LE MULTINAZINALI DEL POTERE HANNO VINTO.

 

LE MULTINAZINALI DEL POTERE HANNO VINTO.

 

 

L'ibrido uomo-macchina:

fantascienza o realtà?

Ilgiardinodeilibri.it - Enrica Perucchetti – (10 aprile 2019) – ci dice:

  

Il mito del progresso e il sogno del potenziamento umano: dal darwinismo sociale al transumanesimo.

(Cyberuomo di Enrica Perucchetti.)

«Questa via è chiamata progresso. Fu questa la grande parola del secolo scorso.

Si considerò la storia come una grande strada sulla quale l'umanità'' procedesse sempre bravamente [...] Ma dove si andava? E per quanto tempo si progrediva? E che ne sarebbe risultato?».

(Oswald Spengler)

Metropolis.

Siamo nel 2026.

 Negli sfavillanti grattacieli di Metropolis vivono i ricchi mentre nel sottosuolo sono confinati gli operai.

In cima al grattacielo più alto vive il capo della città, Joh Fredersen;

suo figlio Freder passa le giornate a divertirsi in un irreale giardino eterno, popolato da sensuali fanciulle.

Improvvisamente un giorno irrompe nel luogo paradisiaco l'insegnante Maria, accompagnata dai figli degli operai che vengono scacciati in malo modo.

Freder rimane però così colpito dalla donna, che decide di inoltrarsi nel sottosuolo per rivederla:

qua scopre le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare i poveri.

Assiste allo scoppio di un macchinario in cui vengono feriti alcuni operai e in preda alle allucinazioni, dovute ai fumi fuoriusciti, Freder ha una visione in cui la macchina appare come il grande dio Moloch che ingoia le sue vittime umane. Sconvolto da tanto orrore e brutalità decide, inutilmente, di discuterne con suo padre.

Freder scende così nei sotterranei e decide di scambiare la propria vita con quella di un operaio.

Nelle catacombe ritrova Maria, che come una sorta di Profeta accoglie e ispira negli operai una moralità cristiana.

 I due giovani si innamorano.

Nel frattempo il padre di Freder fa visita all'inventore delle macchine di Metropolis, Rotwang, che ancora dopo anni si strugge per la perdita della madre di Freder, morta di parto, di cui era innamorato.

 Rotwang è una figura complessa, a metà tra l'alchimista/mago e lo scienziato: ha progettato un robot in grado di sostituire l'uomo.

Questo robot assumerà in tutto e per tutto le fattezze di una donna perché, per mezzo di un congegno basato su onde elettromagnetiche, l'inventore è capace di trasformare quell'ammasso di metallo in una figura indistinguibile da una persona in carne e ossa.

Seguendo delle mappe che sono state trovate nelle tasche di un operaio, Rotwang conduce Fredersen nel sottosuolo, arrivando ad ascoltare - non visti - uno dei discorsi di Maria.

Fredersen capisce che il figlio non aveva tutti i torti quando parlava di possibili rivolte operaie e incarica l'inventore di rapire Maria per dare al robot le sue sembianze, in modo da poter controllare i malumori degli operai attraverso la predicazione di una falsa Maria...

«Mediatore tra il cervello e le mani dev'essere il cuore»: è il motto che anima il film capolavoro del cinema muto del 1927 diretto da Fritz Lang, Metropolis.

Si tratta di una delle opere simbolo del cinema espressionista ed è riconosciuto come modello di gran parte del cinema di fantascienza moderno, avendo ispirato pellicole quali Biade Runner e Guerre stellari e registi come David Cronenberg con i suoi Video drome e La Mosca nei quali la guerra tra uomo e macchina viene riletta in chiave horror.

L'ambientazione distopica ha invece influenzato autori come Orwell, Ray Bradbury e persino T.S. Eliot.

Paradossalmente il messaggio di Lang, volto a contestare la disumanizzazione della tecnologia, è stato nei decenni ribaltato e accolto nel suo lato puramente estetico.

L'estetica "robotica" del classico di Lang, ripresa dai Queen e poi da Lady Gaga, ha solleticato anche la creatività di uno dei fotografi e stilisti più quotati degli anni Ottanta, Thierry Mugler che finì per inserire alieni e androidi nelle sue collezioni di alta moda, fino a farne testimonial dei suoi profumi ("Angel").

Fu ancora Mugler a firmare i costumi e la direzione artistica di Too funky, uno dei video più glamour e famosi di George Michael.

Protagoniste le super top model degli anni Novanta da Linda Evangelista a Tyra Banks.

Da allora, ogni pop diva che si rispetti non sa resistere alla tentazione di gareggiare in sex appeal vestendo il costume bionico d'ispirazione langiana.

Si trasformano così in pop robot e androidi Kylie Minogue, poi, Beyoncé (nel 2009 per il suo I am tour), quindi Lady Gaga e Fergie dei Black Eyed Peas come il golem robotico di Rotwang.

 

Rotwang in particolare è descritto come un novello rabbino Löw, il costruttore del Golem.

Nella saga praghese, infatti, il Golem diventa uno "spettro", nel senso che è stato creato a immagine del suo creatore ed è sottomesso alla sua volontà.

L'uomo costruisce la macchina/automa/Golem a sua immagine e questo suo modo di creare è simmetrico all'atto di creazione con cui Dio ha creato l'uomo a sua immagine.

La macchina / robot quindi diviene oggi la controparte moderna del Golem e l'uomo/scienziato una parodia del Dio creatore.

Ed è forse a questa versione che si avvicinano le derive del post-umano:

la creazione di un esercito di cloni/Golem, di corpi resuscitati e di ibridi umano-macchina a cui verranno trasferite le memorie di un soggetto nell'illusione della vita eterna.

 Nel 1486 il noto umanista e filosofo Giovanni Pico della Mirandola scrisse la sua celebre orazione, “Discorso sulla dignità dell'uomo” (Oratio de hominis dignitate), per dimostrare e celebrare la potenza dell'intelletto che mette l'essere umano al centro dell'Universo, distinguendolo così dalle altre creature.

L’uomo per Pico è il medium tra la condizione di bestia e quella di Dio: può innalzarsi al cielo o rendersi animale.

Avvalendosi delle sue capacità intellettive, l'uomo può diventare artefice del proprio destino.

Su ciò si basa il concetto di "dignità umana" ovvero la qualità suprema che solo l'uomo ha ricevuto da Dio: egli può coltivarla e farla crescere facendo buon uso del libero arbitrio che gli è stato assegnato, oppure degradarsi tradendo la sua stessa natura.

 

Oggi, però, sembra che l'uomo abbia deciso di estremizzare questa visione antropocentrica e di imboccare un'altra strada, quella della superbia.

 L'uomo, infatti, può illudersi di potersi rendere uguale a Dio, persino di sfidarlo come Marsia fece con Apollo, ma tale presunzione lo condurrà inevitabilmente alla disfatta: si pensi, come abbiamo ricordato nel primo capitolo, ai miti di Icaro, Niobe, Prometeo, e Sisifo, oppure in ambito giudeo-cristiano Lucifero e in quello islamico Iblis.

Oggi l'uomo pare aver intrapreso un nuovo viaggio verso un traguardo fino a qualche anno fa inimmaginabile: divenire "macchina".

Si tratta, in estrema sintesi, di un progetto dai connotati demiurgici, che, come spiega il professor Antonio Marazzi, docente di antropologia culturale all'Università di Padova, «si è affermato come una sorta di “new age” dai contorni ambigui, quasi una setta, che predica l'avvento di un futuro utopico in cui l'uomo potrà finalmente essere libero dalle sue catene biologiche».

 Un futuro che vedrà l’alba di un uomo nuovo che intende superare la propria natura biologica attraverso l’implementazione sul "corpo biologico” di protesi tecnologiche.

E questo viaggio ha una storia che affonda le proprie radici nell'esaltazione del concetto di progresso e nel darwinismo sociale.

Il darwinismo sociale.

A distanza di cinque secoli, gli insegnamenti di Pico e degli altri filosofi dell'Umanesimo sono convogliati in un sistema che porta lo stesso nome ma che ha poco in comune con il Rinascimento.

L'Umanesimo promosso infatti da pensatori mondialisti come i fratelli Aldous e Julian Sorel Huxley (cofondatore e primo direttore dell'UNESCO), nipoti del celebre "mastino di Darwin" Thomas Huxley, di cui parlerò tra poco, ha abbracciato l'Illuminismo e la filosofia positiva e ha subito gli influssi di circoli elitari quali l'X Club e la Royal Society, dando vita a un'ideologia ibrida che unisce eugenetica, neo-malthusianesimo, socialismo, mondialismo e una spiccata attenzione per le scienze e il controllo sociale, arrivando a prevedere un ulteriore passo avanti nell'evoluzione umana.

Il transumanesimo affonda le proprie radici in quel credo scientifico che confluì in una nuova visione antropologica che verrà in seguito chiamata darwinismo sociale.

 La teoria di Darwin veniva applicata in ambito sociale per proporre una divisione in caste «come distinte sono le diverse specie in natura anche se provenienti da un antenato comune».

Thomas Huxley, il mastino di Darwin.

Chi impose il darwinismo alla società inglese e, attraverso di essa, alla cultura mondiale, fu un personaggio brillante e astuto, "capostipite" di una dinastia di intellettuali, il nonno dei già citati Aldous e Julián Huxley: Thomas Henry Huxley.

Presidente della Royal Society dal 1883 al 1885, Thomas Huxley fu anche il promotore di un gruppo più ristretto ed esclusivo, l'X Club, che ebbe un influsso enorme sulla cultura britannica, spingendola all'accettazione del darwinismo e dei suoi presupposti.

 Il darwinismo, con la sua idea di lotta per la sopravvivenza e del dominio del più forte ed evoluto, poteva divenire una meravigliosa stampella a sostegno dell'imperialismo inglese (ed europeo in generale).

Nell'ottica dell'epoca, infatti, era evidente immaginare che l'essere più evoluto al mondo fosse l'uomo bianco europeo (inglese in particolare), destinato quindi dalla Natura stessa a dominare le altre culture e razze.

Con la sua idea di evoluzione "casuale", che estrometteva qualsiasi intervento divino sulla realtà, il darwinismo diveniva inoltre uno straordinario strumento di lotta contro le religioni tradizionali e contro tutte quelle eredità e tradizioni del passato che in un modo o nell'altro sembravano opporsi all'affermazione globale del nuovo mondo liberal-capitalista.

Alla fine dell'Ottocento, infatti, l'Inghilterra è divenuta la fucina ideologica d'ogni tipo di materialismo, dell'esaltazione del potere tecnologico della macchina e del progresso inteso come "conversione" del mondo intero alla cultura e alla civiltà moderne.

È solo a partire dal secondo dopoguerra, tuttavia, che il modello covato per secoli in ambiente anglosassone potrà finalmente essere imposto al mondo intero.

Toccherà al nipote di Thomas, Julián Sorel Huxley, darwinista di ferro, neomalthusiano e convinto assertore dell'eugenetica, dare forma globale a questa idea secolare e a esplicitare persino, come vedremo, la sua fede nel "transumanesimo".

Prima di lui, un altro celebre romanziere si è distinto per le sue idee a sostegno della costituzione di un ordine mondiale e di quella ideologia mondialista che è tracimata nel transumanesimo (dal neo malthusianesimo all'eugenetica).

Sto parlando dell'autore di celebri romanzi di fantascienza come La guerra dei mondi, L'isola del dottor Moreau, L'uomo invisibile e La macchina del tempo, H.G. Wells.

Quando H.G. Wells sognava un governo unico mondiale

Studente di biologia di Thomas Huxley, socio della Fabian Society e del Coefficient Club, H.G. Wells collaborò a lungo con Julian Huxley con il quale pubblicò nel 1931 The Science of Life.

Nel 1928 diede alle stampe “The Open Conspiracy” in cui descriveva il proprio ideale di un mondo globale unificato sotto l'egemonia anglosassone e ispirato agli ideali socio-economici della Fabian Society e del fabianesimo.( Precursori del comunismo marxista.N.d.R)

Nel libro Wells esprime la necessità di creare una società sopranazionale (che oggi potremmo definire "globalizzata"), un'impresa che prevede il reclutamento degli individui e l'allestimento delle istituzioni che occorrono per costituire il "direttorato" mondiale di "un nuovo ordine mondiale".

Nel saggio-romanzo del 1905 “A Modern Utopia” era stato altrettanto chiaro:

 «Si arriverà, insomma, all'attuazione di un vero e proprio Stato Mondiale».

Qua il sogno wellsiano si esplicita in uno Stato mondiale pacificato e tecnologicamente avanzato: l'utopia rappresenta per l'autore il futuro e questo, a sua volta, non poteva che risiedere nella scienza in quanto perseguimento del Bene e della Verità.

La Cospirazione aperta in Wells ha un unico scopo, la distruzione dello Stato nazionale sovrano.

Tra le ricette per instaurare un ordine mondiale vi è anche l'introduzione di una "religione per la vita umana" che si ispira al positivismo di Auguste Comte e al suo concetto di "religione dell'umanità", un culto cioè senza divinità e senza trascendenza, integrata dai contenuti della filosofia malthusiana (e quindi sul controllo/riduzione delle nascite ovviamente nei confronti delle classi meno abbienti) e dalla teoria della selezione eugenetica sposata da Julian Huxley che ritroveremo esplicitata nell'opera del fratello Aldous.

La Chiesa positivista di Comte si basava sulla triade positivista:

Grande Essere (l'Umanità);

Grande Feticcio (la Terra);

Grande Ambiente o Grande Mezzo (lo Spazio).

La religione di Comte venerava l'Uomo:

al culto dei santi si sostituisce quello degli eroi laici della storia scientifica e civile.

Capiremo meglio, andando avanti nel nostro racconto, come da queste basi si sia concretizzato un culto dell'Uomo che, tramite la scienza e la tecnologia, intende potenziarne le capacità in modo illimitato facendone una divinità.

Rifacendosi dunque al filosofo e sociologo francese, Wells dichiara la necessità di «una nuova religione positivista che impedisca la disgregazione della società dandole un controllo e una direzione», quindi l'esigenza di proporre un culto laicista e scientista basato sulla stessa umanità, essendo la religione un'attività puramente sociale, basata sulla fissazione di riti, di regole e di cerimonie che impediscono alla società di cadere nell'anarchia.

In estrema sintesi, Wells sposa i seguenti capisaldi:

darwinismo sociale;

globalizzazione (superamento delle sovranità nazionali e creazione di un ordinamento mondiale);

limitazione delle nascite;

selezione sociale e razziale;

eugenetica (limitazione e selezione delle caratteristiche genetiche della popolazione);

Comenius, "precursore" dell’UNESCO.

Come spiega ampiamente “Enzo Pennetta” nel suo libro Inchiesta sul darwinismo, appare evidente che il clima dell'epoca avesse incubato una precisa volontà politica oltre a quella culturale che sarebbe per esempio emersa con la fondazione dell'UNESCO, volta alla costituzione di una «nuova realtà ispirata alla Royal Society».

Il primo direttore fu proprio Julian Huxley.

Con l'UNESCO ci troviamo di fronte alla realizzazione globale di ciò che - come ampiamente spiegato dal coautore” Gianluca Marletta in Governo Globale” - Comenius (riconosciuto come "antenato spirituale") aveva sognato e che la Royal Society aveva concretizzato in ambito britannico:

l'idea cioè che un piccolo gruppo di illuminati detentori della verità abbia il diritto di "indirizzare" e addirittura manipolare l'umanità verso scopi e fini ignoti alle moltitudini.

L'organizzazione poteva essere a sua volta, «con le sue caratteristiche di sovra nazionalità e autorevolezza nel campo culturale e scientifico [...] lo strumento corrispondente a quello immaginato da Wells nel 1928».

Nel documento di fondazione dell'organizzazione, L'Unesco e il progresso umano, troviamo il concetto di "progresso umano" come pilastro fondamentale dell'evoluzione che si riflette anche nell'invito a incrementare le innate capacità mentali umane attraverso «deliberate misure eugenetiche».

Huxley chiarirà inoltre che il programma «dovrà essere portato avanti da una minoranza che potremmo definire "illuminata" che guiderà la maggioranza cieca verso il progresso».

Per fare ciò, sarà necessario manipolare l'opinione pubblica, ricorrendo alle tecniche militari di persuasione di massa che erano state fino a quel momento utilizzate in tempo di guerra... Nel documento Unesco” its purpose and its philosophy “si legge:

«Il progresso non è automatico o inevitabile ma dipende dalla scelta umana e dallo sforzo di volontà.

 Prendendo le tecniche di persuasione e informazione e vera propaganda che abbiamo imparato ad applicare come nazione in guerra, e deliberatamente unendole ai compiti internazionali di pace, se necessario utilizzandole, come Lenin previde per superare la resistenza di milioni verso il cambiamento desiderabile».

Propaganda di guerra utilizzata in tempo di pace per manipolare l'opinione delle masse: questo è uno degli scopi programmatici delle “Nazioni Unite”!

Il pensiero di Comenius, come mostrava Gianluca Marletta in Governo Globale, è infatti indispensabile per comprendere le radici dell'idea moderna di un nuovo ordine mondiale e delle sue implicazioni ideologiche.

L'UNESCO ha persino curato direttamente la traduzione e la pubblicazione di alcuni passaggi scelti dell'opera di “Comenius”, riconoscendone il ruolo di "precursore ideale".

Il testo più significativo di Comenius è la” Panorthosia” (traducibile come "Diritto Universale"), dove l'autore elabora infatti la sua avveniristica visione di un'autorità mondiale la cui funzione sarebbe quella di riformare l'educazione (anche a partire dalla creazione di una neo-lingua universale), trasformare e unificare le religioni e vegliare sulla pace globale prevenendo i conflitti.

 A questo scopo, “Comenius” auspica la creazione di tre "comitati universali" a cui siano sottoposte rispettivamente la cultura, la religione e la politica:

«Sarà utile distinguere quei tribunali con appellativi diversi, chiamando “Consiglio della Luce” il tribunale dei dotti, “Concistoro “il tribunale ecclesiastico e “Tribunale della Pace” il tribunale politico».

(10 aprile 2019).

 

 

 

La crescita del potere

delle multinazionali.

 Volerelaluna.it – (29-10-2021) -Rocco Artifoni -  Centro Nuovo Modello di Sviluppo – ci dice:

 

Le multinazionali hanno più potere degli Stati nazionali.

La frase può sembrare scontata, ma può risultare vera soltanto se viene documentata.

 A questo provvede meritoriamente il Centro Nuovo Modello di Sviluppo coordinato da Francesco Gesualdi, che pubblica da 11 anni un report ‒ ben strutturato anche graficamente ‒ con aggiornamenti sulle 200 più importanti multinazionali a livello planetario.

Analizzando i dati relativi all’anno 2020 emergono aspetti rilevanti.

Anzitutto che tra le prime 100 entità economiche mondiali, 30 sono governi di Stati e 70 sono multinazionali.

Il che dimostra la correttezza della frase iniziale.

 In questo confronto tra entrate pubbliche e fatturati privati in cima alla classifica ci sono gli USA, seguiti da Cina e Germania.

La Walmart, al primo posto tra le multinazionali, si colloca al 9° posto, precedendo stati come Spagna, Russia, India, Australia e Brasile.

 Il 2020 ‒ a causa della pandemia ‒ è stato un anno orribile.

Tutti i bilanci degli Stati hanno chiuso con forti deficit.

Non è accaduto lo stesso alle multinazionali: soltanto 30 tra le prime 200 hanno chiuso in perdita, mentre 170 hanno registrato utili.

Questi dati mostrano con chiarezza da quale parte stia pendendo la bilancia del potere economico e finanziario.

È anche interessante verificare quali siano le multinazionali che hanno avuto una crescita consistente negli ultimi 10 anni.

Anzitutto Amazon che nel 2010 era al 269° posto, cioè fuori dalla classifica dei Top 200 e che l’anno scorso troviamo incredibilmente al 3° posto assoluto.

Notevole anche la performance di Apple, che dal 111° di dieci anni fa è passata al 6° posto nel 2020.

Raggruppando le multinazionali per settori, in base al fatturato il 22% si occupa di commercio e trasporti, il 21% di finanza e assicurazioni, l’11% di energia e petrolio, il 10% di elettronica e computer, l’8% di autoveicoli.

La prima multinazionale nel settore del commercio è la Walmart con un fatturato di 559 miliardi di dollari.

Nel settore dell’energia il primo posto è occupato dalla “China National Petroleum” con un fatturato di 284 miliardi.

Tra i costruttori di auto in cima alla classifica si attesta la Toyota Motor con 257 miliardi di dollari.

Il dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo contiene anche schede di approfondimento sulle multinazionali dei farmaci e dei vaccini, su Amazon, sull’economia dei militari in Egitto e Myanmar, sulla comunicazione dei grandi gruppi che cercano di presentarsi con la faccia pulita di chi ha a cuore le persone, l’ambiente ecc.

Da segnalare la scheda dedicata agli stipendi d’oro nel 2020 dei top manager italiani, pubblici e privati, che non sembrano aver risentito della crisi.

 Michael Manley di Stellantis ha ricevuto un compenso di 11,7 milioni, John Elkann di Exor 8,5 milioni, Francesco Starace di Enel 7,5 milioni e Claudio Descalzi di Eni 6,0 milioni.

La media degli stipendi dei top manager delle società quotate alla Borsa di Milano è di circa 2 milioni di euro, cioè 36 volte la retribuzione media degli altri lavoratori di queste società.

Questi dati dovrebbero far riflettere, poiché è evidente che il potere economico privato sta crescendo a discapito dell’interesse pubblico.

 In questa prospettiva non risulta fuori luogo quanto scriveva Louis D. Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti:

«Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose».

(Rocco Artifoni)

 

 

 

Gli oligarchi di Davos.

Onebooks.it – Webinar -Enrica Perucchetti – (3 marzo 2023) – ci dice:

 

Per i tecnocrati di Davos, il Great Reset intende creare un nuovo “ordine mondiale” tecnologico e post-umano in cui ogni aspetto della nostra vita rischierà di essere controllato, automatizzato e sorvegliato da un occhio ben più crudele e spietato di quello del Grande Fratello orwelliano.

Per le élite mondialiste che si riuniscono ogni anno a Davos, l’emergenza pandemica è stata un’occasione per avviare la promozione di un’Agenda globale, nota come Great Reset.

Il fondatore del Word Economic Forum, l’ingegnere ed economista tedesco Klaus Schwab, descrive nei suoi libri uno stravolgimento globale della nostra società̀ in una direzione post-umana.

Il sogno degli oligarchi di Davos è rafforzare la governance globale e dividere la società̀ in due livelli:

 da una parte il potere economico detenuto da una ristretta cerchia tecno-finanziaria di miliardari, dall’altra la “massa “indistinta di individui sempre più̀ poveri, senza diritti e senza radici, facili da sfruttare e controllare per il nuovo ordine post-umano che si sta costruendo.

Ecco spiegato il terrorismo mediatico, censura, digitalizzazione, sorveglianza tecnologia e biopotere;

la “nuova normalità” e i piani per la creazione di un governo unico mondiale;

la quarta rivoluzione industriale e l’Agenda globale del Grande Reset.

(Enrica Perucchetti.)

 

 

 

I superprofitti delle multinazionali

tassati al 15%?

Hanno vinto ancora loro.

   Micromega.net - Pierfranco Pellizzetti  - (9 Giugno 2021) – ci dice:

 

Qualcuno ricorderà il film “The Game” – “il gioco” – diretto nel 1997 da David Fincher, con Michael Douglas, finanziere con l’ossessione di fare sempre più soldi, e suo fratello Sean Penn, in apparenza scapestrato ma – in effetti – saggio e sempre più preoccupato per la piega autodistruttiva che ha preso la vita del suo più stretto consanguineo.

Il gioco pone al centro una società di consulenza che – utilizzando ogni mezzo, dai questionari alla grafologia – si impadronisce fin nei più intimi particolari della struttura psicologica di una persona, al fine di programmarne il futuro governandone ogni dettaglio:

 sicché il finanziere Douglas sparerà al povero Penn e, credendo di averlo ucciso, tenterà di suicidarsi.

In una conclusione fracassona del game, dove tutto è rigorosamente previsto per arrivare al lieto fine.

Perché, come disse la scrittrice americana Mary Mc Carthy, “l’happy end è la nostra ideologia nazionale”.

A volte Hollywood riesce a forare la cappa di apparenze che sovrasta le nostre esistenze lasciando intravvedere frammenti di realtà.

Ossia l’effettiva condizione che ci riserva l’ordine sovraordinato del Potere, da quando la modernità pose le sue fondamenta nel New England e i Padri Fondatori, ispirati dal “maître à penser” Beniamino Franklin che disprezzava i poveri (“che non vanno aiutati perché imparino ad arrangiarsi”), instaurarono una plutocrazia coloniale che strumentalizza l’energia dei ceti subalterni (che la cultura anglosassone considerava etnie inferiori) per realizzare i propri scopi.

Michel Foucault aprì uno spiraglio sulla vera natura del Potere osservandone l’evoluzione quando scoprì la superiore economicità di incatenare le menti al posto dei corpi.

 Oggi studi accurati approfondiscono le tecniche più aggiornate di indirizzo del comportamento (dalle scelte d’acquisto alle opzioni elettorali) che pretendono di smentire la credenza cristiana nel libero arbitrio.

Operazione entrata in una dinamica accelerativa dal momento in cui fu espulso dal campo di gioco il soggetto che inceppava le dinamiche del dominio: il lavoro organizzato.

E – come disse Zygmunt Bauman – “i ricchi impararono a fare a meno dei poveri”.

Per cui, caro lettore di questo “post claustrofobico” (se non ti sei fermato prima, in quanto intollerante alle mie melanconie), mi spiace dirtelo:

tu ed io – borghesi proletarizzati – non contiamo più niente.

 Il “demos” è in balia dell’“oligos” grazie al cosiddetto “Capitalismo della sorveglianza” che le varie Facebook, Google esercitano su di noi.

 Per cui a Occidente ci rimane solo la condizione di consumatori e a Oriente quella di robot umani al lavoro nella mega-macchina mondiale.

Almeno fino a quando non ci verrà offerta la pillola di “Matrix”, che Neo riceve da Morpheus e grazie alla quale oltrepassa le apparenze create dal programma carceriere.  E così potremo vedere chi veramente sono i nostri oppressori.

 L’assurdità tutta italiana di consegnare il compito di rifondare il Paese all’algoritmo che incorpora le procedure che l’hanno rovinato:

il banchiere locale per eccellenza “Mario Draghi” con la costellazione dei suoi programmi secondari (il travet “Cingolani”, sacerdote della tecnologia affaristica, il lunare “Colao”, liberista del cartello oligopolistico della telefonia cellulare, la costituzionalista controriformista “Cartabia”).

Ecco, credo che la pillola anti Matrix-dominio-plutocratico sia rappresentata da una turbativa nel software del potere: la ripresa del conflitto.

 Che tuttavia non riguarda la dialettica tradizionale tra chi sta in alto e chi sta in basso.

Piuttosto coinvolge soltanto il vertice, l’establishment.

Ossia le tensioni che si stanno manifestando tra le due parti del club degli ottimati, relative ai criteri di spartizione delle ricchezze che si sono accumulate nel punto più elevato della piramide sociale.

Le turbative sulla vetta dell’Olimpo.

Parliamo dello scontro tra mega-imprese e ultra-ricchi ormai de-territorializzati e quella parte di potenti che traggono la loro condizione dall’amministrare i confini delle varie nazioni.

L’altro giorno era lo scontro tra i difensori della proprietà intellettuale e i liberalizzatori dei vaccini: il presidente Joe Biden versus Pfizer e Big Pharma.

Ora la controversia sulle tasse non pagate dalle varie Major californiane del silicio.

Scontri risolti tutti – non a caso – con il trionfo dei soggetti che si arricchiscono con il business delle manipolazioni mentali e forme schiavistiche di sfruttamento.

Nonostante le dichiarazioni teatrali delle controparti regolatrici che parlano di successi epocali per aver stabilito il prelievo del 15% sui superprofitti faraonici.

 E Thomas Piketty dichiara: “anche a me piacerebbe pagare aliquote così modeste”.

Però è un altro varco che si apre.

Se entrasse nel gioco anche un soggetto rappresentante degli esclusi si potrebbe rimettere in funzione il meccanismo democratico, attraverso intelligenti politiche di alleanze.

Tutte le rivoluzioni conosciute hanno visto coalizioni tra insiders e pezzi delle vecchie classi dominanti.

 

 

 

Colonialismo digitale – Le multinazionali

Big Tech e il Sud Globale.

Meltingpot.org - Michael Kwe, ROAR Magazine – (31 MARZO 2021) – ci dice:

 

Proponiamo la traduzione a cura di “Globalproject.info” di questo articolo di Michael Kwet – originalmente pubblicato da ROAR Magazine – sul dominio globale delle multinazionali dell’alta tecnologia, che mostra come – in un contesto capitalista – la digitalizzazione sia legata a un estrattivismo insostenibile e al rafforzamento di una divisione del lavoro altamente ineguale tra Nord e Sud del mondo.

Nel 2020, i miliardari si sono arricchiti a dismisura.

 Il patrimonio personale di Jeff Bezos è cresciuto da 113 a 184 miliardi di dollari. Elon Musk ha per poco eclissato Bezos con un aumento di patrimonio di 27 miliardi di dollari, che l’ha portato a possederne 185 miliardi. Per i capitalisti alla testa delle multinazionali Big Tech, è stato un anno da favola.

Tuttavia, per quanto l’accresciuto potere di tali multinazionali nei propri mercati interni è stato oggetto di numerose analisi critiche, la loro portata globale è discussa molto meno frequentemente, soprattutto dagli intellettuali più in vista dell’impero americano.

Infatti, studiando i meccanismi e le cifre, è chiaro che il Big Tech non è solo globale ma anche coloniale e dominato dagli Stati Uniti.

Questo fenomeno è il “colonialismo digitale”.

Nel mondo in cui viviamo, il colonialismo digitale rischia di diventare una minaccia per il Sud Globale di gravità ed estensione simili a quelle del colonialismo classico dei secoli passati.

 Le profonde disuguaglianze e l’accresciuta sorveglianza da parte di stati e aziende attraverso sofisticate tecnologie poliziesche e militari sono solo alcuni sintomi di questo nuovo ordine mondiale.

 Per quanto tale fenomeno possa sembrare nuovo, esso si è incastonato nello status quo globale nel corso dei decenni passati.

In assenza di un movimento di contropotere sufficientemente forte, la situazione non potrà che peggiorare.

Che cos’è il colonialismo digitale?

Il colonialismo digitale è l’uso delle tecnologie digitali per il dominio politico, economico e sociale di un’altra nazione o territorio.

Sotto il colonialismo classico, gli europei si impadronirono di terre straniere e vi si trasferirono, costruirono infrastrutture come fortini militari, porti marittimi e ferrovie, usarono navi da guerra a scopi di penetrazione economica e conquista militare, insediarono macchinari pesanti e sfruttarono i lavoratori per estrarre materie prime, eressero strutture panottiche per sorvegliare la mano d’opera, schierarono gli ingegneri necessari a uno sfruttamento avanzato (es. chimici per l’estrazione di minerali), si appropriarono dei saperi indigeni per incorporarli nei processi industriali, spedirono le materie prime in madrepatria per trasformarle in prodotti manifatturieri, distrussero i mercati del Sud Globale con beni manifatturieri a basso costo, perpetuarono la dipendenza di popoli e nazioni del Sud Globale da una ineguale divisione globale del lavoro ed espansero un dominio economico, diplomatico e militare volto al profitto e al saccheggio.

 In altre parole, il colonialismo dipendeva dalla proprietà, dal controllo di territori e infrastrutture, dall’estrazione di lavoro, saperi e risorse e dall’esercizio del potere statale.

Tale processo si è evoluto nei secoli e le nuove tecnologie vi si sono amalgamate nel corso del loro sviluppo.

Nel diciottesimo secolo, cavi sottomarini facilitavano le comunicazioni via telegrafo al servizio dell’impero britannico.

 I progressi nella registrazione, archiviazione e organizzazione dell’informazione furono collaudati dai servizi segreti statunitensi nella conquista delle Filippine.

Oggi, le “vene aperte” del Sud Globale di cui parlava Eduardo Galeano sono le “vene digitali” che attraversano gli oceani, cablando un ecosistema tecnologico posseduto e controllato da poche multinazionali, perlopiù statunitensi.

Alcune tra queste fibre ottiche transoceaniche sono in mano a compagnie come Google e Facebook, funzionali alla loro estrazione e monopolizzazione di dati.

 Gli odierni macchinari pesanti sono le “cloud server farm” dominate da Amazon e Microsoft – usate per immagazzinare, concentrare e processare big data – che stanno proliferando come le basi militari dell’impero americano.

 Gli eserciti sono composti da ingegneri e programmatori d’élite con generosi stipendi da 250.000 dollari all’anno o più.

 La mano d’opera sfruttata è fatta di schiere di lavoratori razzializzati che estraggono i minerali in Congo o in America Latina, codificano dati per lo sviluppo d’intelligenza artificiale dalla Cina o dall’Africa o ripuliscono i social media da contenuti traumatizzanti, con i conseguenti impatti sulla propria salute mentale.

Le piattaforme e i centri di spionaggio (come la NSA) sono “i panottici” e “i dati “sono le materie prime processate per creare servizi basati su tecnologie di intelligenza artificiale.

In termini più generali, il colonialismo digitale consolida una divisione globale del lavoro ineguale, in cui le potenze dominanti usano la proprietà di infrastrutture digitali, saperi e mezzi di computazione per mantenere il Sud Globale in una condizione di dipendenza permanente.

 La divisione globale del lavoro si è trasformata.

 Economicamente, l’industria è scesa nella gerarchia del valore ed è stata rimpiazzata da un’economia hi-tech in cui le multinazionali Big Tech dominano.

L’architettura del colonialismo digitale.

Il colonialismo digitale ha le sue radici nel dominio della “roba” del mondo digitale che costituisce i mezzi di computazione – software, hardware e collegamenti di rete.

Ciò include le piattaforme che fanno da “gate keeper”, i dati estratti da fornitori di servizi intermediari e le norme di settore, come la “proprietà intellettuale” e la “intelligenza digitale”.

 Il capitalismo digitale si è profondamente integrato con gli strumenti convenzionali del capitalismo e della governance autoritaria, quali lo sfruttamento del lavoro, la policy Capture, la pianificazione economica, i servizi segreti, l’egemonia della classe dirigente e la propaganda.

Cominciando dal software, possiamo notare un processo in cui il codice – che una volta era liberamente e ampiamente condiviso dai programmatori – è diventato sempre più privatizzato e soggetto a copyright.

 Negli anni ‘70 e ‘80, il Congresso degli Stati Uniti ha iniziato a rafforzare i diritti d’autore dei software.

C’è stato un movimento di opposizione nella forma delle licenze “Free and Open Source Software” (FOSS) che garantivano agli utenti il diritto di usare, studiare, modificare e condividere software.

Questo ha avuto benefici intrinseci per alcuni paesi del Sud Globale, in quanto ha creato una “comune digitale”, libera dal controllo delle grandi aziende e dalla ricerca di profitto.

 Tuttavia, diffondendosi verso Sud, il movimento “Free Software” ha sollecitato una reazione da parte delle grandi aziende.

Microsoft ha schernito il Perù quando il governo ha provato ad allontanarsi dai software brevettati da Microsoft.

 Ha anche provato ad impedire ad alcuni governi africani di usare il sistema operativo FOSS GNU/Linux nei ministeri del governo e nelle scuole.

La privatizzazione dei software è stata accompagnata dalla rapida centralizzazione di Internet nelle mani di fornitori intermediari di servizi come Facebook e Google.

Essenzialmente, questo passaggio ai “servizi in cloud” ha annullato le libertà che le licenze FOSS garantivano agli utenti, perché il software è eseguito dai computer delle multinazionali Big Tech.

 I cloud delle multinazionali espropriano le persone dalla possibilità di controllare i loro computer.

I servizi in cloud forniscono petabyte di informazioni alle multinazionali, che utilizzano i dati per addestrare i loro sistemi di intelligenza artificiale.

L’intelligenza artificiale usa i “Big Data” per “imparare” – ha bisogno di milioni di immagini per riconoscere, per esempio, la lettera “A” nei diversi font e formati.

Applicando questo agli umani, i dati sensibili delle vite private delle persone diventano una risorsa dal valore incalcolabile che i giganti della tecnologia provano incessantemente ad estrarre.

Nel Sud Globale, la maggior parte delle persone è essenzialmente bloccata con telefoni o smartphone di basso livello, con pochi dati a disposizione.

Di conseguenza, milioni di persone vivono Facebook come “l’internet” e i dati su di loro sono consumati da imperialisti stranieri.

Gli “effetti di retroazione” dei” Big Data” rendono la situazione peggiore: chi ha più dati e di maggiore qualità può creare i migliori servizi di intelligenza artificiale, che attraggono più utenti, i quali forniscono ancora più dati per rendere il servizio migliore e così via.

Come accade nel colonialismo classico, i dati sono stati assunti come materie prime per le potenze imperialiste, che li processano e fabbricano servizi da restituire al pubblico globale, cosa che rafforza ulteriormente il loro dominio e pone il resto della popolazione in una situazione subordinata di dipendenza.

Cecilia Rikap, nel suo prossimo libro “Capitalism, Power and Innovation: Intellectual Monopoly Capitalism Uncovered”, mostra come i giganti della tecnologia statunitensi basino il loro potere di mercato sui loro monopoli intellettuali, stando in cima a una complessa catena di produzione di aziende subordinate, con l’obbiettivo di estrarre profitti e sfruttare lavoro.

Grazie a ciò, sono in grado di accumulare il “know-who” e il “know-how” per pianificare ed organizzare catene di valore globali e di privatizzare la conoscenza ed espropriare i saperi comuni e i risultati pubblici della ricerca.

Apple, per esempio, estrae profitti dagli “IP “e il “branding” dei suoi smartphone e coordina tutta la catena di produzione.

I produttori di basso livello, come gli assemblatori di telefoni degli stabilimenti della “multinazionale taiwanese Foxconn”, gli estrattori dei minerali necessari per le batterie in Congo e le aziende che producono chip che forniscono i processori, sono tutti subordinati alle richieste e ai capricci di Apple.

In altre parole, i giganti della tecnologia controllano le relazioni commerciali lungo tutta la catena di produzione, traendo profitto dalla loro conoscenza, il loro capitale accumulato e l’egemonia delle componenti funzionali fondamentali.

 Ciò permette loro di imporre il prezzo a, o fare a meno di, aziende relativamente grandi ma in una posizione subordinata.

 Le università sono complici.

 Le più prestigiose, nel cuore dei paesi imperialisti, dominano lo spazio di produzione accademico, mentre le più vulnerabili, nella periferia o semi-periferia, sono le più sfruttate e spesso mancano di fondi per la ricerca e lo sviluppo, della conoscenza o capacità di brevettare le scoperte e delle risorse per ribellarsi quando il loro lavoro viene espropriato.

La colonizzazione dell’istruzione.

Un esempio di come il colonialismo digitale si sviluppa è il settore dell’istruzione. Come espongo dettagliatamente nella mia tesi di dottorato sulle tecnologie della didattica in Sud Africa, Microsoft, Google, Pearson, IBM e altri giganti della tecnologia si impongono nei sistemi didattici in tutto il Sud Globale.

Per Microsoft, non è niente di nuovo.

Come scrivevo sopra, Microsoft ha tentato di intimidire alcuni governi africani affinché rimpiazzassero “Free Software” con “Microsoft Windows”, anche nelle scuole.

In Sud Africa, Microsoft ha un esercito di persone addette a formare gli insegnanti su come usare il software Microsoft nel sistema educativo.

Fornisce anche tablet Windows e software Microsoft a diverse università, come l’Università di Venda, una partnership che ha pubblicizzato ampiamente.

Più di recente, ha collaborato con l’operatore di telefonia mobile Vodacom (posseduto per la maggior parte dalla multinazionale britannica Vodafone) per fornire una didattica digitalizzata agli studenti sudafricani.

Nonostante Microsoft sia il principale fornitore, con contratti in almeno cinque dei nove dipartimenti educativi provinciali in Sud Africa, anche Google sta cercando una quota di mercato.

 In collaborazione con la startup sudafricana CloudEd, Google sta cercando di chiudere il primo contratto con un dipartimento provinciale.

Anche la” Michael and Susan Dell Foundation” si è gettata nella mischia, offrendo una piattaforma “Data Driven District” (DDD) ai governi provinciali.

 Il software DDD è progettato per raccogliere dati che rintracciano e monitorano insegnati e studenti, compresi voti, presenze e “questioni sociali”.

Al momento le scuole caricano i dati raccolti settimanalmente piuttosto che in tempo reale, ma lo scopo ultimo è di fornire un monitoraggio del comportamento e della performance degli studenti in tempo reale, per la gestione burocratica e la “analisi longitudinale dei dati” (analisi dei dati dello stesso gruppo di individui raccolti nel tempo).

 

Il governo sudafricano sta anche potenziando il cloud del “Department of Basic Education” (DBE), che potrebbe prima o poi essere usato per una sorveglianza tecnocratica invasiva.

Microsoft si è avvicinato al DBE con la proposta di raccogliere dati “per il ciclo di vita dell’utente”, a partire dalla scuola e, per chi mantiene un account di Microsoft Office 365, nella vita adulta, in modo che il governo possa condurre analisi longitudinali su cose come il rapporto tra istruzione e impiego.

Il colonialismo digitale delle Big Tech si sta diffondendo rapidamente nei sistemi educativi del Sud Globale.

Scrivendo dal Brasile, Giselle Ferreira e i suoi co-autori dichiarano:

“La somiglianza tra ciò che sta accadendo in Brasile e l’analisi di Kwet (2019) del caso sudafricano (e probabilmente di altri paesi del ‘Sud Globale’) è notevole.

 In particolare, quando le multinazionali GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) offrono generosamente tecnologie agli studenti svantaggiati, i dati di questi ultimi vengono estratti senza ostacoli e conseguentemente trattati in un modo che rende le specificità locali prive di importanza.”

Le scuole sono ottimi siti di espansione del controllo del mercato digitale per le Big Tech.

I poveri del Sud Globale spesso ricevono dal governo o dalle aziende un dispositivo a costo zero, che li rende però dipendenti da terzi per quanto riguarda la decisione del software che usano.

Quale modo migliore di acquisire mercato che prevaricare software Big Tech sui dispositivi offerti ai bambini – che altrimenti non potrebbero permettersi altre tecnologie che un telefonino di vecchia generazione?

Questa strategia ha il vantaggio aggiuntivo di catturare futuri sviluppatori di software, che probabilmente preferiranno, ad esempio, Google o Microsoft (invece di soluzioni tecnologiche popolari basate su Free Software) dopo aver passato anni ad usare il loro software ed essersi abituati alle loro interfaccia e funzionalità.

Sfruttamento del lavoro.

Il colonialismo digitale è altresì evidente nella maniera in cui gli stati del Sud Globale sono pesantemente sfruttati per fornire alcune materie prime indispensabili alle tecnologie digitali.

Da tempo si rileva che la “Repubblica Democratica del Congo” fornisce più del 70% del cobalto mondiale, un minerale essenziale per le batterie delle automobili, degli smartphone e dei computer.

Quattordici famiglie congolesi stanno denunciando Apple, Tesla, Alphabet, Dell e Microsoft accusandole di impiegare manodopera infantile nell’industria mineraria. L’estrazione dei minerali di per sé spesso agisce negativamente sulla salute dei lavoratori e del loro habitat.

Per quanto riguarda il litio, le riserve maggiori si trovano in Cile, Argentina, Bolivia e Australia.

 Gli stipendi nei paesi latinoamericani sono bassi rispetto agli standard dei paesi ricchi, soprattutto considerando le condizioni lavorative.

La disponibilità di dati non è uniforme, ma in Cile i minatori guadagnano fra i 1.430 e i 3.000 dollari al mese, in Argentina lo stipendio mensile arriva a essere compreso fra i 300 e i 1.800 dollari.

 Nel 2016, il salario minimo mensile dei minatori in Bolivia è stato “aumentato” a 250 dollari.

Come termine di paragone, i minatori australiani guadagnano circa 9.000 dollari al mese e possono raggiungere i 200.000 dollari all’anno.

Gli stati del Sud Globale offrono anche abbondante forza lavoro a basso costo per i giganti tecnologici.

 Fra le mansioni sottopagate ci sono: raccoglitori di dati per i server di intelligenza artificiale, operatori di call center e moderatori di contenuti per i giganti dei social media come Facebook.                                    I moderatori di contenuti puliscono i feed dei social media dai contenuti scioccanti, come violenza e materiale sessualmente esplicito, e spesso ne subiscono i danni psicologici.

 Nonostante ciò, un moderatore di contenuti in un paese come l’India può guadagnare fino a un massimo di 3.500 dollari all’anno – e solo dopo un “aumento”, partendo da una retribuzione base di 1.400 dollari.

Un impero digitale cinese o americano?

In Occidente si parla molto di una “nuova Guerra Fredda”, con gli Stati Uniti e la Cina che si contendono la supremazia tecnologica globale.

Tuttavia, uno sguardo più approfondito sull’ecosistema tech rivela che le multinazionali americane sono dominanti nell’economia globale.

La Cina, dopo decenni di forte crescita, genera il 17% del PIL globale e si prevede che superi gli Stati Uniti entro il 2028, dando adito a voci che l’impero americano sia in declino (una narrativa che è stata popolare anche durante l’ascesa del Giappone).

Se si misura l’economia in termini di potere di acquisto, la Cina è già più grande degli Stati Uniti.

Tuttavia, come osserva l’economista “Sean Starrs” nella “New Left Review”, questa tesi considera erroneamente gli stati come unità autonome, “che interagiscono come palle su un tavolo da biliardo”.

Starrs sostiene che in realtà il dominio economico americano “non è in declino, si è globalizzato”.

 Questo è particolarmente vero quando si considera il Big Tech.

Nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, la produzione delle grandi aziende si è distribuita lungo reti di produzione transnazionale.

Per esempio, negli anni ‘90 aziende come Apple hanno cominciato a sub-contrattare all’estero la produzione elettronica, spostandola dagli Stati Uniti alla Cina e Taiwan, sfruttando la manodopera di lavoratori assunti da compagnie come Foxconn.

Un altro esempio: spesso le multinazionali tech americane progettano l’IP per gli interruttori dei router ad alta prestazione (Cisco) e allo stesso tempo acquistano all’estero la capacità produttiva dei fabbricanti di hardware nel Sud Globale.

Starrs ha redatto un profilo delle 2000 grandi imprese pubbliche classificate da Forbes Global 2000 organizzandole in 25 settori, in cui si evidenzia il dominio delle multinazionali americane.

 Dal 2013 queste ultime hanno dominato, in termini di quote di profitto, in 18 dei 25 settori.

Nel suo libro “American Power Globalized: Rethinking National Power in the Age of Globalization”, Starrs dimostra che gli Stati Uniti rimangono in testa.

Per i servizi e software IT, la quota di profitto è del 76% contro il 10% della Cina; per tecnologia e attrezzatura hardware è del 63% per gli USA e del 6% per la Cina; per l’elettronica è rispettivamente 43% e 10%.

 Altri paesi, come la Corea del Sud, il Giappone e Taiwan, riescono a raggiungere percentuali superiori in queste categorie rispetto alla Cina.

Ritrarre gli USA e la Cina come competitori alla pari nella battaglia per la supremazia tecnologica globale, come spesso viene fatto, è quindi molto fuorviante.

Per esempio, un rapporto del 2019 delle Nazioni Unite, “Digital Economy”, afferma che:

 “La geografia dell’economia digitale si concentra in due paesi” – gli Stati Uniti e la Cina.

Tuttavia, il rapporto non solo ignora i fattori identificati da autori come “Starrs” ma omette anche il fatto che la maggior parte dell’industria tecnologica cinese mantiene il proprio dominio all’interno dei confini nazionali della Cina, eccezion fatta per importanti prodotti e servizi, come il 5G (Huawei), le telecamere CCTV (Hikvision, Dahua) e alcuni social media (TikTok), che riescono a detenere grandi quote all’estero.

 La Cina possiede anche investimenti sostanziali in alcune aziende tech estere, ma questa non è in nessun modo la prova di una minaccia al dominio degli Stati Uniti, i quali posseggono una quota assai più ampia di investimenti esteri.

In realtà, gli USA mantengono una posizione di dominio sull’impero tech.

All’esterno dei confini nazionali di USA e Cina, gli USA primeggiano nelle categorie: motori di ricerca (Google); web browser (Google Chrome, Apple Safari); sistemi operativi per tablet e smartphone (Microsoft Windows, macOS); software per ufficio (Microsoft Office, Google G Suite, Apple iWork); infrastrutture e servizi cloud (Amazon, Microsoft, Google, IBM); piattaforme social networking (Facebook, Twitter); trasporto (Uber, Lyft); business networking (Micosoft LinkedIn); intrattenimento streaming (Google, YouTube, Netflix, Hulu) e pubblicità online (Google, Facebook) – tra le altre.

Il risultato è che se una persona fisica o giuridica usa un computer, le compagnie americane ne traggono maggior beneficio.

 L’ecosistema digitale gli appartiene.

Dominio politico e strumenti di violenza.

Il potere economico dei giganti tecnologici USA va di pari passo con la loro influenza economico-sociale.

Come per altre industrie, tra dirigenti del Big Tech e governo statunitense vi è una membrana permeabile, grazie alla quale multinazionali tech e alleanze d’affari esercitano pressioni per piegare la legislazione a favore dei loro interessi specifici – e del capitalismo digitale in generale.

Governi e agenzie di sicurezza, a loro volta, stringono alleanze con il “Big Tech” per svolgere il loro lavoro sporco.

 Nel 2013, Edward Snowden portò alla luce che Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, YouTube, Skype, AOL e Apple condividevano informazioni con la National Security Agency per mezzo del programma PRISM.

 Seguirono ulteriori rivelazioni e il mondo venne a conoscenza che i dati conservati dalle multinazionali e scambiati in Internet erano stoccati dentro enormi database governativi a beneficio degli stati.

Paesi nel Sud Globale sono stati oggetto di attacchi da parte dell’NSA, dal Medio Oriente all’Africa fino all’America Latina.

Anche polizia e militari lavorano con le corporazioni tech, che sono ben felici di incassare pingui assegni per la fornitura di prodotti e servizi di sorveglianza, anche nei paesi del Sud Globale.

 Per esempio, attraverso la controllata e poco conosciuta “Divisone di Pubblica Sicurezza e Giustizia”, Microsoft ha costruito un’estesa rete di alleanze con i fornitori di servizi di sicurezza [forze dell’ordine, milizie private, etc.] che sfruttano le infrastrutture cloud di Microsoft.

Ciò include una piattaforma di sorveglianza “comando e controllo”, chiamata “Microsoft-Aware”, che è stata acquisita dalla polizia del Brasile e di Singapore e comprende anche un veicolo dotato di telecamere di riconoscimento facciale, in utilizzo a Città del Capo e Durban in Sud Africa.

Microsoft ha inoltre forti legami con l’industria carceraria.

Offre svariate soluzioni software alle prigioni, che gestiscono l’intera struttura di correzione: trasgressori minorenni, audizioni del predibattimento, libertà vigilata, carceri, così come le persone rilasciate o in regime di libertà condizionale.

 

Non è chiaro dove venga esattamente impiegato il gestionale carcerario chiamato Netopia, ma Microsoft ha dichiarato che “Netopia è [un fornitore/partner] in Marocco impegnato nella trasformazione digitale e nei servizi governativi dedicati all’Africa centrale e del nord”.

Il Marocco ha una comprovata storia fatta di brutalità sui dissidenti e tortura dei prigionieri.

 Recentemente, gli Stati Uniti hanno riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale, in violazione della normativa internazionale.

Per secoli, le forze imperiali hanno testato le tecnologie per reprimere e controllare i loro cittadini prima sulle popolazioni straniere, dal lavoro pioneristico di “Sir Francis Galton “sulle impronte digitali utilizzato in India e Sud Africa, alla combinazione di biometrica e innovazione made in the USA per la gestione dei dati, che ha generato il primo apparato moderno di sorveglianza utilizzato per pacificare le Filippine.

Come lo storico “Alfred McCoy” ha evidenziato, l’insieme di tecnologie di sorveglianza impiegate nelle Filippine fornì un terreno di verifica che venne poi “re-importato” negli Stati Uniti per essere utilizzato contro i dissidenti interni.

 Microsoft e i progetti di sorveglianza high-tech dei suoi partner suggeriscono che i paesi africani continuano a servire come laboratori per la sperimentazione carceraria.

Reagire.

Ovunque, l’informazione e la tecnologia digitale giocano un ruolo centrale nella politica economica e nella vita sociale.

In quanto parte del progetto imperiale americano, le multinazionali statunitensi stanno reinventando il colonialismo nel Sud Globale attraverso la titolarità e il controllo della proprietà intellettuale, dell’intelligenza digitale e dei mezzi di computazione.

La maggioranza dell’infrastruttura centrale, delle industrie e delle funzioni eseguite dai computer sono di proprietà di multinazionali americane, che sono di gran lunga dominanti all’esterno dei confini statunitensi.

 Le compagnie più grandi, come Microsoft e Apple, controllano le filiere globali ponendosi come monopoli intellettuali.

 Ne risultano uno scambio e una divisione del lavoro ineguali, che rafforzano la sudditanza nella “periferia” del mondo mentre si consolidano miseria di massa e povertà globale.

Invece di rendere disponibili i saperi, trasferendo le tecnologie e fornendo le componenti per una ricchezza globale condivisa ed equa, gli stati più ricchi, assieme alle loro multinazionali, mirano a proteggere la loro posizione dominante ed estrarre dal Sud Globale lavoro a basso costo e valore.

Monopolizzando le componenti centrali dell’ecosistema digitale, promuovendo le proprie tecnologie nelle scuole e nei programmi di apprendimento e creando alleanze con le élite aziendali e statali del Sud Globale, il Big Tech sta soggiogando i mercati emergenti.

 Lucra persino sui servizi di sorveglianza forniti ai dipartimenti di polizia e alle prigioni, il tutto per creare profitto.

Eppure, contro le forze di un potere nelle mani di pochi, c’è chi reagisce.

 La resistenza al Big Tech nel Sud Globale ha una lunga storia, che risale ai giorni delle mobilitazioni internazionali contro IBM, Hewlett Packard e altre aziende che facevano affari con il Sud Africa dell’apartheid. Agli inizi degli anni 2000, per un certo periodo, gli stati del Sud Globale adottarono la filosofia dei software liberi e dei beni comuni come strumenti per contrastare il colonialismo digitale, anche se molte di queste iniziative fallirono.

Negli ultimi anni, nuovi movimenti che combattono il colonialismo digitale sono emersi.

Il quadro è molto complesso.

La crisi ecologica creata dal capitalismo sta seriamente minacciando di distruggere la vita sulla terra e le soluzioni per un’economia digitale devono intersecarsi con la giustizia ambientale e una più ampia battaglia per l’eguaglianza.

 Per sradicare il colonialismo digitale, abbiamo bisogno di un paradigma concettuale altro, che metta in discussione le cause profonde e gli attori più potenti e che si leghi ai movimenti dal basso che vogliono sfidare il capitalismo, l’autoritarismo e l’impero americano, nonché i suoi lacchè intellettuali.

 

 

 

Giorgia Meloni: «Donne vittime

 dell’ideologia gender».

 Protesta la comunità Lgbt:

 «Parole che rovinano la vita».

Espresso.repubblica.it – (1° marzo 2023) – Simone Alliva – ci dice:

 

La presidente del Consiglio in un’intervista attacca l’identità di genere e la comunità trans e le famiglie omogenitoriali.

 Si sollevano le più importanti sigle arcobaleno:

«Non sa quello di cui parla. Dalla destra solo fake news»

"Parole che rovinano la vita", così vengono accolte le dichiarazioni della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, pronunciate durante un'intervista al settimanale “Grazia” in occasione della” Festa della donna” colpiscono la comunità Lgbt che reagisce con sdegno.

La Presidente del Consiglio attacca in una sola intervista l'identità di genere

 (“ Le donne sono le prime vittime dell'ideologia gender.

 La pensano così anche molte femministe”) e la comunità” trans” ("No al diritto unilaterale di proclamarsi donna"),

il diritto all'aborto (“direi di darsi una possibilità di essere madre, lo Stato l'aiuterà")

 e la genitorialità ("I bambini hanno il diritto di avere il massimo: una mamma e un papà.

L'utero in affitto è la schiavitù del terzo millennio").

A rispondere duramente a queste parole è Porpora Marcasciano attivista storica del Movimento Lgbt italiano e presidente onoraria del Mit – Movimento Identità Trans di Bologna di cui è stata fondatrice:

«Le sue parole fanno capire che viaggia su un binario diverso da quelli che sono le posizioni scientifiche e soprattutto la realtà di milioni di persone nel mondo.

 In opposizione alla scienza e alla vita delle persone.

Loro sono culturalmente e politicamente contrari a queste esperienze di vite significative e non ci sorprende».

E sul concetto di” ideologia gender “Marcasciano spiega a L'Espresso:

 «Invito la Presidente a declinare genere in italiano, forse le farà meno paura. Usarlo in inglese è una furberia che richiama l'ignoto, regala quell'effetto messa in latino e spaventa.

 Si chiama identità di genere, è un concetto scientifico.

Il “gender”, “ideologia gender” o “la teoria del genere” sono categorie polemiche create dal Vaticano, uno spauracchio che minacciava la famiglia.

 Sappiamo che loro, come tutti coloro che erano presenti al Congresso di Verona nel 2019 sono contrari a tutto questo e sappiamo che stanno lavorando sottotraccia.

Ci aspettiamo delle sorprese non piacevoli sulla nostra pelle.

Ma poiché siamo abituate a conquistarcele le cose, resisteremo e risponderemo colpo su colpo».

Sulla stessa linea la presidente nazionale dell'Arcigay Natascia Maesi:

 «Quella che Meloni definisce sommariamente "proclamazione” non è un atto arbitrario, un'alzata d'ingegno, un vezzo o un capriccio.

 È l'affermazione della propria identità di genere. L'identità di genere è la percezione stabile che ogni persona ha di sé.

Tutte le persone hanno una identità di genere che è indipendente dal sesso che ci è stato assegnato alla nascita.

Gli studi di genere - che non sono un'ideologia ma un ambito di studi che tiene assieme punti di vista anche dissimili - non negano i corpi in cui nasciamo, né la differenza tra essi, ma mettono in discussione i ruoli di genere costruiti socialmente in base a questa differenza e i rapporti di potere che ne derivano».

«Rivendichiamo - aggiunge - il diritto all'autodeterminazione di ogni persona, il riconoscimento di tutti i percorsi di affermazione di genere sia quelli che prevedono il ricorso a terapie ormonali ed interventi chirurgici, sia quelli non medicalizzati, perché chi ha una l'identità di genere non conforme alle aspettative sociali non ha una patologia da curare e non è una minaccia per la società, tanto meno per le donne, che sanno benissimo cosa vuol dire pagare il prezzo della propria differenza».

 

«Parole che rovinano la vita delle persone Lgbt».

Non usa mezzi termini Mario Colamarino, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli.

«Ancora una volta la Presidente Meloni parla senza sapere quello che dice.

 Già nel 2021 durante una conferenza stampa nella sede di Fratelli d’Italia, dichiarò di non aver mai capito bene cosa vuol dire il “termine gender” a cui lei stessa fa opposizione.

Infatti è una grande fake news.

 Sulla pelle della comunità trans si continua a fare propaganda non curante degli effetti negativi di disumanizzazione e percezione.

 Grave che questa operazione di disinformazione venga dalla Presidente del Consiglio».

«Non capisco l’insistenza della Presidente Meloni nel paragonare le famiglie omogenitoriali alla sua condizione familiare.

 Suo padre l’ha abbandonata ed è una storia molto triste ma non è la nostra - commenta a L’Espresso Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno, l’associazione di genitori omosessuali - i nostri figli non sono abbandonati da nessuno.

 Parla di diritti dei minori eppure nega ai nostri figli i diritti di tutti gli altri bambini. I bambini hanno diritto al massimo, con noi hanno il massimo.

Li abbiamo fortemente voluti, abbiamo girato il mondo per farli nascere, abbiamo lottato e continuiamo a lottare per farli riconoscere legalmente.

Suo padre legalmente e biologicamente non l’ha tutelata e mi dispiace ma io tutelo mio figlio da quando è nato anche se lo Stato non mi ha riconosciuto come madre.

Meloni dovrebbe adoperarsi per cancellare le discriminazioni dei cittadini, questo è il suo ruolo».

Unica stecca nel coro Arcilesbica, associazione che negli ultimi anni si è sempre distinta per le sue posizioni trans-escludenti, che ha applaudito le parole di Meloni.

 

 

 

IL POLITICAMENTE CORRETTO:

UNA NUOVA BARBARIE DELLA RIFLESSIONE?

 I-Jus.it – Avvocato Gabriele Civello - (Ago. 16, 2021) -  ci dice:

 

Sommario: 1. Considerazioni introduttive ‒ 2. Le cause semiotico-linguistiche del politicamente corretto ‒ 3. Il rapporto tra parola e realtà in Platone ‒ 4. Il rapporto tra parola e realtà in Aristotele ‒ 5. Il rapporto tra parola e realtà in Sant’Agostino ‒ 6. Il pensiero contemporaneo ‒ 7. Considerazioni conclusive ‒ 8. Una piccola proposta di pars construens.

Considerazioni introduttive.

Nel saggio” Politics and the English Language” del 1946, George Orwell (1903-1950) sostiene che il decadimento del linguaggio sia diretta conseguenza del declino politico, economico e culturale della nostra civiltà;

a tal riguardo, il pamphlet riporta alcuni esempi linguistici, dimostrando come l’idioma inglese sia andato incontro a gravi fenomeni di usura o di ipertrofia quali l’utilizzo superfluo di parole esotiche, la ridondanza di sinonimi e, ancor più, la trasformazione di concetti chiarissimi – ma politicamente “scomodi” – in corrispondenti perifrasi eufemistiche apparentemente più garbate ed eleganti, ma in verità equivoche e ricche di ipocrisia.

In tale breve ma densa analisi è racchiusa, secondo i più, una geniale profezia del “politicamente corretto”, il quale si sarebbe fatto strada progressivamente all’interno della civiltà cosiddetta occidentale, sino a divenire oggi, dopo oltre settant’anni dalla morte di Orwell, un fenomeno globale apparentemente inarrestabile.

Il politically correct è, a grandi linee, una prassi sociale – una nuova forma di conformismo, da taluni definito persino come una sorta di religione politica – nata soprattutto negli Stati Uniti d’America e, più in generale, nei paesi anglosassoni oltre che scandinavi, la quale comporta la modificazione o la sostituzione di espressioni linguistiche preesistenti con corrispondenti nuove locuzioni o perifrasi;

ciò al dichiarato fine di evitare che i preesistenti “modi di dire” possano ferire o persino intimidire determinate classi di soggetti, individuati per il sesso o l’orientamento sessuale, lo status di salute fisica o mentale, l’opinione religiosa o filosofica, la provenienza etnica o geografica, l’appartenenza sociale, economica, sindacale o politica, e così via.

Celeberrimi, ad esempio, i casi di sostituzione della parola invalido con disabile e, poi, diversamente abile;

cieco con non vedente;

nero con persona di colore oppure afroamericano;

 spazzìno con operatore ecologico;

bidello con operatore scolastico, eccetera.

Oppure ancora, lasciando solo per un momento l’ambito strettamente linguistico, la rimozione del presepe dalle scuole per non offendere chi non crede in Gesù, l’eliminazione della carne di maiale dalle mense scolastiche o universitarie per non urtare i musulmani, e molti altri casi esemplificativi.

In definitiva, il politicamente corretto sottende il tentativo di edulcorare il linguaggio verbale o non verbale, soprattutto depurandolo da una serie cospicua di curvature assiologiche, nella convinzione che queste ultime potrebbero ferire la sensibilità o l’autostima di taluni; per questa ragione, il citato fenomeno comporta l’adozione eufemistica di espressioni linguistiche o di comportamenti deliberatamente più neutri, anodini, “freddi” e assiologicamente indifferenti (almeno in apparenza), onde scongiurare il predetto effetto potenzialmente offensivo.

Le cause semiotico-linguistiche del “politicamente corretto”.

 Negli ultimi anni, gli studi filosofici, politologici e sociologici sul “politicamente corretto” hanno proliferato in numerosi paesi anglosassoni ed europei, giungendo a individuare l’origine e le cause di tale fenomeno.

Un possibile fattore genetico del “politically correct” potrebbe essere una sorta di “mutazione” alla quale è andato incontro “il pensiero progressista” degli ultimi decenni:

se, fino agli anni ’50/’60, l’attenzione delle sinistre marxiste era pressoché tutta rivolta alle questioni socio-economiche come il superamento dell’eccessiva sperequazione fra le differenti classi sociali, l’accesso di tutti i cittadini, anche i meno abbienti, ai diritti fondamentali quali la salute, il lavoro, la casa, l’istruzione e così via, dagli anni ’60 ad oggi – e ancor più dopo la caduta del “blocco Sovietico” – l’attenzione dei progressisti si è bruscamente traslata dai temi socio-economici a quelli di natura ideologico-intellettuale come, soprattutto, l’iper-ambientalismo, l’iper-animalismo, le battaglie del gender, LGBT, e così via.

Questo è il primo humus nel quale sono nate e si sono sviluppate le maggiori forme di politicamente corretto, fondate sulla cura, spesso maniacale e martellante, nei confronti dei modi di espressione del pensiero, soprattutto nelle sedi pubbliche e istituzionali, piuttosto che del merito delle idee espresse.

Ma un’altra importante causa genetica del politically correct sembra essere una inedita sopraffazione dei contenuti da parte della forma, e dei significati da parte dei significanti:

se la tradizione classica di matrice platonico-aristotelica insegnava che le parole non sono puri flatus vocis, ma rappresentano una forma di segno ancillare rispetto agli “enti reali”, la modernità e soprattutto la c.d. “postmodernità” sono epoche nelle quali tale equilibrio ultra bimillenario si è sfaldato rapidamente.

A tal proposito, la strenua battaglia dell’uomo di oggi contro il realismo filosofico sta comportando un effetto collaterale davvero dirompente:

il verbo, la parola, il logos, non sono più puri strumenti e mezzi per un fine che li trascenda, vale a dire la significazione di una realtà che è, sì, indicata dalla parola ma non è la parola stessa, non si identifica col segno;

al giorno d’oggi, la parola come “segno” tende sempre più ad assumere una sorta di statuto ontologico autonomo, come se il significante stesso potesse fare a meno della realtà oggettiva significata.

Si tratta di un fenomeno semiotico che è stato icasticamente denominato “significante alla deriva”, e che sottende «l’idea che non esistano proprietà autonome della realtà che non siano riducibili al linguaggio», idea che oggi viene chiamata “svolta linguistica” ma che affonda le proprie radici nel nominalismo medievale e, ancor prima, nella concezione sofistica della parola umana.

 

 Il rapporto tra parola e realtà in Platone.

 Sin dai dialoghi di Platone, la filosofia occidentale manifestò una profonda fiducia circa la capacità del logos di farsi effettivo e reale strumento di conoscenza, come dimostra l’adozione stessa del metodo dialogico da parte di Socrate e del suo geniale allievo;

lo stesso pensiero, si afferma nel “Teeteto” e nel “Sofista”, non è altro che un silenzioso colloquio “a parole” dell’anima con se stessa, la quale assomiglia così ad un vero e proprio libro.

 

Nel “Cratilo”, Platone pose già numerose questioni che sarebbero poi state oggetto della scienza semiotica e linguistica contemporanea:

a fronte della tesi sofistica espressa da Ermogene, secondo cui i nomi sarebbero frutto del puro accordo e della convenzione sociale,” Cratilo” (allievo di Eraclito) dimostra che i nomi hanno necessariamente un qualche legame naturale – forte o flebile che sia – con le cose da essi significate e rappresentate, e in particolare con il loro “eidos”, la forma, essenza e idea universale cui i singoli enti individuali partecipano.

Si pone, dunque, già in Platone il problema dei rapporti tra significante e significato, tra segno e cose del mondo, tra physis e nomos della parola, in una prospettiva squisitamente realistica, avente cioè a proprio fulcro la res oggettiva, e non già un “io” puramente soggettivo:

«altro è il nome, altro è invece ciò di cui esso è nome», afferma Socrate affrontando problematicamente sia la tesi di Ermogene sia quella di “Cratilo” (430a), non senza precisare di lì a breve che il modo migliore per conoscere le cose è quello diretto, che pone al centro della episteme la res di cui il “nome” è solo una immagine linguistica («le cose devono essere imparate e ricercate non a partire dai nomi, bensì a partire da se stesse molto più che dai nomi»: 439b).

Posto, tuttavia, che gli enti reali, individuali e concreti, sono soggetti al fenomeno del continuo mutamento-movimento, i nomi rappresentano pur sempre un importante ausilio alla conoscenza, poiché concorrono a rispecchiare la stabilità dell’universale che giace all’interno di ogni ente mondano individuale;

ciò, nella consapevolezza che il medesimo nome può indicare più cose, e che la medesima cosa può avere più nomi, così che tra le due entità non sempre si dà una relazione biunivoca e rigida.

Il discorso «che dice gli enti come sono è vero, mentre quello che li dice come non sono è falso» (385b): non esiste, dunque, per Socrate e per Platone espressione linguistica vera in sé e per sé, poiché il criterio di verità o di falsità di ogni discorso consiste nella conformità o difformità del medesimo rispetto agli enti del mondo in esso significati e rappresentati, per il tramite della entità universale chiamata “idea.

Il rapporto tra parola e realtà in Aristotele.

 Il “De interpretatione” (Περὶ Ἑρμηνείας) di Aristotele è un altro importante snodo nello sviluppo di una teoria linguistica di matrice realistica.

L’incipit dell’opera è particolarmente eloquente e perentorio:

 «I suoni sono i simboli delle affezioni dell’anima e i segni scritti sono i simboli dei suoni»;

a loro volta, le “affezioni dell’anima”, cioè i pensieri o rappresentazioni mentali, si riferiscono alle realtà (pràgmata) di cui sono immagini.

 

Come hanno meglio chiarito gli esegeti, lo Stagirita individua dunque quattro piani teorici oggetto di analisi semiotica:

le cose reali (pràgmata);

 le immagini che di esse l’uomo si fa nel pensiero sotto forma di “affezioni” (patémata), immagini (omoiomata) o pensiero stesso (noema);

 i suoni (phonai) che sono lo specchio dei pensieri, cioè le parole dette o parlate; infine le parole scritte (graphòmena), segno grafico delle parole “sonore”.

Per Aristotele, le sostanze prime sono gli enti individuali o cose reali; via via che ci si allontana da esse, giungendo ai pensieri, alle parole fonetiche e alle parole grafiche, ci si allontana progressivamente dalla realtà oggettiva e naturale, per approdare al piano logico-linguistico, decisamente ancillare rispetto alla prima.

Anche per Aristotele, poi, come per Platone, «il falso e il vero hanno a che fare con la connessione e la divisione»: se il discorso congiunge cose che nella realtà sono congiunte, o separa cose che nella realtà sono effettivamente separate, allora esso è vero; se, invece, esso congiunge ciò che è realmente disgiunto, o disgiunge ciò che è realmente congiunto, allora esso diviene falso.

Il rapporto tra parola e realtà in Sant’Agostino.

 Un altro capolavoro del pensiero semiotico di matrice classica è il “De magistro” di Sant’Agostino, dialogo che secondo i più sarebbe, dopo gli scritti platonico-aristotelici e la parentesi stoica, la più importante fucina nella quale si sarebbe poi plasmata la moderna filosofia del linguaggio.

Colpisce davvero che il santo Autore abbia deciso di trattare il tema del segno linguistico all’interno di un’opera apparentemente focalizzata su tutt’altre questioni teoriche, vale a dire l’educazione e la didattica;

ma la perplessità è presto fugata dallo stesso Agostino:

ogniqualvolta noi facciamo ricorso alla parola orale e scritta, in certo modo, noi stiamo insegnando al nostro interlocutore un determinato concetto o anche solo le nostre idee o volontà («Noi parliamo al fine di insegnare o rammentare»: § 19).

Anche quando noi semplicemente entriamo in un negozio e diciamo che oggi “è una bella giornata di sole”, facciamo ciò per “insegnare”, cioè per rendere edotto il nostro interlocutore che potrà uscire senza ombrello, oppure che noi stessi siamo di buon umore, e così via:

 ogni parola è, dunque, una forma di “insegnamento”, cioè di trasmissione di pensieri, concetti o realtà a taluno che ancora non li conosca o, quantomeno, non li abbia chiari e presenti.

Alla domanda «il segno può essere segno, se non significhi qualcosa?», il dialogo dà risposta fermamente negativa («non potest»: § 3), ribadendo di lì a breve la catena semiotica già scoperta ed esaminata da Platone e Aristotele:

«La parola è segno del nome, e il nome è segno del fiume, e il fiume è segno di una cosa che può vedersi» (§ 9).

 In questo modo, «il linguaggio porge due volti: per l’uno è proteso all’Essere; per l’altro è rivolto agli uomini. Si può quindi compendiare questa parte del dialogo con la sequenza di idee: vivere nel principio della vita beata è vivere socialmente, nella comunicazione tra più soggetti; dunque è parlare; parlare è insegnare. […]

 Il problema agostiniano si può così formulare:

è possibile per l’uomo immettersi nella via dell’Essere?

O anche: può l’uomo comunicare parlando? Insegnare con la parola?».

Le conclusioni di Sant’Agostino sono, come sempre, stringenti: da un lato, «noi non possiamo affatto dialogare, se l’intelletto, udite le parole, non si conduca alle cose di cui le parole sono segni» (§ 22);

dall’altro, «le cose che vengono significate sono da tenere in considerazione più dei segni. […]

La conoscenza in sé, che ci perviene per mezzo di questo segno, [è] da anteporre al segno stesso» (§ 25).

 

Il pensiero contemporaneo.

 Il pensiero moderno e soprattutto quello contemporaneo, a ben vedere, disarticolano progressivamente il nesso ontologico tra segno linguistico e realtà oggettiva, tra significante e significato, portando a estremo compimento i pregiudizi ideologici dell’antica sofistica greca e del nominalismo medievale.

In particolare, la filosofia novecentesca è caratterizzata da quella che è stata definita la “svolta linguistica”:

per Martin Heidegger (1889-1976), il linguaggio è la casa dell’essere (come recita l’incipit della Lettera sull’«umanismo»), quando invece per oltre duemila anni si era pensato l’esatto contrario, vale a dire che l’essere è la casa del linguaggio, nel senso che ogni segno non è mai, assurdamente, “segno a se stesso”, ma è sempre segno di un previo ente, pieno di “essere”.

La concezione heideggeriana del linguaggio parte dal presupposto che «non è l’uomo a disporre del linguaggio, ma viceversa è il linguaggio che dispone dell’uomo»]:

per tale ragione, l’espressione “filosofia del linguaggio” conterrebbe, per Heidegger, un genitivo non già oggettivo – nel senso di una disciplina umana che abbia ad oggetto quella realtà chiamata “linguaggio” – bensì soggettivo, «proprio nel medesimo senso in cui il pensiero dell’evento non è una riflessione sull’evento, bensì un’esperienza filosofante che matura e si attua a partire dall’evento. […]

Il linguaggio è parte integrante dell’evento di appropriazione che si compie fra essere e uomo».

In definitiva, come ben detto da Gianni Vattimo interprete di Heidegger, «la tesi […] che il linguaggio è “la casa dell’essere” è chiarita nel senso che “il linguaggio è la custodia della presenza [cioè dell’essere delle cose come darsi nella presenza], il modo di accedere dell’evento. […]

 Il linguaggio è essenzialmente qualcosa di cui disponiamo e che tuttavia, per un altro verso, dispone di noi;

è consegnato a noi in quanto lo parliamo, ma si appropria di noi in quanto, con le sue strutture, delimita fin dall’inizio il campo della nostra possibile esperienza del mondo.

Solo nel linguaggio le cose ci possono apparire, e solo nel modo in cui esso le lascia apparire.

È la parola che procura l’essere alla cosa”».

Ciò, a ben vedere, rappresenta l’inevitabile corollario del “peccato originale” della filosofia moderna, sin dal pensiero filosofico di Cartesio – ma le radici di tale prospettiva sono ben più antiche –, vale a dire credere nel “Cogito ergo sum”, cioè nella priorità del pensiero rispetto all’essere, quando invece è vera e auto-evidente la proposizione esattamente contraria e speculare, cioè:

Sum ergo cogito, sono, esisto, e quindi (solo in quanto io sono) posso anche pensare.

Per la c.d. “filosofia analitica”, nata nel mondo anglosassone ma oggi costituente il paradigma dominante del pensiero nominalistico contemporaneo, i più scottanti problemi filosofici non sarebbero altro che altrettanti quesiti di natura puramente linguistica;

 e di converso, tutto ciò che non sia suscettibile di essere espresso attraverso proposizioni linguistiche non avrebbe alcuna dignità ontologica, tanto che la maggior parte dei concetti tradizionali del pensiero occidentale come “Dio”, “vero, “bene”, “bello”, “giusto”, non sarebbero che giuochi linguistici privi di contenuto reale, in quanto soggetti a dispute o contraddizioni ritenuti come insanabili (donde la celebre chiusa del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein (1889-1951), che si conclude con la ringhiosa proposizione: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»: § 7).

Per la grammatologia di Jacques Derrida (1930-2004), il percorso del trascendentalismo kantiano e poi husserliano dovrebbe essere portato ad estreme conseguenze:

se il kantismo aveva sostituito la cosa in sé – presunta come inconoscibile – con gli schemi concettuali della conoscenza umana, Derrida intende smantellare gli stessi “concetti”, mostrando che la vera “sostanza prima” è la scrittura o, meglio, la traccia, il segno.

Con Derrida, si passa così dal trascendentale kantiano al trascendentale semiotico, sostenendo addirittura che la vera realtà originaria non sarebbe nemmeno più la parola scritta (che per il pensatore francese sarebbe espressione di logo-centrismo, ego-centrismo ed etno-centrismo occidentale, cioè di violenza metafisica), bensì il puro gesto, il segno non costituito da lettere, la mera “traccia”, che diviene così il vero nuovo “trascendentale” della grammatologia contemporanea, al posto della tradizionale serie tomista “ens, res, aliquid, unum, verum, bonum”.

Per Derrida, in definitiva, la “catena” aristotelica che dalle cose giungeva ai concetti del pensiero, e da questi alle parole orali sino alla parola scritta, dovrebbe essere essenzialmente decostruita e ribaltata, riconoscendo al segno (gramma o grafema) un’autonoma dignità trascendentale rispetto alle parole e a fortiori rispetto alle cose “significate”.

«Bisogna pensare la traccia prima dell’ente», afferma l’Autore della Grammatologia, quasi a dire – parafrasando Heidegger – che Il segno è la casa dell’essere.

A tal proposito, ne “La voce e il fenomeno”, Jacques Derrida illustra in modo particolarmente chiaro la sua idea circa i rapporti tra segno e realtà:

«Domandando “che cosa è il segno in generale?”, si sottomette il problema del segno ad un’intenzione ontologica, si pretende di assegnare alla significazione un posto, fondamentale o regionale, in un’ontologia.

 Un procedimento siffatto sarebbe classico.

Si sottometterebbe il segno alla verità, il linguaggio all’essere, la parola al pensiero e la scrittura alla parola.

 Dire che può esserci una verità del segno in generale, non è forse supporre che il segno non sia la possibilità della verità, non la costituisca, ma si contenti di significarla, di riprodurla, di incarnarla, di iscriverla in modo derivato o di rinviare ad essa?

 Poiché, se il segno precedesse in qualche modo ciò che si chiama la verità o l’essenza, non avrebbe alcun senso parlare della verità o dell’essenza del segno.

 Non si può pensare – e Husserl probabilmente lo ha fatto – che il segno […] non cada sotto la categoria della cosa in generale (Sache), non sia un “ente” sull’essere del quale si verrebbe a porre una domanda?

Il segno non è forse altra cosa che l’ente, non è forse la sola “cosa” che, non essendo una cosa, non cade sotto la domanda “che cosa è”?

Ma al contrario la produce all’occorrenza? Produce così la “filosofia” come dominio dei testi?».

 

 Considerazioni conclusive.

 Dopo questa breve veduta panoramica e grandangolare sui rapporti tra linguaggio e realtà nel pensiero occidentale, possiamo rassegnare ora una piccola conclusione interlocutoria, bisognosa come tale di futuri e ulteriori approfondimenti critici.

Il fenomeno del “politicamente corretto”, a ben vedere, rappresenta l’estremo esito del menzionato percorso ideologico, nel corso del quale l’uomo occidentale ha via via cercato di autonomizzare il significante dal significato, il segno linguistico dalle cose reali da esso indicate:

una volta affermato che la parola dell’uomo è dotata di vita propria, di una propria autonomia ontologica rispetto alle cose reali del mondo, il politicamente corretto diviene una conseguenza pressoché necessaria e inevitabile.

 

Se ciò che conta non sono più gli enti reali, nella loro sostanzialità oggettiva e nei loro rispettivi accidenti di pertinenza, bensì le parole dell’uomo, quasi “parole in libertà”, è inevitabile che l’attenzione si rivolga in misura pressoché esclusiva ai modi di manifestazione del pensiero, piuttosto che agli oggetti reali del pensare: da ciò nasce l’attenzione quasi maniacale verso i toni e gli strumenti di trasmissione delle idee, prima ancora che verso i contenuti delle idee medesime; e la verità del pensiero non si misura più nella corrispondenza o difformità dello stesso rispetto alla realtà, quanto nel grado di approvazione o disapprovazione sociale di una determinata linea ideologica.

Il riduzionismo è, così, dietro l’angolo nel mondo del politicamente corretto, con il conseguente pericolo di perdere ogni contatto con la realtà oggettiva delle cose:

non si affrontano più i grandi problemi e le grandi questioni della vita e dell’universo con amore per la verità, ma si dà assoluta prevalenza a ciò che gli altri penseranno di noi e del nostro modo di vedere il mondo, secondo la logica del conformismo-narcisismo tipica dell’era contemporanea.

In tal modo, la società del politicamente corretto non è più interessata ai contenuti razionali del nostro pensiero, ma è subito pronta a incasellare – con il tipico “argumentum ad hominem” – la nostra persona all’interno di categorie stereotipate come il progressista, il razzista, il passatista, il populista, il sessista, il sovranista, il maschilista, il femminista, il reazionario, senza più alcuna onesta attenzione verso l’intrinseca razionalità o irrazionalità di un determinato contenuto di pensiero.

Una piccola proposta di “pars construens”

 Probabilmente, il più efficace rimedio alla deriva del “politically correct” consiste in un rinnovato rapporto tra parole, pensieri e cose del mondo:

se il politicamente corretto appare come l’estremo esito di un percorso ideologico teso a smembrare il nesso ontologico tra la realtà concreta del mondo, i pensieri dell’uomo e le rappresentazioni linguistiche e poi grafiche degli stessi, probabilmente il primo farmaco contro tale deriva è costituito dalla riscoperta dell’intimo legame razionale che incardina la parola al pensiero, e il pensiero alla realtà.

Inoltre, se la realtà – come ci insegna l’”empeiria” prim’ancora della pura razionalità – è variegata, differente, altra, cioè fatta dall’intreccio dialettico tra identità e differenza, unità e molteplicità, ogni opzione ideologica elitaria, la quale pretenda di neutralizzare a tavolino o in laboratorio tale dato naturale è probabilmente destinata a produrre effetti collaterali ben peggiori rispetto ai mali che, in ipotesi, ci si proponeva di curare.

Non è detto, infatti, che l’indifferentismo valoriale generi una vera pace sociale, come intende invece affermare un certo irenismo neutralista;

anzi, l’esperienza concreta sembra dimostrare l’esatto contrario, e cioè che il neutralismo può, tutt’al più, creare situazioni di apparente “silenzio sociale”, il quale però è solo una effimera crosta sotto la quale continuano inevitabilmente a ribollire proprio quelle differenze e quelle alterità che il protocollo convenzionale si proponeva, per l’appunto, di occultare, senza evidentemente potervi riuscire.

A ben vedere, il rispetto reciproco fra le persone, le culture, le religioni e le nazioni richiede necessariamente uno studio razionale della realtà e un profondo spirito di carità e di sacrificio, il quale deve essere continuo e ininterrotto, poiché altrettanto ininterrotta e continua è l’evoluzione dei tempi e dei popoli;

viceversa, “il politicamente corretto” rappresenta spesso una forma di paradossale riduzionismo il quale, sorto al dichiarato fine di aumentare il rispetto e la tolleranza fra le persone, sembra condurre a forme ancora più sottili e spietate di indifferenza, la quale è anticamera dell’incuria e di sempre nuove forme di disprezzo.

 

 

 

Il disagio di vivere sotto

l’egemonia demenziale.

Infosannio.com - Marcello Veneziani – (18- 3 -2023) – ci dice:

 

 Ma davvero un manager di Stato deve dimettersi dal suo incarico non per incapacità, disonestà, abuso di potere ma per aver usato una citazione di Mussolini in altro contesto, non certo per farne l’apologia?

Ma davvero un dipendente pubblico deve essere licenziato, secondo la Corte di Cassazione, non per incapacità, disonestà, abuso di potere, assenteismo, violenza o altro ma perché ha chiamato “lesbica” una sua collega?

Ma davvero sono più delinquenti coloro che in metro non borseggiano, non derubano il prossimo, non lo aggrediscono, ma filmano e denunciano i ladri?

Ma davvero merita provvedimenti disciplinari un dipendente che avverte i passeggeri dai microfoni della metro che a bordo ci sono zingari che stanno rubando?

 (Avrebbero dovuto dire: esponenti della cultura rom stanno tenendo corsi di redistribuzione dei redditi).

 Potrei andare all’infinito, dirvi di carriere onorate ma mozzate solo da una parola sconveniente, atleti di valore cancellati perché una volta hanno usato un linguaggio non conforme, o solo una parolina oggi proibita, e tanto altro.

Si sono bevuti il cervello.

Non è solo un delirio ideologico questo strapotere del “correttivo” (variante moralista e punitiva del collettivo); ma diventa sanzione, discriminazione, persecuzione.

 Puoi avere avuto una vita esemplare, una carriera fondata su merito, fatica e capacità, puoi preoccuparti dei diritti, della libertà e della sicurezza dei cittadini; ma se dici quella parola vietata, se usi quell’espressione proibita, sei entrato come nel gioco dell’oca nella casella fatale e la fortuna come si diceva anticamente in quel gioco “‘nzerra a’porta”, chiude per sempre ogni tua aspettativa, ogni tuo diritto, ogni tuo requisito.

Poi c’è sempre un” Cazzullo qualunque” che dice: ma non c’è nessuna egemonia culturale, è una fandonia.

È vero, c’è un’egemonia demenziale, che è infinitamente peggio;

 ha perso i suoi residui caratteri culturali, tramite l’ideologia è arrivata al suo stadio peggiore, quello che mortifica l’intelligenza, il buon senso, la percezione della realtà.

Ed è così pervasiva che non ti accorgi nemmeno che è una gabbia ideologica, una lente deformante.

L’altra sera avevo voglia di andare al cinema, ci andavo spesso, almeno un paio di volte a settimana.

Ho visto le novità nelle sale: non c’era un film che non trattasse di quei temi obbligati del “correttivo”, film sui gender, sulla storia riscritta in chiave femminista, sulle storie omotrans, e se trattano di storia, sul nazismo e dintorni. Variante, i migranti.

 Perfino i film d’animazione si vanno adeguando, tra un po’ pure nei thriller ci sarà l’obbligo assoluto che la vittima sia nero, gay, trans, migrante, e l’assassinio sia il maschio bianco, fascista, etero, conservatore, sessista e omofobo.

Devi sperare in qualche film asiatico, o della periferia estrema del mondo per vedere qualcosa di diverso, ma fino a un certo punto, perché se entrano nel circuito globale devono avere almeno qualche ingrediente d’obbligo nella confezione.

 Alla fine non sono andato al cinema.

 E quando l’ho scritto nei social, oltre a ricordarmi che pure le serie che si vedono a casa rispettano gli stessi ingredienti e hanno gli stessi indirizzi, molti mi hanno detto, gloriandosene, che loro al cinema non ci vanno più.

Va bene, ma non c’è nessun orgoglio in questa rinuncia, è una sconfitta, una mutilazione della libertà e della cultura, un cedere a chi usa il suo potere in modo demenziale ed infame.

Non si può continuamente sottrarsi, rinunciare, escludersi perché altri somministrano la loro pappa ideologico-correttiva.

 Ed è superfluo aggiungere, ma è doveroso farlo, che il “lato b” di questa situazione è la sconsolante assenza di alternative, di culture, movimenti e produzioni diverse.

Il carosello è sempre a senso unico, come fu a Sanremo (egemonia demenziale, anzi monopolio coatto).

Non ne parlo più per denunciare questa egemonia e nemmeno per farne l’analisi; ma perché avverto crescente un disagio di vivere, in questo mondo, a queste condizioni

. E so già che qualunque testimonianza, opera o riflessione in senso inverso non lascerà traccia, non verrà presa in considerazione, sarà prima o poi cancellata dal diario di bordo dei nostri giorni.

 Così il dissenso muta in defezione e la defezione in rabbia.

Ma rabbia impotente, a giudicare dagli esiti di questa denuncia.

 Rabbia impotente, se si considera che perfino un chiaro e preciso orientamento, opposto a questo calderone, ha vinto le elezioni e governa in paese.

 E sa già che nulla potrà fare per cambiare le cose e almeno favorire che si affianchi una chiave opposta o diversa di lettura del mondo rispetto a quella dominante e soffocante.

Qualcuno obbietta:

 si vede che sta bene alla gente tutto questo, se nulla impedisce che si affermi, e così in fretta.

No, signori, non è che sta bene alla gente, il problema è che da una parte c’è un potere, una mafia, una cappa e dall’altra ci sono cittadini sfusi, perduti nella loro vita di singoli, impotenti.

E il martellamento è così insistente, quotidiano, ossessivo che alla fine abbozzi, accetti- sindrome di Stoccolma, rassegnazione, tortura cinese goccia a goccia, farsi andar bene tutto per sopravvivere – e alla fine magari pensi che la realtà sia davvero il contrario di quel che vedono i tuoi occhi e percepisce la tua mente.

E la “cancel culture “applicata a tanti ambiti, che pure viene respinta da gran parte della gente, che la sente come falsa, dispotica, innaturale?

 Ma alla lunga è più facile cancellare che costruire o conservare, è più facile ignorare che ricordare;

 basta un colpo di spugna, un reset, un tasto che cancella e vince l’ignoranza unita all’amnesia.

Per costruire e per salvaguardare, invece, ci vuole pazienza, coraggio, capacità e creatività di inventare – pezzo su pezzo una cultura – qualcosa che necessita di cura e di manutenzione.

 No, è molto più facile liberarsene, disfarsi, cancellare.

Per questo confesso il disagio di vivere in un mondo del genere, senza verità.

(“La Verità”, Marcello Veneziani)

 

 

 

 

Popolo contro élites.

La battaglia di Parigi.

Corriere.it - Aldo Cazzullo e Pietro Mancini – (19-3-2023) – ci dicono:

Caro Aldo,

Macron voleva rivitalizzare la democrazia, ma all’Eliseo ha concentrato il potere e ha accentuato la sua personificazione.

L’uso arbitrario dell’articolo 49,3 per far passare la riforma delle pensioni si sta rivelando un fallimento.

Il voto sulla mozione di sfiducia è atteso per domani.

 Anche se “Rn” di Marine Le Pen e “Nupes” di Mélenchon mettessero insieme i loro voti, non sarebbero sufficienti per ottenere la maggioranza, 289.

La destra e la sinistra radicale potrebbero convergere sulla mozione di un piccolo gruppo moderato, “Liot”, che attirerebbe quei deputati “Républicains” tentati dall’affondare il governo di “Madame Borne”.

(Pietro Mancini)

 

Caro Pietro,

Anche altri lettori hanno chiesto notizie sulla rivolta che infiamma la Francia (in senso tecnico: dopo gli incendi delle due ultime notti, la polizia ha vietato le manifestazioni in place de la Concorde e sugli ChampsElysées).

Come ci siamo detti una decina di giorni fa, la riforma delle pensioni è il punto di attrito maggiore tra élites e popolo, tra establishment e lavoratori, tra tecnocrati ed elettori.

 Il punto è che gli esponenti delle élites hanno lavori interessanti e ben pagati, e non avvertono nessuna necessità di andare in pensione, anzi restano ricchi e potenti anche in tarda età;

 i tecnocrati avranno anche le loro ragioni, nell’elaborare studi e piani che dimostrano come il sistema pensionistico con l’allungamento della vita, i contratti precari, il calo demografico non sia sostenibile;

 ma molti elettori hanno lavori duri e malpagati, e non vogliono saperne di sacrificarsi per gli altri.

 Sulle pensioni Chirac perse le elezioni legislative del 1997, e dovette coabitare per cinque anni con il socialista Jospin.

Se domani dovesse andare sotto nel voto di sfiducia all’Assemblea nazionale, Macron non sarebbe obbligato a indire nuove elezioni; potrebbe varare un nuovo governo.

Ma per lui sarebbe un fallimento drammatico.

 In Parlamento, la partita è in mano ai “Républicains”, la destra moderata:

è molto difficile che accetti di sommarsi a lepenisti e melanchonisti e gettare la Francia nel caos;

da una battaglia elettorale tra estrema destra ed estrema sinistra i repubblicani resterebbero stritolati;

ma il suo leader, Eric Ciotti, è debole, e non controlla i suoi parlamentari.

Nel Paese, le ragioni del riformismo macroniano sono oggi minoritarie.

 I manifestanti hanno ancora consenso nell’opinione pubblica, e il presidente non è mai stato così impopolare.

Ma quando la protesta diventa violenta, quando prende di mira la polizia, finisce per perdere consenso;

con i Gilet gialli è accaduto così.

(Aldo Cazzullo)

 

 

 

 

L’Ucraina, le contraddizioni dell’Occidente

e il nuovo ordine mondiale.

Micromega.net - Cinzia Sciuto e Vittorio Emanuele Parsi – (1° luglio 2022) – ci dicono:

Al recente vertice della Nato di Madrid è stato messo nero su bianco che “la Federazione Russa è la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati e alla pace e stabilità nell’area euro-atlantica”.

 Che giudizio di queste prese di posizione?

Mi pare si possa dire che è la presa d’atto che il 24 febbraio la Russia ha scatenato una guerra calda, portando il mondo in una nuova guerra fredda.

 Un’alleanza come la Nato, sopravvissuta oltre vent’anni fa all’estinzione del suo nemico istituzionale, ha rischiato di essere travolta dall’erede di quel nemico, la Russia di Putin.

 Questo è il rischio che è stato corso, e che è stato sventato.

La definizione della Russia come principale minaccia, e direi minaccia esistenziale, alla sicurezza delle democrazie occidentali è semplicemente la registrazione di come la Russia si comporta ormai da anni, in maniera diretta dal 2014, ma in maniera indiretta dal 2006.

Se la durezza delle parole usate nei confronti della Russia era prevedibile, molti osservatori sono rimasti sopresi dai toni usati nei confronti della Cina, espressamente indicata come una delle forze che “sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori e cercano di minare l’ordine internazionale basato sulle regole”.

La Nato è un’alleanza militare e in questo momento non si può dire che la Cina rappresenti una minaccia sul piano militare per i Paesi alleati.

Questi toni non rischiano di esasperare le tensioni geopolitiche?

Penso sia stato importante avere preso una posizione molto netta anche nei confronti della Cina, qualificandola come uno sfidante.

 E questo sia per l’atteggiamento che la Cina ha avuto recentemente sulla questione della guerra in Ucraina sia più in generale per un atteggiamento che persegue da diversi anni.

Mi spiego.

Sul primo punto, nonostante le ambiguità e nonostante Putin non abbia avuto da Xi Jinping tutto il sostegno che chiedeva, è innegabile che se non ci fosse stato una sorta di disco verde da parte del leader cinese a Putin le cose in questi mesi sarebbero andate molto diversamente.

Per cui la Cina ha una responsabilità diretta nell’attuale situazione.

Più in generale poi la Cina, con Xi in particolar modo e soprattutto negli anni più recenti, è passata da un atteggiamento di richiesta di revisione delle relazioni internazionali in termini maggiormente multilaterali anzi, meglio, di una sorta di bipolarismo sino-americano, a una politica di aperto attacco alla centralità occidentale.

Ora, con tutte le enormi contraddizioni che l’Occidente si porta appresso, francamente le alternative proposte fino a questo momento sono chiaramente peggiori.

 Nelle agende alternative proposte dai Paesi autoritari non c’è nessuno spazio per la democrazia, l’eguaglianza di genere, la lotta effettiva alle diseguaglianze, la protezione e l’avanzamento dei diritti.

Ma la Nato non è un’alleanza politica bensì militare e al suo interno ci sono anche Paesi non democratici, penso per esempio alla Turchia.

In realtà la Turchia è l’unico Paese Nato a non essere una democrazia, e all’epoca era stato ammesso proprio per evitare che finisse nella sfera di influenza della Russia.

 Era il 1952 e sulla Turchia si esercitavano pressioni molto forti.

 Detto questo, penso che il punto debole sia della Nato sia dell’Unione Europea sia proprio quello dei criteri per la membership dei Paesi, molto criticabili dal punto di vista della democrazia.

Rimanendo alla Turchia, come legge la decisione di togliere il veto alla richiesta di ingresso di Svezia e Finlandia?

Erdoğan ha cercato di massimizzare un potere di veto che sapeva benissimo essere del tutto temporaneo, destinato a non essere esercitato in maniera permanente.

Ha portato a casa alcune forniture militari che chiedeva da tempo e la promessa che Svezia e Finlandia non saranno più quella terra d’asilo che sono state finora per i militanti curdi.

Che quindi sono stati trattati come merce di scambio in questa vicenda…

A livello politico certamente sì, come purtroppo è accaduto svariate volte in questi anni.

Ma ricordiamo che Svezia e Finlandia sono degli Stati di diritto, le decisioni politiche contano fino a un certo punto, ci sono poi dei giudici che devono decidere sulle eventuali estradizioni

 E io non sono così sicuro che ne vedremo molte.

 A Erdoğan interessava avere un messaggio politico da dare in pasto alla sua opinione pubblica.

In ogni caso quei valori “occidentali” di cui parlava prima non ci fanno una gran bella figura…

Non c’è alcun dubbio, e sono esattamente quelle contraddizioni e ambiguità di cui parlavo.

 Vede, quando parliamo di Occidente parliamo in realtà di due cose diverse.

Da un lato ci riferiamo al ruolo di “trascinamento” che l’Occidente ha avuto nel mondo negli ultimi 5-600 anni, cioè grossomodo da quella che chiamiamo l’età delle scoperte, che ha dato all’Occidente un enorme potere mettendo le basi per la nascita e il consolidamento della forma Stato.

 Poi c’è un secondo Occidente, inteso come l’insieme dei regimi democratici che sono in pace perpetua tra loro a partire dal secondo dopoguerra.

Tra questi due sensi di Occidente ci sono certamente continuità, eredità eccetera ma ci sono anche tensioni e discontinuità.

Se chi sta fuori dall’Occidente, comprensibilmente, ha in mente sostanzialmente il primo, guai se noi che stiamo dentro avessimo in mente esclusivamente il secondo perché le contraddizioni ci sono e noi dobbiamo lavorare per superarle:

la tensione tra democrazia e mercato, la spinta dei politici a trasformarsi in oligarchie, le diseguaglianze eccetera.

Ma senza democrazia non c’è neanche l’agenda politica per affrontare questi problemi.

Sono le questioni di cui parla nel suo ultimo lavoro, “Titanic”. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale (il Mulino, 2022).

Sì, due terzi del libro sono dedicati a una puntuale autocritica della trasformazione dell’Occidente a seguito della cosiddetta globalizzazione neoliberale, neoconservatrice, ordoliberale, e alla necessità di rimettere in equilibrio l’agenda progressista con la crescita economica.

Un terzo del libro è dedicato alle minacce esterne.

Ecco, quest’anno una di queste minacce esterne si è palesata in maniera eclatante.

Guardiamola allora più da vicino questa minaccia.

Negli ultimi giorni, con il ritiro della Russia dall’Isola dei serpenti, che sembra preludere a una rinuncia alla conquista di Odessa, pare ci troviamo di fronte all’ennesimo cambio di strategia di Putin, è d’accordo con questa lettura?

Nessuno di noi ha accesso ai piani militari russi e quindi ci facciamo un’idea da quello che la Russia fa.

Ecco, la sensazione è che stia continuando a ridefinire obiettivi politici e quindi anche militari.

Prima pensava di risolvere la questione con gli ucraini semplicemente minacciando l’uso della forza, poi applicando appena un po’ di forza pensando che nessuno la contrastasse, poi sembrava volersi concentrare sul Donbass, poi invece anche chiudere il Mar d’Azov e poi il Mar Nero…

In questo momento la strategia sembrerebbe: impediamo agli ucraini di usare il Mar Nero.

Da tutti questi cambi di strategia mi pare si possa dire con chiarezza che la Russia non sia in grado di sostenere un conflitto di logoramento che duri mesi. Non c’è dubbio che gli ucraini hanno molte meno risorse umane…

Problema che non si risolverebbe inviando ancora più armi…

Beh, dipende dalle armi.

Perché più sono sofisticate meno risorse umane servono per usarle.

È proprio per questo che gli ucraini chiedono armi moderne ed efficienti.

 In ogni caso gli ucraini, pur essendo in numero nettamente inferiore, hanno una capacità di combattimento che invece i russi non hanno.

Quando un ucraino muore la famiglia sa perché è morto.

Ma i soldati russi per cosa muoiono?

A oggi sono già 35mila i soldati russi morti in Ucraina: una cifra spaventosa per una guerra di pochi mesi.

Pensiamo che gli americani in vent’anni hanno perso 3.500 soldati.

Chi glielo spiega alle famiglie russe per cosa sono morti i loro figli?

Aggiungiamo a questo la pessima organizzazione dell’esercito russo e avremo come risultato che la Russia non sarà in grado di condurre ancora a lungo questa guerra.

Ma non possiamo neanche dire che l’Ucraina è in grado di vincerla…

Dipende cosa intendiamo per “vittoria”.

Vincere è una questione politica.

 I talebani in Afghanistan hanno vinto, ci hanno messo vent’anni ma il fatto di non aver ceduto ha consentito loro, vent’anni dopo, di dire che hanno vinto, a prescindere dal numero di morti e dalla devastazione del Paese.

A meno che l’Ucraina e l’Occidente che la sostiene non lo vogliano, la Russia non è nelle condizioni di vincere politicamente questa guerra.

Posto che sono gli ucraini a decidere a quali condizioni accedere a una tregua, penso che il respingimento della Russia sostanzialmente alle frontiere del 24 febbraio – anche se con delle eccezioni perché non penso che sarà possibile, per esempio, riconquistare Mariupol – sia una ragionevole condizione per potersi sedere e negoziare.

In questo quadro che significato ha la decisione del Consiglio europeo di accettare la candidatura dell’Ucraina a Paese membro dell’Unione Europea?

Innanzitutto, dà una risposta chiara alla richiesta ucraina che già dai tempi di Euromajdan, ma anche da prima, aveva indicato chiaramente la sua volontà di orientarsi verso l’Ue.

Questa decisione significa dunque che si riprende quel percorso e si garantisce agli ucraini che quel percorso non gli può essere nuovamente scippato, come fu dopo Euromajdan.

È dunque un segnale forte, che significa anche riconoscere che gli ucraini stanno combattendo anche per noi.

 

 

 

La guerra ucraina e

il nuovo ordine mondiale.

Lacittafutura.it - Marco Pondrelli – (16/12/2022) – ci dice: 

 

I recenti drammatici eventi ucraini rappresentano lo scontro fra l’imperialismo USA in declino che vuole imporre con la forza militare – unica sua forza rimasta – il suo dominio incontrastato sul pianeta, e la prospettiva di un nuovo ordine mondiale basato sulla multipolarità, promossa dalle lotte in atto in moltissimi Paesi non allineati e antimperialisti, e sostenuta in primo luogo dalla Cina.

Le vere cause che hanno portato all’avvio dell’operazione militare speciale del 24 febbraio sono sotto gli occhi di tutti, chi in questi mesi ha voluto approfondire lo ha potuto fare basandosi su molteplici fonti (non mainstream ma facilmente reperibili).

Chi continua ad accusare la Russia di tutti i mali e chi anche a sinistra crede nelle favolette della stampa italiana lo fa non per mancanza di informazioni ma per scelta.

È quindi inutile ripercorrere per l’ennesima volta le tappe di questo conflitto, mentre è più interessante capire come si stanno modificando gli equilibri internazionali in conseguenza degli eventi ucraini.

 Questa guerra ha implicazioni che vanno molto al di là della regione in cui viene combattuta.

 Per analizzare bene quello che sta succedendo occorre guardare agli attori più importanti e a come si stanno muovendo in questo scenario a partire dagli Stati Uniti d’America.

Gli USA hanno un ruolo di primo piano in questa guerra, per loro l’Ucraina ha un’importanza fondamentale nel contenimento della Russia.

 Per staccare Russia e Ucraina hanno fomentato le divisioni di quest’ultima; fino al 2014 l’Ucraina viveva su un fragilissimo equilibrio che riusciva a tenere assieme un popolo profondamente diviso.

 L’aut aut che l’Unione Europea pose, dietro il quale si riconosce la mano americana, aveva lo scopo di provocare lo scontro interno per produrre l’intervento russo.

L’obiettivo di Washington era chiaro, staccare Russia ed Europa; i rapporti sempre più stretti fra Mosca e Berlino, culminati nella costruzione del North Stream, avevano preoccupato gli strateghi statunitensi.

Un asse fra Germania (ed Europa) e Russia per gli USA ha sempre rappresentato un pericolo, sia se esso fosse il prodotto di una conquista militare di una parte sull’altra come nelle due guerre mondiali, sia se fosse figlio di accordi di natura commerciale.

 Il primo obiettivo di questa guerra è l’Europa e che i decisori europei non lo capiscano o più probabilmente non abbiano la forza di opporvisi dimostra come il futuro di questa parte di mondo si stia colorando a tinte fosche.

Se da una parte l’obiettivo statunitense è quello di staccare Europa e Russia, dall’altro Washington sa che per l’egemonia mondiale nel XXI secolo sarà fondamentale lo scontro con la Cina in particolare nell’Indo-Pacifico.

Colpire la Russia vuol dire indebolire l’asse sempre più stretto fra Mosca e Pechino, se la Russia tornasse agli anni ’90 o se addirittura venisse smembrata come è nei desideri della Casa Bianca, per gli USA sarebbe più facile affrontare la Cina.

I limiti di questi due obiettivi sono che essi sono in contraddizione l’uno con l’altro: una Russia indebolita a cui venisse imposto un rallentamento nei rapporti con Pechino sarebbe portata a guardare verso l’Europa.

D’altra parte va ricordato che anche Eltsin si oppose all’espansione a est della NATO;

questo significa, ed è quello che l’Occidente non vuole e non riesce a capire, che ci sono interessi strategici russi che vanno al di là del nome del presidente.

 Non prendere atto di questa semplice verità vuol dire consegnare i rapporti fra Russia ed Europa allo scontro anziché alla cooperazione.

Questa aggressività dell’Impero in declino trova le sue radici nella crisi interna degli USA, che vivono una crisi profonda, una crisi economica, politica, sociale e anche culturale.

Gli Stati Uniti sono un Paese con più di 100 milioni di poveri, con la più grande popolazione carceraria del mondo, dagli anni ’80 la manifattura è stata smantellata e oggi l’economia vive su complessi strumenti finanziari che hanno sempre più slegato l’economia nominale da quella reale.

Dalla crisi dell’URSS gli USA hanno modificato la loro politica, incapaci di esercitare un’egemonia globale hanno sempre più spostato la loro azione sul piano militare.

Dagli anni ’90 la politica estera statunitense è stata costituita da interventi regionali che avevano l’obiettivo di creare aree di destabilizzazione, questo era lo strumento scelto per sostenere il mondo unipolare.

Se l’idea di mondo unipolare poteva essere accettata negli anni ’90 (ma già allora era anacronistica) oggi non è più nello stato delle cose, dovrebbero capirlo sia gli Stati Uniti che i loro vassalli sparsi per il mondo.

Se gli USA sono l’Impero in declino, la Russia ha fermato la sua crisi avviata con la fine dell’Unione Sovietica.

 A rimpiangere Eltsin e quella Russia sono soprattutto gli occidentali, i quali non hanno mai conosciuto veramente un Paese che dopo il crollo dell’URSS ha visto abbassarsi la vita media, aumentare la povertà e l’insicurezza sociale.

La Russia in quel periodo era comandata (non governata) dagli oligarchi i quali spesso e volentieri, a partire dall’idolo dell’Occidente Khodorkovsky, regolavano i propri affari in modo brutale.

Putin ha rimesso ordine all’interno del Paese, poi ha ricostruito il ruolo e il prestigio internazionale della Russia.

Rimettere ordine all’interno ha voluto dire limitare il potere politico degli oligarchi, ai quali è stato consentito di mantenere le loro ricchezze, benché accumulate in modi discutibili, rinunciando però alla propria influenza politica.

Allo stesso tempo venne combattuto il terrorismo del Caucaso (Cecenia e Dagestan) e vennero date risposte sociali incisive sulla povertà e sulla disoccupazione.

La prima fase del nuovo periodo post-eltsiniano fu dedicata a salvare la Russia, successivamente Putin ne rilanciò il ruolo internazionale;

alla Conferenza di Monaco del 2007 Putin intervenne duramente per criticare l’impostazione unilaterale degli Stati Uniti.

Doveva essere chiaro che il periodo della Russia che accettava l’espansione della NATO a est o la guerra in Jugoslavia era definitivamente tramontato, dopo il colpo di Stato del 2014 Mosca ha posto due temi che sono ancora oggi le sue linee irrinunciabili.

 Da una parte si chiede la sicurezza delle popolazioni russofone e dall’altro la neutralità dell’Ucraina con la non adesione alla NATO.

Gli accordi di Minsk andavano in questa direzione e rassicuravano Mosca, se non sono stati attuati è perché una parte interna all’Ucraina, i battaglioni neonazisti, e una esterna, gli Stati Uniti, li hanno boicottati.

Recentemente la Merkel ha dichiarato che questi accordi erano stati sottoscritti solo per permettere a Kiev di guadagnare tempo e ricostituire il proprio esercito: queste dichiarazioni non solo fanno luce su chi ha veramente voluto la guerra, ma chiariscono anche che l’Occidente (leggasi la NATO e gli USA) non è un interlocutore affidabile.

A fronte di una Russia che persegue un obiettivo di sicurezza, l’Europa è stata incapace di articolare una propria posizione di politica estera.

Premesso che la politica estera non è una materia che è stata devoluta a Bruxelles ma rimane diretta dai singoli Stati, ci si poteva aspettare una scelta di maggiore autonomia.

 L’Europa, dietro una facciata di unanimità, si è dimostrata divisa con una serie di Stati, quelli che Rumsfeld definì la nuova Europa, in prima fila nella guerra.

 In particolare la Polonia sta combattendo una guerra che non è solo contro la Russia ma anche contro le Germania.

La vecchia Europa, nonostante i distinguo e i mal di pancia, non è riuscita a costruire una prospettiva di mediazione.

Questa è una guerra fatta contro l’Europa che l’Europa sta combattendo contro sé stessa;

 nel nuovo ordine mondiale che nascerà i Paesi europei si sono consegnati agli Stati Uniti.

In Italia la classe dirigente uscita dalla Resistenza che, anche sul versante democristiano, era riuscita a difendere un briciolo di sovranità nazionale è solo un ricordo, il dibattito oggi è fra chi è l’alleato più affidabile per Washington.

Quando uscì l’audio di Berlusconi nel quale venivano espressi giudizi poco lusinghieri su Zelensky, i politici italiani, da Letta alla Meloni, da Conte a Fratoianni, hanno fatto a gara per attaccare l’anti atlantismo del Cavaliere.

In questo quadro, il dato più importante che emerge è che l’asse fra Russia e Cina è saldo.

Certamente Pechino non vive bene un conflitto che sta precipitando l’Europa, un importante partner economico, in una preoccupante crisi economica, ma nonostante questo non arriverà mai a rompere con Mosca.

Pesa innanzitutto su questa scelta la cooperazione economica fra un Paese ricco di materie prime e un Paese energivoro.

L’asse fra i due paesi non si spiega però solo con la cooperazione economico-commerciale;

questa vicinanza è tale perché ha un avversario comune: gli Stati Uniti.

Russia e Cina vogliono un mondo multipolare che limiti lo strapotere di Washington.

In quest’ottica emerge il ruolo dell’India sempre più distante dagli Stati Uniti, un dato a cui è stato dato scarso risalto ma che è forse l’elemento di maggiore cambiamento portato da questa crisi.

Conclusioni.

Nonostante le miserie nostrane il mondo sta cambiando, e il modello unipolare statunitense sta tramontando.

Questa guerra è il primo atto del nuovo ordine mondiale.

 Una nuova Jalta è oggi una necessità, ben sapendo che parlare di nuova Jalta non vuol dire pensare a un mondo fatto di cooperazione e pace.

Così come non lo è stato fino all’89 non lo sarà nemmeno nel prossimo futuro. Quello che si prefigura è un sistema multipolare in cui il diritto internazionale torni a essere parte integrante delle relazioni fra Stati.

Questo vorrà dire che l’ONU dovrà ritrovare una sua centralità, e per farlo sarà necessaria una trasformazione che prenda atto di come il mondo stia cambiando.

Basti pensare, ma è solo un esempio, a quello che sta succedendo in Africa, dove l’imperialismo francese viene cacciato da una lotta di popolo che innalza nelle sue manifestazioni le fotografie di Xi Jinping e Putin.

In Italia si può guardare a quello che succede in Africa con un misto di accuse di neocolonialismo rivolto alla Cina e di razzismo verso gli africani incapaci di adottare il nostro sistema, ma la realtà è che il ruolo russo – ma soprattutto la crescita cinese – stanno ponendo le basi per un nuovo ordine mondiale.

 

 

 

Oligarchi.

Laterza.it – (10-12-2022) - Jacopo Iacoboni - Gianluca Paolucci – ci dicono:

 

Come gli amici di Putin stanno comprando l'Italia.

Soldi, molti soldi, traffici opachi, storie di spionaggio.

 Un viaggio nel potere segreto degli oligarchi, un gruppo ristretto di persone spesso legate a Putin e connesse tra loro che ha conquistato un’influenza in Italia decisamente allarmante.

Secondo studi recenti la Russia ha la quota più alta al mondo di dark money, soldi opachi detenuti all’estero: un trilione di dollari.

Si stima che un quarto di questi sia collegato a Vladimir Putin e a suoi stretti associati, e il Cremlino sembra sempre più capace di pilotare operazioni aggressive.

 L’Italia è uno dei pezzi di questo grande gioco: gli oligarchi russi in Italia investono e comprano grandi proprietà.

Agiscono portando avanti attività che sono a volte al confine con lo spionaggio.

Il libro ricostruisce la loro rete di rapporti in Italia: troveremo i rapporti dei servizi segreti italiani sugli investimenti fatti per sostenere operazioni di influenza politica, i passaggi in Italia degli avvelenatori di Skripal, la ricostruzione puntuale dei giganteschi flussi di denaro dalla Russia verso il nostro paese.

 Così come le relazioni e le onorificenze della Repubblica a personaggi sanzionati da Usa e Ue e le timidezze dei due governi Conte.

Vicende che sembrano uscite da un romanzo di John le Carré, ma che sono drammaticamente reali e ci riguardano da vicino.

(Jacopo Iacoboni - Gianluca Paolucci)

 

 

 

Oligarchi russi: chi sono e

cosa fanno oligarchi-russi.

Sapere.it- (10-3-2022) – Matteo Innocenti – ci dice:

Colpiti dalle sanzioni dell’Occidente, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ecco chi sono gli oligarchi, fedelissimi del presidente Vladimir Putin.

Con l’invasione dell’Ucraina sono saliti alla ribalta, loro malgrado, gli oligarchi russi, che hanno riempito le pagine dei giornali.

Colpiti da sanzioni pesanti, imposte dall’Occidente e non solo, rei di essere troppo vicini a Vladimir Putin e di aver svolto un ruolo nel minare la sovranità ucraina.

Numerosi i mega yacht sequestrati, al pari delle lussuose ville nel bacino del Mediterraneo, dove questi magnati russi sono (o meglio erano) soliti trascorrere periodi di vacanza: ma questa è solo la punta dell’iceberg.

CHI SONO.

Per definizione, l’oligarchia è un regime politico o amministrativo caratterizzato dalla concentrazione del potere effettivo nelle mani di una minoranza, per lo più operante a proprio vantaggio e contro gli interessi della maggioranza.

 Gli oligarchi russi sono magnati che, a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, sono stati capaci di approfittare al massimo della trasformazione postcomunista e delle privatizzazioni selvagge, accumulando immense ricchezze e arrivando a controllare di fatto tutta l’economia russa.

Ecco chi sono e cosa fanno gli oligarchi russi di cui tanto si sente parlare.

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GENNADY TIMCHENKO.

Gennady Timchenko, amico di Putin da circa trenta anni, ha fondato ed è il proprietario di” Volga Group”, holding con vasti interessi nei settori di energia, trasporti e infrastrutture.

Ha un patrimonio stimato di quasi 20 miliardi ed era già stato colpito dalle sanzioni internazionali dopo la guerra in Crimea del 2014.

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(LaPresse)

IGOR SECHINA.

 Igor Sechin conosce Putin da tre decenni:

si sono incontrati all’inizio degli Anni 90, quando lavoravano per Anatoli Sobchack, sindaco di San Pietroburgo.

È uno dei principali rappresentanti dei “siloviki”, cioè i funzionari che provengono da ambienti militari e Kgb: il servizio nell’intelligence lo ha portato in Angola e Mozambico. Oggi è amministratore delegato di Rosneft, la principale società petrolifera russa.  Ha un soprannome: Darth Vader, dovuto al suo aspetto.

(Alisher-Usmanov.jpg – LaPresse)

ALISHER USMANOV.

Già azionista di maggioranza del conglomerato industriale” Metalloinvest,” è direttore generale di “Gazprom Invest”, nonché proprietario del quotidiano “Kommersant”, del secondo operatore di telefonia mobile del Paese,” MegaFon”, del gruppo “Mail.Ru”, principale società Internet del mondo russofono

 Possiede il terzo yacht più grande al mondo: battezzato Dilbar, è lungo 156 metri e dopo l’invasione dell’Ucraina è stato bloccato nel porto di Amburgo.

Amante della Sardegna, Usmanov è cittadino onorario di Arzachena.

(Viktor-Vekselberg.jpg LaPresse)

VIKTOR VEKSELBERG.

Molto vicino al Cremlino, Viktor Vekselberg è proprietario e presidente della “Renova Group”, conglomerata che si occupa di materie prime, energia e telecomunicazioni.

14 miliardi di solo patrimonio personale secondo Forbes, possiede 15 uova Fabergé.

E qualche anno fa ha acquistato il “Grand Hotel Villa Feltrinelli di Gargnano”, sul Lago di Garda, struttura che prima di diventare albergo è stata la residenza di Mussolini durante la Repubblica di Salò.

(miller.jpg)

ALEKSEJ MILLERT.

Tra gli altri sanzionati dall’Occidente c’è anche Aleksej Miller, presidente del consiglio di amministrazione della compagnia energetica russa Gazprom.

 I suoi legami con Putin hanno radici profonde e risalgono agli Anni Novanta, quando il presidente russo era il vicesindaco di San Pietroburgo.

(Andrey-Kostin.jpg -LaPresse)

ANDREY KOSTIN.

Al vertice dell’istituto di credito russo “VTB”, a inizio 2022 Andrey Kostin ha aveva ricevuto il titolo onorifico di commendatore in Italia, su iniziativa del ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

 In passato ha ricevuto non un titolo, bensì accuse di corruzione da uno dei principali oppositori del regime di Putin, ovvero l’attivista Alexei Navalny.

(Nikolai-Tokarev.jpg -LaPresse)

NIKOLAI TOKAREV.

Nikolai Tokarev è il presidente della compagnia di oleodotti statale russa “Transneft”.

Ha un passato nel Kgb, che gli ha permesso di conoscere Putin già negli Anni Ottanta, quando entrambi erano in servizio a Dresda, nella Germania dell’Est.

 E da allora sono rimasti strettamente legati.

(Mikhail-Prokhorov.jpg LaPresse)

MIKHAIL PROKHOROV.

Presidente di “Polyus Gold” e del “gruppo Pnexim”, Mikhail Prokhorovsi controlla la maggior parte della produzione di minerali preziosi nella Federazione Russa.

Ma ha anche altre passioni, come il basket, peraltro molto popolare in Russia:

 fino a settembre 2019 è stato proprietario della franchigia Nba dei Brooklyn Nets.

YURI KOVALCHUK.

Yuri Kovalchuk possiede buona parte dei mezzi d’informazione russi.

E anche il più popolare e più grande social network del Paese,” V-Kontakte”, una sorta di “Facebook in cirillico” che ha acquistato dal già citato Usmanov. Kovalchuk è azionista di maggioranza di “Banca Rossiya” e ha una grossa partecipazione in “Soge”z, la società assicurativa di “Gazprom”.

(mordashov.jpg- LaPresse)

ALEXEI MORDASHOV.

Non era grande come quello di Usmanov, ma anche Alexei Mordashov si è visto “congelare” un panfilo, nel suo caso ormeggiato a Imperia.

Proprietario del colosso siderurgico ed estrattivo” Severstal”, Mordashov dal 2005 al 2012 è stato proprietario delle acciaierie di Piombino, che ha lasciato in un mare di debiti (730 milioni).

(roman-abramovic.jpg -LaPresse)

ROMAN ABRAMOVICH.

Se gli oligarchi avessero un principe, sarebbe Roman Abramovich.

 È il più famoso di tutti, in virtù dei 19 anni come proprietario del “Chelsea”, che a suon di investimenti ha reso una delle squadre di calcio più importanti al mondo.

Ha iniziato a fare fortuna nell’imprenditoria a fine Anni Ottanta, fondando diverse aziende di import/export e specializzandosi nel settore del commercio di petrolio e derivati.

Ha sempre negato di essere nella cerchia di fedelissimi di Putin, ma avrebbe partecipato ai negoziati in Bielorussia:

ha annunciato di voler vendere il Chelsea con l'intenzione di destinare i proventi a un fondo per rifugiati.

(Mikhail-Fridman.jpg LaPresse)

MIKHAIL FRIDMAN.

Da Abramovich, che ha una posizione ondivaga nei confronti di Putin, a un oligarca che si è smarcato dal presidente russo:

 nato a Leopoli (Ucraina), Mikhail Fridman ha co-fondato “Alfa-Bank” e, dopo aver ricoperto l’incarico di Ceo della compagnia petrolifera “TNK-B”, nel 2013 ha co-fondato la società di investimento internazionale” LetterOn”e, con sede a Lussemburgo.

Per il Times, nel 2019 era il più ricco abitante di Londra: ha scritto una lettera ai suoi dipendenti in cui definisce «l’attuale conflitto come una tragedia per entrambi» i popoli, sostenendo che «la guerra non potrà mai essere la risposta».

(Oleg-Deripaska.jpg -LaPresse)

OLEG DERIPASKA.

 «La pace è molto importante! Gli accordi vanno avviati al più presto!».

Questo il messaggio diffuso su Telegram da Oleg Deripaska, signore dell’alluminio in teoria vicinissimo a Putin.

Anche per lui un passato nel Kgb, prima del successo come imprenditore.

Dal 2001 al 2018 Deripaska è stato sposato con la figlia di Valentin Yumashev, storico consigliere di Boris Eltsin.

(Matteo Incocenti)

 

 

 

 

Gli oligarchi fuggiti da Londra adesso

«piangono miseria» in altri lidi.

Avvenire.it - Angela Napoletano – (23 febbraio 2023) – ci dice:

 

Le perdite sono solo stimate, perché nessuno conosce

la vera entità dei patrimoni.

«Fuggi o combatti».

Il motto che descrive l’ancestrale meccanismo di difesa del corpo al pericolo è anche quello che sintetizza le strategie adottate dagli oligarchi russi che facevano affari nel Regno Unito per navigare dodici mesi di guerra e sanzioni.

Roman Abramovich, 56 anni, forse il più famoso degli “amici” di Vladimir Putin, è tra quelli, la maggior parte, che ha lasciato Londra.

Oggi vive in Turchia, a Istanbul, ma è stato spesso visto a Mosca come anche in Israele e negli Emirati Arabi Uniti.

Fa la spola tra i Paesi che non hanno sanzionato gli oligarchi.

 Si dice che Dubai abbia attratto in un anno talmente tanti russi da avere oggi un quartiere ribattezzato « Piccola Mosca».

L’ex patron del Chelsea ha visto il suo patrimonio crollare del 40% ma la sua ricchezza potrebbe valere ancora almeno 10,5 miliardi di dollari.

Se non di più.

L’uomo che si è proposto come mediatore di pace tra Mosca e Kiev, è noto, ha modificato i “suoi trust offshore” tre settimane prima dell’invasione russa per trasferire miliardi di beni ai suoi figli.

 Una delle sue società, “Truphone”, gestita con i “tycoons Alexander Abramov e Alexander Frolov”, è stata di recente in Europa a un pound (uno).

 Nel 2020 il suo valore era di 410 milioni di sterline.

Si è stabilito invece in Lettonia il magnate del petrolio Petr Aven, 67 anni, che a marzo scorso provò a difendersi dalle sanzioni dicendo di essere stato preso di mira «solo per aver risposto al telefono a Putin».

 A ottobre scorso l’ufficio del Tesoro incaricato di applicare le sanzioni ha concesso al miliardario, comproprietario del fondo investimenti “LetterOne”, di prelevare ogni mese dai conti bancari congelati all’inizio della guerra circa 60mila sterline per sostenere le spese necessarie a soddisfare i «bisogni essenziali» della sua famiglia.

Il “signore” dell’acciaio russo, Oleg Deripaska, 55 anni, si sarebbe invece trasferito in Russia dove, ironia della sorte, avrebbe imparato a proprie spese il peso di una parola di troppo.

 Secondo la stampa locale l’imprenditore avrebbe infatti parlato dell’invasione ucraina come di una “guerra”, termine bandito dal Cremlino, errore che gli è costato il sequestro di uno dei suoi alberghi moscoviti.

In un anno di conflitto la sua fortuna si è quasi dimezzata.

 Non la sua intraprendenza.

L’uomo ha usato il suo “factotum” britannico, Graham Bonham-Carter, per aggirare le restrizioni poste a suo carico e acquistare immobili negli Stati Uniti.

Il suo braccio destro, scoperto e arrestato, lo avrebbe aiutato anche a trasferire opere d’arte da New York a Londra.

Tra i pochi rimasti Oltremanica c’è Mikhail Fridman, nato 58 anni fa in Ucraina, determinato a combattere per riappropriarsi dei beni che gli sono stati sequestrati con una costosissima controffensiva legale.

Strategia, utilizzata anche da Abramovich e Alicher Ousmanov, che certifica la possibilità economica degli oligarchi “caduti in rovina” di poter ancora spendere milioni in parcelle di avvocati.

 «È difficile sapere se stanno davvero soffrendo le conseguenze delle sanzioni – ha sottolineato all’agenzia Afp l’esperta di geopolitica Jodi Vittori – perché non sappiamo esattamente quanto hanno».

 Chissà quante sono le proprietà possedute, ha aggiunto, «in qualche paradiso fiscale, a nome di parenti, società di comodo o trust anonimi».

Insomma il «piangere miseria» anche tra i russi non cade mai in prescrizione.

(Angela Napoletano)

 

 

 

 

Lo schiaffo di Putin agli oligarchi:

«Non dispiace a nessuno se vi

hanno tolto yacht e soldi».

Open.online – (21 FEBBRAIO 2023) - Redazione – ci dice:

 

L’attacco del leader russo: «Non supplicate per riavere i vostri soldi. Se investite in Russia, i cittadini vi sosterranno»

«Nessuno dei comuni cittadini è dispiaciuto per coloro che hanno perso i loro capitali, yacht e palazzi all’estero».

Così il presidente russo Vladimir Putin, nel suo discorso di oggi sullo Stato della Nazione, ha scaricato gli oligarchi russi che si sono arricchiti approfittando delle privatizzazioni avviate negli Novanta, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica.

In quel periodo, ha ricordato Putin, le aziende statali venivano svendute «quasi per niente».

E quei «grandi uomini d’affari, invece che produrre tecnologia e creare posti di lavoro in Russia, investivano in yacht all’estero», ha attaccato il leader del Cremlino.

All’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, l’Unione Europea e diversi altri governi occidentali hanno congelato beni e patrimoni detenuti all’estero dagli oligarchi russi.

Anziché accogliere le loro lamentele, però, Putin ha scartato ogni possibilità di dialogo.

 «Non supplicate per riavere i vostri soldi. Non investite all’estero, ma in Russia. A quel punto lo Stato e la società vi sosterranno», ha detto il leader russo.

Gli oligarchi russi, «cittadini di seconda classe».

L’Unione Europea è stata la prima a congelare i beni degli oligarchi russi – tra cui yacht, conti correnti e abitazioni di lusso – che ricadono all’interno della propria giurisdizione.

Nelle scorse settimane, poi, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione per chiedere alla Commissione un piano per sequestrare tutti i beni russi congelati agli oligarchi e utilizzare i fondi per pagare la ricostruzione dell’Ucraina.

 «Chi ha portato i fondi all’estero, è stato saccheggiato, derubato, ha perso tutto. Erano risorse detenute legalmente, certo», ha detto oggi Putin nel suo discorso a Mosca.

«Nessuno dei semplici cittadini del Paese è dispiaciuto per chi ha perso i capitali all’estero, per chi si è comprato yacht e ora ha i fondi bloccati», ha aggiunto il leader russo.

Secondo Putin, l’occidente considera gli oligarchi russi come «cittadini di seconda classe».

Prima che il Cremlino decida di accorrere in loro soccorso, però, gli oligarchi dovranno compiere «una seconda scelta: lavorare per la propria patria».

 

 

 

Russia, Putin corteggia gli

oligarchi e annuncia misure.

Usarci.it – Redazione - (Adnkronos) – (15-3-2023) – ci dice:

 

 Vladimir Putin corteggia gli oligarchi.

 In un discorso di fronte all'Unione degli industriali e degli imprenditori, il presidente russo ha garantito il "sostegno del governo in tutti i modi alle imprese responsabili, a coloro che sono pronti a battersi per la loro causa, per il benessere del loro gruppo, delle persone che lavorano per loro, per il benessere di tutti i russi". 

Il Cremlino si impegna quindi ad aiutare le imprese che si concentrano sullo sviluppo sostenibile per gli anni a venire, piuttosto che per risultati a breve termine, devono e avranno supporto, ha aggiunto Putin, come ad anticipare momenti di difficoltà. 

Le imprese, ha riassunto Putin, che hanno una "visione strategica per il futuro".

 Il presidente russo ha anche parlato del riorientamento graduale in atto per raggiungere i mercati in via di sviluppo, un processo avviato prima ancora "dell'operazione militare speciale".

 La Russia, ha affermato, è riuscita a compensare la chiusura dei mercati occidentali in questo modo. 

Putin ha insistito nel chiedere il rientro dei capitali custoditi all'estero dall'élite russa.

 "Sentivo la gente dire, 'è più al sicuro all'estero che non qui'.

Ma ora?

 La base stessa della nostra esistenza e il futuro delle nostre famiglie e bambini sono qui.

 Solo se si capisce questo, fare impresa può portare soddisfazioni", ha detto.

 "Sono convinto che più i nostri imprenditori condividono questi valori, più forte sarà la Russia, più forte sarà la nostra economia, prima la vita potrà migliorare, e maggiore prestigio e rispetto pubblico avranno i nostri imprenditori e uomini d'affari". 

Putin ha anticipato che la Russia adotterà misure per bloccare la distribuzione di dividendi per l'Occidente in risposta al congelamento dei beni russi.

Si tratta di una decisione "dettata dalla necessità di salvaguardare gli interessi della nostra economia e delle nostre imprese".

 Il leader del Cremlino ha sottolineato che le autorità russe cercheranno di correggere la misura laddove limita la capacità di amici e partner di proseguire le loro operazioni in Russia.

Putin ha quindi detto di sapere per certo che molte compagnie occidentali vogliono tornare sul mercato russo, che molte non volevano lasciare in prima battuta. 

Il presidente russo sostiene che la Russia ha molti amici nei Paesi Occidentali.

 "I Paesi sono fatti dalle popolazioni, dalla gente, e noi abbiamo molti amici in questi Paesi, davvero molti", ha affermato nel suo intervento di fronte all'Unione degli industriali e degli imprenditori russi.

Questo atteggiamento favorevole è molto diverso da quello delle cosiddette élite al governo dei Paesi, ha dichiarato, come riporta l'agenzia Tass. 

Putin ha incontrato gli oligarchi e l'élite dell'imprenditoria russa per invitarli a investire nelle nuove tecnologie, nelle imprese e negli impianti di produzione in modo da avere la meglio su chi vuole distruggere l'economia di Mosca.

È la prima volta che il presidente incontra miliardari russi e il mondo dell'impresa da quando ha lanciato l'invasione dell'Ucraina. 

Molti oligarchi russi sono stati sottoposti a sanzioni occidentali, ma Putin ha spiegato loro di non aver avuto altra scelta se non quella di procedere con la cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina.

La Russia, ha proseguito, sta affrontando una "guerra di sanzioni", ma sta rapidamente riorientando la sua economia verso ''Paesi amici''.

Il leader del Cremlino ha detto anche che i Paesi della zona euro stanno cercando di convincere tutti di un imminente collasso dell'economia russa mentre la loro inflazione è più alta di quella della Russia, ha affermato Putin, citando Mark Twain e la sua celebre frase "le notizie della mia morte sono enormemente esagerate".

La domanda interna in Russia cresce bene e continuerà a farlo in modo sostenibile e stabile, ha aggiunto.

(adnkronos.com/russia-putin-corteggia gli oligarchi...)

 

 

 

Russia-Ucraina, che fine hanno

fatto gli oligarchi di Putin?

 Adnkronos.com – Fabio Insenga – (03 marzo 2023) – ci dice:

 

Stanno subendo le sanzioni e hanno dovuto cambiare le loro abitudini. Ma hanno accumulato ricchezze incalcolabili e cercano di salvarle almeno in parte.

Hanno avuto un ruolo chiave nella costruzione della Russia di Putin.

 E, nelle aspettative dell'Occidente, potrebbero averlo anche nella dissoluzione del regime del capo del Cremlino.

Gli oligarchi, i super ricchi imprenditori che hanno fatto le loro fortune con le privatizzazioni delle aziende di Stato, stanno subendo le conseguenze delle sanzioni occidentali e sono stati costretti dalle conseguenze della guerra in Ucraina a ridimensionare sensibilmente il proprio patrimonio.

Che fine hanno fatto?

E come si stanno muovendo per cercare di limitare i danni?

 Soprattutto, hanno l'interesse e la forza per 'ribellarsi' non tanto all'impoverimento progressivo della madre patria quanto all'inesorabile riduzione della propria ricchezza personale?

Alla prima domanda cercano di rispondere, con una certa fatica, anche le autorità che devono controllare l'efficacia delle sanzioni.

Erano tutti abituati a spostarsi da una residenza all'altra, in Europa e negli Stati Uniti, con Londra, Parigi e New York come sedi principali più gettonate.

 Affari e vacanze, con l'Italia tra le mete preferite, spostando grandi quantità di denaro.

Oggi hanno dovuto cambiare abitudini.

Alcuni sono tornati stabilmente in Russia, altri si muovono prevalentemente nei Paesi non ostili alla Russia, dalla Turchia agli Emirati Arabi, altri ancora, quelli non sanzionati direttamente, continuano a muoversi anche in Europa.

Cercare di capire cosa fanno per provare a contenere le perdite e, dove possibile, per continuare a fare affari è un altro passaggio chiave.

 Ci sono le proprietà possedute difficilissime da censire, tra paradisi fiscali, prestanome, società di comodo e trust anonimi.

Ci sono i movimenti di denaro e le transazioni che continuano, i traffici di opere d'arte e di beni di lusso operati attraverso intermediari di nazionalità diverse.

 C'è anche chi sta spendendo milioni di dollari in parcelle di super avvocati per tentare di opporsi legalmente agli effetti delle sanzioni.

 Qualcosa della loro attività si vede, molto altro si intuisce.

Quello che è innegabile, almeno stando ai dati disponibili, è che tutti stiano accusando perdite consistenti.

Secondo l'indice globale dei miliardari di Bloomberg, i 24 oligarchi russi più ricchi hanno perso alla data del primo gennaio 2023 poco meno di 100 miliardi di dollari, quasi 40 solo nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della guerra.

L'ex proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, ha perso il 57% del suo patrimonio, che si aggira ora intorno a 'soli' 7,8 miliardi di euro.

Gennady Timchenko ha perso il 48% e può contare ancora su 11,8 miliardi.

Vladimir Potanin, il re del nickel, ha ancora un patrimonio di poco superiore ai 29 miliardi.

Scorrendo questi dati si arriva alla domanda cruciale.

 Gli oligarchi riusciranno a navigare come stanno facendo ancora a lungo o, alla fine, chiederanno il conto a Putin?

Qualche segnale di insofferenza c'è stato, così come diversi tentativi di spingere in qualche modo per agevolare la conclusione del conflitto in Ucraina.

Oleg Tinkov ha rinunciato alla cittadinanza, ha definito "folle" la guerra ed è stato costretto a cedere la sua banca.

Oleg Deripaska, parlando recentemente a un forum in Siberia, ha detto chiaramente che le sanzioni pesano e che "già il prossimo anno non ci saranno soldi" e la Russia "avrà bisogno di investimenti stranieri".

Lo stesso Abramovich ha provato a ritagliarsi un ruolo di mediatore, partecipando anche ai colloqui in Bielorussia della primavera scorsa, prima dell'ulteriore inasprimento del conflitto.

La risposta di Putin agli oligarchi, finora, è stata eloquente. "Nessuno dei comuni cittadini è dispiaciuto per coloro che hanno perso i loro capitali, yacht e palazzi all’estero", ha scandito nel suo discorso sullo Stato della Nazione.

Un segnale, anche questo, che può essere letto come un avvertimento rispetto a una pressione che potrebbe salire con il protrarsi della guerra.

(Fabio Insenga)

 

QUANDO GLI OLIGARCHI PRENDONO IL LARGO.

Glistatigenerali.com - GELENA KATKOVA – (31 Gennaio 2023) – ci dice:

 

Le sanzioni imposte alla Russia stentano ad ottenere risultati visibili sulle decisioni belligeranti di Putin, e la guerra sta costando decine di miliardi di euro.

 In parte si tratta di cinici investimenti, perché l’Europa e gli Stati Uniti, se (come speriamo tutti) l’Ucraina vincerà, otterranno fette importanti dei contratti per la ricostruzione.

Il fatto è che con il prolungarsi dell’invasione, i suoi costi continuano ad aumentare, e l’Occidente sta seriamente prendendo in considerazione la possibilità di recuperare una parte delle spese sequestrando il patrimonio dei russi che, da anni, si nascondono dalle autorità fiscali russe e godono dei benefici di una ricchezza spropositata.

Putin sapeva che sarebbe successo.

Poche ore dopo l’inizio dell’invasione, il 24 febbraio 2022, convoca al Cremlino 37 tra i più importanti dirigenti d’azienda del Paese, tra cui almeno 12 miliardari.

Due di questi, Mikhail Gutseriev e Suleiman Kerimov, sono già oggetto delle sanzioni degli Stati Uniti o dell’Unione Europea.

 Lo scopo dell’incontro è quello di informarli dell’attacco, con Putin che afferma di non avere altra scelta se non quella di invadere e di essere consapevole che la Russia sarebbe stata probabilmente colpita da nuove sanzioni.

Dopo aver parlato, Putin lascia la stanza senza permettere agli imprenditori di commentare, lasciando gli oligarchi frustrati e soli.

Dal giorno dell’invasione l’Europa dà la caccia ai sostenitori di Putin, cercando di impedire il loro supporto economico al Cremlino.

Oggi, un anno dopo, i governi della UE lavorano a un decimo pacchetto di sanzioni per fine febbraio.

Chi finisce nella Lista Nera è qualcosa che viene deciso da avvocati ed ex funzionari del Dipartimento del Tesoro, che valutano il peso delle sanzioni in base alla influenza politica ed economica dei singoli, poiché alcuni oligarchi “sono più importanti di altri per ragioni politiche”.

Durante l’ultimo anno sono finiti nel mirino di giustizia 45 miliardari.

La UE ha imposto divieti di viaggio, congelato i beni e dato la caccia alle barche (61 luxury yachts in tutto il mondo, per un valore di almeno 6,3 miliardi di dollari), ai jet privati e alle case di lusso situate in Europa – specialmente in Svizzera, Paese tradizionalmente neutrale e spesso usato come il rifugio per i patrimoni offshore, che sorprendentemente annuncia il congelamento dei beni di tutti gli individui sanzionati dalla UE.

Nessuna eccezione, nemmeno per i magnati residenti nel Commonwealth:

Bermuda, le Isole Vergini britanniche, le Isole Cayman e l’Isola di Man (i paradisi fiscali dove gli uomini ricchi di tutto il mondo amano nascondere il loro denaro), poiché persino queste giurisdizioni hanno iniziato ad applicare le sanzioni.

I miliardari non sono d’accordo e contestano le sanzioni (come hanno fatto con successo nel 2014 dopo l’annessione della Crimea).

Tra i più famosi ci sono:

Roman Abramovich con i suoi 8.7 miliardi di dollari di patrimonio ha dovuto vendere il Chelsea, perdendo tantissimo denaro, ed oggi possiede solo le azioni del gigante dell’acciaio Evraz e del produttore di nichel, Norilsk Nickel, il resto è stato venduto o intestato ai figli; Abramovich, di discendenza ebrea, ha anche la cittadinanza israeliana, portoghese e lituana.

 Nel maggio 2022 ha provato a chiedere la revoca delle sanzioni e un risarcimento danni di un milione di euro alla fondazione benefica creata dopo la vendita del Chelsea.

Per individuarne le proprietà, si analizzano i social media dei parenti e delle compagne degli oligarchi.

Alisher Usmanov, il proprietario uzbeko-russo del gruppo USM e del colosso dell’acciaio Metalloinvest, così come di Dilbar, lo yacht più grande del mondo (di cui ha trasferito la proprietà alla sorella Gulbakhor Ismailova, valutato 600 milioni di dollari e sotto sequestro ad Amburgo su ordine delle autorità uzbeche, che ha chiesto di ritirare le sanzioni contro di lui nell’aprile del 2022;

Alexey Mordashov, proprietario della quota di controllo del gigante metallurgico Severstal, che sta cercando di “scongelare” i suoi assets spostandone la proprietà ad un trust e ad un fondo di investimento.

A maggio ha impugnato davanti a un tribunale dell’UE la decisione di imporre sanzioni nei suoi confronti – lo stesso tentativo compiuto da Mikhail Fridman (fondatore e azionista di maggioranza di Alfa Group) e Pyotr Aven (amico di Vladimir Putin e azionista di Alfa Group).

La controversia in tribunale potrebbe richiedere anni, per essere risolta.

 Sicché alcuni oligarchi hanno fretta e cercano di risolvere la situazione a modo loro.

 Alcuni hanno convertito i propri yacht in case galleggianti e le hanno registrate in giurisdizioni “amichevoli” come la Malaysia, la Sierra Leone o Palau.

Altri trasferiscono le proprietà a un parente o a uno stretto collaboratore, anche se questo finora non ha evitato l’inserimento di quei beni nella lista degli assets sotto sequestro.

Dmitriy Mazepin, il proprietario di uno dei maggiori fornitori di fertilizzanti minerali del mondo (Uralchem, su cui abbiamo già scritto, già furioso per il fatto che la Formula Uno abbia escluso suo figlio dai piloti in gara, ha ora peggiorato la propria situazione spostando, con l’aiuto di intermediari, due dei suoi yacht, confiscati sulle coste della Sardegna, finendo così nel mirino delle autorità Italiane: le proprietà di Mazepin in Italia sono state definitivamente confiscate e lo aspetta una multa di 500’000 euro da pagare al Comune di Olbia.

 

Intanto, in Ucraina, si continua a morire, dall’una e dall’altra parte.

L’economia russa dimostra di essere stata ben preparata, l’esercito meno.

Putin sta probabilmente commettendo gli stessi errori di Adolf Hitler, e c’è da temere che avrà la stessa perseveranza:

 se dovesse capire di aver perso, trascinerà il mondo intero nella catastrofe.

 

 

 

Meno ricchi, meno influenti.

Gli oligarchi ucraini dopo l’invasione.

Formiche.net - Matteo Turato – (02/01/2023) – ci dice:

L’invasione russa dell’Ucraina ha inciso parecchio sulle sorti dei principali uomini d’affari ucraini.

 Probabilmente un bene per un Paese che aspira a entrare nell’Unione europea, o comunque a lasciarsi alle spalle il passato sovietico.

 E intanto Reznikov mette in guardia gli alleati su una possibile campagna di reclutamento russa e una nuova offensiva in primavera.

La guerra in Ucraina, oltre a colpire masse di poveri già poveri, ha colpito anche le fortune di alcuni tra gli uomini più ricchi del Paese.

Prima dell’invasione queste persone regolavano la vita economica e politica ucraina gestendo sostanzialmente qualunque settore produttivo.

La guerra ha sparigliato le carte.

Chi possiede mezzi di traporto, miniere e impianti ha visto le bombe cadere sulle infrastrutture.

Chi possiede banche e sistemi di telecomunicazione ha visto gli attacchi cibernetici e gli espropri russi.

 Chi possiede terreni agricoli fa i conti con le mine e il crollo delle esportazioni.

Secondo il quotidiano “Politico”, la presa degli oligarchi sulla vita del Paese ne ha risentito.

Anche prima della guerra Volodymyr Zelensky aveva portato avanti degli sforzi per ridurne l’influenza politica e l’invasione avrebbe dato maggiore enfasi a questa spinta.

Inoltre, la garanzia di misure anti-corruzione (endemica in Ucraina) è spesso una condizione per la concessione di aiuti a Kiev, anche per evitare che si disperdano o finiscano nelle mani sbagliate.

Per fare degli esempi, “Rinat Akhmetov”, l’uomo più ricco d’Ucraina, è il proprietario del colosso metallurgico “Metinvest”.

Il gruppo ha perso due dei suoi principali impianti nel sud del Paese: Ilych Iron and Steel Works e l’acciaieria Azovstal.

Quest’ultima tristemente celebre in Occidente nei primi mesi di guerra per essere divenuta l’epicentro di una lunga battaglia.

 Le altre attività di Akhmetov (impianti energetici, banche, fattorie e miniere) sono state danneggiate o sequestrate dai russi.

Secondo la rivista Forbes, le ricchezze di quest’uomo ammonterebbero oggi a “soli” $4.3 miliardi, una bella riduzione dai 14 pre-invasione.

Anche se il suo portavoce ha affermato che le stime andranno accertate quando le ostilità saranno concluse, dato che con i missili che continuano a colpire è molto difficile ottenere dati precisi.

I rapporti tra Akhmetov e Zelensky non devono essere particolarmente cordiali.

Da un lato l’oligarca ha contribuito alla difesa ucraina con materiale (come elmetti ad esempio) per $100 milioni, dall’altro il presidente ucraino non si sarà dimenticato del tentativo di colpo di Stato filo-russo che avrebbe coinvolto anche Akhmetov nel novembre 2021.

Un altro esempio interessante è quello dell’ex presidente Petro Poroshenko.

Oltre a essere un politico di primo piano in Ucraina, Poroshenko è diventato famoso come il “re del cioccolato”.

Nel 1995 ha riunito le sue varie aziende di confezionamento e lavorazione di cacao e altri dolci nel “gruppo Roshen”, un conglomerato che, prima della guerra, operava in 35 Paesi con un giro d’affari di circa un miliardo di dollari, secondo Forbes.

Prima dell’invasione aveva dovuto difendersi dalle accuse di alto tradimento e di promozione del terrorismo.

 Ovvero di aver favorito i rifornimenti di carbone a Kiev dai territori occupati del Donbas invece che da altri fornitori.

 Dopo il 24 febbraio 2022, le televisioni di Poroshenko hanno smesso di attaccare politicamente Zelensky per abbracciare un approccio più patriottico e unitario.

Tuttavia, il suo sostegno alle forze ucraine non l’ha salvato dalle accuse del presidente in carica di cercare eccessivo consenso tra i soldati.

 

Non si è salvato nemmeno il “padrino” di Zelensky.

Ihor Kolomoisky ha giocato un ruolo fondamentale nel promuovere l’ascesa dell’attuale presidente tramite il suo impero mediatico.

Tuttavia, i legami con Zelensky non hanno impedito agli Stati Uniti di processare l’oligarca per aver riciclato miliardi negli Usa.

 La sua principale banca (Privatbank) è stata sequestrata dalle autorità dopo il rinvenimento di un buco da 5 miliardi e Kiev vorrebbe spogliarlo della cittadinanza ucraina visto che ha i passaporti di Israele e Cipro.

Se non bastasse, a novembre il governo ucraino ha invocato la legge marziale per prendere il controllo di “Ukrnafta”, la società nazionale leader del settore energetico, in gran parte controllata da Kolomoisky.

Il popolo ucraino non vuole chinare il capo di fronte ai russi.

Ci si augura che non voglia più inginocchiarsi nemmeno di fronte ai propri oligarchi.

Il 31 dicembre il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Rexnikov, ha lanciato un monito:

 la Federazione Russa vuole lanciare una nuova campagna di reclutamento nelle prossime settimane e cominciare una nuova offensiva in primavera.

Dopo la sconfitta nell’oblast’ di Kharkiv a settembre, il presidente russo Vladimir Putin aveva ordinato una prima ondata di mobilitazione in Russia, arruolando, secondo le stime ufficiali russe, più di 300.000 uomini.

Il 31 ottobre, il Ministero della Difesa russo ha comunicato la fine della mobilitazione, ma Putin non ha mai pubblicato l’ordine di cessazione della leva.

 Il governo russo ha sempre insistito sull’inutilità di una nuova campagna di reclutamento, sostenendo che la prima sia stata sufficiente.

Putin decise in segreto di invadere l’Ucraina.

 Lavrov, gli oligarchi e i dirigenti del Cremlino tenuti all’oscuro”.

Ilfattoquotidiano.it – Redazione – (24 FEBBRAIO 2023) – ci dice:

 

A ricostruire le origini del conflitto è un lungo reportage del Financial Times.

 Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov venne colto "totalmente di sorpresa" da una telefonata il 24 febbraio 2022 che gli comunicava il via libera di Putin all'invasione dell'Ucraina.

 E quando uno degli oligarchi gli chiese come avesse potuto imboccare questa strada, Lavrov rispose:

Putin "ha tre consiglieri. Ivan il Terribile. Pietro il Grande. E Caterina la Grande'"

L’invasione dell’Ucraina è stata decisa soltanto da Vladimir Putin e da una strettissima cerchia di suoi consiglieri, che non comprendevano né i dirigenti del Cremlino, né il ministro degli Esteri Lavrov.

E quella che nel piano del presidente russo doveva essere “una brillante e relativamente incruenta guerra lampo” con l’occupazione di Kiev portata a termine in pochi giorni, si è rivelata “un pantano di proporzioni storiche per la Russia”.

 La ricostruzione dell’origine del conflitto in Ucraina compare oggi sul Financial Times che, in un reportage che affronta le origini del conflitto, scrive come la guerra scaturì dalla decisione del presidente russo e di pochi uomini super-fidati, senza coinvolgere l’intera leadership di Mosca.

Intorno all’una del mattino del 24 febbraio, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ricevette una telefonata inquietante – scrive il quotidiano britannico -. Dopo mesi passati a preparare una forza di invasione da 100mila uomini sui confini con l’Ucraina, Vladimir Putin aveva dato il via libera all’invasione.

 La decisione prese Lavrov totalmente di sorpresa”.

Una svolta arrivata a pochi giorni dall’iniziativa di Putin di sondare “i membri del suo consiglio di sicurezza sulla possibilità di riconoscere i due staterelli nel Donbass - durante una cerimonia televisiva – ma non aveva comunicato loro le sue vere intenzioni”, scrive il giornale.

Quindi, “tutti gli alti dirigenti del Cremlino seppero dell’invasione solo quando hanno visto Putin dichiarare un’’operazione militare speciale in televisione quella mattina”.

Durante una riunione quello stesso giorno con diversi oligarchi, “dove tutti stavano perdendo la testa” perché sapevano che le sanzioni li avrebbero colpiti duramente – racconta al giornale uno dei presenti – “uno degli oligarchi chiese a Lavrov come Putin avesse potuto pianificare un’invasione così enorme con una cerchia così ristretta, tanto che la maggior parte degli alti funzionari del Cremlino, il gabinetto economico russo e la sua élite imprenditoriale non credevano nemmeno che fosse possibile.

‘Ha tre consiglieri’, rispose Lavrov. Ivan il Terribile. Pietro il Grande. E Caterina la Grande’”.

Putin, però, pensava che la guerra in Ucraina si sarebbe risolta in pochi giorni, con la presa pressoché immediata di Kiev.

Uno scenario che, a un anno esatto dall’inizio del conflitto, oltre a non essersi verificato, ha portato al coinvolgimento della Nato e dell’Europa, che riforniscono Kiev di aiuti militari, e alla morte di centinaia di migliaia di persone, tra militari e civili.

E dove le dichiarazioni di escalation e prosecuzione delle ostilità al momento prevalgono sulla concretezza dei negoziati per la pace.

 “Secondo il piano di invasione di Putin – continua a ancora il Financial Times -, le truppe russe avrebbero dovuto impadronirsi di Kiev nel giro di pochi giorni in una brillante e relativamente incruenta guerra lampo. Invece, la guerra si è rivelata un pantano di proporzioni storiche per la Russia”.

 

 

 

Gli oligarchi di Putin hanno usato

il Nord Stream per arricchirsi e

imbrigliare l'Europa. E il Parlamento Ue

lo sapeva da tempo.

Italiaoggi.it - Tino Oldani – (16-3-2023) – ci dice:

 

Quali fossero i rischi geopolitici per l'Europa del gasdotto russo Nord Stream, l'Unione europea lo sapeva da anni, ben prima dell'aggressione russa contro l'Ucraina, ma ha fatto ben poco per evitarli.

Anzi, con l'inazione politica imposta dalla Germania di Angela Merkel e le lentezze burocratiche di Bruxelles, ha finito con il favorire allo stesso tempo il riarmo militare della Russia e l'arricchimento smisurato di alcuni oligarchi vicini a Vladimir Putin, indicati da più fonti come suoi prestanome.

In proposito, fa testo l'intervento che l'economista svedese Anders Aslund, 70 anni, all'epoca esponente del Consiglio Atlantico, pronunciò il 29 gennaio 2019 di fronte al Parlamento europeo per illustrare una ricerca condotta insieme alla collega Julia Frielanders, intitolata «Riciclaggio di denaro che coinvolge individui russi, e i suoi effetti sull'Unione europea».

Secondo i calcoli di Aslund, dal 2011 al 2019 le spese in conto capitale di “Gazprom” erano state pari a 295 miliardi di dollari, con una media di 33 miliardi l'anno:

 «Possiamo ritenere che un terzo di questi fondi fossero pagamenti in eccesso, pari a profitti eccessivi dei “fratelli Rotenberg”».

 E chi sono” i fratelli Rotenberg”, e quanto siano amici o addirittura prestanome di Putin, lo ha spiegato più volte il dissidente russo “Alexey Navalny”, arrestato e imprigionato a Mosca dopo essere scampato a un avvelenamento.

Rivelazioni registrate in modo puntuale da «Oligarchi. Come gli amici di Putin stanno comprando l'Italia» (Laterza),

 libro scritto da Jacopo Jacoboni e Gianluca Paolucci.

 

Il giorno dopo il suo arresto, la fondazione anti-corruzione di Navalny pubblicò una video-inchiesta in cui, con documenti inediti e riprese di droni, raccontava la storia del «Palazzo di Putin», una villa faraonica costruita a Gelendzhik sulla riva russa del Mar Nero, costata 1,37 miliardi di dollari, pagati «con la più grande corruzione della storia».

Un'accusa, dice il libro, che quadra con la ricostruzione dell'economista Anders Aslund, secondo il quale il patrimonio netto di Putin sarebbe compreso tra 100 e 160 miliardi di dollari, somma che farebbe dell'autocrate russo il terzo uomo più ricco del pianeta, dopo Jeff Bezos ed Elon Musk.

Artefice della costruzione è stato un italiano, l'architetto Lanfranco Cirillo, bresciano, il quale ha vissuto per anni a Mosca, è noto come «l'architetto del Cremlino», e dice di avere lavorato «per 44 dei primi cento più ricchi di Russia».

Intervistato da Repubblica nel gennaio 2021, l'architetto Cirillo ha così descritto il «Palazzo di Putin»:

«Ha 90 colonne, marmi spettacolari, piscina e spa, un home theatre molto grande, passeggiata a parco con migliaia di cipressi e piante aromatiche italiane.

Ha 12 stanze da letto, un'orangerie di 800 metri quadri, serre per le piante d'inverno, l'anfiteatro in travertino romano».

Nell'area ci sono anche quattro ville di 400 metri quadri ciascuna, progettate sempre da Cirillo.

 Intorno a questo complesso vi è un'area di 70 chilometri quadrati, di proprietà del servizio di sicurezza federale (Fsb), sui quali è imposto il divieto di sorvolo e di navigazione entro un miglio dalla costa.

Un privilegio che solo un capo di Stato può avere.

Interrogato da uno studente un paio di giorni dopo l'uscita della video-inchiesta di Navalny, Putin disse di non avere nulla a che fare, né lui né i suoi parenti stretti, con quella mega-villa.

Ma pochi gli credettero e la notizia continuò a circolare, mettendo in imbarazzo la propaganda del Cremlino, finché dopo undici giorni spuntò un oligarca, il quale disse che la villa era sua, ed era solo un hotel di lusso.

Il suo nome? Arkady Rotenberg, uno dei fratelli citati all'inizio di questo pezzo per i loro guadagni stratosferici sul gasdotto Nord Stream.

Ma, soprattutto, un amico d'infanzia di Putin, poi suo partner nella pratica del judo, di fatto il modesto gestore di una palestra di judo a San Pietroburgo, che grazie alla protezione dello zar del Cremlino è diventato uno degli uomini più ricchi in Russia, un oligarca tra i più potenti.

L'inizio della sua ascesa risale al 2008, quando Putin in persona, salito da poco al potere, telefonò al banchiere Sergey Pugachev, chiedendogli di concedere un prestito di 500 milioni di dollari al suo amico Arkady Rotenberg.

«Sergey, mi disse, è solo un prestito. Ti sarà restituito in sei mesi», raccontò poi il banchiere.

Da allora, Arkady Rotenberg, insieme al fratello Boris, è diventato imprenditore, ha ottenuto contratti di favore da Gazprom per costruire gasdotti, compreso il Nord Stream, attività da cui ha ottenuto gli utili stratosferici calcolati dall'economista svedese Aslund.

 Il tutto nel clima di grande corruzione che caratterizza l'economia russa.

Pugachev, il banchiere del primo prestito, con riferimento agli affari e ai miliardi che ruotano intorno a Gazprom, ha detto:

«Putin voleva che Rotenberg fosse dentro, perché poteva controllarlo totalmente. Rotenberg era assolutamente suo». In pratica, un prestanome.

Secondo “Dataroom di Milena Gabanelli”, i fratelli Arkady e Boris Rotenberg, costruttori di gasdotti e co-proprietari della “Banca Smp”, hanno mandato i figli a studiare in Inghilterra:

«I figli piccoli di Arkady vivono con la madre Natalja a Londra in un appartamento di 8 milioni di sterline e dispongono di una villa nel Surrey di 35 milioni di sterline».

Il libro di Jacoboni e Paolucci dedica ai fratelli Rotenberg un intero capitolo e racconta in dettaglio i loro affari e le loro proprietà sia a Mosca che in Italia.

In Russia, oltre ai gasdotti, hanno costruito il ponte di Kerch, che collega la Russia alla Crimea, e controllano la società che riscuote i pedaggi autostradali.

In Italia, hanno una mega-villa all'Argentario e una tenuta in Toscana, a Castiglione della Pescaia.

Entrambe soggette, finalmente, alle sanzioni post invasione dell'Ucraina.

 

 

 

Putin a Xi Jinping: "Interesse

per le proposte di Pechino sull'Ucraina."

Italiaoggi.it - redazione Roma –(20-3-2023) – ci dice:

Dopo l'incontro al Cremlino tra i due leader.

Prima visita all’estero del suo terzo mandato per il presidente cinese. 

Che arrivato nella capitale russa ha spiegato:

"La Cina e la Russia sono buoni vicini e partner affidabili. Il mio viaggio servirà per lo sviluppo dell'interazione strategica e la cooperazione pratica tra i due paesi".

 

 Vladimir Putin e Xi Jinping.

È in corso al Cremlino un incontro informale faccia a faccia tra i presidenti russo Vladimir Putin e cinese Xi Jinping.

 Lo rende noto l'agenzia Ria Novosti.

I colloqui continueranno durante una cena di lavoro.

 Il presidente cinese Xi Jinping ha definito nell'incontro al Cremlino il presidente russo Putin "un caro amico".

"I nostri paesi devono avere stretti rapporti", ha affermato Xi,

 come riporta “Ria Novosti”.

I colloqui continueranno durante una cena di lavoro.

 Il presidente cinese Xi Jinping ha definito nell'incontro al Cremlino il presidente russo Putin "un caro amico".

"I nostri paesi devono avere stretti rapporti", ha affermato Xi, come riporta Ria Novosti."

Guardiamo con interesse alle proposte della Cina per risolvere la crisi in Ucraina", ha detto il presidente russo a quello cinese all'inizio del loro incontro al Cremlino.

Il presidente cinese Xi Jinping, è arrivato oggi a Mosca, per una visita di tre giorni. È il suo primo viaggio all'estero da quando è stato rieletto per un terzo mandato come capo di Stato.

 "La Cina e la Russia sono buoni vicini e partner affidabili", ha detto Xi al suo arrivo nella capitale russa, citato dall'agenzia Ria Novosti, aggiungendo che il suo viaggio servirà "per lo sviluppo dell'interazione strategica e la cooperazione pratica" fra i due Paesi.

"Sono fiducioso che la visita sarà fruttuosa e darà nuovo impulso allo sviluppo sano e stabile delle relazioni Cina-Russia di partenariato globale e cooperazione strategica in una nuova era", ha sottolineato il leader cinese, secondo il quale Russia e la Cina intendono lavorare insieme per promuovere il "multilateralismo" e la "governance globale in una direzione più giusta e razionale", sulla base dei principi delle Nazioni Unite.

 Nel pomeriggio il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha dichiarato a proposito della visita di Xi Jinping:

"Se vai a Mosca e ti siedi per tre giorni allo stesso tavolo del presidente Putin e ascolti il suo punto di vista su una guerra che ha iniziato e che potrebbe finire oggi, dovresti come minimo alzare il telefono e parlare anche con il presidente Zelensky per avere il suo punto di vista", ha detto assicurando che la Casa Bianca sta seguendo l'incontro a Mosca fra Xi e Vladimir  Putin "molto, molto da vicino".

Poche ore prima del loro incontro a Mosca, Putin e Xi hanno pubblicato oggi editoriali paralleli sulla stampa del loro interlocutore - Putin sul Quotidiano del Popolo, Xi sulla “Rossiyskaya Gazeta” - per sottolineare la loro alleanza strategica e spiegare quello che Putin ha definito il "ruolo costruttivo" di Pechino nella "soluzione della crisi ucraina".

Xi Jinping, nei suoi incontri con il presidente russo Vladimir Putin nei tre giorni di visita a Mosca, intende promuovere un’idea di governance del mondo basata su un “vero multipolarismo”, su una “democratizzazione delle relazioni internazionali” e su un sistema internazionale “risolutamente innestato sull’Onu”.

L’ha affermato, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa russa Ria Novosti, il presidente cinese appena arrivato nella capitale russa.

“La Cina, assieme alla Russia, è pronta a sostenere risolutamente il sistema internazionale basato sull’Onu;

difendere un ordine mondiale basato sulla legge internazionale, sulle norme fondamentali delle relazioni internazionale basate sulle premesse e sui principi della Carta Onu;

a promuovere il multipolarismo nel mondo e la democratizzazione delle relazioni internazionali”, ha detto Xi.

Quello di Xi Jinpinbg è un viaggio da cui Putin ha "grandi aspettative", come ha scritto il leader russo in un articolo pubblicato ieri dal “Quotidiano del Popolo”.

 Dal 2013, anno dell’arrivo al potere di Xi Jinping e della `svolta verso Est` per la Russia, i due capi di Stato si sono incontrati 39 volte.

 E questa visita vedrà inevitabilmente al centro il conflitto in Ucraina:

 Pechino ha pubblicato la propria "posizione" sul conflitto in un documento che non rappresenta un concreto piano di pace, ma afferma la necessità di arrivare ad una soluzione sullo sfondo di un accordo sui principi della sicurezza globale.

Putin, nell’articolo a sua firma alla vigilia della visita, si dichiara "riconoscente per l’approccio cinese equilibrato sugli eventi ucraini" e critica duramente gli Stati Uniti:

 "Il corso americano di doppio contenimento di Russia e Cina, e di chiunque non si pieghi al diktat americano, assume carattere sempre più duro e assertivo.

 

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