HANNO VENDUTO IL NOSTRO FUTURO AI CINESI.

 

HANNO VENDUTO IL NOSTRO FUTURO AI CINESI.

 

 

L'impronta cinese sulle auto elettriche

in Europa: nel 2025 ne

saranno importate 800 mila.

Dmove.it -Pasquale Agizza – (8 novembre 2022) – ci dice:

 

La Cina è sempre più la patria della produzione automobilistica e l'Europa un importatore netto.

È questo il futuro prossimo tratteggiato dagli analisti di “PwC”.

 Al predominio produttivo corrisponderà un aumento sempre più forte delle vendite in Europa.

Pensare alla Cina come la patria della produzione dell’automobile e l’Europa nel ruolo di semplice importatore era fantascienza fino a qualche anno fa.

Eppure sarà questo il futuro prossimo, almeno secondo gli analisti di “PwC”.

La produzione di auto elettriche sarà infatti sempre più orientata verso la Cina e ad avvantaggiarsi di questa situazione saranno soprattutto i marchi autoctoni.

Il rapporto affronta la questione da due punti di vista:

il primo relativo alla produzione e il secondo relativo alla penetrazione nel mercato.

Per quel che riguarda la produzione, “PwC” stima che entro il 2025 saranno più di 800 mila le auto costruite in Cina ed esportate in Europa.

 In questo numero sono annoverate sia le auto prodotte in Cina da marchi europei e americani - Tesla, BMW, Renault, Polestar etc. - che quelle prodotte in Cina e poi vendute in Europa dai marchi cinesi.

Per capire l’enormità di questo dato, basti pensare che “PwC” stima in meno di 600 mila le auto prodotte e vendute in Europa nel 2025.

Per la prima volta nella storia, dunque, l’Europa si troverà con un saldo negativo fra le auto esportate e quelle importate.

 La stima è un saldo negativo di 221 mila veicoli nel 2025, destinato poi a crescere negli anni seguenti.

MINI elettrica, addio all’Inghilterra: sarà prodotta in Cina, negli stabilimenti “Great Wall Motors”

Il predominio produttivo potrebbe presto diventare anche predominio sul mercato.

E con l’addio ai motori a combustione interna a partire dal 2035, e il conseguente passaggio all’elettrico, anche i rapporti di forza dell’industria automobilistica sarebbero destinati a cambiare.

I marchi storici del mercato automobilistico vedranno le loro quote di mercato assottigliarsi sempre più, proprio a scapito dei produttori cinesi.

 

Una situazione già visibile oggi, ma che nei prossimi anni sarebbe destinata ad aumentare in maniera vertiginosa.

Sono tanti i marchi cinesi già sbarcati in Europa e, secondo l’analista di “PwC” “Germania Felix Kuhnert”, le compagnie asiatiche saranno sempre più competitive nel Vecchio Continente.

Dando un’occhiata alle prospettive future, uno dei capifila di quella che possiamo a ragione definire l’invasione cinese sarà MG, storico marchio inglese acquistato nel 2007 da SAIC (Corporation Shanghai Automotive Industry).

In ambito elettrico, MG propone in Italia la MG 5 - prima station wagon elettrica al mondo -, la MG 4 e l’interessante MG Marvel R.

La nuova elettrica MG4 di MG Motor arriva in Italia in tre versioni a partire da 29.990 euro.

Da poco meno di un anno è sbarcata in Italia anche “Aiways”, altro marchio di casa a Shanghai.

 Il 2023 sarà un anno importantissimo per la casa cinese, visto che all’U5 si affiancherà l’ambizioso U6, SUV coupé accreditato di un’autonomia di 410 km e più di 200 cavalli di potenza.

L’importanza rivestita dall’Europa per i produttori cinesi si è palesata al Salone dell’Auto di Parigi:

 nell’ambito della kermesse parigina è stato ufficializzato lo sbarco nel Vecchio Continente di due pezzi da novanta dell’industria cinese: Great Wall Motors - con i marchi ORA e WEY - e BYD, azienda leader nel campo delle batterie famosa anche per l’impressionante integrazione verticale raggiunta nei suoi stabilimenti.

BYD si espande: i suoi veicoli arriveranno anche in Svezia e in Germania entro la fine dell'anno.

Sono due, però, i marchi su cui gli analisti sembrano scommettere: Chery - già attiva in Europa tramite fornitura di componenti alla italiana DR Automobiles - e XPeng.

 

Chery è una vera e propria autorità dell’export cinese:

 da 19 anni consecutivi è il marchio automobilistico cinese che vende di più all’estero, con 80 nazioni servite e più di 2 milioni di auto vendute fuori dai confini cinesi.

“XPeng” è indicata da più parti come la “Tesla cinese”.

Del marchio americano cerca di imitare stile e integrazione delle tecnologie, ma a differenziarla da Tesla è l’ottimo rapporto qualità/prezzo delle sue proposte. XPeng è già presente in Norvegia, Svezia e Olanda, ma l’intenzione è quella di aprirsi a nuovi mercati per aumentare i numeri in Europa.

 

 

 

La Cina si sta comprando l’Italia (e noi glielo

lasciamo fare, perché siamo nei guai).

 Linkiesta.it - Alberto Negri – (30 agosto 2018) – ci dice:

Qualche settimana fa, il vertice Conte-Trump, ora quello tra Tria e Xi Jinping.

Con l’obiettivo di cercare sponde potenti, in vista di una possibile tempesta finanziaria. In cambio di qualunque cosa.

Si parte per vendere e si finisce per comprare.

Sembrava che il ministro dell’Economia Giovanni Tria fosse andato in Cina per vendere i titoli del debito italiano e invece è venuto da Pechino l’annuncio che la Banca d’Italia inizierà a diversificare le proprie riserve valutarie includendo il renminbi e quindi titoli di stato cinesi.  Non è una novità che dai cinesi compriamo quasi tutto: la Cina è tornata a essere una fabbrica-mondo come lo fu fino alla vigilia della rivoluzione industriale europea.

Importiamo dalla Cina molto di più di quanto esportiamo: quasi il doppio.

È il terzo Paese del mondo per valore delle merci che l’Italia importa dall’estero, dopo Germania e Francia.

Dalla Cina arrivano prodotti per un valore quasi doppio rispetto, per esempio, a quelli che arrivano dagli Stati Uniti (28,4 miliardi di euro contro 15 miliardi lo scorso anno, secondo i dati del ministero per lo Sviluppo economico).

Per ogni euro che spendiamo in merci prodotte nel loro Paese, i cinesi spendono meno di 50 centesimi in prodotti italiani.

Quindi la nostra bilancia commerciale (che a livello complessivo è in attivo) rispetto alla Cina è negativa:

 alle aziende cinesi sono rimasti 15 miliardi di euro di differenza lo scorso anno, spesi dagli italiani.

La Cina è un destino, non solo segnato dalla storia ma dal presente e dal futuro.

È la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, anche se il suo prodotto interno lordo è poco più di sei volte quello dell’Italia, secondo i dati della Banca mondiale:

 in dollari la produzione cinese vale 12,2 milioni di miliardi e quella dell’Italia 1,9 milioni di miliardi.

La Cina però cresce con tassi di sviluppo molto superiori al nostro e quindi la distanza si sta allargando a dismisura.

 Basti pensare che vent’anni fa, nel 1998, il Pil dell’Italia era del 20% più alto di quello cinese.

 Noi andiamo piano, la Cina vola.

Eppure le cose non sono così nette quando si scende nel dettaglio, che però è anche sostanza.

Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione.

Il picco degli investimenti è dovuto soprattutto al fatto che tra il 2014 e il 2015, il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.

In realtà l’annuncio che la Banca d’Italia compra titoli cinesi nasconde un preciso intento diplomatico ed economico.

Il messaggio è indiretto ma chiaro agli interlocutori internazionali: Italia e Cina hanno l’obiettivo comune di difendere la stabilità finanziaria internazionale, i liberi commerci e sviluppare ulteriormente i rapporti economici per cui, dopo gli investimenti diretti già effettuati e le potenzialità ancora inespresse, Pechino ha un interesse concreto alla stabilità italiana.

La verità è che i cinesi dagli italiani comprano assai ma soprattutto quello che a loro interessa, nell’ottica di una strategia di espansione in Europa e nel Mediterraneo.

Dal calcio (Inter e Milan) alle quote in gruppi strategici, la Cina è dall’inizio del 2014 sempre più presente nell’industria italiana.

Gli investimenti cinesi vanno dai 400 milioni di euro di Shanghai Electric in Ansaldo Energia all’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso dell’energia elettrica di Pechino, China State Grid, per un valore complessivo di 2,81 miliardi di euro.

Interessati dalle mire cinesi sono stati anche i gruppi dell’agroalimentare, come il brand Filippo Berio, controllato da Salov, in cui il gruppo cinese Bright Food ha acquisito una quota di maggioranza, o quelli della moda, con il passaggio di Krizia al gruppo di Shenzhen, Marisfrolg.

Tra gli investimenti più recenti, da ricordare, nel 2017, l’acquisizione del gruppo biomedicale Esaote da parte di un consorzio nel quale figura anche Yufeng Capital, co-fondato dal patron di Alibaba, il gigante dell’e-commerce cinese, Jack Ma.

Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia.

 Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste – e la nuova zona franca – come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez.

L’interesse della Cina verso l’Italia non è sfuggito ai nostri concorrenti:

secondo uno studio pubblicato nel 2017 dal “Mercator Institute for China Studies di Berlino” e dal gruppo di consulenza “Rhodium Group”, tra il 2000 e il 2016, l’Italia è stata al terzo posto, tra i Paesi dell’Unione Europea, come meta degli investimenti cinesi, a quota 12,8 miliardi di euro.

Hanno fatto meglio solo la Gran Bretagna, a quota 23,6 miliardi, e la Germania, in seconda posizione con 18,8 miliardi di euro.

 La tendenza è cambiata alla fine del 2016 quando Pechino ha dato un taglio allo shopping sfrenato dei gruppi cinesi all’estero per concentrarsi sui progetti di sviluppo industriale e su quelli che rientrano nell’iniziativa di sviluppo infrastrutturale tra Asia, Europa e Africa” Belt and Road”, lanciata dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.

Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia.

Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste – e la nuova zona franca – come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez.

Da quando i cinesi gestiscono il Pireo, il traffico dei container è aumentato di 6 volte, e il porto è passato dalla 93esima posizione mondiale alla 36esima, diventando il terminal con la crescita più rapida al mondo.

Dietro a questa strategia cinese non ci sono solo i commerci.

 Secondo i dati sulla spesa militare globale diffusi dal “Sipri” la Cina è il secondo paese per spesa militare complessiva dopo gli Stati Uniti, che con oltre 600 miliardi di dollari contro 225 conservano saldamente la prima posizione.

 Quello che colpisce è lo straordinario aumento della spesa militare cinese, più che raddoppiata dal 2008 a oggi, mentre gli Usa l’hanno diminuita del 14%.

Un evento di portata storica per la semplice ragione che certifica la Cina come potenza non solo economica ma anche militare: un evento che ci riguarda direttamente.

Da più di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta” agevolata dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi.

È proprio l’“hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza militare globale proiettata anche verso il Mediterraneo oltre che in Africa, su un palcoscenico dove dominano Washington e la Nato.

Forse ancora non a lungo: anche per questo l’Italia ha un ruolo non secondario nelle strategie cinesi.

 

Prospettive cinesi su

un inevitabile destino.

Ilmanifesto.it - Simone Pieranni – (10-2-2023) – ci dice:

 

NÉ INTELLIGENTE NÉ ARTIFICIALE. «Scenari dal futuro dell’Ia» di Chen Qiufan: spaccato di come sarà il mondo di domani.

Da tempo la Cina è considerata la potenza globale nella posizione migliore per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale.

 A monte di questa constatazione ci sono i soldi che Pechino ha messo a disposizione, la spinta data dalla leadership in questo campo (Jiang Zemin già negli anni 90’ considerava la corsa all’Ia fondamentale per il futuro del paese e lo stesso Xi Jinping ha citato più volte il tema nei suoi discorsi) e l’immensa mole di dati che le aziende cinesi possono utilizzare per migliorare i propri algoritmi.

 Il lancio di ChatGpt da parte di “Open Ai” ad esempio, non poteva che diventare l’ennesimo “momento Sputnik” per il comparto tecnologico cinese (come accaduto dopo la vittoria sul campione nazionale di “Go” da parte di “Alpha Go “di Google, il primo software a sconfiggere un umano che avrebbe spinto il Pcc a spingere sull’acceleratore dell’innovazione autoctona.

Nei giorni scorsi Baidu, il principale motore di ricerca cinese, ha annunciato il lancio della sua “Chat Gpt “a marzo, ma sembra che anche” Tencent” e “Tik Tok “stiano lavorando a qualcosa del genere.

La scena tecnologica cinese, ancora prima che diventasse riconosciuta a livello globale, è stata descritta da “Lee Kai-Fu,” taiwanese con esperienze in Google, Apple e Microsoft, esperto di tecnologia in Cina e da qualche tempo impegnato in una società di venture capital a finanziare proprio progetti tecnologici (anche) in Cina.

Quando uscì “AI Superpowers”: China, Silicon Valley, and “the New World Order” nel 2018 in pochi avrebbero scommesso sull’impeto tecnologico cinese.

 Il suo libro permise di vedere gli avanzamenti di Pechino diventata via via una rivale degli Usa in un campo solitamente considerato “proprio” dell’Occidente.

Bisogna anche specificare che il suo libro portò a un esito quasi opposto:

 da fabbrica del mondo, nelle narrazioni occidentali la Cina è cominciata a diventare un pericoloso avversario capace di utilizzare la tecnologia con funzioni iper repressive e non solo in casa propria.

Un’altra deriva è stata la seguente:

sopravvalutare la Cina in un settore nel quale esistono ancora molti punti deboli (i semiconduttori, ad esempio) e questioni di governance non chiarissime.

Adesso, con la Cina tornata tra i “cattivi”, si tende nuovamente a diminuire la risonanza globale dell’innovazione tecnologica cinese, forse nell’ottica, anche, di consolarsi:

alla fine l’Occidente non sarà schiantato dalla Cina, sembrano dire alcuni commenti relativi allo scontro sui semiconduttori.

“Lee Kai-Fu” ha però avuto il merito di aprire un mondo, all’interno del quale hanno trovato il proprio spazio anche gli scrittori di fantascienza.

 Nel 2018 usciva “Ai Superpowers” ma tre anni prima, nel 2015, Liu Cixin era stato il primo cinese a vincere il “premio Hugo” per la fantascienza con il suo Il problema dei tre corpi.

In tre anni la Cina diventa un fenomeno interessante sotto molti punti di vista e tanti scrittori, dopo “Liu”, hanno trovato attenzione internazionale.

Uno di questi è “Chen Qiufan”, soprannominato il “Gibson cinese”: Chen è un autore che utilizza il cosiddetto realismo fantascientifico, provando a raccontare quanto è “già” futuro.

I loro due profili si sono incontrati in modo perfetto in “Ai 2041”, Scenari dal futuro dell’intelligenza artificiale (Luiss University press, 2023), un libro nel quale Chen indaga attraverso la fiction l’impatto dell’”Ia” nella nostra vita quotidiana in un domani non troppo distante dai giorni nostri e “Kai-Fu” ne analizza le specifiche tecniche, fornendo una specie di “hardware” all’impianto funzionale di Chen.

Ne esce un libro che ci offre uno spaccato di come potrebbe essere il nostro mondo tra poco, attraverso l’esplorazione di diverse applicazioni di “Ai”:

 dal “deep learning” al “deep fake”, dalla “robotica” a “simil ChatGpt”.

Il tentativo è sviluppare questo concetto, espresso nell’introduzione di “Lee Kai-Fu”:

 l’Ia è la tecnologia fondamentale del nostro presente, ma rappresenta soprattutto il nostro inevitabile destino.

I due autori non hanno l’intento di spaventare, sono entrambi fondamentalmente ottimisti.

 Ma se Kai-Fu racconta il funzionamento dell’Ia applicata a diverse situazioni, Chen trasfigura questa freddezza in racconti che ci restituiscono i rischi di uno sviluppo tecnologico senza alcun controllo, ribadendo così quanto nel mondo degli esperti di “Ia” si dice da tempo:

che più che prevedere cosa potremo fare con l’“Ia”, sarebbe il caso di regolamentarne già ora le applicazioni, ben sapendo che il suo avanzamento è un mistero, ad oggi, ancora per tutti.

Così le Big Tech cinesi da innovatori

sono mutate in predatori.

Come finirà?

 Econopoly.ilsole24ore.com - Maurizio Sgroi – (08 Luglio 2021) – ci dice:

SISTEMA SOLARE.

Poiché l’emersione delle grandi compagnie di internet nell’empireo del mondo finanziario è l’autentica novità del decennio appena trascorso, vale la pena sfogliare un bel “paper della Bis” che racconta in poche pagine il caso cinese, forse il più avanzato osservato nelle cronache recenti.

Al punto da risultare istruttivo abbastanza da informare il dibattito in corso, dove osservatori più o meno preoccupati (o interessati) si domandano se tale fenomeno non finisca col cambiare radicalmente le coordinate del sistema finanziario, facendolo virare verso una sorta di Far West dove i regolatori possono fare poco o nulla.

Quest’impotenza, alla quale sembra che il governo cinese voglia tutt’altro che rassegnarsi, e lo dimostra anche il recente caso che ha coinvolto “Didi”, è figlia della dimensione a dir poco esagerata che queste entità hanno finito col raggiungere, che si apprezza bene se si confronta la loro capitalizzazione con quella delle principali industrie finanziarie.

E non si tratta solo di soldi.

 Il vero tesoro di queste compagnie sono gli utenti.

In Cina, negli ultimi vent’anni, il numero degli utilizzatori di internet si è triplicato, raggiungendo i 900 milioni nel 2020.

Questa orda è stata l’autentico combustibile che ha mandato in orbita le compagnie cinesi che lavorano nel cloud.

 

All’inizio della loro storia, tuttavia, i progetti erano molto più semplici rispetto a quelli che sono emersi successivamente.

“Alibaba” si occupava di e-commerce, “Tencent” di messaggistica istantanea: nulla di particolarmente esoterico.

 Ma poi, proprio in conseguenza dell’approdo massiccio di “user” sulle loro piattaforme, questi servizi elementari hanno finito col diventare sofisticati, offrendo via via opportunità finanziarie, dai microprestiti ai pagamenti istantanei.

Il culmine di questa espansione si è raggiunto nell’agosto scorso, quando “Ant Group”, braccio dei servizi finanziari di” Alibaba”, ha presentato richiesta di quotazione in borsa a Hong Kong e Shanghai per raccogliere 30 miliardi di dollari.

La quotazione, poi bloccata dai regolatori cinesi, avrebbe ulteriormente rafforzato il potere di” Alibaba” e avrebbe condotto “Ant Group “a superare di gran lunga il valore delle principali banche cinesi.

Insomma: la classica goccia che fa traboccare il vaso.

Rimane il fatto: i campioni hi tech cinesi hanno fatto moltissima strada e probabilmente ne faranno altrettanta.

Capire le ragioni del loro successo può essere utile a conoscere meglio non solo l’economia che ruota a questi fenomeni, ma anche il peso che ha in questa evoluzione il ruolo del governo, poco meno che determinante nel caso cinese, al pari almeno del numero della popolazione.

Quest’ultima, a ben vedere, fa la differenza, alimentando quelle “network esternalities” alla base del successo delle reti sociali finanziarie.

 In sostanza, l’abbondanza di dati favorisce la fioritura di servizi finanziari che consentono di monetizzare questi dati.

 Il più classico dei circoli virtuosi.

 Il “cloud” consente, ad esempio, di profilare gli individui al punto da elaborare un merito di credito assai più raffinato di quello solitamente elaborato dagli istituti finanziari.

In tal senso le “big tech” sono capaci di “spiazzare” le banche.

 Inoltre, facendo circolare denaro all’interno delle loro reti, interferiscono con il sistema dei pagamenti e perciò suscitano anche le preoccupazioni delle banche centrali.

Tutto questo spiega perché molti osservatori guardino a queste entità come “aggressivi invasori” di un ambiente storicamente protetto: quello finanziario.

 Gli” autori del paper”, al contrario, guardano alle big tech come “finanzieri accidentali”.

Ossia come soggetti per i quali il sorgere dei servizi finanziari è stata una conseguenza del loro operare all’interno del cloud.

 Un punto di vista, se vogliamo ancora più radicale:

 se i servizi finanziari nascono spontaneamente all’interno del cloud, purché si abbia abbastanza massa critica per attivarli, non vuol dire allora che in quella realtà le Big Tech siano naturalmente destinate ad affermarsi come protagonisti?

Gli esempi riportati dal “paper” sembrano confermare questa possibilità.

Nel maggio del 2003 “Alibaba “lanciò il suo servizio “customer-to-customer” (C2C) di e-commerce “Taobao”, dove venivano proposti numerosi prodotti.

 Tuttavia il numero di transazioni rimaneva limitato:

di fatto mancava la fiducia fra venditori e compratori e questo impediva di attivare i pagamenti.

Mancava, insomma, una terza parte che garantisse al venditore il pagamento della merce spedita e al compratore la spedizione della merce pagata, sul modello “PayPal”, per intenderci.

 Solo che in Cina un sistema esterno, che solitamente richiede un numero di carta di credito per funzionare, non poteva essere attivato perché la diffusione di carte di credito era ancora bassa.

 Che fare quindi?

A ottobre dello stesso anno, per risolvere il problema, “Alibaba” introdusse una nuova funzione, quella delle “secured transaction”:

Taobao avrebbe trattenuto il pagamento del compratore in un deposito a garanzia e avrebbe trasferito il denaro solo dopo che l’acquirente avesse confermato di aver ricevuto la merce.

In sostanza, Taobao interpretava un ruolo squisitamente finanziario di intermediazione.

Già nei primi mesi del 2004, il 70% dei prodotti venduti dalla piattaforma offrivano il servizio “secured” e il risultato fu una crescita notevole delle transazioni, al punto che alla fine dello stesso anno “Alibaba” decise di fondare” Alipay” proprio per gestire queste transazioni.

Da lì sarebbe nata “Ant financial”, divenuta poi “Ant Group” nel 2020, l’anno della (mancata) quotazione. Un classico caso in cui la domanda di un servizio – i pagamenti sicuri –“ gen” era l’offerta e quindi l’entità chiamata ad amministrarla.

Un altro esempio istruttivo è quello dei pagamenti istantanei. “Tencent” fu fondata nel 1999 allo scopo di offrire normali servizi di messaggistica, un business in cui è molto difficile guadagnare.

L’azienda cinese puntò sulla “personalizzazione” dell’identità digitale dello “user “sviluppando nel 2003 una propria applicazione (Tencent QQ show) che consentiva ai clienti di personalizzare le loro immagini virtuali aggiungendo ad esempio vestiti virtuali o altri accessori personali.

Il programma ebbe un successo straordinario.

Nei primi sei mesi cinque milioni di user spesero in media cinque yuan a persona per questo servizio, che poteva essere pagato in “Q-coin”, con cambio 1 a 1 con lo yuan.

 Gli user potevano pagare questi “Q-coin” o tramite credit card o tramite credito telefonico, confermandosi quest’ultimo un potente attivatore di pagamenti virtuali.

Tecnicamente è come se “Tencent “abbia attivato un suo sistema dei pagamenti privato.

Anche qui, la storia si conclude con il braccio operativo che gestisce questi pagamenti che diventa una compagnia a parte,” Tenpay”, nel 2005, diventando la prima piattaforma di pagamento di terze parti.

Queste due storie, dove da un lato le inadeguatezze del sistema finanziario tradizionale (carte di credito poco diffuse con “Alibaba”) e il bisogno di promuovere un business saturo (il QQ di Tencent), generano nuovi servizi finanziari, ce ne comunicano un’altra:

nulla di questo sarebbe potuto accadere se il governo non avesse costruito e sviluppato le reti, a cominciare da quelle mobili.

Già nel 2009 in Cina era attiva la rete 3G e sia “Ant financial” che “Tencent” ne approfittarono subito per sfruttare con le loro “app” la maggior velocità di trasmissione.

 Il risultato fu che nel giugno 2020, quindi un decennio dopo, il numero degli utenti di messaggi istantanei e di pagamenti mobili arrivò, rispettivamente, a 930 e 800 milioni, con un valore di transazioni dei pagamenti mobili con terze parti pari al 230% del Pil.

 E questo, vale la pena sottolinearlo ancora una volta, grazie al governo che intanto, già a fine 2013, aveva già rilasciato quattro licenze per il 4G, consentendo agli operatori mobili cinesi di investire pesantemente sulle reti.

 Alla fine del 2019 la Cina aveva già 5,4 milioni di stazioni “4G”, oltre la metà di quelle totali al mondo.

In più, i cinesi hanno avuto la possibilità di comprare smartphone a prezzi molto bassi, col risultato che gli utenti “4G” nel 2019 raggiunsero quota 1,3 miliardi.

 E la portabilità delle transazioni finanziarie si è confermata un potente attivatore delle transazioni.

Chi compra un biglietto aereo con lo smartphone, può usarlo molto più facilmente di chi lo compra col pc.

Un altro elemento che ha favorito la crescita dei due giganti cinesi è stato – classicamente – la competizione.

 “Alipay” è stato a lungo il soggetto dominante nei pagamenti mobili cinesi fino a quando, nel 2011, “Tencent” ha lanciato “WeChat”, un “’app di social network” per scambiare con gli amici materiali digitali.

 Nel 2013 “Tencent” integrò i pagamenti gestiti da “Tenpay” nell’applicazione, generando” WeChatPay”.

All’inizio la quota di mercato di questa entità si collocò intorno al 10-15%, a fronte dell’80% di” Alipay”.

 Ma nel 2014 “WeChat” lanciò la funzione “red packet”.

Si tratta di una tradizione cinese:

quella di consegnare un po’ di denaro chiuso in un pacchetto rosso ai giovani durante le festività.

Inserire questa possibilità fra i servizi offerti aumentò significativamente il numero di operazioni di “WeChat”, che un paio di anni dopo aveva già raggiunto la quota di mercato del 40%.

Ma forse la sorpresa maggiore per gli osservatori è arrivata da un altro segmento: quello degli investimenti.

Ogni account associato a un “user “tende ad avere dei fondi liquidi che giacciono inutilizzati.

Da qui la decisione di “Ant financial “di mettere in piedi un fondo monetario a metà del 2013 con la collaborazione di un gestore di asset (Tianhong).

La nuova creatura, “Yu’ebao”, piacque più di quanto si potesse prevedere.

 Il numero dei sottoscrittori arrivò a 43 milioni.

Nel 2017 superò addirittura il fondo del mercato monetario di JP Morgan basato su titoli del governo Usa, diventando il più grande fondo monetario al mondo con 1,1 trilioni di yuan di asset, pari a 117 miliardi di dollari.

L’ultimo tassello che completa il quadro della penetrazione finanziaria delle “Big Tech cinesi” è il microcredito.

In Cina per molti individui o piccoli imprenditori è difficile ottenere credito bancario, come accade in molte economie emergenti.

Nulla di strano che sin dai primi anni 2000 “Alibaba”, che come abbiamo visto aveva già la tecnologia, avesse sviluppato un sistema di “credit record” attingendo dati dalle transazioni svolte sulla sua piattaforma e-commerce, che molto facilmente sono divenute analisi sul “merito di credito”.

Questo ha generato la possibilità di chiedere “microprestiti alle banche”, che però non si fecero convincere.

Probabilmente le procedure bancarie non prevedevano come “garanzia il merito di credito” di un utente promosso da “Alibaba”.

Anche qui, la soluzione fu di provvedere in proprio.

“Alibaba” si fece assegnare una licenza di micro-prestatore e sviluppò il suo sistema interno di “credit scoring” – Zhima credit – per approvare rapidamente i microprestiti.

 Venne creato il “modello 310” che richiede 3 minuti per essere approvato e un (1) secondo per avere la risposta “con zero interventi umani”.

Alla fine del 2012 “Ant” è riuscita ad approvare 100 milioni di yuan di micro-prestiti in 36 minuti durante una campagna promozionale.

 Il business crebbe talmente rapidamente da raddoppiare fra il 2014 e il 2017.

 Nel 2019 la piattaforma di finanza digitale ha sorpassato per la prima volta quella dei pagamenti digitali, diventando la prima fonte di ricavi del gruppo. “Ant” aveva scoperto di essere una banca.

Questa trasformazione in banca ha avuto notevoli effetti sul sistema finanziario cinese.

Per sostenere la sua attività di prestito, infatti, “Ant” ha iniziato a raccogliere fondi nel mercato dei capitali emettendo obbligazioni con i microprestiti come sottostante.

Queste obbligazioni, emesse dalle sussidiarie di “Ant”, crebbero sostanzialmente fra il 2016 e il 2017.

A settembre di quell’anno le due compagnie emisero 44 miliardi di yuan di “asset back securities” (ABS) pari al 30% di tutti gli “ABS cinesi” emessi quel mese.

 Il regolatore cinese dovette intervenire per promuovere regole più stringenti.

E questo ci porta all’ultimo passaggio che queste “entità tecnologiche” hanno percorso per promuovere i loro affari: la trasformazione “ufficiale” in banca.

Non appena – era il 2014 – il governo cinese annunciò che presto avrebbe concesso licenze per nuove banche private, sia “Ant” che “Tencen”t crearono le loro banche, “MyBank” (Ant) e “WeBank” (Tencent).

 Tuttavia questo business non è mai davvero decollato.

 Gli asset totali, a fine 2018, per l’una e per l’altra ammontavano rispettivamente a 96 e 220 miliardi di yuan, molto al di sotto della media di sette trilioni di yuan di una banca di medio taglio in Cina.

 

Questo ci dice un’altra cosa:

 dove davvero i giganti di internet fanno la differenza è nei servizi che non esistono, non in quelli che esistono già.

Anche perché i regolatori tendono comunque a proteggere gli “incumbent”.

E questo costringe le Big Tech a spingere sul pedale dell’innovazione.

Nel 2018, ad esempio, le banche internet promossero nuovi prodotti per attrarre depositanti.

Questa rappresentazione sintetica della grande avventura delle Big Tech cinesi è sufficiente per inquadrare meglio quale sia il campo da gioco nel quale le potenze economiche emergenti sfidano le grandi istituzioni ufficiali, con il governo nel ruolo insieme di arbitro e di costruttore del contesto.

 E si capisce anche bene la conclusione del “paper”, quando osserva che non è stata una logica predatoria a spingere allo sviluppo finanziario di queste entità, quanto piuttosto la capacità di riempire i numerosi spazi vuoti che esistevano nel sistema, o di crearne di nuovi.

Però, una volta che questi servizi finanziari nati per necessità diventano la principale fonte di profitto, ecco che la mutazione da “finanzieri per caso” a “predatori finanziari” può avvenire molto rapidamente.

 E considerando il volume di dati (e di clienti) che hanno come sottostante, queste compagnie possono facilmente diventare un rischio globale, non solo cinese.

Specie adesso che la “diffusione del cloud,” per la quale certo le vecchie banche sono meno attrezzate, è diventata pandemica.

Tutto questo lascia aperte molte domande, alle quali in teoria dovrebbero rispondere i governi.

La strada più facile da percorrere è sicuramente quella di frenare l’avanzata di queste entità.

Forse in Cina, e anche altrove, prevarrà un’altra visione: quella di inglobarle in un più ampio modello di governance globale.

Ma questa è tutta un’altra storia. E non è detto che abbia un lieto fine.

(Twitter @maitre_a_panZer)

 

 

 

Io, robot: la Cina si prepara

alla fabbrica del futuro.

  Ing.it – (30/09/2022) – AdviseOnly – ci dice:

 

La manodopera inizia a scarseggiare, ma la produzione cinese deve tenere il passo con la domanda globale. La soluzione? È nei robot.

Ti affascinano i robot? La Cina sì, ne è affascinata: ma è un classico caso di necessità che si deve fare virtù.

Perché per una serie di motivi – che adesso vedremo – la manodopera cinese ha iniziato a scarseggiare.

 E per compensarne la minor disponibilità, la seconda economia mondiale si sta rivolgendo proprio a loro: i robot.

Qualche giorno fa, “l’International Federation of Robotics” si è presentata.

Quel che ne è emerso è che “il mercato della robotica industriale in Cina” ha registrato una forte crescita, con un nuovo record di 243.300 installazioni nell’anno e un incremento del 44% rispetto all’anno precedente.

POST 926 Robot cinesi.

“La Cina ha guidato la ripresa globale dopo la pandemia di Covid-19 e da sola rappresenta la metà delle installazioni di robot a livello mondiale nel 2021”, ha sottolineato “Marina Bill”, presidente della “Federazione Internazionale di Robotica”.

 La crescita è stata forte in tutti i settori, con l’elettrico e l’elettronico che si sono rivelati predominanti, in scia a un aumento del 30%, a quota 81.600 installazioni.

Ma anche l’industria automobilistica ha registrato una forte ripresa, trainata principalmente dalla produzione di veicoli elettrici.

 Il balzo è stato dell’89%, con 50.700 installazioni.

La Cina si riscopre robotica: perché?

In parte perché sta recuperando il suo ritardo rispetto ai Paesi più ricchi.

Ma c’è anche un tema di fabbriche che devono adattarsi al calo di manodopera a basso costo e all’aumento dei salari.

 Ricordi l’invecchiamento della popolazione?

 È un Megatrend – come si dice in gergo – che fino a non molto tempo fa ha riguardato principalmente le economie avanzate.

 In merito, si son sempre menzionati due esempi: quello del Giappone e il nostro, l’Italia.

 Ora, però, il trend inizia a interessare anche i Paesi cosiddetti emergenti.

"La Cina ha una delle popolazioni che stanno più rapidamente invecchiando al mondo.

Secondo le proiezioni, la popolazione cinese con più di 60 anni d’età raggiungerà il 28% entro il 2040, a causa dell’allungamento della speranza di vita e del calo dei tassi di fertilità."

Nel 2019, gli anziani di età pari o superiore a 60 anni erano 254 milioni, mentre quelli di età pari o superiore a 65 anni ammontavano a 176 milioni.

Entro il 2040, l’OMS stima che ben 402 milioni di persone – pari appunto al 28% della popolazione totale – avranno superato i 60 anni.

Questo Megatrend, già in corso, sta dando un grosso contributo alla carenza di manodopera, spingendo per converso il ricorso alla robotica.

E d’altro canto, l’impiego di dispositivi robotici fa sì che le fabbriche possano non solo compensare le carenze di manodopera, ma anche mantenere bassi i costi: occorrono meno operai (certamente più qualificati), e su meno turni.

 Rendendo perciò meno vantaggioso per le aziende occidentali lo spostamento della produzione verso altri mercati emergenti o direttamente a casa loro.

I robot sono importanti anche per altri motivi.

Il ricorso alla robotica è decisivo per almeno altri tre ordini di motivi. Dopo aver registrato un incremento medio annuo del 9% tra il 2000 e il 2010, nel decennio successivo la produzione per ora lavorata in Cina è cresciuta “solo” del 7,4% all’anno, evidenziando quindi un rallentamento.

Malgrado le tensioni commerciali con gli Stati Uniti e la crescente ansia dell’Occidente circa un’eccessiva dipendenza dai prodotti cinesi, la Cina è ancora la fabbrica del mondo:

 rappresenta infatti il 29% del settore manifatturiero globale, secondo i dati delle Nazioni Unite.

La produzione, insomma, deve tenere il passo con la domanda.

Molti lavoratori tra i più giovani preferiscono impieghi più flessibili nel settore dei servizi, che in Cina è in espansione, al lavoro in fabbrica.

A tutto ciò va aggiunto il fatto che il lungo boom della migrazione interna si sta avviando al tramonto.

Si fanno strada nuove professioni.

Allo stesso tempo, come fa notare l’”International Federation of Robotics”, le autorità statali puntano a incrementare le opportunità di lavoro e imprenditoriali tra i laureati.

 A giugno, il “ministero delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale” ha indicato in un annuncio il varo di 18 nuove professioni, fra le quali quella di “tecnico di ingegneria robotica”.

Una figura chiamata a concentrarsi sulla ricerca e lo sviluppo di algoritmi di controllo e sistemi operativi per i robot, oltre che sull’utilizzo della” digital simulation technology”.

“La Cina ha ancora un alto potenziale di crescita”, ha dichiarato Marina Bill.

 “La densità robotica del Paese nell’industria manifatturiera ammonta a 246 robot industriali ogni 10.000 dipendenti, cosa che nel 2020 la collocava al nono posto a livello mondiale”.

Un progresso notevole, comunque, se si pensa che dieci anni fa la densità di robot nel Paese era di sole 15 unità.

Investire nei “Megatrend”: il futuro della robotica.

La robotica – e l’automazione che, insieme alla meccanica e ai software, ne sono alla base – è tra le tendenze che stanno cambiando il volto dell’economia e della società, spinta a sua volta da altre tendenze, come appunto l’invecchiamento della popolazione.

In Cina, ma non solo. Come ogni altro “Megatrend”, è destinata a dispiegare i suoi effetti nei decenni a venire.

Una tendenza a lungo temine, così come a lungo termine dovrebbe essere l’orizzonte temporale di un portafoglio d’investimento.

Nel quale potrebbe trovare spazio anche un tocco di robotica.

 

 

 

Il 2023 è l'anno giusto per introdurre

la Cina nel portafoglio core?

Carmignac.it – (3 Febbraio 2023) – Redazione – ci dice:

Dopo due anni difficili per le azioni cinesi a causa di un giro di vite normativo, delle tensioni geopolitiche e della recessione economica, il 2023 si preannuncia più promettente per gli investitori.

Recentemente i mercati finanziari cinesi hanno registrato una volatilità elevata per una serie di decisioni politiche e altri eventi che hanno alimentato l’ansia degli investitori esteri, per esempio l’inasprimento delle normative per alcuni settori di attività, i guai finanziari del gigante immobiliare “Evergrande”, le normative più severe sulla trasparenza delle società cinesi quotate negli Stati Uniti, senza dimenticare la rigida politica” Zero-Covid “e i timori di un’invasione di Taiwan all’indomani dello scoppio del conflitto in Ucraina.

Il 2023 – l’anno cinese del Coniglio, simbolo di pace, prosperità, ritorno alla normalità e altro ancora – potrebbe aprire un nuovo capitolo per gli investitori.

Molti cambiamenti essenziali avvenuti recentemente nel paese indicano una normalizzazione dell’economia e dei mercati finanziari e potrebbero far emergere molte opportunità, in particolare nei settori correlati ai beni di consumo.

Un futuro più brillante.

Prospettive di crescita solide, alimentate dalla domanda interna.

Altri buoni motivi per prendere in considerazione le azioni Cinesi.

Tutti gli indicatori volgono nuovamente al bello per le azioni cinesi.

 Sui cinque fattori di rischio che gravavano sulle azioni cinesi nel 2021 e 2022 (verifiche normative rigorose, crisi immobiliare, politica zero-Covid, politiche locali, tensioni tra Cina e Stati Uniti), quattro si sono in larga misura risolti ora che Pechino ha posto fine al giro di vite normativo decidendo anche di sostenere il settore privato, compresi i colossi internet e i costruttori immobiliari.

Per quanto riguarda il quinto fattore di rischio, le tensioni tra Stati Uniti e Cina, che sono tornate a salire dopo l'incidente del "pallone spia cinese", a nostro avviso non subiranno un'escalation.

 Vediamo la ripresa economica post-Covid come un potente driver per le azioni cinesi nel 2023.

Il governo cinese ha attuato una serie di cambiamenti concreti dopo il Congresso del Partito comunista di ottobre.

La novità più significativa è stata la revoca della rigorosa politica di contrasto al Covid, una decisione abbastanza affrettata ma dettata dalla necessità, che ha permesso la riapertura del paese l’8 gennaio.

Inoltre, il governo sta orientando la sua politica a favore della crescita economica; alla “Conferenza centrale sul lavoro economico” (il principale consesso economico del paese), per esempio, alcuni esponenti di punta del governo hanno annunciato che il rilancio della domanda interna sarebbe stato una priorità per il 2023.

Anche se la rapidità della riapertura dell’economia cinese potrebbe causare alcune difficoltà nel breve termine, ci attendiamo un aumento del PIL già nel primo semestre con un dato annuo al 5,0% circa, il che farebbe della Cina l’unica grande economia mondiale a registrare un’accelerazione della crescita del PIL.

Prospettive di crescita solide, alimentate dalla domanda interna.

Tutti questi fattori fanno presagire un aumento della spesa al consumo cinese, che a sua volta dovrebbe far crescere negli anni a venire i ricavi delle società cinesi nei settori correlati ai beni di consumo.

Una recrudescenza dei contagi da Covid potrebbe pesare sulla spesa al consumo nel primo trimestre, ma la situazione dovrebbe migliorare già nel secondo trimestre grazie alle misure di stimolo della crescita e dei consumi varate da Pechino e al fatto che sia le autorità locali che i cittadini stanno imparando ad affrontare il Covid in maniera più efficace.

Inoltre, le famiglie cinesi hanno un risparmio in eccesso di quasi 18 mila miliardi di renminbi (2,5 mila miliardi di euro), compresi 4 mila miliardi di renminbi accumulati dal 2020, in primo luogo a causa dei lockdown.

L’eccesso di risparmio dovrebbe determinare un aumento della spesa per i consumi.

Si prospetta anche una ripresa del mercato del lavoro: quasi un posto di lavoro su cinque in Cina implica un contatto fisico, di conseguenza la revoca della politica anti-Covid e la riapertura totale dell’economia cinese possono stimolare sia la dinamica delle assunzioni sia la spesa per i consumi, alimentando la ripresa dei consumi delle famiglie.

Altri fattori di crescita strutturale della domanda nazionale cinese sono: una popolazione di ben 1,4 miliardi di persone;

un PIL pro capite di oltre USD 12.500; un tasso di consumo delle famiglie in crescita; un aumento quintuplicato dei consumi totali delle famiglie tra il 2005 e il 2020.

Inoltre, se si analizzano i consumi delle famiglie cinesi in percentuale del PIL, questo dato è ora pari al 54,3%, sensibilmente più basso rispetto ai paesi sviluppati (82,6% negli USA1, per esempio), c’è quindi un ampio margine per l’espansione della spesa cinese al consumo.

Altri buoni motivi per prendere in considerazione le azioni Cinesi.

Ci sono molti altri buoni motivi per investire in Cina. Il mercato conta più di 6.000 società quotate, per una capitalizzazione di borsa complessiva di oltre USD 19 mila miliardi, seconda solo agli Stati Uniti.

È quindi semplicemente un mercato azionario che non può essere trascurato dagli investitori oggi.

Eppure, nonostante le dimensioni e le condizioni attuali del mercato, le società cinesi costituiscono appena il 3,6% dell’indice “MSCI All Country World” (costituito da azioni di circa 50 paesi), rispetto al 60,4% delle società statunitensi e al 5,6% di quelle giapponesi.

Le aziende cinesi presentano valutazioni interessanti.

Il rapporto prezzo-utili medio (che indica quanto gli investitori sono disposti a pagare oggi il titolo di una società sulla base degli utili futuri) è di circa 11 per le azioni cinesi, di poco inferiore alla media decennale, mentre le azioni globali si scambiano a un rapporto prezzo-utili di circa 15.

 Inoltre, la maggior parte delle società cinesi ha tagliato i costi negli ultimi tre anni, quindi la crescita del fatturato dovrebbe tramutarsi in un aumento degli utili nel 2023.

Le azioni cinesi possono essere un efficace strumento di diversificazione del portafoglio in termini di esposizione geografica e di tematiche di investimento.

Ravvisiamo un forte potenziale soprattutto in quattro ambiti principali della New economy cinese:

1) innovazione industriale e tecnologica;

2) salute;

3) transizione ecologica;

4) miglioramento dei consumi.

Dopo 20 mesi difficili, il 2023 potrebbe essere l’anno della rinascita per i mercati finanziari cinesi.

Anche se alcuni rischi non sono da trascurare (una nuova ondata di Covid, gli sviluppi geopolitici), crediamo che molti possano essere limitati attraverso una gestione attiva del portafoglio.

Un approccio di investimento agile, selettivo e fondato su una visione di lungo termine (coerente con l’anno del Coniglio) è più che mai fondamentale per il 2023.

 

 

 

Ginevra mostra il film che

la Cina vuole che nessuno veda.

Swinfo.it – (12 – 3 – 2023) – Jamil Chade - Ai Weiwei – ci dicono:

(Ai Weiwei guarda da una finestra).

 Persona non grata nel suo paese d'origine, la Cina, Ai Weiwei ora vive in Portogallo e non vede un futuro luminoso per l'umanità.

Questo fine settimana, il film ‘Coronation’ di Ai Weiwei è stato proiettato al Festival del film e forum internazionale sui diritti umani di Ginevra, dopo essere stato rifiutato da tutti i principali festival e piattaforme di streaming in Occidente a causa delle pressioni cinesi.

Esiliato in Portogallo, racconta a swissinfo.ch come è riuscito a girare a Wuhan e le sue fosche prospettive per la democrazia, i diritti umani e la libertà d'espressione.

Il mondo probabilmente non saprà mai cosa sia veramente successo a Wuhan poco più di un anno fa.

L'avvertimento viene da Ai Weiwei, un artista cinese che ora vive in Portogallo.

"Questo è probabilmente il film più importante sulla pandemia e sulla Cina." (Ai Weiwei).

Il suo film ‘Coronation’ (2020) è una rara finestra aperta sulla crisi sanitaria cinese.

Ma ha presto scoperto che la censura non è limitata al Partito Comunista Cinese.

I principali festival cinematografici in Europa e Nord America si sono rifiutati di proiettare il film, né è stato possibile distribuirlo attraverso le principali piattaforme come Netflix e Amazon.

Gli svizzeri, tuttavia, non si sono piegati alle pressioni cinesi.

Questo fine settimana, il film di Weiwei sarà proiettato al “Festival del film e forum internazionale sui diritti umani” di Ginevra.

Si tratta solo di un gesto simbolico, perché l'artista in esilio non crede che la Svizzera possa esercitare alcun tipo di influenza.

 "Le sanzioni svizzere non avrebbero alcun effetto sulla Cina", ha dichiarato al quotidiano zurighese “Tages Anzeiger”.

Nell'intervista a “swissinfo”, Weiwei non si fa illusioni:

 l'onda democratica degli ultimi 40 anni sta per finire e la censura sarà la regola nel mondo post-pandemico.

swissinfo.ch: Lei non è il benvenuto in Cina. Come ha fatto a girare a Wuhan?

Ai Weiwei: Ho filmato la prima pandemia, nel 2003, quando la Sars è apparsa in Cina, quindi non è la prima volta che affronto questo argomento.

 Giro film d'inchiesta in Cina da molto tempo, il che mi ha spesso messo in difficoltà.

 So come filmare e cosa filmare.

Avevamo colleghi e artisti in isolamento a Wuhan.

 Sapevamo che sarebbe stata una storia drammaticamente triste.

Ma non avrei mai previsto che sarebbe stata un'esplosione globale e che saremmo ancora oggi nella stessa situazione, un anno dopo, con migliaia di persone che muoiono ogni giorno, e nessun segno che la pandemia scomparirà.

Ho contattato le persone che conosco e di cui mi fido.

 Ho dato loro indicazioni ogni giorno dopo che le immagini mi venivano inviate.

 È stato incredibilmente difficile a causa della situazione di isolamento.

La gente non poteva muoversi. Ma avevamo persone in sei ospedali e anche in caserme temporaneamente allestite per occuparsi dei pazienti.

 

Cosa voleva mostrare?

Abbiamo cercato di mostrare i diversi punti di vista. Non solo degli ospedali e dei medici, ma anche delle persone, quelle abbandonate e dimenticate.

  La grande maggioranza della gente è senza voce. Quando non hai voce, non conti. O sei solo un numero.

Le emozioni e i valori non sono più rilevanti.

I musei elvetici non si dimenticano di Ai Weiwei.

Questo contenuto è stato pubblicato il 18 mag. 2011.

L’artista langue forse in una prigione cinese, la sua voce dissidente continua però a farsi sentire in tutto il mondo, anche in Svizzera. Il museo...

Il suo film sarà proiettato al Festival del film di Ginevra, questo fine settimana.

 Ma abbiamo visto che le piattaforme globali non hanno trasmesso il film.

Cosa ci fa capire tutto ciò sull'influenza della Cina?

Sono molto orgoglioso di quello che abbiamo fatto.

Questo è probabilmente il film più importante sulla pandemia e sulla Cina.

Quello che volevo mostrare è come la Cina si muove nel mondo politico.

E come il mondo capisce la Cina.

Ironicamente, la prima lezione che ho ricevuto non è stata dalla Cina, ma dall'Occidente.

Tutti i maggiori festival cinematografici del mondo dove abbiamo cercato di presentare il film, Toronto, New York e i maggiori distributori online come Netflix e Amazon, all'inizio hanno tutti amato il film.

Ma alla fine, la risposta che abbiamo ricevuto è sempre stata la stessa: non possiamo accettare il vostro film.

Come ha reagito?

Capisco la situazione.

 Il mercato cinematografico è ormai cinese. Proprio il mese scorso la Cina ha superato gli Stati Uniti e ora è il più grande mercato cinematografico del mondo.

Per quanto riguarda i festival, o sono sotto autocensura o sotto la pressione della Cina.

Possono presentare solo film che hanno il "Sigillo del dragone", riconosciuto dal dipartimento di propaganda comunista cinese.

"L'ondata di 30 o 40 anni di democratizzazione sta finendo."

(Ai Weiwei).

End of insertion.

Ottenere questo sigillo è praticamente impossibile. Molti dei miei colleghi in Cina non lo otterranno mai, sebbene ci provino da anni.

Quindi, anche se non critico la Cina, loro [i festival e le piattaforme cinematografiche] non possono essere associati al mio nome. Questo influenzerebbe il loro potenziale commerciale in Cina, dove lo stato è l'unico acquirente.

Ma anche l'industria cinematografica privata occidentale ha rifiutato di proiettare il mio film a Berlino.

Ho capito che hanno una solida presenza in Cina e semplicemente non possono farlo.

Non possono permettersi di perdere i loro affari.

Non è qualcosa di giusto o sbagliato.

L'Occidente ha rinunciato alle sue libertà a favore del capitale e del profitto.

(Il  film “Coronation” di Weiwei.)

Quello che lei sta dicendo è che la questione della libertà di espressione affronta sfide non solo in Cina ma anche in Occidente. Come pensa che il mondo uscirà dalla pandemia su questo tema?

Quando si parla di libertà di espressione, sappiamo tutti che vivremo in condizioni molto peggiori. Ovunque.

 In Cina, siamo sotto stretto controllo e sorveglianza, come in un film di fantascienza, solo che è tutto molto reale.

In Occidente, abbiamo appena sentito come le grandi aziende hanno venduto informazioni sugli utenti alle aziende cinesi.

Tutto in Cina è sotto il controllo del governo.

 Così le autorità possono controllare le informazioni sugli individui anche in Occidente.

Pensa che sarà così per sempre? 

Questa è la nuova realtà.

 A causa della globalizzazione, le grandi aziende sono profondamente coinvolte con la Cina e non c'è confine, ideologia o qualsiasi tipo di argomento che tenga. Si parla solo di profitti. I cinesi stanno strategicamente vincendo.

L'ondata di 30 o 40 anni di democratizzazione sta finendo.

 Se si guarda a quello che sta succedendo negli Stati Uniti o in Brasile e in tanti altri stati, capiamo che la democrazia e lo Stato liberale hanno subito un brutto contraccolpo.

Molti di questi Paesi stanno vivendo una forte crisi interna, dando così un grande vantaggio agli stati autoritari.

Leader come Bolsonaro, Vladimir Putin o il cinese Xi Jinping sono uomini forti che sono riusciti abilmente a ottenere ciò che volevano. Dureranno ancora a lungo e non c’è modo di fermarli.

 

Il lavoro di Ai Weiwei è sempre stato legato a pressanti questioni politiche e sociali, come la condizione dei rifugiati.

 'Law of the Journey' (2017) è stato originariamente commissionato ed esposto dal Museo nazionale di Praga (Repubblica Ceca) e portato in un magazzino a “Cockatoo Island”, in Australia, come parte della mostra della “Biennale di Sydney”. (Zan Wimberley)

Come valuta la reazione dell'Occidente?

A.W.: L'Occidente non ha valori chiari. Quando un giornalista del Washington Post viene ucciso in un'ambasciata, il governo americano fa finta di niente.

Se l'Occidente può accettare questo, non ha una posizione morale da sostenere. Julian Assange è ancora in prigione.

Ha solo fornito una piattaforma per rivelare alcuni segreti di Stato.

Ma se cose come questa sono permesse, la cosiddetta libertà di parola è uno scherzo.

Ti è permesso di parlare solo di qualcosa che loro accetteranno.

Non ti permetteranno mai di parlare di qualcosa di veramente cruciale o di mettere in discussione l'establishment.

L'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha inviato una missione a Wuhan. Ma pensa davvero che un giorno sapremo davvero cosa è successo un anno fa con la pandemia?

No, non lo credo.

Il regime comunista è molto potente e forte e mantenere questo segreto è in cima alla loro agenda.

 L'OMS ha fatto una visita molto superficiale.

Anche loro (l'OMS) sono responsabili, poiché all'inizio della crisi hanno indicato che la malattia non era trasmissibile tra gli esseri umani.

Questo è assurdo.

Siamo di fronte a un mostro molto più grande.  

In termini geopolitici, cosa pensa succederà sul pianeta nel periodo post-pandemia?

Stiamo vivendo un momento di fragilità.

Non credo che la pandemia possa allarmare la gente in modo da farle elaborare una strategia chiara per affrontare ciò che la società umana si troverà ad affrontare in futuro.

Per molti versi, abbiamo a che fare con realtà che non hanno precedenti per l’umanità.

 La tecnologia, gli stati potenti come la Cina e l'incapacità dell'Occidente di affrontare quello stato autoritario, più gli enormi problemi climatici.

Tutto questo mette in forte discussione il nostro futuro.

 

 

Una Guerra è in atto… e

si Combatte nelle Nostre Menti.

Conoscenzealconfine.it – (13 Marzo 2023) – Antonella Werner – ci dice:

 

La sceneggiata Covid ha disvelato al mondo, per chi ha saputo coglierlo, che c’era e c’è, una guerra in atto da tanto, tanto tempo, il cui campo di battaglia è la nostra mente e l’obiettivo è la nostra anima.

Sotto l’effetto delle loro bombe che si chiamano “pensiero unico dominante” hanno minato la società con i loro indiscutibili dogmi, materialismo e “Scienzah”, lanciando al contempo anatemi contro tutti coloro che avessero osato dissentire.

Oggi il mondo è spaccato in due.

Chi vede l’invisibile, ed ha saltato lo steccato, e chi invece crede solo a ciò che vede e sta ancora brancolando nel buio inseguendo, come fanno le falene, un fascio di luce.

Hanno consegnato le torce a giornalisti prezzolati che raccontano fandonie, a medici che anziché stare in corsia reclamizzano sieri mortali, a cantanti sguaiati ed indecenti che dovrebbero insegnare come si ama, a oche giulive che non sanno nemmeno la tabellina del cinque ma che proprio in virtù di questo stanno sulle copertine patinate.

Seguire qualcuno è l’unica cosa che riescono a fare dal momento che hanno rinunciato al proprio logos.

 Certo costa fatica formarsi ed informarsi… meglio non perdere tempo alla ricerca della Verità.

È più comodo farsi bastare ciò che viene offerto.

Inutile però insistere con questi soggetti.

 Non abbiate volontà di convincerli, non serve.

 Si tratta di intraprendere un percorso personale, ed ognuno lo deve fare guidato dal proprio libero arbitrio.

 

Prima anch’io cercavo di convincerli, di farli ragionare, oggi ho capito che è solo tempo perso.

 Sono degli energivori che tolgono le forze e basta. Mi hanno fatto prima rabbia, poi pena, ma ora mi sono indifferenti.

Li chiamo anime perse che hanno perso tutto per inseguire i pensieri pensati anziché sforzarsi a farsene di propri.

Spiace, ma è così.

(t.me/antonellawerner)

 

 

 

 

SoftBank si dilegua dal

colosso cinese Alibaba?

 Starmag.it – (5 Agosto 2022) - Chiara Rossi – ci dice:

(Softbank Nvidia Arm)

 

Softbank ha venduto un terzo della quota in Alibaba e ne ricava 22 miliardi.

La svolta del conglomerato giapponese, storico finanziatore di “Jack Ma”, arriva quando il colosso dell’e-commerce cinese sta affrontando complicazioni

Softbank si preparare a cedere la sua quota di Alibaba.

Il conglomerato giapponese Softbank ha sottoscritto contratti derivati sulla vendita con opzione di riscatto per circa un terzo della sua storica quota sul gigante dell’e-commerce cinese Alibaba, da cui ha ricavato circa 22 miliardi di dollari.

Lo riferisce il “Financial Times” sulla base delle documentazioni contabili prodotte dal gruppo nipponico, che ora si ritrova con oltre metà della sua partecipazione sulla società cinese impegnata in contratti di vendita analoghi.

Il tutto si verifica mentre la “US Securities and Exchange Commission” (Sec) ha aggiunto Alibaba a un elenco di oltre 250 società cinesi che potrebbero subire il “delisting a Wall Street” a causa del mancato rispetto dei requisiti di revisione finanziaria.

Alibaba si “sforzerà” di mantenere la quotazione di New York nonostante l’aggiunta alla” watchlist della Sec “,ha affermato la società lunedì in una dichiarazione alla borsa di Hong Kong.

 Le nuove regole contabili è il fronte su cui si è aperto un nuovo contenzioso tra Washington e Pechino.

 Il gruppo ha fatto richiesta di quotazione primaria al mercato di Hong Kong.

Tuttavia, ieri il titolo di Alibaba ha guadagnato l’1,5%, grazie a una trimestrale migliore delle attese.

Nonostante Alibaba abbia battuto le stime, è la prima volta che l’azienda registra una crescita piatta.

Il gruppo cinese dell’e-commerce ha registrato un leggero calo dei ricavi trimestrali per la prima volta nella sua storia.

Tutti i dettagli.

SOFTBANK DISMETTE QUOTE DI ALIBABA.

Softbank, il gruppo guidato dal miliardario fondatore “Masayoshi Son”, ha venduto quest’anno circa un terzo della sua partecipazione in Alibaba.

A meno di futuri ripensamenti, e relative massicce spese, la quota di Softbank nel risulterà drasticamente ridotta.

 Una svolta storica, secondo il quotidiano finanziario londinese, dato che il gruppo era stato tra i principali finanziatori della società di “Jack Ma” quando era una startup, con un finanziamento di circa 20 milioni di dollari 20 anni fa, che sono andati a lievitare e che il gruppo nipponico non ha mai liquidato.

Queste vendite prevedono appunto un patto di riscatto con cui la società potrebbe riappropriarsi delle azioni.

Ma secondo il Ft è improbabile che venga esercitato.

La scommessa di SoftBank su Alibaba durante la sua nascita aveva reso il suo ceo Masayoshi Son l’uomo più ricco del Giappone nell’ultimo decennio. Tuttavia, ha perso questo titolo quando le azioni di Alibaba sono diminuite a causa delle pressioni normative.

LA STRETTA DI PECHINO SUL COLOSSO CINESE.

Nel frattempo, in Cina il colosso tecnologico fondato da “Jack Ma” ha affrontato un’indagine antitrust e una multa da 2,8 miliardi di dollari l’anno scorso.

Negli ultimi tempi il fondatore “Jack Ma” è quasi scomparso dalla vista del pubblico.

 E ora sta ora pianificando di rinunciare al controllo della consociata di “Alibaba, Ant Group”, secondo il Journal.

Da oltre un anno “Ant Group” è nel mirino delle autorità di regolamentazione del mercato di Pechino.

Nel 2020 le autorità cinesi hanno bloccato in extremis l’offerta pubblica iniziale (Ipo) da oltre 34 miliardi di dollari che avrebbe dovuto portare la compagnia sulle borse di Shenzhen e Hong Kong.

LO SCENARIO GEOPOLITICO.

Non si può escludere nemmeno che tra le considerazioni che hanno portato Softbank a queste transazioni vi siano anche elementi di natura geopolitica sulle crescenti tensioni che si stanno creando tra Usa e alleati da una parte, tra cui il Giappone, e Russia e Cina e diversi paesi emergenti dall’altra su una molteplicità di episodi, tra cui la guerra in Ucraina e le mire cinesi su Taiwan.

IL PRIMO CALO DEL FATTURATO NELLA STORIA DI ALIBABA.

Infine, il gruppo cinese dell’e-commerce Alibaba ha registrato un leggero calo dei ricavi trimestrali per la prima volta nella sua storia.

 Per il primo trimestre dell’anno fiscale 2022-2023 il fatturato è stato di 205,55 miliardi di yuan, dai 205,7 miliardi di yuan dello stesso periodo del 2021.

 L’utile netto si attesta a 22,73 miliardi di yuan contro i 18,72 miliardi di yuan attesi dal consensus degli analisti.

Nel trimestre, Alibaba ha dovuto affrontare una serie di venti contrari, tra cui una recrudescenza del Covid in Cina che ha portato al blocco delle principali città e un’economia cinese fiacca nel secondo trimestre.

In una nota il gruppo ha parlato di un ‘declino’ delle attività commerciali compensato da quelle sul cloud.

 “Dopo aprile e maggio relativamente deboli, a giugno vediamo segni di ripresa nella nostra attività”, ha affermato il ceo del gruppo” Daniel Zhang”.

 

 

 

Xi Jinping, il nuovo Mao che ha comprato

mezza Italia e controlla il Mediterraneo.

 

Lavocedinewyork.com – (18 settembre 2020) - Elisabetta de Dominis – ci dice:

Gennaro Sangiuliano ha presentato il suo libro sul leader della Cina a “Pordenonelegge” e con lui abbiamo capito a chi è stato venduto il nostro futuro...

Di Maio e Mattarella celebrano il concubinato con il gigante gonfio d'affari.

22 marzo 2019: Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si incontra con il Presidente della Repubblica Popolare Cinese XI Jinping.

 

Gennaro Sangiuliano ha presentato il suo libro a Pordenone.

Gennaro Sangiuliano, direttore del tg2, a soli 58 anni ha al suo attivo circa una ventina di saggi, oltre ad alcune direzioni in quotidiani nazionali, diverse cattedre universitarie, una laurea in giurisprudenza, un master in diritto privato europeo e un PhD in diritto ed economia.

Davanti a un simile curriculum vitae non posso non osservare che invece in Italia siamo governati da un bel numero di ignoranti, tuttavia abbiamo ancora delle belle teste pensanti, le quali non hanno preso la scorciatoia per occupare qualche posto di potere.

 Non so quando ci libereremo di quegli incolti, ma so che, se non introdurremo un criterio di competenza anche nella scelta dei nostri candidati politici, l'Italia è destinata a scomparire.

Il grado culturale denota la comprensione e, se non si è appreso, quanto si riesce a comprendere?

Quanto si riesce a difendere il proprio Paese e a non svenderlo al mercato cinese?

Democrazia non è “uno vale uno”, non lo era nemmeno per gli antichi Greci che sottoponevano i candidati a un esame attitudinale, la docimasia.

 Il fatto è che “abbiamo confuso l'assemblearismo permanente con la democrazia”, ha sottolineato Sangiuliano a Pordenonelegge, durante la presentazione della sua ultima biografia: Il nuovo Mao. Xi Jinping e l'ascesa al potere nella Cina di oggi (Mondadori).

 

Sangiuliano ha esordito avvertendo che “la Cina possiede il 2% di Generali, Unicredito, Intesa San Paolo, Monte Paschi; ha acquisito la Pirelli, uno dei marchi storici del capitalismo italiano, il 30 % della nostra rete energetica”.

Perché l'Italia ha permesso questi giganteschi investimenti?

E nell'indifferenza dei media nazionali, la Cina ha raggiunto il controllo del Mediterraneo, comprandone i porti che vi si affacciano, e la maggioranza societaria di alcuni importanti porti italiani.

Sta attuando il piano del suo presidente Xi Jingping:

Una cintura, una strada.

Che una sola cintura sia l'unica via la dice lunga in termini egemonici e che poi gli sia stato dato il serafico nome di “La nuova via della seta” non deve trarre in inganno.

 Perché, come ci ha raccontato Sangiuliano, dietro a quel sorriso rassicurante e quell'aria gentile il presidente cinese cela una personalità strutturata, forgiata nelle avversità.

Nato nel '53 come un “principe rosso”, figlio di un dirigente del partito comunista molto vicino a Mao, Xi Jinping a 15 anni finisce in un campo di rieducazione a dare per due anni da mangiare ai maiali, a causa della caduta in disgrazia del padre.

Mao aveva fatto sua la pratica di Stalin di liberarsi dopo tot anni dei collaboratori più stretti affinché non prendessero troppo potere.  

Ma nel '74   Xi Jinping riuscirà ad entrare nel partito maoista – la sua richiesta era stata respinta una decina di volte – e inizierà l'ascesa politica dalla gavetta:

 prima governatore di alcune province cinesi, poi sindaco di Shanghai, carica che gli spianerà la strada al potere.

 

Il presidente cinese sta realizzando il suo progetto neo-nazionalista fondato sulla riproposta del marxismo come religione politica e del confucianesimo come dogma culturale.

Quindi la politica come religione e la religione come radice culturale.

 Ecco come ti indottrino la massa: “Noi siamo una cosa sola: una sola è la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra storia”.

 Così i cittadini-sudditi portano l'acqua al mulino cinese per farlo diventare il più potente del mondo e superare l'America, sottomessi all'uomo che è già il più potente del mondo, poiché ha avocato a sé le cariche di presidente, segretario del partito e capo delle forze armate.

“Sulla Cina Trump ci ha visto bene” ha sottolineato Sangiuliano.

“Non è a favore dei dazi, ma li ha utilizzati come strumento per costringere Xi Jinping a sedersi al tavolo delle trattative.

 C'era troppo sbilanciamento economico: 800 miliardi di esportazioni dalla Cina in America, 200 di importazione.

E da lì anche Merkel e Macron hanno preteso venisse rispettato il principio di reciprocità.

Invece l'Italia ha sottoscritto il “Memorandum con la Cina” senza chiedere alcuna contropartita”.

Siamo alla frutta?

O abbiamo confuso il profumo dei soldi con il profumo della frutta?

Fatto sta che gli italiani hanno sempre avuto un debole per l'esotico e, mentre i nostri politici si abbronzano lungo qualche spiaggia, i cinesi ci trasformano in una repubblica delle banane vendendoci isole gonfiabili con tanto di palma.

 Ci adatteremo a galleggiare sul finto “ma” economico?

Forse ha ragione Xi Jinping: “La democrazia non è un valore, l'armonia è un valore”, dove ognuno sta al suo posto e svolge il ruolo che gli viene prefissato dal presidente semidio.

E chissenefrega di” pensare con la propria testa” se la bocca ha da mangiare in abbondanza? Chissenefrega “della libertà” se abbiamo soldi in tasca per andare dove ci pare?

Noi non siamo i buoni e i cinesi i cattivi, ma è certo che oggi siamo gli indiani e loro i cowboy.

Dialogare non significa cedere, ma accordarsi.

Commerciare non significa farsi acquistare, ma acquistare.

 E difendere i nostri valori culturali significa una cosa sola: difendere la libertà.

Sempre con la schiena dritta” ha concluso Sangiuliano.

(Elisabetta de Dominis)

 

 

 

 

 

IN CINA E ASIA – LA CINA ANNUNCIA

GLI OBIETTIVI PER IL 2023

 China-files.com – Vittorio Mazzieri e Francesco Mattogno – (6 Marzo 2023) – ci dicono:                                    

I titoli di oggi:

La Cina annuncia gli obiettivi per il 2023.

Due sessioni: nuove leggi per contrastare le sanzioni straniere.

Due casi di omicidi di donne in Cina scatenano il web.

Miliardario americano denuncia blocco dei depositi in Cina.

Leader dell’opposizione cambogiana condannato per tradimento.

Seul propone nuovo accordo sul lavoro forzato.

Nel giorno di apertura dell’Assemblea nazionale del popolo (Anp), il premier cinese Li Keqiang ha presentato il suo ultimo rapporto di lavoro prima del pensionamento.

Si tratta del resoconto con il quale la seconda carica del paese riassume le politiche chiave dell’anno appena trascorso e spiega i programmi per quello che verrà.

Come riportato dal “South China Morning Post”, prima di tutto” Li “ha dichiarato che l’obiettivo di crescita del PIL per il 2023 è stato fissato al 5%.

Al ribasso rispetto alla previsione del 5,5% del 2022, ma più alto dell’effettivo 3% poi raggiunto dalla Repubblica popolare.

Per quanto riguarda le altre prospettive economiche, il premier ha annunciato grandi finanziamenti a settori chiave come quello dei “chip” e maggiori investimenti nell’assistenza agli anziani e nelle politiche di natalità.

Vista l’instabilità economica globale, la politica monetaria dovrà essere “prudente” e “mirata”, ha detto.

Il governo dovrà avere un maggior ruolo nello sviluppo tecnologico ma, con l’obiettivo di mirare all’autosufficienza nella scienza e nella tecnologia, le imprese resteranno i “motori dell’innovazione”.

La Cina, ha dichiarato “Li”, cercherà di intensificare gli sforzi per attrarre investimenti esteri e adotterà le misure necessarie per aderite all’accordo di libero scambio del CPTPP, il “Partenariato transpacifico”.

 Il budget per la spesa militare del 2023 aumenterà del 7,2% rispetto all’anno scorso (lieve incremento rispetto al 7,1% del 2021).

“ Li “ha poi menzionato la “Belt and Road Iniziative” (BRI), attraverso la quale, secondo le sue parole, il governo cinese ha promosso anche nel 2022 una “cooperazione di alta qualità” con i paesi aderenti.

Sul piano politico, il premier ha sottolineato la “vittoria sul Covid” (senza mai menzionare la politica Zero Covid).

È stata elogiata l’applicazione del principio di “un paese due sistemi” valido per le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao, e affermato che la Cina adotterà misure risolute per opporsi all’indipendenza di Taiwan e promuovere la “riunificazione”.

 Giudizio positivo anche per la “diplomazia con caratteristiche cinesi” che ha “salvaguardato la sovranità e gli interessi” della Cina, promuovendo la “pace nel mondo” e la promozione del multilateralismo.

Secondo l’analisi del “Nikkei Asia”, durante il suo discorso di un’ora il premier ha menzionato la parola “stabilità” 33 volte, rendendolo uno dei termini più usati (non è mai stata citata invece la “prosperità comune”).

“ Li Keqiang “è stato applaudito sia all’inizio che alla fine dell’intervento:

al termine delle “due sessioni” a prendere il suo posto come nuovo premier della Repubblica popolare sarà molto probabilmente “Li Qiang”, che nel suo ultimo ruolo ha servito come Segretario del Partito comunista a Shanghai.

DUE SESSIONI: NUOVE LEGGI PER CONTRASTARE LE SANZIONI STRANIERE.

Negli ultimi anni, funzionari e aziende cinesi sono stati colpiti da sanzioni occidentali che sono state motivate, tra le altre cose, dalle accuse a Pechino per le violazioni dei diritti umani ai danni delle minoranze etniche.

La guerra in Ucraina potrebbe aggravare ulteriormente la situazione, visti i legami tra Cina e Russia.

Ma ora la Repubblica popolare ricorrerà a mezzi legali per contrastare l’impatto delle sanzioni straniere.

 Lo scorso sabato il portavoce della prima sessione del 14esima Assemblea nazionale del popolo (NPC)” Wang Chao” ha dichiarato che sono già iniziati i lavori a riguardo: già lo scorso anno era stata pubblicata una bozza di legge che prevederebbe l’adozione di contromisure nel caso di minaccia agli interessi chiave del paese.

La Cina, ha detto “Wang”, si oppone con fermezza al cosiddetto “giurisdizione a braccio lungo” (in inglese, “long-arm jurisdiction”), pratiche che consentono a un tribunale di esercitare la propria giurisdizione su persone e società in altri stati: senza menzionare direttamente gli Stati Uniti,” Wang” ha aggiunto che “alcuni paesi hanno continuate ad abusare dell’applicazione extraterritoriale delle loro leggi nazionali in violazione del diritto internazionale, con l’obiettivo di [..] servire i propri interessi”.

Di fronte a questi atti descritti come “egemonici e ostili”, è “assolutamente giustificabile e necessario” che il paese prenda provvedimenti.

MILIARDARIO AMERICANO DENUNCIA BLOCCO DEI DEPOSITI IN CINA.

Nonostante le rassicurazioni di” Li Keqiang” sull’apertura dell’economia cinese, le cose non sembrano più essere quelle dei tempi di “Deng Xiaoping”.

A pensarlo è il miliardario americano Mark Mobius, che ha dichiarato a FOX Business di non riuscire a portare i propri soldi fuori dalla Cina a causa dei controlli sui capitali esercitati dal governo di Pechino.

Secondo “Mobius” il denaro, depositato su un conto con” HSBC” a Shanghai, non è trattenuto esplicitamente.

 Per poterlo prelevare serve però un “resoconto degli ultimi 20 anni su come ho fatto quei soldi, pazzesco”, dice l’investitore.

Stando a quanto riportato da Reuters, “Mobius” è stato per decenni uno più grandi fautori degli investimenti nel mercato cinese, ma ora afferma che “il governo sta diventando sempre più orientato al controllo dell’economia”.

 Il suo suggerimento agli investitori è quindi di fare “molta attenzione”, e che India e Brasile potrebbero rappresentare dei mercati alternativi a quello della Repubblica popolare.

DUE CASI DI OMICIDI DI DONNE IN CINA SCATENANO IL WEB.

Due donne agli opposti dello spettro sociale, entrambe uccise dai propri mariti, hanno riacceso il dibattito sulle violenze domestiche in Cina.

La prima, una ventiquattrenne dello Henan, è stata pugnalata a morte la scorsa settimana.

I resti smembrati della seconda, la modella Abby Chou, sono stati ritrovati nei giorni scorsi.

Le indagini hanno inchiodato il marito e due membri della sua famiglia.

 Si tratta degli ultimi omicidi perpetrati a Hong Kong con dinamiche simili, tutti commessi da uomini ai danni di donne.

 Le reazioni sui social non si sono fatte attendere.

 Molti commenti hanno messo in discussione gli appelli del governo a sposarsi e a fare più figli, campagne e misure legislative lanciate da Pechino per compensare la crisi demografica del paese.

“Sembra che non sposarsi e non avere figli è davvero la cosa più sicura per noi”, ha scritto una utente sul web.

Se la nuova Legge sulla protezione dei diritti e degli interessi delle donne varata lo scorso ottobre include tutele legali per le donne vittime di violenza, le misure sono state criticate come poco concrete.

I servizi per l’infanzia sono inaccessibili a molti, e manca un sostegno inadeguato alle madri lavoratrici.

 Altri hanno sottolineato le difficoltà che emergono nell’abbandonare matrimoni violenti, soprattutto dopo l’introduzione di un “periodo di riflessione” obbligatorio di 30 giorni per le coppie che intendono divorziare.

 

HONG KONG: ANNULLATA ALL’ULTIMO MANIFESTAZIONE SUI DIRITTI DELLE DONNE.

Sabato è stata annullata all’ultimo minuto una manifestazione sui diritti delle donne a Hong Kong:

sarebbe stata la prima grande protesta per i diritti civili approvata nella Regione amministrativa cinese da anni.

Come riportato dalla Reuters, inizialmente la polizia aveva emesso una lettera di “non obiezione”, dando la possibilità agli organizzatori di indire la manifestazione a condizione che non fosse contraria agli interessi di sicurezza nazionale.

L’Associazione delle lavoratrici di Hong Kong (questo il nome dell’ente organizzatore) sarebbe quindi scesa in piazza per chiedere più diritti sul lavoro, diritti delle donne e uguaglianza di genere.

 Poco prima dell’inizio della manifestazione, però, ecco il dietrofront della polizia. Secondo le forze dell’ordine di Hong Kong alcuni gruppi violenti avrebbero avuto intenzione di unirsi alla protesta.

 Di fronte alle domande dei giornalisti, che chiedevano se la polizia volesse evitare una protesta che avrebbe potuto mettere in imbarazzo Pechino proprio durante le “due sessioni”, il sovrintendente Dennis Cheng si è però mostrato evasivo e non ha specificato le motivazioni precise alla base del cambio di linea.

LEADER DELL’OPPOSIZIONE CAMBOGIANA CONDANNATO PER TRADIMENTO.

Kem Sokha, oppositore del leader cambogiano Hun Sen, è stato riconosciuto colpevole di tradimento.

L’ex leader del partito “Cambodia National Rescue Party” (CNRP) era stato arrestato nel 2017 con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per spodestare Hun Sen.

 Il suo partito era stato disciolto subito dopo, e all’uomo era stato vietato di partecipare alla politica.

Ora, dopo anni, è giunto il verdetto.

 L’ambasciatore statunitense W Patrick Murphu ha definito le accuse del governo cambogiano “teorie cospirative inventate”.

Altre critiche giungono dai gruppi per i diritti umani: secondo Amnesty International il sistema giudiziario cambogiano ha “dimostrato ancora una volta la sua sconcertante mancanza di indipendenza“;

“Human Rights Watch “ha lanciato un appello affinché il politico venga rilasciato “immediatamente e senza condizioni”.

Il vicedirettore di HRW “Phil Robertson” ha aggiunto che la condanna è servita a “Hun Sen” come stratagemma per “eliminare il sistema democratico del paese”, e “spegnere ogni speranza che ci possano essere delle vere elezioni generali a luglio”.

SEUL PROPONE NUOVO ACCORDO SUL LAVORO FORZATO.

La Corea del Sud sospenderà il contenzioso intrapreso nei confronti del Giappone presso l’”Organizzazione mondiale del commercio” (Omc).

L’annuncio segue la proposta di un accordo con Tokyo riguardante lo sfruttamento del lavoro coreano in tempo di guerra.

Nel 2019, in risposta alla storica disputa, il Giappone aveva imposto alcuni limiti alle esportazioni verso la Corea del Sud di materiali per il settore tecnologico.

Secondo la nuova iniziativa, a compensare le vittime del lavoro forzato non sarà il governo nipponico, bensì una fondazione governativa supportata dalle società sudcoreane che avevano ricevuto fondi dal Giappone nell’ambito di un precedente accordo firmato nel 1965.

(Vittoria Mazzieri e Francesco Mattogno)

 

 

Economia cinese: Occhio

ai prossimi 15 anni.

  ispionline.it – (4 Mar. 2021) -Filippo Fasulo – ci dice:

 

Le Due Sessioni.

In occasione della riunione annuale plenaria del parlamento cinese, le cosiddette “Due Sessioni”, si definiscono le politiche economiche per il 2021, per i prossimi cinque anni e per i prossimi quindici anni.

Si mettono, dunque, le basi per uno sviluppo futuro che le aziende italiane devono ben conoscere per definire le proprie strategie.

Quanto all’anno in corso, l’interrogativo principale nelle anticipazioni era sulla eventuale rinuncia a un obiettivo di crescita del Pil predeterminato per il 2021.

 Una pratica questa che nel corso degli anni aveva costretto Pechino ad affannose rincorse all’ultimo decimale per non venire meno alla parola data, dovendo però fare affidamento sull’aumento della spesa pubblica, non più sostenibile dopo lo stimolo del 2008 che aveva compensato il calo della domanda internazionale in conseguenza della crisi finanziaria internazionale.

 La decisione finale è stata quella di fissare un target di crescita “superiore al 6%” che risulta inferiore a quello che si poteva evincere sommando i target fissati dalle province (+6,8%) e di quasi due punti sotto alle previsioni dell’IMF e della Banca Mondiale di un rimbalzo nel 2021 al +8%.

 Si tratta dunque di una scelta conservativa che lascia margine d’azione.

 

Nelle prossime settimane, inoltre, verrà approvato il “Quattordicesimo piano quinquennale”, le cui linee guida sono già state identificate in occasione del Quinto Plenum – la riunione plenaria del comitato centrale del PCC – dello scorso ottobre.

La novità è che per la prima volta da un orizzonte quinquennale ci si è posizionati su uno di quindici anni, identificando il percorso al 2035 come punto di passaggio fondamentale per conseguire i risultati di “piena modernizzazione” che nel 2049 potranno far dichiarare al Partito che il “Sogno Cinese preconizzato da Xi Jinping nel 2012 “è finalmente realtà.

Quali le linee allora?

 L’elemento centrale è quello della doppia circolazione, un’immagine costruita sull’integrazione fra una dimensione internazionale fatta di interscambio e flussi di investimento (circolazione esterna) e una domestica caratterizzata da consumi interni e aumento della qualità della produzione in funzione di una sostanziale autarchia tecnologica nei settori strategici (circolazione interna).

 Il punto fondamentale è la coesistenza delle due circolazioni, ma dando un sempre maggiore peso a quella interna.

 In sintesi, come riportato da “Zichen Wang” nel suo blog “Pekingnology” riprendendo le parole di “Xi Jinping”, tutto ruota attorno allo “spirito del Quinto Plenum” che si traduce in un contesto di fondo che prende il nome di “nuovo livello di sviluppo” e che caratterizzerà gli anni dal 2021 al 2049, con un “tagliando” nel 2035.

Una “nuova filosofia di sviluppo” che dovrà essere innovativo, coordinato, verde, aperto e condiviso; e, infine, un “nuovo paradigma di sviluppo” ovvero la messa in pratica di questi concetti e che prende le vesti della strategia della doppia circolazione.

Una sfida non semplice.

Bene, se la “teoria” è definita, resta da mettere a punto la “pratica”.

 Il 2020, infatti, si è chiuso dimostrando come la transizione da una economia dipendente dalle esportazioni e dagli investimenti – un problema già identificato ai tempi del “new normal” del 2015, quando si decise proprio di definire un nuovo modello di sviluppo passando dalla quantità alla qualità – non sarà un compito semplice.

I tempi diversi del manifestarsi dell’epidemia in Cina e nel resto del mondo e le risposte alla crisi economica non coincidenti – stimoli alla produzione in Cina e sostegno ai consumi nel resto del mondo – hanno generato un disallineamento per cui, proprio nell’anno in cui Pechino avrebbe dovuto ridurre il proprio surplus commerciale con gli USA come da accordi stipulati il 15 gennaio con Trump nel Phase-1 Agreement, la bilancia commerciale ha raggiunto il valore positivo di 535 miliardi di dollari con una crescita del 27%.

Allo stesso tempo, il contributo delle esportazioni nette alla crescita del Pil si è attestato nell’anno della pandemia al 28%, il valore di gran lunga più alto di questo secolo e che nell’ultimo decennio aveva sfiorato il 10% solo nel 2015 conseguendo invece valori negativi in più occasioni.

Specularmente, le vendite al dettaglio sono ben lontane dalla tanto auspicata “ripresa a v” – a un calo netto si affianca una altrettanto netta ripresa – che ha contraddistinto la produzione manifatturiera.

Se nel dicembre del 2019 il tasso di crescita mensile delle vendite era stabilmente attorno all’8%, il valore del 2020 è di un +3,9% frutto di un calo superiore al 20% nei primi due mesi dell’anno e di una ripresa che però non è mai andata oltre il +5% di novembre, rallentando ancora al +4,6% in dicembre.

I consumi, dunque, sono tornati a crescere già ad agosto, ma non hanno ancora ripreso il passo che avevano prima della pandemia.

La volontà di Pechino di spingere sui consumi interni è, però, ampiamente consolidata.

Tra gli ostacoli da superare c’è l’armonizzazione degli interessi di breve periodo – mantenere alti tassi di crescita attraverso export e investimenti – o conseguire la revisione strutturale verso i consumi interni, ma probabilmente a spese della crescita nell’immediato.

Avere un target di crescita non troppo elevato è allora sicuramente d’aiuto in favore delle riforme strutturali, anche se un eventuale risultato troppo sotto la previsione ormai consolidata di un rimbalzo all’8% nel 2021 potrebbe innestarsi come soglia, quantomeno psicologica, per valutare l’andamento della ripresa cinese.

Imprese italiane: che fare?

Definito il contesto, come dovrebbero comportarsi le aziende italiane in affari con la Cina?

Alcune utili indicazioni emergono dal rapporto elaborato dal “Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina “(CeSIF) intitolato “Il ruolo delle PMI nelle relazioni fra Italia e Cina”:

analisi di scenario e indicazioni di soci e imprese che contiene i risultati di un questionario sottoposto a 180 PMI rispetto alla loro attività con la Cina e le conseguenti percezioni.

In più di una risposta, le aziende hanno indicato di vedere la Cina soprattutto come mercato di sbocco per i propri prodotti, preferendo questa opzione all’indicazione della Cina come sede per la produzione di prodotti a basso costo.

Nonostante il prezzo inferiore sia ancora individuato come una delle ragioni della forza competitiva di aziende cinesi presenti nello stesso settore, nel questionario viene attribuita poca importanza alla possibilità di spostare la produzione in Cina per andare incontro a minori vincoli ambientali o contrattuali.

Una tale prospettiva ben si sposa con la promozione della circolazione interna, una indicazione del fatto che le aziende italiane hanno compreso pienamente il senso della transizione in corso della Cina da luogo della produzione a luogo del consumo.

Con una qualche sorpresa, dal questionario è inoltre emerso come la risposta alla crescita qualitativa della produzione industriale cinese non dovrebbe limitarsi a chiusure doganali, quanto piuttosto concretizzarsi in una crescita della competitività italiana grazie a maggiori investimenti in ricerca e sviluppo.

Si tratta di una dimostrazione di grande maturità e consapevolezza sulla dimensione dei processi in corso in Cina, che, come descritto in precedenza, hanno un orizzonte trentennale e dunque vanno affrontati alla radice.

Per cogliere le opportunità derivanti dalla crescita del mercato emerge con forza l’esigenza di presentarsi con partner italiani o europei dopo aver seguito un percorso di accompagnamento promosso da enti o associazioni di categoria nazionali o territoriali.

Infine, il digitale rappresenta allo stesso tempo la porta d’ingresso per chi ne ha compreso il valore in Cina e il massimo ostacolo per chi non riesce ad adattarsi a una modalità di vendita che con la pandemia ha preso ancora più piede.

 Nel 2020, mentre le vendite al dettaglio sono calate del 3,9%, quelle digitali sono cresciute del 14,8% e oggi rappresentano il 24,9% del totale.

 

 

 

Capitalismo cinese e americano,

chi è meglio? (l’Europa assente).

 

Madrugada.blogs.com – (09 gennaio 2023) - Andrea Gandini – ci dice:

(Andrea Gandini, Economista, analista del futuro sostenibile)

Quello che è capitato all’imprenditore (e maggior miliardario) cinese “Jack Ma” è significativo della differenza che forse correrà tra il capitalismo americano e quello cinese nei prossimi anni.

E l’Europa (se ci fosse) avrebbe molto da imparare su come costruire una società migliore di quella dei due poli/leader mondiali.

Jack Ma, un insegnante di inglese, ha inventato nel 2011 Alibaba, un e-commerce molto più grande di Amazon;

 poi il pagamento elettronico con Alipay (usata da oltre un miliardo di cinesi).

Ha creato una sua banca ed è insieme un imprenditore e un banchiere-finanziario, il più ricco cinese (50 miliardi di patrimonio nel 2020 per Forbes).

Il presidente cinese “Xi Jinpig” però non vede più di buon occhio questi “miliardari privati “che fanno quello che vogliono (seppure nelle norme cinesi) e, a mio avviso, lo Stato cinese ha deciso di “condizionare” i suoi colossi tecnologici (Alibaba, Tencent, ByteDance e le altri grandi imprese) e finanziari regolamentandone l’attività in settori che hanno raggiunto un’influenza senza pari sulla vita quotidiana dei cinesi.

La leadership comunista ha così deciso due anni fa, osservando formalmente le leggi cinesi, di avviare una “indagine” su “ANT Group” (che controlla Alibaba) che è sfociata in una multa da 2,8 miliardi di dollari, nello spezzettamento della società monopolista di e-commerce, nella vendita del quotidiano” South China Morning Post”, nell’impedire la quotazione alla borsa di Hong Kong (che avrebbe portato all’ingresso di azionisti stranieri).

 L’ultimo atto è stato ridimensionare “Jack Ma” (sceso dal 53% al 6,2% dei diritti di voto), per cui ora comanda un consiglio di 10 persone, tra cui lui (il fondatore), un rappresentante del personale, uno del management, e altri 7 “azionisti”, dietro cui si nasconde sicuramente lo Stato Cinese (e la politica).

Gli Stati Uniti hanno permesso alla Cina di entrare nel WTO nel 2001 sotto la pressione delle multinazionali americane e di una nuova fase del turbo-capitalismo, per assemblare nelle affidabili fabbriche cinesi i loro prodotti, realizzando profitti molto maggiori per il minor costo del lavoro cinese rispetto a quello americano.

 La Cina garantiva in cambio di diventare una “economia di mercato”, dando alle imprese occidentali gli stessi diritti che hanno in tutto il mondo (nel mercato “libero”) come, per esempio, quello di poter acquistare il controllo anche di aziende cinesi o il 50%, cosa che non è mai avvenuta.

 Nessuno però in questi 22 anni in Occidente ha mai protestato…forse per non compromettere gli affari delle imprese Usa e occidentali troppo grandi.

In questi ultimi 20 anni si sono così avvantaggiati molti milionari americani, è decollata la finanza, gli Stati si sono indebitati moltissimo (il debito pubblico e privato globale ha superato i 300mila miliardi di dollari, pari al 360% del pil mondiale, era il 100% nel 1970), ma anche i cinesi sono diventati milionari, tra tutti “Jack Ma”.

La Cina pare voglia cambiare:

dopo 20 anni di liberismo cinese, mette sotto controllo sia la finanza privata che le grandi aziende (non solo tech) onde evitare di perderle (tramite quotazione alle borse di Hong Kong o altrove), e per indicare come Stato quali sono i settori da sviluppare e usare parte dell’arricchimento per redistribuirlo alle zone povere.

 Lo Stato cinese vuole dire la sua su quale sviluppo, per esempio, indicare l’importanza dei semiconduttori (di cui oggi Taiwan è il primo produttore mondiale e su cui ha mire militari) che la Cina considera strategico per il suo futuro.

 Inoltre vuole redistribuire parte della ricchezza dei miliardari per creare più eguaglianza e investire nelle aree rurali.

Il paradosso è che sia uno Stato dispotico che si preoccupa dei divari sociali e vuole che sia il pubblico e i cittadini a discutere e decidere quali siano gli orientamenti a lungo termine della società (e non le imprese o la finanza cinese).

Un tema che dovrebbe riguardare piuttosto “le nostre democrazie, sempre più disinteressate alla scuola e all’indipendenza della stampa (che evita di fare buone domande…)”, dice nel suo libro “En finir avec le règne de l’illusion financière” Jacques de Larosière (per 20 anni direttore del Tesoro francese, direttore del FMI e governatore della banca di Francia).

È molto preoccupato che “la socializzazione del rischio di un debito enorme” possa riversarsi sulle economie occidentali desertificando redditi e lavoro e “di Governi che vivono nella paura di mercati finanziari ormai dominanti”.

Per l’Occidente le azioni cinesi sono dispotiche e violazioni del “libero mercato”, ma non è detto che la maggioranza dei cittadini (cinesi, ma forse anche americani ed europei) sarebbe contraria a vedere ridimensionato il ruolo dei grandi miliardari privati e della finanza, per dare un ruolo maggiore allo Stato nell’economia, o riportare la finanza a fare il suo mestiere al servizio di imprese e famiglie (anziché speculare) o usare parte dell’immensa ricchezza privata per aiutare i poveri.

È su queste questioni dirimenti per le persone in carne ed ossa che si confronteranno Cina e Stati Uniti nel prossimo decennio e potrebbe proprio succedere che la “competizione” aiuti a riformare il capitalismo a “quote più normali”, come successe nei primi gloriosi 30 anni del secondo dopoguerra nella competizione tra Usa e URSS.

Il problema è l’Europa che non c’è più.

Siamo diventati alleati e proni agli Stati Uniti.

In Europa questa iniziativa pubblica potrebbe anche venire più che dai partiti, dalle Associazioni dei consumatori e dai sindacati che potrebbero indicare cosa fare e comunque avviare la discussione pubblica.

L’esatto contrario di quanto avvenuto col “PNRR”, dove tutto è stato deciso dall’alto, senza alcuna consultazione pubblica e popolare, dei Comuni, tantomeno delle associazioni o dei sindacati, per cui ci troveremo bellissime realizzazioni, spesso costosissime, a volte inutili e, se va bene, che poco rispondono alla “Ripresa”, ma, più spesso a visioni di breve periodo che nulla hanno a che fare con la ripresa dell’intrapresa e del lavoro.

Come nel caso delle mille case della salute, dove l’impossibilità di assumere personale, ci darà bellissime strutture piene di attrezzature senza personale.

Si deve prendere atto che redistribuire la ricchezza o indicare quali siano i veri bisogni da soddisfare per l’umanità non interessa al capitalismo liberista.

Solo un’azione collettiva promossa dalla partecipazione dei cittadini tramite le sue associazioni, può individuare i veri bisogni dell’umanità, non certo il “libero mercato”.

 La crisi del capitalismo in Usa e Europa, al di là dello stereotipo per cui noi siamo “liberi” e “loro” (cinesi, russi, ecc.) sono sotto regimi dispotici (che è vero), dimostra che se, accanto ai diritti civili occidentali, non si affermano anche i diritti sociali sostanziali, non ci potrà essere vero sviluppo e vero consenso.

Non sarà gridando che in “Oriente” non sono rispettati come da noi i diritti civili, che si potrà invertire l’enorme e crescente disagio sociale (che procede da 20 anni), ma aumentando l’occupazione, i salari, il welfare che conta (scuola, sanità, trasporti e pensioni).

 Infine riducendo le crescenti ed enormi disuguaglianze.

 

Lo strapotere cinese sul litio

minaccia il futuro della mobilità.

Wired.it – Amit Katwala – (28 ottobre 2022) – ci dice:

 

Il dominio della Cina nel settore delle batterie agli ioni di litio rischia di ostacolare il passaggio dell'Occidente ai veicoli elettrici.

Il porto industriale di Kwinana, sulla costa occidentale dell'Australia, è un microcosmo dell'industria energetica globale.

Dal 1955 ha ospitato una delle più grandi raffinerie di petrolio della regione, di proprietà della British Petroleum, quando si chiamava ancora Anglo-Persian Oil Company.

Un tempo era responsabile del 70 per cento delle forniture di carburante dell'Australia Occidentale.

 Le carcasse metalliche dei vecchi serbatoi dominano ancora la costa, arrugginendosi lentamente con l'aria salata.

La raffineria ha chiuso nel marzo 2021, ma sotto la terra rossa della regione non c'è solo il petrolio: l'Australia ospita anche quasi la metà delle forniture mondiali di litio.

I camion e i macchinari sono tornati a ronzare, ma ora fanno parte della corsa per assicurarsi le fonti di energia pulita del futuro, una corsa dominata dalla Cina.

Il dominio cinese.

Negli ultimi 30 anni, il litio è diventato una risorsa preziosa. È un componente essenziale delle batterie del telefono o del portatile su cui state leggendo questo articolo, oltre che delle auto elettriche che presto domineranno le strade.

Ma fino a poco tempo fa il litio estratto in Australia doveva essere raffinato e lavorato altrove.

E quando si tratta della lavorazione di questo materiale, la Cina ha una marcia in più.

Nel 2021 superpotenza si è accaparrata circa il 40 per cento delle 93mila tonnellate di litio grezzo estratte a livello globale.

In tutta la Cina centinaia di “gigafactory “stanno sfornando milioni di batterie per veicoli elettrici sia per il mercato nazionale che per le case automobilistiche straniere come Bmw, Volkswagen e Tesla.

Secondo le stime di “BloombergNef”, la quota di mercato cinese delle batterie agli ioni di litio potrebbe raggiungere l'80 per cento.

Sei dei dieci maggiori produttori di batterie per veicoli elettrici hanno sede in Cina e uno di loro, Catl, produce tre batterie su dieci nel settore a livello globale. Questa posizione dominante si estende alla catena di approvvigionamento.

Le aziende cinesi hanno firmato accordi preferenziali con i paesi che hanno grandi disponibilità di litio e hanno beneficiato di ingenti investimenti governativi nelle complesse attività di estrazione e produzione.

La situazione sta innervosendo il resto del mondo, con gli Stati Uniti e l'Europa che cercano di interrompere la propria dipendenza dal litio cinese prima che sia troppo tardi.

Una batteria per un'auto elettrica contiene tra i 30 e i 60 chilogrammi di litio.

Si stima che entro il 2034 i soli Stati Uniti avranno bisogno di 500mila tonnellate di litio non raffinato all'anno per la produzione di auto elettriche.

Si tratta di una quantità superiore all'offerta globale del 2020.

Alcuni esperti temono il ripetersi della crisi petrolifera scatenata dall'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, e che le conseguenti tensioni geopolitiche sfocino in una guerra di sanzioni.

Uno scenario del genere potrebbe portare la Cina a interrompere la fornitura di batterie in una fase in cui le case automobilistiche occidentali ne hanno grande bisogno per sostenere la transizione alla mobilità elettrica.

La rincorsa di Europa e Stati Uniti.

“Se la Cina decide di dedicarsi esclusivamente al mercato interno, le batterie agli ioni di litio saranno più costose al di fuori della Cina.

Ciò rende gli sforzi occidentali per espandere la capacità di produzione delle batterie più urgenti che mai”, spiega “Andrew Barron,” professore della” Swansea University”.

Questi sforzi stanno prendendo forma, anche se lentamente. Se tutto va secondo i piani, negli Stati Uniti sorgeranno 13 nuove “gigafactory entro il 2025”, a cui se ne aggiungeranno altre 35 in Europa entro il 2035.

Queste “gigafactory” avranno però bisogno di parecchio litio.

A marzo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato l'intenzione di utilizzare il “Defense production act “per finanziare l'estrazione di litio e di altri materiali critici per le batterie a livello nazionale sotto l'egida della sicurezza nazionale.

 Dall'altra parte dell'Atlantico, l'Unione europea sta portando avanti una legislazione per cercare di creare una catena di approvvigionamento di batterie ecologiche in Europa, con particolare attenzione al riciclo del litio.

Tuttavia tra la miniera e la produzione manca ancora un tassello importante. Trasformare il minerale di litio nel carbonato o nell'idrossido di litio necessario per le batterie è un'operazione costosa e complessa.

Ci vogliono anni per far decollare un impianto di lavorazione o una “gigafactory”, e gli Stati Uniti potrebbero impiegare decenni e una cifra stimata in 175 miliardi di dollari per raggiungere la Cina, che controlla almeno i due terzi della capacità di lavorazione del litio a livello mondiale.

Una posizione che potrebbe garantirle un dominio incontrastato nel mercato delle batterie per gli anni a venire.

Senza investimenti urgenti in questa fase intermedia, il litio estratto da nuove miniere negli Stati Uniti e in Europa (anche nel vecchio continente si torna a scavare) potrebbe dover essere spedito in Asia e poi nuovamente raffinato prima di poter essere utilizzato nelle auto elettriche, aumentando le emissioni, minando l'indipendenza energetica delle regioni e fornendo di fatto un assist alla Cina.

L'onnipresenza cinese.

A prima vista, “Kwinana “sembra muoversi nella giusta direzione.

 A nord della vecchia raffineria è stato costruito un nuovo impianto per la lavorazione del litio, che a maggio ha trasformato per la prima volta con successo un minerale di litio chiamato” spodumene” in idrossido di litio pronto per le batterie.

Ma nemmeno questo dà all'Australia la possibilità di raffinare e vendere liberamente il proprio litio.

 L'impianto è infatti una joint venture e il suo azionista di maggioranza è “Tianqi Lithium”, una società mineraria e manifatturiera cinese che controlla quasi la metà della produzione mondiale di litio.

Nella catena di approvvigionamento globale delle batterie, la Cina è ovunque.

Tianqi Lithium” possiede anche partecipazioni in “Sqm”, la più grande società mineraria cilena, e in “Greenbushes”, la più grande miniera di litio australiana.

Sia “Tianqi Lithium” che la sua rivale nazionale “Ganfeng Lithium” hanno firmato accordi in tutto il "triangolo del litio" del Sud America, una regione delle Ande ricca di minerali all'incrocio tra Argentina, Bolivia e Cile.

La storia si ripete anche per altri materiali rari necessari per le batterie: la Cina controlla il 70 per cento dell'industria mineraria della Repubblica Democratica del Congo, dove si trova quasi tutto il cobalto mondiale, un altro componente fondamentale delle batterie agli ioni di litio.

Oltre a bloccare le forniture globali di litio, la Cina ha anche iniziato a espandere la produzione interna: ora è il terzo produttore di litio dopo Australia e Cile, sebbene detenga meno del 10 per cento delle forniture mondiali.

Questo dominio non si è concretizzato da un giorno all'altro.

 Nel 2015 la Cina ha fatto del litio una priorità nazionale nell'ambito della sua strategia industriale "Made in 2025".

Circa 60 miliardi di dollari in sovvenzioni per i veicoli elettrici hanno contribuito a creare un mercato e la relativa catena di fornitura di batterie.

Le aziende produttrici di batterie hanno investito miliardi nelle fonti nazionali di litio con modalità irrealizzabili in altre parti del mondo.

I progetti nel settore al di fuori della Cina sono stati alla mercé dei mercati, rallentando ed espandendosi a seconda del prezzo del litio.

Ma gli investimenti interni sono stati quasi costanti.

Di conseguenza, la Cina è l'unico paese in grado di produrre litio dalle materie prime alle batterie finite senza dover ricorrere a prodotti chimici o componenti importati.

Una complessa co-dipendenza.  

Ma la Cina non produce abbastanza litio per soddisfare il suo appetito interno.

Inoltre, solo il 10 per cento circa del materiale che entra in una batteria è effettivamente litio.

 Il paese si affida ancora alle importazioni di cobalto, nichel, rame e grafite, che per ora garantiscono un certo grado di cooperazione reciproca.

 "È davvero un sistema intrecciato.

 Il mondo occidentale e la Cina sono in un certo senso co-dipendenti.

 Se la Cina decide di non esportare batterie per veicoli elettrici, i paesi occidentali potrebbero decidere di non esportare il nichel in Cina.

 La Cina non ha le raffinerie per produrre nichel di massima purezza", spiega “Lukasz Bednarski”, analista di materiali per batterie e autore di Lithium: The Global Race for Battery Dominance and the New Energy Revolution.

L'equilibrio di potere potrebbe cambiare quando entrambe le parti investiranno nell'”indipendenza energetica”.

Mentre l'Occidente si affretta a costruire miniere e fabbriche, la Cina sta iniziando a sfruttare fonti inesplorate di litio nello Xinjiang e nei laghi salati dell'altopiano tibetano.

 Non senza costi umani:

 un reportage del New York Times ha trovato prove di lavoro forzato nelle attività minerarie nello Xinjiang, un potenziale punto di rottura se le sanzioni volte a proteggere la minoranza uigura del paese dovessero impedire alle aziende occidentali di importare prodotti chimici estratti in quella regione.

In definitiva, la disponibilità di litio potrebbe non essere un problema.

Con l'aumento dei prezzi, potrebbero diventare economicamente più vantaggiose nuove tecnologie, come per esempio, un metodo per estrarre il litio dall'acqua di mare.

 Nel breve, tuttavia, le difficoltà di approvvigionamento potrebbero ostacolare il passaggio ai veicoli elettrici: "Potrebbero verificarsi degli intoppi negli anni in cui il prezzo della materia prima sale alle stelle e si verificano temporanee carenze sul mercato", sottolinea Bednarski.

I produttori di auto cinesi in tal caso avranno un enorme vantaggio.

Già oggi, marchi cinesi come “Nio” e produttori europei di proprietà cinese come “Mg” stanno lanciando in Occidente i veicoli elettrici più economici sul mercato. "Le aziende occidentali di proprietà cinese avranno un enorme vantaggio rispetto ai loro concorrenti europei o statunitensi", spiega Barron.

Una volta operativo, “l'impianto di Kwinana” spedirà all'anno 24mila tonnellate di idrossido di litio australiano.

Ma il materiale, estratto in Australia per le batterie costruite in Corea del Sud e Svezia e destinate ai veicoli elettrici venduti in Europa e negli Stati Uniti, dipende dalla Cina in ogni fase del suo viaggio.

 Lo scheletro della vecchia raffineria è ancora in piedi, un monumento alla corsa secolare ai combustibili fossili che ha rimodellato il mondo.

Oggi però è iniziata una nuova corsa, e a sedere al posto di guida c'è saldamente la Cina.

 

 

 

 

Globalizzazione,

bolle e crack bancari.

Sbilanciamoci.info - Alessandro Messina – (14 Marzo 2023) – ci dice:

 

Una nuova gallina dalle uova d’oro è rimasta spennata. Si tratta della ormai celeberrima Silicon Valley Bank, fallita pochi giorni fa per una maldestra gestione finanziaria. Vediamo storia, modello di business, buone e cattive notizie collegate a questa vicenda.

La storia: nata a fine anni ‘80, la SVB è una banca che ha registrato la sua crescita esplosiva negli ultimi tre anni (a fine 2022 i depositi totali ammontavano a circa 200 miliardi, saliti del 233% dai circa 60 di fine 2020), e la cui parabola ha affiancato quella delle start-up, dei fantomatici “unicorni” (società che dopo pochi anni dall’avvio promettono rendimenti 10-20-30 volte il capitale investito) e, per dirla tutta, del mito dei soldi facili che tanto piace a Wall Street.

 Il Ceo Greg Becker, in questa intervista di due anni fa, la presentava come “l’unica banca globale dell’innovazione”, da cui il richiamo – nel nome – all’area geografica che più l’immaginario di questo ventennio associa alle start-up tecnologiche, appunto la Silicon Valley, situata a sud di San Francisco.

Il modello di business: la SVB aveva molte delle caratteristiche peggiori dell’economia delle start-up che dichiarava di voler finanziare.

 Viveva di marketing, di aspettative visionarie generate nei clienti, ma poi usava fragili schemi finanziari alla Ponzi (o alla Madoff, se preferite un caso più recente).

Raccoglieva a vista o a breve termine soldi da clienti attratti dal mito delle start-up e li investiva in titoli in grado di dare un rendimento adeguato a sé e per i propri depositanti, perché a lungo termine.

 Un gioco pericoloso per qualunque banca, basato sul disallineamento tra durata media della raccolta e durata media degli investimenti, e che ha potuto funzionare bene negli anni recenti, con i rendimenti dei mercati che viaggiavano col segno più a due cifre, e con tanta liquidità a costo zero o quasi sui conti correnti.

Ma quando il mercato ha girato, nel 2022, causa inflazione, fine del quantitative easing, guerra e connessi spettri di recessione, tutta la pericolosità del gioco è emersa e la SVB ha cominciato a dover registrare perdite su quelle parti di attivo collegate al prezzo dei titoli obbligazionari o governativi su cui aveva investito gran parte del proprio portafoglio. Roba da manuale di economia…

Le buone notizie: il governo Usa è intervenuto prontamente a garanzia dei depositi, la dimostrazione che la crisi Lehman del 2008 è servita a qualcosa (quindici anni fa l’amministrazione Bush scelse la strada del fallimento della storica banca dei fratelli Lehman, in crisi per lo scoppio della bolla dei subprime, sottovalutando gravemente gli effetti sistemici che da lì si sarebbero innescati). Inoltre, SVB è parecchio più piccola, con un attivo di circa 212 miliardi di dollari, meno del 25 per cento a valori correnti di quanto fosse Lehman (l’attivo di Lehman era 640 miliardi nel 2008, equivalenti a circa 864 miliardi odierni).

Va anche sottolineato che la SVB è andata in crisi perché i propri depositi sono più corporate – di imprese o intermediari che investono in imprese – che retail, di persone.

Dunque sono significativamente più grandi della media.

Una maggiore frammentazione della raccolta avrebbe reso meno impattante la corsa allo sportello che si è scatenata la scorsa settimana.

Questa non è propriamente una buona notizia, ma rende meno minacciosa la possibilità di estensione della crisi al sistema bancario più tipicamente rivolto alle famiglie e alle piccole imprese.

Le cattive notizie: non sono del tutto scongiurati i rischi di crisi sistemica, perché sempre più fitte sono ormai le connessioni globali tra i mercati, e grande è la bolla della finanza – soprattutto di fondi e operatori speculativi – che negli ultimi anni ha alimentato le ipertrofiche valutazioni delle start-up.

Il mondo di queste ultime già sta soffrendo:

è stato calcolato, ad esempio, che il 34 per cento delle imprese tecnologiche innovative nel Regno Unito, tra quelle investite da fondi di venture capital, ha un deposito presso la SVB e oggi rischia un congelamento o comunque difficoltà nell’accesso alle proprie risorse finanziarie.

Non è tutto. In fondo a questo nuovo crack americano c’è una pessima notizia: il dover constatare che a quindici anni dalla “Grande Crisi Finanziaria”, appunto scatenatasi con il fallimento Lehman, tutto nella finanza mondiale è cambiato perché nulla cambiasse.

Le stesse illusioni ottiche del mercato e dei suoi opinion leader, la medesima avidità e disonestà (almeno professionale) di alcuni manager, l’identica scempiaggine del parco buoi di aspiranti “Gordon Gekko”, la sconcertante debolezza dei sistemi di supervisione e vigilanza.

E ciò si è ripresentato nonostante siano state nel frattempo scritte migliaia di nuove pagine di regole, imposte decine di nuove funzioni organizzative, affermate sofisticate modalità di automazione nei controlli dei dati e delle procedure a tutte le banche nel mondo, o quasi.

 

Tra pochi giorni uscirà, edito da” Altreconomia”, “Money for Nothing”, un volumetto curato insieme a “Dario Carrera”, frutto dell’omonimo ciclo di incontri svoltisi nel corso del 2022.

Costruito per evidenziare come la finanza, dopo tanto parlare, è tornata ad inseguire i soldi per i soldi, senza preoccuparsi affatto di usarli al meglio per l’economia reale, le persone e l’ambiente, è stato pensato soprattutto per alfabetizzare, per spiegare ai non esperti perché occuparsi di finanza sia importante, e motivare a farlo.

Ci è capitato di pensare nelle settimane passate, rileggendo le bozze, che i toni degli interventi siano marcati di un eccessivo pessimismo.

Che non è vero che la finanza non ha fatto progressi.

I fatti della SVB ci aprono (nuovamente) gli occhi. E fanno sospettare che il pubblico di “Money for Nothing” non debba essere solo quello dei non addetti ai lavori.

 

 

 

 

Trump, Biden e il “decoupling”.

Sbilanciamoci.info - Vincenzo Comito – (6 Dicembre 2022) – ci dice:

 

Gli Stati Uniti hanno scatenato una vera e propria guerra economica contro la Cina sul fronte delle tecnologie.

In particolare sui chip.

Biden chiede agli alleati riluttanti di seguire la stessa linea.

Ma si scopre che neanche gli Usa possono fare a meno della Cina, persino per mandare avanti la sua industria bellica.

Gli Stati Uniti hanno di recente scatenato, prima con Trump, ora ancora più fortemente con Biden, una lotta su tutti i fronti per tentare di mantenere l’egemonia mondiale nei confronti della Cina, che sta conquistando posizioni sui fronti dell’economia, della tecnologia, degli armamenti.

Tale lotta per l’egemonia è oggi il fatto più importante rilevabile sulla scena geopolitica internazionale e lo dovrebbe presumibilmente rimanere ancora a lungo.

 Quindi sembra importante mantenere accesi i riflettori sui vari aspetti della contesa.

In questo quadro, vogliamo segnalare alcuni aspetti di un più o meno possibile “decoupling” o dei tentativi al riguardo tra le due economie, riprendendo nella sostanza alcune notizie apparse di recente sulla stampa internazionale.

Ricordiamo che abbiamo già affrontato il tema in passato e più recentemente in un articolo apparso su questo stesso sito il 14 novembre 2022 e relativo al caso tedesco, scritto nel quale indichiamo come il paese teutonico e le sue grandi imprese si mostrino piuttosto ostili al “decoupling” di Biden, anche se all’interno del paese non manca certo un partito americano a livello politico ed economico.

Ma l’ostilità tedesca non appare la sola questione che si oppone alla strategia Usa.

Il commercio Usa-Cina dopo Trump.

Negli ultimi decenni il commercio internazionale ha mostrato una forte dinamica, crescendo normalmente ogni anno all’incirca il doppio dell’aumento del Pil.

Più di recente, tale crescita ha teso a rallentare e l’aumento del commercio si è mosso più o meno in sintonia con quello del Pil, sia pure con oscillazioni anche forti di anno in anno, a causa in particolare dell’effetto della pandemia da Covid-19.

Il rallentamento recente e di fondo degli scambi appare collegato, più in generale, ad un insieme di fattori sui quali non insistiamo.

Va sottolineato come la dinamica di crescita del commercio estero della Cina sia sostanzialmente sempre stata maggiore o molto maggiore di quella mondiale e quindi come la sua quota di mercato sul totale sia cresciuta costantemente sino ad oggi, sino a farne il primo paese a livello mondiale in tale campo, prima degli Stati Uniti e della Germania, che seguono subito dopo nella classifica degli ultimi anni.

Così, se guardiamo al comparto delle sole merci, la quota controllata del paese asiatico si collocava ormai nel 2021 intorno al 15% del totale mondiale.

Ancora nei primi nove mesi del 2022 l’insieme del commercio cinese con l’estero è cresciuto dell’8,7%, anche se si notano ormai chiaramente i segni di un rallentamento nella sua espansione.

Tale rallentamento appare legato a molteplici fattori, quali l’influenza della politica di stretto controllo del Covid nel paese, il rallentamento della crescita del suo Pil – crescita che appare in genere avere un andamento simile a quella del commercio – la progressiva internalizzazione delle catene di fornitura relative alle produzioni da parte del paese asiatico, i tentativi di “decoupling”, infine, da parte statunitense. A proposito di quest’ultimo tema può essere utile esaminare un poco più da vicino i risultati degli sforzi compiuti da Trump e poi da Biden per frenare l’espansione commerciale cinese.

 Lo fa ad esempio The Economist in un articolo recente (The Economist, 2022, a).

La rivista riporta i dati ufficiali statunitensi pubblicati nel novembre 2022 che riferiscono come la quota cinese delle importazioni statunitensi sia scesa tra il 2018 e il 2021 di quattro punti, dal 21% al 17%.

La Cina rappresentava circa la metà delle esportazioni asiatiche nel paese, mentre ora rappresenta soltanto poco più di circa un terzo.

Il calo si è fatto sentire in particolare per le merci maggiormente colpite dalle tariffe di Trump, mentre in quelle non toccate dai provvedimenti si registra ancora una rilevante espansione.

 Parallelamente, d’altro canto, la Cina importa meno merci dagli Stati Uniti.

Lo spazio perso dalla Cina non è stato coperto da produttori statunitensi, ma è stato subito occupato da altri paesi asiatici, in particolare da Vietnam, Bangladesh, Tailandia, India, Indonesia.

Si potrebbe quindi concluderne che la strategia di Trump abbia pagato.

Ma in realtà molte merci cinesi che prima arrivavano direttamente negli Stati Uniti ora compiono un doppio viaggio, passando per altri paesi prima di sbarcare nella loro destinazione finale e quindi queste non figurano come provenienti dalla Cina.

Bisogna sottolineare, come fa l’Economist, che molti dei componenti utilizzati in Vietnam o in India e negli altri paesi asiatici per produrre dei beni poi esportati negli Usa provengano sempre dalla Cina, compensando quindi quanto ufficialmente perduto dal paese, anche se Pechino vede ridursi un poco il suo valore aggiunto a favore dei paesi di transito (The Economist, 2022, a).

 

Biden e i chip.

Con i suoi Chip and Science Act e Inflation Reduction Act” gli Stati Uniti hanno scatenato una vera e propria pesantissima guerra economica contro la Cina, in particolare sul fronte delle tecnologie.

Nella sostanza verrebbe proibita ogni collaborazione con il paese asiatico sul fronte dei chip, delle vetture elettriche e delle relative batterie, nonché delle energie rinnovabili, mentre si rinnovano le pressioni sugli alleati perché seguano la linea di Washington. 

Ma appare diffuso un certo scetticismo sul successo di tali iniziative. Nel campo delle vetture elettriche e delle batterie la Cina controlla il 60% del mercato mondiale e su quello dei pannelli solari il 70%, per cui appare molto difficile portare avanti i piani ambientali senza la Cina.

Un “decoupling di successo” richiederebbe forse una decina di anni e grandi investimenti (Escande, 2022).

Il cuore della lotta riguarda i chip.

Un biglietto di presentazione come risposta cinese al recente blocco Usa è stato l’annuncio di qualche settimana fa da parte della cinese “YTMC “che un suo nuovo chip di memoria sarebbe più avanzato di quelli della migliore concorrenza coreana che domina ad oggi il settore.

 Peraltro, bisogna immaginare che qualche difficoltà le nuove disposizioni porranno al paese asiatico, anche se nel lungo termine esse tenderanno a spronare le imprese e i politici del paese ad accelerare gli sforzi in vista del raggiungimento di una rilevante autonomia nel settore.

Biden ha cercato il sostegno dei suoi alleati in questa guerra, ma essi, da Singapore al Giappone, dalla Corea del Sud a Taiwan, sia pure con diverse sfumature, sono piuttosto riluttanti a seguire.

In diversi, pur essendo fedeli alleati degli Stati Uniti, non hanno alcun desiderio, al contrario degli Usa, di una guerra manichea delle superpotenze;

per altro verso, hanno dei legami economici profondi con la Cina che non avrebbero nessuna intenzione di rompere (The Economist, 2022, b).

Così ad esempio il 60% dei chip che Taiwan produce sono venduti alla Cina.

La Olandese “ASML”, che controlla il mercato mondiale delle macchine più sofisticate esistenti al mondo per la produzione dei chip, non accetta la richiesta di Biden di bloccare la vendita di quelle meno sofisticate alla Cina, sostenuta in questo dal suo governo;

un atteggiamento per molti aspetti simile mantiene il governo giapponese, appoggiando in questo l’orientamento dei suoi produttori di macchinario per chip, che vendono un terzo dei loro prodotti in Cina, mentre quelli statunitensi stanno individuando delle vie per in qualche modo circonvenire le regole del governo e comunque stanno cercando di spingere il governo a modificarle.

 Si calcola in effetti che se le imprese americane del settore smettessero del tutto di vendere i loro prodotti in Cina, il loro fatturato si ridurrebbe del 37%.

Il governo Usa ha dovuto concedere alle imprese coreane un anno di respiro sulle restrizioni alla Cina;

 e così i coreani hanno promesso di vendere ai cinesi anche i chip più avanzati (Goldman, 2022).

L’atteggiamento cinese appare, almeno ufficialmente, molto pragmatico.

Così un dirigente di “Baidu”, mentre da una parte afferma che le misure Usa avranno un impatto limitato sulle operazioni dell’azienda, dichiara che tali misure offrono delle buone opportunità di crescita alle imprese cinesi del settore.

Il manager di un’altra impresa cinese dichiara che le tecnologie per le applicazioni avanzate tipiche della quarta rivoluzione industriale non hanno bisogno dei chip più sofisticati (Goldman, 2022).

I problemi del settore militare Usa.

Nella caccia agli untori cinesi sembra che si pongano problemi di forniture tecnologiche anche in ambito militare (Honrada, 2022).

 Il Pentagono ha scoperto che nei suoi caccia F-35 erano inseriti dei magneti prodotti nel paese asiatico;

ma non si tratta del solo caso di infiltrazione nelle apparecchiature militari statunitensi.

Sempre di recente si è rilevato in effetti che la Cina produce l’80% del cobalto mondiale, che viene utilizzato negli Stati Uniti nella tecnologia stealth, nella guerra elettronica e in certe munizioni.

 Un discorso analogo si può fare per un altro materiale sensibile: il “samario”.

Persino dei microchip cinesi si ritrovano in alcune applicazioni sensibili.

 Per altro verso, appare praticamente impossibile controllare tutti i componenti inseriti nelle miriadi di catene di fornitura cui fa riferimento il sistema militare statunitense.

Si sta ora cercando di correre ai ripari.

Conclusioni.

Il tentativo Usa di bloccare a livello economico e politico l’ascesa della Cina, in particolare sul fronte tecnologico, anche se registra qualche successo, appare complessivamente pieno di difficoltà.

 L’esito del conflitto appare per alcuni versi incerto, ma pensiamo, e non siamo i soli, che mentre l’offensiva di Biden può creare qualche difficoltà alla Cina nel breve termine, nel medio-lungo periodo il paese è per molti aspetti in grado di sormontarle ed uscire rafforzato dal conflitto.

 Peraltro bisogna immaginare che tra qualche tempo Biden cercherà di appesantire le misure esercitando maggiori pressioni sui suoi alleati. 

Intanto si delinea un altro ed imprevisto tipo di “decoupling”: Biden, in particolare con il suo” Inflation Reduction Act” che stanzia 738 miliardi di dollari per un vasto piano economico, ripaga in maniera esemplare gli alleati europei del loro sostegno alla politica statunitense sulla guerra in Ucraina.

In effetti solo le auto elettriche e le relative batterie, come i prodotti per l’energia eolica e solare e per il nucleare prodotte negli Usa hanno diritto ai sussidi (Escande, 2022).

Gli europei stanno protestando debolmente e al momento non riescono a mettersi d’accordo per una risposta adeguata agli statunitensi.

Questo sviluppo, unito al forte aumento dei prezzi dell’energia e alla difficoltà di approvvigionamento nel nostro continente (tra l’altro Biden ci vende il gas Usa ad un prezzo di quattro volte tanto quello prevalente negli Stati Uniti) sta spingendo i grandi gruppi europei a delocalizzare i loro investimenti verso gli Stati Uniti, dove trovano sussidi e bassi prezzi dell’energia e/o verso la Cina, dove è presente un enorme mercato nella gran parte dei settori industriali e dove di nuovo sono facilmente reperibili e a costi moderati tutti i tipi di energia. 

 

 

 

Cronache dal futuro. Shenzhen,

 il modello cinese di città futura.

  Key4biz.it - Carlo Raspollini – (19 Giugno 2022) – ci dice:

 

Siamo nel giugno 2022 e l’umanità ha ripreso a camminare più veloce di prima. Verso dove è un altro discorso.

Viaggio del 15 giugno 2022.

In questo viaggio ho abbandonato la verifica del post Covid-19, per cercare elementi di futuro nel mondo.

Un enorme obelisco di metallo grigio, con vetrate scure, alto poco meno di 600 metri mi sovrasta.

Lo chiamano “Ping An Finance Center”.

È il quarto grattacielo più alto al mondo, in questa folle e assurda corsa a chi osa di più.

 Lo hanno terminato nel 2017, per festeggiare i 40 anni di questa metropoli nata dal niente, per diventare la vetrina della Cina tecnologica e moderna, secondo la geniale idea di Teng Xiaoping, il presidente cinese morto nel 1997.

Dal 115° piano le case e le strade si vedono piccole, come dall’aereo su cui ho volato per venire qui, a Shenzhen, nel Guandong, Cina meridionale.

Un tempo villaggio di pescatori, è sorta come risposta a Hong Kong.

 Shenzhen si trova di fronte all’ex colonia britannica, con cui è collegata da un lunghissimo ponte e un treno super veloce.

Oggi ha 15 milioni di abitanti, uffici, laboratori, studi, la borsa, le università scientifiche e tecnologiche, più di 100 parchi.

 Spiagge, giardini, centri commerciali, ristoranti alla moda, decine di grattacieli, case costosissime da 10mila euro al mq.

 È una città all’avanguardia, pulita, silenziosa, con un sistema di trasporti da far invidia a Parigi e con una flotta di auto, taxi, bus e motorini tutti elettrici.

Una smart city orientata al business.

META Advertisement.

L’idea era che diventasse una espansione di Hong Kong. 

Se le rivolte e le proteste del 2020, dovessero tornare e impedire un futuro sereno all’economia della città e della regione, ecco Shenzhen, la finestra principale per l’ingresso del capitale straniero e la tecnologia in Cina, pronta a rimpiazzarla.

 Di fatto però è già così. Shenzhen supera ormai Hong Kong come giro d’affari e popolazione.

L’area metropolitana che ingloba le due città è diventata in poco tempo la più grande del Paese, con Macao e la Baia di Guangdong arriva a 70 milioni di abitanti.

In attesa che si completi la fusione al nord di Pechino con Tianjin e Hebei, per una megalopoli industriale da 130 milioni di abitanti.

 Una città che sarà grande come il Kansas o la Bielorussia!

La tecnologia si usa per il traffico la sicurezza e per ogni attività.

Tutti sono attenti alle innovazioni tecnologiche e agli affari. A Shenzhen, nel 1990, è stato inaugurato lo Stock Exchange, il mercato finanziario regolamentato, una borsa valori che è diventata importante più di quella di Shanghai.

Il quartier generale dell’azienda simbolo della “Cina attuale, la potente Huawei”, si trova in un mega campus per la ricerca vicino a Dongguan. Huawei e Shenzhen sono l’una per l’altra, un corpo unico.

 Questa è la capitale delle telecamere di sorveglianza: ce ne sono 5-6 per ogni palo della luce, anche sulla spiaggia, 400 milioni di occhi in tutta la città. Servono per monitorare il traffico ma soprattutto per la sicurezza.

I pali invece per porvi apparecchi che misurano la qualità dell’aria e antenne per diffondere il segnale 5G.

Le telecamere sono in grado di distinguere ogni individuo dal riconoscimento facciale, determinarne in pochi attimi altezza, colore degli occhi, vestiti, per arrivare in seguito facilmente all’identità anagrafica e all’indirizzo.

 Sarà dura commettere un reato e farla franca.

Sarà dura anche solo nascondere all’autorità chi si frequenta e per quante volte, quali sono le proprie abitudini, preferenze, hobbies fuori dall’occupazione prevalente.

I cittadini non si sentono infastiditi da un controllo così capillare: anzi sono contenti di poter uscire la sera senza rischi per la propria sicurezza.

Siamo molto diversi

. La tecnologia viene utilizzata anche per il controllo degli accessi in palazzi, uffici, ascensori, con riconoscimento di impronte o riconoscimento facciale che ormai hanno soppiantato i badge.

Da tre anni ci sono le prime auto a guida autonoma, come un camioncino che funge da distributore automatico di bevande.

Gira per le strade e si ferma non appena con il cellulare inquadriamo il codice QR stampato sulla carrozzeria.

 È la città del 5G, tutto è interconnesso, le cose lo sono, non solo le persone.

 Tutto viaggia 10 volte più veloce che altrove. La connettività accelera la burocrazia e migliora l’efficienza ma lo fa anche nel senso della repressione.

La città ha così un cervello tecno che “aiuta” l’amministrazione locale a prendere decisioni, promuove l’e-government per consentire al sistema dei trasporti e della polizia di passare sulle piattaforme digitali.

 Chi fornisce alla città gli strumenti e l’assistenza è Huawei.

Questo è il suo laboratorio.

Da qui si vuole conquistare il mondo, non con le armi, ma con gli affari e gli affari passano per le tecnologie smart.

 

Ecco il quartier generale di Huawei a Shenzhen .

Come tutte le città cresciute troppo in fretta e senza una storia culturale alle spalle, questa è una città che non ha molte attrattive per un turista.

 Ovviamente ha buoni alberghi e, rispetto a Hong Kong, il visitatore ha la possibilità di gustare specialità gastronomiche cantonesi e prostituzione a buon mercato.

Le visite quindi sono di breve durata.

Chi, venendo da Hong Kong, credeva di trovare la vecchia Cina resta deluso.

Siamo finiti in una vetrina di gadget del XXI secolo. Nel chilometro più tecnologico del mondo: la Huaquiangbei, i negozi più o meno ufficiali e tanti mercatini.

 Suq del nostro ventennio. Vendono cellulari di tutti i tipi e gli addetti dietro ai banconi riescono a farsi capire a gesti o con i traduttori automatici.

Trovi tutto a un costo inferiore, perché sono le stesse fabbriche che vendono tramite i negozi.

I computer sono sia assemblati ma anche da montare, con i vari componenti come cavi, cuffie, tastiere, memorie, chip, transistor, venduti separatamente. Nuovi e usati.

 Li puoi comprare nelle quantità che vuoi, con sconti del 50-70% e ricostruire il prodotto a casa tua per rivenderlo.

 Porta Portese e Portobello sono un lontano romantico ricordo.

 Il 60% di tutto quello che si produce in elettronica si fabbrica qui.

Molte cose in vendita sono dei falsi. Ovvero hanno un marchio famoso ma sono prodotti a buon mercato. Orologi, televisori, telefoni, droni, giocattoli, software, tutto a prezzi più bassi.

 Ci sono fabbriche di componenti che lavorano per Apple e Samsung e altri brand allo stesso tempo, in base alle commesse che ricevono.

Trovi gli schermi tv di qualsiasi dimensione e costo, puoi pagare anche 300.000 dollari uno schermo gigante grande come una parete intera.

Sono quelli che poi vedi a Times Square o a Picadilly Circus. Questo è il mondo del falso e del vero.

 Puoi trovare imitazioni dipinte a mano delle più famose opere d’arte da Van Gogh a Picasso a Morandi per 120 dollari.

Rolex e Patek Philippe per 50 dollari.

Al Parco La Porta del Mondo vedrai fino a 130 riproduzioni dei più famosi monumenti internazionali, ricostruiti, spesso nella stessa scala o quasi, come la Tour Eiffel (alta 108 metri), l’Arco di Trionfo, Piazza dei Miracoli, San Marco, la piana di Giza al Cairo, il Palazzo di Backingham e il Ponte di Londra, il Colosseo, l’Acropolis, la Cattedrale di Colonia, la Statua della Libertà, il Gran Canion, il Taj Mahal, l’Opera di Sidney, le Linee di Nazca in Perù e altro ancora.

Sono tutti occupati a lavorare e non hanno tempo per l’amore.

In molti giardini c’è l’opportunità di esercitare il Tai Chi.

Lo fanno soprattutto gli anziani.

Con movimenti simili a una danza, molto affascinanti.

In un lato di uno di questi parchi una rete metallica ospita i messaggi di persone single, che cercano un partner.

Per lo più sono donne alla soglia dei trenta o quaranta anni e hanno paura di restare sole.

Essere “zitelle” è una cosa ancora disdicevole in Cina.

Il tasso di disoccupazione è molto basso, il 2%, mentre nel resto del paese è del 2,9%.

Per questo molte donne sono indipendenti, studiano, lavorano e non hanno avuto tempo per dedicarsi alla ricerca di un partner da sposare.

 Così lo fanno tramite fogli appuntati su una rete, con tanto di descrizione della persona, talvolta una foto e un telefono.

Nell’era delle “app” per incontri riservati fa pensare che si ricorra a dei “pizzini” per trovare il marito o la moglie.

Come si vede non tutto è affidabile ai chip.

Nei parchi ci sono i chioschi ambulanti per vendere bibite, beh anche loro hanno il sistema di pagamento via telefono.

 Pur se devi pagare meno di un dollaro, non c’è bisogno di tirare fuori nessuna moneta.

Scannerizzando il codice QR, entri in contatto con il c/c del venditore e gli versi il dollaro della bibita e così fai per qualsiasi acquisto, dal taxi alla spesa, dalla lavanderia al tram.

 Di contanti se ne vedono sempre meno e molti si servono anche di WeChat, un’applicazione del tutto simile al nostro Whatsapp, che integra un sistema di pagamento comodo e immediato, purtroppo ancora non accessibile a stranieri e turisti.

Gironzolando per i mercati puoi passare dalle scintillanti vetrine di prima ai quartieri poveri.

 Strade strette, case mal costruite, cortili sudici, immondizia abbandonata, inferriate ai balconi.

Cammini guardandoti le spalle.

 Per strada compri lo street food che in Cina significa fritto, tutto si frigge, dai polli al gelato, dalle cavallette agli spring rolls.

Il problema è in che olio si frigge.

Un bidone di 5 litri di olio di semi lo paghi 15 dollari.

Immaginati che cosa può essere.

Tanto avanti sono nel copiare le tecnologie e proporre un ambiente interconnesso, tanto indietro nella gastronomia di strada.

La cucina cantonese ha 5.000 anni di storia intendiamoci. Quella che sto criticando non è la cultura ma lo smercio di prodotti infimi a basso prezzo e cucinati male, a tirar via, per mantenere bassi i prezzi. Non c’è nella popolazione delle periferie la cultura del mangiare sano.

 

A nessuno importa della salute ma di come arrivare a sera con la pancia piena.

Poi c’è il fatto dei cani. È vero.

Il 20 % dei cani in Cina vanno a finire nelle ricette.

 Mi dispiace ma ogni paese ha le sue colpe. Noi mangiamo i maialini, gli agnelli, altri mangiano i delfini o comprano il corno di rinoceronte.

Loro mangiano i cani e anche le larve, le cavallette e gli scorpioni.

 Il cibo del futuro, pare. Io non mi ci abituo.

 Forse se li trasformano in polvere e poi in panetti di cibo irriconoscibili.

Però qualcosa si dovrà fare per ridurre l’inquinamento degli allevamenti intensivi di manzi, conigli, maiali e polli.

 La soluzione non sono gli allevamenti di qualità, anche se vanno difesi, perché assicurano alimenti per una minoranza esigua.

Il futuro per i cinesi non va sempre d’accordo con la difesa dell’ambiente.

L’inquinamento cresce al pari della popolazione.

In Cina “futuro” non sempre va a braccetto con la qualità della vita.

 Il clima della regione è monsonico sub tropicale, con una media di 22,5° C e con estati umide e calde.

 Shenzhen ha una spiaggia ma non è molto frequentata.

In mare una rete limita lo spazio per nuotare, il pericolo è che i pescecani possano ferire i bagnanti.

 Ragazze vestite si fanno le foto, un signore guarda l’orizzonte sotto un ombrello da pioggia.

Si ripara dal sole che ai cinesi non è gradito.

Un palo al centro della spiaggia supporta una ventina di telecamere.

Comunque il cielo è grigio e il mare non invita a una vacanza.

Per molti mesi all’anno l’aria inquinata ristagna come oggi sopra la città e i suoi giardini.

Trovandosi così a ridosso di Hong Kong, che gode di un’amministrazione più liberale, per Shenzhen è stata creata la Zona Economica Speciale, con meno restrizioni che nel resto del Paese.

Ciò non toglie che gli abitanti delle due città cerchino di passare (o meglio passavano) il confine con l’altra, per motivi opposti d’interesse.

I cinesi del Guangdong per lavorare, mentre quelli di Hong Kong per risparmiare, un po’ come tra Como e Lugano.

 Da qualche anno la realtà si è invertita.

 C’è più lavoro in Cina che a Hong Kong.

Ora un’altra migrazione preoccupa il Governo cinese, quella dei contadini poveri che lasciano le campagne per cercare fortuna in città. 

Non per tutti è facile trovare occupazione, se non hai le preparazioni adeguate. Così questa massa di migranti si ferma attorno al perimetro dell’area urbana, costituendo un agglomerato di baraccopoli, case, palazzoni e centri abitati marginali.

Sono manodopera a basso costo ma anche ricettacolo di delinquenza e micro criminalità.

L’aeroporto Shenzhen Bao’an.

L’aeroporto di Shenzhen-Bao’an (SZX per lo IATA) si trova a 32 km dalla città. È uno dei tre hub più grandi della Cina meridionale.

Il Terminal 3 è stato realizzato su progetto dello Studio Fuksas, un architetto romano.

 Copre 500.000 metri quadrati e contiene 63 gate, per un km di lunghezza e 80 metri di larghezza.

 È un aeroporto che cresce con la città, lo stesso Studio Fuksas è stato incaricato di altre progettazioni che saranno completate nel 2025 e nel 2035.

 La Cina corre anche se non è tutto oro quel che brilla.

Per fare alla svelta può accadere che le costruzioni non siano perfette e che infiltrazioni d’acqua, materiali scadenti, lavori non fatti a regola d’arte, possano rallentare la corsa del gigante asiatico ma nessuno si può fermare.

È come un treno ad altissima velocità lanciato verso l’ignoto.

I fautori di questo tipo di città le vedono come un paradiso in terra, una Disneyland dell’elettronica.

Grazie alla tecnologia si pensa di poter aiutare i governi e le imprese a superare i problemi e le sfide del futuro.

In effetti la velocità e la interconnessione aiuta chi viene risucchiato in questo frullatore senza sosta che è la vita in una metropoli dove si lavora, si lanciano prodotti, si conquistano mercati e poi si torna a casa soli, o con un gatto o un peluche per compagnia.

Allora c’è la palestra, la danza, lo sballo per riempire i vuoti lasciati dalla tecnologia.

Tuttavia queste città oggi consumano i 2/3 dell’energia mondiale, emettono il 70% di anidride carbonica e producono 6,3 miliardi di rifiuti in plastica.

Se ripenso a tutti gli imballaggi di cellulari, televisori e computer e anche lavastoviglie, frigoriferi e playstation inorridisco a cosa arriverà oggi nelle discariche cinesi.

 Mentre sono perso in queste terribili immagini, le scintillanti vie del centro scorrono sul mio finestrino oscurato.

Uno dei taxi rossi, quelli che possono andare dappertutto, mi porta all’entrata dell’hotel in meno di 25’.

 Inutile dire che era un’auto ibrida, a benzina ed elettrica.

Ming Hua Hotel.

Avevo pensato di prenotare una stanza nel Ming Hua Hotel, che significa “Spirito della Cina”.

Si tratta di una nave da crociera francese ora riadattata ad hotel, bloccata in un laghetto senza sbocchi al mare, al Sea World di Shekou.

 Un tempo portava croceristi da Marsiglia a Dakar via Casablanca e Canarie. Adesso è un 4 stelle, con ristorante brasiliano e altri occidentali, un “wine ba”r, una casa di sigari, una caffetteria, una boutique e un teatro.

L’idea di trovarmi in un baraccone da fiera con i cinesi che si fanno selfie tutto intorno mi ha fatto subito cambiare idea.

 Ho prenotato uno dei migliori alberghi, il Kapok Shenzhen Bay.

 È nella parte ovest dello Spring Cocoon, il centro sportivo.

Il Mangal Costal Park e le strutture ricreative si raggiungono a piedi, volendo.

La stanza costa solo 120 dollari, ha una valutazione che sfiora i 9 punti! Dall’esterno sembra uno zippo enorme, l’accendino che andava di moda molti anni fa. Speriamo che non si accenda mai. L’Hotel è un anonimo super accessoriato 5 stelle.

Poteva essere uno qualsiasi. Questo ha un ottimo servizio e pulizia. I cinesi sono fissati per la pulizia, nelle classi agiate.

Se ne fottono nelle classi povere.

Il Cloud Citizen

Credevate di aver visto tutto o che vi potessi parlare delle discoteche e dei bar dove ci si incontra per un aperitivo?

No, il bello deve ancora venire.

La città dei 350 grattacieli non ha ancora terminato di stupire o di terrorizzare. Lo “Shenzhen Bay Super City Masterplan Competition” ha visto concorrere molte società cinesi e straniere per realizzare insieme il “Cloud Citizen”, un distretto finanziario di 170 ettari nella baia.

Ben 30 studi sono intervenuti, dagli Stati Uniti, Germania, Corea del Sud, Norvegia, Italia (Claudio Lucchesi), Emirati Arabi, Australia.

 Lo studio internazionale Urban Future Organization ha vinto assieme alla cinese Cr-Design e un team della svedese Chalmer Technical University di Gothenburg e il progetto sarà presto una realtà.

 

Un colosso di grattacieli di 680, 580 e 480m, per una larghezza di 580 m, intersecantesi in una struttura gigantesca, con ponti inclinati, spazi pubblici, giardini, centri commerciali, appartamenti, uffici, moduli ricreativi e culturali, che fluttua nell’aria come una nuvola, in un continuum con le aree celesti e verdi circostanti.

 Cloud Citizen è la scommessa green più incredibile di questa città.

In pratica sono tre grattacieli connessi con strutture sospese, aree di mobilità interna.

Una città super-connessa, dove ogni edificio mantiene al contempo la sua individualità.

Sarà costruito in maniera tale che le attività finanziarie non vadano più delocalizzate in vari quartieri della città ma possano ritrovarsi lungo corridoi orizzontali. 

Grandi brand si ritrovano così accanto alle piccole imprese che operano nello stesso ambito.

 Tutto concorre a creare networks ininterrotti di relazioni, che aumentano i reciproci vantaggi.  A guardarlo, il colosso, sembra lo scherzo di un progettista matto.

 Si erge in stratificazioni rocciose come frutto del caso, sbucato fuori da una fantasia di “Hieronymus Bosch”.

Una serie di nuvole di cemento, che hanno per sfondo il cielo.

Le soluzioni green non mancano.

 Come il sistema di raccolta delle acque piovane, impianti a energia solare, eolica e delle alghe, filtraggio dell’inquinamento atmosferico, sequestro della CO2, che il materiale di rivestimento è in grado di riconvertire in ossigeno e infine un centro sotterraneo per il riciclaggio differenziato dei rifiuti.

 Tutto questo ci lascia con la bocca spalancata e pieni di ammirazione per tanta capacità imprenditoriale e di progettazione.

Hanno anche pensato a rendere più vivibile la struttura con vie di transito che portino, da diverse quote, alle aree verdi pubbliche, come se bastasse uscire dal tritatutto e immergersi nel giardino con le panchine per recuperare lo stress.

Se questa “città nella città” sia la soluzione della vita e del lavoro di domani non lo sappiamo.

Di certo non posso pensare che per produrre bitcoin e cellulari con cui vedere ogni tanto, a distanza, figli e genitori, sia da considerare un progresso.

Per altro da pagare con una vita immersa nel business e con il recupero dell’acqua piovana e i giardinetti a portata di gamba, appena fuori un massiccio come il Cloud Citizen.

Continuo a pensare che chi vive in un casale in Val d’Orcia, accanto a una bella vigna di Brunello, sia ancora più fortunato.

 E non c’era bisogno di fare tanta strada e di scomodare tanta tecnologia, per poi perdere quei ritmi, i panorami, la quiete e quei silenzi, che solo la campagna senese, o salentina, o siciliana, o marchigiana ti sanno dare.

Io continuo a pensare che il futuro dovrebbe essere pensato per stare meglio e in salute, cercando di salvaguardare l’ambiente.

(I dati, i personaggi e le informazioni che trovate in questo articolo sono in gran parte veri e solo in piccola parte un’opera di fantasia. Le vicende di viaggio sono ambientate in un futuro ipotetico, anche se abbastanza possibile.)   

 

 

 

La Cina dominerà anche l’eolico

(e la colpa è dell’Occidente):

ecco perché.

 Corriere.it - Federico Rampini – (23 novembre 2022) – ci dice:

 

Perché l’industria occidentale di pale e turbine eoliche è in perdita, e costretta a licenziare, nonostante il bisogno di energie rinnovabili sia in crescita?

 La risposta è legata alla burocrazia occidentale - e alla capacità della Cina di correre anche in questo settore.

Con il bisogno enorme che abbiamo di energie rinnovabili, com’è possibile che l’industria occidentale delle pale e turbine eoliche sia in profonda perdita, e costretta a licenziare?

La spiegazione è terribilmente familiare: mentre la nostra burocrazia blocca tutto ciò che si muove, la Cina sta cominciando a divorare anche questo settore.

Assistiamo al remake di un film già visto con i pannelli fotovoltaici e le batterie per auto elettriche.

L’Europa scivola velocemente dalla dipendenza verso la Russia per le energie fossili, alla dipendenza verso la Cina per quelle rinnovabili.

Non lo dico io, l’allarme sta scritto in un rapporto del gruppo tedesco “Siemens Energy”, che soprattutto attraverso la filiale spagnola “Gamesa” è uno dei più grandi produttori del ramo.

 «Esiste la concreta possibilità – si legge in quel rapporto – che la transizione energetica dell’Unione europea venga gestita in Cina».

(Con le bustarelle arraffate dai governanti della Ue! N.d.R.)

Che cosa aspettano Bruxelles e le capitali nazionali a reagire per salvare il prodotto nazionale prima che sia troppo tardi, come invece sta facendo l’Amministrazione Biden negli Stati Uniti?

 

Lo stato di salute delle aziende che fabbricano pale e turbine eoliche è davvero pessimo.

 La “Siemens Gamesa Renewable Energy”, con sede a Madrid, è uno dei leader europei per l’”eolico offshore”, turbine e pale installate in mare.

Ha appena reso noto il suo ultimo bilancio annuo: 940 milioni di euro di perdite.

In queste condizioni l’azienda ha annunciato che sarà costretta a licenziare 2.900 dipendenti, cioè oltre un decimo della propria manodopera.

Va perfino più in rosso il gigante americano del settore pale e turbine eoliche, “la General Electric”: due miliardi di dollari di perdite annue per la sua filiale specializzata.

Se la cava solo un po’ meno peggio il leader mondiale delle turbine eoliche,” Vestas Wind System”, con 147 milioni di euro di perdite in un trimestre.

“Stanley Reed” del “New York Times” ha intervistato due “chief executive” delle aziende in questione, e il loro lamento è corale.

«Ogni volta che vendiamo una turbina eolica perdiamo l’8% sul costo di produzione», gli ha detto il numero uno di “Vestas”, Henrik Andersen.

Il chief executive di “Siemens Gamesa”, Jochen Eickholt, ha dichiarato al quotidiano americano che le aziende hanno bisogno di fare profitti per finanziare gli investimenti, diventare capaci di produrre centrali eoliche più grandi e più potenti, «ma in questo periodo stiamo lavorando in perdita».

Le spiegazioni degli industriali toccano tasti familiari.

In Europa, così come negli Stati Uniti, si parla di lotta al cambiamento climatico, ma tanti progetti di nuove centrali eoliche sono ritardati da una miriade di pastoie burocratiche, veti amministrativi, resistenze localistiche e tutele paesaggistiche.

Un altro handicap è dato dalle nuove sovrattasse sugli extra-profitti, che colpiscono anche chi genera elettricità dalle rinnovabili.

Quelle tasse vanno a mangiare i profitti – se ci sono – che le aziende dovrebbero usare per finanziare nuovi investimenti.

E poi c’è la Cina.

Seguendo un copione già noto per il solare e l’auto elettrica, la Cina ha cominciato con la conquista di un ruolo dominante nei componenti necessari per fabbricare pale e turbine eoliche:

già oggi il 70% dei pezzi assemblati da un produttore europeo di turbine sono «made in China».

La tappa successiva vede i giganti cinesi della fabbricazione di intere pale e turbine eoliche, affacciarsi sui mercati europei offrendo forniture a prezzi ultra-competitivi.

Spesso c’è dietro una concorrenza sleale, perché gli aiuti di Stato offerti da Pechino ai suoi campioni nazionali permettono di esportare sottocosto.

Se il copione seguirà ciò che è già accaduto per l’energia solare, vedremo fallire alcuni big europei e la resa alla Cina sarà totale.

 Il che significherebbe perdere il controllo sul nostro futuro energetico, un’altra volta.

L’Unione europea come reagisce a questo pericolo?

Per il momento polemizzando … con gli Stati Uniti.

 La Commissione di Bruxelles ha preso di mira l”’Inflation Reduction Act”, nuova legge voluta da Joe Biden e approvata dal Congresso.

A dispetto del titolo, più che a combattere l’inflazione quella legge serve a finanziare la transizione «green».

 Con 370 miliardi di dollari di fondi, è generosa di aiuti per le energie rinnovabili.

A una condizione: che i produttori siano americani o situati negli Usa con le loro fabbriche.

 Insomma Biden usa contro la Cina dei metodi cinesi, a base di sussidi e protezionismo.

(Tutti i miliardari cinesi titolari delle fabbriche sono finanziati e posti sotto stretto controllo dei Capi del Partito Comunista Cinese! N.d.R.)

Bruxelles per il momento sembra soprattutto indignata perché gli incentivi americani rischiano di attirare le aziende europee sul suolo Usa, a produrre sotto quella pioggia di denaro pubblico.

Forse sarebbe più urgente occuparsi dell’avanzata cinese e reagire a quella, prima che sia troppo tardi.

Se il prodotto cinese costa meno perché viene venduto in dumping (sottocosto) grazie agli aiuti di Stato, allora un dazio compensativo prelevato dall’Europa è una contromisura perfettamente legale.

Certo, bisogna assicurarsi che dei produttori locali siano in grado di sostituirsi ai cinesi anche nella componentistica, e il più presto possibile.

 Altrimenti, in assenza di validi surrogati europei, le barriere contro i cinesi farebbero solo rincarare e rallentare la produzione delle pale e turbine eoliche.

Ma questa è proprio la lezione dei dragoni asiatici che avremmo dovuto studiare da decenni:

come si allevano e si irrobustiscono i campioni nazionali dell’industria per farne dei campioni mondiali.

Ci sono delle obiezioni a questa riscoperta della politica industriale: i politici e i burocrati non sono di solito i più adatti a selezionare le aziende giuste, quelle che saranno efficienti e competitive.

Anche l’America ha avuto i suoi scandali di politica industriale, come l’azienda solare “Solyndra” finita in bancarotta nel 2011 dopo aver divorato dai contribuenti 535 milioni di finanziamenti (l’Amministrazione Obama dovette riconoscere gravi errori nella gestione di quegli aiuti).

La contro argomentazione è che tutti i miracoli economici dell’Estremo Oriente hanno avuto tra i loro ingredienti delle politiche industriali efficaci, che dovremmo studiare.

D’altronde se l’alternativa è spendere in assistenza, cioè distribuire alla popolazione una ricchezza fragile e precaria, allora è meglio usare risorse pubbliche per sostenere chi la ricchezza può generarla, cioè le imprese.

 

 

 

Cina, l'agricoltura

corre veloce.

Agronotizie.imagelinenetwork.com - Matteo Bernardelli – (8 NOVEMBRE 2022) - ci dice:

 

Tra sicurezza alimentare, mercati e tecnologie non si può ragionare su uno scenario globale senza tenere presente il ruolo dell'ex Celeste Impero.

Come si comporterà in futuro determinerà indubbiamente conseguenze su scala mondiale.

La corsa al podio dell'economia si costruisce partendo dal settore primario.

Mentre l'Unione Europea contesta la transizione ecologica, giudicandola come troppo sbilanciata e potenzialmente rischiosa per un calo delle produzioni, la Cina ha spostato l'asse delle proprie politiche alimentari verso un nuovo equilibrio in cui le tecnologie - in grado di incrementare la produzione, migliorare la qualità, conquistare nuovi spazi utili alla coltivazione (si veda il riso che può essere coltivato in acqua salata), monitorare i terreni, ma anche ridurre l'uso di fertilizzanti e mezzi tecnici - giocheranno un ruolo importante nel migliorare il ruolo globale della Cina in potenza agricola.

Nel recente Congresso del Partito Comunista Cinese, che ha visto la rielezione di Xi Jinping per i prossimi cinque anni, circondato da fedelissimi alla linea di Governo e con qualsiasi ombra di pensiero differente allontanata, è stato lo stesso presidente Xi Jinping a comunicare una linea senza indugi verso il consolidamento delle "basi della sicurezza alimentare a tutti gli effetti (…) in modo che la Cina possa fornire al popolo la sua ciotola di riso quotidiana".

Uno dei passaggi più applauditi, secondo quanto ha riportato il cronista di” Le Monde”, di tutto il XX Congresso nella Città Proibita.

 A conferma di quanto il fattore cibo pesi nelle strategie politiche del Dragone.

Cina, obiettivo: rafforzare il settore agricolo.

L'obiettivo di coniugare la crescita agricola e la riduzione della povertà - che il professore olandese “Jan Douwe van der Ploeg” già aveva rilevato nel suo libro interessantissimo "Agricoltura e contadini nella Cina d'oggi" - con un processo di crescita allargata, in grado di coinvolgere l'intera popolazione rurale in processi di transizione "tali da ottenere aumenti della produzione, redditi più elevati e campagne più vivibili", resta fra i primi obiettivi della Cina proiettata ad essere sempre di più uno dei baricentri dell'economia mondiale, anche in una futura era di "globalizzazione post globale".

Il mercato interno e quello estero si raccordano a vicenda, anche se quello interno resta il pilastro, come ha riportato recentemente anche “Xinhua”, l'Agenzia di stampa ufficiale che opera sotto il controllo del Governo cinese.

In un contesto ormai fortemente connesso e con uno scenario internazionale fortemente scosso dalle conseguenze della guerra in Ucraina, che coinvolge due dei più rilevanti Paesi esportatori di cereali su scala mondiale, è bene tenere in considerazione il ruolo della Cina in agricoltura.

La Cina alla fine di questo anno solare, secondo le previsioni del Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti (Usda), andrà a detenere il 68,5% delle scorte mondiali di mais, il 30,3% di quelle di soia, il 54% di quelle di grano, il 20,9% degli stock mondiali di colza e il 63% dei magazzini di riso.

Xi Jinping, profondo conoscitore della storia cinese, sa bene che le rivoluzioni e i governi stanno in piedi finché la tavola è imbandita.

 Le rivolte della “Primavera Araba” sono uno dei tanti esempi che il leader cinese ha sotto gli occhi.

La questione della sicurezza alimentare, come detto, è il primo aspetto che preoccupa Pechino ed è anche in questa ottica che l'ex Celeste Impero ha portato avanti una politica aggressiva di acquisto delle materie prime agricole.

 Certo, connesso c'è il tema della ristrutturazione e del rafforzamento degli allevamenti per garantire proteine nobili, e gli animali nelle stalle devono mangiare.

 Ma si torna sempre al nodo dell'alimentazione umana e della disponibilità di cibo, soprattutto in questa fase in cui l'economia cinese non brilla più come in passato e ha ritmi di crescita più lenti e la politica della tolleranza zero verso il covid-19 (una scelta legata sia a questioni ideologiche che a una sanità ancora perfettibile) deve consentire in queste fasi i corretti approvvigionamenti alimentari.

 Cina, l'obiettivo è l'autosufficienza.

Come si comporterà in futuro determinerà indubbiamente conseguenze su scala mondiale.

 Si è visto molto chiaramente sia quando la Cina ha accelerato con le importazioni e gli acquisti di materie prime (o di suini, quando la peste suina aveva costretto a eliminare oltre 200 milioni di capi) sia quando ha rallentato, con effetti depressivi sui prezzi.

Oggi la Cina sembra aver decelerato sugli acquisti.

Fra gennaio e settembre di quest'anno le importazioni di cereali sono diminuite in quantità del 15,7% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, informa “Teseo.Clal.it”, ma non dobbiamo forse lasciarci ingannare.

 Con quasi 45 milioni di tonnellate ritirate nei primi nove mesi del 2022, siamo comunque su livelli ben più elevati rispetto al 2020, al 2019 e agli anni precedenti.

L'anomalìa, semmai, è stata rappresentata dai grandi volumi acquistati nel 2021. Xi Jinping sapeva in anticipo delle intenzioni di Vladimir Putin in merito alla "operazione militare speciale" e voleva cautelarsi con maggiori scorte?

Oppure si è trattato di una volontà di rafforzarsi come garanzia rispetto alle incognite del covid-19?

Sono solo ipotesi.

Cina: import cereali.

 

Se guardiamo, ad esempio, l'import di semi oleosi, lo scenario appare ancora diverso.

Nei primi nove mesi del 2022 gli acquisti di Pechino sono calati del 7,7% su base tendenziale, è vero, ma le quantità sono ancora molto elevate, superiori ad esempio rispetto ai volumi di gennaio-settembre 2019, prima cioè della pandemia.

Questo significa che la Cina sta intensificando la propria politica zootecnica? È possibile.

D'altronde, è innegabile che a fronte di un allargamento delle condizioni medie di benessere, si cerca di migliorare la propria alimentazione.

E in questa logica, unitamente a quella più squisitamente politica di alleanze mondiali, si devono leggere gli accordi di scambio e i ritiri di materie prime cosiddette coloniali che la Cina ha sottoscritto con molti Paesi dell'Africa.

Cina: import semi oleosi e farine proteiche.

Altro punto.

 La Cina sa bene che la questione “climatico ambientale” riguarda tutto il Pianeta.

Ed è anche per questo che sostiene ricerca e innovazione.

È necessario contrastare le incognite derivanti dal clima, il più possibile e nei limiti dell'alea.

Ma è per questo che sta rafforzando “bacini irrigui e tecnologie” per il corretto utilizzo delle acque.

In prima fila, a tirare le file, c'è la” Chinese Academy of Agricultural Sciences”, naturalmente sotto il monitoraggio della Repubblica Popolare, tramite il P.C.C.

I risultati ottenuti negli ultimi dieci anni in tema di sostenibilità non sono da sottovalutare:

 l'Accademia Cinese di Scienze Agrarie ha infatti sviluppato una serie di prodotti e tecnologie agricole verdi, riducendo l'utilizzo di agrofarmaci di oltre il 20% e di fertilizzanti chimici di oltre il 10%, e ottenendo un aumento medio di 5 punti percentuali del tasso di utilizzo dell'acqua piovana del Paese.

Allo stesso tempo, si stanno sviluppando soluzioni per rilevare gli inquinanti e intervenire per un'agricoltura più verde

(benché la Cina, insieme a Russia e India, si sia sfilata dal palcoscenico internazionale della Cop27, che pure ha una visione globale sul clima e non si limita ai soli aspetti agricoli).

Inoltre, la Cina sta prestando sempre più attenzione agli aspetti legati alla qualità e alla sicurezza alimentare, così come sta coinvolgendo la ricerca per nuove varietà di colture di alta qualità, dai campi alla zootecnia.

(E da noi, invece, l’Europa ci vuole ridurre alla fame più nera! N.d.R.)

Il modello apparentemente demonizzato dell'Occidente, in pratica, viene imitato nei suoi assi principali:

il miglioramento produttivo, l'innalzamento della qualità, la riduzione della chimica di sintesi e lo spostamento verso un modello di agricoltura rigenerativa.

Persino il ricorso alla multifunzione e al turismo rurale come risorse in grado di diffondere benessere fra chi cerca benessere e una dimensione più rilassata come pausa temporanea dalle metropoli sta sempre più funzionando e si sta declinando nella formula delle comunità rurali.

Certo, restano alcune peculiarità di fondo che caratterizzano intrinsecamente il modello cinese e lo differenziano dai grandi latifondi degli Stati Uniti, del Brasile, dell'Argentina, ma la visione della Cina è che non è la dimensione dell'attività la questione decisiva, come riconosce lo stesso “van der Ploeg”.

 

 Non possiamo dunque ragionare su uno scenario globale senza tenere presente il ruolo della Cina.

 Personalmente non penso che debba essere temuta, ma osservata sì.

E come Pechino ha indirizzato i propri sforzi a migliorare alcuni aspetti dell'agricoltura mutuandoli dall'esterno, così anche l'Unione Europea dovrebbe analizzare con attenzione il modello cinese, operando per migliorare attraverso un approccio globale, dove ricerca e sviluppo devono guidare una crescita produttiva, un abbassamento delle emissioni, un approccio più verde, una riduzione degli sprechi, una maggiore attenzione alla multifunzionalità, una ricerca verso fonti energetiche alternative.

Se la Cina ha definito le sementi i microchip dell'agricoltura, con l'intento di esaltarne la funzionalità, è opportuno muoversi di conseguenza.

 La corsa al podio dell'economia si costruisce partendo dall'agricoltura.

Cereali: produzione, prezzi e mercati.

Un'ultima annotazione per chi dovesse sottovalutare i progressi della Cina in agricoltura.

Se guardiamo le rese dei terreni agricoli per la coltivazione dei cereali la Cina si colloca al primo posto per il riso (7 tonnellate per ettaro) e per il frumento (5,85 tonnellate per ettaro), e al secondo posto dietro gli Usa nel mais (con 6,37 tonnellate/ettaro, laddove l'Unione Europea è a 6,31 tonnellate per ettaro).

 E fra ricerca genetica e soluzioni agronomiche e satellitari, la crescita cinese sarà ancora più marcata.

Teniamone conto.

 

 

Chiediamo ai lettori (se desiderano intervenire, sempre con la consueta pacatezza): ritenete che la Cina rappresenti un'opportunità per il nostro sistema agroalimentare?

Oppure pensate che il colosso asiatico resti una questione lontana, geograficamente, culturalmente, politicamente, per l'agricoltura europea?

Sono solo due spunti, ma sono ben accette riflessioni più ampie.

Grazie.

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