite da fondi di venture capital,
ha un deposito presso la SVB e oggi rischia un congelamento o comunque
difficoltà nell’accesso alle proprie risorse finanziarie.
Non è
tutto. In fondo a questo nuovo crack americano c’è una pessima notizia: il
dover constatare che a quindici anni dalla “Grande Crisi Finanziaria”, appunto
scatenatasi con il fallimento Lehman, tutto nella finanza mondiale è cambiato
perché nulla cambiasse.
Le
stesse illusioni ottiche del mercato e dei suoi opinion leader, la medesima
avidità e disonestà (almeno professionale) di alcuni manager, l’identica
scempiaggine del parco buoi di aspiranti “Gordon Gekko”, la sconcertante debolezza dei
sistemi di supervisione e vigilanza.
E ciò
si è ripresentato nonostante siano state nel frattempo scritte migliaia di
nuove pagine di regole, imposte decine di nuove funzioni organizzative,
affermate sofisticate modalità di automazione nei controlli dei dati e delle
procedure a tutte le banche nel mondo, o quasi.
Tra
pochi giorni uscirà, edito da” Altreconomia”, “Money for Nothing”, un volumetto curato insieme a “Dario
Carrera”, frutto dell’omonimo ciclo di incontri svoltisi nel corso del 2022.
Costruito
per evidenziare come la finanza, dopo tanto parlare, è tornata ad inseguire i
soldi per i soldi, senza preoccuparsi affatto di usarli al meglio per l’economia
reale, le persone e l’ambiente, è stato pensato soprattutto per alfabetizzare,
per spiegare ai non esperti perché occuparsi di finanza sia importante, e
motivare a farlo.
Ci è
capitato di pensare nelle settimane passate, rileggendo le bozze, che i toni
degli interventi siano marcati di un eccessivo pessimismo.
Che
non è vero che la finanza non ha fatto progressi.
I
fatti della SVB ci aprono (nuovamente) gli occhi. E fanno sospettare che il pubblico di
“Money for Nothing” non debba essere solo quello dei non addetti ai lavori.
Trump,
Biden e il “decoupling”.
Sbilanciamoci.info
- Vincenzo Comito – (6 Dicembre 2022) – ci dice:
Gli
Stati Uniti hanno scatenato una vera e propria guerra economica contro la Cina
sul fronte delle tecnologie.
In
particolare sui chip.
Biden
chiede agli alleati riluttanti di seguire la stessa linea.
Ma si
scopre che neanche gli Usa possono fare a meno della Cina, persino per mandare
avanti la sua industria bellica.
Gli
Stati Uniti hanno di recente scatenato, prima con Trump, ora ancora più
fortemente con Biden, una lotta su tutti i fronti per tentare di mantenere
l’egemonia mondiale nei confronti della Cina, che sta conquistando posizioni
sui fronti dell’economia, della tecnologia, degli armamenti.
Tale
lotta per l’egemonia è oggi il fatto più importante rilevabile sulla scena
geopolitica internazionale e lo dovrebbe presumibilmente rimanere ancora a
lungo.
Quindi sembra importante mantenere accesi i
riflettori sui vari aspetti della contesa.
In
questo quadro, vogliamo segnalare alcuni aspetti di un più o meno possibile “decoupling”
o dei tentativi al riguardo tra le due economie, riprendendo nella sostanza
alcune notizie apparse di recente sulla stampa internazionale.
Ricordiamo
che abbiamo già affrontato il tema in passato e più recentemente in un articolo
apparso su questo stesso sito il 14 novembre 2022 e relativo al caso tedesco,
scritto nel quale indichiamo come il paese teutonico e le sue grandi imprese si
mostrino piuttosto ostili al “decoupling” di Biden, anche se all’interno del
paese non manca certo un partito americano a livello politico ed economico.
Ma
l’ostilità tedesca non appare la sola questione che si oppone alla strategia
Usa.
Il
commercio Usa-Cina dopo Trump.
Negli
ultimi decenni il commercio internazionale ha mostrato una forte dinamica,
crescendo normalmente ogni anno all’incirca il doppio dell’aumento del Pil.
Più di
recente, tale crescita ha teso a rallentare e l’aumento del commercio si è
mosso più o meno in sintonia con quello del Pil, sia pure con oscillazioni
anche forti di anno in anno, a causa in particolare dell’effetto della pandemia da
Covid-19.
Il
rallentamento recente e di fondo degli scambi appare collegato, più in
generale, ad un insieme di fattori sui quali non insistiamo.
Va
sottolineato come la dinamica di crescita del commercio estero della Cina sia
sostanzialmente sempre stata maggiore o molto maggiore di quella mondiale e
quindi come la sua quota di mercato sul totale sia cresciuta costantemente sino
ad oggi, sino a farne il primo paese a livello mondiale in tale campo, prima
degli Stati Uniti e della Germania, che seguono subito dopo nella classifica
degli ultimi anni.
Così,
se guardiamo al comparto delle sole merci, la quota controllata del paese
asiatico si collocava ormai nel 2021 intorno al 15% del totale mondiale.
Ancora
nei primi nove mesi del 2022 l’insieme del commercio cinese con l’estero è
cresciuto dell’8,7%, anche se si notano ormai chiaramente i segni di un
rallentamento nella sua espansione.
Tale
rallentamento appare legato a molteplici fattori, quali l’influenza della
politica di stretto controllo del Covid nel paese, il rallentamento della
crescita del suo Pil – crescita che appare in genere avere un andamento simile
a quella del commercio – la progressiva internalizzazione delle catene di
fornitura relative alle produzioni da parte del paese asiatico, i tentativi di “decoupling”, infine,
da parte statunitense. A proposito di quest’ultimo tema può essere utile esaminare un
poco più da vicino i risultati degli sforzi compiuti da Trump e poi da Biden per frenare l’espansione commerciale
cinese.
Lo fa ad esempio The Economist in un articolo
recente (The
Economist, 2022, a).
La
rivista riporta i dati ufficiali statunitensi pubblicati nel novembre 2022 che
riferiscono come la quota cinese delle importazioni statunitensi sia scesa tra
il 2018 e il 2021 di quattro punti, dal 21% al 17%.
La
Cina rappresentava circa la metà delle esportazioni asiatiche nel paese, mentre
ora rappresenta soltanto poco più di circa un terzo.
Il
calo si è fatto sentire in particolare per le merci maggiormente colpite dalle
tariffe di Trump, mentre in quelle non toccate dai provvedimenti si registra ancora
una rilevante espansione.
Parallelamente, d’altro canto, la Cina importa
meno merci dagli Stati Uniti.
Lo
spazio perso dalla Cina non è stato coperto da produttori statunitensi, ma è
stato subito occupato da altri paesi asiatici, in particolare da Vietnam,
Bangladesh, Tailandia, India, Indonesia.
Si
potrebbe quindi concluderne che la strategia di Trump abbia pagato.
Ma in
realtà molte merci cinesi che prima arrivavano direttamente negli Stati Uniti
ora compiono un doppio viaggio, passando per altri paesi prima di sbarcare
nella loro destinazione finale e quindi queste non figurano come provenienti
dalla Cina.
Bisogna
sottolineare, come fa l’Economist, che molti dei componenti utilizzati in
Vietnam o in India e negli altri paesi asiatici per produrre dei beni poi
esportati negli Usa provengano sempre dalla Cina, compensando quindi quanto
ufficialmente perduto dal paese, anche se Pechino vede ridursi un poco il suo
valore aggiunto a favore dei paesi di transito (The Economist, 2022, a).
Biden
e i chip.
Con i
suoi Chip and Science Act e Inflation Reduction Act” gli Stati Uniti hanno scatenato una
vera e propria pesantissima guerra economica contro la Cina, in particolare sul
fronte delle tecnologie.
Nella
sostanza verrebbe proibita ogni collaborazione con il paese asiatico sul fronte
dei chip, delle vetture elettriche e delle relative batterie, nonché delle
energie rinnovabili, mentre si rinnovano le pressioni sugli alleati perché
seguano la linea di Washington.
Ma
appare diffuso un certo scetticismo sul successo di tali iniziative. Nel campo
delle vetture elettriche e delle batterie la Cina controlla il 60% del mercato
mondiale e su quello dei pannelli solari il 70%, per cui appare molto difficile
portare avanti i piani ambientali senza la Cina.
Un “decoupling
di successo” richiederebbe forse una decina di anni e grandi investimenti
(Escande, 2022).
Il
cuore della lotta riguarda i chip.
Un
biglietto di presentazione come risposta cinese al recente blocco Usa è stato
l’annuncio di qualche settimana fa da parte della cinese “YTMC “che un suo
nuovo chip di memoria sarebbe più avanzato di quelli della migliore concorrenza
coreana che domina ad oggi il settore.
Peraltro, bisogna immaginare che qualche
difficoltà le nuove disposizioni porranno al paese asiatico, anche se nel lungo
termine esse tenderanno a spronare le imprese e i politici del paese ad
accelerare gli sforzi in vista del raggiungimento di una rilevante autonomia
nel settore.
Biden
ha cercato il sostegno dei suoi alleati in questa guerra, ma essi, da Singapore
al Giappone, dalla Corea del Sud a Taiwan, sia pure con diverse sfumature, sono
piuttosto riluttanti a seguire.
In
diversi, pur essendo fedeli alleati degli Stati Uniti, non hanno alcun
desiderio, al contrario degli Usa, di una guerra manichea delle superpotenze;
per
altro verso, hanno dei legami economici profondi con la Cina che non avrebbero
nessuna intenzione di rompere (The Economist, 2022, b).
Così
ad esempio il 60% dei chip che Taiwan produce sono venduti alla Cina.
La
Olandese “ASML”, che controlla il mercato mondiale
delle macchine più sofisticate esistenti al mondo per la produzione dei chip,
non accetta la richiesta di Biden di bloccare la vendita di quelle meno
sofisticate alla Cina, sostenuta in questo dal suo governo;
un
atteggiamento per molti aspetti simile mantiene il governo giapponese,
appoggiando in questo l’orientamento dei suoi produttori di macchinario per
chip, che vendono un terzo dei loro prodotti in Cina, mentre quelli
statunitensi stanno individuando delle vie per in qualche modo circonvenire le
regole del governo e comunque stanno cercando di spingere il governo a
modificarle.
Si calcola in effetti che se le imprese
americane del settore smettessero del tutto di vendere i loro prodotti in Cina,
il loro fatturato si ridurrebbe del 37%.
Il
governo Usa ha dovuto concedere alle imprese coreane un anno di respiro sulle
restrizioni alla Cina;
e così i coreani hanno promesso di vendere ai
cinesi anche i chip più avanzati (Goldman, 2022).
L’atteggiamento
cinese appare, almeno ufficialmente, molto pragmatico.
Così
un dirigente di “Baidu”, mentre da una parte afferma che le misure Usa avranno
un impatto limitato sulle operazioni dell’azienda, dichiara che tali misure
offrono delle buone opportunità di crescita alle imprese cinesi del settore.
Il
manager di un’altra impresa cinese dichiara che le tecnologie per le
applicazioni avanzate tipiche della quarta rivoluzione industriale non hanno
bisogno dei chip più sofisticati (Goldman, 2022).
I
problemi del settore militare Usa.
Nella
caccia agli untori cinesi sembra che si pongano problemi di forniture
tecnologiche anche in ambito militare (Honrada, 2022).
Il Pentagono ha scoperto che nei suoi caccia
F-35 erano inseriti dei magneti prodotti nel paese asiatico;
ma non
si tratta del solo caso di infiltrazione nelle apparecchiature militari
statunitensi.
Sempre
di recente si è rilevato in effetti che la Cina produce l’80% del cobalto
mondiale, che viene utilizzato negli Stati Uniti nella tecnologia stealth,
nella guerra elettronica e in certe munizioni.
Un discorso analogo si può fare per un altro
materiale sensibile: il “samario”.
Persino
dei microchip cinesi si ritrovano in alcune applicazioni sensibili.
Per altro verso, appare praticamente
impossibile controllare tutti i componenti inseriti nelle miriadi di catene di
fornitura cui fa riferimento il sistema militare statunitense.
Si sta
ora cercando di correre ai ripari.
Conclusioni.
Il
tentativo Usa di bloccare a livello economico e politico l’ascesa della Cina,
in particolare sul fronte tecnologico, anche se registra qualche successo,
appare complessivamente pieno di difficoltà.
L’esito del conflitto appare per alcuni versi incerto,
ma pensiamo, e non siamo i soli, che mentre l’offensiva di Biden può creare
qualche difficoltà alla Cina nel breve termine, nel medio-lungo periodo il
paese è per molti aspetti in grado di sormontarle ed uscire rafforzato dal
conflitto.
Peraltro bisogna immaginare che tra qualche
tempo Biden cercherà di appesantire le misure esercitando maggiori pressioni
sui suoi alleati.
Intanto
si delinea un altro ed imprevisto tipo di “decoupling”: Biden, in particolare con il suo” Inflation
Reduction Act” che stanzia 738 miliardi di dollari per un vasto piano
economico, ripaga in maniera esemplare gli alleati europei del loro sostegno
alla politica statunitense sulla guerra in Ucraina.
In
effetti solo le auto elettriche e le relative batterie, come i prodotti per
l’energia eolica e solare e per il nucleare prodotte negli Usa hanno diritto ai
sussidi (Escande,
2022).
Gli
europei stanno protestando debolmente e al momento non riescono a mettersi
d’accordo per una risposta adeguata agli statunitensi.
Questo
sviluppo, unito al forte aumento dei prezzi dell’energia e alla difficoltà di
approvvigionamento nel nostro continente (tra l’altro Biden ci vende il gas Usa
ad un prezzo di quattro volte tanto quello prevalente negli Stati Uniti) sta spingendo i grandi gruppi
europei a delocalizzare i loro investimenti verso gli Stati Uniti, dove trovano
sussidi e bassi prezzi dell’energia e/o verso la Cina, dove è presente un
enorme mercato nella gran parte dei settori industriali e dove di nuovo sono
facilmente reperibili e a costi moderati tutti i tipi di energia.
Cronache
dal futuro. Shenzhen,
il modello cinese di città futura.
Key4biz.it - Carlo Raspollini – (19 Giugno
2022) – ci dice:
Siamo
nel giugno 2022 e l’umanità ha ripreso a camminare più veloce di prima. Verso
dove è un altro discorso.
Viaggio
del 15 giugno 2022.
In
questo viaggio ho abbandonato la verifica del post Covid-19, per cercare
elementi di futuro nel mondo.
Un
enorme obelisco di metallo grigio, con vetrate scure, alto poco meno di 600
metri mi sovrasta.
Lo
chiamano “Ping An Finance Center”.
È il
quarto grattacielo più alto al mondo, in questa folle e assurda corsa a chi osa
di più.
Lo hanno terminato nel 2017, per festeggiare i
40 anni di questa metropoli nata dal niente, per diventare la vetrina della
Cina tecnologica e moderna, secondo la geniale idea di Teng Xiaoping, il
presidente cinese morto nel 1997.
Dal
115° piano le case e le strade si vedono piccole, come dall’aereo su cui ho
volato per venire qui, a Shenzhen, nel Guandong, Cina meridionale.
Un
tempo villaggio di pescatori, è sorta come risposta a Hong Kong.
Shenzhen si trova di fronte all’ex colonia
britannica, con cui è collegata da un lunghissimo ponte e un treno super
veloce.
Oggi
ha 15 milioni di abitanti, uffici, laboratori, studi, la borsa, le università
scientifiche e tecnologiche, più di 100 parchi.
Spiagge, giardini, centri commerciali,
ristoranti alla moda, decine di grattacieli, case costosissime da 10mila euro
al mq.
È una città all’avanguardia, pulita,
silenziosa, con un sistema di trasporti da far invidia a Parigi e con una
flotta di auto, taxi, bus e motorini tutti elettrici.
Una
smart city orientata al business.
META
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L’idea
era che diventasse una espansione di Hong Kong.
Se le
rivolte e le proteste del 2020, dovessero tornare e impedire un futuro sereno
all’economia della città e della regione, ecco Shenzhen, la finestra principale
per l’ingresso del capitale straniero e la tecnologia in Cina, pronta a
rimpiazzarla.
Di fatto però è già così. Shenzhen supera ormai Hong Kong come
giro d’affari e popolazione.
L’area
metropolitana che ingloba le due città è diventata in poco tempo la più grande
del Paese, con Macao e la Baia di Guangdong arriva a 70 milioni di abitanti.
In
attesa che si completi la fusione al nord di Pechino con Tianjin e Hebei, per
una megalopoli industriale da 130 milioni di abitanti.
Una città che sarà grande come il Kansas o la
Bielorussia!
La
tecnologia si usa per il traffico la sicurezza e per ogni attività.
Tutti
sono attenti alle innovazioni tecnologiche e agli affari. A Shenzhen, nel 1990, è stato
inaugurato lo Stock Exchange, il mercato finanziario regolamentato, una borsa valori che
è diventata importante più di quella di Shanghai.
Il
quartier generale dell’azienda simbolo della “Cina attuale, la potente Huawei”,
si trova in un mega campus per la ricerca vicino a Dongguan. Huawei e Shenzhen sono l’una per
l’altra, un corpo unico.
Questa è la capitale delle telecamere di sorveglianza:
ce ne sono 5-6 per ogni palo della luce, anche sulla spiaggia, 400 milioni di
occhi in tutta la città. Servono per monitorare il traffico ma soprattutto per
la sicurezza.
I pali
invece per porvi apparecchi che misurano la qualità dell’aria e antenne per
diffondere il segnale 5G.
Le
telecamere sono in grado di distinguere ogni individuo dal riconoscimento
facciale, determinarne in pochi attimi altezza, colore degli occhi, vestiti,
per arrivare in seguito facilmente all’identità anagrafica e all’indirizzo.
Sarà dura commettere un reato e farla franca.
Sarà
dura anche solo nascondere all’autorità chi si frequenta e per quante volte,
quali sono le proprie abitudini, preferenze, hobbies fuori dall’occupazione
prevalente.
I
cittadini non si sentono infastiditi da un controllo così capillare: anzi sono
contenti di poter uscire la sera senza rischi per la propria sicurezza.
Siamo
molto diversi
. La
tecnologia viene utilizzata anche per il controllo degli accessi in palazzi,
uffici, ascensori, con riconoscimento di impronte o riconoscimento facciale che
ormai hanno soppiantato i badge.
Da tre
anni ci sono le prime auto a guida autonoma, come un camioncino che funge da
distributore automatico di bevande.
Gira
per le strade e si ferma non appena con il cellulare inquadriamo il codice QR
stampato sulla carrozzeria.
È la città del 5G, tutto è interconnesso, le
cose lo sono, non solo le persone.
Tutto viaggia 10 volte più veloce che altrove.
La
connettività accelera la burocrazia e migliora l’efficienza ma lo fa anche nel
senso della repressione.
La
città ha così un cervello tecno che “aiuta” l’amministrazione locale a prendere
decisioni, promuove l’e-government per consentire al sistema dei trasporti e
della polizia di passare sulle piattaforme digitali.
Chi fornisce alla città gli strumenti e
l’assistenza è Huawei.
Questo
è il suo laboratorio.
Da qui
si vuole conquistare il mondo, non con le armi, ma con gli affari e gli affari
passano per le tecnologie smart.
Ecco
il quartier generale di Huawei a Shenzhen .
Come
tutte le città cresciute troppo in fretta e senza una storia culturale alle
spalle, questa è una città che non ha molte attrattive per un turista.
Ovviamente ha buoni alberghi e, rispetto a
Hong Kong, il visitatore ha la possibilità di gustare specialità gastronomiche
cantonesi e prostituzione a buon mercato.
Le
visite quindi sono di breve durata.
Chi,
venendo da Hong Kong, credeva di trovare la vecchia Cina resta deluso.
Siamo
finiti in una vetrina di gadget del XXI secolo. Nel chilometro più tecnologico
del mondo: la
Huaquiangbei, i negozi più o meno ufficiali e tanti mercatini.
Suq del nostro ventennio. Vendono cellulari di
tutti i tipi e gli addetti dietro ai banconi riescono a farsi capire a gesti o
con i traduttori automatici.
Trovi
tutto a un costo inferiore, perché sono le stesse fabbriche che vendono tramite
i negozi.
I
computer sono sia assemblati ma anche da montare, con i vari componenti come
cavi, cuffie, tastiere, memorie, chip, transistor, venduti separatamente. Nuovi
e usati.
Li puoi comprare nelle quantità che vuoi, con
sconti del 50-70% e ricostruire il prodotto a casa tua per rivenderlo.
Porta Portese e Portobello sono un lontano
romantico ricordo.
Il 60% di tutto quello che si produce in elettronica
si fabbrica qui.
Molte
cose in vendita sono dei falsi. Ovvero hanno un marchio famoso ma sono prodotti a buon
mercato. Orologi, televisori, telefoni, droni, giocattoli, software, tutto a
prezzi più bassi.
Ci sono fabbriche di componenti che lavorano per Apple
e Samsung e altri brand allo stesso tempo, in base alle commesse che ricevono.
Trovi
gli schermi tv di qualsiasi dimensione e costo, puoi pagare anche 300.000
dollari uno schermo gigante grande come una parete intera.
Sono
quelli che poi vedi a Times Square o a Picadilly Circus. Questo è il mondo del falso e del
vero.
Puoi trovare imitazioni dipinte a mano delle
più famose opere d’arte da Van Gogh a Picasso a Morandi per 120 dollari.
Rolex
e Patek Philippe per 50 dollari.
Al
Parco La Porta del Mondo vedrai fino a 130 riproduzioni dei più famosi
monumenti internazionali, ricostruiti, spesso nella stessa scala o quasi, come la Tour
Eiffel (alta 108 metri), l’Arco di Trionfo, Piazza dei Miracoli, San Marco, la
piana di Giza al Cairo, il Palazzo di Backingham e il Ponte di Londra, il
Colosseo, l’Acropolis, la Cattedrale di Colonia, la Statua della Libertà, il
Gran Canion, il Taj Mahal, l’Opera di Sidney, le Linee di Nazca in Perù e altro
ancora.
Sono
tutti occupati a lavorare e non hanno tempo per l’amore.
In
molti giardini c’è l’opportunità di esercitare il Tai Chi.
Lo
fanno soprattutto gli anziani.
Con
movimenti simili a una danza, molto affascinanti.
In un
lato di uno di questi parchi una rete metallica ospita i messaggi di persone
single, che cercano un partner.
Per lo
più sono donne alla soglia dei trenta o quaranta anni e hanno paura di restare
sole.
Essere
“zitelle” è una cosa ancora disdicevole in Cina.
Il
tasso di disoccupazione è molto basso, il 2%, mentre nel resto del paese è del
2,9%.
Per questo
molte donne sono indipendenti, studiano, lavorano e non hanno avuto tempo per
dedicarsi alla ricerca di un partner da sposare.
Così lo fanno tramite fogli appuntati su una
rete, con tanto di descrizione della persona, talvolta una foto e un telefono.
Nell’era
delle “app” per incontri riservati fa pensare che si ricorra a dei “pizzini”
per trovare il marito o la moglie.
Come
si vede non tutto è affidabile ai chip.
Nei
parchi ci sono i chioschi ambulanti per vendere bibite, beh anche loro hanno il
sistema di pagamento via telefono.
Pur se devi pagare meno di un dollaro, non c’è
bisogno di tirare fuori nessuna moneta.
Scannerizzando
il codice QR, entri in contatto con il c/c del venditore e gli versi il dollaro
della bibita e così fai per qualsiasi acquisto, dal taxi alla spesa, dalla
lavanderia al tram.
Di contanti se ne vedono sempre meno e molti
si servono anche di WeChat, un’applicazione del tutto simile al nostro
Whatsapp, che integra un sistema di pagamento comodo e immediato, purtroppo
ancora non accessibile a stranieri e turisti.
Gironzolando
per i mercati puoi passare dalle scintillanti vetrine di prima ai quartieri
poveri.
Strade strette, case mal costruite, cortili
sudici, immondizia abbandonata, inferriate ai balconi.
Cammini
guardandoti le spalle.
Per strada compri lo street food che in Cina
significa fritto, tutto si frigge, dai polli al gelato, dalle cavallette agli
spring rolls.
Il
problema è in che olio si frigge.
Un
bidone di 5 litri di olio di semi lo paghi 15 dollari.
Immaginati
che cosa può essere.
Tanto
avanti sono nel copiare le tecnologie e proporre un ambiente interconnesso,
tanto indietro nella gastronomia di strada.
La
cucina cantonese ha 5.000 anni di storia intendiamoci. Quella che sto criticando non è la
cultura ma lo smercio di prodotti infimi a basso prezzo e cucinati male, a
tirar via, per mantenere bassi i prezzi. Non c’è nella popolazione delle
periferie la cultura del mangiare sano.
A
nessuno importa della salute ma di come arrivare a sera con la pancia piena.
Poi
c’è il fatto dei cani. È vero.
Il 20
% dei cani in Cina vanno a finire nelle ricette.
Mi dispiace ma ogni paese ha le sue colpe. Noi mangiamo i maialini, gli agnelli,
altri mangiano i delfini o comprano il corno di rinoceronte.
Loro
mangiano i cani e anche le larve, le cavallette e gli scorpioni.
Il cibo del futuro, pare. Io non mi ci abituo.
Forse se li trasformano in polvere e poi in
panetti di cibo irriconoscibili.
Però
qualcosa si dovrà fare per ridurre l’inquinamento degli allevamenti intensivi
di manzi, conigli, maiali e polli.
La soluzione non sono gli allevamenti di qualità,
anche se vanno difesi, perché assicurano alimenti per una minoranza esigua.
Il
futuro per i cinesi non va sempre d’accordo con la difesa dell’ambiente.
L’inquinamento
cresce al pari della popolazione.
In
Cina “futuro” non sempre va a braccetto con la qualità della vita.
Il clima della regione è monsonico sub
tropicale, con una media di 22,5° C e con estati umide e calde.
Shenzhen ha una spiaggia ma non è molto
frequentata.
In
mare una rete limita lo spazio per nuotare, il pericolo è che i pescecani
possano ferire i bagnanti.
Ragazze vestite si fanno le foto, un signore
guarda l’orizzonte sotto un ombrello da pioggia.
Si
ripara dal sole che ai cinesi non è gradito.
Un
palo al centro della spiaggia supporta una ventina di telecamere.
Comunque
il cielo è grigio e il mare non invita a una vacanza.
Per
molti mesi all’anno l’aria inquinata ristagna come oggi sopra la città e i suoi
giardini.
Trovandosi
così a ridosso di Hong Kong, che gode di un’amministrazione più liberale, per
Shenzhen è stata creata la Zona Economica Speciale, con meno restrizioni che
nel resto del Paese.
Ciò
non toglie che gli abitanti delle due città cerchino di passare (o meglio
passavano) il confine con l’altra, per motivi opposti d’interesse.
I
cinesi del Guangdong per lavorare, mentre quelli di Hong Kong per risparmiare,
un po’ come tra Como e Lugano.
Da qualche anno la realtà si è invertita.
C’è più lavoro in Cina che a Hong Kong.
Ora
un’altra migrazione preoccupa il Governo cinese, quella dei contadini poveri
che lasciano le campagne per cercare fortuna in città.
Non per
tutti è facile trovare occupazione, se non hai le preparazioni adeguate. Così
questa massa di migranti si ferma attorno al perimetro dell’area urbana,
costituendo un agglomerato di baraccopoli, case, palazzoni e centri abitati
marginali.
Sono
manodopera a basso costo ma anche ricettacolo di delinquenza e micro
criminalità.
L’aeroporto
Shenzhen Bao’an.
L’aeroporto
di Shenzhen-Bao’an (SZX per lo IATA) si trova a 32 km dalla città. È uno dei
tre hub più grandi della Cina meridionale.
Il
Terminal 3 è stato realizzato su progetto dello Studio Fuksas, un architetto
romano.
Copre 500.000 metri quadrati e contiene 63
gate, per un km di lunghezza e 80 metri di larghezza.
È un aeroporto che cresce con la città, lo
stesso Studio Fuksas è stato incaricato di altre progettazioni che saranno
completate nel 2025 e nel 2035.
La Cina corre anche se non è tutto oro quel
che brilla.
Per
fare alla svelta può accadere che le costruzioni non siano perfette e che
infiltrazioni d’acqua, materiali scadenti, lavori non fatti a regola d’arte,
possano rallentare la corsa del gigante asiatico ma nessuno si può fermare.
È come
un treno ad altissima velocità lanciato verso l’ignoto.
I
fautori di questo tipo di città le vedono come un paradiso in terra, una
Disneyland dell’elettronica.
Grazie
alla tecnologia si pensa di poter aiutare i governi e le imprese a superare i
problemi e le sfide del futuro.
In
effetti la velocità e la interconnessione aiuta chi viene risucchiato in questo
frullatore senza sosta che è la vita in una metropoli dove si lavora, si
lanciano prodotti, si conquistano mercati e poi si torna a casa soli, o con un
gatto o un peluche per compagnia.
Allora
c’è la palestra, la danza, lo sballo per riempire i vuoti lasciati dalla
tecnologia.
Tuttavia
queste città oggi consumano i 2/3 dell’energia mondiale, emettono il 70% di
anidride carbonica e producono 6,3 miliardi di rifiuti in plastica.
Se
ripenso a tutti gli imballaggi di cellulari, televisori e computer e anche
lavastoviglie, frigoriferi e playstation inorridisco a cosa arriverà oggi nelle
discariche cinesi.
Mentre sono perso in queste terribili
immagini, le scintillanti vie del centro scorrono sul mio finestrino oscurato.
Uno
dei taxi rossi, quelli che possono andare dappertutto, mi porta all’entrata
dell’hotel in meno di 25’.
Inutile dire che era un’auto ibrida, a benzina
ed elettrica.
Ming
Hua Hotel.
Avevo
pensato di prenotare una stanza nel Ming Hua Hotel, che significa “Spirito
della Cina”.
Si
tratta di una nave da crociera francese ora riadattata ad hotel, bloccata in un
laghetto senza sbocchi al mare, al Sea World di Shekou.
Un tempo portava croceristi da Marsiglia a
Dakar via Casablanca e Canarie. Adesso è un 4 stelle, con ristorante brasiliano
e altri occidentali, un “wine ba”r, una casa di sigari, una caffetteria, una
boutique e un teatro.
L’idea
di trovarmi in un baraccone da fiera con i cinesi che si fanno selfie tutto
intorno mi ha fatto subito cambiare idea.
Ho prenotato uno dei migliori alberghi, il Kapok Shenzhen Bay.
È nella parte ovest dello Spring Cocoon, il
centro sportivo.
Il
Mangal Costal Park e le strutture ricreative si raggiungono a piedi, volendo.
La
stanza costa solo 120 dollari, ha una valutazione che sfiora i 9 punti! Dall’esterno sembra uno zippo enorme,
l’accendino che andava di moda molti anni fa. Speriamo che non si accenda mai.
L’Hotel è un anonimo super accessoriato 5 stelle.
Poteva
essere uno qualsiasi. Questo ha un ottimo servizio e pulizia. I cinesi sono
fissati per la pulizia, nelle classi agiate.
Se ne
fottono nelle classi povere.
Il
Cloud Citizen
Credevate
di aver visto tutto o che vi potessi parlare delle discoteche e dei bar dove ci
si incontra per un aperitivo?
No, il
bello deve ancora venire.
La
città dei 350 grattacieli non ha ancora terminato di stupire o di terrorizzare. Lo “Shenzhen Bay Super City
Masterplan Competition” ha visto concorrere molte società cinesi e straniere
per realizzare insieme il “Cloud Citizen”, un distretto finanziario di 170
ettari nella baia.
Ben 30
studi sono intervenuti, dagli Stati Uniti, Germania, Corea del Sud, Norvegia,
Italia (Claudio Lucchesi), Emirati Arabi, Australia.
Lo studio internazionale Urban Future
Organization ha vinto assieme alla cinese Cr-Design e un team della svedese
Chalmer Technical University di Gothenburg e il progetto sarà presto una realtà.
Un
colosso di grattacieli di 680, 580 e 480m, per una larghezza di 580 m,
intersecantesi in una struttura gigantesca, con ponti inclinati, spazi
pubblici, giardini, centri commerciali, appartamenti, uffici, moduli ricreativi
e culturali, che fluttua nell’aria come una nuvola, in un continuum con le aree
celesti e verdi circostanti.
Cloud Citizen è la scommessa green più
incredibile di questa città.
In
pratica sono tre grattacieli connessi con strutture sospese, aree di mobilità
interna.
Una città
super-connessa, dove ogni edificio mantiene al contempo la sua individualità.
Sarà
costruito in maniera tale che le attività finanziarie non vadano più
delocalizzate in vari quartieri della città ma possano ritrovarsi lungo
corridoi orizzontali.
Grandi
brand si ritrovano così accanto alle piccole imprese che operano nello stesso
ambito.
Tutto concorre a creare networks ininterrotti
di relazioni, che aumentano i reciproci vantaggi. A guardarlo, il colosso, sembra lo scherzo di
un progettista matto.
Si erge in stratificazioni rocciose come
frutto del caso, sbucato fuori da una fantasia di “Hieronymus Bosch”.
Una
serie di nuvole di cemento, che hanno per sfondo il cielo.
Le
soluzioni green non mancano.
Come il sistema di raccolta delle acque
piovane, impianti a energia solare, eolica e delle alghe, filtraggio
dell’inquinamento atmosferico, sequestro della CO2, che il materiale di
rivestimento è in grado di riconvertire in ossigeno e infine un centro sotterraneo per il
riciclaggio differenziato dei rifiuti.
Tutto questo ci lascia con la bocca spalancata
e pieni di ammirazione per tanta capacità imprenditoriale e di progettazione.
Hanno
anche pensato a rendere più vivibile la struttura con vie di transito che
portino, da diverse quote, alle aree verdi pubbliche, come se bastasse uscire
dal tritatutto e immergersi nel giardino con le panchine per recuperare lo
stress.
Se
questa “città nella città” sia la soluzione della vita e del lavoro di domani
non lo sappiamo.
Di
certo non posso pensare che per produrre bitcoin e cellulari con cui vedere
ogni tanto, a distanza, figli e genitori, sia da considerare un progresso.
Per
altro da pagare con una vita immersa nel business e con il recupero dell’acqua
piovana e i giardinetti a portata di gamba, appena fuori un massiccio come il
Cloud Citizen.
Continuo
a pensare che chi vive in un casale in Val d’Orcia, accanto a una bella vigna
di Brunello, sia ancora più fortunato.
E non c’era bisogno di fare tanta strada e di
scomodare tanta tecnologia, per poi perdere quei ritmi, i panorami, la quiete e
quei silenzi, che solo la campagna senese, o salentina, o siciliana, o
marchigiana ti sanno dare.
Io
continuo a pensare che il futuro dovrebbe essere pensato per stare meglio e in
salute, cercando di salvaguardare l’ambiente.
(I dati, i personaggi e le
informazioni che trovate in questo articolo sono in gran parte veri e solo in
piccola parte un’opera di fantasia. Le vicende di viaggio sono ambientate in un
futuro ipotetico, anche se abbastanza possibile.)
La
Cina dominerà anche l’eolico
(e la
colpa è dell’Occidente):
ecco
perché.
Corriere.it - Federico Rampini – (23 novembre 2022) –
ci dice:
Perché
l’industria occidentale di pale e turbine eoliche è in perdita, e costretta a
licenziare, nonostante il bisogno di energie rinnovabili sia in crescita?
La risposta è legata alla burocrazia
occidentale - e alla capacità della Cina di correre anche in questo settore.
Con il
bisogno enorme che abbiamo di energie rinnovabili, com’è possibile che
l’industria occidentale delle pale e turbine eoliche sia in profonda perdita, e
costretta a licenziare?
La
spiegazione è terribilmente familiare: mentre la nostra burocrazia blocca
tutto ciò che si muove, la Cina sta cominciando a divorare anche questo settore.
Assistiamo
al remake di un film già visto con i pannelli fotovoltaici e le batterie per
auto elettriche.
L’Europa
scivola velocemente dalla dipendenza verso la Russia per le energie fossili,
alla dipendenza verso la Cina per quelle rinnovabili.
Non lo
dico io, l’allarme sta scritto in un rapporto del gruppo tedesco “Siemens
Energy”, che soprattutto attraverso la filiale spagnola “Gamesa” è uno dei più
grandi produttori del ramo.
«Esiste la concreta possibilità – si legge in
quel rapporto – che la transizione energetica dell’Unione europea venga gestita
in Cina».
(Con le bustarelle arraffate dai governanti
della Ue! N.d.R.)
Che
cosa aspettano Bruxelles e le capitali nazionali a reagire per salvare il
prodotto nazionale prima che sia troppo tardi, come invece sta facendo
l’Amministrazione Biden negli Stati Uniti?
Lo
stato di salute delle aziende che fabbricano pale e turbine eoliche è davvero
pessimo.
La “Siemens Gamesa Renewable Energy”, con sede
a Madrid, è uno dei leader europei per l’”eolico offshore”, turbine e pale
installate in mare.
Ha
appena reso noto il suo ultimo bilancio annuo: 940 milioni di euro di perdite.
In
queste condizioni l’azienda ha annunciato che sarà costretta a licenziare 2.900
dipendenti, cioè oltre un decimo della propria manodopera.
Va
perfino più in rosso il gigante americano del settore pale e turbine eoliche, “la General Electric”: due miliardi di dollari di perdite
annue per la sua filiale specializzata.
Se la
cava solo un po’ meno peggio il leader mondiale delle turbine eoliche,” Vestas
Wind System”, con 147 milioni di euro di perdite in un trimestre.
“Stanley
Reed” del “New York Times” ha intervistato due “chief executive” delle aziende
in questione, e il loro lamento è corale.
«Ogni
volta che vendiamo una turbina eolica perdiamo l’8% sul costo di produzione», gli
ha detto il numero uno di “Vestas”, Henrik Andersen.
Il
chief executive di “Siemens Gamesa”, Jochen Eickholt, ha dichiarato al
quotidiano americano che le aziende hanno bisogno di fare profitti per
finanziare gli investimenti, diventare capaci di produrre centrali eoliche più grandi e
più potenti, «ma in questo periodo stiamo lavorando in perdita».
Le
spiegazioni degli industriali toccano tasti familiari.
In
Europa, così come negli Stati Uniti, si parla di lotta al cambiamento
climatico, ma
tanti progetti di nuove centrali eoliche sono ritardati da una miriade di
pastoie burocratiche, veti amministrativi, resistenze localistiche e tutele
paesaggistiche.
Un
altro handicap è dato dalle nuove sovrattasse sugli extra-profitti, che
colpiscono anche chi genera elettricità dalle rinnovabili.
Quelle
tasse vanno a mangiare i profitti – se ci sono – che le aziende dovrebbero usare per
finanziare nuovi investimenti.
E poi
c’è la Cina.
Seguendo
un copione già noto per il solare e l’auto elettrica, la Cina ha cominciato con
la conquista di un ruolo dominante nei componenti necessari per fabbricare pale
e turbine eoliche:
già
oggi il 70% dei pezzi assemblati da un produttore europeo di turbine sono «made
in China».
La
tappa successiva vede i giganti cinesi della fabbricazione di intere pale e
turbine eoliche, affacciarsi sui mercati europei offrendo forniture a prezzi
ultra-competitivi.
Spesso
c’è dietro una concorrenza sleale, perché gli aiuti di Stato offerti da Pechino
ai suoi campioni nazionali permettono di esportare sottocosto.
Se il
copione seguirà ciò che è già accaduto per l’energia solare, vedremo fallire
alcuni big europei e la resa alla Cina sarà totale.
Il che significherebbe perdere il controllo
sul nostro futuro energetico, un’altra volta.
L’Unione
europea come reagisce a questo pericolo?
Per il
momento polemizzando … con gli Stati Uniti.
La Commissione di Bruxelles ha preso di mira l”’Inflation
Reduction Act”, nuova legge voluta da Joe Biden e approvata dal Congresso.
A
dispetto del titolo, più che a combattere l’inflazione quella legge serve a finanziare la
transizione «green».
Con 370 miliardi di dollari di fondi, è generosa di
aiuti per le energie rinnovabili.
A una
condizione: che i produttori siano americani o situati negli Usa con le loro
fabbriche.
Insomma Biden usa contro la Cina dei metodi cinesi, a
base di sussidi e protezionismo.
(Tutti
i miliardari cinesi titolari delle fabbriche sono finanziati e posti sotto
stretto controllo dei Capi del Partito Comunista Cinese! N.d.R.)
Bruxelles
per il momento sembra soprattutto indignata perché gli incentivi americani
rischiano di attirare le aziende europee sul suolo Usa, a produrre sotto quella
pioggia di denaro pubblico.
Forse
sarebbe più urgente occuparsi dell’avanzata cinese e reagire a quella, prima
che sia troppo tardi.
Se il
prodotto cinese costa meno perché viene venduto in dumping (sottocosto) grazie
agli aiuti di Stato, allora un dazio compensativo prelevato dall’Europa è una
contromisura perfettamente legale.
Certo,
bisogna assicurarsi che dei produttori locali siano in grado di sostituirsi ai
cinesi anche nella componentistica, e il più presto possibile.
Altrimenti, in assenza di validi surrogati
europei,
le barriere contro i cinesi farebbero solo rincarare e rallentare la produzione
delle pale e turbine eoliche.
Ma
questa è proprio la lezione dei dragoni asiatici che avremmo dovuto studiare da
decenni:
come
si allevano e si irrobustiscono i campioni nazionali dell’industria per farne
dei campioni mondiali.
Ci
sono delle obiezioni a questa riscoperta della politica industriale: i politici
e i burocrati non sono di solito i più adatti a selezionare le aziende giuste,
quelle che saranno efficienti e competitive.
Anche
l’America ha avuto i suoi scandali di politica industriale, come l’azienda
solare “Solyndra” finita in bancarotta nel 2011 dopo aver divorato dai
contribuenti 535 milioni di finanziamenti (l’Amministrazione Obama dovette
riconoscere gravi errori nella gestione di quegli aiuti).
La
contro argomentazione è che tutti i miracoli economici dell’Estremo Oriente
hanno avuto tra i loro ingredienti delle politiche industriali efficaci, che
dovremmo studiare.
D’altronde
se l’alternativa è spendere in assistenza, cioè distribuire alla popolazione
una ricchezza fragile e precaria, allora è meglio usare risorse pubbliche per sostenere
chi la ricchezza può generarla, cioè le imprese.
Cina, l'agricoltura
corre
veloce.
Agronotizie.imagelinenetwork.com
- Matteo Bernardelli – (8 NOVEMBRE 2022) - ci dice:
Tra
sicurezza alimentare, mercati e tecnologie non si può ragionare su uno scenario
globale senza tenere presente il ruolo dell'ex Celeste Impero.
Come
si comporterà in futuro determinerà indubbiamente conseguenze su scala mondiale.
La
corsa al podio dell'economia si costruisce partendo dal settore primario.
Mentre
l'Unione Europea contesta la transizione ecologica, giudicandola come troppo
sbilanciata e potenzialmente rischiosa per un calo delle produzioni, la Cina ha
spostato l'asse delle proprie politiche alimentari verso un nuovo equilibrio in
cui le tecnologie - in grado di incrementare la produzione, migliorare la qualità,
conquistare nuovi spazi utili alla coltivazione (si veda il riso che può essere
coltivato in acqua salata), monitorare i terreni, ma anche ridurre l'uso di
fertilizzanti e mezzi tecnici - giocheranno un ruolo importante nel migliorare il ruolo globale
della Cina in potenza agricola.
Nel
recente Congresso del Partito Comunista Cinese, che ha visto la rielezione di Xi
Jinping per i prossimi cinque anni, circondato da fedelissimi alla linea di
Governo e con qualsiasi ombra di pensiero differente allontanata, è stato lo stesso presidente Xi
Jinping a comunicare una linea senza indugi verso il consolidamento delle
"basi della sicurezza alimentare a tutti gli effetti (…) in modo che la Cina possa fornire al
popolo la sua ciotola di riso quotidiana".
Uno
dei passaggi più applauditi, secondo quanto ha riportato il cronista di” Le
Monde”, di tutto il XX Congresso nella Città Proibita.
A conferma di quanto il fattore cibo pesi
nelle strategie politiche del Dragone.
Cina,
obiettivo: rafforzare il settore agricolo.
L'obiettivo
di coniugare la crescita agricola e la riduzione della povertà - che il professore olandese “Jan Douwe van der Ploeg” già aveva rilevato nel suo libro
interessantissimo "Agricoltura e contadini nella Cina d'oggi" - con un processo di crescita
allargata, in grado di coinvolgere l'intera popolazione rurale in processi di
transizione "tali da ottenere aumenti della produzione, redditi più
elevati e campagne più vivibili", resta fra i primi obiettivi della
Cina proiettata ad essere sempre di più uno dei baricentri dell'economia
mondiale, anche in una futura era di "globalizzazione post globale".
Il
mercato interno e quello estero si raccordano a vicenda, anche se quello
interno resta il pilastro, come ha riportato recentemente anche “Xinhua”,
l'Agenzia di stampa ufficiale che opera sotto il controllo del Governo cinese.
In un
contesto ormai fortemente connesso e con uno scenario internazionale fortemente
scosso dalle conseguenze della guerra in Ucraina, che coinvolge due dei più
rilevanti Paesi esportatori di cereali su scala mondiale, è bene tenere in
considerazione il ruolo della Cina in agricoltura.
La
Cina alla fine di questo anno solare, secondo le previsioni del Dipartimento di
Agricoltura degli Stati Uniti (Usda), andrà a detenere il 68,5% delle scorte
mondiali di mais, il 30,3% di quelle di soia, il 54% di quelle di grano, il
20,9% degli stock mondiali di colza e il 63% dei magazzini di riso.
Xi
Jinping, profondo conoscitore della storia cinese, sa bene che le rivoluzioni e
i governi stanno in piedi finché la tavola è imbandita.
Le rivolte della “Primavera Araba” sono uno dei tanti
esempi che il leader cinese ha sotto gli occhi.
La
questione della sicurezza alimentare, come detto, è il primo aspetto che
preoccupa Pechino ed è anche in questa ottica che l'ex Celeste Impero ha
portato avanti una politica aggressiva di acquisto delle materie prime agricole.
Certo, connesso c'è il tema della
ristrutturazione e del rafforzamento degli allevamenti per garantire proteine
nobili, e gli animali nelle stalle devono mangiare.
Ma si torna sempre al nodo dell'alimentazione umana e
della disponibilità di cibo, soprattutto in questa fase in cui l'economia
cinese non brilla più come in passato e ha ritmi di crescita più lenti e la
politica della tolleranza zero verso il covid-19 (una scelta legata sia a questioni
ideologiche che a una sanità ancora perfettibile) deve consentire in queste fasi i
corretti approvvigionamenti alimentari.
Cina, l'obiettivo è l'autosufficienza.
Come
si comporterà in futuro determinerà indubbiamente conseguenze su scala
mondiale.
Si è visto molto chiaramente sia quando la Cina
ha accelerato con le importazioni e gli acquisti di materie prime (o di suini,
quando la peste suina aveva costretto a eliminare oltre 200 milioni di capi)
sia quando ha rallentato, con effetti depressivi sui prezzi.
Oggi
la Cina sembra aver decelerato sugli acquisti.
Fra
gennaio e settembre di quest'anno le importazioni di cereali sono diminuite in
quantità del 15,7% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, informa “Teseo.Clal.it”,
ma non dobbiamo forse lasciarci ingannare.
Con quasi 45 milioni di tonnellate ritirate nei primi
nove mesi del 2022, siamo comunque su livelli ben più elevati rispetto al 2020,
al 2019 e agli anni precedenti.
L'anomalìa,
semmai, è stata rappresentata dai grandi volumi acquistati nel 2021. Xi Jinping sapeva in anticipo delle
intenzioni di Vladimir Putin in merito alla "operazione militare
speciale" e voleva cautelarsi con maggiori scorte?
Oppure
si è trattato di una volontà di rafforzarsi come garanzia rispetto alle
incognite del covid-19?
Sono
solo ipotesi.
Cina: import
cereali.
Se
guardiamo, ad esempio, l'import di semi oleosi, lo scenario appare ancora
diverso.
Nei
primi nove mesi del 2022 gli acquisti di Pechino sono calati del 7,7% su base
tendenziale, è vero, ma le quantità sono ancora molto elevate, superiori ad
esempio rispetto ai volumi di gennaio-settembre 2019, prima cioè della
pandemia.
Questo
significa che la Cina sta intensificando la propria politica zootecnica? È possibile.
D'altronde,
è innegabile che a fronte di un allargamento delle condizioni medie di
benessere, si cerca di migliorare la propria alimentazione.
E in
questa logica, unitamente a quella più squisitamente politica di alleanze
mondiali, si devono leggere gli accordi di scambio e i ritiri di materie prime
cosiddette coloniali che la Cina ha sottoscritto con molti Paesi dell'Africa.
Cina:
import semi oleosi e farine proteiche.
Altro
punto.
La Cina sa bene che la questione “climatico
ambientale” riguarda tutto il Pianeta.
Ed è
anche per questo che sostiene ricerca e innovazione.
È
necessario contrastare le incognite derivanti dal clima, il più possibile e nei
limiti dell'alea.
Ma è
per questo che sta rafforzando “bacini irrigui e tecnologie” per il corretto
utilizzo delle acque.
In
prima fila, a tirare le file, c'è la” Chinese Academy of Agricultural Sciences”,
naturalmente sotto il monitoraggio della Repubblica Popolare, tramite il P.C.C.
I
risultati ottenuti negli ultimi dieci anni in tema di sostenibilità non sono da
sottovalutare:
l'Accademia Cinese di Scienze Agrarie ha infatti
sviluppato una serie di prodotti e tecnologie agricole verdi, riducendo
l'utilizzo di agrofarmaci di oltre il 20% e di fertilizzanti chimici di oltre
il 10%, e ottenendo un aumento medio di 5 punti percentuali del tasso di
utilizzo dell'acqua piovana del Paese.
Allo
stesso tempo, si stanno sviluppando soluzioni per rilevare gli inquinanti e
intervenire per un'agricoltura più verde
(benché
la Cina, insieme a Russia e India, si sia sfilata dal palcoscenico internazionale della
Cop27, che
pure ha una visione globale sul clima e non si limita ai soli aspetti
agricoli).
Inoltre,
la Cina sta prestando sempre più attenzione agli aspetti legati alla qualità e
alla sicurezza alimentare, così come sta coinvolgendo la ricerca per nuove
varietà di colture di alta qualità, dai campi alla zootecnia.
(E da noi, invece, l’Europa ci vuole
ridurre alla fame più nera! N.d.R.)
Il
modello apparentemente demonizzato dell'Occidente, in pratica, viene imitato
nei suoi assi principali:
il
miglioramento produttivo, l'innalzamento della qualità, la riduzione della
chimica di sintesi e lo spostamento verso un modello di agricoltura
rigenerativa.
Persino
il ricorso alla multifunzione e al turismo rurale come risorse in grado di
diffondere benessere fra chi cerca benessere e una dimensione più rilassata
come pausa temporanea dalle metropoli sta sempre più funzionando e si sta
declinando nella formula delle comunità rurali.
Certo,
restano alcune peculiarità di fondo che caratterizzano intrinsecamente il
modello cinese e lo differenziano dai grandi latifondi degli Stati Uniti, del
Brasile, dell'Argentina, ma la visione della Cina è che non è la dimensione
dell'attività la questione decisiva, come riconosce lo stesso “van der Ploeg”.
Non possiamo dunque ragionare su uno scenario globale
senza tenere presente il ruolo della Cina.
Personalmente non penso che debba essere
temuta, ma osservata sì.
E come
Pechino ha indirizzato i propri sforzi a migliorare alcuni aspetti dell'agricoltura
mutuandoli dall'esterno, così anche l'Unione Europea dovrebbe analizzare con
attenzione il modello cinese, operando per migliorare attraverso un approccio
globale, dove ricerca e sviluppo devono guidare una crescita produttiva, un abbassamento delle emissioni, un
approccio più verde, una riduzione degli sprechi, una maggiore attenzione alla
multifunzionalità, una ricerca verso fonti energetiche alternative.
Se la
Cina ha definito le sementi i microchip dell'agricoltura, con l'intento di esaltarne la
funzionalità, è opportuno muoversi di conseguenza.
La corsa al podio dell'economia si costruisce
partendo dall'agricoltura.
Cereali:
produzione, prezzi e mercati.
Un'ultima
annotazione per chi dovesse sottovalutare i progressi della Cina in agricoltura.
Se
guardiamo le rese dei terreni agricoli per la coltivazione dei cereali la Cina
si colloca al primo posto per il riso (7 tonnellate per ettaro) e per il
frumento (5,85 tonnellate per ettaro), e al secondo posto dietro gli Usa nel
mais (con 6,37 tonnellate/ettaro, laddove l'Unione Europea è a 6,31 tonnellate
per ettaro).
E fra ricerca genetica e soluzioni agronomiche
e satellitari, la crescita cinese sarà ancora più marcata.
Teniamone
conto.
Chiediamo
ai lettori (se desiderano intervenire, sempre con la consueta pacatezza): ritenete che la Cina rappresenti
un'opportunità per il nostro sistema agroalimentare?
Oppure
pensate che il colosso asiatico resti una questione lontana, geograficamente,
culturalmente, politicamente, per l'agricoltura europea?
Sono
solo due spunti, ma sono ben accette riflessioni più ampie.
Grazie.
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