IL NUOVO ORDINE MONDIALE BASATO SULLE RICERCHE SCIENTIFICHE.
IL
NUOVO ORDINE MONDIALE BASATO SULLE RICERCHE SCIENTIFICHE.
Geopolitica
del contagio e
nuovo
ordine mondiale.
Aspeniaonline.it
- Gianluca Ansalone – (Apr. 13, 2021) – ci dice:
La
risorsa più scarsa dopo la pandemia non saranno i semiconduttori, le terre
rare, il petrolio o la salute.
Sarà
la fiducia.
A scriverlo sono gli analisti del “National Intelligence Council” (NIC), organismo di analisi e
previsione del sistema di sicurezza degli Stati Uniti nel suo aggiornamento
quadriennale sugli scenari futuri.
Il
Covid-19 ha spezzato drammaticamente il senso di fiducia nelle comunità
occidentali, cancellando il positivismo tipico delle democrazie liberali di
mercato.
È dai tempi della Rivoluzione industriale che
l’equazione “più benessere, più opportunità, più sviluppo” ha avuto alla base
una forte leva psicologica: fiducia e ottimismo hanno mosso mercati, investimenti,
consumi e la nascita di alcune delle più note imprese di successo.
Con il
Covid però qualcosa si è rotto.
Innanzitutto
perché si fa fatica a immaginare un ritorno alla crescita senza limiti che ha
ispirato ed animato le nostre comunità fino a poco tempo fa e nonostante le
molte fragilità del sistema.
Inoltre
perché la pandemia ha fatto emergere la crisi del rapporto di fiducia tra
cittadini, istituzioni e scienza.
Il
rapporto tra scienza e politica e quello tra scienza e cittadini saranno
probabilmente i termometri più importanti per testare la capacità reattiva
delle democrazie di fronte allo shock della pandemia.
Le autocrazie non hanno bisogno di chiarire i
rapporti tra i due binomi, le democrazie sì.
Ed è
su questo tema che le nostre comunità dovranno investire la maggior parte delle
energie e delle risorse.
I
piani di resilienza e ripresa di cui si parla in questa fase guardano alla
capacità dei sistemi economici di modernizzarsi.
Ma le conseguenze più rilevanti del Covid le
vedremo probabilmente sul piano sociale, politico e forse perfino psicologico.
Senza fiducia non ci sono consumi e non c’è crescita;
senza fiducia non c’è innovazione e dunque il vantaggio competitivo dell’Occidente
rischia di essere messo in discussione irreversibilmente.
Come
per molti altri aspetti, anche in questo caso il Covid agisce sta agendo come
un poderoso acceleratore.
Veniamo da anni in cui il rapporto tra
politica e cittadini ha assunto i contorni di vera e propria rivolta verso le
élite.
Ma
anche da anni in cui la politica ha assecondato le pulsioni anti-scientifiche e
negazioniste di fette sempre più ampie della popolazione.
Fino
al punto in cui l’anti-scienza si è fatta politica ed è entrata nelle
istituzioni.
La pandemia ha infine mandato in cortocircuito anche
il rapporto tra politica e scienza.
Nelle
autocrazie e nei Paesi governati da leadership populiste e negazioniste, la
politica ha piegato la scienza ai propri interessi.
Nelle democrazie il nodo di questo rapporto
non è mai stato realmente sciolto.
Tutt’oggi
ci troviamo a dibattere su come e quanto gli scienziati possano guidare le
decisioni della politica nella gestione della pandemia o della campagna
vaccinale.
Ma è
vero anche il contrario, vale a dire in che modo la politica debba prendere
decisioni ragionevoli e commisurate sulla base di dati scientifici che spesso
per definizione sono incerti o probabilistici.
Colpiscono
molto le dichiarazioni recenti del capo dei virologi americani Anthony Fauci
sul tema dei vaccini.
Di
fronte alle pressioni crescenti perché gli Stati Uniti mettano a disposizione
le dosi di vaccino in eccesso anche all’Europa, in nome di una rinnovata
solidarietà transatlantica, lo scienziato americano ha risposto che ci sarà una
disponibilità non appena tutta la popolazione sarà vaccinata.
Ma
sarà una disponibilità per i Paesi a basso e medio reddito.
Quei
Paesi cioè più permeabili alla geopolitica vaccinale di attori come Russia o
Cina.
Quella
di Fauci è una vera e propria dottrina strategica e una dichiarazione di pura
politica estera.
Da
questo punto di vista l’Occidente è passato dalla tracotanza, quando ad esempio
Donald Trump negava il beneficio di indossare le mascherine e Fauci stesso
predicava nel deserto, all’abdicare al proprio ruolo di guida.
Il
Covid si sta dunque dimostrando il più importante agente di cambiamento, anche
geopolitico.
La
Salute starà al mondo di domani come la Difesa è stata al mondo post-11
settembre.
Di
certo l’Occidente ha ancora molto da dire e da fare, come dimostra chiaramente
la storia dello sviluppo di vaccini efficaci, innovativi e prodotti in tempi da
record.
Il punto cruciale per il futuro però sarà la
capacità delle democrazie di dimostrare di essere moderne, innovative e
inclusive.
Quando si parla di Salute ciò è
particolarmente vero.
Si
pensi all’Italia:
il nostro Paese ha tenuto saldi i valori
scritti nella Costituzione e ciò è assolutamente un motivo di vanto.
In particolare l’universalismo delle cure e il diritto
all’accesso gratuito alle cure.
Ma non
abbiamo modernizzato gli strumenti, non abbiamo considerato la Salute come una
questione di sicurezza – anche economica – nazionale.
E non abbiamo dunque coinvolto i cittadini in
una necessaria operazione di compartecipazione alle scelte cruciali.
Gli
anglosassoni la chiamano “science literacy”, alfabetizzazione scientifica.
Secondo
la Commissione europea la “science literacy” è il prerequisito per la piena ed
attiva partecipazione dei cittadini alla vita politica, civile, sociale di un
Paese.
Di
nuovo, qualcosa di cui le autocrazie non hanno alcun bisogno.
Ora
siamo ad un punto di svolta storico.
Come fu a Yalta nel 1945 per i rapporti tra le
potenze dopo la Seconda guerra mondiale, la geopolitica del contagio definirà
le nuove sfere di influenza, con vaccini, scienza e ricerca a fungere da nuova
cortina di ferro.
La sfida per noi è duplice:
da un lato ricostruire il rapporto di fiducia
tra sapere, cittadini e istituzioni, dall’altro ricostruire attorno a questi
valori una nuova comunità occidentale, una nuova missione per le democrazie.
Si
tratta di contrapporre alla aggressiva diplomazia vaccinale delle autocrazie e
alle leadership negazioniste (ormai diffuse in tutto il mondo ma travolte dai
numeri della pandemia) un nuovo multilateralismo pragmatico e efficace.
Le
scene dell’assalto a Capitol Hill a Washington dello scorso 6 gennaio
rimarranno impresse a lungo, sono la ferita più dolorosa legata alla fase del
Covid, assieme alle tante vittime del virus nel mondo.
Ma non
sono irreversibili.
Possiamo
dimostrare e fare in modo che della democrazia si senta ancora il bisogno nel
mondo.
Con la
Presidenza Biden negli Stati Uniti si aprono nuove possibilità.
Le
democrazie vivono anche di simboli e di immagini.
Sapere
che nello Studio Ovale oggi campeggia il ritratto di Benjamin Franklin,
scienziato e padre fondatore, è una buona notizia e una buona ispirazione.
Non basta però.
Come
detto, la politica dovrà riprendere il suo ruolo di guida e promuovere un
sistema basato su competenza e riconoscimento del ruolo del sapere.
Non
basterà nemmeno ritornare al segno “più” davanti alle statistiche del Prodotto
Interno Lordo nei prossimi anni.
D’altronde
le autocrazie giocano da tempo proprio su questo terreno: rinunciare ai diritti
sociali e politici per garantire crescita ed opportunità economiche.
Ma
come evidenziato da tanti analisti ed economisti, la sostenibilità di un
modello economico si fonda sulla capacità di innovare e sul senso di fiducia.
Hanno
ragione dunque gli esperti di intelligence a sottolineare come la fiducia,
questa risorsa sempre più scarsa, sarà il principale asset nella sfida tra
modelli politici ed economici del futuro.
Ultima
nota: il Covid-19 non è un cigno nero.
È
dall’attentato alle Torri Gemelle che il mondo è entrato irreversibilmente in
una dimensione asimmetrica della sicurezza nazionale ed internazionale.
11 settembre 2001, crisi finanziaria del 2008,
e pandemia, vanno dunque lette assieme, sono manifestazione di un unico grande
trend.
Ecco
perché è da vent’anni che i documenti ufficiali di intelligence riportano un
elenco sterminato di questo tipo di minacce.
Ed
ecco perché la prossima crisi sistemica avrà esattamente queste caratteristiche
di marcata asimmetria.
Sarà
un nuovo spillover di un virus da animali ad essere umani?
Saranno
batteri resistenti agli antibiotici?
Sarà l’impatto di una crisi climatica?
Sarà
un attacco cibernetico su vasta scala?
Qualunque
sarà la forma della prossima crisi dovremo fare in modo di aver imparato la
lezione e ricucito il patto di fiducia alla base delle nostre democrazie.
Capitalismo
e democrazia:
il
momento comunitario è ora.
Aspeniaonline.it
- Roberto Panzarani – (31 maggio 2021) – ci dice:
Il
coronavirus sta modificando profondamente le nostre vite, ma non sappiamo
ancora quanto.
Siamo
troppo immersi nella dinamica che stiamo attraversando e la nostra energia al
momento è quasi totalmente presa dalla priorità della salvaguardia della salute.
Intanto, non stiamo più gestendo la ridondanza
comunicativa sul coronavirus: siamo bombardati da una serie di notizie e
informazioni continue, spesso contraddittorie, spesso sbagliate, altre invece
ottime e utili che facciamo fatica però a selezionare rispetto alle altre.
In
sostanza siamo confusi.
Si è
persa la narrazione, le voci che ascoltiamo sono ormai una babele quotidiana.
Stiamo, come società, gestendo l'improbabile e non siamo pronti per questo.
Le conseguenze sono senz'altro il disagio
personale e la difficoltà a diagnosticare il presente e ancor più il futuro.
Abbiamo però memoria del passato e al momento
ci aggrappiamo a quello anche per pensare il futuro; eppure facciamo fatica ad
avere un pensiero innovativo sul futuro.
Questa
esperienza, nelle sue dimensioni sociali, economiche, tecnologiche, ci lascia
in eredità l'assoluta certezza di competenze nuove e specifiche che dovremo
sviluppare nei prossimi anni e di cui l'emergenza vissuta ha visto la grande
carenza.
Come
dice Mohammed Yunus “non torniamo al mondo di prima: abbiamo un'occasione
incredibile per costruire un nuovo mondo, il mondo di prima non andava bene
anche senza coronavirus”.
Competenze
ambientali, capacità di sfruttare i big data, organizzazione sanitaria,
capacità di decisione, ascolto attivo, empatia.
Queste
sono le cosiddette “soft skills” che dovremo assolutamente sviluppare nel futuro con molta
attenzione se vorremo gestire con efficacia le organizzazioni del futuro.
Dovremo passare da un management tradizionale a un
management della complessità.
Qualcosa
di nuovo sta arrivando, e anzi il futuro è già qui, sebbene sia distribuito
male… per dirla con William Gibson.
In un
certo senso, futuri multipli sono arrivati, secondo l'espressione di Peter
Frase (Quattro modelli di futuro , Treccani 2019).
Spetta
a noi costruire un potere collettivo in grado di lottare per i futuri che
vogliamo.
Nel mio ultimo libro “Il Nuovo Paradigma. Perché il futuro
del capitalismo è comunitario” (Lupetti 2021) tento di riflettere su tutto questo.
Provare
ad immaginare quali saranno i reali scenari post-coronavirus è ancora
difficile, sicuramente stiamo assistendo ad un'accelerazione della
disgregazione dell'ordine mondiale che vede da una parte l'America e dall'altra
la Cina.
La pandemia, naturalmente, non è stata
soltanto all'origine di una crisi sanitaria e socio-economica, ma di un vero e
proprio ridisegno della geometria mondiale che le forze americane e cinesi
stanno elaborando.
In
situazioni così drammatiche, i problemi diventano sempre di carattere
geopolitico.
Il rischio che stiamo per correre è quello che
i rapporti organizzativi e internazionali siamo sempre meno globali e sempre
più veicolati dalla potenza a cui si fa riferimento.
Ma un
dato di fatto incontrovertibile è che la ridefinizione delle priorità deve
essere sia individuale che collettiva.
Stefano
Zamagni, economista e presidente della Pontificia accademia delle scienze
sociali, ci indica quattro importanti lezioni che la crisi del Covid-19 ci sta
impartendo.
La
prima riguarda la prudenza, quella virtù che negli ultimi decenni è stata messa
in disparte e che invece guida tutte le altre perché è la virtù del voler
guardare lontano per mirare al bene comune.
La seconda lezione è la comprensione della
differenza tra governo e governance.
Government
è l'istituzione politica, mentre con governance si fa riferimento a persone e
decisioni su cosa concretamente viene realizzato per migliorare l'obiettivo
dichiarato.
È accaduto che tante proposte della governance
verso un bene comune non sono state per nulla prese in considerazione dalle istituzioni
(governo) e Zamagni invita tutti a chiedersi il perché.
Si è
capito (terza lezione) che la salute di una persona e di una popolazione è
funzione di cinque variabili: la sanità, gli stili di vita, le condizioni
lavorative, l'ambiente (ecologico), la famiglia.
Purtroppo,
si sta guardando solo alla prima delle variabili, quando invece tutte e cinque
concorrono verso il benessere dell'uomo.
La
quarta lezione è relativa all'Unione Europea che indiscutibilmente ha bisogno
di un “supplemento d'anima”.
Affidarsi
di più alla speranza, conclude Zamagni, che si alimenta con la creatività
dell'intelligenza politica e con la purezza della passione civile .
Günther
Pallaver, docente di Scienze politiche presso l'Università di Innsbruck,
sottolinea che autonomia non è solo autogestione, perché è anche cooperazione,
cogestione e soprattutto governance , ovvero capacità di inclusione della più
ampia platea possibile di attori politici e sociali.
Questo
processo di inclusione si deve tradurre in primo luogo in capacità di dialogo
tra soggetti istituzionali, soprattutto se si tratta di trovare un punto di
equilibrio tra salute pubblica ed economia.
Che
cosa è accaduto però negli ultimi anni?
Sicuramente
un grande distacco tra cittadini e istituzioni.
Come giustamente dice Valentina Pazè in un suo
articolo del 2018, il fenomeno si registra nella maggior parte delle democrazie
contemporanee, ma “non è ascrivibile solo al qualunquismo, disinteresse o
protesta, più o meno consapevole, nei confronti di una classe politica
inadeguata e corrotta.
È
indice di qualcosa di più grave: una radicale perdita di fiducia nella
democrazia come veicolo di cambiamento ed emancipazione sociale, che oggi
interessa in particolare i più poveri e più svantaggiati. […]
Indagini
svolte in diversi Paesi concordano nel rilevare che il fenomeno della fuga
dalla politica riguarda oggi in primo luogo i ceti meno abbienti e meno
garantiti.
Disoccupati,
precari, marginali, poveri e impoveriti rappresentano il grosso dell'esercito
del non voto e della non partecipazione.
In
Italia ma anche in Germania e in Francia, Stati Uniti (dove persistono barriere
giuridiche all'iscrizione dei meno abbienti ai registri elettorali).
Lo
scarso interesse dei poveri per la politica riflette lo scarso interesse della
politica per i poveri.
Con le
parole di Wolfang Streeck, la politica sembra essere diventata un “gioco di
intrattenimento per la classe media (o medio-alta, dato lo scivolamento verso
il basso del ceto medio colpito dalla crisi).
Un gioco che non appassiona e non coinvolge
chi ha perso qualsiasi speranza nella possibilità della soluzione collettiva ai
propri problemi”.
Valentina
Pazè descrive così benissimo lo stato attuale della politica e della
rappresentanza attuale, e fa emergere un punto importante:
la
situazione non può essere risolta con strumenti tecnologici, nel senso che la
partecipazione dei cittadini tramite le piattaforme sicuramente dilata la loro
possibilità di espressione, ma questa possibilità non trova per ora riscontro
in una qualità migliore della rappresentanza.
La
politica purtroppo non “attrae cervelli”;
più precisamente, guardando ad esempio al caso
dell'Italia possiamo dire che questo sistema partitico (a livello nazionale e
purtroppo anche a livello locale) non ispira le persone migliori e con
competenze distintive a impegnarsi.
Quello
che è accaduto di positivo riguarda varie forme di autorganizzazione dei
cittadini che sono nate per la soluzione di problemi specifici della comunità:
senz'altro anche questo è politica, sebbene non nel senso del governo.
Come
cambiare a livello delle istituzioni è una sfida per ognuno di noi, non
delegabile, e che andrà a definire anche il futuro del nostro capitalismo.
Intanto
abbiamo compreso che la digitalizzazione di per sé non potrà probabilmente
rinvigorire la democrazia.
Come
scrive il professor Enrico Nardelli
“La
situazione che stiamo vivendo sta facendo venire al pettine una serie di nodi
mai affrontati negli anni passati a proposito di 'trasformazione digitale'.
Questo termine da un po' di tempo a questa
parte è diventato di moda, soprattutto tra politici, che però nella grandissima
maggioranza non hanno idea di cosa voglia di dire e di come si realizzano
davvero.
Il problema è prima di tutto culturale, perché
quella digitale è una tecnologia diversa da tutte le altre che l'hanno
preceduta. […]
Le 'macchine
digitali' sono amplificatori delle capacità cognitive razionali delle persone e
quindi radicalmente differenti da tutte le macchine precedentemente realizzate
dall'uomo, che ne potenziano solo le capacità fisiche.
Dopo secoli di progresso tecnologico, Nardelli afferma
inoltre che “mentre nell'automazione fisica c'è sempre un umano che rimane al
comando della macchina e che la aiuta nell'interpretazione della realtà
circostante, quando si è introdotto l'automazione 'cognitiva' (quella delle
macchine digitali) si è erroneamente creduto che i sistemi informatici
potessero sostituire completamente le persone e 'fare tutto da soli'.
In
sostanza, di fronte a un cambiamento così radicale dal punto di vista sociale
ed economico non si è ancora pienamente capito che un requisito necessario per
una “buona” trasformazione digitale è: “nessuna digitalizzazione senza
rappresentazione dell'utente finale”.
Queste
osservazioni ci ricordano che senza un processo formativo che coinvolga la
cittadinanza sarà molto difficile riuscire a compiere i due passi necessari:
primo, comprendere davvero la trasformazione
digitale;
secondo,
attuarla in modo che rafforzi il ruolo attivo dei cittadini invece di
comprimerlo.
In
questo difficile processo, una politica diversa dovrebbe giocare un ruolo
importante.
Ue e
Uk hanno Finanziato le Indagini
della
Corte dell’Aia contro Putin.
Conoscenzealconfine.it
– (21 Marzo 2023) - Giulia Burgazzi – ci dice:
La Ue
e il Regno Unito hanno finanziato le indagini della Corte penale internazionale
dell’Aia sfociate nel mandato d’arresto contro il presidente della Russia
Vladimir Putin.
Il
Ruolo di UE e UK.
L’Unione
europea ha infatti collaborato attivamente con le indagini e soprattutto ha
fornito il quadro complessivo entro cui si sono svolte:
ricercare
i crimini di guerra compiuti dalla Russia in Ucraina.
Solo
quelli, e non tutti i crimini di guerra in Ucraina. A questo scopo la
Commissione europea ha stanziato 7,25 milioni di euro nel giugno 2022.
La
Gran Bretagna ha contribuito con un altro milione di sterline, ma è stata più
elegante.
Il suo comunicato stampa parla infatti
genericamente di indagini sui crimini di guerra in Ucraina, pur aggiungendo che
così Putin sarà inchiodato alle sue responsabilità, eccetera.
Il “Silenzio”
degli Usa.
Non
risulta che gli Stati Uniti abbiano tirato fuori il becco di un quattrino. Essi
infatti (come peraltro la Russia e perfino l’Ucraina) non riconoscono la
giurisdizione della Corte.
Temono
inoltre che una qualsiasi forma di collaborazione possa creare un precedente
utile alla messa in stato di accusa di cittadini americani.
Il
Mandato di Arresto contro Putin.
La
Corte penale internazionale ha trovato esattamente ciò che stava a cuore ai
suoi finanziatori e collaboratori europei.
Lo scorso venerdì 17 marzo 2023 ha emesso un
mandato di arresto internazionale contro Putin.
Sarebbe
responsabile del trasferimento illegale di bambini dall’Ucraina alla Russia. La
Corte ha spiccato un uguale ordine di arresto nei confronti della commissaria
russa per i Diritti dei bambini, Maria Alekseyevna Lvova-Belova.
Non si
è svolto un processo, ma la Corte – come dice il suo comunicato stampa – ritiene fondato il sospetto che i due si
siano macchiati di questa colpa.
Potranno così essere arrestati se si
recheranno in uno dei Paesi che riconoscono la giurisdizione della Corte
stessa.
Il comunicato stampa della Corte non fornisce
dettagli sui bambini ucraini trasferiti in Russia.
I
Bambini Trasferiti in Russia.
Qualcosa
in più è sul quotidiano britannico Guardian.
In gran parte si tratta di bambini affidati a
istituti statali perché privi di genitori o di una famiglia in grado di
crescerli.
Vengono
essenzialmente da aree che la Russia, dopo i referendum per l’annessione,
ritiene parte del proprio territorio nazionale.
Praticamente,
si può mettere la cosa in questi termini: nei territori conquistati, la Russia
ha cominciato a prendersi cura – al posto dell’Ucraina – dei bambini che
vivevano negli orfanotrofi e li ha portati via dalle zone di guerra.
Sempre
secondo il Guardian, le imputazioni ai danni di Putin e di Maria Alekseyevna
Lvova-Belova sono relative anche a bambini portati dall’Ucraina in Russia con
il consenso dei genitori per partecipare a “campi di rieducazione”e in piccola
percentuale non sarebbero più stati restituiti alle famiglie.
I “campi di rieducazione” sono così definiti –
lo scrive lo stesso Guardian – in base ad una descrizione presente in uno
studio dell’Università di Yale.
Ma non
risulta che i ricercatori di Yale vi si siano recati.
Soprattutto, non si riesce a capire se le
famiglie dei bambini non più restituiti abbiano avuto le case distrutte dalla
guerra, si siano sfasciate, abitino in luoghi in cui si vive in cantina per
timore delle bombe.
La
Collaborazione tra Organismi UE e AIA.
I
principali protagonisti di questa indagine della Corte penale internazionale
hanno identità curiose.
Le ha
svelate la stessa Commissione europea, contestualmente all’annuncio dei 7,25
milioni stanziati per trovare i crimini di guerra russi: e solo quei crimini.
Infatti
Eurojust, l’agenzia Ue per la collaborazione nel campo della giustizia
criminale, ha unito le proprie forze a quelle della Corte dell’Aia, formando
una squadra di investigazione congiunta.
Questa
squadra ha coinvolto anche il procuratore generale dell’Ucraina, che a sua
volta ha ricevuto aiuto dalla missione consultiva Ue in Ucraina.
Nella
squadra si sono inseriti anche Europol, l’agenzia Ue per la lotta alla
criminalità organizzata, e alcuni Stati Ue.
Si
citano esplicitamente Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia e Slovacchia.
Incidentalmente, hanno in comune una politica da falchi anti-russi.
(Giulia
Burgazzi)
(visionetv.it/ue-e-uk-hanno-finanziato-le-indagini-aia-contro-putin/)
Guerra
giorno 391: la Cina
diventa
"alleata" di Putin,
una
svolta nella crisi.
msn.com
- Andrea Lavazza – (21-3-2023) – ci dice:
La
guerra in Ucraina è giunta al giorno 391, segnato dalla visita del presidente
cinese Xi Jinping al Cremlino.
Sebbene
il presidente russo Vladimir Putin e il suo ospite abbiano discusso la proposta
di Pechino per un cessate il fuoco, il messaggio principale dato al mondo è
stato quello di una solida partnership (“caro amico” è stato il saluto
reciproco), basata sulla comune rivalità con l'Occidente.
Tappetti
rossi, onori rari e lunghi colloqui hanno caratterizzato i due giorni del
viaggio in Russia del leader che aspira a diventare il nuovo ago della bilancia
degli equilibri mondiali, improntati, come egli stesso ha spiegato, a un nuovo ordine multipolare, mentre incurante stringeva la mano
e sorrideva a un ricercato per crimini gravissimi dalla Corte penale.
Xi ha
dichiarato che Pechino e Mosca sono "partner strategici" e
"grandi potenze vicine" e ha invitato il suo omologo a ricambiare al
più presto il viaggio.
Mentre
tutti gli occhi e gli orecchi erano, comprensibilmente, concentrati sulla
reazione di Putin alla proposta di pace in 12 punti avanzata da parte cinese
per porre fine ai combattimenti, non va escluso che questo tema sia stato
marginale nelle conversazioni tra i due capi di Stato.
Ovviamente,
il conflitto è sullo sfondo di ogni mossa delle parti, ma l’agenda sembra
essere stata più funzionale al rafforzamento di entrambi gli interlocutori che
al raggiungimento di un percorso di diplomatico per fermare la guerra di
aggressione.
"Il
piano della Cina può essere preso come la base per un accordo di pace
sull'Ucraina, quando Occidente e Kiev saranno pronti a farlo", ha
rimarcato Putin nelle dichiarazioni finali congiunte, senza lasciare spazio a
grande ottimismo negli osservatori.
Anche da
Pechino si è rilanciato lo stesso messaggio, con riferimento a trattative nella
cornice delle Nazioni Unite e dei principi della sua carta (che è stata palesemente violata da
Mosca).
La stessa telefonata di Xi con il presidente
ucraino Zelensky prevista per i prossimi giorni rischia così di trasformarsi,
se pure ci sarà, in una semplice presa d’atto che non c’è volontà russa di fare
un minimo passo indietro rispetto ai territori occupati.
D’altra
parte, è emerso chiaramente che la Federazione è una fonte di petrolio per
l’economia di Pechino (le esportazioni aumenteranno) ed è vista come un alleato
per fronteggiare la sfida globale con gli Stati Uniti.
La
Federazione, a sua volta, ha bisogno di un mercato per i suoi idrocarburi che
l’Europa non compra più a caro prezzo.
Il sostegno della Cina si concretizza anche
sulla tecnologia e sul commercio, con il timore di Kiev e degli Stati Uniti che
esso possa trasformarsi in un aiuto militare, che potrebbe includere anche
munizioni e armi.
Sospetti sono stati avanzati circa forniture
già spedite di parti per droni.
L’alleanza
economico-strategica – sancita con un accordo formale – guarda alla
costituzione di un blocco con tutti i Paesi del cosiddetto Sud globale che sia
alternativo alle alleanze tessute dagli Usa e dall’Europa.
A
questo fine, per sganciarsi dalla dipendenza da dollaro e euro, la Russia vuole "utilizzare lo
yuan cinese nei pagamenti con Paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America
Latina", come auspicato da Putin nel corso degli incontri.
Che la
partita sia ormai planetaria è stato manifestato dal contemporaneo arrivo a
Kiev del primo ministro giapponese Fumio Kishida giunto, ultimo dei leader del
G7, nella capitale sotto le bombe per incontrare Volodymyr Zelensky.
La
rivalità tra Pechino e Tokyo, infatti, ha spinto Kishida a non lasciare tutta
l’attenzione concentrata sulle mosse di Xi.
I
giorni dei colloqui al Cremlino hanno messo in ombra le operazioni sul campo.
Secondo il ministero della Difesa ucraino un'esplosione (leggi: un attacco)
nella città di Dzhankoi, in Crimea, ha distrutto missili da crociera russi
destinati alla flotta del Mar Nero di Mosca.
Il
consigliere del ministero dell’Interno, Anton Gerashchenko, ha diffuso un video
che mostra la zona della stazione ferroviaria della città e una forte
deflagrazione.
La
Russia, dal canto suo, ha minimizzato la portata dell’azione e ha riferito di
avere abbattuto un drone di Kiev.
In realtà, sembra che le forze armate ucraine
siano ora in grado di colpire dal cielo con maggiore precisione e intensità
proprio grazie a velivoli senza pilota più efficaci e di maggiore autonomia
operativa.
Da
segnalare anche la dura reazione russa – “reagiremo, lo scontro nucleare è a
pochi passi” – alla notizia che la Gran Bretagna intende fornire all'Ucraina
anche munizioni
anticarro perforanti ad alto potenziale, contenenti uranio impoverito.
La rivelazione è stata fatta Annabel Goldie,
viceministra della Difesa, durante un'audizione alla Camera dei Lord, passata
sotto silenzio a Londra ma rimbalzata poi sui media ucraini.
In
definitiva, la Cina sembra decisa a rimanere alla finestra nel conflitto,
sfruttando la debolezza russa per spuntare migliori condizioni nel partenariato
e rovesciando i rapporti di forza con Mosca nel tentativo di costruire un
fronte alternativo a quello occidentale.
Ciò
comporta un moderato sostegno economico a Putin perché possa reggere il
logoramento della guerra, destinata a proseguire nei prossimi mesi.
Di
conseguenza, saranno gli sviluppi sul campo di battaglia in questa primavera a
orientare la crisi e una sua possibile soluzione.
Se l’America di Biden è diventata mentore
dell’Ucraina di Zelensky, la visita di Xi al Cremlino sembra avere fatto di
Pechino il sostegno della Russia di Putin.
Una
partita tragica che si gioca tutta sul terreno martoriato di Kiev.
Una
partita che non vedrà necessariamente un chiaro vincitore, ma certamente un
mutare delle gerarchie di potere e delle sfere di influenza a livello
internazionale.
La
Cina punta a un “nuovo ordine
tecnologico
mondiale”:
le
sfide per l’Occidente.
Agendadigitale.eu
– (24 Mar 2021) - Mario Dal Co – ci dice:
La
Cina sta pianificando uno sviluppo per i prossimi 15 anni che la porti a un
livello generale di benessere comparabile con quello di paesi come l’Italia.
Una
sfida ambiziosa, ma questo non significa che il nostro Paese e l’Europa abbiano
tempo a disposizione per prendere le contromisure.
La
Cina ha da poco approvato il suo quattordicesimo piano quinquennale dal quale
emerge con evidenza come Xi Jinping abbia intenzione di forzare la marcia:
l’obiettivo è di porre il Paese al centro della scena mondiale, in un nuovo
ordine tecnologico, economico e finanziario internazionale non più a guida
americana.
Sebbene
la strada non sia certo in discesa, e i problemi interni per Pechino siano
complessi almeno quanto quelli sul fronte internazionale, la Ue e l’Occidente
non possono più stare a guardare:
serve, anche a livello nazionale, una maggiore
ambizione e uno sguardo puntato sul lungo periodo.
Vediamo
come si delinea l’agenda di Xi Jinping e quali sono le principali sfide.
Indice
degli argomenti.
L’agenda
di Xi Jinping
Obiettivi
e azioni del piano.
La
rule of law a Pechino.
La
leva del mercato interno.
Un
nuovo ordine tecnologico internazionale.
Conclusioni.
L’agenda
di Xi Jinping.
Nel
nuovo piano 2021-2025, le cui linee sono state varate a fine ottobre e che
viene approvato nella versione definitiva nella seconda settimana di marzo dal
Congresso Nazionale del Popolo, due concetti si ripetono con insistenza: la “Circolazione duale” e la
“Visione 2035”.
Il
primo,
introdotto nella prima fase della pandemia da Xi Jinping, inquadra la crisi
della globalizzazione nell’ambito della devastazione portata dalla pandemia e
del conflitto commerciale aperto dagli Stati Uniti.
La
circolazione duale punta sulla domanda interna e non più, come prima avveniva,
sulla domanda estera;
intende allargare la supply chain interna, riducendo
la dipendenza dall’estero; vuole mobilitare i fattori di produzione, e in
particolare la scienza, le risorse finanziarie e il lavoro, cercando di
allentare l’hukou, ossia il sistema dei diritti di cittadinanza limitati per
coloro che sono residenti fuori dalle grandi città.
Il
secondo concetto, “Visione 2035” pone il sentiero di sviluppo a lungo termine nella
direzione di una maggiore autosufficienza tecnologica e del superamento della
condizione di “paese in via di sviluppo”, per giungere ad un livello di reddito
pro-capite moderatamente sviluppato, come Spagna e Italia (intorno ai 30.000
dollari pro-capite).
Si
tratta di una sfida molto ambiziosa, dal momento che il reddito pro-capite
cinese supera appena i 10.000 dollari nel 2019 (Banca Mondiale)
Va
segnalato, tuttavia, che per la prima volta il piano quinquennale non pone,
nella sua versione proposta al Congresso, espliciti obiettivi di crescita del
prodotto interno lordo, lasciando così mano libera al Partito.
Non vi
è, invece, traccia di una maggiore libertà concessa ai contadini sulla vendita
o l’affitto della terra, che consentirebbe di ridurre il divario di reddito
città-campagna, né vi sono impegni precisi sulla decarbonizzazione nella
produzione energetica, nonostante le dichiarazioni di Xi Jinping di puntare ad
una “carbon neutrality entro il 2060”.
Il
punto di maggiore impatto sulle relazioni con USA ed Europa è quello della
ricerca e dell’innovazione.
Qui si gioca la sfida competitiva tra Cina e paesi
occidentali.
Le
prime mosse dell’amministrazione Biden mostrano la consapevolezza che ormai il
confronto con la Cina è inevitabile e che esso va affrontato dai paesi
democratici con una comune strategia.
Obiettivi
e azioni del piano.
Il
quadro di prospettiva offerto dal Piano quinquennale a livello internazionale è
delineato nell’intervento di Xi Jinping a Davos: quattro obiettivi a livello
mondiale e quattro azioni.
Obiettivi:
coordinamento
degli sforzi per uscire dalla recessione determinata dalla pandemia;
coesistenza
pacifica e mutuo rispetto (questa voce è centrale nella strategia
internazionale cinese, significa implicitamente non interferenza in questioni
“interne” come Tibet, Xinjiang, Taiwan, Hong Kong);
riduzione
della distanza tra Nord e Sud del mondo;
cooperazione
globale sui temi della salute e dell’ambiente.
Risposte:
rafforzare
il multilateralismo e dare ruolo maggiore al G20 per guidare il
multilateralismo;
rafforzare
le regole e le istituzioni multilaterali, come l’ONU;
confidare
nella strategia della consultazione e della cooperazione, abbandonando la
logica del confronto o dello scontro;
dare
forza e riformare le istituzioni internazionali, come la World Health
Organization, gli Accordi di Parigi sul clima e gli Obiettivi dello sviluppo
sostenibile posti dall’ONU.
Difficile
non concordare con questi obiettivi e con queste risposte, soprattutto nel
momento in cui il maggiore guastatore che li boicottava a livello
internazionale e nel proprio paese, Donald Trump, è uscito di scena.
Naturalmente,
sollevano obiezioni le pretese cinesi di considerare questioni interne
indiscutibili quelle relative agli Uiguri del Xinjiang, alla colonizzazione del
Tibet, alla restrizione dei diritti politici ad Hong Kong, alla minaccia di
annessione di Taiwan.
La “rule
of law” a Pechino.
“Il 25
novembre 2020 il gruppo-guida dei membri del Partito nel governo della
Repubblica Popolare (State Council) ha tenuto una riunione di studio del
pensiero di Xi Jinping sulla ‘rule of law’…e ha annunciato che la rule of law è
la linea guida fondamentale del governo della Cina”.
Il
tono esplicitamente maoista di questa dichiarazione del governo dimostra che la”
rule of law” è intesa come strumento per rafforzare la presa del Partito sul
governo del Paese.
Xi
Jinping sembra ispirato, nel seguire questa impostazione, assai più che dalle
dottrine marxiste, dalla tradizione “legista” del pensiero politico e militare
cinese, che avversava la filosofia confuciana rivolta al rispetto della regola
morale e all’affermazione della benevolenza del sovrano.
Quella tradizione svolse un ruolo decisivo
nella costruzione.
Essa
propugnava la severità inflessibile delle leggi, la standardizzazione del
linguaggio, l’unificazione dei pesi e delle misure, la distruzione del retaggio
del pensiero confuciano, la riduzione del ruolo dei “saggi” a meri funzionari
esecutivi, l’obliterazione delle tradizioni familiari e del culto degli
antenati, a favore di un inquadramento rigido del popolo attraverso le due
figure del contadino e del soldato ed il loro “ordinamento” al servizio della
potenza del sovrano. Un deciso progetto di centralizzazione del potere.
Xi
Jinping intende creare un assetto normativo più stabile e adeguato a un nuovo
ruolo mondiale della Cina.
Da un
lato, il Paese deve dotarsi di strumenti per gestire un contenzioso civilistico
interno che rischia di produrre effetti destabilizzanti dal punto di vista
politico e sociale, dall’altro lato, deve disporre delle capacità e dei
mezzi per potersi confrontare con le imprese multinazionali.
Sul
primo aspetto, quello del contenzioso, scriveva il prof. Xianchu:
“La Cina è diventata una delle società
più conflittuali del mondo, producendo un gran numero di ‘incidenti di massa’,
ossia raduni improvvisati o pianificati con discorsi pubblici, dimostrazioni,
rimostranze pubbliche e anche attacchi violenti contro organi di governo
fabbriche o altre proprietà, usati come mezzi di protesta contro l’abuso di
potere”.
Sul
secondo aspetto, quello
della regolazione, la lista delle iniziative recenti è piuttosto corposa, ne
ricordiamo alcune:
Codice
Civile (in forza dal primo gennaio 2021, che abolisce le vecchie norme su:
matrimonio, responsabilità civile, garanzie, contratti, proprietà);
Linee
guida del Comitato Centrale del Partito per costruire una società basata sulla
“rule of law” (dicembre 2020);
Legge
sulla crittografia (gennaio 2020) e regolamento sulle transazioni
internazionali concernenti contenuti crittografati (novembre 2020);
SAMR
(Shanghai Administration for Market Regulation) che ha reso più stringenti le
verifiche sulle acquisizioni, in particolare nell’area dei microchip,
aumentando le sanzioni e i poteri di indagine;
CSRC
(China Securities Regulatory Commission) che stringe i requisiti per le IPO
insistendo sui requisiti di governance e di qualità e trasparenza delle
informazioni fornite (dicembre 2020);
Proposta
di Legge sulla protezione dei dati personali (2020);
Legge
antimonopolio (proposta novembre 2020);
Regolazione
provvisoria per l’accesso al piccolo credito online (China Banking and
Insurance Regulatory Commission) (gennaio 2021).
Le
regole interne vengono rafforzate e definite con maggiore precisione: la
tradizionale indeterminatezza che caratterizzava la gestione “tutta politica”
delle regole lascia spazio ad una più stringente formalizzazione.
La
leva del mercato interno.
Gli
accenti posti dal presidente Xi Jinping nelle conclusioni di Davos indicano il
passaggio nuovo della politica cinese:
“La Cina promuoverà l’apertura istituzionale
per definire regole, normative, standard e loro gestione, facendo avanzare un
ambiente economico basato sui principi di mercato, governato dalla legge
secondo standard di livello internazionale e liberare il potenziale del gigantesco
mercato cinese e dell’enorme domanda interna”.
Lo
sviluppo della domanda interna, che intende sostituire la crescita trainata
dalle infrastrutture e dalla domanda estera, viene proposto come una risorsa
per la crescita mondiale, con la Cina posizionata in un ruolo da protagonista
nel determinare le regole e gli standard e quindi anche le modalità di accesso
al grande mercato interno cinese.
Lo
spostamento non è di poco conto: il modello di sviluppo del commercio
internazionale delineato dal WTO e dai rapporti commerciali basati sugli
standard occidentali, deve lasciare spazio ad una governance aperta al
contributo della Cina.
Gli
attacchi americani a Huawei, Tencent, Tik Tok aleggiano sullo sfondo come
ferite aperte che vanno rimosse.
Ma attenzione, questo non significa affatto
che la Cina sia disposta ad allentare le sue regole; anzi, essa sta promuovendo
al suo interno un programma normativo complesso che investe la privacy, la
tutela dei dati, i diritti di proprietà, la regolazione antimonopolistica e
quella dei servizi finanziari.
E
poiché, a fronte di queste nuove regole, rimangono le chiusure della Cina nei
confronti delle big tech americane, lo scontro maggiore non sarà, su questo
terreno, tra Europa e Cina, nonostante l’irrigidimento delle norme sui due
fronti, ma
continuerà ad essere tra Cina e Stati Uniti.
Il
confronto si farà meno duro nelle espressioni, rispetto alla narrazione
trumpiana, ma probabilmente più duro nella sostanza, anche perché il confronto
con Big Tech è già aperto anche all’interno degli Stati Uniti e nell’Unione
Europea e quindi non sarà sopportabile l’ulteriore carico di manovre o
infrazioni delle buone regole da parte cinese.
La
strategia della Cina passa per una riqualificazione della domanda e dell’offerta:
più
servizi ad alta tecnologia e più ricerca e innovazione sul piano interno, ma
anche più voce in capitolo nel determinare le regole internazionali che
investono lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecnologie.
Qui si
aprono le maggiori contraddizioni della linea politica di Xi Jinping.
Un
nuovo ordine tecnologico internazionale.
Alcuni
fatti.
La Cina ha il tasso di crescita degli
investimenti in R&D maggiore, mentre in valore a parità di potere
d’acquisto è seconda solo agli Stati Uniti (371 miliardi di dollari contro
477).
Oggi è
leader nell’energia nucleare, nei veicoli elettrici, nella generazione solare,
fotovoltaica ed eolica, nell’intelligenza artificiale, nella robotica (droni).
Negli ultimi 15 anni ha triplicato il suo
impatto sulle pubblicazioni scientifiche, ha raggiunto il 43% del valore
mondiale delle start-up con valore superiore al milione di dollari.
La
Cina intende essere il paese guida dell’intelligenza artificiale nel 2030, con
un ruolo trainante su tutta l’economia digitale (big data, fintech).
Le big
tech cinesi (Baidu, Alibaba, Tencent – BAT) sono al centro di ecosistemi molto
dinamici, assai più impegnate delle corrispondenti americane (Amazon, Facebook,
Google, Netflix), con il 42% del totale degli investimenti in venture capital
in Cina, contro il 5% delle Big Tech americane negli Stati Uniti..
La
crescita delle big tech cinesi, Alibaba, Baidu, JD.com, Meituan,
Pinduoduo,Tencent, è la dimostrazione del successo dello sviluppo nei settori
avanzati,
ma questa crescita pone questioni rilevanti al Partito Comunista: esso intende
controllare gli accessi alla rete, i contenuti, i contatti, finanche la
dimensione ed il ruolo pervasivo che questi giganti hanno nella società e
nell’economia cinese.
Il
caso più rilevante è rappresentato da Alibaba, il gruppo fondato da Jack Ma,
personalità dinamica e non accondiscendente, che si è alienato il sostegno del
Partito, al quale è pure iscritto.
In un intervento tenuto il 24 ottobre dello
scorso anno, Jack Ma aveva attaccato i regolatori cinesi in campo finanziario
accusandoli di muoversi secondo la logica del “banco dei pegni” e non di una
finanza moderna, basata sull’intelligenza artificiale e i big data.
Lo aveva fatto qualche giorno prima che avesse
inizio l’offerta iniziale di acquisto (IPO) più importante della storia delle
fintech, quella di Ant, società del gruppo Alibaba, con un valore atteso della
raccolta pari a 34 miliardi di dollari.
Per
quale motivo Jack Ma abbia corso un rischio così alto, rimane un mistero.
Secondo molti osservatori, la reazione fulminea e distruttiva dell’autorità di
regolazione cinese che ha bloccato l’IPO facendo crollare il valore della
controllante Alibaba, è stata scatenata dal suo attacco contro l’arretratezza del
regolatore.
Anche
se ciò fosse vero, non c’ è dubbio che sia Alibaba sia Ant sia Tencent erano da
tempo sotto osservazione.
Alibaba
per condotta anticoncorrenziale, Ant e Tencent perché interferiscono con
l’attività delle maggiori banche, prevalentemente pubbliche, sottraendo spazio
di mercato in particolare nel finanziamento delle PMI, ma anche nelle
transazioni per pagamenti, con il 55% gestito da Alipay (Alibaba) e il 38% da WeChat
Pay (Tencent).
La
giustificazione, in questo caso, è che il regolatore deve impedire
“un’espansione disordinata del capitale”.
Ma l’esito dell’intervento all’ultimo momento
sarà quello di danneggiare la credibilità del sistema regolatorio e di mettere
a repentaglio l’affidabilità cinese riguardo ai diritti di proprietà.
Ciò
conferma che l’accresciuto potere concentratosi nella mani di Xi Jinping
porterà ad una limitazione della proiezione internazionale delle aziende
cinesi, che verrà compensata in parte dalla crescita del mercato interno, ma
con un appesantimento del loro dinamismo, che sarà meno proiettato ad acquisire
competitività e più proiettato ad acquisire i favori del Partito Comunista.
Conclusioni.
La
Cina sta pianificando uno sviluppo per i prossimi 15 anni che la porti ad un
livello generale di benessere comparabile con quello di paesi come l’Italia.
Ma
questo non significa che il nostro Paese e l’Europa abbiano tempo a
disposizione per prendere le contromisure, poiché la velocità della Cina è, in
termini di crescita del prodotto interno lordo, un multiplo della nostra e
anche di quella europea o americana.
Il
dato medio, infatti, cela già oggi l’esistenza di realtà tecnologiche e di
capacità innovative di primo piano.
La Cina sta investendo in conoscenza e
tecnologia in modo determinato, per dotarsi di una filiera più integrata, per
ridurre la dipendenza tecnologica dall’estero, per affermare nell’ambito dei
settori ad alta tecnologia i propri standard come standard internazionali:
la lezione di Huawei, che era solo uno
standard di mercato, ma non aveva acquisito l’autorevolezza e la credibilità di
standard condiviso è stata capita.
Investimenti
in formazione e ricerca da un lato, dall’altro, creazione di regole per poter
governare il mercato interno e le sfide poste dalle big tech cinesi e infine
gli strumenti per gestire un mercato del lavoro e dei capitali che crescono e
che rischiano continuamente di destabilizzare il controllo del Partito sulla
società e sull’economia.
È una
sfida molto ambiziosa:
la Cina non ha tradizione di regolazione nel
campo dei diritti di proprietà, della tutela della privacy, del diritto
societario.
E ha
un sistema giudiziario assai rudimentale.
Il Codice Civile entrato in vigore in questi giorni è,
a giudizio degli studiosi cinesi, il primo codice legislativo del Paese degno
di questo nome.
Nel
trattare questioni complesse come la tutela della concorrenza o della privacy,
a fronte di una esperienza consolidata europea e americana, la Cina deve
crearsi il know how e potersi richiamare ai precedenti in sede giudiziaria.
Esauriti
gli spazi di incremento della produttività dovuti allo spostamento della forza
lavoro dalla campagna alla città (ma lo spazio è ancora lontano dall’essere
esaurito), la Cina dovrà affrontare due temi:
la competizione sull’innovazione e la
creazione di un welfare più inclusivo che tuteli gli anziani, una quota della
popolazione enormemente crescente nei prossimi anni.
Sul
piano interno la Cina ha molta strada da fare e complessi problemi di libertà e
di consenso che la società pone.
Non è affatto scontato che il sistema sempre
più rigido che, passo dopo passo, Xi Jinping sta introducendo, sia in grado di
rispondere a queste domande.
Vi è
il rischio che le questioni della sovranità continentale su Hong Kong e Taiwan,
possano servire da collante all’arroccamento del sistema di potere intorno a Xi
Jinping.
Mentre
la guerriglia tecnologica sulla rete continuerà a svilupparsi per saggiare la
resilienza degli avversari.
Queste
considerazioni non possono consolare i decisori politici europei e occidentali.
Alla
domanda se la Cina di Xi Jinping si avvicini o si allontani, è possibile
rispondere che essa si avvicina a tutti nel mercato mondiale, che sempre di più
la vede primeggiare, e che si allontana, allo stesso tempo, seguendo una
propria via e i propri interessi, con una capacità di imporli attraverso un
potere economico, tecnologico e di ricerca che prima non aveva.
I
prodotti cinesi saranno sempre meno “copie”, mentre i servizi cinesi saranno
sempre più “domestici” nel senso di addomesticati.
Se la
trazione Usa, fino ad oggi, aveva consentito all’Europa di vivacchiare nella
sua minuscola dimensione politica all’ombra delle ali dell’aquila dello zio
Sam, ora quell’aquila è spennacchiata.
Certo, anche il dragone cinese ha i suoi
problemi che non sono di facile soluzione, e qui ne abbiamo indicati diversi,
ma -a suo modo- li affronta.
L’Unione
si muove sul digitale più velocemente dei paesi membri: è un buon segno.
Ma il
sacrosanto obiettivo di evitare la babele delle normative sovraniste in materia
di digitale, anticipandole con norme europee rischia di appesantire la
regolazione complessiva del mercato.
Creare un unico mercato interno digitale, ma
con un fardello di regolazioni e tassazioni punitivo per l’innovazione e la
competizione, sarebbe un risultato peggiore.
Anche
sulla ricerca l’Europa ha un ruolo importante, sia sui temi sia sui mezzi introdotti.
Ma è
ai paesi membri che ritorna la palla quando si parla di scuola e di università,
ossia delle competenze per produrre innovazione.
Qui,
dove si gioca il nostro futuro, dobbiamo mobilitare le nostre risorse,
politiche, istituzionali, economiche e culturali.
Non
mancano, ma nessuno sembra interessato a sostenerle per disegnare la società di
domani.
Draghi,
“portiamo l’Italia nel metaverso”,
ma
ecco perché serve cautela.
Agendadigitale.eu
– (6-5-2022) – Mirella Luzzi – Fabio Pompei – ci dicono:
Mark
Zuckerberg ha appena incontrato il premier Draghi per parlare di metaverso e
investimenti.
Di
come portare l’Italia e le eccellenze nostrane in questo nuovo universo.
Tuttavia
questo mondo, spesso vicino al “Web3”, ha pregi ma anche difetti che la politica
e i cittadini devono ben considerare
Stiamo
entrando nell’era del “Metaverso” e del Web3, un nuovo modo di “vivere”
Internet, più interattivo, virtuale ed immersivo.
In
Italia, però, il dibattito sembrerebbe sopito, nonostante recentemente il Senato
della Repubblica abbia avviato un’indagine conoscitiva sul tema e la Luiss
abbia organizzato un ciclo di seminari aperti per approfondire gli aspetti
regolatori.
Mark
Zuckerberg ha appena incontrato il premier Draghi proprio per parlare di
metaverso e investimenti. Di come portare l’Italia e le eccellenze nostrane in
questo nuovo universo.
Nel
resto del mondo numerosi sono gli interrogativi su questa nuova visione della
Rete, con notevole fermento di sperimentatori, aziende e appassionati di
tecnologia che continuano a domandarsi sin dove Mark Zuckerberg – promotore di
questo nuovo mondo – vorrà spingersi.
Perché
dovremmo interessarci a livello anche politico?
Per
molte ragioni.
Indice
degli argomenti.
Metaverso
e NFT.
Pregi
e difetti del Metaverso.
Cos’è
il Metaverso.
Metaverso
e NFT.
Spesso
“Metaverso” fa rima con “NFT” e “web3”: entrambi partono da un universo
crittografico comune e in particolare gli NFT sono gli oggetti di proprietà che
popolano i metaversi e ne caratterizzano l’esistenza.
In
piattaforme come “The Sandbox” e “Decentraland”, tramite blockchain, ma
soprattutto tramite l’utilizzo di “NFT”, si può già vivere in un mondo virtuale
comprando terreni, oggetti personalizzabili e partecipando anche alle decisioni
della community, aspetto quest’ultimo, sicuramente affascinante di questi nuovi
mondi virtuali post-Second Life.
Le”
DAO” (Decentralized autonomous organization) sono organizzazioni
decentralizzate e autonome che tramite “blockchain”, basano sulla
partecipazione della propria community il loro punto di forza.
Chi
gestisce una “DAO” emette “token” che danno la possibilità ai possessori di
votare e diventare una sorta di azionisti della società.
Due
esempi.
Negli
ultimi mesi le società di calcio si stanno lanciando nel mondo “crypto” per
coinvolgere e monetizzare maggiormente il legame con i propri tifosi,
garantendo una serie di vantaggi per chi
acquista i cosiddetti “fan token”.
In particolare la Lazio fa scegliere ai propri
tifosi possessori del “token”, il miglior giocatore da premiare, la canzone con
la quale la squadra uscirà dagli spogliatoi e permette anche di prenotare
biglietti “VIP”.
Inoltre,
anche il mondo dell’audiovisivo è protagonista del nuovo Web3.
È possibile guardare la serie animata “Stoner
Cats” con le voci di Ashton Kutcher e Mila Kunis solo se si è possessori di un “NFT”.
In
futuro l’idea è quella di creare anche in questo caso una “DAO” per far
partecipare i propri “azionisti” allo sviluppo e all’ideazione di nuove serie
tv animate.
Fino
ad ora dunque il “metaverso” sembrerebbe soprattutto uno strumento finanziario
e una “gamification” applicata all’universo “blockchain” e delle “cryptovalute”.
Pregi
e difetti del “Metaverso”.
Ritrovarsi
tutti in un unico ambiente virtuale avrà sicuramente dei pregi, come quello di
abbattere le distanze, vivere con più facilità i rapporti lontani, grazie
soprattutto a speciali “visori VR” (come gli Oculus già prodotti da Facebook)
che renderanno maggiormente immersiva tale esperienza.
Non
solo opportunità, ma anche dubbi e qualche criticità al momento da gestire.
Se non
proprio grattacapi: lo scorso dicembre – quindi dopo appena due mesi dall’avvio
della piattaforma – una sperimentatrice ha affermato che, mentre si aggirava su
Horizon Worlds, è stata avvicinata da un avatar sconosciuto che l’ha
palpeggiata.
Come riportato
dalla BBC, una ricercatrice – fingendosi una ragazza di 13 anni – è stata
adescata e minacciata di stupro, mentre alcune app della piattaforma hanno
permesso alla stessa adolescente (almeno sulla carta) di accedere a stanze
virtuali “piccanti” dove poteva interagire con altri avatar che simulavano atti
sessuali.
C’è
poi da tenere a mente anche il tema dell’informazione.
Come
verrà gestita questa nel metaverso?
È ben
noto che l’informazione è elemento costitutivo del potere e fattore fondamentale
della strategia; così come non sono una novità le azioni belliche consistenti
nell’uso delle informazioni.
La
disinformazione è un’attività praticata da tempi remoti e tutt’altro che inutilizzata.
Lo
sfruttamento della risorsa informativa è un amplificatore e il metaverso
potrebbe non avere regole chiare soprattutto in una prima fase.
La formazione di grandi masse dati – fenomeno
meglio noto come “big data “– e il loro utilizzo controllato con l’impiego di
algoritmi di analisi rappresentano nella competizione (economica, politica,
strategica) la nuova leva per la formazione di posizioni di potere.
Un
mondo, dunque, senza (o con poche) regole, mentre rimane viva la preoccupazione
su chi governerà tutti i dati personali degli utenti e sulle implicazioni
psicologiche che tale sistema avrà sulla salute mentale, specie quella degli
adolescenti: ci sarà ancora qualcuno che vorrà uscire da casa e socializzare al
bancone di un bar come ai vecchi tempi?
Solo
perché un’esperienza è virtuale non vuol dire che – ahimè – le sue conseguenze
non possono essere meno reali.
Cos’è
il “Metaverso”.
L’idea
del Metaverso si affaccia, per la prima volta, in un romanzo scritto nel 1992
da Neal Stephenson, intitolato “Snow Crash”.
Tra le
pagine futuristiche del racconto emerge un “non luogo”, denominato – appunto –Metaverso, una realtà virtuale
tridimensionale che viaggia sulla rete, e all’interno della quale ogni
singolo abitante del pianeta può accedere e vivere in una realtà parallela a
quella fisica attraverso un “avatar”.
Dobbiamo
fare un salto fino al 2003 per vedere in parte realizzato il sogno di
Stephenson, quando il fisico Philip Rosedale lancia sul mercato un mondo
virtuale 3D on-line con il nome di “Second Life”, primo vero e proprio metaverso,
in cui tramite il “proprio avata”r si può agire, creare oggetti, fare acquisti,
vivere delle esperienze, andare all’università.
Solo
molto più tardi sarebbero attivate le “cryptovalute” e l’esplosione di
videogame come “Minecraft”, “Fortnite” e” Roblox”.
Nel
2018 con il noto film “Ready Player One”, è il cinema a farci conoscere un
metaverso di nome “OASIS”, in cui le persone si immergono nel mondo virtuale
per scappare alla propria condizione sociale e ad un stato ambientale terribile
in cui si trova il pianeta Terra.
Fantascienza?
Infine
arriviamo all’ultimo annuncio di Mark Zuckerberg in cui di fatto trasforma
l’azienda Facebook in “Meta” puntando ad essere una vera e propria piattaforma
del metaverso, primo tra le big tech GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) ad appropriarsi non solo di parte del
nome del nuovo universo virtuale, ma anche dell’investimento faraonico di 10 miliardi
di dollari.
“In
questo futuro – ha spiegato Mark Zuckerberg – sarai in grado di “teletrasportarti” istantaneamente come un ologramma
per essere in ufficio senza spostarti, a un concerto con gli amici o nel
soggiorno dei tuoi genitori.
Questo
aprirà più opportunità, non importa dove vivi.
Sarai
in grado di dedicare più tempo a ciò che conta per te, ridurre il tempo nel
traffico e ridurre
la tua impronta di carbonio”.
Un
nuovo pianeta, totalmente virtuale, è quasi pronto.
Nell’ottobre 2021 è partita la sperimentazione
(solo per addetti ai lavori) di uno spazio etereo (Horizon Worlds) in cui gli utenti possono
interagire con altri utenti all’interno di un ambiente generato dal computer.
Gli
utenti in carne ed ossa vengono identificati con un’icona digitale o una figura
che li rappresenta, generalmente un avatar.
Gli
autori dell’articolo hanno partecipato (con Alessandro Alongi) alla redazione
del libro “Fakedemocracy”.
Il far
west dell’informazione, tra “deepfake” e “fake news” dove si trattano alcuni
dei temi esposti.
(Mirella
Liuzzi – Fabio Pompei)
BRICS
e nuovo ordine mondiale.
Parla Marco Ricceri.
Ytali.com
- ANNALISA BOTTANI – (7 Febbraio 2023) – ci dice:
Interpretare
i nuovi scenari e le nuove alleanze definiti anche a seguito dell’invasione
dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.
Questa è l’importante sfida da cogliere per
comprendere le prospettive di breve e medio periodo e le dinamiche che
caratterizzeranno l’assetto internazionale.
In tale contesto, il coordinamento BRICS
riveste un ruolo strategico, anche alla luce del suo futuro ampliamento.
Ne
abbiamo parlato con il Professor Marco Ricceri, segretario generale
dell’Istituto di studi e ricerche Eurispes ed esperto di politiche sociali e del
lavoro europee.
“Una
realtà strutturale, non congiunturale ed effimera”, così ha definito i BRICS
nel corso della sua ultima conversazione con ytali.
A
distanza di quasi tre anni, lo scenario politico mondiale è radicalmente
cambiato, dalla diffusione della pandemia alla crisi economica globale,
dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa a nuovi
disequilibri geopolitici che si stanno intensificando con il passare dei mesi,
anche a fronte del rifiuto russo di cessare le ostilità.
A suo
avviso, quali sono i fenomeni cruciali emersi in questi tre anni nell’ambito
dei BRICS, che valgono ormai circa un quarto del Pil mondiale?
Con i
BRICS siamo di fronte a un coordinamento importante tra Stati che svolgono un
ruolo di primo piano sulla scena internazionale e che, contrariamente a molte
previsioni, è riuscito a mantenersi attivo e consolidarsi in questi anni,
intensificando – questo è il punto da sottolineare – sia la cooperazione
interna sia la cooperazione esterna.
È
sufficiente esaminare i progetti e le iniziative comuni promossi con gli ultimi
vertici nei più diversi ambiti di attività per avere un’idea precisa di questo
processo di consolidamento interno ed esterno.
Come
noto, i vertici degli ultimi anni – Mosca 2020, New Delhi 2021, Pechino 2022 –
sono stati preparati e seguiti da numerosi incontri ai più diversi livelli, da
quelli ministeriali a quelli di esperti, operatori economici, accademici e
altro, che hanno disegnato e definito precise linee di cooperazione.
A
titolo di esempio, si può citare il programma strategico di Partenariato Economico 2025
che ha
individuato le aree di maggior intervento, dall’energia all’industria, dal
digitale all’agricoltura, dal commercio ai servizi.
Nella
proiezione esterna il coordinamento BRICS ha rilanciato i due progetti, BRICS Plus e BRICS Outreach, anche per rispondere alle richieste
di adesione e/o di collaborazione con il raggruppamento che sono pervenute da
numerosi Stati di diversi continenti, dall’America Latina all’Africa, dalla
realtà mediterranea al Sud-Est asiatico.
BRICS+186
Paesi.
L’ultimo
summit virtuale a guida cinese svoltosi a giugno dello scorso anno, secondo
alcuni analisti, è stato una preziosa occasione per la Cina, che ha un ruolo
predominante in termini economici, per delineare la proposta di un nuovo
assetto multipolare che possa coinvolgere ulteriori Paesi in via di sviluppo
(tra cui Argentina, Iran e Algeria che hanno già formalizzato la richiesta di
adesione ai BRICS) e porsi quale alternativa ad alcuni soggetti politici
occidentali (il G7, ad esempio).
Il
vertice G20, tenutosi a Bali a novembre del 2022, tuttavia, non si è
focalizzato solo sul confronto tra superpotenze, ossia Cina e Stati Uniti.
Altri Paesi membri (ad esempio, Brasile,
India, Indonesia, Messico, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia), infatti, hanno
richiesto il riconoscimento delle proprie istanze, manifestando la necessità di
portare avanti la propria agenda, a prescindere dalle pressioni internazionali
e dal conflitto in Ucraina, considerato una “distrazione dalla sicurezza e dallo
sviluppo economico”.
Come
ha influito l’esito di questi due vertici sui rapporti tra i Paesi BRICS e
sull’implementazione delle progettualità congiunte?
Per
capire l’impatto di questi due vertici – quello BRICS svoltosi a Pechino a
giugno del 2022 e quello del G20 a Bali, in Indonesia, a novembre dello stesso
anno, sui rapporti tra gli Stati del raggruppamento, bisogna riflettere su un
dato importante di premessa: fin dalla loro costituzione formale nel 2009 e poi
nel corso di tutti gli anni successivi i BRICS si sono sempre posti come
riformatori, non come distruttori dell’ordine globale esistente e del relativo
sistema di governance; ad esempio, hanno sempre riconosciuto il ruolo centrale
delle Nazioni Unite e di altre istituzioni internazionali quali lo stesso Fondo
Monetario e l’Organizzazione mondiale del commercio, di cui ovviamente chiedono
una riforma.
Anche
al vertice informale del G20 a Bali, i BRICS hanno riconosciuto esplicitamente
il ruolo del G20 quale principale strumento economico per la costruzione di un
modello più equilibrato e valido di sviluppo globale.
Questa posizione BRICS è stata confermata
anche negli ultimi incontri, cioè in una fase segnata dall’emergere di un
processo inatteso di polarizzazione del sistema internazionale segnato da forti
e crescenti tensioni e conflitti, com’è la guerra in Ucraina.
Gli
Stati BRICS presentano indubbiamente degli elementi di grande diversità tra
loro, sul piano politico, economico, culturale, sociale, con tutti gli effetti
che questa situazione comporta nel loro sistema di rapporti.
Ma ciò
non toglie che riescano a mantenere fermo il loro obiettivo strategico di
riforma del sistema di governance globale per la costruzione di un
multilateralismo più equilibrato, in grado di correggere i grandi squilibri che
pesano sulla vita della maggioranza della popolazione mondiale.
Il
quartier generale dei BRICS e della New Development Bank si trova a Shanghai.
Ritiene
che l’avvio del processo di “de-dollarizzazione” del mercato finanziario
globale e, dunque, di una fase post Bretton Woods, auspicato da alcuni Paesi,
sia un obiettivo concreto oppure si è ancora molto lontani da una variazione,
anche minima, dell’ordine attuale?
Questo
è uno degli aspetti più significativi della cooperazione BRICS.
Leggendo
i progetti in corso di attuazione, ci si rende ben conto dei passi avanti
concreti che stanno facendo per costruire un loro originale sistema monetario
per contribuire – questo è il punto che evidenziano – a una maggior stabilità
ed equilibrio dei mercati finanziari mondiali.
I BRICS stanno procedendo nella formazione di una loro
valuta comune, di comuni riserve di investimento, nel moltiplicare gli accordi
reciproci riguardo all’impiego delle valute nazionali, un passaggio
quest’ultimo che è visto con particolare favore anche da molti Stati esterni al
coordinamento, emergenti e in via di sviluppo.
Oltre alla loro banca di sviluppo – “NDB” – e
al Fondo di Riserva – “CRA”, negli ultimi tempi i BRICS hanno creato diversi
organismi importanti come l’”Insurance Pool”, il “BRICS Exchange Alliance”,
hanno elaborato uno specifico programma di supporto alle relazioni commerciali
denominato “Promozione commerciale finanziaria”, un programma per le operazioni
speciali legate alle attività di esportazione-importazione etc.
Certo un impulso forte a intensificare le
iniziative in questa direzione è venuto dalle tensioni emerse sulla scena
internazionale, dalle sanzioni occidentali alla Russia alla caduta di molti
elementi di fiducia tra i principali attori dello sviluppo mondiale.
Vorrei
soffermarmi brevemente sul ruolo dell’India.
Secondo
quanto riportato dal New York Times, in base ad alcune previsioni
“ottimistiche”, il Paese, ora al quinto posto, sarà la terza economia mondiale
entro il 2030, dopo Stati Uniti e Cina.
Secondo il ministro degli Esteri indiano, a causa
dell’impatto determinato dalla guerra in Ucraina, l’ordine mondiale, ancora
profondamente occidentale, sarà sostituito da un mondo basato sul “multi allineamento”,
ove i Paesi potranno scegliere di perseguire le proprie politiche e i propri
interessi.
Malgrado
le recenti dichiarazioni del primo ministro Narendra Modi sulla guerra in
Ucraina (“Now is not the time for war”), l’India ha mantenuto, comunque,
stretti rapporti politici, economici e militari con la Russia, consolidando, allo
stesso tempo, l’alleanza con Stati Uniti e Giappone nell’ambito del piano
strategico dell’Indo-Pacifico (l’Indo-Pacific Economic Framework), anche in un’ottica di contenimento
del dominio cinese.
Considerata la posizione di India e Cina, come
potranno coesistere tali istanze nell’ambito della realtà dei BRICS?
In
occasione dell’ultimo summit (Pechino, giugno 2022), il premier indiano Modi,
dopo aver sottolineato che, a causa del Covid, questo era il terzo vertice
svolto in videoconferenza, ha dichiarato:
“Noi,
Paesi membri dei BRICS, abbiamo una visione simile sulla governance
dell’economia globale.
E di conseguenza la nostra reciproca
collaborazione può dare un utile contributo alla ricostruzione globale
post-Covid”.
Quindi,
ha richiamato il fatto che, nel corso degli anni, “abbiamo fatto un notevole
numero di riforme istituzionali nei BRICS che hanno aumentato l’efficacia
dell’organizzazione.
È un
elemento di soddisfazione che, ad esempio, sia aumentato il numero dei soci
della nostra nuova Banca di Sviluppo”, che “la nostra reciproca collaborazione
sia aumentata in molte aree” come, ha citato tra le altre, “il coordinamento
tra i dipartimenti doganali”, “la creazione di un sistema satellitare
condiviso”.
La
soddisfazione per il progresso dei BRICS espressa dal primo ministro indiano
Modi e il suo impegno attivo nel coordinamento possono anche sembrare in
contraddizione con la partecipazione dell’India ad altri diversi organismi di
coordinamento internazionale.
In effetti, a ben riflettere, non lo sono,
poiché gli assi strategici della politica BRICS riguardano la riforma del
sistema di governance mondiale e lo sviluppo della cooperazione reciproca
orientata a promuovere gli interessi dei singoli Stati membri.
Rispetto
a questi obiettivi, che sono stati definiti primari, i BRICS hanno classificato
come di rilevanza secondaria le questioni aperte tra i singoli membri.
È il caso delle tensioni tra India e Cina sul
confine del Pakistan.
Un
ultimo aspetto da non sottovalutare riguarda il fatto che l’India, secondo le previsioni
Onu, in questo 2023 dovrebbe superare la Cina per numero di abitanti,
raggiungendo 1,43 miliardi di persone, diventando così il Paese più popoloso
del mondo; che la forza lavoro indiana (persone dai 15 ai 64 anni) aumenta ogni
anno di almeno 10 milioni di unità, che la popolazione indiana ha un’età media
di 27 anni, mentre quella cinese è di 39.
Anche
questo richiamo dovrebbe aiutare a riflettere meglio perché le istanze dei
BRICS e dell’India al suo interno trovano un impulso importante anche in questi
processi di cambiamento demografico, ben diversi, ad esempio, da quelli in atto
nel nostro sistema europeo.
Passiamo
ora alla Russia.
A
seguito dell’invasione dell’Ucraina, il Cremlino, stretto nella morsa
dell’isolamento internazionale e delle sanzioni, ha introdotto le proprie
strategie di “soft power” per fomentare il risentimento di alcuni Paesi del Sud
America, dell’Africa e dell’Asia che non si sentono adeguatamente rappresentati
nell’ambito dell’assetto geopolitico attuale, con l’obiettivo di creare, in
un’ottica “anticolonialista” (un termine ormai presente nella narrazione
putiniana), un fronte antioccidentale.
In tal
senso, la transizione verso i “BRICS Plus” potrebbe essere l’occasione per
raggiungere tale obiettivo.
Su
quali ambiti, a suo avviso, punterà il Cremlino per costruire una base progettuale
utile non solo nell’ambito dei BRICS, ma anche della politica interna?
Francamente
non ho elementi per valutare lo stato e gli orientamenti dell’attuale politica
interna della Russia.
Registro piuttosto il fatto che numerosi
progetti portati avanti concretamente dal coordinamento BRICS sono di supporto
agli interessi nazionali di quel Paese, come degli altri Stati membri:
mi
riferisco ai piani di investimenti nelle infrastrutture, nell’energia, alla
discussione in corso tra i presidenti delle banche centrali BRICS
sull’organizzazione di un sistema di pagamento comune, con riferimento a
un’unica valuta convertibile.
Dai
documenti ufficiali si apprende che si sta discutendo anche del possibile nome
da dare a questa unità monetaria, la nuova moneta dei BRICS: “RULIND” oppure “R5” con riferimento
alle iniziali delle monete dei cinque Stati membri.
Poi vi
è un altro elemento da valutare con attenzione: la Russia è stata uno dei due
principali promotori, insieme alla Cina, del coordinamento BRICS avviato nei
primi anni Duemila.
Fin
dall’inizio l’esigenza di tutela degli interessi nazionali si è combinata con
quella dell’organizzazione di un diverso, più equilibrato multilateralismo.
Queste
due esigenze sono valide anche nella situazione attuale.
Una
situazione che registra, da un lato, il procedere dei processi di
globalizzazione, sia pur con modalità del tutto diverse anche dal recente
passato, e, dall’altro, l’emergere di richieste sempre più chiare e incisive da
parte delle realtà emergenti che soffrono maggiormente gli effetti degli
squilibri generati dall’unilateralismo.
Insomma,
sempre più diffusa è la domanda di una vera riforma dell’ordine globale, testimoniata dal moltiplicarsi di
nuovi organismi di coordinamento regionali (si pensi al caso del MITKA) o del
rilancio di quelli già esistenti.
In queste condizioni, non vedo il formarsi di
una “piattaforma antioccidentale” da parte della Russia, perché i BRICS sono
strettamente intrecciati all’Occidente.
Vedo
piuttosto un gran problema aperto che riguarda tutta la comunità
internazionale:
saper affrontare e risolvere la suddetta riforma, con
lo stesso impegno, ad esempio, con cui si è arrivati a definire in sede Onu una
valida strategia per lo sviluppo sostenibile condivisa da tutti gli Stati
membri.
Xi
Jinping ha visitato il comando centrale dell’esercito popolare cinese, il 28
gennaio 2022.
L’ampliamento
della realtà BRICS dovrà procedere necessariamente per step.
Si
tratta di stabilire non solo lo status dei nuovi membri (osservatore e altri
ruoli intermedi), ma anche i rapporti con la banca di riferimento (la New Development Bank), armonizzando gli obiettivi e le
esigenze di Paesi alquanto eterogenei in termini socioeconomici, politici e
culturali.
Senza dimenticare i Paesi che hanno manifestato
l’interesse ad aderire, tra cui l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto e
l’Indonesia, solo per citarne alcuni.
Quali saranno i requisiti per l’adesione e il
modello di governance previsto?
Il
rilancio delle strategie “BRICS Plus” (nuovi membri) e “BRICS Outreach”
(ampliamento della cooperazione esterna) coglie un’esigenza diffusa nelle
realtà emergenti del mondo.
Questo è il dato su cui riflettere.
All’interno
dei BRICS la discussione, molto viva, verte sull’approccio da seguire nelle
future adesioni: quale tipo di adesione promuovere, quale nuovo assetto
istituzionale assumere, quale sistema decisionale?
All’esterno
della realtà del coordinamento si diffondono le richieste di collaborazione e
di adesione ai BRICS, sintomo di un interesse e di bisogni diffusi
insoddisfatti, cui le istituzioni tradizionali non sembrano in grado di dare
adeguate risposte.
Due
esempi, per maggiore chiarezza: cosa può significare per i futuri orientamenti
di sviluppo dell’America Latina il fatto che, oltre al Brasile, membro
fondatore dei BRICS, anche l’Argentina, di recente, ha maturato la richiesta di
adesione al coordinamento?
Situazione
simile si registra nell’area mediterranea ove tre Stati importanti – Turchia, Egitto e, di recente,
Algeria –
hanno chiesto di entrare a far parte dei BRICS.
Sono
scelte importanti che rappresentano in fondo un voltare le spalle all’Unione
europea.
Certo
i rapporti bilaterali tra gli Stati del Mediterraneo continueranno a mantenersi
e ad approfondirsi, come è emerso anche con le recenti iniziative dell’Italia.
Ma sarebbe davvero miope non cogliere il significato
anche politico delle scelte dei suddetti Stati in favore dei BRICS.
Penso
che, in ambito Ue e dell’Unione per il “Mediterraneo UpM”, sarebbe quanto mai
opportuna una riflessione approfondita sulle vere ragioni di queste scelte che
incideranno su tutta l’area, che è anche di primario interesse per l’Italia.
Quest’anno
la presidenza del coordinamento dei BRICS spetta al Sudafrica.
Quale ruolo svolgerà il Paese nella gestione
ordinaria delle principali iniziative in programma e, allo stesso tempo, delle
gravi criticità – in primis, il conflitto in Ucraina – che il sistema
internazionale sta affrontando in questa fase?
Il
Sudafrica ha espresso con molto chiarezza gli obiettivi della sua presidenza
BRICS 2023.
Sul
piano interno, poter usufruire della cooperazione degli altri Stati BRICS per
sostenere con adeguate iniziative commerciali e di investimenti il proprio
Piano Nazionale di Sviluppo.
Sul
piano regionale, con riferimento al continente africano, impegnare i BRICS nel
sostegno alle iniziative dell’Unione Africana (UA), il principale organismo di
coordinamento del continente, e soprattutto al suo programma strategico dell’Agenda 2063.
In sostanza, creare una sinergia stretta
BRICS-Africa.
Sul
piano internazionale, promuovere con i BRICS l’Agenda del Sud Globale (Global
South), collegando questo impegno al raggiungimento degli obiettivi dello
sviluppo sostenibile enunciati dall’Agenda 2030 dell’Onu.
A
livello globale, infine, premere nelle sedi internazionali per garantire una
rappresentanza adeguata ai Paesi emergenti e in via di sviluppo e una loro adeguata partecipazione
alla governance dei processi globali.
Il neopresidente
brasiliano Lula Inácio da Silva accetta le credenziali dell’ambasciatore di
Cina a Brasilia Zhu Qingqiao.
Nel
2015 l’Eurispes ha istituito un laboratorio dedicato ai BRICS. Su quali
progetti è impegnato attualmente?
La
crescente repressione messa in atto dal Cremlino, la transizione verso una
forma di governo che è possibile definire “totalitarismo ibrido” e la militarizzazione della società
consentono ancora di avviare un dialogo con le istituzioni del Paese?
Il
Laboratorio sui BRICS di Eurispes è un organismo aperto di riflessione e studio
cui partecipano, su base volontaria, esperti e accademici delle più diverse
discipline.
È un organismo scientifico e culturale, non politico.
Abbiamo preso spunto per questa iniziativa da
una riflessione di Romano Prodi, già presidente della Commissione europea, il
quale segnalò che il Mediterraneo, area di primario interesse per l’Italia, non
era più da considerare un “Mare nostrum” perché i maggiori processi di
cambiamento facevano riferimento a Stati esterni, appartenenti al coordinamento
BRICS, in primis Cina e Russia.
Da qui lo spunto ad approfondire la natura,
gli obiettivi, le politiche di questo coordinamento poco conosciuto, un’analisi
che si è sempre più estesa all’impatto dei BRICS nelle aree e nei settori
internazionali su cui gravita anche l’interesse del nostro Paese.
Il
nostro approfondimento sul tema ha suscitato un crescente interesse, in Italia
e all’estero, e la notevole partecipazione di esperti qualificati. Siamo, quindi, di fronte a
un’iniziativa di carattere scientifico.
Di
fronte alla guerra in Ucraina, Eurispes, fin dall’inizio, ha preso una
posizione molto netta e chiara di condanna della guerra e dell’aggressore
russo, com’è
testimoniato anche dalle considerazioni generali del presidente Fara pubblicate
nell’ultimo Rapporto Italia 2022.
Mi
permetto di aggiungere al riguardo una riflessione strettamente personale, che
non coinvolge minimamente l’Istituto e che ispira il mio impegno.
Ogni
giorno in Ucraina muore gente.
Di fronte
a questa realtà mi devo spogliare di ogni sovrastruttura di pensiero e cercare
l’essenziale: come contribuire a fermare questa tragedia? Politica? Economia?
Armi? Sanzioni? Diplomazia?
Mi
sembra che finora queste aree di intervento non abbiano funzionato.
Può
servire mantenere aperti i canali della collaborazione culturale e scientifica?
Sono i
canali che parlano alle coscienze delle persone e forse è questa la sola strada
da percorrere, nelle attuali condizioni.
La
cultura e la scienza esprimono valori universali;
prospettano
linee di progresso condiviso: altrimenti non possono essere definite tali.
Chi
riceve il frutto delle nostre analisi e riflessioni può essere indotto a
riflettere sul valore di scenari alternativi a quello della guerra, può riflettere
e agire nel suo ambito di responsabilità e di azione per bloccare questa
tragedia quotidiana.
È una possibilità, non una certezza, ma,
comunque, è una via da percorrere.
Penso che sia un dovere, anche etico,
lasciarla aperta.
In
questa direzione si è espresso chiaramente anche il presidente Mattarella che
ha richiamato l’importanza di mantenere aperti i canali degli scambi culturali
e scientifici, come strumenti di pace.
Fukushima:
il Peggio
deve ancora Arrivare.
Conoscenzealconfine.it
– (22 Marzo 2023) - Massimo Mazzucco – ci dice:
Forse
non sarà necessario aspettare una guerra atomica fra russi e americani, per
goderci le piacevoli conseguenze di una contaminazione nucleare…
Basterà
aspettare che i giapponesi riversino in mare 1 milione e 300.000 tonnellate di
acqua contaminata che fino ad oggi è stata stipata nelle centinaia di cisterne
che circondano la vecchia centrale.
I
giapponesi sostengono che ormai le cisterne hanno raggiunto la capacità limite,
e che bisognerà iniziare a rovesciare in mare il loro contenuto.
Questo naturalmente ha scatenato le proteste
dei cinesi, dei coreani, dei russi, e della confederazione delle isole del
Pacifico, che saranno i primi paesi a vedere il proprio mare contaminato dalle
acque radioattive.
Si calcola infatti che nell’arco di tre anni
l’intero oceano Pacifico sarà contaminato, mentre nell’arco di 10 anni la
contaminazione dovrebbe raggiungere tutti gli altri oceani del mondo.
Le
conseguenze disastrose sull’ecosistema possono essere solo vagamente
immaginate.
La
confederazione delle Isole del Pacifico accusa apertamente il Giappone di non
voler condividere i dati scientifici sulle acque contaminate, come invece
avevano promesso di fare.
E
mentre le varie nazioni del Pacifico lamentano apertamente i rischi di questa
operazione, tutto il mondo occidentale – di cui il Giappone è alleato – sembra
voler ignorare questo pericolo.
Evidentemente
la “comunità internazionale” esiste solo quando dobbiamo aggredire militarmente
un paese che vogliamo depredare.
Ma
quando si tratta di mettere in difficoltà uno di noi, allora piuttosto si tace.
Anche se
il prezzo, in questo caso, rischia di essere un disastro ecologico di portata
planetaria.
(Massimo
Mazzucco)
(luogocomune.net/23-energia-e-ambiente/6196-fukushima-il-peggio-deve-ancora-arrivare)
FM
cinese esorta il Giappone
a
gestire le acque reflue contaminate
dal
nucleare in modo responsabile.
Globaltimes.cn
– Redazione – (Marzo
06 - 2023) – ci dice:
Un'immagine
aerea mostra la centrale nucleare n. 1 di Fukushima a Fukushima, in Giappone,
nel febbraio 2023.
L'impianto
di smantellamento segnerà presto il 12 ° anniversario della fusione senza
precedenti dopo il terremoto e lo tsunami nel 2011.
Il
problema più urgente al momento è lo scarico di acqua trattata nell'oceano,
poiché la capacità di stoccaggio in loco si sta avvicinando al limite.
Il
ministero degli Esteri cinese ha esortato il Giappone a gestire le acque reflue
contaminate dal nucleare della centrale nucleare di Fukushima in modo aperto,
trasparente, scientifico e sicuro, affermando che non deve iniziare a scaricare
l'acqua in mare prima che una soluzione adeguata sia pienamente discussa e
concordata dai paesi vicini e dalle istituzioni internazionali competenti.
Il
portavoce del FM “Mao Ning” ha ribadito la seria preoccupazione della Cina e la
ferma opposizione alla decisione unilaterale del Giappone nella conferenza
stampa di mercoledì, quando gli è stato chiesto di commentare il governo
giapponese che non ha né cambiato la sua decisione di rilasciare più di un
milione di tonnellate di acqua contaminata nell'oceano, né ha risposto
adeguatamente alle preoccupazioni della comunità internazionale.
Il
Giappone ha accumulato più di 1,3 milioni di tonnellate di acque reflue
contaminate dal nucleare e potrebbero volerci più di 30 anni per rilasciarle
tutte nell'oceano.
L'acqua
contaminata dal nucleare contiene più di 60 radionuclidi, che si diffonderanno
nel mare in tutto il mondo dopo 10 anni di scarico, causando danni
imprevedibili all'ambiente marino globale e alla salute umana, ha osservato “Mao”
lunedì.
Paesi
come Cina, Corea del Sud, Russia e alcune nazioni insulari del Pacifico hanno
preoccupazioni condivise; diverse organizzazioni civili giapponesi hanno
lanciato una petizione con la firma di 180.000 giapponesi per resistere al
congedo;
e la
federazione giapponese della pesca ha ripetutamente espresso una forte
opposizione, ha detto “Mao”.
Secondo
TEPCO, la quantità totale di acqua contaminata dal nucleare a Fukushima ha
raggiunto 1,32 milioni di tonnellate al momento e ha continuato ad aumentare, e
l'acqua contaminata sarebbe diluita con acqua di mare se scaricata.
Si
stima che siano necessari 254 litri di acqua di mare pulita per ogni litro di
acque reflue contaminate dal nucleare, quindi la quantità totale di acqua
contaminata che il Giappone alla fine rilascerà nell'oceano supererà i 300
milioni di tonnellate.
Il
portavoce ha dichiarato che il Giappone dovrebbe prestare attenzione alle
preoccupazioni della comunità internazionale e del popolo giapponese, revocare
la decisione sbagliata, interrompere tutti i preparativi per il progetto di
scarico e adempiere ai suoi doverosi obblighi internazionali.
Esiste
un nuovo
ordine
mondiale.
Europeanaffairs.it
- Maurizio Iacono – (17 Settembre 2022) – ci dice:
I
conflitti sono sempre stati originati e condotti per ottenere risultati volti a
soddisfare il conseguimento degli intendimenti strategici che le nazioni
considerano essenziali per i loro obiettivi di politica nazionale.
Queste
ragioni sono state, poi, immancabilmente ammantate da un pesante velo di
propaganda (questo è il suo vero nome!) che le ha trasformate nell’eterna lotta
tra il bene e il male dove ognuno dei contendenti è convinto che la sua fazione
sia nel giusto e che la divina indulgenza ne sostenga e ne nobiliti le azioni.
E
l’attuale conflitto ucraino non scappa a questa regola!
Pur
condannando il ricorso alla forza a prescindere, se consideriamo in modo
asettico e senza condizionamenti di parte la situazione, possiamo vedere che la
posta in gioco in Ucraina non è rappresentata dalla sopravvivenza della
democrazia o dall’esistenza del mondo libero minacciato da una apocalisse
biblica di matrice autoritaria.
Quello
che è realmente in bilico è, in primis, la credibilità degli Stati Uniti nel
poter gestire la sfida che rappresenta l’ascesa della Cina, quale potenza
planetaria, senza il fastidio di un deuteragonista del palcoscenico mondiale
(la Russia di Putin), che costringe la geopolitica americana a rimanere invischiata
nell’angusto ambito euroasiatico.
In
stretta connessione a tale fattore è in discussione, anche, l’affidabilità
degli Stati Uniti nel sostenere, militarmente ed economicamente, i propri
alleati (dopo averli introdotti nella gabbia del leone!).
Ovviamente
la propaganda presenta gli USA come guida illuminata di un Occidente paladino
di una visione liberale del mondo, culla e rifugio della democrazia, che lotta
contro il Signore del Male di turno che, improvvisamente e senza motivo, ha
attaccato il cuore pulsante dell’Europa (con tutto il rispetto per l’Ucraina,
ma sino a poco tempo fa era una vaga entità ai confini del mondo sconosciuta ai
più).
Dall’altra
parte abbiamo, invece, una Russia che nell’ambito della sua continuità storica
pretende un ruolo di potenza globale, che non accetta di essere un
deuteragonista della scena mondiale e che ha radicato nel suo DNA
geopolitico la sindrome dell’accerchiamento.
Questo
ha come conseguenza diretta che, oltre ad essersi ripresa la Crimea (che
significa l’accesso a un mare caldo e ai siti nucleari), la Russia abbia dato
inizio a una seconda fase di questo conflitto per eliminare o ridurre il
problema di avere alla soglia di casa un soggetto politico, considerato (non
del tutto a torto, bisogna riconoscerlo) uno strumento di pressione
occidentale, pericoloso perché in grado sia di condizionare le sue arterie di
trasporto energetico, sia di esportare idee e tendenze poco gradite e
considerate destabilizzanti per la propria stabilità interna.
Di
contro, la propaganda russa presenta questo conflitto come la ineluttabile
necessità di difendere la “Grande Madre Patria” da un nuovo attacco da parte
del “perverso liberalismo occidentale”, che vuole privare la Russia del suo
ruolo e che intende governare il mondo con le sue idee retrò di democrazia e
diritti individuali.
Allargando
la visione, ci troviamo di fronte, però, a un conflitto che si sviluppa su due
livelli differenti:
nello
scenario tattico si affrontano Russi e Ucraini;
nello scenario geopolitico, invece, i protagonisti
sono molti di più e ciascuno ha un proprio ruolo e, ovviamente, persegue ben
precisi obiettivi.
Oltre
agli USA, all’Unione Europea e alla Russia, infatti, l’evoluzione della crisi
ucraina interessa alla Cina in maniera diretta, mentre indirettamente ne sono
coinvolti il Medio Oriente, l’India e l’Oriente Asiatico.
Se ci
svincoliamo dalla visione locale eurocentrica e ci proiettiamo in un ambiente
geopolitico globale, possiamo vedere che questa crisi assume significati differenti
da quelli propagandistici
del “Davide” difensore della democrazia contro il “Golia” neo-zarista e che la situazione stimola
problematiche fondamentali per il nostro futuro, che non sono conseguenza
diretta del conflitto, ma che, invece sono state ricondotte a essa come
giustificazione di una impasse politica almeno ventennale dell’Occidente.
Il
primo aspetto da considerare è quello, composito e complesso, dello sviluppo
del sistema globale delle relazioni internazionali.
Dopo
l’utopia presuntuosa che la fine della Guerra Fredda avesse per sempre
affermato a livello globale quei principi di democrazia e di rispetto dei
diritti che sono propri del nostro patrimonio culturale di Occidentali, la
crisi ucraina ha dato corpo a una realtà completamente differente che, sebbene
antecedente alla crisi stessa, abbiamo sino ad ora volutamente ignorato come se
non esistesse.
Quello in cui viviamo, invece, è un mondo multipolare dove, giocoforza, coesistono
differenti visioni e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali di
democrazia, di diritti individuali e di libertà.
Ciò
che non ci è chiaro è che, pur non dovendo abiurare alla nostra impostazione di
società basata sulla condivisione di determinati principi, l’Occidente si trova ad affrontare
un nodo gordiano:
l’imposizione della nostra visione morale
collide con la ricerca di una stabilità di un ordine geopolitico mondiale che
non si identifica nella visione da noi proposta.
Se
consideriamo che l’appello a condannare l’invasione russa e a schierarsi con
l’Ucraina, concorrendo nel mettere in atto risposte precise come le sanzioni, è
stato accolto con favore solo da una parte del consesso mondiale, mentre in
molti dei Paesi politicamente più importanti è prevalso un atteggiamento
tiepido e molto distaccato, ci possiamo rendere conto della differenza
culturale che esiste tra le posizioni assunte dalla Cina, dall’India, dai Paesi
del Medio Oriente e dell’Africa.
Il
secondo aspetto, anch’esso cruciale per il nostro futuro, è quello della crisi
energetica che ha iniziato ad abbattersi sull’economia e a incidere sulla
qualità della nostra vita.
Anche
qui non è la crisi ucraina che è responsabile di questo problema.
La
vera crisi ha origini molto più profonde e lontane nel tempo (il picco massimo di sfruttamento nel
settore delle fonti fossili si è verificato nel 2010!), gli avvenimenti attuali sono solo un
paravento dietro al quale abbiamo cercato di nasconderci cercando di negare la
gravità della situazione.
Senza
dimenticare che la crisi non riguarda solo la disponibilità delle fonti di
energia fossile ma soprattutto la disponibilità delle risorse di materie prime
fondamentali per lo sviluppo di alternative energetiche (quasi inesistenti nel nostro
continente).
Il possesso, il diritto allo sfruttamento e la
disponibilità delle risorse tecnologiche per poterlo realizzare sono il terreno
di scontro concettuale e pratico sul quale l’Occidente si troverà a combattere
per poter sopravvivere.
Per
tutti un esempio:
la tecnologia dei pannelli fotovoltaici di cui
l’Occidente è inventore e fiero promotore, quale fonte energetica alternativa, è prodotta in Cina mediante
impianti a carbone, utilizza materie prime africane e ritorna in Europa con
vettori su ruota a combustibile fossile.
Il terzo
aspetto discende direttamente dal precedente.
Energia
significa economia.
Senza
energia il nostro sistema economico è messo alle corde e produce incertezza e
disaccordo che minano la credibilità e l’affidabilità del sistema di mercato
libero che l’Occidente sostiene.
Inoltre,
il sistema economico ha ricercato la via più breve e meno onerosa per
svilupparsi.
Tutta
la nostra produzione sensibile, e non, è stata delocalizzata dove era più
vantaggioso economicamente, senza la ben che minima attenzione ai rischi
geopolitici che avrebbero potuto metterci in crisi.
La tecnologia che l’Occidente sviluppa è
prodotta all’estero per convenienza, ma ci espone a qualsiasi sconvolgimento
del sistema con risultati catastrofici (un esempio è lo scompiglio che è stato
causato dalla pandemia che ha modificato o interrotto i nostri flussi logistico
commerciali!).
La
stabilità dei mercati si basa sulla stabilità di un ordine geopolitico.
La
ricerca di questo ordine e il suo mantenimento è un imperativo che deve passare
per l’accettazione del compromesso strategico e non per l’intransigenza di una
politica morale.
I
concetti cardine della nostra società devono essere sostenuti e devono essere
offerti come alternativa di valore assoluto, ma non possono essere imposti
quale conditio sine qua non.
L’ultimo
aspetto è quello che ci riguarda più da vicino: il futuro dell’Unione Europea.
La UE
rappresenta una enorme potenza di carattere economico-finanziario perché è nata
ed è stata sviluppata in quel senso, ma non esiste a livello politico
semplicemente perché non ha la struttura per poterlo fare (nonostante la Presidente della
Commissione Europea si sia arrogata un ruolo da Primo Ministro UE!).
Eppure,
continuiamo a pretendere di avere un peso geopolitico sulla scena
internazionale.
Se non
fosse stato per la decisa spinta che gli USA hanno dato agli avvenimenti, la UE
sarebbe ancora a discutere su cosa fare e non si sarebbe sognata di imporre
sanzioni economiche al suo migliore cliente!
Infatti,
l’UE non è un monolite compatto e coeso, ma un insieme di fazioni, gruppi e
sottogruppi di Paesi che cercano di trarre il massimo vantaggio per sostenere
la loro visione nazionale, che viene tenuto insieme per interessi
prevalentemente economici, ma che non condivide gli stessi valori e gli stessi
principi.
L’allargamento incondizionato basato esclusivamente
sul rispetto di parametri finanziario-economici, che è servito per allargare ed
espandere l’Unione, ha snaturato quello che era il concetto alla base del
progetto:
la
condivisone di valori e di una cultura comune, oltre che l’interesse a far
parte di un mercato comune dispensatore di benefici e prodigo di aiuti.
Senza
voler fare torto a nessuno, le differenze di valori e di cultura già adesso danno
luogo a dissimili interpretazioni di quello che dovrebbe essere il sentire
comune dell’Unione e un progressivo allargamento verso Est non farebbe che
acuire questo allontanamento da una matrice culturale che rischia di perdere il
suo riferimento all’interno del sistema comunitario.
Se
invece, questo è il futuro di questa organizzazione allora, forse, dovremmo
chiamarla “Unione
Euroasiatica”.
In
conclusione, la crisi ucraina ha aperto il classico vaso di Pandora mettendo in
evidenza una serie di tematiche geopolitiche e di scelte geostrategiche che
l’Occidente si era illuso di non dover affrontare, cullandosi nella colpevole
utopia del dopo guerra fredda.
Obtorto
collo l’Occidente è stato messo di fronte alla realtà: il mondo non è democratico, liberale,
progressista, buonista ed ecologista come noi ce lo siamo immaginato;
è
diverso e, soprattutto, non ci riconosce alcun primato morale o culturale.
L’Occidente
deve essere comunque fiero e orgoglioso dei propri valori e della sua visione
della civiltà e deve continuare a proporre il suo modello perché lo ritiene
valido e senza dubbio basato su concetti universalmente condivisibili.
Tuttavia,
per poter proporre i suoi valori, questi devono risultare essere i migliori,
cioè quelli in grado di assicurare il pieno rispetto dei diritti, ma anche
l’assunzione dei doveri;
il sostegno delle libertà dell’individuo, ma
anche il suo rispetto della comunità;
la
democrazia intesa come espressione completa della gestione della società, dove vi sia il rispetto della volontà popolare
che si può sviluppare, solamente, attraverso l’espressione della maturità
civile dei cittadini stessi.
Come
la Russia vede
la crisi ucraina.
Europeanaffaires.it
- Maurizio Iacono – (11 Giugno 2022) -ci dice:
Il
clima mediatico occidentale sembra ritenere che il conflitto militare in
Ucraina, in atto da ormai più di tre mesi, possa essere prossimo alla sua
conclusione.
Le
sanzioni e l’insuccesso attribuito alle operazioni russe, a cui si imputa il
mancato conseguimento di risultati militari definitivi, lascia ora il campo
libero per un’azione diplomatico-politica volta a sancire la sconfitta
dell’aggressore.
O
almeno, così sembra.
Infatti,
l’Occidente compatto, anche se qualche crepa inizia a trasparire, persegue la
sua politica di fermezza e di condanna, cercando di indebolire la posizione di
Putin soffocando l’economia russa con le sanzioni.
La
NATO conduce esercitazioni militari nel Baltico e nell’Est Europa nella
speranza di impressionare il Cremlino con una dimostrazione di potenza e di
coesione che mettono in evidenza i limiti dell’organizzazione, piuttosto che la
sua reale forza.
La propaganda occidentale, travestita da
informazione, provvede a veicolare un messaggio a senso unico senza aver il
coraggio di concedere un diritto di replica.
La
diffusa interpretazione che viene proposta è che la Russia sia prossima al
crollo: il suo esercito ha fallito, Putin è malato, debole e sarà rovesciato a
brevissimo dalle forze liberali e democratiche che faranno trionfare la
giustizia.
Quindi niente più armi, ma solo proposte di pace.
Putin è il nuovo Signore dei Sith e l’Ucraina è diventata la bandiera del concetto
di libertà occidentale e il baluardo estremo dei suoi principi di democrazia,
legalità e diritti individuali!
Questa
è la visione di un Occidente confuso e spaventato che vuole di nuovo la sua
vecchia e consolidata tranquillità geopolitica, nella quale si è
incoscientemente cullato negli ultimi trent’anni.
Ma ci siamo mai chiesti, invece, se la stessa visione
è condivisa anche dalla Russia e se, quindi, le cose potrebbero essere diverse
da quelle che noi assumiamo debbano essere?
Forse
sarebbe bene considerare come lo svolgimento dei fatti e degli avvenimenti
siano percepiti dal nostro avversario al fine di intraprendere un percorso
diplomatico e politico che consenta di individuare le cause di quanto sta
accadendo e perseguire, quindi, una soluzione che garantisca il successo di una
vera pace e non di un temporaneo armistizio (accordi di Minsk docent).
Nel
condurre l’analisi di come la Russia percepisca la situazione in Ucraina
possono essere considerati alcuni dei fattori posti alla base della valutazione
occidentale sugli sviluppi del conflitto.
Procediamo
innanzitutto con l’assunzione che Putin stia perdendo il conflitto sotto il
punto di vista militare!
La
mancata conquista dell’Ucraina e della sua capitale dovuta alle difficoltà
incontrate nello sviluppo delle operazioni; la necessità di cambio della
direttrice strategica che da Nord si è spostata ridimensionandosi verso la
regione orientale meridionale; l’elevato numero di perdite e le problematiche di
carattere logistico, sono state indicate come le cause del fallimento militare
del conflitto.
Ma la
conquista dell’Ucraina non era l’obiettivo di Putin!
Lo
scopo dichiarato era quello di impedire che l’Ucraina potesse diventare una
minaccia puntata verso la Russia che l’Occidente (USA, NATO ed UE) potesse
usare per limitare il ruolo internazionale della Russia stessa e della
leadership di Putin.
Infatti,
le operazioni militari condotte dalla Russia hanno conseguito l’obiettivo
prestabilito:
l’Ucraina non entrerà nella NATO e una vera
pace non potrà essere raggiunta senza tenere in considerazione anche l’anima
russa delle aree orientali dell’Ucraina.
Se
consideriamo il conflitto secondo questa prospettiva gli obiettivi
dell’operazione sono stati raggiunti e Putin non sta perdendo!
Secondo
punto.
L’Occidente deve scongiurare un’escalation del
conflitto e quindi i Governi di USA e UE sono volti a individuare un piano di
pace per ricomporre, al più presto, il conflitto tra Mosca e Kiev.
Quindi,
per timore di un ampliamento indiscriminato del conflitto, fatte salve le
ragioni dell’Ucraina, si tenta di proporre alla Russia una soluzione locale di
compromesso per un riconoscimento, almeno formale, della situazione nel Donbass
e in Crimea.
Ma
questa è una soluzione che non tiene conto delle reali cause del conflitto.
Infatti,
anche ammettendo di poter conseguire una situazione di compromesso che eviti la
de-russificazione del Donbass e confermi le aspirazioni di indipendenza della
Crimea, questo porrà termine esclusivamente alle operazioni cinetiche in
territorio ucraino da parte della Russia, che invece, continuerà la sua
campagna anti occidentale, dato che obiettivo primario è quello di cambiare
l’atteggiamento dell’Occidente portandolo a considerare come reali ed effettive
le preoccupazioni geopolitiche che vedono Mosca accerchiata da una alleanza
ostile e minacciata nel suo ruolo autonomo di grande potenza.
Quindi
nell’ottica del Cremlino questo non è un conflitto russo – ucraino ma un
confronto diretto tra la Russia e il mondo Occidentale nel suo insieme.
Putin
è colui il quale dà voce e rappresenta questo sentimento di rivalsa
nazionalistica, ma è il popolo russo (almeno nella sua gran parte) che lo sente proprio e
lo vive intimamente.
Una
situazione di compromesso che riguardi esclusivamente l’Ucraina non cambierà
nulla e non eliminerà il rischio della temuta escalation.
Altro
elemento di analisi.
La posizione di potere di Putin all’intero
dell’establishment russo è in crisi e presto sarà rovesciato da un colpo di
stato.
Sicuramente
l’élite russa non è soddisfatta dell’andamento del conflitto e dei risvolti
economici della crisi internazionale che ha investito il paese, ma, al
contempo, sa che Putin è l’unico leader che possa garantire una situazione di
stabilità interna e di coesione dell’intero sistema russo e quindi, di
riflesso, consentire il mantenimento attuale della loro posizione di egemonia
politica.
Duma e
Governo sono schierati, formalmente compatti, con il Presidente.
Come
pure la popolazione è in gran parte favorevole a Putin in quanto rappresenta
uno dei valori fondamentali della cultura russa:
un
nazionalismo profondo che ha come mito la potenza e la grandezza della Russia.
La
dissidenza c’è, esiste e si fa anche sentire alle volte, ma non ha né la
coesione né i mezzi per tentare quel colpo di stato o quella rivoluzione
democratica che i media occidentali danno come imminente.
Non ci
sarà una Primavera Russa!
Infine.
Putin non si fida dei suoi generali e li sta sostituendo perché gli stanno
facendo perdere la guerra.
Voci e
notizie spesso prive di conferme ufficiali danno per scontato la rimozione di
Alti Ufficiali e di personalità di vertice da parte di Putin, deluso per la
presunta mancanza di successi nel conflitto ucraino.
Che
Putin possa essere non del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti o
dell’operato di alcuni membri dello staff è normale e non c’è di che
sorprendersi, ma, dall’analisi del comportamento tenuto nel corso degli anni di
potere di Putin, la sostituzione in corso d’opera di alti vertici, durante una
situazione di crisi, non sembra essere il modus operandi di Mosca.
Errori
di condotta e valutazioni non corrette fanno parte delle procedure di
pianificazione e gestione di ogni attività operativa e se questi sono commessi
e vengono effettuati in buona fede non c’è la necessita di effettuare nessuna
purga di carattere staliniano.
Quindi
Putin non sta perdendo il controllo della situazione e la fiducia nei suoi
collaboratori rimane intatta.
Non esiste la possibilità che il sistema politico di
Mosca collassi e che Putin sia in preda a fobie complottistiche che ne possano
limitare le capacità di analisi e di condotta delle politiche russe.
Il
quadro di situazione, se letto e interpretato dalla parte di Mosca, appare
alquanto differente da quello che il sistema occidentale di informazione
presenta e ritiene condizionante per la soluzione del conflitto.
La
dicotomia esistente a livello di percezione generale propone due possibili
scenari per le azioni diplomatico – politiche dell’Occidente.
Sostenere
militarmente l’Ucraina (e agitare lo spauracchio dell’allargamento ulteriore della
NATO)
perché siamo convinti che Putin sia perdendo il conflitto e che sia arrivato al
suo capolinea politico, oppure, cercare una qualche forma di appeasement nei
confronti di Mosca per evitare un’escalation che possa portare a un
improbabile, ma temutissimo uso di armi di distruzione di massa, ultima risorsa
di un Putin disperato e fuori controllo.
Per
quanto è stato detto precedentemente nessuna di queste due linee di condotta
potrà avere successo in quanto il conflitto non riguarda l’Ucraina e la Russia,
ma investe l’Occidente nei suoi rapporti globali con la Russia.
La
soluzione che dovrà essere elaborata deve tenere conto di altri due fattori:
il
primo è il
diverso approccio che l’Occidente deve avere nei confronti della percezione
russa della sua sicurezza;
il secondo concerne la ridefinizione delle
ambizioni e della prospettiva russa nel suo modo di intendere le relazioni
geopolitiche.
Entrambi
i contendenti sono convinti di avere la mano più alta, ma non è così.
L’Occidente
è convinto che le sanzioni e il supporto all’Ucraina abbiano intaccato lo
spirito nazionalista di Mosca e che il suo leader sarà rovesciato da un
movimento di resistenza o minato dalle sue tante presunte malattie.
Mosca
ritiene che il tempo giochi a suo favore nel distruggere la coesione interna
del fronte occidentale e che la presa di distanza del resto del mondo attenui e
neutralizzi gli effetti economico finanziari dei mercati nei confronti della
Russia.
Questa
visione porta allo stallo diplomatico politico e, pur condannando a priori la
scelta di Mosca del ricorso alla forza, l’unica soluzione possibile è quella di
un compromesso che, tenendo conto delle vere ragioni del conflitto, si basi sul
ridimensionamento delle rispettive ambizioni geopolitiche da una parte e
dall’altra.
Il
punto cardine per la risoluzione del conflitto è quello di individuare una
serie di azioni volte a creare un clima di sicurezza reciproco, nel quale i
rispettivi interessi nazionali possano essere conseguiti nell’ambito del
rispetto dei concetti su cui vogliamo si basi l’ordine internazionale.
Un ordine dove gli strumenti per la
risoluzione delle controversie tra Stati non sono il livello di potenza che si
esprime ma la legalità e il rispetto reciproco.
E
l’Ucraina?
L’Ucraina dovrebbe smettere di credere di
essere la vittima innocente di una invasione immotivata e iniziare un esame di
coscienza per definire quanto peso il suo Presidente attuale e l’establishment
politico degli ultimi vent’anni abbiano avuto nel contribuire a creare le
premesse per l’esplodere di questo conflitto.
Armi a
Kiev, la Lega
si
scaglia contro Meloni.
msn.com
- Il Riformista - Claudia Fusani - (23-3-2023) – ci dice:
La
premier si lamenta di “mezzo Parlamento che manda il governo al Consiglio
europeo accusandolo di strage a Cutro”.
Ma sbaglia il focus.
Due
volte: la
prima perché
le opposizioni sono cosi divise su tutto da presentare e votare quattro diverse
mozioni, Pd, 5 Stelle, Terzo Polo, Sinistra;
la
seconda volta perché il vero problema di Meloni è presentarsi al Consiglio europeo di
giovedì e venerdì con la sua stessa maggioranza spaccata come una mela.
Una
parte ha fatto outing ieri, senza e senza ma, direttamente in aula nella
persona del capogruppo Massimiliano Romeo che nella dichiarazione di voto
finale ha attaccato il governo sulla politica estera e nello specifico
sull’Ucraina. “Contiamo
su di lei Presidente Meloni perché insista sulla strada del dialogo”.
Un
“saggio consiglio – ha proseguito – è quello di evitare escalation”.
Guai,
ha aggiunto, “alla dolce tirannia del pensiero unico”.
Quindi,
“nel comunicare il voto favorevole alla risoluzione della maggioranza,
esprimiamo forte preoccupazione per come stanno andando le cose sul fronte
della guerra russo-ucraina.
L’obiettivo della cessazione delle ostilità
sembra più una dichiarazione di principio.
Il
problema non è il sostegno militare, ma una corsa ad armamenti sempre più
potenti con il rischio di un incidente da cui non si possa tornare indietro”.
Una
vera e propria escalation di dichiarazioni “pacifiste” che spiazza la premier e
la lascia “sola” nei banchi del governo del Senato senza neppure un
rappresentante della Lega.
Il sottosegretario Ostellari arriverà una
volta che Romeo ha concluso l’intervento. Neppure l’ombra di un ministro.
A cominciare da Salvini alle prese con ponti,
infrastrutture e crisi idrica.
Alla
viglia della riunione del Consiglio europeo di giovedì e venerdì Giorgia Meloni
si ritrova così indebolita ma non dalle opposizioni.
Bensì dal suo principale alleato.
E
questo non è un bel viatico per una riunione, a Bruxelles da cui palazzo Chigi
si aspetta molto soprattutto sul dossier immigrazione.
Giallo
Lega, dunque.
Ci vuole poco per capire che il problema è ben
oltre le parole.
La
verità è che la Lega aveva scritto una diversa risoluzione.
Tanto
che su quella poi messa in votazione c’è “solo” la firma di Gian Marco
Centinaio, il vicepresidente della Camera, fedelissimo di Salvini, ma non quella del capogruppo Romeo.
Che ne
aveva presentata un’altra.
Un
testo assai diverso di cui Il Riformista è entrato in possesso.
Diverso
sia per quella che riguarda l’impegno militare in Ucraina.
Che
sui dossier economici, patto di stabilità e transizione green.
Nella
bozza della Lega, ad esempio, per limitarsi ai 12 punti a cui si vuole impegnare l’azione
del governo, la bozza leghista parla di “favorire ogni iniziativa finalizzata alla
cessazione immediata dei combattimenti” mentre quella di maggioranza votata
in aula parla, in modo assai più blando, di “risoluzione del conflitto nel
rispetto del diritto internazionale lavorando con la comunità internazionale
nel quadro delle Nazioni Unite”.
Romeo
parla di “pianificare
specifiche iniziative per la ripresa e la ricostruzione dell’Ucraina” perché ci mancherebbe solo che la
ricostruzione toccasse, un domani, alla Cina e sarebbe il colmo.
La
risoluzione della maggioranza mette al primo posto il “continuare a far fronte alle
immediate esigenze per la resilienza dell’Ucraina insieme agli altri Stati
membri”.
Nel
testo della maggioranza si fa specifico riferimento a “Georgia e Moldavia per
garantire loro l’ingresso nell’Unione”. La Lega non fa alcuna menzione dei due
paesi che più di tutti nell’immediato rischiano/temono l’invasione dei carri
russi.
Fin
qui la parte “guerra”.
Le
differenze sono altrettanto sostanziali nella parte economica della risoluzione.
Il
punto 10, ad esempio, è stato totalmente riscritto.
Si
legge nella bozza leghista: “Nelle more di una riforma del patto di Stabilità che consenta
di poter affrontare la transizione nel 2024 in maniera realistica e con
obiettivi raggiungibili, il governo dovrà prevedere che le future regole fiscali promuovano
gli investimenti in tutti i settori strategici, ambiente, digitalizzazione,
difesa e natalità”.
Sono
dodici punti per cui si chiede al governo un “impegno specifico”.
E in
quasi tutti
la Lega ha chiesto modifiche che non sono state accolte o solo in minima parte (come il passaggio “aumentare e
garantire rimpatri efficaci” presente anche nel testo finale della
risoluzione).
Il
dissenso quindi era non solo noto.
Anzi,
era scritto. In nome dell’unità di governo, è stato una volta di più messo da
parte.
Tanto
che, nei banchi della Lega, quando Centinaio e Romeo ieri era al Senato
preparavano i rispettivi interventi – Centinaio nella discussione generale,
Romeo nelle dichiarazioni di voto finali – si suggeriva loro in amicizia di
preparare un testo scritto.
Così
da “evitare fraintendimenti” che su questi temi sono sempre in agguato. Centinaio l’ha
fatto e ha detto quanto previsto.
Quando
ha preso la parola Romeo, i primi a tirarsi i pizzicotti sono stati gli stessi
leghisti.
“Constatiamo
purtroppo che negli ultimi tre mesi ben poco è stato fatto specie sul cessate
il fuoco e sulla tregua.
Quindi,
contiamo su di lei Presidente Meloni.
La
gente dice che lei è una tosta, spero non solo perché è andata al congresso
della Cgil”.
Romeo
peggio di Patuanelli o Licheri, i pasdaran pacifisti di Conte.
Giorgia
Meloni non se lo aspettava.
“Conta
il voto e la Lega ha votato compatta” ha commentato il ministro per i
Rapporti col parlamento Luca Ciriani.
Ma è
chiaro che non basta più il voto.
Il
nuovo ordine mondiale
si
decide sull’Artico.
Linkiesta.it - Marzio Mian – (6-10-2022) – ci
dice:
Il
conflitto in Ucraina ha sancito la fine dell’eccezionalismo della convivenza
pacifica nel Grande Nord, dove la Cina è attiva alleata della Russia contro la
Nato. Putin è pronto a giocare su questo fronte la sua ultima partita.
«Quella
della Russia e della Cina nell’Artico è un’aggressione all’ordine
internazionale…»
«Ammiraglio,
con il dovuto rispetto, il suo intervento è pieno d’arroganza e alquanto
paranoico…»
«Ho
una domanda per lei, ambasciatore. Visto che la Cina si richiama tanto al
principio di sovranità, allora perché́ non avete ancora condannato l’attacco
russo all’Ucraina?»
«Non
stiamo parlando d’Ucraina qui. La verità é che voi della Nato state approfittando
di questo conflitto per espandervi nell’Artico e dominarlo. È un gioco molto
pericoloso…»
Lo
scambio avviene all’assemblea dell’Arctic Circle di Reykjavík a metà ottobre 2022.
Dal
palco sta parlando l’ammiraglio “Rob Bauer”, presidente del comitato militare
Nato, quando l’ambasciatore cinese in Islanda si alza in prima fila e lo
interrompe. Volti attoniti e brusio generale.
I due
si puntano l’indice l’un altro. […]
Pubblicamente,
alle conferenze internazionali sull’Artico come quella islandese, non ricordo
d’aver mai sentito pronunciare la parola «conflitto», un tabù ben custodito,
per scaramanzia o ipocrisia.
Il mantra della diplomazia artica era
«cooperazione, stabilità, dialogo».
Un
modo per esorcizzare la realtà, e cioè quella d’una regione fragile non solo
dal punto di vista ambientale, ma destinata a essere contesa con la forza perché́
non esistono accordi capaci di garantire la spartizione pacifica dell’unica
area del mondo ancora non sfruttata e che nasconde quelle risorse di cui il
mondo è affamato – ora soprattutto i minerali alla base delle tecnologie green
e militari –, cruciali per alimentare il modello capitalista della crescita
permanente.
Non
s’è infatti mai visto che si presenta l’opportunità̀ di mettere le mani su un
nuovo continente e gli uomini le tengono in tasca.
Non basta abbattere le statue di Cristoforo
Colombo per cancellare la cultura dell’impero e del dominio, o pensare che il
colonialismo sia archiviato soltanto perché́ i nuovi colonialisti usano parole
corrette come «resilienza» e «inclusione».
Eppure
le speciali regole d’ingaggio nelle relazioni artiche hanno resistito.
Non
secondario il fatto che tra le nazioni che s’affacciano sull’oceano polare ci
sono due potenze, Russia e Stati Uniti, che si combattono in vario modo da
oltre settant’anni, entrambe chiamate dalla stessa missione d’espandere la
propria influenza e supremazia, e poi che ci siano confini polari condivisi da
Nato e Russia.
Nasceva
soprattutto da qui l’eccezionalismo dell’Artico:
il dovere di collaborare e mantenere la
stabilità nonostante tutto, nonostante l’oceano di ghiaccio fosse stato il
teatro più caldo della Guerra fredda con i sottomarini nucleari che si davano
la caccia come il gatto col topo.
Lo spirito era quello indicato da Michail
Gorbačëv a Ronald Reagan nel 1987, auspicando il disarmo dei missili a medio
raggio dispiegati in Artico:
«Facciamo del Polo un polo di pace» disse il
leader sovietico davanti alla Flotta del Nord a Murmansk.
Il
Consiglio artico, quando nacque nel 1996, era poco più d’una dichiarazione di
buoni e pacifici intenti tra gli otto Paesi artici – oltre a Russia e Usa,
Cana- da, Norvegia, Islanda, Danimarca (grazie alla Groenlandia), Svezia e
Finlandia – che si proponevano di ritrovarsi allo stesso tavolo per lavorare assieme sulle
questioni ambientali, sulla navigazione o sui diritti delle popolazioni
indigene.
Non
sulla sicurezza, perché́ non si trattava d’una organizzazione internazionale,
ma d’un forum intergovernativo.
Per diversi anni nessuno s’accorse dell’esistenza del
Consiglio artico, frequentato da diplomatici pronti alla pensione;
man mano che il ghiaccio si fondeva, e cominciavano a
circolare le stime delle ricchezze sfruttabili e addirittura s’annunciavano
rotte artiche alternative a Suez e Panama, allora sono arrivati i pezzi grossi,
ministri degli Esteri, da Sergej Lavrov a Hillary Clinton.
E i
Paesi che volevano contare sulla scena mondiale facevano a sportellate per
essere ammessi come osservatori al club boreale, in primis la Cina.
Quell’area rimasta ai margini della Grande
Storia dell’umanità̀ si trovava improvvisamente sotto i riflettori, al centro
d’interessi globali.
Lo
spirito di Gorby ha retto sotto molte tempeste, l’Artico è rimasto un luogo speciale, in
parte perché́ è il totem della lotta al riscaldamento globale, la fetta di
mondo che paga il prezzo più alto, dove sono più estreme le conseguenze della
nostra” hybris”.
E poi per quel tabú della guerra, un’ipotesi
che non andava nemmeno contemplata lassù, fosse solo per la quantità̀ di
testate nucleari con cui Vladimir Putin piantona i suoi 22mila chilometri di
costa polare.
Le
crisi internazionali sono rimaste fuori dall’uscio del Consiglio artico, Stati
Uniti e Russia hanno continuato a parlarsi, a studiare insieme lo smottamento
del permafrost, la decimazione degli orsi, lo stravolgimento dell’ecosistema
marino.
Le guardie costiere dei Paesi artici non hanno
cessato di condividere codici di navigazione per gestire gli inediti pericoli
creati dal crescente traffico commerciale e turistico.
Il
«patto del ghiaccio» tra gli Otto aveva superato anche l’annessione russa della
Crimea nel 2014.
Ma non
l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022.
Sette
Paesi artici hanno chiuso ogni collaborazione con la Russia, tra l’altro
presidente di turno del Consiglio e titolare del 52 per cento di coste polari.
L’Artico
s’è spaccato.
In due
e s’è rotto il tabú della guerra.
L’attenzione è sul Donbass e il Mar Nero, le
mappe dei generali occidentali segnate in rosso riguardano il Grande Nord, il
Mare di Barents e lo Stretto di Bering.
«Dopo l’Ucraina è cambiato tutto. Ora la
questione non è se ci sarà un conflitto nella regione polare, ma come
evitarlo» mi ha detto Angus King, senatore indipendente del Maine:
«Ciò che si prepara sul tetto del mondo è un
problema di sicurezza nazionale per ogni Paese occidentale».
Con
l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, il Consiglio artico è interamente
euro-atlantico e di fatto il braccio politico della Nato.
Dopo
l’aggressione russa all’Ucraina, l’Alleanza ha presto accelerato verso una
dottrina militare a trazione nordica, concentrando le sue attenzioni lì dove la
Russia potrebbe sfidare l’articolo V del Patto atlantico perché́ è dove Putin
ha ammassato la sua forza non convenzionale in grado di colpire l’Occidente con
una gittata balistica più breve.
Da
quello che ritiene il mare nostrum dei russi, lo zar proietta le sue ambizioni
neo-imperiali, perché la Flotta del Nord, dalle acque polari, può̀ collegarsi
velocemente sia all’Atlantico sia al Pacifico.
Nell’Artico,
Putin protegge, armi (nucleari) in pugno, la sua cassaforte di gas e petrolio;
ora che non può̀ più confidare sulla barriera naturale dei ghiacci, su quei
confini è pronto a giocarsi la partita finale.
E, se servisse, a sparare l’ultimo colpo.
Nell’Artico
tutto si tiene e tutto sembra convergere verso il peggio.
Se Xi Jinping temporeggia sull’Ucraina, qui
però è già̀ militarmente alleato con Putin.
Russia e Cina svolgono per la prima volta
manovre navali congiunte nel Mare di Bering, hanno installato in due mesi –
stando a quel che mi hanno detto al Dipartimento di Stato americano – una
struttura integrata per la navigazione satellitare basata sulla piattaforma
Huawei e il sistema di posizionamento” BeiDou,” l’alternativa cinese al GPS
utilizzato dalla Nato.
Non è
un caso che, improvvisamente, Stati Uniti e Nato hanno alzato il tiro oltre
Putin, parlando di «aggressione militare di Russia e Cina nell’Artico».
Washington
ha pubblicato in fretta e furia, sull’onda degli sviluppi seguiti al conflitto
ucraino, la nuova “National Strategy for the Arctic Region”, dove s’avvisa la Russia che le verrà̀
impedito «con ogni mezzo» di dominare l’Artico, ma molto spazio nel documento
è riservato alla «minaccia militare cinese» e alle «finte basi scientifiche»
nella regione.
Le
intelligence militari di alcuni Paesi euro-atlantici – come ho potuto
verificare ascoltando varie fonti in Italia e Regno Unito – ritengono che
Pechino e Mosca stiano dando per certa l’escalation nell’Artico.
Sarà
Guerra bianca?
«Quel che è certo è che il nuovo ordine
mondiale si decide oltre il Circolo Polare» è il giudizio di Anton Vasiliev,
ex ambasciatore russo in Islanda.
«La Nato
concentra le sue forze a nord-est approfittando dell’impegno russo in Ucraina.
Sanno che la nostra esistenza dipende dal Grande Nord. Per noi anche l’embargo
europeo al petrolio russo è un’azione ostile della Nato».
Lo
scontro verbale alla conferenza di Reykjavík a metà ottobre 2022 è stato il
momento in cui è finito un Artico, quello condannato alla pace, e ne sono nati
due, condannati a scontrarsi.
Non c’erano delegati russi, ma l’inviato
speciale di Pechino per la regione polare, Feng Gao, ha parlato anche per
Mosca. Annunciando che si andrà̀ verso la creazione d’un Consiglio artico
russo-asiatico, alternativo a quello dei sette Paesi occidentali e Nato.
«Non riconosceremo mai un Consiglio artico
senza la Russia» ha detto a brutto muso il diplomatico cinese.
Frasi
che, a quelle latitudini, sono sembrate siluri.
Non è
più tempo di buone maniere, del bon ton di circostanza che s’usava verso un
ambiente naturale in via di disfacimento e che disvela, insieme alle ricchezze,
la nostra natura tracotante.
Gli scenari di guerra che racconto in questo
libro sono infatti gli stessi dove è già chiara, sul campo, la Waterloo del
pianeta.
Il
linguaggio è cambiato, ora è quello spietato della Storia che ingloba
l’Artico, inquinandolo anche con le parole.
Prima
che spazio geografico, geopolitico o biologico, era soprattutto un’idea che
nasce dal bisogno d’altrove, dalla speranza che vi sia infine un luogo diverso,
senza Storia, dove le cose sono sempre state come sono, una parte del pianeta
ibernata in un’immacolata, primordiale, purezza.
Addio,
mitica, ultima” thule”.
Percepita
nei millenni lontana come una Luna, l’Artide in meno d’una generazione, con il
cortocircuito climatico, è diventata luogo di conquista neo-coloniale;
qualcuno sostiene che sia addirittura il Piano B dell’umanità̀ in un globo sempre più desertificato,
sovraffollato e scarso di risorse.
Oggi non c’è regione del mondo dove le cannonate
sparate in Ucraina rimbombino forte come nel Grande Nord.
COME
SI PROMUOVE LA “SICUREZZA
ALIMENTARE”
NEL NUOVO ORDINE MONDIALE.
Perfondazione.eu
- Alfonso Pascale – (3 maggio 2022) – ci dice:
L’invasione russa dell’Ucraina è il conflitto
geopolitico più grave dalla seconda guerra mondiale.
Come ha detto il nostro premier Mario Draghi: “Oggi l’Ucraina non difende soltanto
sé stessa; difende la nostra pace, la nostra libertà, la nostra sicurezza;
difende quell’ordine multilaterale basato sulle regole e sui diritti che
abbiamo faticosamente costruito dal dopoguerra in poi”.
In
quell’ordine globale, minato dall’aggressione della Repubblica russa, si
collocano le politiche per la sicurezza alimentare.
La
pace significherà ricostruire un nuovo ordine mondiale su basi più solide e
autenticamente democratiche e liberali.
La
definizione di sicurezza alimentare oggi più condivisa è quella fornita dal
Vertice Mondiale dell’Alimentazione del 1996.
Essa è la condizione in cui “tutte le persone,
in ogni momento, hanno accesso fisico, economico e sociale a cibo sufficiente,
sicuro e nutriente che soddisfi le proprie necessità e preferenze alimentari
per poter condurre una vita attiva e in salute”.
In
questa definizione è compreso il “diritto ad avere cibo sufficiente”.
Il
vertice Ue di Versailles dell’11 e 12 marzo scorso ha impegnato l’Unione a
ridurre la nostra dipendenza strategica anche nei prodotti alimentari.
Non significa aspirare all’autarchia ma avere
una politica della sicurezza alimentare.
Per
l’Ue è il tempo di svolgere il proprio ruolo di prima potenza agricola del
mondo.
Ma per
farlo ha bisogno di una governance democratica ed efficace, un sistema
decisionale che abbandoni la logica intergovernativa e aderisca completamente a
quella sovranazionale.
L’ultima
considerazione che vorrei fare in premessa è che saranno principalmente
l’Africa, il Medio Oriente e il bacino del Mediterraneo a pagare le conseguenze
della crisi.
Per l’Ue
significa assumere una responsabilità e, allo stesso tempo, cogliere
un’opportunità.
Tre
argomenti.
Con
questo intervento mi prefiggo di trattare tre argomenti:
Il
primo argomento è che il “diritto ad avere cibo sufficiente” va elaborato in un
pensiero politico: un pensiero che si cimenti con la democrazia oltre lo Stato
e progetti istituzioni e regole globali.
Per
statisti come Roosevelt o De Gasperi o economisti-pensatori come Keynes, era
chiara la differenza tra “internazionale” e “sovranazionale”.
“Internazionale”
è la logica del negoziato, delle relazioni internazionali, del coordinamento
intergovernativo, fondata sul potere degli Stati.
“Sovranazionale”
è la logica della condivisione-potenziamento.
“Sovranazione”
è cosa ben diversa anche dall’idea di “Stato europeo” o “Stato mondiale”.
I
padri fondatori dell’ordine mondiale del secondo Dopoguerra avevano una limpida
visione sovranazionale.
Tuttavia,
nel tempo, questo pensiero ha manifestato vistose insufficienze e
contraddizioni nel progettare un’architettura istituzionale adeguata e
politiche efficaci.
Il
secondo argomento è che il “diritto ad avere cibo sufficiente” è una competenza
che deve essere esercitata da istituzioni sovranazionali in via esclusiva, cioè
senza il condizionamento degli Stati.
Questo comporta una revisione del Trattato
sull’Ue.
E la
consapevolezza che la soluzione che si troverà per l’Unione indicherà la strada
per rivedere anche le istituzioni e le regole globali.
Il
terzo argomento è che per far sì che questo “diritto ad avere cibo sufficiente” si esplichi in modo diffuso sul
pianeta, è utile una sperimentazione nel bacino del Mediterraneo con un grande
progetto di cooperazione Ue-Africa.
Un
progetto che affronti in modo integrato tre questioni: climatica, demografica e
alimentare.
A
sostegno di questi tre argomenti effettuerò un rapido raffronto delle politiche
per la sicurezza alimentare in due distinti periodi:
Guerra
fredda e Dopo-guerra fredda. Per coglierne coerenze e contraddizioni, virtù ed errori.
Insomma, elementi utili per costruire un nuovo ordine mondiale.
La
sicurezza alimentare europea al tempo della Guerra fredda.
Durante
e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, la carenza e il razionamento
del cibo in Europa richiesero massicci interventi da parte degli Alleati.
Qui la
produzione agricola era crollata del 20-30%.
Era,
invece, aumentata negli Stati Uniti, che rifornivano tutti i propri alleati,
compresa l’Unione Sovietica.
Vi era la piena consapevolezza che il problema
dell’insicurezza alimentare non sarebbe scomparso con la fine del conflitto.
E avrebbe richiesto un’operazione coordinata a
livello internazionale.
Come
sostiene Emanuele Bernardi, emerse subito “un’idea multifattoriale e prismatica
di sicurezza alimentare globale, con evidenti implicazioni politiche, sociali e
soprattutto economico-finanziarie”.
Formare
le riserve e garantire un continuo flusso di cereali sul mercato significava
stabilizzare le monete e i salari, garantire il passaggio dalla guerra alla stabilità
democratica e, quindi, costruire le basi per lo sviluppo industriale.
Dopo
che l’Unione Sovietica violò gli accordi di Yalta, si profilò il ruolo di primo
piano degli Usa nella costruzione dell’ordine mondiale del dopoguerra.
Gli
aiuti americani furono decisivi nella costruzione della sicurezza alimentare
europea.
Nello
stesso tempo, ci furono anche contraddizioni nel ruolo svolto dall’amministrazione
Usa.
Spesso essa fece prevalere la tutela degli
interessi di breve respiro della propria agricoltura.
E così impedì la nascita di efficienti
istituzioni e politiche sovranazionali.
E,
dagli anni Sessanta, tentò pervicacemente di contrastare il primato agricolo
che la Cee si era faticosamente conquistato.
Non
mancò il contributo dell’Italia nella costruzione della dimensione
sovranazionale.
Si pensi solo all’Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia (AFIS), collegata al sistema Onu.
Dal
1950 al 1960 la Somalia fu, per volontà dell’Onu, affidata alla tutela
dell’Italia, che non era ancora membro ONU (lo divenne dal 1955).
Occorreva rafforzare le istituzioni somale in
vista dell’indipendenza del paese.
E furono inviate personalità come Giovanni Malagodi e
Giorgio Ceriani-Sebregondi a redigere piani di sviluppo in vista di processi di
integrazione.
Tre
vicende mi sembrano assai significative.
La
prima riguarda gli aiuti Usa alle popolazioni europee.
Nel
1943, Roosevelt lanciò l’Unrra che svolse anche azioni di sostegno alle
attività agricole.
Si distribuivano sementi, concimi e macchinari
e si miglioravano le tecniche agricole.
Il tutto finalizzato a ripristinare e
incrementare la produzione, in base al principio secondo il quale gli aiuti di
oggi avrebbero dovuto condurre all’autonomia di domani.
Queste
azioni culminarono nel Piano Marshall (1948) e in un particolare intreccio tra
umanitarismo e logiche di competizione tra Alleanza atlantica e CoMEcon (che
raggruppava i paesi comunisti e si completò nel 1955 con il Patto di Varsavia).
Logiche
produttive e logiche militari si intrecciavano in un’unica strategia di
sicurezza.
In
Italia, il
Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (Cir), si occupava a più riprese dei
problemi relativi alla conservazione e distribuzione del grano e di altri
prodotti.
Questa
particolare sensibilità era dovuta al governatore della Banca d’Italia, Donato
Menichella, convinto che una politica sulle riserve di grano fosse una
condizione per la ripresa della valuta.
Non a
caso, la lira ottenne dal Financial Times il premio Oscar finanziario 1959.
Il
prestigioso riconoscimento rifletteva la fiducia dei banchieri, dei governi e
degli operatori commerciali nella solidità della nostra valuta e il loro
compiacimento per la destrezza con cui tale obiettivo era stato conseguito.
Esaurito
il piano Marshall, i paesi europei fruirono dei fondi stanziati dalla FOA,
agenzia creata dal governo americano nel 1953 per le operazioni estere
nell’ambito della cooperazione internazionale.
Gli Usa iniziarono ad utilizzare la
sovrapproduzione di cibo come arma nella Guerra fredda.
Anziché
puntare, come avevano fatto in passato, al contenimento delle produzioni,
sostenevano direttamente le esportazioni per riequilibrare a proprio favore le
relazioni commerciali. La Nato e le strutture militari erano direttamente
coinvolte in tali attività.
Per
comprendere la rilevanza del programma Cibo per la Pace per l’Italia bastano poche cifre: nel
solo periodo del 1954-1961, sul totale dei circa 1400 milioni di dollari
assegnati ai diciassette paesi dell’Europa, il nostro paese ne ricevette da sola
quasi 400, cioè oltre il 35%.
La
seconda vicenda riguarda le origini della” Fao”, costituita nel 1945 come
agenzia dell’Onu.
Il
gruppo di esperti che guidava la Fao pensava ad essa come a un organismo
incaricato di amministrare le politiche alimentari mondiali. Doveva essere dotato di pieni
poteri per fissare i prezzi delle derrate, acquistare la sovrapproduzione e
redistribuirla globalmente.
Avrebbe
così assicurato alle popolazioni non solo la quantità e la qualità del cibo
necessarie per vivere in salute, ma anche la prosperità e la pace.
Questo
progetto fu inizialmente approvato dall’assemblea plenaria della Fao, ma venne
accantonato già nella prima fase di realizzazione.
Ad ostacolare tale progetto furono i governi
di alcuni paesi, tra cui l’Amministrazione americana.
E così
la Fao rinunciò ad un ruolo nell’ambito del processo decisionale e si adattò ad
una condizione di dipendenza dalle priorità imposte dagli Stati membri.
Si ritagliò un ruolo ridotto nella
disseminazione delle conoscenze e delle tecniche agricole.
La
terza vicenda importante riguarda il Gatt e l’Agricoltura.
Molti
osservatori hanno pensato erroneamente che l’agricoltura fosse formalmente
esclusa dalla giurisdizione di quell’accordo. In realtà, i fatti andarono in
modo diverso.
Una
commissione formata in ambito Onu redasse uno schema di “Carta del commercio” e progettò una
organizzazione ad hoc – Ito – Organizzazione internazionale del commercio – che
avrebbe dovuto garantirne l’attuazione.
Mentre
veniva elaborata la “Carta”, la commissione avviò i primi negoziati. Lo
strumento giuridico per rendere operativo l’accordo fu il Gatt, sottoscritto a Ginevra nell’ottobre
1947 inizialmente da 23 Paesi.
Esso
abbassava le tariffe doganali e adottava regole contro la concorrenza sleale.
La
“Carta” e il progetto di” Ito” furono approvati dalla conferenza dell’Avana che si svolse
tra novembre 1947 e marzo 1948.
Tuttavia,
non videro mai la luce. I parlamenti di alcuni paesi, tra cui il Congresso
degli Usa, non li ratificarono.
Il Gatt, invece, non ebbe bisogno della
ratifica da parte del Congresso: la sua approvazione per gli Usa fu
automaticamente desunta dal “Taa”, un accordo commerciale del 1934.
La
Carta dell’Avana prevedeva, tra i settori da regolamentare, anche l’agricoltura
e poneva un’attenzione particolare agli aspetti monetari.
L’organizzazione internazionale del commercio
doveva affiancare il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
In
base agli accordi di Bretton Woods del 1944, queste dovevano essere le tre
organizzazioni economiche collegate all’Onu.
Il
settore primario era, dunque, formalmente incluso nel Gatt del 1947.
Solo
che per i prodotti agricoli prevedeva esplicitamente alcune deroghe alle sue
norme generali.
Il
Congresso americano aveva, infatti, approvato alcune restrizioni sulle
importazioni di prodotti agricoli.
E il governo aveva chiesto un’apposita esenzione dalle
regole del Gatt. L’esenzione venne concessa nel timore delle reazioni isolazionistiche
che un rifiuto avrebbe potuto alimentare negli Stati Uniti.
Ma
l’esistenza di questa deroga offrì una giustificazione anche agli altri Stati
per ignorare le regole del Gatt nell’impostazione delle proprie politiche agricole.
E così l’ambizioso progetto di regolamentare
in modo organico il commercio internazionale dei prodotti agricoli, dalla
produzione alla formazione dei prezzi fino alla distribuzione, non venne più
riproposto negli anni successivi.
Di
agricoltura nei negoziati Gatt si incominciò a parlare nel 1960, quando venne
presentato dalla Commissione europea il primo Piano Mansholt che prevedeva
l’avvio della Pac.
Nel Trattato di Roma istitutivo della Cee (1957)
l’agricoltura aveva assunto una collocazione centrale.
La sicurezza alimentare non appariva tra gli
obiettivi esplicitamente enunciati nel Trattato.
Tuttavia,
si poteva leggere tra le righe.
Due
elementi caratterizzarono la prima fase della “Pa”c:
1)
l’eliminazione del groviglio di barriere commerciali preesistente tra gli Stati
membri;
2) l’adozione di misure di protezione del
mercato interno proprio per contribuire a raggiungere l’autosufficienza
alimentare.
A
conclusione del “Dillon Round nel 1962”, fu introdotta una peculiare clausola.
Gli Usa accettavano il protezionismo europeo in materia
agricola in
cambio della piena libertà di mercato della soia e dei mangimi a base di
glutine di mais, destinati all’alimentazione animale, di cui era specializzata
l’agricoltura americana.
Man
mano che la Pac veniva elaborata e attuata, al Kennedy Round, conclusosi nel
1967, e al Tokyo Round, siglato nel 1979, le critiche americane al
protezionismo europeo si accentuarono.
E il
motivo principale era che la “Cee” aveva raggiunto l’autosufficienza alimentare.
Era passata dalla condizione di primo paese
importatore di prodotti alimentari a quella di secondo paese esportatore, dopo
gli Usa.
Se si esclude la Gran Bretagna, notoriamente
paese importatore per ragioni legate al colonialismo, la Comunità europea era
diventata di fatto il primo paese esportatore.
Questa
capacità produttiva ed esportativa della Cee suscitava reazioni vivaci da parte
dei paesi terzi.
In
realtà, in tutti i paesi industrializzati le politiche agricole alimentavano
sovrapproduzione e diventavano molto costose.
E tali
condizioni rendevano più difficoltosa l’integrazione delle agricolture dei
paesi in via di sviluppo nei mercati globali.
Agli
inizi degli anni Ottanta, la Comunità europea avviò un dibattito interno per
rivedere la Pac e introdusse alcune misure per contenere la spesa.
Gli Usa nel 1985 vararono il nuovo “Farm Bill”
nel quale erano previste consistenti riduzioni dei prezzi.
Nel
1986 si avviò a Punta de l’Este (Uruguay) l’ottavo (e ultimo) Round del Gatt. E
gli Stati Uniti tornarono alla carica, questa volta spalleggiati dal Gruppo di
Cairns.
Anche
la Cee cominciò a guardare con interesse a una sia pur graduale
liberalizzazione agricola.
E così, nel 1992, sia per favorire
l’integrazione internazionale, sia per superare problemi tecnici e finanziari
delle politiche agricole, approvò la riforma McSharry che introduceva i pagamenti
compensativi e riduceva il sostegno dei prezzi.
L’accordo fu siglato a Marrakesh in Marocco,
nel 1994. E
venne istituito il Wto. L’assenso dell’Ue maturò dopo una serie di discussioni.
I più convennero che gli impegni assunti dai paesi
europei non avrebbero comportato effetti più consistenti di quelli già derivanti
dall’adozione e dalla messa a regime della “riforma MacSharry”.
La
sicurezza alimentare europea al tempo del Dopo-guerra fredda.
Caduto
il Muro di Berlino nel 1989, il Summit della Nato approvò a Londra una
“Dichiarazione” formulata da Margaret Thatcher. Essa delineava una politica di
dialogo e collaborazione con gli Stati dell’Europa centro-orientale che non si
riconoscevano più nel legame con Mosca.
Iniziava quella che l’economista John H.
Cochrane ha chiamato “l’era del pio desiderio”.
Nel
1990 la Germania si riunificò.
Nel
1991 l’Unione Sovietica – d’accordo con le altre nazioni che ne facevano parte
– sancì la fine del Patto di Varsavia.
Le repubbliche sovietiche rivendicarono il
principio di autodeterminazione per realizzare la loro sovranità nazionale.
Eventi
tumultuosi che, tuttavia, non portano all’affermazione del paradigma
“sovranazionale”.
Due
vicende sono esemplificative.
La
prima riguarda la Integrazione europea.
I
leader degli Stati che fanno parte della Cee reagirono d’impulso alle novità
geopolitiche e presero una scorciatoia.
Si istituì la moneta unica, prima ancora di
edificare una vera e propria istituzione politica sovranazionale, autonoma
dagli Stati membri e con una governance democratica.
Nel
1992 entrò in vigore il “Mercato unico europeo” e fu adottato il Trattato di
Maastricht che cambiava la natura del processo di integrazione.
Con
quel Trattato, la Comunità diventò una “Unione europea” e si modificò il
processo decisionale.
La
governance dell’Ue si rivelò presto inefficiente.
Produce
lentezze e disfunzioni e genera conflitti tra istituzioni unionali e Stati
membri.
Rende
l’Ue un nano politico nello scacchiere mondiale, un soggetto diviso al proprio
interno, senza una sovranità distinta e autonoma dalle sovranità nazionali.
Nel
frattempo, la politica europea della sicurezza alimentare diventava
evanescente.
L’altra
vicenda è il “Round del Millennio” che iniziò nel 1999, con il vertice di
Seattle.
Spuntarono
nuovi protagonisti, come Brasile, Russia, India, Sudafrica.
Nel
2001 anche la Cina entrò nel Wto.
Il negoziato fu ripreso a Cancun nel 2003.
E
nonostante ci fosse sul tavolo la proposta di riforma della “Pac” predisposta
dal Commissario Fischler (pagamento unico all’agricoltore indipendentemente
dalle sue scelte produttive), gli Usa e i paesi emergenti continuarono ad attaccare l’Ue.
Nel 2011 anche la Russia è entrata nel Wto.
Questo
ciclo di negoziati non si è mai concluso e il multilateralismo si è arenato.
Al
centro dei conflitti è sempre stato il tema dell’agricoltura.
Gli
Stati Uniti hanno privilegiato gli accordi bilaterali e l’Ue non è diventata una protagonista
del mondo globale, avendo mantenuto le proprie istituzioni in una condizione di
fragilità e inefficienza.
La democrazia oltre lo Stato. Ci vuole un
nuovo pensiero democratico.
Adesso
riprendiamo il primo tema iniziale per tentare di fornire qualche indicazione
concreta sul da farsi.
Il “diritto ad avere cibo sufficiente” ha
bisogno di essere elaborato connettendo quattro questioni: clima, demografia e
democrazia oltre lo Stato.
Per
quanto riguarda la questione climatica, ci troviamo dinanzi ad un fatto
accertato. E
così anche la sua origine antropica. L’Ue si è posta l’obiettivo dell’impatto climatico
zero entro il 2050.
Per
inquadrare invece la questione demografica, bastano poche cifre. Nel 2019,
sulla Terra c’erano circa 7,7 miliardi di persone. Nel 1950 eravamo 2 miliardi
e mezzo.
La popolazione dell’Ue non cresce più: la
quota di ultraottantenni è quasi raddoppiata negli ultimi 20 anni.
Ci
vuole una Ue che abbia una visione del mondo e dia risposte convincenti ai
problemi planetari. Bisogna costruire una interdipendenza politica e culturale,
prima ancora che economica.
Durante
la Guerra fredda, la visione delle relazioni internazionali che ha ispirato le
scelte dei leader occidentali era la seguente: l’ordine globale è fondato sulla
lotta per il potere politico-militare tra i due blocchi contrapposti e le
interdipendenze economiche sono subordinate a quell’ordine.
Nel
Dopo-guerra fredda, quella visione si è modificata e si può così sintetizzare: l’ordine globale è fondato sempre di
meno sulla lotta per il potere politico-militare tra gli Stati e sempre di più
sulle interdipendenze economiche tra di essi.
Sabino
Cassese ha contato circa duemila regimi regolatori globali. Il solo Wto
consterebbe di un corpus ricco di circa ventimila regole. Avrebbero dovuto
addomesticare le pulsioni aggressive degli Stati, contribuire a delegittimare
la guerra come strumento per la soluzione delle contese. Ma l’aggressione dell’Ucraina
dimostra che si è trattato di una grande illusione. Si è riprodotta una nuova e
più ampia frattura: democrazie, da una parte, e autocrazie, dall’altra.
Sergio
Fabbrini sostiene che la crisi dell’ordine mondiale dipenda dal fatto che “l’interdipendenza basata sugli
scambi economici e le norme giuridiche non è sufficiente per pacificare il
mondo”.
Bisogna
ricostruire una sintesi tra economia e valori liberali, tra idea di sostenibilità
e pensiero politico democratico, tra libertà di commercio e scambi fondati su
valori condivisi ed effettive condizioni di parità.
I temi legati alla sicurezza alimentare hanno
molto sofferto di una drammatica debolezza intellettuale e politica e di una
esorbitanza di irrazionalismi e ideologismi.
L’impatto
ambientale e sociale degli eccessi che si erano verificati nel corso della
Rivoluzione verde, tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso, aveva
suscitato un positivo processo di sensibilizzazione sui temi ecologici.
Ma non
c’è stata la capacità di creare una sintesi tra la cultura liberale e
democratica e le esigenze e sollecitazioni nuove della società.
Nel
2002 è nato un nuovo approccio europeo alla sicurezza alimentare. Diventano
esorbitanti gli aspetti relativi alla sicurezza igienico-sanitaria e a quella
informativa e viene relegato in una posizione marginale l’aspetto riferito alla
“sicurezza di avere cibo sufficiente”.
La
strategia funzionale Green Deal, che riguarda tutte le sfaccettature della transizione
verde, coinvolge l’agricoltura prevalentemente mediante la strategia Farm to Fork.
Questa
strategia potrebbe portare ad un aumento delle importazioni dai paesi terzi. Ma in un mondo che deve affrontare il
dramma della fame e della denutrizione, non si possono spingere le popolazioni
più povere a mettere a coltura nuovi terreni.
L’obiezione
che spesso viene sollevata a tale rilievo è che produrre cibo nell’Ue costa
troppo. E,
dunque, per i consumatori europei sarebbe più conveniente acquistare prodotti
importati. Ma questa considerazione non tiene conto che il costo maggiore
dipende dalle più elevate tutele del lavoro e dell’ambiente.
Ci
vogliono clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e
d’investimento.
Altrimenti
importare di più significherebbe avallare, nei paesi con regimi autoritari,
sfruttamento del lavoro e disastri ecologici. E non si premierebbero quei paesi
poveri o emergenti che si sforzano di rispettare standard minimi di protezione
dei lavoratori e dell’ambiente.
Sia
chiaro, non si deve arretrare di un millimetro rispetto all’obiettivo europeo
della neutralità climatica.
Anche l’agricoltura deve contribuire a
raggiungerlo. Ma bisogna scegliere bene gli strumenti da applicare.
Ci
sono pratiche agricole sostenibili che non vengono diffuse, come quella di
seminare direttamente su terreni non lavorati. Occorrerebbe diversificare le
colture e gli agro-ecosistemi.
Bisognerebbe
finalmente aprire le porte all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura.
La sicurezza alimentare europea non può fare a meno
dell’intensificazione sostenibile: oggi il sapere scientifico ci consente di
farlo.
La
democrazia oltre lo Stato. Ci vogliono istituzioni sovranazionali democratiche ed
efficienti.
Il
secondo tema iniziale lo avevo così sintetizzato: garantire il “diritto ad avere cibo
sufficiente” è una competenza che non può essere esercitata a livello statale
perché i problemi da affrontare sono planetari.
Questa competenza deve essere esercitata da
istituzioni sovranazionali in via esclusiva, cioè senza il condizionamento da
parte degli Stati nazionali.
La
forza che rendeva possibile le interdipendenze economiche durante la Guerra
fredda era la deterrenza reciproca dei due blocchi militari contrapposti.
La
forza che rendeva possibile l’interdipendenza nel dopo-Guerra fredda era
l’egemonia Usa.
Venuto
meno quel ruolo, come ha dimostrato la fuga da Kabul nell’agosto 2021, si è
caduti nel cosiddetto “mondo di nessuno”.
A quel
punto si sono aperti spazi all’azione unilaterale di tiranni con le armi
nucleari (come Putin).
Questo
significa che l’ordine mondiale si può reggere se si costruiscono soggetti
politici autorevoli (istituzionali e partitici) in grado di tutelarne
l’impronta liberale e di pensare a quella che Gianmarco Ottaviano ha definito “riglobalizzazione selettiva”.
Per
questo motivo alla Conferenza sul Futuro dell’Europa che si concluderà il 9
maggio prossimo non dovrebbe succedere una convenzione intergovernativa.
L’art.
10, c. 2, del “Tue” recita: “I cittadini sono direttamente rappresentati, a
livello dell’Unione, nel Parlamento europeo”. Bisognerebbe che il Parlamento
europeo getti il cuore oltre la siepe ed elabori un progetto di revisione del
Trattato ai sensi dell’art. 48 del Tue.
Per poi negoziarlo con gli Stati membri, in un
confronto / scontro politico.
Se
l’Ue supererà la prova della sua riforma istituzionale, acquisirà
l’autorevolezza politica necessaria per indicare al mondo anche il percorso più
efficace al fine di giungere a una nuova combinazione tra istituzioni nazionali
e quelle sovranazionali.
Le
politiche per la sicurezza alimentare globale andrebbero decise da istituzioni
politiche, come l’Onu, e gestite da agenzie operative: Fao, Wto, Banca mondiale
e Fondo monetario internazionale. Ci vorrebbe una nuova Bretton Woods.
Storicamente,
nelle unioni di Stati, alla unione sono state assegnate le competenze relative
alla sicurezza collettiva (dalla politica estera e militare a quella alimentare, dalla
politica monetaria e fiscale a quella energetica), mentre gli Stati membri hanno
trattenuto per sé tutto il resto.
L’Ue
non è stata coerente con questa impostazione e dovrebbe procedere ad un
bilanciamento delle competenze.
Bisognerebbe
riflettere su un eventuale ricalibratura delle competenze in materia di
“agricoltura”, per distinguere in modo razionale ed efficace le materie che
dovrebbero rimanere nella competenza esclusiva dell’Ue e le materie che dovrebbero tornare
nella competenza degli Stati membri.
Con il
Trattato di Lisbona la materia “agricoltura” è attribuita all’Ue come
competenza concorrente.
La
politica agricola europea non è più una politica comune, come è stata in
passato. Mentre
la politica commerciale è un settore di competenza esclusiva dell’Unione.
Sarebbe
opportuno che la materia “sicurezza alimentare” diventasse una materia di
esclusiva competenza unionale, senza più interferenze da parte degli Stati
membri.
Non
così dovrebbe essere per i “pagamenti diretti”: i quali già sono attribuiti di
fatto alla competenza degli Stati membri e andrebbero assegnati ad essi anche
formalmente.
L’Ue
potrà essere protagonista nello scacchiere mondiale e potrà contribuire a
delineare un nuovo ordine globale se completerà rapidamente il suo processo di
integrazione.
La
democrazia oltre lo Stato. Ci vuole un progetto Ue-Africa.
Il
terzo e ultimo tema iniziale suonava così: sarebbe utile per affermare a
livello planetario il “diritto ad avere cibo sufficiente” una sperimentazione
nel bacino del Mediterraneo: un grande progetto di cooperazione Ue-Africa.
Fernand
Braudel aveva trovato prove e testimonianze per smentire l’idea di un
Mediterraneo ormai fuori della storia. All’inizio del secondo dopoguerra,
egli prefigurava un nuovo protagonismo di questo mare. Una intuizione che oggi
si ripropone.
L’Ue
cresce poco o nulla, l’Africa cresce impetuosamente. Questo squilibrio va governato, non
può essere subìto.
Non
può essere delegato alle “regole” odiose e inaccettabili dei trafficanti di
esseri umani.
Serve
la consapevolezza che l’immigrazione non è un’emergenza, ma è un fenomeno
strutturale.
Una
questione, dunque, da affrontare in maniera sistemica e in rapporto con i paesi
di provenienza e di transito.
È dentro questo approccio che si deve porre
l’obiettivo di cambiare il Trattato di Dublino, di ricostruire e mantenere
forme effettive di solidarietà nella redistribuzione.
Questo
obiettivo va collocato dentro un progetto più ampio d’intervento nel
Mediterraneo e in Africa da fondare sull’agricoltura e su una concezione
integrata della sicurezza alimentare.
Ma
occorrerebbe pervenire anche su questo tema ad una capacità decisionale che
l’Ue attualmente non ha su materie che sono di competenza nazionale.
La modifica del Trattato dovrebbe prevedere
l’attribuzione esclusiva all’Unione della politica demografica e di quella migratoria,
da pensare e realizzare con modalità strettamente connesse.
L’innovazione
sovranazionale – se genuina, se cioè usata non per imporre, sotto mentite spoglie, la
logica delle relazioni internazionali, quella del potere – potrà essere fattore di liberazione e
non di vincolo, fattore di sviluppo e non di arretramento.
È il
pensiero di Keynes, di Roosevelt, di De Gasperi, di molti altri italiani fino a
Draghi.
ASSE
MOSCA-PECHINO 2.0
Comedonchisciotte.org
- Aleksandr Dugin – (22 Marzo 2023) – ci dice:
La
visita del capo della Repubblica Popolare Cinese a Mosca è percepita in tutto
il mondo come simbolica.
Non è
un caso che i leader di Cina e Russia abbiano preceduto questo incontro con
articoli di programma.
Putin
ha descritto come vede le relazioni con la Cina, Xi Jinping ha dato la sua
valutazione.
In generale, le posizioni dei due leader
mondiali coincidono: Cina e Russia sono partner strategici stretti che
rifiutano l’egemonia dell’Occidente moderno e sostengono coerentemente un mondo
multipolare.
Sia Xi Jinping che Putin danno nei loro testi
un quadro completo del mondo: il mondo è già multipolare, con la Cina, la
Russia e l’Occidente collettivo come poli più consolidati;
allo
stesso tempo, entrambi i leader sottolineano che né la Cina né la Russia
cercano di imporre il proprio modello agli altri popoli, riconoscendo il
diritto di ogni civiltà di svilupparsi secondo la propria logica, cioè di
diventare un polo a pieno titolo con un sistema di valori sovrano.
L’Occidente aderisce all’atteggiamento
esattamente opposto e non rinuncia alla speranza di salvare il modello
unipolare, che si è completamente screditato – con un’unica ideologia
(liberale), con il sistema delle politiche di genere, le migrazioni illimitate,
la totale mescolanza delle società e il post umanesimo.
Russia
e Cina rifiutano unanimemente l’egemonia occidentale e dichiarano la loro incrollabile
volontà di costruire un mondo multipolare democratico e veramente libero.Lo
stesso incontro tra Xi Jinping e Putin a Mosca sarà una sorta di sigillo, che
suggella un documento sull’era del multipolarismo.
Entrambi
i leader hanno sottolineato il significato positivo del piano proposto da
Pechino per risolvere il conflitto ucraino e Xi Jinping ha ricordato ancora una
volta la necessità della pace e Putin ha riconosciuto le proposte cinesi come
ragionevoli e razionali.
Un’altra cosa è che l’Occidente e il regime
nazista di Kiev hanno rifiutato categoricamente il piano di Xi Jinping senza
nemmeno iniziare a discuterlo o a prenderlo in considerazione.
Pertanto,
è improbabile che abbia una grande importanza, ma la sua stessa esistenza e
l’accordo di principio da parte delle due grandi potenze è già un grosso
problema.
Sia il
conflitto in Ucraina che l’escalation intorno a Taiwan sono generalmente
interpretati dai leader di Russia e Cina allo stesso modo, attribuendo la colpa
alla politica aggressiva e provocatoria dell’Occidente.
Ora è
opportuno spendere qualche parola su come la visita viene percepita a Mosca.
Il punto di vista prevalente è generalmente
coerente con le affermazioni programmatiche dei nostri leader.
Si tratta di una dichiarazione di un mondo
multipolare, basato sulla più stretta alleanza geopolitica e di civiltà tra
Cina e Russia, pronta a respingere le pressioni dell’Occidente egemone e che
offre l’ingresso nel club multipolare alle altre civiltà – islamica, indiana,
africana, latinoamericana e, in futuro, allo stesso Occidente – se le élite
occidentali rinunceranno al globalismo e all’unipolarismo.
Anche
l’accordo su un piano per la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina
sottolinea la vicinanza delle nostre posizioni, anche se, dato che l’Occidente e il
regime di Zelensky ignorano completamente il progetto cinese, è improbabile che
esso abbia una dimensione reale nel prossimo futuro.
Per
Mosca, la visita del presidente Xi in un momento così difficile è molto
importante.
Dimostra che la grande potenza cinese non è
affatto solidale con i tentativi di isolare la Russia sulla scena
internazionale, come cerca di fare l’Occidente, e che le relazioni tra Paesi e
popoli sono a un picco storico.
Questo
è più o meno il modo in cui la comunità di esperti russi responsabili vede la
visita di Xi Jinping.
Si
tratta di un gesto simbolico dell’affermata multipolarità rappresentata da due
leader mondiali che concordano pienamente tra loro sui principali parametri del
futuro.
Tuttavia,
in Russia si sentono anche altre voci si sente l’opinione che la Cina stia
facendo il proprio gioco, che non abbia intenzione di aiutare la Russia nel suo
confronto frontale con l’Occidente e che sia pronta ad avviare negoziati
separati con Washington.
Ciò è
tanto più possibile in quanto l’economia cinese è troppo dipendente dai mercati
occidentali e la Cina stessa non è ancora pronta per un conflitto frontale con
l’Occidente e cercherà di rimandarlo il più possibile o di evitarlo del tutto,
ma nel frattempo la Russia potrebbe essere caduta in difficoltà.
L’argomento
principale di questi timori è la mancanza di disponibilità della Cina a fornire
assistenza militare alla Russia.
Dal
mio punto di vista, questi timori si spiegano con il fatto che molti in Russia
non comprendono la peculiarità della politica cinese, che consiste in un
calcolo deliberato di molte opzioni diverse e si basa principalmente sulla
protezione degli interessi nazionali della Cina come Stato.
Gli osservatori russi, che temono un tradimento da
parte della Cina, non comprendono la strategia cinese stessa, il sogno cinese,
che mira alla prosperità del sistema socialista, all’impero confuciano e alla
costruzione di un sistema armonioso di relazioni internazionali.
La
Russia si trova oggi in un confronto più diretto con l’Occidente.
La Cina è ben consapevole che la Russia si fa
pagare il contraccolpo da sé stessa, cioè che la nostra guerra è la sua guerra,
o meglio l’assenza di guerra, il suo rinvio.
Il
sogno cinese è possibile solo con la piena sovranità geopolitica e civile della
Cina, e quindi è incompatibile con l’egemonia occidentale e la dittatura
liberale.
Pertanto,
la Cina sarà dalla parte della Russia non solo per ragioni opportunistiche,
dalle quali potrebbe ritirarsi in qualsiasi momento se la situazione dovesse
cambiare, ma per il suo orientamento strategico verso la piena indipendenza.
Allo
stesso tempo non ci si deve aspettare che la Cina compia passi troppo drastici
nel sostenere militarmente la Russia.
Sarebbe
del tutto anti-cinese, ma ci sono molti altri modi per aiutare l’amico in una
situazione difficile.
Il
secondo tipo di critica alle relazioni Russia-Cina deriva dal fatto che la Cina
è un gigante economico e demografico.
Un
riavvicinamento con la Russia la trasformerebbe automaticamente in un partner
minore e dipendente, le cui terre e risorse potrebbero sembrare una facile
preda per la Cina in rapido sviluppo.
Questo
timore è logico, ma in pratica si riduce al fatto che insieme la Cina farebbe
meglio a preferire l’Occidente.
E qui
finisce la logica. Siamo in guerra con l’Occidente, ma siamo amici della Cina e
l’Occidente nelle sue relazioni con la Russia insiste sulla sua completa
subordinazione alle élite liberali occidentali e ai loro rappresentanti russi.
La Cina, invece, non impone nulla e la sua strategia è
completamente trasparente e razionale.
La
risposta a questo timore sarebbe quella di rafforzare la propria identità
russa, di compiere una netta svolta nell’economia e nell’industria e di
perseguire una politica demografica intelligente.
La
Russia rischia di diventare un vassallo della Cina solo se si indebolisce
completamente e perde la propria sovranità;
tuttavia
Putin, al contrario, sta cercando di rafforzare la sua sovranità.
Pertanto,
tutte le proporzioni di uguaglianza e mutuo vantaggio nelle relazioni
russo-cinesi saranno rispettate. Il resto dipende solo dalla Russia: la Cina si
comporta in modo coerente, prevedibile e aperto. Non ha piani imperialistici
nei confronti della Russia (e di altre nazioni).
In
ogni caso, la visita di Xi Jinping a Mosca apre una nuova pagina nelle
relazioni internazionali.
Si tratta di un punto cruciale nello sviluppo
del dialogo e della cooperazione non solo tra due grandi Stati, ma anche tra
due Civiltà, non è un caso che sia Xi Jinping che Putin abbiano menzionato la
necessità di sviluppare la cooperazione umanitaria, progetti educativi,
culturali e scientifici comuni.
Per conoscersi meglio, è importante che cinesi
e russi non si limitino a commerciare ma siano anche amici, proprio come lo
sono i popoli e le culture, interessati l’uno all’altro e impegnati a capirsi.
L’amicizia personale tra Xi Jinping e Putin è
un modello, un archetipo, ma è importante che l’asse Mosca-Pechino 2.0 non si
limiti alla comunicazione dei leader di Stato, ma coinvolga anche l’élite
intellettuale, i creatori, gli artisti, gli scienziati e la gente comune.
Per
molti versi, l’Occidente si è chiuso alla Russia.
D’altro
canto, la Cina, che sta uscendo da una pandemia, sta aprendo le porte ai russi.
(Aleksandr
Dugin)
(ideeazione.com/asse-mosca-pechino-2-0/)
ECCO
PERCHÉ È LA CINA AD
AVER
BISOGNO DELLA RUSSIA
Comedonchisciotte.org
- Larry Johnson - sonar21.com – (21 Marzo 2023) – ci dice:
Vale
sempre la pena di leggere ciò che scrive il mio amico e collega Andrei
Martyanov, ma il suo pezzo di oggi sulla Russia e la Marina cinese è
assolutamente da non perdere.
Gli
Stati Uniti sono piuttosto preoccupati che la Cina fornisca armi alla Russia,
ma non colgono il punto.
Quando
si tratta di armi avanzate, è la Russia ad essere leader, non la Cina.
Xi
Jinping non è a Mosca con un catalogo di armi pronte da vendere a Putin.
Al contrario, è la Russia ad avere le armi di
cui la Cina ha bisogno se vuole scoraggiare un’azione militare degli Stati
Uniti contro Pechino.
Gli
Stati Uniti e l’Europa credono erroneamente che qualsiasi relazione bilaterale
tra Cina e Russia sia sbilanciata a favore della Cina e che la Russia abbia
poco da offrire al suo gigantesco vicino meridionale.
La verità, come sottolinea Andrei, è che è la
Cina ad aver bisogno della Russia almeno, se non più, di quanto la Russia abbia
bisogno della Cina.
Sebbene
la popolazione della Russia sia minuscola rispetto a quella cinese, la sua
sofisticazione tecnologica, in particolare dal punto di vista militare, e le
sue ampie forniture di petrolio e gas la rendono un Paese grande e vitale per i
Cinesi.
Andrei
fa notare che gli attuali missili ipersonici cinesi, i DF-21, missili balistici antinave
con una gittata dichiarata di 1.500 chilometri, sarebbero poco utili contro un
gruppo di portaerei statunitensi che incrociasse a 2.000 chilometri dalla costa
cinese.
Inoltre,
gli F-18 Hornet statunitensi di stanza su quelle portaerei sono armati con
l’AGM-158 JASSM, che ha una gittata effettiva di 2.600 chilometri.
Andrei
scrive:
La
squadriglia [di F-18 Hornet] può lanciare una salva di JASSM rimanendo oltre la
portata dei missili anti-nave DF-21.
Semplice
aritmetica: 950+700=1.650 km, oppure, nel caso dei JASSM XR, 1.900 + 700 =2.600
km.
Questo
è nel caso di un attacco contro obiettivi terrestri nella Cina continentale.
Il
JASSM, tuttavia, è anche e soprattutto un missile antinave.
Sì, è
un tipico missile antinave americano, subsonico e non particolarmente
manovrabile.
Ma…fatti i conti, si può immediatamente vedere
che SOLO tre Gruppi da Battaglia della Marina americana, nei loro attacchi
alfa, possono tenere in volo contemporaneamente 48 x 3 = 144 cacciabombardieri
e ciascuno di questi F-18 può trasportare… 4 JASSM.
Cerchiamo
di essere realisti e immaginiamo che alcuni di questi F-18 siano in
configurazione di pura difesa aerea.
Quindi,
diciamo che, in media, avremo non 4, ma 3 JASSM per F-18. Moltiplicare: 144 x 3
e avremo 432 JASSM solo nella prima salva.
In
breve, la Cina ha bisogno dei missili ipersonici russi.
Idem
per i sistemi di difesa aerea.
Un. .
. rapporto del Dipartimento della Difesa mostra che i sistemi di difesa aerea
cinesi rappresentano una minaccia sostanziale e crescente per gli Stati Uniti e
gli alleati nella regione.
La Cina utilizza sistemi costruiti in Russia e
di origine nazionale (sic) in grado di tracciare e attaccare gli aerei nemici.
La sofisticazione tecnologica di questi
sistemi d’arma, e la misura in cui possono essere aggiornati, renderebbe
naturalmente molto difficile per gli Stati Uniti o per i Paesi alleati
stabilire la supremazia aerea sulla Cina in qualsiasi tipo di impegno su larga
scala.
Nel
2021 il Dipartimento della Difesa aveva pubblicato un rapporto intitolato “Military and Security Developments
Involving the People’s Republic of China”.
Il
rapporto spiegava che le difese aeree della Cina sono costituite da missili
terra-aria S-300 e S-400 di fabbricazione russa.
Questi
sistemi russi sarebbero tra i migliori e più efficaci al mondo.
Inoltre, è possibile aggiornarli.
I
missili S-400 di più recente produzione e i nuovi missili russi S-500 sono
collegati in rete.
Ciò è reso
possibile da un’elaborazione informatica ad alta velocità in grado di rilevare
con precisione le minacce a lungo raggio.
Questi
sistemi d’arma hanno una portata e una sensibilità molto maggiori rispetto ai
sistemi precedenti.
Tuttavia,
la capacità di rilevare che un aereo è “lì” o “nel cielo” non significa che il
sistema radar di difesa aerea possa stabilire una “traccia” continua e riuscire
ad agganciarlo, colpirlo o distruggerlo.
L’ultimo
sistema russo, l‘S-500 Prometheus, “è un sistema missilistico terra-aria (SAM)
mobile…”.
È
progettato per contrastare aerei e missili balistici e da crociera e, secondo
quanto riferito, può anche colpire satelliti in orbita bassa.”
Non è
più un programma in fase di sviluppo.
È
attualmente in produzione e, se condiviso con i Cinesi, rappresenterebbe un
aggiornamento significativo delle già robuste difese aeree cinesi.
Il
vertice Russia-Cina in corso a Mosca produrrà una serie di accordi. Questi sono
in fase di negoziazione già da diversi mesi.
L’alto
diplomatico cinese, Wang Yi, era stato a Mosca a febbraio per dare gli ultimi
ritocchi a questi accordi.
Oltre
ad un trattato di difesa e cooperazione reciproca, prevedo che Russia e Cina
firmeranno un accordo a lungo termine su petrolio e gas che garantirà alla Cina
un approvvigionamento affidabile per il prossimo futuro.
Ma non
si tratta di una strada a senso unico.
La
Cina offre alla Russia un alleato fondamentale per la creazione di un
multipolarismo e per sconfiggere il tentativo degli Stati Uniti e dell’Europa
di isolare e distruggere la Russia.
La
Cina esercita un notevole potere diplomatico tra le nazioni del cosiddetto
Terzo Mondo e potrà usare questa influenza per indurre altri Paesi a sostenere
la Russia alle Nazioni Unite e presso altri organismi internazionali.
Il
vertice cinese/russo, se non altro, sferra un colpo mortale allo sforzo degli
Stati Uniti di isolare la Russia e renderla una nazione paria.
(Larry
Johnson)
(sonar21.com/andrei-martyanov-nails-it/)
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