L’EMERGENZA CLIMATICA NON DIPENDE DA NOI… MA LA GUERRA SI!
L’EMERGENZA
CLIMATICA NON DIPENDE DA NOI…
MA LA
GUERRA SI!
LE
RELAZIONI TRA GUERRA E
CRISI
CLIMATICA ED ECOLOGICA.
Emergency.it
– Roberto Mezzalama – (6-5-2022) – ci dice:
La
trascrizione integrale dell’intervento di Roberto Mezzalama per “Giù le armi”.
Buongiorno,
grazie per questa opportunità.
Oggi
vi parlerò delle relazioni tra guerre e crisi climatica ed ecologica, che sono
delle relazioni piuttosto complicate e che richiederebbero delle analisi molto
complesse e approfondite.
Quindi oggi, senza nessuna pretesa di
completezza, mi limiterò ad esplorare tre aspetti, che considero fondamentali
in questo contesto così complesso.
Il
primo riguarda
l’importanza del settore militare nelle emissioni, soprattutto di gas a effetto
serra, che sono la causa principale della crisi climatica ed ecologica;
il
secondo sono
gli effetti dei conflitti armati;
il
terzo, perché si fa la guerra in relazione
al petrolio, alle fonti fossili di energia e quindi, la relazione inversa, cioè
la causa
della crisi climatica che diventa anche la causa dei conflitti armati.
Gli
effetti delle attività militari in tempo di pace sono già degli effetti
importanti e, tra l’altro, secondo gli accordi internazionali i Governi non
sono soggetti a dei vincoli di misurazione e di comunicazione delle emissioni
di gas a effetto serra del settore militare.
Alcuni
governi lo fanno, altri non lo fanno.
Quindi è difficile ricostruire il vero peso di
questo settore, soprattutto quando si considera che gli eserciti molto grandi
sono in Paesi che non hanno una particolare trasparenza come la Russia, la
Cina, ma anche la Turchia, che è un Paese Nato ed è il secondo esercito della
Nato.
Negli
Stati Uniti questi dati sono disponibili e quindi si sa che il Dipartimento
alla Difesa americano, il Pentagono – che è la più grossa organizzazione
militare a livello globale e anche la singola organizzazione globale che
consuma più combustibili fossili nel mondo – utilizzerà quest’anno 82,3 milioni
di barili di petrolio, che sono l’equivalente del consumo annuo della
Finlandia, che è uno Stato di quasi 5 milioni di abitanti.
Tra il
2001 e il 2017 si è stimato che il Dipartimento di Stato americano abbia emesso
1,2 miliardi di tonnellate di CO², che sono più o meno il consumo annuo, o
meglio, le emissioni annue di 257 milioni di macchine, che sono esattamente il
doppio di quelle che circolano negli Stati Uniti.
A
livello europeo siamo messi un po’ meglio, comunque il settore militare emette
– al netto del Regno Unito – più o meno 8 milioni di tonnellate l’anno di CO²,
a cui però bisogna aggiungere anche quelle che arrivano dalle aziende che sono
impegnate nelle attività militari – per l’Italia, ad esempio Leonardo, ma anche
altre aziende – e, quindi, se mettiamo insieme tutto quanto arriviamo a
emissioni di CO2 che sono di quasi 25 milioni di tonnellate l’anno, che
corrispondono più o meno a circa 14 milioni di autovetture oppure al 10% delle
emissioni dell’Italia. Emissioni molto significative.
Le
emissioni dell’apparato militare italiano sono poco più di 2 milioni (tra 1
milione e 2 milioni e mezzo) che comunque coincidono, vuoto per pieno, alle
emissioni di una città come Torino, quindi non così piccola.
Il settore
militare anche in tempo di pace è un settore che emette molte quantità di gas a
effetto serra, che consuma molti combustibili fossili.
Li
consuma nei suoi mezzi: l’aviazione è l’arma che di gran lunga consuma più
combustibili.
Si
stima che quest’anno l’aviazione americana sparerà 5 miliardi di dollari di
combustibili.
E poi
ci sono ovviamente tutte le basi, gli edifici, le infrastrutture che vanno
mantenuti.
Si
calcola che tra l’1 e il 6% delle terre emerse in realtà siano dedicate ad attività
militare.
E in questi posti, poi, dove si svolgono esercitazioni
e attività di utilizzo di armi ci sono effetti anche diversi da quelli delle
emissioni di gas a effetto serra come l’inquinamento da idrocarburi,
l’inquinamento da sostanze organiche o da metalli, ogni tanto anche
l’inquinamento da sostanze radioattive, quindi grandi quantità di materiali
pericolosi che vengono emessi durante le esercitazioni, che prevedono spesso
esplosioni, incendi…
E
quindi è chiaro che aumentare le spese militari anche in tempo di pace
significa anche aumentare le emissioni che sono legate alla produzione delle
armi, allo stoccaggio, alla manutenzione, alle esercitazioni, alle manovre
militari…
Quindi,
per dare anche qui un paragone, si stima che le spese militari siano state di 2
miliardi di dollari nel 2021.
Eppure, durante la Cop 26 a Glasgow, i Paesi
sviluppati non sono riusciti a trovare 100 milioni per costituire un fondo con
cui compensare i Paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico.
C’è da
dire anche un’altra cosa, che almeno l’esercito americano è impegnato a ridurre
i suoi consumi.
Lo fa per ragioni strategiche, non solo per ragioni
ambientali, perché comunque la dipendenza dal petrolio, come più è un problema
e quindi c’è un progetto di investimento, c’è un programma di investimento di
parla di 750 milioni di dollari per passare a energie rinnovabili, inclusi biocombustibili e motori
elettrici per far andare avanti i mezzi militari, probabilmente non quelli
critici per le emissioni, però, questo è anche un altro processo in corso
nell’ambiente militare.
Cosa
succede durante le guerre, durante i conflitti armati?
Le
cose ovviamente peggiorano moltissimo.
Intanto per i mezzi militari, che sono alimentati a
fonti fossili e che spesso sono tenuti negli hangar o nei magazzini e che
vengono utilizzati di continuo.
Degli
1,2 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra di cui parlavo prima, cioè
dal 2001 al 2017 (per l’esercito americano si è scelto il 2001 perché sono
partite le cosiddette Guerre al terrore di Bush), pensate che 1/3 di quelli
sono stati emessi direttamente durante le attività di combattimento.
Quindi 400 milioni di tonnellate di CO² sono state
emesse durante i combattimenti, soprattutto in Iraq e Afghanistan.
E poi, ovviamente, quando si combatte si usano
esplosivi e questi rilasciano, nel corso dell’esplosione, degli incendi gas a
effetto serra, inquinanti, organici, inorganici…
Si
polverizzano metalli, inclusi, metalli pesanti.
È anche il caso di uranio impoverito. Si sterilizza il
suolo perché le esplosioni causano temperature elevatissime e quindi si
sterilizza il suolo e si uccidono milioni di animali.
Si è
stimato che durante i conflitti in Asia e in Africa fino al 90% dei vertebrati
terrestri vengano uccisi direttamente dalle attività belliche e poi anche
indirettamente, perché in genere i soldati si dedicano anche alla caccia.
Insomma, ogni tanto da quelle parti restano
anche senza viveri e quindi questo è successo in modo ampio.
I
crateri che vengono lasciati dalle bombe modificano il suolo, spesso espongono
la falda superficiale, gli inquinanti che sono rilasciati durante le esplosioni.
E
proprio l’esempio più noto da questo punto di vista è quello della guerra del
Vietnam, perché si stima che l’esercito americano lì abbia sganciato più di 7
milioni di bombe, e non solo in Vietnam, ma anche in Laos e in Cambogia.
Queste hanno sconvolto il paesaggio e molto
spesso non è stato possibile ripristinare le condizioni precedenti,
ripristinare le coltivazioni perché la circolazione della parte superficiale
era stata completamente stravolta e, in alcuni casi, come ripiego sono stati
poi trasformati in stagni per allevare dei pesci.
Un
altro esempio famoso di disastro ambientale legato a un conflitto è quello che
è successo durante la prima guerra del Golfo quando, in seguito all’invasione
del Kuwait, gli iracheni hanno fatto saltare in aria 800 pozzi di petrolio e
600 di questi hanno preso fuoco e si stima che le emissioni generate da questi
incendi siano state pari al 3-4% delle emissioni globali di quell’anno.
Questo
è un po’ la proporzione di quello che è successo.
E lì, invece, dai pozzi che non hanno preso
fuoco si sono fuoriusciti costantemente enormi quantità di idrocarburi che
hanno coperto quasi 200 chilometri quadrati di suolo. E ancora adesso si sta
cercando di bonificare questi terreni a 30 anni di distanza.
Nelle
guerre moderne è abbastanza frequente che vengano presi di mira, in modo più o
meno volontario, obiettivi industriali come impianti chimici, siderurgici,
petrolchimici, per incidere sulla fornitura di materiali all’esercito nemico.
Un
caso famoso è quello del bombardamento della Nato della Serbia nel 1999, quando
è stata colpita la raffineria di Novi Sad.
E, le
Nazioni Unite, hanno stimato che siano uscite 50.000 tonnellate di petrolio, in
parte bruciate, in parte sono andate a contaminare il terreno circostante.
E
questo, se veniamo all’attualità, è esattamente quel che sta succedendo in
Ucraina.
Continuano
ad arrivare notizie di attacchi a impianti industriali o depositi di
carburante.
E l’Ucraina è un Paese industrializzato,
soprattutto nella regione del Donbass dove ci sono la gran parte dei
combattimenti.
Il
ministero dell’Ambiente ucraino stima che ci siano oltre 23.000 siti nel Paese
che hanno o sostanze tossiche o rifiuti tossici stoccati.
E qui è probabile che alcune decine di questi
siano già stati danneggiati, con il rilascio conseguente poi delle sostanze
tossiche.
È il caso di una fabbrica da bombardamento a
nord dell’Ucraina da cui si è liberata una nuvola di ammoniaca che ha
interessato un raggio di due chilometri e mezzo.
E
così, come è noto, anche il caso dei combattimenti tra una centrale di
Chernobyl che hanno provocato il sollevamento di polveri radioattive.
E pare
ci siano stati anche degli effetti sui soldati russi che erano stati esposti a
questa polvere radioattiva.
C’è un
altro effetto dei conflitti, che durante le guerre crollano le strutture che
reggono la vita civile.
Tra
queste ci sono anche le infrastrutture e le istituzioni che si preoccupano di
proteggere l’ambiente.
Durante
la guerra civile del Congo, ad esempio, c’è stato un crollo della popolazione
dei gorilla perché i guardiani del parco non potevano più fare il loro lavoro e
spesso erano stati anche uccisi e quindi c’è stato un effetto molto diretto.
Poi
pensate a tutti gli impianti di presidio dell’ambiente, come gli impianti di
depurazione delle acque, gli impianti di smaltimento dei rifiuti, le
discariche, gli impianti di compostaggio, gli impianti di bonifica di siti
contaminati, sono tutti a rischio di danni fisici, ma anche di abbandono da
parte di chi è stato richiamato a combattere o semplicemente non può rischiare
la vita per andare a farli funzionare.
E
quindi qui siamo di nuovo di fronte a tutta una serie di fenomeni di
inquinamento secondario, se vogliamo il rilascio di gas a effetto serra
secondario, che però sono estremamente importanti e che colpiscono alcuni
comparti ambientali in particolare, ed espongono anche la popolazione poi a
degli effetti secondari.
Perché
poi?
Le acque non depurate, i rifiuti non smaltiti.
Come dire, gli impianti di bonifica non funzionano,
poi al fine generano un altro generale inquinamento.
E qui voglio introdurre un altro elemento, a
costo di sembrare molto, molto cinico. Durante questi periodi di conflitto cosa
succede?
L’altra cosa succede è che si fermano le
normali attività, diciamo così, civili e normali attività produttive.
E quindi c’è un contraltare a tutto questo.
Quest’anno stimiamo che il PIL, si stima che il PIL
dell’Ucraina crolli del 35-40%.
Questo
provocherà anche un crollo delle emissioni di gas a effetto serra, che però, e
questo è il motivo per cui, per citare questo fatto, spesso queste diminuzioni
legate ai conflitti vengono più che compensate dal dagli investimenti e dalle
attività di ricostruzione che hanno luogo dopo la fine del conflitto.
E quindi, come dire, alla fine il bilancio netto di
tutto questo è un bilancio gravemente negativo.
E qui
voglio ribadire, al di là e al di sopra di tutte le sofferenze umane, ciò che
queste attività di guerra comportano.
E qui
vengo al terzo angolo, diciamo, dal quale volevo provare un po’ a guardare:
il
problema oggi delle relazioni tra attività militari, guerre, conflitti e crisi
climatica ed ecologica, che è quello della motivazione perché si fa la guerra.
Perché?
Perché ci si combatte nel corso della storia?
Molto
spesso ci si è combattuti proprio per il controllo delle fonti fossili di
energia.
E
durante la seconda guerra mondiale ci sono stati – ma addirittura nella prima
guerra mondiale – dei casi emblematici
di due battaglie che si sono svolte intorno a quelle che allora erano le grandi
regioni petrolifere: la regione di Ploiesti in Romania e la regione di Baku in
Azerbaigian.
Ci sono state, prima i tedeschi hanno cercato
di controllare Baku, poi i sovietici hanno preso la regione di Ploiesti e hanno
lasciato la Germania nazista senza una delle sue fonti principali di
idrocarburi e quindi diciamo il combattersi per il controllo delle risorse.
Sostanzialmente del petrolio, ma anche in
maniera crescente anche del gas.
È una costante che abbiamo trovato in
conflitti che possiamo trovare nella nostra storia, in conflitti, soprattutto
nel secondo dopoguerra, ma anche durante la Seconda guerra mondiale.
Anche
guerre, come dire dimenticate.
Pensate alla guerra del Biafra in Nigeria, dove
abbiamo cercato di rendersi indipendente dopo, dopo l’indipendenza della
Nigeria.
Qui ci
sono stati numerosi combattimenti intorno alle alla regione petrolifera di Port
Harcourt, nella regione del Delta del Niger, dove ancora adesso che è ancora
adesso la capitale petrolifera della Nigeria, dove ancora adesso Eni ha grandi
interessi e grandi e grandi basi.
Poi c’è, l’ho già citato, forse l’esempio più
famoso di conflitto armato contro le risorse petrolifere, che è quello appunto
delle due guerre del Golfo che sono appunto iniziate con l’invasione del Kuwait
da parte dell’Iraq e poi proseguite.
Ci sono state due ondate o state due guerre
del Golfo guidate dagli Stati Uniti e partecipato a una coalizione nella quale
c’era anche l’Italia.
L’origine
di tutto questo è stata il controllo dei, diciamo così, dei giacimenti
petroliferi che stanno al confine tra Kuwait e Iraq.
Questo
ha scatenato in qualche modo la prima guerra del Golfo e poi ha fatto partire
anche tra la prima e la seconda guerra del Golfo.
C’è
stato una fortissima pressione sul governo americano per prendere il controllo
delle risorse petrolifere irachene che erano e sono ancora immense.
Ricordo
che nel governo di George Bush c’erano ai tempi della guerra al Golfo
Condoleezza Rice, che era membro del Consiglio d’amministrazione di Shell
Brown, e Dick Cheney, che era stato l’amministratore delegato di Al Barton,
forse il più grande contractor petrolifero del mondo.
E
quindi ci sono sicuramente state forti pressioni per arrivare a questi a queste
situazioni.
Ma
guardate, ci sono anche, come dire, altre guerre dimenticate.
È stata una piccola fase della guerra tra il
Sudan e il Sud Sudan, che è stata anche legata al controllo di una località
petrolifera.
Un
breve periodo in cui però 100.000 civili hanno dovuto lasciare le loro case.
E le
tensioni nel Mar Cinese Meridionale tra Cina, Indonesia, Malesia, Filippine
sono anche legate al fatto che in quell’area ci sono risorse petrolifere.
Ma
anche se veniamo al Mediterraneo, le esplorazioni petrolifere intorno a Cipro
hanno causato tensioni.
Il dispiegamento di navi militari turche nel
Mediterraneo occidentale.
Fino a cosa? Anche un po’, come dire,
folcloristiche.
C’è
una tensione diplomatica tra la Danimarca e il Canada per il controllo di una
minuscola isola nell’Artico intorno al quale c’è petrolio che è stata nominata
la guerra del whisky.
Poi chi vuole approfondire potrà cercare
quindi il controllo delle risorse petrolifere.
È una
continua fonte di tensione ed è chiaro che la spinta verso la decarbonizzazione
dell’economia, che deriva dal tentativo di combattere i cambiamenti climatici,
sta mettendo a dura prova gli equilibri geopolitici che si sono stratificati
nel corso nel corso del tempo e quindi anche le relazioni tra Paesi e blocchi,
tra i blocchi di Paesi.
La transizione ecologica non sarà un gioco a
somma zero per tutti.
È chiaro che, ad esempio, le ricchissime
dinastie del Golfo saranno probabilmente tra i perdenti.
E quindi è chiaro che da un punto di vista
politico ci siano forti pressioni per anche rallentare, modificare, insomma
incidere su questo fenomeno storico.
E
quindi, per concludere, credo che tutto questo da portare a riflettere, perché
noi siamo in un momento storico in cui la crisi climatica ecologica dovrebbe
indurre l’umanità intera a unirsi per trovare una soluzione alla crisi
climatica.
E in
tutto questo una ripresa, un’accelerazione della militarizzazione del mondo è
estremamente negativo, estremamente rischioso non solo per i rischi diretti dei
conflitti, ma anche perché questo distrae enormi risorse, enormi capitali
politici, economici, sociali dall’obiettivo comune e crea poi dei solchi, crea
delle divisioni là dove invece bisognerebbe lavorare tutti insieme per trovare
delle soluzioni.
E quindi questa è, dal mio punto di vista, una
riflessione e una preoccupazione principale che tutti dovremmo avere nel
considerare appunto il problema dei rapporti delle relazioni tra attività
militari, guerra e crisi climatica ed ecologica.
Vi
ringrazio.
(Roberto
Mezzalama - per “Giù le armi”)
La
guerra di Putin alla
transizione
energetica globale.
Valigiablu.it - Marco Loprieno e Pat Lugo – (26
Febbraio 2023) – ci dicono
Nella
Federazione Russa le ambizioni strategiche del regime e gli interessi dei
‘signori del fossile’ collimano perfettamente.
Ma ciò
spiega solo parzialmente lo strapotere a livello internazionale di “Gazprom” e
delle altre aziende energetiche russe.
Né spiega appieno l’estrema facilità con cui Putin ha
potuto usare il ‘grilletto energetico’ nel disegnare la propria politica estera.
L’altro
elemento, fin qui assai poco esplorato nelle analisi del conflitto ucraino, è
l’avidità dell’Occidente.
O
meglio, l’approccio turbo liberista (predatorio) di alcune multinazionali
energetiche e dei governi occidentali che ne hanno supportato servilmente le
strategie, giungendo a ‘farsi dettare’ non solo le scelte in tema di
mix-energetico, ma perfino l’agenda politica estera nel suo insieme.
E ciò
da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
E alla
faccia della decarbonizzazione.
E se
cambiassimo punto di vista?
Putin
teme il Green Deal europeo.
Un’equa
transizione globale.
Una
mentalità estrattiva e predatoria.
L’arma
dei combustibili fossili.
Petro-State:
dalle origini a Putin.
La
ragnatela dei gasdotti.
UE:
nasce l’Unione dell’Energia.
Clima:
Putin e l’andatura del gambero.
It
takes 2 to tango...
Zero-Carbon:
un’altra Russia è impossibile?
E se
cambiassimo punto di vista?
Secondo
alcuni analisti, Putin preparava da tempo l’aggressione all’Ucraina ma,
apparentemente, c’è stata una violenta accelerazione nei suoi piani.
Questo cambiamento, inaspettato per molti, si
è concretizzato nell’assoluta sottovalutazione da parte della Russia sia della
reazione ucraina che della risposta internazionale (e, dunque, dei tempi del
conflitto).
Prova
ne è stata anche l’evidente disorganizzazione e insufficienza delle truppe e
degli armamenti russi spediti sul campo all’inizio della cosiddetta ‘operazione
speciale’.
Ma
cosa ha indotto questa accelerazione?
Vista
dall’osservatorio di Bruxelles e concentrandoci sulle relazioni Russia/UE, in
particolare in campo energetico, azzardiamo qualche ipotesi e lo facciamo a
partire dall’analisi della “Russia in quanto Petro-State” (concetto che approfondiremo qui di
seguito e su cui ritorneremo più volte).
Un
sentiero, ci sembra, fin a oggi poco battuto tanto nella ricerca delle ragioni
del conflitto quanto in quella dell’identificazione di possibili vie d’uscita.
Bypassando
il ‘narrative’ putiniano [scontro di civiltà, ‘Nuovo Ordine’ mondiale,
‘denazificazione’ dell’Ucraina, accerchiamento NATO, ecc.] su cui, prima di noi
e meglio di noi, altri si sono espressi, invitiamo a considerare due elementi
che certamente non sono affatto estranei all’accelerazione di cui sopra:
L’inedita
coesione mostrata dall'UE durante la pandemia con l’acquisto comune dei vaccini
ha, molto probabilmente, vanificato o depotenziato i ripetuti e documentati
tentativi del Cremlino di spaccare l’Europa.
Per
esempio, attraverso il supporto a gruppi e partiti sovranisti, movimenti “no-vax”,
manipolazione dei media, ecc.
Il “Green
Deal europeo” e, successivamente, la ‘pericolosa’ accelerazione (dal punto di
vista russo) del pacchetto “Fit for 55”, adottato il 14 luglio 2021 con misure
e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione, è stata letta
come una minaccia insopportabile per gli interessi del “Petro-State russo”.
Ma se
la guerra in Ucraina ha certamente fatto vacillare in molti di noi la speranza
per un futuro più sereno (già minata dalla pandemia), la reazione dell'UE a due
mesi dall’inizio del conflitto non è stata probabilmente quella che Putin aveva
previsto e avrebbe auspicato.
Presentato a maggio 2022, “REPowerUE”, è un piano ‘muscolare’ (almeno sulla
carta) per risparmiare energia, produrre energia pulita e diversificare il
nostro approvvigionamento energetico.
Tra
gli obiettivi, il raggiungimento più rapido possibile dell’indipendenza dalle
fonti fossili provenienti da Mosca, il potenziamento di progetti basati sulle
energie rinnovabili e, in generale, la velocizzazione della transizione
energetica.
Insomma,
se riuscissimo a tener fede anche solo parzialmente a questi propositi, noi
europei potremmo considerarci un po’ più al riparo dal ricatto energetico dei
Petro-State (e non solo di quello guidato da Putin).
Putin
teme il Green Deal europeo.
La
Commissione europea ha adottato una serie di proposte per trasformare le
politiche dell'UE in materia di clima, energia, trasporti e fiscalità in modo
da ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il
2030 rispetto ai livelli del 1990.
Il Green Deal europeo è un piano per decarbonizzare
l'economia entro il 2050, rivoluzionare il sistema energetico europeo,
trasformare profondamente l'economia e ispirare gli sforzi per combattere il
cambiamento climatico.
Ma il
piano ha anche profonde ripercussioni geopolitiche.
Il
Green Deal, infatti, influenza la geopolitica attraverso il suo impatto:
Sul
bilancio energetico dell'UE e sui mercati globali;
Sui
paesi produttori di petrolio e gas nel vicinato dell'UE;
Sulla
sicurezza energetica europea;
Sui
modelli commerciali globali, in particolare tramite il ‘meccanismo di
adeguamento del carbonio alla frontiera’, il cosiddetto “CBAM”.
Alcuni
di questi cambiamenti hanno potenzialmente un impatto critico su diversi paesi
partner dell’Unione, specialmente sui cosiddetti “Petro-State”, ossia quei
paesi in cui una parte più che rilevante delle entrate governative e delle
esportazioni è rappresentata dai combustibili fossili.
Un Petro-State è legato per definizione
all’andamento dei prezzi dei combustibili fossili.
La
prima legge della “petro-politica” postula, infatti, quanto segue:
negli Stati petroliferi, il prezzo del
petrolio e il ritmo della libertà si muovono sempre in direzioni opposte. In
altre parole, si riscontra che minore è l'aumento medio globale del prezzo del
greggio e/o del gas naturale, maggiori sono le libertà di parola, di stampa, elezioni
libere ed eque, magistratura indipendente, Stato di diritto.
Proprio
per non accentuare questa divaricazione, sono state suggerite una serie di
politiche di cooperazione tese a facilitare una ‘giusta transizione’ dei “Petro-State”
verso quel “processo di decarbonizzazione” legato in sede europea
all’attuazione del “Green Deal”, ma più in generale alle misure globali
auspicate dall’”UNFCCC”.
La
Russia è il quarto maggior emettitore mondiale di gas climalteranti ed è stata
a lungo resistente all'idea di “politiche ambientali” volte a ridurre l'uso dei
combustibili fossili:
«La
dottrina ambientale del paese - e persino la sua ratifica dell'accordo di
Parigi - sono più di ogni altra cosa una mera strategia di PR internazionali.
Quanto
alla politica climatica interna, i documenti russi sono dichiarazioni vaghe che
spesso contraddicono altri progetti» (Natalia Paramonova, « Will EU Green Deal Force
Russia to Clean Up Its Act », Carnegie Moscow Center, 13 juillet 2020)
A
eccezione del monitoraggio della produzione di carbonio, infatti, tutte le
normative sulle emissioni rimangono volontarie.
Il
presidente russo Vladimir Putin continua a negare che” il cambiamento climatico sia
causato dall'attività umana” e insiste sul fatto che la Russia ha "il sistema
energetico più verde del mondo".
In
realtà, la Federazione Russa rimane enormemente dipendente dagli idrocarburi e
non è affatto riuscita a raggiungere l'obiettivo, dichiarato da Putin, di
ridurre la quota di combustibili fossili del 40% tra il 2007 e il 2020
nell'economia del paese (la diminuzione è stata solo del 12%).
Il programma di sviluppo del carbone russo per
il 2035 è stato rivisto al rialzo nel 2019, fissando un nuovo obiettivo di
crescita della produzione dal 10% al 20%.
Permane
inoltre nel paese una forte opposizione a qualsiasi sforzo normativo per
limitare le emissioni di carbonio, in particolare da parte dell'Unione Russa
degli Industriali e degli Imprenditori.
In
questo contesto, il “Green Deal europeo” potrebbe avere un impatto davvero
significativo sulla Federazione Russa.
Nel 2016, le esportazioni di petrolio e gas
hanno contribuito per il 36% al bilancio pubblico del paese e l'Europa ha
assorbito il 75% delle esportazioni di gas naturale russo e il 60% delle sue
esportazioni di petrolio greggio.
Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina, si
riteneva che nel prossimo decennio il commercio di petrolio e gas Russia-UE non
avrebbe subito un impatto sostanziale, poiché l'Europa avrebbe ridotto solo
marginalmente le proprie importazioni di petrolio e gas entro il 2030 anche in
uno scenario di riduzione delle emissioni del 55%.
Tuttavia, la situazione sarebbe cambiata
radicalmente dopo il 2030, quando l'Europa si prefiggeva di ridurre
sostanzialmente le proprie importazioni di petrolio e gas.
Per soprammercato,
nel contesto dello CBAM, il meccanismo di adeguamento del carbonio alle
frontiere sulle importazioni nella UE diverse da petrolio e gas, potenzialmente
avrebbe causato una riduzione delle esportazioni di altre merci russe in quanto
esse tendono a essere ad alta intensità di carbonio.
Attenzione:
questi erano i piani UE anche prima del conflitto ucraino.
E, a nostro avviso, sono state una delle
ragioni più rilevanti nello spingere Putin ad aggredire il vicino (ricco di
risorse minerarie e importante paese di transito per il gas russo) prima di
quando sarebbe stato più preparato per farlo.
Al
momento, non è chiaro come la Russia reagirà agli sforzi di decarbonizzazione
dell’Europa:
la
risposta geopolitica più probabile sarà quella di cercare di diversificare la
propria base di clienti energetici, come aveva già iniziato a fare da alcuni
anni.
Uno
sforzo per orientare le vendite di energia verso la Cina, in corso almeno dalla
crisi finanziaria del 2007-2009, ha registrato una certa accelerazione dopo che
la crisi ucraina del 2014 ha inasprito le relazioni politiche della Federazione
Russa con l'Europa.
Nel
2016, la Russia ha sostituito l'Arabia Saudita come il più grande fornitore di
petrolio greggio della Cina e, nel 2018, ha inviato 1,4 milioni barili / giorno
di petrolio greggio in Cina, pari a oltre il 25% delle esportazioni di petrolio
russo.
Fino a
poco tempo fa, Putin forniva alla Cina solo piccole quantità di gas naturale,
ma il “gasdotto Power of Siberia”, aperto nel dicembre 2019, potenzialmente
potrebbe fornire 38 miliardi di metri cubi di gas / anno ai cinesi entro il
2024, ovvero circa il 15% dei volumi di esportazione di gas naturale russo del
2018.
Nonostante
questi progressi, sembrerebbe tuttavia che la Cina sia piuttosto riluttante a
sostenere l'industria energetica russa per scopi geopolitici.
Un’equa
transizione globale.
La UE
ha un interesse strategico a contribuire alla stabilità del suo vicinato per
una serie di motivi:
dall’adattamento
e mitigazione della crisi climatica, alle migrazioni, al commercio.
In
tale contesto, aiutare i paesi esportatori di petrolio e gas del vicinato a
gestire le ripercussioni del Green Deal, individuando concrete misure di
cooperazione per un’equa transizione ecologica globale, sarà un punto cruciale
dell'agenda di politica estera UE.
L'Unione
Europea non dovrebbe adottare un approccio unico per tutti.
Dovrebbe piuttosto adattarsi al contesto
specifico di ciascun paese partner, concentrandosi sui vantaggi competitivi
reciprocamente più promettenti.
In chiaro: le esperienze passate dell'UE nella
promozione di progetti astratti di cooperazione energetica regionale non vanno
ripetute.
Ma una domanda si impone: l'UE e i suoi vicini
esportatori di petrolio e gas hanno oggi il tempo per pianificare adeguatamente
un’equa transizione?
In
teoria, come si è già detto, fino al 2030 l'UE continuerà a importare petrolio
e gas dai paesi vicini e un calo significativo inizierà solo dopo il 2030.
L’arco
temporale (assai limitato) da oggi fino al 2030 dovrebbe essere utilizzato per
prepararsi a ciò che verrà dopo.
I proventi delle esportazioni di petrolio e
gas dovrebbero essere sempre più utilizzati dai paesi esportatori di petrolio e
gas per diversificare le proprie economie.
Innanzitutto, investendo nelle energie rinnovabili,
incluso l'idrogeno verde: fonti alternative di energia che - in un futuro anche
prossimo - potrebbero essere esportate verso l’Europa, sostituendo
definitivamente i fossili.
L'UE
dovrebbe sostenere tali iniziative, anche attraverso un approccio più deciso e
coerente ai finanziamenti per il clima (a 360°: dall’educazione alla
ricerca, dal commercio alle infrastrutture sostenibili, ecc.).
Una
mentalità estrattiva e predatoria.
Nel
caso della Federazione Russa, non è stato possibile nemmeno avviare tale
processo: la
guerra di aggressione di Putin all’Ucraina ne è, purtroppo, la dimostrazione
plastica.
Iniziata
il 24 febbraio 2022, oltre a causare morte e distruzione sul territorio di un
paese sovrano, la guerra si è anche tradotta in una crescente ostilità verso la
UE e le sue politiche più rilevanti.
In primis, appunto, quelle relative alla
decarbonizzazione.
Questa
mentalità, estrattiva e predatoria, deriva da una visione in cui il mondo è
visto come un'arena di intensa competizione e in cui la missione primaria del
governo russo è la difesa dei propri interessi nazionali.
Mosca
ritiene che gli appelli di altri paesi a impegnarsi in tagli del carbonio più
ambiziosi (e urgenti) siano semplicemente dei tentativi di indebolire la
posizione competitiva e l’influenza internazionale della Russia.
Del
resto, la politica climatica della Federazione Russa è in gran parte modellata
da potenti gruppi di interesse, primo tra tutti il settore energetico, che
costituisce il pilastro dell'economia nazionale.
Nel
2018, gli idrocarburi hanno fornito il 46% delle entrate del bilancio federale,
il 65% delle entrate totali delle esportazioni e costituivano il 25% del PIL
russo.
Queste
cifre impressionanti offrono un notevole peso politico alle grandi aziende del
settore energetico, “Gazprom” e “Rosfnet” in testa.
La
loro influenza si estende a molte aree (dai media alla finanza, solo per citare
due settori tra i più sensibili).
Di
conseguenza, “Gazprom & Co” sono in grado di bloccare qualsiasi politica, o
semplice indirizzo (per esempio, da parte dei media) verso un'economia
post-industriale e post-carbonio.
Nel
discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’,
Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento
della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti.
Ma,
come sottolinea Giuseppe Sabella,
«l’ingresso
dell’Ucraina nella Nato non è più all’ordine del giorno dopo il 2008.
E non vi è alcun accerchiamento della Russia.»
In
realtà Putin vuole colpire ancora e a fondo l’UE, spiega ancora Sabella:
«Putin
giustifica la sua operazione con un discorso che da una parte scarica le
responsabilità sull’Occidente e sulla Nato, dall’altra rispolvera elementi
storici e revanscisti:
‘l’Ucraina
è parte della storia russa, russi e ucraini sono un popolo solo.
In realtà a Putin interessa solo quello che i
geologi chiamano “lo scudo ucraino”.»
Putin
vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con
l’Europa, gli affari si ridurranno.
Obiettivo del capo del Cremlino è fare della
Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della “fabbrica
del mondo”, la Cina.
Per questo Putin vuole lo ‘scudo ucraino’,
territorio compreso tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del
Mar d’Azov nel sud del Donbas.
È
questa una delle aree più ricche del mondo in termini di potenziale minerario.
In
particolare per le “riserve di litio”, già al centro di un caso internazionale che
coinvolge Europa e Cina:
una
vicenda che precede di pochi mesi la guerra in Ucraina.
Tramite
una mappa si mostra la rete di gasdotti dalla Russia verso la Cina.
Il
trasferimento di gas dalla Russia verso la Cina – via Oliver Alexander.
In
Italia, la prevalente narrazione della crisi ucraina si avvale di categorie
interpretative da guerra fredda.
Di conseguenza, si sottovaluta quanto, in
realtà, sia cruciale - per un paese esportatore di materie prime e completamente
refrattario all’innovazione come la Russia - l’accaparrarsi di risorse primarie
e il relativo posizionamento geopolitico.
L’arma
dei combustibili fossili.
Gli
asset del gas e del petrolio sono beni strategici e le decisioni di politica
energetica non avvengono in un vuoto geopolitico, ça va sans dire... Data
l'importanza della Russia per il consumo energetico dell'UE, è particolarmente
rilevante valutare in che modo la Federazione Russa abbia utilizzato nel tempo
le esportazioni di energia come mezzo per perseguire obiettivi di politica
estera.
Già nel 2018 il” Policy Department delle Relazioni
Esterne del Parlamento Europeo” aveva sottolineato quanto i combustibili fossili venissero
utilizzati dal Cremlino come strumento di pressione geopolitica.
La
Russia usa la sua ricchezza energetica per rafforzare la propria posizione
regionale, ottenere favori politici dai paesi di transito ed esercitare
influenza sul suo ‘vicino estero’.
Naturalmente,
la usa anche per sviluppare la propria influenza sullo scacchiere globale e
impedire ad altri di sfidare i suoi interessi strategici.
Al
contempo, le aziende energetiche russe operano nel contesto del mercato
internazionale, dove le regole commerciali - in primis, la massimizzazione dei
profitti - giocano un ruolo di primo piano.
La
politica energetica estera della Federazione Russa è, dunque, un prodotto di
entrambi questi elementi in equilibrio e talvolta - presumibilmente - in
competizione: da una parte le ‘ragioni di Stato’, dall’altra i profitti privati
di pochi oligarchi, fedelissimi al regime (se vogliono restare in vita, si
direbbe).
Ricchezza
e influenza di Mosca si basano sulle abbondanti risorse energetiche, ‘innervate’
(se così possiamo dire) dal suo vasto sistema di gasdotti: infrastrutture
interconnesse che hanno reso de facto i paesi terzi sempre più dipendenti dal
fornitore russo.
Gli Stati membri dell'Unione Europea, in primis la” Repubblica Federale Tedesca”, sono e sono stati dipendenti, in
misura diversa, dalle importazioni di gas naturale russo.
Come è facile intuire, ciò crea dipendenze economiche
e politiche ben più ampie dello stretto ambito energetico e si traduce in una
fonte di potere per Mosca.
La
dipendenza dal gas russo, le armi all’Ucraina e l’ambiguità tattica della
Germania.
La
Russia è anche un importante paese esportatore di petrolio.
Qui,
tuttavia, le implicazioni geopolitiche sono assai diverse.
Pur
rappresentando una fonte-chiave del reddito nazionale russo, infatti, il
petrolio è una merce fungibile e viene scambiato sul mercato internazionale.
Ciò lo
rende assai meno attraente come strumento di coercizione energetica di quanto
non sia il gas naturale.
E
questo vale soprattutto rispetto al contesto europeo che - prima del conflitto
in Ucraina - ricorreva al gas russo per oltre il 40% del proprio fabbisogno.
Il gas
non può passare a un altro fornitore nello stesso modo in cui si potrebbe fare
con il petrolio.
Anche fino al 2021 dunque, come rilevava
all’epoca Massimo Lombardini, esperto energetico dell’ISPI, sarebbe stato più
corretto parlare di interdipendenza tra UE e Federazione Russa.
Infatti,
sia in risposta all'annessione della Crimea, o in seguito all'intervento
nell'Ucraina orientale nel 2014, gli Stati Membri dell'UE hanno sostanzialmente
evitato di imporre sanzioni economiche ai settori del gas e del petrolio
convenzionali russi: nonostante le difficili relazioni politiche, le forniture
sono proseguite regolarmente fino al febbraio 2022.
“Petro-State”:
dalle origini a Putin
In
Russia, l’uso delle risorse energetiche come strumento di pressione in politica
estera affonda le proprie radici fin dagli Anni Cinquanta dello scorso secolo,
quando l’Unione Sovietica ritornò a essere un esportatore sul mercato globale.
Fin da allora, il Cremlino cominciò a
sviluppare una rete integrata per il trasporto di gas e petrolio come parte di
uno sforzo per costruire un'economia unificata e promuovere l'unità in tutta
l'URSS, con la repubblica sovietica russa al suo centro.
A
partire dai giacimenti di gas e petrolio di alcuni stati sovietici come il
Turkmenistan e il Kazakistan, si costruirono oleodotti che raggiungevano la
Russia, da dove gas e petrolio venivano redistribuiti nel resto della
Federazione, o venduti in Europa (fin da allora principale mercato di
esportazione dell’energia sovietica).
In
cambio, gli stati sovietici estrattori ricevettero gas sovvenzionato.
Dai
primi anni 2000, poco dopo essere salito al potere, Putin ha sempre avuto
l’obiettivo di stabilizzare l’economia, rinnovare l’autorità dello stato e
restaurare il ruolo della Russia come attore globale.
E l’energia ha, naturalmente, sempre giocato
un ruolo determinante di tale agenda.
La
concentrazione delle risorse energetiche russe in una manciata di imprese
statali ha costituito un fattore cruciale nel consentire che tali risorse, e le
relative politiche di esportazione, divenissero un'estensione della politica
estera russa.
Un risultato lampante, in particolare,
guardando alla creazione e allo sviluppo di Gazprom (gas) e Rosfnet (petrolio).
Senza
questa rinazionalizzazione, la capacità del Cremlino di usare le proprie
risorse energetiche in chiave geopolitica sarebbe stata certamente inferiore.
Nemmeno
i processi opachi e discontinui nella privatizzazione delle due compagnie (e il
solito contorno di corruzione e scandali ricorrenti) sono riusciti a offuscare
tale determinazione.
Dopo
la caduta dell'Unione Sovietica, la Russia ha continuato a fornire agli ex
Stati sovietici energia a basso costo.
La
conseguente, stretta relazione di dipendenza che si è venuta così a creare ne
ha scongiurato (o ridotto) ogni potenziale tentativo di smarcarsi dal Cremlino
o, peggio, di competere in autonomia sul mercato energetico globale.
Allo stesso modo, la Russia ha offerto
condizioni assai vantaggiose sulle forniture di gas e petrolio ai paesi terzi,
riuscendo in questo modo a vincolarli a sé in una relazione di stretta
dipendenza e riuscendo così, progressivamente, ad aumentare la propria quota di
mercato.
Come
già accennato, da tale relazione di dipendenza è stato poi gioco facile
estrarre benefici economici o politici.
Il
modo preferito per farlo è attraverso l'adeguamento dei prezzi dei contratti di
gas.
La
Russia applica prezzi diversi per i diversi paesi.
Spesso semplici variabili economiche, come la
distanza e i volumi, non bastano a spiegare le differenze di trattamento.
Mosca
riserva le tariffe più basse ai governi più fedeli:
quando
un paese perde il favore politico, gli sconti sui prezzi del gas sono annullati
o ridotti.
Questo
meccanismo è stato più chiaro con i paesi del ‘vicino estero’, come l'Ucraina,
la Bielorussia, la Moldavia e l'Armenia.
In seno all'UE, qualcosa di simile ha
riguardato anche gli Stati Baltici, una dinamica che però si è interrotta con
l’invasione dell’Ucraina e la loro fermezza nel condannarla.
Mosca
sostiene che questi ex Stati sovietici si trovano all'interno di una sfera di
influenza russa e utilizza le forniture energetiche per farla pesare.
Dopo
il crollo dell'Unione Sovietica,” Gazprom” ha perso l'accesso ai giacimenti di
gas e petrolio e alle reti di trasporto negli ex stati sovietici ricchi di
energia.
Ma con
l'assenza di forniture alternative, gli ex stati sovietici - che si erano ormai
abituati ai bassi prezzi dell'energia - sono diventati vulnerabili agli aumenti
dei prezzi russi, o alle interruzioni delle forniture.
La
Bielorussia, per esempio, è completamente dipendente dalla Russia per il suo
gas naturale che copre quasi il 70% del suo mix energetico.
La
ragnatela dei gasdotti.
La
rete di distribuzione dell'energia è la spina dorsale attraverso la quale il
Cremlino può proiettare la propria influenza politica.
Grazie
al possesso di pipeline di approvvigionamento critiche, “Gazprom” è in grado di
influenzare i processi decisionali nei paesi-chiave.
La
Russia rifornisce il mercato europeo attraverso tre principali sistemi di
gasdotti: uno attraversa Ucraina e Slovacchia, il secondo passa per la
Bielorussia e la Polonia e il terzo raggiunge direttamente il più grande
consumatore di gas russo, la Germania.
Due dei tre sistemi di gasdotti dipendono dalla
cooperazione degli Stati di transito per funzionare.
Questa interdipendenza ha due opposte implicazioni: da
una parte, la Russia può continuare a usare il ricatto energetico di tanto in
tanto, ma senza potersi permettere di prolungare troppo a lungo tagli o
interruzioni delle forniture.
Dall’altra
parte, dal punto di vista del Cremlino, la dipendenza dagli Stati di transito
mette a rischio i suoi contratti di fornitura e limita la propria libertà di
manovra nella politica estera.
(La
mappa dei gasdotti dalla Russia verso l'Unione Europea – via Wikimedia Commons.
Il
sistema di gasdotti dalla Russia verso l'Unione Europea – via Wikimedia Commons.)
Come
si è detto, i legami energetici tra Europa e Russia sono profondi e antichi.
Alcuni
paesi europei sono stati a lungo fortemente dipendenti dalle forniture
energetiche russe, in particolare di gas naturale e, poiché gli stati membri
dell'UE non acquistano gas collettivamente e hanno diversi gradi di dipendenza
dal gas russo, per Mosca è stato facile usare il grilletto dell’energia per
intimidirne alcuni – in particolare gli stati più piccoli e orientali.
Dall’altro
canto, le controversie energetiche tra la Russia e gli stati di transito, che a
volte hanno causato interruzioni anche più a valle nei paesi dell'UE, hanno
danneggiato l'immagine della Russia come fornitore affidabile.
In
risposta alla crisi del gas in Ucraina alla fine degli anni 2000, l'UE ha
iniziato a prendere più sul serio la questione della propria sicurezza
energetica e la posizione monopolistica di Gazprom è diventata una
preoccupazione-chiave.
Da
allora, molti degli sforzi dell'UE sono stati diretti a migliorare il
funzionamento del mercato dell'energia promuovendo la liberalizzazione e
applicando con più decisione e coerenza la legislazione europea in materia.
Obiettivo:
rendere le importazioni di energia meno suscettibili alla contrattazione di
politica estera.
Il
concetto alla base di tale strategia è che l'energia è una merce e che dovrebbe
essere scambiata ‘normalmente’ in un mercato europeo liberalizzato e integrato.
Il ruolo dell'UE è quindi quello di vigilare
per il corretto funzionamento del mercato, stabilendo e facendo rispettare le
normative per i fornitori e rimuovendo gli eventuali ostacoli.
Lo
strumento più potente per rispondere ai ricatti energetici di “Gazprom”,
infatti, è probabilmente la corretta applicazione delle normative UE sul
mercato interno dell'energia.
In questo senso, il terzo pacchetto energia
del 2009 è fondamentale.
Stabilisce
che:
Le
imprese che operano nell'UE devono separare le reti di transito e distribuzione
del gas naturale;
I
fornitori di energia concorrenti dovrebbero avere accesso ai gasdotti, il
cosiddetto accesso di terzi;
Dovrebbe
applicarsi un sistema tariffario trasparente per le condotte di trasporto;
I
paesi dell'UE dovrebbero diversificare le fonti di approvvigionamento di gas;
Le
reti europee del gas dovrebbero essere tutte collegate.
L'applicazione
del terzo pacchetto energetico è stato uno strumento efficace per ridurre
l'influenza di Gazprom.
In
particolare, il concetto di disaggregazione è importante per impedire a Mosca
di utilizzare le sue forniture energetiche per perseguire obiettivi politici:
Gazprom
fornisce gas agli Stati membri dell'UE, ma possiede anche i gasdotti che
trasportano il gas.
L'idea alla base della ‘disaggregazione’ è
contrastare il fatto che una società che gestisce la rete di distribuzione e
controlla la fornitura di risorse energetiche favorisca le proprie affiliate,
chiudendo così la rete di distribuzione ai potenziali concorrenti e sostenendo
la sua posizione monopolistica. La disaggregazione ha avuto un effetto diretto sulle
operazioni di Gazprom in Europa ed è stata, per esempio, la ragione per cui “South
Stream” è stata contestata dalla Commissione.
Ma
resta ancora molto da fare: uno degli aspetti negativi della disaggregazione è che ha
portato alla creazione di intermediari che vendono il gas.
Alcuni
di essi sono ancora controllati da “Gazprom”, ma ora con strutture proprietarie
opache.
La
Commissione Europea ha inoltre utilizzato la legge sulla concorrenza contro
Gazprom, accusando l'azienda di sovraccaricare i prezzi per gli Stati membri
dell'UE centrale e orientale.
Nel
2012 ha avviato procedimenti antitrust contro Gazprom e nel 2015 la Commissione
ha accusato Gazprom di fissare prezzi non equi, cercando di dividere i mercati
europei del gas attraverso l'uso di clausole di destinazione e impedendo la
diversificazione dell'approvvigionamento subordinando le forniture di gas a
impegni specifici di investimento per progetti infrastrutturali di gasdotti
(come South Stream).
A quel punto per Gazprom la questione sarebbe
stata quella di cedere sui punti principali mossi dalla Commissione Europea
evitando in tal modo un'ammenda.
Gazprom,
inoltre, avrebbe dovuto abbandonare le clausole di destinazione e consentire
una revisione più rapida dei prezzi nei suoi contratti a lungo termine.
L'eliminazione
delle clausole di destinazione avrebbe consentito agli Stati dell'UE di
rivendere il loro gas, rendendo più difficili i prezzi predatori da parte di
Gazprom.
Nell'ottobre
2017, tuttavia, la mutata situazione globale dei mercati energetici spinse la
Commissione ad avanzare ulteriori richieste a “Gazprom”.
Le ragioni, come è facile immaginare, sono
complesse ed è impossibile qui tentarne una sintesi efficace.
Per
dar conto di quanto intricata fosse la materia (anche prima del conflitto ucraino)
segnaliamo, a titolo di esempio, un articolo di Massimo Nicolazzi, apparso su Limes a
metà ottobre 2017, che postulava:
«La
dipendenza è a prezzi di mercato e l’indipendenza è a costo di sussidio.
Successivamente può cambiare e toccherà al
pubblico realizzare infrastrutture fondamentali per supplire all’incapacità del
mercato di pensare sul lungo periodo.
Purché
il pubblico giustifichi l’aiuto/sussidio con una rigorosa analisi
costi/benefici, eviti il ricorso emotivo alla “dipendenza” e non usi il termine
“strategico” a contrassegnare tutto ciò per cui non trova giustificazione
economica.»
UE:
nasce l’Unione dell’Energia.
Nonostante
alcune criticità, le misure adottate dalla UE stanno riuscendo (in parte)
nell’intento di indebolire la capacità russa di utilizzare le esportazioni di
energia per esercitare pressioni politiche sull’Europa.
Prima
fra queste, il lancio nel febbraio del 2015 dell'”Unione dell'Energia dell'UE”,
un passo cruciale per lo sviluppo di un mercato interno integrato: «Un'Unione -
recita il comunicato - resiliente, articolata intorno a una politica ambiziosa
per il clima».
Essa mira a diversificare ulteriormente le
fonti energetiche e a rafforzare la sicurezza energetica europea, tra l’altro
conferendo alla Commissione nuovi poteri.
Nell'ambito
dell'”Unione dell'Energia”, il 5 aprile 2017 la Commissione Europea viene
incaricata di verificare ex ante se gli accordi energetici conclusi dagli Stati
membri con paesi terzi non appartenenti all'UE rispettino il diritto
comunitario.
Si tratta di un passo decisamente positivo per
migliorare la trasparenza nel mercato europeo dell'energia.
Al
fine di promuovere la liberalizzazione del mercato dell'energia, l'UE sostiene
la diversificazione delle fonti energetiche, in particolare per quei paesi che
dipendono da fornitori unici come la Russia.
Un
elemento-chiave di tale strategia è la connessione delle reti del gas in tutta
l'UE, attraverso la costruzione di un sistema di interconnettori e gasdotti a
flusso inverso.
Ciò
riveste un'importanza decisiva in termini di sicurezza energetica, in quanto -
idealmente - consentirebbe di spedire gas naturale da diverse parti della UE
dove è necessario, in modo che l'offerta possa soddisfare la domanda
indipendentemente dal paese di accesso/transito e dal fornitore.
Ciò permetterebbe all'UE di potersi adattare a
eventuali interruzioni dell'approvvigionamento.
In
parallelo, l'UE si prefigge di consumare meno idrocarburi.
Come?
Adottando
misure via via più stringenti per migliorare l’efficienza energetica e
investendo nelle fonti di energia rinnovabili.
Secondo
Bruxelles, infatti, è questo il miglior modo per aumentare la sicurezza
energetica europea e, al contempo, dar concreto seguito all'imperativo di
ridurre rapidamente le emissioni di climalteranti a livello globale.
Tuttavia
(come sa chiunque abbia seguito, anche solo distrattamente, l’acceso dibattito
sulla ‘tassonomia verde’), il gas naturale è stato considerato come un combustibile
‘ponte’ verso un'economia a basse emissioni di carbonio perché produce meno CO2
del petrolio o del carbone quando viene bruciato.
Nel
medio termine, è dunque prevedibile che la domanda globale di gas aumenterà man
mano che le economie avanzate (e dei paesi in via di sviluppo) procederanno nel
complesso cammino della transizione verso la decarbonizzazione globale.
Per
l’UE ciò significa che anche se la domanda generale di energia diminuisse, come
è auspicabile, la domanda totale di gas dell'Europa diminuirà meno rapidamente.
Clima:
Putin e l’andatura del gambero.
In
tema di strategie e politiche per il clima, non c’è che dire, Putin ha scelto
l’andatura del gambero.
E nessuno che gliene chieda conto: né dentro,
né fuori dalla Russia.
Mentre
molti paesi (avanzati e non) stanno via via aumentando il proprio ricorso alle
energie rinnovabili, la Federazione Russa sta procedendo spedita
nell’incrementare continuamente l’estrazione, l'uso e la distribuzione di
combustibili fossili.
Secondo
Putin e la “Strategia Energetica 2035 “elaborata dal suo governo, infatti,
questa è la condizione essenziale affinché il paese sia tra i maggiori attori
economici internazionali in futuro.
La
produzione di gas, in particolare, dovrebbe raggiungere i 1.000 miliardi di
tonnellate all'anno entro il 2035, con un aumento del 50% rispetto al 2019.
In
tutti i documenti ufficiali Mosca parla tutt’al più di ‘adattamento’ climatico
e mai di ‘mitigazione’: secondo il Cremlino, evidentemente, non è necessario
adottare alcuna misura per accompagnare gli effetti del riscaldamento globale.
D'altra
parte, Putin non ha mai espresso l'intenzione di agire per rallentare il
fenomeno.
La sua
posizione è de facto assimilabile a quella dei negazionisti climatici,
nonostante gli accordi di Parigi.
La
politica climatica russa è esplicitamente subordinata al conseguimento di altri
obiettivi, ritenuti strategici da Mosca (tanto sul fronte interno che a
livello internazionale).
In altre parole, le autorità russe si occupano
del clima solo nella misura in cui farlo possa servire ad accrescere
l’influenza geopolitica e geoeconomica russa;
sia decisamente funzionale alla crescita
economica del Paese (ora e subito) e,” last but not least”, contribuisca a
proteggere e rafforzare la posizione di mercato delle principali società
energetiche russe, come Gazprom, Rosneft e Novatek.
Nulla a che vedere, insomma, con un desiderio
– anche recondito – di ‘salvare il pianeta’.
Né vi
è traccia – nel discorso pubblico di Putin e del suo entourage – della benché
minima preoccupazione per le conseguenze dell’emergenza climatica sulla stessa
Federazione Russa.
Parte
dell'élite, del resto, ritiene che il riscaldamento globale venga strumentalizzato
dall’Occidente solo per minare i vantaggi competitivi della Russia nel campo
degli idrocarburi.
La
postura da ‘vittima dell’Occidente’ è una delle parti in commedia più amate e
ricorrenti tra quelle recitate nei dintorni del Cremlino:
se fino a ieri l’accusa era quella di usare
“l'ordine basato sulle regole” per promuovere i nostri interessi a discapito di
quelli dei Russi, ora - noi occidentali - siamo sospettati di “mantenere il
catastrofismo” climatico solo per minare le basi economiche del potere russo.
Dunque,
riassumendo:
gli
sforzi globali (in particolare, europei) per limitare le emissioni di carbonio
e promuovere la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili
non muoverebbero affatto dall’obiettivo dichiarato ormai da qualche decennio.
E cioè: tentare di invertire la rotta,
rimediare agli errori e provare a garantire la sopravvivenza dei sapiens anche
per le generazioni future.
No,
niente di tutto questo: il vero obiettivo sarebbe quello di indebolire la posizione
commerciale delle compagnie energetiche russe.
It
takes 2 to tango...
Come
abbiamo già accennato, nella Federazione Russa le ambizioni strategiche del regime e
gli interessi dei ‘signori del fossile’ collimano perfettamente.
Ma ciò
spiega solo parzialmente lo strapotere a livello internazionale di Gazprom
(sopra a tutte), Rosneft, o Novatek.
Né
spiega appieno l’estrema facilità con cui Putin ha potuto usare il ‘grilletto
energetico’ nel disegnare la propria politica estera.
L’altro elemento, fin qui assai poco esplorato
nelle analisi del conflitto ucraino, è l’avidità dell’Occidente.
O meglio, l’approccio turbo liberista (predatorio) di
alcune multinazionali energetiche e dei governi occidentali che ne hanno
supportato servilmente le strategie, giungendo a ‘farsi dettare’ non solo le
scelte in tema di mix-energetico, ma perfino l’agenda politica estera nel suo
insieme.
E ciò avveniva da ben prima dell’invasione
russa dell’Ucraina.
E alla
faccia della decarbonizzazione.
“Le
compagnie petrolifere fanno profitti senza precedenti mentre milioni di persone
finiscono in povertà. C’è bisogno di un nuovo contratto sociale”
Se ci
è concessa una breve digressione, in Italia abbiamo avuto un’immagine plastica
della subordinazione governativa alle industrie del fossile anche in tempi più
recenti: basti pensare ai viaggi in Nord Africa e Medio Oriente
dell’ex-ministro Di Maio e di Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI,
in cerca di nuovi fornitori di gas per sostituire velocemente le forniture
russe.
Come dar torto a Mario Tozzi, che amaramente
commentò a caldo: “Invece di cambiare dieta [energetica, ndr], stiamo solo
cambiando pusher...”?
Fedele
alla linea di Eni e Snam: così l’Italia si appresta a diventare l’hub del gas.
Anche
prima della guerra, c’è chi - nella UE - ha tratto enormi vantaggi dai prezzi
bassi del gas russo.
Con
vistose differenze da paese a paese.
In
alcuni casi, infatti, i prezzi favorevoli hanno certamente contribuito a
rinvigorire l’economia di un dato sistema-paese dopo la crisi del 2008.
In altri invece, ad approfittarne è stata solo una
ristretta cerchia di dirigenti e azionisti di quelle multinazionali energetiche
che hanno visto aumentare esponenzialmente i propri profitti, con risultati a
due, o persino a tre cifre (%), probabilmente favoriti anche (non solo,
naturalmente) da quella ‘zona grigia’ che i fornitori russi sono stati maestri
a nutrire nell’interlocuzione con i propri clientes occidentali.
Anche
senza confondere responsabilità individuali e di sistema, la facilità nella
cooptazione di personaggi di primo piano come l’ex-cancelliere tedesco
Schroeder (oggi nel board di Gazprom), è solo uno dei tanti esempi delle
corresponsabilità predatorie su entrambi i fronti, russo e occidentale.
In una perfetta sovrapposizione tra politica e
affari.
It
takes two to tango, appunto.
Zero-Carbon:
un’altra Russia è impossibile?
Dipende
da Putin (o da chi per lui), ma dipende anche da noi:
il
mondo è interessato alla Russia non solo per la sua potenza militare, ma anche
per le sue risorse energetiche.
Se il
paese passasse a un'economia post-carbonio, dovrebbe attraversare una
transizione prolungata e difficile, sperimentare perturbazioni economiche e
potrebbe essere emarginato nel breve-medio termine.
Di fronte a tali rischi, i vantaggi di
un'economia completamente o in gran parte decarbonizzata appaiono remoti e
incerti.
Secondo
il Cremlino, infatti, la produzione di combustibili fossili è prioritaria come
risorsa-chiave del paese.
Il
processo decisionale in materia climatica, come in altre aree della politica
pubblica, del resto, dipende dall'apprezzamento dell'élite dei vantaggi e delle
debolezze comparative della Russia.
Mosca
ha poca fiducia nelle proprie capacità di sviluppare un'economia
post-industriale, high-tech e a basse emissioni di carbonio per sostituire
l'attuale modello industriale.
In teoria, un tale sviluppo sarebbe possibile
se il paese investisse in fonti di energia rinnovabili e sviluppasse
l'industria nucleare e il mercato dell'idrogeno.
Tuttavia,
Putin tende a scegliere la via d'uscita più facile e il beneficio più ovvio: un
approccio che esclude l'innovazione.
Il
mancato sviluppo delle energie rinnovabili è tra gli aspetti più vistosi di
tale impostazione.
Mentre
alcuni paesi industrializzati (compresi esportatori di combustibili fossili
come gli Stati Uniti), si stanno adattando ai cambiamenti climatici e stanno
sviluppando le fonti alternative di energia, la Russia è in un tale ritardo che
definirlo ‘grave’ è davvero un eufemismo: nel 2018, l'energia solare ed eolica
rappresentava solo lo 0,02% della produzione energetica russa.
Questa quota dovrebbe raggiungere solo lo 0,7%
nel 2035.
I dati sulla produzione di elettricità illustrano
il contrasto tra la Russia e le altre principali economie.
Nel
2019, solo lo 0,16% dell’elettricità russa è stata generata da fonti
rinnovabili, esclusa l'energia idroelettrica, mentre la media globale è del 10%
e la media europea è del 20%.
Al contrario,
Mosca intende aumentare significativamente la produzione interna di carbone nei
prossimi quindici anni, nonostante il calo della domanda globale.
"La
Russia percepisce qualsiasi tipo di competizione al di fuori della sua
posizione di leader mondiale dell'energia [...] come minaccia esistenziale che
deve essere contenuta/eliminata, piuttosto che come incentivo o potenziale
opportunità di adattamento/innovazione."
Il
Cremlino mette in guardia contro "qualsiasi pregiudizio agli interessi
degli Stati produttori di risorse".
Di conseguenza, ha minacciato di contrastare il “Green New Deal dell'UE “e l'introduzione di una tassa sul
carbonio alle frontiere portando la questione davanti all'”Organizzazione Mondiale del Commercio” sulla base del fatto che tali
misure costituirebbero pratiche commerciali sleali.
Oggi,
nel quadro dell’aggressione all’Ucraina, assistiamo al crescente fallimento
della Russia nella sua politica energetica:
ciò che avrebbe dovuto accrescere la sua
potenza militare, si è invece rivelata una grave vulnerabilità.
“Mosca si percepiva come una potenza
energetica indispensabile, che potrebbe strumentalizzare le sue esportazioni di
petrolio e gas per erodere l'unità dell'alleanza occidentale, e fatica a
comprendere il fatto che l'Europa, carente di energia, è in grado di
trasformare i tagli alle importazioni e i massimali dei prezzi in strumenti di
pressione sullo stato aggressore.
L'Ucraina
ha tratto vantaggio sul campo di battaglia dallo stato delle truppe russe
sotto-fornite e completamente demoralizzate.
In questo contesto ogni inasprimento delle
sanzioni occidentali assicura che Mosca non sarà in grado di ricostruire le
capacità necessarie per un'altra offensiva nella primavera nel 2023.”
Un
cambiamento radicale nella politica climatica russa sembra improbabile.
La
strategia energetica 2035, e in particolare la strategia di produzione di
carbone 2035, indicano che il governo è fermamente impegnato a espandere la
produzione e l'esportazione di combustibili fossili e che non ha pianificato di
effettuare nemmeno una transizione modesta e graduale verso le energie
rinnovabili.
La
Russia è tra i paesi che necessariamente resisteranno al cambiamento perché
l'economia globale dei combustibili fossili è fondamentale per loro.
Tenuto
conto di tale contesto, anche la tanto invocata ‘via diplomatica’ per la
risoluzione del conflitto ucraino dovrebbe porre al centro dei propri sforzi
l’emergenza climatica e la necessità di un’urgente ed effettiva cooperazione
globale per l’adattamento e la mitigazione del fenomeno.
Per
far ciò, sarebbe necessario che (almeno) sul fronte dell'UE ci si muovesse
coesi per disegnare una road-map e un cronoprogramma di misure condivise e
urgenti.
A
partire dall’attualizzare il “Green Deal UE “con uno specifico capitolo:
proposte concrete su come affiancare la Federazione Russa in “un vero percorso
di decarbonizzazione”.
Naturalmente,
in cambio, Putin (o chi per lui) dovrà porre subito fine al conflitto in Ucraina.
Un “Green Deal for Peace”, insomma.
Cambiamenti
climatici:
il
contributo dell'UE.
Consilium.europa.ue
– Redazione – (7-2-2023) – ci dice:
Secondo
quanto previsto dalla normativa europea sul clima, i paesi dell'UE devono
ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030.
L'obiettivo
è rendere l'UE climaticamente neutra entro il 2050.
Su
questa pagina:
Un'UE
a impatto climatico zero entro il 2050.
Ridurre
le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.
Dagli
obiettivi climatici alla normativa UE.
Finanziamento
della transizione climatica dell'UE.
Definire
l'azione globale.
Transizione
verde: perché è necessaria?
Un'UE
a impatto climatico zero entro il 2050.
Cos'è
la neutralità climatica?
Nel
dicembre 2019 i leader dell'UE, riuniti in sede di Consiglio europeo, hanno
convenuto che l'UE deve conseguire la neutralità climatica entro il 2050.
Per
diventare climaticamente neutri entro il 2050 i paesi dell'UE dovranno ridurre
drasticamente le emissioni di gas a effetto serra e trovare modalità per
compensare le emissioni rimanenti e inevitabili in modo da raggiungere un saldo
netto di emissioni pari a zero.
Nelle
sue conclusioni il Consiglio europeo ha sottolineato che la transizione verso
la neutralità climatica offre opportunità significative in termini di:
crescita
economica;
mercati
e posti di lavoro;
sviluppo
tecnologico:
I
leader dell'UE hanno chiesto alla Commissione di portare avanti i lavori sul
“Green Deal europeo”.
Hanno
inoltre riconosciuto la necessità di assicurare una “transizione verde”
efficiente in termini di costi, socialmente equilibrata ed equa.
Consiglio
europeo, 12 e 13 dicembre 2019.
Green
Deal europeo (informazioni generali).
Ridurre
le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.
Esattamente
un anno dopo, nel dicembre 2020, i leader dell'UE hanno adottato un'ulteriore
misura verso la “neutralità climatica”.
Come
passo intermedio verso l'obiettivo fissato al 2050, hanno convenuto che entro il
2030 le emissioni di gas a effetto serra dell'UE dovranno essere meno della
metà rispetto ai livelli del 1990.
Entro
il 2030 -
emissioni
dell'UE ridotte di almeno il 55%.
Il
nuovo obiettivo rappresenta un importante passo avanti rispetto al precedente traguardo
concordato nel 2014 che prevedeva di ridurre le emissioni del 40% entro il
2030.
I
leader hanno invitato la Commissione europea a presentare proposte che
consentano ai paesi di raggiungere l'obiettivo per il 2030, tra l'altro:
migliorando
le norme in materia di finanza verde;
potenziando
il sistema di scambio di quote di emissione dell'UE;
stimolando
l'innovazione rispettosa del clima;
garantendo
equità ed efficacia in termini di costi.
Consiglio
europeo, 10 e 11 dicembre 2020.
Dagli obiettivi
climatici alla normativa UE.
Pronti
per il 55%: in che modo l'UE trasformerà gli obiettivi climatici in
legislazione.
L'infografica
illustra il pacchetto Pronti per il 55%, i principali settori d'azione dell'UE
per ridurre le emissioni di gas a effetto serra nonché il processo decisionale
per trasformare le proposte in legislazione.
Infografica
completa.
Nel
giugno 2021 il Consiglio ha adottato la normativa europea sul clima, un
elemento chiave del Green Deal europeo.
La
normativa prevede l'obbligo giuridico, per i paesi dell'UE, di raggiungere gli
obiettivi climatici per il 2030 e il 2050.
La
normativa sul clima definisce il quadro per le azioni che l'UE e gli Stati
membri dovranno adottare al fine di ridurre progressivamente le emissioni e
conseguire infine la neutralità climatica dell'UE entro il 2050.
Il
Consiglio adotta la normativa europea sul clima (comunicato stampa, 28 giugno 2021).
Sempre
nel giugno 2021 il Consiglio ha approvato conclusioni in cui approva la nuova
strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici presentata dalla
Commissione.
La
strategia delinea una visione a lungo termine affinché l'UE diventi, entro il 2050,
una società resiliente ai cambiamenti climatici e pienamente adeguata ai loro
inevitabili impatti.
Il
Consiglio approva la nuova strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti
climatici (comunicato stampa, 10 giugno 2021).
Un
altro elemento fondamentale dello sforzo dell'UE verso la neutralità climatica
è il cosiddetto pacchetto "Pronti per il 55%".
Il
pacchetto, comprendente proposte di revisione della legislazione vigente e
nuove iniziative, è il piano fondamentale dell'UE per trasformare gli obiettivi
climatici in normativa UE.
Prevede
norme nei seguenti ambiti:
energia;
trasporti;
scambio
e riduzione delle emissioni;
uso
del suolo e silvicoltura.
Nel
giugno 2022 i paesi dell'UE hanno concordato una posizione del Consiglio sulla
maggior parte delle proposte del pacchetto "Pronti per il 55%".
Le proposte sono attualmente oggetto di negoziati con
il Parlamento europeo.
Pronti
per il 55% (informazioni
generali)
Finanziamento
della transizione climatica dell'UE.
La
transizione verso un'economia rispettosa del clima richiederà ingenti
investimenti pubblici e privati.
I
paesi dell'UE si sono impegnati a spendere il 30 % del bilancio a lungo termine
dell'UE per il periodo 2021-2027 e di “Next Generation EU” per progetti legati
al clima.
Per
garantire l'equità della transizione climatica, l'UE ha introdotto un
meccanismo “per una transizione giusta” al fine di fornire sostegno finanziario e assistenza
tecnica alle regioni più colpite dalla transizione verso un'economia a basse
emissioni di CO2.
A tal
fine saranno mobilitati fino a 90 miliardi di EUR.
30% della
spesa totale dell'UE destinata a progetti legati al clima fino al 2027.
Finanziamento
della transizione climatica (informazioni generali).
Neutralità
climatica:
il Consiglio adotta il Fondo per una transizione giusta (comunicato stampa, 7
giugno 2021).
Definire
l'azione globale.
Gli
sforzi dell'UE nella lotta ai cambiamenti climatici sono in linea con l'impegno
assunto dall'UE e dagli Stati membri nell'ambito dell'accordo di Parigi,
firmato nel 2015.
I paesi dell'UE sostengono un elevato livello
di ambizione nell'attuazione di questo accordo internazionale e incoraggiano i
partner globali, sia nei consessi internazionali che nelle relazioni
bilaterali, ad accelerare l'azione per limitare il riscaldamento globale.
Insieme
ai suoi Stati membri, l'UE è il principale fornitore di finanziamenti per il
clima a livello mondiale.
I fondi UE sostengono azioni legate al clima
nei paesi in via di sviluppo per agevolare la loro transizione verde e
contrastare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici.
Obiettivi
climatici e politica esterna dell'UE (informazioni generali).
Accordo
di Parigi sui cambiamenti climatici (informazioni generali).
Transizione
verde: perché è necessaria?
Vite umane e denaro: il duplice costo dei
cambiamenti climatici.
Le più
recenti relazioni scientifiche mostrano cambiamenti senza precedenti del clima
mondiale.
Il
riscaldamento globale sta provocando un aumento dei cambiamenti nell'andamento
delle precipitazioni, negli oceani e nei venti in tutte le regioni del mondo;
in alcuni casi si tratta di cambiamenti irreversibili.
Temperature
più elevate ed eventi meteorologici più intensi comportano costi enormi per
l'economia dell'UE, oltre a incidere sulla capacità di produzione alimentare
dei paesi.
Alcuni
dati: negli
ultimi 40 anni gli eventi legati al clima hanno causato oltre 487 miliardi di
EUR di perdite finanziarie nell'UE;
tra il
1980 e il 2020 nell'UE oltre 138 000 persone hanno perso la vita a causa di
fenomeni meteorologici e climatici estremi;
il
costo economico delle esondazioni di fiumi in Europa supera in media i 5
miliardi di EUR l'anno;
i
danni economici annuali dovuti agli incendi boschivi sono pari a circa 2
miliardi di EUR.
La
neutralità climatica.
Cinque
fatti riguardanti l'obiettivo della neutralità climatica dell'UE.
Lottare
contro i cambiamenti climatici è essenziale per il futuro dell'Europa e del
mondo.
La normativa europea sul clima ha introdotto
nella legislazione l'obiettivo dell'UE di raggiungere l'impatto climatico zero
entro il 2050.
Questo obiettivo ha fatto seguito all'impegno
assunto dall'UE e dai suoi Stati membri con la firma dell'accordo di Parigi nel
2015.
IL
CLIMA GLOBALE, LA SFIDA PRIMARIA
DELLO
SVILUPPO SOSTENIBILE.
Comitatoscientifico.org
– Redazione – (20 dicembre 2022) – ci dice:
20
Dicembre 2022. L'Unione Europea raggiunge un accordo chiave sulla politica climatica
dopo un interminabile negoziato.
L'Unione
Europea ha introdotto una grande revisione del proprio mercato del carbonio e
un nuovo fondo per proteggere i soggetti vulnerabili dall'aumento dei costi
della CO2.
Le misure sono state concordate dai negoziatori
dell'UE come parte di un grande trilogo durato tre giorni.
Considerato
la pietra angolare dell’azione climatica dell'Europa, la riforma del sistema di
scambio di quote di emissione (EU ETS) è la chiave per raggiungere l'obiettivo
di ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto ai livelli del
1990.
I
negoziatori hanno stabilito che i produttori di energia e gli inquinatori
maggiori coperti dall'ETS-2 dovranno ridurre il loro inquinamento del 62% entro
la fine del decennio, l'1% in più rispetto a quanto inizialmente proposto dalla
Commissione europea.
I
rifiuti saranno coperti dal regime a partire dal 2028, con potenziali deroghe fino
al 2030.
L'accordo
impone inoltre che tutti i ricavi generati dal mercato del carbonio devono
essere spesi per l'azione per il clima.
I
certificati di emissione gratuiti, dati all'industria per rimanere competitivi
rispetto ai rivali dall'esterno dell’Unione, saranno gradualmente eliminati
fino a completamente entro il 2034.
Il
meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera previsto (Carbon Border
Adjustment Mechanism, CBAM) dovrebbe entrare in vigore dal 2026 al termine di
un periodo di transizione di tre anni.
La Commissione e il Consiglio avevano chiesto
una data di scadenza dei certificati gratuiti entro il 2036, mentre il
Parlamento si è battuto per un'eliminazione più rapida entro il 2032.
La
tassa di frontiera CBAM copre cemento, alluminio, fertilizzanti, produzione di
energia elettrica, idrogeno, ferro e acciaio.
Tuttavia, i negoziatori hanno evitato di
introdurre sconti per proteggere le esportazioni, sostenendo che si sarebbero
dimostrati incompatibili con le regole dell'Organizzazione mondiale del
commercio, il WTO.
Si
tratta di un accordo che taluni hanno definito la più grande legge sul clima
mai negoziata in Europa.
Gli Stati membri dell'UE hanno effettivamente
raggiunto un accordo sulla prima grande tassa al confine sul carbonio al mondo,
che non ha mancato di suscitare polemiche con i principali partner commerciali
dell'UE, che affermano che esporrà le loro industrie a una concorrenza sleale.
L'accordo
è stato raggiunto dopo 30 ore di negoziati ma è provvisorio e deve ancora essere
adottato formalmente dal Parlamento e dal Consiglio europeo.
Il mercato del carbonio sarà progressivamente
esteso al settore marittimo, ai voli intraeuropei e ai siti di incenerimento
dei rifiuti a condizione che vi sia un parere favorevole della commissione.
La Commissione aveva proposto un secondo
mercato del carbonio mirato al riscaldamento degli edifici e ai carburanti
stradali, ma la proposta ha sollevato preoccupazioni di tipo congiunturale
considerando che le famiglie europee sono alle prese con l'aumento dei prezzi
dell'energia esacerbato dall'invasione russa dell'Ucraina.
Se i
prezzi dell'energia continueranno a salire vertiginosamente, l'applicazione di
questa parte dell'accordo sarà ritardata di un anno.
I proventi di questo secondo mercato andranno
a un "Fondo sociale per il clima" progettato per aiutare le famiglie
e le imprese vulnerabili a superare la crisi dei prezzi dell'energia.
Per
aiutare le famiglie a basso reddito a passare rapidamente a forme di trasporto
e riscaldamento più pulite in modo da non essere colpite ingiustamente dalla
misura, i responsabili politici dell'UE hanno dimensionato il Fondo sociale per
il clima ad un valore di 86,7 miliardi di euro che va dal 2026 al 2032.
È molto più grande del fondo di 59 miliardi proposto
dal Consiglio.
Il 25% sarà raccolto attraverso il
cofinanziamento da parte dei governi dell'UE, mentre con il cosiddetto
"approccio a tutti i combustibili" che copre tutte le emissioni di
processo comporta che saranno venduti più permessi di emissione nell'ambito del
programma.
Dal
sistema industriale europeo viene l’avvertimento che l'Europa rischia di
rimanere indietro rispetto agli Stati Uniti nell'attrarre investimenti nei suoi
sforzi per affrontare il cambiamento climatico poiché gli oneri normativi
minacciano di frenare la crescita.
Proprio per renderlo più appetibile, i
politici hanno convenuto che il cosiddetto ETS-2 sarebbe arrivato con un freno
di emergenza da attivare nel caso in cui i prezzi del gas naturale salissero
oltre i 106 € per megawattora sull'hub TTF di riferimento;
in tal
caso, l'avvio del regime verrebbe posticipato di un anno fino al 2028.
Il
patto prevede inoltre che se i prezzi dei certificati dell’ETS-2 supereranno i
45 € per tonnellata, verranno rilasciati ulteriori crediti per ridurre i prezzi
- una disposizione che sarà in vigore fino al 2030.
LA
TERRA BRUCIA: LA SFIDA CLIMATICA
E IL
RUOLO DELL’OCCIDENTE.
Europaatlantica.it
- Enrico Casini e Andrea Manciulli – (14 Novembre 2022) – ci dicono:
Mentre
in Egitto si tiene la nuova Cop27, la posizione espressa da Biden durante la
riunione, e il ritorno in campo degli USA nella lotta ai cambiamenti climatici,
possono rappresentare una svolta importante.
Dopo
mesi caratterizzati da anomalie climatiche, che hanno colpito l’Europa e il
resto del mondo, si palesano sempre di più i rischi crescenti, anche per la nostra sicurezza,
derivanti dai cambiamenti climatici.
Immagini
incredibili, spesso drammatiche, sono rimbalzate sui media per tutta l’estate,
da molti paesi europei e non solo.
La
Francia, la Spagna, la Grecia, l’Italia sono avvampate per settimane tra
incendi e caldo record.
Nello
stesso periodo, siccità e anomalie climatiche hanno colpito Asia, America,
Medio Oriente, Africa.
Eventi
atmosferici estremi, alluvioni improvvise e spaventose hanno messo in ginocchio
alcuni grandi paesi come il Pakistan mentre altrove la terra bruciava, arida,
per il caldo e il fuoco.
Incendi
spaventosi, per esempio quelli che hanno colpito l’Europa o la California,
hanno divorato boschi e campi in un crescendo che è spesso apparso simile alla
trama di un “disaster movie”.
Le
statistiche ci dicono che siamo di fronte all’anno in cui l’Europa è stata più
martoriata dagli incendi.
Ma
anche che abbiamo vissuto probabilmente uno degli anni più caldi della storia
recente, mentre le emissioni di Co2 continuano a crescere.
Un
caldo torrido, innaturale, ha assediato a lungo le nostre città, con punte di
calore mai viste, ne registrate prima, fino a pochi giorni fa. Intanto, con
queste stagioni estremamente calde, arretrano i ghiacciai alpini, le montagne
si sbriciolano al loro disciogliersi.
Con la
previsione che con questo ritmo nei prossimi anni potrebbero scomparire. Mentre
la siccità avanza, inesorabile, dopo un anno di scarsissime precipitazioni in
tutto il bacino del Mediterraneo, una delle regioni più colpite dagli effetti
dei cambiamenti climatici e poi a rischio desertificazione in molte sue aree.
Le
peggiori previsioni, circa i rischi legati all’effetto serra e al cambiamento
climatico, nel corso degli ultimi mesi sembrano essersi avverate.
E le minacce ad essi collegate emergono
inesorabili, manifestandosi nella loro pericolosità e nella loro onerosità sul
piano economico e sociale.
Proprio
questi elementi sono emersi con ancora più chiarezza, supportati anche da molti
dati scientifici, anche in questi ultimi giorni, mentre in Egitto si è aperta
la nuova riunione Cop 27, dedicata alla lotta ai cambiamenti climatici.
Un appuntamento che ogni volta rinnova la sfida delle
Nazioni Unite contro quella che già oggi rappresenta una delle più grandi
emergenze del pianeta, ma su cui purtroppo non sembra che tutti i paesi siano
ugualmente impegnati.
Anche
questa volta, in apertura della riunione, la paura che, come nelle precedenti
occasioni, anche questa assemblea potesse essere un’ennesima occasione persa, o
potesse non riuscire davvero ad imprimere la necessaria svolta alla lotta globale
ai cambiamenti climatici, era forte.
Con
essa i timori legati all’impatto che anche l’emergenza rappresentata dalla
guerra in Ucraina sta avendo sulla sicurezza energetica mondiale, sono al
centro dell’attenzione.
Perché la guerra in Ucraina porta con sé
drammatiche conseguenze umanitarie, a causa anche della crisi energetica e
alimentare che ha generato.
È
evidente che dopo due anni di Covid, con l’ombra di una recessione globale che
incombe sull’economia mondiale, e la guerra in atto che minaccia appunto sul
piano energetico ed alimentare molti paesi, le incertezze legate anche alle
prospettive della lotta ai cambiamenti climatici sono molti.
Anche
se, invece, come ribadito dal Presidente Biden nel suo intervento, dovrebbe
probabilmente essere proprio questa attuale fase a spingere in favore della
transizione ecologica ed energetica, anche per abbandonare il più possibile le
fonti energetiche fossili, al centro del confronto strategico tra le potenze e
oggetto anche dello scontro in atto.
Infatti, come dimostrato di recente, l’energia
è diventata sempre di più uno strumento di pressione e di ricatto, anche a
livello geopolitico oltre che economico. E la guerra sta confermando questa
dura realtà.
Ma
forse proprio la nuova posizione espressa dal Presidente americano, forte anche
dei buoni risultati conseguiti nelle elezioni di Midterm, che annuncia un
ritorno da protagonisti degli Stati Uniti nella lotta ai cambiamenti climatici,
potrebbe rappresentare una importante notizia in questa nuova riunione.
Perché
è evidente che in una simile sfida il peso che possono mettere gli Stati Uniti,
insieme all’Europa, può essere molto rilevante per spostare gli equilibri della
partita.
Del
resto, la sfida del clima che cambia è la più importante, insieme alla
rivoluzione tecnologica e l’avvento dell’intelligenza artificiale, che la
civiltà umana dovrà affrontare nei prossimi anni.
Siccità,
incendi, fenomeni atmosferici estremi, desertificazione, scioglimento dei
ghiacci montani e polari, sono solo alcuni effetti derivati dai cambiamenti
climatici.
A loro
volta, possono portare a conseguenze devastanti sulle comunità umane in intere
regioni del pianeta.
Favorendo conflitti, violenze, instabilità,
povertà e carestie.
La
questione climatica è un tema centrale per l’agenda politica globale:
la sua drammaticità chiama in causa
direttamente, senza esagerazioni, il futuro della razza umana e la
sopravvivenza della vita sul pianeta.
È
ormai infatti probabile che nei prossimi anni l’uomo dovrà giocarsi le proprie
carte per salvare il pianeta dai rischi che si stanno rapidamente determinando.
Che la
Terra abbia avuto nella sua storia fasi diverse sul piano climatico è noto.
Ma che
l’attuale riscaldamento delle temperature, e i cambiamenti ad essa connessi,
siano anche il frutto del processo di sfruttamento intensivo del pianeta da
parte dell’uomo, delle emissioni gassose, del sovrappopolamento, della
distruzione di ecosistemi fondamentali per gli equilibri climatici, come le
foreste pluviali, è altrettanto chiaro.
Si tratta di un problema che non interessa un
singolo paese o una singola area del pianeta, ma ha una portata globale.
Eppure,
nonostante questo, abbiamo difficoltà ad assumere decisioni realmente
“globali”, poiché un pezzo fondamentale dello sviluppo umano e dell’economia
globale sono indissolubilmente legati allo sfruttamento intensivo e alla
trasformazione del pianeta.
Non
tuti i paesi, a partire per esempio da giganti come Cina e India, sono pronti a
rinunciare alla propria attuale crescita economica in nome di regole più
restrittive sul fronte ambientale e climatico, riducendo per esempio le proprie
emissioni di Co2 o rinunciando per esempio al carbone come fonte energetica a
basso costo.
Oggi
però l’impatto sempre più devastante dei cambiamenti climatici, con i danni
prodotti dagli eventi catastrofici, sta determinando danni economici e sociali
che hanno costi elevati, sotto molti punti di vista.
E nonostante a pagare il prezzo più elevato
dell’impatto sull’ambiente dei cambiamenti climatici siano i paesi più poveri,
anche i paesi più ricchi non sono esenti da rischi.
Come dimostrato dalle cronache recenti.
Anzi,
questi rischi aumenteranno di anno in anno e potranno abbracciare sempre più
campi della nostra vita e della nostra sicurezza. Come giustamente ricordato da
Joe Biden.
Non è
un caso se da alcuni anni, non solo l’Unione Europea, ma anche la NATO, hanno
focalizzato con grande attenzione il tema dei cambiamenti climatici e delle
minacce ad essi collegati, definendoli come un potenziale moltiplicatore di
crisi.
Perché
di questo si tratta.
Un
fattore che non solo agisce direttamente, ma può fungere da moltiplicatore di
altre potenziali emergenze, di numerose forme di rischio per la sicurezza e la
stabilità politica, istituzionale, economica, sociale dei paesi, non solo
occidentali.
A
livello interno, i rischi diretti e indiretti per le nostre società e la vita
quotidiana delle persone sono numerosi, come dimostrato anche dalle cronache
recenti degli ultimi mesi.
E nei prossimi anni, se dovessero ripetersi
stagioni siccitose, o moltiplicare eventi atmosferici catastrofici, potremmo
essere di fronte ad un aggravarsi di emergenze collegate al clima anche in aree
un tempo sicure.
Con costi politici e sociali elevatissimi, che
potrebbero infine mettere a serio rischio anche la stabilità dei sistemi
democratici.
A
pagare il prezzo più alto dei danni delle calamità climatiche, della siccità,
delle temperature elevate sono spesso le categorie sociali più fragili, così
come sul piano internazionale sono i paesi più poveri.
E
questo comporta comunque una minaccia per la stabilità e la sicurezza di tutto
il pianeta, anche dei paesi occidentali, nei quali insicurezza e danni
economici potrebbero avere una ricaduta diretta anche sugli orientamenti
dell’opinione pubblica.
La quale deve essere informata e preparata ai
rischi derivanti dai cambiamenti climatici e allo stesso tempo, comprendere la
portata della sfida che la transizione energetica può comportare.
Ma se
si allarga il campo visuale possiamo vedere quanto i cambiamenti climatici,
avendo ricadute drammatiche anche sui paesi più prossimi a nostri confini,
possano colpirci con altre conseguenze gravi, moltiplicando nuove potenziali
minacce alla nostra sicurezza e stabilità.
Nelle regioni ai limiti dei confini europei, in Africa
o in Asia, infatti, per effetto del “climate change”, stanno emergendo nuove
emergenze, con un impatto rilevante per tutta la regione.
Pensiamo
al tema acqua:
siccità e desertificazione colpiscono molti
paesi africani o mediorientali, in cui la penuria di acqua può generare, da un
lato, gravi crisi umanitarie, per esempio carestie come quelle che stanno
colpendo i paesi del Corno d’Africa come Etiopia, Somalia e Sud Sudan, ma anche
inducendo i governi dei paesi più a rischio a cercare di controllare e gestire
in maniera sempre più stringente le risorse idriche, sempre più preziose, in
propria disponibilità.
Si
pensi al caso della grande diga etiope sul corso del Nilo.
Queste tipologie di eventi, e di decisioni
conseguenti, possono avere un impatto sul piano non solo economico o
umanitario, nei territori che per esempio si vedono privati di acqua un tempo
disponibile, ma anche a livello politico, geo-politico e, potenzialmente,
militare.
Il
rischio che nel futuro prossimo, soprattutto in aree molto assetate, possano
esplodere nuove tensioni, e anche conflitti, per il controllo delle sorgenti e
delle risorse idriche è sempre più elevato.
Può riguardare paesi, comunità, e gruppi armati lungo
i grandi fiumi africani, come il Nilo o il Niger, o in regioni a rischio, dove
non mancano anche forme di conflitti e tensioni di tipo etnico o politico che
potrebbero unirsi a quelle per il controllo dell’acqua.
E le regioni dell’Africa, oggi, appaiono tra
le più esposte a questo tipo di minacce, anche per la crescita esponenziale a
livello demografico che alcuni paesi africani stanno avendo (si pensi al Sahel
e a tutta la fascia subsahariana).
Dall’altro
lato, i cambiamenti climatici, abbattendosi sulle popolazioni di regioni povere
o poverissime, come appunto il Sahel o il Corno, potranno causare sempre
maggiori danni alle comunità agricole e rurali, aumentando tensioni e conflitti
per il controllo delle risorse disponibili e dei terreni coltivabili o
utilizzabili per la pastorizia, e anche accrescendo povertà, crisi economica,
carestie.
Continuando
a spingere migliaia di persone a lasciare i propri villaggi, le proprie terre
d’origine, per cercare fortuna in Europa.
Con
una nuova potenziale ondata migratoria, prodotta proprio dagli effetti dei
cambiamenti climatici, che nel corso dei prossimi anni, moltiplicandosi
emergenze e crisi, potrebbe intensificarsi sempre di più.
Ed è evidente che a ridosso dei confini
europei, dal Medio Oriente all’Africa all’Asia Meridionale, sono numerose le
aree esposte a questi tipi di problemi e da cui, nei prossimi decenni,
potrebbero muoversi migliaia di persone in fuga da carestie, siccità,
conflitti.
Ma i
cambiamenti climatici incidono anche sugli ambienti che ci circondano o in cui
viviamo: non solo per quanto riguarda per esempio i processi di inaridimento di
alcune regioni europee, o lo scioglimento dei ghiacciai alpini o la riduzione
della portata dei corsi d’acqua.
Si pensi per esempio ai mari, dove possono
avere effetti sulle temperature delle acque e delle correnti oceaniche, da cui
dipendono molti degli equilibri di ecosistemi complessi come quelli marini.
Con un impatto, per esempio, sulla pesca, ma anche
sulla sicurezza dei mari stessi.
Inoltre
l’aumento delle temperature atmosferiche, accrescendo il ritmo di scioglimento
dei ghiacci polari, potrà produrre in futuro attraverso l’innalzamento dei
livelli delle acque effetti sempre più gravi sulla sicurezza dei porti e dei
trasporti, così come sulle coste o su numerose isole a rischio.
Infine,
ultimo tema non banale, cosa potrà accadere in futuro, a livello politico e
geo-politico, se mentre alcune regioni diventeranno invivibili per effetto
delle temperature elevate e della desertificazione, mentre altre, a nord,
diventeranno meglio accessibili perché liberate dalle temperature troppo fredde
e dai ghiacci un tempo perenni?
Si
pensi ad esempio ad una regione come la Groenlandia, oggi di fatto disabitata,
o ad alcune regioni della Russia o della Scandinavia.
Con
temperature più vivibili potrebbero diventare terre abitabili permettendo anche
la formazione di nuovi insediamenti umani là dove, fino a poco tempo fa, era
ritenuto molto difficile.
Permettendo
di sfruttare zone del pianeta ricche di risorse minerarie o strategiche per la
logistica.
Le
possibilità di accesso a risorse oggi inaccessibili, per esempio proprio nella
regione artica, possono scatenare una sorta di nuova corsa all’Artico tra le
maggiori potenze del pianeta, portando per esempio non solo alla colonizzazione
di questa regione, ma anche a un aumento costante di traffici marittimi nei
suoi mari, sempre più liberi dai ghiacci, e una possibile militarizzazione
della regione.
I
quesiti che emergono di fronte a questi scenari sono molti e inquietanti.
E non
lasciano spazio a facili speculazioni.
Potremmo
essere di fronte a una svolta radicale per il futuro del pianeta e dell’umanità
rispetto a cui non potrà bastare la reazione che introdurrà un singolo paese.
La
transizione energetica ed ecologica avrà un costo, certamente, e impatteranno
sulle attività produttive, l’economia, i trasporti, la vita sociale.
Ma
investire nella sostenibilità ambientale ed umana dei nostri sistemi, sociali
ed economici, e avviare la transizione verde è una necessità, che oltre a costi
e sacrifici, può rappresentare serie opportunità di innovazione, sviluppo,
crescita, modernizzazione non solo per i paesi più ricchi.
Per
quanto la transizione energetica potrà essere onerosa, e lo sarà, i costi e i
rischi legati al suo fallimento potrebbero essere ben maggiori e ben più gravi.
Non solo sul piano economico, ma anche per la sicurezza umana.
Per
questo, consapevoli degli oneri e dei costi, che dovranno essere equamente ripartiti
sul piano globale, in questa battaglia per il clima occorrono alleanze ampie, a
partire dai paesi più a rischio, con un ruolo protagonista dell’Occidente.
Se il
rapporto tra uomo e pianeta, tra uomo e natura, è sempre stato di trasformazione
e sfruttamento, pensare che questo possa continuare ad essere, anche in futuro,
indiscriminato e privo di regole potrebbe rivelarsi un errore.
Le ricadute dei cambiamenti climatici, con le
loro conseguenze gravi, colpiscono tutti, indistintamente.
I paesi più ricchi che vedono minacciati i
propri livelli di benessere e la loro stabilità politica, e anche quelli più
poveri, che rischiano di diventare sempre più poveri, ma anche quelli in via di
sviluppo o in fase di sviluppo avanzato, in cui le ricadute potrebbero comunque
nel tempo avere un effetto boomerang, e indebolire le stesse economie in
crescita, produrre danni, creare disagi e instabilità sociali e politiche
difficili da gestire e arginare.
Ecco
perché la sfida ha anche connotati fortemente politici e geopolitici e il ruolo
degli Stati Uniti, in quanto maggiore potenza globale, può essere determinante.
Se
l’Occidente riuscirà ad affrontare questa partita unito, con Europa e USA
solidamente alleati, capaci di allargare il fronte a tutti i paesi democratici,
a partire da quelli indo-pacifici, potrebbe essere l’occasione per gettare le
basi una convergenza più ampia anche con i paesi del Sud del mondo.
Ma per
farlo occorrerà una proposta forte, introdotta dai paesi democratici e
tecnologicamente più avanzati, per superare le difficoltà attuali.
La
sfida del clima che cambia riguarda la nostra sicurezza ma anche il futuro
della democrazia e più in generale il futuro della sopravvivenza umana sulla
Terra.
Su
questo pianeta che sembra bruciare sempre di più.
Si tratterà di una partita difficilissima, soprattutto
con quei paesi che, al momento, non sembrano disposti ad affrontarla con la
stessa determinazione.
Ma
forse proprio per l’importanza che avrà, nei futuri equilibri securitari,
geopolitici e geoeconomici del mondo, l’Occidente non può che affrontarla con
una strategia ben delineata e con una visione di futuro.
(Enrico
Casini e Andrea Manciulli)
MEDITERRANEO:
SFIDE
E OPPORTUNITÀ.
europaatlantica.it
- Enrico Casini e Andrea Manciulli – (5 Marzo 2023) – ci dicono:
(L’articolo
di Enrico Casini e Andrea Manciulli per la rubrica di “Airpress” di marzo 2023).
La
guerra in Ucraina, e la successiva crisi energetica, hanno rilanciato
l’importanza della regione del Mediterraneo allargato.
Più che in passato, oggi i destini europei
passano dagli equilibri, instabili, di questa complessa regione tornata sempre
di più al centro delle contese geopolitiche e degli interessi di grandi e medie
potenze.
Il
recente viaggio di “Blinken” in Medio Oriente, preceduto dalle missioni di
altri autorevoli funzionari dell’amministrazione americana in alcuni paesi
strategici, conferma quanto anche per gli USA sia importante mantenere ferma la
propria presenza in questa fondamentale area del mondo.
Un’area
in cui da tempo si concentrano molte delle principali sfide del nostro tempo,
in un constante susseguirsi di fenomeni ed eventi che mettono in continua
discussione la sua stabilità; mentre parallelamente sono in atto processi profondi di
cambiamento, avviati soprattutto dopo il 2011, che stanno condizionando i
rapporti di forza al suo interno tra i principali paesi che vi si trovano.
Le
problematiche eccezionali che affliggono questa regione potranno condizionare
sempre di più il suo futuro e di conseguenza il futuro dell’Europa.
Ma
mentre assistiamo al ritorno di potenze come la Russia e la Turchia, o
all’aumento della presenza cinese nei paesi mediterranei e africani, i paesi
europei stentano a trovare una comune visione per il Mediterraneo e talvolta,
non hanno sempre avuto la capacità di incidere al suo interno con efficacia.
La guerra in Ucraina spinge oggi ancora di più a
cambiare rotta.
L’Italia
da anni lavora per portare al centro del dibattito europeo e atlantico
l’importanza del Mediterraneo allargato.
Un
impegno profuso con impegno in tutte le sedi deputate, a livello politico e
diplomatico.
In questa fase storica, con la gravità della
crisi energetica e la guerra in corso, ma anche di fronte ai nuovi assetti
geopolitici che vanno formandosi nel mondo, la necessità di stabilire forti
relazioni con i paesi della Sponda sud, anche investendo nello sviluppo di
nuove linee di approvvigionamento energetico attraverso il Mediterraneo, è una
priorità urgente che finalmente anche in Europa sembra essere stata compresa. E l’Italia può essere, in questo
contesto, un paese guida per l’Europa, in questa regione.
Anche
le ultime iniziative intraprese dal Governo proseguono nella direzione di
affermare un ruolo da protagonista dell’Italia nella regione.
Verso
aree o paesi che saranno fondamentali nei prossimi anni.
Un
lavoro necessario per il nostro paese, per i suoi interessi economici,
culturali ed energetici, per rilanciare la nostra presenza verso i paesi del
Vicino Oriente e dell’Africa, fino al Golfo, coi quali dobbiamo rafforzare
relazioni bilaterali e multilaterali.
Per
l’Italia il Mediterraneo è storicamente una priorità irrinunciabile.
Quanto
avvenuto nell’ultimo anno ha rilanciato ancora di più l’importanza di questa
regione e la sua centralità strategica a livello globale.
Ma non solo il tema energetico, per quanto
importante, sarà in futuro al centro del confronto sui destini del Mediterraneo
legati, indissolubilmente, a quelli europei.
Dalle migrazioni ai cambiamenti climatici, dai
conflitti alla logistica, attraverso il Mediterraneo passano alcune delle
maggiori sfide che coinvolgeranno l’Europa, la sicurezza continentale e la
NATO, nei prossimi anni.
Una
prospettiva di cui in Italia siamo ben consapevoli da tempo.
Ma
perché il ruolo dell’Italia, anche in sede europea, come player politico nella
regione, possa diventare sempre più rilevante, avrà bisogno di essere sostenuto
da uno sforzo unitario, di tutto il Sistema paese e delle sue istituzioni,
fondato su una comune visione strategica e una capacità di azione pragmatica.
(Enrico
Casini e Andrea Manciulli)
NON
ESISTE NESSUNA EMERGENZA CLIMATICA.
Bastabugie.it
- n.725- (14 luglio 2021) – Rino Camilleri – ci dice:
Il
professor Franco Battaglia da anni lotta contro le tesi anti-scientifiche
dell'ideologia ambientalista: riscaldamento globale, energie rinnovabili,
transizione ecologica, ecc.
(Rino
Cammilleri)
Il
professor Franco Battaglia, noto al pubblico conservatore per la sua lotta,
ahimè senza speranza (minuscolo: senza, non contro), sulla bufala planetaria
del XXI secolo (i greti: «salviamo il pianeta!»), insegna chimica fisica
all'università di Modena.
Dunque,
sa di cosa parla. Ha di recente capeggiato un appello al Capo dello Stato, in
cui un centinaio di esperti (tra cui Zichichi) chiedono a quest'ultimo di non
sprecare il denaro dei contribuenti inseguendo chimere.
La
battaglia di Battaglia contro i mulini a vento (sia letterali che letterari) è
di vecchia data.
Nel
suo ultimo libro scrive:
«Venerdì 3 novembre 2006 fui invitato a
dibattere, assieme al Ministro all'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, nel
programma “Ottoemezzo” trasmesso su La7 e condotto da Giuliano Ferrara e
Ritanna Armeni».
In tal
sede sperimentò quanto Upton Sinclair, scrittore americano premio Pulitzer, ebbe a
suo tempo a dire:
«È
difficile far capire qualcosa ad una persona quando il suo stipendio dipende
dal fatto di non capirla» (thanks a Socci).
Il libro cui accennavamo è questo:
L'illusione
dell'energia dal sole (ed. 21° Secolo, pp. 208, €. 15), riedito in forma
aggiornata e accresciuta.
Negli
anni scorsi il Nostro era molto presente nei talk, tanto da finire bersaglio
dei comizi di Beppe Grillo quando questi era ancora «verde» e no-tutto.
Accusato
di essere pagato dalle multinazionali, il Nostro replicò: «Magari!».
Ma
qualcuno prese il discorso di Grillo molto sul serio e il bersaglio si spostò
sull'auto del Nostro, che finì preda di sassate. La cosa, a sua volta, finì in
tribunale, che
ci mise una decina d'anni a dare ragione a Battaglia e a risarcirlo.
Ora,
una volta che il “Grande Reset” ha deciso che dobbiamo diventare tutti verdi
(alcuni di bile) per salvare la “Pachamama e l'orso polare”, Battaglia è
praticamente scomparso dagli orizzonti televisivi:
chi lo
vuole lo trova, sempre più di rado, come editorialista de Il Giornale e del
blog Zuppa di Porro (dove anche il sottoscritto talvolta compare). Ma lo spirito battagliero (nei due
sensi), grazie al cielo, è sempre lo stesso:
«Il
protocollo di Kyoto, ai fini della riduzione della concentrazione di CO2 in
atmosfera, equivale a pretendere di far dimagrire una persona obesa negandole
la bustina di zucchero nel caffè del mattino».
Infatti, «dopo trilioni di dollari spesi»,
l'unico risultato è «che le nostre bollette elettriche di oggi sono il triplo
di quelle del 2007».
Andiamo coi numeri e veniamo all'argomento del
libro:
«Al fabbisogno mondiale d'energia il Sole contribuiva
per il 6% nel 1965, per il 7% nel 1990 e quasi il 10% nel 2019.
Questi
3 o 4 punti percentuali in più hanno per caso contribuito ad una qualche riduzione
delle emissioni di gas-serra rispetto ai livelli del 1990, come da obiettivo di
tutti i protocolli»?
Per
quanto riguarda noi, «il 13% dell'energia elettrica disponibile sulla rete
elettrica italiana proviene dalle centrali nucleari francesi, svizzere e
slovene».
Per
quanto riguarda, poi, i posti di lavoro «verdi» promessi dai piani mondiali
post-pandemia è bene ricordare che comportano la perdita di quelli legati al
petrolio.
Bisognerà
supportare e riqualificare lavoratori e interi settori, pena sommosse.
Indovinate chi pagherà supporti e riqualificazioni.
Sì, si dirà: ma vuoi mettere le c.d. fonti
rinnovabili?
Bella speranza (minuscolo), ma si sta «dimenticando, ad esempio, che la
frazione dominante delle rinnovabili è costituita dalla fonte idroelettrica».
E allora che si fa?
«Per soddisfare col fotovoltaico il 10% dei consumi
elettrici italiani dovremmo impegnare € 240 miliardi.
Basterebbe
impegnare meno di € 10 miliardi in 4 reattori nucleari e ottenere lo stesso
risultato».
Seh,
vaglielo a dire ai no-nukes, che, sebbene siano sempre meno nel mondo, sono
«pervicaci e resistenti in Italia».
E in
Germania, aggiungo io.
Guarda
caso, i soli due sconfitti europei dell'ultima guerra.
La
scelta no-nukes era supportata dalla promessa che i costi del fotovoltaico si
sarebbero ridotti a furia di studiarci sopra. Invece, in 15 anni «si sono
ridotti appena di un fattore 2».
Quelli
che costano meno, oggi, ce li ha tutti la Cina. E sappiamo perché.
Nota
di “BastaBugie”:
l'autore
del precedente articolo, Rino Cammilleri, nell'articolo seguente dal titolo "La battaglia di Battaglia
sull'ideologia climatica" racconta che Franco Battaglia, docente di Chimica
Fisica all'università di Modena, torna alla carica con un libro dal titolo
eloquentissimo: “Non esiste alcuna emergenza climatica”.
Ecco
l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 03-07-2021:
Inesausto
guerriero, malgrado le molte sconfitte sul campo (mediatico, come si vedrà), il
prof. Franco Battaglia, docente di Chimica Fisica all'università di Modena,
torna alla carica con un libro dal titolo eloquentissimo: Non esiste alcuna emergenza
climatica.
Perché
la pretesa di governare il clima della terra è un'illusione (ed. 21° Secolo,
pp. 80).
Basato non su «modelli» o «teorie» o «proiezioni», ma
sui semplici fatti e perciò zeppo di grafici e tabelle, per le obiezioni
scientifiche rimandiamo al testo scritto il linguaggio piano e quasi
televisivo.
Qui ci
limiteremo a riportare qualche passo riguardante, sì, il clima, ma quello
ideologico in cui tutto il dibattito (si fa per dire: la solfa gretina è
unidirezionale) è immerso.
Nel
2001 l'autore era coordinatore del comitato scientifico dell'Anpa (Agenzia
Nazionale Protezione Ambiente), all'uopo chiamato dal ministro apposito, Altero
Matteoli.
Lui e
il ministro erano seduti al “Maurizio Costanzo Show” per parlare dell'allora
progettato “Protocollo di Kyoto”.
C'era anche Ermete Realacci, fondatore di Legambiente.
Battaglia
disse, tra le altre cose, che il Protocollo avrebbe vincolato i Paesi
entusiasti, però responsabili del 55% delle emissioni, mentre gli emissori del restante 45%
avrebbero potuto far quel che pareva loro, anche aumentarle.
Con
ciò vanificando il Protocollo-salasso per il contribuente.
Realacci
obiettò che, in ogni caso, il Protocollo era pur sempre un primo passo.
Ecco
un classico modo di controbattere le cifre con l'aria fritta.
Battaglia chiosa: «Innanzitutto non si capisce quali
sarebbero gli altri passi e, poi, anche montare su uno sgabello è un primo
passo per raggiungere la Luna».
Si
consoli, Battaglia: anch'io, al “Maurizio Costanzo Show”, mi ritrovai seduto
accanto al Realacci (presenza fissa, lui, io mai più).
Auspicavo,
tra le altre cose, un incremento di parcheggi in città, e lui obiettò, seccato,
che ciò avrebbe incoraggiato all'uso dell'auto.
Vabbè,
mezzo pubblico sia, anche se una città come Milano (capitale economica) diventa
ostaggio degli scioperi, i quali vengono orditi sempre di venerdì (quando fanno
più danno) e pure in tempi di pandemia (con effetto-sardina, “e chissenefrega”
dei picchi di contagio).
Ma
come finì lo scontro, anzi Battaglia?
Finì
che il ministro si alterò (involontario calembour) col suo consulente che gli sciupava i rapporti con gli
ambientalisti, definiti dall'incauto «i peggiori nemici dell'ambiente», cosa che
alterò pure il conduttore.
Morale,
l'Italia firmò il Protocollo e Battaglia perse il posto.
E pazienza se il” Protocollo” si proponeva di
raggiungere i propri obiettivi entro il 2012, col risultato che nel 2012 le
emissioni «furono di oltre il 50% in più di quelle del 1990!».
Nello stesso periodo, infatti, moltissime
produzioni erano state delocalizzate dove il lavoro costava meno, perciò andate
ad emettere colà.
«Principali emettitori sono oggi Cina, Stati Uniti e
India. Se le emissioni degli Stati Uniti sono rimaste essenzialmente ferme ai
livelli del 1990 (per la precisione sono aumentate del 3%), quelle di Cina e
India sono aumentate, rispettivamente, del 320% e del 350%!».
Nel
libro Battaglia riporta solo due delle «molte petizioni che centinaia di
scienziati hanno sottoscritto per avvertire i responsabili politici che non v'è
alcuna emergenza climatica».
Una è
italiana, promossa da alcuni scienziati del clima, geologi, geofisici,
climatologi.
Ebbene,
nel 2018 l'antica e gloriosa “Accademia dei Lincei” organizzò una “Conferenza
sul tema del clima” e alcuni firmatari della petizione chiesero di poter
intervenire, cosa che fu accettata dal comitato scientifico della suddetta
Conferenza.
Ma la
cosa dispiacque a un membro dell'Accademia, uno «scienziato», cela va sans
dire.
Diamo
la parola a Battaglia: «Costui informò alcuni organi di stampa complici
dell'imbroglio emergenza-climatica, i quali si spesero scrivendo articoli
denigratori nei confronti dell'Accademia. La quale decise di cancellare la
Conferenza». Et voilà.
(La
battaglia di Battaglia contro i mulini a vento)
(La
Nuova Bussola Quotidiana, 11-05-2021).
L'AUTODISTRUZIONE
DEL
MONDO
È GIA' INIZIATA.
Bastabugie.it
– (15 marzo 2023) - Mauro Faverzani – ci dice:
(BastaBugie
n.812 del 15 marzo 2023)
L'obiettivo
finale è una drastica riduzione della popolazione da ottenere con
sterilizzazioni di massa, educazione sessuale completa, legalizzazione della
pedofilia, ecc.
«Siamo
già nella fase finale della demolizione della cultura e dei valori, in corso da
molti anni»:
a
dirlo a chiare lettere, nel corso di un'intervista rilasciata lo scorso primo
marzo all'agenzia “InfoCatólica”, è Alicia V. Rubio, filologa presso l'Università di
Salamanca e docente in una scuola superiore di Madrid.
Sposata
e madre di tre figli, Rubio è ricercatrice e scrittrice:
è divenuta bersaglio delle lobby Lgbt e dei
partiti dell'ultrasinistra, accanitisi contro di lei dopo l'uscita di alcuni suoi libri
sull'ideologia
gender,
mostrandone contraddizioni e conseguenze, tanto personali quanto sociali.
È conduttrice di talk show, collabora con diversi
programmi radiofonici e televisivi ed è membro dell'Assemblea di Madrid.
Secondo
la professoressa Rubio, il motivo per cui si incoraggiano relazioni o pratiche
infeconde, è molto chiaro:
«L'obiettivo
finale è quello di ottenere una drastica riduzione della popolazione,
continuando a generare ricchezza per i grandi gruppi di potere, che impongono queste
politiche di sterilizzazione».
Da qui l'accanirsi contro i più piccoli, con
l'aborto e non solo:
«I bambini sono il loro grande problema,
perché un giorno potranno riprodursi e generare nuovi esseri umani.
Il modo per sterilizzarli è separare la sessualità
dall'amore e dalla procreazione, renderli incapaci di paternità e maternità,
fisicamente e psicologicamente. Dall'aborto alle droghe, dal transessualismo
alla pornografia, dalle sessualità alternative alla maternità surrogata, tutto
è un enorme business, che trae profitto a scapito dell'innocenza dei nostri
figli».
Un
piano disumano, questo, che mira ad ottenere «individui senza radici, senza
principi, perfettamente manipolabili».
Per
impossessarsi dei minori - delle loro anime, prima ancora che dei loro corpi -,
è sufficiente «ingannarli, indottrinarli a nuovi "valori".
Vengono
educati ad una libertà piena di censure e di violazioni dei diritti di
espressione, di pensiero e di culto, la "verità" viene imposta e si
impedisce loro di cercarla, la "tolleranza" è, in realtà,
un'intransigenza verso chi non si pieghi all'ideologia dominante, la diversità
impone l'uniformità in tutto tranne che nella sessualità,
l'"uguaglianza" è una struttura piena di disuguaglianze "legali",
la giustizia è un compendio di leggi, che parificano crimini e misfatti, che
creano reati di opinione e di pensiero».
Già
piccoli, vengono istituzionalmente sottratti alla protezione dei genitori,
contrapponendoli ad essi (si pensi, ad esempio, alla facoltà offerta alle ragazzine di
scegliere l'aborto, senza neppure informarne mamma e papà!).
LA
PEDOFILIA LEGALIZZATA.
Tutto
questo genera mostri.
Come
la pedofilia, verso cui si registra purtroppo una crescente condiscendenza: «Credo che vi siano molti gruppi
pedofili potenti - afferma Rubio - che hanno interesse, per ovvie ragioni, alla
sua legalizzazione ed al rovesciamento dei valori di questa civiltà.
Allo
stesso tempo è un modo per distruggere i bambini, per lasciarli traumatizzati
senza che possano nemmeno riconoscerlo.
È tutto così sinistro e assurdo che, se come
società non ci svegliamo in tempo, presto sarà troppo tardi.
Se non facciamo nulla per proteggere i nostri
figli da tutto questo, meritiamo di scomparire e meritiamo un castigo eterno».
In un
contesto come questo, allora, non stupisce che addirittura un ministro
spagnolo, quello per l'Uguaglianza, Irene Montero, esponente di Sinistra Unita
prima e di Podemos poi, abbia pubblicamente definito, nel settembre scorso, un "diritto" dei bambini
«amare e fare sesso con chi vogliano», purché «sulla base del consenso», affermazione peraltro contraria a
quanto previsto dal Codice penale e fatta a fronte delle critiche giunte
dall'opposizione, che a questo punto ne ha chiesto le dimissioni.
Né
stupisce che una collega della Montero, Ione Belarra, ministro per i Diritti Sociali e l'Agenda 2030,
sempre di Sinistra, di Podemos nello specifico, abbia promosso una nuova legge
sul benessere degli animali - peraltro approvata lo scorso 9 febbraio -, che
depenalizza la zoofilia, quando la bestia non resti ferita e non necessiti di
cure veterinarie, a seguito dell'atto sessuale compiuto.
Da
notarsi come tale normativa punisca, invece, col carcere chiunque uccida un
topo, entrato nella propria abitazione.
Assurdo!
E si noti come tanto Montero quanto Belarra, di professione, siano psicologhe!
Non
aiutano certo, in tutto questo, le interferenze mediatiche come la serie
televisiva “Escándalo”, prodotta da Telecinco (gruppo Mediaset, per
intenderci), che, di fatto, "sdogana" la pederastia, raccontando - anche con
l'ausilio di molte scene dai contenuti sessuali espliciti - la relazione tra
una donna di 42 anni ed un ragazzo di 15.
La
protagonista, l'attrice Alexandra Jiménez, ha spiegato in un'intervista al
quotidiano Abc la trama della fiction:
«Inés
è una donna completamente distrutta, che decide di togliersi di mezzo -
racconta - Viene salvata da un ragazzo ed il suo ritorno alla vita diventa una
storia d'amore, che si distorce in un'altra storia malata».
IL
RAPPORTO UNICEF.
Non
stupisce neppure, poiché parte di un unico piano mefistofelico, che il rapporto Unicef 2021 abbia
negato risolutamente che la pornografia possa danneggiare i bambini ed anzi
abbia affermato che qualsiasi tentativo di bloccare loro l'accesso a contenuti
pornografici online violi i loro diritti.
Un
giudizio espresso, ignorando l'immensa mole di ricerche, che dicono esattamente
il contrario.
Il
rapporto, si badi, è stato ritirato dal sito web dell'Unicef pochi giorni dopo,
a fronte delle critiche sollevate, poi modificato e ripubblicato.
Nell'ultima
versione si sostiene - il che resta comunque grave - che i bambini non vengano
influenzati dalla visione di materiale sessualmente esplicito.
Da
notarsi come, solo un mese prima l'”Assemblea Mondiale della Sanità” avesse
respinto l'«educazione
sessuale completa» (che
promuove per i bambini masturbazione, accesso alla contraccezione ed
all'aborto, nonché «famiglie non tradizionali», compresi i "diritti"
Lgbt),
sostenuta dall'amministrazione Biden e dai governi occidentali, nell'ambito di una risoluzione sulla
violenza contro i bambini.
A
fronte di tutto questo, mette conto ricordare come, nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, la pornografia venga definita una «colpa grave», tale da offendere
«la castità», snaturare «l'atto coniugale» e ledere «gravemente la dignità di
coloro che vi si prestino» (n. 2354); la masturbazione venga descritta come «un
atto intrinsecamente e gravemente disordinato» (n. 2352).
l'elenco
potrebbe continuare.
Ma, su
tutto questo, son le parole di Gesù a rappresentare un monito perenne: «Chi
scandalizza uno di questi pargoli, che credono in me, meglio sarebbe per lui
che, legatagli al collo una “macina da mulino”, fosse gettato in mare» (Mc 9,
42).
Dovrebbero
tenerlo presente tutti: anche ministri, produttori televisivi ed organismi
internazionali.
ELLY
SCHLEIN, IL NUOVO SEGRETARIO
DEL PD
È LESBICA E PIACE ANCHE A SOROS.
Bastabugie.it
- n.810- (1° marzo 2023) - Giuliano Guzzo – ci dice:
Alla
Meloni che aveva dichiarato ''Sono una donna, sono una madre, sono cristiana''
aveva risposto ''Sono una donna, amo un'altra donna e non sono una madre, ma
non per questo sono meno donna''.
«Ora
uniti per tornare a vincere.
Saremo
un problema per il governo Meloni.
Il
naufragio di migranti in Calabria pesa sulla coscienza dell'esecutivo».
Le prime parole di Elly Schlein, neoeletta
segretaria del Pd, sono battagliere e ne riflettono bene la tempra.
Del resto, se battagliera non fosse questa
trentasettenne non sarebbe arrivata dov'è, riuscendo - grazie al 53,8% dei
consensi - a conquistare il principale partito progressista italiano, che pure
da mesi veniva saldamente dato in mano al superfavorito Stefano Bonaccini,
presidente della regione Emilia Romagna il quale, a questo punto, può tornare a
fare il suo lavoro.
Invece
per Elly Schlein [...] ora cambia tutto e non solo per lei, motivo per cui vale
la pena conoscerla più da vicino.
Nata a Lugano nel 1985, figlia di due docenti
universitari - il padre è americano di origine ebraica aschenazita, la madre
italiana -, l'enfant prodige del progressismo italiano è cresciuta a pane e politica,
inanellando da subito esperienze ai massimi livelli.
Basti
dire che, a suo tempo, volò a Chicago per sostenere le campagne elettorali di
Barack Obama.
Poi sono arrivati l'Europarlamento e la
vicepresidenza della Regione Emilia Romagna.
Ma
Elly Schlein, il cui trionfo è avvenuto soprattutto grazie ai non iscritti al
Pd (presagio, quello dell'onda esterna che aveva lo stesso Bonaccini, già forse
intimorito dal fatale appoggio di Piero Fassino), ha coltivato la passione
politica, con militanza attiva ed esperienze, si accennava, anche molto
prestigiose, sin dagli anni dell'università.
Vuoi per il suo bruciare le tappe, vuoi per il
suo bagaglio ideologico - di cui diremo subito - la neosegretaria Pd, oltre che
idolo di giovani venuti su col “Woke” nel biberon, è una dagli appoggi così
potenti che c'è da domandarsi se il suo successo, in fondo, sia così casuale.
Quali
appoggi?
C'è l'imbarazzo della scelta.
Un
documento della “Open Society”, società del finanziere supermiliardario George
Soros, la indicava tra «gli alleati affidabili» già nel 2014, al suo primo
mandato all'Europarlamento.
FEMMINISTA,
AMBIENTALISTA, PROGRESSISTA.
Insieme
a lei, tra gli «alleati affidabili», ha fatto notare su Facebook la scrittrice
femminista Marina Terragni, c'erano pure Antonio Panzeri e Antonio Cozzolino…
Ma non
divaghiamo e torniamo alla neoeletta segretaria del Pd.
Che,
dicevamo, da anni gode di sostegni potenti.
Ancora
nel settembre 2020, per dire, L'Espresso - che della sinistra italica non sarà
la Bibbia, ma giù di lì - le aveva dedicato una intera copertina incoronandola
come «femminista,
ambientalista, progressista, di governo»: più che un titolo, un'investitura.
Giusto
pochi mesi prima, era invece stata Daria Bignardi, su La7, ad ospitarla dandole
modo di dichiarare pubblicamente il suo orientamento sessuale fluido: «Ho amato molti
uomini e donne. Ora sono felice con una ragazza».
Questa
dichiarazione ci consente di iniziare ad introdurre il profilo ideologico di
Elly Schlein, che è quello di una paladina del mondo Lgbt, peraltro su
posizioni fieramente abortiste.
Prova ne sia il tono "allarmato" con
cui la neosegretaria - che alcune fonti, a proposito di endorsement di peso, hanno
descritto come assai gradita anche a Romano Prodi, benché il suo ufficio stampa
abbia poi smentito - aveva commentato la decisione della Corte Suprema Usa di
revocare la sentenza “Roe vs Wade del 1973”, che aveva definito «un salto indietro di 50 anni, un
terrificante salto nel buio in cui si cancellano i diritti delle donne a
scegliere sul proprio corpo».
LA
NUOVA ANTI-MELONI.
Toni
tanto duri, va da sé, non sono affatto casuali.
Al
contrario, riflettono appieno quanto per la nuova «anti-Meloni», contino i temi
etici, e cioè tantissimo.
Non a
caso ha ottenuto anche l'appoggio di Alessandro Zan, di Laura Boldrini, perfino
di nomi nobili - come Beatrice Borromeo - insomma di tutto l'establishment
della sinistra Ztl ed ultra radical.
Ergo,
con Elly Schlein il Pd diventa - definitivamente, dato che un po' lo era già -
il Partito di Davos.
Da
Gramsci a Greta, dalla Festa dell'Unità al Gay Pride, dall'articolo 18
all'asterisco, sì completa così quello che - attualizzando Augusto del Noce -
potremmo definire il suicidio della rivoluzione.
D'accordo, ma al vecchio elettore ex
comunista, ora, che resta?
Lo
stesso militante di Capalbio - tutto cashmere, babbucce ed evve moscia - è ora
scalzato dal metrosexual di City Life: figurarsi lo spaesamento dell'iscritto
proletario al Pci.
L'affermazione di Elly Schlein, che farà
senz'altro felice Matteo Renzi - che pronosticava che un suo successo gli
avrebbe portato «metà Pd» -, segnerà dunque il definitivo pensionamento dei
Peppone superstiti;
proprio
loro, che hanno per decenni animato le Case del Popolo, ora si ritrovano senza
più averne una.
È il triste ma inevitabile epilogo d'un mondo
che, a forza di strizzar l'occhio a eutanasia e ius soli, si trova ora una segretaria che ha
preso la «cittadinanza politica» - la tessera - l'altro giorno e si accinge a
praticare al suo partito la sospirata "dolce morte".
Nota
di BastaBugie:
Elly
Schlein nasce a Sorengo, vicino Lugano in Svizzera.
Suo padre, Melvin Schlein, politologo e
accademico statunitense di origini ebraiche è professore emerito di Scienze
politiche e Storia alla Franklin University in Svizzera.
L’attività
politica della Schlein ha inizio a partire dal 2008, quando partecipa come
volontaria alla campagna elettorale di Barack Obama per le elezioni
presidenziali statunitensi.
Scala
negli anni le vette della politica, arrivando a ricoprire nel 2014 il ruolo di
europarlamentare del PD e, dopo una latitanza di sette anni dal partito per
dissensi con i suoi vertici, torna infine alla carica il 4 dicembre 2022
candidandosi per la Segreteria del PD, lasciata vacante da Enrico Letta
all’indomani delle elezioni.
(Fabio Fuiano, Corrispondenza Romana,
22 febbraio 2023)
Elly
Schlein è dichiaratamente e orgogliosamente gay, sull’aborto è disposta a
spostare i paletti ancora più in là, ha dichiarato in più occasioni che la 194
implica per le donne un diritto ad abortire, è dell’idea che lo Stato dovrebbe
garantirlo anche negando l’obiezione di coscienza dei medici.
È ecologista radicale ed è a favore di tutte le
transizioni, che sono oggi sul tappeto.
Ai
tempi del Covid si era allineata al pensiero unico.
Se
vogliamo quindi porla sulla postmodernità liquida, la Schlein è molto più
avanti di Letta o Bonaccini, nonostante loro non fossero granché indietro. [...]
Tra l’altro sembra in grado di risvegliare un
Partito Democratico morente.
Con
Bonaccini avrebbe forse continuato a morire, con la Schlein potrebbe
riprendersi dal coma.
(Stefano Fontana, La nuova Bussola Quotidiana, 28
febbraio 2023)
(Titolo originale: Con Elly Schlein il
Pd ora è -definitivamente- il partito di Davos).
(Fonte:
Sito del Timone, 27 febbraio 2023)
DIFENDERE
L'AGGREDITO: LA SCUSA DEGLI
USA
PER FARE LE GUERRE CHE VOGLIONO.
Bastabugie.it
- n.811 – (8 marzo 2023) - Rino Cammilleri – ci dice:
Dalla
Guerra di Crimea del 1854 a quella in Ucraina di oggi, le potenze di mare (Usa
e Gran Bretagna) non possono tollerare l'abbraccio economico tra Russia e
Germania.
La
guerra russo-ucraina è in corso mentre scrivo e i rarissimi commentatori che
cercano di analizzare le ragioni dei russi devono, prima di aprir bocca,
distinguere tra aggressore e aggredito e proclamare che stanno, ovviamente,
dalla parte di quest'ultimo.
Ora,
poiché tale professione di fede da cavaliere medievale - al servizio della
vedova e dell'orfano.
Dell'oppresso
e della fede - stona non poco sulle labbra di laicisti atei e agnostici per i
quali la morale non è che moralismo, vediamo di vederci un po' più chiaro.
Quella
è una guerra combattuta in Europa, per interposto ucraino, da potenze che
europee non sono: gli Usa la Gran Bretagna contro la Russia.
La Russia post-sovietica aveva tentato di entrare
nell'occidente ma ne era stata progressivamente respinta, fino all'esito
bellico.
USA E
GRAN BRETAGNA, ALLEATI DI FERRO.
Secondo
l'antica dottrina geostrategica, risalente ai tempi di Napoleone, le potenze di
mare (Usa e GB) non possono tollerare l'avvento di una superpotenza
continentale quale sarebbe data dall'abbraccio economico tra Russia e Germania.
Dalla
Guerra di Crimea del 1854 in avanti la musica è stata sempre la stessa, al di
là delle varianti del caso.
Voi mi
direte: vabbè gli Usa, che devono mantenere un impero mondiale, ma gli inglesi?
Si
dimentica che anche questi avevano un impero mondiale, Australia e Nuova
Zelanda, tanto per dirne tre, continuano a navigare nell'orbita anglofona
insieme al resto.
Le più importanti Borse del mondo stanno a
Wall Street e nella city londinese.
L'alleanza è così di ferro che anche nei film di 007
non c'è una volta che James Bond non possa contare sul supporto della Cia.
Se ci
fate caso, anche
l'ideologia woke, che sta squassando gli Usa, da questa parte dell'oceano trova
nell'Inghilterra il suo terreno più fertile.
Ma se, data la loro lunga tradizione bellica,
gli inglesi non devono faticare molto a convincere la loro opinione pubblica a
indossare l'elmetto Her Majesty Service (ricordate la guerra per la
Falkland-Malvinas?), non così gli Usa.
Gli
States sono profondamente spaccati in due:
da una parte i dem (aborto, nozze gay, lgbt, trans,
cancel culture, antifa, blm, etc.)
dall'altra
i rep (Dio-patria-famiglia,
gospel, porto d'armi, etc.).
Se ci
si fa caso, entrambi i fronti hanno in comune, però, il moralismo (il politicamente corretto non è
altro), perciò
ogni guerra deve essere giustificata.
Cioè,
gli Usa non possono mai essere aggressori, bensì aggrediti. Prima dell'avvento della filosofia woke, il moralismo vi era vieppiù
impregnato di puritanesimo, anche perché su quest'ultimo gli Usa sono stati
fondati e la vita per i Padri pellegrini non era altro che Dio-Patria-Famiglia
e guerra contro il Male, fossero i pagani (indiani) o gli eretici (papisti in
primis).
IL
CASO DEL MESSICO.
C'è un
vecchio detto messicano che fa al caso nostro:
"Povero Messico, così lontano da Dio e
così vicino agli Stati Uniti!".
Quando
Napoleone III supportò Massimiliano d'Asburgo quale imperatore del Messico, gli
Usa gridarono, con Monroe:
"L'America agli americani!". Cioè a loro.
E
armarono zitti , zitti la rivolta di Juarez.
Il
povero fratello di Francesco Giuseppe finì fucilato a Queretaro.
Ma il
Messico era ancora un impero.
Così,
quando il presidente Santa Ana abolì la schiavitù, i texani insorsero,
invocando l'aiuto fraterno degli Usa (un po' come il Donbass oggi coi russi).
Con
molta calma, il generale Houston attese che gli insorti di Alamo venissero
liquidati, poi, al grido di "Remember the Alamo!", il Messico si trovò la
capitale invasa.
Ma gli
Usa fecero due conti: annettere tutto avrebbe significato far diventare
cittadini milioni di papisti, sconvolgendo gli equilibri wasp. Così, si
accontentarono di tutti quegli States che ancora oggi hanno nomi spagnoli: California,
Arizona, ect.
Ovviamente,
a colpi di plebisciti sul tipo di quelli fatti dai piemontesi nel Risorgimento.
Poi
venne la Guerra di secessione: il Nord industriale e protezionista contro il Sud agrario e
liberista.
La Costituzione prevedeva il diritto di ogni Stato di
uscire dall'Unione, ma contro i cannoni “non valet argumentum”. E gli Usa divennero il
monolito che sappiamo.
Ed
eccoci al 1898.
Gli
Usa adocchiarono quel che rimaneva dell'impero spagnolo.
Ma gli
spagnoli non avevano alcuna intenzione di aggredirli. Allora a Cuba, colonia spagnola,
esplose e affondò misteriosamente la corazzata americana Maine (300 morti) nel
porto dell'Avana.
Presidente McKinley, la guerra subito
dichiarata tolse alla Spagna, oltre Cuba, l'isola di Guam e le Filippine.
I filippini fecero presto ad accorgersi che
stavano meglio quando stavano peggio (gli occupanti fucilavano da dieci anni in
su, cosa che sollevò uno scandalo sugli stessi giornali americani), ma questa è
un'altra storia.
Tutta
la - breve - guerra fu condotta con questo ritornello: "Remember the Maine!". Saltiamo i passaggi e andiamo
alle guerre più importanti.
LE
GUERRE MONDIALI.
La
Grande guerra.
Gli inglesi, in difficoltà, chiesero aiuto ai
cugini, anche perché, se avessero perso, ai crediti che le banche americane
avevano erogato per sostenere lo sforzo bellico si sarebbe potuto dire ciao.
Argomento
convincente, ma il presidente Wilson come avrebbe potuto convincere gli
americani (ai quali era stato detto "l'America agli americani") ad
andare a morire in Europa?
Nel 1915 un sottomarino tedesco affondò il
transatlantico Lusitania, sul quale c'erano pure un migliaio di americani.
Ma anche materiale bellico per gli inglesi: i tedeschi
avevano avvertito che navi del genere sarebbero state un bersaglio.
E fu
così che, al grido "Remember the Lusitania!", gli Usa entrarono in guerra.
Seconda
guerra mondiale, stesso discorso.
Il Giappone era in guerra con la Cina e gli
Usa gli misero l'embargo totale su petrolio e gomma;
alla
disperazione, questi si affidò all'ammiraglio Yamamoto, già addetto militare
all'ambasciata nipponica a Washington, il quale disse che non si poteva pensare
a una guerra con gli Usa.
L'unica
chance era un colpo preventivo alla flotta di Pearl Harbor.
I
servizi Usa lo sapevano, ma Roosevelt lasciò fare.
Il
resto è la storia del "proditorio attacco" celebrato in tanti film.
"Remember
Pearl Harbor!".
Su su
per li rami, la guerra in Iraq contro Saddam e le sue fantomatiche "armi
di distruzione di massa" l'abbiamo vista in mondovisione, come pure,
ahimè, le precipitose ritirate dal Vietnam e dall'Afghanistan.
Ora, i lettori più avveduti capiscono bene che
non si tratta di recriminare o di fare come i bambini all'asilo che si
lamentano con la maestra della slealtà del prepotente.
No, si
tratta solo di non farsi imbambolare dalla propaganda, nella quale i padroni
dei media sono maestri.
Le guerre ci sono sempre state, e Dio ce ne
scampi.
Ma
oggi chi ti riduce povero o orfano pretende che gli baci la mano grato.
LA
''CANCEL CULTURE'' VUOL LIMITARE
I
POTERI ALLA POLIZIA PER FAVORIRE I CRIMINALI.
Bastabugie.it
- n.810 – (1° marzo 2023) – Lorenzo Formicola – ci dice:
I
democratici e il Black Lives Matter accusano le forze dell'ordine di razzismo, ma la maggioranza dei delinquenti a
cui hanno sparato i poliziotti è bianca, armata e aggressiva.
Il
Washington Post ha registrato 8.166 sparatorie mortali della polizia dal 2015
ad oggi.
La polizia negli Usa uccide, complessivamente,
circa mille persone ogni anno: più di ogni altro Paese occidentale.
Contesto
criminale a parte - che negli Usa è molto più feroce che altrove -, il poliziotto
americano ha un grilletto nettamente più facile rispetto a qualsiasi Stato
europeo.
Così
come quando c'è da arrestare qualcuno, non si cavilla.
Le
varie teorie della cancellazione ritengono che il razzismo sia intrinseco a
vita e cultura americane, perché la Costituzione è stata redatta da proprietari
di schiavi.
In
particolare, però, sono i corpi di polizia ad essere accusati di razzismo
sistemico, e negli ultimi tempi tale biasimo s'è convertito con conseguenze
pesanti.
Il movimento Black Lives Matter, coadiuvato dalla politica più
progressista del Paese, ha proposto, in virtù di una brutalità che
accomunerebbe tutti gli agenti, di tagliare i fondi (defund) alle forze di
polizia a livello nazionale, e di diminuirne la presenza anche nei quartieri
più violenti e a più alto tasso di criminalità delle città Usa.
Il
risultato è stato piuttosto immediato se si considera che l'offensiva, senza
precedenti, per ridimensionare la polizia statunitense, è iniziata,
concretamente, appena dopo il caso Floyd.
Era la primavera del 2020, quando le
manifestazioni raggiunsero persino l'Europa, ma le prime dimostrazioni plateali
dei BLM risalgono almeno al 2013.
Ne è
passata di acqua sotto i ponti.
E di
finanziamenti per rendere la causa planetaria.
Venne
ribattezzata come la "resa dei conti razziale", e sposata come un
dovere morale da assolvere il prima possibile per sollevare i destini
dell'umanità: da De Blasio (New York) a Garcetti (Los Angeles) lo slogan fu
adottato dai sindaci più famosi del Paese.
200 AGENTI
SI SONO DIMESSI.
È
bastato poco perché New York City perdesse il 15% della sua forza, ovvero circa
5.300 ufficiali.
Oltre
200 agenti si sono dimessi, o hanno preso un congedo, dal dipartimento di
polizia di Minneapolis.
Il
dipartimento di polizia di Louisville, si è ridotto del 20% solo nel 2020. Secondo il “Police Executive Research Forum” (PERF), le dimissioni degli agenti
sono aumentate del 18% nella prima metà del 2021, rispetto allo stesso periodo
del 2020.
I dipartimenti di polizia del Paese hanno
registrato un aumento del 45% del tasso di pensionamento nell'anno che è appena
concluso.
A
Memphis, nel Tennessee, pochi giorni fa, un afroamericano è morto dopo il
pestaggio di cinque agenti.
La
notizia è stata battuta velocemente dalle agenzie e ha avuto poca eco, così
come le manifestazioni di protesta - decisamente poca roba rispetto a quelle
del caso Floyd:
non per una violenza meno agghiacciante, bensì
perché tutti e cinque gli agenti erano di colore, come la loro vittima e come
il capo della polizia di Memphis.
Il dipartimento di Memphis è composto da circa duemila
agenti, e il 58 per cento di questi è afroamericano.
"Black
Lives Matter" - le vite dei neri contano - è finito in cortocircuito mediatico
e politico, che, il New York Times, ammette, «complica il discorso su razza e polizia».
«Nel corso del 2021 in tutta l'America
la polizia ha sparato a 1054 individui, la maggioranza dei quali era bianca,
armata e aggressiva.
Sulle
trentatré vittime disarmate colpite dalle pallottole degli agenti, otto erano
bianchi e sei neri.
Nello
stesso anno più di diecimila omicidi sono stati commessi da Black, e la maggior
parte delle vittime apparteneva al loro stesso gruppo etnico», scrive così Federico Rampini in
America, viaggio alla riscoperta di un Paese.
Gli
agenti denunciano da mesi, ormai, un clima insostenibile, parteggiato da una
certa copertura giornalistica che ha avallato, e incoraggiato, una sfiducia
nelle forze dell'ordine considerate il male del Paese.
«In
particolare dopo l'incidente di George Floyd, c'è stato un cambiamento
drammatico», ha affermato Phil Keith, ex direttore dell'Office of Community
Oriented Policing Services, noto come COPS Office, che è gestito dal
Dipartimento di Giustizia.
«Siamo stati maltrattati da molti media
nazionali».
CI
SONO GLI ABUSI, MA...
Sono
stati diversi i gravi abusi di cui si sono macchiati alcuni poliziotti, certo.
Ma la
copertura mediatica concentrata sulle violenze di singoli agenti ha portato a
uno stravolgimento della realtà circa la percezione della polizia in generale.
A Portland, Kristina Narayan, allora a capo
dell'ufficio legislativo di Tina Kotek, presidente della Camera dell'Oregon e
ora governatrice, è stata arrestata mentre partecipava a proteste contro la
polizia durante le quali venivano lanciate bombe molotov contro i poliziotti,
nel 2020.
Maria
Haberfeld, presidente del Dipartimento di giurisprudenza e Amministrazione
della giustizia penale presso il John Jay College of Criminal Justice, ha
avvertito che il "clima anti-polizia" nel paese potrebbe arrecare
danni permanenti alla professione.
Lo
scorso anno, il dipartimento di polizia metropolitana di Washington DC ha
registrato una diminuzione del 44% nel numero di domande per nuove reclute.
L'esodo
ha colpito grandi e piccoli reparti: alcuni hanno prolungato i turni fino a 12
ore, altri hanno deciso che ci saranno alcune chiamate di emergenza che gli
agenti, semplicemente, non prenderanno.
L'emorragia
è talmente veloce che chi recluta non riesce a tenere il ritmo.
Seattle
ha perso più di un quarto delle sue forze di polizia negli ultimi 2 anni e
mezzo.
Ad
Oakland il numero di ufficiali è sceso al di sotto del minimo legale della
città.
A San Francisco il dipartimento di polizia ha
visto 50 agenti, su una pattuglia di meno di 2.000, chiedere trasferimento per
dipartimenti più piccoli.
«Improvvisamente,
tutti ci dicono come fare il nostro lavoro.
Stanno
dicendo che siamo di parte, razzisti, vogliamo solo ferire le comunità nere e
asiatiche», ha detto il tenente Tracy McCray, capo nero, del sindacato di
polizia di San Francisco.
Chicago ha perso più poliziotti di quanti ne
abbia avuti in due decenni.
New Orleans sta colmando la sua carenza di ufficiali
con civili.
St.
Louis, una delle città più pericolose d'America, ha perso così tanti poliziotti
che il quartier generale della polizia è stato ribattezzato "Mount Exodus".
A Minneapolis, dove è stato ucciso George Floyd, il
consiglio comunale aveva pensato di azzerare i fondi per la polizia:
hanno invertito la rotta appena i tassi di
criminalità si sono fatti insostenibili.
Così
la Germania di Scholz si accoda
a
Volkswagen su” e-fuel” e “auto elettriche”
starmag.it
– (20 Marzo 2023) – Carlo Terzano – ci dice:
Il
secondo costruttore mondiale di automobili per volumi dopo i giapponesi di
Toyota sta facendo sbandare la Germania nei suoi rapporti con l’Ue, ma la
strategia Volkswagen è chiara: passare all’elettrico, tenendo anche i motori
endotermici grazie agli e-fuel.
Brindano
Italia, Repubblica Ceca e Polonia, i Paesi Ue contrari al bando delle
endotermiche e all’Euro 7:
mai si
sarebbero aspettati di portare Berlino dalla loro.
Invece
la Germania, come abbiamo ricordato, ha iniziato a prestare attenzione ai
desiderata di Volkswagen.
Restano allibite invece le istituzioni
europee, che certo non s’aspettavano una simile inversione a U dall’esecutivo
di Olaf Scholz, che solo fino a poche settimane fa aveva aderito a entrambi i
dossier.
La
Germania è un Paese “pesante” sia per Pil, sia per rappresentanza all’interno
dell’Europarlamento, essendo molto popoloso.
GERMANIA
E VW SPOSTANO GLI EQUILIBRI IN COMMISSIONE.
E ha
una dote naturale da leader, per questo la nuova presa di posizione sembra già
aver indotto a più miti consigli anche un “falco ambientalista” come il
vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans che, in Italia per un
evento, a Repubblica ha dichiarato che “l’Europa lascia all’industria la scelta
della tecnologia” con la quale raggiungere nel 2035 l’obbiettivo delle
emissioni zero allo scarico delle auto.
“Non
siamo noi che diciamo che cosa devono usare”, ha proseguito, “e questo non vuol
dire che le altre auto (non elettriche, ndr) non ci saranno più:
le vetture con il motore a combustione ci
saranno ancora, ma le nuove macchine non potranno emettere CO2”.
Finora
governo e legislatore comunitari erano andati nella direzione opposta, quella
di scegliere, per legge, che la transizione energetica ed ecologica nell’
automotive avrebbe avuto necessariamente le fattezze dell’auto elettrica
(nessuno Stato, del resto, si sta impegnando nella realizzazione di una rete di
ricarica per le auto a idrogeno).
Ora
però il numero 2 di Ursula von der Leyen apre:
“Non è
una scelta che assumiamo noi, abbiamo indicato solo l’obiettivo, il resto
dipende dalla imprese del settore e dalla filiera”.
Timmermans
ha affermato di “preferire le macchine a batteria, elettriche o a idrogeno, ma
se ci sono altre tecnologie tocca all’industria decidere, non a noi”.
VW FA
LITIGARE FRANCIA E GERMANIA.
Non
sono altrettanto malleabili, ma si sapeva, i francesi.
Il
ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, è ferale:
“Non
possiamo dire che c’è un’emergenza climatica e poi ritirarci dalla transizione
verso i veicoli elettrici”, quindi ha aggiunto:
“Siamo
pronti a combattere perché è un errore ambientale ed economico”.
“Dire che andremo verso l’elettrico – l’accusa
che Parigi muove a Berlino -, ma rimarremo per un po’ con l’endotermico è
economicamente incoerente e pericoloso per l’industria.
Non è nel nostro interesse nazionale, non è
nell’interesse delle case automobilistiche e non è nell’interesse del pianeta”.
A stretto
giro è arrivata la replica dell’omologo tedesco, Christian Lindner:
“Le
Maire sa benissimo che la mobilità in auto potrebbe diventare sempre più
costosa per molte persone che lavorano duramente. Dobbiamo prendere sul serio
queste preoccupazioni”.
E poi l’affondo con toni se possibili ancora
più duri di quelli usati da Parigi:
“È molto deplorevole che il governo francese
stia minacciando una resa dei conti nella disputa sul bando delle
endotermiche”.
LE
CONTRADDIZIONI DEL GOVERNO SCHOLZ VENGONO AL PETTINE.
In
realtà la nuova e improvvisa presa di posizione della Germania sulla scia dei
desiderata di VW (il
Ceo ha dichiarato: “La nostra strategia è mantenere i motori a scoppio sul
mercato, visto che in molte aree del mondo sono molto amati”) non piace nemmeno troppo in
patria.
“Sueddeutsche
Zeitung” non ha mancato di sottolineare come, dopo le prime critiche mosse
verso il piano Ue, il ministero dei Trasporti tedesco non abbia fatto
interventi in tal senso, disinteressandosi del dossier.
Salvo,
poi, cambiare improvvisamente quando il divieto del 2035 era ormai pronto per
essere approvato.
“Fdp”,
il partito che spinge per contrastare il bando degli endotermici, sta soffrendo
nei sondaggi:
è finito sotto la soglia di sbarramento del 5%
in vari parlamentini dei land in cui si è votato nel 2022 e trema per la sua sopravvivenza
futura.
Chiaro l’intento di risollevarsi agguantando i favori
di industriali e lavoratori, considerato che la transizione energetica ne
metterà fuori dai cancelli parecchi ed è il principale motivo per cui è
avversata dai potenti sindacati metalmeccanici tedeschi, che in VW hanno
causato la defenestrazione di Herbert Diess.
LE
ULTIME MOSSE DI VW SULL’ELETTRICO.
Come
scriveva “Startmag” la scorsa settimana, il cambio di linea di Volkswagen è
stato determinato proprio dal passaggio di consegne tra Herbert Diess e Oliver
Blume, quest’ultimo da sempre noto sostenitore degli e-fuel, tanto che Porsche,
casa del Gruppo diretta proprio dal manager, finora ha investito oltre 94 milioni
di euro nello sviluppo e nella produzione di e-fuel ed esattamente un anno fa, nell’aprile del ’22, ha anche sborsato circa 70 milioni di
euro per acquisire il 12,5% della “HIF Global”.
Questo
non significa però che VW abbia abbandonato l’elettrico.
Tutt’altro.
“PowerCo”,
la società per le batterie del gruppo Volkswagen, ha ufficialmente avviato i
lavori per la realizzazione della sua seconda gigafactory europea all’interno di un parco industriale a
Sagunto, in Spagna, a 30 chilometri da Valencia.
La fabbrica, per la quale saranno investiti
oltre 3 miliardi di euro, inizierà a produrre celle nel 2026 e sosterrà più di
3 mila posti di lavoro diretti e, potenzialmente, fino a 30 mila nell’indotto.
Nemmeno
un anno fa Volkswagen aveva annunciato di voler mettere sul piatto 10 miliardi
(inizialmente la somma preventivata era di sette) per avviare la produzione di
vetture a zero emissioni e la creazione delle relative batterie in Spagna.
In quell’occasione, accompagnato da mezzo
governo iberico, il numero 1 dell’epoca, Herbert Diess, aveva dichiarato:
“Elettrificheremo
la Spagna con una nuova gigafactory e una nuova fabbrica dedicata alle auto elettriche.
Creeremo un ecosistema di fornitori che lavori
su tutta la catena del valore, dall’estrazione del litio all’assemblaggio delle
batterie”.
Il
piano tedesco prevede il coinvolgimento di Seat e, soprattutto, della più grande
azienda energetica spagnola, Iberdrola, che ha stanziato 500 milioni di euro per la mobilità
elettrica e che installerà un parco fotovoltaico che contribuirà ad alimentare
la gigafactory
che sorgerà a Sagunto, vicino a Valencia.
Sarebbe
stato proprio l’intervento di Seat e Iberdrola, con ogni probabilità spinte in
campo dal governo spagnolo, ad aver convinto i tedeschi a mettere
sull’operazione 3 miliardi in più, col passaggio da sette a 10.
La
gigafactory spagnola occuperà un’area di 130 ettari, che arrivano a 200
considerando anche l’adiacente parco fornitori.
PowerCo, che ha già avviato i lavori per
realizzare la
prima gigafactory a Salzgitter (Germania) e che dovrà realizzarne uno gemello
pure Oltreoceano, a St.Thomas (Ontario) per il suo primo impianto
nordamericano, ha fissato in 40 GWh la capacità produttiva iniziale del sito iberico,
abbastanza per equipaggiare circa 800 mila vetture, ma potrebbe salire a 60 GWh
in caso di aumento della domanda.
Clima,
il report: "Serve azione
urgente,
dimezzare emissioni al 2030."
Adnkronos.com
– (20 marzo 2023) – Redazione – ci dice:
Pubblicato
il “Rapporto di sintesi”, il capitolo conclusivo del Sesto Rapporto di
Valutazione sui Cambiamenti Climatici (AR6) del Gruppo intergovernativo sui
cambiamenti climatici (Ipcc).
"Le
opzioni per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi ai cambiamenti
climatici causati dall'uomo sono molteplici, fattibili ed efficaci e sono
disponibili ora".
È
quanto affermano gli scienziati nel “Rapporto di sintesi,” il capitolo
conclusivo del “Sesto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici” (AR6)
del” Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici” (Ipcc) pubblicato oggi.
"L'integrazione
di un'azione climatica efficace ed equa non solo ridurrà le perdite e i danni
per la natura e le persone, ma fornirà anche benefici più ampi - ha dichiarato
il presidente dell'Ipcc Hoesung Lee.
Questo “Rapporto di sintesi” sottolinea
l'urgenza di intraprendere azioni più ambiziose e dimostra che, se agiamo ora,
possiamo ancora garantire un futuro sostenibile e vivibile per tutti".
"Più di un secolo di utilizzo di
combustibili fossili e di uso iniquo e non sostenibile dell'energia e del suolo
ha portato a un riscaldamento globale di 1,1°C rispetto ai livelli
preindustriali - sottolineano gli esperti.
Da
questa situazione sono scaturiti eventi meteorologici estremi più frequenti e
più intensi che hanno causato impatti sempre più pericolosi sulla natura e
sulle persone in ogni regione del mondo.
Ogni
aumento del riscaldamento comporta una rapida escalation di questi fenomeni.
Ondate
di calore più intense, precipitazioni più violente e altri fenomeni
meteorologici estremi aumentano ulteriormente i rischi per la salute umana e
gli ecosistemi.
In
ogni regione, le persone muoiono a causa di estremi di calore.
L'insicurezza alimentare e idrica legata al
clima è destinata ad aumentare con l'aumento del riscaldamento.
Quando
i rischi si combinano con altri eventi avversi, come pandemie o conflitti,
diventano ancora più difficili da gestire".
Il
rapporto, approvato durante una sessione durata una settimana a Interlaken,
fornisce un focus sul tema delle perdite e dei danni.
"La
giustizia climatica è fondamentale perché coloro che hanno contribuito meno al
cambiamento climatico sono colpiti in modo sproporzionato - ha sottolineato
Aditi Mukherji, uno dei 93 autori di questo Rapporto di sintesi - Quasi la metà
della popolazione mondiale vive in regioni altamente vulnerabili ai cambiamenti
climatici.
Nell'ultimo decennio, i decessi per
inondazioni, siccità e tempeste sono stati 15 volte superiori nelle regioni
altamente vulnerabili", ha aggiunto.
In
questo decennio, un'azione accelerata di adattamento ai cambiamenti climatici,
rileva il report, è essenziale per colmare il divario tra l'adattamento
esistente e quello necessario.
Nel
frattempo, per contenere il riscaldamento entro 1,5°C al di sopra dei livelli
preindustriali, "è necessario - sottolineano gli studiosi - ridurre le
emissioni di gas serra in tutti i settori in modo profondo, rapido e
significativo.
Le
emissioni dovrebbero già diminuire e dovranno essere ridotte di quasi la metà
entro il 2030, se si vuole limitare il riscaldamento a 1,5°C".
La soluzione sta "in uno sviluppo
resiliente al clima.
Ciò
comporta l'integrazione di misure di adattamento ai cambiamenti climatici con
azioni volte a ridurre o evitare le emissioni di gas serra, in modo da fornire
benefici più ampi.
Ad
esempio, l'accesso all'energia e alle tecnologie pulite migliora la salute,
soprattutto di donne e bambini;
l'elettrificazione
a basse emissioni di carbonio, gli spostamenti a piedi e in bicicletta e i
trasporti pubblici migliorano la qualità dell'aria, la salute e le opportunità
di lavoro e garantiscono l'equità.
I
benefici economici per la salute delle persone derivanti dal solo miglioramento
della qualità dell'aria sarebbero all'incirca uguali, o forse addirittura
superiori, ai costi per ridurre o evitare le emissioni".
"I
maggiori guadagni in termini di benessere potrebbero derivare dalla priorità di
ridurre i rischi climatici per le comunità a basso reddito ed emarginate,
comprese le persone che vivono negli insediamenti informali - ha dichiarato
Christopher Trisos, uno degli autori del rapporto.
L'accelerazione
dell'azione per il clima sarà possibile solo se i finanziamenti aumenteranno in
modo considerevole.
Finanziamenti
insufficienti e disallineati frenano i progressi".
A
questo proposito gli esperti osservano che "il capitale globale è
sufficiente per ridurre rapidamente le emissioni di gas serra se si riducono le
barriere esistenti. Aumentare i finanziamenti agli investimenti per il clima è
importante per raggiungere gli obiettivi climatici globali.
I governi, attraverso finanziamenti pubblici e
segnali chiari agli investitori, sono fondamentali per ridurre queste barriere.
Anche
gli investitori, le banche centrali e le autorità di regolamentazione
finanziaria possono fare la loro parte".
"Clima,
ecosistemi e società sono interconnessi.
Una
conservazione efficace ed equa di circa il 30-50% del suolo terrestre, delle
acque dolci e dell’oceano Terra contribuirà a garantire un pianeta sano",
rimarcano gli esperti nel report.
Come
Blackrock Investment
Fund
ha
innescato la crisi energetica globale.
Globalresearch.ca
- William Engdahl – (07 marzo 2023) – ci dice:
"Adesione
all'Agenda di sostenibilità 2030 delle Nazioni Unite". Colossale
disinvestimento nel settore globale del petrolio e del gas da trilioni di
dollari.
La
maggior parte delle persone è sconcertata da quella che è una crisi energetica
globale, con i prezzi del petrolio, del gas e del carbone che
contemporaneamente salgono alle stelle e costringono persino alla chiusura di
importanti impianti industriali come prodotti chimici o alluminio o acciaio.
L'amministrazione Biden e l'UE ha insistito sul fatto
che tutto è dovuto alle azioni militari di Putin e della Russia in Ucraina.
Non è così.
La crisi energetica è una strategia
pianificata da tempo dai circoli aziendali e politici occidentali per smantellare
le economie industriali in nome di un'agenda verde distopica.
Ciò ha
le sue radici nel periodo ben prima del febbraio 2022, quando la Russia ha
lanciato la sua azione militare in Ucraina.
Blackrock
spinge i criteri ESG.
Nel
gennaio 2020, alla vigilia dei devastanti blocchi covid economicamente e
socialmente, il CEO del più grande fondo di investimento del mondo, Larry Fink
di Blackrock, ha pubblicato una lettera ai colleghi di WALL Street e ai CEO
aziendali sul futuro dei flussi di investimento.
Nel
documento, modestamente intitolato "A Fundamental Reshaping of Finance", Fink, che gestisce il più
grande fondo di investimento del mondo con circa 7 trilioni di dollari allora
in gestione, ha annunciato una partenza radicale per gli investimenti aziendali.
Il
denaro "diventerebbe verde".
Nella
sua lettera del 2020 che ha seguito Fink ha dichiarato:
"Nel
prossimo futuro – e prima di quanto molti si aspettino – ci sarà una
significativa riallocazione del capitale ... Il rischio climatico è un rischio di
investimento".
Inoltre,
ha affermato: "Ogni governo, azienda e azionista deve affrontare il
cambiamento climatico".
In una
lettera separata ai clienti investitori di Blackrock, Fink ha consegnato la
nuova agenda per gli investimenti di capitale.
Ha dichiarato che Blackrock uscirà da alcuni
investimenti ad alto contenuto di carbonio come il carbone, la più grande fonte
di elettricità per gli Stati Uniti e molti altri paesi.
Ha
aggiunto che Blackrock esaminerà nuovi investimenti in petrolio, gas e carbone
per determinare la loro adesione alla "sostenibilità" dell'Agenda
2030 delle Nazioni Unite.
Fink
ha chiarito che il più grande fondo del mondo avrebbe iniziato a disinvestire
in petrolio, gas e carbone.
"Nel
corso del tempo", ha scritto Fink, "le aziende e i governi che non
rispondono agli stakeholder e affrontano i rischi per la sostenibilità
incontreranno un crescente scetticismo da parte dei mercati e, a sua volta, un
costo del capitale più elevato".
Ha
aggiunto che "il cambiamento climatico è diventato un fattore determinante
nelle prospettive a lungo termine delle aziende ... Siamo sull'orlo di un
rimodellamento fondamentale della finanza".
Da
quel momento in poi il cosiddetto investimento ESG, penalizzando le società che
emettono CO2 come ExxonMobil, è diventato tutto di moda tra gli hedge fund e le
banche di WALL Street e i fondi di investimento tra cui “State Street” e “Vanguard”.
Tale è
il potere di Blackrock.
Fink è
stato anche in grado di ottenere quattro nuovi membri del consiglio di
amministrazione di “ExxonMobil” impegnati a porre fine al business petrolifero e del
gas della società.
Segui
i "soldi veri" dietro la "nuova agenda verde."
La
lettera di Fink del gennaio 2020 è stata una dichiarazione di guerra da parte
della grande finanza contro l'industria energetica convenzionale.
BlackRock è stato membro fondatore della “Task
Force on Climate-related Financial Disclosures “(TCFD) ed è firmatario dei PRI
delle Nazioni Unite – “Principles for Responsible Investing”, una rete di
investitori sostenuta dalle Nazioni Unite che spingono gli investimenti a zero
emissioni di carbonio utilizzando i criteri ESG altamente corrotti – fattori
ambientali, sociali e di governance nelle decisioni di investimento.
Non
esiste un controllo oggettivo sui dati falsi per i criteri ESG di un'azienda.
Anche Blackrock ha firmato la dichiarazione
del Vaticano del 2019 sostenendo i regimi di prezzo del carbonio.
BlackRock
nel 2020 ha anche aderito a “Climate Action 100”, una coalizione di quasi 400
gestori di investimenti che gestiscono 40 trilioni di dollari.
Con
quella fatidica lettera del CEO del gennaio 2020, Larry Fink ha messo in moto
un colossale disinvestimento nel settore globale del petrolio e del gas da
trilioni di dollari.
In particolare, nello stesso anno Fink di
BlackRock è stato nominato nel Consiglio di fondazione del distopico World Economic
Forum di Klaus Schwab, il nesso aziendale e politico dell'Agenda 2030 delle Nazioni
Unite a zero emissioni di carbonio.
Nel
giugno 2019, il “World Economic Forum” e le “Nazioni Unite” hanno firmato un
quadro di partenariato strategico per accelerare l'attuazione dell'Agenda 2030.
Il WEF ha una piattaforma di intelligence
strategica che include i 2030 obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 17.
Nella
sua lettera del CEO del 2021, Fink ha raddoppiato l'attacco a petrolio, gas e
carbone.
"Dato
quanto sarà centrale la transizione energetica per le prospettive di crescita
di ogni azienda, stiamo chiedendo alle aziende di rivelare un piano su come il
loro modello di business sarà compatibile con un'economia a zero emissioni
nette", ha scritto Fink.
Un altro funzionario di BlackRock ha detto in una
recente conferenza sull'energia, "dove andrà BlackRock, altri
seguiranno".
In
soli due anni, entro il 2022 circa 1 trilione di dollari sarà uscito dagli
investimenti nell'esplorazione e nello sviluppo di petrolio e gas a livello
globale.
L'estrazione
del petrolio è un'attività costosa e il taglio degli investimenti esterni da
parte di BlackRock e di altri investitori di WALL Street significa la lenta
morte del settore.
Biden:
un presidente BlackRock?
All'inizio
della sua allora poco brillante candidatura presidenziale, Biden ha avuto un
incontro a porte chiuse alla fine del 2019 con Fink che, secondo quanto
riferito, ha detto al candidato che "sono qui per aiutare".
Dopo il suo fatidico incontro con Fink di
BlackRock, il candidato Biden ha annunciato: "Ci libereremo dei
combustibili fossili ..."
Nel
dicembre 2020, ancor prima che Biden fosse insediato nel gennaio 2021, ha
nominato il responsabile globale degli investimenti sostenibili di BlackRock,
Brian Deese, come assistente del presidente e direttore del Consiglio economico
nazionale.
Qui,
Deese, che ha svolto un ruolo chiave per Obama nella stesura dell'accordo sul
clima di Parigi nel 2015, ha silenziosamente plasmato la guerra di Biden
all'energia.
Questo
è stato catastrofico per l'industria petrolifera e del gas. L'uomo di Fink, Deese, è stato attivo
nel fornire al nuovo presidente Biden un elenco di misure anti-petrolio da
firmare per ordine esecutivo a partire dal primo giorno nel gennaio 2021.
Ciò
includeva la chiusura dell'enorme oleodotto Keystone XL che avrebbe portato 830.000 barili al
giorno dal Canada fino alle raffinerie del Texas e l'interruzione di qualsiasi
nuovo contratto di locazione nell'Arctic National Wildlife Refuge (ANWR).
Biden
ha anche riaderito all'accordo sul clima di Parigi che Deese aveva negoziato
per Obama nel 2015 e Trump ha annullato.
Lo
stesso giorno, Biden ha messo in moto un cambiamento del cosiddetto "costo
sociale del carbonio" che impone un punitivo $ 51 a tonnellata di CO2
all'industria petrolifera e del gas.
Questa mossa, stabilita sotto l'autorità
puramente esecutiva senza il consenso del Congresso, sta causando un costo
devastante agli investimenti in petrolio e gas negli Stati Uniti, un paese che
solo due anni prima era il più grande produttore di petrolio del mondo.
Capacità
di raffinazione di uccisione.
Ancora
peggio, le aggressive regole ambientali di Biden e i mandati di investimento
ESG di BlackRock stanno uccidendo la capacità di raffinazione degli Stati
Uniti.
Senza
raffinerie non importa quanti barili di petrolio prendi dalla Strategic
Petroleum Reserve.
Nei
primi due anni della presidenza Biden gli Stati Uniti hanno chiuso circa 1
milione di barili al giorno di capacità di raffinazione di benzina e diesel,
alcuni a causa del crollo della domanda di covid, il declino più rapido nella
storia degli Stati Uniti.
Gli
arresti sono permanenti.
Nel 2023 si chiuderà un ulteriore 1,7 milioni
di barili al giorno di capacità a seguito del disinvestimento ESG di BlackRock
e Wall Street e delle normative Biden.
Citando
il pesante disinvestimento di WALL Street nel petrolio e le politiche
anti-petrolio di Biden, il CEO di Chevron nel giugno 2022 ha dichiarato di non
credere che gli Stati Uniti costruiranno mai un'altra nuova raffineria.
Larry
Fink, membro del consiglio di amministrazione del World Economic Forum di Klaus
Schwab, è affiancato dall'UE il cui presidente della Commissione europea, la
notoriamente corrotta Ursula von der Leyen ha lasciato il consiglio del WEF nel
2019 per diventare capo della Commissione europea.
Il suo
primo atto importante a Bruxelles è stato quello di far passare l'agenda UE “Zero
Carbon Fit for 55”.
Ciò ha
imposto importanti tasse sul carbonio e altri vincoli su petrolio, gas e
carbone nell'UE ben prima delle azioni russe del febbraio 2022 in Ucraina.
L'impatto
combinato dell'agenda
ESG fraudolenta di Fink nell'amministrazione Biden e della follia Zero Carbon dell'UE sta creando la peggiore crisi
energetica e inflazionistica della storia.
(F.
William Engdahl è consulente strategico e docente, ha conseguito una laurea in
politica presso l'Università di Princeton ed è un autore di best-seller su
petrolio e geopolitica.
È
Research Associate del Centre for Research on Globalization.)
Dall'egemonia
al multipolarismo:
come
la politica estera degli Stati Uniti
nei
confronti della Russia dopo
la
Guerra Fredda sta creando un'Eurasia moderna
Analisi
geopolitica e storica.
Globalresearch.ca
– (22 marzo 2023) - Adeyinka Makinde – ci dice:
Preambolo
L'attuale
conflitto tra Russia e Ucraina è probabilmente il culmine della politica estera
perseguita dagli Stati Uniti d'America dalla fine della loro guerra fredda
ideologica con l'Unione Sovietica.
Sostenute
da una risoluta fede nell'"eccezionalismo americano" e guidate da
ideologi neoconservatori che lavorano di concerto con gli interessi
dell'industria militare, le amministrazioni successive hanno intrapreso una
forma di guerra ibrida contro la Federazione Russa, lo stato successore
dell'Unione Sovietica smantellata.
Ciò
comprende dimensioni militari, economiche e informative.
Tuttavia,
questa strategia non ha portato all'auspicato indebolimento della Russia e alla
cessione della sua sovranità;
l'obiettivo
è quello di ridurre lo stato russo a uno dedicato esclusivamente al servizio
del fabbisogno energetico dell'Occidente.
Invece,
la politica, incapsulata in quella che viene definita la "Dottrina Wolfowitz", la risoluzione post-Guerra
Fredda che a nessuna potenza sia permesso di sorgere ed essere in grado di
competere economicamente e militarmente con gli Stati Uniti, ha progettato un'alleanza di fatto
tra la Russia ricca di risorse e la crescente potenza economica globale della
Cina.
L'alleanza
Russia-Cina rappresenta l'inaugurazione di un nuovo mondo eurasiatico, proprio
ciò che decenni di politica globale occidentale modellata dalla tesi
geostrategica di” Halford Mackinder” hanno cercato di evitare.
Pertanto,
la
politica degli Stati Uniti nei confronti della Russia non ha consolidato il mondo unipolare
in cui si è trovata dopo la caduta dell'Unione Sovietica, ma ha di fatto accelerato la
diminuzione del suo potere e della sua influenza, assicurando così la
trasformazione dell'ordine globale in uno di multipolarità.
Lo
sfondo: "La fine della storia."
Qualsiasi
documentazione e analisi adeguate del conflitto tra Russia e Ucraina, così come
la spaccatura
in corso tra Russia e Cina da un lato, e il mondo occidentale dall'altro, deve iniziare con il periodo che copre
la fine della guerra fredda ideologica tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il
crollo dell'Unione Sovietica, che arrivò con la dichiarazione di indipendenza
da parte di alcune delle sue repubbliche sovietiche costituenti come l'Ucraina, la Georgia e gli
Stati baltici, così come la de-sovietizzazione dell'Europa orientale, era
destinato a creare un nuovo ordine globale.
Molto dipenderebbe dagli Stati Uniti, l'unica
potenza mondiale rimasta, su come questo nuovo stato di cose avrebbe preso
forma.
Aveva come
opzione il ricorso ai suoi precetti fondamentali come repubblica che metteva in
guardia contro alleanze intrecciate per perseguire un corso di isolazionismo.
L'estinzione
dell'Unione Sovietica e, prima ancora, la dissoluzione del Patto di Varsavia,
hanno aperto la possibilità che l'”Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico “(NATO)
guidata dagli Stati Uniti sarebbe stata sciolta e una nuova architettura di sicurezza
sviluppata nel continente europeo, compresa la Russia.
Questa nuova e innovativa struttura paneuropea avrebbe potuto svilupparsi al di
fuori del quadro dell'”Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa” (OSCE) e includere una dimensione economica
incentrata su misure volte a integrare l'economia tedesca con quella russa; uno
sviluppo dell'Ostpolitik.
Questo
non è accaduto.
Descrivendo
lo
sviluppo come "il momento unipolare", Charles Krauthammer sostenne la necessità di Stati Uniti
"serenamente dominanti" che non si ritirassero nel loro emisfero e
agissero come un bastione di potere in un mondo multipolare.
Per alcuni come Francis Fukuyama, uno scienziato politico, la caduta
dell'Unione Sovietica rappresentò la "fine della storia".
Secondo Fukuyama, la storia è stata caratterizzata
come una lotta tra ideologie e la democrazia liberale ha trionfato su tutte le
altre.
Le sue opinioni sono state prontamente adottate da
coloro che si identificavano con la scuola di pensiero neoconservatrice.
Questi
discendenti intellettuali dell'idealismo wilsoniano e ferventi credenti
nell'eccezionalismo americano erano già stati deposti per essere promotori
della democrazia.
Così,
all'indomani della vittoria del liberalismo e del capitalismo di libero mercato
sul marxismo, gli Stati Uniti, sostenevano, avrebbero dovuto procedere a plasmare il
mondo a sua immagine.
Questa
linea di pensiero si rifletté nella teorizzazione e nell'applicazione della
politica estera degli Stati Uniti.
L'idea che l'America debba operare come unico egemone
globale si riflette nella cosiddetta "dottrina Wolfowitz";
prende
il nome da Paul
Wolfowitz, gli Stati Uniti Sottosegretario alla Difesa per la politica durante
l'amministrazione guidata dal presidente George H. Bush.
L'obiettivo
generale della “Defense Planning Guidance” per gli anni fiscali 1994-99,
pubblicata nel febbraio 1992 da Wolfowitz e Scooter Libby per il consumo interno, era che gli Stati Uniti avrebbero
usato il vuoto causato dalla disgregazione dell'Unione Sovietica come
un'opportunità per impedire l'ascesa di qualsiasi nazione che tentasse di
assumere il mantello di un concorrente globale.
Nel
cercare di raggiungere questo obiettivo, negava esplicitamente di essere
vincolato da accordi multilaterali e prevedeva di distruggere con l'azione
militare o l'applicazione di pressioni economiche qualsiasi nazione che
operasse in modo contrario agli interessi politici ed economici dichiarati dell'America.
L'influenza
dei seguaci dell'ideologia neoconservatrice, così come di coloro che promuovono
gli interessi degli appaltatori militari, ha avuto un ruolo importante
nell'azione militare americana, sia palese che segreta nelle invasioni dell'Afghanistan
nel 2001 e dell'Iraq nel 2003, nella distruzione della Libia da parte della
NATO nel 2011 e nel
tentativo segreto di rovesciare il governo baathista della Siria che è iniziato
anche nel 2011.
I neoconservatori sono stati anche
all'avanguardia nel chiedere agli Stati Uniti di attaccare l'Iran.
Era
agli ideologi neoconservatori che si riferiva “Wesley Clarke”, un generale dell'esercito
americano a 4 stelle in pensione e comandante supremo della NATO, quando nel
2008 parlò di un "colpo di stato politico" subito dopo gli attacchi
dell'11 settembre 2001, in cui un gruppo di "persone dal naso duro prese
il controllo della politica negli Stati Uniti".
Clarke parlò di una visita che fece al
Pentagono mentre erano in corso i preparativi per l'"azione di polizia" che sarebbe stata intrapresa
in Afghanistan.
Un ex
collega gli aveva mostrato un documento classificato che stabiliva un piano per
attaccare e distruggere "sette paesi in cinque anni".
Includevano Iraq, Libia, Siria e, come Clarke
avrebbe dichiarato, il programma era programmato per "iniziare con l'Iraq
e finire con l'Iran".
La
logica per montare attacchi contro i suddetti paesi non era immediatamente
decifrabile dato che gli autori ufficiali degli attacchi dell'9/11 erano
estremisti dell'Islam sunnita, mentre Iraq, Libia e Siria erano gestiti da
governi nazionalisti laici e l'Iran è una nazione prevalentemente sciita.
Ma i
seguaci neoconservatori sono sostenitori istintivi dello Stato di Israele e
ogni paese era ostile a Israele.
All'inizio
degli anni 1990 il” Project for the New American Century “(PNAC), un importante think tank neoconservatore guidato da
Robert Kagan e William Kristol, aveva specificamente sottoscritto l'idea che
gli Stati Uniti modellassero il quadro globale a loro vantaggio rafforzando le
loro spese militari e posizionandosi per "sfidare" risolutamente i regimi
ostili ai loro "interessi e valori". I paesi presenti nella lista degli
stati ostili erano Iraq, Siria e Iran.
Non
sorprende che quegli stati che sono abbastanza potenti da sfidare gli Stati
Uniti militarmente o economicamente siano nel mirino dei neoconservatori.
Nel 2006, Kagan ha identificato la Russia e la
Cina come la più grande "sfida che il liberalismo deve affrontare oggi".
Vale
la pena notare che Kagan è il marito di Victoria Nuland, il funzionario del Dipartimento di
Stato americano che è stato strettamente associato all'uso americano dell'Ucraina come
procuratore anti-russo e la famiglia Kagan è al timone dell'”Institute of War”, uno dei tanti think tank
neoconservatori ben finanziati che si riuniscono intorno a Washington DC.
L'approccio
intransigente e bellicoso della mentalità neoconservatrice è catturato nella
tesi di Robert Kagan secondo cui "gli americani vengono da Marte e
l'Europa viene da Venere", che ha postulato nel suo libro “Of Paradise and Power: America and
Europe in the New World Order”, pubblicato nel 2003.
Lì Kagan vedeva polemicamente gli europei come
favorevoli a risoluzioni pacifiche in contrasto con la propensione americana a
ricorrere alla violenza.
È
anche importante notare che mentre Wesley Clark affermava che la politica
estera americana era stata "dirottata" e che non c'era stato alcun
dibattito pubblico sul "colpo di stato politico", Jeffrey Sachs, un eminente economista
e accademico americano, considera il conflitto in Ucraina come l'ultimo di una
serie di disastri di politica estera di ispirazione neoconservatrice.
Ma è
anche chiaro che forze diverse dagli ideologi neoconservatori che sono stati ben
rappresentati nelle amministrazioni successive non sono le sole a perpetuare il
ciclo americano di guerre senza fine.
L'industria
militare e l'istituzione dello "Stato profondo"(deep state) che l'accompagna è
un aspetto responsabile ma irresponsabile di questo continuum del militarismo,
nonostante i cambiamenti di amministrazione.
Nel 2014 Michael J. Glennon, professore di
diritto internazionale alla Tufts University, ha offerto alcune spiegazioni in
un lungo articolo di giornale trasformato in libro intitolato "Sicurezza nazionale e doppio
governo".
Prendendo
in prestito gli scritti del costituzionalista inglese del 19 ° secolo Walter
Bagehot su un governo nascosto, Glennon ha postulato che la traiettoria
inflessibile della politica estera degli Stati Uniti provenisse da
un'istituzione evoluta potente ma non riconosciuta che ha designato come
"Trumanite".
Le “istituzioni
Trumanite” sono composte da ex militari, funzionari della sicurezza e altri
interessi acquisiti associati all'industria militare e ai servizi di
intelligence che secondo lui gestiscono politiche di sicurezza nazionale a
spese delle istituzioni "madisoniane";
cioè,
gli organi separati dello stato che funzionano per controllare
costituzionalmente il potere reciproco e che sono responsabili nei confronti
dell'elettorato.
Sarebbe
negligente non aggiungere l'influenza di Zbigniew Brzezinski, un tempo consigliere per la
sicurezza nazionale degli Stati Uniti, sulla condotta delle relazioni estere
americane.
Sebbene
non facesse parte del movimento neoconservatore, sosteneva l'opinione che a nessuna
potenza dovrebbe essere permesso di sollevarsi e sfidare la supremazia
americana sul globo.
Una
parte importante della sua attenzione era sulla Russia.
Nel
suo libro”The
Grand Chessboard” Brzezinski ha esposto le sue opinioni su come la Russia dovrebbe essere
militarmente intimidita ed economicamente indebolita per raggiungere
l'obiettivo di spezzarla come nazione o altrimenti ridurla a uno stato di
vassallaggio, con il suo ruolo limitato a quello di soddisfare il fabbisogno
energetico dell'Occidente.
Le
pressioni esercitate dalle successive amministrazioni statunitensi sulla Russia
sono state su tre fronti: militari, economiche e informative.
Come
ha sostenuto il defunto professor Stephen Cohen, la pressione occidentale è stata
dimostrabilmente proattiva e le azioni della Russia in gran parte reattive.
Queste
pressioni sono informate dalla politica che è germogliata nell'ambiente
post-Guerra Fredda e applicata da molti attori politici imbevuti della
mentalità neoconservatrice che sono sostenuti dalle istituzioni
"Trumanite", incluso il fiorente” Complesso Industriale Militare” di
cui il presidente Dwight D. Eisenhower ha avvertito il popolo americano nel suo
discorso di addio del gennaio 1961.
È solo
tenendo presente tutto questo che le tensioni tra gli Stati Uniti da un lato, e
la Russia e la Cina dall'altro, possono essere comprese correttamente.
La
dimensione militare: "Non un pollice verso est."
La
prima linea di pressione militare che è stata applicata contro la Russia è
quella che si trova al centro del conflitto Russia-Ucraina.
Questa
è stata la decisione di espandere la NATO ai confini della Russia.
Quando
l'espansione è stata propagandata per la prima volta dall'amministrazione del
presidente Bill Clinton nel 1990, ha sollevato proteste dal governo filo-occidentale
del presidente Boris Eltsin.
Il
successore di Eltsin, il presidente Vladimir Putin, il cui governo assunse una
posizione più nazionalista di quella di Eltsin, chiarì dopo l'incorporazione degli
Stati baltici, della Polonia e di altri che un'ulteriore espansione in
Ucraina e Georgia avrebbe costituito una "linea rossa".
I
russi hanno contestato l'allargamento della NATO come una minaccia esistenziale
non solo per il loro paese, ma anche come un'abrogazione di un accordo
raggiunto dai leader degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica alla fine della Guerra
Fredda.
La
sostanza di questo accordo non codificato era che in cambio del permesso alla
riunificazione della Germania, che sarebbe diventata automaticamente un membro
dell'Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti assicurarono al leader sovietico “Mikhail
Gorbachev” che la NATO non si sarebbe espansa "di un centimetro"
verso est.
C'è un'ampia scia di prove sotto forma di
documenti e storie orali che confermano che è stato raggiunto un consenso.
Inoltre,
ai detrattori che sostengono che l'assenza di un trattato formale rappresenta
un effetto delegittimante, vale la pena sottolineare che esisteva un precedente per un
accordo analogo tra le due superpotenze.
Questo
era l'accordo segreto raggiunto dopo la crisi dei missili cubani in base al
quale gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a non invadere Cuba in cambio
della promessa dei sovietici di astenersi dal fornire armi del tipo che avrebbe
potuto mettere in pericolo gli Stati Uniti.
Il
protocollo segreto che accompagnava il ritiro dei missili sovietici da Cuba
comportava anche il ritiro dei missili balistici statunitensi Jupiter dalla
Turchia.
La
minaccia dell'espansione della NATO e le sue conseguenze sono state affrontate
nientemeno che da George F. Kennan, l'architetto della politica di contenimento sovietico
della Guerra Fredda.
In un articolo di opinione intitolato "A Fateful Error" pubblicato sul New York Times
il 5 febbraio 1997, Kennan descrisse il piano per l'allargamento come
"l'errore più fatale della politica americana in tutta l'era post-Guerra
Fredda".
Turbato e perplesso da un tentativo certo di
trasformare la Russia da partner a nemico, scrisse: "Perché, con tutte le
possibilità promettenti generate dalla fine della Guerra Fredda, le relazioni
Est-Ovest dovrebbero concentrarsi sulla questione di chi sarebbe stato alleato
con chi e, implicitamente, contro chi in qualche fantasioso, totalmente
imprevedibile e improbabile futuro conflitto militare?"
Kennan
non era solo.
Testimoniando
davanti a un'audizione al Senato nel 1997, Jack Matlock, ex ambasciatore degli Stati Uniti
presso l'URSS, ha dichiarato quanto segue:
"Considero
la raccomandazione dell'amministrazione di portare nuovi membri nella NATO in
questo momento fuorviante.
Se dovesse essere approvato dal Senato degli
Stati Uniti, potrebbe passare alla storia come il più profondo errore strategico
commesso dalla fine della Guerra Fredda.
Un'altra
osservazione degna di nota fatta nello stesso anno venne da un importante senatore statunitense
del Partito Democratico di nome Joe Biden che predisse che l'espansione della NATO negli Stati
baltici avrebbe suscitato una risposta "vigorosa e ostile" dalla
Russia.
E se
la risposta del governo Eltsin, sebbene negativa, non era comunque all'altezza
della minaccia di una risposta militare, un decennio dopo Vladimir Putin
informò senza mezzi termini i presenti alla Conferenza di Monaco del 2007 che
le dichiarazioni fatte dai membri dell'amministrazione guidata da George W.
Bush che chiedevano la cooptazione della Georgia e dell'Ucraina nella NATO
erano la goccia che faceva traboccare il vaso e che la loro inclusione
nell'Alleanza Atlantica sarebbe stata una "linea rossa".
Tale
politica ha suonato un campanello d'allarme con Willian J. Burns, allora ambasciatore degli Stati
Uniti in Russia che in un memorandum classificato datato 1° febbraio 2008 e
intitolato "Nyet significa Nyet: le linee rosse dell'allargamento della NATO" ha consigliato che
"Le
aspirazioni NATO dell'Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo
scoperto in Russia, ma generano serie preoccupazioni sulle conseguenze per la
stabilità nella regione". Ha aggiunto:
"Non solo la Russia percepisce
l'accerchiamento e gli sforzi per minare l'influenza della Russia nella regione,
ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che colpirebbero
seriamente gli interessi di sicurezza russi".
La
minacciata espansione attraverso la Georgia e l'Ucraina ha portato a un palese
intervento militare russo rispettivamente nel 2008 e nel 2022.
Entrambi
toccano un nervo scoperto La Georgia, il luogo di nascita di Josef Stalin, è
come l'Ucraina confinante con la Russia sulla terra e sul Mar Nero.
L'Ucraina,
che è storicamente, etnicamente e linguisticamente affine alla Russia, presenta
dal punto di vista occidentale una minaccia particolarmente grave alla sua
sicurezza perché la sua massa terrestre si estende "dentro" la Russia
in modo tale che i suoi confini più lontani sono solo 450 miglia da Mosca.
Le
implicazioni del posizionamento da parte della NATO di missili nucleari che
potrebbero raggiungere la capitale russa in pochi minuti sono ovvie.
Quindi
usare l'Ucraina come leva in una competizione geopolitica con la Russia è stato
un aspetto significativo della dottrina neoconservatrice nel fare pressione
sulla Russia.
La
dottrina sposata da Zbigniew Brzezinski posiziona anche l'Ucraina come una
parte vitale nell'affrontare e neutralizzare la Russia.
Credeva
che la Russia non potesse essere una potenza senza l'Ucraina.
Un
secondo modo in cui gli Stati Uniti hanno cercato di fare pressione sulla
Russia è stato lo smantellamento dei trattati di regolamentazione delle armi
nucleari che sono stati faticosamente costruiti durante la Guerra Fredda.
Catastrofe
globale evitata dopo la crisi dei missili cubani dell'ottobre 1962, entrambe le
superpotenze evitarono le loro gravi divisioni imbarcandosi in incontri che
cercavano di allentare le tensioni.
Nel
1963, firmarono il Trattato per la messa al bando limitato dei test nucleari.
Altri
sarebbero arrivati nel decennio successivo.
Il
presidente Richard Nixon firmò il Trattato sui missili antibalistici (ABM),
come parte del Trattato per la limitazione delle armi strategiche (SALT) nel
1972, e nel 1979 il presidente Jimmy Carter firmò il trattato SALT II.
Sebbene non ratificato dal Congresso a causa
dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, gli Stati Uniti rispettarono
comunque i suoi termini fino alla sua scadenza.
Il
successivo importante accordo fu l'Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (INF) del 1987 firmato dal presidente
Ronald Reagan poco prima della fine della Guerra Fredda.
Il Trattato Open Skies (OST), che ha avuto origine dai
negoziati tra i membri della NATO e il Patto di Varsavia, è stato firmato nel 1992 anche se non
è diventato effettivo fino al 1 ° gennaio, 1992.
Poi è
arrivato il cambiamento di politica che ha coinciso con l'aumento
dell'influenza delle figure neoconservatrici nelle amministrazioni successive,
nonché il radicamento degli interessi acquisiti dello Stato di sicurezza nazionale.
In
primo luogo, gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato anti-missili
balistici (ABM) nel 2002 sotto l'amministrazione guidata dal presidente George
W. Bush.
Bush
ha anche adottato una politica di scudi missilistici.
Poi, sotto il presidente Barack Obama, il
primo dei missili anti-balistici ha iniziato a essere schierato in paesi vicini
al confine russo.
È stato sotto la sorveglianza del presidente
Donald Trump nel 2019 che gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato INF, e prima della fine della sua
amministrazione di un solo mandato, anche l'America ha lasciato il Trattato Open Skies.
L'accerchiamento
della Russia con scudi missilistici dall'Europa orientale fino all'Asia e
all'Alaska, insieme al posizionamento esistente di armi balistiche nucleari, è
servito solo a provocare la Russia e ad aumentare le tensioni.
La
provocazione militare contro la Russia si è verificata in una terza via che non
è estranea alla minaccia incombente alla Russia dell'espansione della NATO.
Questo è venuto dall'armare sia la Georgia che
l'Ucraina.
Nel
caso della Georgia, l'allora presidente Mikhail Saakashvili, incoraggiato dalle
promesse fatte da personaggi del calibro del defunto senatore John McCain che
le sarebbe stato permesso di aderire alla NATO, decise di attaccare la vicina
Ossezia del Sud.
Ciò che seguì fu una guerra in cui la Russia alleata
con i separatisti osseti e abkhazi combatté l'esercito georgiano.
Dopo un'occupazione di due mesi di vaste aree
del territorio georgiano, le forze armate russe si ritirarono.
In
Ucraina, dove una battaglia per l'influenza tra Stati Uniti e Russia era
sopravvissuta per un tempo considerevole, il rovesciamento del presidente
Viktor Yanukovich,2014 considerato "pro-Mosca" dall'Occidente, ha
portato al potere un regime russofobo a Kiev che ha provocato un conflitto
civile tra il governo centrale e gli oblast di lingua russa della regione del
Donbas dell'Ucraina orientale.
Ancora
una volta provocherebbe una risposta russa, prima attraverso la fornitura di sostegno
segreto alle milizie separatiste del Donbass a Donetsk e Luhansk, che è stata seguita otto anni dopo da
quella che i
russi hanno definito un'operazione militare speciale.
Il
pensiero dietro le politiche di espansione della NATO e il disconoscimento dei
trattati nucleari è quello di costringere la Russia a una corsa agli armamenti
con l'obiettivo di mettere a dura prova l'economia russa.
E la
guerra in Ucraina in cui gli Stati Uniti e l'UE hanno sostenuto il governo di
Kiev è orientata a "dissanguare la Russia" .
La
dimensione economica: "Nord Stream deve finire".
Le
pressioni economiche, compresa la vera e propria guerra economica con lo
strumento punitivo delle sanzioni, rappresentano un'altra dimensione attraverso
la quale l'Occidente guidato dagli Stati Uniti ha cercato di indebolire la
Russia post-sovietica.
Il defunto professor Stephen Cohen ha riassunto il modello generale
delle relazioni tra entrambi come una condotta proattiva da parte degli Stati
Uniti con la Russia che è in gran parte reattiva.
Ciò ha significato che le reazioni russe alle
provocazioni occidentali come il colpo di stato Maidan sponsorizzato dagli
Stati Uniti a Kiev nel febbraio 2014 hanno dato all'Occidente l'opportunità di
rispondere imponendo sanzioni.
Nel caso del colpo di stato di Maidan, la
risposta russa di proteggere la sua flotta del Mar Nero a Sebastopoli è
consistita nell'avviare un referendum in Crimea per fornire la base della sua
annessione nel marzo 2014.
Le
sanzioni imposte dagli Stati Uniti, dal Canada e dall'Unione europea (UE) nel
luglio 2014, che sono state rafforzate nel settembre dello stesso anno, avevano
tre obiettivi.
Uno
era quello di limitare l'accesso russo ai mercati finanziari occidentali.
Un
altro era quello di imporre un embargo sull'esportazione di tecnologia e il
terzo era quello di impedire l'esportazione di beni militari e di quelli che
possono essere adattati per scopi militari.
La Russia rispose imponendo un divieto sulle
importazioni alimentari dalle nazioni occidentali.
L'imposizione
di sanzioni ha sempre colpito le imprese europee più delle loro controparti in
America.
Nel
2014,
Klaus-Jürgen Gern, economista dell'Istituto di Kiel per l'economia mondiale, ha
dichiarato inequivocabilmente che "gli interessi economici della
Germania sarebbero meglio serviti evitando le sanzioni".
Gli
imprenditori tedeschi hanno costantemente registrato le loro obiezioni ai
leader politici.
Questi
sono stati basati non solo sulla questione dell'interesse finanziario, ma sulla
consapevolezza che le politiche guidate dagli Stati Uniti sono state basate
sull'aggressione piuttosto che sulla diplomazia.
Come
ha detto Eckhard
Cordes, un
importante uomo d'affari, a una conferenza a Berlino,
"Se c'è un unico messaggio che abbiamo come
leader aziendali, allora è questo: sedetevi al tavolo dei negoziati e risolvete
queste questioni pacificamente".
L'acquiescenza
tedesca alle politiche e alle misure anti-russe americane è sempre stata intesa
come un elemento chiave per indebolire con successo la Russia.
Senza
la partecipazione attiva della Germania, tutte le forme di misure punitive
contro la Russia sarebbero destinate a fallire.
Nel
corso dei decenni, l'aumento dell'uso da parte della Germania di petrolio e gas
russi relativamente economici, un fattore significativo nel suo continuo
successo economico, divenne un punto dolente di contesa negli Stati Uniti.
Evitando la logica deduzione che l'aumento del
commercio tra le nazioni aiuta a mantenere la pace, l'atteggiamento vecchio di decenni
tra i politici americani era quello di insistere sul fatto che l'aumento del consumo di petrolio
russo avrebbe portato a una maggiore dipendenza europea dalla Russia che li
avrebbe resi vulnerabili al ricatto.
Pertanto
le successive amministrazioni statunitensi hanno costantemente cercato di
persuadere i tedeschi e altri paesi europei a ridurre il loro uso di gas russo.
L'interrelazione
tra gli Stati Uniti e i suoi alleati europei sulla costruzione di oleodotti di
origine russa e sull'uso delle sanzioni presenta uno studio interessante e
illuminante sull'uso del potere e dell'influenza americana.
Molto
prima delle controversie associate al gasdotto Nord Stream, gli Stati Uniti hanno cercato di
fermare la costruzione del primo gasdotto dalla Siberia (il gasdotto Urengoy) nel 1981.
L'amministrazione
guidata dal presidente Ronald Reagan istituì sanzioni prima emanando un divieto sulla vendita di
tecnologia americana all'Unione Sovietica e ampliandolo in seguito per
includere le vendite di apparecchiature prodotte da filiali straniere e
licenziatari di produttori americani.
Ma il
piano americano di bloccare la costruzione del gasdotto ha incontrato
resistenza da parte dei leader europei che hanno affermato che abbandonare il
progetto costerebbe posti di lavoro.
Altri
hanno affermato che le sanzioni violano il diritto internazionale.
Il
primo ministro britannico Margaret Thatcher ha osservato che "la questione
è se una
nazione molto potente può impedire che i contratti esistenti vengano
rispettati. Penso che sia sbagliato farlo".
E in
una riunione del giugno 1982, i leader della Comunità economica europea (in
seguito l'Unione europea) hanno emesso un comunicato in cui si lamentavano
del fatto che le politiche dell'amministrazione Reagan mettevano seriamente a
repentaglio il mantenimento del sistema commerciale mondiale aperto .
Le
sanzioni americane sono state anche accolte con sfida dalle compagnie tedesche
occidentali e francesi che hanno avuto il pieno sostegno dei loro leader
politici.
La
AEG-Kanis della Germania Ovest inviò le prime due delle 47 turbine in Unione
Sovietica all'inizio di ottobre 1982, mentre la Dresser-France, una filiale
della ditta americana Dresser-Clark, inviò diversi compressori fabbricati con
tecnologia americana ai sovietici in agosto.
Il
livello di respingimento da parte degli alleati europei dell'America contro i
tentativi americani di costringerli a sanzionare l'URSS contrasta notevolmente
con la situazione contemporanea.
L'Europa oggi manca del tipo di pensiero
indipendente e di leadership indipendente fornita da personaggi del calibro del
presidente Charles de Gaulle, che ha rimosso la Francia dalla struttura di
comando militare della NATO e Willy Brandt, che sebbene fosse un sostenitore
dell'unità dell'Europa occidentale e un amico degli Stati Uniti, era un
promotore dell'Ostpolitik e della distensione.
Nello spirito dell'Ostpolitik, il successore
di Brandt, Helmut Schmidt, portò avanti l'accordo sul gasdotto.
Oggi,
i leader tedeschi, francesi e britannici conducono un rapporto con gli Stati
Uniti che è più simile al vassallaggio che alla partnership.
La
mancanza di una forte leadership ha probabilmente portato alla mancanza di
moderazione sulle aggressive e disastrose avventure di politica estera
intraprese dalla NATO, così come sulla gestione delle relazioni con la Russia.
Significava
che i leader dei governi tedesco e francese fungevano in malafede da garanti
degli accordi di Minsk progettati per portare la pace in Ucraina, dove una guerra civile era stata
avviata dal colpo di stato sponsorizzato dagli Stati Uniti a Kiev.
Nel
dicembre 2022 Angela Merkel ha ammesso che gli accordi di Minsk sono stati
stipulati come mezzo per guadagnare tempo in modo che l'Ucraina potesse
costruire le sue forze armate.
Il suo omologo Francois Hollande ha fatto la
stessa ammissione poco dopo.
Il prevedibile intervento russo, un'azione limitata
progettata per riprendere i negoziati, ha portato a incontri di pace tra
delegazioni russe e ucraine, ma furono sabotati dagli sforzi proattivi degli Stati Uniti e
della Gran Bretagna, e presumibilmente dall'inazione dell'attuale leader
tedesco.
Nord
Stream 2,
l'ultimo gasdotto dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, è stato infine cancellato dopo anni
di critiche da parte delle successive amministrazioni statunitensi.
Il
presidente Joe Biden, il segretario di Stato Anthony Blinken e Victoria Nuland,
il sottosegretario di Stato per gli affari politici, hanno fatto dichiarazioni
bellicose relative alla fine del Nord Stream.
Il suo
sabotaggio da parte di uno sforzo militare delle forze speciali che è stato
quasi certamente effettuato dagli Stati Uniti per garantire che la Germania, la
sua economia gravemente stressata dal regime straordinario di sanzioni imposte
dall'UE, non avrebbe avuto alcuna possibilità di invertire il suo sostegno alla
guerra economica diretta dagli Stati Uniti contro la Russia.
Nonostante
le forti prove del coinvolgimento degli Stati Uniti in questo atto di
terrorismo internazionale, è stato accolto con pochi commenti dai leader
politici tedeschi.
Le
sanzioni "shock and awe" imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati europei, progettate per affondare l'economia
russa e portare al rovesciamento di Vladimir Putin, si sono rivelate un
fallimento spettacolare.
Come
ha sottolineato l'economista J.K. Galbraith nel maggio 2022, la Russia è sopravvissuta
perché è una nazione autosufficiente che ha sviluppato una base industriale.
La
dimensione informativa: "Putin come il nuovo Hitler."
Le
pressioni economiche e militari esercitate sulla Russia sono state integrate da
una campagna che utilizza il "soft power" dominato dall'Occidente dei media che ha
costantemente demonizzato il leader russo Vladimir Putin e il suo paese.
Putin,
il cui ritratto si basa su quello di un dittatore di stampo orientale, è spesso
definito dalla stampa come un "ex delinquente del KGB" e come un
"nuovo Hitler".
Parlando
nel 2017, Stephen
Cohen ha
ritenuto che i resoconti dei media americani su Putin fossero "tabloid,
dispregiativi, diffamatori" e "senza contesto, prove o
equilibrio".
Cohen
sosteneva che "demonizzare falsamente" il leader russo rendeva la nuova
Guerra Fredda ancora più pericolosa.
I leader occidentali che lo incontrano si sono
abbandonati in esami pseudo-psicologici di ciò che percepivano di aver
"visto" quando lo guardavano negli occhi.
Sebbene
George W. Bush abbia espresso una posizione neutrale dicendo di avere un
"senso della sua anima", Joe Biden ha differito e ha affermato che in un
incontro del 2011 con Putin, gli ha detto "Non penso che tu abbia un'anima".
Biden
li ha trovati appartenere a "un assassino" mentre il presidente
francese Emmanuel Macron ha percepito "un senso di risentimento"; una
condizione che alcuni hanno sostenuto rendesse Putin "più aggressivo e
imprevedibile che mai".
Il
risentimento a cui si riferisce Macron era, ha affermato, diretto al mondo occidentale,
compresa l'UE e gli Stati Uniti, che Putin sentiva stesse cercando di
"distruggere la Russia".
Sebbene
Macron abbia continuato a negare che la Francia abbia cercato di distruggere la
Russia, in realtà stava proiettando una verità storica e contemporanea poiché
la base dell'ascesa al potere di Putin da un funzionario municipale nella città
di San Pietroburgo a presidente della sua nazione era legata alle circostanze
caotiche del 1990, quando sotto il dominio di Boris Eltsin l'economia russa fu saccheggiata
durante il
trattamento shock economico presieduto da un americano,
team
di consulenti che stavano supervisionando la trasformazione della Russia da
un'economia pianificata sovietica a un modello di libero mercato occidentale.
Tuttavia,
gli sforzi della squadra che divenne nota come "Harvard Boys" portarono al saccheggio
all'ingrosso delle ricchezze e delle risorse della Russia, una grande quantità delle quali fu
trasferita all'estero e una parte significativa delle quali si accumulò nelle
mani di alcuni miliardari che divennero noti come oligarchi.
Il tenore di vita è crollato, il tasso di
mortalità è aumentato e l'inflazione si è scatenata.
Un'aura
di illegalità e di insicurezza generale era prevalente.
È
Vladimir Putin che ha il merito di aver portato a termine questo ultimo Smutnoe Vremya ("Tempo dei Torbidi").
Putin
ha portato stabilità alla caduta libera economica e si è mosso contro oligarchi
come Mikhail
Khodorkovsky che erano strettamente connessi con gli interessi commerciali occidentali.
Khodorkovsky, che aveva ambizioni politiche, era
sul punto di vendere una grande percentuale di azioni della gigantesca Yukos Oil Company ai suoi potenti soci occidentali
quando Putin manovrò per congelare i beni della compagnia e incarcerare Khodorkovsky.
Mentre
Khodorkovsky pianificava di usare la sua ricchezza per comprare potere politico nelle
elezioni del 2004 attraverso le quali sarebbe stato in grado di cambiare le
leggi russe relative alla proprietà del petrolio nel terreno e degli oleodotti
che trasportavano petrolio, l'obiettivo di Putin era quello di far tornare la compagnia
alla proprietà statale per essere utilizzata come preziosa fonte di entrate da
utilizzare nella ricostruzione dell'economia russa distrutta.
Se
Putin è risentito nei confronti dell'Occidente, non sarebbe senza ragione date
le circostanze in cui la Russia è stata sottoposta a un periodo di
colonizzazione economica da parte degli interessi occidentali, nonché le
pressioni militari ed economiche di cui sopra.
È in
queste circostanze che il nazionalista Putin, in contrasto con il flessibile
Eltsin, ha cercato di perseguire gli interessi della Russia, uno dei cui
risultati è stata la campagna di demonizzazione non solo di Putin ma della
nazione russa.
Ciò si
è riflesso nelle parole dei politici, dei funzionari pubblici e dei politici
occidentali.
Per James Clapper, un ex direttore della National Intelligence degli
Stati Uniti,
i russi "tipicamente, sono quasi geneticamente spinti a cooptare, penetrare, ottenere
favori".
E John
Brennan,
un ex direttore della Central Intelligence Agency (CIA), una volta avvertì che i russi
"cercano
di citare in giudizio gli individui e cercano di convincere gli individui,
compresi i cittadini statunitensi, ad agire per loro conto consapevolmente o
inconsapevolmente".
Un editorialista del British Guardian Il
giornale ha affermato che la Russia è un "paradiso dei gangster" Il gangsterismo nelle strade
aveva lasciato il posto alla cleptocrazia nello stato.
I
russi sono anche caratterizzati come un popolo monolitico tenuto
volontariamente alla mercé di un tiranno di tipo orientale.
È un
paese in cui l'opinione pubblica è stata caratterizzata come "l'opinione della folla".
E la visione accettata della Russia come un
paese anormale con una predisposizione alla devianza nel regno delle relazioni
internazionali è stata riflessa da Anne Applebaum, una scrittrice neoconservatrice,
come "una
potenza anti-occidentale con una visione diversa e più oscura della politica
globale ... (al) potere di violazione delle norme."
È in
queste circostanze che i leader politici americani hanno fatto ricorso all'uso
di un linguaggio che sarebbe stato impensabile anche durante i periodi più
aspri della contesa ideologica tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il defunto senatore John McCain, che ha coniato la frase che la Russia era "una stazione di
servizio mascherata da paese", una volta ha casualmente fatto un
tweet che per deduzione era che Vladimir Putin meritava un destino simile a quello del
leader libico, il colonnello Muamar Gheddafi.
Altri
come il suo alleato senatoriale di lunga data Lindsey Graham sono stati più espliciti. Nel marzo 2022, Graham ha chiesto
apertamente l'assassinio di Putin.
Il
linguaggio e il tono di queste espressioni riflettono un declino dello standard
del discorso politico, ma una diminuzione dell'arte di governare e dell'arte
della diplomazia negli ultimi tempi.
Durante
la Guerra Fredda ideologica, i leader di entrambe le superpotenze hanno cercato
di ridurre le tensioni.
Spesso
ricorrevano alla diplomazia ed erano attenti nel loro uso del linguaggio nella
sfera pubblica.
Si può
affermare che ora si può affermare il contrario con un linguaggio intemperante
usato per aumentare le tensioni.
Una
sintesi dell'approccio degli Stati Uniti è racchiusa in un documento presentato
dalla RAND
Corporation nel 2019 intitolato "Overextending and Unbalancing Russia: Assessing the
Impact of Cost-Impose Options".
Sotto
il titolo "Misure ideologiche e informative che impongono costi", ha delineato un piano di attacco che
aveva l'obiettivo di diminuire la fiducia del popolo russo nel suo sistema
elettorale, creando la percezione che Putin stesse perseguendo politiche non
nell'interesse pubblico, incoraggiando proteste interne e minando l'immagine
della Russia all'estero.
La
strada per la guerra Russia-Ucraina.
È solo
con la comprensione del pensiero geostrategico dei neoconservatori americani e
della filosofia dottrinale di Zbigniew Brzezinski che credeva che la Russia non
potesse essere una potenza senza l'Ucraina che l'affermazione che gli Stati
Uniti hanno scelto l'Ucraina come campo di battaglia con la Federazione Russa
può essere facilmente apprezzata.
Contrariamente
alla narrazione fornita dai leader politici occidentali che è stata fedelmente
diffusa dai media mainstream occidentali, la guerra in Ucraina non è iniziata
il 24 febbraio 2022, quando il presidente Putin ha lanciato quella che ha
definito un'operazione militare speciale (SMO).
Era semplicemente uno sviluppo in una
cronologia degli eventi iniziata dalle minacce della NATO di espansione al
confine russo.
Seguì una lotta per l'anima dell'Ucraina che si sviluppò come segue:
sullo sfondo del rimuginare del governo ucraino
sull'opportunità di accettare aiuti economici dalla Russia o dall'UE, le
proteste di Maidan, una serie di manifestazioni pubbliche manipolate, culminate
in un colpo di stato orchestrato dagli americani a Kiev nel febbraio 2014.
L'uso
di gruppi neonazisti e ultranazionalisti certificabili nel rovesciamento del
governo democraticamente eletto di Viktor Yanukovich, che era visto dall'Occidente come
filo-russo,
ha dato il via a un conflitto interno tra il governo centrale e i separatisti
ucraini di etnia russa del Donbas nella parte orientale del paese.
Sono seguiti gli accordi di pace di Minsk: il protocollo di Minsk del
settembre 2014 e il suo seguito, Minsk II nel febbraio 2015.
Tuttavia,
il fallimento di questi accordi e il continuo accumulo di forze militari
ucraine nel Donbas, armate e addestrate da paesi della NATO in un conflitto che
ha causato circa 14.000 vittime, alla fine ha portato all'intervento russo.
Che
l'esercizio di pressioni da parte dell'Occidente all'interno dell'Ucraina
avrebbe creato le condizioni per una guerra civile era prevedibile.
Nel
suo memorandum interno del febbraio 2008, l'ambasciatore William J. Burns aveva osservato quanto segue al
paragrafo 5, lettera c):
Gli
esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti
divisioni in Ucraina sull'adesione alla NATO, con gran parte della comunità
etnica-russa contraria all'adesione, possano portare a una grande scissione,
che comporta violenza o, nel peggiore dei casi, guerra civile.
In tale eventualità, la Russia dovrebbe
decidere se intervenire; una decisione che la Russia non vuole dover
affrontare.
Spostandoci
alcuni anni dopo il memorandum di Burns negli anni 2010, è ora chiaro che gli Stati Uniti
avevano intrapreso un'operazione progettata per effettuare un cambio di regime
in un momento in cui Yanukovich stava posizionando l'Ucraina per essere
militarmente neutrale.
La
rivelazione apparentemente innocua di Victoria Nuland, allora Assistente
Segretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici, che il suo governo
avesse "investito 5 miliardi di dollari" in oltre 20 anni per
"sviluppare processi democratici e riforme in Ucraina" è stato visto dai critici
della politica statunitense come un'ammissione allo sforzo che ha portato al
rovesciamento del governo dell'Ucraina.
Lo vedono come una prova che indica un colpo
di stato pianificato che è effettivamente venuto fuori dallo stesso copione che è
stato utilizzato dalla prima CIA nell'esecuzione dei rovesciamenti rispettivamente
di Mohamed Mossadegh dell'Iran nel 1953,66 e Jacobo Arbenz del Guatemala nel
1954.
Mentre
il processo si è evoluto attraverso quella che può essere definita la "CIA
privatizzata" rappresentata da organizzazioni come il National Endowment for Democracy
(NED), l'attuazione
della "rivoluzione colorata" standard comporta la mobilitazione dei movimenti di protesta
attraverso una rete di agenzie non governative che nel caso dell'Ucraina hanno
lavorato assiduamente verso l'obiettivo di rovesciare Yanukovich.
I
dettagli di questo aspetto dell'azione segreta devono ancora venire alla luce,
come è stato sottolineato dal Dr. Jeffrey Sachs, ma ha rivelato sia nei suoi scritti che nelle
interviste che gli era stato detto durante una visita a Kiev che "le ONG statunitensi
(di Soros) hanno speso ingenti somme per finanziare le proteste e l'eventuale
rovesciamento".
Ulteriori
informazioni su questo aspetto della rimozione illegale di un governo eletto
sono venute dall'uomo d'affari George Soros.
In
un'intervista condotta da Fareed Zakaria della CNN che è stata trasmessa tre
mesi dopo il colpo di stato, Soros ha rivelato di aver "creato una
fondazione in Ucraina prima che l'Ucraina diventasse indipendente dalla Russia.
E la fondazione ha funzionato da allora e ha svolto un ruolo importante negli
eventi ora".
Lungi
dall'essere la romantica "Rivoluzione della dignità", che ha seguito le proteste
orchestrate di Euromaidan, la rivoluzione di Maidan è stata, secondo l'analista geopolitico
anti-Putin George Friedman, "il colpo di stato più palese della
storia".
Lo
strumento decisivo per la rimozione di Yanukovych è stato l'uso di milizie
neonaziste e ultranazionaliste come” Svoboda”, “Splina Sprava” e “Pravy Sektor”.
In effetti, Yevhen Karas, il leader del C14,
una propaggine dell'ala giovanile di Svoboda, una volta ha affermato che senza
questo input, le proteste di Maidan sarebbero state poco più di una
"parata gay".
L'intercessione
violenta di questi gruppi negli scontri di strada è stata accompagnata da un
misterioso gruppo armato che si è posizionato in punti panoramici da cui ha
sparato sia sui manifestanti che sulla polizia.
Questo è il classico modus operandi di una terza forza
segreta che monta un'operazione "false flag" e cerca di screditare un
avversario dando la colpa a loro; in questo caso sul governo Yanukovich.
Una
conversazione telefonica intercettata tra Urmas Paet, il ministro degli Esteri estone che
era stato di recente a Kiev, e Catherine Ashton, il ministro degli Esteri dell'UE,
ha registrato Paet che
informava Ashton
che le
uccisioni di cecchini in piazza Maidan erano state effettuate da "qualcuno della nuova coalizione".
Il
risultato fu che, temendo per la sua vita, Yanukovich fuggì dal paese.
Ma
anche prima che il colpo di stato fosse completato, un'intercettazione, presumibilmente
effettuata dall'intelligence russa, ha catturato Victoria Nuland mentre informava Geoffrey Pyatt, l'ambasciatore degli Stati Uniti in
Ucraina, chi
sarebbero stati i membri del futuro governo dell'Ucraina.
Durante
la conversazione, ha respinto ogni possibilità di aderire a qualsiasi richiesta
di moderazione da parte degli alleati europei sulla traiettoria che gli Stati Uniti
stavano prendendo dicendo a Pyatt "Fanculo l'UE".
Il suo
atteggiamento era in linea con la tesi del marito secondo cui gli americani
"venivano da Marte" e i loro alleati europei "da Venere".
Dato
che un punto chiave della giustificazione di Vladimir Putin per l'intervento russo è stato quello
che ha
definito la "denazificazione" del Donbas, è importante sviluppare il coinvolgimento di gruppi
neonazisti e ultranazionalisti nel rovesciamento del governo Yanukovich, così come nella prosecuzione della
guerra civile nel Donbass.
Mentre
gli Stati Uniti si preparavano a seguire un corso di forzatura del cambio di
regime,
hanno fatto sforzi per raggiungere e cooptare gruppi ultranazionalisti
nell'impresa.
L'uso
da parte degli Stati Uniti di gruppi estremisti in operazioni segrete legate
alla destabilizzazione o al cambiamento dei governi ha una lunga storia.
Gran
parte di ciò ha comportato l'attingere all'Islam militante, sebbene il ricorso
all'uso di gruppi neofascisti nei paesi dell'Europa occidentale come l'Italia sotto l'egida delle “reti
stay-behind della NATO” ("Operazione Gladio") sia avvenuto durante il
periodo della Guerra Fredda.
La
tecnica di sfruttare antichi rancori e rivalità è stata usata in Medio Oriente
e viene ora utilizzata in Ucraina.
Il nazionalismo ucraino è stato
tradizionalmente basato su sentimenti anti-ebraici, anti-polacchi e anti-russi.
È per mano dei cosacchi ucraini vaganti che molte
comunità ebraiche medievali sono state messe a ferro e fuoco.
E gli
episodi successivi riguardanti la creazione di uno stato ucraino durante il
ventesimo secolo sono stati accompagnati dal massacro degli ebrei.
Eppure
oggi gli autori del terrorismo antiebraico, Bogdan Khmelnytsky e Maxim
Zliznyak, entrambi dell'era pre-moderna, e Symon Petliura e Stepan Bandera,
entrambi del 20 ° secolo, sono eroi nazionali le cui statue abitano praticamente ogni
piazza in Ucraina.
Bandera, la cui immagine era molto visibile
durante le proteste di Maidan, diventando una sorta di “spiritus rector del procedimento”, è ufficialmente un eroe nazionale
dell'Ucraina nonostante il numero di ebrei e polacchi che sono stati massacrati dalla
sua organizzazione” OUN-B” durante la seconda guerra mondiale.
Fu
dall'OUN-B che la maggior parte del personale fu reclutato nella legione ucraina della Wehrmacht
tedesca che divenne nota come Bataillon Ukrainische Gruppe Nachtigall.
I
battaglioni Nachtigall e Roland insieme alla Waffen-Grenadier-Division der SS, cioè la divisione galiziana delle Waffen-SS, sono tre forze combattenti lodate in
Ucraina fino ad oggi, nonostante il loro coinvolgimento in pogrom anti-polacchi e
anti-ebraici.
La commemorazione di questi gruppi e
dell'ideologia nazionalsocialista è ciò che alimenta partiti come Svoboda che un rapporto del 1999
dell'Università di Tel Aviv ha etichettato come "un estremista, organizzazione
nazionalista di destra che sottolinea la sua identificazione con l'ideologia
del nazionalsocialismo tedesco".
Un
presunto rebranding nei primi anni 2000 non si rifletteva nelle dichiarazioni del leader di
Svoboda Oleh Tyahnybok che nel 2004 parlò della necessità di combattere quella che definì
la
"mafia ebreo-moscovita" che controllava l'Ucraina.
L'anno seguente, Tyahnybok firmò una lettera aperta all'allora
presidente Viktor Yushchenko che chiedeva al governo di fermare le
"attività criminali" degli "ebrei organizzati".
Eppure
questo non ha impedito ai leader politici statunitensi come l'allora
vicepresidente Biden,
il defunto senatore John McCain e Victoria Nuland di incontrarsi, stringersi la mano e farsi fotografare con Tyahnybok.
Infatti, dopo aver incontrato Tyahnybok e altre figure politiche, McCain, che aveva precedentemente
incontrato figure
islamiste in Libia e Siria, li ha esaltati come "uomini e donne coraggiosi" che "dovrebbero sapere che non sono soli.
I loro amici in tutto il mondo sono solidali con loro".
Imperialismo
bipartitico e guerra con la Russia. Una prospettiva storica.
Questa
empia alleanza tra gli Stati Uniti e il movimento ultranazionalista in Ucraina
si
rispecchia in un'alleanza simile con membri di spicco della comunità ebraica
ucraina.
Per
esempio è riconosciuto che Ihor Kolomoisky, l'oligarca ebreo che finanziò la carriera
televisiva, così come l'irruzione in politica da parte di Volodmyr Zelensky, era responsabile del finanziamento di
milizie private di estrema destra, tra cui il Battaglione Azov e il Battaglione
Aider,
entrambi i quali hanno svolto un ruolo di primo piano nella guerra contro i separatisti etnici
russi nel Donbass.
Mentre
si sostiene che l'estrema destra non ha ottenuto buoni risultati nelle elezioni
post-2014, non c'è dubbio che siano ben rappresentati nelle sfere civile, di
sicurezza e militare dell'Ucraina.
La
difficoltà di conciliare il fatto che l'Ucraina ha individui ebrei che servono
come presidente, primo ministro e ministro della difesa può essere in parte spiegata da
un'intervista Andrew Srulevitch, direttore degli affari europei dell'ADL, condotta con il professor David Fishman,
professore di storia ebraica al Jewish Theological Seminary, che ha detto
quanto segue:
Ci
sono neonazisti in Ucraina, proprio come ce ne sono negli Stati Uniti, e in Russia. Ma
sono un gruppo molto marginale senza alcuna influenza politica e che non
attacca gli ebrei o le istituzioni ebraiche in Ucraina.
È
chiaro che per continuare a ricevere il sostegno degli Stati Uniti nella loro
lotta contro la Russia, l'atteggiamento antiebraico da parte degli ultranazionalisti
ucraini nell'esercito e nei servizi di sicurezza sarebbe impraticabile.
È in questo contesto che il presidente
Volodymr Zelensky premia i soldati appartenenti all'estrema destra Pravy Sektor e difende i calciatori che posano
apertamente con i ritratti di Stepan Bandera.
In
effetti, Zelensky ha definito l'ammirazione ucraina per Bandera "cool".
L'altro
aspetto della recente storia politica dell'Ucraina che illumina l'uso del termine
denazificazione da parte del presidente Putin riguarda il trattamento dei russi
etnici dallo sconvolgimento del 2014.
Una
delle prime cose intraprese dai membri della Duma post-Maidan è stata quella di relegare il russo
dalla posizione di lingua ufficiale dello stato ucraino, un passo che ha inviato campanelli
d'allarme ai cittadini ucraini di etnia russa.
Più tardi, la legge n. 1616-IX sui popoli indigeni
dell'Ucraina, che è stata confermata dal presidente Zelensky nel luglio 2021, un atto legislativo che negava ai
russi etnici lo status di popolo indigeno del paese.
Come è
avvenuto durante le proteste di Euromaidan, le milizie neonaziste e ultranazionaliste hanno svolto un ruolo importante
nella prima guerra nel Donbas, quando l'esercito ucraino era piccolo.
Hanno
continuato a svolgere un ruolo importante nonostante l'assorbimento di unità
come il
Battaglione Azov, il Battaglione Aidar e il Corpo dei Volontari Ucraini (l'ala
paramilitare di Pravy Sektor) nell'esercito ucraino.
Il
fatto che molti membri del personale siano stati fotografati mentre mostravano
simboli nazisti non è sorprendente, data anche l'influenza dell'”ordine
segreto Centuria” che è penetrato nella massima accademia militare dell'Ucraina.
Il generale Valerii Zaluzhnyi, capo delle forze armate ucraine,
che ha temporaneamente nominato Dmytro Yarosh come suo consigliere principale, è
stato fotografato accanto alle immagini di Stepan Bandera.
È stato anche fotografato in mezzo
all'armamentario di estrema destra.
Inizialmente
guidato da milizie ultranazionaliste, l'esercito ucraino ha sviluppato un
modus operandi per bombardare aree civili del Donbas.
La
natura casuale e indiscriminata di questi attacchi ha contribuito allo
spopolamento del Donbas, con molti in fuga verso la vicina Russia.
L'alienazione di molti dei loro concittadini
di etnia russa è stata intensificata dall'atteggiamento dell'ex presidente Petro Poroshenko che in un discorso tenuto al Teatro
dell'Opera di Odessa nell'ottobre 2014, ha promesso che mentre i bambini del
Donbass siedono nelle cantine "i nostri figli andranno a scuola, agli
asili nido».
L'operazione
militare speciale, iniziata il 24 febbraio 2022, è stata caratterizzata come
un'invasione illegale del territorio sovrano dell'Ucraina.
Ai
sensi dell'articolo 2 della Carta delle
Nazioni Unite che afferma che "Ogni Stato ha il dovere di astenersi nelle sue
relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza contro
l'integrità territoriale o l'indipendenza politica".
L'argomentazione contro l'intervento russo sembrerebbe
ineccepibile, dato che le due eccezioni, vale a dire quella dell'autodifesa, della
minaccia di un attacco imminente e dell'autorizzazione del Consiglio di
sicurezza, non erano presenti.
Ma
l'argomento contrario a questa posizione è convincente.
In
contrasto con la valutazione dell'Occidente guidato dagli Stati Uniti che la
sua azione in Ucraina è una guerra di aggressione, il Cremlino difende la sua
azione come non una scelta ma una necessità.
La
leadership russa basa le sue azioni non sulla soluzione hitleriana alla crisi
dei Sudeti, ma sull'esempio fornito dall'Occidente nella creazione dello stato del
Kosovo.
In
primo luogo, come nel caso della Crimea, la base della sovranità germinata
della Repubblica popolare di Donetsk e della Repubblica popolare di Luhansk,
risiederebbe nel principio del diritto internazionale che mira
all'autodeterminazione, vale a dire l'articolo 1, paragrafo 2, e l'articolo 51.
Le condizioni che giustificavano gli atti di
secessione erano basate su leggi ucraine che vietavano l'uso della lingua russa
e l'espressione della cultura russa, così come l'incapacità del governo ucraino
di attuare i suddetti accordi di Minsk e la successiva tabella di marcia
fornita dalla "formula Steinmeier".
Una
seconda giustificazione per la validità della secessione riguarda la
volontarietà dei referendum tenuti, che è un punto di contesa tra l'Occidente
guidato dagli Stati Uniti e la Russia.
È anche giusto notare che non esiste una
formulazione precisa o un test giuridico che fornisca una linea guida assoluta
che indichi dove l'autodeterminazione prevale sulla sovranità territoriale.
Ma la Russia sostiene che mentre l'Occidente ha
stabilito lo stato del Kosovo attraverso l'uso della forza, lo stesso non si
può dire delle regioni del Donbass.
Dopo
anni di ritardo, il Cremlino ha finalmente aderito alla richiesta delle entità
separatiste del Donbass di essere riconosciuti come territori sovrani.
A
seguito di questo riconoscimento, la Federazione Russa ha agito in base ai rapporti di
intelligence sulle forze ucraine ammassate nell'est del paese in preparazione
del lancio di un attacco per recuperare le parti del Donbass sotto il controllo
delle milizie di Donetsk e Luhansk.
L'invito dei territori separatisti ha aperto
la strada, dal punto di vista russo, all'invocazione dell'articolo 51 della
Carta delle Nazioni Unite che prevede che "Nulla nella presente Carta
pregiudicherà il diritto intrinseco all'autodifesa individuale o collettiva se
si verifica un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fino a
quando il
Consiglio di sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per mantenere la
pace e la sicurezza internazionali".
Così,
per la Russia l'intervento iniziato il 24 febbraio 2022 è nato non per scelta
ma per necessità, essendo un continuum di uno stato di conflitto iniziato nel
2014.
Guerra
militare, economica e informativa durante il conflitto Russia-Ucraina: l'operazione militare speciale, le sanzioni "Shock and
Awe" e il "fantasma di Kiev".
Il
secondo elemento chiave degli obiettivi russi nel lancio dell'SMO era quello di
effettuare la "smilitarizzazione" della regione del Donbas e della
città di Mariupol, dove si trovavano concentrazioni di forze ucraine ben armate
in posizioni fortificate.
Il piccolo e mal equipaggiato esercito ucraino
esistente nel 2014 è stato aumentato di dimensioni e ha iniziato ad essere
addestrato e armato dalla NATO.
I russi avevano rilevato un crescente tono di
bellicosità da parte del governo ucraino che entro il 2021 aveva fatto
dell'obiettivo di riprendere la Crimea la dottrina militare ufficiale.
Il suo esercito addestrato secondo gli
standard della NATO è stato anche il beneficiario di un marcato aumento delle
vendite di armi dagli Stati Uniti.
Nel suo discorso al Monaco di Baviera Conferenza sulla
sicurezza nel febbraio 2022, il presidente Zelensky ha rilanciato la minaccia
di aderire alla NATO.
Ha
anche suggerito che l'Ucraina avrebbe abrogato i suoi obblighi ai sensi del
Memorandum di Budapest del 1994 e avrebbe perseguito un percorso di
ri-nuclearizzazione.
L'emissione
di tali minacce insieme ai briefing dell'intelligence russa sulle forze ucraine
pronte a colpire le aree del Donbas controllate dalle milizie dei secessionisti
di etnia russa quasi certamente ha segnato il punto di svolta per il Cremlino.
L'SMO
dichiarato è stata un'azione limitata progettata per influenzare il governo
ucraino a proseguire i colloqui di pace e risolvere le questioni relative
all'autonomia del Donbass, allo status territoriale della Crimea e alla
neutralità ucraina.
I 200.000 soldati composti principalmente
dalle due milizie del Donbass e dal Gruppo Wagner di appaltatori militari, dato
il loro numero totale, non furono sollevati per conquistare l'intera Ucraina,
che era attivamente difesa da 700.000 uomini sotto le armi.
Il
pensiero dietro le azioni del Cremlino sembra essere stato che la
smilitarizzazione avrebbe assunto la forma di ritiri volontari da parte delle
forze ucraine o della loro graduale eliminazione mediante guerra di manovra, come
previsto.
I colloqui di pace proseguirono.
A differenza della convinzione anglosassone
che la guerra è intrapresa una volta che tutti gli sforzi diplomatici sono
falliti, i
russi aderiscono alla massima clausewitziana della guerra come "una
continuazione della politica con altri mezzi".
Tuttavia,
questa azione di polizia non è riuscita a raggiungere il suo obiettivo perché,
sebbene si siano svolti colloqui di pace tra Russia e Ucraina, gli Stati Uniti
li hanno deliberatamente sabotati.
Inoltre, il sostegno della NATO guidato dagli
Stati Uniti alle forze armate ucraine ha portato a un prolungamento della
guerra, specialmente data la decisione del Cremlino di utilizzare un numero
limitato di truppe russe, lasciando l'onere dei combattimenti sul terreno alle
due principali milizie del Donbass e al Gruppo Wagner di appaltatori militari.
Ciò
significava che le forze della coalizione si trovavano spesso sparse e vulnerabili
alle imboscate dell'esercito ucraino.
Non
sorprende che l'intervento abbia permesso agli Stati Uniti di intensificare la
loro guerra militare, economica e informativa contro la Russia.
Gli
Stati Uniti, di concerto con i loro partner della NATO e dell'UE, hanno donato
miliardi di dollari allo sforzo bellico ucraino.
L'esercito ucraino sta quindi funzionando come un
esercito di fatto per procura degli Stati Uniti che ha fornito all'Ucraina
informazioni in tempo reale che hanno portato, ad esempio, all'affondamento della Moskva, la nave ammiraglia
della flotta russa del Mar Nero, e gli assassinii sul campo di battaglia di
alti ufficiali militari russi.
Armi complicate come HIMARS sono gestite sotto la stretta
supervisione del personale militare statunitense che fornisce agli ucraini
coordinate precise prima del lancio dei missili.
La
copertura mediatica ha presentato un continuum della narrativa di lunga data e
anti-russa.
L'essenza
stessa dell'intervento, vale a dire quella di un'azione limitata prevista nella
parte orientale dell'Ucraina, che era evidente dalla quantità di truppe
utilizzate, è stata ignorata.
Invece
è stata presentata come un'invasione su vasta scala destinata a invadere
l'intera Ucraina.
Il
movimento di alcune concentrazioni di truppe alla periferia di Kiev, che doveva
servire come parte della pressione sul governo centrale per intraprendere
colloqui, nonché per servire come finta per distrarre e occupare le truppe
ucraine mentre i russi si occupavano del compito iniziale di smantellare le
concentrazioni ucraine nel Donbas, è stato preso come il preludio di un attacco
alla capitale.
Questa non sarebbe stata un'operazione fattibile da
realizzare dato il numero delle truppe russe, eppure la favola della
"Battaglia di Kiev" avrebbe preso piede nell'immaginazione del
consumatore non perspicace e disinformato dei media mainstream occidentali.
Mentre
la guerra si trascinava, la scarsa diffusione delle truppe della coalizione
russa e la necessità di dare priorità a posizioni difendibili portarono alla
decisione di ritirare le forze russe da alcuni territori.
Questi
includevano Snake Island, Kherson e la riva occidentale del fiume Dnepr.
Tuttavia, come nel caso del ritiro dagli
approcci a Kiev, la cessione volontaria di questi luoghi, tutti i ritiri
ordinati intrapresi per proteggere la vita dei soldati russi, sono stati annunciati dai media
occidentali come "vittorie" ucraine.
Ancora
una volta, il ricorso a Clausewitz è utile per comprendere l'obiettivo russo
della smilitarizzazione.
Le sue
forze nel Donbass sono state più preoccupate di annientare gli eserciti che di
acquisire territori.
La storia militare russa è piena di questa
tecnica militare, tra cui l'adescamento dei cavalieri teutonici invasori da
parte del principe Alexander Nevsky in un lago ghiacciato dopo essersi ritirato.
Fu
usato nelle battaglie contro il feroce assalto delle orde mongole e,
naturalmente, l'esercito zarista si ritirò da Mosca insieme ai suoi residenti e lo
bruciò a terra prima dell'arrivo della “Grande Armee”.
La
verità, come dice l'adagio, è la prima vittima della guerra.
Ma la
portata delle distorsioni e delle falsità diffuse dai media mainstream
occidentali in relazione alla guerra è stata senza precedenti.
Tra le
narrazioni diffuse dalla macchina della propaganda ucraina che sono state
successivamente smentite c'era "Il fantasma di Kiev", in cui un singolo pilota di
caccia ucraino pattugliava eroicamente i cieli sopra Kiev dopo aver
"distrutto" una moltitudine di aerei russi.
Un altro riguardava i "difensori martirizzati dell'Isola dei
Serpenti",
un'unità militare ucraina che presumibilmente diceva alle forze russe che
avanzavano in procinto di sopraffarle di "Andate a fottervi" quando gli fu chiesto di
arrendersi.
Presumibilmente rifiutarono e furono prontamente
uccisi da attacchi aerei e navali condotti dai russi.
Tuttavia,
gli ucraini in seguito hanno fatto marcia indietro sulla storia quando il
personale ucraino è stato trovato vivo tramite filmati.
Un'altra
narrazione incomprensibile, piena di contraddizioni fondamentali, riguarda il presunto bombardamento
della centrale nucleare di Zaporizhzhia nella città di Enerhodar da parte delle
forze russe,
anche se era stata sotto occupazione e controllo russo subito dopo il lancio
dello SMO.
C'era
anche una grave accusa da parte di un funzionario ucraino di nome Lyudmila Denisova che i soldati russi si impegnavano
nello stupro di massa di civili, compresi bambini e neonati.
Denisova è stata successivamente licenziata
dal Parlamento ucraino quando la questione è stata indagata e si è rivelata
falsa.
I
media hanno anche intrattenuto quelle che alla fine sono state rivelate essere
operazioni sotto falsa bandiera progettate per incolpare i russi.
Ad
esempio, nell'aprile 2022, è stato annunciato che i russi hanno sparato missili
contro l'evacuazione dei civili al terminal ferroviario di Kramatorsk.
Ma in
seguito si scoprì che Questa storia non ha resistito alla prova dato che l'attacco
missilistico è stato effettuato da un missile Tochka-U; frammenti dei quali sono stati
trovati e fotografati sul luogo dello sciopero alla stazione ferroviaria.
L'esercito ucraino usa missili Tochka-U mentre i russi
usano missili Iskander.
Poi il
15 novembre 2022 è arrivata l'esplosione a Przewodów, un villaggio polacco al confine con
l'Ucraina che ha ucciso due persone.
L'incidente, avvenuto nel bel mezzo di un
attacco missilistico russo contro l'Ucraina, è stato immediatamente attribuito
ai russi e, insistendo sul fatto che i russi erano in colpa, il presidente
Zelensky ha affermato che era la Russia e ha esortato la NATO a convocare una
riunione ai sensi dell'articolo 4.
La stampa mainstream occidentale ha accettato
questo senza conferma indipendente e ha pubblicato la storia che il missile era
stato lanciato dalla Russia.
Ma la
narrazione è stata screditata da un contadino polacco che ha scattato due
fotografie dei resti del missile detonato che identificavano il proiettile come
un missile di difesa terra-aria S-300 del tipo utilizzato dalle forze armate
ucraine.
Inoltre,
tutti i missili lanciati sul territorio ucraino sono tracciati dalle forze
armate della NATO dal punto di lancio all'impatto.
La difesa aerea ucraina è organizzata in modo
tale che i suoi missili e radar siano orientati da ovest a est.
Dato che questo presunto missile difensivo si
era spostato da una traiettoria est a ovest (atterrando in Polonia) invece di
essere diretto verso una traiettoria orientale per incontrare i missili russi
in arrivo, il sospetto è che non fosse un proiettile "randagio" ma
fosse destinato a creare un grave incidente.
Il missile non viene semplicemente sparato in
una particolare direzione, ha bisogno di radar per metterlo sul suo percorso.
La
distruzione del gasdotto Nord Stream 2 nel settembre 2022, causata da esplosivi
e che ha portato alla fuoriuscita di gas, fornisce un utile caso di studio di
come i media mainstream occidentali abbiano scelto di intraprendere la strada
di essere propagandisti per l'establishment mentre perseguono un'agenda statale
anti-russa.
La risposta immediata dei leader politici degli Stati
Uniti e dell'Unione Europea è stata quella di riconoscere che il sabotaggio era
la causa e che rappresentava "il prossimo passo di escalation della
situazione in Ucraina" che avrebbe ricevuto "la risposta più forte
possibile".
Sebbene il Ministro degli Esteri polacco
Zbigniew Rau sia stato l'unico a rilasciare una dichiarazione esplicita sul
presunto istigatore del sabotaggio, non è stato difficile dedurre dalle
dichiarazioni che la colpevolezza è stata attribuita al Cremlino.
Ma
mentre i media mainstream si sono dimostrati riluttanti a cercare la verità
dietro il bombardamento sottomarino, altri nei media alternativi e, più in
particolare, gli sforzi del giornalista investigativo vincitore del premio Pulitzer Seymour Hersh hanno assicurato il disfacimento
della posizione ufficiale che è cambiata da una di silenzio a quella di una
tiepida negazione da parte del governo degli Stati Uniti.
Pur
accettando che l'Ucraina non possa vincere una guerra contro la Russia (mentre il presidente, Barack Obama,
è stato sincero nell'ammettere il "dominio dell'escalation" della
Russia nella regione), la politica di guerra degli Stati Uniti sembra essere nelle
parole del Segretario alla Difesa Lloyd Austin "vedere la Russia
indebolita", o, come è stata definita, una strategia di "sanguinare
la Russia".
Pur
non aspettandosi che la Russia fosse sconfitta sul campo di battaglia, gli
Stati Uniti avevano più speranze di ottenere la capitolazione russa attraverso
l'applicazione della pressione economica;
in altre parole, con l'imposizione di un
livello senza precedenti di sanzioni che sono state progettate per mettere
l'economia russa in caduta libera per creare le condizioni per il rovesciamento
del presidente Putin.
La strategia
si basava sul negare alla Russia l'accesso al denaro e l'opportunità di
commerciare.
L'UE si è mossa per bandire le banche russe
dal sistema di messaggistica internazionale Swift, mentre gli Stati Uniti e il
Regno Unito hanno congelato i beni statali russi e quelli degli individui.
Inoltre, gli Stati Uniti hanno specificamente
cercato di progettare il default russo sui debiti esteri impedendo alla Russia
di effettuare pagamenti del debito alle banche statunitensi attraverso
qualsiasi valuta estera.
Oltre alle misure finanziarie, gli Stati Uniti
e i loro alleati hanno vietato l'importazione di petrolio e gas russi.
L'idea
qui dal punto di vista degli Stati Uniti è quella di "staccare"
l'Europa dalla Russia, con particolare attenzione alla rottura delle relazioni
economiche tra Germania e Russia.
A
settembre 2022, la Commissione europea annunciava che l'economia russa era a
"brandelli".
Tre quarti del settore bancario russo erano
stati tagliati fuori dai mercati internazionali e quasi 1000 società
internazionali erano andate via assicurando che le importazioni e le
esportazioni erano diminuite e che la produzione di automobili era diminuita del 75%
rispetto all'anno precedente.
Tuttavia,
le misure non solo non sono riuscite a distruggere l'economia russa, ma si sono
anche ritorte contro al punto da causare difficoltà alle economie europee,
compresa la Germania, che affronta la deindustrializzazione.
Hanno anche messo in moto una tendenza alla
de-dollarizzazione.
Divenne
sempre più chiaro che, lungi dal lasciare l'economia russa "a brandelli", i politici russi avevano
pianificato contromisure per resistere agli effetti di tali mosse draconiane.
Una
parte importante dell'errore di calcolo che l'economia russa potesse essere
affondata risiedeva nella convinzione arrogante che la Russia sia, come ha
affermato il defunto John McCain, "una stazione di servizio mascherata da paese".
Ma l'economia russa è qualcosa di più del
petrolio e del gas.
È
ricco di una gamma di materie prime, metalli e minerali indispensabili per il
mercato globale.
È ricco di fertilizzanti e alimenti di base
come il grano.
Ha
anche abbondanti quantità di potassio e metalli delle terre rare.
Alleata
alla narrativa delle stazioni di servizio che si presentano come nazione è
l'accusa spesso sbandierata che l'economia russa ha solo le dimensioni di
nazioni più piccole come la Spagna e l'Italia.
Ma
come ha spiegato Jacques Sapir, un economista francese:
"Se
si confronta il prodotto interno lordo (PIL) della Russia semplicemente
convertendolo da rubli in dollari USA, si ottiene davvero un'economia delle
dimensioni della Spagna.
Ma un
tale confronto non ha senso senza aggiustare per la parità di potere d'acquisto
(PPA) ... E
quando si misura il PIL della Russia basato sul PPP, è chiaro che l'economia
russa è in realtà più simile alle dimensioni della Germania, circa $ 4,4
trilioni per la Russia contro $ 4,6 trilioni per la Germania.
Gli
effetti di rimbalzo delle sanzioni anti-russe sono stati avvertiti dalle economie
europee già sotto pressione a causa delle misure che inducono l'inflazione
intraprese durante la pandemia.
La Germania, in particolare, il cui uso di gas
naturale russo a basso costo ha aiutato la sua economia di prima classe ha
iniziato a sentire gli effetti degli alti prezzi dell'energia e della minaccia
di una recessione economica.
Parlando
con “Die Welt am Sonntag” nel novembre 2022, Tanja Gönner, CEO della Federazione
delle industrie tedesche (BDI) ha dichiarato:
"Gli
alti prezzi dell'energia e l'indebolimento dell'economia stanno colpendo
l'economia tedesca con tutta la forza e stanno ponendo un grande onere sulle
nostre aziende rispetto ad altre località internazionali. Il modello di
business tedesco è sottoposto a un enorme stress... Un'impresa tedesca su
quattro pensa di delocalizzare la produzione all'estero».
L'allontanamento
economico forzato tra la Germania e il resto dell'Europa con la Russia è molto conveniente per gli Stati
Uniti che accolgono con favore la dipendenza europea dai loro mercati.
L'idea che ci si debba aspettare che l'Europa
faccia sacrifici per quello che essenzialmente è un conflitto di ispirazione
americana non è senza precedenti.
Questo
era lo stato delle cose dopo che le sanzioni sono state imposte in seguito
all'acquisizione russa della Crimea, a sua volta una reazione al colpo di stato
di Maidan.
Andando più indietro nel tempo, vale la pena
sottolineare che mentre l'amministrazione Reagan voleva che l'Europa
sopportasse la perdita di commercio e posti di lavoro che sarebbe derivata dall'interruzione della
costruzione del gasdotto Urengoy, gli Stati Uniti hanno fatto un'eccezione alla loro politica
di sanzioni approvando la continua vendita di grano americano all'Unione
Sovietica.
Questa era una concessione agli agricoltori americani
che, pur vivendo anni consecutivi di produzione abbondante, erano alle prese
con prezzi di mercato depressi e avevano bisogno di vendere il loro surplus di
rendimento al più grande acquirente di grano del mondo.
La
disconnessione tra la pretesa del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti da un
lato di essere "uniti ai nostri alleati e partner nel nostro impegno a
promuovere la sicurezza energetica europea" dopo il sabotaggio del Nord
Stream e la dichiarazione del Segretario di Stato Anthony Blinken secondo cui
lo stesso sabotaggio presentava una "tremenda opportunità" per porre
fine alla "dipendenza" europea dall'energia russa dall'altro è un
duro promemoria delle intenzioni americane da decenni di tempo.
La fine di Nord Stream ha fornito una garanzia che la
Germania non avrebbe rinunciato alle sanzioni energetiche anti-Russia in un
momento in cui la pressione stava aumentando per porre fine alle sanzioni e
commissionare Nord Stream 2.
Gli
Stati Uniti, che hanno aumentato la fornitura di gas naturale liquefatto (GNL)
all'Europa al punto che entro la metà del 2022 fornivano il 45% delle
importazioni europee, sembrano trarre profitto dalle sanzioni.
Robert
Habeck, il
ministro tedesco dell'economia, ha criticato i "prezzi astronomici" a cui
veniva venduto il gas naturale liquefatto americano (GNL), e prima di una visita di stato
negli Stati Uniti, Emmanuel Macron si è lamentato che i prezzi americani del gas
erano "non amichevoli".
L'Europa
ne sta raccogliendo i costi.
Scrivendo
per il quotidiano “The Guardian”, Simon Jenkins ha descritto le sanzioni occidentali
contro la Russia "come la politica più mal concepita e controproducente
della recente storia internazionale".
In un momento in cui la sterlina si stava
deprezzando rispetto al dollaro e le famiglie britanniche si trovavano di
fronte alla prospettiva di triplicare le bollette del gas, il rublo russo, ha osservato Jenkins,
era stato "una delle valute più forti del mondo" nel 2022,
"essendosi rafforzato da gennaio di quasi il 50%".
L'impressione
che i leader britannici e dell'Unione Europea non potessero prevedere questo
boomerang li fece "apparire degli ingenui totali sull'economia".
Un
rapporto del Fondo monetario internazionale (FMI) ha confermato che l'Europa
stava sopportando il peso maggiore delle ricadute delle sanzioni.
Come ha detto il capo economista del FMI
Pierre-Olivier Gourinchas in un'intervista all'AFP, la banca centrale russa e i
responsabili politici hanno evitato una grave recessione e sono stati aiutati
dall'aumento dei prezzi del petrolio.
Non
solo la Russia aveva semplicemente reindirizzato il commercio verso altre parti
del mondo, ma il suo petrolio e gas stavano ancora trovando la loro strada in
Europa attraverso terze parti con l'inevitabile aumento dei prezzi per
soddisfare le commissioni degli intermediari.
Le
sanzioni hanno avuto a lungo una storia a scacchi in termini di raggiungimento
degli obiettivi desiderati.
Non
sono riusciti a rovesciare i governi di Cuba, Corea del Nord e Iran.
In effetti, si può sostenere che le sanzioni
rendono solo la nazione presa di mira più resiliente e autosufficiente.
Questo sembra essere il caso della Russia.
Ad esempio, quando nel 2014 gli Stati europei hanno
imposto sanzioni dirette dagli Stati Uniti contro la Russia, la Lituania ha
smesso di esportare formaggio in Russia.
La Russia ha proceduto a sviluppare il proprio
settore caseario che nel corso del tempo è diventato autosufficiente.
Il regime intensificato di sanzioni imposto dopo
l'intervento russo in Ucraina sembra destinato non solo a rafforzare
l'autosufficienza russa, ma sembra destinato a cambiare le basi del quadro
economico e politico globale che dura da quasi 80 anni.
Verso
il multipolarismo: il divorzio della Russia dall'Occidente e l'alba
dell'Eurasia.
Uno
sviluppo derivante dalle pressioni esercitate sulla Russia all'indomani della
guerra fredda è stato l'accensione di uno stato più stretto delle relazioni tra
la Federazione russa e la Repubblica popolare cinese.
All'inizio
timide ma intensificate negli ultimi anni, queste due nazioni sono ora in
un'alleanza di fatto contro l'Occidente guidato dagli Stati Uniti.
Questo
stato di cose, in contrasto con quello che esisteva durante la Guerra Fredda,
quando i due leader del comunismo globale, l'Unione Sovietica e la Cina Rossa,
erano in uno stato permanente di antagonismo, è chiaramente dannoso per la
continuazione dell'egemonia globale americana, proprio ciò che la politica estera
americana precedente alla dottrina neoconservatrice Wolfowitz aveva strenuamente
cercato di evitare.
Nella
sua forma più cruda, la teoria geostrategica postulata dal geografo e studioso
britannico Halford
J. Mackinder, ha fornito una base teorica su cui gli Stati Uniti hanno agito per
impedire un'unificazione della massa continentale contigua che comprende
l'Europa e l'Asia.
Nel suo articolo intitolato "The Geographical Pivot of History" pubblicato nel 1904, Mackinder postulò quella che definì la "teoria dell'Heartland".
Ha diviso il globo in tre regioni geografiche.
Le Americhe e l'Australia erano indicate come
"isole periferiche" e le isole britanniche e le isole del Giappone
etichettate come "isole esterne".
La combinazione di Africa, Europa e Asia che
ha definito "l'isola del mondo".
E al centro dell'"Isola del Mondo"
c'è l'"Heartland", che si estende dal fiume Volga al fiume Yangtze e
dall'Himalaya all'Oceano Artico.
Raffinò
la sua tesi nel suo libro “Democratic Ideals and Reality”, pubblicato nel 1919 che riassumeva
l'essenza della sua teoria come segue:
"Chi governa l'Europa orientale comanda
l'Heartland; che governa l'Heartland comanda l'Isola-Mondo; chi governa
l'Isola-Mondo comanda il mondo."
La sua
spiegazione del potere globale che era rimasto nelle mani, prima dell'Impero
britannico, un'"isola offshore", e poi con gli Stati Uniti,
un'"isola periferica", era che la potenza marittima che aveva
permesso l'ascesa della Gran Bretagna e degli Stati Uniti avrebbe lasciato il
posto al potere terrestre situato nel "cuore" dell'"isola
mondiale" a meno che non fossero state intraprese misure per garantire che
il potere esercitato dal "cuore" potesse essere equilibrato.
Il "cuore" comprendeva la maggior
parte delle terre controllate rispettivamente dall'impero russo e dall'Unione
Sovietica.
Mackinder
suggerì che
uno dei modi attraverso i quali il potere del "cuore" poteva essere
bilanciato era controllare l'Europa orientale.
Sebbene
ci siano state modifiche della tesi di Mackinder da parte di altri teorici, mentre
altri hanno sostenuto che è obsoleta e non è mai stata dimostrata in tutte le
sue componenti, ciò non diminuisce l'importanza della Russia e della Cina in qualsiasi
calcolo relativo all'equilibrio geopolitico del potere.
Un principio chiave dell'argomentazione di Mackinder risiede nella distribuzione delle
risorse globali e nell'accesso a dove si trovano tali risorse.
L'abbondanza
di risorse naturali della Russia e l'obiettivo dell'Occidente guidato dagli
Stati Uniti di controllare queste risorse sono al centro della sua politica nei
confronti della Russia, indipendentemente dal fatto che sia governata da un
"autocrate" o da un "democratico".
Non è
difficile apprezzare come la tesi di Mackinder abbia contribuito a plasmare e
informare le politiche statunitensi orientate a contenere l'Unione Sovietica
durante la Guerra Fredda, così come lo è apprezzare la sua influenza nella formulazione
della Dottrina Brzezinski come modello per cercare di diminuire la sovranità
politica ed economica russa separandola dall'Ucraina e mantenendo la sua
egemonia all'interno dell'Eurasia.
Un
aspetto concomitante della politica statunitense nei confronti della Russia è
stata una duratura ostilità da parte degli Stati Uniti verso qualsiasi
relazione economica sostanziale tra Germania e Russia.
Come George Friedman ha notato in diverse
occasioni, incluso nel suo libro del 2010 The Next Decade, la collaborazione tra Europa e
Russia è stata disapprovata dagli Stati Uniti, ma la cooperazione russo-tedesca in
particolare doveva essere "stroncata sul nascere".
Pertanto,
ha concluso che "mantenere un potente cuneo tra Germania e Russia è di enorme
interesse per gli Stati Uniti".
In una conferenza tenuta nel 2015, Friedman ha
descritto la Germania come "il difetto fondamentale dell'Europa".
Era,
ha affermato, un paese "economicamente potente e geopoliticamente fragile".
Se
lasciasse l'UE, graviterebbe verso est e cercherebbe la cooperazione con la
Russia e ravviverebbe la paura persistente del "capitale e della
tecnologia tedeschi" alleati a quelli delle "risorse e della
manodopera russe".
Questo contesto è estremamente importante per
comprendere l'ostilità degli Stati Uniti nei confronti del Nord Stream e dei
precedenti gasdotti e il sospetto che gli Stati Uniti fossero responsabili
dell'esecuzione dell'atto sottomarino di sabotaggio del gasdotto nel settembre
2022.
L'accumulo
di pressioni sulla Russia attraverso l'attuazione delle sanzioni "shock and awe" è servito solo a spingere la Russia
verso la Cina, creando un'entità economica eurasiatica che probabilmente
svilupperà una forma alternativa di sistema di pagamenti internazionali e
lavorerà per sviluppare il commercio in Asia e nel resto del mondo sotto
l'egida dei BRICS.
Pertanto,
oltre a Brasile, India e Sud Africa, Russia e Cina cercheranno di fornire un
ombrello economico per altri paesi, molti dei quali hanno chiesto di aderire
all'organizzazione.
Se i
BRICS fossero ampliati per includere paesi come Iran, Arabia Saudita,
Kazakistan, Nigeria e Argentina, comprenderebbero oltre la metà della
popolazione mondiale, il 60% del gas globale e il 45% delle riserve globali di
petrolio.
Inoltre, la vendita di gas russo in rubli e,
più recentemente, il crescente uso dello yuan da parte della Russia per il pagamento
degli esportatori di petrolio, oltre a facilitare le operazioni di prestito commerciale e
come valuta privilegiata per il risparmio delle famiglie, non può che
accelerare la tendenza alla de-dollarizzazione.
Lo
status del dollaro americano come valuta globale è quindi minacciato.
Nei
primi anni 1970, l'amministrazione guidata dal presidente Richard Nixon stipulò
un accordo con la Casa di Saud che coinvolgeva gli Stati Uniti garantendo la
sicurezza dello stato saudita in cambio dei sauditi che vendevano petrolio in
dollari.
Questo
accordo, reso possibile grazie al dominio saudita all'interno
dell'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), ha garantito la
sopravvivenza del dollaro USA come valuta di riserva de facto del mondo.
Ci sono
probabilmente due pilastri su cui si trova lo status del dollaro come valuta di
riserva mondiale.
Il
primo è la percezione che gli Stati Uniti abbiano la più grande economia del
mondo.
Mentre
questo è attualmente vero in termini di calcoli basati sul prodotto interno
lordo (PIL), non è il caso quando si basa sulla misurazione della parità di potere
d'acquisto (PPA) della Cina.
Il secondo pilastro riguarda la tradizione di condurre
transazioni petrolifere in dollari USA.
Se i
tre maggiori produttori di petrolio del mondo: Arabia Saudita, Iran e Russia commerciano sotto una valuta
alternativa, allora significherà la scomparsa del dollaro USA come valuta di
riserva globale.
Oltre
all'espansione dei BRICS, c'è la minaccia per gli Stati Uniti dello sviluppo
sia di istituzioni già esistenti che di istituzioni nuove di zecca che
offrirebbero un'alternativa a quelle create a Bretton Woods all'indomani della
2° guerra mondiale.
La
Nuova Banca di Sviluppo (NDB) creata dopo l'incontro di Fortaleza dei BRICS nel 2014 è
una di queste istituzioni.
Oltre ai BRICS, l'Organizzazione per la Cooperazione
di Shanghai (SCO), un organismo eurasiatico che comprende funzioni politiche, economiche,
di sicurezza e difesa internazionale, così come l'Unione economica eurasiatica (UEE) presentano anche una base
istituzionale di un quadro economico globale alternativo a quello finora
dominato dall'Occidente guidato dagli Stati Uniti.
Valutare
il futuro del mondo in termini di una regione eurasiatica distinta e potente
all'interno di un nuovo ordine multipolare non è più nel regno della
speculazione, ma è di fatto ora una realtà.
Le pressioni della politica estera degli Stati
Uniti hanno portato al conflitto in Ucraina e sono servite a creare una profonda e,
almeno per il prossimo futuro, una spaccatura insanabile tra la Russia e
l'Occidente.
Pressioni
simili sono state esercitate anche contro la Cina, che ora si prepara alla separazione
dall'Occidente.
Per la
Russia, i
cui leader, tra cui Vladimir Putin e Sergey Lavrov, nel corso degli anni avevano
continuamente fatto riferimento ai "nostri partner occidentali", la frattura è
ora permanente e irreversibile.
Nel
suo discorso al Forum economico internazionale di San Pietroburgo nel giugno
2022, il
presidente Putin ha criticato gli Stati Uniti per aver operato come un impero
imperialista che non accettava il diritto di altre nazioni di agire come stati
politicamente ed economicamente sovrani.
Ha
incluso gli stati dell'UE come soggetti a questo vassallaggio quando ha accusato
l'organizzazione di non essere pronta a svolgere il ruolo di "attore
indipendente e sovrano" durante la crisi ucraina.
Putin
ha usato l'occasione del suo discorso per dichiarare specificamente che
"l'era del mondo unipolare è finita".
Il
mese successivo in una dichiarazione al forum dell'Agenzia per le iniziative
strategiche (ASI) "Idee forti per il nuovo tempo", Putin è apparso non solo per
suggerire che era necessario un nuovo modello economico globale per sostituire
quello che ha
definito il modello del "miliardo d'oro" dell'Occidente, la sua affermazione che questo modello, intrinsecamente
"razzista" e "neo-coloniale" in natura, e che "ha preso le sue posizioni a causa del
furto di altri popoli sia in Asia che in Africa", sembrava destinato a fare appello
alle nazioni del Sud del mondo.
La
Cina, la cui rivalità contemporanea con gli Stati Uniti è stata ufficialmente
inaugurata dal "Pivot to Asia" dottrinale del presidente Obama, è stata oggetto delle misure
economiche statunitensi che hanno iniziato a essere intensificate durante
l'amministrazione Trump.
Mentre le accuse di bullismo nei confronti dei vicini
sul Mar Cinese Meridionale non sono prive di fondamento, Pechino è stata offesa
da ciò che sostiene essere l'abrogazione da parte degli Stati Uniti della sua
accettazione di una politica di "una sola Cina", durante gli anni 1970 attraverso una
serie di accordi che seguirono la storica visita del presidente Nixon in Cina
nel 1972 e il Taiwan Relations Act del 1979.
La
pubblicazione da parte del Ministero degli Affari Esteri cinese di due
documenti politici nel febbraio 2023, "The Global Security Initiative
Concept Paper" e "US Hegemony and Its Perils",confermano che la Cina si considera
in una relazione contraddittoria con gli Stati Uniti.
Ciò significa
che l'Occidente guidato dagli Stati Uniti dovrà probabilmente affrontare
un'alleanza militare di nazioni guidate da Russia e Cina, oltre a un quadro
economico globale alternativo composto da nazioni che effettuano transazioni in
valute che saranno ancorate all'oro.
Conclusione.
Il
percorso dal mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti dopo la disgregazione
dell'Unione Sovietica alla situazione contemporanea di uno stato di
multipolarità in rapido sviluppo è uno che può essere fortemente sostenuto essere
stato facilitato dalla cattiva gestione della politica estera degli Stati Uniti.
L'influenza degli ideologi neoconservatori che sposano
una forma particolarmente aggressiva di eccezionalismo americano, così come
quelli dello Stato di Sicurezza Nazionale e gli interessi nell'industria
militare, hanno portato gli Stati Uniti da un disastro di politica estera
all'altro.
L'era
successiva alla fine della Guerra Fredda è stata caratterizzata dalla vistosa
assenza dell'impiego di una solida arte di governo del tipo visto nelle
precedenti generazioni di leader.
Ciò ha
creato le circostanze in cui le tensioni tra Russia e Cina, nazioni
economicamente e militarmente importanti, sono state lasciate salire a livelli
sempre più intollerabili.
La mancanza di una genuina applicazione della
diplomazia ha portato allo smantellamento totale del sistema dei trattati
nucleari faticosamente costruito durante la Guerra Fredda, così come alla creazione evitabile
di un conflitto distruttivo in Ucraina che John Mearsheimer ha notato essere stato condotto lungo
il sentiero della primula con il risultato della sua rovina.
Lee Smith di “The Tablet” prevedeva in un articolo pubblicato il giorno dopo il lancio dell'SMO che legandosi a un'America
spericolata e pericolosa, gli ucraini hanno commesso un errore che gli stati
clienti studieranno per gli anni a venire.
Il
conflitto in Ucraina presenta prevedibili aperture per un confronto aperto tra
l'Occidente e la Russia, proprio come la cattiva gestione dell'ascesa della
Cina, un
caso di studio della "trappola di Tucidide", minaccia una guerra del
Pacifico nel prossimo futuro.
È
sintomatico dell'era attuale che la politica estera americana abbia unito la
massa continentale eurasiatica contro di essa, mentre durante l'era della
Guerra Fredda si è sforzata assiduamente di mantenere le divisioni tra l'Unione
Sovietica dominata dalla Russia e la Cina rossa attraverso lo sforzo di
riaprire il commercio e la diplomazia con quest'ultima.
L'impero
americano, a quanto pare, non è riuscito a cogliere dal suo predecessore
potenza globale anglosassone, l'impero britannico, lo stratagemma di una
politica di "economia dei nemici".
Altrettanto
sintomatico dei tempi è il modo in cui il militarismo statunitense e la
militarizzazione del commercio attraverso l'uso delle sanzioni, siano riusciti
ad alienarsi vaste aree del mondo.
È
stato stimato che fino a un quarto della popolazione mondiale è sottoposta a
una qualche forma di sanzioni.
Molte nazioni del Sud del mondo hanno reagito
negativamente alle critiche americane e dell'Europa occidentale sulla loro
resistenza ad aderire alle sanzioni imposte alla Russia dopo l'escalation della
guerra in Ucraina.
I membri dei governi hanno accusato gli Stati
Uniti e l'UE di ipocrisia riguardo ai criteri utilizzati per giustificare
l'imposizione di sanzioni.
Sono anche probabilmente stanchi dell'invenzione
della logica delle "democrazie" contro le "autocrazie" per
il clima internazionale antagonista che è stato fomentato.
La
ridondanza delle politiche perseguite è evidente per quanto riguarda il
conflitto in Ucraina:
gli
Stati dell'UE stanno affrontando difficoltà economiche, compresa la Germania,
che è alle prese con la deindustrializzazione.
La
guerra in Ucraina ha anche dimostrato che la Russia è capace di una guerra
industriale in un modo che gli Stati Uniti, con la loro ridotta base industriale,
troverebbero difficile da eguagliare.
E come nel caso del lungo impegno in Afghanistan, i
miliardi spesi per sostenere uno stato corrotto servono solo a facilitare un
trasferimento di ricchezza dai contribuenti statunitensi agli appaltatori
militari.
La
mancanza di dibattito pubblico a cui Wesley Clarke ha fatto riferimento quando ha
spiegato come gli ideologi neoconservatori avevano "dirottato" la politica
estera americana persiste, così come la mancanza di responsabilità da parte dello Stato di sicurezza
nazionale che, di concerto con il movimento neoconservatore, ha assicurato la diminuzione del
prestigio morale americano in tutto il mondo e la crescita del suo debito
sovrano.
Queste
forze hanno inconsapevolmente contribuito alla creazione di un Nuovo Ordine
Mondiale centrato sull'Eurasia.
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