LE MULTINAZINALI DEL POTERE HANNO VINTO.
LE
MULTINAZINALI DEL POTERE HANNO VINTO.
L'ibrido
uomo-macchina:
fantascienza
o realtà?
Ilgiardinodeilibri.it
- Enrica Perucchetti – (10 aprile 2019) – ci dice:
Il
mito del progresso e il sogno del potenziamento umano: dal darwinismo sociale
al transumanesimo.
(Cyberuomo
di Enrica Perucchetti.)
«Questa
via è chiamata progresso. Fu questa la grande parola del secolo scorso.
Si
considerò la storia come una grande strada sulla quale l'umanità'' procedesse
sempre bravamente [...] Ma dove si andava? E per quanto tempo si progrediva? E
che ne sarebbe risultato?».
(Oswald
Spengler)
Metropolis.
Siamo
nel 2026.
Negli sfavillanti grattacieli di Metropolis
vivono i ricchi mentre nel sottosuolo sono confinati gli operai.
In
cima al grattacielo più alto vive il capo della città, Joh Fredersen;
suo
figlio Freder passa le giornate a divertirsi in un irreale giardino eterno,
popolato da sensuali fanciulle.
Improvvisamente
un giorno irrompe nel luogo paradisiaco l'insegnante Maria, accompagnata dai
figli degli operai che vengono scacciati in malo modo.
Freder
rimane però così colpito dalla donna, che decide di inoltrarsi nel sottosuolo
per rivederla:
qua
scopre le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare i poveri.
Assiste
allo scoppio di un macchinario in cui vengono feriti alcuni operai e in preda
alle allucinazioni, dovute ai fumi fuoriusciti, Freder ha una visione in cui la
macchina appare come il grande dio Moloch che ingoia le sue vittime umane.
Sconvolto da tanto orrore e brutalità decide, inutilmente, di discuterne con
suo padre.
Freder
scende così nei sotterranei e decide di scambiare la propria vita con quella di
un operaio.
Nelle
catacombe ritrova Maria, che come una sorta di Profeta accoglie e ispira negli
operai una moralità cristiana.
I due giovani si innamorano.
Nel
frattempo il padre di Freder fa visita all'inventore delle macchine di
Metropolis, Rotwang, che ancora dopo anni si strugge per la perdita della madre di Freder,
morta di parto, di cui era innamorato.
Rotwang è una figura complessa, a metà tra
l'alchimista/mago e lo scienziato: ha progettato un robot in grado di
sostituire l'uomo.
Questo
robot assumerà in tutto e per tutto le fattezze di una donna perché, per mezzo
di un congegno basato su onde elettromagnetiche, l'inventore è capace di
trasformare quell'ammasso di metallo in una figura indistinguibile da una
persona in carne e ossa.
Seguendo
delle mappe che sono state trovate nelle tasche di un operaio, Rotwang conduce Fredersen nel
sottosuolo, arrivando ad ascoltare - non visti - uno dei discorsi di Maria.
Fredersen
capisce che il figlio non aveva tutti i torti quando parlava di possibili
rivolte operaie e incarica l'inventore di rapire Maria per dare al robot le sue
sembianze, in modo da poter controllare i malumori degli operai attraverso la
predicazione di una falsa Maria...
«Mediatore tra il cervello e le mani
dev'essere il cuore»: è il motto che anima il film capolavoro del cinema muto del
1927 diretto da Fritz Lang, Metropolis.
Si
tratta di una delle opere simbolo del cinema espressionista ed è riconosciuto
come modello di gran parte del cinema di fantascienza moderno, avendo ispirato
pellicole quali Biade Runner e Guerre stellari e registi come David Cronenberg con i suoi
Video drome e La Mosca nei quali la guerra tra uomo e macchina viene riletta in
chiave horror.
L'ambientazione
distopica ha invece influenzato autori come Orwell, Ray Bradbury e persino T.S.
Eliot.
Paradossalmente
il messaggio di Lang, volto a contestare la disumanizzazione della tecnologia,
è stato nei decenni ribaltato e accolto nel suo lato puramente estetico.
L'estetica
"robotica" del classico di Lang, ripresa dai Queen e poi da Lady
Gaga, ha solleticato anche la creatività di uno dei fotografi e stilisti più
quotati degli anni Ottanta, Thierry Mugler che finì per inserire alieni e
androidi nelle sue collezioni di alta moda, fino a farne testimonial dei suoi
profumi ("Angel").
Fu
ancora Mugler a firmare i costumi e la direzione artistica di Too funky, uno
dei video più glamour e famosi di George Michael.
Protagoniste
le super top model degli anni Novanta da Linda Evangelista a Tyra Banks.
Da
allora, ogni pop diva che si rispetti non sa resistere alla tentazione di
gareggiare in sex appeal vestendo il costume bionico d'ispirazione langiana.
Si
trasformano così in pop robot e androidi Kylie Minogue, poi, Beyoncé (nel 2009
per il suo I am tour), quindi Lady Gaga e Fergie dei Black Eyed Peas come il
golem robotico di Rotwang.
Rotwang in particolare è descritto
come un novello rabbino Löw, il costruttore del Golem.
Nella
saga praghese, infatti, il Golem diventa uno "spettro", nel senso che
è stato creato a immagine del suo creatore ed è sottomesso alla sua volontà.
L'uomo
costruisce la macchina/automa/Golem a sua immagine e questo suo modo di creare
è simmetrico all'atto di creazione con cui Dio ha creato l'uomo a sua immagine.
La
macchina / robot quindi diviene oggi la controparte moderna del Golem e
l'uomo/scienziato una parodia del Dio creatore.
Ed è
forse a questa versione che si avvicinano le derive del post-umano:
la
creazione di un esercito di cloni/Golem, di corpi resuscitati e di ibridi
umano-macchina a cui verranno trasferite le memorie di un soggetto
nell'illusione della vita eterna.
Nel 1486 il noto umanista e filosofo Giovanni
Pico della Mirandola scrisse la sua celebre orazione, “Discorso sulla dignità
dell'uomo” (Oratio
de hominis dignitate), per dimostrare e celebrare la potenza dell'intelletto che
mette l'essere umano al centro dell'Universo, distinguendolo così dalle altre
creature.
L’uomo
per Pico è il medium tra la condizione di bestia e quella di Dio: può
innalzarsi al cielo o rendersi animale.
Avvalendosi
delle sue capacità intellettive, l'uomo può diventare artefice del proprio
destino.
Su ciò
si basa il concetto di "dignità umana" ovvero la qualità suprema che
solo l'uomo ha ricevuto da Dio: egli può coltivarla e farla crescere facendo
buon uso del libero arbitrio che gli è stato assegnato, oppure degradarsi
tradendo la sua stessa natura.
Oggi,
però, sembra che l'uomo abbia deciso di estremizzare questa visione
antropocentrica e di imboccare un'altra strada, quella della superbia.
L'uomo, infatti, può illudersi di potersi
rendere uguale a Dio, persino di sfidarlo come Marsia fece con Apollo, ma tale
presunzione lo condurrà inevitabilmente alla disfatta: si pensi, come abbiamo
ricordato nel primo capitolo, ai miti di Icaro, Niobe, Prometeo, e Sisifo,
oppure in ambito giudeo-cristiano Lucifero e in quello islamico Iblis.
Oggi
l'uomo pare aver intrapreso un nuovo viaggio verso un traguardo fino a qualche
anno fa inimmaginabile: divenire "macchina".
Si
tratta, in estrema sintesi, di un progetto dai connotati demiurgici, che, come
spiega il professor Antonio Marazzi, docente di antropologia culturale
all'Università di Padova, «si è affermato come una sorta di “new age” dai contorni
ambigui, quasi una setta, che predica l'avvento di un futuro utopico in cui
l'uomo potrà finalmente essere libero dalle sue catene biologiche».
Un futuro che vedrà l’alba di un uomo nuovo
che intende superare la propria natura biologica attraverso l’implementazione
sul "corpo biologico” di protesi tecnologiche.
E
questo viaggio ha una storia che affonda le proprie radici nell'esaltazione del
concetto di progresso e nel darwinismo sociale.
Il
darwinismo sociale.
A
distanza di cinque secoli, gli insegnamenti di Pico e degli altri filosofi
dell'Umanesimo sono convogliati in un sistema che porta lo stesso nome ma che
ha poco in comune con il Rinascimento.
L'Umanesimo
promosso infatti da pensatori mondialisti come i fratelli Aldous e Julian Sorel
Huxley (cofondatore e primo direttore dell'UNESCO), nipoti del celebre
"mastino di Darwin" Thomas Huxley, di cui parlerò tra poco, ha
abbracciato l'Illuminismo e la filosofia positiva e ha subito gli influssi di
circoli elitari quali l'X Club e la Royal Society, dando vita a un'ideologia ibrida che unisce
eugenetica, neo-malthusianesimo, socialismo, mondialismo e una spiccata
attenzione per le scienze e il controllo sociale, arrivando a prevedere un ulteriore
passo avanti nell'evoluzione umana.
Il
transumanesimo affonda le proprie radici in quel credo scientifico che confluì
in una nuova visione antropologica che verrà in seguito chiamata darwinismo
sociale.
La teoria di Darwin veniva applicata in ambito
sociale per proporre una divisione in caste «come distinte sono le diverse specie
in natura anche se provenienti da un antenato comune».
Thomas
Huxley, il mastino di Darwin.
Chi
impose il darwinismo alla società inglese e, attraverso di essa, alla cultura
mondiale, fu un personaggio brillante e astuto, "capostipite" di una
dinastia di intellettuali, il nonno dei già citati Aldous e Julián Huxley:
Thomas Henry Huxley.
Presidente
della Royal Society dal 1883 al 1885, Thomas Huxley fu anche il promotore di un
gruppo più ristretto ed esclusivo, l'X Club, che ebbe un influsso enorme sulla cultura britannica,
spingendola all'accettazione del darwinismo e dei suoi presupposti.
Il darwinismo, con la sua idea di lotta per la
sopravvivenza e del dominio del più forte ed evoluto, poteva divenire una
meravigliosa stampella a sostegno dell'imperialismo inglese (ed europeo in
generale).
Nell'ottica
dell'epoca, infatti, era evidente immaginare che l'essere più evoluto al mondo
fosse l'uomo bianco europeo (inglese in particolare), destinato quindi dalla
Natura stessa a dominare le altre culture e razze.
Con la
sua idea di evoluzione "casuale", che estrometteva qualsiasi
intervento divino sulla realtà, il darwinismo diveniva inoltre uno
straordinario strumento di lotta contro le religioni tradizionali e contro
tutte quelle eredità e tradizioni del passato che in un modo o nell'altro
sembravano opporsi all'affermazione globale del nuovo mondo liberal-capitalista.
Alla
fine dell'Ottocento, infatti, l'Inghilterra è divenuta la fucina ideologica
d'ogni tipo di materialismo, dell'esaltazione del potere tecnologico della
macchina e del progresso inteso come "conversione" del mondo intero
alla cultura e alla civiltà moderne.
È solo
a partire dal secondo dopoguerra, tuttavia, che il modello covato per secoli in
ambiente anglosassone potrà finalmente essere imposto al mondo intero.
Toccherà
al nipote di Thomas, Julián Sorel Huxley, darwinista di ferro, neomalthusiano e
convinto assertore dell'eugenetica, dare forma globale a questa idea secolare e
a esplicitare persino, come vedremo, la sua fede nel "transumanesimo".
Prima
di lui, un altro celebre romanziere si è distinto per le sue idee a sostegno
della costituzione di un ordine mondiale e di quella ideologia mondialista che
è tracimata nel transumanesimo (dal neo malthusianesimo all'eugenetica).
Sto
parlando dell'autore di celebri romanzi di fantascienza come La guerra dei
mondi, L'isola del dottor Moreau, L'uomo invisibile e La macchina del tempo,
H.G. Wells.
Quando
H.G. Wells sognava un governo unico mondiale
Studente
di biologia di Thomas Huxley, socio della Fabian Society e del Coefficient Club, H.G. Wells
collaborò a lungo con Julian Huxley con il quale pubblicò nel 1931 The Science
of Life.
Nel
1928 diede alle stampe “The Open Conspiracy” in cui descriveva il proprio
ideale di un mondo globale unificato sotto l'egemonia anglosassone e ispirato
agli ideali socio-economici della Fabian Society e del fabianesimo.( Precursori del comunismo
marxista.N.d.R)
Nel
libro Wells esprime la necessità di creare una società sopranazionale (che oggi
potremmo definire "globalizzata"), un'impresa che prevede il
reclutamento degli individui e l'allestimento delle istituzioni che occorrono
per costituire il "direttorato" mondiale di "un nuovo ordine
mondiale".
Nel
saggio-romanzo del 1905 “A Modern Utopia” era stato altrettanto chiaro:
«Si arriverà, insomma, all'attuazione di un
vero e proprio Stato Mondiale».
Qua il
sogno wellsiano si esplicita in uno Stato mondiale pacificato e
tecnologicamente avanzato: l'utopia rappresenta per l'autore il futuro e
questo, a sua volta, non poteva che risiedere nella scienza in quanto
perseguimento del Bene e della Verità.
La
Cospirazione aperta in Wells ha un unico scopo, la distruzione dello Stato nazionale
sovrano.
Tra le
ricette per instaurare un ordine mondiale vi è anche l'introduzione di una
"religione per la vita umana" che si ispira al positivismo di Auguste
Comte e al suo concetto di "religione dell'umanità", un culto cioè
senza divinità e senza trascendenza, integrata dai contenuti della filosofia
malthusiana (e quindi sul controllo/riduzione delle nascite ovviamente nei confronti
delle classi meno abbienti) e dalla teoria della selezione eugenetica sposata da Julian
Huxley che ritroveremo esplicitata nell'opera del fratello Aldous.
La
Chiesa positivista di Comte si basava sulla triade positivista:
Grande
Essere (l'Umanità);
Grande
Feticcio (la Terra);
Grande
Ambiente o Grande Mezzo (lo Spazio).
La
religione di Comte venerava l'Uomo:
al
culto dei santi si sostituisce quello degli eroi laici della storia scientifica
e civile.
Capiremo
meglio, andando avanti nel nostro racconto, come da queste basi si sia
concretizzato un culto dell'Uomo che, tramite la scienza e la tecnologia,
intende potenziarne le capacità in modo illimitato facendone una divinità.
Rifacendosi
dunque al filosofo e sociologo francese, Wells dichiara la necessità di «una nuova religione positivista che
impedisca la disgregazione della società dandole un controllo e una direzione», quindi l'esigenza di proporre un
culto laicista e scientista basato sulla stessa umanità, essendo la religione
un'attività puramente sociale, basata sulla fissazione di riti, di regole e di
cerimonie che impediscono alla società di cadere nell'anarchia.
In estrema
sintesi, Wells sposa i seguenti capisaldi:
darwinismo
sociale;
globalizzazione (superamento delle sovranità
nazionali e creazione di un ordinamento mondiale);
limitazione
delle nascite;
selezione
sociale e razziale;
eugenetica
(limitazione
e selezione delle caratteristiche genetiche della popolazione);
Comenius,
"precursore" dell’UNESCO.
Come
spiega ampiamente “Enzo Pennetta” nel suo libro Inchiesta sul darwinismo,
appare evidente che il clima dell'epoca avesse incubato una precisa volontà
politica oltre a quella culturale che sarebbe per esempio emersa con la
fondazione dell'UNESCO, volta alla costituzione di una «nuova realtà ispirata alla Royal
Society».
Il
primo direttore fu proprio Julian Huxley.
Con
l'UNESCO ci troviamo di fronte alla realizzazione globale di ciò che - come
ampiamente spiegato dal coautore” Gianluca Marletta in Governo Globale” - Comenius (riconosciuto come
"antenato spirituale") aveva sognato e che la Royal Society aveva
concretizzato in ambito britannico:
l'idea
cioè che un piccolo gruppo di illuminati detentori della verità abbia il
diritto di "indirizzare" e addirittura manipolare l'umanità verso
scopi e fini ignoti alle moltitudini.
L'organizzazione
poteva essere a sua volta, «con le sue caratteristiche di sovra nazionalità e
autorevolezza nel campo culturale e scientifico [...] lo strumento
corrispondente a quello immaginato da Wells nel 1928».
Nel
documento di fondazione dell'organizzazione, L'Unesco e il progresso umano,
troviamo il concetto di "progresso umano" come pilastro fondamentale
dell'evoluzione che si riflette anche nell'invito a incrementare le innate
capacità mentali umane attraverso «deliberate misure eugenetiche».
Huxley
chiarirà inoltre che il programma «dovrà essere portato avanti da una minoranza che
potremmo definire "illuminata" che guiderà la maggioranza cieca verso il
progresso».
Per
fare ciò, sarà necessario manipolare l'opinione pubblica, ricorrendo alle
tecniche militari di persuasione di massa che erano state fino a quel momento
utilizzate in tempo di guerra... Nel documento Unesco” its purpose and its
philosophy “si legge:
«Il
progresso non è automatico o inevitabile ma dipende dalla scelta umana e dallo
sforzo di volontà.
Prendendo le tecniche di persuasione e
informazione e vera propaganda che abbiamo imparato ad applicare come nazione
in guerra, e deliberatamente unendole ai compiti internazionali di pace, se
necessario utilizzandole, come Lenin previde per superare la resistenza di
milioni verso il cambiamento desiderabile».
Propaganda
di guerra utilizzata in tempo di pace per manipolare l'opinione delle masse:
questo è uno degli scopi programmatici delle “Nazioni Unite”!
Il
pensiero di Comenius, come mostrava Gianluca Marletta in Governo Globale, è infatti indispensabile per
comprendere le radici dell'idea moderna di un nuovo ordine mondiale e delle sue
implicazioni ideologiche.
L'UNESCO
ha persino curato direttamente la traduzione e la pubblicazione di alcuni
passaggi scelti dell'opera di “Comenius”, riconoscendone il ruolo di
"precursore ideale".
Il
testo più significativo di Comenius è la” Panorthosia” (traducibile come
"Diritto Universale"), dove l'autore elabora infatti la sua
avveniristica visione di un'autorità mondiale la cui funzione sarebbe quella di
riformare l'educazione (anche a partire dalla creazione di una neo-lingua
universale), trasformare e unificare le religioni e vegliare sulla pace globale
prevenendo i conflitti.
A questo scopo, “Comenius” auspica la creazione di tre
"comitati universali" a cui siano sottoposte rispettivamente la
cultura, la religione e la politica:
«Sarà
utile distinguere quei tribunali con appellativi diversi, chiamando “Consiglio della Luce” il
tribunale dei dotti, “Concistoro “il tribunale ecclesiastico e “Tribunale della
Pace” il tribunale politico».
(10
aprile 2019).
La
crescita del potere
delle multinazionali.
Volerelaluna.it – (29-10-2021) -Rocco Artifoni
- Centro Nuovo Modello di Sviluppo – ci
dice:
Le
multinazionali hanno più potere degli Stati nazionali.
La
frase può sembrare scontata, ma può risultare vera soltanto se viene documentata.
A questo provvede meritoriamente il Centro
Nuovo Modello di Sviluppo coordinato da Francesco Gesualdi, che pubblica da 11
anni un report ‒ ben strutturato anche graficamente ‒ con aggiornamenti sulle
200 più importanti multinazionali a livello planetario.
Analizzando
i dati relativi all’anno 2020 emergono aspetti rilevanti.
Anzitutto
che tra le prime 100 entità economiche mondiali, 30 sono governi di Stati e 70
sono multinazionali.
Il che
dimostra la correttezza della frase iniziale.
In questo confronto tra entrate pubbliche e
fatturati privati in cima alla classifica ci sono gli USA, seguiti da Cina e
Germania.
La
Walmart, al primo posto tra le multinazionali, si colloca al 9° posto,
precedendo stati come Spagna, Russia, India, Australia e Brasile.
Il 2020 ‒ a causa della pandemia ‒ è stato un
anno orribile.
Tutti
i bilanci degli Stati hanno chiuso con forti deficit.
Non è
accaduto lo stesso alle multinazionali: soltanto 30 tra le prime 200 hanno
chiuso in perdita, mentre 170 hanno registrato utili.
Questi
dati mostrano con chiarezza da quale parte stia pendendo la bilancia del potere
economico e finanziario.
È
anche interessante verificare quali siano le multinazionali che hanno avuto una
crescita consistente negli ultimi 10 anni.
Anzitutto
Amazon che nel 2010 era al 269° posto, cioè fuori dalla classifica dei Top
200 e che l’anno
scorso troviamo incredibilmente al 3° posto assoluto.
Notevole
anche la performance di Apple, che dal 111° di dieci anni fa è passata al 6°
posto nel 2020.
Raggruppando
le multinazionali per settori, in base al fatturato il 22% si occupa di
commercio e trasporti, il 21% di finanza e assicurazioni, l’11% di energia e
petrolio, il 10% di elettronica e computer, l’8% di autoveicoli.
La
prima multinazionale nel settore del commercio è la Walmart con un fatturato di
559 miliardi di dollari.
Nel
settore dell’energia il primo posto è occupato dalla “China National Petroleum” con un
fatturato di 284 miliardi.
Tra i
costruttori di auto in cima alla classifica si attesta la Toyota Motor con 257
miliardi di dollari.
Il
dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo contiene anche schede di
approfondimento sulle multinazionali dei farmaci e dei vaccini, su Amazon,
sull’economia dei militari in Egitto e Myanmar, sulla comunicazione dei grandi gruppi
che cercano di presentarsi con la faccia pulita di chi ha a cuore le persone,
l’ambiente ecc.
Da
segnalare la scheda dedicata agli stipendi d’oro nel 2020 dei top manager
italiani, pubblici e privati, che non sembrano aver risentito della crisi.
Michael Manley di Stellantis ha ricevuto un
compenso di 11,7 milioni, John Elkann di Exor 8,5 milioni, Francesco Starace di
Enel 7,5 milioni e Claudio Descalzi di Eni 6,0 milioni.
La
media degli stipendi dei top manager delle società quotate alla Borsa di Milano
è di circa 2 milioni di euro, cioè 36 volte la retribuzione media degli altri
lavoratori di queste società.
Questi
dati dovrebbero far riflettere, poiché è evidente che il potere economico
privato sta crescendo a discapito dell’interesse pubblico.
In questa prospettiva non risulta fuori luogo
quanto scriveva Louis D. Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti:
«Possiamo
avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non
possiamo avere entrambe le cose».
(Rocco
Artifoni)
Gli
oligarchi di Davos.
Onebooks.it
– Webinar -Enrica Perucchetti – (3 marzo 2023) – ci dice:
Per i
tecnocrati di Davos, il Great Reset intende creare un nuovo “ordine mondiale”
tecnologico e post-umano in cui ogni aspetto della nostra vita rischierà di
essere controllato, automatizzato e sorvegliato da un occhio ben più crudele e
spietato di quello del Grande Fratello orwelliano.
Per le
élite mondialiste che si riuniscono ogni anno a Davos, l’emergenza pandemica è
stata un’occasione per avviare la promozione di un’Agenda globale, nota come Great
Reset.
Il
fondatore del Word Economic Forum, l’ingegnere ed economista tedesco Klaus
Schwab, descrive nei suoi libri uno stravolgimento globale della nostra
società̀ in una direzione post-umana.
Il
sogno degli oligarchi di Davos è rafforzare la governance globale e dividere la
società̀ in due livelli:
da una parte il potere economico detenuto da una
ristretta cerchia tecno-finanziaria di miliardari, dall’altra la “massa “indistinta di
individui sempre più̀ poveri, senza diritti e senza radici, facili da sfruttare e controllare
per il nuovo ordine post-umano che si sta costruendo.
Ecco
spiegato il terrorismo mediatico, censura, digitalizzazione, sorveglianza
tecnologia e biopotere;
la
“nuova normalità” e i piani per la creazione di un governo unico mondiale;
la
quarta rivoluzione industriale e l’Agenda globale del Grande Reset.
(Enrica
Perucchetti.)
I
superprofitti delle multinazionali
tassati
al 15%?
Hanno
vinto ancora loro.
Micromega.net - Pierfranco Pellizzetti - (9 Giugno 2021) – ci dice:
Qualcuno
ricorderà il film “The Game” – “il gioco” – diretto nel 1997 da David Fincher,
con Michael Douglas, finanziere con l’ossessione di fare sempre più soldi, e
suo fratello Sean Penn, in apparenza scapestrato ma – in effetti – saggio e
sempre più preoccupato per la piega autodistruttiva che ha preso la vita del
suo più stretto consanguineo.
Il
gioco pone al centro una società di consulenza che – utilizzando ogni mezzo,
dai questionari alla grafologia – si impadronisce fin nei più intimi
particolari della struttura psicologica di una persona, al fine di programmarne
il futuro governandone ogni dettaglio:
sicché il finanziere Douglas sparerà al povero
Penn e, credendo di averlo ucciso, tenterà di suicidarsi.
In una
conclusione fracassona del game, dove tutto è rigorosamente previsto per
arrivare al lieto fine.
Perché,
come disse la scrittrice americana Mary Mc Carthy, “l’happy end è la nostra
ideologia nazionale”.
A
volte Hollywood riesce a forare la cappa di apparenze che sovrasta le nostre
esistenze lasciando intravvedere frammenti di realtà.
Ossia
l’effettiva condizione che ci riserva l’ordine sovraordinato del Potere, da
quando la modernità pose le sue fondamenta nel New England e i Padri Fondatori,
ispirati dal “maître à penser” Beniamino Franklin che disprezzava i poveri (“che non
vanno aiutati perché imparino ad arrangiarsi”), instaurarono una plutocrazia
coloniale che strumentalizza l’energia dei ceti subalterni (che la cultura anglosassone
considerava etnie inferiori) per realizzare i propri scopi.
Michel
Foucault aprì uno spiraglio sulla vera natura del Potere osservandone l’evoluzione quando
scoprì la superiore economicità di incatenare le menti al posto dei corpi.
Oggi studi accurati approfondiscono le
tecniche più aggiornate di indirizzo del comportamento (dalle scelte d’acquisto alle opzioni
elettorali) che pretendono di smentire la credenza cristiana nel libero arbitrio.
Operazione
entrata in una dinamica accelerativa dal momento in cui fu espulso dal campo di
gioco il soggetto che inceppava le dinamiche del dominio: il lavoro organizzato.
E –
come disse Zygmunt Bauman – “i ricchi impararono a fare a meno dei poveri”.
Per
cui, caro lettore di questo “post claustrofobico” (se non ti sei fermato prima,
in quanto intollerante alle mie melanconie), mi spiace dirtelo:
tu ed
io – borghesi proletarizzati – non contiamo più niente.
Il “demos” è in balia dell’“oligos” grazie al
cosiddetto “Capitalismo della sorveglianza” che le varie Facebook, Google
esercitano su di noi.
Per cui a Occidente ci rimane solo la condizione di
consumatori e a Oriente quella di robot umani al lavoro nella mega-macchina
mondiale.
Almeno
fino a quando non ci verrà offerta la pillola di “Matrix”, che Neo riceve da
Morpheus e grazie alla quale oltrepassa le apparenze create dal programma carceriere. E così potremo vedere chi veramente sono i
nostri oppressori.
L’assurdità tutta italiana di consegnare il
compito di rifondare il Paese all’algoritmo che incorpora le procedure che
l’hanno rovinato:
il
banchiere locale per eccellenza “Mario Draghi” con la costellazione dei suoi
programmi secondari (il travet “Cingolani”, sacerdote della tecnologia
affaristica, il lunare “Colao”, liberista del cartello oligopolistico della
telefonia cellulare, la costituzionalista controriformista “Cartabia”).
Ecco,
credo che la pillola anti Matrix-dominio-plutocratico sia rappresentata da una
turbativa nel software del potere: la ripresa del conflitto.
Che tuttavia non riguarda la dialettica
tradizionale tra chi sta in alto e chi sta in basso.
Piuttosto
coinvolge soltanto il vertice, l’establishment.
Ossia
le tensioni che si stanno manifestando tra le due parti del club degli
ottimati, relative
ai criteri di spartizione delle ricchezze che si sono accumulate nel punto più
elevato della piramide sociale.
Le
turbative sulla vetta dell’Olimpo.
Parliamo
dello scontro tra mega-imprese e ultra-ricchi ormai de-territorializzati e
quella parte di potenti che traggono la loro condizione dall’amministrare i
confini delle varie nazioni.
L’altro
giorno era lo scontro tra i difensori della proprietà intellettuale e i
liberalizzatori dei vaccini: il presidente Joe Biden versus Pfizer e Big
Pharma.
Ora la
controversia sulle tasse non pagate dalle varie Major californiane del silicio.
Scontri
risolti tutti – non a caso – con il trionfo dei soggetti che si arricchiscono
con il business delle manipolazioni mentali e forme schiavistiche di
sfruttamento.
Nonostante
le dichiarazioni teatrali delle controparti regolatrici che parlano di successi
epocali per aver stabilito il prelievo del 15% sui superprofitti faraonici.
E Thomas Piketty dichiara: “anche a me
piacerebbe pagare aliquote così modeste”.
Però è
un altro varco che si apre.
Se
entrasse nel gioco anche un soggetto rappresentante degli esclusi si potrebbe
rimettere in funzione il meccanismo democratico, attraverso intelligenti
politiche di alleanze.
Tutte
le rivoluzioni conosciute hanno visto coalizioni tra insiders e pezzi delle
vecchie classi dominanti.
Colonialismo
digitale – Le multinazionali
Big
Tech e il Sud Globale.
Meltingpot.org
- Michael Kwe, ROAR Magazine – (31 MARZO 2021) – ci dice:
Proponiamo
la traduzione a cura di “Globalproject.info” di questo articolo di Michael Kwet
– originalmente pubblicato da ROAR Magazine – sul dominio globale delle
multinazionali dell’alta tecnologia, che mostra come – in un contesto
capitalista – la digitalizzazione sia legata a un estrattivismo insostenibile e al
rafforzamento di una divisione del lavoro altamente ineguale tra Nord e Sud del
mondo.
Nel
2020, i miliardari si sono arricchiti a dismisura.
Il patrimonio personale di Jeff Bezos è
cresciuto da 113 a 184 miliardi di dollari. Elon Musk ha per poco eclissato
Bezos con un aumento di patrimonio di 27 miliardi di dollari, che l’ha portato
a possederne 185 miliardi. Per i capitalisti alla testa delle multinazionali
Big Tech, è stato un anno da favola.
Tuttavia,
per quanto l’accresciuto potere di tali multinazionali nei propri mercati
interni è stato oggetto di numerose analisi critiche, la loro portata globale è
discussa molto meno frequentemente, soprattutto dagli intellettuali più in
vista dell’impero americano.
Infatti,
studiando i meccanismi e le cifre, è chiaro che il Big Tech non è solo globale
ma anche coloniale e dominato dagli Stati Uniti.
Questo
fenomeno è il “colonialismo digitale”.
Nel
mondo in cui viviamo, il colonialismo digitale rischia di diventare una
minaccia per il Sud Globale di gravità ed estensione simili a quelle del
colonialismo classico dei secoli passati.
Le profonde disuguaglianze e l’accresciuta
sorveglianza da parte di stati e aziende attraverso sofisticate tecnologie
poliziesche e militari sono solo alcuni sintomi di questo nuovo ordine
mondiale.
Per quanto tale fenomeno possa sembrare nuovo,
esso si è incastonato nello status quo globale nel corso dei decenni passati.
In
assenza di un movimento di contropotere sufficientemente forte, la situazione
non potrà che peggiorare.
Che
cos’è il colonialismo digitale?
Il
colonialismo digitale è l’uso delle tecnologie digitali per il dominio
politico, economico e sociale di un’altra nazione o territorio.
Sotto
il colonialismo classico, gli europei si impadronirono di terre straniere e vi
si trasferirono, costruirono infrastrutture come fortini militari, porti
marittimi e ferrovie, usarono navi da guerra a scopi di penetrazione economica
e conquista militare, insediarono macchinari pesanti e sfruttarono i lavoratori
per estrarre materie prime, eressero strutture panottiche per sorvegliare la
mano d’opera, schierarono gli ingegneri necessari a uno sfruttamento avanzato
(es. chimici per l’estrazione di minerali), si appropriarono dei saperi
indigeni per incorporarli nei processi industriali, spedirono le materie prime
in madrepatria per trasformarle in prodotti manifatturieri, distrussero i
mercati del Sud Globale con beni manifatturieri a basso costo, perpetuarono la
dipendenza di popoli e nazioni del Sud Globale da una ineguale divisione
globale del lavoro ed espansero un dominio economico, diplomatico e militare
volto al profitto e al saccheggio.
In altre parole, il colonialismo dipendeva dalla
proprietà, dal controllo di territori e infrastrutture, dall’estrazione di
lavoro, saperi e risorse e dall’esercizio del potere statale.
Tale
processo si è evoluto nei secoli e le nuove tecnologie vi si sono amalgamate
nel corso del loro sviluppo.
Nel
diciottesimo secolo, cavi sottomarini facilitavano le comunicazioni via
telegrafo al servizio dell’impero britannico.
I progressi nella registrazione, archiviazione
e organizzazione dell’informazione furono collaudati dai servizi segreti
statunitensi nella conquista delle Filippine.
Oggi,
le “vene aperte” del Sud Globale di cui parlava Eduardo Galeano sono le “vene
digitali” che attraversano gli oceani, cablando un ecosistema tecnologico
posseduto e controllato da poche multinazionali, perlopiù statunitensi.
Alcune
tra queste fibre ottiche transoceaniche sono in mano a compagnie come Google e
Facebook, funzionali alla loro estrazione e monopolizzazione di dati.
Gli odierni macchinari pesanti sono le “cloud server
farm” dominate da Amazon e Microsoft – usate per immagazzinare, concentrare e
processare big data – che stanno proliferando come le basi militari dell’impero
americano.
Gli eserciti sono composti da ingegneri e
programmatori d’élite con generosi stipendi da 250.000 dollari all’anno o più.
La mano d’opera sfruttata è fatta di schiere di
lavoratori razzializzati che estraggono i minerali in Congo o in America
Latina, codificano dati per lo sviluppo d’intelligenza artificiale dalla Cina o
dall’Africa o ripuliscono i social media da contenuti traumatizzanti, con i
conseguenti impatti sulla propria salute mentale.
Le
piattaforme e i centri di spionaggio (come la NSA) sono “i panottici” e “i dati
“sono le materie prime processate per creare servizi basati su tecnologie di
intelligenza artificiale.
In
termini più generali, il colonialismo digitale consolida una divisione globale
del lavoro ineguale, in cui le potenze dominanti usano la proprietà di
infrastrutture digitali, saperi e mezzi di computazione per mantenere il Sud
Globale in una condizione di dipendenza permanente.
La divisione globale del lavoro si è trasformata.
Economicamente, l’industria è scesa nella
gerarchia del valore ed è stata rimpiazzata da un’economia hi-tech in cui le
multinazionali Big Tech dominano.
L’architettura
del colonialismo digitale.
Il
colonialismo digitale ha le sue radici nel dominio della “roba” del mondo
digitale che costituisce i mezzi di computazione – software, hardware e
collegamenti di rete.
Ciò
include le piattaforme che fanno da “gate keeper”, i dati estratti da fornitori
di servizi intermediari e le norme di settore, come la “proprietà
intellettuale” e la “intelligenza digitale”.
Il capitalismo digitale si è profondamente
integrato con gli strumenti convenzionali del capitalismo e della governance
autoritaria, quali lo sfruttamento del lavoro, la policy Capture, la
pianificazione economica, i servizi segreti, l’egemonia della classe dirigente
e la propaganda.
Cominciando
dal software, possiamo notare un processo in cui il codice – che una volta era
liberamente e ampiamente condiviso dai programmatori – è diventato sempre più
privatizzato e soggetto a copyright.
Negli anni ‘70 e ‘80, il Congresso degli Stati
Uniti ha iniziato a rafforzare i diritti d’autore dei software.
C’è
stato un movimento di opposizione nella forma delle licenze “Free and Open Source Software” (FOSS) che garantivano agli utenti il
diritto di usare, studiare, modificare e condividere software.
Questo
ha avuto benefici intrinseci per alcuni paesi del Sud Globale, in quanto ha
creato una “comune
digitale”,
libera dal controllo delle grandi aziende e dalla ricerca di profitto.
Tuttavia, diffondendosi verso Sud, il
movimento “Free Software” ha sollecitato una reazione da parte delle grandi
aziende.
Microsoft
ha schernito il Perù quando il governo ha provato ad allontanarsi dai software
brevettati da Microsoft.
Ha anche provato ad impedire ad alcuni governi
africani di usare il sistema operativo FOSS GNU/Linux nei ministeri del governo
e nelle scuole.
La
privatizzazione dei software è stata accompagnata dalla rapida centralizzazione
di Internet nelle mani di fornitori intermediari di servizi come Facebook e
Google.
Essenzialmente,
questo passaggio ai “servizi in cloud” ha annullato le libertà che le licenze
FOSS garantivano agli utenti, perché il software è eseguito dai computer delle
multinazionali Big Tech.
I cloud delle multinazionali espropriano le
persone dalla possibilità di controllare i loro computer.
I
servizi in cloud forniscono petabyte di informazioni alle multinazionali, che
utilizzano i dati per addestrare i loro sistemi di intelligenza artificiale.
L’intelligenza
artificiale usa i “Big Data” per “imparare” – ha bisogno di milioni di immagini
per riconoscere, per esempio, la lettera “A” nei diversi font e formati.
Applicando
questo agli umani, i dati sensibili delle vite private delle persone diventano
una risorsa dal valore incalcolabile che i giganti della tecnologia provano
incessantemente ad estrarre.
Nel
Sud Globale, la maggior parte delle persone è essenzialmente bloccata con
telefoni o smartphone di basso livello, con pochi dati a disposizione.
Di
conseguenza, milioni di persone vivono Facebook come “l’internet” e i dati su
di loro sono consumati da imperialisti stranieri.
Gli
“effetti di retroazione” dei” Big Data” rendono la situazione peggiore: chi ha
più dati e di maggiore qualità può creare i migliori servizi di intelligenza
artificiale, che attraggono più utenti, i quali forniscono ancora più dati per
rendere il servizio migliore e così via.
Come
accade nel colonialismo classico, i dati sono stati assunti come materie prime
per le potenze imperialiste, che li processano e fabbricano servizi da
restituire al pubblico globale, cosa che rafforza ulteriormente il loro dominio
e pone il resto della popolazione in una situazione subordinata di dipendenza.
Cecilia
Rikap, nel suo prossimo libro “Capitalism, Power and Innovation: Intellectual
Monopoly Capitalism Uncovered”, mostra come i giganti della tecnologia
statunitensi basino il loro potere di mercato sui loro monopoli intellettuali,
stando in cima a una complessa catena di produzione di aziende subordinate, con
l’obbiettivo di estrarre profitti e sfruttare lavoro.
Grazie
a ciò, sono in grado di accumulare il “know-who” e il “know-how” per pianificare ed
organizzare catene di valore globali e di privatizzare la conoscenza ed
espropriare i saperi comuni e i risultati pubblici della ricerca.
Apple,
per
esempio, estrae profitti dagli “IP “e il “branding” dei suoi smartphone e
coordina tutta la catena di produzione.
I
produttori di basso livello, come gli assemblatori di telefoni degli
stabilimenti della “multinazionale taiwanese Foxconn”, gli estrattori dei
minerali necessari per le batterie in Congo e le aziende che producono chip che
forniscono i processori, sono tutti subordinati alle richieste e ai capricci di
Apple.
In
altre parole, i giganti della tecnologia controllano le relazioni commerciali
lungo tutta la catena di produzione, traendo profitto dalla loro conoscenza, il
loro capitale accumulato e l’egemonia delle componenti funzionali fondamentali.
Ciò permette loro di imporre il prezzo a, o
fare a meno di, aziende relativamente grandi ma in una posizione subordinata.
Le università sono complici.
Le più prestigiose, nel cuore dei paesi
imperialisti, dominano lo spazio di produzione accademico, mentre le più
vulnerabili, nella periferia o semi-periferia, sono le più sfruttate e spesso
mancano di fondi per la ricerca e lo sviluppo, della conoscenza o capacità di
brevettare le scoperte e delle risorse per ribellarsi quando il loro lavoro
viene espropriato.
La
colonizzazione dell’istruzione.
Un
esempio di come il colonialismo digitale si sviluppa è il settore
dell’istruzione. Come espongo dettagliatamente nella mia tesi di dottorato
sulle tecnologie della didattica in Sud Africa, Microsoft, Google, Pearson, IBM
e altri giganti della tecnologia si impongono nei sistemi didattici in tutto il
Sud Globale.
Per
Microsoft, non è niente di nuovo.
Come
scrivevo sopra, Microsoft ha tentato di intimidire alcuni governi africani
affinché rimpiazzassero “Free Software” con “Microsoft Windows”, anche nelle
scuole.
In Sud
Africa, Microsoft ha un esercito di persone addette a formare gli insegnanti su
come usare il software Microsoft nel sistema educativo.
Fornisce
anche tablet Windows e software Microsoft a diverse università, come
l’Università di Venda, una partnership che ha pubblicizzato ampiamente.
Più di
recente, ha collaborato con l’operatore di telefonia mobile Vodacom (posseduto per la maggior parte dalla
multinazionale britannica Vodafone) per fornire una didattica digitalizzata agli studenti
sudafricani.
Nonostante
Microsoft sia il principale fornitore, con contratti in almeno cinque dei nove
dipartimenti educativi provinciali in Sud Africa, anche Google sta cercando una
quota di mercato.
In collaborazione con la startup sudafricana CloudEd, Google sta cercando di chiudere il
primo contratto con un dipartimento provinciale.
Anche
la” Michael and Susan Dell Foundation” si è gettata nella mischia, offrendo una
piattaforma “Data Driven District” (DDD) ai governi provinciali.
Il software DDD è progettato per raccogliere
dati che rintracciano e monitorano insegnati e studenti, compresi voti,
presenze e “questioni sociali”.
Al
momento le scuole caricano i dati raccolti settimanalmente piuttosto che in
tempo reale, ma lo scopo ultimo è di fornire un monitoraggio del comportamento
e della performance degli studenti in tempo reale, per la gestione burocratica
e la “analisi longitudinale dei dati” (analisi dei dati dello stesso gruppo di
individui raccolti nel tempo).
Il
governo sudafricano sta anche potenziando il cloud del “Department of Basic
Education” (DBE), che potrebbe prima o poi essere usato per una sorveglianza
tecnocratica invasiva.
Microsoft
si è avvicinato al DBE con la proposta di raccogliere dati “per il ciclo di vita
dell’utente”, a partire dalla scuola e, per chi mantiene un account di
Microsoft Office 365, nella vita adulta, in modo che il governo possa condurre
analisi longitudinali su cose come il rapporto tra istruzione e impiego.
Il
colonialismo digitale delle Big Tech si sta diffondendo rapidamente nei sistemi
educativi del Sud Globale.
Scrivendo
dal Brasile, Giselle Ferreira e i suoi co-autori dichiarano:
“La
somiglianza tra ciò che sta accadendo in Brasile e l’analisi di Kwet (2019) del
caso sudafricano (e probabilmente di altri paesi del ‘Sud Globale’) è notevole.
In particolare, quando le multinazionali GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple)
offrono generosamente tecnologie agli studenti svantaggiati, i dati di questi
ultimi vengono estratti senza ostacoli e conseguentemente trattati in un modo
che rende le specificità locali prive di importanza.”
Le
scuole sono ottimi siti di espansione del controllo del mercato digitale per le
Big Tech.
I
poveri del Sud Globale spesso ricevono dal governo o dalle aziende un
dispositivo a costo zero, che li rende però dipendenti da terzi per quanto
riguarda la decisione del software che usano.
Quale
modo migliore di acquisire mercato che prevaricare software Big Tech sui
dispositivi offerti ai bambini – che altrimenti non potrebbero permettersi
altre tecnologie che un telefonino di vecchia generazione?
Questa
strategia ha il vantaggio aggiuntivo di catturare futuri sviluppatori di
software, che probabilmente preferiranno, ad esempio, Google o Microsoft
(invece di soluzioni tecnologiche popolari basate su Free Software) dopo aver
passato anni ad usare il loro software ed essersi abituati alle loro
interfaccia e funzionalità.
Sfruttamento
del lavoro.
Il
colonialismo digitale è altresì evidente nella maniera in cui gli stati del Sud
Globale sono pesantemente sfruttati per fornire alcune materie prime indispensabili
alle tecnologie digitali.
Da
tempo si rileva che la “Repubblica Democratica del Congo” fornisce più del 70%
del cobalto
mondiale,
un minerale essenziale per le batterie delle automobili, degli smartphone e dei
computer.
Quattordici
famiglie congolesi stanno denunciando Apple, Tesla, Alphabet, Dell e Microsoft
accusandole di impiegare manodopera infantile nell’industria mineraria.
L’estrazione dei minerali di per sé spesso agisce negativamente sulla salute
dei lavoratori e del loro habitat.
Per
quanto riguarda il litio, le riserve maggiori si trovano in Cile, Argentina, Bolivia
e Australia.
Gli stipendi nei paesi latinoamericani sono
bassi rispetto agli standard dei paesi ricchi, soprattutto considerando le
condizioni lavorative.
La
disponibilità di dati non è uniforme, ma in Cile i minatori guadagnano fra i
1.430 e i 3.000 dollari al mese, in Argentina lo stipendio mensile arriva a
essere compreso fra i 300 e i 1.800 dollari.
Nel 2016, il salario minimo mensile dei
minatori in Bolivia è stato “aumentato” a 250 dollari.
Come
termine di paragone, i minatori australiani guadagnano circa 9.000 dollari al
mese e possono raggiungere i 200.000 dollari all’anno.
Gli
stati del Sud Globale offrono anche abbondante forza lavoro a basso costo per i
giganti tecnologici.
Fra le mansioni sottopagate ci sono: raccoglitori di dati per i server
di intelligenza artificiale, operatori di call center e moderatori di contenuti
per i giganti dei social media come Facebook. I moderatori di contenuti puliscono i feed dei
social media dai contenuti scioccanti, come violenza e materiale sessualmente
esplicito, e spesso ne subiscono i danni psicologici.
Nonostante ciò, un moderatore di contenuti in un paese
come l’India può guadagnare fino a un massimo di 3.500 dollari all’anno – e
solo dopo un “aumento”, partendo da una retribuzione base di 1.400 dollari.
Un
impero digitale cinese o americano?
In
Occidente si parla molto di una “nuova Guerra Fredda”, con gli Stati Uniti e la Cina che
si contendono la supremazia tecnologica globale.
Tuttavia,
uno sguardo più approfondito sull’ecosistema tech rivela che le multinazionali
americane sono dominanti nell’economia globale.
La
Cina, dopo decenni di forte crescita, genera il 17% del PIL globale e si
prevede che superi gli Stati Uniti entro il 2028, dando adito a voci che
l’impero americano sia in declino (una narrativa che è stata popolare anche
durante l’ascesa del Giappone).
Se si
misura l’economia in termini di potere di acquisto, la Cina è già più grande
degli Stati Uniti.
Tuttavia,
come osserva l’economista “Sean Starrs” nella “New Left Review”, questa tesi
considera erroneamente gli stati come unità autonome, “che interagiscono come palle su un
tavolo da biliardo”.
Starrs
sostiene che in realtà il dominio economico americano “non è in declino, si è
globalizzato”.
Questo è particolarmente vero quando si
considera il Big Tech.
Nel
periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, la produzione delle grandi aziende si
è distribuita lungo reti di produzione transnazionale.
Per
esempio, negli anni ‘90 aziende come Apple hanno cominciato a sub-contrattare
all’estero la produzione elettronica, spostandola dagli Stati Uniti alla Cina e
Taiwan, sfruttando la manodopera di lavoratori assunti da compagnie come
Foxconn.
Un
altro esempio: spesso le multinazionali tech americane progettano l’IP per gli
interruttori dei router ad alta prestazione (Cisco) e allo stesso tempo
acquistano all’estero la capacità produttiva dei fabbricanti di hardware nel
Sud Globale.
Starrs
ha redatto un profilo delle 2000 grandi imprese pubbliche classificate da
Forbes Global 2000 organizzandole in 25 settori, in cui si evidenzia il dominio
delle multinazionali americane.
Dal 2013 queste ultime hanno dominato, in
termini di quote di profitto, in 18 dei 25 settori.
Nel
suo libro “American Power Globalized: Rethinking National Power in the Age of
Globalization”, Starrs dimostra che gli Stati Uniti rimangono in testa.
Per i
servizi e software IT, la quota di profitto è del 76% contro il 10% della Cina;
per tecnologia e attrezzatura hardware è del 63% per gli USA e del 6% per la
Cina; per l’elettronica è rispettivamente 43% e 10%.
Altri paesi, come la Corea del Sud, il
Giappone e Taiwan, riescono a raggiungere percentuali superiori in queste
categorie rispetto alla Cina.
Ritrarre
gli USA e la Cina come competitori alla pari nella battaglia per la supremazia
tecnologica globale, come spesso viene fatto, è quindi molto fuorviante.
Per
esempio, un rapporto del 2019 delle Nazioni Unite, “Digital Economy”, afferma
che:
“La geografia dell’economia digitale si concentra in
due paesi” – gli Stati Uniti e la Cina.
Tuttavia,
il rapporto non solo ignora i fattori identificati da autori come “Starrs” ma
omette anche il fatto che la maggior parte dell’industria tecnologica cinese
mantiene il proprio dominio all’interno dei confini nazionali della Cina,
eccezion fatta per importanti prodotti e servizi, come il 5G (Huawei), le
telecamere CCTV (Hikvision, Dahua) e alcuni social media (TikTok), che riescono
a detenere grandi quote all’estero.
La Cina possiede anche investimenti
sostanziali in alcune aziende tech estere, ma questa non è in nessun modo la
prova di una minaccia al dominio degli Stati Uniti, i quali posseggono una
quota assai più ampia di investimenti esteri.
In
realtà, gli USA mantengono una posizione di dominio sull’impero tech.
All’esterno
dei confini nazionali di USA e Cina, gli USA primeggiano nelle categorie:
motori di ricerca (Google); web browser (Google Chrome, Apple Safari); sistemi
operativi per tablet e smartphone (Microsoft Windows, macOS); software per
ufficio (Microsoft Office, Google G Suite, Apple iWork); infrastrutture e
servizi cloud (Amazon, Microsoft, Google, IBM); piattaforme social networking
(Facebook, Twitter); trasporto (Uber, Lyft); business networking (Micosoft
LinkedIn); intrattenimento streaming (Google, YouTube, Netflix, Hulu) e
pubblicità online (Google, Facebook) – tra le altre.
Il
risultato è che se una persona fisica o giuridica usa un computer, le compagnie
americane ne traggono maggior beneficio.
L’ecosistema digitale gli appartiene.
Dominio
politico e strumenti di violenza.
Il
potere economico dei giganti tecnologici USA va di pari passo con la loro
influenza economico-sociale.
Come
per altre industrie, tra dirigenti del Big Tech e governo statunitense vi è una
membrana permeabile, grazie alla quale multinazionali tech e alleanze d’affari
esercitano pressioni per piegare la legislazione a favore dei loro interessi
specifici – e del capitalismo digitale in generale.
Governi
e agenzie di sicurezza, a loro volta, stringono alleanze con il “Big Tech” per
svolgere il loro lavoro sporco.
Nel 2013, Edward Snowden portò alla luce che
Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, YouTube, Skype, AOL e Apple
condividevano informazioni con la National Security Agency per mezzo del
programma PRISM.
Seguirono ulteriori rivelazioni e il mondo venne a conoscenza che i
dati conservati dalle multinazionali e scambiati in Internet erano stoccati
dentro enormi database governativi a beneficio degli stati.
Paesi
nel Sud Globale sono stati oggetto di attacchi da parte dell’NSA, dal Medio
Oriente all’Africa fino all’America Latina.
Anche
polizia e militari lavorano con le corporazioni tech, che sono ben felici di
incassare pingui assegni per la fornitura di prodotti e servizi di
sorveglianza, anche nei paesi del Sud Globale.
Per esempio, attraverso la controllata e poco
conosciuta “Divisone di Pubblica Sicurezza e Giustizia”, Microsoft ha costruito
un’estesa rete di alleanze con i fornitori di servizi di sicurezza [forze
dell’ordine, milizie private, etc.] che sfruttano le infrastrutture cloud di
Microsoft.
Ciò
include una piattaforma di sorveglianza “comando e controllo”, chiamata “Microsoft-Aware”, che è stata acquisita dalla
polizia del Brasile e di Singapore e comprende anche un veicolo dotato di
telecamere di riconoscimento facciale, in utilizzo a Città del Capo e Durban in
Sud Africa.
Microsoft
ha inoltre forti legami con l’industria carceraria.
Offre
svariate soluzioni software alle prigioni, che gestiscono l’intera struttura di
correzione: trasgressori minorenni, audizioni del predibattimento, libertà vigilata,
carceri, così come le persone rilasciate o in regime di libertà condizionale.
Non è
chiaro dove venga esattamente impiegato il gestionale carcerario chiamato Netopia, ma Microsoft ha dichiarato che “Netopia è [un fornitore/partner] in
Marocco impegnato nella trasformazione digitale e nei servizi governativi
dedicati all’Africa centrale e del nord”.
Il
Marocco ha una comprovata storia fatta di brutalità sui dissidenti e tortura
dei prigionieri.
Recentemente, gli Stati Uniti hanno
riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale, in violazione della normativa
internazionale.
Per
secoli, le forze imperiali hanno testato le tecnologie per reprimere e
controllare i loro cittadini prima sulle popolazioni straniere, dal lavoro
pioneristico di “Sir Francis Galton “sulle impronte digitali utilizzato in
India e Sud Africa, alla combinazione di biometrica e innovazione made in the
USA per la gestione dei dati, che ha generato il primo apparato moderno di
sorveglianza utilizzato per pacificare le Filippine.
Come
lo storico “Alfred McCoy” ha evidenziato, l’insieme di tecnologie di
sorveglianza impiegate nelle Filippine fornì un terreno di verifica che venne
poi “re-importato” negli Stati Uniti per essere utilizzato contro i dissidenti
interni.
Microsoft e i progetti di sorveglianza
high-tech dei suoi partner suggeriscono che i paesi africani continuano a
servire come laboratori per la sperimentazione carceraria.
Reagire.
Ovunque,
l’informazione e la tecnologia digitale giocano un ruolo centrale nella
politica economica e nella vita sociale.
In
quanto parte del progetto imperiale americano, le multinazionali statunitensi
stanno reinventando il colonialismo nel Sud Globale attraverso la titolarità e
il controllo della proprietà intellettuale, dell’intelligenza digitale e dei
mezzi di computazione.
La
maggioranza dell’infrastruttura centrale, delle industrie e delle funzioni
eseguite dai computer sono di proprietà di multinazionali americane, che sono
di gran lunga dominanti all’esterno dei confini statunitensi.
Le compagnie più grandi, come Microsoft e Apple,
controllano le filiere globali ponendosi come monopoli intellettuali.
Ne risultano uno scambio e una divisione del lavoro
ineguali, che rafforzano la sudditanza nella “periferia” del mondo mentre si
consolidano miseria di massa e povertà globale.
Invece
di rendere disponibili i saperi, trasferendo le tecnologie e fornendo le
componenti per una ricchezza globale condivisa ed equa, gli stati più ricchi,
assieme alle loro multinazionali, mirano a proteggere la loro posizione
dominante ed estrarre dal Sud Globale lavoro a basso costo e valore.
Monopolizzando
le componenti centrali dell’ecosistema digitale, promuovendo le proprie
tecnologie nelle scuole e nei programmi di apprendimento e creando alleanze con
le élite aziendali e statali del Sud Globale, il Big Tech sta soggiogando i mercati
emergenti.
Lucra persino sui servizi di sorveglianza forniti ai
dipartimenti di polizia e alle prigioni, il tutto per creare profitto.
Eppure,
contro le forze di un potere nelle mani di pochi, c’è chi reagisce.
La resistenza al Big Tech nel Sud Globale ha
una lunga storia, che risale ai giorni delle mobilitazioni internazionali
contro IBM, Hewlett Packard e altre aziende che facevano affari con il Sud
Africa dell’apartheid. Agli inizi degli anni 2000, per un certo periodo, gli
stati del Sud Globale adottarono la filosofia dei software liberi e dei beni
comuni come strumenti per contrastare il colonialismo digitale, anche se molte
di queste iniziative fallirono.
Negli
ultimi anni, nuovi movimenti che combattono il colonialismo digitale sono
emersi.
Il
quadro è molto complesso.
La
crisi ecologica creata dal capitalismo sta seriamente minacciando di distruggere la vita
sulla terra e le soluzioni per un’economia digitale devono intersecarsi con la
giustizia ambientale e una più ampia battaglia per l’eguaglianza.
Per sradicare il colonialismo digitale,
abbiamo bisogno di un paradigma concettuale altro, che metta in discussione le
cause profonde e gli attori più potenti e che si leghi ai movimenti dal basso
che vogliono sfidare il capitalismo, l’autoritarismo e l’impero americano,
nonché i suoi lacchè intellettuali.
Giorgia
Meloni: «Donne
vittime
dell’ideologia gender».
Protesta la comunità Lgbt:
«Parole che rovinano la vita».
Espresso.repubblica.it
– (1° marzo 2023) – Simone Alliva – ci dice:
La
presidente del Consiglio in un’intervista attacca l’identità di genere e la
comunità trans e le famiglie omogenitoriali.
Si sollevano le più importanti sigle
arcobaleno:
«Non
sa quello di cui parla. Dalla destra solo fake news»
"Parole
che rovinano la vita", così vengono accolte le dichiarazioni della Presidente del
Consiglio Giorgia Meloni, pronunciate durante un'intervista al settimanale “Grazia”
in
occasione della” Festa della donna” colpiscono la comunità Lgbt che reagisce
con sdegno.
La
Presidente del Consiglio attacca in una sola intervista l'identità di genere
(“ Le donne sono le prime vittime
dell'ideologia gender.
La pensano così anche molte femministe”) e la
comunità” trans” ("No al diritto unilaterale di proclamarsi donna"),
il
diritto all'aborto (“direi di darsi una possibilità di essere madre, lo Stato
l'aiuterà")
e la genitorialità ("I bambini hanno il diritto di
avere il massimo: una mamma e un papà.
L'utero
in affitto è la schiavitù del terzo millennio").
A
rispondere duramente a queste parole è Porpora Marcasciano attivista storica del Movimento Lgbt italiano e presidente
onoraria del Mit – Movimento Identità Trans di Bologna di cui è stata
fondatrice:
«Le
sue parole fanno capire che viaggia su un binario diverso da quelli che sono le
posizioni scientifiche e soprattutto la realtà di milioni di persone nel mondo.
In opposizione alla scienza e alla vita delle
persone.
Loro
sono culturalmente e politicamente contrari a queste esperienze di vite
significative e non ci sorprende».
E sul
concetto di” ideologia gender “Marcasciano spiega a L'Espresso:
«Invito la Presidente a declinare genere in
italiano, forse le farà meno paura. Usarlo in inglese è una furberia che
richiama l'ignoto, regala quell'effetto messa in latino e spaventa.
Si chiama identità di genere, è un concetto
scientifico.
Il
“gender”, “ideologia gender” o “la teoria del genere” sono categorie polemiche
create dal Vaticano, uno spauracchio che minacciava la famiglia.
Sappiamo che loro, come tutti coloro che erano
presenti al Congresso di Verona nel 2019 sono contrari a tutto questo e sappiamo
che stanno lavorando sottotraccia.
Ci
aspettiamo delle sorprese non piacevoli sulla nostra pelle.
Ma
poiché siamo abituate a conquistarcele le cose, resisteremo e risponderemo
colpo su colpo».
Sulla
stessa linea la presidente nazionale dell'Arcigay Natascia Maesi:
«Quella che Meloni definisce sommariamente
"proclamazione” non è un atto arbitrario, un'alzata d'ingegno, un vezzo o
un capriccio.
È l'affermazione della propria identità di genere.
L'identità di genere è la percezione stabile che ogni persona ha di sé.
Tutte
le persone hanno una identità di genere che è indipendente dal sesso che ci è
stato assegnato alla nascita.
Gli
studi di genere - che non sono un'ideologia ma un ambito di studi che tiene
assieme punti di vista anche dissimili - non negano i corpi in cui nasciamo, né
la differenza tra essi, ma mettono in discussione i ruoli di genere costruiti
socialmente in base a questa differenza e i rapporti di potere che ne
derivano».
«Rivendichiamo
- aggiunge - il diritto all'autodeterminazione di ogni persona, il
riconoscimento di tutti i percorsi di affermazione di genere sia quelli che
prevedono il ricorso a terapie ormonali ed interventi chirurgici, sia quelli
non medicalizzati, perché chi ha una l'identità di genere non conforme alle aspettative
sociali non ha una patologia da curare e non è una minaccia per la società,
tanto meno per le donne, che sanno benissimo cosa vuol dire pagare il prezzo
della propria differenza».
«Parole
che rovinano la vita delle persone Lgbt».
Non
usa mezzi termini Mario Colamarino, presidente del Circolo di Cultura
Omosessuale Mario Mieli.
«Ancora
una volta la Presidente Meloni parla senza sapere quello che dice.
Già nel 2021 durante una conferenza stampa
nella sede di Fratelli d’Italia, dichiarò di non aver mai capito bene cosa vuol
dire il “termine gender” a cui lei stessa fa opposizione.
Infatti
è una grande fake news.
Sulla pelle della comunità trans si continua a
fare propaganda non curante degli effetti negativi di disumanizzazione e
percezione.
Grave che questa operazione di disinformazione
venga dalla Presidente del Consiglio».
«Non
capisco l’insistenza della Presidente Meloni nel paragonare le famiglie omogenitoriali
alla sua condizione familiare.
Suo padre l’ha abbandonata ed è una storia
molto triste ma non è la nostra - commenta a L’Espresso Alessia Crocini,
presidente di Famiglie Arcobaleno, l’associazione di genitori omosessuali - i
nostri figli non sono abbandonati da nessuno.
Parla di diritti dei minori eppure nega ai
nostri figli i diritti di tutti gli altri bambini. I bambini hanno diritto al
massimo, con noi hanno il massimo.
Li
abbiamo fortemente voluti, abbiamo girato il mondo per farli nascere, abbiamo
lottato e continuiamo a lottare per farli riconoscere legalmente.
Suo
padre legalmente e biologicamente non l’ha tutelata e mi dispiace ma io tutelo
mio figlio da quando è nato anche se lo Stato non mi ha riconosciuto come
madre.
Meloni
dovrebbe adoperarsi per cancellare le discriminazioni dei cittadini, questo è
il suo ruolo».
Unica
stecca nel coro Arcilesbica, associazione che negli ultimi anni si è sempre
distinta per le sue posizioni trans-escludenti, che ha applaudito le parole di
Meloni.
IL
POLITICAMENTE CORRETTO:
UNA
NUOVA BARBARIE DELLA RIFLESSIONE?
I-Jus.it – Avvocato Gabriele Civello - (Ago.
16, 2021) - ci dice:
Sommario:
1. Considerazioni introduttive ‒ 2. Le cause semiotico-linguistiche del
politicamente corretto ‒ 3. Il rapporto tra parola e realtà in Platone ‒ 4. Il
rapporto tra parola e realtà in Aristotele ‒ 5. Il rapporto tra parola e realtà
in Sant’Agostino ‒ 6. Il pensiero contemporaneo ‒ 7. Considerazioni conclusive
‒ 8. Una piccola proposta di pars construens.
Considerazioni
introduttive.
Nel
saggio” Politics
and the English Language” del 1946, George Orwell (1903-1950) sostiene che il decadimento
del linguaggio sia diretta conseguenza del declino politico, economico e
culturale della nostra civiltà;
a tal
riguardo, il pamphlet riporta alcuni esempi linguistici, dimostrando come
l’idioma inglese sia andato incontro a gravi fenomeni di usura o di ipertrofia
quali l’utilizzo superfluo di parole esotiche, la ridondanza di sinonimi e,
ancor più, la trasformazione di concetti chiarissimi – ma politicamente
“scomodi” – in corrispondenti perifrasi eufemistiche apparentemente più garbate
ed eleganti, ma in verità equivoche e ricche di ipocrisia.
In
tale breve ma densa analisi è racchiusa, secondo i più, una geniale profezia
del “politicamente
corretto”,
il quale si sarebbe fatto strada progressivamente all’interno della civiltà
cosiddetta occidentale, sino a divenire oggi, dopo oltre settant’anni dalla
morte di Orwell, un fenomeno globale apparentemente inarrestabile.
Il politically correct è, a grandi linee, una prassi sociale
– una nuova forma di conformismo, da taluni definito persino come una sorta di
religione politica – nata soprattutto negli Stati Uniti d’America e, più in
generale, nei paesi anglosassoni oltre che scandinavi, la quale comporta la
modificazione o la sostituzione di espressioni linguistiche preesistenti con
corrispondenti nuove locuzioni o perifrasi;
ciò al
dichiarato fine di evitare che i preesistenti “modi di dire” possano ferire o
persino intimidire determinate classi di soggetti, individuati per il sesso o
l’orientamento sessuale, lo status di salute fisica o mentale, l’opinione
religiosa o filosofica, la provenienza etnica o geografica, l’appartenenza
sociale, economica, sindacale o politica, e così via.
Celeberrimi,
ad esempio, i casi di sostituzione della parola invalido con disabile e, poi,
diversamente abile;
cieco
con non vedente;
nero
con persona di colore oppure afroamericano;
spazzìno con operatore ecologico;
bidello
con operatore scolastico, eccetera.
Oppure
ancora, lasciando solo per un momento l’ambito strettamente linguistico, la
rimozione del presepe dalle scuole per non offendere chi non crede in Gesù,
l’eliminazione della carne di maiale dalle mense scolastiche o universitarie
per non urtare i musulmani, e molti altri casi esemplificativi.
In
definitiva, il politicamente corretto sottende il tentativo di edulcorare il
linguaggio verbale o non verbale, soprattutto depurandolo da una serie cospicua di
curvature assiologiche, nella convinzione che queste ultime potrebbero ferire
la sensibilità o l’autostima di taluni; per questa ragione, il citato fenomeno
comporta l’adozione eufemistica di espressioni linguistiche o di comportamenti
deliberatamente più neutri, anodini, “freddi” e assiologicamente indifferenti
(almeno in apparenza), onde scongiurare il predetto effetto potenzialmente
offensivo.
Le
cause semiotico-linguistiche del “politicamente corretto”.
Negli ultimi anni, gli studi filosofici, politologici
e sociologici sul “politicamente corretto” hanno proliferato in numerosi paesi
anglosassoni ed europei, giungendo a individuare l’origine e le cause di tale
fenomeno.
Un
possibile fattore genetico del “politically correct” potrebbe essere una sorta
di “mutazione” alla quale è andato incontro “il pensiero progressista” degli ultimi decenni:
se,
fino agli anni ’50/’60, l’attenzione delle sinistre marxiste era pressoché tutta
rivolta alle questioni socio-economiche come il superamento dell’eccessiva
sperequazione fra le differenti classi sociali, l’accesso di tutti i cittadini,
anche i meno abbienti, ai diritti fondamentali quali la salute, il lavoro, la
casa, l’istruzione e così via, dagli anni ’60 ad oggi – e ancor più dopo la
caduta del “blocco Sovietico” – l’attenzione dei progressisti si è bruscamente
traslata dai temi socio-economici a quelli di natura ideologico-intellettuale
come, soprattutto, l’iper-ambientalismo, l’iper-animalismo, le battaglie del
gender, LGBT, e così via.
Questo
è il primo humus nel quale sono nate e si sono sviluppate le maggiori forme di
politicamente corretto, fondate sulla cura, spesso maniacale e martellante, nei confronti dei modi di espressione
del pensiero, soprattutto nelle sedi pubbliche e istituzionali, piuttosto che del
merito delle idee espresse.
Ma
un’altra importante causa genetica del politically correct sembra essere una
inedita sopraffazione dei contenuti da parte della forma, e dei significati da
parte dei significanti:
se la
tradizione classica di matrice platonico-aristotelica insegnava che le parole
non sono puri flatus vocis, ma rappresentano una forma di segno ancillare
rispetto agli “enti reali”, la modernità e soprattutto la c.d. “postmodernità” sono
epoche nelle quali tale equilibrio ultra bimillenario si è sfaldato
rapidamente.
A tal
proposito, la strenua battaglia dell’uomo di oggi contro il realismo filosofico
sta comportando un effetto collaterale davvero dirompente:
il
verbo, la parola, il logos, non sono più puri strumenti e mezzi per un fine che
li trascenda, vale a dire la significazione di una realtà che è, sì, indicata
dalla parola ma non è la parola stessa, non si identifica col segno;
al
giorno d’oggi, la parola come “segno” tende sempre più ad assumere una sorta di
statuto ontologico autonomo, come se il significante stesso potesse fare a meno
della realtà oggettiva significata.
Si
tratta di un fenomeno semiotico che è stato icasticamente denominato
“significante alla deriva”, e che sottende «l’idea che non esistano proprietà
autonome della realtà che non siano riducibili al linguaggio», idea che oggi viene chiamata “svolta linguistica” ma che affonda le proprie radici
nel nominalismo medievale e, ancor prima, nella concezione sofistica della
parola umana.
Il rapporto tra parola e realtà in Platone.
Sin dai dialoghi di Platone, la filosofia occidentale
manifestò una profonda fiducia circa la capacità del logos di farsi effettivo e
reale strumento di conoscenza, come dimostra l’adozione stessa del metodo
dialogico da parte di Socrate e del suo geniale allievo;
lo
stesso pensiero, si afferma nel “Teeteto” e nel “Sofista”, non è altro che un
silenzioso colloquio “a parole” dell’anima con se stessa, la quale assomiglia
così ad un vero e proprio libro.
Nel “Cratilo”,
Platone pose già numerose questioni che sarebbero poi state oggetto della
scienza semiotica e linguistica contemporanea:
a
fronte della tesi sofistica espressa da Ermogene, secondo cui i nomi sarebbero
frutto del puro accordo e della convenzione sociale,” Cratilo” (allievo di
Eraclito) dimostra che i nomi hanno necessariamente un qualche legame naturale
– forte o flebile che sia – con le cose da essi significate e rappresentate, e
in particolare con il loro “eidos”, la forma, essenza e idea universale cui i
singoli enti individuali partecipano.
Si
pone, dunque, già in Platone il problema dei rapporti tra significante e
significato, tra segno e cose del mondo, tra physis e nomos della parola, in
una prospettiva squisitamente realistica, avente cioè a proprio fulcro la res
oggettiva, e non già un “io” puramente soggettivo:
«altro
è il nome, altro è invece ciò di cui esso è nome», afferma Socrate affrontando
problematicamente sia la tesi di Ermogene sia quella di “Cratilo” (430a), non
senza precisare di lì a breve che il modo migliore per conoscere le cose è
quello diretto, che pone al centro della episteme la res di cui il “nome” è
solo una immagine linguistica («le cose devono essere imparate e ricercate non
a partire dai nomi, bensì a partire da se stesse molto più che dai nomi»:
439b).
Posto,
tuttavia, che gli enti reali, individuali e concreti, sono soggetti al fenomeno
del continuo mutamento-movimento, i nomi rappresentano pur sempre un importante
ausilio alla conoscenza, poiché concorrono a rispecchiare la stabilità
dell’universale che giace all’interno di ogni ente mondano individuale;
ciò,
nella consapevolezza che il medesimo nome può indicare più cose, e che la
medesima cosa può avere più nomi, così che tra le due entità non sempre si dà
una relazione biunivoca e rigida.
Il
discorso «che dice gli enti come sono è vero, mentre quello che li dice come
non sono è falso» (385b): non esiste, dunque, per Socrate e per Platone
espressione linguistica vera in sé e per sé, poiché il criterio di verità o di
falsità di ogni discorso consiste nella conformità o difformità del medesimo
rispetto agli enti del mondo in esso significati e rappresentati, per il
tramite della entità universale chiamata “idea.
Il
rapporto tra parola e realtà in Aristotele.
Il “De interpretatione” (Περὶ Ἑρμηνείας) di Aristotele
è un altro importante snodo nello sviluppo di una teoria linguistica di matrice
realistica.
L’incipit
dell’opera è particolarmente eloquente e perentorio:
«I suoni sono i simboli delle affezioni
dell’anima e i segni scritti sono i simboli dei suoni»;
a loro
volta, le “affezioni dell’anima”, cioè i pensieri o rappresentazioni mentali,
si riferiscono alle realtà (pràgmata) di cui sono immagini.
Come
hanno meglio chiarito gli esegeti, lo Stagirita individua dunque quattro piani
teorici oggetto di analisi semiotica:
le
cose reali (pràgmata);
le immagini che di esse l’uomo si fa nel
pensiero sotto forma di “affezioni” (patémata), immagini (omoiomata) o pensiero
stesso (noema);
i suoni (phonai) che sono lo specchio dei
pensieri, cioè le parole dette o parlate; infine le parole scritte
(graphòmena), segno grafico delle parole “sonore”.
Per
Aristotele, le sostanze prime sono gli enti individuali o cose reali; via via che ci si allontana da
esse, giungendo ai pensieri, alle parole fonetiche e alle parole grafiche, ci si allontana progressivamente
dalla realtà oggettiva e naturale, per approdare al piano logico-linguistico,
decisamente ancillare rispetto alla prima.
Anche
per Aristotele, poi, come per Platone, «il falso e il vero hanno a che fare
con la connessione e la divisione»: se il discorso congiunge cose che
nella realtà sono congiunte, o separa cose che nella realtà sono effettivamente
separate, allora esso è vero; se, invece, esso congiunge ciò che è realmente disgiunto, o
disgiunge ciò che è realmente congiunto, allora esso diviene falso.
Il
rapporto tra parola e realtà in Sant’Agostino.
Un altro capolavoro del pensiero semiotico di matrice
classica è il “De magistro” di Sant’Agostino, dialogo che secondo i più
sarebbe, dopo gli scritti platonico-aristotelici e la parentesi stoica, la più importante fucina nella quale
si sarebbe poi plasmata la moderna filosofia del linguaggio.
Colpisce
davvero che il santo Autore abbia deciso di trattare il tema del segno
linguistico all’interno di un’opera apparentemente focalizzata su tutt’altre
questioni teoriche, vale a dire l’educazione e la didattica;
ma la
perplessità è presto fugata dallo stesso Agostino:
ogniqualvolta
noi facciamo ricorso alla parola orale e scritta, in certo modo, noi stiamo
insegnando al nostro interlocutore un determinato concetto o anche solo le
nostre idee o volontà («Noi parliamo al fine di insegnare o rammentare»: § 19).
Anche
quando noi semplicemente entriamo in un negozio e diciamo che oggi “è una bella
giornata di sole”, facciamo ciò per “insegnare”, cioè per rendere edotto il
nostro interlocutore che potrà uscire senza ombrello, oppure che noi stessi
siamo di buon umore, e così via:
ogni parola è, dunque, una forma di “insegnamento”,
cioè di trasmissione di pensieri, concetti o realtà a taluno che ancora non li
conosca o, quantomeno, non li abbia chiari e presenti.
Alla
domanda «il
segno può essere segno, se non significhi qualcosa?», il dialogo dà risposta fermamente
negativa («non potest»: § 3), ribadendo di lì a breve la catena semiotica già
scoperta ed esaminata da Platone e Aristotele:
«La
parola è segno del nome, e il nome è segno del fiume, e il fiume è segno di una
cosa che può vedersi» (§ 9).
In questo modo, «il linguaggio porge due volti: per
l’uno è proteso all’Essere; per l’altro è rivolto agli uomini. Si può quindi
compendiare questa parte del dialogo con la sequenza di idee: vivere nel
principio della vita beata è vivere socialmente, nella comunicazione tra più
soggetti; dunque è parlare; parlare è insegnare. […]
Il problema agostiniano si può così formulare:
è
possibile per l’uomo immettersi nella via dell’Essere?
O
anche: può l’uomo comunicare parlando? Insegnare con la parola?».
Le
conclusioni di Sant’Agostino sono, come sempre, stringenti: da un lato, «noi
non possiamo affatto dialogare, se l’intelletto, udite le parole, non si
conduca alle cose di cui le parole sono segni» (§ 22);
dall’altro,
«le cose che vengono significate sono da tenere in considerazione più dei
segni. […]
La
conoscenza in sé, che ci perviene per mezzo di questo segno, [è] da anteporre
al segno stesso» (§ 25).
Il
pensiero contemporaneo.
Il pensiero moderno e soprattutto quello
contemporaneo, a ben vedere, disarticolano progressivamente il nesso ontologico
tra segno linguistico e realtà oggettiva, tra significante e significato,
portando a estremo compimento i pregiudizi ideologici dell’antica sofistica
greca e del nominalismo medievale.
In
particolare, la filosofia novecentesca è caratterizzata da quella che è stata
definita la “svolta linguistica”:
per
Martin Heidegger (1889-1976), il linguaggio è la casa dell’essere (come recita
l’incipit della Lettera sull’«umanismo»), quando invece per oltre duemila anni
si era pensato l’esatto contrario, vale a dire che l’essere è la casa del
linguaggio, nel senso che ogni segno non è mai, assurdamente, “segno a se
stesso”, ma è sempre segno di un previo ente, pieno di “essere”.
La
concezione heideggeriana del linguaggio parte dal presupposto che «non è l’uomo
a disporre del linguaggio, ma viceversa è il linguaggio che dispone
dell’uomo»]:
per
tale ragione, l’espressione “filosofia del linguaggio” conterrebbe, per Heidegger, un
genitivo non già oggettivo – nel senso di una disciplina umana che abbia ad
oggetto quella realtà chiamata “linguaggio” – bensì soggettivo, «proprio nel
medesimo senso in cui il pensiero dell’evento non è una riflessione sull’evento,
bensì un’esperienza filosofante che matura e si attua a partire dall’evento.
[…]
Il
linguaggio è parte integrante dell’evento di appropriazione che si compie fra
essere e uomo».
In
definitiva, come ben detto da Gianni Vattimo interprete di Heidegger, «la tesi
[…] che il linguaggio è “la casa dell’essere” è chiarita nel senso che “il
linguaggio è la custodia della presenza [cioè dell’essere delle cose come darsi
nella presenza], il modo di accedere dell’evento. […]
Il linguaggio è essenzialmente qualcosa di cui
disponiamo e che tuttavia, per un altro verso, dispone di noi;
è
consegnato a noi in quanto lo parliamo, ma si appropria di noi in quanto, con
le sue strutture, delimita fin dall’inizio il campo della nostra possibile
esperienza del mondo.
Solo
nel linguaggio le cose ci possono apparire, e solo nel modo in cui esso le
lascia apparire.
“È la parola che procura l’essere alla
cosa”».
Ciò, a
ben vedere, rappresenta l’inevitabile corollario del “peccato originale” della
filosofia moderna, sin dal pensiero filosofico di Cartesio – ma le radici di
tale prospettiva sono ben più antiche –, vale a dire credere nel “Cogito ergo
sum”, cioè nella priorità del pensiero rispetto all’essere, quando invece è
vera e auto-evidente la proposizione esattamente contraria e speculare, cioè:
Sum
ergo cogito, sono, esisto, e quindi (solo in quanto io sono) posso anche
pensare.
Per la
c.d. “filosofia analitica”, nata nel mondo anglosassone ma oggi costituente il
paradigma dominante del pensiero nominalistico contemporaneo, i più scottanti
problemi filosofici non sarebbero altro che altrettanti quesiti di natura
puramente linguistica;
e di converso, tutto ciò che non sia
suscettibile di essere espresso attraverso proposizioni linguistiche non
avrebbe alcuna dignità ontologica, tanto che la maggior parte dei concetti
tradizionali del pensiero occidentale come “Dio”, “vero, “bene”, “bello”,
“giusto”, non sarebbero che giuochi linguistici privi di contenuto reale, in
quanto soggetti a dispute o contraddizioni ritenuti come insanabili (donde la
celebre chiusa del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein
(1889-1951), che si conclude con la ringhiosa proposizione: «Su ciò, di cui non si può parlare,
si deve tacere»: § 7).
Per la
grammatologia di Jacques Derrida (1930-2004), il percorso del trascendentalismo
kantiano e poi husserliano dovrebbe essere portato ad estreme conseguenze:
se il
kantismo aveva sostituito la cosa in sé – presunta come inconoscibile – con gli
schemi concettuali della conoscenza umana, Derrida intende smantellare gli
stessi “concetti”, mostrando che la vera “sostanza prima” è la scrittura o,
meglio, la traccia, il segno.
Con
Derrida, si passa così dal trascendentale kantiano al trascendentale semiotico,
sostenendo addirittura che la vera realtà originaria non sarebbe nemmeno più la
parola scritta (che per il pensatore francese sarebbe espressione di
logo-centrismo, ego-centrismo ed etno-centrismo occidentale, cioè di violenza
metafisica), bensì il puro gesto, il segno non costituito da lettere, la mera
“traccia”, che diviene così il vero nuovo “trascendentale” della grammatologia
contemporanea, al posto della tradizionale serie tomista “ens, res, aliquid,
unum, verum, bonum”.
Per
Derrida, in definitiva, la “catena” aristotelica che dalle cose giungeva ai
concetti del pensiero, e da questi alle parole orali sino alla parola scritta,
dovrebbe essere essenzialmente decostruita e ribaltata, riconoscendo al segno
(gramma o grafema) un’autonoma dignità trascendentale rispetto alle parole e a
fortiori rispetto alle cose “significate”.
«Bisogna
pensare la traccia prima dell’ente», afferma l’Autore della Grammatologia, quasi a dire –
parafrasando Heidegger – che Il segno è la casa dell’essere.
A tal
proposito, ne “La voce e il fenomeno”, Jacques Derrida illustra in modo
particolarmente chiaro la sua idea circa i rapporti tra segno e realtà:
«Domandando
“che cosa è il segno in generale?”, si sottomette il problema del segno ad
un’intenzione ontologica, si pretende di assegnare alla significazione un
posto, fondamentale o regionale, in un’ontologia.
Un procedimento siffatto sarebbe classico.
Si
sottometterebbe il segno alla verità, il linguaggio all’essere, la parola al
pensiero e la scrittura alla parola.
Dire che può esserci una verità del segno in
generale, non è forse supporre che il segno non sia la possibilità della
verità, non la costituisca, ma si contenti di significarla, di riprodurla, di
incarnarla, di iscriverla in modo derivato o di rinviare ad essa?
Poiché, se il segno precedesse in qualche modo
ciò che si chiama la verità o l’essenza, non avrebbe alcun senso parlare della
verità o dell’essenza del segno.
Non si può pensare – e Husserl probabilmente lo ha
fatto – che il segno […] non cada sotto la categoria della cosa in generale
(Sache), non sia un “ente” sull’essere del quale si verrebbe a porre una
domanda?
Il
segno non è forse altra cosa che l’ente, non è forse la sola “cosa” che, non
essendo una cosa, non cade sotto la domanda “che cosa è”?
Ma al
contrario la produce all’occorrenza? Produce così la “filosofia” come dominio
dei testi?».
Considerazioni conclusive.
Dopo questa breve veduta panoramica e
grandangolare sui rapporti tra linguaggio e realtà nel pensiero occidentale,
possiamo rassegnare ora una piccola conclusione interlocutoria, bisognosa come
tale di futuri e ulteriori approfondimenti critici.
Il
fenomeno del “politicamente corretto”, a ben vedere, rappresenta l’estremo
esito del menzionato percorso ideologico, nel corso del quale l’uomo
occidentale ha via via cercato di autonomizzare il significante dal
significato, il segno linguistico dalle cose reali da esso indicate:
una
volta affermato che la parola dell’uomo è dotata di vita propria, di una
propria autonomia ontologica rispetto alle cose reali del mondo, il
politicamente corretto diviene una conseguenza pressoché necessaria e
inevitabile.
Se ciò
che conta non sono più gli enti reali, nella loro sostanzialità oggettiva e nei
loro rispettivi accidenti di pertinenza, bensì le parole dell’uomo, quasi
“parole in libertà”, è inevitabile che l’attenzione si rivolga in misura
pressoché esclusiva ai modi di manifestazione del pensiero, piuttosto che agli
oggetti reali del pensare: da ciò nasce l’attenzione quasi maniacale verso i
toni e gli strumenti di trasmissione delle idee, prima ancora che verso i
contenuti delle idee medesime; e la verità del pensiero non si misura più nella
corrispondenza o difformità dello stesso rispetto alla realtà, quanto nel grado
di approvazione o disapprovazione sociale di una determinata linea ideologica.
Il
riduzionismo è, così, dietro l’angolo nel mondo del politicamente corretto, con
il conseguente pericolo di perdere ogni contatto con la realtà oggettiva delle
cose:
non si
affrontano più i grandi problemi e le grandi questioni della vita e
dell’universo con amore per la verità, ma si dà assoluta prevalenza a ciò
che gli altri penseranno di noi e del nostro modo di vedere il mondo, secondo
la logica del conformismo-narcisismo tipica dell’era contemporanea.
In tal
modo, la società del politicamente corretto non è più interessata ai contenuti
razionali del nostro pensiero, ma è subito pronta a incasellare – con il tipico
“argumentum ad hominem” – la nostra persona all’interno di categorie stereotipate
come il progressista, il razzista, il passatista, il populista, il sessista, il
sovranista, il maschilista, il femminista, il reazionario, senza più alcuna onesta
attenzione verso l’intrinseca razionalità o irrazionalità di un determinato
contenuto di pensiero.
Una
piccola proposta di “pars construens”
Probabilmente, il più efficace rimedio alla deriva
del “politically correct” consiste in un rinnovato rapporto tra parole, pensieri e cose
del mondo:
se il
politicamente corretto appare come l’estremo esito di un percorso ideologico
teso a smembrare il nesso ontologico tra la realtà concreta del mondo, i
pensieri dell’uomo e le rappresentazioni linguistiche e poi grafiche degli
stessi, probabilmente
il primo farmaco contro tale deriva è costituito dalla riscoperta dell’intimo
legame razionale che incardina la parola al pensiero, e il pensiero alla
realtà.
Inoltre,
se la realtà – come ci insegna l’”empeiria” prim’ancora della pura razionalità – è variegata, differente, altra, cioè
fatta dall’intreccio dialettico tra identità e differenza, unità e molteplicità, ogni opzione ideologica elitaria, la quale pretenda di neutralizzare
a tavolino o in laboratorio tale dato naturale è probabilmente destinata a
produrre effetti collaterali ben peggiori rispetto ai mali che, in ipotesi, ci
si proponeva di curare.
Non è
detto, infatti, che l’indifferentismo valoriale generi una vera pace sociale,
come intende invece affermare un certo irenismo neutralista;
anzi,
l’esperienza concreta sembra dimostrare l’esatto contrario, e cioè che il
neutralismo può, tutt’al più, creare situazioni di apparente “silenzio
sociale”, il quale però è solo una effimera crosta sotto la quale continuano
inevitabilmente a ribollire proprio quelle differenze e quelle alterità che il
protocollo convenzionale si proponeva, per l’appunto, di occultare, senza
evidentemente potervi riuscire.
A ben
vedere, il rispetto reciproco fra le persone, le culture, le religioni e le
nazioni richiede necessariamente uno studio razionale della realtà e un profondo spirito di carità e di
sacrificio, il quale deve essere continuo e ininterrotto, poiché altrettanto
ininterrotta e continua è l’evoluzione dei tempi e dei popoli;
viceversa,
“il politicamente corretto” rappresenta spesso una forma di paradossale
riduzionismo il quale, sorto al dichiarato fine di aumentare il rispetto e la
tolleranza fra le persone, sembra condurre a forme ancora più sottili e spietate di
indifferenza, la quale è anticamera dell’incuria e di sempre nuove forme di
disprezzo.
Il
disagio di vivere sotto
l’egemonia
demenziale.
Infosannio.com
- Marcello Veneziani – (18- 3 -2023) – ci dice:
Ma davvero un manager di Stato deve dimettersi
dal suo incarico non per incapacità, disonestà, abuso di potere ma per aver
usato una citazione di Mussolini in altro contesto, non certo per farne
l’apologia?
Ma
davvero un dipendente pubblico deve essere licenziato, secondo la Corte di
Cassazione, non per incapacità, disonestà, abuso di potere, assenteismo,
violenza o altro ma perché ha chiamato “lesbica” una sua collega?
Ma
davvero sono più delinquenti coloro che in metro non borseggiano, non derubano
il prossimo, non lo aggrediscono, ma filmano e denunciano i ladri?
Ma
davvero merita provvedimenti disciplinari un dipendente che avverte i
passeggeri dai microfoni della metro che a bordo ci sono zingari che stanno
rubando?
(Avrebbero dovuto dire: esponenti della
cultura rom stanno tenendo corsi di redistribuzione dei redditi).
Potrei andare all’infinito, dirvi di carriere
onorate ma mozzate solo da una parola sconveniente, atleti di valore cancellati
perché una volta hanno usato un linguaggio non conforme, o solo una parolina
oggi proibita, e tanto altro.
Si
sono bevuti il cervello.
Non è
solo un delirio ideologico questo strapotere del “correttivo” (variante moralista e punitiva del
collettivo); ma diventa sanzione, discriminazione, persecuzione.
Puoi avere avuto una vita esemplare, una
carriera fondata su merito, fatica e capacità, puoi preoccuparti dei diritti,
della libertà e della sicurezza dei cittadini; ma se dici quella parola
vietata, se usi quell’espressione proibita, sei entrato come nel gioco dell’oca
nella casella fatale e la fortuna come si diceva anticamente in quel gioco
“‘nzerra a’porta”, chiude per sempre ogni tua aspettativa, ogni tuo diritto,
ogni tuo requisito.
Poi
c’è sempre un” Cazzullo qualunque” che dice: ma non c’è nessuna egemonia
culturale, è una fandonia.
È
vero, c’è un’egemonia demenziale, che è infinitamente peggio;
ha perso i suoi residui caratteri culturali,
tramite l’ideologia è arrivata al suo stadio peggiore, quello che mortifica
l’intelligenza, il buon senso, la percezione della realtà.
Ed è
così pervasiva che non ti accorgi nemmeno che è una gabbia ideologica, una
lente deformante.
L’altra
sera avevo voglia di andare al cinema, ci andavo spesso, almeno un paio di
volte a settimana.
Ho
visto le novità nelle sale: non c’era un film che non trattasse di quei temi
obbligati del “correttivo”, film sui gender, sulla storia riscritta in chiave
femminista, sulle storie omotrans, e se trattano di storia, sul nazismo e
dintorni. Variante, i migranti.
Perfino i film d’animazione si vanno adeguando, tra un
po’ pure nei thriller ci sarà l’obbligo assoluto che la vittima sia nero, gay,
trans, migrante, e l’assassinio sia il maschio bianco, fascista, etero,
conservatore, sessista e omofobo.
Devi
sperare in qualche film asiatico, o della periferia estrema del mondo per
vedere qualcosa di diverso, ma fino a un certo punto, perché se entrano nel
circuito globale devono avere almeno qualche ingrediente d’obbligo nella
confezione.
Alla fine non sono andato al cinema.
E quando l’ho scritto nei social, oltre a
ricordarmi che pure le serie che si vedono a casa rispettano gli stessi
ingredienti e hanno gli stessi indirizzi, molti mi hanno detto, gloriandosene,
che loro al cinema non ci vanno più.
Va
bene, ma non c’è nessun orgoglio in questa rinuncia, è una sconfitta, una
mutilazione della libertà e della cultura, un cedere a chi usa il suo potere in
modo demenziale ed infame.
Non si
può continuamente sottrarsi, rinunciare, escludersi perché altri somministrano
la loro pappa ideologico-correttiva.
Ed è superfluo aggiungere, ma è doveroso farlo, che il
“lato b” di questa situazione è la sconsolante assenza di alternative, di
culture, movimenti e produzioni diverse.
Il
carosello è sempre a senso unico, come fu a Sanremo (egemonia demenziale, anzi monopolio
coatto).
Non ne
parlo più per denunciare questa egemonia e nemmeno per farne l’analisi; ma
perché avverto crescente un disagio di vivere, in questo mondo, a queste
condizioni
. E so
già che qualunque testimonianza, opera o riflessione in senso inverso non
lascerà traccia, non verrà presa in considerazione, sarà prima o poi cancellata
dal diario di bordo dei nostri giorni.
Così il dissenso muta in defezione e la
defezione in rabbia.
Ma
rabbia impotente, a giudicare dagli esiti di questa denuncia.
Rabbia impotente, se si considera che perfino
un chiaro e preciso orientamento, opposto a questo calderone, ha vinto le
elezioni e governa in paese.
E sa già che nulla potrà fare per cambiare le
cose e almeno favorire che si affianchi una chiave opposta o diversa di lettura
del mondo rispetto a quella dominante e soffocante.
Qualcuno
obbietta:
si vede che sta bene alla gente tutto questo,
se nulla impedisce che si affermi, e così in fretta.
No,
signori, non è che sta bene alla gente, il problema è che da una parte c’è un
potere, una mafia, una cappa e dall’altra ci sono cittadini sfusi, perduti
nella loro vita di singoli, impotenti.
E il
martellamento è così insistente, quotidiano, ossessivo che alla fine abbozzi,
accetti- sindrome di Stoccolma, rassegnazione, tortura cinese goccia a goccia,
farsi andar bene tutto per sopravvivere – e alla fine magari pensi che la
realtà sia davvero il contrario di quel che vedono i tuoi occhi e percepisce la
tua mente.
E la
“cancel culture “applicata a tanti ambiti, che pure viene respinta da gran
parte della gente, che la sente come falsa, dispotica, innaturale?
Ma alla lunga è più facile cancellare che
costruire o conservare, è più facile ignorare che ricordare;
basta un colpo di spugna, un reset, un tasto che
cancella e vince l’ignoranza unita all’amnesia.
Per
costruire e per salvaguardare, invece, ci vuole pazienza, coraggio, capacità e
creatività di inventare – pezzo su pezzo una cultura – qualcosa che necessita
di cura e di manutenzione.
No, è molto più facile liberarsene, disfarsi,
cancellare.
Per
questo confesso il disagio di vivere in un mondo del genere, senza verità.
(“La
Verità”, Marcello Veneziani)
Popolo
contro élites.
La
battaglia di Parigi.
Corriere.it
- Aldo Cazzullo e Pietro Mancini – (19-3-2023) – ci dicono:
Caro
Aldo,
Macron
voleva rivitalizzare la democrazia, ma all’Eliseo ha concentrato il potere e ha
accentuato la sua personificazione.
L’uso
arbitrario dell’articolo 49,3 per far passare la riforma delle pensioni si sta
rivelando un fallimento.
Il
voto sulla mozione di sfiducia è atteso per domani.
Anche se “Rn” di Marine Le Pen e “Nupes” di
Mélenchon mettessero insieme i loro voti, non sarebbero sufficienti per
ottenere la maggioranza, 289.
La
destra e la sinistra radicale potrebbero convergere sulla mozione di un piccolo
gruppo moderato, “Liot”, che attirerebbe quei deputati “Républicains” tentati
dall’affondare il governo di “Madame Borne”.
(Pietro
Mancini)
Caro
Pietro,
Anche
altri lettori hanno chiesto notizie sulla rivolta che infiamma la Francia (in senso tecnico: dopo gli incendi
delle due ultime notti, la polizia ha vietato le manifestazioni in place de la
Concorde e sugli ChampsElysées).
Come
ci siamo detti una decina di giorni fa, la riforma delle pensioni è il punto di
attrito maggiore tra élites e popolo, tra establishment e lavoratori, tra
tecnocrati ed elettori.
Il punto è che gli esponenti delle élites
hanno lavori interessanti e ben pagati, e non avvertono nessuna necessità di
andare in pensione, anzi restano ricchi e potenti anche in tarda età;
i tecnocrati avranno anche le loro ragioni,
nell’elaborare studi e piani che dimostrano come il sistema pensionistico con
l’allungamento della vita, i contratti precari, il calo demografico non sia
sostenibile;
ma molti elettori hanno lavori duri e
malpagati, e non vogliono saperne di sacrificarsi per gli altri.
Sulle pensioni Chirac perse le elezioni
legislative del 1997, e dovette coabitare per cinque anni con il socialista
Jospin.
Se
domani dovesse andare sotto nel voto di sfiducia all’Assemblea nazionale,
Macron non sarebbe obbligato a indire nuove elezioni; potrebbe varare un nuovo
governo.
Ma per
lui sarebbe un fallimento drammatico.
In Parlamento, la partita è in mano ai “Républicains”,
la destra moderata:
è
molto difficile che accetti di sommarsi a lepenisti e melanchonisti e gettare
la Francia nel caos;
da una
battaglia elettorale tra estrema destra ed estrema sinistra i repubblicani
resterebbero stritolati;
ma il
suo leader, Eric Ciotti, è debole, e non controlla i suoi parlamentari.
Nel
Paese, le ragioni del riformismo macroniano sono oggi minoritarie.
I manifestanti hanno ancora consenso
nell’opinione pubblica, e il presidente non è mai stato così impopolare.
Ma
quando la protesta diventa violenta, quando prende di mira la polizia, finisce
per perdere consenso;
con i
Gilet gialli è accaduto così.
(Aldo
Cazzullo)
L’Ucraina,
le contraddizioni dell’Occidente
e il
nuovo ordine mondiale.
Micromega.net
- Cinzia Sciuto e Vittorio Emanuele Parsi – (1° luglio 2022) – ci dicono:
Al
recente vertice della Nato di Madrid è stato messo nero su bianco che “la Federazione Russa è la minaccia
più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati e alla pace e
stabilità nell’area euro-atlantica”.
Che giudizio di queste prese di posizione?
Mi
pare si possa dire che è la presa d’atto che il 24 febbraio la Russia ha
scatenato una guerra calda, portando il mondo in una nuova guerra fredda.
Un’alleanza come la Nato, sopravvissuta oltre
vent’anni fa all’estinzione del suo nemico istituzionale, ha rischiato di
essere travolta dall’erede di quel nemico, la Russia di Putin.
Questo è il rischio che è stato corso, e che è
stato sventato.
La
definizione della Russia come principale minaccia, e direi minaccia
esistenziale, alla sicurezza delle democrazie occidentali è semplicemente la
registrazione di come la Russia si comporta ormai da anni, in maniera diretta
dal 2014, ma in maniera indiretta dal 2006.
Se la
durezza delle parole usate nei confronti della Russia era prevedibile, molti
osservatori sono rimasti sopresi dai toni usati nei confronti della Cina,
espressamente indicata come una delle forze che “sfidano i nostri interessi, la nostra
sicurezza e i nostri valori e cercano di minare l’ordine internazionale basato
sulle regole”.
La
Nato è un’alleanza militare e in questo momento non si può dire che la Cina
rappresenti una minaccia sul piano militare per i Paesi alleati.
Questi
toni non rischiano di esasperare le tensioni geopolitiche?
Penso
sia stato importante avere preso una posizione molto netta anche nei confronti
della Cina, qualificandola come uno sfidante.
E questo sia per l’atteggiamento che la Cina ha avuto
recentemente sulla questione della guerra in Ucraina sia più in generale per un
atteggiamento che persegue da diversi anni.
Mi
spiego.
Sul
primo punto, nonostante le ambiguità e nonostante Putin non abbia avuto da Xi
Jinping tutto il sostegno che chiedeva, è innegabile che se non ci fosse stato
una sorta di disco verde da parte del leader cinese a Putin le cose in questi
mesi sarebbero andate molto diversamente.
Per
cui la Cina ha una responsabilità diretta nell’attuale situazione.
Più in
generale poi la Cina, con Xi in particolar modo e soprattutto negli anni più
recenti, è passata da un atteggiamento di richiesta di revisione delle
relazioni internazionali in termini maggiormente multilaterali anzi, meglio, di
una sorta di bipolarismo sino-americano, a una politica di aperto attacco alla
centralità occidentale.
Ora,
con tutte le enormi contraddizioni che l’Occidente si porta appresso,
francamente le alternative proposte fino a questo momento sono chiaramente
peggiori.
Nelle agende alternative proposte dai Paesi autoritari
non c’è nessuno spazio per la democrazia, l’eguaglianza di genere, la lotta
effettiva alle diseguaglianze, la protezione e l’avanzamento dei diritti.
Ma la
Nato non è un’alleanza politica bensì militare e al suo interno ci sono anche
Paesi non democratici, penso per esempio alla Turchia.
In
realtà la Turchia è l’unico Paese Nato a non essere una democrazia, e all’epoca
era stato ammesso proprio per evitare che finisse nella sfera di influenza
della Russia.
Era il 1952 e sulla Turchia si esercitavano
pressioni molto forti.
Detto questo, penso che il punto debole sia
della Nato sia dell’Unione Europea sia proprio quello dei criteri per la
membership dei Paesi, molto criticabili dal punto di vista della democrazia.
Rimanendo
alla Turchia, come legge la decisione di togliere il veto alla richiesta di
ingresso di Svezia e Finlandia?
Erdoğan
ha cercato di massimizzare un potere di veto che sapeva benissimo essere del
tutto temporaneo, destinato a non essere esercitato in maniera permanente.
Ha
portato a casa alcune forniture militari che chiedeva da tempo e la promessa che
Svezia e Finlandia non saranno più quella terra d’asilo che sono state finora
per i militanti curdi.
Che
quindi sono stati trattati come merce di scambio in questa vicenda…
A
livello politico certamente sì, come purtroppo è accaduto svariate volte in questi
anni.
Ma
ricordiamo che Svezia e Finlandia sono degli Stati di diritto, le decisioni
politiche contano fino a un certo punto, ci sono poi dei giudici che devono
decidere sulle eventuali estradizioni
E io non sono così sicuro che ne vedremo
molte.
A Erdoğan interessava avere un messaggio
politico da dare in pasto alla sua opinione pubblica.
In
ogni caso quei valori “occidentali” di cui parlava prima non ci fanno una gran
bella figura…
Non
c’è alcun dubbio, e sono esattamente quelle contraddizioni e ambiguità di cui
parlavo.
Vede, quando parliamo di Occidente parliamo in
realtà di due cose diverse.
Da un
lato ci riferiamo al ruolo di “trascinamento” che l’Occidente ha avuto nel
mondo negli ultimi 5-600 anni, cioè grossomodo da quella che chiamiamo l’età
delle scoperte, che ha dato all’Occidente un enorme potere mettendo le basi per
la nascita e il consolidamento della forma Stato.
Poi c’è un secondo Occidente, inteso come
l’insieme dei regimi democratici che sono in pace perpetua tra loro a partire
dal secondo dopoguerra.
Tra
questi due sensi di Occidente ci sono certamente continuità, eredità eccetera
ma ci sono anche tensioni e discontinuità.
Se chi
sta fuori dall’Occidente, comprensibilmente, ha in mente sostanzialmente il
primo, guai se noi che stiamo dentro avessimo in mente esclusivamente il
secondo perché le contraddizioni ci sono e noi dobbiamo lavorare per superarle:
la
tensione tra democrazia e mercato, la spinta dei politici a trasformarsi in
oligarchie, le diseguaglianze eccetera.
Ma
senza democrazia non c’è neanche l’agenda politica per affrontare questi
problemi.
Sono
le questioni di cui parla nel suo ultimo lavoro, “Titanic”. Naufragio o cambio
di rotta per l’ordine liberale (il Mulino, 2022).
Sì,
due terzi del libro sono dedicati a una puntuale autocritica della
trasformazione dell’Occidente a seguito della cosiddetta globalizzazione
neoliberale, neoconservatrice, ordoliberale, e alla necessità di rimettere in
equilibrio l’agenda progressista con la crescita economica.
Un
terzo del libro è dedicato alle minacce esterne.
Ecco,
quest’anno una di queste minacce esterne si è palesata in maniera eclatante.
Guardiamola
allora più da vicino questa minaccia.
Negli
ultimi giorni, con il ritiro della Russia dall’Isola dei serpenti, che sembra
preludere a una rinuncia alla conquista di Odessa, pare ci troviamo di fronte
all’ennesimo cambio di strategia di Putin, è d’accordo con questa lettura?
Nessuno
di noi ha accesso ai piani militari russi e quindi ci facciamo un’idea da
quello che la Russia fa.
Ecco,
la sensazione è che stia continuando a ridefinire obiettivi politici e quindi
anche militari.
Prima
pensava di risolvere la questione con gli ucraini semplicemente minacciando
l’uso della forza, poi applicando appena un po’ di forza pensando che nessuno
la contrastasse, poi sembrava volersi concentrare sul Donbass, poi invece anche
chiudere il Mar d’Azov e poi il Mar Nero…
In
questo momento la strategia sembrerebbe: impediamo agli ucraini di usare il
Mar Nero.
Da
tutti questi cambi di strategia mi pare si possa dire con chiarezza che la
Russia non sia in grado di sostenere un conflitto di logoramento che duri mesi.
Non c’è
dubbio che gli ucraini hanno molte meno risorse umane…
Problema
che non si risolverebbe inviando ancora più armi…
Beh,
dipende dalle armi.
Perché
più sono sofisticate meno risorse umane servono per usarle.
È
proprio per questo che gli ucraini chiedono armi moderne ed efficienti.
In ogni caso gli ucraini, pur essendo in
numero nettamente inferiore, hanno una capacità di combattimento che invece i
russi non hanno.
Quando
un ucraino muore la famiglia sa perché è morto.
Ma i
soldati russi per cosa muoiono?
A oggi
sono già 35mila i soldati russi morti in Ucraina: una cifra spaventosa per una
guerra di pochi mesi.
Pensiamo
che gli americani in vent’anni hanno perso 3.500 soldati.
Chi
glielo spiega alle famiglie russe per cosa sono morti i loro figli?
Aggiungiamo
a questo la pessima organizzazione dell’esercito russo e avremo come risultato
che la Russia non sarà in grado di condurre ancora a lungo questa guerra.
Ma non
possiamo neanche dire che l’Ucraina è in grado di vincerla…
Dipende
cosa intendiamo per “vittoria”.
Vincere
è una questione politica.
I talebani in Afghanistan hanno vinto, ci
hanno messo vent’anni ma il fatto di non aver ceduto ha consentito loro,
vent’anni dopo, di dire che hanno vinto, a prescindere dal numero di morti e
dalla devastazione del Paese.
A meno
che l’Ucraina e l’Occidente che la sostiene non lo vogliano, la Russia non è
nelle condizioni di vincere politicamente questa guerra.
Posto
che sono gli ucraini a decidere a quali condizioni accedere a una tregua, penso
che il respingimento della Russia sostanzialmente alle frontiere del 24
febbraio – anche se con delle eccezioni perché non penso che sarà possibile,
per esempio, riconquistare Mariupol – sia una ragionevole condizione per
potersi sedere e negoziare.
In
questo quadro che significato ha la decisione del Consiglio europeo di
accettare la candidatura dell’Ucraina a Paese membro dell’Unione Europea?
Innanzitutto,
dà una risposta chiara alla richiesta ucraina che già dai tempi di Euromajdan,
ma anche da prima, aveva indicato chiaramente la sua volontà di orientarsi
verso l’Ue.
Questa
decisione significa dunque che si riprende quel percorso e si garantisce agli
ucraini che quel percorso non gli può essere nuovamente scippato, come fu dopo
Euromajdan.
È
dunque un segnale forte, che significa anche riconoscere che gli ucraini stanno
combattendo anche per noi.
La
guerra ucraina e
il
nuovo ordine mondiale.
Lacittafutura.it
- Marco Pondrelli – (16/12/2022) – ci dice:
I
recenti drammatici eventi ucraini rappresentano lo scontro fra l’imperialismo
USA in declino che vuole imporre con la forza militare – unica sua forza
rimasta – il suo dominio incontrastato sul pianeta, e la prospettiva di un
nuovo ordine mondiale basato sulla multipolarità, promossa dalle lotte in atto
in moltissimi Paesi non allineati e antimperialisti, e sostenuta in primo luogo
dalla Cina.
Le
vere cause che hanno portato all’avvio dell’operazione militare speciale del 24
febbraio sono sotto gli occhi di tutti, chi in questi mesi ha voluto
approfondire lo ha potuto fare basandosi su molteplici fonti (non mainstream ma
facilmente reperibili).
Chi
continua ad accusare la Russia di tutti i mali e chi anche a sinistra crede
nelle favolette della stampa italiana lo fa non per mancanza di informazioni ma
per scelta.
È
quindi inutile ripercorrere per l’ennesima volta le tappe di questo conflitto,
mentre è più interessante capire come si stanno modificando gli equilibri
internazionali in conseguenza degli eventi ucraini.
Questa guerra ha implicazioni che vanno molto al di là
della regione in cui viene combattuta.
Per analizzare bene quello che sta succedendo occorre
guardare agli attori più importanti e a come si stanno muovendo in questo
scenario a partire dagli Stati Uniti d’America.
Gli
USA hanno un ruolo di primo piano in questa guerra, per loro l’Ucraina ha
un’importanza fondamentale nel contenimento della Russia.
Per staccare Russia e Ucraina hanno fomentato le
divisioni di quest’ultima; fino al 2014 l’Ucraina viveva su un fragilissimo
equilibrio che riusciva a tenere assieme un popolo profondamente diviso.
L’aut aut che l’Unione Europea pose, dietro il quale
si riconosce la mano americana, aveva lo scopo di provocare lo scontro interno
per produrre l’intervento russo.
L’obiettivo
di Washington era chiaro, staccare Russia ed Europa; i rapporti sempre più
stretti fra Mosca e Berlino, culminati nella costruzione del North Stream,
avevano preoccupato gli strateghi statunitensi.
Un
asse fra Germania (ed Europa) e Russia per gli USA ha sempre rappresentato un
pericolo, sia se esso fosse il prodotto di una conquista militare di una parte
sull’altra come nelle due guerre mondiali, sia se fosse figlio di accordi di
natura commerciale.
Il primo obiettivo di questa guerra è l’Europa
e che i decisori europei non lo capiscano o più probabilmente non abbiano la
forza di opporvisi dimostra come il futuro di questa parte di mondo si stia
colorando a tinte fosche.
Se da
una parte l’obiettivo statunitense è quello di staccare Europa e Russia,
dall’altro Washington sa che per l’egemonia mondiale nel XXI secolo sarà
fondamentale lo scontro con la Cina in particolare nell’Indo-Pacifico.
Colpire
la Russia vuol dire indebolire l’asse sempre più stretto fra Mosca e Pechino,
se la Russia tornasse agli anni ’90 o se addirittura venisse smembrata come è
nei desideri della Casa Bianca, per gli USA sarebbe più facile affrontare la
Cina.
I
limiti di questi due obiettivi sono che essi sono in contraddizione l’uno con
l’altro: una Russia indebolita a cui venisse imposto un rallentamento nei
rapporti con Pechino sarebbe portata a guardare verso l’Europa.
D’altra
parte va ricordato che anche Eltsin si oppose all’espansione a est della NATO;
questo
significa, ed è quello che l’Occidente non vuole e non riesce a capire, che ci
sono interessi strategici russi che vanno al di là del nome del presidente.
Non prendere atto di questa semplice verità
vuol dire consegnare i rapporti fra Russia ed Europa allo scontro anziché alla
cooperazione.
Questa
aggressività dell’Impero in declino trova le sue radici nella crisi interna
degli USA, che vivono una crisi profonda, una crisi economica, politica,
sociale e anche culturale.
Gli
Stati Uniti sono un Paese con più di 100 milioni di poveri, con la più grande
popolazione carceraria del mondo, dagli anni ’80 la manifattura è stata
smantellata e oggi l’economia vive su complessi strumenti finanziari che hanno
sempre più slegato l’economia nominale da quella reale.
Dalla
crisi dell’URSS gli USA hanno modificato la loro politica, incapaci di
esercitare un’egemonia globale hanno sempre più spostato la loro azione sul
piano militare.
Dagli
anni ’90 la politica estera statunitense è stata costituita da interventi
regionali che avevano l’obiettivo di creare aree di destabilizzazione, questo
era lo strumento scelto per sostenere il mondo unipolare.
Se
l’idea di mondo unipolare poteva essere accettata negli anni ’90 (ma già allora
era anacronistica) oggi non è più nello stato delle cose, dovrebbero capirlo
sia gli Stati Uniti che i loro vassalli sparsi per il mondo.
Se gli
USA sono l’Impero in declino, la Russia ha fermato la sua crisi avviata con la
fine dell’Unione Sovietica.
A rimpiangere Eltsin e quella Russia sono
soprattutto gli occidentali, i quali non hanno mai conosciuto veramente un
Paese che dopo il crollo dell’URSS ha visto abbassarsi la vita media, aumentare
la povertà e l’insicurezza sociale.
La
Russia in quel periodo era comandata (non governata) dagli oligarchi i quali
spesso e volentieri, a partire dall’idolo dell’Occidente Khodorkovsky,
regolavano i propri affari in modo brutale.
Putin
ha rimesso ordine all’interno del Paese, poi ha ricostruito il ruolo e il
prestigio internazionale della Russia.
Rimettere
ordine all’interno ha voluto dire limitare il potere politico degli oligarchi,
ai quali è stato consentito di mantenere le loro ricchezze, benché accumulate
in modi discutibili, rinunciando però alla propria influenza politica.
Allo
stesso tempo venne combattuto il terrorismo del Caucaso (Cecenia e Dagestan) e
vennero date risposte sociali incisive sulla povertà e sulla disoccupazione.
La
prima fase del nuovo periodo post-eltsiniano fu dedicata a salvare la Russia,
successivamente Putin ne rilanciò il ruolo internazionale;
alla
Conferenza di Monaco del 2007 Putin intervenne duramente per criticare
l’impostazione unilaterale degli Stati Uniti.
Doveva
essere chiaro che il periodo della Russia che accettava l’espansione della NATO
a est o la guerra in Jugoslavia era definitivamente tramontato, dopo il colpo
di Stato del 2014 Mosca ha posto due temi che sono ancora oggi le sue linee
irrinunciabili.
Da una parte si chiede la sicurezza delle
popolazioni russofone e dall’altro la neutralità dell’Ucraina con la non
adesione alla NATO.
Gli
accordi di Minsk andavano in questa direzione e rassicuravano Mosca, se non
sono stati attuati è perché una parte interna all’Ucraina, i battaglioni
neonazisti, e una esterna, gli Stati Uniti, li hanno boicottati.
Recentemente
la Merkel ha dichiarato che questi accordi erano stati sottoscritti solo per
permettere a Kiev di guadagnare tempo e ricostituire il proprio esercito: queste
dichiarazioni non solo fanno luce su chi ha veramente voluto la guerra, ma
chiariscono anche che l’Occidente (leggasi la NATO e gli USA) non è un
interlocutore affidabile.
A
fronte di una Russia che persegue un obiettivo di sicurezza, l’Europa è stata
incapace di articolare una propria posizione di politica estera.
Premesso
che la politica estera non è una materia che è stata devoluta a Bruxelles ma
rimane diretta dai singoli Stati, ci si poteva aspettare una scelta di maggiore
autonomia.
L’Europa, dietro una facciata di unanimità, si
è dimostrata divisa con una serie di Stati, quelli che Rumsfeld definì la nuova
Europa, in prima fila nella guerra.
In particolare la Polonia sta combattendo una
guerra che non è solo contro la Russia ma anche contro le Germania.
La
vecchia Europa, nonostante i distinguo e i mal di pancia, non è riuscita a
costruire una prospettiva di mediazione.
Questa
è una guerra fatta contro l’Europa che l’Europa sta combattendo contro sé
stessa;
nel nuovo ordine mondiale che nascerà i Paesi europei
si sono consegnati agli Stati Uniti.
In
Italia la classe dirigente uscita dalla Resistenza che, anche sul versante
democristiano, era riuscita a difendere un briciolo di sovranità nazionale è
solo un ricordo, il dibattito oggi è fra chi è l’alleato più affidabile per
Washington.
Quando
uscì l’audio di Berlusconi nel quale venivano espressi giudizi poco lusinghieri
su Zelensky, i politici italiani, da Letta alla Meloni, da Conte a Fratoianni,
hanno fatto a gara per attaccare l’anti atlantismo del Cavaliere.
In
questo quadro, il dato più importante che emerge è che l’asse fra Russia e Cina
è saldo.
Certamente
Pechino non vive bene un conflitto che sta precipitando l’Europa, un importante
partner economico, in una preoccupante crisi economica, ma nonostante questo
non arriverà mai a rompere con Mosca.
Pesa
innanzitutto su questa scelta la cooperazione economica fra un Paese ricco di
materie prime e un Paese energivoro.
L’asse
fra i due paesi non si spiega però solo con la cooperazione
economico-commerciale;
questa
vicinanza è tale perché ha un avversario comune: gli Stati Uniti.
Russia
e Cina vogliono un mondo multipolare che limiti lo strapotere di Washington.
In
quest’ottica emerge il ruolo dell’India sempre più distante dagli Stati Uniti,
un dato a cui è stato dato scarso risalto ma che è forse l’elemento di maggiore
cambiamento portato da questa crisi.
Conclusioni.
Nonostante
le miserie nostrane il mondo sta cambiando, e il modello unipolare statunitense
sta tramontando.
Questa
guerra è il primo atto del nuovo ordine mondiale.
Una nuova Jalta è oggi una necessità, ben
sapendo che parlare di nuova Jalta non vuol dire pensare a un mondo fatto di
cooperazione e pace.
Così
come non lo è stato fino all’89 non lo sarà nemmeno nel prossimo futuro. Quello che si prefigura è un sistema
multipolare in cui il diritto internazionale torni a essere parte integrante
delle relazioni fra Stati.
Questo
vorrà dire che l’ONU dovrà ritrovare una sua centralità, e per farlo sarà
necessaria una trasformazione che prenda atto di come il mondo stia cambiando.
Basti
pensare, ma è solo un esempio, a quello che sta succedendo in Africa, dove
l’imperialismo francese viene cacciato da una lotta di popolo che innalza nelle
sue manifestazioni le fotografie di Xi Jinping e Putin.
In
Italia si può guardare a quello che succede in Africa con un misto di accuse di
neocolonialismo rivolto alla Cina e di razzismo verso gli africani incapaci di
adottare il nostro sistema, ma la realtà è che il ruolo russo – ma soprattutto
la crescita cinese – stanno ponendo le basi per un nuovo ordine mondiale.
Oligarchi.
Laterza.it
– (10-12-2022) - Jacopo Iacoboni - Gianluca Paolucci – ci dicono:
Come
gli amici di Putin stanno comprando l'Italia.
Soldi,
molti soldi, traffici opachi, storie di spionaggio.
Un viaggio nel potere segreto degli oligarchi,
un gruppo ristretto di persone spesso legate a Putin e connesse tra loro che ha
conquistato un’influenza in Italia decisamente allarmante.
Secondo
studi recenti la Russia ha la quota più alta al mondo di dark money, soldi
opachi detenuti all’estero: un trilione di dollari.
Si
stima che un quarto di questi sia collegato a Vladimir Putin e a suoi stretti
associati, e il Cremlino sembra sempre più capace di pilotare operazioni
aggressive.
L’Italia è uno dei pezzi di questo grande
gioco: gli oligarchi russi in Italia investono e comprano grandi proprietà.
Agiscono
portando avanti attività che sono a volte al confine con lo spionaggio.
Il
libro ricostruisce la loro rete di rapporti in Italia: troveremo i rapporti dei
servizi segreti italiani sugli investimenti fatti per sostenere operazioni di
influenza politica, i passaggi in Italia degli avvelenatori di Skripal, la
ricostruzione puntuale dei giganteschi flussi di denaro dalla Russia verso il
nostro paese.
Così come le relazioni e le onorificenze della
Repubblica a personaggi sanzionati da Usa e Ue e le timidezze dei due governi
Conte.
Vicende
che sembrano uscite da un romanzo di John le Carré, ma che sono drammaticamente
reali e ci riguardano da vicino.
(Jacopo
Iacoboni - Gianluca Paolucci)
Oligarchi
russi: chi sono e
cosa
fanno oligarchi-russi.
Sapere.it-
(10-3-2022) – Matteo Innocenti – ci dice:
Colpiti
dalle sanzioni dell’Occidente, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della
Russia, ecco chi sono gli oligarchi, fedelissimi del presidente Vladimir Putin.
Con
l’invasione dell’Ucraina sono saliti alla ribalta, loro malgrado, gli oligarchi
russi, che hanno riempito le pagine dei giornali.
Colpiti
da sanzioni pesanti, imposte dall’Occidente e non solo, rei di essere troppo
vicini a Vladimir Putin e di aver svolto un ruolo nel minare la sovranità
ucraina.
Numerosi
i mega yacht sequestrati, al pari delle lussuose ville nel bacino del
Mediterraneo, dove questi magnati russi sono (o meglio erano) soliti
trascorrere periodi di vacanza: ma questa è solo la punta dell’iceberg.
CHI
SONO.
Per
definizione, l’oligarchia è un regime politico o amministrativo caratterizzato
dalla concentrazione del potere effettivo nelle mani di una minoranza, per lo
più operante a proprio vantaggio e contro gli interessi della maggioranza.
Gli oligarchi russi sono magnati che, a
seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, sono stati capaci di
approfittare al massimo della trasformazione postcomunista e delle
privatizzazioni selvagge, accumulando immense ricchezze e arrivando a
controllare di fatto tutta l’economia russa.
Ecco
chi sono e cosa fanno gli oligarchi russi di cui tanto si sente parlare.
(Gennady-Timchenko.jpg)
GENNADY
TIMCHENKO.
Gennady
Timchenko, amico di Putin da circa trenta anni, ha fondato ed è il proprietario
di” Volga Group”, holding con vasti interessi nei settori di energia, trasporti
e infrastrutture.
Ha un
patrimonio stimato di quasi 20 miliardi ed era già stato colpito dalle sanzioni
internazionali dopo la guerra in Crimea del 2014.
(igor-sechin.jpg)
(LaPresse)
IGOR
SECHINA.
Igor Sechin conosce Putin da tre decenni:
si
sono incontrati all’inizio degli Anni 90, quando lavoravano per Anatoli
Sobchack, sindaco di San Pietroburgo.
È uno
dei principali rappresentanti dei “siloviki”, cioè i funzionari che provengono
da ambienti militari e Kgb: il servizio nell’intelligence lo ha portato in
Angola e Mozambico. Oggi è amministratore delegato di Rosneft, la principale
società petrolifera russa. Ha un
soprannome: Darth Vader, dovuto al suo aspetto.
(Alisher-Usmanov.jpg
– LaPresse)
ALISHER
USMANOV.
Già
azionista di maggioranza del conglomerato industriale” Metalloinvest,” è
direttore generale di “Gazprom Invest”, nonché proprietario del quotidiano “Kommersant”,
del secondo operatore di telefonia mobile del Paese,” MegaFon”, del gruppo “Mail.Ru”,
principale società Internet del mondo russofono
Possiede il terzo yacht più grande al mondo: battezzato Dilbar, è lungo 156
metri e dopo l’invasione dell’Ucraina è stato bloccato nel porto di Amburgo.
Amante
della Sardegna, Usmanov è cittadino onorario di Arzachena.
(Viktor-Vekselberg.jpg
LaPresse)
VIKTOR
VEKSELBERG.
Molto
vicino al Cremlino, Viktor Vekselberg è proprietario e presidente della “Renova
Group”, conglomerata che si occupa di materie prime, energia e
telecomunicazioni.
14
miliardi di solo patrimonio personale secondo Forbes, possiede 15 uova Fabergé.
E
qualche anno fa ha acquistato il “Grand Hotel Villa Feltrinelli di Gargnano”,
sul Lago di Garda, struttura che prima di diventare albergo è stata la residenza
di Mussolini durante la Repubblica di Salò.
(miller.jpg)
ALEKSEJ
MILLERT.
Tra
gli altri sanzionati dall’Occidente c’è anche Aleksej Miller, presidente del consiglio di
amministrazione della compagnia energetica russa Gazprom.
I suoi legami con Putin hanno radici profonde
e risalgono agli Anni Novanta, quando il presidente russo era il vicesindaco di
San Pietroburgo.
(Andrey-Kostin.jpg
-LaPresse)
ANDREY
KOSTIN.
Al
vertice dell’istituto di credito russo “VTB”, a inizio 2022 Andrey Kostin ha
aveva ricevuto il titolo onorifico di commendatore in Italia, su iniziativa del
ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
In passato ha ricevuto non un titolo, bensì
accuse di corruzione da uno dei principali oppositori del regime di Putin,
ovvero l’attivista Alexei Navalny.
(Nikolai-Tokarev.jpg
-LaPresse)
NIKOLAI
TOKAREV.
Nikolai
Tokarev è il presidente della compagnia di oleodotti statale russa “Transneft”.
Ha un
passato nel Kgb, che gli ha permesso di conoscere Putin già negli Anni Ottanta,
quando entrambi erano in servizio a Dresda, nella Germania dell’Est.
E da allora sono rimasti strettamente legati.
(Mikhail-Prokhorov.jpg
LaPresse)
MIKHAIL
PROKHOROV.
Presidente
di “Polyus Gold” e del “gruppo Pnexim”, Mikhail Prokhorovsi controlla la
maggior parte della produzione di minerali preziosi nella Federazione Russa.
Ma ha
anche altre passioni, come il basket, peraltro molto popolare in Russia:
fino a settembre 2019 è stato proprietario
della franchigia Nba dei Brooklyn Nets.
YURI
KOVALCHUK.
Yuri
Kovalchuk possiede buona parte dei mezzi d’informazione russi.
E
anche il più popolare e più grande social network del Paese,” V-Kontakte”, una
sorta di “Facebook in cirillico” che ha acquistato dal già citato Usmanov.
Kovalchuk è azionista di maggioranza di “Banca Rossiya” e ha una grossa
partecipazione in “Soge”z, la società assicurativa di “Gazprom”.
(mordashov.jpg-
LaPresse)
ALEXEI
MORDASHOV.
Non
era grande come quello di Usmanov, ma anche Alexei Mordashov si è visto
“congelare” un panfilo, nel suo caso ormeggiato a Imperia.
Proprietario
del colosso siderurgico ed estrattivo” Severstal”, Mordashov dal 2005 al 2012 è
stato proprietario delle acciaierie di Piombino, che ha lasciato in un mare di
debiti (730 milioni).
(roman-abramovic.jpg -LaPresse)
ROMAN
ABRAMOVICH.
Se gli
oligarchi avessero un principe, sarebbe Roman Abramovich.
È il più famoso di tutti, in virtù dei 19 anni
come proprietario del “Chelsea”, che a suon di investimenti ha reso una delle
squadre di calcio più importanti al mondo.
Ha
iniziato a fare fortuna nell’imprenditoria a fine Anni Ottanta, fondando
diverse aziende di import/export e specializzandosi nel settore del commercio
di petrolio e derivati.
Ha
sempre negato di essere nella cerchia di fedelissimi di Putin, ma avrebbe
partecipato ai negoziati in Bielorussia:
ha
annunciato di voler vendere il Chelsea con l'intenzione di destinare i proventi
a un fondo per rifugiati.
(Mikhail-Fridman.jpg
LaPresse)
MIKHAIL
FRIDMAN.
Da Abramovich,
che ha una posizione ondivaga nei confronti di Putin, a un oligarca che si è
smarcato dal presidente russo:
nato a Leopoli (Ucraina), Mikhail Fridman ha
co-fondato “Alfa-Bank” e, dopo aver ricoperto l’incarico di Ceo della compagnia
petrolifera “TNK-B”, nel 2013 ha co-fondato la società di investimento
internazionale” LetterOn”e, con sede a Lussemburgo.
Per il
Times, nel 2019 era il più ricco abitante di Londra: ha scritto una lettera ai
suoi dipendenti in cui definisce «l’attuale conflitto come una tragedia per
entrambi» i popoli, sostenendo che «la guerra non potrà mai essere la risposta».
(Oleg-Deripaska.jpg
-LaPresse)
OLEG
DERIPASKA.
«La pace è molto importante! Gli accordi vanno
avviati al più presto!».
Questo
il messaggio diffuso su Telegram da Oleg Deripaska, signore dell’alluminio in
teoria vicinissimo a Putin.
Anche
per lui un passato nel Kgb, prima del successo come imprenditore.
Dal
2001 al 2018 Deripaska è stato sposato con la figlia di Valentin Yumashev,
storico consigliere di Boris Eltsin.
(Matteo
Incocenti)
Gli
oligarchi fuggiti da Londra adesso
«piangono
miseria» in altri lidi.
Avvenire.it
- Angela Napoletano – (23 febbraio 2023) – ci dice:
Le
perdite sono solo stimate, perché nessuno conosce
la
vera entità dei patrimoni.
«Fuggi
o combatti».
Il
motto che descrive l’ancestrale meccanismo di difesa del corpo al pericolo è
anche quello che sintetizza le strategie adottate dagli oligarchi russi che
facevano affari nel Regno Unito per navigare dodici mesi di guerra e sanzioni.
Roman
Abramovich, 56 anni, forse il più famoso degli “amici” di Vladimir Putin, è tra
quelli, la maggior parte, che ha lasciato Londra.
Oggi
vive in Turchia, a Istanbul, ma è stato spesso visto a Mosca come anche in
Israele e negli Emirati Arabi Uniti.
Fa la
spola tra i Paesi che non hanno sanzionato gli oligarchi.
Si dice che Dubai abbia attratto in un anno
talmente tanti russi da avere oggi un quartiere ribattezzato « Piccola Mosca».
L’ex
patron del Chelsea ha visto il suo patrimonio crollare del 40% ma la sua
ricchezza potrebbe valere ancora almeno 10,5 miliardi di dollari.
Se non
di più.
L’uomo
che si è proposto come mediatore di pace tra Mosca e Kiev, è noto, ha
modificato i “suoi trust offshore” tre settimane prima dell’invasione russa per
trasferire miliardi di beni ai suoi figli.
Una delle sue società, “Truphone”, gestita con
i “tycoons Alexander Abramov e Alexander Frolov”, è stata di recente in Europa
a un pound (uno).
Nel 2020 il suo valore era di 410 milioni di sterline.
Si è
stabilito invece in Lettonia il magnate del petrolio Petr Aven, 67 anni, che a
marzo scorso provò a difendersi dalle sanzioni dicendo di essere stato preso di
mira «solo per aver risposto al telefono a Putin».
A ottobre scorso l’ufficio del Tesoro incaricato di
applicare le sanzioni ha concesso al miliardario, comproprietario del fondo
investimenti “LetterOne”, di prelevare ogni mese dai conti bancari congelati
all’inizio della guerra circa 60mila sterline per sostenere le spese necessarie
a soddisfare i «bisogni essenziali» della sua famiglia.
Il
“signore” dell’acciaio russo, Oleg Deripaska, 55 anni, si sarebbe invece
trasferito in Russia dove, ironia della sorte, avrebbe imparato a proprie spese
il peso di una parola di troppo.
Secondo la stampa locale l’imprenditore avrebbe
infatti parlato dell’invasione ucraina come di una “guerra”, termine bandito
dal Cremlino, errore che gli è costato il sequestro di uno dei suoi alberghi
moscoviti.
In un
anno di conflitto la sua fortuna si è quasi dimezzata.
Non la sua intraprendenza.
L’uomo
ha usato il suo “factotum” britannico, Graham Bonham-Carter, per aggirare le
restrizioni poste a suo carico e acquistare immobili negli Stati Uniti.
Il suo
braccio destro, scoperto e arrestato, lo avrebbe aiutato anche a trasferire
opere d’arte da New York a Londra.
Tra i
pochi rimasti Oltremanica c’è Mikhail Fridman, nato 58 anni fa in Ucraina,
determinato a combattere per riappropriarsi dei beni che gli sono stati
sequestrati con una costosissima controffensiva legale.
Strategia,
utilizzata anche da Abramovich e Alicher Ousmanov, che certifica la possibilità
economica degli oligarchi “caduti in rovina” di poter ancora spendere milioni
in parcelle di avvocati.
«È difficile sapere se stanno davvero soffrendo le
conseguenze delle sanzioni – ha sottolineato all’agenzia Afp l’esperta di
geopolitica Jodi Vittori – perché non sappiamo esattamente quanto hanno».
Chissà quante sono le proprietà possedute, ha
aggiunto, «in qualche paradiso fiscale, a nome di parenti, società di comodo o
trust anonimi».
Insomma
il «piangere miseria» anche tra i russi non cade mai in prescrizione.
(Angela
Napoletano)
Lo
schiaffo di Putin agli oligarchi:
«Non
dispiace a nessuno se vi
hanno
tolto yacht e soldi».
Open.online
– (21 FEBBRAIO 2023) - Redazione – ci dice:
L’attacco
del leader russo: «Non supplicate per riavere i vostri soldi. Se investite in
Russia, i cittadini vi sosterranno»
«Nessuno
dei comuni cittadini è dispiaciuto per coloro che hanno perso i loro capitali,
yacht e palazzi all’estero».
Così
il presidente russo Vladimir Putin, nel suo discorso di oggi sullo Stato della
Nazione, ha scaricato gli oligarchi russi che si sono arricchiti approfittando
delle privatizzazioni avviate negli Novanta, in seguito al crollo dell’Unione
Sovietica.
In
quel periodo, ha ricordato Putin, le aziende statali venivano svendute «quasi
per niente».
E quei
«grandi uomini d’affari, invece che produrre tecnologia e creare posti di
lavoro in Russia, investivano in yacht all’estero», ha attaccato il leader del
Cremlino.
All’indomani
dello scoppio della guerra in Ucraina, l’Unione Europea e diversi altri governi
occidentali hanno congelato beni e patrimoni detenuti all’estero dagli
oligarchi russi.
Anziché
accogliere le loro lamentele, però, Putin ha scartato ogni possibilità di
dialogo.
«Non supplicate per riavere i vostri soldi.
Non investite all’estero, ma in Russia. A quel punto lo Stato e la società vi
sosterranno», ha detto il leader russo.
Gli
oligarchi russi, «cittadini di seconda classe».
L’Unione
Europea è stata la prima a congelare i beni degli oligarchi russi – tra cui
yacht, conti correnti e abitazioni di lusso – che ricadono all’interno della
propria giurisdizione.
Nelle
scorse settimane, poi, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione per
chiedere alla Commissione un piano per sequestrare tutti i beni russi congelati
agli oligarchi e utilizzare i fondi per pagare la ricostruzione dell’Ucraina.
«Chi ha portato i fondi all’estero, è stato
saccheggiato, derubato, ha perso tutto. Erano risorse detenute legalmente,
certo», ha detto oggi Putin nel suo discorso a Mosca.
«Nessuno
dei semplici cittadini del Paese è dispiaciuto per chi ha perso i capitali
all’estero, per chi si è comprato yacht e ora ha i fondi bloccati», ha aggiunto
il leader russo.
Secondo
Putin, l’occidente considera gli oligarchi russi come «cittadini di seconda
classe».
Prima
che il Cremlino decida di accorrere in loro soccorso, però, gli oligarchi
dovranno compiere «una seconda scelta: lavorare per la propria patria».
Russia,
Putin corteggia gli
oligarchi
e annuncia misure.
Usarci.it
– Redazione - (Adnkronos) – (15-3-2023) – ci dice:
Vladimir Putin corteggia gli oligarchi.
In un discorso di fronte all'Unione degli
industriali e degli imprenditori, il presidente russo ha garantito il "sostegno del governo in tutti i
modi alle imprese responsabili, a coloro che sono pronti a battersi per la loro
causa, per il benessere del loro gruppo, delle persone che lavorano per loro,
per il benessere di tutti i russi".
Il
Cremlino si impegna quindi ad aiutare le imprese che si concentrano sullo
sviluppo sostenibile per gli anni a venire, piuttosto che per risultati a breve
termine, devono e avranno supporto, ha aggiunto Putin, come ad anticipare
momenti di difficoltà.
Le
imprese, ha riassunto Putin, che hanno una "visione strategica per il
futuro".
Il presidente russo ha anche parlato del
riorientamento graduale in atto per raggiungere i mercati in via di sviluppo,
un processo avviato prima ancora "dell'operazione militare speciale".
La Russia, ha affermato, è riuscita a
compensare la chiusura dei mercati occidentali in questo modo.
Putin
ha insistito nel chiedere il rientro dei capitali custoditi all'estero
dall'élite russa.
"Sentivo la gente dire, 'è più al sicuro
all'estero che non qui'.
Ma
ora?
La base stessa della nostra esistenza e il
futuro delle nostre famiglie e bambini sono qui.
Solo se si capisce questo, fare impresa può
portare soddisfazioni", ha detto.
"Sono convinto che più i nostri
imprenditori condividono questi valori, più forte sarà la Russia, più forte
sarà la nostra economia, prima la vita potrà migliorare, e maggiore prestigio e
rispetto pubblico avranno i nostri imprenditori e uomini d'affari".
Putin
ha anticipato che la Russia adotterà misure per bloccare la distribuzione di
dividendi per l'Occidente in risposta al congelamento dei beni russi.
Si
tratta di una decisione "dettata dalla necessità di salvaguardare gli
interessi della nostra economia e delle nostre imprese".
Il leader del Cremlino ha sottolineato che le
autorità russe cercheranno di correggere la misura laddove limita la capacità
di amici e partner di proseguire le loro operazioni in Russia.
Putin
ha quindi detto di sapere per certo che molte compagnie occidentali vogliono
tornare sul mercato russo, che molte non volevano lasciare in prima
battuta.
Il
presidente russo sostiene che la Russia ha molti amici nei Paesi Occidentali.
"I Paesi sono fatti dalle popolazioni, dalla
gente, e noi abbiamo molti amici in questi Paesi, davvero molti", ha
affermato nel suo intervento di fronte all'Unione degli industriali e degli
imprenditori russi.
Questo
atteggiamento favorevole è molto diverso da quello delle cosiddette élite al
governo dei Paesi, ha dichiarato, come riporta l'agenzia Tass.
Putin
ha incontrato gli oligarchi e l'élite dell'imprenditoria russa per invitarli a
investire nelle nuove tecnologie, nelle imprese e negli impianti di produzione
in modo da avere la meglio su chi vuole distruggere l'economia di Mosca.
È la
prima volta che il presidente incontra miliardari russi e il mondo dell'impresa
da quando ha lanciato l'invasione dell'Ucraina.
Molti
oligarchi russi sono stati sottoposti a sanzioni occidentali, ma Putin ha
spiegato loro di non aver avuto altra scelta se non quella di procedere con la
cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina.
La
Russia, ha proseguito, sta affrontando una "guerra di sanzioni", ma
sta rapidamente riorientando la sua economia verso ''Paesi amici''.
Il
leader del Cremlino ha detto anche che i Paesi della zona euro stanno cercando
di convincere tutti di un imminente collasso dell'economia russa mentre la loro
inflazione è più alta di quella della Russia, ha affermato Putin, citando Mark
Twain e la sua celebre frase "le notizie della mia morte sono enormemente
esagerate".
La
domanda interna in Russia cresce bene e continuerà a farlo in modo sostenibile
e stabile, ha aggiunto.
(adnkronos.com/russia-putin-corteggia
gli oligarchi...)
Russia-Ucraina,
che fine hanno
fatto
gli oligarchi di Putin?
Adnkronos.com – Fabio Insenga – (03 marzo 2023)
– ci dice:
Stanno
subendo le sanzioni e hanno dovuto cambiare le loro abitudini. Ma hanno
accumulato ricchezze incalcolabili e cercano di salvarle almeno in parte.
Hanno
avuto un ruolo chiave nella costruzione della Russia di Putin.
E, nelle aspettative dell'Occidente,
potrebbero averlo anche nella dissoluzione del regime del capo del Cremlino.
Gli
oligarchi, i super ricchi imprenditori che hanno fatto le loro fortune con le
privatizzazioni delle aziende di Stato, stanno subendo le conseguenze delle
sanzioni occidentali e sono stati costretti dalle conseguenze della guerra in
Ucraina a ridimensionare sensibilmente il proprio patrimonio.
Che
fine hanno fatto?
E come
si stanno muovendo per cercare di limitare i danni?
Soprattutto, hanno l'interesse e la forza per
'ribellarsi' non tanto all'impoverimento progressivo della madre patria quanto
all'inesorabile riduzione della propria ricchezza personale?
Alla
prima domanda cercano di rispondere, con una certa fatica, anche le autorità che
devono controllare l'efficacia delle sanzioni.
Erano
tutti abituati a spostarsi da una residenza all'altra, in Europa e negli Stati
Uniti, con Londra, Parigi e New York come sedi principali più gettonate.
Affari e vacanze, con l'Italia tra le mete
preferite, spostando grandi quantità di denaro.
Oggi
hanno dovuto cambiare abitudini.
Alcuni
sono tornati stabilmente in Russia, altri si muovono prevalentemente nei Paesi
non ostili alla Russia, dalla Turchia agli Emirati Arabi, altri ancora, quelli
non sanzionati direttamente, continuano a muoversi anche in Europa.
Cercare
di capire cosa fanno per provare a contenere le perdite e, dove possibile, per
continuare a fare affari è un altro passaggio chiave.
Ci sono le proprietà possedute difficilissime
da censire, tra paradisi fiscali, prestanome, società di comodo e trust anonimi.
Ci
sono i movimenti di denaro e le transazioni che continuano, i traffici di opere
d'arte e di beni di lusso operati attraverso intermediari di nazionalità
diverse.
C'è anche chi sta spendendo milioni di dollari
in parcelle di super avvocati per tentare di opporsi legalmente agli effetti
delle sanzioni.
Qualcosa della loro attività si vede, molto
altro si intuisce.
Quello
che è innegabile, almeno stando ai dati disponibili, è che tutti stiano
accusando perdite consistenti.
Secondo
l'indice globale dei miliardari di Bloomberg, i 24 oligarchi russi più ricchi
hanno perso alla data del primo gennaio 2023 poco meno di 100 miliardi di
dollari, quasi 40 solo nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della
guerra.
L'ex
proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, ha perso il 57% del suo patrimonio,
che si aggira ora intorno a 'soli' 7,8 miliardi di euro.
Gennady
Timchenko ha perso il 48% e può contare ancora su 11,8 miliardi.
Vladimir
Potanin, il re del nickel, ha ancora un patrimonio di poco superiore ai 29
miliardi.
Scorrendo
questi dati si arriva alla domanda cruciale.
Gli oligarchi riusciranno a navigare come
stanno facendo ancora a lungo o, alla fine, chiederanno il conto a Putin?
Qualche
segnale di insofferenza c'è stato, così come diversi tentativi di spingere in
qualche modo per agevolare la conclusione del conflitto in Ucraina.
Oleg
Tinkov ha rinunciato alla cittadinanza, ha definito "folle" la guerra
ed è stato costretto a cedere la sua banca.
Oleg
Deripaska, parlando recentemente a un forum in Siberia, ha detto chiaramente
che le sanzioni pesano e che "già il prossimo anno non ci saranno
soldi" e la Russia "avrà bisogno di investimenti stranieri".
Lo
stesso Abramovich ha provato a ritagliarsi un ruolo di mediatore, partecipando
anche ai colloqui in Bielorussia della primavera scorsa, prima dell'ulteriore
inasprimento del conflitto.
La
risposta di Putin agli oligarchi, finora, è stata eloquente. "Nessuno dei comuni cittadini
è dispiaciuto per coloro che hanno perso i loro capitali, yacht e palazzi
all’estero", ha scandito nel suo discorso sullo Stato della Nazione.
Un
segnale, anche questo, che può essere letto come un avvertimento rispetto a una
pressione che potrebbe salire con il protrarsi della guerra.
(Fabio
Insenga)
QUANDO
GLI OLIGARCHI PRENDONO IL LARGO.
Glistatigenerali.com
- GELENA KATKOVA – (31 Gennaio 2023) – ci dice:
Le
sanzioni imposte alla Russia stentano ad ottenere risultati visibili sulle
decisioni belligeranti di Putin, e la guerra sta costando decine di miliardi di
euro.
In parte si tratta di cinici investimenti,
perché l’Europa e gli Stati Uniti, se (come speriamo tutti) l’Ucraina vincerà,
otterranno fette importanti dei contratti per la ricostruzione.
Il
fatto è che con il prolungarsi dell’invasione, i suoi costi continuano ad
aumentare, e l’Occidente sta seriamente prendendo in considerazione la
possibilità di recuperare una parte delle spese sequestrando il patrimonio dei
russi che, da anni, si nascondono dalle autorità fiscali russe e godono dei
benefici di una ricchezza spropositata.
Putin
sapeva che sarebbe successo.
Poche
ore dopo l’inizio dell’invasione, il 24 febbraio 2022, convoca al Cremlino 37
tra i più importanti dirigenti d’azienda del Paese, tra cui almeno 12
miliardari.
Due di
questi, Mikhail Gutseriev e Suleiman Kerimov, sono già oggetto delle sanzioni
degli Stati Uniti o dell’Unione Europea.
Lo scopo dell’incontro è quello di informarli
dell’attacco, con Putin che afferma di non avere altra scelta se non quella di
invadere e di essere consapevole che la Russia sarebbe stata probabilmente
colpita da nuove sanzioni.
Dopo
aver parlato, Putin lascia la stanza senza permettere agli imprenditori di commentare,
lasciando gli oligarchi frustrati e soli.
Dal
giorno dell’invasione l’Europa dà la caccia ai sostenitori di Putin, cercando
di impedire il loro supporto economico al Cremlino.
Oggi,
un anno dopo, i governi della UE lavorano a un decimo pacchetto di sanzioni per
fine febbraio.
Chi
finisce nella Lista Nera è qualcosa che viene deciso da avvocati ed ex
funzionari del Dipartimento del Tesoro, che valutano il peso delle sanzioni in base
alla influenza politica ed economica dei singoli, poiché alcuni oligarchi “sono
più importanti di altri per ragioni politiche”.
Durante
l’ultimo anno sono finiti nel mirino di giustizia 45 miliardari.
La UE
ha imposto divieti di viaggio, congelato i beni e dato la caccia alle barche (61 luxury yachts in tutto il mondo,
per un valore di almeno 6,3 miliardi di dollari), ai jet privati e alle case di lusso
situate in Europa – specialmente in Svizzera, Paese tradizionalmente neutrale e
spesso usato come il rifugio per i patrimoni offshore, che sorprendentemente
annuncia il congelamento dei beni di tutti gli individui sanzionati dalla UE.
Nessuna
eccezione, nemmeno per i magnati residenti nel Commonwealth:
Bermuda,
le Isole Vergini britanniche, le Isole Cayman e l’Isola di Man (i paradisi fiscali dove gli uomini
ricchi di tutto il mondo amano nascondere il loro denaro), poiché persino queste giurisdizioni
hanno iniziato ad applicare le sanzioni.
I
miliardari non sono d’accordo e contestano le sanzioni (come hanno fatto con successo nel
2014 dopo l’annessione della Crimea).
Tra i
più famosi ci sono:
• Roman Abramovich con i suoi 8.7 miliardi di dollari di
patrimonio ha dovuto vendere il Chelsea, perdendo tantissimo denaro, ed oggi
possiede solo le azioni del gigante dell’acciaio Evraz e del produttore di
nichel, Norilsk Nickel, il resto è stato venduto o intestato ai figli; Abramovich,
di discendenza ebrea, ha anche la cittadinanza israeliana, portoghese e
lituana.
Nel maggio 2022 ha provato a chiedere la
revoca delle sanzioni e un risarcimento danni di un milione di euro alla
fondazione benefica creata dopo la vendita del Chelsea.
Per
individuarne le proprietà, si analizzano i social media dei parenti e delle
compagne degli oligarchi.
• Alisher Usmanov, il proprietario uzbeko-russo del
gruppo USM e del colosso dell’acciaio Metalloinvest, così come di Dilbar, lo
yacht più grande del mondo (di cui ha trasferito la proprietà alla sorella
Gulbakhor Ismailova, valutato 600 milioni di dollari e sotto sequestro ad
Amburgo su ordine delle autorità uzbeche, che ha chiesto di ritirare le
sanzioni contro di lui nell’aprile del 2022;
• Alexey Mordashov, proprietario della quota di
controllo del gigante metallurgico Severstal, che sta cercando di “scongelare”
i suoi assets spostandone la proprietà ad un trust e ad un fondo di
investimento.
A
maggio ha impugnato davanti a un tribunale dell’UE la decisione di imporre
sanzioni nei suoi confronti – lo stesso tentativo compiuto da Mikhail Fridman
(fondatore e azionista di maggioranza di Alfa Group) e Pyotr Aven (amico di
Vladimir Putin e azionista di Alfa Group).
La
controversia in tribunale potrebbe richiedere anni, per essere risolta.
Sicché alcuni oligarchi hanno fretta e cercano
di risolvere la situazione a modo loro.
Alcuni hanno convertito i propri yacht in case
galleggianti e le hanno registrate in giurisdizioni “amichevoli” come la Malaysia,
la Sierra Leone o Palau.
Altri
trasferiscono le proprietà a un parente o a uno stretto collaboratore, anche se
questo finora non ha evitato l’inserimento di quei beni nella lista degli
assets sotto sequestro.
Dmitriy
Mazepin,
il proprietario di uno dei maggiori fornitori di fertilizzanti minerali del
mondo (Uralchem, su cui abbiamo già scritto, già furioso per il fatto che la
Formula Uno abbia escluso suo figlio dai piloti in gara, ha ora peggiorato la
propria situazione spostando, con l’aiuto di intermediari, due dei suoi yacht,
confiscati sulle coste della Sardegna, finendo così nel mirino delle autorità
Italiane: le proprietà di Mazepin in Italia sono state definitivamente
confiscate e lo aspetta una multa di 500’000 euro da pagare al Comune di Olbia.
Intanto,
in Ucraina, si continua a morire, dall’una e dall’altra parte.
L’economia
russa dimostra di essere stata ben preparata, l’esercito meno.
Putin
sta probabilmente commettendo gli stessi errori di Adolf Hitler, e c’è da
temere che avrà la stessa perseveranza:
se dovesse capire di aver perso, trascinerà il
mondo intero nella catastrofe.
Meno
ricchi, meno influenti.
Gli
oligarchi ucraini dopo l’invasione.
Formiche.net
- Matteo Turato – (02/01/2023) – ci dice:
L’invasione
russa dell’Ucraina ha inciso parecchio sulle sorti dei principali uomini
d’affari ucraini.
Probabilmente un bene per un Paese che aspira
a entrare nell’Unione europea, o comunque a lasciarsi alle spalle il passato
sovietico.
E intanto Reznikov mette in guardia gli
alleati su una possibile campagna di reclutamento russa e una nuova offensiva
in primavera.
La
guerra in Ucraina, oltre a colpire masse di poveri già poveri, ha colpito anche
le fortune di alcuni tra gli uomini più ricchi del Paese.
Prima
dell’invasione queste persone regolavano la vita economica e politica ucraina
gestendo sostanzialmente qualunque settore produttivo.
La
guerra ha sparigliato le carte.
Chi
possiede mezzi di traporto, miniere e impianti ha visto le bombe cadere sulle
infrastrutture.
Chi
possiede banche e sistemi di telecomunicazione ha visto gli attacchi
cibernetici e gli espropri russi.
Chi possiede terreni agricoli fa i conti con
le mine e il crollo delle esportazioni.
Secondo
il quotidiano “Politico”, la presa degli oligarchi sulla vita del Paese ne ha
risentito.
Anche
prima della guerra Volodymyr Zelensky aveva portato avanti degli sforzi per
ridurne l’influenza politica e l’invasione avrebbe dato maggiore enfasi a
questa spinta.
Inoltre,
la garanzia di misure anti-corruzione (endemica in Ucraina) è spesso una
condizione per la concessione di aiuti a Kiev, anche per evitare che si
disperdano o finiscano nelle mani sbagliate.
Per
fare degli esempi, “Rinat Akhmetov”, l’uomo più ricco d’Ucraina, è il proprietario
del colosso metallurgico “Metinvest”.
Il
gruppo ha perso due dei suoi principali impianti nel sud del Paese: Ilych Iron and Steel Works e
l’acciaieria Azovstal.
Quest’ultima
tristemente celebre in Occidente nei primi mesi di guerra per essere divenuta
l’epicentro di una lunga battaglia.
Le altre attività di Akhmetov (impianti
energetici, banche, fattorie e miniere) sono state danneggiate o sequestrate
dai russi.
Secondo
la rivista Forbes, le ricchezze di quest’uomo ammonterebbero oggi a “soli” $4.3
miliardi, una bella riduzione dai 14 pre-invasione.
Anche
se il suo portavoce ha affermato che le stime andranno accertate quando le
ostilità saranno concluse, dato che con i missili che continuano a colpire è
molto difficile ottenere dati precisi.
I
rapporti tra Akhmetov e Zelensky non devono essere particolarmente cordiali.
Da un
lato l’oligarca ha contribuito alla difesa ucraina con materiale (come elmetti
ad esempio) per $100 milioni, dall’altro il presidente ucraino non si sarà
dimenticato del tentativo di colpo di Stato filo-russo che avrebbe coinvolto
anche Akhmetov nel novembre 2021.
Un
altro esempio interessante è quello dell’ex presidente Petro Poroshenko.
Oltre
a essere un politico di primo piano in Ucraina, Poroshenko è diventato famoso
come il “re del cioccolato”.
Nel
1995 ha riunito le sue varie aziende di confezionamento e lavorazione di cacao
e altri dolci nel “gruppo Roshen”, un conglomerato che, prima della guerra,
operava in 35 Paesi con un giro d’affari di circa un miliardo di dollari,
secondo Forbes.
Prima
dell’invasione aveva dovuto difendersi dalle accuse di alto tradimento e di
promozione del terrorismo.
Ovvero di aver favorito i rifornimenti di carbone a
Kiev dai territori occupati del Donbas invece che da altri fornitori.
Dopo il 24 febbraio 2022, le televisioni di
Poroshenko hanno smesso di attaccare politicamente Zelensky per abbracciare un
approccio più patriottico e unitario.
Tuttavia,
il suo sostegno alle forze ucraine non l’ha salvato dalle accuse del presidente
in carica di cercare eccessivo consenso tra i soldati.
Non si
è salvato nemmeno il “padrino” di Zelensky.
Ihor
Kolomoisky ha
giocato un ruolo fondamentale nel promuovere l’ascesa dell’attuale presidente
tramite il suo impero mediatico.
Tuttavia,
i legami con Zelensky non hanno impedito agli Stati Uniti di processare
l’oligarca per aver riciclato miliardi negli Usa.
La sua principale banca (Privatbank) è stata
sequestrata dalle autorità dopo il rinvenimento di un buco da 5 miliardi e Kiev
vorrebbe spogliarlo della cittadinanza ucraina visto che ha i passaporti di
Israele e Cipro.
Se non
bastasse, a novembre il governo ucraino ha invocato la legge marziale per
prendere il controllo di “Ukrnafta”, la società nazionale leader del settore energetico,
in gran parte controllata da Kolomoisky.
Il
popolo ucraino non vuole chinare il capo di fronte ai russi.
Ci si
augura che non voglia più inginocchiarsi nemmeno di fronte ai propri oligarchi.
Il 31
dicembre il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Rexnikov, ha lanciato un monito:
la Federazione Russa vuole lanciare una nuova
campagna di reclutamento nelle prossime settimane e cominciare una nuova
offensiva in primavera.
Dopo
la sconfitta nell’oblast’ di Kharkiv a settembre, il presidente russo Vladimir
Putin aveva ordinato una prima ondata di mobilitazione in Russia, arruolando,
secondo le stime ufficiali russe, più di 300.000 uomini.
Il 31
ottobre, il Ministero della Difesa russo ha comunicato la fine della
mobilitazione, ma Putin non ha mai pubblicato l’ordine di cessazione della
leva.
Il governo russo ha sempre insistito sull’inutilità di
una nuova campagna di reclutamento, sostenendo che la prima sia stata
sufficiente.
“Putin decise in segreto di invadere
l’Ucraina.
Lavrov, gli oligarchi e i dirigenti del
Cremlino tenuti all’oscuro”.
Ilfattoquotidiano.it
– Redazione – (24 FEBBRAIO 2023) – ci dice:
A
ricostruire le origini del conflitto è un lungo reportage del Financial Times.
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov
venne colto "totalmente di sorpresa" da una telefonata il 24 febbraio
2022 che gli comunicava il via libera di Putin all'invasione dell'Ucraina.
E quando uno degli oligarchi gli chiese come
avesse potuto imboccare questa strada, Lavrov rispose:
Putin
"ha tre consiglieri. Ivan il Terribile. Pietro il Grande. E Caterina la
Grande'"
L’invasione
dell’Ucraina è stata decisa soltanto da Vladimir Putin e da una strettissima
cerchia di suoi consiglieri, che non comprendevano né i dirigenti del Cremlino,
né il ministro degli Esteri Lavrov.
E
quella che nel piano del presidente russo doveva essere “una brillante e
relativamente incruenta guerra lampo” con l’occupazione di Kiev portata a
termine in pochi giorni, si è rivelata “un pantano di proporzioni storiche per
la Russia”.
La ricostruzione dell’origine del conflitto in
Ucraina compare oggi sul Financial Times che, in un reportage che affronta le
origini del conflitto, scrive come la guerra scaturì dalla decisione del
presidente russo e di pochi uomini super-fidati, senza coinvolgere l’intera
leadership di Mosca.
“Intorno
all’una del mattino del 24 febbraio, il ministro degli Esteri russo Sergei
Lavrov ricevette una telefonata inquietante – scrive il quotidiano britannico
-. Dopo mesi passati a preparare una forza di invasione da 100mila uomini sui
confini con l’Ucraina, Vladimir Putin aveva dato il via libera all’invasione.
La decisione prese Lavrov totalmente di
sorpresa”.
Una
svolta arrivata a pochi giorni dall’iniziativa di Putin di sondare “i membri
del suo consiglio di sicurezza sulla possibilità di riconoscere i due
staterelli nel Donbass - durante una cerimonia televisiva – ma non aveva
comunicato loro le sue vere intenzioni”, scrive il giornale.
Quindi,
“tutti gli alti dirigenti del Cremlino seppero dell’invasione solo quando hanno
visto Putin dichiarare un’’operazione militare speciale in televisione quella
mattina”.
Durante
una riunione quello stesso giorno con diversi oligarchi, “dove tutti stavano
perdendo la testa” perché sapevano che le sanzioni li avrebbero colpiti
duramente – racconta al giornale uno dei presenti – “uno degli oligarchi chiese
a Lavrov come Putin avesse potuto pianificare un’invasione così enorme con una
cerchia così ristretta, tanto che la maggior parte degli alti funzionari del
Cremlino, il gabinetto economico russo e la sua élite imprenditoriale non
credevano nemmeno che fosse possibile.
‘Ha
tre consiglieri’, rispose Lavrov. Ivan il Terribile. Pietro il Grande. E
Caterina la Grande’”.
Putin,
però, pensava che la guerra in Ucraina si sarebbe risolta in pochi giorni, con
la presa pressoché immediata di Kiev.
Uno
scenario che, a un anno esatto dall’inizio del conflitto, oltre a non essersi
verificato, ha portato al coinvolgimento della Nato e dell’Europa, che
riforniscono Kiev di aiuti militari, e alla morte di centinaia di migliaia di
persone, tra militari e civili.
E dove
le dichiarazioni di escalation e prosecuzione delle ostilità al momento
prevalgono sulla concretezza dei negoziati per la pace.
“Secondo il piano di invasione di Putin –
continua a ancora il Financial Times -, le truppe russe avrebbero dovuto
impadronirsi di Kiev nel giro di pochi giorni in una brillante e relativamente
incruenta guerra lampo. Invece, la guerra si è rivelata un pantano di
proporzioni storiche per la Russia”.
Gli
oligarchi di Putin hanno usato
il
Nord Stream per arricchirsi e
imbrigliare
l'Europa. E il Parlamento Ue
lo
sapeva da tempo.
Italiaoggi.it
- Tino Oldani – (16-3-2023) – ci dice:
Quali
fossero i rischi geopolitici per l'Europa del gasdotto russo Nord Stream,
l'Unione europea lo sapeva da anni, ben prima dell'aggressione russa contro
l'Ucraina, ma ha fatto ben poco per evitarli.
Anzi,
con l'inazione politica imposta dalla Germania di Angela Merkel e le lentezze
burocratiche di Bruxelles, ha finito con il favorire allo stesso tempo il
riarmo militare della Russia e l'arricchimento smisurato di alcuni oligarchi
vicini a Vladimir Putin, indicati da più fonti come suoi prestanome.
In proposito,
fa testo l'intervento che l'economista svedese Anders Aslund, 70 anni,
all'epoca esponente del Consiglio Atlantico, pronunciò il 29 gennaio 2019 di
fronte al Parlamento europeo per illustrare una ricerca condotta insieme alla
collega Julia Frielanders, intitolata «Riciclaggio di denaro che coinvolge
individui russi, e i suoi effetti sull'Unione europea».
Secondo
i calcoli di Aslund, dal 2011 al 2019 le spese in conto capitale di “Gazprom”
erano state pari a 295 miliardi di dollari, con una media di 33 miliardi
l'anno:
«Possiamo ritenere che un terzo di questi
fondi fossero pagamenti in eccesso, pari a profitti eccessivi dei “fratelli
Rotenberg”».
E chi sono” i fratelli Rotenberg”, e quanto
siano amici o addirittura prestanome di Putin, lo ha spiegato più volte il
dissidente russo “Alexey Navalny”, arrestato e imprigionato a Mosca dopo essere
scampato a un avvelenamento.
Rivelazioni
registrate in modo puntuale da «Oligarchi. Come gli amici di Putin stanno
comprando l'Italia» (Laterza),
libro scritto da Jacopo Jacoboni e Gianluca
Paolucci.
Il
giorno dopo il suo arresto, la fondazione anti-corruzione di Navalny pubblicò una video-inchiesta in cui,
con documenti inediti e riprese di droni, raccontava la storia del «Palazzo di Putin», una villa faraonica costruita a
Gelendzhik sulla riva russa del Mar Nero, costata 1,37 miliardi di dollari,
pagati «con la più grande corruzione della storia».
Un'accusa,
dice il libro, che quadra con la ricostruzione dell'economista Anders Aslund,
secondo il quale il patrimonio netto di Putin sarebbe compreso tra 100 e 160
miliardi di dollari, somma che farebbe dell'autocrate russo il terzo uomo più
ricco del pianeta, dopo Jeff Bezos ed Elon Musk.
Artefice
della costruzione è stato un italiano, l'architetto Lanfranco Cirillo, bresciano, il quale ha vissuto per anni a Mosca,
è noto come «l'architetto del Cremlino», e dice di avere lavorato «per 44 dei
primi cento più ricchi di Russia».
Intervistato
da Repubblica nel gennaio 2021, l'architetto Cirillo ha così descritto il «Palazzo di
Putin»:
«Ha 90
colonne, marmi spettacolari, piscina e spa, un home theatre molto grande,
passeggiata a parco con migliaia di cipressi e piante aromatiche italiane.
Ha 12
stanze da letto, un'orangerie di 800 metri quadri, serre per le piante
d'inverno, l'anfiteatro in travertino romano».
Nell'area
ci sono anche quattro ville di 400 metri quadri ciascuna, progettate sempre da
Cirillo.
Intorno a questo complesso vi è un'area di 70
chilometri quadrati, di proprietà del servizio di sicurezza federale (Fsb), sui
quali è imposto il divieto di sorvolo e di navigazione entro un miglio dalla
costa.
Un
privilegio che solo un capo di Stato può avere.
Interrogato
da uno studente un paio di giorni dopo l'uscita della video-inchiesta di
Navalny, Putin disse di non avere nulla a che fare, né lui né i suoi parenti
stretti, con quella mega-villa.
Ma
pochi gli credettero e la notizia continuò a circolare, mettendo in imbarazzo
la propaganda del Cremlino, finché dopo undici giorni spuntò un oligarca, il
quale disse che la villa era sua, ed era solo un hotel di lusso.
Il suo
nome? Arkady
Rotenberg, uno
dei fratelli citati all'inizio di questo pezzo per i loro guadagni
stratosferici sul gasdotto Nord Stream.
Ma,
soprattutto, un amico d'infanzia di Putin, poi suo partner nella pratica del
judo, di
fatto il modesto gestore di una palestra di judo a San Pietroburgo, che grazie alla protezione dello
zar del Cremlino è diventato uno degli uomini più ricchi in Russia, un oligarca
tra i più potenti.
L'inizio
della sua ascesa risale al 2008, quando Putin in persona, salito da poco al
potere, telefonò al banchiere Sergey Pugachev, chiedendogli di concedere un
prestito di 500 milioni di dollari al suo amico Arkady Rotenberg.
«Sergey,
mi disse, è solo un prestito. Ti sarà restituito in sei mesi», raccontò poi il
banchiere.
Da
allora, Arkady Rotenberg, insieme al fratello Boris, è diventato imprenditore,
ha ottenuto contratti di favore da Gazprom per costruire gasdotti, compreso il
Nord Stream, attività da cui ha ottenuto gli utili stratosferici calcolati
dall'economista svedese Aslund.
Il tutto nel clima di grande corruzione che
caratterizza l'economia russa.
Pugachev,
il banchiere del primo prestito, con riferimento agli affari e ai miliardi che
ruotano intorno a Gazprom, ha detto:
«Putin
voleva che Rotenberg fosse dentro, perché poteva controllarlo totalmente.
Rotenberg era assolutamente suo». In pratica, un prestanome.
Secondo
“Dataroom di Milena Gabanelli”, i fratelli Arkady e Boris Rotenberg,
costruttori di gasdotti e co-proprietari della “Banca Smp”, hanno mandato i
figli a studiare in Inghilterra:
«I
figli piccoli di Arkady vivono con la madre Natalja a Londra in un appartamento
di 8 milioni di sterline e dispongono di una villa nel Surrey di 35 milioni di
sterline».
Il
libro di Jacoboni e Paolucci dedica ai fratelli Rotenberg un intero capitolo e
racconta in dettaglio i loro affari e le loro proprietà sia a Mosca che in
Italia.
In
Russia, oltre ai gasdotti, hanno costruito il ponte di Kerch, che collega la
Russia alla Crimea, e controllano la società che riscuote i pedaggi
autostradali.
In
Italia, hanno una mega-villa all'Argentario e una tenuta in Toscana, a
Castiglione della Pescaia.
Entrambe
soggette, finalmente, alle sanzioni post invasione dell'Ucraina.
Putin
a Xi Jinping: "Interesse
per le
proposte di Pechino sull'Ucraina."
Italiaoggi.it
- redazione Roma –(20-3-2023) – ci dice:
Dopo
l'incontro al Cremlino tra i due leader.
Prima
visita all’estero del suo terzo mandato per il presidente cinese.
Che
arrivato nella capitale russa ha spiegato:
"La Cina e la Russia sono buoni vicini
e partner affidabili. Il mio viaggio servirà per lo sviluppo dell'interazione
strategica e la cooperazione pratica tra i due paesi".
Vladimir Putin e Xi Jinping.
È in
corso al Cremlino un incontro informale faccia a faccia tra i presidenti russo
Vladimir Putin e cinese Xi Jinping.
Lo rende noto l'agenzia Ria Novosti.
I
colloqui continueranno durante una cena di lavoro.
Il presidente cinese Xi Jinping ha definito nell'incontro
al Cremlino il presidente russo Putin "un caro amico".
"I
nostri paesi devono avere stretti rapporti", ha affermato Xi,
come riporta “Ria Novosti”.
I
colloqui continueranno durante una cena di lavoro.
Il presidente cinese Xi Jinping ha definito
nell'incontro al Cremlino il presidente russo Putin "un caro amico".
"I
nostri paesi devono avere stretti rapporti", ha affermato Xi, come riporta
Ria Novosti."
Guardiamo
con interesse alle proposte della Cina per risolvere la crisi in Ucraina",
ha detto il presidente russo a quello cinese all'inizio del loro incontro al
Cremlino.
Il
presidente cinese Xi Jinping, è arrivato oggi a Mosca, per una visita di tre
giorni. È il suo primo viaggio all'estero da quando è stato rieletto per un
terzo mandato come capo di Stato.
"La Cina e la Russia sono buoni vicini e
partner affidabili", ha detto Xi al suo arrivo nella capitale russa,
citato dall'agenzia Ria Novosti, aggiungendo che il suo viaggio servirà
"per lo sviluppo dell'interazione strategica e la cooperazione
pratica" fra i due Paesi.
"Sono
fiducioso che la visita sarà fruttuosa e darà nuovo impulso allo sviluppo sano
e stabile delle relazioni Cina-Russia di partenariato globale e cooperazione
strategica in una nuova era", ha sottolineato il leader cinese, secondo il
quale Russia e la Cina intendono lavorare insieme per promuovere il
"multilateralismo" e la "governance globale in una direzione più
giusta e razionale", sulla base dei principi delle Nazioni Unite.
Nel pomeriggio il segretario di Stato Usa,
Antony Blinken, ha dichiarato a proposito della visita di Xi Jinping:
"Se
vai a Mosca e ti siedi per tre giorni allo stesso tavolo del presidente Putin e
ascolti il suo punto di vista su una guerra che ha iniziato e che potrebbe
finire oggi, dovresti come minimo alzare il telefono e parlare anche con il
presidente Zelensky per avere il suo punto di vista", ha detto assicurando
che la Casa Bianca sta seguendo l'incontro a Mosca fra Xi e Vladimir Putin "molto, molto da vicino".
Poche
ore prima del loro incontro a Mosca, Putin e Xi hanno pubblicato oggi
editoriali paralleli sulla stampa del loro interlocutore - Putin sul Quotidiano
del Popolo, Xi sulla “Rossiyskaya Gazeta” - per sottolineare la loro alleanza
strategica e spiegare quello che Putin ha definito il "ruolo
costruttivo" di Pechino nella "soluzione della crisi ucraina".
Xi
Jinping, nei suoi incontri con il presidente russo Vladimir Putin nei tre
giorni di visita a Mosca, intende promuovere un’idea di governance del mondo
basata su un “vero multipolarismo”, su una “democratizzazione delle relazioni
internazionali” e su un sistema internazionale “risolutamente innestato
sull’Onu”.
L’ha
affermato, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa russa Ria Novosti, il
presidente cinese appena arrivato nella capitale russa.
“La
Cina, assieme alla Russia, è pronta a sostenere risolutamente il sistema
internazionale basato sull’Onu;
difendere
un ordine mondiale basato sulla legge internazionale, sulle norme fondamentali
delle relazioni internazionale basate sulle premesse e sui principi della Carta
Onu;
a
promuovere il multipolarismo nel mondo e la democratizzazione delle relazioni
internazionali”, ha detto Xi.
Quello
di Xi Jinpinbg è un viaggio da cui Putin ha "grandi aspettative",
come ha scritto il leader russo in un articolo pubblicato ieri dal “Quotidiano
del Popolo”.
Dal 2013, anno dell’arrivo al potere di Xi
Jinping e della `svolta verso Est` per la Russia, i due capi di Stato si sono
incontrati 39 volte.
E questa visita vedrà inevitabilmente al
centro il conflitto in Ucraina:
Pechino ha pubblicato la propria
"posizione" sul conflitto in un documento che non rappresenta un
concreto piano di pace, ma afferma la necessità di arrivare ad una soluzione
sullo sfondo di un accordo sui principi della sicurezza globale.
Putin,
nell’articolo a sua firma alla vigilia della visita, si dichiara "riconoscente per l’approccio
cinese equilibrato sugli eventi ucraini" e critica duramente gli Stati
Uniti:
"Il corso americano di doppio
contenimento di Russia e Cina, e di chiunque non si pieghi al diktat americano,
assume carattere sempre più duro e assertivo.
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