IL NUOVO ORDINE MONDIALE BASATO SULLE RICERCHE SCIENTIFICHE.

 

IL NUOVO ORDINE MONDIALE BASATO SULLE RICERCHE SCIENTIFICHE.

 

 

Geopolitica del contagio e

nuovo ordine mondiale.

Aspeniaonline.it - Gianluca Ansalone – (Apr. 13, 2021) – ci dice:

 

La risorsa più scarsa dopo la pandemia non saranno i semiconduttori, le terre rare, il petrolio o la salute.

Sarà la fiducia.

 A scriverlo sono gli analisti del “National Intelligence Council” (NIC), organismo di analisi e previsione del sistema di sicurezza degli Stati Uniti nel suo aggiornamento quadriennale sugli scenari futuri.

Il Covid-19 ha spezzato drammaticamente il senso di fiducia nelle comunità occidentali, cancellando il positivismo tipico delle democrazie liberali di mercato.

 È dai tempi della Rivoluzione industriale che l’equazione “più benessere, più opportunità, più sviluppo” ha avuto alla base una forte leva psicologica: fiducia e ottimismo hanno mosso mercati, investimenti, consumi e la nascita di alcune delle più note imprese di successo.

Con il Covid però qualcosa si è rotto.

Innanzitutto perché si fa fatica a immaginare un ritorno alla crescita senza limiti che ha ispirato ed animato le nostre comunità fino a poco tempo fa e nonostante le molte fragilità del sistema.

Inoltre perché la pandemia ha fatto emergere la crisi del rapporto di fiducia tra cittadini, istituzioni e scienza.

Il rapporto tra scienza e politica e quello tra scienza e cittadini saranno probabilmente i termometri più importanti per testare la capacità reattiva delle democrazie di fronte allo shock della pandemia.

 Le autocrazie non hanno bisogno di chiarire i rapporti tra i due binomi, le democrazie sì.

Ed è su questo tema che le nostre comunità dovranno investire la maggior parte delle energie e delle risorse.

I piani di resilienza e ripresa di cui si parla in questa fase guardano alla capacità dei sistemi economici di modernizzarsi.

 Ma le conseguenze più rilevanti del Covid le vedremo probabilmente sul piano sociale, politico e forse perfino psicologico.

 Senza fiducia non ci sono consumi e non c’è crescita; senza fiducia non c’è innovazione e dunque il vantaggio competitivo dell’Occidente rischia di essere messo in discussione irreversibilmente.

Come per molti altri aspetti, anche in questo caso il Covid agisce sta agendo come un poderoso acceleratore.

 Veniamo da anni in cui il rapporto tra politica e cittadini ha assunto i contorni di vera e propria rivolta verso le élite.

Ma anche da anni in cui la politica ha assecondato le pulsioni anti-scientifiche e negazioniste di fette sempre più ampie della popolazione.

Fino al punto in cui l’anti-scienza si è fatta politica ed è entrata nelle istituzioni.

 La pandemia ha infine mandato in cortocircuito anche il rapporto tra politica e scienza.

Nelle autocrazie e nei Paesi governati da leadership populiste e negazioniste, la politica ha piegato la scienza ai propri interessi.

 Nelle democrazie il nodo di questo rapporto non è mai stato realmente sciolto.

Tutt’oggi ci troviamo a dibattere su come e quanto gli scienziati possano guidare le decisioni della politica nella gestione della pandemia o della campagna vaccinale.

Ma è vero anche il contrario, vale a dire in che modo la politica debba prendere decisioni ragionevoli e commisurate sulla base di dati scientifici che spesso per definizione sono incerti o probabilistici.

Colpiscono molto le dichiarazioni recenti del capo dei virologi americani Anthony Fauci sul tema dei vaccini.

Di fronte alle pressioni crescenti perché gli Stati Uniti mettano a disposizione le dosi di vaccino in eccesso anche all’Europa, in nome di una rinnovata solidarietà transatlantica, lo scienziato americano ha risposto che ci sarà una disponibilità non appena tutta la popolazione sarà vaccinata.

Ma sarà una disponibilità per i Paesi a basso e medio reddito.

Quei Paesi cioè più permeabili alla geopolitica vaccinale di attori come Russia o Cina.

Quella di Fauci è una vera e propria dottrina strategica e una dichiarazione di pura politica estera.

Da questo punto di vista l’Occidente è passato dalla tracotanza, quando ad esempio Donald Trump negava il beneficio di indossare le mascherine e Fauci stesso predicava nel deserto, all’abdicare al proprio ruolo di guida.

Il Covid si sta dunque dimostrando il più importante agente di cambiamento, anche geopolitico.

La Salute starà al mondo di domani come la Difesa è stata al mondo post-11 settembre.

 

 

Di certo l’Occidente ha ancora molto da dire e da fare, come dimostra chiaramente la storia dello sviluppo di vaccini efficaci, innovativi e prodotti in tempi da record.

 Il punto cruciale per il futuro però sarà la capacità delle democrazie di dimostrare di essere moderne, innovative e inclusive.

 Quando si parla di Salute ciò è particolarmente vero.

Si pensi all’Italia:

 il nostro Paese ha tenuto saldi i valori scritti nella Costituzione e ciò è assolutamente un motivo di vanto.

 In particolare l’universalismo delle cure e il diritto all’accesso gratuito alle cure.

Ma non abbiamo modernizzato gli strumenti, non abbiamo considerato la Salute come una questione di sicurezza – anche economica – nazionale.

 E non abbiamo dunque coinvolto i cittadini in una necessaria operazione di compartecipazione alle scelte cruciali.

Gli anglosassoni la chiamano “science literacy”, alfabetizzazione scientifica.

Secondo la Commissione europea la “science literacy” è il prerequisito per la piena ed attiva partecipazione dei cittadini alla vita politica, civile, sociale di un Paese.

Di nuovo, qualcosa di cui le autocrazie non hanno alcun bisogno.

Ora siamo ad un punto di svolta storico.

 Come fu a Yalta nel 1945 per i rapporti tra le potenze dopo la Seconda guerra mondiale, la geopolitica del contagio definirà le nuove sfere di influenza, con vaccini, scienza e ricerca a fungere da nuova cortina di ferro.

 La sfida per noi è duplice:

 da un lato ricostruire il rapporto di fiducia tra sapere, cittadini e istituzioni, dall’altro ricostruire attorno a questi valori una nuova comunità occidentale, una nuova missione per le democrazie.

Si tratta di contrapporre alla aggressiva diplomazia vaccinale delle autocrazie e alle leadership negazioniste (ormai diffuse in tutto il mondo ma travolte dai numeri della pandemia) un nuovo multilateralismo pragmatico e efficace.

 

Le scene dell’assalto a Capitol Hill a Washington dello scorso 6 gennaio rimarranno impresse a lungo, sono la ferita più dolorosa legata alla fase del Covid, assieme alle tante vittime del virus nel mondo.

Ma non sono irreversibili.

Possiamo dimostrare e fare in modo che della democrazia si senta ancora il bisogno nel mondo.

Con la Presidenza Biden negli Stati Uniti si aprono nuove possibilità.

Le democrazie vivono anche di simboli e di immagini.

Sapere che nello Studio Ovale oggi campeggia il ritratto di Benjamin Franklin, scienziato e padre fondatore, è una buona notizia e una buona ispirazione.

 Non basta però.

Come detto, la politica dovrà riprendere il suo ruolo di guida e promuovere un sistema basato su competenza e riconoscimento del ruolo del sapere.

 

Non basterà nemmeno ritornare al segno “più” davanti alle statistiche del Prodotto Interno Lordo nei prossimi anni.

D’altronde le autocrazie giocano da tempo proprio su questo terreno: rinunciare ai diritti sociali e politici per garantire crescita ed opportunità economiche.

Ma come evidenziato da tanti analisti ed economisti, la sostenibilità di un modello economico si fonda sulla capacità di innovare e sul senso di fiducia.

Hanno ragione dunque gli esperti di intelligence a sottolineare come la fiducia, questa risorsa sempre più scarsa, sarà il principale asset nella sfida tra modelli politici ed economici del futuro.

Ultima nota: il Covid-19 non è un cigno nero.

È dall’attentato alle Torri Gemelle che il mondo è entrato irreversibilmente in una dimensione asimmetrica della sicurezza nazionale ed internazionale.

 11 settembre 2001, crisi finanziaria del 2008, e pandemia, vanno dunque lette assieme, sono manifestazione di un unico grande trend.

Ecco perché è da vent’anni che i documenti ufficiali di intelligence riportano un elenco sterminato di questo tipo di minacce.

Ed ecco perché la prossima crisi sistemica avrà esattamente queste caratteristiche di marcata asimmetria.

Sarà un nuovo spillover di un virus da animali ad essere umani?

Saranno batteri resistenti agli antibiotici?

 Sarà l’impatto di una crisi climatica?

Sarà un attacco cibernetico su vasta scala?

Qualunque sarà la forma della prossima crisi dovremo fare in modo di aver imparato la lezione e ricucito il patto di fiducia alla base delle nostre democrazie.

 

 

 

 

Capitalismo e democrazia:

il momento comunitario è ora.

Aspeniaonline.it - Roberto Panzarani – (31 maggio 2021) – ci dice:

 

Il coronavirus sta modificando profondamente le nostre vite, ma non sappiamo ancora quanto.

Siamo troppo immersi nella dinamica che stiamo attraversando e la nostra energia al momento è quasi totalmente presa dalla priorità della salvaguardia della salute.

 Intanto, non stiamo più gestendo la ridondanza comunicativa sul coronavirus: siamo bombardati da una serie di notizie e informazioni continue, spesso contraddittorie, spesso sbagliate, altre invece ottime e utili che facciamo fatica però a selezionare rispetto alle altre.

In sostanza siamo confusi.

Si è persa la narrazione, le voci che ascoltiamo sono ormai una babele quotidiana. Stiamo, come società, gestendo l'improbabile e non siamo pronti per questo.

 Le conseguenze sono senz'altro il disagio personale e la difficoltà a diagnosticare il presente e ancor più il futuro.

 Abbiamo però memoria del passato e al momento ci aggrappiamo a quello anche per pensare il futuro; eppure facciamo fatica ad avere un pensiero innovativo sul futuro.

Questa esperienza, nelle sue dimensioni sociali, economiche, tecnologiche, ci lascia in eredità l'assoluta certezza di competenze nuove e specifiche che dovremo sviluppare nei prossimi anni e di cui l'emergenza vissuta ha visto la grande carenza.

Come dice Mohammed Yunus “non torniamo al mondo di prima: abbiamo un'occasione incredibile per costruire un nuovo mondo, il mondo di prima non andava bene anche senza coronavirus”.

Competenze ambientali, capacità di sfruttare i big data, organizzazione sanitaria, capacità di decisione, ascolto attivo, empatia.

Queste sono le cosiddette “soft skills” che dovremo assolutamente sviluppare nel futuro con molta attenzione se vorremo gestire con efficacia le organizzazioni del futuro.

 Dovremo passare da un management tradizionale a un management della complessità.

Qualcosa di nuovo sta arrivando, e anzi il futuro è già qui, sebbene sia distribuito male… per dirla con William Gibson.

In un certo senso, futuri multipli sono arrivati, secondo l'espressione di Peter Frase (Quattro modelli di futuro , Treccani 2019).

Spetta a noi costruire un potere collettivo in grado di lottare per i futuri che vogliamo.

 Nel mio ultimo libro “Il Nuovo Paradigma. Perché il futuro del capitalismo è comunitario” (Lupetti 2021) tento di riflettere su tutto questo.

 

Provare ad immaginare quali saranno i reali scenari post-coronavirus è ancora difficile, sicuramente stiamo assistendo ad un'accelerazione della disgregazione dell'ordine mondiale che vede da una parte l'America e dall'altra la Cina.

 La pandemia, naturalmente, non è stata soltanto all'origine di una crisi sanitaria e socio-economica, ma di un vero e proprio ridisegno della geometria mondiale che le forze americane e cinesi stanno elaborando.

In situazioni così drammatiche, i problemi diventano sempre di carattere geopolitico.

 Il rischio che stiamo per correre è quello che i rapporti organizzativi e internazionali siamo sempre meno globali e sempre più veicolati dalla potenza a cui si fa riferimento.

Ma un dato di fatto incontrovertibile è che la ridefinizione delle priorità deve essere sia individuale che collettiva.

Stefano Zamagni, economista e presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, ci indica quattro importanti lezioni che la crisi del Covid-19 ci sta impartendo.

La prima riguarda la prudenza, quella virtù che negli ultimi decenni è stata messa in disparte e che invece guida tutte le altre perché è la virtù del voler guardare lontano per mirare al bene comune.

 La seconda lezione è la comprensione della differenza tra governo e governance.

Government è l'istituzione politica, mentre con governance si fa riferimento a persone e decisioni su cosa concretamente viene realizzato per migliorare l'obiettivo dichiarato.

 È accaduto che tante proposte della governance verso un bene comune non sono state per nulla prese in considerazione dalle istituzioni (governo) e Zamagni invita tutti a chiedersi il perché.

Si è capito (terza lezione) che la salute di una persona e di una popolazione è funzione di cinque variabili: la sanità, gli stili di vita, le condizioni lavorative, l'ambiente (ecologico), la famiglia.

Purtroppo, si sta guardando solo alla prima delle variabili, quando invece tutte e cinque concorrono verso il benessere dell'uomo.

La quarta lezione è relativa all'Unione Europea che indiscutibilmente ha bisogno di un “supplemento d'anima”.

Affidarsi di più alla speranza, conclude Zamagni, che si alimenta con la creatività dell'intelligenza politica e con la purezza della passione civile .

Günther Pallaver, docente di Scienze politiche presso l'Università di Innsbruck, sottolinea che autonomia non è solo autogestione, perché è anche cooperazione, cogestione e soprattutto governance , ovvero capacità di inclusione della più ampia platea possibile di attori politici e sociali.

Questo processo di inclusione si deve tradurre in primo luogo in capacità di dialogo tra soggetti istituzionali, soprattutto se si tratta di trovare un punto di equilibrio tra salute pubblica ed economia.

Che cosa è accaduto però negli ultimi anni?

Sicuramente un grande distacco tra cittadini e istituzioni.

 Come giustamente dice Valentina Pazè in un suo articolo del 2018, il fenomeno si registra nella maggior parte delle democrazie contemporanee, ma “non è ascrivibile solo al qualunquismo, disinteresse o protesta, più o meno consapevole, nei confronti di una classe politica inadeguata e corrotta.

È indice di qualcosa di più grave: una radicale perdita di fiducia nella democrazia come veicolo di cambiamento ed emancipazione sociale, che oggi interessa in particolare i più poveri e più svantaggiati. […]

Indagini svolte in diversi Paesi concordano nel rilevare che il fenomeno della fuga dalla politica riguarda oggi in primo luogo i ceti meno abbienti e meno garantiti.

Disoccupati, precari, marginali, poveri e impoveriti rappresentano il grosso dell'esercito del non voto e della non partecipazione.

In Italia ma anche in Germania e in Francia, Stati Uniti (dove persistono barriere giuridiche all'iscrizione dei meno abbienti ai registri elettorali).

Lo scarso interesse dei poveri per la politica riflette lo scarso interesse della politica per i poveri.

Con le parole di Wolfang Streeck, la politica sembra essere diventata un “gioco di intrattenimento per la classe media (o medio-alta, dato lo scivolamento verso il basso del ceto medio colpito dalla crisi).

 Un gioco che non appassiona e non coinvolge chi ha perso qualsiasi speranza nella possibilità della soluzione collettiva ai propri problemi”.

Valentina Pazè descrive così benissimo lo stato attuale della politica e della rappresentanza attuale, e fa emergere un punto importante:

la situazione non può essere risolta con strumenti tecnologici, nel senso che la partecipazione dei cittadini tramite le piattaforme sicuramente dilata la loro possibilità di espressione, ma questa possibilità non trova per ora riscontro in una qualità migliore della rappresentanza.

La politica purtroppo non “attrae cervelli”;

 più precisamente, guardando ad esempio al caso dell'Italia possiamo dire che questo sistema partitico (a livello nazionale e purtroppo anche a livello locale) non ispira le persone migliori e con competenze distintive a impegnarsi.

Quello che è accaduto di positivo riguarda varie forme di autorganizzazione dei cittadini che sono nate per la soluzione di problemi specifici della comunità: senz'altro anche questo è politica, sebbene non nel senso del governo.

Come cambiare a livello delle istituzioni è una sfida per ognuno di noi, non delegabile, e che andrà a definire anche il futuro del nostro capitalismo.

Intanto abbiamo compreso che la digitalizzazione di per sé non potrà probabilmente rinvigorire la democrazia.

Come scrive il professor Enrico Nardelli

“La situazione che stiamo vivendo sta facendo venire al pettine una serie di nodi mai affrontati negli anni passati a proposito di 'trasformazione digitale'.

 Questo termine da un po' di tempo a questa parte è diventato di moda, soprattutto tra politici, che però nella grandissima maggioranza non hanno idea di cosa voglia di dire e di come si realizzano davvero.

 Il problema è prima di tutto culturale, perché quella digitale è una tecnologia diversa da tutte le altre che l'hanno preceduta. […]

Le 'macchine digitali' sono amplificatori delle capacità cognitive razionali delle persone e quindi radicalmente differenti da tutte le macchine precedentemente realizzate dall'uomo, che ne potenziano solo le capacità fisiche.

 Dopo secoli di progresso tecnologico, Nardelli afferma inoltre che “mentre nell'automazione fisica c'è sempre un umano che rimane al comando della macchina e che la aiuta nell'interpretazione della realtà circostante, quando si è introdotto l'automazione 'cognitiva' (quella delle macchine digitali) si è erroneamente creduto che i sistemi informatici potessero sostituire completamente le persone e 'fare tutto da soli'.

In sostanza, di fronte a un cambiamento così radicale dal punto di vista sociale ed economico non si è ancora pienamente capito che un requisito necessario per una “buona” trasformazione digitale è: “nessuna digitalizzazione senza rappresentazione dell'utente finale”.

Queste osservazioni ci ricordano che senza un processo formativo che coinvolga la cittadinanza sarà molto difficile riuscire a compiere i due passi necessari:

 primo, comprendere davvero la trasformazione digitale;

secondo, attuarla in modo che rafforzi il ruolo attivo dei cittadini invece di comprimerlo.

In questo difficile processo, una politica diversa dovrebbe giocare un ruolo importante.

 

 

 

Ue e Uk hanno Finanziato le Indagini

della Corte dell’Aia contro Putin.

 

Conoscenzealconfine.it – (21 Marzo 2023) - Giulia Burgazzi – ci dice:

 

La Ue e il Regno Unito hanno finanziato le indagini della Corte penale internazionale dell’Aia sfociate nel mandato d’arresto contro il presidente della Russia Vladimir Putin.

Il Ruolo di UE e UK.

L’Unione europea ha infatti collaborato attivamente con le indagini e soprattutto ha fornito il quadro complessivo entro cui si sono svolte:

ricercare i crimini di guerra compiuti dalla Russia in Ucraina.

Solo quelli, e non tutti i crimini di guerra in Ucraina. A questo scopo la Commissione europea ha stanziato 7,25 milioni di euro nel giugno 2022.

La Gran Bretagna ha contribuito con un altro milione di sterline, ma è stata più elegante.

 Il suo comunicato stampa parla infatti genericamente di indagini sui crimini di guerra in Ucraina, pur aggiungendo che così Putin sarà inchiodato alle sue responsabilità, eccetera.

Il “Silenzio” degli Usa.

Non risulta che gli Stati Uniti abbiano tirato fuori il becco di un quattrino. Essi infatti (come peraltro la Russia e perfino l’Ucraina) non riconoscono la giurisdizione della Corte.

Temono inoltre che una qualsiasi forma di collaborazione possa creare un precedente utile alla messa in stato di accusa di cittadini americani.

Il Mandato di Arresto contro Putin.

La Corte penale internazionale ha trovato esattamente ciò che stava a cuore ai suoi finanziatori e collaboratori europei.

 Lo scorso venerdì 17 marzo 2023 ha emesso un mandato di arresto internazionale contro Putin.

Sarebbe responsabile del trasferimento illegale di bambini dall’Ucraina alla Russia. La Corte ha spiccato un uguale ordine di arresto nei confronti della commissaria russa per i Diritti dei bambini, Maria Alekseyevna Lvova-Belova.

Non si è svolto un processo, ma la Corte – come dice il suo comunicato stampa –  ritiene fondato il sospetto che i due si siano macchiati di questa colpa.

 Potranno così essere arrestati se si recheranno in uno dei Paesi che riconoscono la giurisdizione della Corte stessa.

 Il comunicato stampa della Corte non fornisce dettagli sui bambini ucraini trasferiti in Russia.

I Bambini Trasferiti in Russia.

Qualcosa in più è sul quotidiano britannico Guardian.

 In gran parte si tratta di bambini affidati a istituti statali perché privi di genitori o di una famiglia in grado di crescerli.

Vengono essenzialmente da aree che la Russia, dopo i referendum per l’annessione, ritiene parte del proprio territorio nazionale.

Praticamente, si può mettere la cosa in questi termini: nei territori conquistati, la Russia ha cominciato a prendersi cura – al posto dell’Ucraina – dei bambini che vivevano negli orfanotrofi e li ha portati via dalle zone di guerra.

Sempre secondo il Guardian, le imputazioni ai danni di Putin e di Maria Alekseyevna Lvova-Belova sono relative anche a bambini portati dall’Ucraina in Russia con il consenso dei genitori per partecipare a “campi di rieducazione”e in piccola percentuale non sarebbero più stati restituiti alle famiglie.

 I “campi di rieducazione” sono così definiti – lo scrive lo stesso Guardian – in base ad una descrizione presente in uno studio dell’Università di Yale.

Ma non risulta che i ricercatori di Yale vi si siano recati.

 Soprattutto, non si riesce a capire se le famiglie dei bambini non più restituiti abbiano avuto le case distrutte dalla guerra, si siano sfasciate, abitino in luoghi in cui si vive in cantina per timore delle bombe.

La Collaborazione tra Organismi UE e AIA.

I principali protagonisti di questa indagine della Corte penale internazionale hanno identità curiose.

Le ha svelate la stessa Commissione europea, contestualmente all’annuncio dei 7,25 milioni stanziati per trovare i crimini di guerra russi: e solo quei crimini.

Infatti Eurojust, l’agenzia Ue per la collaborazione nel campo della giustizia criminale, ha unito le proprie forze a quelle della Corte dell’Aia, formando una squadra di investigazione congiunta.

Questa squadra ha coinvolto anche il procuratore generale dell’Ucraina, che a sua volta ha ricevuto aiuto dalla missione consultiva Ue in Ucraina.

Nella squadra si sono inseriti anche Europol, l’agenzia Ue per la lotta alla criminalità organizzata, e alcuni Stati Ue.

Si citano esplicitamente Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia e Slovacchia. Incidentalmente, hanno in comune una politica da falchi anti-russi.

(Giulia Burgazzi)

(visionetv.it/ue-e-uk-hanno-finanziato-le-indagini-aia-contro-putin/)

 

 

 

 

Guerra giorno 391: la Cina

diventa "alleata" di Putin,

una svolta nella crisi.

msn.com - Andrea Lavazza – (21-3-2023) – ci dice:

 

La guerra in Ucraina è giunta al giorno 391, segnato dalla visita del presidente cinese Xi Jinping al Cremlino.

Sebbene il presidente russo Vladimir Putin e il suo ospite abbiano discusso la proposta di Pechino per un cessate il fuoco, il messaggio principale dato al mondo è stato quello di una solida partnership (“caro amico” è stato il saluto reciproco), basata sulla comune rivalità con l'Occidente.

Tappetti rossi, onori rari e lunghi colloqui hanno caratterizzato i due giorni del viaggio in Russia del leader che aspira a diventare il nuovo ago della bilancia degli equilibri mondiali, improntati, come egli stesso ha spiegato, a un nuovo ordine multipolare, mentre incurante stringeva la mano e sorrideva a un ricercato per crimini gravissimi dalla Corte penale.

Xi ha dichiarato che Pechino e Mosca sono "partner strategici" e "grandi potenze vicine" e ha invitato il suo omologo a ricambiare al più presto il viaggio.

Mentre tutti gli occhi e gli orecchi erano, comprensibilmente, concentrati sulla reazione di Putin alla proposta di pace in 12 punti avanzata da parte cinese per porre fine ai combattimenti, non va escluso che questo tema sia stato marginale nelle conversazioni tra i due capi di Stato.

Ovviamente, il conflitto è sullo sfondo di ogni mossa delle parti, ma l’agenda sembra essere stata più funzionale al rafforzamento di entrambi gli interlocutori che al raggiungimento di un percorso di diplomatico per fermare la guerra di aggressione.

"Il piano della Cina può essere preso come la base per un accordo di pace sull'Ucraina, quando Occidente e Kiev saranno pronti a farlo", ha rimarcato Putin nelle dichiarazioni finali congiunte, senza lasciare spazio a grande ottimismo negli osservatori.

Anche da Pechino si è rilanciato lo stesso messaggio, con riferimento a trattative nella cornice delle Nazioni Unite e dei principi della sua carta (che è stata palesemente violata da Mosca).

 La stessa telefonata di Xi con il presidente ucraino Zelensky prevista per i prossimi giorni rischia così di trasformarsi, se pure ci sarà, in una semplice presa d’atto che non c’è volontà russa di fare un minimo passo indietro rispetto ai territori occupati.

D’altra parte, è emerso chiaramente che la Federazione è una fonte di petrolio per l’economia di Pechino (le esportazioni aumenteranno) ed è vista come un alleato per fronteggiare la sfida globale con gli Stati Uniti.

La Federazione, a sua volta, ha bisogno di un mercato per i suoi idrocarburi che l’Europa non compra più a caro prezzo.

 Il sostegno della Cina si concretizza anche sulla tecnologia e sul commercio, con il timore di Kiev e degli Stati Uniti che esso possa trasformarsi in un aiuto militare, che potrebbe includere anche munizioni e armi.

 Sospetti sono stati avanzati circa forniture già spedite di parti per droni.

L’alleanza economico-strategica – sancita con un accordo formale – guarda alla costituzione di un blocco con tutti i Paesi del cosiddetto Sud globale che sia alternativo alle alleanze tessute dagli Usa e dall’Europa.

A questo fine, per sganciarsi dalla dipendenza da dollaro e euro, la Russia vuole "utilizzare lo yuan cinese nei pagamenti con Paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina", come auspicato da Putin nel corso degli incontri.

Che la partita sia ormai planetaria è stato manifestato dal contemporaneo arrivo a Kiev del primo ministro giapponese Fumio Kishida giunto, ultimo dei leader del G7, nella capitale sotto le bombe per incontrare Volodymyr Zelensky.

La rivalità tra Pechino e Tokyo, infatti, ha spinto Kishida a non lasciare tutta l’attenzione concentrata sulle mosse di Xi.

I giorni dei colloqui al Cremlino hanno messo in ombra le operazioni sul campo. Secondo il ministero della Difesa ucraino un'esplosione (leggi: un attacco) nella città di Dzhankoi, in Crimea, ha distrutto missili da crociera russi destinati alla flotta del Mar Nero di Mosca.

Il consigliere del ministero dell’Interno, Anton Gerashchenko, ha diffuso un video che mostra la zona della stazione ferroviaria della città e una forte deflagrazione.

La Russia, dal canto suo, ha minimizzato la portata dell’azione e ha riferito di avere abbattuto un drone di Kiev.

 In realtà, sembra che le forze armate ucraine siano ora in grado di colpire dal cielo con maggiore precisione e intensità proprio grazie a velivoli senza pilota più efficaci e di maggiore autonomia operativa.

Da segnalare anche la dura reazione russa – “reagiremo, lo scontro nucleare è a pochi passi” – alla notizia che la Gran Bretagna intende fornire all'Ucraina anche munizioni anticarro perforanti ad alto potenziale, contenenti uranio impoverito.

 La rivelazione è stata fatta Annabel Goldie, viceministra della Difesa, durante un'audizione alla Camera dei Lord, passata sotto silenzio a Londra ma rimbalzata poi sui media ucraini.

In definitiva, la Cina sembra decisa a rimanere alla finestra nel conflitto, sfruttando la debolezza russa per spuntare migliori condizioni nel partenariato e rovesciando i rapporti di forza con Mosca nel tentativo di costruire un fronte alternativo a quello occidentale.

Ciò comporta un moderato sostegno economico a Putin perché possa reggere il logoramento della guerra, destinata a proseguire nei prossimi mesi.

Di conseguenza, saranno gli sviluppi sul campo di battaglia in questa primavera a orientare la crisi e una sua possibile soluzione.

 Se l’America di Biden è diventata mentore dell’Ucraina di Zelensky, la visita di Xi al Cremlino sembra avere fatto di Pechino il sostegno della Russia di Putin.

Una partita tragica che si gioca tutta sul terreno martoriato di Kiev.

Una partita che non vedrà necessariamente un chiaro vincitore, ma certamente un mutare delle gerarchie di potere e delle sfere di influenza a livello internazionale.

 

 

 

La Cina punta a un “nuovo ordine

tecnologico mondiale”:

le sfide per l’Occidente.

Agendadigitale.eu – (24 Mar 2021) - Mario Dal Co – ci dice:

 

La Cina sta pianificando uno sviluppo per i prossimi 15 anni che la porti a un livello generale di benessere comparabile con quello di paesi come l’Italia.

Una sfida ambiziosa, ma questo non significa che il nostro Paese e l’Europa abbiano tempo a disposizione per prendere le contromisure.

La Cina ha da poco approvato il suo quattordicesimo piano quinquennale dal quale emerge con evidenza come Xi Jinping abbia intenzione di forzare la marcia: l’obiettivo è di porre il Paese al centro della scena mondiale, in un nuovo ordine tecnologico, economico e finanziario internazionale non più a guida americana.

Sebbene la strada non sia certo in discesa, e i problemi interni per Pechino siano complessi almeno quanto quelli sul fronte internazionale, la Ue e l’Occidente non possono più stare a guardare:

 serve, anche a livello nazionale, una maggiore ambizione e uno sguardo puntato sul lungo periodo.

Vediamo come si delinea l’agenda di Xi Jinping e quali sono le principali sfide.

Indice degli argomenti.

L’agenda di Xi Jinping

Obiettivi e azioni del piano.

La rule of law a Pechino.

La leva del mercato interno.

Un nuovo ordine tecnologico internazionale.

Conclusioni.

L’agenda di Xi Jinping.

Nel nuovo piano 2021-2025, le cui linee sono state varate a fine ottobre e che viene approvato nella versione definitiva nella seconda settimana di marzo dal Congresso Nazionale del Popolo, due concetti si ripetono con insistenza: la “Circolazione duale” e la “Visione 2035”.

Il primo, introdotto nella prima fase della pandemia da Xi Jinping, inquadra la crisi della globalizzazione nell’ambito della devastazione portata dalla pandemia e del conflitto commerciale aperto dagli Stati Uniti.

La circolazione duale punta sulla domanda interna e non più, come prima avveniva, sulla domanda estera;

 intende allargare la supply chain interna, riducendo la dipendenza dall’estero; vuole mobilitare i fattori di produzione, e in particolare la scienza, le risorse finanziarie e il lavoro, cercando di allentare l’hukou, ossia il sistema dei diritti di cittadinanza limitati per coloro che sono residenti fuori dalle grandi città.

Il secondo concetto, “Visione 2035” pone il sentiero di sviluppo a lungo termine nella direzione di una maggiore autosufficienza tecnologica e del superamento della condizione di “paese in via di sviluppo”, per giungere ad un livello di reddito pro-capite moderatamente sviluppato, come Spagna e Italia (intorno ai 30.000 dollari pro-capite).

Si tratta di una sfida molto ambiziosa, dal momento che il reddito pro-capite cinese supera appena i 10.000 dollari nel 2019 (Banca Mondiale)

Va segnalato, tuttavia, che per la prima volta il piano quinquennale non pone, nella sua versione proposta al Congresso, espliciti obiettivi di crescita del prodotto interno lordo, lasciando così mano libera al Partito.

Non vi è, invece, traccia di una maggiore libertà concessa ai contadini sulla vendita o l’affitto della terra, che consentirebbe di ridurre il divario di reddito città-campagna, né vi sono impegni precisi sulla decarbonizzazione nella produzione energetica, nonostante le dichiarazioni di Xi Jinping di puntare ad una “carbon neutrality entro il 2060”.

Il punto di maggiore impatto sulle relazioni con USA ed Europa è quello della ricerca e dell’innovazione.

 Qui si gioca la sfida competitiva tra Cina e paesi occidentali.

Le prime mosse dell’amministrazione Biden mostrano la consapevolezza che ormai il confronto con la Cina è inevitabile e che esso va affrontato dai paesi democratici con una comune strategia.

Obiettivi e azioni del piano.

Il quadro di prospettiva offerto dal Piano quinquennale a livello internazionale è delineato nell’intervento di Xi Jinping a Davos: quattro obiettivi a livello mondiale e quattro azioni.

Obiettivi:

coordinamento degli sforzi per uscire dalla recessione determinata dalla pandemia;

coesistenza pacifica e mutuo rispetto (questa voce è centrale nella strategia internazionale cinese, significa implicitamente non interferenza in questioni “interne” come Tibet, Xinjiang, Taiwan, Hong Kong);

riduzione della distanza tra Nord e Sud del mondo;

cooperazione globale sui temi della salute e dell’ambiente.

Risposte:

rafforzare il multilateralismo e dare ruolo maggiore al G20 per guidare il multilateralismo;

rafforzare le regole e le istituzioni multilaterali, come l’ONU;

confidare nella strategia della consultazione e della cooperazione, abbandonando la logica del confronto o dello scontro;

dare forza e riformare le istituzioni internazionali, come la World Health Organization, gli Accordi di Parigi sul clima e gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile posti dall’ONU.

Difficile non concordare con questi obiettivi e con queste risposte, soprattutto nel momento in cui il maggiore guastatore che li boicottava a livello internazionale e nel proprio paese, Donald Trump, è uscito di scena.

Naturalmente, sollevano obiezioni le pretese cinesi di considerare questioni interne indiscutibili quelle relative agli Uiguri del Xinjiang, alla colonizzazione del Tibet, alla restrizione dei diritti politici ad Hong Kong, alla minaccia di annessione di Taiwan.

La “rule of law” a Pechino.

“Il 25 novembre 2020 il gruppo-guida dei membri del Partito nel governo della Repubblica Popolare (State Council) ha tenuto una riunione di studio del pensiero di Xi Jinping sulla ‘rule of law’…e ha annunciato che la rule of law è la linea guida fondamentale del governo della Cina”.

Il tono esplicitamente maoista di questa dichiarazione del governo dimostra che la” rule of law” è intesa come strumento per rafforzare la presa del Partito sul governo del Paese.

Xi Jinping sembra ispirato, nel seguire questa impostazione, assai più che dalle dottrine marxiste, dalla tradizione “legista” del pensiero politico e militare cinese, che avversava la filosofia confuciana rivolta al rispetto della regola morale e all’affermazione della benevolenza del sovrano.

 Quella tradizione svolse un ruolo decisivo nella costruzione.

Essa propugnava la severità inflessibile delle leggi, la standardizzazione del linguaggio, l’unificazione dei pesi e delle misure, la distruzione del retaggio del pensiero confuciano, la riduzione del ruolo dei “saggi” a meri funzionari esecutivi, l’obliterazione delle tradizioni familiari e del culto degli antenati, a favore di un inquadramento rigido del popolo attraverso le due figure del contadino e del soldato ed il loro “ordinamento” al servizio della potenza del sovrano. Un deciso progetto di centralizzazione del potere.

Xi Jinping intende creare un assetto normativo più stabile e adeguato a un nuovo ruolo mondiale della Cina.

Da un lato, il Paese deve dotarsi di strumenti per gestire un contenzioso civilistico interno che rischia di produrre effetti destabilizzanti dal punto di vista politico e sociale, dall’altro lato, deve disporre delle capacità e dei mezzi per potersi confrontare con le imprese multinazionali.

 

Sul primo aspetto, quello del contenzioso, scriveva il prof. Xianchu:

La Cina è diventata una delle società più conflittuali del mondo, producendo un gran numero di ‘incidenti di massa’, ossia raduni improvvisati o pianificati con discorsi pubblici, dimostrazioni, rimostranze pubbliche e anche attacchi violenti contro organi di governo fabbriche o altre proprietà, usati come mezzi di protesta contro l’abuso di potere”.

Sul secondo aspetto, quello della regolazione, la lista delle iniziative recenti è piuttosto corposa, ne ricordiamo alcune:

Codice Civile (in forza dal primo gennaio 2021, che abolisce le vecchie norme su: matrimonio, responsabilità civile, garanzie, contratti, proprietà);

Linee guida del Comitato Centrale del Partito per costruire una società basata sulla “rule of law” (dicembre 2020);

Legge sulla crittografia (gennaio 2020) e regolamento sulle transazioni internazionali concernenti contenuti crittografati (novembre 2020);

SAMR (Shanghai Administration for Market Regulation) che ha reso più stringenti le verifiche sulle acquisizioni, in particolare nell’area dei microchip, aumentando le sanzioni e i poteri di indagine;

CSRC (China Securities Regulatory Commission) che stringe i requisiti per le IPO insistendo sui requisiti di governance e di qualità e trasparenza delle informazioni fornite (dicembre 2020);

Proposta di Legge sulla protezione dei dati personali (2020);

Legge antimonopolio (proposta novembre 2020);

Regolazione provvisoria per l’accesso al piccolo credito online (China Banking and Insurance Regulatory Commission) (gennaio 2021).

Le regole interne vengono rafforzate e definite con maggiore precisione: la tradizionale indeterminatezza che caratterizzava la gestione “tutta politica” delle regole lascia spazio ad una più stringente formalizzazione.

La leva del mercato interno.

Gli accenti posti dal presidente Xi Jinping nelle conclusioni di Davos indicano il passaggio nuovo della politica cinese:

 “La Cina promuoverà l’apertura istituzionale per definire regole, normative, standard e loro gestione, facendo avanzare un ambiente economico basato sui principi di mercato, governato dalla legge secondo standard di livello internazionale e liberare il potenziale del gigantesco mercato cinese e dell’enorme domanda interna”.

Lo sviluppo della domanda interna, che intende sostituire la crescita trainata dalle infrastrutture e dalla domanda estera, viene proposto come una risorsa per la crescita mondiale, con la Cina posizionata in un ruolo da protagonista nel determinare le regole e gli standard e quindi anche le modalità di accesso al grande mercato interno cinese.

Lo spostamento non è di poco conto: il modello di sviluppo del commercio internazionale delineato dal WTO e dai rapporti commerciali basati sugli standard occidentali, deve lasciare spazio ad una governance aperta al contributo della Cina.

Gli attacchi americani a Huawei, Tencent, Tik Tok aleggiano sullo sfondo come ferite aperte che vanno rimosse.

 Ma attenzione, questo non significa affatto che la Cina sia disposta ad allentare le sue regole; anzi, essa sta promuovendo al suo interno un programma normativo complesso che investe la privacy, la tutela dei dati, i diritti di proprietà, la regolazione antimonopolistica e quella dei servizi finanziari.

E poiché, a fronte di queste nuove regole, rimangono le chiusure della Cina nei confronti delle big tech americane, lo scontro maggiore non sarà, su questo terreno, tra Europa e Cina, nonostante l’irrigidimento delle norme sui due fronti, ma continuerà ad essere tra Cina e Stati Uniti.

Il confronto si farà meno duro nelle espressioni, rispetto alla narrazione trumpiana, ma probabilmente più duro nella sostanza, anche perché il confronto con Big Tech è già aperto anche all’interno degli Stati Uniti e nell’Unione Europea e quindi non sarà sopportabile l’ulteriore carico di manovre o infrazioni delle buone regole da parte cinese.

La strategia della Cina passa per una riqualificazione della domanda e dell’offerta:

più servizi ad alta tecnologia e più ricerca e innovazione sul piano interno, ma anche più voce in capitolo nel determinare le regole internazionali che investono lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecnologie.

Qui si aprono le maggiori contraddizioni della linea politica di Xi Jinping.

Un nuovo ordine tecnologico internazionale.

Alcuni fatti.

 La Cina ha il tasso di crescita degli investimenti in R&D maggiore, mentre in valore a parità di potere d’acquisto è seconda solo agli Stati Uniti (371 miliardi di dollari contro 477).

Oggi è leader nell’energia nucleare, nei veicoli elettrici, nella generazione solare, fotovoltaica ed eolica, nell’intelligenza artificiale, nella robotica (droni).

 Negli ultimi 15 anni ha triplicato il suo impatto sulle pubblicazioni scientifiche, ha raggiunto il 43% del valore mondiale delle start-up con valore superiore al milione di dollari.

 

La Cina intende essere il paese guida dell’intelligenza artificiale nel 2030, con un ruolo trainante su tutta l’economia digitale (big data, fintech).

Le big tech cinesi (Baidu, Alibaba, Tencent – BAT) sono al centro di ecosistemi molto dinamici, assai più impegnate delle corrispondenti americane (Amazon, Facebook, Google, Netflix), con il 42% del totale degli investimenti in venture capital in Cina, contro il 5% delle Big Tech americane negli Stati Uniti..

La crescita delle big tech cinesi, Alibaba, Baidu, JD.com, Meituan, Pinduoduo,Tencent, è la dimostrazione del successo dello sviluppo nei settori avanzati, ma questa crescita pone questioni rilevanti al Partito Comunista: esso intende controllare gli accessi alla rete, i contenuti, i contatti, finanche la dimensione ed il ruolo pervasivo che questi giganti hanno nella società e nell’economia cinese.

Il caso più rilevante è rappresentato da Alibaba, il gruppo fondato da Jack Ma, personalità dinamica e non accondiscendente, che si è alienato il sostegno del Partito, al quale è pure iscritto.

 In un intervento tenuto il 24 ottobre dello scorso anno, Jack Ma aveva attaccato i regolatori cinesi in campo finanziario accusandoli di muoversi secondo la logica del “banco dei pegni” e non di una finanza moderna, basata sull’intelligenza artificiale e i big data.

 Lo aveva fatto qualche giorno prima che avesse inizio l’offerta iniziale di acquisto (IPO) più importante della storia delle fintech, quella di Ant, società del gruppo Alibaba, con un valore atteso della raccolta pari a 34 miliardi di dollari.

Per quale motivo Jack Ma abbia corso un rischio così alto, rimane un mistero. Secondo molti osservatori, la reazione fulminea e distruttiva dell’autorità di regolazione cinese che ha bloccato l’IPO facendo crollare il valore della controllante Alibaba, è stata scatenata dal suo attacco contro l’arretratezza del regolatore.

Anche se ciò fosse vero, non c’ è dubbio che sia Alibaba sia Ant sia Tencent erano da tempo sotto osservazione.

Alibaba per condotta anticoncorrenziale, Ant e Tencent perché interferiscono con l’attività delle maggiori banche, prevalentemente pubbliche, sottraendo spazio di mercato in particolare nel finanziamento delle PMI, ma anche nelle transazioni per pagamenti, con il 55% gestito da Alipay (Alibaba) e il 38% da WeChat Pay (Tencent).

La giustificazione, in questo caso, è che il regolatore deve impedire “un’espansione disordinata del capitale”.

 Ma l’esito dell’intervento all’ultimo momento sarà quello di danneggiare la credibilità del sistema regolatorio e di mettere a repentaglio l’affidabilità cinese riguardo ai diritti di proprietà.

Ciò conferma che l’accresciuto potere concentratosi nella mani di Xi Jinping porterà ad una limitazione della proiezione internazionale delle aziende cinesi, che verrà compensata in parte dalla crescita del mercato interno, ma con un appesantimento del loro dinamismo, che sarà meno proiettato ad acquisire competitività e più proiettato ad acquisire i favori del Partito Comunista.

Conclusioni.

La Cina sta pianificando uno sviluppo per i prossimi 15 anni che la porti ad un livello generale di benessere comparabile con quello di paesi come l’Italia.

Ma questo non significa che il nostro Paese e l’Europa abbiano tempo a disposizione per prendere le contromisure, poiché la velocità della Cina è, in termini di crescita del prodotto interno lordo, un multiplo della nostra e anche di quella europea o americana.

Il dato medio, infatti, cela già oggi l’esistenza di realtà tecnologiche e di capacità innovative di primo piano.

 La Cina sta investendo in conoscenza e tecnologia in modo determinato, per dotarsi di una filiera più integrata, per ridurre la dipendenza tecnologica dall’estero, per affermare nell’ambito dei settori ad alta tecnologia i propri standard come standard internazionali:

 la lezione di Huawei, che era solo uno standard di mercato, ma non aveva acquisito l’autorevolezza e la credibilità di standard condiviso è stata capita.

Investimenti in formazione e ricerca da un lato, dall’altro, creazione di regole per poter governare il mercato interno e le sfide poste dalle big tech cinesi e infine gli strumenti per gestire un mercato del lavoro e dei capitali che crescono e che rischiano continuamente di destabilizzare il controllo del Partito sulla società e sull’economia.

È una sfida molto ambiziosa:

 la Cina non ha tradizione di regolazione nel campo dei diritti di proprietà, della tutela della privacy, del diritto societario.

E ha un sistema giudiziario assai rudimentale.

 Il Codice Civile entrato in vigore in questi giorni è, a giudizio degli studiosi cinesi, il primo codice legislativo del Paese degno di questo nome.

Nel trattare questioni complesse come la tutela della concorrenza o della privacy, a fronte di una esperienza consolidata europea e americana, la Cina deve crearsi il know how e potersi richiamare ai precedenti in sede giudiziaria.

Esauriti gli spazi di incremento della produttività dovuti allo spostamento della forza lavoro dalla campagna alla città (ma lo spazio è ancora lontano dall’essere esaurito), la Cina dovrà affrontare due temi:

 la competizione sull’innovazione e la creazione di un welfare più inclusivo che tuteli gli anziani, una quota della popolazione enormemente crescente nei prossimi anni.

 

Sul piano interno la Cina ha molta strada da fare e complessi problemi di libertà e di consenso che la società pone.

 Non è affatto scontato che il sistema sempre più rigido che, passo dopo passo, Xi Jinping sta introducendo, sia in grado di rispondere a queste domande.

Vi è il rischio che le questioni della sovranità continentale su Hong Kong e Taiwan, possano servire da collante all’arroccamento del sistema di potere intorno a Xi Jinping.

Mentre la guerriglia tecnologica sulla rete continuerà a svilupparsi per saggiare la resilienza degli avversari.

Queste considerazioni non possono consolare i decisori politici europei e occidentali.

Alla domanda se la Cina di Xi Jinping si avvicini o si allontani, è possibile rispondere che essa si avvicina a tutti nel mercato mondiale, che sempre di più la vede primeggiare, e che si allontana, allo stesso tempo, seguendo una propria via e i propri interessi, con una capacità di imporli attraverso un potere economico, tecnologico e di ricerca che prima non aveva.

I prodotti cinesi saranno sempre meno “copie”, mentre i servizi cinesi saranno sempre più “domestici” nel senso di addomesticati.

Se la trazione Usa, fino ad oggi, aveva consentito all’Europa di vivacchiare nella sua minuscola dimensione politica all’ombra delle ali dell’aquila dello zio Sam, ora quell’aquila è spennacchiata.

 Certo, anche il dragone cinese ha i suoi problemi che non sono di facile soluzione, e qui ne abbiamo indicati diversi, ma -a suo modo- li affronta.

L’Unione si muove sul digitale più velocemente dei paesi membri: è un buon segno.

Ma il sacrosanto obiettivo di evitare la babele delle normative sovraniste in materia di digitale, anticipandole con norme europee rischia di appesantire la regolazione complessiva del mercato.

 Creare un unico mercato interno digitale, ma con un fardello di regolazioni e tassazioni punitivo per l’innovazione e la competizione, sarebbe un risultato peggiore.

Anche sulla ricerca l’Europa ha un ruolo importante, sia sui temi sia sui mezzi introdotti.

Ma è ai paesi membri che ritorna la palla quando si parla di scuola e di università, ossia delle competenze per produrre innovazione.

Qui, dove si gioca il nostro futuro, dobbiamo mobilitare le nostre risorse, politiche, istituzionali, economiche e culturali.

Non mancano, ma nessuno sembra interessato a sostenerle per disegnare la società di domani.

 

 

 

Draghi, “portiamo l’Italia nel metaverso”,

ma ecco perché serve cautela.

Agendadigitale.eu – (6-5-2022) – Mirella Luzzi – Fabio Pompei – ci dicono:

 

Mark Zuckerberg ha appena incontrato il premier Draghi per parlare di metaverso e investimenti.

Di come portare l’Italia e le eccellenze nostrane in questo nuovo universo.

Tuttavia questo mondo, spesso vicino al “Web3”, ha pregi ma anche difetti che la politica e i cittadini devono ben considerare

Stiamo entrando nell’era del “Metaverso” e del Web3, un nuovo modo di “vivere” Internet, più interattivo, virtuale ed immersivo.

In Italia, però, il dibattito sembrerebbe sopito, nonostante recentemente il Senato della Repubblica abbia avviato un’indagine conoscitiva sul tema e la Luiss abbia organizzato un ciclo di seminari aperti per approfondire gli aspetti regolatori.

Mark Zuckerberg ha appena incontrato il premier Draghi proprio per parlare di metaverso e investimenti. Di come portare l’Italia e le eccellenze nostrane in questo nuovo universo.

Nel resto del mondo numerosi sono gli interrogativi su questa nuova visione della Rete, con notevole fermento di sperimentatori, aziende e appassionati di tecnologia che continuano a domandarsi sin dove Mark Zuckerberg – promotore di questo nuovo mondo – vorrà spingersi.

Perché dovremmo interessarci a livello anche politico?

Per molte ragioni.

Indice degli argomenti.

Metaverso e NFT.

Pregi e difetti del Metaverso.

Cos’è il Metaverso.

Metaverso e NFT.

Spesso “Metaverso” fa rima con “NFT” e “web3”: entrambi partono da un universo crittografico comune e in particolare gli NFT sono gli oggetti di proprietà che popolano i metaversi e ne caratterizzano l’esistenza.

In piattaforme come “The Sandbox” e “Decentraland”, tramite blockchain, ma soprattutto tramite l’utilizzo di “NFT”, si può già vivere in un mondo virtuale comprando terreni, oggetti personalizzabili e partecipando anche alle decisioni della community, aspetto quest’ultimo, sicuramente affascinante di questi nuovi mondi virtuali post-Second Life.

Le” DAO” (Decentralized autonomous organization) sono organizzazioni decentralizzate e autonome che tramite “blockchain”, basano sulla partecipazione della propria community il loro punto di forza.

Chi gestisce una “DAO” emette “token” che danno la possibilità ai possessori di votare e diventare una sorta di azionisti della società.

Due esempi.

Negli ultimi mesi le società di calcio si stanno lanciando nel mondo “crypto” per coinvolgere e monetizzare maggiormente il legame con i propri tifosi, garantendo una serie di vantaggi per chi  acquista i cosiddetti “fan token”.

 In particolare la Lazio fa scegliere ai propri tifosi possessori del “token”, il miglior giocatore da premiare, la canzone con la quale la squadra uscirà dagli spogliatoi e permette anche di prenotare biglietti “VIP”.

Inoltre, anche il mondo dell’audiovisivo è protagonista del nuovo Web3.

 È possibile guardare la serie animata “Stoner Cats” con le voci di Ashton Kutcher e Mila Kunis solo se si è possessori di un “NFT”.

In futuro l’idea è quella di creare anche in questo caso una “DAO” per far partecipare i propri “azionisti” allo sviluppo e all’ideazione di nuove serie tv animate.

Fino ad ora dunque il “metaverso” sembrerebbe soprattutto uno strumento finanziario e una “gamification” applicata all’universo “blockchain” e delle “cryptovalute”.

Pregi e difetti del “Metaverso”.

Ritrovarsi tutti in un unico ambiente virtuale avrà sicuramente dei pregi, come quello di abbattere le distanze, vivere con più facilità i rapporti lontani, grazie soprattutto a speciali “visori VR” (come gli Oculus già prodotti da Facebook) che renderanno maggiormente immersiva tale esperienza.

Non solo opportunità, ma anche dubbi e qualche criticità al momento da gestire.

Se non proprio grattacapi: lo scorso dicembre – quindi dopo appena due mesi dall’avvio della piattaforma – una sperimentatrice ha affermato che, mentre si aggirava su Horizon Worlds, è stata avvicinata da un avatar sconosciuto che l’ha palpeggiata.

Come riportato dalla BBC, una ricercatrice – fingendosi una ragazza di 13 anni – è stata adescata e minacciata di stupro, mentre alcune app della piattaforma hanno permesso alla stessa adolescente (almeno sulla carta) di accedere a stanze virtuali “piccanti” dove poteva interagire con altri avatar che simulavano atti sessuali.

C’è poi da tenere a mente anche il tema dell’informazione.

Come verrà gestita questa nel metaverso?

È ben noto che l’informazione è elemento costitutivo del potere e fattore fondamentale della strategia; così come non sono una novità le azioni belliche consistenti nell’uso delle informazioni.

La disinformazione è un’attività praticata da tempi remoti e tutt’altro che inutilizzata.

Lo sfruttamento della risorsa informativa è un amplificatore e il metaverso potrebbe non avere regole chiare soprattutto in una prima fase.

 La formazione di grandi masse dati – fenomeno meglio noto come “big data “– e il loro utilizzo controllato con l’impiego di algoritmi di analisi rappresentano nella competizione (economica, politica, strategica) la nuova leva per la formazione di posizioni di potere.

Un mondo, dunque, senza (o con poche) regole, mentre rimane viva la preoccupazione su chi governerà tutti i dati personali degli utenti e sulle implicazioni psicologiche che tale sistema avrà sulla salute mentale, specie quella degli adolescenti: ci sarà ancora qualcuno che vorrà uscire da casa e socializzare al bancone di un bar come ai vecchi tempi?

Solo perché un’esperienza è virtuale non vuol dire che – ahimè – le sue conseguenze non possono essere meno reali.

Cos’è il “Metaverso”.

L’idea del Metaverso si affaccia, per la prima volta, in un romanzo scritto nel 1992 da Neal Stephenson, intitolato “Snow Crash”.

Tra le pagine futuristiche del racconto emerge un “non luogo”, denominato – appunto –Metaverso, una realtà virtuale tridimensionale che viaggia sulla rete, e all’interno della quale ogni singolo abitante del pianeta può accedere e vivere in una realtà parallela a quella fisica attraverso un “avatar”.

Dobbiamo fare un salto fino al 2003 per vedere in parte realizzato il sogno di Stephenson, quando il fisico Philip Rosedale lancia sul mercato un mondo virtuale 3D on-line con il nome di “Second Life”, primo vero e proprio metaverso, in cui tramite il “proprio avata”r si può agire, creare oggetti, fare acquisti, vivere delle esperienze, andare all’università.

Solo molto più tardi sarebbero attivate le “cryptovalute” e l’esplosione di videogame come “Minecraft”, “Fortnite” e” Roblox”.

Nel 2018 con il noto film “Ready Player One”, è il cinema a farci conoscere un metaverso di nome “OASIS”, in cui le persone si immergono nel mondo virtuale per scappare alla propria condizione sociale e ad un stato ambientale terribile in cui si trova il pianeta Terra.

Fantascienza?

Infine arriviamo all’ultimo annuncio di Mark Zuckerberg in cui di fatto trasforma l’azienda Facebook in “Meta” puntando ad essere una vera e propria piattaforma del metaverso, primo tra le big tech GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) ad appropriarsi non solo di parte del nome del nuovo universo virtuale, ma anche dell’investimento faraonico di 10 miliardi di dollari.

“In questo futuro – ha spiegato Mark Zuckerberg – sarai in grado di “teletrasportarti” istantaneamente come un ologramma per essere in ufficio senza spostarti, a un concerto con gli amici o nel soggiorno dei tuoi genitori.

Questo aprirà più opportunità, non importa dove vivi.

Sarai in grado di dedicare più tempo a ciò che conta per te, ridurre il tempo nel traffico e ridurre la tua impronta di carbonio”.

Un nuovo pianeta, totalmente virtuale, è quasi pronto.

 Nell’ottobre 2021 è partita la sperimentazione (solo per addetti ai lavori) di uno spazio etereo (Horizon Worlds) in cui gli utenti possono interagire con altri utenti all’interno di un ambiente generato dal computer.

Gli utenti in carne ed ossa vengono identificati con un’icona digitale o una figura che li rappresenta, generalmente un avatar.

Gli autori dell’articolo hanno partecipato (con Alessandro Alongi) alla redazione del libro “Fakedemocracy”.

Il far west dell’informazione, tra “deepfake” e “fake news” dove si trattano alcuni dei temi esposti.

(Mirella Liuzzi – Fabio Pompei)

 

 

 

BRICS e nuovo ordine mondiale.

Parla Marco Ricceri.

Ytali.com - ANNALISA BOTTANI – (7 Febbraio 2023) – ci dice:

 

Interpretare i nuovi scenari e le nuove alleanze definiti anche a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.

 Questa è l’importante sfida da cogliere per comprendere le prospettive di breve e medio periodo e le dinamiche che caratterizzeranno l’assetto internazionale.

 In tale contesto, il coordinamento BRICS riveste un ruolo strategico, anche alla luce del suo futuro ampliamento.

Ne abbiamo parlato con il Professor Marco Ricceri, segretario generale dell’Istituto di studi e ricerche Eurispes ed esperto di politiche sociali e del lavoro europee.

“Una realtà strutturale, non congiunturale ed effimera”, così ha definito i BRICS nel corso della sua ultima conversazione con ytali.

A distanza di quasi tre anni, lo scenario politico mondiale è radicalmente cambiato, dalla diffusione della pandemia alla crisi economica globale, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa a nuovi disequilibri geopolitici che si stanno intensificando con il passare dei mesi, anche a fronte del rifiuto russo di cessare le ostilità.

A suo avviso, quali sono i fenomeni cruciali emersi in questi tre anni nell’ambito dei BRICS, che valgono ormai circa un quarto del Pil mondiale?

Con i BRICS siamo di fronte a un coordinamento importante tra Stati che svolgono un ruolo di primo piano sulla scena internazionale e che, contrariamente a molte previsioni, è riuscito a mantenersi attivo e consolidarsi in questi anni, intensificando – questo è il punto da sottolineare – sia la cooperazione interna sia la cooperazione esterna.

È sufficiente esaminare i progetti e le iniziative comuni promossi con gli ultimi vertici nei più diversi ambiti di attività per avere un’idea precisa di questo processo di consolidamento interno ed esterno.

Come noto, i vertici degli ultimi anni – Mosca 2020, New Delhi 2021, Pechino 2022 – sono stati preparati e seguiti da numerosi incontri ai più diversi livelli, da quelli ministeriali a quelli di esperti, operatori economici, accademici e altro, che hanno disegnato e definito precise linee di cooperazione.

A titolo di esempio, si può citare il programma strategico di Partenariato Economico 2025 che ha individuato le aree di maggior intervento, dall’energia all’industria, dal digitale all’agricoltura, dal commercio ai servizi.

Nella proiezione esterna il coordinamento BRICS ha rilanciato i due progetti, BRICS Plus e BRICS Outreach, anche per rispondere alle richieste di adesione e/o di collaborazione con il raggruppamento che sono pervenute da numerosi Stati di diversi continenti, dall’America Latina all’Africa, dalla realtà mediterranea al Sud-Est asiatico.

BRICS+186 Paesi.

L’ultimo summit virtuale a guida cinese svoltosi a giugno dello scorso anno, secondo alcuni analisti, è stato una preziosa occasione per la Cina, che ha un ruolo predominante in termini economici, per delineare la proposta di un nuovo assetto multipolare che possa coinvolgere ulteriori Paesi in via di sviluppo (tra cui Argentina, Iran e Algeria che hanno già formalizzato la richiesta di adesione ai BRICS) e porsi quale alternativa ad alcuni soggetti politici occidentali (il G7, ad esempio).

Il vertice G20, tenutosi a Bali a novembre del 2022, tuttavia, non si è focalizzato solo sul confronto tra superpotenze, ossia Cina e Stati Uniti.

 Altri Paesi membri (ad esempio, Brasile, India, Indonesia, Messico, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia), infatti, hanno richiesto il riconoscimento delle proprie istanze, manifestando la necessità di portare avanti la propria agenda, a prescindere dalle pressioni internazionali e dal conflitto in Ucraina, considerato una “distrazione dalla sicurezza e dallo sviluppo economico”.

Come ha influito l’esito di questi due vertici sui rapporti tra i Paesi BRICS e sull’implementazione delle progettualità congiunte?

Per capire l’impatto di questi due vertici – quello BRICS svoltosi a Pechino a giugno del 2022 e quello del G20 a Bali, in Indonesia, a novembre dello stesso anno, sui rapporti tra gli Stati del raggruppamento, bisogna riflettere su un dato importante di premessa: fin dalla loro costituzione formale nel 2009 e poi nel corso di tutti gli anni successivi i BRICS si sono sempre posti come riformatori, non come distruttori dell’ordine globale esistente e del relativo sistema di governance; ad esempio, hanno sempre riconosciuto il ruolo centrale delle Nazioni Unite e di altre istituzioni internazionali quali lo stesso Fondo Monetario e l’Organizzazione mondiale del commercio, di cui ovviamente chiedono una riforma.

Anche al vertice informale del G20 a Bali, i BRICS hanno riconosciuto esplicitamente il ruolo del G20 quale principale strumento economico per la costruzione di un modello più equilibrato e valido di sviluppo globale.

 Questa posizione BRICS è stata confermata anche negli ultimi incontri, cioè in una fase segnata dall’emergere di un processo inatteso di polarizzazione del sistema internazionale segnato da forti e crescenti tensioni e conflitti, com’è la guerra in Ucraina.

Gli Stati BRICS presentano indubbiamente degli elementi di grande diversità tra loro, sul piano politico, economico, culturale, sociale, con tutti gli effetti che questa situazione comporta nel loro sistema di rapporti.

Ma ciò non toglie che riescano a mantenere fermo il loro obiettivo strategico di riforma del sistema di governance globale per la costruzione di un multilateralismo più equilibrato, in grado di correggere i grandi squilibri che pesano sulla vita della maggioranza della popolazione mondiale.

Il quartier generale dei BRICS e della New Development Bank si trova a Shanghai.

Ritiene che l’avvio del processo di “de-dollarizzazione” del mercato finanziario globale e, dunque, di una fase post Bretton Woods, auspicato da alcuni Paesi, sia un obiettivo concreto oppure si è ancora molto lontani da una variazione, anche minima, dell’ordine attuale?

Questo è uno degli aspetti più significativi della cooperazione BRICS.

Leggendo i progetti in corso di attuazione, ci si rende ben conto dei passi avanti concreti che stanno facendo per costruire un loro originale sistema monetario per contribuire – questo è il punto che evidenziano – a una maggior stabilità ed equilibrio dei mercati finanziari mondiali.

 I BRICS stanno procedendo nella formazione di una loro valuta comune, di comuni riserve di investimento, nel moltiplicare gli accordi reciproci riguardo all’impiego delle valute nazionali, un passaggio quest’ultimo che è visto con particolare favore anche da molti Stati esterni al coordinamento, emergenti e in via di sviluppo.

 Oltre alla loro banca di sviluppo – “NDB” – e al Fondo di Riserva – “CRA”, negli ultimi tempi i BRICS hanno creato diversi organismi importanti come l’”Insurance Pool”, il “BRICS Exchange Alliance”, hanno elaborato uno specifico programma di supporto alle relazioni commerciali denominato “Promozione commerciale finanziaria”, un programma per le operazioni speciali legate alle attività di esportazione-importazione etc.

 Certo un impulso forte a intensificare le iniziative in questa direzione è venuto dalle tensioni emerse sulla scena internazionale, dalle sanzioni occidentali alla Russia alla caduta di molti elementi di fiducia tra i principali attori dello sviluppo mondiale. 

Vorrei soffermarmi brevemente sul ruolo dell’India.

Secondo quanto riportato dal New York Times, in base ad alcune previsioni “ottimistiche”, il Paese, ora al quinto posto, sarà la terza economia mondiale entro il 2030, dopo Stati Uniti e Cina.

 Secondo il ministro degli Esteri indiano, a causa dell’impatto determinato dalla guerra in Ucraina, l’ordine mondiale, ancora profondamente occidentale, sarà sostituito da un mondo basato sul “multi allineamento”, ove i Paesi potranno scegliere di perseguire le proprie politiche e i propri interessi.

Malgrado le recenti dichiarazioni del primo ministro Narendra Modi sulla guerra in Ucraina (“Now is not the time for war”), l’India ha mantenuto, comunque, stretti rapporti politici, economici e militari con la Russia, consolidando, allo stesso tempo, l’alleanza con Stati Uniti e Giappone nell’ambito del piano strategico dell’Indo-Pacifico (l’Indo-Pacific Economic Framework), anche in un’ottica di contenimento del dominio cinese.

 Considerata la posizione di India e Cina, come potranno coesistere tali istanze nell’ambito della realtà dei BRICS?

In occasione dell’ultimo summit (Pechino, giugno 2022), il premier indiano Modi, dopo aver sottolineato che, a causa del Covid, questo era il terzo vertice svolto in videoconferenza, ha dichiarato:

“Noi, Paesi membri dei BRICS, abbiamo una visione simile sulla governance dell’economia globale.

 E di conseguenza la nostra reciproca collaborazione può dare un utile contributo alla ricostruzione globale post-Covid”.

Quindi, ha richiamato il fatto che, nel corso degli anni, “abbiamo fatto un notevole numero di riforme istituzionali nei BRICS che hanno aumentato l’efficacia dell’organizzazione.

È un elemento di soddisfazione che, ad esempio, sia aumentato il numero dei soci della nostra nuova Banca di Sviluppo”, che “la nostra reciproca collaborazione sia aumentata in molte aree” come, ha citato tra le altre, “il coordinamento tra i dipartimenti doganali”, “la creazione di un sistema satellitare condiviso”.

La soddisfazione per il progresso dei BRICS espressa dal primo ministro indiano Modi e il suo impegno attivo nel coordinamento possono anche sembrare in contraddizione con la partecipazione dell’India ad altri diversi organismi di coordinamento internazionale.

 In effetti, a ben riflettere, non lo sono, poiché gli assi strategici della politica BRICS riguardano la riforma del sistema di governance mondiale e lo sviluppo della cooperazione reciproca orientata a promuovere gli interessi dei singoli Stati membri.

Rispetto a questi obiettivi, che sono stati definiti primari, i BRICS hanno classificato come di rilevanza secondaria le questioni aperte tra i singoli membri.

 È il caso delle tensioni tra India e Cina sul confine del Pakistan.

Un ultimo aspetto da non sottovalutare riguarda il fatto che l’India, secondo le previsioni Onu, in questo 2023 dovrebbe superare la Cina per numero di abitanti, raggiungendo 1,43 miliardi di persone, diventando così il Paese più popoloso del mondo; che la forza lavoro indiana (persone dai 15 ai 64 anni) aumenta ogni anno di almeno 10 milioni di unità, che la popolazione indiana ha un’età media di 27 anni, mentre quella cinese è di 39.

Anche questo richiamo dovrebbe aiutare a riflettere meglio perché le istanze dei BRICS e dell’India al suo interno trovano un impulso importante anche in questi processi di cambiamento demografico, ben diversi, ad esempio, da quelli in atto nel nostro sistema europeo.

Passiamo ora alla Russia.

A seguito dell’invasione dell’Ucraina, il Cremlino, stretto nella morsa dell’isolamento internazionale e delle sanzioni, ha introdotto le proprie strategie di “soft power” per fomentare il risentimento di alcuni Paesi del Sud America, dell’Africa e dell’Asia che non si sentono adeguatamente rappresentati nell’ambito dell’assetto geopolitico attuale, con l’obiettivo di creare, in un’ottica “anticolonialista” (un termine ormai presente nella narrazione putiniana), un fronte antioccidentale.

In tal senso, la transizione verso i “BRICS Plus” potrebbe essere l’occasione per raggiungere tale obiettivo.

Su quali ambiti, a suo avviso, punterà il Cremlino per costruire una base progettuale utile non solo nell’ambito dei BRICS, ma anche della politica interna?

Francamente non ho elementi per valutare lo stato e gli orientamenti dell’attuale politica interna della Russia.

 Registro piuttosto il fatto che numerosi progetti portati avanti concretamente dal coordinamento BRICS sono di supporto agli interessi nazionali di quel Paese, come degli altri Stati membri:

mi riferisco ai piani di investimenti nelle infrastrutture, nell’energia, alla discussione in corso tra i presidenti delle banche centrali BRICS sull’organizzazione di un sistema di pagamento comune, con riferimento a un’unica valuta convertibile.

Dai documenti ufficiali si apprende che si sta discutendo anche del possibile nome da dare a questa unità monetaria, la nuova moneta dei BRICS: “RULIND” oppure “R5” con riferimento alle iniziali delle monete dei cinque Stati membri.

Poi vi è un altro elemento da valutare con attenzione: la Russia è stata uno dei due principali promotori, insieme alla Cina, del coordinamento BRICS avviato nei primi anni Duemila.

Fin dall’inizio l’esigenza di tutela degli interessi nazionali si è combinata con quella dell’organizzazione di un diverso, più equilibrato multilateralismo.

Queste due esigenze sono valide anche nella situazione attuale.

Una situazione che registra, da un lato, il procedere dei processi di globalizzazione, sia pur con modalità del tutto diverse anche dal recente passato, e, dall’altro, l’emergere di richieste sempre più chiare e incisive da parte delle realtà emergenti che soffrono maggiormente gli effetti degli squilibri generati dall’unilateralismo.

Insomma, sempre più diffusa è la domanda di una vera riforma dell’ordine globale, testimoniata dal moltiplicarsi di nuovi organismi di coordinamento regionali (si pensi al caso del MITKA) o del rilancio di quelli già esistenti.

 In queste condizioni, non vedo il formarsi di una “piattaforma antioccidentale” da parte della Russia, perché i BRICS sono strettamente intrecciati all’Occidente.

Vedo piuttosto un gran problema aperto che riguarda tutta la comunità internazionale:

 saper affrontare e risolvere la suddetta riforma, con lo stesso impegno, ad esempio, con cui si è arrivati a definire in sede Onu una valida strategia per lo sviluppo sostenibile condivisa da tutti gli Stati membri.

 

 

Xi Jinping ha visitato il comando centrale dell’esercito popolare cinese,               il  28 gennaio 2022.

L’ampliamento della realtà BRICS dovrà procedere necessariamente per step.

Si tratta di stabilire non solo lo status dei nuovi membri (osservatore e altri ruoli intermedi), ma anche i rapporti con la banca di riferimento (la New Development Bank), armonizzando gli obiettivi e le esigenze di Paesi alquanto eterogenei in termini socioeconomici, politici e culturali.

 Senza dimenticare i Paesi che hanno manifestato l’interesse ad aderire, tra cui l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto e l’Indonesia, solo per citarne alcuni.

 Quali saranno i requisiti per l’adesione e il modello di governance previsto?

Il rilancio delle strategie “BRICS Plus” (nuovi membri) e “BRICS Outreach” (ampliamento della cooperazione esterna) coglie un’esigenza diffusa nelle realtà emergenti del mondo.

 Questo è il dato su cui riflettere.

All’interno dei BRICS la discussione, molto viva, verte sull’approccio da seguire nelle future adesioni: quale tipo di adesione promuovere, quale nuovo assetto istituzionale assumere, quale sistema decisionale?

All’esterno della realtà del coordinamento si diffondono le richieste di collaborazione e di adesione ai BRICS, sintomo di un interesse e di bisogni diffusi insoddisfatti, cui le istituzioni tradizionali non sembrano in grado di dare adeguate risposte.

Due esempi, per maggiore chiarezza: cosa può significare per i futuri orientamenti di sviluppo dell’America Latina il fatto che, oltre al Brasile, membro fondatore dei BRICS, anche l’Argentina, di recente, ha maturato la richiesta di adesione al coordinamento?

Situazione simile si registra nell’area mediterranea ove tre Stati importanti – Turchia, Egitto e, di recente, Algeria – hanno chiesto di entrare a far parte dei BRICS.

Sono scelte importanti che rappresentano in fondo un voltare le spalle all’Unione europea.

Certo i rapporti bilaterali tra gli Stati del Mediterraneo continueranno a mantenersi e ad approfondirsi, come è emerso anche con le recenti iniziative dell’Italia.

 Ma sarebbe davvero miope non cogliere il significato anche politico delle scelte dei suddetti Stati in favore dei BRICS.

Penso che, in ambito Ue e dell’Unione per il “Mediterraneo UpM”, sarebbe quanto mai opportuna una riflessione approfondita sulle vere ragioni di queste scelte che incideranno su tutta l’area, che è anche di primario interesse per l’Italia.

Quest’anno la presidenza del coordinamento dei BRICS spetta al Sudafrica.

 Quale ruolo svolgerà il Paese nella gestione ordinaria delle principali iniziative in programma e, allo stesso tempo, delle gravi criticità – in primis, il conflitto in Ucraina – che il sistema internazionale sta affrontando in questa fase?

Il Sudafrica ha espresso con molto chiarezza gli obiettivi della sua presidenza BRICS 2023.

Sul piano interno, poter usufruire della cooperazione degli altri Stati BRICS per sostenere con adeguate iniziative commerciali e di investimenti il proprio Piano Nazionale di Sviluppo.

Sul piano regionale, con riferimento al continente africano, impegnare i BRICS nel sostegno alle iniziative dell’Unione Africana (UA), il principale organismo di coordinamento del continente, e soprattutto al suo programma strategico dell’Agenda 2063.

 In sostanza, creare una sinergia stretta BRICS-Africa.

Sul piano internazionale, promuovere con i BRICS l’Agenda del Sud Globale (Global South), collegando questo impegno al raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile enunciati dall’Agenda 2030 dell’Onu.

A livello globale, infine, premere nelle sedi internazionali per garantire una rappresentanza adeguata ai Paesi emergenti e in via di sviluppo e una loro adeguata partecipazione alla governance dei processi globali.

Il neopresidente brasiliano Lula Inácio da Silva accetta le credenziali dell’ambasciatore di Cina a Brasilia Zhu Qingqiao.

Nel 2015 l’Eurispes ha istituito un laboratorio dedicato ai BRICS. Su quali progetti è impegnato attualmente?

La crescente repressione messa in atto dal Cremlino, la transizione verso una forma di governo che è possibile definire “totalitarismo ibrido” e la militarizzazione della società consentono ancora di avviare un dialogo con le istituzioni del Paese?

Il Laboratorio sui BRICS di Eurispes è un organismo aperto di riflessione e studio cui partecipano, su base volontaria, esperti e accademici delle più diverse discipline.

 È un organismo scientifico e culturale, non politico.

 Abbiamo preso spunto per questa iniziativa da una riflessione di Romano Prodi, già presidente della Commissione europea, il quale segnalò che il Mediterraneo, area di primario interesse per l’Italia, non era più da considerare un “Mare nostrum” perché i maggiori processi di cambiamento facevano riferimento a Stati esterni, appartenenti al coordinamento BRICS, in primis Cina e Russia.

 Da qui lo spunto ad approfondire la natura, gli obiettivi, le politiche di questo coordinamento poco conosciuto, un’analisi che si è sempre più estesa all’impatto dei BRICS nelle aree e nei settori internazionali su cui gravita anche l’interesse del nostro Paese.

Il nostro approfondimento sul tema ha suscitato un crescente interesse, in Italia e all’estero, e la notevole partecipazione di esperti qualificati. Siamo, quindi, di fronte a un’iniziativa di carattere scientifico.

Di fronte alla guerra in Ucraina, Eurispes, fin dall’inizio, ha preso una posizione molto netta e chiara di condanna della guerra e dell’aggressore russo, com’è testimoniato anche dalle considerazioni generali del presidente Fara pubblicate nell’ultimo Rapporto Italia 2022.

Mi permetto di aggiungere al riguardo una riflessione strettamente personale, che non coinvolge minimamente l’Istituto e che ispira il mio impegno.

Ogni giorno in Ucraina muore gente.

Di fronte a questa realtà mi devo spogliare di ogni sovrastruttura di pensiero e cercare l’essenziale: come contribuire a fermare questa tragedia? Politica? Economia? Armi? Sanzioni? Diplomazia?

Mi sembra che finora queste aree di intervento non abbiano funzionato.

Può servire mantenere aperti i canali della collaborazione culturale e scientifica?

Sono i canali che parlano alle coscienze delle persone e forse è questa la sola strada da percorrere, nelle attuali condizioni.

La cultura e la scienza esprimono valori universali;

prospettano linee di progresso condiviso: altrimenti non possono essere definite tali.

Chi riceve il frutto delle nostre analisi e riflessioni può essere indotto a riflettere sul valore di scenari alternativi a quello della guerra, può riflettere e agire nel suo ambito di responsabilità e di azione per bloccare questa tragedia quotidiana.

 È una possibilità, non una certezza, ma, comunque, è una via da percorrere.

 Penso che sia un dovere, anche etico, lasciarla aperta.

In questa direzione si è espresso chiaramente anche il presidente Mattarella che ha richiamato l’importanza di mantenere aperti i canali degli scambi culturali e scientifici, come strumenti di pace.  

 

 

 

Fukushima: il Peggio

 deve ancora Arrivare.

Conoscenzealconfine.it – (22 Marzo 2023) - Massimo Mazzucco – ci dice:

 

Forse non sarà necessario aspettare una guerra atomica fra russi e americani, per goderci le piacevoli conseguenze di una contaminazione nucleare…

Basterà aspettare che i giapponesi riversino in mare 1 milione e 300.000 tonnellate di acqua contaminata che fino ad oggi è stata stipata nelle centinaia di cisterne che circondano la vecchia centrale.

I giapponesi sostengono che ormai le cisterne hanno raggiunto la capacità limite, e che bisognerà iniziare a rovesciare in mare il loro contenuto.

 Questo naturalmente ha scatenato le proteste dei cinesi, dei coreani, dei russi, e della confederazione delle isole del Pacifico, che saranno i primi paesi a vedere il proprio mare contaminato dalle acque radioattive.

 Si calcola infatti che nell’arco di tre anni l’intero oceano Pacifico sarà contaminato, mentre nell’arco di 10 anni la contaminazione dovrebbe raggiungere tutti gli altri oceani del mondo.

Le conseguenze disastrose sull’ecosistema possono essere solo vagamente immaginate.

La confederazione delle Isole del Pacifico accusa apertamente il Giappone di non voler condividere i dati scientifici sulle acque contaminate, come invece avevano promesso di fare.

E mentre le varie nazioni del Pacifico lamentano apertamente i rischi di questa operazione, tutto il mondo occidentale – di cui il Giappone è alleato – sembra voler ignorare questo pericolo.

Evidentemente la “comunità internazionale” esiste solo quando dobbiamo aggredire militarmente un paese che vogliamo depredare.

Ma quando si tratta di mettere in difficoltà uno di noi, allora piuttosto si tace. Anche se il prezzo, in questo caso, rischia di essere un disastro ecologico di portata planetaria.

(Massimo Mazzucco)

(luogocomune.net/23-energia-e-ambiente/6196-fukushima-il-peggio-deve-ancora-arrivare)

 

 

 

FM cinese esorta il Giappone

a gestire le acque reflue contaminate

dal nucleare in modo responsabile.

Globaltimes.cn – Redazione – (Marzo 06 - 2023) – ci dice:

Un'immagine aerea mostra la centrale nucleare n. 1 di Fukushima a Fukushima, in Giappone, nel febbraio 2023.

L'impianto di smantellamento segnerà presto il 12 ° anniversario della fusione senza precedenti dopo il terremoto e lo tsunami nel 2011.

Il problema più urgente al momento è lo scarico di acqua trattata nell'oceano, poiché la capacità di stoccaggio in loco si sta avvicinando al limite.

Il ministero degli Esteri cinese ha esortato il Giappone a gestire le acque reflue contaminate dal nucleare della centrale nucleare di Fukushima in modo aperto, trasparente, scientifico e sicuro, affermando che non deve iniziare a scaricare l'acqua in mare prima che una soluzione adeguata sia pienamente discussa e concordata dai paesi vicini e dalle istituzioni internazionali competenti.

Il portavoce del FM “Mao Ning” ha ribadito la seria preoccupazione della Cina e la ferma opposizione alla decisione unilaterale del Giappone nella conferenza stampa di mercoledì, quando gli è stato chiesto di commentare il governo giapponese che non ha né cambiato la sua decisione di rilasciare più di un milione di tonnellate di acqua contaminata nell'oceano, né ha risposto adeguatamente alle preoccupazioni della comunità internazionale.

Il Giappone ha accumulato più di 1,3 milioni di tonnellate di acque reflue contaminate dal nucleare e potrebbero volerci più di 30 anni per rilasciarle tutte nell'oceano.

L'acqua contaminata dal nucleare contiene più di 60 radionuclidi, che si diffonderanno nel mare in tutto il mondo dopo 10 anni di scarico, causando danni imprevedibili all'ambiente marino globale e alla salute umana, ha osservato “Mao” lunedì.

Paesi come Cina, Corea del Sud, Russia e alcune nazioni insulari del Pacifico hanno preoccupazioni condivise; diverse organizzazioni civili giapponesi hanno lanciato una petizione con la firma di 180.000 giapponesi per resistere al congedo;

e la federazione giapponese della pesca ha ripetutamente espresso una forte opposizione, ha detto “Mao”.

Secondo TEPCO, la quantità totale di acqua contaminata dal nucleare a Fukushima ha raggiunto 1,32 milioni di tonnellate al momento e ha continuato ad aumentare, e l'acqua contaminata sarebbe diluita con acqua di mare se scaricata.

 

Si stima che siano necessari 254 litri di acqua di mare pulita per ogni litro di acque reflue contaminate dal nucleare, quindi la quantità totale di acqua contaminata che il Giappone alla fine rilascerà nell'oceano supererà i 300 milioni di tonnellate.

Il portavoce ha dichiarato che il Giappone dovrebbe prestare attenzione alle preoccupazioni della comunità internazionale e del popolo giapponese, revocare la decisione sbagliata, interrompere tutti i preparativi per il progetto di scarico e adempiere ai suoi doverosi obblighi internazionali.

 

 

 

Esiste un nuovo

ordine mondiale.

Europeanaffairs.it - Maurizio Iacono – (17 Settembre 2022) – ci dice: 

 

I conflitti sono sempre stati originati e condotti per ottenere risultati volti a soddisfare il conseguimento degli intendimenti strategici che le nazioni considerano essenziali per i loro obiettivi di politica nazionale.

Queste ragioni sono state, poi, immancabilmente ammantate da un pesante velo di propaganda (questo è il suo vero nome!) che le ha trasformate nell’eterna lotta tra il bene e il male dove ognuno dei contendenti è convinto che la sua fazione sia nel giusto e che la divina indulgenza ne sostenga e ne nobiliti le azioni.

E l’attuale conflitto ucraino non scappa a questa regola!

Pur condannando il ricorso alla forza a prescindere, se consideriamo in modo asettico e senza condizionamenti di parte la situazione, possiamo vedere che la posta in gioco in Ucraina non è rappresentata dalla sopravvivenza della democrazia o dall’esistenza del mondo libero minacciato da una apocalisse biblica di matrice autoritaria.

Quello che è realmente in bilico è, in primis, la credibilità degli Stati Uniti nel poter gestire la sfida che rappresenta l’ascesa della Cina, quale potenza planetaria, senza il fastidio di un deuteragonista del palcoscenico mondiale (la Russia di Putin), che costringe la geopolitica americana a rimanere invischiata nell’angusto ambito euroasiatico.

In stretta connessione a tale fattore è in discussione, anche, l’affidabilità degli Stati Uniti nel sostenere, militarmente ed economicamente, i propri alleati (dopo averli introdotti nella gabbia del leone!).

Ovviamente la propaganda presenta gli USA come guida illuminata di un Occidente paladino di una visione liberale del mondo, culla e rifugio della democrazia, che lotta contro il Signore del Male di turno che, improvvisamente e senza motivo, ha attaccato il cuore pulsante dell’Europa (con tutto il rispetto per l’Ucraina, ma sino a poco tempo fa era una vaga entità ai confini del mondo sconosciuta ai più).

Dall’altra parte abbiamo, invece, una Russia che nell’ambito della sua continuità storica pretende un ruolo di potenza globale, che non accetta di essere un deuteragonista della scena mondiale e che ha radicato nel suo DNA geopolitico la sindrome dell’accerchiamento.

Questo ha come conseguenza diretta che, oltre ad essersi ripresa la Crimea (che significa l’accesso a un mare caldo e ai siti nucleari), la Russia abbia dato inizio a una seconda fase di questo conflitto per eliminare o ridurre il problema di avere alla soglia di casa un soggetto politico, considerato (non del tutto a torto, bisogna riconoscerlo) uno strumento di pressione occidentale, pericoloso perché in grado sia di condizionare le sue arterie di trasporto energetico, sia di esportare idee e tendenze poco gradite e considerate destabilizzanti per la propria stabilità interna.

Di contro, la propaganda russa presenta questo conflitto come la ineluttabile necessità di difendere la “Grande Madre Patria” da un nuovo attacco da parte del “perverso liberalismo occidentale”, che vuole privare la Russia del suo ruolo e che intende governare il mondo con le sue idee retrò di democrazia e diritti individuali.

Allargando la visione, ci troviamo di fronte, però, a un conflitto che si sviluppa su due livelli differenti:

nello scenario tattico si affrontano Russi e Ucraini;

 nello scenario geopolitico, invece, i protagonisti sono molti di più e ciascuno ha un proprio ruolo e, ovviamente, persegue ben precisi obiettivi.

Oltre agli USA, all’Unione Europea e alla Russia, infatti, l’evoluzione della crisi ucraina interessa alla Cina in maniera diretta, mentre indirettamente ne sono coinvolti il Medio Oriente, l’India e l’Oriente Asiatico.

Se ci svincoliamo dalla visione locale eurocentrica e ci proiettiamo in un ambiente geopolitico globale, possiamo vedere che questa crisi assume significati differenti da quelli propagandistici del “Davide” difensore della democrazia contro il “Golia” neo-zarista e che la situazione stimola problematiche fondamentali per il nostro futuro, che non sono conseguenza diretta del conflitto, ma che, invece sono state ricondotte a essa come giustificazione di una impasse politica almeno ventennale dell’Occidente.

Il primo aspetto da considerare è quello, composito e complesso, dello sviluppo del sistema globale delle relazioni internazionali.

Dopo l’utopia presuntuosa che la fine della Guerra Fredda avesse per sempre affermato a livello globale quei principi di democrazia e di rispetto dei diritti che sono propri del nostro patrimonio culturale di Occidentali, la crisi ucraina ha dato corpo a una realtà completamente differente che, sebbene antecedente alla crisi stessa, abbiamo sino ad ora volutamente ignorato come se non esistesse.

 Quello in cui viviamo, invece, è un mondo multipolare dove, giocoforza, coesistono differenti visioni e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali di democrazia, di diritti individuali e di libertà.

Ciò che non ci è chiaro è che, pur non dovendo abiurare alla nostra impostazione di società basata sulla condivisione di determinati principi, l’Occidente si trova ad affrontare un nodo gordiano:

 l’imposizione della nostra visione morale collide con la ricerca di una stabilità di un ordine geopolitico mondiale che non si identifica nella visione da noi proposta.

Se consideriamo che l’appello a condannare l’invasione russa e a schierarsi con l’Ucraina, concorrendo nel mettere in atto risposte precise come le sanzioni, è stato accolto con favore solo da una parte del consesso mondiale, mentre in molti dei Paesi politicamente più importanti è prevalso un atteggiamento tiepido e molto distaccato, ci possiamo rendere conto della differenza culturale che esiste tra le posizioni assunte dalla Cina, dall’India, dai Paesi del Medio Oriente e dell’Africa.

Il secondo aspetto, anch’esso cruciale per il nostro futuro, è quello della crisi energetica che ha iniziato ad abbattersi sull’economia e a incidere sulla qualità della nostra vita.

Anche qui non è la crisi ucraina che è responsabile di questo problema.

La vera crisi ha origini molto più profonde e lontane nel tempo (il picco massimo di sfruttamento nel settore delle fonti fossili si è verificato nel 2010!), gli avvenimenti attuali sono solo un paravento dietro al quale abbiamo cercato di nasconderci cercando di negare la gravità della situazione.

Senza dimenticare che la crisi non riguarda solo la disponibilità delle fonti di energia fossile ma soprattutto la disponibilità delle risorse di materie prime fondamentali per lo sviluppo di alternative energetiche (quasi inesistenti nel nostro continente).

 Il possesso, il diritto allo sfruttamento e la disponibilità delle risorse tecnologiche per poterlo realizzare sono il terreno di scontro concettuale e pratico sul quale l’Occidente si troverà a combattere per poter sopravvivere.

Per tutti un esempio:

 la tecnologia dei pannelli fotovoltaici di cui l’Occidente è inventore e fiero promotore, quale fonte energetica alternativa, è prodotta in Cina mediante impianti a carbone, utilizza materie prime africane e ritorna in Europa con vettori su ruota a combustibile fossile.

Il terzo aspetto discende direttamente dal precedente.

Energia significa economia.

Senza energia il nostro sistema economico è messo alle corde e produce incertezza e disaccordo che minano la credibilità e l’affidabilità del sistema di mercato libero che l’Occidente sostiene.

Inoltre, il sistema economico ha ricercato la via più breve e meno onerosa per svilupparsi.

Tutta la nostra produzione sensibile, e non, è stata delocalizzata dove era più vantaggioso economicamente, senza la ben che minima attenzione ai rischi geopolitici che avrebbero potuto metterci in crisi.

 La tecnologia che l’Occidente sviluppa è prodotta all’estero per convenienza, ma ci espone a qualsiasi sconvolgimento del sistema con risultati catastrofici (un esempio è lo scompiglio che è stato causato dalla pandemia che ha modificato o interrotto i nostri flussi logistico commerciali!).

La stabilità dei mercati si basa sulla stabilità di un ordine geopolitico.

La ricerca di questo ordine e il suo mantenimento è un imperativo che deve passare per l’accettazione del compromesso strategico e non per l’intransigenza di una politica morale.

I concetti cardine della nostra società devono essere sostenuti e devono essere offerti come alternativa di valore assoluto, ma non possono essere imposti quale conditio sine qua non.

L’ultimo aspetto è quello che ci riguarda più da vicino: il futuro dell’Unione Europea.

La UE rappresenta una enorme potenza di carattere economico-finanziario perché è nata ed è stata sviluppata in quel senso, ma non esiste a livello politico semplicemente perché non ha la struttura per poterlo fare (nonostante la Presidente della Commissione Europea si sia arrogata un ruolo da Primo Ministro UE!).

Eppure, continuiamo a pretendere di avere un peso geopolitico sulla scena internazionale.

Se non fosse stato per la decisa spinta che gli USA hanno dato agli avvenimenti, la UE sarebbe ancora a discutere su cosa fare e non si sarebbe sognata di imporre sanzioni economiche al suo migliore cliente!

Infatti, l’UE non è un monolite compatto e coeso, ma un insieme di fazioni, gruppi e sottogruppi di Paesi che cercano di trarre il massimo vantaggio per sostenere la loro visione nazionale, che viene tenuto insieme per interessi prevalentemente economici, ma che non condivide gli stessi valori e gli stessi principi.

 L’allargamento incondizionato basato esclusivamente sul rispetto di parametri finanziario-economici, che è servito per allargare ed espandere l’Unione, ha snaturato quello che era il concetto alla base del progetto:

la condivisone di valori e di una cultura comune, oltre che l’interesse a far parte di un mercato comune dispensatore di benefici e prodigo di aiuti.

Senza voler fare torto a nessuno, le differenze di valori e di cultura già adesso danno luogo a dissimili interpretazioni di quello che dovrebbe essere il sentire comune dell’Unione e un progressivo allargamento verso Est non farebbe che acuire questo allontanamento da una matrice culturale che rischia di perdere il suo riferimento all’interno del sistema comunitario.

Se invece, questo è il futuro di questa organizzazione allora, forse, dovremmo chiamarla “Unione Euroasiatica”.

In conclusione, la crisi ucraina ha aperto il classico vaso di Pandora mettendo in evidenza una serie di tematiche geopolitiche e di scelte geostrategiche che l’Occidente si era illuso di non dover affrontare, cullandosi nella colpevole utopia del dopo guerra fredda.

Obtorto collo l’Occidente è stato messo di fronte alla realtà: il mondo non è democratico, liberale, progressista, buonista ed ecologista come noi ce lo siamo immaginato;

è diverso e, soprattutto, non ci riconosce alcun primato morale o culturale.

L’Occidente deve essere comunque fiero e orgoglioso dei propri valori e della sua visione della civiltà e deve continuare a proporre il suo modello perché lo ritiene valido e senza dubbio basato su concetti universalmente condivisibili.

Tuttavia, per poter proporre i suoi valori, questi devono risultare essere i migliori, cioè quelli in grado di assicurare il pieno rispetto dei diritti, ma anche l’assunzione dei doveri;

 il sostegno delle libertà dell’individuo, ma anche il suo rispetto della comunità;

la democrazia intesa come espressione completa della gestione della società, dove vi sia il rispetto della volontà popolare che si può sviluppare, solamente, attraverso l’espressione della maturità civile dei cittadini stessi.

 

 

 

Come la Russia vede la crisi ucraina.

Europeanaffaires.it - Maurizio Iacono – (11 Giugno 2022) -ci dice: 

 

Il clima mediatico occidentale sembra ritenere che il conflitto militare in Ucraina, in atto da ormai più di tre mesi, possa essere prossimo alla sua conclusione.

Le sanzioni e l’insuccesso attribuito alle operazioni russe, a cui si imputa il mancato conseguimento di risultati militari definitivi, lascia ora il campo libero per un’azione diplomatico-politica volta a sancire la sconfitta dell’aggressore.

O almeno, così sembra.

 

Infatti, l’Occidente compatto, anche se qualche crepa inizia a trasparire, persegue la sua politica di fermezza e di condanna, cercando di indebolire la posizione di Putin soffocando l’economia russa con le sanzioni.

La NATO conduce esercitazioni militari nel Baltico e nell’Est Europa nella speranza di impressionare il Cremlino con una dimostrazione di potenza e di coesione che mettono in evidenza i limiti dell’organizzazione, piuttosto che la sua reale forza.

 La propaganda occidentale, travestita da informazione, provvede a veicolare un messaggio a senso unico senza aver il coraggio di concedere un diritto di replica.

La diffusa interpretazione che viene proposta è che la Russia sia prossima al crollo: il suo esercito ha fallito, Putin è malato, debole e sarà rovesciato a brevissimo dalle forze liberali e democratiche che faranno trionfare la giustizia.

 Quindi niente più armi, ma solo proposte di pace.

Putin è il nuovo Signore dei Sith e l’Ucraina è diventata la bandiera del concetto di libertà occidentale e il baluardo estremo dei suoi principi di democrazia, legalità e diritti individuali!

 

Questa è la visione di un Occidente confuso e spaventato che vuole di nuovo la sua vecchia e consolidata tranquillità geopolitica, nella quale si è incoscientemente cullato negli ultimi trent’anni.

 Ma ci siamo mai chiesti, invece, se la stessa visione è condivisa anche dalla Russia e se, quindi, le cose potrebbero essere diverse da quelle che noi assumiamo debbano essere?

Forse sarebbe bene considerare come lo svolgimento dei fatti e degli avvenimenti siano percepiti dal nostro avversario al fine di intraprendere un percorso diplomatico e politico che consenta di individuare le cause di quanto sta accadendo e perseguire, quindi, una soluzione che garantisca il successo di una vera pace e non di un temporaneo armistizio (accordi di Minsk docent).

Nel condurre l’analisi di come la Russia percepisca la situazione in Ucraina possono essere considerati alcuni dei fattori posti alla base della valutazione occidentale sugli sviluppi del conflitto.

Procediamo innanzitutto con l’assunzione che Putin stia perdendo il conflitto sotto il punto di vista militare!

La mancata conquista dell’Ucraina e della sua capitale dovuta alle difficoltà incontrate nello sviluppo delle operazioni; la necessità di cambio della direttrice strategica che da Nord si è spostata ridimensionandosi verso la regione orientale meridionale; l’elevato numero di perdite e le problematiche di carattere logistico, sono state indicate come le cause del fallimento militare del conflitto.

Ma la conquista dell’Ucraina non era l’obiettivo di Putin!

Lo scopo dichiarato era quello di impedire che l’Ucraina potesse diventare una minaccia puntata verso la Russia che l’Occidente (USA, NATO ed UE) potesse usare per limitare il ruolo internazionale della Russia stessa e della leadership di Putin.

Infatti, le operazioni militari condotte dalla Russia hanno conseguito l’obiettivo prestabilito:

 l’Ucraina non entrerà nella NATO e una vera pace non potrà essere raggiunta senza tenere in considerazione anche l’anima russa delle aree orientali dell’Ucraina.

Se consideriamo il conflitto secondo questa prospettiva gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti e Putin non sta perdendo!

Secondo punto.

 L’Occidente deve scongiurare un’escalation del conflitto e quindi i Governi di USA e UE sono volti a individuare un piano di pace per ricomporre, al più presto, il conflitto tra Mosca e Kiev.

Quindi, per timore di un ampliamento indiscriminato del conflitto, fatte salve le ragioni dell’Ucraina, si tenta di proporre alla Russia una soluzione locale di compromesso per un riconoscimento, almeno formale, della situazione nel Donbass e in Crimea.

Ma questa è una soluzione che non tiene conto delle reali cause del conflitto.

Infatti, anche ammettendo di poter conseguire una situazione di compromesso che eviti la de-russificazione del Donbass e confermi le aspirazioni di indipendenza della Crimea, questo porrà termine esclusivamente alle operazioni cinetiche in territorio ucraino da parte della Russia, che invece, continuerà la sua campagna anti occidentale, dato che obiettivo primario è quello di cambiare l’atteggiamento dell’Occidente portandolo a considerare come reali ed effettive le preoccupazioni geopolitiche che vedono Mosca accerchiata da una alleanza ostile e minacciata nel suo ruolo autonomo di grande potenza.

Quindi nell’ottica del Cremlino questo non è un conflitto russo – ucraino ma un confronto diretto tra la Russia e il mondo Occidentale nel suo insieme.

Putin è colui il quale dà voce e rappresenta questo sentimento di rivalsa nazionalistica, ma è il popolo russo (almeno nella sua gran parte) che lo sente proprio e lo vive intimamente.

Una situazione di compromesso che riguardi esclusivamente l’Ucraina non cambierà nulla e non eliminerà il rischio della temuta escalation.

Altro elemento di analisi.

 La posizione di potere di Putin all’intero dell’establishment russo è in crisi e presto sarà rovesciato da un colpo di stato.

Sicuramente l’élite russa non è soddisfatta dell’andamento del conflitto e dei risvolti economici della crisi internazionale che ha investito il paese, ma, al contempo, sa che Putin è l’unico leader che possa garantire una situazione di stabilità interna e di coesione dell’intero sistema russo e quindi, di riflesso, consentire il mantenimento attuale della loro posizione di egemonia politica.

Duma e Governo sono schierati, formalmente compatti, con il Presidente.

Come pure la popolazione è in gran parte favorevole a Putin in quanto rappresenta uno dei valori fondamentali della cultura russa:

un nazionalismo profondo che ha come mito la potenza e la grandezza della Russia.

 

La dissidenza c’è, esiste e si fa anche sentire alle volte, ma non ha né la coesione né i mezzi per tentare quel colpo di stato o quella rivoluzione democratica che i media occidentali danno come imminente.

Non ci sarà una Primavera Russa!

Infine. Putin non si fida dei suoi generali e li sta sostituendo perché gli stanno facendo perdere la guerra.

Voci e notizie spesso prive di conferme ufficiali danno per scontato la rimozione di Alti Ufficiali e di personalità di vertice da parte di Putin, deluso per la presunta mancanza di successi nel conflitto ucraino.

Che Putin possa essere non del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti o dell’operato di alcuni membri dello staff è normale e non c’è di che sorprendersi, ma, dall’analisi del comportamento tenuto nel corso degli anni di potere di Putin, la sostituzione in corso d’opera di alti vertici, durante una situazione di crisi, non sembra essere il modus operandi di Mosca.

Errori di condotta e valutazioni non corrette fanno parte delle procedure di pianificazione e gestione di ogni attività operativa e se questi sono commessi e vengono effettuati in buona fede non c’è la necessita di effettuare nessuna purga di carattere staliniano.

Quindi Putin non sta perdendo il controllo della situazione e la fiducia nei suoi collaboratori rimane intatta.

 Non esiste la possibilità che il sistema politico di Mosca collassi e che Putin sia in preda a fobie complottistiche che ne possano limitare le capacità di analisi e di condotta delle politiche russe.

Il quadro di situazione, se letto e interpretato dalla parte di Mosca, appare alquanto differente da quello che il sistema occidentale di informazione presenta e ritiene condizionante per la soluzione del conflitto.

La dicotomia esistente a livello di percezione generale propone due possibili scenari per le azioni diplomatico – politiche dell’Occidente.

 

Sostenere militarmente l’Ucraina (e agitare lo spauracchio dell’allargamento ulteriore della NATO) perché siamo convinti che Putin sia perdendo il conflitto e che sia arrivato al suo capolinea politico, oppure, cercare una qualche forma di appeasement nei confronti di Mosca per evitare un’escalation che possa portare a un improbabile, ma temutissimo uso di armi di distruzione di massa, ultima risorsa di un Putin disperato e fuori controllo.

Per quanto è stato detto precedentemente nessuna di queste due linee di condotta potrà avere successo in quanto il conflitto non riguarda l’Ucraina e la Russia, ma investe l’Occidente nei suoi rapporti globali con la Russia.

La soluzione che dovrà essere elaborata deve tenere conto di altri due fattori:

il primo è il diverso approccio che l’Occidente deve avere nei confronti della percezione russa della sua sicurezza;

 il secondo concerne la ridefinizione delle ambizioni e della prospettiva russa nel suo modo di intendere le relazioni geopolitiche.

Entrambi i contendenti sono convinti di avere la mano più alta, ma non è così.

L’Occidente è convinto che le sanzioni e il supporto all’Ucraina abbiano intaccato lo spirito nazionalista di Mosca e che il suo leader sarà rovesciato da un movimento di resistenza o minato dalle sue tante presunte malattie.

Mosca ritiene che il tempo giochi a suo favore nel distruggere la coesione interna del fronte occidentale e che la presa di distanza del resto del mondo attenui e neutralizzi gli effetti economico finanziari dei mercati nei confronti della Russia.

Questa visione porta allo stallo diplomatico politico e, pur condannando a priori la scelta di Mosca del ricorso alla forza, l’unica soluzione possibile è quella di un compromesso che, tenendo conto delle vere ragioni del conflitto, si basi sul ridimensionamento delle rispettive ambizioni geopolitiche da una parte e dall’altra.

Il punto cardine per la risoluzione del conflitto è quello di individuare una serie di azioni volte a creare un clima di sicurezza reciproco, nel quale i rispettivi interessi nazionali possano essere conseguiti nell’ambito del rispetto dei concetti su cui vogliamo si basi l’ordine internazionale.

 Un ordine dove gli strumenti per la risoluzione delle controversie tra Stati non sono il livello di potenza che si esprime ma la legalità e il rispetto reciproco.

E l’Ucraina?

 L’Ucraina dovrebbe smettere di credere di essere la vittima innocente di una invasione immotivata e iniziare un esame di coscienza per definire quanto peso il suo Presidente attuale e l’establishment politico degli ultimi vent’anni abbiano avuto nel contribuire a creare le premesse per l’esplodere di questo conflitto.

 

 

 

Armi a Kiev, la Lega

si scaglia contro Meloni.

msn.com - Il Riformista - Claudia Fusani - (23-3-2023) – ci dice:

 

La premier si lamenta di “mezzo Parlamento che manda il governo al Consiglio europeo accusandolo di strage a Cutro”.

 Ma sbaglia il focus.

Due volte: la prima perché le opposizioni sono cosi divise su tutto da presentare e votare quattro diverse mozioni, Pd, 5 Stelle, Terzo Polo, Sinistra;

la seconda volta perché il vero problema di Meloni è presentarsi al Consiglio europeo di giovedì e venerdì con la sua stessa maggioranza spaccata come una mela.

Una parte ha fatto outing ieri, senza e senza ma, direttamente in aula nella persona del capogruppo Massimiliano Romeo che nella dichiarazione di voto finale ha attaccato il governo sulla politica estera e nello specifico sull’Ucraina. “Contiamo su di lei Presidente Meloni perché insista sulla strada del dialogo”.

Un “saggio consiglio – ha proseguito – è quello di evitare escalation”.

Guai, ha aggiunto, “alla dolce tirannia del pensiero unico”.

Quindi, “nel comunicare il voto favorevole alla risoluzione della maggioranza, esprimiamo forte preoccupazione per come stanno andando le cose sul fronte della guerra russo-ucraina.

 L’obiettivo della cessazione delle ostilità sembra più una dichiarazione di principio.

Il problema non è il sostegno militare, ma una corsa ad armamenti sempre più potenti con il rischio di un incidente da cui non si possa tornare indietro”.

Una vera e propria escalation di dichiarazioni “pacifiste” che spiazza la premier e la lascia “sola” nei banchi del governo del Senato senza neppure un rappresentante della Lega.

 Il sottosegretario Ostellari arriverà una volta che Romeo ha concluso l’intervento. Neppure l’ombra di un ministro.

 A cominciare da Salvini alle prese con ponti, infrastrutture e crisi idrica.

Alla viglia della riunione del Consiglio europeo di giovedì e venerdì Giorgia Meloni si ritrova così indebolita ma non dalle opposizioni.

 Bensì dal suo principale alleato.

E questo non è un bel viatico per una riunione, a Bruxelles da cui palazzo Chigi si aspetta molto soprattutto sul dossier immigrazione.

Giallo Lega, dunque.

 Ci vuole poco per capire che il problema è ben oltre le parole.

La verità è che la Lega aveva scritto una diversa risoluzione.

Tanto che su quella poi messa in votazione c’è “solo” la firma di Gian Marco Centinaio, il vicepresidente della Camera, fedelissimo di Salvini, ma non quella del capogruppo Romeo.

Che ne aveva presentata un’altra.

Un testo assai diverso di cui Il Riformista è entrato in possesso.

Diverso sia per quella che riguarda l’impegno militare in Ucraina.

Che sui dossier economici, patto di stabilità e transizione green.

Nella bozza della Lega, ad esempio, per limitarsi ai 12 punti a cui si vuole impegnare l’azione del governo, la bozza leghista parla di “favorire ogni iniziativa finalizzata alla cessazione immediata dei combattimenti” mentre quella di maggioranza votata in aula parla, in modo assai più blando, di “risoluzione del conflitto nel rispetto del diritto internazionale lavorando con la comunità internazionale nel quadro delle Nazioni Unite”.

Romeo parla di “pianificare specifiche iniziative per la ripresa e la ricostruzione dell’Ucraina” perché ci mancherebbe solo che la ricostruzione toccasse, un domani, alla Cina e sarebbe il colmo.

La risoluzione della maggioranza mette al primo posto il “continuare a far fronte alle immediate esigenze per la resilienza dell’Ucraina insieme agli altri Stati membri”.

Nel testo della maggioranza si fa specifico riferimento a “Georgia e Moldavia per garantire loro l’ingresso nell’Unione”. La Lega non fa alcuna menzione dei due paesi che più di tutti nell’immediato rischiano/temono l’invasione dei carri russi.

Fin qui la parte “guerra”.

Le differenze sono altrettanto sostanziali nella parte economica della risoluzione.

Il punto 10, ad esempio, è stato totalmente riscritto.

Si legge nella bozza leghista: “Nelle more di una riforma del patto di Stabilità che consenta di poter affrontare la transizione nel 2024 in maniera realistica e con obiettivi raggiungibili, il governo dovrà prevedere che le future regole fiscali promuovano gli investimenti in tutti i settori strategici, ambiente, digitalizzazione, difesa e natalità”.

Sono dodici punti per cui si chiede al governo un “impegno specifico”.

E in quasi tutti la Lega ha chiesto modifiche che non sono state accolte o solo in minima parte (come il passaggio “aumentare e garantire rimpatri efficaci” presente anche nel testo finale della risoluzione).

Il dissenso quindi era non solo noto.

Anzi, era scritto. In nome dell’unità di governo, è stato una volta di più messo da parte.

Tanto che, nei banchi della Lega, quando Centinaio e Romeo ieri era al Senato preparavano i rispettivi interventi – Centinaio nella discussione generale, Romeo nelle dichiarazioni di voto finali – si suggeriva loro in amicizia di preparare un testo scritto.

Così da “evitare fraintendimenti” che su questi temi sono sempre in agguato. Centinaio l’ha fatto e ha detto quanto previsto.

Quando ha preso la parola Romeo, i primi a tirarsi i pizzicotti sono stati gli stessi leghisti.

“Constatiamo purtroppo che negli ultimi tre mesi ben poco è stato fatto specie sul cessate il fuoco e sulla tregua.

Quindi, contiamo su di lei Presidente Meloni.

La gente dice che lei è una tosta, spero non solo perché è andata al congresso della Cgil”.

Romeo peggio di Patuanelli o Licheri, i pasdaran pacifisti di Conte.

Giorgia Meloni non se lo aspettava.

“Conta il voto e la Lega ha votato compatta” ha commentato il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani.

Ma è chiaro che non basta più il voto.

 

 

 

Il nuovo ordine mondiale

si decide sull’Artico.

  Linkiesta.it - Marzio Mian – (6-10-2022) – ci dice:

Il conflitto in Ucraina ha sancito la fine dell’eccezionalismo della convivenza pacifica nel Grande Nord, dove la Cina è attiva alleata della Russia contro la Nato. Putin è pronto a giocare su questo fronte la sua ultima partita.

«Quella della Russia e della Cina nell’Artico è un’aggressione all’ordine internazionale…»

«Ammiraglio, con il dovuto rispetto, il suo intervento è pieno d’arroganza e alquanto paranoico…»

«Ho una domanda per lei, ambasciatore. Visto che la Cina si richiama tanto al principio di sovranità, allora perché́ non avete ancora condannato l’attacco russo all’Ucraina?»

«Non stiamo parlando d’Ucraina qui. La verità é che voi della Nato state approfittando di questo conflitto per espandervi nell’Artico e dominarlo. È un gioco molto pericoloso…»

Lo scambio avviene all’assemblea dell’Arctic Circle di Reykjavík a metà ottobre 2022.

Dal palco sta parlando l’ammiraglio “Rob Bauer”, presidente del comitato militare Nato, quando l’ambasciatore cinese in Islanda si alza in prima fila e lo interrompe. Volti attoniti e brusio generale.

I due si puntano l’indice l’un altro. […]

Pubblicamente, alle conferenze internazionali sull’Artico come quella islandese, non ricordo d’aver mai sentito pronunciare la parola «conflitto», un tabù ben custodito, per scaramanzia o ipocrisia.

 Il mantra della diplomazia artica era «cooperazione, stabilità, dialogo».

Un modo per esorcizzare la realtà, e cioè quella d’una regione fragile non solo dal punto di vista ambientale, ma destinata a essere contesa con la forza perché́ non esistono accordi capaci di garantire la spartizione pacifica dell’unica area del mondo ancora non sfruttata e che nasconde quelle risorse di cui il mondo è affamato – ora soprattutto i minerali alla base delle tecnologie green e militari –, cruciali per alimentare il modello capitalista della crescita permanente.

Non s’è infatti mai visto che si presenta l’opportunità̀ di mettere le mani su un nuovo continente e gli uomini le tengono in tasca.

 Non basta abbattere le statue di Cristoforo Colombo per cancellare la cultura dell’impero e del dominio, o pensare che il colonialismo sia archiviato soltanto perché́ i nuovi colonialisti usano parole corrette come «resilienza» e «inclusione».

Eppure le speciali regole d’ingaggio nelle relazioni artiche hanno resistito.

Non secondario il fatto che tra le nazioni che s’affacciano sull’oceano polare ci sono due potenze, Russia e Stati Uniti, che si combattono in vario modo da oltre settant’anni, entrambe chiamate dalla stessa missione d’espandere la propria influenza e supremazia, e poi che ci siano confini polari condivisi da Nato e Russia.

Nasceva soprattutto da qui l’eccezionalismo dell’Artico:

 il dovere di collaborare e mantenere la stabilità nonostante tutto, nonostante l’oceano di ghiaccio fosse stato il teatro più caldo della Guerra fredda con i sottomarini nucleari che si davano la caccia come il gatto col topo.

 Lo spirito era quello indicato da Michail Gorbačëv a Ronald Reagan nel 1987, auspicando il disarmo dei missili a medio raggio dispiegati in Artico:

 «Facciamo del Polo un polo di pace» disse il leader sovietico davanti alla Flotta del Nord a Murmansk.

Il Consiglio artico, quando nacque nel 1996, era poco più d’una dichiarazione di buoni e pacifici intenti tra gli otto Paesi artici – oltre a Russia e Usa, Cana- da, Norvegia, Islanda, Danimarca (grazie alla Groenlandia), Svezia e Finlandia – che si proponevano di ritrovarsi allo stesso tavolo per lavorare assieme sulle questioni ambientali, sulla navigazione o sui diritti delle popolazioni indigene.

Non sulla sicurezza, perché́ non si trattava d’una organizzazione internazionale, ma d’un forum intergovernativo.

 Per diversi anni nessuno s’accorse dell’esistenza del Consiglio artico, frequentato da diplomatici pronti alla pensione;

 man mano che il ghiaccio si fondeva, e cominciavano a circolare le stime delle ricchezze sfruttabili e addirittura s’annunciavano rotte artiche alternative a Suez e Panama, allora sono arrivati i pezzi grossi, ministri degli Esteri, da Sergej Lavrov a Hillary Clinton.

E i Paesi che volevano contare sulla scena mondiale facevano a sportellate per essere ammessi come osservatori al club boreale, in primis la Cina.

 Quell’area rimasta ai margini della Grande Storia dell’umanità̀ si trovava improvvisamente sotto i riflettori, al centro d’interessi globali.

Lo spirito di Gorby ha retto sotto molte tempeste, l’Artico è rimasto un luogo speciale, in parte perché́ è il totem della lotta al riscaldamento globale, la fetta di mondo che paga il prezzo più alto, dove sono più estreme le conseguenze della nostra” hybris”.

 E poi per quel tabú della guerra, un’ipotesi che non andava nemmeno contemplata lassù, fosse solo per la quantità̀ di testate nucleari con cui Vladimir Putin piantona i suoi 22mila chilometri di costa polare.

Le crisi internazionali sono rimaste fuori dall’uscio del Consiglio artico, Stati Uniti e Russia hanno continuato a parlarsi, a studiare insieme lo smottamento del permafrost, la decimazione degli orsi, lo stravolgimento dell’ecosistema marino.

 Le guardie costiere dei Paesi artici non hanno cessato di condividere codici di navigazione per gestire gli inediti pericoli creati dal crescente traffico commerciale e turistico.

Il «patto del ghiaccio» tra gli Otto aveva superato anche l’annessione russa della Crimea nel 2014.

Ma non l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022.

Sette Paesi artici hanno chiuso ogni collaborazione con la Russia, tra l’altro presidente di turno del Consiglio e titolare del 52 per cento di coste polari.

L’Artico s’è spaccato.

In due e s’è rotto il tabú della guerra.

 L’attenzione è sul Donbass e il Mar Nero, le mappe dei generali occidentali segnate in rosso riguardano il Grande Nord, il Mare di Barents e lo Stretto di Bering.

 «Dopo l’Ucraina è cambiato tutto. Ora la questione non è se ci sarà un conflitto nella regione polare, ma come evitarlo» mi ha detto Angus King, senatore indipendente del Maine:

 «Ciò che si prepara sul tetto del mondo è un problema di sicurezza nazionale per ogni Paese occidentale».

Con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, il Consiglio artico è interamente euro-atlantico e di fatto il braccio politico della Nato.

Dopo l’aggressione russa all’Ucraina, l’Alleanza ha presto accelerato verso una dottrina militare a trazione nordica, concentrando le sue attenzioni lì dove la Russia potrebbe sfidare l’articolo V del Patto atlantico perché́ è dove Putin ha ammassato la sua forza non convenzionale in grado di colpire l’Occidente con una gittata balistica più breve.

Da quello che ritiene il mare nostrum dei russi, lo zar proietta le sue ambizioni neo-imperiali, perché la Flotta del Nord, dalle acque polari, può̀ collegarsi velocemente sia all’Atlantico sia al Pacifico.

Nell’Artico, Putin protegge, armi (nucleari) in pugno, la sua cassaforte di gas e petrolio; ora che non può̀ più confidare sulla barriera naturale dei ghiacci, su quei confini è pronto a giocarsi la partita finale.

 E, se servisse, a sparare l’ultimo colpo.

Nell’Artico tutto si tiene e tutto sembra convergere verso il peggio.

 Se Xi Jinping temporeggia sull’Ucraina, qui però è già̀ militarmente alleato con Putin.

 Russia e Cina svolgono per la prima volta manovre navali congiunte nel Mare di Bering, hanno installato in due mesi – stando a quel che mi hanno detto al Dipartimento di Stato americano – una struttura integrata per la navigazione satellitare basata sulla piattaforma Huawei e il sistema di posizionamento” BeiDou,” l’alternativa cinese al GPS utilizzato dalla Nato.

Non è un caso che, improvvisamente, Stati Uniti e Nato hanno alzato il tiro oltre Putin, parlando di «aggressione militare di Russia e Cina nell’Artico».

Washington ha pubblicato in fretta e furia, sull’onda degli sviluppi seguiti al conflitto ucraino, la nuova “National Strategy for the Arctic Region”, dove s’avvisa la Russia che le verrà̀ impedito «con ogni mezzo» di dominare l’Artico, ma molto spazio nel documento è riservato alla «minaccia militare cinese» e alle «finte basi scientifiche» nella regione.

Le intelligence militari di alcuni Paesi euro-atlantici – come ho potuto verificare ascoltando varie fonti in Italia e Regno Unito – ritengono che Pechino e Mosca stiano dando per certa l’escalation nell’Artico.

Sarà Guerra bianca?

 «Quel che è certo è che il nuovo ordine mondiale si decide oltre il Circolo Polare» è il giudizio di Anton Vasiliev, ex ambasciatore russo in Islanda.

«La Nato concentra le sue forze a nord-est approfittando dell’impegno russo in Ucraina. Sanno che la nostra esistenza dipende dal Grande Nord. Per noi anche l’embargo europeo al petrolio russo è un’azione ostile della Nato».

Lo scontro verbale alla conferenza di Reykjavík a metà ottobre 2022 è stato il momento in cui è finito un Artico, quello condannato alla pace, e ne sono nati due, condannati a scontrarsi.

 Non c’erano delegati russi, ma l’inviato speciale di Pechino per la regione polare, Feng Gao, ha parlato anche per Mosca. Annunciando che si andrà̀ verso la creazione d’un Consiglio artico russo-asiatico, alternativo a quello dei sette Paesi occidentali e Nato.

 «Non riconosceremo mai un Consiglio artico senza la Russia» ha detto a brutto muso il diplomatico cinese.

Frasi che, a quelle latitudini, sono sembrate siluri.

Non è più tempo di buone maniere, del bon ton di circostanza che s’usava verso un ambiente naturale in via di disfacimento e che disvela, insieme alle ricchezze, la nostra natura tracotante.

 Gli scenari di guerra che racconto in questo libro sono infatti gli stessi dove è già chiara, sul campo, la Waterloo del pianeta.

Il linguaggio è cambiato, ora è quello spietato della Storia che ingloba l’Artico, inquinandolo anche con le parole.

Prima che spazio geografico, geopolitico o biologico, era soprattutto un’idea che nasce dal bisogno d’altrove, dalla speranza che vi sia infine un luogo diverso, senza Storia, dove le cose sono sempre state come sono, una parte del pianeta ibernata in un’immacolata, primordiale, purezza.

Addio, mitica, ultima” thule”.

Percepita nei millenni lontana come una Luna, l’Artide in meno d’una generazione, con il cortocircuito climatico, è diventata luogo di conquista neo-coloniale; qualcuno sostiene che sia addirittura il Piano B dell’umanità̀ in un globo sempre più desertificato, sovraffollato e scarso di risorse.

 Oggi non c’è regione del mondo dove le cannonate sparate in Ucraina rimbombino forte come nel Grande Nord.

 

 

 

COME SI PROMUOVE LA “SICUREZZA

ALIMENTARE” NEL NUOVO ORDINE MONDIALE.

Perfondazione.eu - Alfonso Pascale – (3 maggio 2022) – ci dice:

 

 L’invasione russa dell’Ucraina è il conflitto geopolitico più grave dalla seconda guerra mondiale.

 Come ha detto il nostro premier Mario Draghi: “Oggi l’Ucraina non difende soltanto sé stessa; difende la nostra pace, la nostra libertà, la nostra sicurezza; difende quell’ordine multilaterale basato sulle regole e sui diritti che abbiamo faticosamente costruito dal dopoguerra in poi”.

In quell’ordine globale, minato dall’aggressione della Repubblica russa, si collocano le politiche per la sicurezza alimentare.

La pace significherà ricostruire un nuovo ordine mondiale su basi più solide e autenticamente democratiche e liberali.

La definizione di sicurezza alimentare oggi più condivisa è quella fornita dal Vertice Mondiale dell’Alimentazione del 1996.

 Essa è la condizione in cui “tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, economico e sociale a cibo sufficiente, sicuro e nutriente che soddisfi le proprie necessità e preferenze alimentari per poter condurre una vita attiva e in salute”.

In questa definizione è compreso il “diritto ad avere cibo sufficiente”.

Il vertice Ue di Versailles dell’11 e 12 marzo scorso ha impegnato l’Unione a ridurre la nostra dipendenza strategica anche nei prodotti alimentari.

 Non significa aspirare all’autarchia ma avere una politica della sicurezza alimentare.

Per l’Ue è il tempo di svolgere il proprio ruolo di prima potenza agricola del mondo.

Ma per farlo ha bisogno di una governance democratica ed efficace, un sistema decisionale che abbandoni la logica intergovernativa e aderisca completamente a quella sovranazionale.

L’ultima considerazione che vorrei fare in premessa è che saranno principalmente l’Africa, il Medio Oriente e il bacino del Mediterraneo a pagare le conseguenze della crisi.

Per l’Ue significa assumere una responsabilità e, allo stesso tempo, cogliere un’opportunità.

Tre argomenti.

Con questo intervento mi prefiggo di trattare tre argomenti:

Il primo argomento è che il “diritto ad avere cibo sufficiente” va elaborato in un pensiero politico: un pensiero che si cimenti con la democrazia oltre lo Stato e progetti istituzioni e regole globali.

Per statisti come Roosevelt o De Gasperi o economisti-pensatori come Keynes, era chiara la differenza tra “internazionale” e “sovranazionale”.

“Internazionale” è la logica del negoziato, delle relazioni internazionali, del coordinamento intergovernativo, fondata sul potere degli Stati.

“Sovranazionale” è la logica della condivisione-potenziamento.

“Sovranazione” è cosa ben diversa anche dall’idea di “Stato europeo” o “Stato mondiale”.

I padri fondatori dell’ordine mondiale del secondo Dopoguerra avevano una limpida visione sovranazionale.

Tuttavia, nel tempo, questo pensiero ha manifestato vistose insufficienze e contraddizioni nel progettare un’architettura istituzionale adeguata e politiche efficaci.

Il secondo argomento è che il “diritto ad avere cibo sufficiente” è una competenza che deve essere esercitata da istituzioni sovranazionali in via esclusiva, cioè senza il condizionamento degli Stati.

 Questo comporta una revisione del Trattato sull’Ue.

E la consapevolezza che la soluzione che si troverà per l’Unione indicherà la strada per rivedere anche le istituzioni e le regole globali.

Il terzo argomento è che per far sì che questo “diritto ad avere cibo sufficiente” si esplichi in modo diffuso sul pianeta, è utile una sperimentazione nel bacino del Mediterraneo con un grande progetto di cooperazione Ue-Africa.

Un progetto che affronti in modo integrato tre questioni: climatica, demografica e alimentare.

A sostegno di questi tre argomenti effettuerò un rapido raffronto delle politiche per la sicurezza alimentare in due distinti periodi:

Guerra fredda e Dopo-guerra fredda. Per coglierne coerenze e contraddizioni, virtù ed errori. Insomma, elementi utili per costruire un nuovo ordine mondiale.

La sicurezza alimentare europea al tempo della Guerra fredda.

Durante e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, la carenza e il razionamento del cibo in Europa richiesero massicci interventi da parte degli Alleati.

Qui la produzione agricola era crollata del 20-30%.

Era, invece, aumentata negli Stati Uniti, che rifornivano tutti i propri alleati, compresa l’Unione Sovietica.

 Vi era la piena consapevolezza che il problema dell’insicurezza alimentare non sarebbe scomparso con la fine del conflitto.

 E avrebbe richiesto un’operazione coordinata a livello internazionale.

 

Come sostiene Emanuele Bernardi, emerse subito “un’idea multifattoriale e prismatica di sicurezza alimentare globale, con evidenti implicazioni politiche, sociali e soprattutto economico-finanziarie”.

Formare le riserve e garantire un continuo flusso di cereali sul mercato significava stabilizzare le monete e i salari, garantire il passaggio dalla guerra alla stabilità democratica e, quindi, costruire le basi per lo sviluppo industriale.

Dopo che l’Unione Sovietica violò gli accordi di Yalta, si profilò il ruolo di primo piano degli Usa nella costruzione dell’ordine mondiale del dopoguerra.

Gli aiuti americani furono decisivi nella costruzione della sicurezza alimentare europea.

Nello stesso tempo, ci furono anche contraddizioni nel ruolo svolto dall’amministrazione Usa.

 Spesso essa fece prevalere la tutela degli interessi di breve respiro della propria agricoltura.

 E così impedì la nascita di efficienti istituzioni e politiche sovranazionali.

E, dagli anni Sessanta, tentò pervicacemente di contrastare il primato agricolo che la Cee si era faticosamente conquistato.

Non mancò il contributo dell’Italia nella costruzione della dimensione sovranazionale.

 Si pensi solo all’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (AFIS), collegata al sistema Onu.

Dal 1950 al 1960 la Somalia fu, per volontà dell’Onu, affidata alla tutela dell’Italia, che non era ancora membro ONU (lo divenne dal 1955).

 Occorreva rafforzare le istituzioni somale in vista dell’indipendenza del paese.

 E furono inviate personalità come Giovanni Malagodi e Giorgio Ceriani-Sebregondi a redigere piani di sviluppo in vista di processi di integrazione.

Tre vicende mi sembrano assai significative.

La prima riguarda gli aiuti Usa alle popolazioni europee.

Nel 1943, Roosevelt lanciò l’Unrra che svolse anche azioni di sostegno alle attività agricole.

 Si distribuivano sementi, concimi e macchinari e si miglioravano le tecniche agricole.

 Il tutto finalizzato a ripristinare e incrementare la produzione, in base al principio secondo il quale gli aiuti di oggi avrebbero dovuto condurre all’autonomia di domani.

Queste azioni culminarono nel Piano Marshall (1948) e in un particolare intreccio tra umanitarismo e logiche di competizione tra Alleanza atlantica e CoMEcon (che raggruppava i paesi comunisti e si completò nel 1955 con il Patto di Varsavia). Logiche produttive e logiche militari si intrecciavano in un’unica strategia di sicurezza.

In Italia, il Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (Cir), si occupava a più riprese dei problemi relativi alla conservazione e distribuzione del grano e di altri prodotti.

Questa particolare sensibilità era dovuta al governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, convinto che una politica sulle riserve di grano fosse una condizione per la ripresa della valuta.

Non a caso, la lira ottenne dal Financial Times il premio Oscar finanziario 1959.

Il prestigioso riconoscimento rifletteva la fiducia dei banchieri, dei governi e degli operatori commerciali nella solidità della nostra valuta e il loro compiacimento per la destrezza con cui tale obiettivo era stato conseguito.

Esaurito il piano Marshall, i paesi europei fruirono dei fondi stanziati dalla FOA, agenzia creata dal governo americano nel 1953 per le operazioni estere nell’ambito della cooperazione internazionale.

 Gli Usa iniziarono ad utilizzare la sovrapproduzione di cibo come arma nella Guerra fredda.

Anziché puntare, come avevano fatto in passato, al contenimento delle produzioni, sostenevano direttamente le esportazioni per riequilibrare a proprio favore le relazioni commerciali. La Nato e le strutture militari erano direttamente coinvolte in tali attività.

Per comprendere la rilevanza del programma Cibo per la Pace per l’Italia bastano poche cifre: nel solo periodo del 1954-1961, sul totale dei circa 1400 milioni di dollari assegnati ai diciassette paesi dell’Europa, il nostro paese ne ricevette da sola quasi 400, cioè oltre il 35%.

La seconda vicenda riguarda le origini della” Fao”, costituita nel 1945 come agenzia dell’Onu.

Il gruppo di esperti che guidava la Fao pensava ad essa come a un organismo incaricato di amministrare le politiche alimentari mondiali. Doveva essere dotato di pieni poteri per fissare i prezzi delle derrate, acquistare la sovrapproduzione e redistribuirla globalmente.

Avrebbe così assicurato alle popolazioni non solo la quantità e la qualità del cibo necessarie per vivere in salute, ma anche la prosperità e la pace.

Questo progetto fu inizialmente approvato dall’assemblea plenaria della Fao, ma venne accantonato già nella prima fase di realizzazione.

 Ad ostacolare tale progetto furono i governi di alcuni paesi, tra cui l’Amministrazione americana.

E così la Fao rinunciò ad un ruolo nell’ambito del processo decisionale e si adattò ad una condizione di dipendenza dalle priorità imposte dagli Stati membri.

 Si ritagliò un ruolo ridotto nella disseminazione delle conoscenze e delle tecniche agricole.

La terza vicenda importante riguarda il Gatt e l’Agricoltura.

Molti osservatori hanno pensato erroneamente che l’agricoltura fosse formalmente esclusa dalla giurisdizione di quell’accordo. In realtà, i fatti andarono in modo diverso.

Una commissione formata in ambito Onu redasse uno schema di “Carta del commercio” e progettò una organizzazione ad hoc – Ito – Organizzazione internazionale del commercio – che avrebbe dovuto garantirne l’attuazione.

Mentre veniva elaborata la “Carta”, la commissione avviò i primi negoziati. Lo strumento giuridico per rendere operativo l’accordo fu il Gatt, sottoscritto a Ginevra nell’ottobre 1947 inizialmente da 23 Paesi.

Esso abbassava le tariffe doganali e adottava regole contro la concorrenza sleale.

La “Carta” e il progetto di” Ito” furono approvati dalla conferenza dell’Avana che si svolse tra novembre 1947 e marzo 1948.

Tuttavia, non videro mai la luce. I parlamenti di alcuni paesi, tra cui il Congresso degli Usa, non li ratificarono.

 Il Gatt, invece, non ebbe bisogno della ratifica da parte del Congresso: la sua approvazione per gli Usa fu automaticamente desunta dal “Taa”, un accordo commerciale del 1934.

La Carta dell’Avana prevedeva, tra i settori da regolamentare, anche l’agricoltura e poneva un’attenzione particolare agli aspetti monetari.

 L’organizzazione internazionale del commercio doveva affiancare il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

In base agli accordi di Bretton Woods del 1944, queste dovevano essere le tre organizzazioni economiche collegate all’Onu.

Il settore primario era, dunque, formalmente incluso nel Gatt del 1947.

Solo che per i prodotti agricoli prevedeva esplicitamente alcune deroghe alle sue norme generali.

Il Congresso americano aveva, infatti, approvato alcune restrizioni sulle importazioni di prodotti agricoli.

 E il governo aveva chiesto un’apposita esenzione dalle regole del Gatt. L’esenzione venne concessa nel timore delle reazioni isolazionistiche che un rifiuto avrebbe potuto alimentare negli Stati Uniti.

Ma l’esistenza di questa deroga offrì una giustificazione anche agli altri Stati per ignorare le regole del Gatt nell’impostazione delle proprie politiche agricole.

 E così l’ambizioso progetto di regolamentare in modo organico il commercio internazionale dei prodotti agricoli, dalla produzione alla formazione dei prezzi fino alla distribuzione, non venne più riproposto negli anni successivi.

Di agricoltura nei negoziati Gatt si incominciò a parlare nel 1960, quando venne presentato dalla Commissione europea il primo Piano Mansholt che prevedeva l’avvio della Pac.

 Nel Trattato di Roma istitutivo della Cee (1957) l’agricoltura aveva assunto una collocazione centrale.

 La sicurezza alimentare non appariva tra gli obiettivi esplicitamente enunciati nel Trattato.

Tuttavia, si poteva leggere tra le righe.

Due elementi caratterizzarono la prima fase della “Pa”c:

1) l’eliminazione del groviglio di barriere commerciali preesistente tra gli Stati membri;

 2) l’adozione di misure di protezione del mercato interno proprio per contribuire a raggiungere l’autosufficienza alimentare.

A conclusione del “Dillon Round nel 1962”, fu introdotta una peculiare clausola.

 Gli Usa accettavano il protezionismo europeo in materia agricola in cambio della piena libertà di mercato della soia e dei mangimi a base di glutine di mais, destinati all’alimentazione animale, di cui era specializzata l’agricoltura americana.

 

Man mano che la Pac veniva elaborata e attuata, al Kennedy Round, conclusosi nel 1967, e al Tokyo Round, siglato nel 1979, le critiche americane al protezionismo europeo si accentuarono.

E il motivo principale era che la “Cee” aveva raggiunto l’autosufficienza alimentare.

 Era passata dalla condizione di primo paese importatore di prodotti alimentari a quella di secondo paese esportatore, dopo gli Usa.

 Se si esclude la Gran Bretagna, notoriamente paese importatore per ragioni legate al colonialismo, la Comunità europea era diventata di fatto il primo paese esportatore.

Questa capacità produttiva ed esportativa della Cee suscitava reazioni vivaci da parte dei paesi terzi.

In realtà, in tutti i paesi industrializzati le politiche agricole alimentavano sovrapproduzione e diventavano molto costose.

E tali condizioni rendevano più difficoltosa l’integrazione delle agricolture dei paesi in via di sviluppo nei mercati globali.

Agli inizi degli anni Ottanta, la Comunità europea avviò un dibattito interno per rivedere la Pac e introdusse alcune misure per contenere la spesa.

 Gli Usa nel 1985 vararono il nuovo “Farm Bill” nel quale erano previste consistenti riduzioni dei prezzi.

Nel 1986 si avviò a Punta de l’Este (Uruguay) l’ottavo (e ultimo) Round del Gatt. E gli Stati Uniti tornarono alla carica, questa volta spalleggiati dal Gruppo di Cairns.

Anche la Cee cominciò a guardare con interesse a una sia pur graduale liberalizzazione agricola.

 E così, nel 1992, sia per favorire l’integrazione internazionale, sia per superare problemi tecnici e finanziari delle politiche agricole, approvò la riforma McSharry che introduceva i pagamenti compensativi e riduceva il sostegno dei prezzi.

 L’accordo fu siglato a Marrakesh in Marocco, nel 1994. E venne istituito il Wto. L’assenso dell’Ue maturò dopo una serie di discussioni.

 I più convennero che gli impegni assunti dai paesi europei non avrebbero comportato effetti più consistenti di quelli già derivanti dall’adozione e dalla messa a regime della “riforma MacSharry”.

La sicurezza alimentare europea al tempo del Dopo-guerra fredda.

Caduto il Muro di Berlino nel 1989, il Summit della Nato approvò a Londra una “Dichiarazione” formulata da Margaret Thatcher. Essa delineava una politica di dialogo e collaborazione con gli Stati dell’Europa centro-orientale che non si riconoscevano più nel legame con Mosca.

 Iniziava quella che l’economista John H. Cochrane ha chiamato “l’era del pio desiderio”.

Nel 1990 la Germania si riunificò.

Nel 1991 l’Unione Sovietica – d’accordo con le altre nazioni che ne facevano parte – sancì la fine del Patto di Varsavia.

 Le repubbliche sovietiche rivendicarono il principio di autodeterminazione per realizzare la loro sovranità nazionale.

Eventi tumultuosi che, tuttavia, non portano all’affermazione del paradigma “sovranazionale”.

Due vicende sono esemplificative.

La prima riguarda la Integrazione europea.

I leader degli Stati che fanno parte della Cee reagirono d’impulso alle novità geopolitiche e presero una scorciatoia.

 Si istituì la moneta unica, prima ancora di edificare una vera e propria istituzione politica sovranazionale, autonoma dagli Stati membri e con una governance democratica.

Nel 1992 entrò in vigore il “Mercato unico europeo” e fu adottato il Trattato di Maastricht che cambiava la natura del processo di integrazione.

Con quel Trattato, la Comunità diventò una “Unione europea” e si modificò il processo decisionale.

La governance dell’Ue si rivelò presto inefficiente.

Produce lentezze e disfunzioni e genera conflitti tra istituzioni unionali e Stati membri.

Rende l’Ue un nano politico nello scacchiere mondiale, un soggetto diviso al proprio interno, senza una sovranità distinta e autonoma dalle sovranità nazionali.

Nel frattempo, la politica europea della sicurezza alimentare diventava evanescente.

L’altra vicenda è il “Round del Millennio” che iniziò nel 1999, con il vertice di Seattle.

Spuntarono nuovi protagonisti, come Brasile, Russia, India, Sudafrica.

Nel 2001 anche la Cina entrò nel Wto.

 Il negoziato fu ripreso a Cancun nel 2003.

E nonostante ci fosse sul tavolo la proposta di riforma della “Pac” predisposta dal Commissario Fischler (pagamento unico all’agricoltore indipendentemente dalle sue scelte produttive), gli Usa e i paesi emergenti continuarono ad attaccare l’Ue. Nel 2011 anche la Russia è entrata nel Wto.

Questo ciclo di negoziati non si è mai concluso e il multilateralismo si è arenato.

Al centro dei conflitti è sempre stato il tema dell’agricoltura.

Gli Stati Uniti hanno privilegiato gli accordi bilaterali e l’Ue non è diventata una protagonista del mondo globale, avendo mantenuto le proprie istituzioni in una condizione di fragilità e inefficienza.

 

 La democrazia oltre lo Stato. Ci vuole un nuovo pensiero democratico.

Adesso riprendiamo il primo tema iniziale per tentare di fornire qualche indicazione concreta sul da farsi.

 Il “diritto ad avere cibo sufficiente” ha bisogno di essere elaborato connettendo quattro questioni: clima, demografia e democrazia oltre lo Stato.

Per quanto riguarda la questione climatica, ci troviamo dinanzi ad un fatto accertato. E così anche la sua origine antropica. L’Ue si è posta l’obiettivo dell’impatto climatico zero entro il 2050.

Per inquadrare invece la questione demografica, bastano poche cifre. Nel 2019, sulla Terra c’erano circa 7,7 miliardi di persone. Nel 1950 eravamo 2 miliardi e mezzo.

 La popolazione dell’Ue non cresce più: la quota di ultraottantenni è quasi raddoppiata negli ultimi 20 anni.

Ci vuole una Ue che abbia una visione del mondo e dia risposte convincenti ai problemi planetari. Bisogna costruire una interdipendenza politica e culturale, prima ancora che economica.

Durante la Guerra fredda, la visione delle relazioni internazionali che ha ispirato le scelte dei leader occidentali era la seguente: l’ordine globale è fondato sulla lotta per il potere politico-militare tra i due blocchi contrapposti e le interdipendenze economiche sono subordinate a quell’ordine.

Nel Dopo-guerra fredda, quella visione si è modificata e si può così sintetizzare: l’ordine globale è fondato sempre di meno sulla lotta per il potere politico-militare tra gli Stati e sempre di più sulle interdipendenze economiche tra di essi.

Sabino Cassese ha contato circa duemila regimi regolatori globali. Il solo Wto consterebbe di un corpus ricco di circa ventimila regole. Avrebbero dovuto addomesticare le pulsioni aggressive degli Stati, contribuire a delegittimare la guerra come strumento per la soluzione delle contese. Ma l’aggressione dell’Ucraina dimostra che si è trattato di una grande illusione. Si è riprodotta una nuova e più ampia frattura: democrazie, da una parte, e autocrazie, dall’altra.

Sergio Fabbrini sostiene che la crisi dell’ordine mondiale dipenda dal fatto che “l’interdipendenza basata sugli scambi economici e le norme giuridiche non è sufficiente per pacificare il mondo”.

Bisogna ricostruire una sintesi tra economia e valori liberali, tra idea di sostenibilità e pensiero politico democratico, tra libertà di commercio e scambi fondati su valori condivisi ed effettive condizioni di parità.

 I temi legati alla sicurezza alimentare hanno molto sofferto di una drammatica debolezza intellettuale e politica e di una esorbitanza di irrazionalismi e ideologismi.

L’impatto ambientale e sociale degli eccessi che si erano verificati nel corso della Rivoluzione verde, tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso, aveva suscitato un positivo processo di sensibilizzazione sui temi ecologici.

Ma non c’è stata la capacità di creare una sintesi tra la cultura liberale e democratica e le esigenze e sollecitazioni nuove della società.

Nel 2002 è nato un nuovo approccio europeo alla sicurezza alimentare. Diventano esorbitanti gli aspetti relativi alla sicurezza igienico-sanitaria e a quella informativa e viene relegato in una posizione marginale l’aspetto riferito alla “sicurezza di avere cibo sufficiente”.

La strategia funzionale Green Deal, che riguarda tutte le sfaccettature della transizione verde, coinvolge l’agricoltura prevalentemente mediante la strategia Farm to Fork.

Questa strategia potrebbe portare ad un aumento delle importazioni dai paesi terzi. Ma in un mondo che deve affrontare il dramma della fame e della denutrizione, non si possono spingere le popolazioni più povere a mettere a coltura nuovi terreni.

 

L’obiezione che spesso viene sollevata a tale rilievo è che produrre cibo nell’Ue costa troppo. E, dunque, per i consumatori europei sarebbe più conveniente acquistare prodotti importati. Ma questa considerazione non tiene conto che il costo maggiore dipende dalle più elevate tutele del lavoro e dell’ambiente.

Ci vogliono clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e d’investimento.

Altrimenti importare di più significherebbe avallare, nei paesi con regimi autoritari, sfruttamento del lavoro e disastri ecologici. E non si premierebbero quei paesi poveri o emergenti che si sforzano di rispettare standard minimi di protezione dei lavoratori e dell’ambiente.

Sia chiaro, non si deve arretrare di un millimetro rispetto all’obiettivo europeo della neutralità climatica.

 Anche l’agricoltura deve contribuire a raggiungerlo. Ma bisogna scegliere bene gli strumenti da applicare.

Ci sono pratiche agricole sostenibili che non vengono diffuse, come quella di seminare direttamente su terreni non lavorati. Occorrerebbe diversificare le colture e gli agro-ecosistemi.

Bisognerebbe finalmente aprire le porte all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura.

 La sicurezza alimentare europea non può fare a meno dell’intensificazione sostenibile: oggi il sapere scientifico ci consente di farlo.

La democrazia oltre lo Stato. Ci vogliono istituzioni sovranazionali democratiche ed efficienti.

Il secondo tema iniziale lo avevo così sintetizzato: garantire il “diritto ad avere cibo sufficiente” è una competenza che non può essere esercitata a livello statale perché i problemi da affrontare sono planetari.

 Questa competenza deve essere esercitata da istituzioni sovranazionali in via esclusiva, cioè senza il condizionamento da parte degli Stati nazionali.

La forza che rendeva possibile le interdipendenze economiche durante la Guerra fredda era la deterrenza reciproca dei due blocchi militari contrapposti.

La forza che rendeva possibile l’interdipendenza nel dopo-Guerra fredda era l’egemonia Usa.

Venuto meno quel ruolo, come ha dimostrato la fuga da Kabul nell’agosto 2021, si è caduti nel cosiddetto “mondo di nessuno”.

A quel punto si sono aperti spazi all’azione unilaterale di tiranni con le armi nucleari (come Putin).

Questo significa che l’ordine mondiale si può reggere se si costruiscono soggetti politici autorevoli (istituzionali e partitici) in grado di tutelarne l’impronta liberale e di pensare a quella che Gianmarco Ottaviano ha definito “riglobalizzazione selettiva”.

Per questo motivo alla Conferenza sul Futuro dell’Europa che si concluderà il 9 maggio prossimo non dovrebbe succedere una convenzione intergovernativa.

L’art. 10, c. 2, del “Tue” recita: “I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo”. Bisognerebbe che il Parlamento europeo getti il cuore oltre la siepe ed elabori un progetto di revisione del Trattato ai sensi dell’art. 48 del Tue.

 Per poi negoziarlo con gli Stati membri, in un confronto / scontro politico.

Se l’Ue supererà la prova della sua riforma istituzionale, acquisirà l’autorevolezza politica necessaria per indicare al mondo anche il percorso più efficace al fine di giungere a una nuova combinazione tra istituzioni nazionali e quelle sovranazionali.

Le politiche per la sicurezza alimentare globale andrebbero decise da istituzioni politiche, come l’Onu, e gestite da agenzie operative: Fao, Wto, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. Ci vorrebbe una nuova Bretton Woods.

Storicamente, nelle unioni di Stati, alla unione sono state assegnate le competenze relative alla sicurezza collettiva (dalla politica estera e militare a quella alimentare, dalla politica monetaria e fiscale a quella energetica), mentre gli Stati membri hanno trattenuto per sé tutto il resto.

L’Ue non è stata coerente con questa impostazione e dovrebbe procedere ad un bilanciamento delle competenze.

Bisognerebbe riflettere su un eventuale ricalibratura delle competenze in materia di “agricoltura”, per distinguere in modo razionale ed efficace le materie che dovrebbero rimanere nella competenza esclusiva dell’Ue e le materie che dovrebbero tornare nella competenza degli Stati membri.

Con il Trattato di Lisbona la materia “agricoltura” è attribuita all’Ue come competenza concorrente.

La politica agricola europea non è più una politica comune, come è stata in passato. Mentre la politica commerciale è un settore di competenza esclusiva dell’Unione.

Sarebbe opportuno che la materia “sicurezza alimentare” diventasse una materia di esclusiva competenza unionale, senza più interferenze da parte degli Stati membri.

Non così dovrebbe essere per i “pagamenti diretti”: i quali già sono attribuiti di fatto alla competenza degli Stati membri e andrebbero assegnati ad essi anche formalmente.

L’Ue potrà essere protagonista nello scacchiere mondiale e potrà contribuire a delineare un nuovo ordine globale se completerà rapidamente il suo processo di integrazione.

La democrazia oltre lo Stato. Ci vuole un progetto Ue-Africa.

Il terzo e ultimo tema iniziale suonava così: sarebbe utile per affermare a livello planetario il “diritto ad avere cibo sufficiente” una sperimentazione nel bacino del Mediterraneo: un grande progetto di cooperazione Ue-Africa.

 

Fernand Braudel aveva trovato prove e testimonianze per smentire l’idea di un Mediterraneo ormai fuori della storia. All’inizio del secondo dopoguerra, egli prefigurava un nuovo protagonismo di questo mare. Una intuizione che oggi si ripropone.

L’Ue cresce poco o nulla, l’Africa cresce impetuosamente. Questo squilibrio va governato, non può essere subìto.

Non può essere delegato alle “regole” odiose e inaccettabili dei trafficanti di esseri umani.

Serve la consapevolezza che l’immigrazione non è un’emergenza, ma è un fenomeno strutturale.

Una questione, dunque, da affrontare in maniera sistemica e in rapporto con i paesi di provenienza e di transito.

 È dentro questo approccio che si deve porre l’obiettivo di cambiare il Trattato di Dublino, di ricostruire e mantenere forme effettive di solidarietà nella redistribuzione.

Questo obiettivo va collocato dentro un progetto più ampio d’intervento nel Mediterraneo e in Africa da fondare sull’agricoltura e su una concezione integrata della sicurezza alimentare.

Ma occorrerebbe pervenire anche su questo tema ad una capacità decisionale che l’Ue attualmente non ha su materie che sono di competenza nazionale.

 La modifica del Trattato dovrebbe prevedere l’attribuzione esclusiva all’Unione della politica demografica e di quella migratoria, da pensare e realizzare con modalità strettamente connesse.

L’innovazione sovranazionale – se genuina, se cioè usata non per imporre, sotto mentite spoglie, la logica delle relazioni internazionali, quella del potere – potrà essere fattore di liberazione e non di vincolo, fattore di sviluppo e non di arretramento.

È il pensiero di Keynes, di Roosevelt, di De Gasperi, di molti altri italiani fino a Draghi.

ASSE MOSCA-PECHINO 2.0

Comedonchisciotte.org - Aleksandr Dugin – (22 Marzo 2023) – ci dice: 

 

La visita del capo della Repubblica Popolare Cinese a Mosca è percepita in tutto il mondo come simbolica.

Non è un caso che i leader di Cina e Russia abbiano preceduto questo incontro con articoli di programma.

Putin ha descritto come vede le relazioni con la Cina, Xi Jinping ha dato la sua valutazione.

 In generale, le posizioni dei due leader mondiali coincidono: Cina e Russia sono partner strategici stretti che rifiutano l’egemonia dell’Occidente moderno e sostengono coerentemente un mondo multipolare.

 Sia Xi Jinping che Putin danno nei loro testi un quadro completo del mondo: il mondo è già multipolare, con la Cina, la Russia e l’Occidente collettivo come poli più consolidati;

allo stesso tempo, entrambi i leader sottolineano che né la Cina né la Russia cercano di imporre il proprio modello agli altri popoli, riconoscendo il diritto di ogni civiltà di svilupparsi secondo la propria logica, cioè di diventare un polo a pieno titolo con un sistema di valori sovrano.

 L’Occidente aderisce all’atteggiamento esattamente opposto e non rinuncia alla speranza di salvare il modello unipolare, che si è completamente screditato – con un’unica ideologia (liberale), con il sistema delle politiche di genere, le migrazioni illimitate, la totale mescolanza delle società e il post umanesimo.

Russia e Cina rifiutano unanimemente l’egemonia occidentale e dichiarano la loro incrollabile volontà di costruire un mondo multipolare democratico e veramente libero.Lo stesso incontro tra Xi Jinping e Putin a Mosca sarà una sorta di sigillo, che suggella un documento sull’era del multipolarismo.

Entrambi i leader hanno sottolineato il significato positivo del piano proposto da Pechino per risolvere il conflitto ucraino e Xi Jinping ha ricordato ancora una volta la necessità della pace e Putin ha riconosciuto le proposte cinesi come ragionevoli e razionali.

 Un’altra cosa è che l’Occidente e il regime nazista di Kiev hanno rifiutato categoricamente il piano di Xi Jinping senza nemmeno iniziare a discuterlo o a prenderlo in considerazione.

Pertanto, è improbabile che abbia una grande importanza, ma la sua stessa esistenza e l’accordo di principio da parte delle due grandi potenze è già un grosso problema.

Sia il conflitto in Ucraina che l’escalation intorno a Taiwan sono generalmente interpretati dai leader di Russia e Cina allo stesso modo, attribuendo la colpa alla politica aggressiva e provocatoria dell’Occidente.

Ora è opportuno spendere qualche parola su come la visita viene percepita a Mosca.

 Il punto di vista prevalente è generalmente coerente con le affermazioni programmatiche dei nostri leader.

 Si tratta di una dichiarazione di un mondo multipolare, basato sulla più stretta alleanza geopolitica e di civiltà tra Cina e Russia, pronta a respingere le pressioni dell’Occidente egemone e che offre l’ingresso nel club multipolare alle altre civiltà – islamica, indiana, africana, latinoamericana e, in futuro, allo stesso Occidente – se le élite occidentali rinunceranno al globalismo e all’unipolarismo.

Anche l’accordo su un piano per la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina sottolinea la vicinanza delle nostre posizioni, anche se, dato che l’Occidente e il regime di Zelensky ignorano completamente il progetto cinese, è improbabile che esso abbia una dimensione reale nel prossimo futuro.

Per Mosca, la visita del presidente Xi in un momento così difficile è molto importante.

 Dimostra che la grande potenza cinese non è affatto solidale con i tentativi di isolare la Russia sulla scena internazionale, come cerca di fare l’Occidente, e che le relazioni tra Paesi e popoli sono a un picco storico.

Questo è più o meno il modo in cui la comunità di esperti russi responsabili vede la visita di Xi Jinping.

Si tratta di un gesto simbolico dell’affermata multipolarità rappresentata da due leader mondiali che concordano pienamente tra loro sui principali parametri del futuro.

Tuttavia, in Russia si sentono anche altre voci si sente l’opinione che la Cina stia facendo il proprio gioco, che non abbia intenzione di aiutare la Russia nel suo confronto frontale con l’Occidente e che sia pronta ad avviare negoziati separati con Washington.

Ciò è tanto più possibile in quanto l’economia cinese è troppo dipendente dai mercati occidentali e la Cina stessa non è ancora pronta per un conflitto frontale con l’Occidente e cercherà di rimandarlo il più possibile o di evitarlo del tutto, ma nel frattempo la Russia potrebbe essere caduta in difficoltà.

L’argomento principale di questi timori è la mancanza di disponibilità della Cina a fornire assistenza militare alla Russia.

Dal mio punto di vista, questi timori si spiegano con il fatto che molti in Russia non comprendono la peculiarità della politica cinese, che consiste in un calcolo deliberato di molte opzioni diverse e si basa principalmente sulla protezione degli interessi nazionali della Cina come Stato.

 Gli osservatori russi, che temono un tradimento da parte della Cina, non comprendono la strategia cinese stessa, il sogno cinese, che mira alla prosperità del sistema socialista, all’impero confuciano e alla costruzione di un sistema armonioso di relazioni internazionali.

La Russia si trova oggi in un confronto più diretto con l’Occidente.

 La Cina è ben consapevole che la Russia si fa pagare il contraccolpo da sé stessa, cioè che la nostra guerra è la sua guerra, o meglio l’assenza di guerra, il suo rinvio.

Il sogno cinese è possibile solo con la piena sovranità geopolitica e civile della Cina, e quindi è incompatibile con l’egemonia occidentale e la dittatura liberale.

Pertanto, la Cina sarà dalla parte della Russia non solo per ragioni opportunistiche, dalle quali potrebbe ritirarsi in qualsiasi momento se la situazione dovesse cambiare, ma per il suo orientamento strategico verso la piena indipendenza.

Allo stesso tempo non ci si deve aspettare che la Cina compia passi troppo drastici nel sostenere militarmente la Russia.

Sarebbe del tutto anti-cinese, ma ci sono molti altri modi per aiutare l’amico in una situazione difficile.

Il secondo tipo di critica alle relazioni Russia-Cina deriva dal fatto che la Cina è un gigante economico e demografico.

Un riavvicinamento con la Russia la trasformerebbe automaticamente in un partner minore e dipendente, le cui terre e risorse potrebbero sembrare una facile preda per la Cina in rapido sviluppo.

Questo timore è logico, ma in pratica si riduce al fatto che insieme la Cina farebbe meglio a preferire l’Occidente.

E qui finisce la logica. Siamo in guerra con l’Occidente, ma siamo amici della Cina e l’Occidente nelle sue relazioni con la Russia insiste sulla sua completa subordinazione alle élite liberali occidentali e ai loro rappresentanti russi.

 La Cina, invece, non impone nulla e la sua strategia è completamente trasparente e razionale.

La risposta a questo timore sarebbe quella di rafforzare la propria identità russa, di compiere una netta svolta nell’economia e nell’industria e di perseguire una politica demografica intelligente.

La Russia rischia di diventare un vassallo della Cina solo se si indebolisce completamente e perde la propria sovranità;

tuttavia Putin, al contrario, sta cercando di rafforzare la sua sovranità.

Pertanto, tutte le proporzioni di uguaglianza e mutuo vantaggio nelle relazioni russo-cinesi saranno rispettate. Il resto dipende solo dalla Russia: la Cina si comporta in modo coerente, prevedibile e aperto. Non ha piani imperialistici nei confronti della Russia (e di altre nazioni).

In ogni caso, la visita di Xi Jinping a Mosca apre una nuova pagina nelle relazioni internazionali.

 Si tratta di un punto cruciale nello sviluppo del dialogo e della cooperazione non solo tra due grandi Stati, ma anche tra due Civiltà, non è un caso che sia Xi Jinping che Putin abbiano menzionato la necessità di sviluppare la cooperazione umanitaria, progetti educativi, culturali e scientifici comuni.

 Per conoscersi meglio, è importante che cinesi e russi non si limitino a commerciare ma siano anche amici, proprio come lo sono i popoli e le culture, interessati l’uno all’altro e impegnati a capirsi.

 L’amicizia personale tra Xi Jinping e Putin è un modello, un archetipo, ma è importante che l’asse Mosca-Pechino 2.0 non si limiti alla comunicazione dei leader di Stato, ma coinvolga anche l’élite intellettuale, i creatori, gli artisti, gli scienziati e la gente comune.

Per molti versi, l’Occidente si è chiuso alla Russia.

D’altro canto, la Cina, che sta uscendo da una pandemia, sta aprendo le porte ai russi.

(Aleksandr Dugin)

(ideeazione.com/asse-mosca-pechino-2-0/)

 

 

 

 

 

ECCO PERCHÉ È LA CINA AD

AVER BISOGNO DELLA RUSSIA

Comedonchisciotte.org - Larry Johnson - sonar21.com – (21 Marzo 2023) – ci dice: 

 

Vale sempre la pena di leggere ciò che scrive il mio amico e collega Andrei Martyanov, ma il suo pezzo di oggi sulla Russia e la Marina cinese è assolutamente da non perdere.

Gli Stati Uniti sono piuttosto preoccupati che la Cina fornisca armi alla Russia, ma non colgono il punto.

Quando si tratta di armi avanzate, è la Russia ad essere leader, non la Cina.

Xi Jinping non è a Mosca con un catalogo di armi pronte da vendere a Putin.

 Al contrario, è la Russia ad avere le armi di cui la Cina ha bisogno se vuole scoraggiare un’azione militare degli Stati Uniti contro Pechino.

Gli Stati Uniti e l’Europa credono erroneamente che qualsiasi relazione bilaterale tra Cina e Russia sia sbilanciata a favore della Cina e che la Russia abbia poco da offrire al suo gigantesco vicino meridionale.

 La verità, come sottolinea Andrei, è che è la Cina ad aver bisogno della Russia almeno, se non più, di quanto la Russia abbia bisogno della Cina.

Sebbene la popolazione della Russia sia minuscola rispetto a quella cinese, la sua sofisticazione tecnologica, in particolare dal punto di vista militare, e le sue ampie forniture di petrolio e gas la rendono un Paese grande e vitale per i Cinesi.

Andrei fa notare che gli attuali missili ipersonici cinesi, i DF-21, missili balistici antinave con una gittata dichiarata di 1.500 chilometri, sarebbero poco utili contro un gruppo di portaerei statunitensi che incrociasse a 2.000 chilometri dalla costa cinese.

Inoltre, gli F-18 Hornet statunitensi di stanza su quelle portaerei sono armati con l’AGM-158 JASSM, che ha una gittata effettiva di 2.600 chilometri.

Andrei scrive:

La squadriglia [di F-18 Hornet] può lanciare una salva di JASSM rimanendo oltre la portata dei missili anti-nave DF-21.

Semplice aritmetica: 950+700=1.650 km, oppure, nel caso dei JASSM XR, 1.900 + 700 =2.600 km.

Questo è nel caso di un attacco contro obiettivi terrestri nella Cina continentale.

Il JASSM, tuttavia, è anche e soprattutto un missile antinave.

Sì, è un tipico missile antinave americano, subsonico e non particolarmente manovrabile.

 Ma…fatti i conti, si può immediatamente vedere che SOLO tre Gruppi da Battaglia della Marina americana, nei loro attacchi alfa, possono tenere in volo contemporaneamente 48 x 3 = 144 cacciabombardieri e ciascuno di questi F-18 può trasportare… 4 JASSM.

Cerchiamo di essere realisti e immaginiamo che alcuni di questi F-18 siano in configurazione di pura difesa aerea.

Quindi, diciamo che, in media, avremo non 4, ma 3 JASSM per F-18. Moltiplicare: 144 x 3 e avremo 432 JASSM solo nella prima salva.

In breve, la Cina ha bisogno dei missili ipersonici russi.

Idem per i sistemi di difesa aerea.

Un. . . rapporto del Dipartimento della Difesa mostra che i sistemi di difesa aerea cinesi rappresentano una minaccia sostanziale e crescente per gli Stati Uniti e gli alleati nella regione.

 La Cina utilizza sistemi costruiti in Russia e di origine nazionale (sic) in grado di tracciare e attaccare gli aerei nemici.

 La sofisticazione tecnologica di questi sistemi d’arma, e la misura in cui possono essere aggiornati, renderebbe naturalmente molto difficile per gli Stati Uniti o per i Paesi alleati stabilire la supremazia aerea sulla Cina in qualsiasi tipo di impegno su larga scala.

Nel 2021 il Dipartimento della Difesa aveva pubblicato un rapporto intitolato “Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China”.

Il rapporto spiegava che le difese aeree della Cina sono costituite da missili terra-aria S-300 e S-400 di fabbricazione russa.

Questi sistemi russi sarebbero tra i migliori e più efficaci al mondo.

 Inoltre, è possibile aggiornarli.

I missili S-400 di più recente produzione e i nuovi missili russi S-500 sono collegati in rete.

Ciò è reso possibile da un’elaborazione informatica ad alta velocità in grado di rilevare con precisione le minacce a lungo raggio.

Questi sistemi d’arma hanno una portata e una sensibilità molto maggiori rispetto ai sistemi precedenti.

Tuttavia, la capacità di rilevare che un aereo è “lì” o “nel cielo” non significa che il sistema radar di difesa aerea possa stabilire una “traccia” continua e riuscire ad agganciarlo, colpirlo o distruggerlo.

L’ultimo sistema russo, l‘S-500 Prometheus, “è un sistema missilistico terra-aria (SAM) mobile…”.

È progettato per contrastare aerei e missili balistici e da crociera e, secondo quanto riferito, può anche colpire satelliti in orbita bassa.”

Non è più un programma in fase di sviluppo.

È attualmente in produzione e, se condiviso con i Cinesi, rappresenterebbe un aggiornamento significativo delle già robuste difese aeree cinesi.

 

Il vertice Russia-Cina in corso a Mosca produrrà una serie di accordi. Questi sono in fase di negoziazione già da diversi mesi.

L’alto diplomatico cinese, Wang Yi, era stato a Mosca a febbraio per dare gli ultimi ritocchi a questi accordi.

Oltre ad un trattato di difesa e cooperazione reciproca, prevedo che Russia e Cina firmeranno un accordo a lungo termine su petrolio e gas che garantirà alla Cina un approvvigionamento affidabile per il prossimo futuro.

Ma non si tratta di una strada a senso unico.

La Cina offre alla Russia un alleato fondamentale per la creazione di un multipolarismo e per sconfiggere il tentativo degli Stati Uniti e dell’Europa di isolare e distruggere la Russia.

La Cina esercita un notevole potere diplomatico tra le nazioni del cosiddetto Terzo Mondo e potrà usare questa influenza per indurre altri Paesi a sostenere la Russia alle Nazioni Unite e presso altri organismi internazionali.

Il vertice cinese/russo, se non altro, sferra un colpo mortale allo sforzo degli Stati Uniti di isolare la Russia e renderla una nazione paria.

(Larry Johnson)

(sonar21.com/andrei-martyanov-nails-it/)

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