L’EMERGENZA CLIMATICA NON DIPENDE DA NOI… MA LA GUERRA SI!

 

L’EMERGENZA CLIMATICA NON DIPENDE DA NOI…

MA LA GUERRA SI!

 

 

LE RELAZIONI TRA GUERRA E

CRISI CLIMATICA ED ECOLOGICA.

Emergency.it – Roberto Mezzalama – (6-5-2022) – ci dice:

La trascrizione integrale dell’intervento di Roberto Mezzalama per “Giù le armi”.

Buongiorno, grazie per questa opportunità.

Oggi vi parlerò delle relazioni tra guerre e crisi climatica ed ecologica, che sono delle relazioni piuttosto complicate e che richiederebbero delle analisi molto complesse e approfondite.

 Quindi oggi, senza nessuna pretesa di completezza, mi limiterò ad esplorare tre aspetti, che considero fondamentali in questo contesto così complesso.

Il primo riguarda l’importanza del settore militare nelle emissioni, soprattutto di gas a effetto serra, che sono la causa principale della crisi climatica ed ecologica;

il secondo sono gli effetti dei conflitti armati;

il terzo, perché si fa la guerra in relazione al petrolio, alle fonti fossili di energia e quindi, la relazione inversa, cioè la causa della crisi climatica che diventa anche la causa dei conflitti armati.

Gli effetti delle attività militari in tempo di pace sono già degli effetti importanti e, tra l’altro, secondo gli accordi internazionali i Governi non sono soggetti a dei vincoli di misurazione e di comunicazione delle emissioni di gas a effetto serra del settore militare.

Alcuni governi lo fanno, altri non lo fanno.

 Quindi è difficile ricostruire il vero peso di questo settore, soprattutto quando si considera che gli eserciti molto grandi sono in Paesi che non hanno una particolare trasparenza come la Russia, la Cina, ma anche la Turchia, che è un Paese Nato ed è il secondo esercito della Nato.

Negli Stati Uniti questi dati sono disponibili e quindi si sa che il Dipartimento alla Difesa americano, il Pentagono – che è la più grossa organizzazione militare a livello globale e anche la singola organizzazione globale che consuma più combustibili fossili nel mondo – utilizzerà quest’anno 82,3 milioni di barili di petrolio, che sono l’equivalente del consumo annuo della Finlandia, che è uno Stato di quasi 5 milioni di abitanti.

Tra il 2001 e il 2017 si è stimato che il Dipartimento di Stato americano abbia emesso 1,2 miliardi di tonnellate di CO², che sono più o meno il consumo annuo, o meglio, le emissioni annue di 257 milioni di macchine, che sono esattamente il doppio di quelle che circolano negli Stati Uniti.

A livello europeo siamo messi un po’ meglio, comunque il settore militare emette – al netto del Regno Unito – più o meno 8 milioni di tonnellate l’anno di CO², a cui però bisogna aggiungere anche quelle che arrivano dalle aziende che sono impegnate nelle attività militari – per l’Italia, ad esempio Leonardo, ma anche altre aziende – e, quindi, se mettiamo insieme tutto quanto arriviamo a emissioni di CO2 che sono di quasi 25 milioni di tonnellate l’anno, che corrispondono più o meno a circa 14 milioni di autovetture oppure al 10% delle emissioni dell’Italia. Emissioni molto significative.

Le emissioni dell’apparato militare italiano sono poco più di 2 milioni (tra 1 milione e 2 milioni e mezzo) che comunque coincidono, vuoto per pieno, alle emissioni di una città come Torino, quindi non così piccola.

Il settore militare anche in tempo di pace è un settore che emette molte quantità di gas a effetto serra, che consuma molti combustibili fossili.

Li consuma nei suoi mezzi: l’aviazione è l’arma che di gran lunga consuma più combustibili.

Si stima che quest’anno l’aviazione americana sparerà 5 miliardi di dollari di combustibili.

E poi ci sono ovviamente tutte le basi, gli edifici, le infrastrutture che vanno mantenuti.

Si calcola che tra l’1 e il 6% delle terre emerse in realtà siano dedicate ad attività militare.

 E in questi posti, poi, dove si svolgono esercitazioni e attività di utilizzo di armi ci sono effetti anche diversi da quelli delle emissioni di gas a effetto serra come l’inquinamento da idrocarburi, l’inquinamento da sostanze organiche o da metalli, ogni tanto anche l’inquinamento da sostanze radioattive, quindi grandi quantità di materiali pericolosi che vengono emessi durante le esercitazioni, che prevedono spesso esplosioni, incendi…

E quindi è chiaro che aumentare le spese militari anche in tempo di pace significa anche aumentare le emissioni che sono legate alla produzione delle armi, allo stoccaggio, alla manutenzione, alle esercitazioni, alle manovre militari

Quindi, per dare anche qui un paragone, si stima che le spese militari siano state di 2 miliardi di dollari nel 2021.

 Eppure, durante la Cop 26 a Glasgow, i Paesi sviluppati non sono riusciti a trovare 100 milioni per costituire un fondo con cui compensare i Paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico.

C’è da dire anche un’altra cosa, che almeno l’esercito americano è impegnato a ridurre i suoi consumi.

 Lo fa per ragioni strategiche, non solo per ragioni ambientali, perché comunque la dipendenza dal petrolio, come più è un problema e quindi c’è un progetto di investimento, c’è un programma di investimento di parla di 750 milioni di dollari per passare a energie rinnovabili, inclusi biocombustibili e motori elettrici per far andare avanti i mezzi militari, probabilmente non quelli critici per le emissioni, però, questo è anche un altro processo in corso nell’ambiente militare.

Cosa succede durante le guerre, durante i conflitti armati?

Le cose ovviamente peggiorano moltissimo.

 Intanto per i mezzi militari, che sono alimentati a fonti fossili e che spesso sono tenuti negli hangar o nei magazzini e che vengono utilizzati di continuo.

Degli 1,2 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra di cui parlavo prima, cioè dal 2001 al 2017 (per l’esercito americano si è scelto il 2001 perché sono partite le cosiddette Guerre al terrore di Bush), pensate che 1/3 di quelli sono stati emessi direttamente durante le attività di combattimento.

 Quindi 400 milioni di tonnellate di CO² sono state emesse durante i combattimenti, soprattutto in Iraq e Afghanistan.

 E poi, ovviamente, quando si combatte si usano esplosivi e questi rilasciano, nel corso dell’esplosione, degli incendi gas a effetto serra, inquinanti, organici, inorganici…

Si polverizzano metalli, inclusi, metalli pesanti.

 È anche il caso di uranio impoverito. Si sterilizza il suolo perché le esplosioni causano temperature elevatissime e quindi si sterilizza il suolo e si uccidono milioni di animali.

Si è stimato che durante i conflitti in Asia e in Africa fino al 90% dei vertebrati terrestri vengano uccisi direttamente dalle attività belliche e poi anche indirettamente, perché in genere i soldati si dedicano anche alla caccia.

 Insomma, ogni tanto da quelle parti restano anche senza viveri e quindi questo è successo in modo ampio.

I crateri che vengono lasciati dalle bombe modificano il suolo, spesso espongono la falda superficiale, gli inquinanti che sono rilasciati durante le esplosioni.

E proprio l’esempio più noto da questo punto di vista è quello della guerra del Vietnam, perché si stima che l’esercito americano lì abbia sganciato più di 7 milioni di bombe, e non solo in Vietnam, ma anche in Laos e in Cambogia.

 Queste hanno sconvolto il paesaggio e molto spesso non è stato possibile ripristinare le condizioni precedenti, ripristinare le coltivazioni perché la circolazione della parte superficiale era stata completamente stravolta e, in alcuni casi, come ripiego sono stati poi trasformati in stagni per allevare dei pesci.

Un altro esempio famoso di disastro ambientale legato a un conflitto è quello che è successo durante la prima guerra del Golfo quando, in seguito all’invasione del Kuwait, gli iracheni hanno fatto saltare in aria 800 pozzi di petrolio e 600 di questi hanno preso fuoco e si stima che le emissioni generate da questi incendi siano state pari al 3-4% delle emissioni globali di quell’anno.

Questo è un po’ la proporzione di quello che è successo.

 E lì, invece, dai pozzi che non hanno preso fuoco si sono fuoriusciti costantemente enormi quantità di idrocarburi che hanno coperto quasi 200 chilometri quadrati di suolo. E ancora adesso si sta cercando di bonificare questi terreni a 30 anni di distanza.

Nelle guerre moderne è abbastanza frequente che vengano presi di mira, in modo più o meno volontario, obiettivi industriali come impianti chimici, siderurgici, petrolchimici, per incidere sulla fornitura di materiali all’esercito nemico.

Un caso famoso è quello del bombardamento della Nato della Serbia nel 1999, quando è stata colpita la raffineria di Novi Sad.

E, le Nazioni Unite, hanno stimato che siano uscite 50.000 tonnellate di petrolio, in parte bruciate, in parte sono andate a contaminare il terreno circostante.

E questo, se veniamo all’attualità, è esattamente quel che sta succedendo in Ucraina.

Continuano ad arrivare notizie di attacchi a impianti industriali o depositi di carburante.

 E l’Ucraina è un Paese industrializzato, soprattutto nella regione del Donbass dove ci sono la gran parte dei combattimenti.

Il ministero dell’Ambiente ucraino stima che ci siano oltre 23.000 siti nel Paese che hanno o sostanze tossiche o rifiuti tossici stoccati.

 E qui è probabile che alcune decine di questi siano già stati danneggiati, con il rilascio conseguente poi delle sostanze tossiche.

 È il caso di una fabbrica da bombardamento a nord dell’Ucraina da cui si è liberata una nuvola di ammoniaca che ha interessato un raggio di due chilometri e mezzo.

E così, come è noto, anche il caso dei combattimenti tra una centrale di Chernobyl che hanno provocato il sollevamento di polveri radioattive.

E pare ci siano stati anche degli effetti sui soldati russi che erano stati esposti a questa polvere radioattiva.

C’è un altro effetto dei conflitti, che durante le guerre crollano le strutture che reggono la vita civile.

Tra queste ci sono anche le infrastrutture e le istituzioni che si preoccupano di proteggere l’ambiente.

Durante la guerra civile del Congo, ad esempio, c’è stato un crollo della popolazione dei gorilla perché i guardiani del parco non potevano più fare il loro lavoro e spesso erano stati anche uccisi e quindi c’è stato un effetto molto diretto.

Poi pensate a tutti gli impianti di presidio dell’ambiente, come gli impianti di depurazione delle acque, gli impianti di smaltimento dei rifiuti, le discariche, gli impianti di compostaggio, gli impianti di bonifica di siti contaminati, sono tutti a rischio di danni fisici, ma anche di abbandono da parte di chi è stato richiamato a combattere o semplicemente non può rischiare la vita per andare a farli funzionare.

E quindi qui siamo di nuovo di fronte a tutta una serie di fenomeni di inquinamento secondario, se vogliamo il rilascio di gas a effetto serra secondario, che però sono estremamente importanti e che colpiscono alcuni comparti ambientali in particolare, ed espongono anche la popolazione poi a degli effetti secondari.

Perché poi?

 Le acque non depurate, i rifiuti non smaltiti.

 Come dire, gli impianti di bonifica non funzionano, poi al fine generano un altro generale inquinamento.

 E qui voglio introdurre un altro elemento, a costo di sembrare molto, molto cinico. Durante questi periodi di conflitto cosa succede?

 L’altra cosa succede è che si fermano le normali attività, diciamo così, civili e normali attività produttive.

 E quindi c’è un contraltare a tutto questo.

 Quest’anno stimiamo che il PIL, si stima che il PIL dell’Ucraina crolli del 35-40%.

Questo provocherà anche un crollo delle emissioni di gas a effetto serra, che però, e questo è il motivo per cui, per citare questo fatto, spesso queste diminuzioni legate ai conflitti vengono più che compensate dal dagli investimenti e dalle attività di ricostruzione che hanno luogo dopo la fine del conflitto.

 E quindi, come dire, alla fine il bilancio netto di tutto questo è un bilancio gravemente negativo.

E qui voglio ribadire, al di là e al di sopra di tutte le sofferenze umane, ciò che queste attività di guerra comportano.

E qui vengo al terzo angolo, diciamo, dal quale volevo provare un po’ a guardare:

il problema oggi delle relazioni tra attività militari, guerre, conflitti e crisi climatica ed ecologica, che è quello della motivazione perché si fa la guerra.

 Perché?

 Perché ci si combatte nel corso della storia?

Molto spesso ci si è combattuti proprio per il controllo delle fonti fossili di energia.

E durante la seconda guerra mondiale ci sono stati – ma addirittura nella prima guerra mondiale –  dei casi emblematici di due battaglie che si sono svolte intorno a quelle che allora erano le grandi regioni petrolifere: la regione di Ploiesti in Romania e la regione di Baku in Azerbaigian.

 Ci sono state, prima i tedeschi hanno cercato di controllare Baku, poi i sovietici hanno preso la regione di Ploiesti e hanno lasciato la Germania nazista senza una delle sue fonti principali di idrocarburi e quindi diciamo il combattersi per il controllo delle risorse.

 Sostanzialmente del petrolio, ma anche in maniera crescente anche del gas.

 È una costante che abbiamo trovato in conflitti che possiamo trovare nella nostra storia, in conflitti, soprattutto nel secondo dopoguerra, ma anche durante la Seconda guerra mondiale.

Anche guerre, come dire dimenticate.

 Pensate alla guerra del Biafra in Nigeria, dove abbiamo cercato di rendersi indipendente dopo, dopo l’indipendenza della Nigeria.

Qui ci sono stati numerosi combattimenti intorno alle alla regione petrolifera di Port Harcourt, nella regione del Delta del Niger, dove ancora adesso che è ancora adesso la capitale petrolifera della Nigeria, dove ancora adesso Eni ha grandi interessi e grandi e grandi basi.

 Poi c’è, l’ho già citato, forse l’esempio più famoso di conflitto armato contro le risorse petrolifere, che è quello appunto delle due guerre del Golfo che sono appunto iniziate con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e poi proseguite.

 Ci sono state due ondate o state due guerre del Golfo guidate dagli Stati Uniti e partecipato a una coalizione nella quale c’era anche l’Italia.

L’origine di tutto questo è stata il controllo dei, diciamo così, dei giacimenti petroliferi che stanno al confine tra Kuwait e Iraq.

Questo ha scatenato in qualche modo la prima guerra del Golfo e poi ha fatto partire anche tra la prima e la seconda guerra del Golfo.

C’è stato una fortissima pressione sul governo americano per prendere il controllo delle risorse petrolifere irachene che erano e sono ancora immense.

Ricordo che nel governo di George Bush c’erano ai tempi della guerra al Golfo Condoleezza Rice, che era membro del Consiglio d’amministrazione di Shell Brown, e Dick Cheney, che era stato l’amministratore delegato di Al Barton, forse il più grande contractor petrolifero del mondo.

E quindi ci sono sicuramente state forti pressioni per arrivare a questi a queste situazioni.

Ma guardate, ci sono anche, come dire, altre guerre dimenticate.

 È stata una piccola fase della guerra tra il Sudan e il Sud Sudan, che è stata anche legata al controllo di una località petrolifera.

Un breve periodo in cui però 100.000 civili hanno dovuto lasciare le loro case.

E le tensioni nel Mar Cinese Meridionale tra Cina, Indonesia, Malesia, Filippine sono anche legate al fatto che in quell’area ci sono risorse petrolifere.

Ma anche se veniamo al Mediterraneo, le esplorazioni petrolifere intorno a Cipro hanno causato tensioni.

 Il dispiegamento di navi militari turche nel Mediterraneo occidentale.

 Fino a cosa? Anche un po’, come dire, folcloristiche.

C’è una tensione diplomatica tra la Danimarca e il Canada per il controllo di una minuscola isola nell’Artico intorno al quale c’è petrolio che è stata nominata la guerra del whisky.

 Poi chi vuole approfondire potrà cercare quindi il controllo delle risorse petrolifere.

È una continua fonte di tensione ed è chiaro che la spinta verso la decarbonizzazione dell’economia, che deriva dal tentativo di combattere i cambiamenti climatici, sta mettendo a dura prova gli equilibri geopolitici che si sono stratificati nel corso nel corso del tempo e quindi anche le relazioni tra Paesi e blocchi, tra i blocchi di Paesi.

 La transizione ecologica non sarà un gioco a somma zero per tutti.

 È chiaro che, ad esempio, le ricchissime dinastie del Golfo saranno probabilmente tra i perdenti.

 E quindi è chiaro che da un punto di vista politico ci siano forti pressioni per anche rallentare, modificare, insomma incidere su questo fenomeno storico.

E quindi, per concludere, credo che tutto questo da portare a riflettere, perché noi siamo in un momento storico in cui la crisi climatica ecologica dovrebbe indurre l’umanità intera a unirsi per trovare una soluzione alla crisi climatica.

E in tutto questo una ripresa, un’accelerazione della militarizzazione del mondo è estremamente negativo, estremamente rischioso non solo per i rischi diretti dei conflitti, ma anche perché questo distrae enormi risorse, enormi capitali politici, economici, sociali dall’obiettivo comune e crea poi dei solchi, crea delle divisioni là dove invece bisognerebbe lavorare tutti insieme per trovare delle soluzioni.

 E quindi questa è, dal mio punto di vista, una riflessione e una preoccupazione principale che tutti dovremmo avere nel considerare appunto il problema dei rapporti delle relazioni tra attività militari, guerra e crisi climatica ed ecologica.

Vi ringrazio.

(Roberto Mezzalama - per “Giù le armi”)

 

 

 

 

La guerra di Putin alla

transizione energetica globale.

 Valigiablu.it - Marco Loprieno e Pat Lugo – (26 Febbraio 2023) – ci dicono

 

Nella Federazione Russa le ambizioni strategiche del regime e gli interessi dei ‘signori del fossile’ collimano perfettamente.

Ma ciò spiega solo parzialmente lo strapotere a livello internazionale di “Gazprom” e delle altre aziende energetiche russe.

 Né spiega appieno l’estrema facilità con cui Putin ha potuto usare il ‘grilletto energetico’ nel disegnare la propria politica estera.

L’altro elemento, fin qui assai poco esplorato nelle analisi del conflitto ucraino, è l’avidità dell’Occidente.

O meglio, l’approccio turbo liberista (predatorio) di alcune multinazionali energetiche e dei governi occidentali che ne hanno supportato servilmente le strategie, giungendo a ‘farsi dettare’ non solo le scelte in tema di mix-energetico, ma perfino l’agenda politica estera nel suo insieme.

E ciò da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

E alla faccia della decarbonizzazione.

E se cambiassimo punto di vista?

Putin teme il Green Deal europeo.

Un’equa transizione globale.

Una mentalità estrattiva e predatoria.

L’arma dei combustibili fossili.

Petro-State: dalle origini a Putin.

La ragnatela dei gasdotti.

UE: nasce l’Unione dell’Energia.

Clima: Putin e l’andatura del gambero.

It takes 2 to tango...

Zero-Carbon: un’altra Russia è impossibile?

E se cambiassimo punto di vista?

Secondo alcuni analisti, Putin preparava da tempo l’aggressione all’Ucraina ma, apparentemente, c’è stata una violenta accelerazione nei suoi piani.

 Questo cambiamento, inaspettato per molti, si è concretizzato nell’assoluta sottovalutazione da parte della Russia sia della reazione ucraina che della risposta internazionale (e, dunque, dei tempi del conflitto).

Prova ne è stata anche l’evidente disorganizzazione e insufficienza delle truppe e degli armamenti russi spediti sul campo all’inizio della cosiddetta ‘operazione speciale’.

Ma cosa ha indotto questa accelerazione?

Vista dall’osservatorio di Bruxelles e concentrandoci sulle relazioni Russia/UE, in particolare in campo energetico, azzardiamo qualche ipotesi e lo facciamo a partire dall’analisi della “Russia in quanto Petro-State” (concetto che approfondiremo qui di seguito e su cui ritorneremo più volte).

Un sentiero, ci sembra, fin a oggi poco battuto tanto nella ricerca delle ragioni del conflitto quanto in quella dell’identificazione di possibili vie d’uscita.

Bypassando il ‘narrative’ putiniano [scontro di civiltà, ‘Nuovo Ordine’ mondiale, ‘denazificazione’ dell’Ucraina, accerchiamento NATO, ecc.] su cui, prima di noi e meglio di noi, altri si sono espressi, invitiamo a considerare due elementi che certamente non sono affatto estranei all’accelerazione di cui sopra:

L’inedita coesione mostrata dall'UE durante la pandemia con l’acquisto comune dei vaccini ha, molto probabilmente, vanificato o depotenziato i ripetuti e documentati tentativi del Cremlino di spaccare l’Europa.

Per esempio, attraverso il supporto a gruppi e partiti sovranisti, movimenti “no-vax”, manipolazione dei media, ecc.

Il “Green Deal europeo” e, successivamente, la ‘pericolosa’ accelerazione (dal punto di vista russo) del pacchetto “Fit for 55”, adottato il 14 luglio 2021 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione, è stata letta come una minaccia insopportabile per gli interessi del “Petro-State russo”.

Ma se la guerra in Ucraina ha certamente fatto vacillare in molti di noi la speranza per un futuro più sereno (già minata dalla pandemia), la reazione dell'UE a due mesi dall’inizio del conflitto non è stata probabilmente quella che Putin aveva previsto e avrebbe auspicato.

 Presentato a maggio 2022, “REPowerUE”, è un piano ‘muscolare’ (almeno sulla carta) per risparmiare energia, produrre energia pulita e diversificare il nostro approvvigionamento energetico.

Tra gli obiettivi, il raggiungimento più rapido possibile dell’indipendenza dalle fonti fossili provenienti da Mosca, il potenziamento di progetti basati sulle energie rinnovabili e, in generale, la velocizzazione della transizione energetica.

Insomma, se riuscissimo a tener fede anche solo parzialmente a questi propositi, noi europei potremmo considerarci un po’ più al riparo dal ricatto energetico dei Petro-State (e non solo di quello guidato da Putin).

Putin teme il Green Deal europeo.

La Commissione europea ha adottato una serie di proposte per trasformare le politiche dell'UE in materia di clima, energia, trasporti e fiscalità in modo da ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.

 Il Green Deal europeo è un piano per decarbonizzare l'economia entro il 2050, rivoluzionare il sistema energetico europeo, trasformare profondamente l'economia e ispirare gli sforzi per combattere il cambiamento climatico.

Ma il piano ha anche profonde ripercussioni geopolitiche.

Il Green Deal, infatti, influenza la geopolitica attraverso il suo impatto:

Sul bilancio energetico dell'UE e sui mercati globali;

Sui paesi produttori di petrolio e gas nel vicinato dell'UE;

Sulla sicurezza energetica europea;

Sui modelli commerciali globali, in particolare tramite il ‘meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera’, il cosiddetto “CBAM”.

Alcuni di questi cambiamenti hanno potenzialmente un impatto critico su diversi paesi partner dell’Unione, specialmente sui cosiddetti “Petro-State”, ossia quei paesi in cui una parte più che rilevante delle entrate governative e delle esportazioni è rappresentata dai combustibili fossili.

Un Petro-State è legato per definizione all’andamento dei prezzi dei combustibili fossili.

La prima legge della “petro-politica” postula, infatti, quanto segue:

 negli Stati petroliferi, il prezzo del petrolio e il ritmo della libertà si muovono sempre in direzioni opposte. In altre parole, si riscontra che minore è l'aumento medio globale del prezzo del greggio e/o del gas naturale, maggiori sono le libertà di parola, di stampa, elezioni libere ed eque, magistratura indipendente, Stato di diritto.

Proprio per non accentuare questa divaricazione, sono state suggerite una serie di politiche di cooperazione tese a facilitare una ‘giusta transizione’ dei “Petro-State” verso quel “processo di decarbonizzazione” legato in sede europea all’attuazione del “Green Deal”, ma più in generale alle misure globali auspicate dall’”UNFCCC”.

 

La Russia è il quarto maggior emettitore mondiale di gas climalteranti ed è stata a lungo resistente all'idea di “politiche ambientali” volte a ridurre l'uso dei combustibili fossili:

«La dottrina ambientale del paese - e persino la sua ratifica dell'accordo di Parigi - sono più di ogni altra cosa una mera strategia di PR internazionali.

Quanto alla politica climatica interna, i documenti russi sono dichiarazioni vaghe che spesso contraddicono altri progetti» (Natalia Paramonova, « Will EU Green Deal Force Russia to Clean Up Its Act », Carnegie Moscow Center, 13 juillet 2020)

 

A eccezione del monitoraggio della produzione di carbonio, infatti, tutte le normative sulle emissioni rimangono volontarie.

Il presidente russo Vladimir Putin continua a negare che” il cambiamento climatico sia causato dall'attività umana” e insiste sul fatto che la Russia ha "il sistema energetico più verde del mondo".

In realtà, la Federazione Russa rimane enormemente dipendente dagli idrocarburi e non è affatto riuscita a raggiungere l'obiettivo, dichiarato da Putin, di ridurre la quota di combustibili fossili del 40% tra il 2007 e il 2020 nell'economia del paese (la diminuzione è stata solo del 12%).

 Il programma di sviluppo del carbone russo per il 2035 è stato rivisto al rialzo nel 2019, fissando un nuovo obiettivo di crescita della produzione dal 10% al 20%.

Permane inoltre nel paese una forte opposizione a qualsiasi sforzo normativo per limitare le emissioni di carbonio, in particolare da parte dell'Unione Russa degli Industriali e degli Imprenditori.

 

In questo contesto, il “Green Deal europeo” potrebbe avere un impatto davvero significativo sulla Federazione Russa.

 Nel 2016, le esportazioni di petrolio e gas hanno contribuito per il 36% al bilancio pubblico del paese e l'Europa ha assorbito il 75% delle esportazioni di gas naturale russo e il 60% delle sue esportazioni di petrolio greggio.

 Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina, si riteneva che nel prossimo decennio il commercio di petrolio e gas Russia-UE non avrebbe subito un impatto sostanziale, poiché l'Europa avrebbe ridotto solo marginalmente le proprie importazioni di petrolio e gas entro il 2030 anche in uno scenario di riduzione delle emissioni del 55%.

 Tuttavia, la situazione sarebbe cambiata radicalmente dopo il 2030, quando l'Europa si prefiggeva di ridurre sostanzialmente le proprie importazioni di petrolio e gas.

Per soprammercato, nel contesto dello CBAM, il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere sulle importazioni nella UE diverse da petrolio e gas, potenzialmente avrebbe causato una riduzione delle esportazioni di altre merci russe in quanto esse tendono a essere ad alta intensità di carbonio.

Attenzione: questi erano i piani UE anche prima del conflitto ucraino.

 E, a nostro avviso, sono state una delle ragioni più rilevanti nello spingere Putin ad aggredire il vicino (ricco di risorse minerarie e importante paese di transito per il gas russo) prima di quando sarebbe stato più preparato per farlo.

Al momento, non è chiaro come la Russia reagirà agli sforzi di decarbonizzazione dell’Europa:

la risposta geopolitica più probabile sarà quella di cercare di diversificare la propria base di clienti energetici, come aveva già iniziato a fare da alcuni anni.

Uno sforzo per orientare le vendite di energia verso la Cina, in corso almeno dalla crisi finanziaria del 2007-2009, ha registrato una certa accelerazione dopo che la crisi ucraina del 2014 ha inasprito le relazioni politiche della Federazione Russa con l'Europa.

Nel 2016, la Russia ha sostituito l'Arabia Saudita come il più grande fornitore di petrolio greggio della Cina e, nel 2018, ha inviato 1,4 milioni barili / giorno di petrolio greggio in Cina, pari a oltre il 25% delle esportazioni di petrolio russo.

Fino a poco tempo fa, Putin forniva alla Cina solo piccole quantità di gas naturale, ma il “gasdotto Power of Siberia”, aperto nel dicembre 2019, potenzialmente potrebbe fornire 38 miliardi di metri cubi di gas / anno ai cinesi entro il 2024, ovvero circa il 15% dei volumi di esportazione di gas naturale russo del 2018.

Nonostante questi progressi, sembrerebbe tuttavia che la Cina sia piuttosto riluttante a sostenere l'industria energetica russa per scopi geopolitici.

Un’equa transizione globale.

La UE ha un interesse strategico a contribuire alla stabilità del suo vicinato per una serie di motivi:

dall’adattamento e mitigazione della crisi climatica, alle migrazioni, al commercio.

In tale contesto, aiutare i paesi esportatori di petrolio e gas del vicinato a gestire le ripercussioni del Green Deal, individuando concrete misure di cooperazione per un’equa transizione ecologica globale, sarà un punto cruciale dell'agenda di politica estera UE.

L'Unione Europea non dovrebbe adottare un approccio unico per tutti.

 Dovrebbe piuttosto adattarsi al contesto specifico di ciascun paese partner, concentrandosi sui vantaggi competitivi reciprocamente più promettenti.

 In chiaro: le esperienze passate dell'UE nella promozione di progetti astratti di cooperazione energetica regionale non vanno ripetute.

 Ma una domanda si impone: l'UE e i suoi vicini esportatori di petrolio e gas hanno oggi il tempo per pianificare adeguatamente un’equa transizione?

In teoria, come si è già detto, fino al 2030 l'UE continuerà a importare petrolio e gas dai paesi vicini e un calo significativo inizierà solo dopo il 2030.

L’arco temporale (assai limitato) da oggi fino al 2030 dovrebbe essere utilizzato per prepararsi a ciò che verrà dopo.

 I proventi delle esportazioni di petrolio e gas dovrebbero essere sempre più utilizzati dai paesi esportatori di petrolio e gas per diversificare le proprie economie.

 Innanzitutto, investendo nelle energie rinnovabili, incluso l'idrogeno verde: fonti alternative di energia che - in un futuro anche prossimo - potrebbero essere esportate verso l’Europa, sostituendo definitivamente i fossili.

L'UE dovrebbe sostenere tali iniziative, anche attraverso un approccio più deciso e coerente ai finanziamenti per il clima (a 360°: dall’educazione alla ricerca, dal commercio alle infrastrutture sostenibili, ecc.).

 

Una mentalità estrattiva e predatoria.

Nel caso della Federazione Russa, non è stato possibile nemmeno avviare tale processo: la guerra di aggressione di Putin all’Ucraina ne è, purtroppo, la dimostrazione plastica.

Iniziata il 24 febbraio 2022, oltre a causare morte e distruzione sul territorio di un paese sovrano, la guerra si è anche tradotta in una crescente ostilità verso la UE e le sue politiche più rilevanti.

 In primis, appunto, quelle relative alla decarbonizzazione.

 

Questa mentalità, estrattiva e predatoria, deriva da una visione in cui il mondo è visto come un'arena di intensa competizione e in cui la missione primaria del governo russo è la difesa dei propri interessi nazionali.

Mosca ritiene che gli appelli di altri paesi a impegnarsi in tagli del carbonio più ambiziosi (e urgenti) siano semplicemente dei tentativi di indebolire la posizione competitiva e l’influenza internazionale della Russia.

Del resto, la politica climatica della Federazione Russa è in gran parte modellata da potenti gruppi di interesse, primo tra tutti il settore energetico, che costituisce il pilastro dell'economia nazionale.

Nel 2018, gli idrocarburi hanno fornito il 46% delle entrate del bilancio federale, il 65% delle entrate totali delle esportazioni e costituivano il 25% del PIL russo.

Queste cifre impressionanti offrono un notevole peso politico alle grandi aziende del settore energetico, “Gazprom” e “Rosfnet” in testa.

La loro influenza si estende a molte aree (dai media alla finanza, solo per citare due settori tra i più sensibili).

Di conseguenza, “Gazprom & Co” sono in grado di bloccare qualsiasi politica, o semplice indirizzo (per esempio, da parte dei media) verso un'economia post-industriale e post-carbonio.

Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti.

Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella,

«l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è più all’ordine del giorno dopo il 2008.

 E non vi è alcun accerchiamento della Russia.»

In realtà Putin vuole colpire ancora e a fondo l’UE, spiega ancora Sabella:

«Putin giustifica la sua operazione con un discorso che da una parte scarica le responsabilità sull’Occidente e sulla Nato, dall’altra rispolvera elementi storici e revanscisti:

‘l’Ucraina è parte della storia russa, russi e ucraini sono un popolo solo.

 In realtà a Putin interessa solo quello che i geologi chiamano “lo scudo ucraino”.»

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno.

 Obiettivo del capo del Cremlino è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della “fabbrica del mondo”, la Cina.

 Per questo Putin vuole lo ‘scudo ucraino’, territorio compreso tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas.

È questa una delle aree più ricche del mondo in termini di potenziale minerario.

In particolare per le “riserve di litio”, già al centro di un caso internazionale che coinvolge Europa e Cina:

una vicenda che precede di pochi mesi la guerra in Ucraina.

Tramite una mappa si mostra la rete di gasdotti dalla Russia verso la Cina.

Il trasferimento di gas dalla Russia verso la Cina – via Oliver Alexander.

In Italia, la prevalente narrazione della crisi ucraina si avvale di categorie interpretative da guerra fredda.

 Di conseguenza, si sottovaluta quanto, in realtà, sia cruciale - per un paese esportatore di materie prime e completamente refrattario all’innovazione come la Russia - l’accaparrarsi di risorse primarie e il relativo posizionamento geopolitico.

L’arma dei combustibili fossili.

Gli asset del gas e del petrolio sono beni strategici e le decisioni di politica energetica non avvengono in un vuoto geopolitico, ça va sans dire... Data l'importanza della Russia per il consumo energetico dell'UE, è particolarmente rilevante valutare in che modo la Federazione Russa abbia utilizzato nel tempo le esportazioni di energia come mezzo per perseguire obiettivi di politica estera.

 Già nel 2018 il” Policy Department delle Relazioni Esterne del Parlamento Europeo” aveva sottolineato quanto i combustibili fossili venissero utilizzati dal Cremlino come strumento di pressione geopolitica.

La Russia usa la sua ricchezza energetica per rafforzare la propria posizione regionale, ottenere favori politici dai paesi di transito ed esercitare influenza sul suo ‘vicino estero’.

Naturalmente, la usa anche per sviluppare la propria influenza sullo scacchiere globale e impedire ad altri di sfidare i suoi interessi strategici.

Al contempo, le aziende energetiche russe operano nel contesto del mercato internazionale, dove le regole commerciali - in primis, la massimizzazione dei profitti - giocano un ruolo di primo piano.

La politica energetica estera della Federazione Russa è, dunque, un prodotto di entrambi questi elementi in equilibrio e talvolta - presumibilmente - in competizione: da una parte le ‘ragioni di Stato’, dall’altra i profitti privati di pochi oligarchi, fedelissimi al regime (se vogliono restare in vita, si direbbe).

 

Ricchezza e influenza di Mosca si basano sulle abbondanti risorse energetiche, ‘innervate’ (se così possiamo dire) dal suo vasto sistema di gasdotti: infrastrutture interconnesse che hanno reso de facto i paesi terzi sempre più dipendenti dal fornitore russo.

Gli Stati membri dell'Unione Europea, in primis la” Repubblica Federale Tedesca”, sono e sono stati dipendenti, in misura diversa, dalle importazioni di gas naturale russo.

 Come è facile intuire, ciò crea dipendenze economiche e politiche ben più ampie dello stretto ambito energetico e si traduce in una fonte di potere per Mosca.

La dipendenza dal gas russo, le armi all’Ucraina e l’ambiguità tattica della Germania.

La Russia è anche un importante paese esportatore di petrolio.

Qui, tuttavia, le implicazioni geopolitiche sono assai diverse.

Pur rappresentando una fonte-chiave del reddito nazionale russo, infatti, il petrolio è una merce fungibile e viene scambiato sul mercato internazionale.

Ciò lo rende assai meno attraente come strumento di coercizione energetica di quanto non sia il gas naturale.

E questo vale soprattutto rispetto al contesto europeo che - prima del conflitto in Ucraina - ricorreva al gas russo per oltre il 40% del proprio fabbisogno.

Il gas non può passare a un altro fornitore nello stesso modo in cui si potrebbe fare con il petrolio.

 Anche fino al 2021 dunque, come rilevava all’epoca Massimo Lombardini, esperto energetico dell’ISPI, sarebbe stato più corretto parlare di interdipendenza tra UE e Federazione Russa.

 

Infatti, sia in risposta all'annessione della Crimea, o in seguito all'intervento nell'Ucraina orientale nel 2014, gli Stati Membri dell'UE hanno sostanzialmente evitato di imporre sanzioni economiche ai settori del gas e del petrolio convenzionali russi: nonostante le difficili relazioni politiche, le forniture sono proseguite regolarmente fino al febbraio 2022.

“Petro-State”: dalle origini a Putin

In Russia, l’uso delle risorse energetiche come strumento di pressione in politica estera affonda le proprie radici fin dagli Anni Cinquanta dello scorso secolo, quando l’Unione Sovietica ritornò a essere un esportatore sul mercato globale.

 Fin da allora, il Cremlino cominciò a sviluppare una rete integrata per il trasporto di gas e petrolio come parte di uno sforzo per costruire un'economia unificata e promuovere l'unità in tutta l'URSS, con la repubblica sovietica russa al suo centro.

A partire dai giacimenti di gas e petrolio di alcuni stati sovietici come il Turkmenistan e il Kazakistan, si costruirono oleodotti che raggiungevano la Russia, da dove gas e petrolio venivano redistribuiti nel resto della Federazione, o venduti in Europa (fin da allora principale mercato di esportazione dell’energia sovietica).

In cambio, gli stati sovietici estrattori ricevettero gas sovvenzionato.

Dai primi anni 2000, poco dopo essere salito al potere, Putin ha sempre avuto l’obiettivo di stabilizzare l’economia, rinnovare l’autorità dello stato e restaurare il ruolo della Russia come attore globale.

 E l’energia ha, naturalmente, sempre giocato un ruolo determinante di tale agenda.

La concentrazione delle risorse energetiche russe in una manciata di imprese statali ha costituito un fattore cruciale nel consentire che tali risorse, e le relative politiche di esportazione, divenissero un'estensione della politica estera russa.

 Un risultato lampante, in particolare, guardando alla creazione e allo sviluppo di Gazprom (gas) e Rosfnet (petrolio).

Senza questa rinazionalizzazione, la capacità del Cremlino di usare le proprie risorse energetiche in chiave geopolitica sarebbe stata certamente inferiore.

Nemmeno i processi opachi e discontinui nella privatizzazione delle due compagnie (e il solito contorno di corruzione e scandali ricorrenti) sono riusciti a offuscare tale determinazione.

Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, la Russia ha continuato a fornire agli ex Stati sovietici energia a basso costo.

La conseguente, stretta relazione di dipendenza che si è venuta così a creare ne ha scongiurato (o ridotto) ogni potenziale tentativo di smarcarsi dal Cremlino o, peggio, di competere in autonomia sul mercato energetico globale.

 Allo stesso modo, la Russia ha offerto condizioni assai vantaggiose sulle forniture di gas e petrolio ai paesi terzi, riuscendo in questo modo a vincolarli a sé in una relazione di stretta dipendenza e riuscendo così, progressivamente, ad aumentare la propria quota di mercato.

Come già accennato, da tale relazione di dipendenza è stato poi gioco facile estrarre benefici economici o politici.

Il modo preferito per farlo è attraverso l'adeguamento dei prezzi dei contratti di gas.

La Russia applica prezzi diversi per i diversi paesi.

 Spesso semplici variabili economiche, come la distanza e i volumi, non bastano a spiegare le differenze di trattamento.

Mosca riserva le tariffe più basse ai governi più fedeli:

quando un paese perde il favore politico, gli sconti sui prezzi del gas sono annullati o ridotti.

Questo meccanismo è stato più chiaro con i paesi del ‘vicino estero’, come l'Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia e l'Armenia.

 In seno all'UE, qualcosa di simile ha riguardato anche gli Stati Baltici, una dinamica che però si è interrotta con l’invasione dell’Ucraina e la loro fermezza nel condannarla.

Mosca sostiene che questi ex Stati sovietici si trovano all'interno di una sfera di influenza russa e utilizza le forniture energetiche per farla pesare.

Dopo il crollo dell'Unione Sovietica,” Gazprom” ha perso l'accesso ai giacimenti di gas e petrolio e alle reti di trasporto negli ex stati sovietici ricchi di energia.

Ma con l'assenza di forniture alternative, gli ex stati sovietici - che si erano ormai abituati ai bassi prezzi dell'energia - sono diventati vulnerabili agli aumenti dei prezzi russi, o alle interruzioni delle forniture.

La Bielorussia, per esempio, è completamente dipendente dalla Russia per il suo gas naturale che copre quasi il 70% del suo mix energetico.

La ragnatela dei gasdotti.

La rete di distribuzione dell'energia è la spina dorsale attraverso la quale il Cremlino può proiettare la propria influenza politica.

Grazie al possesso di pipeline di approvvigionamento critiche, “Gazprom” è in grado di influenzare i processi decisionali nei paesi-chiave.

La Russia rifornisce il mercato europeo attraverso tre principali sistemi di gasdotti: uno attraversa Ucraina e Slovacchia, il secondo passa per la Bielorussia e la Polonia e il terzo raggiunge direttamente il più grande consumatore di gas russo, la Germania.

 Due dei tre sistemi di gasdotti dipendono dalla cooperazione degli Stati di transito per funzionare.

 Questa interdipendenza ha due opposte implicazioni: da una parte, la Russia può continuare a usare il ricatto energetico di tanto in tanto, ma senza potersi permettere di prolungare troppo a lungo tagli o interruzioni delle forniture.

Dall’altra parte, dal punto di vista del Cremlino, la dipendenza dagli Stati di transito mette a rischio i suoi contratti di fornitura e limita la propria libertà di manovra nella politica estera.

 

(La mappa dei gasdotti dalla Russia verso l'Unione Europea – via Wikimedia Commons.

Il sistema di gasdotti dalla Russia verso l'Unione Europea – via Wikimedia Commons.)

Come si è detto, i legami energetici tra Europa e Russia sono profondi e antichi.

Alcuni paesi europei sono stati a lungo fortemente dipendenti dalle forniture energetiche russe, in particolare di gas naturale e, poiché gli stati membri dell'UE non acquistano gas collettivamente e hanno diversi gradi di dipendenza dal gas russo, per Mosca è stato facile usare il grilletto dell’energia per intimidirne alcuni – in particolare gli stati più piccoli e orientali.

Dall’altro canto, le controversie energetiche tra la Russia e gli stati di transito, che a volte hanno causato interruzioni anche più a valle nei paesi dell'UE, hanno danneggiato l'immagine della Russia come fornitore affidabile.

In risposta alla crisi del gas in Ucraina alla fine degli anni 2000, l'UE ha iniziato a prendere più sul serio la questione della propria sicurezza energetica e la posizione monopolistica di Gazprom è diventata una preoccupazione-chiave.

Da allora, molti degli sforzi dell'UE sono stati diretti a migliorare il funzionamento del mercato dell'energia promuovendo la liberalizzazione e applicando con più decisione e coerenza la legislazione europea in materia.

Obiettivo: rendere le importazioni di energia meno suscettibili alla contrattazione di politica estera.

Il concetto alla base di tale strategia è che l'energia è una merce e che dovrebbe essere scambiata ‘normalmente’ in un mercato europeo liberalizzato e integrato.

 Il ruolo dell'UE è quindi quello di vigilare per il corretto funzionamento del mercato, stabilendo e facendo rispettare le normative per i fornitori e rimuovendo gli eventuali ostacoli.

Lo strumento più potente per rispondere ai ricatti energetici di “Gazprom”, infatti, è probabilmente la corretta applicazione delle normative UE sul mercato interno dell'energia.

 In questo senso, il terzo pacchetto energia del 2009 è fondamentale.

Stabilisce che:

Le imprese che operano nell'UE devono separare le reti di transito e distribuzione del gas naturale;

I fornitori di energia concorrenti dovrebbero avere accesso ai gasdotti, il cosiddetto accesso di terzi;

Dovrebbe applicarsi un sistema tariffario trasparente per le condotte di trasporto;

I paesi dell'UE dovrebbero diversificare le fonti di approvvigionamento di gas;

Le reti europee del gas dovrebbero essere tutte collegate.

L'applicazione del terzo pacchetto energetico è stato uno strumento efficace per ridurre l'influenza di Gazprom.

In particolare, il concetto di disaggregazione è importante per impedire a Mosca di utilizzare le sue forniture energetiche per perseguire obiettivi politici:

Gazprom fornisce gas agli Stati membri dell'UE, ma possiede anche i gasdotti che trasportano il gas.

 L'idea alla base della ‘disaggregazione’ è contrastare il fatto che una società che gestisce la rete di distribuzione e controlla la fornitura di risorse energetiche favorisca le proprie affiliate, chiudendo così la rete di distribuzione ai potenziali concorrenti e sostenendo la sua posizione monopolistica. La disaggregazione ha avuto un effetto diretto sulle operazioni di Gazprom in Europa ed è stata, per esempio, la ragione per cui “South Stream” è stata contestata dalla Commissione.

Ma resta ancora molto da fare: uno degli aspetti negativi della disaggregazione è che ha portato alla creazione di intermediari che vendono il gas.

Alcuni di essi sono ancora controllati da “Gazprom”, ma ora con strutture proprietarie opache.

 

La Commissione Europea ha inoltre utilizzato la legge sulla concorrenza contro Gazprom, accusando l'azienda di sovraccaricare i prezzi per gli Stati membri dell'UE centrale e orientale.

Nel 2012 ha avviato procedimenti antitrust contro Gazprom e nel 2015 la Commissione ha accusato Gazprom di fissare prezzi non equi, cercando di dividere i mercati europei del gas attraverso l'uso di clausole di destinazione e impedendo la diversificazione dell'approvvigionamento subordinando le forniture di gas a impegni specifici di investimento per progetti infrastrutturali di gasdotti (come South Stream).

 A quel punto per Gazprom la questione sarebbe stata quella di cedere sui punti principali mossi dalla Commissione Europea evitando in tal modo un'ammenda.

Gazprom, inoltre, avrebbe dovuto abbandonare le clausole di destinazione e consentire una revisione più rapida dei prezzi nei suoi contratti a lungo termine.

L'eliminazione delle clausole di destinazione avrebbe consentito agli Stati dell'UE di rivendere il loro gas, rendendo più difficili i prezzi predatori da parte di Gazprom.

Nell'ottobre 2017, tuttavia, la mutata situazione globale dei mercati energetici spinse la Commissione ad avanzare ulteriori richieste a “Gazprom”.

 Le ragioni, come è facile immaginare, sono complesse ed è impossibile qui tentarne una sintesi efficace.

Per dar conto di quanto intricata fosse la materia (anche prima del conflitto ucraino) segnaliamo, a titolo di esempio, un articolo di Massimo Nicolazzi, apparso su Limes a metà ottobre 2017, che postulava:

«La dipendenza è a prezzi di mercato e l’indipendenza è a costo di sussidio.

 Successivamente può cambiare e toccherà al pubblico realizzare infrastrutture fondamentali per supplire all’incapacità del mercato di pensare sul lungo periodo.

Purché il pubblico giustifichi l’aiuto/sussidio con una rigorosa analisi costi/benefici, eviti il ricorso emotivo alla “dipendenza” e non usi il termine “strategico” a contrassegnare tutto ciò per cui non trova giustificazione economica.»

UE: nasce l’Unione dell’Energia.

Nonostante alcune criticità, le misure adottate dalla UE stanno riuscendo (in parte) nell’intento di indebolire la capacità russa di utilizzare le esportazioni di energia per esercitare pressioni politiche sull’Europa.

Prima fra queste, il lancio nel febbraio del 2015 dell'”Unione dell'Energia dell'UE”, un passo cruciale per lo sviluppo di un mercato interno integrato: «Un'Unione - recita il comunicato - resiliente, articolata intorno a una politica ambiziosa per il clima».

 Essa mira a diversificare ulteriormente le fonti energetiche e a rafforzare la sicurezza energetica europea, tra l’altro conferendo alla Commissione nuovi poteri.

Nell'ambito dell'”Unione dell'Energia”, il 5 aprile 2017 la Commissione Europea viene incaricata di verificare ex ante se gli accordi energetici conclusi dagli Stati membri con paesi terzi non appartenenti all'UE rispettino il diritto comunitario.

 Si tratta di un passo decisamente positivo per migliorare la trasparenza nel mercato europeo dell'energia.

Al fine di promuovere la liberalizzazione del mercato dell'energia, l'UE sostiene la diversificazione delle fonti energetiche, in particolare per quei paesi che dipendono da fornitori unici come la Russia.

Un elemento-chiave di tale strategia è la connessione delle reti del gas in tutta l'UE, attraverso la costruzione di un sistema di interconnettori e gasdotti a flusso inverso.

Ciò riveste un'importanza decisiva in termini di sicurezza energetica, in quanto - idealmente - consentirebbe di spedire gas naturale da diverse parti della UE dove è necessario, in modo che l'offerta possa soddisfare la domanda indipendentemente dal paese di accesso/transito e dal fornitore.

 Ciò permetterebbe all'UE di potersi adattare a eventuali interruzioni dell'approvvigionamento.

In parallelo, l'UE si prefigge di consumare meno idrocarburi.

Come?

Adottando misure via via più stringenti per migliorare l’efficienza energetica e investendo nelle fonti di energia rinnovabili.

Secondo Bruxelles, infatti, è questo il miglior modo per aumentare la sicurezza energetica europea e, al contempo, dar concreto seguito all'imperativo di ridurre rapidamente le emissioni di climalteranti a livello globale.

Tuttavia (come sa chiunque abbia seguito, anche solo distrattamente, l’acceso dibattito sulla ‘tassonomia verde’), il gas naturale è stato considerato come un combustibile ‘ponte’ verso un'economia a basse emissioni di carbonio perché produce meno CO2 del petrolio o del carbone quando viene bruciato.

Nel medio termine, è dunque prevedibile che la domanda globale di gas aumenterà man mano che le economie avanzate (e dei paesi in via di sviluppo) procederanno nel complesso cammino della transizione verso la decarbonizzazione globale.

Per l’UE ciò significa che anche se la domanda generale di energia diminuisse, come è auspicabile, la domanda totale di gas dell'Europa diminuirà meno rapidamente.

Clima: Putin e l’andatura del gambero.

In tema di strategie e politiche per il clima, non c’è che dire, Putin ha scelto l’andatura del gambero.

 E nessuno che gliene chieda conto: né dentro, né fuori dalla Russia.

Mentre molti paesi (avanzati e non) stanno via via aumentando il proprio ricorso alle energie rinnovabili, la Federazione Russa sta procedendo spedita nell’incrementare continuamente l’estrazione, l'uso e la distribuzione di combustibili fossili.

Secondo Putin e la “Strategia Energetica 2035 “elaborata dal suo governo, infatti, questa è la condizione essenziale affinché il paese sia tra i maggiori attori economici internazionali in futuro.

La produzione di gas, in particolare, dovrebbe raggiungere i 1.000 miliardi di tonnellate all'anno entro il 2035, con un aumento del 50% rispetto al 2019.

In tutti i documenti ufficiali Mosca parla tutt’al più di ‘adattamento’ climatico e mai di ‘mitigazione’: secondo il Cremlino, evidentemente, non è necessario adottare alcuna misura per accompagnare gli effetti del riscaldamento globale.

D'altra parte, Putin non ha mai espresso l'intenzione di agire per rallentare il fenomeno.

La sua posizione è de facto assimilabile a quella dei negazionisti climatici, nonostante gli accordi di Parigi.

La politica climatica russa è esplicitamente subordinata al conseguimento di altri obiettivi, ritenuti strategici da Mosca (tanto sul fronte interno che a livello internazionale).

 In altre parole, le autorità russe si occupano del clima solo nella misura in cui farlo possa servire ad accrescere l’influenza geopolitica e geoeconomica russa;

 sia decisamente funzionale alla crescita economica del Paese (ora e subito) e,” last but not least”, contribuisca a proteggere e rafforzare la posizione di mercato delle principali società energetiche russe, come Gazprom, Rosneft e Novatek.

 Nulla a che vedere, insomma, con un desiderio – anche recondito – di ‘salvare il pianeta’.

Né vi è traccia – nel discorso pubblico di Putin e del suo entourage – della benché minima preoccupazione per le conseguenze dell’emergenza climatica sulla stessa Federazione Russa.

Parte dell'élite, del resto, ritiene che il riscaldamento globale venga strumentalizzato dall’Occidente solo per minare i vantaggi competitivi della Russia nel campo degli idrocarburi.

La postura da ‘vittima dell’Occidente’ è una delle parti in commedia più amate e ricorrenti tra quelle recitate nei dintorni del Cremlino:

 se fino a ieri l’accusa era quella di usare “l'ordine basato sulle regole” per promuovere i nostri interessi a discapito di quelli dei Russi, ora - noi occidentali - siamo sospettati di “mantenere il catastrofismo” climatico solo per minare le basi economiche del potere russo.

Dunque, riassumendo:

gli sforzi globali (in particolare, europei) per limitare le emissioni di carbonio e promuovere la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili non muoverebbero affatto dall’obiettivo dichiarato ormai da qualche decennio.

 E cioè: tentare di invertire la rotta, rimediare agli errori e provare a garantire la sopravvivenza dei sapiens anche per le generazioni future.

No, niente di tutto questo: il vero obiettivo sarebbe quello di indebolire la posizione commerciale delle compagnie energetiche russe.

It takes 2 to tango...

Come abbiamo già accennato, nella Federazione Russa le ambizioni strategiche del regime e gli interessi dei ‘signori del fossile’ collimano perfettamente.

Ma ciò spiega solo parzialmente lo strapotere a livello internazionale di Gazprom (sopra a tutte), Rosneft, o Novatek.

Né spiega appieno l’estrema facilità con cui Putin ha potuto usare il ‘grilletto energetico’ nel disegnare la propria politica estera.

 L’altro elemento, fin qui assai poco esplorato nelle analisi del conflitto ucraino, è l’avidità dell’Occidente.

 O meglio, l’approccio turbo liberista (predatorio) di alcune multinazionali energetiche e dei governi occidentali che ne hanno supportato servilmente le strategie, giungendo a ‘farsi dettare’ non solo le scelte in tema di mix-energetico, ma perfino l’agenda politica estera nel suo insieme.

 E ciò avveniva da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

E alla faccia della decarbonizzazione.

“Le compagnie petrolifere fanno profitti senza precedenti mentre milioni di persone finiscono in povertà. C’è bisogno di un nuovo contratto sociale”

Se ci è concessa una breve digressione, in Italia abbiamo avuto un’immagine plastica della subordinazione governativa alle industrie del fossile anche in tempi più recenti: basti pensare ai viaggi in Nord Africa e Medio Oriente dell’ex-ministro Di Maio e di Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI, in cerca di nuovi fornitori di gas per sostituire velocemente le forniture russe.

 Come dar torto a Mario Tozzi, che amaramente commentò a caldo: “Invece di cambiare dieta [energetica, ndr], stiamo solo cambiando pusher...”?

Fedele alla linea di Eni e Snam: così l’Italia si appresta a diventare l’hub del gas.

Anche prima della guerra, c’è chi - nella UE - ha tratto enormi vantaggi dai prezzi bassi del gas russo.

Con vistose differenze da paese a paese.

In alcuni casi, infatti, i prezzi favorevoli hanno certamente contribuito a rinvigorire l’economia di un dato sistema-paese dopo la crisi del 2008.

 In altri invece, ad approfittarne è stata solo una ristretta cerchia di dirigenti e azionisti di quelle multinazionali energetiche che hanno visto aumentare esponenzialmente i propri profitti, con risultati a due, o persino a tre cifre (%), probabilmente favoriti anche (non solo, naturalmente) da quella ‘zona grigia’ che i fornitori russi sono stati maestri a nutrire nell’interlocuzione con i propri clientes occidentali.

Anche senza confondere responsabilità individuali e di sistema, la facilità nella cooptazione di personaggi di primo piano come l’ex-cancelliere tedesco Schroeder (oggi nel board di Gazprom), è solo uno dei tanti esempi delle corresponsabilità predatorie su entrambi i fronti, russo e occidentale.

 In una perfetta sovrapposizione tra politica e affari.

It takes two to tango, appunto.

Zero-Carbon: un’altra Russia è impossibile?

Dipende da Putin (o da chi per lui), ma dipende anche da noi:

il mondo è interessato alla Russia non solo per la sua potenza militare, ma anche per le sue risorse energetiche.

Se il paese passasse a un'economia post-carbonio, dovrebbe attraversare una transizione prolungata e difficile, sperimentare perturbazioni economiche e potrebbe essere emarginato nel breve-medio termine.

 Di fronte a tali rischi, i vantaggi di un'economia completamente o in gran parte decarbonizzata appaiono remoti e incerti.

Secondo il Cremlino, infatti, la produzione di combustibili fossili è prioritaria come risorsa-chiave del paese.

Il processo decisionale in materia climatica, come in altre aree della politica pubblica, del resto, dipende dall'apprezzamento dell'élite dei vantaggi e delle debolezze comparative della Russia.

Mosca ha poca fiducia nelle proprie capacità di sviluppare un'economia post-industriale, high-tech e a basse emissioni di carbonio per sostituire l'attuale modello industriale.

 In teoria, un tale sviluppo sarebbe possibile se il paese investisse in fonti di energia rinnovabili e sviluppasse l'industria nucleare e il mercato dell'idrogeno.

Tuttavia, Putin tende a scegliere la via d'uscita più facile e il beneficio più ovvio: un approccio che esclude l'innovazione.

Il mancato sviluppo delle energie rinnovabili è tra gli aspetti più vistosi di tale impostazione.

Mentre alcuni paesi industrializzati (compresi esportatori di combustibili fossili come gli Stati Uniti), si stanno adattando ai cambiamenti climatici e stanno sviluppando le fonti alternative di energia, la Russia è in un tale ritardo che definirlo ‘grave’ è davvero un eufemismo: nel 2018, l'energia solare ed eolica rappresentava solo lo 0,02% della produzione energetica russa.

 Questa quota dovrebbe raggiungere solo lo 0,7% nel 2035.

 I dati sulla produzione di elettricità illustrano il contrasto tra la Russia e le altre principali economie.

Nel 2019, solo lo 0,16% dell’elettricità russa è stata generata da fonti rinnovabili, esclusa l'energia idroelettrica, mentre la media globale è del 10% e la media europea è del 20%.

Al contrario, Mosca intende aumentare significativamente la produzione interna di carbone nei prossimi quindici anni, nonostante il calo della domanda globale.

"La Russia percepisce qualsiasi tipo di competizione al di fuori della sua posizione di leader mondiale dell'energia [...] come minaccia esistenziale che deve essere contenuta/eliminata, piuttosto che come incentivo o potenziale opportunità di adattamento/innovazione."

Il Cremlino mette in guardia contro "qualsiasi pregiudizio agli interessi degli Stati produttori di risorse".

 Di conseguenza, ha minacciato di contrastare il “Green New Deal dell'UE “e l'introduzione di una tassa sul carbonio alle frontiere portando la questione davanti all'”Organizzazione Mondiale del Commercio” sulla base del fatto che tali misure costituirebbero pratiche commerciali sleali.

Oggi, nel quadro dell’aggressione all’Ucraina, assistiamo al crescente fallimento della Russia nella sua politica energetica:

 ciò che avrebbe dovuto accrescere la sua potenza militare, si è invece rivelata una grave vulnerabilità.

Mosca si percepiva come una potenza energetica indispensabile, che potrebbe strumentalizzare le sue esportazioni di petrolio e gas per erodere l'unità dell'alleanza occidentale, e fatica a comprendere il fatto che l'Europa, carente di energia, è in grado di trasformare i tagli alle importazioni e i massimali dei prezzi in strumenti di pressione sullo stato aggressore.

L'Ucraina ha tratto vantaggio sul campo di battaglia dallo stato delle truppe russe sotto-fornite e completamente demoralizzate.

 In questo contesto ogni inasprimento delle sanzioni occidentali assicura che Mosca non sarà in grado di ricostruire le capacità necessarie per un'altra offensiva nella primavera nel 2023.”

Un cambiamento radicale nella politica climatica russa sembra improbabile.

La strategia energetica 2035, e in particolare la strategia di produzione di carbone 2035, indicano che il governo è fermamente impegnato a espandere la produzione e l'esportazione di combustibili fossili e che non ha pianificato di effettuare nemmeno una transizione modesta e graduale verso le energie rinnovabili.

La Russia è tra i paesi che necessariamente resisteranno al cambiamento perché l'economia globale dei combustibili fossili è fondamentale per loro.

Tenuto conto di tale contesto, anche la tanto invocata ‘via diplomatica’ per la risoluzione del conflitto ucraino dovrebbe porre al centro dei propri sforzi l’emergenza climatica e la necessità di un’urgente ed effettiva cooperazione globale per l’adattamento e la mitigazione del fenomeno.

Per far ciò, sarebbe necessario che (almeno) sul fronte dell'UE ci si muovesse coesi per disegnare una road-map e un cronoprogramma di misure condivise e urgenti.

A partire dall’attualizzare il “Green Deal UE “con uno specifico capitolo: proposte concrete su come affiancare la Federazione Russa in “un vero percorso di decarbonizzazione”.

Naturalmente, in cambio, Putin (o chi per lui) dovrà porre subito fine al conflitto in Ucraina.

 Un “Green Deal for Peace”, insomma.

 

 

 

 

Cambiamenti climatici:

il contributo dell'UE.

Consilium.europa.ue – Redazione – (7-2-2023) – ci dice:

Secondo quanto previsto dalla normativa europea sul clima, i paesi dell'UE devono ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030.

L'obiettivo è rendere l'UE climaticamente neutra entro il 2050.

Su questa pagina:

Un'UE a impatto climatico zero entro il 2050.

Ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Dagli obiettivi climatici alla normativa UE.

Finanziamento della transizione climatica dell'UE.

Definire l'azione globale.

Transizione verde: perché è necessaria?

Un'UE a impatto climatico zero entro il 2050.

 

Cos'è la neutralità climatica?

Nel dicembre 2019 i leader dell'UE, riuniti in sede di Consiglio europeo, hanno convenuto che l'UE deve conseguire la neutralità climatica entro il 2050.

Per diventare climaticamente neutri entro il 2050 i paesi dell'UE dovranno ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra e trovare modalità per compensare le emissioni rimanenti e inevitabili in modo da raggiungere un saldo netto di emissioni pari a zero.

Nelle sue conclusioni il Consiglio europeo ha sottolineato che la transizione verso la neutralità climatica offre opportunità significative in termini di:

crescita economica;

mercati e posti di lavoro;

sviluppo tecnologico:

I leader dell'UE hanno chiesto alla Commissione di portare avanti i lavori sul “Green Deal europeo”.

Hanno inoltre riconosciuto la necessità di assicurare una “transizione verde” efficiente in termini di costi, socialmente equilibrata ed equa.

Consiglio europeo, 12 e 13 dicembre 2019.

Green Deal europeo (informazioni generali).

Ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Esattamente un anno dopo, nel dicembre 2020, i leader dell'UE hanno adottato un'ulteriore misura verso la “neutralità climatica”.

Come passo intermedio verso l'obiettivo fissato al 2050, hanno convenuto che entro il 2030 le emissioni di gas a effetto serra dell'UE dovranno essere meno della metà rispetto ai livelli del 1990.

Entro il 2030 -

emissioni dell'UE ridotte di almeno il 55%.

Il nuovo obiettivo rappresenta un importante passo avanti rispetto al precedente traguardo concordato nel 2014 che prevedeva di ridurre le emissioni del 40% entro il 2030.

I leader hanno invitato la Commissione europea a presentare proposte che consentano ai paesi di raggiungere l'obiettivo per il 2030, tra l'altro:

migliorando le norme in materia di finanza verde;

potenziando il sistema di scambio di quote di emissione dell'UE;

stimolando l'innovazione rispettosa del clima;

garantendo equità ed efficacia in termini di costi.

 

Consiglio europeo, 10 e 11 dicembre 2020.

Dagli obiettivi climatici alla normativa UE.

Pronti per il 55%: in che modo l'UE trasformerà gli obiettivi climatici in legislazione.

L'infografica illustra il pacchetto Pronti per il 55%, i principali settori d'azione dell'UE per ridurre le emissioni di gas a effetto serra nonché il processo decisionale per trasformare le proposte in legislazione.

Infografica completa.

Nel giugno 2021 il Consiglio ha adottato la normativa europea sul clima, un elemento chiave del Green Deal europeo.

La normativa prevede l'obbligo giuridico, per i paesi dell'UE, di raggiungere gli obiettivi climatici per il 2030 e il 2050.

La normativa sul clima definisce il quadro per le azioni che l'UE e gli Stati membri dovranno adottare al fine di ridurre progressivamente le emissioni e conseguire infine la neutralità climatica dell'UE entro il 2050.

Il Consiglio adotta la normativa europea sul clima (comunicato stampa, 28 giugno 2021).

Sempre nel giugno 2021 il Consiglio ha approvato conclusioni in cui approva la nuova strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici presentata dalla Commissione.

La strategia delinea una visione a lungo termine affinché l'UE diventi, entro il 2050, una società resiliente ai cambiamenti climatici e pienamente adeguata ai loro inevitabili impatti.

Il Consiglio approva la nuova strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici (comunicato stampa, 10 giugno 2021).

Un altro elemento fondamentale dello sforzo dell'UE verso la neutralità climatica è il cosiddetto pacchetto "Pronti per il 55%".

Il pacchetto, comprendente proposte di revisione della legislazione vigente e nuove iniziative, è il piano fondamentale dell'UE per trasformare gli obiettivi climatici in normativa UE.

 

Prevede norme nei seguenti ambiti:

energia;

trasporti;

scambio e riduzione delle emissioni;

uso del suolo e silvicoltura.

Nel giugno 2022 i paesi dell'UE hanno concordato una posizione del Consiglio sulla maggior parte delle proposte del pacchetto "Pronti per il 55%".

 Le proposte sono attualmente oggetto di negoziati con il Parlamento europeo.

 

Pronti per il 55% (informazioni generali)

Finanziamento della transizione climatica dell'UE.

La transizione verso un'economia rispettosa del clima richiederà ingenti investimenti pubblici e privati.

I paesi dell'UE si sono impegnati a spendere il 30 % del bilancio a lungo termine dell'UE per il periodo 2021-2027 e di “Next Generation EU” per progetti legati al clima.

Per garantire l'equità della transizione climatica, l'UE ha introdotto un meccanismo “per una transizione giusta” al fine di fornire sostegno finanziario e assistenza tecnica alle regioni più colpite dalla transizione verso un'economia a basse emissioni di CO2.

A tal fine saranno mobilitati fino a 90 miliardi di EUR.

30% della spesa totale dell'UE destinata a progetti legati al clima fino al 2027.

Finanziamento della transizione climatica (informazioni generali).

Neutralità climatica: il Consiglio adotta il Fondo per una transizione giusta (comunicato stampa, 7 giugno 2021).

Definire l'azione globale.

Gli sforzi dell'UE nella lotta ai cambiamenti climatici sono in linea con l'impegno assunto dall'UE e dagli Stati membri nell'ambito dell'accordo di Parigi, firmato nel 2015.

 I paesi dell'UE sostengono un elevato livello di ambizione nell'attuazione di questo accordo internazionale e incoraggiano i partner globali, sia nei consessi internazionali che nelle relazioni bilaterali, ad accelerare l'azione per limitare il riscaldamento globale.

Insieme ai suoi Stati membri, l'UE è il principale fornitore di finanziamenti per il clima a livello mondiale.

 I fondi UE sostengono azioni legate al clima nei paesi in via di sviluppo per agevolare la loro transizione verde e contrastare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici.

Obiettivi climatici e politica esterna dell'UE (informazioni generali).

Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici (informazioni generali).

Transizione verde: perché è necessaria?

 Vite umane e denaro: il duplice costo dei cambiamenti climatici.

Le più recenti relazioni scientifiche mostrano cambiamenti senza precedenti del clima mondiale.

Il riscaldamento globale sta provocando un aumento dei cambiamenti nell'andamento delle precipitazioni, negli oceani e nei venti in tutte le regioni del mondo; in alcuni casi si tratta di cambiamenti irreversibili.

Temperature più elevate ed eventi meteorologici più intensi comportano costi enormi per l'economia dell'UE, oltre a incidere sulla capacità di produzione alimentare dei paesi.

Alcuni dati: negli ultimi 40 anni gli eventi legati al clima hanno causato oltre 487 miliardi di EUR di perdite finanziarie nell'UE;

tra il 1980 e il 2020 nell'UE oltre 138 000 persone hanno perso la vita a causa di fenomeni meteorologici e climatici estremi;

il costo economico delle esondazioni di fiumi in Europa supera in media i 5 miliardi di EUR l'anno;

i danni economici annuali dovuti agli incendi boschivi sono pari a circa 2 miliardi di EUR.

La neutralità climatica.

Cinque fatti riguardanti l'obiettivo della neutralità climatica dell'UE.

Lottare contro i cambiamenti climatici è essenziale per il futuro dell'Europa e del mondo.

 La normativa europea sul clima ha introdotto nella legislazione l'obiettivo dell'UE di raggiungere l'impatto climatico zero entro il 2050.

 Questo obiettivo ha fatto seguito all'impegno assunto dall'UE e dai suoi Stati membri con la firma dell'accordo di Parigi nel 2015.

 

 

 

IL CLIMA GLOBALE, LA SFIDA PRIMARIA

DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE.

Comitatoscientifico.org – Redazione – (20 dicembre 2022) – ci dice:

20 Dicembre 2022. L'Unione Europea raggiunge un accordo chiave sulla politica climatica dopo un interminabile negoziato.

L'Unione Europea ha introdotto una grande revisione del proprio mercato del carbonio e un nuovo fondo per proteggere i soggetti vulnerabili dall'aumento dei costi della CO2.

 Le misure sono state concordate dai negoziatori dell'UE come parte di un grande trilogo durato tre giorni.

Considerato la pietra angolare dell’azione climatica dell'Europa, la riforma del sistema di scambio di quote di emissione (EU ETS) è la chiave per raggiungere l'obiettivo di ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.

I negoziatori hanno stabilito che i produttori di energia e gli inquinatori maggiori coperti dall'ETS-2 dovranno ridurre il loro inquinamento del 62% entro la fine del decennio, l'1% in più rispetto a quanto inizialmente proposto dalla Commissione europea.

I rifiuti saranno coperti dal regime a partire dal 2028, con potenziali deroghe fino al 2030.

L'accordo impone inoltre che tutti i ricavi generati dal mercato del carbonio devono essere spesi per l'azione per il clima.

I certificati di emissione gratuiti, dati all'industria per rimanere competitivi rispetto ai rivali dall'esterno dell’Unione, saranno gradualmente eliminati fino a completamente entro il 2034.

Il meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera previsto (Carbon Border Adjustment Mechanism, CBAM) dovrebbe entrare in vigore dal 2026 al termine di un periodo di transizione di tre anni.

 La Commissione e il Consiglio avevano chiesto una data di scadenza dei certificati gratuiti entro il 2036, mentre il Parlamento si è battuto per un'eliminazione più rapida entro il 2032.

La tassa di frontiera CBAM copre cemento, alluminio, fertilizzanti, produzione di energia elettrica, idrogeno, ferro e acciaio.

 Tuttavia, i negoziatori hanno evitato di introdurre sconti per proteggere le esportazioni, sostenendo che si sarebbero dimostrati incompatibili con le regole dell'Organizzazione mondiale del commercio, il WTO.

 

Si tratta di un accordo che taluni hanno definito la più grande legge sul clima mai negoziata in Europa.

 Gli Stati membri dell'UE hanno effettivamente raggiunto un accordo sulla prima grande tassa al confine sul carbonio al mondo, che non ha mancato di suscitare polemiche con i principali partner commerciali dell'UE, che affermano che esporrà le loro industrie a una concorrenza sleale.

L'accordo è stato raggiunto dopo 30 ore di negoziati ma è provvisorio e deve ancora essere adottato formalmente dal Parlamento e dal Consiglio europeo.

 Il mercato del carbonio sarà progressivamente esteso al settore marittimo, ai voli intraeuropei e ai siti di incenerimento dei rifiuti a condizione che vi sia un parere favorevole della commissione.

 La Commissione aveva proposto un secondo mercato del carbonio mirato al riscaldamento degli edifici e ai carburanti stradali, ma la proposta ha sollevato preoccupazioni di tipo congiunturale considerando che le famiglie europee sono alle prese con l'aumento dei prezzi dell'energia esacerbato dall'invasione russa dell'Ucraina.

Se i prezzi dell'energia continueranno a salire vertiginosamente, l'applicazione di questa parte dell'accordo sarà ritardata di un anno.

 I proventi di questo secondo mercato andranno a un "Fondo sociale per il clima" progettato per aiutare le famiglie e le imprese vulnerabili a superare la crisi dei prezzi dell'energia.

Per aiutare le famiglie a basso reddito a passare rapidamente a forme di trasporto e riscaldamento più pulite in modo da non essere colpite ingiustamente dalla misura, i responsabili politici dell'UE hanno dimensionato il Fondo sociale per il clima ad un valore di 86,7 miliardi di euro che va dal 2026 al 2032.

 È molto più grande del fondo di 59 miliardi proposto dal Consiglio.

 Il 25% sarà raccolto attraverso il cofinanziamento da parte dei governi dell'UE, mentre con il cosiddetto "approccio a tutti i combustibili" che copre tutte le emissioni di processo comporta che saranno venduti più permessi di emissione nell'ambito del programma.

Dal sistema industriale europeo viene l’avvertimento che l'Europa rischia di rimanere indietro rispetto agli Stati Uniti nell'attrarre investimenti nei suoi sforzi per affrontare il cambiamento climatico poiché gli oneri normativi minacciano di frenare la crescita.

 Proprio per renderlo più appetibile, i politici hanno convenuto che il cosiddetto ETS-2 sarebbe arrivato con un freno di emergenza da attivare nel caso in cui i prezzi del gas naturale salissero oltre i 106 € per megawattora sull'hub TTF di riferimento;

in tal caso, l'avvio del regime verrebbe posticipato di un anno fino al 2028.

Il patto prevede inoltre che se i prezzi dei certificati dell’ETS-2 supereranno i 45 € per tonnellata, verranno rilasciati ulteriori crediti per ridurre i prezzi - una disposizione che sarà in vigore fino al 2030.

 

 

 

LA TERRA BRUCIA: LA SFIDA CLIMATICA

E IL RUOLO DELL’OCCIDENTE.

 

Europaatlantica.it - Enrico Casini e Andrea Manciulli – (14 Novembre 2022) – ci dicono:               

Mentre in Egitto si tiene la nuova Cop27, la posizione espressa da Biden durante la riunione, e il ritorno in campo degli USA nella lotta ai cambiamenti climatici, possono rappresentare una svolta importante.

Dopo mesi caratterizzati da anomalie climatiche, che hanno colpito l’Europa e il resto del mondo, si palesano sempre di più i rischi crescenti, anche per la nostra sicurezza, derivanti dai cambiamenti climatici.

Immagini incredibili, spesso drammatiche, sono rimbalzate sui media per tutta l’estate, da molti paesi europei e non solo.

La Francia, la Spagna, la Grecia, l’Italia sono avvampate per settimane tra incendi e caldo record.

Nello stesso periodo, siccità e anomalie climatiche hanno colpito Asia, America, Medio Oriente, Africa.

Eventi atmosferici estremi, alluvioni improvvise e spaventose hanno messo in ginocchio alcuni grandi paesi come il Pakistan mentre altrove la terra bruciava, arida, per il caldo e il fuoco.

Incendi spaventosi, per esempio quelli che hanno colpito l’Europa o la California, hanno divorato boschi e campi in un crescendo che è spesso apparso simile alla trama di un “disaster movie”.

Le statistiche ci dicono che siamo di fronte all’anno in cui l’Europa è stata più martoriata dagli incendi.

Ma anche che abbiamo vissuto probabilmente uno degli anni più caldi della storia recente, mentre le emissioni di Co2 continuano a crescere.

Un caldo torrido, innaturale, ha assediato a lungo le nostre città, con punte di calore mai viste, ne registrate prima, fino a pochi giorni fa. Intanto, con queste stagioni estremamente calde, arretrano i ghiacciai alpini, le montagne si sbriciolano al loro disciogliersi.

Con la previsione che con questo ritmo nei prossimi anni potrebbero scomparire. Mentre la siccità avanza, inesorabile, dopo un anno di scarsissime precipitazioni in tutto il bacino del Mediterraneo, una delle regioni più colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici e poi a rischio desertificazione in molte sue aree.

Le peggiori previsioni, circa i rischi legati all’effetto serra e al cambiamento climatico, nel corso degli ultimi mesi sembrano essersi avverate.

 E le minacce ad essi collegate emergono inesorabili, manifestandosi nella loro pericolosità e nella loro onerosità sul piano economico e sociale.

Proprio questi elementi sono emersi con ancora più chiarezza, supportati anche da molti dati scientifici, anche in questi ultimi giorni, mentre in Egitto si è aperta la nuova riunione Cop 27, dedicata alla lotta ai cambiamenti climatici.

 Un appuntamento che ogni volta rinnova la sfida delle Nazioni Unite contro quella che già oggi rappresenta una delle più grandi emergenze del pianeta, ma su cui purtroppo non sembra che tutti i paesi siano ugualmente impegnati.

Anche questa volta, in apertura della riunione, la paura che, come nelle precedenti occasioni, anche questa assemblea potesse essere un’ennesima occasione persa, o potesse non riuscire davvero ad imprimere la necessaria svolta alla lotta globale ai cambiamenti climatici, era forte.

Con essa i timori legati all’impatto che anche l’emergenza rappresentata dalla guerra in Ucraina sta avendo sulla sicurezza energetica mondiale, sono al centro dell’attenzione.

 Perché la guerra in Ucraina porta con sé drammatiche conseguenze umanitarie, a causa anche della crisi energetica e alimentare che ha generato.

È evidente che dopo due anni di Covid, con l’ombra di una recessione globale che incombe sull’economia mondiale, e la guerra in atto che minaccia appunto sul piano energetico ed alimentare molti paesi, le incertezze legate anche alle prospettive della lotta ai cambiamenti climatici sono molti.

Anche se, invece, come ribadito dal Presidente Biden nel suo intervento, dovrebbe probabilmente essere proprio questa attuale fase a spingere in favore della transizione ecologica ed energetica, anche per abbandonare il più possibile le fonti energetiche fossili, al centro del confronto strategico tra le potenze e oggetto anche dello scontro in atto.

 Infatti, come dimostrato di recente, l’energia è diventata sempre di più uno strumento di pressione e di ricatto, anche a livello geopolitico oltre che economico. E la guerra sta confermando questa dura realtà.

Ma forse proprio la nuova posizione espressa dal Presidente americano, forte anche dei buoni risultati conseguiti nelle elezioni di Midterm, che annuncia un ritorno da protagonisti degli Stati Uniti nella lotta ai cambiamenti climatici, potrebbe rappresentare una importante notizia in questa nuova riunione.

Perché è evidente che in una simile sfida il peso che possono mettere gli Stati Uniti, insieme all’Europa, può essere molto rilevante per spostare gli equilibri della partita.

Del resto, la sfida del clima che cambia è la più importante, insieme alla rivoluzione tecnologica e l’avvento dell’intelligenza artificiale, che la civiltà umana dovrà affrontare nei prossimi anni.

Siccità, incendi, fenomeni atmosferici estremi, desertificazione, scioglimento dei ghiacci montani e polari, sono solo alcuni effetti derivati dai cambiamenti climatici.

A loro volta, possono portare a conseguenze devastanti sulle comunità umane in intere regioni del pianeta.

 Favorendo conflitti, violenze, instabilità, povertà e carestie.

La questione climatica è un tema centrale per l’agenda politica globale:

 la sua drammaticità chiama in causa direttamente, senza esagerazioni, il futuro della razza umana e la sopravvivenza della vita sul pianeta.

È ormai infatti probabile che nei prossimi anni l’uomo dovrà giocarsi le proprie carte per salvare il pianeta dai rischi che si stanno rapidamente determinando.

Che la Terra abbia avuto nella sua storia fasi diverse sul piano climatico è noto.

Ma che l’attuale riscaldamento delle temperature, e i cambiamenti ad essa connessi, siano anche il frutto del processo di sfruttamento intensivo del pianeta da parte dell’uomo, delle emissioni gassose, del sovrappopolamento, della distruzione di ecosistemi fondamentali per gli equilibri climatici, come le foreste pluviali, è altrettanto chiaro.

 Si tratta di un problema che non interessa un singolo paese o una singola area del pianeta, ma ha una portata globale.

Eppure, nonostante questo, abbiamo difficoltà ad assumere decisioni realmente “globali”, poiché un pezzo fondamentale dello sviluppo umano e dell’economia globale sono indissolubilmente legati allo sfruttamento intensivo e alla trasformazione del pianeta.

Non tuti i paesi, a partire per esempio da giganti come Cina e India, sono pronti a rinunciare alla propria attuale crescita economica in nome di regole più restrittive sul fronte ambientale e climatico, riducendo per esempio le proprie emissioni di Co2 o rinunciando per esempio al carbone come fonte energetica a basso costo.

Oggi però l’impatto sempre più devastante dei cambiamenti climatici, con i danni prodotti dagli eventi catastrofici, sta determinando danni economici e sociali che hanno costi elevati, sotto molti punti di vista.

 E nonostante a pagare il prezzo più elevato dell’impatto sull’ambiente dei cambiamenti climatici siano i paesi più poveri, anche i paesi più ricchi non sono esenti da rischi.

 Come dimostrato dalle cronache recenti.

Anzi, questi rischi aumenteranno di anno in anno e potranno abbracciare sempre più campi della nostra vita e della nostra sicurezza. Come giustamente ricordato da Joe Biden.

Non è un caso se da alcuni anni, non solo l’Unione Europea, ma anche la NATO, hanno focalizzato con grande attenzione il tema dei cambiamenti climatici e delle minacce ad essi collegati, definendoli come un potenziale moltiplicatore di crisi.

Perché di questo si tratta.

Un fattore che non solo agisce direttamente, ma può fungere da moltiplicatore di altre potenziali emergenze, di numerose forme di rischio per la sicurezza e la stabilità politica, istituzionale, economica, sociale dei paesi, non solo occidentali.

A livello interno, i rischi diretti e indiretti per le nostre società e la vita quotidiana delle persone sono numerosi, come dimostrato anche dalle cronache recenti degli ultimi mesi.

 E nei prossimi anni, se dovessero ripetersi stagioni siccitose, o moltiplicare eventi atmosferici catastrofici, potremmo essere di fronte ad un aggravarsi di emergenze collegate al clima anche in aree un tempo sicure.

 Con costi politici e sociali elevatissimi, che potrebbero infine mettere a serio rischio anche la stabilità dei sistemi democratici.

A pagare il prezzo più alto dei danni delle calamità climatiche, della siccità, delle temperature elevate sono spesso le categorie sociali più fragili, così come sul piano internazionale sono i paesi più poveri.

E questo comporta comunque una minaccia per la stabilità e la sicurezza di tutto il pianeta, anche dei paesi occidentali, nei quali insicurezza e danni economici potrebbero avere una ricaduta diretta anche sugli orientamenti dell’opinione pubblica.

 La quale deve essere informata e preparata ai rischi derivanti dai cambiamenti climatici e allo stesso tempo, comprendere la portata della sfida che la transizione energetica può comportare.

Ma se si allarga il campo visuale possiamo vedere quanto i cambiamenti climatici, avendo ricadute drammatiche anche sui paesi più prossimi a nostri confini, possano colpirci con altre conseguenze gravi, moltiplicando nuove potenziali minacce alla nostra sicurezza e stabilità.

 Nelle regioni ai limiti dei confini europei, in Africa o in Asia, infatti, per effetto del “climate change”, stanno emergendo nuove emergenze, con un impatto rilevante per tutta la regione.

Pensiamo al tema acqua:

 siccità e desertificazione colpiscono molti paesi africani o mediorientali, in cui la penuria di acqua può generare, da un lato, gravi crisi umanitarie, per esempio carestie come quelle che stanno colpendo i paesi del Corno d’Africa come Etiopia, Somalia e Sud Sudan, ma anche inducendo i governi dei paesi più a rischio a cercare di controllare e gestire in maniera sempre più stringente le risorse idriche, sempre più preziose, in propria disponibilità.

Si pensi al caso della grande diga etiope sul corso del Nilo.

 Queste tipologie di eventi, e di decisioni conseguenti, possono avere un impatto sul piano non solo economico o umanitario, nei territori che per esempio si vedono privati di acqua un tempo disponibile, ma anche a livello politico, geo-politico e, potenzialmente, militare.

Il rischio che nel futuro prossimo, soprattutto in aree molto assetate, possano esplodere nuove tensioni, e anche conflitti, per il controllo delle sorgenti e delle risorse idriche è sempre più elevato.

 Può riguardare paesi, comunità, e gruppi armati lungo i grandi fiumi africani, come il Nilo o il Niger, o in regioni a rischio, dove non mancano anche forme di conflitti e tensioni di tipo etnico o politico che potrebbero unirsi a quelle per il controllo dell’acqua.

 E le regioni dell’Africa, oggi, appaiono tra le più esposte a questo tipo di minacce, anche per la crescita esponenziale a livello demografico che alcuni paesi africani stanno avendo (si pensi al Sahel e a tutta la fascia subsahariana).

Dall’altro lato, i cambiamenti climatici, abbattendosi sulle popolazioni di regioni povere o poverissime, come appunto il Sahel o il Corno, potranno causare sempre maggiori danni alle comunità agricole e rurali, aumentando tensioni e conflitti per il controllo delle risorse disponibili e dei terreni coltivabili o utilizzabili per la pastorizia, e anche accrescendo povertà, crisi economica, carestie.

Continuando a spingere migliaia di persone a lasciare i propri villaggi, le proprie terre d’origine, per cercare fortuna in Europa.

Con una nuova potenziale ondata migratoria, prodotta proprio dagli effetti dei cambiamenti climatici, che nel corso dei prossimi anni, moltiplicandosi emergenze e crisi, potrebbe intensificarsi sempre di più.

 Ed è evidente che a ridosso dei confini europei, dal Medio Oriente all’Africa all’Asia Meridionale, sono numerose le aree esposte a questi tipi di problemi e da cui, nei prossimi decenni, potrebbero muoversi migliaia di persone in fuga da carestie, siccità, conflitti.

Ma i cambiamenti climatici incidono anche sugli ambienti che ci circondano o in cui viviamo: non solo per quanto riguarda per esempio i processi di inaridimento di alcune regioni europee, o lo scioglimento dei ghiacciai alpini o la riduzione della portata dei corsi d’acqua.

 Si pensi per esempio ai mari, dove possono avere effetti sulle temperature delle acque e delle correnti oceaniche, da cui dipendono molti degli equilibri di ecosistemi complessi come quelli marini.

 Con un impatto, per esempio, sulla pesca, ma anche sulla sicurezza dei mari stessi.

Inoltre l’aumento delle temperature atmosferiche, accrescendo il ritmo di scioglimento dei ghiacci polari, potrà produrre in futuro attraverso l’innalzamento dei livelli delle acque effetti sempre più gravi sulla sicurezza dei porti e dei trasporti, così come sulle coste o su numerose isole a rischio.

Infine, ultimo tema non banale, cosa potrà accadere in futuro, a livello politico e geo-politico, se mentre alcune regioni diventeranno invivibili per effetto delle temperature elevate e della desertificazione, mentre altre, a nord, diventeranno meglio accessibili perché liberate dalle temperature troppo fredde e dai ghiacci un tempo perenni?

Si pensi ad esempio ad una regione come la Groenlandia, oggi di fatto disabitata, o ad alcune regioni della Russia o della Scandinavia.

Con temperature più vivibili potrebbero diventare terre abitabili permettendo anche la formazione di nuovi insediamenti umani là dove, fino a poco tempo fa, era ritenuto molto difficile.

Permettendo di sfruttare zone del pianeta ricche di risorse minerarie o strategiche per la logistica.

 

Le possibilità di accesso a risorse oggi inaccessibili, per esempio proprio nella regione artica, possono scatenare una sorta di nuova corsa all’Artico tra le maggiori potenze del pianeta, portando per esempio non solo alla colonizzazione di questa regione, ma anche a un aumento costante di traffici marittimi nei suoi mari, sempre più liberi dai ghiacci, e una possibile militarizzazione della regione.

I quesiti che emergono di fronte a questi scenari sono molti e inquietanti.

E non lasciano spazio a facili speculazioni.

Potremmo essere di fronte a una svolta radicale per il futuro del pianeta e dell’umanità rispetto a cui non potrà bastare la reazione che introdurrà un singolo paese.

La transizione energetica ed ecologica avrà un costo, certamente, e impatteranno sulle attività produttive, l’economia, i trasporti, la vita sociale.

Ma investire nella sostenibilità ambientale ed umana dei nostri sistemi, sociali ed economici, e avviare la transizione verde è una necessità, che oltre a costi e sacrifici, può rappresentare serie opportunità di innovazione, sviluppo, crescita, modernizzazione non solo per i paesi più ricchi.

Per quanto la transizione energetica potrà essere onerosa, e lo sarà, i costi e i rischi legati al suo fallimento potrebbero essere ben maggiori e ben più gravi. Non solo sul piano economico, ma anche per la sicurezza umana.

Per questo, consapevoli degli oneri e dei costi, che dovranno essere equamente ripartiti sul piano globale, in questa battaglia per il clima occorrono alleanze ampie, a partire dai paesi più a rischio, con un ruolo protagonista dell’Occidente.

Se il rapporto tra uomo e pianeta, tra uomo e natura, è sempre stato di trasformazione e sfruttamento, pensare che questo possa continuare ad essere, anche in futuro, indiscriminato e privo di regole potrebbe rivelarsi un errore.

 Le ricadute dei cambiamenti climatici, con le loro conseguenze gravi, colpiscono tutti, indistintamente.

 I paesi più ricchi che vedono minacciati i propri livelli di benessere e la loro stabilità politica, e anche quelli più poveri, che rischiano di diventare sempre più poveri, ma anche quelli in via di sviluppo o in fase di sviluppo avanzato, in cui le ricadute potrebbero comunque nel tempo avere un effetto boomerang, e indebolire le stesse economie in crescita, produrre danni, creare disagi e instabilità sociali e politiche difficili da gestire e arginare.

Ecco perché la sfida ha anche connotati fortemente politici e geopolitici e il ruolo degli Stati Uniti, in quanto maggiore potenza globale, può essere determinante.

Se l’Occidente riuscirà ad affrontare questa partita unito, con Europa e USA solidamente alleati, capaci di allargare il fronte a tutti i paesi democratici, a partire da quelli indo-pacifici, potrebbe essere l’occasione per gettare le basi una convergenza più ampia anche con i paesi del Sud del mondo.

Ma per farlo occorrerà una proposta forte, introdotta dai paesi democratici e tecnologicamente più avanzati, per superare le difficoltà attuali.

La sfida del clima che cambia riguarda la nostra sicurezza ma anche il futuro della democrazia e più in generale il futuro della sopravvivenza umana sulla Terra.

Su questo pianeta che sembra bruciare sempre di più.

 Si tratterà di una partita difficilissima, soprattutto con quei paesi che, al momento, non sembrano disposti ad affrontarla con la stessa determinazione.

Ma forse proprio per l’importanza che avrà, nei futuri equilibri securitari, geopolitici e geoeconomici del mondo, l’Occidente non può che affrontarla con una strategia ben delineata e con una visione di futuro.

(Enrico Casini e Andrea Manciulli)

 

 

 

MEDITERRANEO:

SFIDE E OPPORTUNITÀ.

europaatlantica.it - Enrico Casini e Andrea Manciulli – (5 Marzo 2023) – ci dicono:

 

(L’articolo di Enrico Casini e Andrea Manciulli per la rubrica di “Airpress” di marzo 2023).

La guerra in Ucraina, e la successiva crisi energetica, hanno rilanciato l’importanza della regione del Mediterraneo allargato.

 Più che in passato, oggi i destini europei passano dagli equilibri, instabili, di questa complessa regione tornata sempre di più al centro delle contese geopolitiche e degli interessi di grandi e medie potenze.

Il recente viaggio di “Blinken” in Medio Oriente, preceduto dalle missioni di altri autorevoli funzionari dell’amministrazione americana in alcuni paesi strategici, conferma quanto anche per gli USA sia importante mantenere ferma la propria presenza in questa fondamentale area del mondo.

Un’area in cui da tempo si concentrano molte delle principali sfide del nostro tempo, in un constante susseguirsi di fenomeni ed eventi che mettono in continua discussione la sua stabilità; mentre parallelamente sono in atto processi profondi di cambiamento, avviati soprattutto dopo il 2011, che stanno condizionando i rapporti di forza al suo interno tra i principali paesi che vi si trovano.

Le problematiche eccezionali che affliggono questa regione potranno condizionare sempre di più il suo futuro e di conseguenza il futuro dell’Europa.

Ma mentre assistiamo al ritorno di potenze come la Russia e la Turchia, o all’aumento della presenza cinese nei paesi mediterranei e africani, i paesi europei stentano a trovare una comune visione per il Mediterraneo e talvolta, non hanno sempre avuto la capacità di incidere al suo interno con efficacia.

 La guerra in Ucraina spinge oggi ancora di più a cambiare rotta.

L’Italia da anni lavora per portare al centro del dibattito europeo e atlantico l’importanza del Mediterraneo allargato.

Un impegno profuso con impegno in tutte le sedi deputate, a livello politico e diplomatico.

 In questa fase storica, con la gravità della crisi energetica e la guerra in corso, ma anche di fronte ai nuovi assetti geopolitici che vanno formandosi nel mondo, la necessità di stabilire forti relazioni con i paesi della Sponda sud, anche investendo nello sviluppo di nuove linee di approvvigionamento energetico attraverso il Mediterraneo, è una priorità urgente che finalmente anche in Europa sembra essere stata compresa. E l’Italia può essere, in questo contesto, un paese guida per l’Europa, in questa regione.

Anche le ultime iniziative intraprese dal Governo proseguono nella direzione di affermare un ruolo da protagonista dell’Italia nella regione.

Verso aree o paesi che saranno fondamentali nei prossimi anni.

Un lavoro necessario per il nostro paese, per i suoi interessi economici, culturali ed energetici, per rilanciare la nostra presenza verso i paesi del Vicino Oriente e dell’Africa, fino al Golfo, coi quali dobbiamo rafforzare relazioni bilaterali e multilaterali.

Per l’Italia il Mediterraneo è storicamente una priorità irrinunciabile.

Quanto avvenuto nell’ultimo anno ha rilanciato ancora di più l’importanza di questa regione e la sua centralità strategica a livello globale.

 Ma non solo il tema energetico, per quanto importante, sarà in futuro al centro del confronto sui destini del Mediterraneo legati, indissolubilmente, a quelli europei.

 Dalle migrazioni ai cambiamenti climatici, dai conflitti alla logistica, attraverso il Mediterraneo passano alcune delle maggiori sfide che coinvolgeranno l’Europa, la sicurezza continentale e la NATO, nei prossimi anni.

Una prospettiva di cui in Italia siamo ben consapevoli da tempo.

Ma perché il ruolo dell’Italia, anche in sede europea, come player politico nella regione, possa diventare sempre più rilevante, avrà bisogno di essere sostenuto da uno sforzo unitario, di tutto il Sistema paese e delle sue istituzioni, fondato su una comune visione strategica e una capacità di azione pragmatica.

(Enrico Casini e Andrea Manciulli)

 

 

 

 

NON ESISTE NESSUNA EMERGENZA CLIMATICA.

Bastabugie.it - n.725- (14 luglio 2021) – Rino Camilleri – ci dice:

 

Il professor Franco Battaglia da anni lotta contro le tesi anti-scientifiche dell'ideologia ambientalista: riscaldamento globale, energie rinnovabili, transizione ecologica, ecc.

(Rino Cammilleri)

Il professor Franco Battaglia, noto al pubblico conservatore per la sua lotta, ahimè senza speranza (minuscolo: senza, non contro), sulla bufala planetaria del XXI secolo (i greti: «salviamo il pianeta!»), insegna chimica fisica all'università di Modena.

Dunque, sa di cosa parla. Ha di recente capeggiato un appello al Capo dello Stato, in cui un centinaio di esperti (tra cui Zichichi) chiedono a quest'ultimo di non sprecare il denaro dei contribuenti inseguendo chimere.

La battaglia di Battaglia contro i mulini a vento (sia letterali che letterari) è di vecchia data.

Nel suo ultimo libro scrive:

 «Venerdì 3 novembre 2006 fui invitato a dibattere, assieme al Ministro all'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, nel programma “Ottoemezzo” trasmesso su La7 e condotto da Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni».

In tal sede sperimentò quanto Upton Sinclair, scrittore americano premio Pulitzer, ebbe a suo tempo a dire:

«È difficile far capire qualcosa ad una persona quando il suo stipendio dipende dal fatto di non capirla» (thanks a Socci).

 Il libro cui accennavamo è questo:

L'illusione dell'energia dal sole (ed. 21° Secolo, pp. 208, €. 15), riedito in forma aggiornata e accresciuta.

Negli anni scorsi il Nostro era molto presente nei talk, tanto da finire bersaglio dei comizi di Beppe Grillo quando questi era ancora «verde» e no-tutto.

Accusato di essere pagato dalle multinazionali, il Nostro replicò: «Magari!».

Ma qualcuno prese il discorso di Grillo molto sul serio e il bersaglio si spostò sull'auto del Nostro, che finì preda di sassate. La cosa, a sua volta, finì in tribunale, che ci mise una decina d'anni a dare ragione a Battaglia e a risarcirlo.

Ora, una volta che il “Grande Reset” ha deciso che dobbiamo diventare tutti verdi (alcuni di bile) per salvare la “Pachamama e l'orso polare”, Battaglia è praticamente scomparso dagli orizzonti televisivi:

chi lo vuole lo trova, sempre più di rado, come editorialista de Il Giornale e del blog Zuppa di Porro (dove anche il sottoscritto talvolta compare). Ma lo spirito battagliero (nei due sensi), grazie al cielo, è sempre lo stesso:

«Il protocollo di Kyoto, ai fini della riduzione della concentrazione di CO2 in atmosfera, equivale a pretendere di far dimagrire una persona obesa negandole la bustina di zucchero nel caffè del mattino».

 Infatti, «dopo trilioni di dollari spesi», l'unico risultato è «che le nostre bollette elettriche di oggi sono il triplo di quelle del 2007».

 Andiamo coi numeri e veniamo all'argomento del libro:

 «Al fabbisogno mondiale d'energia il Sole contribuiva per il 6% nel 1965, per il 7% nel 1990 e quasi il 10% nel 2019.

Questi 3 o 4 punti percentuali in più hanno per caso contribuito ad una qualche riduzione delle emissioni di gas-serra rispetto ai livelli del 1990, come da obiettivo di tutti i protocolli»?

Per quanto riguarda noi, «il 13% dell'energia elettrica disponibile sulla rete elettrica italiana proviene dalle centrali nucleari francesi, svizzere e slovene».

Per quanto riguarda, poi, i posti di lavoro «verdi» promessi dai piani mondiali post-pandemia è bene ricordare che comportano la perdita di quelli legati al petrolio.

Bisognerà supportare e riqualificare lavoratori e interi settori, pena sommosse. Indovinate chi pagherà supporti e riqualificazioni.

 Sì, si dirà: ma vuoi mettere le c.d. fonti rinnovabili?

 Bella speranza (minuscolo), ma si sta «dimenticando, ad esempio, che la frazione dominante delle rinnovabili è costituita dalla fonte idroelettrica».

 E allora che si fa?

 «Per soddisfare col fotovoltaico il 10% dei consumi elettrici italiani dovremmo impegnare € 240 miliardi.

Basterebbe impegnare meno di € 10 miliardi in 4 reattori nucleari e ottenere lo stesso risultato».

Seh, vaglielo a dire ai no-nukes, che, sebbene siano sempre meno nel mondo, sono «pervicaci e resistenti in Italia».

E in Germania, aggiungo io.

Guarda caso, i soli due sconfitti europei dell'ultima guerra.

La scelta no-nukes era supportata dalla promessa che i costi del fotovoltaico si sarebbero ridotti a furia di studiarci sopra. Invece, in 15 anni «si sono ridotti appena di un fattore 2».

Quelli che costano meno, oggi, ce li ha tutti la Cina. E sappiamo perché.

Nota di “BastaBugie”:

l'autore del precedente articolo, Rino Cammilleri, nell'articolo seguente dal titolo "La battaglia di Battaglia sull'ideologia climatica" racconta che Franco Battaglia, docente di Chimica Fisica all'università di Modena, torna alla carica con un libro dal titolo eloquentissimo: “Non esiste alcuna emergenza climatica”.

Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 03-07-2021:

Inesausto guerriero, malgrado le molte sconfitte sul campo (mediatico, come si vedrà), il prof. Franco Battaglia, docente di Chimica Fisica all'università di Modena, torna alla carica con un libro dal titolo eloquentissimo: Non esiste alcuna emergenza climatica.

Perché la pretesa di governare il clima della terra è un'illusione (ed. 21° Secolo, pp. 80).

 Basato non su «modelli» o «teorie» o «proiezioni», ma sui semplici fatti e perciò zeppo di grafici e tabelle, per le obiezioni scientifiche rimandiamo al testo scritto il linguaggio piano e quasi televisivo.

Qui ci limiteremo a riportare qualche passo riguardante, sì, il clima, ma quello ideologico in cui tutto il dibattito (si fa per dire: la solfa gretina è unidirezionale) è immerso.

Nel 2001 l'autore era coordinatore del comitato scientifico dell'Anpa (Agenzia Nazionale Protezione Ambiente), all'uopo chiamato dal ministro apposito, Altero Matteoli.

Lui e il ministro erano seduti al “Maurizio Costanzo Show” per parlare dell'allora progettato “Protocollo di Kyoto”.

 C'era anche Ermete Realacci, fondatore di Legambiente.

Battaglia disse, tra le altre cose, che il Protocollo avrebbe vincolato i Paesi entusiasti, però responsabili del 55% delle emissioni, mentre gli emissori del restante 45% avrebbero potuto far quel che pareva loro, anche aumentarle.

Con ciò vanificando il Protocollo-salasso per il contribuente.

Realacci obiettò che, in ogni caso, il Protocollo era pur sempre un primo passo.

Ecco un classico modo di controbattere le cifre con l'aria fritta.

 Battaglia chiosa: «Innanzitutto non si capisce quali sarebbero gli altri passi e, poi, anche montare su uno sgabello è un primo passo per raggiungere la Luna».

Si consoli, Battaglia: anch'io, al “Maurizio Costanzo Show”, mi ritrovai seduto accanto al Realacci (presenza fissa, lui, io mai più).

Auspicavo, tra le altre cose, un incremento di parcheggi in città, e lui obiettò, seccato, che ciò avrebbe incoraggiato all'uso dell'auto.

Vabbè, mezzo pubblico sia, anche se una città come Milano (capitale economica) diventa ostaggio degli scioperi, i quali vengono orditi sempre di venerdì (quando fanno più danno) e pure in tempi di pandemia (con effetto-sardina, “e chissenefrega” dei picchi di contagio).

Ma come finì lo scontro, anzi Battaglia?

Finì che il ministro si alterò (involontario calembour) col suo consulente che gli sciupava i rapporti con gli ambientalisti, definiti dall'incauto «i peggiori nemici dell'ambiente», cosa che alterò pure il conduttore.

Morale, l'Italia firmò il Protocollo e Battaglia perse il posto.

 E pazienza se il” Protocollo” si proponeva di raggiungere i propri obiettivi entro il 2012, col risultato che nel 2012 le emissioni «furono di oltre il 50% in più di quelle del 1990!».

 Nello stesso periodo, infatti, moltissime produzioni erano state delocalizzate dove il lavoro costava meno, perciò andate ad emettere colà.

 «Principali emettitori sono oggi Cina, Stati Uniti e India. Se le emissioni degli Stati Uniti sono rimaste essenzialmente ferme ai livelli del 1990 (per la precisione sono aumentate del 3%), quelle di Cina e India sono aumentate, rispettivamente, del 320% e del 350%!».

Nel libro Battaglia riporta solo due delle «molte petizioni che centinaia di scienziati hanno sottoscritto per avvertire i responsabili politici che non v'è alcuna emergenza climatica».

Una è italiana, promossa da alcuni scienziati del clima, geologi, geofisici, climatologi.

Ebbene, nel 2018 l'antica e gloriosa “Accademia dei Lincei” organizzò una “Conferenza sul tema del clima” e alcuni firmatari della petizione chiesero di poter intervenire, cosa che fu accettata dal comitato scientifico della suddetta Conferenza.

Ma la cosa dispiacque a un membro dell'Accademia, uno «scienziato», cela va sans dire.

Diamo la parola a Battaglia: «Costui informò alcuni organi di stampa complici dell'imbroglio emergenza-climatica, i quali si spesero scrivendo articoli denigratori nei confronti dell'Accademia. La quale decise di cancellare la Conferenza». Et voilà.

(La battaglia di Battaglia contro i mulini a vento)

(La Nuova Bussola Quotidiana, 11-05-2021).

 

 

 

 

L'AUTODISTRUZIONE DEL

MONDO È GIA' INIZIATA.

Bastabugie.it – (15 marzo 2023) - Mauro Faverzani – ci dice:

(BastaBugie n.812 del 15 marzo 2023)

L'obiettivo finale è una drastica riduzione della popolazione da ottenere con sterilizzazioni di massa, educazione sessuale completa, legalizzazione della pedofilia, ecc.

«Siamo già nella fase finale della demolizione della cultura e dei valori, in corso da molti anni»:

a dirlo a chiare lettere, nel corso di un'intervista rilasciata lo scorso primo marzo all'agenzia “InfoCatólica”, è Alicia V. Rubio, filologa presso l'Università di Salamanca e docente in una scuola superiore di Madrid.

Sposata e madre di tre figli, Rubio è ricercatrice e scrittrice:

 è divenuta bersaglio delle lobby Lgbt e dei partiti dell'ultrasinistra, accanitisi contro di lei dopo l'uscita di alcuni suoi libri sull'ideologia gender, mostrandone contraddizioni e conseguenze, tanto personali quanto sociali.

 È conduttrice di talk show, collabora con diversi programmi radiofonici e televisivi ed è membro dell'Assemblea di Madrid.

Secondo la professoressa Rubio, il motivo per cui si incoraggiano relazioni o pratiche infeconde, è molto chiaro:

«L'obiettivo finale è quello di ottenere una drastica riduzione della popolazione, continuando a generare ricchezza per i grandi gruppi di potere, che impongono queste politiche di sterilizzazione».

 Da qui l'accanirsi contro i più piccoli, con l'aborto e non solo:

 «I bambini sono il loro grande problema, perché un giorno potranno riprodursi e generare nuovi esseri umani.

 Il modo per sterilizzarli è separare la sessualità dall'amore e dalla procreazione, renderli incapaci di paternità e maternità, fisicamente e psicologicamente. Dall'aborto alle droghe, dal transessualismo alla pornografia, dalle sessualità alternative alla maternità surrogata, tutto è un enorme business, che trae profitto a scapito dell'innocenza dei nostri figli».

Un piano disumano, questo, che mira ad ottenere «individui senza radici, senza principi, perfettamente manipolabili».

Per impossessarsi dei minori - delle loro anime, prima ancora che dei loro corpi -, è sufficiente «ingannarli, indottrinarli a nuovi "valori".

Vengono educati ad una libertà piena di censure e di violazioni dei diritti di espressione, di pensiero e di culto, la "verità" viene imposta e si impedisce loro di cercarla, la "tolleranza" è, in realtà, un'intransigenza verso chi non si pieghi all'ideologia dominante, la diversità impone l'uniformità in tutto tranne che nella sessualità, l'"uguaglianza" è una struttura piena di disuguaglianze "legali", la giustizia è un compendio di leggi, che parificano crimini e misfatti, che creano reati di opinione e di pensiero».

Già piccoli, vengono istituzionalmente sottratti alla protezione dei genitori, contrapponendoli ad essi (si pensi, ad esempio, alla facoltà offerta alle ragazzine di scegliere l'aborto, senza neppure informarne mamma e papà!).

LA PEDOFILIA LEGALIZZATA.

Tutto questo genera mostri.

Come la pedofilia, verso cui si registra purtroppo una crescente condiscendenza: «Credo che vi siano molti gruppi pedofili potenti - afferma Rubio - che hanno interesse, per ovvie ragioni, alla sua legalizzazione ed al rovesciamento dei valori di questa civiltà.

Allo stesso tempo è un modo per distruggere i bambini, per lasciarli traumatizzati senza che possano nemmeno riconoscerlo.

 È tutto così sinistro e assurdo che, se come società non ci svegliamo in tempo, presto sarà troppo tardi.

 Se non facciamo nulla per proteggere i nostri figli da tutto questo, meritiamo di scomparire e meritiamo un castigo eterno».

In un contesto come questo, allora, non stupisce che addirittura un ministro spagnolo, quello per l'Uguaglianza, Irene Montero, esponente di Sinistra Unita prima e di Podemos poi, abbia pubblicamente definito, nel settembre scorso, un "diritto" dei bambini «amare e fare sesso con chi vogliano», purché «sulla base del consenso», affermazione peraltro contraria a quanto previsto dal Codice penale e fatta a fronte delle critiche giunte dall'opposizione, che a questo punto ne ha chiesto le dimissioni.

Né stupisce che una collega della Montero, Ione Belarra, ministro per i Diritti Sociali e l'Agenda 2030, sempre di Sinistra, di Podemos nello specifico, abbia promosso una nuova legge sul benessere degli animali - peraltro approvata lo scorso 9 febbraio -, che depenalizza la zoofilia, quando la bestia non resti ferita e non necessiti di cure veterinarie, a seguito dell'atto sessuale compiuto.

Da notarsi come tale normativa punisca, invece, col carcere chiunque uccida un topo, entrato nella propria abitazione.

Assurdo! E si noti come tanto Montero quanto Belarra, di professione, siano psicologhe!

Non aiutano certo, in tutto questo, le interferenze mediatiche come la serie televisiva “Escándalo”, prodotta da Telecinco (gruppo Mediaset, per intenderci), che, di fatto, "sdogana" la pederastia, raccontando - anche con l'ausilio di molte scene dai contenuti sessuali espliciti - la relazione tra una donna di 42 anni ed un ragazzo di 15.

La protagonista, l'attrice Alexandra Jiménez, ha spiegato in un'intervista al quotidiano Abc la trama della fiction:

«Inés è una donna completamente distrutta, che decide di togliersi di mezzo - racconta - Viene salvata da un ragazzo ed il suo ritorno alla vita diventa una storia d'amore, che si distorce in un'altra storia malata».

 

IL RAPPORTO UNICEF.

Non stupisce neppure, poiché parte di un unico piano mefistofelico, che il rapporto Unicef 2021 abbia negato risolutamente che la pornografia possa danneggiare i bambini ed anzi abbia affermato che qualsiasi tentativo di bloccare loro l'accesso a contenuti pornografici online violi i loro diritti.

Un giudizio espresso, ignorando l'immensa mole di ricerche, che dicono esattamente il contrario.

Il rapporto, si badi, è stato ritirato dal sito web dell'Unicef pochi giorni dopo, a fronte delle critiche sollevate, poi modificato e ripubblicato.

Nell'ultima versione si sostiene - il che resta comunque grave - che i bambini non vengano influenzati dalla visione di materiale sessualmente esplicito.

Da notarsi come, solo un mese prima l'”Assemblea Mondiale della Sanità” avesse respinto l'«educazione sessuale completa» (che promuove per i bambini masturbazione, accesso alla contraccezione ed all'aborto, nonché «famiglie non tradizionali», compresi i "diritti" Lgbt), sostenuta dall'amministrazione Biden e dai governi occidentali, nell'ambito di una risoluzione sulla violenza contro i bambini.

A fronte di tutto questo, mette conto ricordare come, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, la pornografia venga definita una «colpa grave», tale da offendere «la castità», snaturare «l'atto coniugale» e ledere «gravemente la dignità di coloro che vi si prestino» (n. 2354); la masturbazione venga descritta come «un atto intrinsecamente e gravemente disordinato» (n. 2352).

l'elenco potrebbe continuare.

Ma, su tutto questo, son le parole di Gesù a rappresentare un monito perenne: «Chi scandalizza uno di questi pargoli, che credono in me, meglio sarebbe per lui che, legatagli al collo una “macina da mulino”, fosse gettato in mare» (Mc 9, 42).

Dovrebbero tenerlo presente tutti: anche ministri, produttori televisivi ed organismi internazionali.

 

 

 

 

ELLY SCHLEIN, IL NUOVO SEGRETARIO

DEL PD È LESBICA E PIACE ANCHE A SOROS.

Bastabugie.it - n.810- (1° marzo 2023) - Giuliano Guzzo – ci dice:

 

Alla Meloni che aveva dichiarato ''Sono una donna, sono una madre, sono cristiana'' aveva risposto ''Sono una donna, amo un'altra donna e non sono una madre, ma non per questo sono meno donna''.

«Ora uniti per tornare a vincere.

Saremo un problema per il governo Meloni.

Il naufragio di migranti in Calabria pesa sulla coscienza dell'esecutivo».

 Le prime parole di Elly Schlein, neoeletta segretaria del Pd, sono battagliere e ne riflettono bene la tempra.

 Del resto, se battagliera non fosse questa trentasettenne non sarebbe arrivata dov'è, riuscendo - grazie al 53,8% dei consensi - a conquistare il principale partito progressista italiano, che pure da mesi veniva saldamente dato in mano al superfavorito Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia Romagna il quale, a questo punto, può tornare a fare il suo lavoro.

Invece per Elly Schlein [...] ora cambia tutto e non solo per lei, motivo per cui vale la pena conoscerla più da vicino.

 Nata a Lugano nel 1985, figlia di due docenti universitari - il padre è americano di origine ebraica aschenazita, la madre italiana -, l'enfant prodige del progressismo italiano è cresciuta a pane e politica, inanellando da subito esperienze ai massimi livelli.

Basti dire che, a suo tempo, volò a Chicago per sostenere le campagne elettorali di Barack Obama.

 Poi sono arrivati l'Europarlamento e la vicepresidenza della Regione Emilia Romagna.

Ma Elly Schlein, il cui trionfo è avvenuto soprattutto grazie ai non iscritti al Pd (presagio, quello dell'onda esterna che aveva lo stesso Bonaccini, già forse intimorito dal fatale appoggio di Piero Fassino), ha coltivato la passione politica, con militanza attiva ed esperienze, si accennava, anche molto prestigiose, sin dagli anni dell'università.

 Vuoi per il suo bruciare le tappe, vuoi per il suo bagaglio ideologico - di cui diremo subito - la neosegretaria Pd, oltre che idolo di giovani venuti su col “Woke” nel biberon, è una dagli appoggi così potenti che c'è da domandarsi se il suo successo, in fondo, sia così casuale.

Quali appoggi?

 C'è l'imbarazzo della scelta.

Un documento della “Open Society”, società del finanziere supermiliardario George Soros, la indicava tra «gli alleati affidabili» già nel 2014, al suo primo mandato all'Europarlamento.

FEMMINISTA, AMBIENTALISTA, PROGRESSISTA.

Insieme a lei, tra gli «alleati affidabili», ha fatto notare su Facebook la scrittrice femminista Marina Terragni, c'erano pure Antonio Panzeri e Antonio Cozzolino…

Ma non divaghiamo e torniamo alla neoeletta segretaria del Pd.

Che, dicevamo, da anni gode di sostegni potenti.

Ancora nel settembre 2020, per dire, L'Espresso - che della sinistra italica non sarà la Bibbia, ma giù di lì - le aveva dedicato una intera copertina incoronandola come «femminista, ambientalista, progressista, di governo»: più che un titolo, un'investitura.

Giusto pochi mesi prima, era invece stata Daria Bignardi, su La7, ad ospitarla dandole modo di dichiarare pubblicamente il suo orientamento sessuale fluido: «Ho amato molti uomini e donne. Ora sono felice con una ragazza».

Questa dichiarazione ci consente di iniziare ad introdurre il profilo ideologico di Elly Schlein, che è quello di una paladina del mondo Lgbt, peraltro su posizioni fieramente abortiste.

 Prova ne sia il tono "allarmato" con cui la neosegretaria - che alcune fonti, a proposito di endorsement di peso, hanno descritto come assai gradita anche a Romano Prodi, benché il suo ufficio stampa abbia poi smentito - aveva commentato la decisione della Corte Suprema Usa di revocare la sentenza “Roe vs Wade del 1973”, che aveva definito «un salto indietro di 50 anni, un terrificante salto nel buio in cui si cancellano i diritti delle donne a scegliere sul proprio corpo».

LA NUOVA ANTI-MELONI.

Toni tanto duri, va da sé, non sono affatto casuali.

Al contrario, riflettono appieno quanto per la nuova «anti-Meloni», contino i temi etici, e cioè tantissimo.

Non a caso ha ottenuto anche l'appoggio di Alessandro Zan, di Laura Boldrini, perfino di nomi nobili - come Beatrice Borromeo - insomma di tutto l'establishment della sinistra Ztl ed ultra radical.

Ergo, con Elly Schlein il Pd diventa - definitivamente, dato che un po' lo era già - il Partito di Davos.

Da Gramsci a Greta, dalla Festa dell'Unità al Gay Pride, dall'articolo 18 all'asterisco, sì completa così quello che - attualizzando Augusto del Noce - potremmo definire il suicidio della rivoluzione.

 D'accordo, ma al vecchio elettore ex comunista, ora, che resta?

Lo stesso militante di Capalbio - tutto cashmere, babbucce ed evve moscia - è ora scalzato dal metrosexual di City Life: figurarsi lo spaesamento dell'iscritto proletario al Pci.

 L'affermazione di Elly Schlein, che farà senz'altro felice Matteo Renzi - che pronosticava che un suo successo gli avrebbe portato «metà Pd» -, segnerà dunque il definitivo pensionamento dei Peppone superstiti;

proprio loro, che hanno per decenni animato le Case del Popolo, ora si ritrovano senza più averne una.

 È il triste ma inevitabile epilogo d'un mondo che, a forza di strizzar l'occhio a eutanasia e ius soli, si trova ora una segretaria che ha preso la «cittadinanza politica» - la tessera - l'altro giorno e si accinge a praticare al suo partito la sospirata "dolce morte".

Nota di BastaBugie:

Elly Schlein nasce a Sorengo, vicino Lugano in Svizzera.

 Suo padre, Melvin Schlein, politologo e accademico statunitense di origini ebraiche è professore emerito di Scienze politiche e Storia alla Franklin University in Svizzera.

L’attività politica della Schlein ha inizio a partire dal 2008, quando partecipa come volontaria alla campagna elettorale di Barack Obama per le elezioni presidenziali statunitensi.

Scala negli anni le vette della politica, arrivando a ricoprire nel 2014 il ruolo di europarlamentare del PD e, dopo una latitanza di sette anni dal partito per dissensi con i suoi vertici, torna infine alla carica il 4 dicembre 2022 candidandosi per la Segreteria del PD, lasciata vacante da Enrico Letta all’indomani delle elezioni.

(Fabio Fuiano, Corrispondenza Romana, 22 febbraio 2023)

Elly Schlein è dichiaratamente e orgogliosamente gay, sull’aborto è disposta a spostare i paletti ancora più in là, ha dichiarato in più occasioni che la 194 implica per le donne un diritto ad abortire, è dell’idea che lo Stato dovrebbe garantirlo anche negando l’obiezione di coscienza dei medici.

 È ecologista radicale ed è a favore di tutte le transizioni, che sono oggi sul tappeto.

Ai tempi del Covid si era allineata al pensiero unico.

Se vogliamo quindi porla sulla postmodernità liquida, la Schlein è molto più avanti di Letta o Bonaccini, nonostante loro non fossero granché indietro. [...]

 Tra l’altro sembra in grado di risvegliare un Partito Democratico morente.

Con Bonaccini avrebbe forse continuato a morire, con la Schlein potrebbe riprendersi dal coma.

 (Stefano Fontana, La nuova Bussola Quotidiana, 28 febbraio 2023)

(Titolo originale: Con Elly Schlein il Pd ora è -definitivamente- il partito di Davos).

(Fonte: Sito del Timone, 27 febbraio 2023)

 

 

 

 

 

 

DIFENDERE L'AGGREDITO: LA SCUSA DEGLI

USA PER FARE LE GUERRE CHE VOGLIONO.

Bastabugie.it - n.811 – (8 marzo 2023) - Rino Cammilleri – ci dice:

 

Dalla Guerra di Crimea del 1854 a quella in Ucraina di oggi, le potenze di mare (Usa e Gran Bretagna) non possono tollerare l'abbraccio economico tra Russia e Germania.

La guerra russo-ucraina è in corso mentre scrivo e i rarissimi commentatori che cercano di analizzare le ragioni dei russi devono, prima di aprir bocca, distinguere tra aggressore e aggredito e proclamare che stanno, ovviamente, dalla parte di quest'ultimo.

Ora, poiché tale professione di fede da cavaliere medievale - al servizio della vedova e dell'orfano.

Dell'oppresso e della fede - stona non poco sulle labbra di laicisti atei e agnostici per i quali la morale non è che moralismo, vediamo di vederci un po' più chiaro.

Quella è una guerra combattuta in Europa, per interposto ucraino, da potenze che europee non sono: gli Usa la Gran Bretagna contro la Russia.

 La Russia post-sovietica aveva tentato di entrare nell'occidente ma ne era stata progressivamente respinta, fino all'esito bellico.

USA E GRAN BRETAGNA, ALLEATI DI FERRO.

Secondo l'antica dottrina geostrategica, risalente ai tempi di Napoleone, le potenze di mare (Usa e GB) non possono tollerare l'avvento di una superpotenza continentale quale sarebbe data dall'abbraccio economico tra Russia e Germania.

Dalla Guerra di Crimea del 1854 in avanti la musica è stata sempre la stessa, al di là delle varianti del caso.

Voi mi direte: vabbè gli Usa, che devono mantenere un impero mondiale, ma gli inglesi?

Si dimentica che anche questi avevano un impero mondiale, Australia e Nuova Zelanda, tanto per dirne tre, continuano a navigare nell'orbita anglofona insieme al resto.

 Le più importanti Borse del mondo stanno a Wall Street e nella city londinese.

 L'alleanza è così di ferro che anche nei film di 007 non c'è una volta che James Bond non possa contare sul supporto della Cia.

Se ci fate caso, anche l'ideologia woke, che sta squassando gli Usa, da questa parte dell'oceano trova nell'Inghilterra il suo terreno più fertile.

 Ma se, data la loro lunga tradizione bellica, gli inglesi non devono faticare molto a convincere la loro opinione pubblica a indossare l'elmetto Her Majesty Service (ricordate la guerra per la Falkland-Malvinas?), non così gli Usa.

Gli States sono profondamente spaccati in due:

da una parte i dem (aborto, nozze gay, lgbt, trans, cancel culture, antifa, blm, etc.)

dall'altra i rep (Dio-patria-famiglia, gospel, porto d'armi, etc.).

Se ci si fa caso, entrambi i fronti hanno in comune, però, il moralismo (il politicamente corretto non è altro), perciò ogni guerra deve essere giustificata.

Cioè, gli Usa non possono mai essere aggressori, bensì aggrediti. Prima dell'avvento della filosofia woke, il moralismo vi era vieppiù impregnato di puritanesimo, anche perché su quest'ultimo gli Usa sono stati fondati e la vita per i Padri pellegrini non era altro che Dio-Patria-Famiglia e guerra contro il Male, fossero i pagani (indiani) o gli eretici (papisti in primis).

 

IL CASO DEL MESSICO.

C'è un vecchio detto messicano che fa al caso nostro:

"Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!".

Quando Napoleone III supportò Massimiliano d'Asburgo quale imperatore del Messico, gli Usa gridarono, con Monroe:

 "L'America agli americani!". Cioè a loro.

E armarono zitti , zitti la rivolta di Juarez.

Il povero fratello di Francesco Giuseppe finì fucilato a Queretaro.

Ma il Messico era ancora un impero.

Così, quando il presidente Santa Ana abolì la schiavitù, i texani insorsero, invocando l'aiuto fraterno degli Usa (un po' come il Donbass oggi coi russi).

Con molta calma, il generale Houston attese che gli insorti di Alamo venissero liquidati, poi, al grido di "Remember the Alamo!", il Messico si trovò la capitale invasa.

Ma gli Usa fecero due conti: annettere tutto avrebbe significato far diventare cittadini milioni di papisti, sconvolgendo gli equilibri wasp. Così, si accontentarono di tutti quegli States che ancora oggi hanno nomi spagnoli: California, Arizona, ect.

Ovviamente, a colpi di plebisciti sul tipo di quelli fatti dai piemontesi nel Risorgimento.

Poi venne la Guerra di secessione: il Nord industriale e protezionista contro il Sud agrario e liberista.

 La Costituzione prevedeva il diritto di ogni Stato di uscire dall'Unione, ma contro i cannoni “non valet argumentum”.                       E gli Usa divennero il monolito che sappiamo.

Ed eccoci al 1898.

Gli Usa adocchiarono quel che rimaneva dell'impero spagnolo.

Ma gli spagnoli non avevano alcuna intenzione di aggredirli. Allora a Cuba, colonia spagnola, esplose e affondò misteriosamente la corazzata americana Maine (300 morti) nel porto dell'Avana.

 Presidente McKinley, la guerra subito dichiarata tolse alla Spagna, oltre Cuba, l'isola di Guam e le Filippine.

 I filippini fecero presto ad accorgersi che stavano meglio quando stavano peggio (gli occupanti fucilavano da dieci anni in su, cosa che sollevò uno scandalo sugli stessi giornali americani), ma questa è un'altra storia.

Tutta la - breve - guerra fu condotta con questo ritornello: "Remember the Maine!". Saltiamo i passaggi e andiamo alle guerre più importanti.

LE GUERRE MONDIALI.

La Grande guerra.

 Gli inglesi, in difficoltà, chiesero aiuto ai cugini, anche perché, se avessero perso, ai crediti che le banche americane avevano erogato per sostenere lo sforzo bellico si sarebbe potuto dire ciao.

Argomento convincente, ma il presidente Wilson come avrebbe potuto convincere gli americani (ai quali era stato detto "l'America agli americani") ad andare a morire in Europa?

 Nel 1915 un sottomarino tedesco affondò il transatlantico Lusitania, sul quale c'erano pure un migliaio di americani.

 Ma anche materiale bellico per gli inglesi: i tedeschi avevano avvertito che navi del genere sarebbero state un bersaglio.

E fu così che, al grido "Remember the Lusitania!", gli Usa entrarono in guerra.

Seconda guerra mondiale, stesso discorso.

 Il Giappone era in guerra con la Cina e gli Usa gli misero l'embargo totale su petrolio e gomma;

alla disperazione, questi si affidò all'ammiraglio Yamamoto, già addetto militare all'ambasciata nipponica a Washington, il quale disse che non si poteva pensare a una guerra con gli Usa.

L'unica chance era un colpo preventivo alla flotta di Pearl Harbor.

I servizi Usa lo sapevano, ma Roosevelt lasciò fare.

Il resto è la storia del "proditorio attacco" celebrato in tanti film. "Remember Pearl Harbor!".

Su su per li rami, la guerra in Iraq contro Saddam e le sue fantomatiche "armi di distruzione di massa" l'abbiamo vista in mondovisione, come pure, ahimè, le precipitose ritirate dal Vietnam e dall'Afghanistan.

 Ora, i lettori più avveduti capiscono bene che non si tratta di recriminare o di fare come i bambini all'asilo che si lamentano con la maestra della slealtà del prepotente.

No, si tratta solo di non farsi imbambolare dalla propaganda, nella quale i padroni dei media sono maestri.

 Le guerre ci sono sempre state, e Dio ce ne scampi.

Ma oggi chi ti riduce povero o orfano pretende che gli baci la mano grato.

 

 

 

LA ''CANCEL CULTURE'' VUOL LIMITARE

I POTERI ALLA POLIZIA PER FAVORIRE I CRIMINALI.

Bastabugie.it - n.810 – (1° marzo 2023) – Lorenzo Formicola – ci dice:

I democratici e il Black Lives Matter accusano le forze dell'ordine di razzismo, ma la maggioranza dei delinquenti a cui hanno sparato i poliziotti è bianca, armata e aggressiva.

Il Washington Post ha registrato 8.166 sparatorie mortali della polizia dal 2015 ad oggi.

 La polizia negli Usa uccide, complessivamente, circa mille persone ogni anno: più di ogni altro Paese occidentale.

Contesto criminale a parte - che negli Usa è molto più feroce che altrove -, il poliziotto americano ha un grilletto nettamente più facile rispetto a qualsiasi Stato europeo.

Così come quando c'è da arrestare qualcuno, non si cavilla.

Le varie teorie della cancellazione ritengono che il razzismo sia intrinseco a vita e cultura americane, perché la Costituzione è stata redatta da proprietari di schiavi.

In particolare, però, sono i corpi di polizia ad essere accusati di razzismo sistemico, e negli ultimi tempi tale biasimo s'è convertito con conseguenze pesanti.

 Il movimento Black Lives Matter, coadiuvato dalla politica più progressista del Paese, ha proposto, in virtù di una brutalità che accomunerebbe tutti gli agenti, di tagliare i fondi (defund) alle forze di polizia a livello nazionale, e di diminuirne la presenza anche nei quartieri più violenti e a più alto tasso di criminalità delle città Usa.

Il risultato è stato piuttosto immediato se si considera che l'offensiva, senza precedenti, per ridimensionare la polizia statunitense, è iniziata, concretamente, appena dopo il caso Floyd.

 Era la primavera del 2020, quando le manifestazioni raggiunsero persino l'Europa, ma le prime dimostrazioni plateali dei BLM risalgono almeno al 2013.

Ne è passata di acqua sotto i ponti.

E di finanziamenti per rendere la causa planetaria.

Venne ribattezzata come la "resa dei conti razziale", e sposata come un dovere morale da assolvere il prima possibile per sollevare i destini dell'umanità: da De Blasio (New York) a Garcetti (Los Angeles) lo slogan fu adottato dai sindaci più famosi del Paese.

 

200 AGENTI SI SONO DIMESSI.

È bastato poco perché New York City perdesse il 15% della sua forza, ovvero circa 5.300 ufficiali.

Oltre 200 agenti si sono dimessi, o hanno preso un congedo, dal dipartimento di polizia di Minneapolis.

Il dipartimento di polizia di Louisville, si è ridotto del 20% solo nel 2020. Secondo il “Police Executive Research Forum” (PERF), le dimissioni degli agenti sono aumentate del 18% nella prima metà del 2021, rispetto allo stesso periodo del 2020.

 I dipartimenti di polizia del Paese hanno registrato un aumento del 45% del tasso di pensionamento nell'anno che è appena concluso.

A Memphis, nel Tennessee, pochi giorni fa, un afroamericano è morto dopo il pestaggio di cinque agenti.

La notizia è stata battuta velocemente dalle agenzie e ha avuto poca eco, così come le manifestazioni di protesta - decisamente poca roba rispetto a quelle del caso Floyd:

 non per una violenza meno agghiacciante, bensì perché tutti e cinque gli agenti erano di colore, come la loro vittima e come il capo della polizia di Memphis.

 Il dipartimento di Memphis è composto da circa duemila agenti, e il 58 per cento di questi è afroamericano.

"Black Lives Matter" - le vite dei neri contano - è finito in cortocircuito mediatico e politico, che, il New York Times, ammette, «complica il discorso su razza e polizia».

«Nel corso del 2021 in tutta l'America la polizia ha sparato a 1054 individui, la maggioranza dei quali era bianca, armata e aggressiva.

Sulle trentatré vittime disarmate colpite dalle pallottole degli agenti, otto erano bianchi e sei neri.

Nello stesso anno più di diecimila omicidi sono stati commessi da Black, e la maggior parte delle vittime apparteneva al loro stesso gruppo etnico», scrive così Federico Rampini in America, viaggio alla riscoperta di un Paese.

Gli agenti denunciano da mesi, ormai, un clima insostenibile, parteggiato da una certa copertura giornalistica che ha avallato, e incoraggiato, una sfiducia nelle forze dell'ordine considerate il male del Paese.

«In particolare dopo l'incidente di George Floyd, c'è stato un cambiamento drammatico», ha affermato Phil Keith, ex direttore dell'Office of Community Oriented Policing Services, noto come COPS Office, che è gestito dal Dipartimento di Giustizia.

 «Siamo stati maltrattati da molti media nazionali».

CI SONO GLI ABUSI, MA...

Sono stati diversi i gravi abusi di cui si sono macchiati alcuni poliziotti, certo.

Ma la copertura mediatica concentrata sulle violenze di singoli agenti ha portato a uno stravolgimento della realtà circa la percezione della polizia in generale.

 A Portland, Kristina Narayan, allora a capo dell'ufficio legislativo di Tina Kotek, presidente della Camera dell'Oregon e ora governatrice, è stata arrestata mentre partecipava a proteste contro la polizia durante le quali venivano lanciate bombe molotov contro i poliziotti, nel 2020.

Maria Haberfeld, presidente del Dipartimento di giurisprudenza e Amministrazione della giustizia penale presso il John Jay College of Criminal Justice, ha avvertito che il "clima anti-polizia" nel paese potrebbe arrecare danni permanenti alla professione.

Lo scorso anno, il dipartimento di polizia metropolitana di Washington DC ha registrato una diminuzione del 44% nel numero di domande per nuove reclute.

L'esodo ha colpito grandi e piccoli reparti: alcuni hanno prolungato i turni fino a 12 ore, altri hanno deciso che ci saranno alcune chiamate di emergenza che gli agenti, semplicemente, non prenderanno.

L'emorragia è talmente veloce che chi recluta non riesce a tenere il ritmo.

Seattle ha perso più di un quarto delle sue forze di polizia negli ultimi 2 anni e mezzo.

Ad Oakland il numero di ufficiali è sceso al di sotto del minimo legale della città.

 A San Francisco il dipartimento di polizia ha visto 50 agenti, su una pattuglia di meno di 2.000, chiedere trasferimento per dipartimenti più piccoli.

«Improvvisamente, tutti ci dicono come fare il nostro lavoro.

Stanno dicendo che siamo di parte, razzisti, vogliamo solo ferire le comunità nere e asiatiche», ha detto il tenente Tracy McCray, capo nero, del sindacato di polizia di San Francisco.

 Chicago ha perso più poliziotti di quanti ne abbia avuti in due decenni.

 New Orleans sta colmando la sua carenza di ufficiali con civili.

St. Louis, una delle città più pericolose d'America, ha perso così tanti poliziotti che il quartier generale della polizia è stato ribattezzato "Mount Exodus".

 A Minneapolis, dove è stato ucciso George Floyd, il consiglio comunale aveva pensato di azzerare i fondi per la polizia:

 hanno invertito la rotta appena i tassi di criminalità si sono fatti insostenibili.

 

 

 

Così la Germania di Scholz si accoda

a Volkswagen su” e-fuel” e “auto elettriche”

starmag.it – (20 Marzo 2023) – Carlo Terzano – ci dice:

Il secondo costruttore mondiale di automobili per volumi dopo i giapponesi di Toyota sta facendo sbandare la Germania nei suoi rapporti con l’Ue, ma la strategia Volkswagen è chiara: passare all’elettrico, tenendo anche i motori endotermici grazie agli e-fuel.

Brindano Italia, Repubblica Ceca e Polonia, i Paesi Ue contrari al bando delle endotermiche e all’Euro 7:

mai si sarebbero aspettati di portare Berlino dalla loro.

Invece la Germania, come abbiamo ricordato, ha iniziato a prestare attenzione ai desiderata di Volkswagen.

 Restano allibite invece le istituzioni europee, che certo non s’aspettavano una simile inversione a U dall’esecutivo di Olaf Scholz, che solo fino a poche settimane fa aveva aderito a entrambi i dossier.

La Germania è un Paese “pesante” sia per Pil, sia per rappresentanza all’interno dell’Europarlamento, essendo molto popoloso.

GERMANIA E VW SPOSTANO GLI EQUILIBRI IN COMMISSIONE.

E ha una dote naturale da leader, per questo la nuova presa di posizione sembra già aver indotto a più miti consigli anche un “falco ambientalista” come il vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans che, in Italia per un evento, a Repubblica ha dichiarato che “l’Europa lascia all’industria la scelta della tecnologia” con la quale raggiungere nel 2035 l’obbiettivo delle emissioni zero allo scarico delle auto.

“Non siamo noi che diciamo che cosa devono usare”, ha proseguito, “e questo non vuol dire che le altre auto (non elettriche, ndr) non ci saranno più:

 le vetture con il motore a combustione ci saranno ancora, ma le nuove macchine non potranno emettere CO2”.

 

Finora governo e legislatore comunitari erano andati nella direzione opposta, quella di scegliere, per legge, che la transizione energetica ed ecologica nell’ automotive avrebbe avuto necessariamente le fattezze dell’auto elettrica (nessuno Stato, del resto, si sta impegnando nella realizzazione di una rete di ricarica per le auto a idrogeno).

Ora però il numero 2 di Ursula von der Leyen apre:

“Non è una scelta che assumiamo noi, abbiamo indicato solo l’obiettivo, il resto dipende dalla imprese del settore e dalla filiera”.

Timmermans ha affermato di “preferire le macchine a batteria, elettriche o a idrogeno, ma se ci sono altre tecnologie tocca all’industria decidere, non a noi”.

VW FA LITIGARE FRANCIA E GERMANIA.

Non sono altrettanto malleabili, ma si sapeva, i francesi.

Il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, è ferale:

“Non possiamo dire che c’è un’emergenza climatica e poi ritirarci dalla transizione verso i veicoli elettrici”, quindi ha aggiunto:

“Siamo pronti a combattere perché è un errore ambientale ed economico”.

 “Dire che andremo verso l’elettrico – l’accusa che Parigi muove a Berlino -, ma rimarremo per un po’ con l’endotermico è economicamente incoerente e pericoloso per l’industria.

 Non è nel nostro interesse nazionale, non è nell’interesse delle case automobilistiche e non è nell’interesse del pianeta”.

A stretto giro è arrivata la replica dell’omologo tedesco, Christian Lindner:

“Le Maire sa benissimo che la mobilità in auto potrebbe diventare sempre più costosa per molte persone che lavorano duramente. Dobbiamo prendere sul serio queste preoccupazioni”.

 E poi l’affondo con toni se possibili ancora più duri di quelli usati da Parigi:

 “È molto deplorevole che il governo francese stia minacciando una resa dei conti nella disputa sul bando delle endotermiche”.

LE CONTRADDIZIONI DEL GOVERNO SCHOLZ VENGONO AL PETTINE.

In realtà la nuova e improvvisa presa di posizione della Germania sulla scia dei desiderata di VW (il Ceo ha dichiarato: “La nostra strategia è mantenere i motori a scoppio sul mercato, visto che in molte aree del mondo sono molto amati”) non piace nemmeno troppo in patria.

“Sueddeutsche Zeitung” non ha mancato di sottolineare come, dopo le prime critiche mosse verso il piano Ue, il ministero dei Trasporti tedesco non abbia fatto interventi in tal senso, disinteressandosi del dossier.

Salvo, poi, cambiare improvvisamente quando il divieto del 2035 era ormai pronto per essere approvato.

“Fdp”, il partito che spinge per contrastare il bando degli endotermici, sta soffrendo nei sondaggi:

 è finito sotto la soglia di sbarramento del 5% in vari parlamentini dei land in cui si è votato nel 2022 e trema per la sua sopravvivenza futura.

 Chiaro l’intento di risollevarsi agguantando i favori di industriali e lavoratori, considerato che la transizione energetica ne metterà fuori dai cancelli parecchi ed è il principale motivo per cui è avversata dai potenti sindacati metalmeccanici tedeschi, che in VW hanno causato la defenestrazione di Herbert Diess.

LE ULTIME MOSSE DI VW SULL’ELETTRICO.

Come scriveva “Startmag” la scorsa settimana, il cambio di linea di Volkswagen è stato determinato proprio dal passaggio di consegne tra Herbert Diess e Oliver Blume, quest’ultimo da sempre noto sostenitore degli e-fuel, tanto che Porsche, casa del Gruppo diretta proprio dal manager, finora ha investito oltre 94 milioni di euro nello sviluppo e nella produzione di e-fuel ed esattamente un anno fa, nell’aprile del ’22, ha anche sborsato circa 70 milioni di euro per acquisire il 12,5% della “HIF Global”.

Questo non significa però che VW abbia abbandonato l’elettrico.

Tutt’altro.

“PowerCo”, la società per le batterie del gruppo Volkswagen, ha ufficialmente avviato i lavori per la realizzazione della sua seconda gigafactory europea all’interno di un parco industriale a Sagunto, in Spagna, a 30 chilometri da Valencia.

 La fabbrica, per la quale saranno investiti oltre 3 miliardi di euro, inizierà a produrre celle nel 2026 e sosterrà più di 3 mila posti di lavoro diretti e, potenzialmente, fino a 30 mila nell’indotto.

Nemmeno un anno fa Volkswagen aveva annunciato di voler mettere sul piatto 10 miliardi (inizialmente la somma preventivata era di sette) per avviare la produzione di vetture a zero emissioni e la creazione delle relative batterie in Spagna.

 In quell’occasione, accompagnato da mezzo governo iberico, il numero 1 dell’epoca, Herbert Diess, aveva dichiarato:

“Elettrificheremo la Spagna con una nuova gigafactory e una nuova fabbrica dedicata alle auto elettriche.

 Creeremo un ecosistema di fornitori che lavori su tutta la catena del valore, dall’estrazione del litio all’assemblaggio delle batterie”.

Il piano tedesco prevede il coinvolgimento di Seat e, soprattutto, della più grande azienda energetica spagnola, Iberdrola, che ha stanziato 500 milioni di euro per la mobilità elettrica e che installerà un parco fotovoltaico che contribuirà ad alimentare la gigafactory che sorgerà a Sagunto, vicino a Valencia.

Sarebbe stato proprio l’intervento di Seat e Iberdrola, con ogni probabilità spinte in campo dal governo spagnolo, ad aver convinto i tedeschi a mettere sull’operazione 3 miliardi in più, col passaggio da sette a 10.

La gigafactory spagnola occuperà un’area di 130 ettari, che arrivano a 200 considerando anche l’adiacente parco fornitori.

PowerCo, che ha già avviato i lavori per realizzare la prima gigafactory a Salzgitter (Germania) e che dovrà realizzarne uno gemello pure Oltreoceano, a St.Thomas (Ontario) per il suo primo impianto nordamericano, ha fissato in 40 GWh la capacità produttiva iniziale del sito iberico, abbastanza per equipaggiare circa 800 mila vetture, ma potrebbe salire a 60 GWh in caso di aumento della domanda.

 

 

 

Clima, il report: "Serve azione

urgente, dimezzare emissioni al 2030."

Adnkronos.com – (20 marzo 2023) – Redazione – ci dice:

 

Pubblicato il “Rapporto di sintesi”, il capitolo conclusivo del Sesto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici (AR6) del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc).

"Le opzioni per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi ai cambiamenti climatici causati dall'uomo sono molteplici, fattibili ed efficaci e sono disponibili ora".

È quanto affermano gli scienziati nel “Rapporto di sintesi,” il capitolo conclusivo del “Sesto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici” (AR6) del” Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici” (Ipcc) pubblicato oggi.

"L'integrazione di un'azione climatica efficace ed equa non solo ridurrà le perdite e i danni per la natura e le persone, ma fornirà anche benefici più ampi - ha dichiarato il presidente dell'Ipcc Hoesung Lee.

 Questo “Rapporto di sintesi” sottolinea l'urgenza di intraprendere azioni più ambiziose e dimostra che, se agiamo ora, possiamo ancora garantire un futuro sostenibile e vivibile per tutti".

"Più di un secolo di utilizzo di combustibili fossili e di uso iniquo e non sostenibile dell'energia e del suolo ha portato a un riscaldamento globale di 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali - sottolineano gli esperti.

Da questa situazione sono scaturiti eventi meteorologici estremi più frequenti e più intensi che hanno causato impatti sempre più pericolosi sulla natura e sulle persone in ogni regione del mondo.

Ogni aumento del riscaldamento comporta una rapida escalation di questi fenomeni.

Ondate di calore più intense, precipitazioni più violente e altri fenomeni meteorologici estremi aumentano ulteriormente i rischi per la salute umana e gli ecosistemi.

In ogni regione, le persone muoiono a causa di estremi di calore.

 L'insicurezza alimentare e idrica legata al clima è destinata ad aumentare con l'aumento del riscaldamento.

Quando i rischi si combinano con altri eventi avversi, come pandemie o conflitti, diventano ancora più difficili da gestire".

Il rapporto, approvato durante una sessione durata una settimana a Interlaken, fornisce un focus sul tema delle perdite e dei danni.

"La giustizia climatica è fondamentale perché coloro che hanno contribuito meno al cambiamento climatico sono colpiti in modo sproporzionato - ha sottolineato Aditi Mukherji, uno dei 93 autori di questo Rapporto di sintesi - Quasi la metà della popolazione mondiale vive in regioni altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici.

 Nell'ultimo decennio, i decessi per inondazioni, siccità e tempeste sono stati 15 volte superiori nelle regioni altamente vulnerabili", ha aggiunto.

In questo decennio, un'azione accelerata di adattamento ai cambiamenti climatici, rileva il report, è essenziale per colmare il divario tra l'adattamento esistente e quello necessario.

Nel frattempo, per contenere il riscaldamento entro 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali, "è necessario - sottolineano gli studiosi - ridurre le emissioni di gas serra in tutti i settori in modo profondo, rapido e significativo.

Le emissioni dovrebbero già diminuire e dovranno essere ridotte di quasi la metà entro il 2030, se si vuole limitare il riscaldamento a 1,5°C".

 La soluzione sta "in uno sviluppo resiliente al clima.

Ciò comporta l'integrazione di misure di adattamento ai cambiamenti climatici con azioni volte a ridurre o evitare le emissioni di gas serra, in modo da fornire benefici più ampi.

Ad esempio, l'accesso all'energia e alle tecnologie pulite migliora la salute, soprattutto di donne e bambini;

l'elettrificazione a basse emissioni di carbonio, gli spostamenti a piedi e in bicicletta e i trasporti pubblici migliorano la qualità dell'aria, la salute e le opportunità di lavoro e garantiscono l'equità.

I benefici economici per la salute delle persone derivanti dal solo miglioramento della qualità dell'aria sarebbero all'incirca uguali, o forse addirittura superiori, ai costi per ridurre o evitare le emissioni".

 

"I maggiori guadagni in termini di benessere potrebbero derivare dalla priorità di ridurre i rischi climatici per le comunità a basso reddito ed emarginate, comprese le persone che vivono negli insediamenti informali - ha dichiarato Christopher Trisos, uno degli autori del rapporto.

L'accelerazione dell'azione per il clima sarà possibile solo se i finanziamenti aumenteranno in modo considerevole.

Finanziamenti insufficienti e disallineati frenano i progressi".

A questo proposito gli esperti osservano che "il capitale globale è sufficiente per ridurre rapidamente le emissioni di gas serra se si riducono le barriere esistenti. Aumentare i finanziamenti agli investimenti per il clima è importante per raggiungere gli obiettivi climatici globali.

 I governi, attraverso finanziamenti pubblici e segnali chiari agli investitori, sono fondamentali per ridurre queste barriere.

Anche gli investitori, le banche centrali e le autorità di regolamentazione finanziaria possono fare la loro parte".

"Clima, ecosistemi e società sono interconnessi.

Una conservazione efficace ed equa di circa il 30-50% del suolo terrestre, delle acque dolci e dell’oceano Terra contribuirà a garantire un pianeta sano", rimarcano gli esperti nel report.

 

 

 

Come Blackrock Investment Fund

ha innescato la crisi energetica globale.

Globalresearch.ca - William Engdahl – (07 marzo 2023) – ci dice:

"Adesione all'Agenda di sostenibilità 2030 delle Nazioni Unite". Colossale disinvestimento nel settore globale del petrolio e del gas da trilioni di dollari.

La maggior parte delle persone è sconcertata da quella che è una crisi energetica globale, con i prezzi del petrolio, del gas e del carbone che contemporaneamente salgono alle stelle e costringono persino alla chiusura di importanti impianti industriali come prodotti chimici o alluminio o acciaio.

 L'amministrazione Biden e l'UE ha insistito sul fatto che tutto è dovuto alle azioni militari di Putin e della Russia in Ucraina.

 Non è così.

 La crisi energetica è una strategia pianificata da tempo dai circoli aziendali e politici occidentali per smantellare le economie industriali in nome di un'agenda verde distopica.

Ciò ha le sue radici nel periodo ben prima del febbraio 2022, quando la Russia ha lanciato la sua azione militare in Ucraina.

Blackrock spinge i criteri ESG.

Nel gennaio 2020, alla vigilia dei devastanti blocchi covid economicamente e socialmente, il CEO del più grande fondo di investimento del mondo, Larry Fink di Blackrock, ha pubblicato una lettera ai colleghi di WALL Street e ai CEO aziendali sul futuro dei flussi di investimento.

Nel documento, modestamente intitolato "A Fundamental Reshaping of Finance", Fink, che gestisce il più grande fondo di investimento del mondo con circa 7 trilioni di dollari allora in gestione, ha annunciato una partenza radicale per gli investimenti aziendali.

Il denaro "diventerebbe verde".

Nella sua lettera del 2020 che ha seguito Fink ha dichiarato:

"Nel prossimo futuro – e prima di quanto molti si aspettino – ci sarà una significativa riallocazione del capitale ... Il rischio climatico è un rischio di investimento".

Inoltre, ha affermato: "Ogni governo, azienda e azionista deve affrontare il cambiamento climatico".

In una lettera separata ai clienti investitori di Blackrock, Fink ha consegnato la nuova agenda per gli investimenti di capitale.

 Ha dichiarato che Blackrock uscirà da alcuni investimenti ad alto contenuto di carbonio come il carbone, la più grande fonte di elettricità per gli Stati Uniti e molti altri paesi.

Ha aggiunto che Blackrock esaminerà nuovi investimenti in petrolio, gas e carbone per determinare la loro adesione alla "sostenibilità" dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Fink ha chiarito che il più grande fondo del mondo avrebbe iniziato a disinvestire in petrolio, gas e carbone.

"Nel corso del tempo", ha scritto Fink, "le aziende e i governi che non rispondono agli stakeholder e affrontano i rischi per la sostenibilità incontreranno un crescente scetticismo da parte dei mercati e, a sua volta, un costo del capitale più elevato".

Ha aggiunto che "il cambiamento climatico è diventato un fattore determinante nelle prospettive a lungo termine delle aziende ... Siamo sull'orlo di un rimodellamento fondamentale della finanza".

Da quel momento in poi il cosiddetto investimento ESG, penalizzando le società che emettono CO2 come ExxonMobil, è diventato tutto di moda tra gli hedge fund e le banche di WALL Street e i fondi di investimento tra cui “State Street” e “Vanguard”.

Tale è il potere di Blackrock.

Fink è stato anche in grado di ottenere quattro nuovi membri del consiglio di amministrazione di “ExxonMobil” impegnati a porre fine al business petrolifero e del gas della società.

Segui i "soldi veri" dietro la "nuova agenda verde."

La lettera di Fink del gennaio 2020 è stata una dichiarazione di guerra da parte della grande finanza contro l'industria energetica convenzionale.

 BlackRock è stato membro fondatore della “Task Force on Climate-related Financial Disclosures “(TCFD) ed è firmatario dei PRI delle Nazioni Unite – “Principles for Responsible Investing”, una rete di investitori sostenuta dalle Nazioni Unite che spingono gli investimenti a zero emissioni di carbonio utilizzando i criteri ESG altamente corrotti – fattori ambientali, sociali e di governance nelle decisioni di investimento.

Non esiste un controllo oggettivo sui dati falsi per i criteri ESG di un'azienda.

 Anche Blackrock ha firmato la dichiarazione del Vaticano del 2019 sostenendo i regimi di prezzo del carbonio.

BlackRock nel 2020 ha anche aderito a “Climate Action 100”, una coalizione di quasi 400 gestori di investimenti che gestiscono 40 trilioni di dollari.

Con quella fatidica lettera del CEO del gennaio 2020, Larry Fink ha messo in moto un colossale disinvestimento nel settore globale del petrolio e del gas da trilioni di dollari.

 In particolare, nello stesso anno Fink di BlackRock è stato nominato nel Consiglio di fondazione del distopico World Economic Forum di Klaus Schwab, il nesso aziendale e politico dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite a zero emissioni di carbonio.

Nel giugno 2019, il “World Economic Forum” e le “Nazioni Unite” hanno firmato un quadro di partenariato strategico per accelerare l'attuazione dell'Agenda 2030.

 Il WEF ha una piattaforma di intelligence strategica che include i 2030 obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 17.

Nella sua lettera del CEO del 2021, Fink ha raddoppiato l'attacco a petrolio, gas e carbone.

"Dato quanto sarà centrale la transizione energetica per le prospettive di crescita di ogni azienda, stiamo chiedendo alle aziende di rivelare un piano su come il loro modello di business sarà compatibile con un'economia a zero emissioni nette", ha scritto Fink.

 Un altro funzionario di BlackRock ha detto in una recente conferenza sull'energia, "dove andrà BlackRock, altri seguiranno".

In soli due anni, entro il 2022 circa 1 trilione di dollari sarà uscito dagli investimenti nell'esplorazione e nello sviluppo di petrolio e gas a livello globale.

L'estrazione del petrolio è un'attività costosa e il taglio degli investimenti esterni da parte di BlackRock e di altri investitori di WALL Street significa la lenta morte del settore.

Biden: un presidente BlackRock?

All'inizio della sua allora poco brillante candidatura presidenziale, Biden ha avuto un incontro a porte chiuse alla fine del 2019 con Fink che, secondo quanto riferito, ha detto al candidato che "sono qui per aiutare".

 Dopo il suo fatidico incontro con Fink di BlackRock, il candidato Biden ha annunciato: "Ci libereremo dei combustibili fossili ..."

Nel dicembre 2020, ancor prima che Biden fosse insediato nel gennaio 2021, ha nominato il responsabile globale degli investimenti sostenibili di BlackRock, Brian Deese, come assistente del presidente e direttore del Consiglio economico nazionale.

Qui, Deese, che ha svolto un ruolo chiave per Obama nella stesura dell'accordo sul clima di Parigi nel 2015, ha silenziosamente plasmato la guerra di Biden all'energia.

Questo è stato catastrofico per l'industria petrolifera e del gas. L'uomo di Fink, Deese, è stato attivo nel fornire al nuovo presidente Biden un elenco di misure anti-petrolio da firmare per ordine esecutivo a partire dal primo giorno nel gennaio 2021.

Ciò includeva la chiusura dell'enorme oleodotto Keystone XL che avrebbe portato 830.000 barili al giorno dal Canada fino alle raffinerie del Texas e l'interruzione di qualsiasi nuovo contratto di locazione nell'Arctic National Wildlife Refuge (ANWR).

Biden ha anche riaderito all'accordo sul clima di Parigi che Deese aveva negoziato per Obama nel 2015 e Trump ha annullato.

Lo stesso giorno, Biden ha messo in moto un cambiamento del cosiddetto "costo sociale del carbonio" che impone un punitivo $ 51 a tonnellata di CO2 all'industria petrolifera e del gas.

 Questa mossa, stabilita sotto l'autorità puramente esecutiva senza il consenso del Congresso, sta causando un costo devastante agli investimenti in petrolio e gas negli Stati Uniti, un paese che solo due anni prima era il più grande produttore di petrolio del mondo.

 

Capacità di raffinazione di uccisione.

Ancora peggio, le aggressive regole ambientali di Biden e i mandati di investimento ESG di BlackRock stanno uccidendo la capacità di raffinazione degli Stati Uniti.

Senza raffinerie non importa quanti barili di petrolio prendi dalla Strategic Petroleum Reserve.

Nei primi due anni della presidenza Biden gli Stati Uniti hanno chiuso circa 1 milione di barili al giorno di capacità di raffinazione di benzina e diesel, alcuni a causa del crollo della domanda di covid, il declino più rapido nella storia degli Stati Uniti.

Gli arresti sono permanenti.

 Nel 2023 si chiuderà un ulteriore 1,7 milioni di barili al giorno di capacità a seguito del disinvestimento ESG di BlackRock e Wall Street e delle normative Biden.

Citando il pesante disinvestimento di WALL Street nel petrolio e le politiche anti-petrolio di Biden, il CEO di Chevron nel giugno 2022 ha dichiarato di non credere che gli Stati Uniti costruiranno mai un'altra nuova raffineria.

Larry Fink, membro del consiglio di amministrazione del World Economic Forum di Klaus Schwab, è affiancato dall'UE il cui presidente della Commissione europea, la notoriamente corrotta Ursula von der Leyen ha lasciato il consiglio del WEF nel 2019 per diventare capo della Commissione europea.

Il suo primo atto importante a Bruxelles è stato quello di far passare l'agenda UE “Zero Carbon Fit for 55”.

Ciò ha imposto importanti tasse sul carbonio e altri vincoli su petrolio, gas e carbone nell'UE ben prima delle azioni russe del febbraio 2022 in Ucraina.

L'impatto combinato dell'agenda ESG fraudolenta di Fink nell'amministrazione Biden e della follia Zero Carbon dell'UE sta creando la peggiore crisi energetica e inflazionistica della storia.

(F. William Engdahl è consulente strategico e docente, ha conseguito una laurea in politica presso l'Università di Princeton ed è un autore di best-seller su petrolio e geopolitica.

È Research Associate del Centre for Research on Globalization.)

 

 

 

 

Dall'egemonia al multipolarismo:

come la politica estera degli Stati Uniti

nei confronti della Russia dopo

la Guerra Fredda sta creando un'Eurasia moderna

Analisi geopolitica e storica.

Globalresearch.ca – (22 marzo 2023) - Adeyinka Makinde – ci dice:

Preambolo

L'attuale conflitto tra Russia e Ucraina è probabilmente il culmine della politica estera perseguita dagli Stati Uniti d'America dalla fine della loro guerra fredda ideologica con l'Unione Sovietica.

Sostenute da una risoluta fede nell'"eccezionalismo americano" e guidate da ideologi neoconservatori che lavorano di concerto con gli interessi dell'industria militare, le amministrazioni successive hanno intrapreso una forma di guerra ibrida contro la Federazione Russa, lo stato successore dell'Unione Sovietica smantellata.

Ciò comprende dimensioni militari, economiche e informative.

Tuttavia, questa strategia non ha portato all'auspicato indebolimento della Russia e alla cessione della sua sovranità;

l'obiettivo è quello di ridurre lo stato russo a uno dedicato esclusivamente al servizio del fabbisogno energetico dell'Occidente.

Invece, la politica, incapsulata in quella che viene definita la "Dottrina Wolfowitz", la risoluzione post-Guerra Fredda che a nessuna potenza sia permesso di sorgere ed essere in grado di competere economicamente e militarmente con gli Stati Uniti, ha progettato un'alleanza di fatto tra la Russia ricca di risorse e la crescente potenza economica globale della Cina.

L'alleanza Russia-Cina rappresenta l'inaugurazione di un nuovo mondo eurasiatico, proprio ciò che decenni di politica globale occidentale modellata dalla tesi geostrategica di” Halford Mackinder” hanno cercato di evitare.

Pertanto, la politica degli Stati Uniti nei confronti della Russia non ha consolidato il mondo unipolare in cui si è trovata dopo la caduta dell'Unione Sovietica, ma ha di fatto accelerato la diminuzione del suo potere e della sua influenza, assicurando così la trasformazione dell'ordine globale in uno di multipolarità.

Lo sfondo: "La fine della storia."

Qualsiasi documentazione e analisi adeguate del conflitto tra Russia e Ucraina, così come la spaccatura in corso tra Russia e Cina da un lato, e il mondo occidentale dall'altro, deve iniziare con il periodo che copre la fine della guerra fredda ideologica tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Il crollo dell'Unione Sovietica, che arrivò con la dichiarazione di indipendenza da parte di alcune delle sue repubbliche sovietiche costituenti come l'Ucraina, la Georgia e gli Stati baltici, così come la de-sovietizzazione dell'Europa orientale, era destinato a creare un nuovo ordine globale.

 Molto dipenderebbe dagli Stati Uniti, l'unica potenza mondiale rimasta, su come questo nuovo stato di cose avrebbe preso forma.

Aveva come opzione il ricorso ai suoi precetti fondamentali come repubblica che metteva in guardia contro alleanze intrecciate per perseguire un corso di isolazionismo.

L'estinzione dell'Unione Sovietica e, prima ancora, la dissoluzione del Patto di Varsavia, hanno aperto la possibilità che l'”Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico “(NATO) guidata dagli Stati Uniti sarebbe stata sciolta e una nuova architettura di sicurezza sviluppata nel continente europeo, compresa la Russia.

 Questa nuova e innovativa struttura paneuropea avrebbe potuto svilupparsi al di fuori del quadro dell'”Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa” (OSCE) e includere una dimensione economica incentrata su misure volte a integrare l'economia tedesca con quella russa; uno sviluppo dell'Ostpolitik.

Questo non è accaduto.

Descrivendo lo sviluppo come "il momento unipolare", Charles Krauthammer sostenne la necessità di Stati Uniti "serenamente dominanti" che non si ritirassero nel loro emisfero e agissero come un bastione di potere in un mondo multipolare.

 Per alcuni come Francis Fukuyama, uno scienziato politico, la caduta dell'Unione Sovietica rappresentò la "fine della storia".

 Secondo Fukuyama, la storia è stata caratterizzata come una lotta tra ideologie e la democrazia liberale ha trionfato su tutte le altre.

 Le sue opinioni sono state prontamente adottate da coloro che si identificavano con la scuola di pensiero neoconservatrice.

Questi discendenti intellettuali dell'idealismo wilsoniano e ferventi credenti nell'eccezionalismo americano erano già stati deposti per essere promotori della democrazia.

Così, all'indomani della vittoria del liberalismo e del capitalismo di libero mercato sul marxismo, gli Stati Uniti, sostenevano, avrebbero dovuto procedere a plasmare il mondo a sua immagine.

Questa linea di pensiero si rifletté nella teorizzazione e nell'applicazione della politica estera degli Stati Uniti.

 L'idea che l'America debba operare come unico egemone globale si riflette nella cosiddetta "dottrina Wolfowitz";

prende il nome da Paul Wolfowitz, gli Stati Uniti Sottosegretario alla Difesa per la politica durante l'amministrazione guidata dal presidente George H. Bush.

L'obiettivo generale della “Defense Planning Guidance” per gli anni fiscali 1994-99, pubblicata nel febbraio 1992 da Wolfowitz e Scooter Libby per il consumo interno, era che gli Stati Uniti avrebbero usato il vuoto causato dalla disgregazione dell'Unione Sovietica come un'opportunità per impedire l'ascesa di qualsiasi nazione che tentasse di assumere il mantello di un concorrente globale.

Nel cercare di raggiungere questo obiettivo, negava esplicitamente di essere vincolato da accordi multilaterali e prevedeva di distruggere con l'azione militare o l'applicazione di pressioni economiche qualsiasi nazione che operasse in modo contrario agli interessi politici ed economici dichiarati dell'America.

L'influenza dei seguaci dell'ideologia neoconservatrice, così come di coloro che promuovono gli interessi degli appaltatori militari, ha avuto un ruolo importante nell'azione militare americana, sia palese che segreta nelle invasioni dell'Afghanistan nel 2001 e dell'Iraq nel 2003, nella distruzione della Libia da parte della NATO nel 2011 e nel tentativo segreto di rovesciare il governo baathista della Siria che è iniziato anche nel 2011.

 I neoconservatori sono stati anche all'avanguardia nel chiedere agli Stati Uniti di attaccare l'Iran.

Era agli ideologi neoconservatori che si riferiva “Wesley Clarke”, un generale dell'esercito americano a 4 stelle in pensione e comandante supremo della NATO, quando nel 2008 parlò di un "colpo di stato politico" subito dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001, in cui un gruppo di "persone dal naso duro prese il controllo della politica negli Stati Uniti".

 Clarke parlò di una visita che fece al Pentagono mentre erano in corso i preparativi per l'"azione di polizia" che sarebbe stata intrapresa in Afghanistan.

Un ex collega gli aveva mostrato un documento classificato che stabiliva un piano per attaccare e distruggere "sette paesi in cinque anni".

 Includevano Iraq, Libia, Siria e, come Clarke avrebbe dichiarato, il programma era programmato per "iniziare con l'Iraq e finire con l'Iran".

La logica per montare attacchi contro i suddetti paesi non era immediatamente decifrabile dato che gli autori ufficiali degli attacchi dell'9/11 erano estremisti dell'Islam sunnita, mentre Iraq, Libia e Siria erano gestiti da governi nazionalisti laici e l'Iran è una nazione prevalentemente sciita.

Ma i seguaci neoconservatori sono sostenitori istintivi dello Stato di Israele e ogni paese era ostile a Israele.

All'inizio degli anni 1990 il” Project for the New American Century “(PNAC), un importante think tank neoconservatore guidato da Robert Kagan e William Kristol, aveva specificamente sottoscritto l'idea che gli Stati Uniti modellassero il quadro globale a loro vantaggio rafforzando le loro spese militari e posizionandosi per "sfidare" risolutamente i regimi ostili ai loro "interessi e valori". I paesi presenti nella lista degli stati ostili erano Iraq, Siria e Iran.

Non sorprende che quegli stati che sono abbastanza potenti da sfidare gli Stati Uniti militarmente o economicamente siano nel mirino dei neoconservatori.

 Nel 2006, Kagan ha identificato la Russia e la Cina come la più grande "sfida che il liberalismo deve affrontare oggi".

Vale la pena notare che Kagan è il marito di Victoria Nuland, il funzionario del Dipartimento di Stato americano che è stato strettamente associato all'uso americano dell'Ucraina come procuratore anti-russo e la famiglia Kagan è al timone dell'”Institute of War”, uno dei tanti think tank neoconservatori ben finanziati che si riuniscono intorno a Washington DC.

L'approccio intransigente e bellicoso della mentalità neoconservatrice è catturato nella tesi di Robert Kagan secondo cui "gli americani vengono da Marte e l'Europa viene da Venere", che ha postulato nel suo libro “Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order”, pubblicato nel 2003.

 Lì Kagan vedeva polemicamente gli europei come favorevoli a risoluzioni pacifiche in contrasto con la propensione americana a ricorrere alla violenza.

È anche importante notare che mentre Wesley Clark affermava che la politica estera americana era stata "dirottata" e che non c'era stato alcun dibattito pubblico sul "colpo di stato politico", Jeffrey Sachs, un eminente economista e accademico americano, considera il conflitto in Ucraina come l'ultimo di una serie di disastri di politica estera di ispirazione neoconservatrice.

Ma è anche chiaro che forze diverse dagli ideologi neoconservatori che sono stati ben rappresentati nelle amministrazioni successive non sono le sole a perpetuare il ciclo americano di guerre senza fine.

L'industria militare e l'istituzione dello "Stato profondo"(deep state) che l'accompagna è un aspetto responsabile ma irresponsabile di questo continuum del militarismo, nonostante i cambiamenti di amministrazione.

 Nel 2014 Michael J. Glennon, professore di diritto internazionale alla Tufts University, ha offerto alcune spiegazioni in un lungo articolo di giornale trasformato in libro intitolato "Sicurezza nazionale e doppio governo".

Prendendo in prestito gli scritti del costituzionalista inglese del 19 ° secolo Walter Bagehot su un governo nascosto, Glennon ha postulato che la traiettoria inflessibile della politica estera degli Stati Uniti provenisse da un'istituzione evoluta potente ma non riconosciuta che ha designato come "Trumanite".

Le “istituzioni Trumanite” sono composte da ex militari, funzionari della sicurezza e altri interessi acquisiti associati all'industria militare e ai servizi di intelligence che secondo lui gestiscono politiche di sicurezza nazionale a spese delle istituzioni "madisoniane";

cioè, gli organi separati dello stato che funzionano per controllare costituzionalmente il potere reciproco e che sono responsabili nei confronti dell'elettorato.

Sarebbe negligente non aggiungere l'influenza di Zbigniew Brzezinski, un tempo consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, sulla condotta delle relazioni estere americane.

Sebbene non facesse parte del movimento neoconservatore, sosteneva l'opinione che a nessuna potenza dovrebbe essere permesso di sollevarsi e sfidare la supremazia americana sul globo.

Una parte importante della sua attenzione era sulla Russia.

Nel suo libro”The Grand Chessboard” Brzezinski ha esposto le sue opinioni su come la Russia dovrebbe essere militarmente intimidita ed economicamente indebolita per raggiungere l'obiettivo di spezzarla come nazione o altrimenti ridurla a uno stato di vassallaggio, con il suo ruolo limitato a quello di soddisfare il fabbisogno energetico dell'Occidente.

Le pressioni esercitate dalle successive amministrazioni statunitensi sulla Russia sono state su tre fronti: militari, economiche e informative.

Come ha sostenuto il defunto professor Stephen Cohen, la pressione occidentale è stata dimostrabilmente proattiva e le azioni della Russia in gran parte reattive.

Queste pressioni sono informate dalla politica che è germogliata nell'ambiente post-Guerra Fredda e applicata da molti attori politici imbevuti della mentalità neoconservatrice che sono sostenuti dalle istituzioni "Trumanite", incluso il fiorente” Complesso Industriale Militare” di cui il presidente Dwight D. Eisenhower ha avvertito il popolo americano nel suo discorso di addio del gennaio 1961.

È solo tenendo presente tutto questo che le tensioni tra gli Stati Uniti da un lato, e la Russia e la Cina dall'altro, possono essere comprese correttamente.

La dimensione militare: "Non un pollice verso est."

La prima linea di pressione militare che è stata applicata contro la Russia è quella che si trova al centro del conflitto Russia-Ucraina.

Questa è stata la decisione di espandere la NATO ai confini della Russia.

Quando l'espansione è stata propagandata per la prima volta dall'amministrazione del presidente Bill Clinton nel 1990, ha sollevato proteste dal governo filo-occidentale del presidente Boris Eltsin.

Il successore di Eltsin, il presidente Vladimir Putin, il cui governo assunse una posizione più nazionalista di quella di Eltsin, chiarì dopo l'incorporazione degli Stati baltici, della Polonia e di altri che un'ulteriore espansione in Ucraina e Georgia avrebbe costituito una "linea rossa".

 

I russi hanno contestato l'allargamento della NATO come una minaccia esistenziale non solo per il loro paese, ma anche come un'abrogazione di un accordo raggiunto dai leader degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica alla fine della Guerra Fredda.

La sostanza di questo accordo non codificato era che in cambio del permesso alla riunificazione della Germania, che sarebbe diventata automaticamente un membro dell'Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti assicurarono al leader sovietico “Mikhail Gorbachev” che la NATO non si sarebbe espansa "di un centimetro" verso est.

 C'è un'ampia scia di prove sotto forma di documenti e storie orali che confermano che è stato raggiunto un consenso.

Inoltre, ai detrattori che sostengono che l'assenza di un trattato formale rappresenta un effetto delegittimante, vale la pena sottolineare che esisteva un precedente per un accordo analogo tra le due superpotenze.

Questo era l'accordo segreto raggiunto dopo la crisi dei missili cubani in base al quale gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a non invadere Cuba in cambio della promessa dei sovietici di astenersi dal fornire armi del tipo che avrebbe potuto mettere in pericolo gli Stati Uniti.

Il protocollo segreto che accompagnava il ritiro dei missili sovietici da Cuba comportava anche il ritiro dei missili balistici statunitensi Jupiter dalla Turchia.

La minaccia dell'espansione della NATO e le sue conseguenze sono state affrontate nientemeno che da George F. Kennan, l'architetto della politica di contenimento sovietico della Guerra Fredda.

 In un articolo di opinione intitolato "A Fateful Error" pubblicato sul New York Times il 5 febbraio 1997, Kennan descrisse il piano per l'allargamento come "l'errore più fatale della politica americana in tutta l'era post-Guerra Fredda".

 Turbato e perplesso da un tentativo certo di trasformare la Russia da partner a nemico, scrisse: "Perché, con tutte le possibilità promettenti generate dalla fine della Guerra Fredda, le relazioni Est-Ovest dovrebbero concentrarsi sulla questione di chi sarebbe stato alleato con chi e, implicitamente, contro chi in qualche fantasioso, totalmente imprevedibile e improbabile futuro conflitto militare?"

Kennan non era solo.

Testimoniando davanti a un'audizione al Senato nel 1997, Jack Matlock, ex ambasciatore degli Stati Uniti presso l'URSS, ha dichiarato quanto segue:

"Considero la raccomandazione dell'amministrazione di portare nuovi membri nella NATO in questo momento fuorviante.

 Se dovesse essere approvato dal Senato degli Stati Uniti, potrebbe passare alla storia come il più profondo errore strategico commesso dalla fine della Guerra Fredda.

Un'altra osservazione degna di nota fatta nello stesso anno venne da un importante senatore statunitense del Partito Democratico di nome Joe Biden che predisse che l'espansione della NATO negli Stati baltici avrebbe suscitato una risposta "vigorosa e ostile" dalla Russia.

E se la risposta del governo Eltsin, sebbene negativa, non era comunque all'altezza della minaccia di una risposta militare, un decennio dopo Vladimir Putin informò senza mezzi termini i presenti alla Conferenza di Monaco del 2007 che le dichiarazioni fatte dai membri dell'amministrazione guidata da George W. Bush che chiedevano la cooptazione della Georgia e dell'Ucraina nella NATO erano la goccia che faceva traboccare il vaso e che la loro inclusione nell'Alleanza Atlantica sarebbe stata una "linea rossa".

Tale politica ha suonato un campanello d'allarme con Willian J. Burns, allora ambasciatore degli Stati Uniti in Russia che in un memorandum classificato datato 1° febbraio 2008 e intitolato "Nyet significa Nyet: le linee rosse dell'allargamento della NATO" ha consigliato che

"Le aspirazioni NATO dell'Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, ma generano serie preoccupazioni sulle conseguenze per la stabilità nella regione". Ha aggiunto:

"Non solo la Russia percepisce l'accerchiamento e gli sforzi per minare l'influenza della Russia nella regione, ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che colpirebbero seriamente gli interessi di sicurezza russi".

La minacciata espansione attraverso la Georgia e l'Ucraina ha portato a un palese intervento militare russo rispettivamente nel 2008 e nel 2022.

Entrambi toccano un nervo scoperto La Georgia, il luogo di nascita di Josef Stalin, è come l'Ucraina confinante con la Russia sulla terra e sul Mar Nero.

L'Ucraina, che è storicamente, etnicamente e linguisticamente affine alla Russia, presenta dal punto di vista occidentale una minaccia particolarmente grave alla sua sicurezza perché la sua massa terrestre si estende "dentro" la Russia in modo tale che i suoi confini più lontani sono solo 450 miglia da Mosca.

Le implicazioni del posizionamento da parte della NATO di missili nucleari che potrebbero raggiungere la capitale russa in pochi minuti sono ovvie.

Quindi usare l'Ucraina come leva in una competizione geopolitica con la Russia è stato un aspetto significativo della dottrina neoconservatrice nel fare pressione sulla Russia.

La dottrina sposata da Zbigniew Brzezinski posiziona anche l'Ucraina come una parte vitale nell'affrontare e neutralizzare la Russia.

Credeva che la Russia non potesse essere una potenza senza l'Ucraina.

Un secondo modo in cui gli Stati Uniti hanno cercato di fare pressione sulla Russia è stato lo smantellamento dei trattati di regolamentazione delle armi nucleari che sono stati faticosamente costruiti durante la Guerra Fredda.

Catastrofe globale evitata dopo la crisi dei missili cubani dell'ottobre 1962, entrambe le superpotenze evitarono le loro gravi divisioni imbarcandosi in incontri che cercavano di allentare le tensioni.

Nel 1963, firmarono il Trattato per la messa al bando limitato dei test nucleari.

Altri sarebbero arrivati nel decennio successivo.

Il presidente Richard Nixon firmò il Trattato sui missili antibalistici (ABM), come parte del Trattato per la limitazione delle armi strategiche (SALT) nel 1972, e nel 1979 il presidente Jimmy Carter firmò il trattato SALT II.

 Sebbene non ratificato dal Congresso a causa dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, gli Stati Uniti rispettarono comunque i suoi termini fino alla sua scadenza.

Il successivo importante accordo fu l'Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (INF) del 1987 firmato dal presidente Ronald Reagan poco prima della fine della Guerra Fredda.

 Il Trattato Open Skies (OST), che ha avuto origine dai negoziati tra i membri della NATO e il Patto di Varsavia, è stato firmato nel 1992 anche se non è diventato effettivo fino al 1 ° gennaio, 1992.

Poi è arrivato il cambiamento di politica che ha coinciso con l'aumento dell'influenza delle figure neoconservatrici nelle amministrazioni successive, nonché il radicamento degli interessi acquisiti dello Stato di sicurezza nazionale.

In primo luogo, gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato anti-missili balistici (ABM) nel 2002 sotto l'amministrazione guidata dal presidente George W. Bush.

Bush ha anche adottato una politica di scudi missilistici.

 Poi, sotto il presidente Barack Obama, il primo dei missili anti-balistici ha iniziato a essere schierato in paesi vicini al confine russo.

 È stato sotto la sorveglianza del presidente Donald Trump nel 2019 che gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato INF, e prima della fine della sua amministrazione di un solo mandato, anche l'America ha lasciato il Trattato Open Skies.

L'accerchiamento della Russia con scudi missilistici dall'Europa orientale fino all'Asia e all'Alaska, insieme al posizionamento esistente di armi balistiche nucleari, è servito solo a provocare la Russia e ad aumentare le tensioni.

La provocazione militare contro la Russia si è verificata in una terza via che non è estranea alla minaccia incombente alla Russia dell'espansione della NATO.

 Questo è venuto dall'armare sia la Georgia che l'Ucraina.

Nel caso della Georgia, l'allora presidente Mikhail Saakashvili, incoraggiato dalle promesse fatte da personaggi del calibro del defunto senatore John McCain che le sarebbe stato permesso di aderire alla NATO, decise di attaccare la vicina Ossezia del Sud.

 Ciò che seguì fu una guerra in cui la Russia alleata con i separatisti osseti e abkhazi combatté l'esercito georgiano.

 Dopo un'occupazione di due mesi di vaste aree del territorio georgiano, le forze armate russe si ritirarono.

In Ucraina, dove una battaglia per l'influenza tra Stati Uniti e Russia era sopravvissuta per un tempo considerevole, il rovesciamento del presidente Viktor Yanukovich,2014 considerato "pro-Mosca" dall'Occidente, ha portato al potere un regime russofobo a Kiev che ha provocato un conflitto civile tra il governo centrale e gli oblast di lingua russa della regione del Donbas dell'Ucraina orientale.

Ancora una volta provocherebbe una risposta russa, prima attraverso la fornitura di sostegno segreto alle milizie separatiste del Donbass a Donetsk e Luhansk, che è stata seguita otto anni dopo da quella che i russi hanno definito un'operazione militare speciale.

Il pensiero dietro le politiche di espansione della NATO e il disconoscimento dei trattati nucleari è quello di costringere la Russia a una corsa agli armamenti con l'obiettivo di mettere a dura prova l'economia russa.

E la guerra in Ucraina in cui gli Stati Uniti e l'UE hanno sostenuto il governo di Kiev è orientata a "dissanguare la Russia" .

La dimensione economica: "Nord Stream deve finire".

Le pressioni economiche, compresa la vera e propria guerra economica con lo strumento punitivo delle sanzioni, rappresentano un'altra dimensione attraverso la quale l'Occidente guidato dagli Stati Uniti ha cercato di indebolire la Russia post-sovietica.

 Il defunto professor Stephen Cohen ha riassunto il modello generale delle relazioni tra entrambi come una condotta proattiva da parte degli Stati Uniti con la Russia che è in gran parte reattiva.

 Ciò ha significato che le reazioni russe alle provocazioni occidentali come il colpo di stato Maidan sponsorizzato dagli Stati Uniti a Kiev nel febbraio 2014 hanno dato all'Occidente l'opportunità di rispondere imponendo sanzioni.

 Nel caso del colpo di stato di Maidan, la risposta russa di proteggere la sua flotta del Mar Nero a Sebastopoli è consistita nell'avviare un referendum in Crimea per fornire la base della sua annessione nel marzo 2014.

Le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, dal Canada e dall'Unione europea (UE) nel luglio 2014, che sono state rafforzate nel settembre dello stesso anno, avevano tre obiettivi.

Uno era quello di limitare l'accesso russo ai mercati finanziari occidentali.

Un altro era quello di imporre un embargo sull'esportazione di tecnologia e il terzo era quello di impedire l'esportazione di beni militari e di quelli che possono essere adattati per scopi militari.

 La Russia rispose imponendo un divieto sulle importazioni alimentari dalle nazioni occidentali.

L'imposizione di sanzioni ha sempre colpito le imprese europee più delle loro controparti in America.

Nel 2014, Klaus-Jürgen Gern, economista dell'Istituto di Kiel per l'economia mondiale, ha dichiarato inequivocabilmente che "gli interessi economici della Germania sarebbero meglio serviti evitando le sanzioni".

Gli imprenditori tedeschi hanno costantemente registrato le loro obiezioni ai leader politici.

Questi sono stati basati non solo sulla questione dell'interesse finanziario, ma sulla consapevolezza che le politiche guidate dagli Stati Uniti sono state basate sull'aggressione piuttosto che sulla diplomazia.

Come ha detto Eckhard Cordes, un importante uomo d'affari, a una conferenza a Berlino,

 "Se c'è un unico messaggio che abbiamo come leader aziendali, allora è questo: sedetevi al tavolo dei negoziati e risolvete queste questioni pacificamente".

L'acquiescenza tedesca alle politiche e alle misure anti-russe americane è sempre stata intesa come un elemento chiave per indebolire con successo la Russia.

Senza la partecipazione attiva della Germania, tutte le forme di misure punitive contro la Russia sarebbero destinate a fallire.

Nel corso dei decenni, l'aumento dell'uso da parte della Germania di petrolio e gas russi relativamente economici, un fattore significativo nel suo continuo successo economico, divenne un punto dolente di contesa negli Stati Uniti.

 Evitando la logica deduzione che l'aumento del commercio tra le nazioni aiuta a mantenere la pace, l'atteggiamento vecchio di decenni tra i politici americani era quello di insistere sul fatto che l'aumento del consumo di petrolio russo avrebbe portato a una maggiore dipendenza europea dalla Russia che li avrebbe resi vulnerabili al ricatto.

Pertanto le successive amministrazioni statunitensi hanno costantemente cercato di persuadere i tedeschi e altri paesi europei a ridurre il loro uso di gas russo.

L'interrelazione tra gli Stati Uniti e i suoi alleati europei sulla costruzione di oleodotti di origine russa e sull'uso delle sanzioni presenta uno studio interessante e illuminante sull'uso del potere e dell'influenza americana.

Molto prima delle controversie associate al gasdotto Nord Stream, gli Stati Uniti hanno cercato di fermare la costruzione del primo gasdotto dalla Siberia (il gasdotto Urengoy) nel 1981.

L'amministrazione guidata dal presidente Ronald Reagan istituì sanzioni prima emanando un divieto sulla vendita di tecnologia americana all'Unione Sovietica e ampliandolo in seguito per includere le vendite di apparecchiature prodotte da filiali straniere e licenziatari di produttori americani.

Ma il piano americano di bloccare la costruzione del gasdotto ha incontrato resistenza da parte dei leader europei che hanno affermato che abbandonare il progetto costerebbe posti di lavoro.

Altri hanno affermato che le sanzioni violano il diritto internazionale.

Il primo ministro britannico Margaret Thatcher ha osservato che "la questione è se una nazione molto potente può impedire che i contratti esistenti vengano rispettati. Penso che sia sbagliato farlo".

E in una riunione del giugno 1982, i leader della Comunità economica europea (in seguito l'Unione europea) hanno emesso un comunicato in cui si lamentavano del fatto che le politiche dell'amministrazione Reagan mettevano seriamente a repentaglio il mantenimento del sistema commerciale mondiale aperto .

Le sanzioni americane sono state anche accolte con sfida dalle compagnie tedesche occidentali e francesi che hanno avuto il pieno sostegno dei loro leader politici.

La AEG-Kanis della Germania Ovest inviò le prime due delle 47 turbine in Unione Sovietica all'inizio di ottobre 1982, mentre la Dresser-France, una filiale della ditta americana Dresser-Clark, inviò diversi compressori fabbricati con tecnologia americana ai sovietici in agosto.

Il livello di respingimento da parte degli alleati europei dell'America contro i tentativi americani di costringerli a sanzionare l'URSS contrasta notevolmente con la situazione contemporanea.

 L'Europa oggi manca del tipo di pensiero indipendente e di leadership indipendente fornita da personaggi del calibro del presidente Charles de Gaulle, che ha rimosso la Francia dalla struttura di comando militare della NATO e Willy Brandt, che sebbene fosse un sostenitore dell'unità dell'Europa occidentale e un amico degli Stati Uniti, era un promotore dell'Ostpolitik e della distensione.

 Nello spirito dell'Ostpolitik, il successore di Brandt, Helmut Schmidt, portò avanti l'accordo sul gasdotto.

Oggi, i leader tedeschi, francesi e britannici conducono un rapporto con gli Stati Uniti che è più simile al vassallaggio che alla partnership.

La mancanza di una forte leadership ha probabilmente portato alla mancanza di moderazione sulle aggressive e disastrose avventure di politica estera intraprese dalla NATO, così come sulla gestione delle relazioni con la Russia.

Significava che i leader dei governi tedesco e francese fungevano in malafede da garanti degli accordi di Minsk progettati per portare la pace in Ucraina, dove una guerra civile era stata avviata dal colpo di stato sponsorizzato dagli Stati Uniti a Kiev.

Nel dicembre 2022 Angela Merkel ha ammesso che gli accordi di Minsk sono stati stipulati come mezzo per guadagnare tempo in modo che l'Ucraina potesse costruire le sue forze armate.

 Il suo omologo Francois Hollande ha fatto la stessa ammissione poco dopo.

 Il prevedibile intervento russo, un'azione limitata progettata per riprendere i negoziati, ha portato a incontri di pace tra delegazioni russe e ucraine, ma furono sabotati dagli sforzi proattivi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, e presumibilmente dall'inazione dell'attuale leader tedesco.

Nord Stream 2, l'ultimo gasdotto dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, è stato infine cancellato dopo anni di critiche da parte delle successive amministrazioni statunitensi.

Il presidente Joe Biden, il segretario di Stato Anthony Blinken e Victoria Nuland, il sottosegretario di Stato per gli affari politici, hanno fatto dichiarazioni bellicose relative alla fine del Nord Stream.

Il suo sabotaggio da parte di uno sforzo militare delle forze speciali che è stato quasi certamente effettuato dagli Stati Uniti per garantire che la Germania, la sua economia gravemente stressata dal regime straordinario di sanzioni imposte dall'UE, non avrebbe avuto alcuna possibilità di invertire il suo sostegno alla guerra economica diretta dagli Stati Uniti contro la Russia.

Nonostante le forti prove del coinvolgimento degli Stati Uniti in questo atto di terrorismo internazionale, è stato accolto con pochi commenti dai leader politici tedeschi.

Le sanzioni "shock and awe" imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati europei, progettate per affondare l'economia russa e portare al rovesciamento di Vladimir Putin, si sono rivelate un fallimento spettacolare.

Come ha sottolineato l'economista J.K. Galbraith nel maggio 2022, la Russia è sopravvissuta perché è una nazione autosufficiente che ha sviluppato una base industriale.

La dimensione informativa: "Putin come il nuovo Hitler."

Le pressioni economiche e militari esercitate sulla Russia sono state integrate da una campagna che utilizza il "soft power" dominato dall'Occidente dei media che ha costantemente demonizzato il leader russo Vladimir Putin e il suo paese.

Putin, il cui ritratto si basa su quello di un dittatore di stampo orientale, è spesso definito dalla stampa come un "ex delinquente del KGB" e come un "nuovo Hitler".

Parlando nel 2017, Stephen Cohen ha ritenuto che i resoconti dei media americani su Putin fossero "tabloid, dispregiativi, diffamatori" e "senza contesto, prove o equilibrio".

Cohen sosteneva che "demonizzare falsamente" il leader russo rendeva la nuova Guerra Fredda ancora più pericolosa.

 I leader occidentali che lo incontrano si sono abbandonati in esami pseudo-psicologici di ciò che percepivano di aver "visto" quando lo guardavano negli occhi.

Sebbene George W. Bush abbia espresso una posizione neutrale dicendo di avere un "senso della sua anima", Joe Biden ha differito e ha affermato che in un incontro del 2011 con Putin, gli ha detto "Non penso che tu abbia un'anima".

Biden li ha trovati appartenere a "un assassino" mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha percepito "un senso di risentimento"; una condizione che alcuni hanno sostenuto rendesse Putin "più aggressivo e imprevedibile che mai".

Il risentimento a cui si riferisce Macron era, ha affermato, diretto al mondo occidentale, compresa l'UE e gli Stati Uniti, che Putin sentiva stesse cercando di "distruggere la Russia".

Sebbene Macron abbia continuato a negare che la Francia abbia cercato di distruggere la Russia, in realtà stava proiettando una verità storica e contemporanea poiché la base dell'ascesa al potere di Putin da un funzionario municipale nella città di San Pietroburgo a presidente della sua nazione era legata alle circostanze caotiche del 1990, quando sotto il dominio di Boris Eltsin l'economia russa fu saccheggiata durante il trattamento shock economico presieduto da un americano,

team di consulenti che stavano supervisionando la trasformazione della Russia da un'economia pianificata sovietica a un modello di libero mercato occidentale.

Tuttavia, gli sforzi della squadra che divenne nota come "Harvard Boys" portarono al saccheggio all'ingrosso delle ricchezze e delle risorse della Russia, una grande quantità delle quali fu trasferita all'estero e una parte significativa delle quali si accumulò nelle mani di alcuni miliardari che divennero noti come oligarchi.

 Il tenore di vita è crollato, il tasso di mortalità è aumentato e l'inflazione si è scatenata.

Un'aura di illegalità e di insicurezza generale era prevalente.

È Vladimir Putin che ha il merito di aver portato a termine questo ultimo Smutnoe Vremya ("Tempo dei Torbidi").

Putin ha portato stabilità alla caduta libera economica e si è mosso contro oligarchi come Mikhail Khodorkovsky che erano strettamente connessi con gli interessi commerciali occidentali.

Khodorkovsky, che aveva ambizioni politiche, era sul punto di vendere una grande percentuale di azioni della gigantesca Yukos Oil Company ai suoi potenti soci occidentali quando Putin manovrò per congelare i beni della compagnia e incarcerare Khodorkovsky.

Mentre Khodorkovsky pianificava di usare la sua ricchezza per comprare potere politico nelle elezioni del 2004 attraverso le quali sarebbe stato in grado di cambiare le leggi russe relative alla proprietà del petrolio nel terreno e degli oleodotti che trasportavano petrolio, l'obiettivo di Putin era quello di far tornare la compagnia alla proprietà statale per essere utilizzata come preziosa fonte di entrate da utilizzare nella ricostruzione dell'economia russa distrutta.

Se Putin è risentito nei confronti dell'Occidente, non sarebbe senza ragione date le circostanze in cui la Russia è stata sottoposta a un periodo di colonizzazione economica da parte degli interessi occidentali, nonché le pressioni militari ed economiche di cui sopra.

È in queste circostanze che il nazionalista Putin, in contrasto con il flessibile Eltsin, ha cercato di perseguire gli interessi della Russia, uno dei cui risultati è stata la campagna di demonizzazione non solo di Putin ma della nazione russa.

Ciò si è riflesso nelle parole dei politici, dei funzionari pubblici e dei politici occidentali.

Per James Clapper, un ex direttore della National Intelligence degli Stati Uniti, i russi "tipicamente, sono quasi geneticamente spinti a cooptare, penetrare, ottenere favori".

E John Brennan, un ex direttore della Central Intelligence Agency (CIA), una volta avvertì che i russi "cercano di citare in giudizio gli individui e cercano di convincere gli individui, compresi i cittadini statunitensi, ad agire per loro conto consapevolmente o inconsapevolmente".

 Un editorialista del British Guardian Il giornale ha affermato che la Russia è un "paradiso dei gangster" Il gangsterismo nelle strade aveva lasciato il posto alla cleptocrazia nello stato.

I russi sono anche caratterizzati come un popolo monolitico tenuto volontariamente alla mercé di un tiranno di tipo orientale.

È un paese in cui l'opinione pubblica è stata caratterizzata come "l'opinione della folla".

 E la visione accettata della Russia come un paese anormale con una predisposizione alla devianza nel regno delle relazioni internazionali è stata riflessa da Anne Applebaum, una scrittrice neoconservatrice, come "una potenza anti-occidentale con una visione diversa e più oscura della politica globale ... (al) potere di violazione delle norme."

È in queste circostanze che i leader politici americani hanno fatto ricorso all'uso di un linguaggio che sarebbe stato impensabile anche durante i periodi più aspri della contesa ideologica tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

 Il defunto senatore John McCain, che ha coniato la frase che la Russia era "una stazione di servizio mascherata da paese", una volta ha casualmente fatto un tweet che per deduzione era che Vladimir Putin meritava un destino simile a quello del leader libico, il colonnello Muamar Gheddafi.

Altri come il suo alleato senatoriale di lunga data Lindsey Graham sono stati più espliciti. Nel marzo 2022, Graham ha chiesto apertamente l'assassinio di Putin.

Il linguaggio e il tono di queste espressioni riflettono un declino dello standard del discorso politico, ma una diminuzione dell'arte di governare e dell'arte della diplomazia negli ultimi tempi.

Durante la Guerra Fredda ideologica, i leader di entrambe le superpotenze hanno cercato di ridurre le tensioni.

Spesso ricorrevano alla diplomazia ed erano attenti nel loro uso del linguaggio nella sfera pubblica.

Si può affermare che ora si può affermare il contrario con un linguaggio intemperante usato per aumentare le tensioni.

Una sintesi dell'approccio degli Stati Uniti è racchiusa in un documento presentato dalla RAND Corporation nel 2019 intitolato "Overextending and Unbalancing Russia: Assessing the Impact of Cost-Impose Options".

Sotto il titolo "Misure ideologiche e informative che impongono costi", ha delineato un piano di attacco che aveva l'obiettivo di diminuire la fiducia del popolo russo nel suo sistema elettorale, creando la percezione che Putin stesse perseguendo politiche non nell'interesse pubblico, incoraggiando proteste interne e minando l'immagine della Russia all'estero.

La strada per la guerra Russia-Ucraina.

È solo con la comprensione del pensiero geostrategico dei neoconservatori americani e della filosofia dottrinale di Zbigniew Brzezinski che credeva che la Russia non potesse essere una potenza senza l'Ucraina che l'affermazione che gli Stati Uniti hanno scelto l'Ucraina come campo di battaglia con la Federazione Russa può essere facilmente apprezzata.

Contrariamente alla narrazione fornita dai leader politici occidentali che è stata fedelmente diffusa dai media mainstream occidentali, la guerra in Ucraina non è iniziata il 24 febbraio 2022, quando il presidente Putin ha lanciato quella che ha definito un'operazione militare speciale (SMO).

 Era semplicemente uno sviluppo in una cronologia degli eventi iniziata dalle minacce della NATO di espansione al confine russo.

 Seguì una lotta per l'anima dell'Ucraina che si sviluppò come segue:

 sullo sfondo del rimuginare del governo ucraino sull'opportunità di accettare aiuti economici dalla Russia o dall'UE, le proteste di Maidan, una serie di manifestazioni pubbliche manipolate, culminate in un colpo di stato orchestrato dagli americani a Kiev nel febbraio 2014.

L'uso di gruppi neonazisti e ultranazionalisti certificabili nel rovesciamento del governo democraticamente eletto di Viktor Yanukovich, che era visto dall'Occidente come filo-russo, ha dato il via a un conflitto interno tra il governo centrale e i separatisti ucraini di etnia russa del Donbas nella parte orientale del paese.

 Sono seguiti gli accordi di pace di Minsk: il protocollo di Minsk del settembre 2014 e il suo seguito, Minsk II nel febbraio 2015.

Tuttavia, il fallimento di questi accordi e il continuo accumulo di forze militari ucraine nel Donbas, armate e addestrate da paesi della NATO in un conflitto che ha causato circa 14.000 vittime, alla fine ha portato all'intervento russo.

Che l'esercizio di pressioni da parte dell'Occidente all'interno dell'Ucraina avrebbe creato le condizioni per una guerra civile era prevedibile.

Nel suo memorandum interno del febbraio 2008, l'ambasciatore William J. Burns aveva osservato quanto segue al paragrafo 5, lettera c):

Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni in Ucraina sull'adesione alla NATO, con gran parte della comunità etnica-russa contraria all'adesione, possano portare a una grande scissione, che comporta violenza o, nel peggiore dei casi, guerra civile.

 In tale eventualità, la Russia dovrebbe decidere se intervenire; una decisione che la Russia non vuole dover affrontare.

Spostandoci alcuni anni dopo il memorandum di Burns negli anni 2010, è ora chiaro che gli Stati Uniti avevano intrapreso un'operazione progettata per effettuare un cambio di regime in un momento in cui Yanukovich stava posizionando l'Ucraina per essere militarmente neutrale.

La rivelazione apparentemente innocua di Victoria Nuland, allora Assistente Segretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici, che il suo governo avesse "investito 5 miliardi di dollari" in oltre 20 anni per "sviluppare processi democratici e riforme in Ucraina" è stato visto dai critici della politica statunitense come un'ammissione allo sforzo che ha portato al rovesciamento del governo dell'Ucraina.

 Lo vedono come una prova che indica un colpo di stato pianificato che è effettivamente venuto fuori dallo stesso copione che è stato utilizzato dalla prima CIA nell'esecuzione dei rovesciamenti rispettivamente di Mohamed Mossadegh dell'Iran nel 1953,66 e Jacobo Arbenz del Guatemala nel 1954.

Mentre il processo si è evoluto attraverso quella che può essere definita la "CIA privatizzata" rappresentata da organizzazioni come il National Endowment for Democracy (NED), l'attuazione della "rivoluzione colorata" standard comporta la mobilitazione dei movimenti di protesta attraverso una rete di agenzie non governative che nel caso dell'Ucraina hanno lavorato assiduamente verso l'obiettivo di rovesciare Yanukovich.

I dettagli di questo aspetto dell'azione segreta devono ancora venire alla luce, come è stato sottolineato dal Dr. Jeffrey Sachs, ma ha rivelato sia nei suoi scritti che nelle interviste che gli era stato detto durante una visita a Kiev che "le ONG statunitensi (di Soros) hanno speso ingenti somme per finanziare le proteste e l'eventuale rovesciamento".

 

Ulteriori informazioni su questo aspetto della rimozione illegale di un governo eletto sono venute dall'uomo d'affari George Soros.

In un'intervista condotta da Fareed Zakaria della CNN che è stata trasmessa tre mesi dopo il colpo di stato, Soros ha rivelato di aver "creato una fondazione in Ucraina prima che l'Ucraina diventasse indipendente dalla Russia. E la fondazione ha funzionato da allora e ha svolto un ruolo importante negli eventi ora".

Lungi dall'essere la romantica "Rivoluzione della dignità", che ha seguito le proteste orchestrate di Euromaidan, la rivoluzione di Maidan è stata, secondo l'analista geopolitico anti-Putin George Friedman, "il colpo di stato più palese della storia".

Lo strumento decisivo per la rimozione di Yanukovych è stato l'uso di milizie neonaziste e ultranazionaliste come” Svoboda”, “Splina Sprava” e “Pravy Sektor”.

 In effetti, Yevhen Karas, il leader del C14, una propaggine dell'ala giovanile di Svoboda, una volta ha affermato che senza questo input, le proteste di Maidan sarebbero state poco più di una "parata gay".

L'intercessione violenta di questi gruppi negli scontri di strada è stata accompagnata da un misterioso gruppo armato che si è posizionato in punti panoramici da cui ha sparato sia sui manifestanti che sulla polizia.

 Questo è il classico modus operandi di una terza forza segreta che monta un'operazione "false flag" e cerca di screditare un avversario dando la colpa a loro; in questo caso sul governo Yanukovich.

Una conversazione telefonica intercettata tra Urmas Paet, il ministro degli Esteri estone che era stato di recente a Kiev, e Catherine Ashton, il ministro degli Esteri dell'UE, ha registrato Paet che informava Ashton che le uccisioni di cecchini in piazza Maidan erano state effettuate da "qualcuno della nuova coalizione".

Il risultato fu che, temendo per la sua vita, Yanukovich fuggì dal paese.

Ma anche prima che il colpo di stato fosse completato, un'intercettazione, presumibilmente effettuata dall'intelligence russa, ha catturato Victoria Nuland mentre informava Geoffrey Pyatt, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, chi sarebbero stati i membri del futuro governo dell'Ucraina.

Durante la conversazione, ha respinto ogni possibilità di aderire a qualsiasi richiesta di moderazione da parte degli alleati europei sulla traiettoria che gli Stati Uniti stavano prendendo dicendo a Pyatt "Fanculo l'UE".

Il suo atteggiamento era in linea con la tesi del marito secondo cui gli americani "venivano da Marte" e i loro alleati europei "da Venere".

Dato che un punto chiave della giustificazione di Vladimir Putin per l'intervento russo è stato quello che ha definito la "denazificazione" del Donbas, è importante sviluppare il coinvolgimento di gruppi neonazisti e ultranazionalisti nel rovesciamento del governo Yanukovich, così come nella prosecuzione della guerra civile nel Donbass.

Mentre gli Stati Uniti si preparavano a seguire un corso di forzatura del cambio di regime, hanno fatto sforzi per raggiungere e cooptare gruppi ultranazionalisti nell'impresa.

L'uso da parte degli Stati Uniti di gruppi estremisti in operazioni segrete legate alla destabilizzazione o al cambiamento dei governi ha una lunga storia.

Gran parte di ciò ha comportato l'attingere all'Islam militante, sebbene il ricorso all'uso di gruppi neofascisti nei paesi dell'Europa occidentale come l'Italia sotto l'egida delle “reti stay-behind della NATO” ("Operazione Gladio") sia avvenuto durante il periodo della Guerra Fredda.

La tecnica di sfruttare antichi rancori e rivalità è stata usata in Medio Oriente e viene ora utilizzata in Ucraina.

 Il nazionalismo ucraino è stato tradizionalmente basato su sentimenti anti-ebraici, anti-polacchi e anti-russi.

 È per mano dei cosacchi ucraini vaganti che molte comunità ebraiche medievali sono state messe a ferro e fuoco.

E gli episodi successivi riguardanti la creazione di uno stato ucraino durante il ventesimo secolo sono stati accompagnati dal massacro degli ebrei.

Eppure oggi gli autori del terrorismo antiebraico, Bogdan Khmelnytsky e Maxim Zliznyak, entrambi dell'era pre-moderna, e Symon Petliura e Stepan Bandera, entrambi del 20 ° secolo, sono eroi nazionali le cui statue abitano praticamente ogni piazza in Ucraina.

 Bandera, la cui immagine era molto visibile durante le proteste di Maidan, diventando una sorta di “spiritus rector del procedimento”, è ufficialmente un eroe nazionale dell'Ucraina nonostante il numero di ebrei e polacchi che sono stati massacrati dalla sua organizzazione” OUN-B” durante la seconda guerra mondiale.

Fu dall'OUN-B che la maggior parte del personale fu reclutato nella legione ucraina della Wehrmacht tedesca che divenne nota come Bataillon Ukrainische Gruppe Nachtigall.

I battaglioni Nachtigall e Roland insieme alla Waffen-Grenadier-Division der SS, cioè la divisione galiziana delle Waffen-SS, sono tre forze combattenti lodate in Ucraina fino ad oggi, nonostante il loro coinvolgimento in pogrom anti-polacchi e anti-ebraici.

 La commemorazione di questi gruppi e dell'ideologia nazionalsocialista è ciò che alimenta partiti come Svoboda che un rapporto del 1999 dell'Università di Tel Aviv ha etichettato come "un estremista, organizzazione nazionalista di destra che sottolinea la sua identificazione con l'ideologia del nazionalsocialismo tedesco".

Un presunto rebranding nei primi anni 2000 non si rifletteva nelle dichiarazioni del leader di Svoboda Oleh Tyahnybok che nel 2004 parlò della necessità di combattere quella che definì la "mafia ebreo-moscovita" che controllava l'Ucraina.

 L'anno seguente, Tyahnybok firmò una lettera aperta all'allora presidente Viktor Yushchenko che chiedeva al governo di fermare le "attività criminali" degli "ebrei organizzati".

Eppure questo non ha impedito ai leader politici statunitensi come l'allora vicepresidente Biden, il defunto senatore John McCain e Victoria Nuland di incontrarsi, stringersi la mano e farsi fotografare con Tyahnybok.

 Infatti, dopo aver incontrato Tyahnybok e altre figure politiche, McCain, che aveva precedentemente incontrato figure islamiste in Libia e Siria, li ha esaltati come "uomini e donne coraggiosi" che "dovrebbero sapere che non sono soli. I loro amici in tutto il mondo sono solidali con loro".

Imperialismo bipartitico e guerra con la Russia. Una prospettiva storica.

Questa empia alleanza tra gli Stati Uniti e il movimento ultranazionalista in Ucraina si rispecchia in un'alleanza simile con membri di spicco della comunità ebraica ucraina.

Per esempio è riconosciuto che Ihor Kolomoisky, l'oligarca ebreo che finanziò la carriera televisiva, così come l'irruzione in politica da parte di Volodmyr Zelensky, era responsabile del finanziamento di milizie private di estrema destra, tra cui il Battaglione Azov e il Battaglione Aider, entrambi i quali hanno svolto un ruolo di primo piano nella guerra contro i separatisti etnici russi nel Donbass.

Mentre si sostiene che l'estrema destra non ha ottenuto buoni risultati nelle elezioni post-2014, non c'è dubbio che siano ben rappresentati nelle sfere civile, di sicurezza e militare dell'Ucraina.

La difficoltà di conciliare il fatto che l'Ucraina ha individui ebrei che servono come presidente, primo ministro e ministro della difesa può essere in parte spiegata da un'intervista Andrew Srulevitch, direttore degli affari europei dell'ADL, condotta con il professor David Fishman, professore di storia ebraica al Jewish Theological Seminary, che ha detto quanto segue:

Ci sono neonazisti in Ucraina, proprio come ce ne sono negli Stati Uniti, e in Russia. Ma sono un gruppo molto marginale senza alcuna influenza politica e che non attacca gli ebrei o le istituzioni ebraiche in Ucraina.

È chiaro che per continuare a ricevere il sostegno degli Stati Uniti nella loro lotta contro la Russia, l'atteggiamento antiebraico da parte degli ultranazionalisti ucraini nell'esercito e nei servizi di sicurezza sarebbe impraticabile.

 È in questo contesto che il presidente Volodymr Zelensky premia i soldati appartenenti all'estrema destra Pravy Sektor e difende i calciatori che posano apertamente con i ritratti di Stepan Bandera.

In effetti, Zelensky ha definito l'ammirazione ucraina per Bandera "cool".

L'altro aspetto della recente storia politica dell'Ucraina che illumina l'uso del termine denazificazione da parte del presidente Putin riguarda il trattamento dei russi etnici dallo sconvolgimento del 2014.

Una delle prime cose intraprese dai membri della Duma post-Maidan è stata quella di relegare il russo dalla posizione di lingua ufficiale dello stato ucraino, un passo che ha inviato campanelli d'allarme ai cittadini ucraini di etnia russa.

 Più tardi, la legge n. 1616-IX sui popoli indigeni dell'Ucraina, che è stata confermata dal presidente Zelensky nel luglio 2021, un atto legislativo che negava ai russi etnici lo status di popolo indigeno del paese.

Come è avvenuto durante le proteste di Euromaidan, le milizie neonaziste e ultranazionaliste hanno svolto un ruolo importante nella prima guerra nel Donbas, quando l'esercito ucraino era piccolo.

Hanno continuato a svolgere un ruolo importante nonostante l'assorbimento di unità come il Battaglione Azov, il Battaglione Aidar e il Corpo dei Volontari Ucraini (l'ala paramilitare di Pravy Sektor) nell'esercito ucraino.

Il fatto che molti membri del personale siano stati fotografati mentre mostravano simboli nazisti non è sorprendente, data anche l'influenza dell'”ordine segreto Centuria” che è penetrato nella massima accademia militare dell'Ucraina.

 Il generale Valerii Zaluzhnyi, capo delle forze armate ucraine, che ha temporaneamente nominato Dmytro Yarosh come suo consigliere principale, è stato fotografato accanto alle immagini di Stepan Bandera.

 È stato anche fotografato in mezzo all'armamentario di estrema destra.

Inizialmente guidato da milizie ultranazionaliste, l'esercito ucraino ha sviluppato un modus operandi per bombardare aree civili del Donbas.

La natura casuale e indiscriminata di questi attacchi ha contribuito allo spopolamento del Donbas, con molti in fuga verso la vicina Russia.

 L'alienazione di molti dei loro concittadini di etnia russa è stata intensificata dall'atteggiamento dell'ex presidente Petro Poroshenko che in un discorso tenuto al Teatro dell'Opera di Odessa nell'ottobre 2014, ha promesso che mentre i bambini del Donbass siedono nelle cantine "i nostri figli andranno a scuola, agli asili nido».

L'operazione militare speciale, iniziata il 24 febbraio 2022, è stata caratterizzata come un'invasione illegale del territorio sovrano dell'Ucraina.

Ai sensi dell'articolo 2  della Carta delle Nazioni Unite che afferma che "Ogni Stato ha il dovere di astenersi nelle sue relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica".

 L'argomentazione contro l'intervento russo sembrerebbe ineccepibile, dato che le due eccezioni, vale a dire quella dell'autodifesa, della minaccia di un attacco imminente e dell'autorizzazione del Consiglio di sicurezza, non erano presenti.

Ma l'argomento contrario a questa posizione è convincente.

In contrasto con la valutazione dell'Occidente guidato dagli Stati Uniti che la sua azione in Ucraina è una guerra di aggressione, il Cremlino difende la sua azione come non una scelta ma una necessità.

La leadership russa basa le sue azioni non sulla soluzione hitleriana alla crisi dei Sudeti, ma sull'esempio fornito dall'Occidente nella creazione dello stato del Kosovo.

In primo luogo, come nel caso della Crimea, la base della sovranità germinata della Repubblica popolare di Donetsk e della Repubblica popolare di Luhansk, risiederebbe nel principio del diritto internazionale che mira all'autodeterminazione, vale a dire l'articolo 1, paragrafo 2, e l'articolo 51.

 Le condizioni che giustificavano gli atti di secessione erano basate su leggi ucraine che vietavano l'uso della lingua russa e l'espressione della cultura russa, così come l'incapacità del governo ucraino di attuare i suddetti accordi di Minsk e la successiva tabella di marcia fornita dalla "formula Steinmeier".

Una seconda giustificazione per la validità della secessione riguarda la volontarietà dei referendum tenuti, che è un punto di contesa tra l'Occidente guidato dagli Stati Uniti e la Russia.

 È anche giusto notare che non esiste una formulazione precisa o un test giuridico che fornisca una linea guida assoluta che indichi dove l'autodeterminazione prevale sulla sovranità territoriale.

 Ma la Russia sostiene che mentre l'Occidente ha stabilito lo stato del Kosovo attraverso l'uso della forza, lo stesso non si può dire delle regioni del Donbass.

Dopo anni di ritardo, il Cremlino ha finalmente aderito alla richiesta delle entità separatiste del Donbass di essere riconosciuti come territori sovrani.

A seguito di questo riconoscimento, la Federazione Russa ha agito in base ai rapporti di intelligence sulle forze ucraine ammassate nell'est del paese in preparazione del lancio di un attacco per recuperare le parti del Donbass sotto il controllo delle milizie di Donetsk e Luhansk.

 L'invito dei territori separatisti ha aperto la strada, dal punto di vista russo, all'invocazione dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite che prevede che "Nulla nella presente Carta pregiudicherà il diritto intrinseco all'autodifesa individuale o collettiva se si verifica un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fino a quando il Consiglio di sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali".

Così, per la Russia l'intervento iniziato il 24 febbraio 2022 è nato non per scelta ma per necessità, essendo un continuum di uno stato di conflitto iniziato nel 2014.

Guerra militare, economica e informativa durante il conflitto Russia-Ucraina: l'operazione militare speciale, le sanzioni "Shock and Awe" e il "fantasma di Kiev".

Il secondo elemento chiave degli obiettivi russi nel lancio dell'SMO era quello di effettuare la "smilitarizzazione" della regione del Donbas e della città di Mariupol, dove si trovavano concentrazioni di forze ucraine ben armate in posizioni fortificate.

 Il piccolo e mal equipaggiato esercito ucraino esistente nel 2014 è stato aumentato di dimensioni e ha iniziato ad essere addestrato e armato dalla NATO.

 I russi avevano rilevato un crescente tono di bellicosità da parte del governo ucraino che entro il 2021 aveva fatto dell'obiettivo di riprendere la Crimea la dottrina militare ufficiale.

 Il suo esercito addestrato secondo gli standard della NATO è stato anche il beneficiario di un marcato aumento delle vendite di armi dagli Stati Uniti.

 Nel suo discorso al Monaco di Baviera Conferenza sulla sicurezza nel febbraio 2022, il presidente Zelensky ha rilanciato la minaccia di aderire alla NATO.

Ha anche suggerito che l'Ucraina avrebbe abrogato i suoi obblighi ai sensi del Memorandum di Budapest del 1994 e avrebbe perseguito un percorso di ri-nuclearizzazione.

L'emissione di tali minacce insieme ai briefing dell'intelligence russa sulle forze ucraine pronte a colpire le aree del Donbas controllate dalle milizie dei secessionisti di etnia russa quasi certamente ha segnato il punto di svolta per il Cremlino.

L'SMO dichiarato è stata un'azione limitata progettata per influenzare il governo ucraino a proseguire i colloqui di pace e risolvere le questioni relative all'autonomia del Donbass, allo status territoriale della Crimea e alla neutralità ucraina.

 I 200.000 soldati composti principalmente dalle due milizie del Donbass e dal Gruppo Wagner di appaltatori militari, dato il loro numero totale, non furono sollevati per conquistare l'intera Ucraina, che era attivamente difesa da 700.000 uomini sotto le armi.

Il pensiero dietro le azioni del Cremlino sembra essere stato che la smilitarizzazione avrebbe assunto la forma di ritiri volontari da parte delle forze ucraine o della loro graduale eliminazione mediante guerra di manovra, come previsto.

 I colloqui di pace proseguirono.

 A differenza della convinzione anglosassone che la guerra è intrapresa una volta che tutti gli sforzi diplomatici sono falliti, i russi aderiscono alla massima clausewitziana della guerra come "una continuazione della politica con altri mezzi".

Tuttavia, questa azione di polizia non è riuscita a raggiungere il suo obiettivo perché, sebbene si siano svolti colloqui di pace tra Russia e Ucraina, gli Stati Uniti li hanno deliberatamente sabotati.

 Inoltre, il sostegno della NATO guidato dagli Stati Uniti alle forze armate ucraine ha portato a un prolungamento della guerra, specialmente data la decisione del Cremlino di utilizzare un numero limitato di truppe russe, lasciando l'onere dei combattimenti sul terreno alle due principali milizie del Donbass e al Gruppo Wagner di appaltatori militari.

Ciò significava che le forze della coalizione si trovavano spesso sparse e vulnerabili alle imboscate dell'esercito ucraino.

Non sorprende che l'intervento abbia permesso agli Stati Uniti di intensificare la loro guerra militare, economica e informativa contro la Russia.

Gli Stati Uniti, di concerto con i loro partner della NATO e dell'UE, hanno donato miliardi di dollari allo sforzo bellico ucraino.

 L'esercito ucraino sta quindi funzionando come un esercito di fatto per procura degli Stati Uniti che ha fornito all'Ucraina informazioni in tempo reale che hanno portato, ad esempio, all'affondamento della Moskva, la nave ammiraglia della flotta russa del Mar Nero, e gli assassinii sul campo di battaglia di alti ufficiali militari russi.

 Armi complicate come HIMARS sono gestite sotto la stretta supervisione del personale militare statunitense che fornisce agli ucraini coordinate precise prima del lancio dei missili.

 

La copertura mediatica ha presentato un continuum della narrativa di lunga data e anti-russa.

L'essenza stessa dell'intervento, vale a dire quella di un'azione limitata prevista nella parte orientale dell'Ucraina, che era evidente dalla quantità di truppe utilizzate, è stata ignorata.

Invece è stata presentata come un'invasione su vasta scala destinata a invadere l'intera Ucraina.

Il movimento di alcune concentrazioni di truppe alla periferia di Kiev, che doveva servire come parte della pressione sul governo centrale per intraprendere colloqui, nonché per servire come finta per distrarre e occupare le truppe ucraine mentre i russi si occupavano del compito iniziale di smantellare le concentrazioni ucraine nel Donbas, è stato preso come il preludio di un attacco alla capitale.

 Questa non sarebbe stata un'operazione fattibile da realizzare dato il numero delle truppe russe, eppure la favola della "Battaglia di Kiev" avrebbe preso piede nell'immaginazione del consumatore non perspicace e disinformato dei media mainstream occidentali.

Mentre la guerra si trascinava, la scarsa diffusione delle truppe della coalizione russa e la necessità di dare priorità a posizioni difendibili portarono alla decisione di ritirare le forze russe da alcuni territori.

Questi includevano Snake Island, Kherson e la riva occidentale del fiume Dnepr.

 Tuttavia, come nel caso del ritiro dagli approcci a Kiev, la cessione volontaria di questi luoghi, tutti i ritiri ordinati intrapresi per proteggere la vita dei soldati russi, sono stati annunciati dai media occidentali come "vittorie" ucraine.

Ancora una volta, il ricorso a Clausewitz è utile per comprendere l'obiettivo russo della smilitarizzazione.

Le sue forze nel Donbass sono state più preoccupate di annientare gli eserciti che di acquisire territori.

 La storia militare russa è piena di questa tecnica militare, tra cui l'adescamento dei cavalieri teutonici invasori da parte del principe Alexander Nevsky in un lago ghiacciato dopo essersi ritirato.

Fu usato nelle battaglie contro il feroce assalto delle orde mongole e, naturalmente, l'esercito zarista si ritirò da Mosca insieme ai suoi residenti e lo bruciò a terra prima dell'arrivo della “Grande Armee”.

La verità, come dice l'adagio, è la prima vittima della guerra.

Ma la portata delle distorsioni e delle falsità diffuse dai media mainstream occidentali in relazione alla guerra è stata senza precedenti.

Tra le narrazioni diffuse dalla macchina della propaganda ucraina che sono state successivamente smentite c'era "Il fantasma di Kiev", in cui un singolo pilota di caccia ucraino pattugliava eroicamente i cieli sopra Kiev dopo aver "distrutto" una moltitudine di aerei russi.

 Un altro riguardava i "difensori martirizzati dell'Isola dei Serpenti", un'unità militare ucraina che presumibilmente diceva alle forze russe che avanzavano in procinto di sopraffarle di "Andate a fottervi" quando gli fu chiesto di arrendersi.

 Presumibilmente rifiutarono e furono prontamente uccisi da attacchi aerei e navali condotti dai russi.

Tuttavia, gli ucraini in seguito hanno fatto marcia indietro sulla storia quando il personale ucraino è stato trovato vivo tramite filmati.

Un'altra narrazione incomprensibile, piena di contraddizioni fondamentali, riguarda il presunto bombardamento della centrale nucleare di Zaporizhzhia nella città di Enerhodar da parte delle forze russe, anche se era stata sotto occupazione e controllo russo subito dopo il lancio dello SMO.

C'era anche una grave accusa da parte di un funzionario ucraino di nome Lyudmila Denisova che i soldati russi si impegnavano nello stupro di massa di civili, compresi bambini e neonati.

 Denisova è stata successivamente licenziata dal Parlamento ucraino quando la questione è stata indagata e si è rivelata falsa.

I media hanno anche intrattenuto quelle che alla fine sono state rivelate essere operazioni sotto falsa bandiera progettate per incolpare i russi.

Ad esempio, nell'aprile 2022, è stato annunciato che i russi hanno sparato missili contro l'evacuazione dei civili al terminal ferroviario di Kramatorsk.

Ma in seguito si scoprì che Questa storia non ha resistito alla prova dato che l'attacco missilistico è stato effettuato da un missile Tochka-U; frammenti dei quali sono stati trovati e fotografati sul luogo dello sciopero alla stazione ferroviaria.

 L'esercito ucraino usa missili Tochka-U mentre i russi usano missili Iskander.

Poi il 15 novembre 2022 è arrivata l'esplosione a Przewodów, un villaggio polacco al confine con l'Ucraina che ha ucciso due persone.

 L'incidente, avvenuto nel bel mezzo di un attacco missilistico russo contro l'Ucraina, è stato immediatamente attribuito ai russi e, insistendo sul fatto che i russi erano in colpa, il presidente Zelensky ha affermato che era la Russia e ha esortato la NATO a convocare una riunione ai sensi dell'articolo 4.

 La stampa mainstream occidentale ha accettato questo senza conferma indipendente e ha pubblicato la storia che il missile era stato lanciato dalla Russia.

Ma la narrazione è stata screditata da un contadino polacco che ha scattato due fotografie dei resti del missile detonato che identificavano il proiettile come un missile di difesa terra-aria S-300 del tipo utilizzato dalle forze armate ucraine.

Inoltre, tutti i missili lanciati sul territorio ucraino sono tracciati dalle forze armate della NATO dal punto di lancio all'impatto.

 La difesa aerea ucraina è organizzata in modo tale che i suoi missili e radar siano orientati da ovest a est.

 Dato che questo presunto missile difensivo si era spostato da una traiettoria est a ovest (atterrando in Polonia) invece di essere diretto verso una traiettoria orientale per incontrare i missili russi in arrivo, il sospetto è che non fosse un proiettile "randagio" ma fosse destinato a creare un grave incidente.

 Il missile non viene semplicemente sparato in una particolare direzione, ha bisogno di radar per metterlo sul suo percorso.

La distruzione del gasdotto Nord Stream 2 nel settembre 2022, causata da esplosivi e che ha portato alla fuoriuscita di gas, fornisce un utile caso di studio di come i media mainstream occidentali abbiano scelto di intraprendere la strada di essere propagandisti per l'establishment mentre perseguono un'agenda statale anti-russa.

 La risposta immediata dei leader politici degli Stati Uniti e dell'Unione Europea è stata quella di riconoscere che il sabotaggio era la causa e che rappresentava "il prossimo passo di escalation della situazione in Ucraina" che avrebbe ricevuto "la risposta più forte possibile".

 Sebbene il Ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau sia stato l'unico a rilasciare una dichiarazione esplicita sul presunto istigatore del sabotaggio, non è stato difficile dedurre dalle dichiarazioni che la colpevolezza è stata attribuita al Cremlino.

Ma mentre i media mainstream si sono dimostrati riluttanti a cercare la verità dietro il bombardamento sottomarino, altri nei media alternativi e, più in particolare, gli sforzi del giornalista investigativo vincitore del premio Pulitzer Seymour Hersh hanno assicurato il disfacimento della posizione ufficiale che è cambiata da una di silenzio a quella di una tiepida negazione da parte del governo degli Stati Uniti.

Pur accettando che l'Ucraina non possa vincere una guerra contro la Russia (mentre il presidente, Barack Obama, è stato sincero nell'ammettere il "dominio dell'escalation" della Russia nella regione), la politica di guerra degli Stati Uniti sembra essere nelle parole del Segretario alla Difesa Lloyd Austin "vedere la Russia indebolita", o, come è stata definita, una strategia di "sanguinare la Russia".

Pur non aspettandosi che la Russia fosse sconfitta sul campo di battaglia, gli Stati Uniti avevano più speranze di ottenere la capitolazione russa attraverso l'applicazione della pressione economica;

 in altre parole, con l'imposizione di un livello senza precedenti di sanzioni che sono state progettate per mettere l'economia russa in caduta libera per creare le condizioni per il rovesciamento del presidente Putin.

La strategia si basava sul negare alla Russia l'accesso al denaro e l'opportunità di commerciare.

 L'UE si è mossa per bandire le banche russe dal sistema di messaggistica internazionale Swift, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno congelato i beni statali russi e quelli degli individui.

 Inoltre, gli Stati Uniti hanno specificamente cercato di progettare il default russo sui debiti esteri impedendo alla Russia di effettuare pagamenti del debito alle banche statunitensi attraverso qualsiasi valuta estera.

 Oltre alle misure finanziarie, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno vietato l'importazione di petrolio e gas russi.

L'idea qui dal punto di vista degli Stati Uniti è quella di "staccare" l'Europa dalla Russia, con particolare attenzione alla rottura delle relazioni economiche tra Germania e Russia.

A settembre 2022, la Commissione europea annunciava che l'economia russa era a "brandelli".

 Tre quarti del settore bancario russo erano stati tagliati fuori dai mercati internazionali e quasi 1000 società internazionali erano andate via assicurando che le importazioni e le esportazioni erano diminuite e che la produzione di automobili era diminuita del 75% rispetto all'anno precedente.

Tuttavia, le misure non solo non sono riuscite a distruggere l'economia russa, ma si sono anche ritorte contro al punto da causare difficoltà alle economie europee, compresa la Germania, che affronta la deindustrializzazione.

 Hanno anche messo in moto una tendenza alla de-dollarizzazione.

Divenne sempre più chiaro che, lungi dal lasciare l'economia russa "a brandelli", i politici russi avevano pianificato contromisure per resistere agli effetti di tali mosse draconiane.

Una parte importante dell'errore di calcolo che l'economia russa potesse essere affondata risiedeva nella convinzione arrogante che la Russia sia, come ha affermato il defunto John McCain, "una stazione di servizio mascherata da paese".

 Ma l'economia russa è qualcosa di più del petrolio e del gas.

È ricco di una gamma di materie prime, metalli e minerali indispensabili per il mercato globale.

 È ricco di fertilizzanti e alimenti di base come il grano.

Ha anche abbondanti quantità di potassio e metalli delle terre rare.

Alleata alla narrativa delle stazioni di servizio che si presentano come nazione è l'accusa spesso sbandierata che l'economia russa ha solo le dimensioni di nazioni più piccole come la Spagna e l'Italia.

Ma come ha spiegato Jacques Sapir, un economista francese:

"Se si confronta il prodotto interno lordo (PIL) della Russia semplicemente convertendolo da rubli in dollari USA, si ottiene davvero un'economia delle dimensioni della Spagna.

Ma un tale confronto non ha senso senza aggiustare per la parità di potere d'acquisto (PPA) ... E quando si misura il PIL della Russia basato sul PPP, è chiaro che l'economia russa è in realtà più simile alle dimensioni della Germania, circa $ 4,4 trilioni per la Russia contro $ 4,6 trilioni per la Germania.

Gli effetti di rimbalzo delle sanzioni anti-russe sono stati avvertiti dalle economie europee già sotto pressione a causa delle misure che inducono l'inflazione intraprese durante la pandemia.

 La Germania, in particolare, il cui uso di gas naturale russo a basso costo ha aiutato la sua economia di prima classe ha iniziato a sentire gli effetti degli alti prezzi dell'energia e della minaccia di una recessione economica.

Parlando con “Die Welt am Sonntag” nel novembre 2022, Tanja Gönner, CEO della Federazione delle industrie tedesche (BDI) ha dichiarato:

"Gli alti prezzi dell'energia e l'indebolimento dell'economia stanno colpendo l'economia tedesca con tutta la forza e stanno ponendo un grande onere sulle nostre aziende rispetto ad altre località internazionali. Il modello di business tedesco è sottoposto a un enorme stress... Un'impresa tedesca su quattro pensa di delocalizzare la produzione all'estero».

L'allontanamento economico forzato tra la Germania e il resto dell'Europa con la Russia è molto conveniente per gli Stati Uniti che accolgono con favore la dipendenza europea dai loro mercati.

 L'idea che ci si debba aspettare che l'Europa faccia sacrifici per quello che essenzialmente è un conflitto di ispirazione americana non è senza precedenti.

Questo era lo stato delle cose dopo che le sanzioni sono state imposte in seguito all'acquisizione russa della Crimea, a sua volta una reazione al colpo di stato di Maidan.

 Andando più indietro nel tempo, vale la pena sottolineare che mentre l'amministrazione Reagan voleva che l'Europa sopportasse la perdita di commercio e posti di lavoro che sarebbe derivata dall'interruzione della costruzione del gasdotto Urengoy, gli Stati Uniti hanno fatto un'eccezione alla loro politica di sanzioni approvando la continua vendita di grano americano all'Unione Sovietica.

 Questa era una concessione agli agricoltori americani che, pur vivendo anni consecutivi di produzione abbondante, erano alle prese con prezzi di mercato depressi e avevano bisogno di vendere il loro surplus di rendimento al più grande acquirente di grano del mondo.

La disconnessione tra la pretesa del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti da un lato di essere "uniti ai nostri alleati e partner nel nostro impegno a promuovere la sicurezza energetica europea" dopo il sabotaggio del Nord Stream e la dichiarazione del Segretario di Stato Anthony Blinken secondo cui lo stesso sabotaggio presentava una "tremenda opportunità" per porre fine alla "dipendenza" europea dall'energia russa dall'altro è un duro promemoria delle intenzioni americane da decenni di tempo.

 La fine di Nord Stream ha fornito una garanzia che la Germania non avrebbe rinunciato alle sanzioni energetiche anti-Russia in un momento in cui la pressione stava aumentando per porre fine alle sanzioni e commissionare Nord Stream 2.

Gli Stati Uniti, che hanno aumentato la fornitura di gas naturale liquefatto (GNL) all'Europa al punto che entro la metà del 2022 fornivano il 45% delle importazioni europee, sembrano trarre profitto dalle sanzioni.

Robert Habeck, il ministro tedesco dell'economia, ha criticato i "prezzi astronomici" a cui veniva venduto il gas naturale liquefatto americano (GNL), e prima di una visita di stato negli Stati Uniti, Emmanuel Macron si è lamentato che i prezzi americani del gas erano "non amichevoli".

L'Europa ne sta raccogliendo i costi.

Scrivendo per il quotidiano “The Guardian”, Simon Jenkins ha descritto le sanzioni occidentali contro la Russia "come la politica più mal concepita e controproducente della recente storia internazionale".

 In un momento in cui la sterlina si stava deprezzando rispetto al dollaro e le famiglie britanniche si trovavano di fronte alla prospettiva di triplicare le bollette del gas, il rublo russo, ha osservato Jenkins, era stato "una delle valute più forti del mondo" nel 2022, "essendosi rafforzato da gennaio di quasi il 50%".

L'impressione che i leader britannici e dell'Unione Europea non potessero prevedere questo boomerang li fece "apparire degli ingenui totali sull'economia".

Un rapporto del Fondo monetario internazionale (FMI) ha confermato che l'Europa stava sopportando il peso maggiore delle ricadute delle sanzioni.

 Come ha detto il capo economista del FMI Pierre-Olivier Gourinchas in un'intervista all'AFP, la banca centrale russa e i responsabili politici hanno evitato una grave recessione e sono stati aiutati dall'aumento dei prezzi del petrolio.

Non solo la Russia aveva semplicemente reindirizzato il commercio verso altre parti del mondo, ma il suo petrolio e gas stavano ancora trovando la loro strada in Europa attraverso terze parti con l'inevitabile aumento dei prezzi per soddisfare le commissioni degli intermediari.

Le sanzioni hanno avuto a lungo una storia a scacchi in termini di raggiungimento degli obiettivi desiderati.

Non sono riusciti a rovesciare i governi di Cuba, Corea del Nord e Iran.

 In effetti, si può sostenere che le sanzioni rendono solo la nazione presa di mira più resiliente e autosufficiente.

 Questo sembra essere il caso della Russia.

 Ad esempio, quando nel 2014 gli Stati europei hanno imposto sanzioni dirette dagli Stati Uniti contro la Russia, la Lituania ha smesso di esportare formaggio in Russia.

 La Russia ha proceduto a sviluppare il proprio settore caseario che nel corso del tempo è diventato autosufficiente.

 Il regime intensificato di sanzioni imposto dopo l'intervento russo in Ucraina sembra destinato non solo a rafforzare l'autosufficienza russa, ma sembra destinato a cambiare le basi del quadro economico e politico globale che dura da quasi 80 anni.

Verso il multipolarismo: il divorzio della Russia dall'Occidente e l'alba dell'Eurasia.

Uno sviluppo derivante dalle pressioni esercitate sulla Russia all'indomani della guerra fredda è stato l'accensione di uno stato più stretto delle relazioni tra la Federazione russa e la Repubblica popolare cinese.

All'inizio timide ma intensificate negli ultimi anni, queste due nazioni sono ora in un'alleanza di fatto contro l'Occidente guidato dagli Stati Uniti.

Questo stato di cose, in contrasto con quello che esisteva durante la Guerra Fredda, quando i due leader del comunismo globale, l'Unione Sovietica e la Cina Rossa, erano in uno stato permanente di antagonismo, è chiaramente dannoso per la continuazione dell'egemonia globale americana, proprio ciò che la politica estera americana precedente alla dottrina neoconservatrice Wolfowitz aveva strenuamente cercato di evitare.

Nella sua forma più cruda, la teoria geostrategica postulata dal geografo e studioso britannico Halford J. Mackinder, ha fornito una base teorica su cui gli Stati Uniti hanno agito per impedire un'unificazione della massa continentale contigua che comprende l'Europa e l'Asia.

 Nel suo articolo intitolato "The Geographical Pivot of History" pubblicato nel 1904, Mackinder postulò quella che definì la "teoria dell'Heartland".

 Ha diviso il globo in tre regioni geografiche.

 Le Americhe e l'Australia erano indicate come "isole periferiche" e le isole britanniche e le isole del Giappone etichettate come "isole esterne".

 La combinazione di Africa, Europa e Asia che ha definito "l'isola del mondo".

 E al centro dell'"Isola del Mondo" c'è l'"Heartland", che si estende dal fiume Volga al fiume Yangtze e dall'Himalaya all'Oceano Artico.

Raffinò la sua tesi nel suo libro “Democratic Ideals and Reality”, pubblicato nel 1919 che riassumeva l'essenza della sua teoria come segue:

 "Chi governa l'Europa orientale comanda l'Heartland; che governa l'Heartland comanda l'Isola-Mondo; chi governa l'Isola-Mondo comanda il mondo."

La sua spiegazione del potere globale che era rimasto nelle mani, prima dell'Impero britannico, un'"isola offshore", e poi con gli Stati Uniti, un'"isola periferica", era che la potenza marittima che aveva permesso l'ascesa della Gran Bretagna e degli Stati Uniti avrebbe lasciato il posto al potere terrestre situato nel "cuore" dell'"isola mondiale" a meno che non fossero state intraprese misure per garantire che il potere esercitato dal "cuore" potesse essere equilibrato.

 Il "cuore" comprendeva la maggior parte delle terre controllate rispettivamente dall'impero russo e dall'Unione Sovietica.

Mackinder suggerì che uno dei modi attraverso i quali il potere del "cuore" poteva essere bilanciato era controllare l'Europa orientale.

Sebbene ci siano state modifiche della tesi di Mackinder da parte di altri teorici, mentre altri hanno sostenuto che è obsoleta e non è mai stata dimostrata in tutte le sue componenti, ciò non diminuisce l'importanza della Russia e della Cina in qualsiasi calcolo relativo all'equilibrio geopolitico del potere.

 Un principio chiave dell'argomentazione di Mackinder risiede nella distribuzione delle risorse globali e nell'accesso a dove si trovano tali risorse.

L'abbondanza di risorse naturali della Russia e l'obiettivo dell'Occidente guidato dagli Stati Uniti di controllare queste risorse sono al centro della sua politica nei confronti della Russia, indipendentemente dal fatto che sia governata da un "autocrate" o da un "democratico".

Non è difficile apprezzare come la tesi di Mackinder abbia contribuito a plasmare e informare le politiche statunitensi orientate a contenere l'Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, così come lo è apprezzare la sua influenza nella formulazione della Dottrina Brzezinski come modello per cercare di diminuire la sovranità politica ed economica russa separandola dall'Ucraina e mantenendo la sua egemonia all'interno dell'Eurasia.

Un aspetto concomitante della politica statunitense nei confronti della Russia è stata una duratura ostilità da parte degli Stati Uniti verso qualsiasi relazione economica sostanziale tra Germania e Russia.

 Come George Friedman ha notato in diverse occasioni, incluso nel suo libro del 2010 The Next Decade, la collaborazione tra Europa e Russia è stata disapprovata dagli Stati Uniti, ma la cooperazione russo-tedesca in particolare doveva essere "stroncata sul nascere".

Pertanto, ha concluso che "mantenere un potente cuneo tra Germania e Russia è di enorme interesse per gli Stati Uniti".

 In una conferenza tenuta nel 2015, Friedman ha descritto la Germania come "il difetto fondamentale dell'Europa".

Era, ha affermato, un paese "economicamente potente e geopoliticamente fragile".

Se lasciasse l'UE, graviterebbe verso est e cercherebbe la cooperazione con la Russia e ravviverebbe la paura persistente del "capitale e della tecnologia tedeschi" alleati a quelli delle "risorse e della manodopera russe".

 Questo contesto è estremamente importante per comprendere l'ostilità degli Stati Uniti nei confronti del Nord Stream e dei precedenti gasdotti e il sospetto che gli Stati Uniti fossero responsabili dell'esecuzione dell'atto sottomarino di sabotaggio del gasdotto nel settembre 2022.

L'accumulo di pressioni sulla Russia attraverso l'attuazione delle sanzioni "shock and awe" è servito solo a spingere la Russia verso la Cina, creando un'entità economica eurasiatica che probabilmente svilupperà una forma alternativa di sistema di pagamenti internazionali e lavorerà per sviluppare il commercio in Asia e nel resto del mondo sotto l'egida dei BRICS.

Pertanto, oltre a Brasile, India e Sud Africa, Russia e Cina cercheranno di fornire un ombrello economico per altri paesi, molti dei quali hanno chiesto di aderire all'organizzazione.

Se i BRICS fossero ampliati per includere paesi come Iran, Arabia Saudita, Kazakistan, Nigeria e Argentina, comprenderebbero oltre la metà della popolazione mondiale, il 60% del gas globale e il 45% delle riserve globali di petrolio.

 Inoltre, la vendita di gas russo in rubli e, più recentemente, il crescente uso dello yuan da parte della Russia per il pagamento degli esportatori di petrolio, oltre a facilitare le operazioni di prestito commerciale e come valuta privilegiata per il risparmio delle famiglie, non può che accelerare la tendenza alla de-dollarizzazione.

Lo status del dollaro americano come valuta globale è quindi minacciato.

Nei primi anni 1970, l'amministrazione guidata dal presidente Richard Nixon stipulò un accordo con la Casa di Saud che coinvolgeva gli Stati Uniti garantendo la sicurezza dello stato saudita in cambio dei sauditi che vendevano petrolio in dollari.

Questo accordo, reso possibile grazie al dominio saudita all'interno dell'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), ha garantito la sopravvivenza del dollaro USA come valuta di riserva de facto del mondo.

Ci sono probabilmente due pilastri su cui si trova lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale.

Il primo è la percezione che gli Stati Uniti abbiano la più grande economia del mondo.

Mentre questo è attualmente vero in termini di calcoli basati sul prodotto interno lordo (PIL), non è il caso quando si basa sulla misurazione della parità di potere d'acquisto (PPA) della Cina.

 Il secondo pilastro riguarda la tradizione di condurre transazioni petrolifere in dollari USA.

Se i tre maggiori produttori di petrolio del mondo: Arabia Saudita, Iran e Russia commerciano sotto una valuta alternativa, allora significherà la scomparsa del dollaro USA come valuta di riserva globale.

Oltre all'espansione dei BRICS, c'è la minaccia per gli Stati Uniti dello sviluppo sia di istituzioni già esistenti che di istituzioni nuove di zecca che offrirebbero un'alternativa a quelle create a Bretton Woods all'indomani della 2° guerra mondiale.

La Nuova Banca di Sviluppo (NDB) creata dopo l'incontro di Fortaleza dei BRICS nel 2014 è una di queste istituzioni.

 Oltre ai BRICS, l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), un organismo eurasiatico che comprende funzioni politiche, economiche, di sicurezza e difesa internazionale, così come l'Unione economica eurasiatica (UEE) presentano anche una base istituzionale di un quadro economico globale alternativo a quello finora dominato dall'Occidente guidato dagli Stati Uniti.

Valutare il futuro del mondo in termini di una regione eurasiatica distinta e potente all'interno di un nuovo ordine multipolare non è più nel regno della speculazione, ma è di fatto ora una realtà.

 Le pressioni della politica estera degli Stati Uniti hanno portato al conflitto in Ucraina e sono servite a creare una profonda e, almeno per il prossimo futuro, una spaccatura insanabile tra la Russia e l'Occidente.

Pressioni simili sono state esercitate anche contro la Cina, che ora si prepara alla separazione dall'Occidente.

Per la Russia, i cui leader, tra cui Vladimir Putin e Sergey Lavrov, nel corso degli anni avevano continuamente fatto riferimento ai "nostri partner occidentali", la frattura è ora permanente e irreversibile.

Nel suo discorso al Forum economico internazionale di San Pietroburgo nel giugno 2022, il presidente Putin ha criticato gli Stati Uniti per aver operato come un impero imperialista che non accettava il diritto di altre nazioni di agire come stati politicamente ed economicamente sovrani.

Ha incluso gli stati dell'UE come soggetti a questo vassallaggio quando ha accusato l'organizzazione di non essere pronta a svolgere il ruolo di "attore indipendente e sovrano" durante la crisi ucraina.

Putin ha usato l'occasione del suo discorso per dichiarare specificamente che "l'era del mondo unipolare è finita".

Il mese successivo in una dichiarazione al forum dell'Agenzia per le iniziative strategiche (ASI) "Idee forti per il nuovo tempo", Putin è apparso non solo per suggerire che era necessario un nuovo modello economico globale per sostituire quello che ha definito il modello del "miliardo d'oro" dell'Occidente, la sua affermazione che questo modello, intrinsecamente "razzista" e "neo-coloniale" in natura, e che "ha preso le sue posizioni a causa del furto di altri popoli sia in Asia che in Africa", sembrava destinato a fare appello alle nazioni del Sud del mondo.

La Cina, la cui rivalità contemporanea con gli Stati Uniti è stata ufficialmente inaugurata dal "Pivot to Asia" dottrinale del presidente Obama, è stata oggetto delle misure economiche statunitensi che hanno iniziato a essere intensificate durante l'amministrazione Trump.

 Mentre le accuse di bullismo nei confronti dei vicini sul Mar Cinese Meridionale non sono prive di fondamento, Pechino è stata offesa da ciò che sostiene essere l'abrogazione da parte degli Stati Uniti della sua accettazione di una politica di "una sola Cina", durante gli anni 1970 attraverso una serie di accordi che seguirono la storica visita del presidente Nixon in Cina nel 1972 e il Taiwan Relations Act del 1979.

La pubblicazione da parte del Ministero degli Affari Esteri cinese di due documenti politici nel febbraio 2023, "The Global Security Initiative Concept Paper" e "US Hegemony and Its Perils",confermano che la Cina si considera in una relazione contraddittoria con gli Stati Uniti.

Ciò significa che l'Occidente guidato dagli Stati Uniti dovrà probabilmente affrontare un'alleanza militare di nazioni guidate da Russia e Cina, oltre a un quadro economico globale alternativo composto da nazioni che effettuano transazioni in valute che saranno ancorate all'oro.

Conclusione.

Il percorso dal mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti dopo la disgregazione dell'Unione Sovietica alla situazione contemporanea di uno stato di multipolarità in rapido sviluppo è uno che può essere fortemente sostenuto essere stato facilitato dalla cattiva gestione della politica estera degli Stati Uniti.

 L'influenza degli ideologi neoconservatori che sposano una forma particolarmente aggressiva di eccezionalismo americano, così come quelli dello Stato di Sicurezza Nazionale e gli interessi nell'industria militare, hanno portato gli Stati Uniti da un disastro di politica estera all'altro.

L'era successiva alla fine della Guerra Fredda è stata caratterizzata dalla vistosa assenza dell'impiego di una solida arte di governo del tipo visto nelle precedenti generazioni di leader.

Ciò ha creato le circostanze in cui le tensioni tra Russia e Cina, nazioni economicamente e militarmente importanti, sono state lasciate salire a livelli sempre più intollerabili.

 La mancanza di una genuina applicazione della diplomazia ha portato allo smantellamento totale del sistema dei trattati nucleari faticosamente costruito durante la Guerra Fredda, così come alla creazione evitabile di un conflitto distruttivo in Ucraina che John Mearsheimer ha notato essere stato condotto lungo il sentiero della primula con il risultato della sua rovina.

 Lee Smith di “The Tablet” prevedeva in un articolo pubblicato il giorno dopo il lancio dell'SMO che legandosi a un'America spericolata e pericolosa, gli ucraini hanno commesso un errore che gli stati clienti studieranno per gli anni a venire.

Il conflitto in Ucraina presenta prevedibili aperture per un confronto aperto tra l'Occidente e la Russia, proprio come la cattiva gestione dell'ascesa della Cina, un caso di studio della "trappola di Tucidide", minaccia una guerra del Pacifico nel prossimo futuro.

È sintomatico dell'era attuale che la politica estera americana abbia unito la massa continentale eurasiatica contro di essa, mentre durante l'era della Guerra Fredda si è sforzata assiduamente di mantenere le divisioni tra l'Unione Sovietica dominata dalla Russia e la Cina rossa attraverso lo sforzo di riaprire il commercio e la diplomazia con quest'ultima.

L'impero americano, a quanto pare, non è riuscito a cogliere dal suo predecessore potenza globale anglosassone, l'impero britannico, lo stratagemma di una politica di "economia dei nemici".

Altrettanto sintomatico dei tempi è il modo in cui il militarismo statunitense e la militarizzazione del commercio attraverso l'uso delle sanzioni, siano riusciti ad alienarsi vaste aree del mondo.

È stato stimato che fino a un quarto della popolazione mondiale è sottoposta a una qualche forma di sanzioni.

 Molte nazioni del Sud del mondo hanno reagito negativamente alle critiche americane e dell'Europa occidentale sulla loro resistenza ad aderire alle sanzioni imposte alla Russia dopo l'escalation della guerra in Ucraina.

 I membri dei governi hanno accusato gli Stati Uniti e l'UE di ipocrisia riguardo ai criteri utilizzati per giustificare l'imposizione di sanzioni.

 Sono anche probabilmente stanchi dell'invenzione della logica delle "democrazie" contro le "autocrazie" per il clima internazionale antagonista che è stato fomentato.

La ridondanza delle politiche perseguite è evidente per quanto riguarda il conflitto in Ucraina:

gli Stati dell'UE stanno affrontando difficoltà economiche, compresa la Germania, che è alle prese con la deindustrializzazione.

La guerra in Ucraina ha anche dimostrato che la Russia è capace di una guerra industriale in un modo che gli Stati Uniti, con la loro ridotta base industriale, troverebbero difficile da eguagliare.

 E come nel caso del lungo impegno in Afghanistan, i miliardi spesi per sostenere uno stato corrotto servono solo a facilitare un trasferimento di ricchezza dai contribuenti statunitensi agli appaltatori militari.

La mancanza di dibattito pubblico a cui Wesley Clarke ha fatto riferimento quando ha spiegato come gli ideologi neoconservatori avevano "dirottato" la politica estera americana persiste, così come la mancanza di responsabilità da parte dello Stato di sicurezza nazionale che, di concerto con il movimento neoconservatore, ha assicurato la diminuzione del prestigio morale americano in tutto il mondo e la crescita del suo debito sovrano.

Queste forze hanno inconsapevolmente contribuito alla creazione di un Nuovo Ordine Mondiale centrato sull'Eurasia.

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