Cosa aspettiamo ad uscire dall’UE?
Cosa
aspettiamo ad uscire dall’UE?
Come
(e perché) uscire dall'euro,
ma non
dall'Unione europea.
laterza.it - Luciano Gallino – (20-1-2023) –
ci diceva nel 2016:
Lo
scopo principale dell’uscita dall’euro sta nel riconquistare per l’Italia una
tangibile quota di sovranità in tema di politiche economiche, sociali,
monetarie, dopo gli espropri subiti per mano delle istituzioni dell’Unione
europea, talora eseguiti violando gli stessi trattati dell’Unione con il
consenso del nostro governo.
Luciano
Gallino non era un euroscettico.
Considerava l’Unione europea la più grande
invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli.
Ma
vedeva con sofferenza questa Europa ridotta al servizio delle potenti lobbies
della finanza e delle banche, portavoce delle maggiori élites europee a scapito
dei diritti fondamentali della grande maggioranza dei cittadini e, cosa ancor
più grave, culla di un’inarrestabile redistribuzione del reddito e della
ricchezza dal basso verso l’alto, con la conseguente crescita delle
disuguaglianze.
Era
sua convinzione che le politiche economiche e sociali dettate dai mercati
finanziari hanno portato gli Stati a una cessione di sovranità in materia di
spesa per protezione sociale, scuola, università, quota salari sul Pil,
contratti di lavoro e molto altro ancora.
L’euro
si è così trasformato nello strumento della vittoria del neoliberismo su ogni
altra corrente di pensiero.
A
causa di un’errata interpretazione della recessione, il peso esorbitante del
sistema finanziario non ha avuto un freno, le relazioni industriali sono
arretrate, i sindacati sono stati ridimensionati, la mancanza di occupazione
mostra il profilo di una catastrofe sociale.
Prima
che gli effetti del dissennato ‘Patto fiscale’ facciano scendere una cappa
soffocante di miseria sulle prossime generazioni, Luciano Gallino elenca i modi
concreti per uscire dall’euro, rimanendo l’Italia paese membro dell’Unione
europea.
Una soluzione per recuperare agli Stati la propria
sovranità, restituendo alla democrazia la sua sostanza.
(Luciano
Gallino -edizione La Terza ,2016).
Deal
or no Deal: ecco come fanno
gli
altri paesi non membri dell’UE.
Swissinfo.ch
– Sibilla Bondolfi - Bruno Kaufmann – (26-1-2021) – ci dicono:
La
cancelliera tedesca Angela Merkel passeggiava con la prima ministra islandese
Katrin Jakobsdottir in un parco nazionale islandese.
La
Brexit è cosa fatta.
La Svizzera ora spera di rinegoziare l’Accordo
istituzionale quadro con l’Unione europea.
Altri
paesi non membri dell'UE offrono molti spunti, ma nessuno indica la via maestra
per giungere con successo a un accordo con Bruxelles.
La
Svizzera non è l’unica a non voler aderire all’Unione europea (UE).
L’Islanda
teme per i propri diritti di pesca e alla Norvegia sta a cuore l’industria
petrolifera, mentre per il piccolo Liechtenstein è impensabile aderire all’UE
senza i vicini elvetici.
Nei
Balcani occidentali, invece, tira un’aria diversa:
da decenni la Macedonia del Nord cerca di
entrare a far parte dell’UE, ma i paesi limitrofi che ne sono membri continuano
a metterle i bastoni tra le ruote.
Altri
sviluppi.
La
Svizzera rischia molto con l'UE.
La
Svizzera porta avanti un pericoloso gioco di equilibrismo con l'UE dal quale
potrebbe uscire sconfitta.
Da
quando nel 1992 ha rifiutato di entrare a far parte dello Spazio economico
europeo (SEE), la Svizzera ha deciso di intraprendere la cosiddetta via
bilaterale. L’UE però non intende proseguire su questa strada senza prima
chiarire le questioni istituzionali tramite un accordo quadro.
UE e
SEE.
Altri
paesi che, come la Svizzera, non sono membri dell’UE offrono sì molti spunti in
questa direzione, ma nessuno di loro mostra la via maestra per giungere con
successo a un accordo.
Altri
sviluppi.
Come
proteggere gli interessi dell'Islanda a Bruxelles?
Gran
Bretagna: verso il baratro in grande stile?
Nei
giorni di Natale la Gran Bretagna è riuscita a raggiungere un accordo
commerciale con l’UE che garantisce il libero scambio: esportazioni e importazioni
non sono soggette a dazi.
Tuttavia,
l’intesa non disciplina il settore dei servizi, che costituisce quasi l’80%
della forza economica britannica.
Dopo
la Brexit la Gran Bretagna è, tra quelli riportati nel presente articolo come
termine di paragone, il paese che intrattiene con l’UE i rapporti meno
vincolanti. Per la Gran Bretagna, d'altronde, qualsiasi altro scenario è fuori
discussione, poiché sia la soluzione svizzera sia l’adesione allo SEE
presupporrebbero la libera circolazione delle persone.
L'accordo
sulla Brexit suscita gelosie in Svizzera.
L'accordo
sulla Brexit fa gola in Svizzera: voci si levano per chiedere a Berna di
ottenere dall'UE condizioni identiche.
"Una
delle ragioni principali a favore della Brexit era stata proprio la limitazione
dell’immigrazione", afferma il britannico Vernon Bogdanor, professore di
scienze politiche, che di recente ha pubblicato un libro sulle relazioni
ambivalenti della Gran Bretagna con l’UE.
Il
professor Matt Qvortrup della Coventry University ritiene che la Gran Bretagna,
diversamente da quanto si pensa in Svizzera, sia uscita perdente dai negoziati
con l’UE.
Infatti, mentre i francesi possono continuare
a esportare champagne e i tedeschi automobili, nell’accordo non rientra il
settore dei servizi, malgrado questi siano di significativa importanza per la
Gran Bretagna.
La
Gran Bretagna potrà ora controllare l'immigrazione?
"Stando
alle stime degli economisti, alla Gran Bretagna tutto ciò costerà il 3-4% del
PIL", dichiara Qvortrup.
Dal
punto di vista economico, quindi, la stessa Gran Bretagna paga un conto salato.
Islanda:
l’adesione all’UE non è più un’opzione sul tavolo.
Dieci
anni fa l’Islanda era piombata nel vortice della crisi finanziaria mondiale.
Il
sistema bancario dell’isola, che conta poco meno di 365'000 abitanti, era
crollato praticamente da un giorno all’altro e la moneta islandese era stata
fortemente svalutata.
Per
uscire dalla crisi, il governo aveva presentato a Bruxelles una domanda di
adesione.
"Tuttavia,
gli interessi divergenti nel campo dell’industria della pesca resero
impossibile l’adesione all’Unione europea", afferma l’economista islandese
Magnús Árni Skúlason e aggiunge: "Per questo motivo, nel 2013 la domanda
fu ritirata ufficialmente".
Secondo
il ministro degli esteri islandese Guðlaugur Þór Þórðarson, membro del Partito
dell’Indipendenza, schieramento euroscettico, il principale vantaggio di non
far parte dell’UE consiste nel poter decidere liberamente in materia di
politica commerciale:
"Per
noi quasi il 90% del commercio internazionale complessivo è esente da dazi,
mentre per l’UE si parla del 27% appena".
Riprendere
il controllo sulla politica commerciale.
Dal
1994 l’Islanda è membro dello SEE e, secondo Þórðarson, si è trattato di una
buona scelta.
"Se mi chiedessero di scegliere tra
l’uscire dallo SEE e l’aderire all’UE non saprei cosa rispondere", rivela
lo stesso ministro degli esteri a swissinfo.ch.
Liechtenstein:
una piccola nazione tra Svizzera e Unione europea.
Con
una superficie di 160 km2 e meno di 40'000 abitanti, il Liechtenstein è uno
degli Stati più piccoli del pianeta.
Il
paese è molto legato alla Svizzera: già dagli anni Venti, infatti, il
Principato del Liechtenstein fa parte dello spazio doganale ed economico
svizzero e ha adottato il franco svizzero come valuta.
Allo
stesso tempo, però, questo piccolo paese intrattiene buoni rapporti anche con
l’UE e dagli anni Novanta fa parte dello SEE.
L’adesione
del Liechtenstein all’UE resta comunque fuori discussione.
"La
maggior parte dei politici, considerate le dimensioni del paese, ritiene
inopportuno aderire all’UE", afferma Christian Frommelt, direttore e
responsabile di ricerca della sezione di politica dell’Istituto del
Liechtenstein.
In
virtù dell’adesione allo SEE, il Liechtenstein è più integrato nell’UE rispetto
alla Svizzera.
Lo
SEE, infatti, copre più ambiti politici rispetto all’accordo quadro previsto
per quest’ultima; esso disciplina, per esempio, anche i servizi finanziari e il
mercato energetico.
Grazie
a una regolamentazione speciale il Liechtenstein ha potuto continuare a gestire
l’immigrazione autonomamente.
Per
via delle dimensioni ridotte il Liechtenstein ha accettato il fatto di non
poter essere completamente sovrano.
"Nonostante
abbia recepito il diritto dell’UE in modo dinamico e malgrado il margine di
manovra in alcuni ambiti di regolamentazione sia limitato, io personalmente
nell’adesione allo SEE vedo un rafforzamento della sovranità del
Liechtenstein", dichiara Frommelt.
"Aderendo allo SEE, per esempio, il paese
si è reso più indipendente dalla Svizzera".
Norvegia:
scesi a patti con il "deficit democratico."
Dal
punto di vista economico e culturale, da molti anni la Norvegia è fortemente
legata all’UE: nel 1972 e nel 1994 aveva anche cercato di diventarne membro a
pieno titolo.
In
entrambe le occasioni, però, la maggioranza degli oltre cinque milioni di
abitanti aveva bocciato i tentativi di adesione per timore di perdere la
propria indipendenza.
Come
Islanda e Liechtenstein, anche la Norvegia nella prima metà degli anni Novanta
aveva scelto lo SEE come terza opzione.
Questa via d’integrazione sembra essersi
rivelata tutto sommato efficace, afferma Kate Hansen Bundt, esperta norvegese
in materia di Europa: "Una grande maggioranza della popolazione norvegese,
così come la maggior parte dei partiti, oggi sostiene lo SEE, sebbene in questo
modo ci impegniamo a recepire le norme dell’UE senza avere voce in
capitolo".
Stando
alla politologa Hansen Bundt, per questa ragione lo SEE rappresenta "una
soluzione d’integrazione subottimale che comporta un notevole deficit
democratico".
Tuttavia,
a suo modo di vedere la Norvegia sembra aver imparato a convivere con questo
compromesso.
Anche perché oggi la maggioranza della
popolazione non voterebbe né per l’adesione all’UE, né tantomeno per l’uscita
dallo SEE.
Macedonia
del Nord: membro UE mancato per colpa dei paesi limitrofi.
Situata
nell’Europa sudoccidentale e senza sbocco sul mare, fin dal crollo dell’ex
Jugoslavia la Macedonia del Nord ha cercato di entrare a far parte dell’UE.
Il
paese, circa 25'000 km2 di superficie e poco più di due milioni di abitanti,
nel 2005 aveva presentato una richiesta ufficiale di adesione all’UE.
Politicamente
ed economicamente il percorso pluridecennale di integrazione intrapreso dalla
Macedonia del Nord ha avvicinato quest’ultima all’UE molto più di altri
candidati della stessa regione geografica come Albania, Serbia e Kosovo.
Tuttavia, i negoziati per trovare un accordo di adesione con Bruxelles sono
ancora in salita.
Guai
per Ursula anche in Belgio
denunciata
per gli SMS con Pfizer.
(…un
affare di proporzioni gigantesche…)
Laverita.info
– (15 aprile 2023) – Francesco Bonazzi, pag.2 – ci dice:
Prima
denuncia penale per Ursula von der Leyen sul caso degli sms con Pfizer per
l’acquisto dei vaccini contro il Covid.
Il
presidente della Commissione europea è stato denunciato in Belgio da un
lobbista di Bruxelles che la accusa di “Usurpazione di funzione e titolo”,
di “distruzione di documenti pubblici “e di “vantaggi illeciti e corruzione”.
L’accusa
principale è di essersi sostituita ai governi europei, tra i quali quello
belga, nella trattativa e nell’acquisto di 1,8 miliardi di dosi per una spesa
di 35 miliardi di euro.
Il
tutto mentre pende una denuncia del New York Times alla Corte di giustizia europea contro la Commissione Ue per la
mancata pubblicazione degli SMS tra la Von der Leyen e Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer.
Il
Belgio è la nazione che ospita le istituzioni europee e questo esposto penale ha un elevato
valore simbolico, oltre che potrebbe essere il primo di una lunga serie in
altre nazioni.
E chi
ha firmato la denuncia, il trentacinquenne belga Frederic Baldan, non è un
cittadino qualsiasi, ma un lobbista accreditato presso i vari enti comunitari,
abituato per lavoro a vedere come vanno in porto decine di affari all’ombra
della Commissione.
Non
c’è dubbio che l’acquisto dei vaccini, con trattativa segreta, nel maggio del
2021 sia stata la mamma di tutti i grandi affari.
Tanto
è vero che è oggetto anche di una commissione d’inchiesta del Parlamento
europeo che sta creando molti imbarazzi nell’establishment di Bruxelles.
La
denuncia è diretta con nome e cognome contro la Von der Leyen, alla quale si
addebita il fatto di essersi sostituita “senza alcun mandato” agli Stati membri
dell’Unione, tra cui il governo belga, e di aver negoziato con il colosso
americano “in modo diretto e segreto”, in particolar modo per sms, l’acquisto
di vaccini.
Sulla
falsariga di quanto emerso dall’inchiesta parlamentare e dal braccio di ferro
con il New
York Times, nella prima denuncia penale viene anche sottolineata la distruzione degli
sms da parte della politica tedesca.
La denuncia di Baldan è una sorta di causa
pilota, come dimostra il fatto che il denunciante si sia limitato a chiedere un
risarcimento per danni morali da 50.000 euro, sulla base del fatto che il
comportamento di Von der Leyen avrebbe attentato alle finanze pubbliche del
Belgio e alla fiducia dei cittadini nelle istituzioni belghe, scavalcate dalla
trattativa diretta in sede Ue.
Quest’ultima accusa è decisamente insidiosa per la Von
der Leyen, perché facilmente riproducibile in qualsiasi stato dell’Unione.
La querela belga sostiene che “l’usurpazione” della
Commissione sull’acquisto dei vaccini “mina la fiducia collettiva nello Stato in
termini di Forza delle istituzioni nazionali e di realizzazione del bene
comune”.
Aprire un fronte penale significa anche poter arrivare
a indagare e revisionare tutto quello che è stato fatto in Europa in materia di
vaccini.
Come ha rilevato la Corte dei conti europea, tra
agosto del 2020 e novembre del 2021, la Commissione ha firmato 11 contratti con
le case farmaceutiche, in modo da assicurarsi 4,6 miliardi di dosi di vaccino
per un costo totale stimato in 71 miliardi di euro.
Tutti gli Stati membri hanno avuto dei surplus di
magazzino.
E tra le motivazioni della denuncia c’è anche il fatto
che il Belgio, scavalcato come tutti, si è poi ritrovato una montagna di
vaccini in più e a dicembre dello scorso anno aveva 13,5 milioni di dosi
avanzate. Di queste, ben 9,2 milioni erano della Pfizer.
L’azione penale in Belgio, che come detto è la prima e
rischia di fare scuola, arriva dopo una serie di ricorsi amministrativi contro
la Commissione all’ombudsman europeo (partiti da un giornalista tedesco) e dopo
il “Delete-gate” (caso cancellazioni) partito dagli Stati Uniti.
In tutte le cause, la Von der Leyen è sostanzialmente
accusata di aver negoziato con Pfizer in modo superficiale quanto
riservatissimo concedendo a Pfizer vantaggi indebiti.
Von der Leyen si è sempre difesa dicendo che aveva
maturato un innocentissimo rapporto confidenziale con Albert Bourla e che gli
sms contestati erano di natura amicale e quindi ininfluenti.
La Commissione ha fatto sapere che quei messaggi
comunque è assai probabile che non ci siano più perché sarebbero stati
cancellati.
In realtà per ottenerli, forse basterebbe che la
commissione parlamentare d’inchiesta convocasse il manager statunitense e
glieli chiedesse.
In ogni caso, il 25 gennaio scorso il New York Times
si è rivolto alla Corte di giustizia Ue per la mancata pubblicazione dei
messaggini e ha citato la Commissione.
La convinzione del quotidiano americano è che in
quelle brevi comunicazioni di testo si nascondono molte informazioni utili per
mettere meglio a fuoco un AFFARE DI PROPORZIONI GIGANTESCHE.
La
Commissione UE annuncia
un
Nuovo Green Pass,
questa
volta Permanente…
Conoscenzealconfine.it
– (14 Aprile 2023) – Giorgia Audiello – ci dice:
La
stessa tecnologia del Green Pass, ossia il Codice Qr, usato per attestare l’avvenuta vaccinazione contro il Covid
19, potrebbe ora essere utilizzata per le prescrizioni mediche elettroniche e
per la tessera di vaccinazione dell’Ue, nel quadro dello Spazio europeo dei
dati sanitari.
È
questa l’iniziativa a cui sta lavorando la Commissione europea che dovrebbe
presentare a breve i primi progetti pilota per entrambi i casi d’uso.
Lo riferisce al portale Eunews, Stefan De Keersmaecker, portavoce della “Commissione
europea per la salut”e, comunicando anche che la Commissione non rinnoverà
oltre giugno 2023 il regolamento che ha istituito il Green Pass.
Secondo”
De Keersmaecker”, tuttavia, quella del “certificato verde” è stata una “storia di successo”, da riproporre, dunque, non solo
per eventuali prossime pandemie, ma anche e soprattutto per implementare la
trasformazione digitale dei dati sanitari, secondo l’agenda di Bruxelles, che
non a caso sta facendo pressione per far decollare il progetto del “portafoglio
europeo di identità digitale”.
“Il certificato digitale Covid dell’Ue ha
facilitato il viaggio “libero e sicuro” per i cittadini ed è stato fondamentale
per sostenere l’industria del turismo europea duramente colpita”, ha spiegato De Keersmaecker.
Quella
del Green Pass, dunque, può essere considerata come una “sperimentazione” in
vista di un metodo di organizzazione e controllo dei dati dei cittadini – attraverso
il tracciamento digitale – strutturale e permanente.
Del
resto, già Mario Draghi – in una conferenza stampa del 2022 – aveva avvertito
che la struttura emergenziale non sarebbe stata del tutto smantellata, ma si
sarebbe trasformata in struttura ordinaria, come non aveva mancato di far
notare fin dall’inizio” L’indipendente”, tra i primi a parlare del rischio in
questione.
Le
emergenze, infatti, si sono spesso rivelate come l’espediente per introdurre
misure diversamente non accettabili dalla popolazione, per poi renderle
permanenti anche dopo le criticità e modellare così nuovi assetti sociali e
nuovi metodi di governo, in questo caso sempre più all’insegna del paradigma
usato in alcune zone della “Repubblica popolare cinese” e per questo identificato come
“modello cinese”.
Quest’ultimo
si caratterizza per una stretta sorveglianza sui cittadini per mezzo degli
strumenti digitali e lo stesso Klaus Schwab del World Economic Forum (WEF) non
ha mancato di elogiarlo.
Non è un caso, dunque, che sia proprio il
forum di Davos a propugnare la cosiddetta “transizione digitale” alla quale sono destinati la
maggioranza dei fondi del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) della
Commissione europea.
C’è, dunque, una stretta connessione e
comunione d’intenti, tra organizzazioni private come quella di Davos e le istituzioni
comunitarie europee.
Tornando
a Mario Draghi, l’ex Goldman Sachs e banchiere centrale europeo, aveva detto
esplicitamente, con riferimento ad alcune misure introdotte per fronteggiare
l’infezione virale, che “gradualmente questa struttura perde i caratteri di emergenza
e acquista quello di ordinarietà”.
Dunque,
potrebbe cambiare solo la forma attraverso cui uno strumento come il
“certificato verde” viene richiesto.
Sebbene
al momento non obbligatorio, infatti, la tessera vaccinale con Qr code potrebbe essere richiesta per
accedere ad alcuni servizi, escludendo di fatto chi non la possiede.
In
questo modo la digitalizzazione della vita e della società, uno dei pilastri del
mondo disegnato a Davos, diventerà inevitabile e ogni singolo dato della popolazione
sarà registrato e tracciato, fino a ridurre gli stessi cittadini a codici Qr.
Si
tratta della completa tecnicizzazione del mondo dove l’uomo appare sempre più
dipendente dalla tecnica e in balia del controllo dello Stato: non più, dunque,
un libero cittadino, ma un “codice” monitorabile.
Lo
stesso Vittorio Colao, ex ministro della transizione digitale aveva messo in
risalto questi aspetti.
Aveva, infatti, spiegato che “il grande tema è
l’interoperabilità delle piattaforme digitali abilitanti che è molto importante
per ampliare i servizi ma anche per renderne la fruizione semplice attraverso
il così detto principio del ‘One’s only’, cioè il principio in cui il cittadino una
sola volta deve mettere le proprie informazioni dentro il sistema e poi è lo
Stato da solo che lo va a cercare e lo vede”, aggiungendo anche che proprio “il
Green Pass è un grande esempio di interoperabilità, e che tra l’altro adesso
sta facendo venire a mente tante altre possibili applicazioni meno drammatiche
e meno di emergenza, in cui si potrebbe creare un sistema che permette in
maniera istantanea di conoscere lo ‘stato’, il ‘diritto’ di attivazione o di
fruizione di un servizio”.
A
conferma delle anticipazioni di Draghi e Colao arriva, dunque, proprio in
questi giorni la notizia che la “Commissione UE” sta lavorando a una nuova forma di Green
Pass permanente che riguarderà sempre l’ambito sanitario, così da accelerare la
transazione digitale, dando vita ad un sistema di sorveglianza
impercepibile e ineludibile allo stesso tempo, dietro allo stendardo del
progresso, dell’efficienza e della comodità.
Il
Green Pass, dunque, lungi dall’essere una misura sanitaria, è stato il mezzo
attraverso cui dare l’impulso alla transizione digitale in vista della nuova
società e sanità 4.0, iper-tecnicizzata e irregimentata.
(Giorgia
Audiello)
(lindipendente.
online/2023/04/11/la-commissione-ue-annuncia-un-nuovo-green-pass-questa-volta-permanente/)
La
Denuncia delle Forze dell’Ordine:
“10.000
Agenti Malati dopo il Vaccino”.
Conoscenzealconfine.it
– (16 Aprile 2023) - Tommaso Croco – ci dice:
Un
dramma di cui nessuno parla…
Ammalati
dopo il vaccino, costretti a fare i conti con delle condizioni di salute
improvvisamente peggiorate.
E con
la paura, opprimente, di non poter tornare più alla vita di prima.
In un
Paese che continua a mettere il bavaglio a chi parla di effetti avversi, ad
alzare la voce sono state le forze dell’ordine, portando l’attenzione su tanti
casi di cui i giornali mainstream rifiutano di parlare.
Il
segretario generale provinciale del sindacato “Cosap Torino”, Luca Cellamare, ha spiegato alle pagine della
Verità:
“Sono almeno 10.000 i nostri colleghi diventati malati
cronici dopo il vaccino Covid.
Non
guariranno più.
E più di 50.000 gli appartenenti alle forze
dell’ordine o i militari con seri problemi di salute dopo quegli inoculi”.
Cellamare, che ricopre anche il ruolo di
vicepresidente nazionale “Osa” (Operatori sicurezza associati) ha poi spiegato
chi sono gli agenti più colpiti da questi terribili sintomi.
Secondo
Cellamare, infatti, nella maggior parte dei casi si tratta di agenti “quarantenni ridotti a svolgere con
grande fatica le mansioni di sempre. Hanno problemi di natura cardiovascolare,
neurologica, pressione alle stelle, fatica a respirare”.
In
molti casi si tratterebbe di militari guariti dal Covid e che, a causa
dell’obbligo vaccinale, sono strati costretti comunque a sottoporsi
all’inoculazione.
Cellamare
ha ricostruito quanto accaduto nei mesi della campagna di vaccinazione di
massa:
“Di
fronte ai primi casi di morti sospette, i medici militari si spaventarono
perché non protetti da scudo penale e, in barba ai protocolli, mandarono tutti
a vaccinarsi negli hub, dove non veniva fatta l’anamnesi.
Se un
collega si rifiutava di dare il braccio perché già guarito dal Covid, veniva
sospeso”.
Il numero uno dell’Aifa, Nicola Magrini,
proprio in quei giorni lamentava di avere la mail “intasata” da richieste di
esenzione dal vaccino.
A suo dire “non fondate”.
Oggi
sappiamo che, invece, erano più che legittime.
Secondo
Cellamare, al momento le commissioni medico ospedaliere che si interessano
delle forze dell’ordine “non si occupano delle reazioni avverse.
La
maggior parte degli agenti, invece di segnalare le reazioni fa causa di
servizio per malattia.
Nel
giro di 2/3 anni, quando sarà riconosciuta, significherà almeno 200 euro in più
al mese, ma
sempre molto meno di quello che comporterebbe l’indennizzo per danno
vaccinale”.
Il
ragionamento che fanno in molti è:
meglio
accontentarsi di qualche soldo in più che andare allo scontro totale e
rischiare guai, sospensioni o peggio.
In
questo modo, però, la verità è destinata a non venire mai a galla:
“Abbiamo
un sommerso spaventoso, perché i colleghi non prossimi alla pensione
preferiscono curarsi di nascosto”.
(Tommaso
Croco)
(ilparagone.it/attualita/agenti-malati-vaccino-cosap-luca-cellamare/)
Sondaggio
sulla Brexit: i due terzi
dei
britannici sostengono un
nuovo
referendum sul rientro nell’Ue.
Greenreport.it
– (2 Gennaio 2023) – Redazione – ci dice:
Crescono
la disillusione per le promesse non mantenute e la convinzione che il Regno
Unito stia andando peggio di quanto era nell’Ue.
Secondo
un sondaggio realizzato da “Savanta” per “The Independent”, «Due anni dopo che il Regno Unito è
uscito dall’Unione Europea, quasi due terzi dei britannici ora sostengono un
referendum per il rientro».
E il
sondaggio dimostra anche che «Il numero di persone che si oppongono a un altro
voto è diminuito».
Infatti,
al di là di come sono intenzionati a votare, più di due terzi dei britannici
vogliono un nuovo referendum sul rientro nell’Ue e più della metà degli
intervistati ha definito sbagliata la decisione di uscirne.
Il
Regno Unito ha lasciato ufficialmente l’Unione europea il 31 gennaio 2020, dopo
il referendum sulla Brexit del 2016 che vide prevalere di poco i” sì “dopo una
campagna referendaria segnata da fake news e da promesse di un nuovo miracolo
economico e sociale che sarebbe arrivato dopo l’uscita dall’Ue e al posto del
quale è arrivata una crisi economica e politica che sta demolendo il consenso
del Partito conservatore.
Dal
sondaggio “Savanta – The Independent” emerge che il 65% degli elettori
britannici vuole un nuovo referendum, il 10% in più rispetto all’anno scorso.
Ma l’opinione pubblica britannica è divisa su
quando dovrebbe svolgersi questo nuovo referendum:
il 22%
lo vorrebbe subito, il 24% entro i prossimi 5 anni, l’11% è per tenerlo tra 6 –
10 anni e il 4% tra più di 20 anni.
Come
se l’Unione europea che per lunghi anni ha avuto a che fare con le bizze
britanniche, ora dovesse aspettare che il Regno Unito facesse i suoi comodi per
poi accoglierlo a braccia aperte…
Intanto,
però, il numero di coloro che si oppongono a un secondo referendum sulla
ri-adesione all’Ue è sceso dal 32% al 24% e il
sondaggio suggerisce anche che i britannici – che speravano in una
rinascita nazionalista e in nuovi fasti imperiali dopo essersi liberati dei
lacci e lacciuoli di Bruxelles – hanno maturato in pochissimi anni di delusioni
una visione più negativa delle conseguenze della Brexit e il 54% degli
intervistati è convinto che lasciare l’Ue è stata una decisione sbagliata,
rispetto al 46% dello scorso anno.
Una
constatazione che deriva dalla convinzione diffusa che in realtà l’economia e
il peso globale del Regno Unito siano stati danneggiati dalla Brexit.
Il 56%
degli intervistati afferma che l’abbandono dell’Ue ha peggiorato l’economia (un
anno fa era il 44%) e la metà ritiene che dopo la Brexit l’influenza del Regno
Unito sulla scena internazionale sia diminuita (erano il 39%).
Una
disillusione e un malcontento che derivano dal fatto che i cambiamenti promessi
dai fautori della Brexit sono stati scarsi e che la Gran Bretagna non ha
aumentato la capacità di controllare i propri confini, per il 50% dei
britannici è invece peggiorata e i dati più recenti sull’immigrazione
clandestina sembrano dar loro ragione. Il sondaggio arriva dopo uno studio
di dicembre del Centre for European Reform (CER), che ha stimato le perdite dovute alla
Brexit nel Regno Unito ammontano a 33 miliardi di sterline (37, 33 miliardi di
euro).
Swatti
Dhingra, del Department of Economics and Centre for Economic Performance,
London School of Economics e componente esterna del Monetary Policy Committee
della Bank of England, evidenzia che nel frattempo «I prezzi dei generi alimentari
sono cresciuti del 6% e la Brexit è costata ai lavoratori britannici (che la
hanno votata in massa, ndr) circa il 2,6% dei loro salari in termini reali.
L’uscita
dall’Ue ha anche causato una riduzione degli investimenti delle imprese e del
commercio complessivo».
Sarà
per questo che Fratelli d’Italia e la Lega, che fecero un tifo sfegatato per la
Brexit, ora che sono al governo sono diventati europeisti e non parlano più di
uscire dall’euro e dall’Europa?
Un’Europa
sempre più chiusa.
Lavoce.info
- MAURIZIO AMBROSINI – (31/01/2023) – ci dice:
La
Commissione prova di nuovo a definire un quadro di regole comunitarie su asilo
e ingressi non autorizzati.
Ma per
cercare di ottenere l’approvazione dei governi europei sovranisti, il pacchetto
allontana la Ue dalla carta dei suoi valori fondamentali.
La
lettera di von der Leyen.
Ursula
von der Leyen ci riprova.
Dopo almeno un paio di tentativi di definire
un nuovo quadro di regole comunitarie sui temi dell’asilo e degli ingressi non
autorizzati (non dell’immigrazione, che è questione ben più ampia e complessa,
e rimane in larga parte di competenza degli stati membri), la presidente della
Commissione ha pubblicato una lettera ai capi di stato e di governo dei paesi
membri con cui prova nuovamente ad assumere l’iniziativa in vista del Consiglio
straordinario Ue del 9 e 10 febbraio.
Ogni
pacchetto di proposte di von der Leyen sembra spostare la linea dell’Ue sempre
più vicino a quella sovranista della chiusura dei confini nei confronti dei
profughi provenienti dal Sud del mondo.
A
cominciare dalla premessa, in cui ha parlato di un forte aumento degli arrivi
irregolari attraverso le rotte mediterranee e dei Balcani occidentali nel 2022,
con le cifre più alte dal 2016.
Sembra
una constatazione obiettiva, nel felpato linguaggio delle istituzioni
comunitarie, ma trascura almeno tre elementi:
primo, i richiedenti asilo non riescono
quasi mai ad arrivare con documenti regolari, tanto che la legge li sgrava da
contestazioni legali se ottengono lo status di rifugiati;
secondo, il 2022 viene dopo due anni di
mobilità limitata causa pandemia;
terzo, nel mondo, oltre alla guerra in
Ucraina, si protraggono situazioni di conflitto come quella siriana, mentre
l’Afghanistan riconquistato dai talebani continua a produrre fuggiaschi, e nel
Sahel è aumentata l’instabilità, insieme alla pressione jihadista.
I
quattro pilastri della proposta.
Tra i
quattro pilastri e i quindici punti del piano annunciato, il primo,
significativamente, è dedicato a “rafforzare le frontiere esterne mediante
misure mirate da parte dell’Ue”.
Tra
queste, compare la proposta di impiegare fondi comunitari per aiutare gli stati
membri “a rafforzare le infrastrutture per il controllo delle frontiere”.
Per
parecchi commentatori, significa un cambiamento di linea di Bruxelles in favore
del sostegno alla costruzione di muri e barriere, fin qui avvenuta su
iniziativa dei governi nazionali, ma senza aiuti comunitari.
Per
altri, compresa la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, la costruzione di muri rimane (per
ora) esclusa, ma vi rientrano posti di guardia, strade di collegamento e altre
strutture al servizio della sorveglianza dei confini.
Con i
consueti artifici retorici, si prevede poi di offrire supporto, sotto forma di
attrezzature e formazione, ai governi della sponda Sud del Mediterraneo, al
fine di “rafforzare la loro capacità di ricerca e soccorso”.
Ossia,
tradotto in termini operativi: fornire motovedette e addestramento perché riportino
indietro i profughi che cercano di arrivare nell’Ue. È il modello libico
applicato su scala più ampia.
Il
secondo pilastro, dall’apparenza tecnocratica, parla di “snellimento delle
procedure di frontiera”:
si
tratta in realtà di perfezionare una lista di paesi di origine considerati
sicuri, in modo da escludere per principio i loro cittadini dalla possibilità
di ottenere asilo, di stabilire hotspot oltre le frontiere dell’Ue, così da
obbligare i profughi a presentare lì le loro domande di asilo, di accelerare le
procedure di rimpatrio, finora lente e inefficienti.
Il
terzo pilastro dovrebbe preoccupare il governo italiano, perché riguarda la prevenzione dei
movimenti secondari, ossia dei tentativi di passare dal primo paese di asilo a
un altro paese dell’Ue, solitamente più a Nord.
Qui
pesa il regolamento di Dublino, che impone al primo paese d’ingresso l’onere di
valutare le richieste d’asilo.
La
menzione di una “solidarietà”, ovviamente “volontaria” e quindi non vincolante,
non basta ad attenuare la minaccia di nuovi controlli sulle Alpi e nuovi rinvii
verso l’Italia di rifugiati intercettati in altri paesi dell’Ue.
I governi del gruppo di Visegrad, nonostante
la prossimità ideologica con il governo italiano e l’alleanza in sede Ue,
difficilmente si lasceranno commuovere.
Il
quarto pilastro riguarda gli investimenti negli accordi per favorire i
rimpatri, con paesi come Pakistan, Bangladesh, Nigeria, oltre a Egitto,
Marocco, Tunisia.
I
finanziamenti sulla partita dovrebbero arrivare al 10 per cento dei fondi Ue
per l’estero.
Tradotto: spostamento di fondi dalla
cooperazione per lo sviluppo al finanziamento di governi autoritari perché si
riprendano rifugiati e migranti che la Ue non vuole.
Poche
le parole dedicate al versante dell’accoglienza: una rapida menzione dei corridoi
umanitari e un cenno agli ingressi per lavoro, che diversi paesi stanno
cercando di incrementare.
L’Ue
in definitiva si allontana dalla carta dei suoi valori fondamentali per
favorire un accordo che coinvolga anche i governi più refrattari alla tutela
dei diritti umani universali.
Il
sogno sovranista si sta realizzando anche a Bruxelles.
Consiglio
europeo, l'affondo di Schlein:
"Meloni
isolata in Ue, FdI voleva uscire dall'euro.
Rapubblica.it
- redazione Politica – (25 MARZO 2023) – ci dice:
La segretaria
del Pd: per il governo bilancio misero, Italia costretta dietro i muri che i
nazionalisti alleati di Meloni vogliono costruire.
Giorgia
Meloni si dice "soddisfatta" del Consiglio europeo terminato ieri a
Bruxelles.
La
leader del Pd, Elly Schlein, la pensa all'opposto:
il
governo, attacca la segretaria del Pd, ne esce isolato, schiacciato sull'asse
di Visegrad e senza avere portato a casa risultati.
"È un misero bilancio quello con il quale
la presidente Meloni torna dal Consiglio europeo - è l'affondo dell'inquilina
del Nazareno –
I nodi
vengono al pettine e la mancanza di credibilità sulla scena europea è il
risultato non solo delle scelte e delle alleanze strette in questi anni, ma
anche dell'atteggiamento propagandistico ed euroscettico che ha portato spesso
la leader di Fratelli d'Italia su posizioni vicine a chi vorrebbe l'uscita del
nostro Paese dall'euro".
Schlein,
che giovedì ha esordito proprio a Bruxelles al vertice del Partito socialista
europeo, dove ha incontrato i primi ministri Pedro Sanchez, Olaf Scholz e Sanna
Marin e i commissari europei Frans Timmermans e Paolo Gentiloni, gioca sul
dualismo con Meloni.
Sta tessendo la sua rete di relazioni
internazionali e batte sul chiodo della solitudine della premier nel consesso
europeo.
"Il
governo italiano - sostiene Schlein - resta isolato nella condivisione di
responsabilità sull'accoglienza, con l'Italia costretta dietro i muri che i
nazionalisti alleati di Meloni vogliono costruire.
La propaganda non risolve nulla, gli italiani
e le italiane se ne stanno accorgendo.
In
passato quando si è provato a riformare il Regolamento Dublino la destra non si
è fatta trovare, i primi da convincere sono i loro alleati, chissà se con loro
ha il coraggio di parlarne Giorgia Meloni".
Uscire
dall’Euro: e se alla fine
lo
facesse la Germania?
Il
documento.
Quifinanza.it
– (29 luglio 2022) – Redazione – ci dice:
Un
fronte di economisti tedeschi lavora sull'opportunità di una procedura di
uscita ordinata dall'euro, anche per la Germania stessa.
Che
dunque ha a sua volta un piano B.
Uscire
dall’Euro: e se alla fine lo facesse la Germania? Il documento.
Mentre
in Italia infuriano le polemiche sugli sviluppi della crisi
politico-istituzionale, nata in primo luogo sull’adesione o meno alla moneta
unica, in Germania ci si divide fra chi tira un sospiro di sollievo e chi, in
previsione di altri possibili futuri scossoni, studia un piano di uscire
dall’euro.
Non solo per paesi in difficoltà come
l’Italia, ma anche per la Germania stessa, se dovessero verificarsi le
condizioni.
Procedure.
Al
momento, infatti, non è prevista alcuna procedura di questo tipo,
indipendentemente da chi la rivendichi.
Ci si pone dunque il problema di cosa dovrebbe
accadere nel caso in cui un Paese, per scelta più o meno volontaria, non appaia
più in grado di restare all’interno della moneta unica.
Si presume che un Paese dovrebbe passare comunque per
l’uscita dalla Ue:
gli
accademici tedeschi – riporta Il Messaggero – vogliono invece che sia prevista
esplicitamente e direttamente questa opzione, in modo che possa essere
applicata a Paesi in difficoltà, ma anche alla stessa Germania qualora si
prospetti un assetto europeo troppo basato sulla condivisione dei rischi degli
altri, come da spinte dei paesi dell’Europa meridionale.
Insomma
qualcosa che somiglia, dalla prospettiva tedesca, a quello stesso piano B di
Paolo Savona che in questi giorni è entrato nell’attualità politica italiana.
Finanza.
A
dimostrazione del fatto che la politica si agita tanto, ma di fronte alla
finanza decide ben poco, non si tratta solo un tema politico, ma anche e forse
soprattutto finanziario.
Tutto ruota intorno a Target 2, la piattaforma
dell’Eurosistema sulla quale passano i flussi di pagamento tra le banche
europee.
Il
numero due della Bce Constancio ha confermato recentemente quanto aveva già
detto lo stesso Mario Draghi all’inizio dello scorso anno: in caso di uscita
dall’Unione monetaria, un Paese dovrebbe regolare i conti.
L’Italia
ha uno sbilancio di circa 400 miliardi, mentre Berlino al contrario ha una
posizione positiva per circa 900: questi squilibri dovrebbero essere saldati,
con evidente vantaggio per i Paesi forti.
I
firmatari.
I
firmatari del documento – riporta sempre Il Messaggero – includono Jürgen
Stark, già membro del board della Bce e Hans-Werner Sinn, già a capo del think
tank Ifo.
Nel
mirino ci sono soprattutto le recenti proposte del presidente francese Marcon e
del numero uno della commissione europea Juncker.
Non
piace tutto ciò che può andare in direzione di una condivisione dei rischi
all’interno di Eurolandia.
Dal
punto di vista dei firmatari avrebbe l’effetto di deresponsabilizzare
ulteriormente i Paesi meno attenti all’equilibrio dei conti e di fermare il
processo di eliminazione dei crediti inesigibili delle banche.
Dunque
no al Fondo monetario europeo, no al ministro delle Finanze e no ad un sistema
comune di garanzia dei depositi.
Ma ce
n’è anche per Mario Draghi, la cui politica monetaria rappresenterebbe già una
forma di monetizzazione del debito, ben al di là di quanto prevede lo statuto
della Bce.
E la
monetizzazione del debito per molti in Germania è il peccato mortale della
politica economica.
I
tedeschi che vogliono un’altra Europa.
Anche
in Germania, tuttavia, c’è chi caldeggia cambiamenti tangibili
nell’architettura comunitaria per evitare uscite unilaterali dalla moneta unica.
Il
presidente dell’Istituto economico tedesco Diw, Marcel Fratzscher, in
un’intervista al RedaktionsNetwerk sollecita con urgenza il governo tedesco
sulle riforme europee proposte da Emmanuel Macron, rilanciando l’allarme sulla
circostanza che “le dimensioni e l’importanza dell’Italia” renderebbero una crisi a Roma
molto problematica anche per la Germania.
“Se
l’Italia anche solo si avvicina allo squilibrio è troppo grande per essere
salvata”, afferma Fratzscher, uno degli economisti molto comprensivi con le
esigenze dei paesi dell’Europa del Sud negli anni della crisi, e vicino a tesi
keynesiane.
“La
Bce non potrà dire: c’è forse una volontà politica di uscire dall’euro, ma noi
eviteremo che il governo lo faccia”, aggiunge.
E se
la Bce non può stabilizzare l’Italia, è il ragionamento, “non può farlo
nessuno”. “Che cosa aspettiamo allora a svegliarci e a realizzare le riforme di
Macron?”.
Il governo tedesco dovrebbe finalmente
muoversi, “mettere un piano concreto sul tavolo e dire cosa voglia”, è la
conclusione.
Un’Europa
delle patrie
senza
visione comune.
Ilsole24ore.com
- Donald Sassoon – (21 marzo 2017) – ci dice:
Europa,
la parabola degli Stati-nazione.
(25
marzo 1957: firma del Trattato di Roma).
E
dunque eccoci ancora una volta a discutere dell’Europa. Qualcuno pensa sia
ovvio: non abbiamo sempre discusso dell’Europa?
In realtà no: noi europei abbiamo cominciato a
discutere dell’Europa solo di recente, solo a partire dalla seconda guerra
mondiale.
Quando
l’Europa era il centro dell’universo, più di centocinquant’anni fa, gli europei
non parlavano dell’Europa, ma delle rispettive nazioni.
Ma ora
che ogni nazione europea, perfino la Francia, perfino la Gran Bretagna, perfino
la Germania, appartiene alla periferia del mondo, parliamo incessantemente
dell’Europa, ci domandiamo quale sia il suo ruolo, dove vada.
Perdonatemi
se faccio un passo indietro, com’è abitudine degli storici; d’altronde, il
passato è il nostro territorio.
Centocinquant’anni
fa, gli europei erano impegnati a creare gli Stati-nazione, non l’Europa.
Nessuno
parlava di un’Europa unita, nemmeno Giuseppe Mazzini, che accettava l’idea che
un'Europa unita fosse possibile solo dopo la creazione degli Stati nazionali.
L’Europa
all’epoca era talmente divisa che quando gli europei pensavano alla guerra
pensavano soprattutto alla guerra contro altri europei:
i
britannici e i francesi avevano paura dei tedeschi, gli italiani degli
austriaci, i russi si inquietavano di tutto, come oggi.
Lungi
dall’unirsi, centocinquant'anni fa gli europei si preparavano alle guerre più
gravi della loro storia, più gravi della Guerra dei Cent’anni, più gravi della
Guerra dei Trent’anni.
Un
secolo fa, la prima guerra mondiale (definita mondiale, ma combattuta principalmente
in Europa) distrusse la possibilità di una supremazia planetaria del vecchio
continente.
E si svolse in un’epoca in cui gli Stati Uniti
erano già la prima potenza industriale del pianeta, anche se gli europei non ne
erano ancora consapevoli.
Nel
momento in cui il conflitto terminò, solo i più lungimiranti si resero conto
che l’Europa non poteva più essere il centro dell’universo, ma la maggior parte
degli europei non lo aveva ancora capito.
I britannici e i francesi, che possedevano gli
imperi più grandi, continuarono a coltivare le loro illusioni per tutti gli
anni 20 e 30.
E continuano a fare la stessa cosa oggi, decenni dopo
aver perduto i loro imperi.
Anche
altri coltivavano illusioni.
I
russi esattamente cento anni fa cominciarono un’esperienza straordinaria: la
costruzione di una società industriale che avrebbe dovuto diventare un modello
per il resto del mondo, perché avrebbe condotto a una società comunista giusta
ed eguale, senza classi sociali né proprietà privata.
Anche
i tedeschi, sotto Adolf Hitler, sognavano un’Europa unita sotto la loro
direzione, purificata di elementi indesiderabili come ebrei, zingari e slavi.
E non
dimentichiamo Mussolini e i suoi sogni patetici di un ritorno alle glorie
dell’antica Roma.
La
seconda guerra mondiale aggiunse altri cinquanta milioni di morti ai venti
della prima e completò la relegazione dell'Europa dal centro alla periferia del
pianeta.
Nei
decenni successivi, i francesi e i britannici, per non parlare dei belgi e dei
portoghesi, dovettero abbandonare i loro imperi.
L’Europa
stessa era divisa tra Est e Ovest, così come la Germania.
Le
nuove generazioni erano consapevoli dell’orrore delle guerre e determinate ad
abbandonare qualsiasi progetto bellicoso.
Il
sogno comunista incarnato nell’Unione Sovietica sprofondò inopinatamente tra il
1989 e il 1991.
La
situazione con cui ci confrontiamo oggi e che continueremo ad affrontare è
determinata in larga parte da quell’evento capitale.
Ma
consentitemi di tornare innanzitutto sulla questione della sedicente supremazia
europea.
L’Europa, anche prima del XVIII secolo, non
era il centro dell’universo.
Immaginiamo
un’astronave extraterrestre (da Marte o da Giove), con a bordo sociologi,
storici, antropologi e così via, incaricata di una missione di indagine sul
pianeta Terra.
Se
fosse arrivata nel XVI o nel XVII secolo è poco probabile che avrebbe
evidenziato, nel suo rapporto, la supremazia mondiale dell’Europa, salvo forse
in certi ambiti scientifici.
La Cina,
l’India dei Moghul e forse perfino il Giappone erano politicamente più
avanzati, con una burocrazia più sofisticata e una medicina più progredita;
questi tre imperi avevano un livello artistico
comparabile a quello del Rinascimento, erano molto avanti dal punto di vista
tecnologico e straordinari in matematica.
(Dopo tutto furono gli indù a inventare quelli
che chiamiamo numeri arabi nel III secolo avanti Cristo, ripresi poi dagli
arabi a partire dal IX secolo e giunti in Europa soltanto nel X secolo.)
È
anche certo che la barbarie e l’intolleranza in Europa erano molto più
pronunciate che altrove: prima del XVIII secolo, era sicuramente meno
pericoloso vivere sotto l’islam o il Buddha che nell’Europa cristiana.
E
fuori dall’Europa gli europei non erano particolarmente illuminati, basti
pensare alla sorte degli indiani d'America o degli aborigeni australiani, degli
abitanti del Congo belga o dell’Africa Tedesca del Sudovest (l’odierna
Namibia).
E la barbarie e l’intolleranza europea
proseguirono anche a Novecento inoltrato, come Auschwitz e i gulag dovrebbero
ricordarci.
Consiglio
prudenza quando si invoca, con una certa arroganza, la tradizione
dell’Illuminismo.
E sono molto diffidente ogni volta che sento
qualcuno parlare con orgoglio dei valori britannici, o francesi, o europei.
L’ipotesi
della supremazia europea è stata sviluppata nel corso del XVIII secolo, quando
ci si compiaceva delle conquiste intellettuali dell’Illuminismo, della sua
razionalità e del suo trionfo sull’oscurantismo clericale.
Questo sentimento di superiorità si è
rafforzato nel XIX secolo, quando la supremazia europea poggiava su una base
solida: lo sviluppo di una società capitalista industriale e tecnologica.
Peraltro,
quelli che all’epoca parlavano della superiorità dell’Europa non parlavano di
tutto il continente.
Si
inventa sempre l’Europa che si desidera.
Si
inventa sempre l’Europa che si desidera.
L’«Europa»
vista come faro di civiltà, modello di modernità, comprendeva tutt’al più
l’Europa occidentale.
Non
era l’Europa geografica che si estende dalla costa occidentale dell’Irlanda e
dalla penisola iberica fino al Caucaso e a Costantinopoli, dai paesaggi
ghiacciati dei Paesi scandinavi al clima più caldo della Sicilia.
Questa
contrapposizione tra un Oriente e un Occidente astratti è di vecchia data e
risale all’antichità, al mondo della Grecia antica e di Roma.
Ma l’identificazione dell’«Europa» con l’Europa
occidentale, e la concomitante visione negativa dell’Oriente, sono un traslato
ricorrente dall’Illuminismo in poi.
Voltaire,
nella sua Storia di Carlo XII (uno dei bestseller del XVIII secolo), dava per
scontato, e non del tutto a torto, che i suoi lettori fossero quelli che
vivevano in Europa occidentale, l’Europa civilizzata, e non nelle zone
«desolate» e fredde del Nord, o nelle «regioni distanti» dell’Europa dell'est.
Nella sua Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il
Grande, il grande pensatore illuminista sottolineava che i riformatori come lo
zar Pietro il Grande non cercavano di imitare la Persia o la Turchia, ma
cercavano un modello nella «nostra parte dell'Europa, dove i talenti si rendono
eterni in ogni genere».
L’Occidente
significava il progresso, la laicità e i diritti dell’uomo, e perfino i diritti
delle donne.
Montesquieu,
nello Spirito delle leggi, dopo aver diviso i governi in repubblicano,
monarchico e dispotico, conclude affermando che costumi come la poligamia confermano
che è proprio in Asia «che il dispotismo è, per così dire, naturalizzato».
Alcuni
esponenti delle classi dominanti nell’Impero Ottomano, in Cina e in Giappone
erano d’accordo.
Desideravano
preservare la loro «anima», la loro cultura, la loro tradizione, ma volevano
anche la modernità, nella convinzione che il favoloso «pacchetto» occidentale
potesse essere smantellato nei suoi diversi elementi e che fosse possibile
scegliere fra di essi come si scelgono le pietanze da un menù.
D’altro
canto, il loro fascino per l’Europa cominciò soltanto nel momento in cui
l’Europa era diventata militarmente superiore, nel corso del XIX secolo, e
minacciava la loro sopravvivenza.
Era
una novità.
Prima,
l’Oriente guardava l’Occidente dall’alto in basso, o per meglio dire non si
prendeva il disturbo di guardarlo, perché non aveva nulla da imparare
dall’Occidente.
L’Occidente, al contrario, almeno nel XVII e
XVIII secolo, era affascinato dall’Estremo Oriente, e in particolare dalla Cina
della dinastia Qing:
da qui i giardini anglocinesi di Kew, di
Potsdam, di Drottningholm, di Monaco di Baviera, di Tivoli (a Copenaghen), le
porcellane e gli armadi laccati importati o imitati, gli artisti rococò che si
ispiravano ai motivi decorativi cinesi, la «saggezza» cinese (c'è sempre molta
fantasia in questo genere di culto) ammirata dai pensatori europei dell’epoca.
Quella
visione era costruita sulla base di resoconti che risalivano al XVII secolo ed
erano stati scritti dai gesuiti, che erano andati in Asia per convertire i
pagani e avevano scoperto la ricchezza, il gusto per la cultura e per l’arte,
una burocrazia sbalorditiva e benevola e dirigenti tolleranti.
Poi
tutto è cambiato.
Alla
fine del XIX secolo gli imperatori Qing, a malincuore, decisero di abbracciare
la modernità, e dunque l’Europa.
Venne
distribuita una lettera ai funzionari provinciali di quel vasto impero, che
sollecitava proposte di riforme.
La risposta di due governatori provinciali,
Liu Kunyi e Zhang Zhidong, è particolarmente significativa:
«Tre
cose sono essenziali per una nazione: la prima è il governo, la seconda la
ricchezza, la terza la potenza […] Il modo migliore per ottenere un buon
governo è riformare le istituzioni autoctone; ma per ottenere ricchezza e
potenza bisogna adottare i metodi occidentali».
L’Est
ormai guardava all’Ovest con paura e ammirazione.
Poi,
molto più tardi, fu il turno dell'Europa di guardare verso il «suo» Ovest, cioè
gli Stati Uniti, con paura e ammirazione. Ma quell'Europa era ancora l’Europa
occidentale (chiaramente non l’Europa comunista).
L’integrazione
europea e l’orientamento al mercato.
Fu
soprattutto la necessità di sviluppare un mercato più ampio di quelli nazionali
che fece nascere la Comunità economica europea, come veniva chiamata allora.
All’inizio
era essenzialmente una piccola zona di libero scambio: sei Paesi, una minoranza
degli abitanti del continente.
Malgrado
ciò, la Comunità divenne rapidamente, e anche imperfettamente, il fulcro dei
sogni di unità per numerosi europei.
In
alcuni casi, questi sogni erano quelli di un ritorno a una gloria molto lontana
nel tempo.
In
altri casi, erano un modo per resistere e difendersi contro la potenza
americana. In altri casi ancora, era soltanto un desiderio di prosperità.
E per molti tutto questo voleva dire far parte
di un progetto moderno ed evitare di essere messi da parte.
I Sei
sono diventati Ventotto.
Ogni
tappa che conduceva dai Sei ai Ventotto veniva descritta come un passo verso
l’unità europea.
Naturalmente
le cose sono molto più complicate di così.
L’Europa dei Ventotto (ben presto Ventisette)
è profondamente divisa, cosa che non sorprende se si considera che l’Europa non
è mai esistita come entità politica unita.
Nessun conquistatore, nessun Paese, è mai riuscito a
imporre il suo dominio su tutti gli abitanti del nostro continente: non i Romani, non Carlo Magno, non
Napoleone e non Hitler.
Le
origini dell’Unione Europea riflettono questa disunione.
Gli
Stati membri hanno aderito per ragioni differenti.
Per i
britannici fu il successo economico della Comunità europea che finì per
convincerli;
i danesi e gli irlandesi entrarono
contestualmente a Londra perché all’epoca le loro economie erano fortemente legata
a quella del Regno Unito.
La Grecia, la Spagna e il Portogallo fecero il
loro ingresso per facilitare la rottura con un passato recente di dittature.
Successivamente
la Svezia, l’Austria e la Finlandia si aggiunsero agli altri per ragioni
economiche, in buona parte.
Dopo
il 1991, i Paesi che erano stati comunisti avevano bisogno di rompere con il
passato, e soprattutto speravano di acquisire il livello di prosperità
dell’Occidente.
Il
fatto che l’ethos dominante sia orientato verso il mercato non deve sorprendere
un osservatore della storia dell’integrazione europea.
La sua forza motrice è sempre stata la
soppressione delle barriere extraeconomiche e la creazione di un mercato unico
a moneta unica.
La legislazione sul welfare è sempre rimasta
saldamente nelle mani degli Stati-nazione.
Lo stesso dicasi per la fiscalità, principale
strumento di decisione economica e protezione sociale.
Si può
costruire un'identità europea?
È
opportuno farlo? Che cosa implicherebbe?
Il
solo modello che abbiamo a questo riguardo è la costruzione dell’identità
nazionale, e questo ci riporta al XIX secolo, quando la storia, appena
insediatasi nel mondo accademico, divenne una disciplina importante: la
rivoluzione romantica l’aveva riposizionata come «narrazione maestra», un
romanzo nazionale in cui i popoli potevano leggere la loro biografia.
Gli
eroi potevano ancora essere re e regine, ma solo in quanto rappresentanti del
«genio» della nazione.
Gli
storici, che per secoli erano stati i lacchè dei sovrani, cronisti di menzogne,
potevano ora acquisire un ruolo «democratico».
Gli
storici britannici del XIX secolo presentavano una visione edulcorata e del
tutto rassicurante dell’evoluzione della storia nazionale, come una successione
di riforme intelligenti basate sul pragmatismo, un racconto di progressi
costanti verso maggiore democrazia e maggiori diritti.
Una
classe dirigente illuminata, secondo la loro visione, aveva ceduto alla
pressione popolare esattamente nel momento giusto, prima che le masse
imboccassero la strada di una rivoluzione violenta.
Contrariamente
ai francesi, sempre rivoluzionari ma incapaci di creare uno Stato solido, agli
italiani, confusi e incapaci, ai tedeschi militaristi, ai polacchi
disperatamente romantici, i britannici avevano sempre fatto quello che
bisognava fare e lo avevano fatto bene.
Questo
cliché banale domina ancora la visione britannica e ha giocato un ruolo
importante nel recente referendum sulla Brexit.
Non è
possibile scrivere per l’Europa l’equivalente di quello che furono i romanzi
nazionali.
Certo,
c’è una mitologia del progresso e della missione civilizzatrice (che ignora i
numerosi imprestiti culturali che ci vengono dall’Oriente, e in particolare
dalla Cina, dall’India e dal Medio Oriente). Ma c’è anche una storia sanguinosa
di guerre e genocidi.
Oggi,
dopo aver conquistato la loro libertà professionale, gli storici non corrono il
rischio di adattare i loro insegnamenti e i loro libri alle esigenze di
un’«identità europea comune».
Certo,
sarebbe una buona cosa se gli europei avessero una maggiore percezione di
condividere un destino comune, soprattutto perché la dissoluzione dell’Unione
Europea sarebbe una catastrofe politica ed economica.
Ma la stessa Unione Europea ha sempre avuto
cura di aggiungere, ogni volta che si parlava di coesione e identità, che era
necessario anche rispettare le identità nazionali esistenti.
Io non
penso che un’identità europea possa essere insegnata.
Non penso che si possa fare dell’Europa uno
Stato-nazione, anche se la costruzione lenta e faticosa dell'Unione Europea è
il risultato di maggior rilievo di tutta la storia continentale.
Il
nostro presunto patrimonio comune.
Ma non
dimentichiamo che le conoscenze storiche della maggior parte delle persone non
si fondano unicamente su quello che hanno imparato a scuola e all’università.
Un
tempo la storia si apprendeva anche dai ricordi deformati o inventati dei
genitori e dei nonni: oggi le conoscenze storiche, più o meno incoerenti, si
formano sulla base delle informazioni diffuse dai media, i giornali, in parte i
libri (i romanzi storici) e soprattutto le serie televisive e i film.
Attualmente,
la storia che viene insegnata nelle scuole della maggior parte dei Paesi
europei di solito poggia su un pilastro fondamentale: la storia del proprio
Paese.
A
questo pilastro si aggiunge un po’ di storia greca e romana, il nostro presunto
patrimonio comune (un concetto inventato nel corso dei secoli precedenti); e
poi si studiano una serie di avvenimenti maggiori (le Crociate, il viaggio di
Cristoforo Colombo, la Rivoluzione Francese) e qualche punto di riferimento
fondamentale, come il Rinascimento e l’Illuminismo.
La
prima metà del XX secolo è presente con le due guerre mondiali.
La seconda metà è pressoché assente.
Quello
che non viene insegnato è che gli europei non hanno scelto realmente la propria
nazione.
Sono
diventati inglesi, e poi britannici, tedeschi, francesi, italiani e perfino
belgi. Hanno delle identità regionali (scozzesi o gallesi, guasconi o bretoni,
bavaresi o prussiani, siciliani o piemontesi) che avrebbero potuto essere
identità nazionali se la storia avesse preso un’altra piega.
Ma
alla fine, grazie a uno Stato che ha regalato loro una burocrazia, un sistema
scolastico, una lingua comune, delle istituzioni comuni, e grazie a guerre,
inni nazionali, tornei sportivi, concorsi canori in eurovisione e così via, gli
europei hanno imparato a identificarsi con un insieme specifico di istituzioni
politiche che chiamiamo «Stati-nazione».
Consentitemi
di immaginare uno scenario.
Immaginiamo
che nel Regno Unito succeda qualcosa di terribile, per esempio una catastrofe
economica, qualcosa che convincerebbe gli scozzesi, i gallesi e gli irlandesi
che sarebbe meglio separarsi. D’altronde può succedere, quantomeno in Scozia.
Immaginiamo
anche che la catastrofe sia talmente grave che altre regioni dell’Inghilterra
decidono di diventare indipendenti, per esempio lo Yorkshire, il Lancashire o
la Cornovaglia.
Oggi
esiste un partito nazionalista in Cornovaglia, ma è considerato una
barzelletta. Ma anche i nazionalisti scozzesi venivano considerati una barzelletta
quarant’anni fa, e oggi non ne ride più nessuno.
Immaginiamo
la Cornovaglia come nuovo Paese indipendente.
Non è
impossibile, considerando che la sua popolazione è più o meno la stessa del
Lussemburgo (500mila abitanti) e la superficie è leggermente maggiore.
Il
nuovo Governo nazionalista comincerà immediatamente a costruire un’identità
cornica e una cultura cornica.
Attualmente, a quanto risulta, a parlare il
cornico, l’antica lingua celtica della Cornovaglia, sono meno di 3mila persone,
ma il nuovo governo nazionalista potrebbe costringere le scuole a insegnarlo.
D’altronde
il Governo britannico nel 2002, forse per compiacere l’elettorato locale,
decise che il cornico poteva essere inserito nell’elenco delle lingue
riconosciute dalla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (l’Unione
Europea promuove le identità regionali locali).
Nel 2005 stanziò 80mila sterline per la
promozione della lingua, l’equivalente del salario di due insegnanti.
Successivamente,
il Governo della Cornovaglia potrebbe stabilire che la conoscenza della lingua
«nazionale» è un requisito obbligatorio per lavorare alle dipendenze dello
Stato.
Potrebbe
sovvenzionare un giornale in cornico (anche adesso uno dei giornali locali di
tanto in tanto propone un articolo in cornico).
Non
esiste una letteratura cornica (tranne qualche testo del Medioevo), ma il nuovo
Governo potrebbe «annettersi» dei personaggi letterari che hanno vissuto in
Cornovaglia (ce ne sono parecchi, perché è una bella regione), oltre a leggende
antiche come quella di Tristano e Isotta, che si svolge in Cornovaglia e su cui
Wagner ha fondato la sua celebre opera, basandosi su un racconto di un altro
tedesco, Gottfried von Strassburg, del XIII secolo.
Per
costruire un nazionalismo del genere, tuttavia, è necessario avere uno Stato,
un sistema fiscale, una polizia e un esercito.
Se le
cose andranno bene, si celebrerà una nuova età dell’oro per la Cornovaglia. Se andrà
male, si potrà sempre dare la colpa agli inglesi.
L’Unione
Europea non dispone di meccanismi come un sistema fiscale, una polizia e un
esercito.
È
impossibile costruire l’identità europea usando gli stessi metodi usati per
costruire l’identità francese, britannica o tedesca.
Il
desiderio di un’Europa sociale.
Al
momento, lo Stato-nazione è ancora il riferimento principale in materia di
identità politica per la maggior parte degli europei, anche se esiste un
rigetto crescente verso i politici nazionali.
Il
paradosso è che sarebbe legittimo aspettarsi che gli europei, delusi dalla
politica nazionale, guardino all’Unione Europea: invece succede che la collera contro
la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno
alle destre nazionaliste.
Ma
perché ci sono così tanti scontenti, o quantomeno delusi, considerando che gli
europei non sono mai stati così ricchi e non hanno mai conosciuto un periodo
così lungo di prosperità e pace?
Il
progetto europeo non è riuscito a diventare un elemento centrale della vita
politica perché l’Unione Europea avrebbe avuto bisogno di più poteri.
Ma per
acquisire più poteri avrebbe dovuto avere il sostegno della maggior parte degli
europei, avrebbe dovuto conquistare i cuori e gli spiriti, “hearts and minds”.
Ed è appunto questa l'impasse in cui si trova l’Unione.
Si era
provato a dare all’Europa una Costituzione, nella speranza che potesse divenire
una carta federatrice.
Ma i
problemi, al contrario si sono moltiplicati e la Costituzione è diventata un
fattore di disunione.
Napoleone
avrebbe detto che una Costituzione deve essere corta e oscura.
La
Costituzione europea, abortita e ormai dimenticata, metà del test napoleonico
lo superava: era oscura, ma di certo non era corta.
L’ambiguità
è un’arma a doppio taglio: nel caso specifico era servita per unire quelli che
volevano essere uniti e trovare qualcosa di positivo nel testo, ma fornì anche
argomenti a quelli determinati a far naufragare il trattato costituzionale.
È ciò che è successo con la vittoria del no
nei referendum sull’adozione della Costituzione organizzati in Francia e in
Olanda nel 2005.
Il
trattato di Lisbona ha ripreso gli elementi di fondo del progetto, ma si tratta
di un accordo fra Paesi e non possiede la forza simbolica di una Costituzione.
Gli
europei desideravano un’unione sempre più stretta? Evidentemente no.
Desideravano un’Europa ancora più orientata verso il mercato? Probabilmente no.
Desideravano un’Europa «sociale»?
Sicuramente
sì, e questo è normale, perché praticamente nessuno desidera pensioni basse,
cure sanitarie costose, orari di lavoro lunghi e nessun aiuto per le famiglie
giovani.
Tuttavia,
non si può negare che l’etica della Costituzione (come della maggior parte
delle iniziative dell'Ue) corrispondeva a un’Europa «dei mercati», più che a
un'Europa «sociale».
Tutti
i documenti europei, la Costituzione e i trattati, erano, inevitabilmente, un
compromesso che riflette una realtà politica, un equilibrio determinato da
forze dove l’Europa sociale è in posizione di debolezza.
È
molto difficile, quindi, raggiungere un compromesso su questioni «interne»; non
si riesce a raggiungerlo nemmeno sulla politica estera, dove non c’è una
posizione europea comune, o quando c’è risulta inefficace.
Incapaci
di vedere al di là del confine.
Sui
principali temi internazionali non esiste una posizione europea comune che
faccia da contrappeso agli Stati Uniti, soprattutto ora che l’inquilino della
Casa Bianca si chiama Donald Trump.
Non esistono iniziative europee uniche, non
esistono soluzioni europee uniche. Nessuno si rivolge all’Europa per sapere
cosa fare.
Inoltre,
gli europei non sanno molto gli uni degli altri.
Non
conoscono nemmeno le canzoni di musica leggera, i libri più venduti o i
programmi televisivi degli altri Paesi.
Il solo Paese che ogni europeo conosce
altrettanto bene del proprio sono gli Stati Uniti.
Contribuiscono
a ciò i film, i romanzi, le canzoni, ma anche i media giocano un ruolo:
le
elezioni nei Paesi europei sono quasi ignorate dai mezzi di informazione degli
altri Stati (anche se la Francia e la Gran Bretagna una certa attenzione la
ricevono), mentre le elezioni americane sono sistematicamente esaminate,
discusse, dissezionate e commentate.
Questo
livello di attenzione è largamente giustificato: alla maggior parte di noi, per
ragioni ovvie, interessa di più chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti
che chi sarà il primo ministro di tutti gli altri Paesi membri dell’Unione
Europea. E oggi più che mai, con Trump presidente, sarebbe essenziale che
l’Europa fosse unità. Ma non lo è.
Un
giovane belga sa qualcosa di Abraham Lincoln, George Washington, Martin Luther
King, ma pochissimi giovani americani sanno anche soltanto dove si trovi il
Belgio, e la maggior parte di loro non ha mai sentito parlare di Goethe, di
Victor Hugo o di Dante Alighieri.
Esiste
naturalmente una classe internazionale di intellettuali cosmopoliti, che
parlano diverse lingue (in particolare l'inglese), viaggiano e hanno amici in
diversi continenti, con cui condividono molte conoscenze.
Sono l’equivalente degli eruditi del Medioevo
che avevano in comune una religione (il cristianesimo), una lingua (il latino)
e una cultura (la cultura classica), mentre la maggior parte degli europei non
sapeva leggere e scrivere ed era capace a malapena di guardare al di là del
proprio villaggio.
Oggi
questa classe internazionale, anche se certamente più numerosa degli
intellettuali cosmopoliti del Medioevo, è una minoranza.
Gli
altri sono ancora rinchiusi nel loro villaggio, con l’unica differenza che ora
il villaggio è lo Stato-nazione.
La prova si può vedere nel successo di
popolari giochi televisivi come Chi vuol essere milionario?
Il gioco, nato originariamente in Gran
Bretagna, si è esteso a un centinaio di Paesi diventando il quiz televisivo più
internazionale di tutti i tempi.
Il format è sempre lo stesso: le domande sono
in ordine di difficoltà crescente e i concorrenti, quando non riescono a
rispondere, hanno una o due possibilità di telefonare a un amico o domandare al
pubblico.
Guardando
questo programma si osserva che i concorrenti sono gente «ordinaria», non
professori universitari (che hanno troppa paura di andare incontro a
un’umiliazione pubblica), ma informatici, professori di liceo, segretarie e
così via.
Il
gioco non potrebbe funzionare se le domande non fossero adattate alle culture
nazionali, perché esistono pochissime conoscenze che siano realmente globali.
Per esempio la domanda «Chi ha scritto I
promessi sposi?» in Italia sarebbe elementare, ma sarebbe di elevata difficoltà
non soltanto in Illinois, ma anche in Francia o in Inghilterra, dove Manzoni è
pressoché sconosciuto.
I
personaggi conosciuti ovunque sono le celebrità della cultura popolare
internazionale: certi cantanti, certi attori e certi politici, di solito
americani.
Prove
recenti di questa ignoranza della cultura dei Paesi vicini le fornisce
un'indagine condotta nel 2008 dal ministero della Cultura francese (a cui ho
partecipato).
Lo
scopo dell'indagine era stabilire che cosa sapevano i tedeschi, gli italiani e
i francesi delle altre culture vicine (dove la cultura era definita come il
genere di conoscenze che si imparano a scuola).
I risultati sono estremamente allarmanti.
Alla
richiesta di citare due uomini che hanno avuto un impatto significativo sulla
storia della Germania prima del 1900, il 70 per cento degli italiani e il 72
per cento dei francesi non hanno saputo fornire neanche una risposta: nemmeno
Bismarck;
il 7
per cento ha citato Hitler, che nel 1900 aveva soltanto undici anni!
Il 70
per cento dei francesi e il 63 per cento dei tedeschi non sono in grado di
menzionare un solo protagonista della storia italiana prima del 1900: neppure
Garibaldi.
La Francia va meglio grazie a Napoleone, che è
citato da un terzo degli italiani e dei tedeschi, ma il 32 per cento dei
tedeschi e il 40 per cento degli italiani non riuscivano a ricordarsi di un
solo personaggio storico francese.
(Altrove
va ancora peggio: il 12 per cento degli adulti americani identifica Giovanna
d'Arco – Joan of Arc – come la moglie di Noè, per via di Noah's Ark, cioè
l'Arca di Noè in inglese.)
Se
siete un monumento, vi conviene essere pendente: la torre di Pisa era
l’edificio italiano più conosciuto.
Solo
il 10 per cento dei francesi sapeva che Dante è l’autore della Divina commedia,
anche se la maggior parte degli europei probabilmente ha sentito parlare di
Pinocchio (in gran parte grazie a Walt Disney).
I partiti comunisti di Francia e Italia per molto
tempo sono stati i partiti comunisti più forti dell’Europa occidentale, ma il
loro fallimento è evidente: solo il 33 per cento degli italiani e il 16 per
cento dei francesi erano in grado di identificare Karl Marx come l’autore del
Capitale.
Un’Europa
degli orticelli nazionali.
Potremmo
continuare con queste statistiche penose, ma il fatto è che de Gaulle aveva
ragione:
l’Europa
in realtà è un’Europa delle patrie.
Tutti
conoscono un po' il loro orticello nazionale, ma non quello degli altri.
Non è
perché le persone sono «ignoranti», ma perché il meccanismo di rafforzamento culturale
è dominato quasi completamente dallo Stato-nazione, sia che si parli dei mezzi
di informazione sia che si parli della scuola.
Ci
sono numerose «piccole» eccezioni a questa carenza di conoscenze mondiali,
almeno nell’ambito della cultura popolare, e succede soprattutto quando si
parla della cultura popolare inglese: tutti conoscono i Beatles, i Rolling
Stones e Harry Potter.
Tintin è mondiale, anche se non tutti sanno
che il suo autore è belga.
Ma gli
Stati Uniti restano in ogni caso il solo Paese capace di esportare gran parte
della propria produzione culturale, forse perché non hanno una vera e propria
cultura nazionale (cosa facilitata dal fatto che la loro cultura, essendo terra
di immigrati, è un miscuglio di tante culture diverse).
Dunque
non esiste una cultura europea comune, non esiste uno Stato sociale europeo,
non esiste un esercito europeo, non esiste un patriottismo europeo.
In queste condizioni non ci possono essere
piani ambiziosi per l’Europa, nessuna bacchetta magica: solo il tentativo
difficile di stabilire regole di coesistenza.
E
l’Europa di oggi è sempre meno «sociale».
I
Paesi dove il welfare è limitato (cioè la maggior parte dei nuovi membri) sanno
che il loro vantaggio competitivo risiede in salari bassi, poche tasse e poche
indennità sociali. Le disuguaglianze sociali tra i diversi Stati membri
rimangono dunque un elemento costitutivo dell’Unione Europea.
C'è
molto di «sociale» in Europa, ma avviene a livello dei singoli Stati membri, in
particolare quelli di più vecchia data.
L'Europa
sociale, infatti, è materia esclusiva della politica nazionale.
La politica sociale rafforza l’identità
svedese, danese, francese o tedesca, ma serve a poco per l’identità europea.
«Identità
europea», come molti altri concetti nebulosi di cui è quasi impossibile
definire il senso, è un’espressione calorosa e confortante. Quasi tutti possono essere europei
più un’altra cosa.
Solo gli ultranazionalisti temono l’identità
europea.
E
sappiamo tutti dove ha condotto il nazionalismo l’Europa.
L’identità
europea evoca quindi un processo in cui l’Europa volta le spalle a un passato
sinistro e guarda verso un avvenire di coesistenza pacifica tra popoli che
mantengono le loro lingue e gli aspetti più gradevoli della loro identità
nazionale.
Ma
tutto questo ora è ancora più in pericolo, e soprattutto per colpa della Gran
Bretagna.
I
partiti politici, accusati costantemente di non riuscire a produrre risultati,
hanno la tendenza a dare la colpa all’Unione Europea.
Nessuno ha praticato quest’arte meglio dei due
grandi partiti britannici, i conservatori e i laburisti, che hanno trovato ben
poco di positivo da dire riguardo all’Unione Europea negli ultimi quarant’anni.
Buona
fortuna, Europa!
La
Gran Bretagna ha «raggiunto» l’Europa più di quarant’anni fa, ma non ha mai
veramente accettato il progetto europeo.
Non ha
mai pensato che fosse l’inizio di una nuova era, che l’Unione sarebbe diventata
sempre più solida, sempre più stretta. Non c'era miraggio romantico, non c'era
visione.
La
Gran Bretagna entrò in Europa, nel 1973, perché riteneva che fosse nel suo
interesse economico, che fosse un bene per i commerci, e questo sentimento nel
1975 (in occasione del referendum) era accettato da due terzi dell’elettorato.
In virtù
di questa visione ristrettissima di quello che poteva essere l’Europa,
condivisa da tutti i primi ministri dopo” Edward Heath” (l’unico vero
europeista), da Harold Wilson a Jim Callaghan, da Margaret Thatcher a John
Major, da Tony Blair a Gordon Brown, ogni passaggio verso una maggiore
integrazione è stato bloccato.
I britannici non hanno mai desiderato
realmente approfondire l’unione.
Volevano
un’unione economica, ma a patto che la Ue rimanesse un nano politico. Hanno
accettato con entusiasmo tutti i nuovi membri perché era sempre meglio
allargare che approfondire.
La
Gran Bretagna ha limitato il trattato di Maastricht a un mercato unico.
Ha
quasi applaudito quando i trattati di Amsterdam e di Nizza, e l’accordo
costituzionale, si sono risolti in nulla o hanno cambiato poco.
Ha
ricercato costantemente deroghe, trattamenti speciali.
I britannici hanno partecipato alla stesura
delle regole relative all’euro, ma hanno contribuito a rendere l’euro debole,
con pochi controlli.
Hanno
perfino cercato di bloccare la democratizzazione dell’Unione Europea e il
rafforzamento del Parlamento europeo.
La
débâcle sull'Europa, la Brexit, è stata imputata ai lavoratori scontenti, ai
perdenti della società, agli abitanti della provincia, ai ceti medio-bassi,
agli elettori ignoranti che hanno creduto alle frottole che raccontavano i
sostenitori della Brexit sulla manna che sarebbe piovuta dal cielo per il Regno
Unito una volta liberati dalla tirannia dei burocrati di Bruxelles, sulla
storia che saremmo stati liberi, di nuovo padroni in casa nostra e così via.
In
realtà, la responsabilità va ascritta a quei ceti politici che si spacciano per
colti e intelligenti, e soprattutto al Governo in carica dal 2010 al 2015, e
più ancora al primo ministro David Cameron, che per risolvere un problema
interno al suo partito ha condotto il Paese e forse l’Europa verso un
precipizio.
La
Gran Bretagna è tutta sola e l’Europa è più disunita che mai; e tutto questo
nel momento in cui il mondo deve fare i conti con Donald Trump.
Buona fortuna, Europa!
L’arte
del potere in Europa:
ritratto
di Mario Draghi.
Legrancontinent.eu
- Ben Judah – (16th Maggio 2021) – ci dice:
Prospettive
Politiche.
Dalla
scuola dai gesuiti ai più alti livelli della burocrazia nazionale ed europea,
la traiettoria di Mario Draghi è quella di un uomo che ha compreso il
funzionamento delle regole dell'Europa del XXI secolo per usarle a proprio vantaggio.
In questo ritratto particolarmente vivido, Ben Judah ricostruisce la serie di
scommesse che hanno portato Draghi fino alla Presidenza del Consiglio.
Se c’è
stata una frase, in Europa nell’ultimo decennio, che ha causato una svolta
nella storia, è stata questa.
Dopo
un preambolo confuso su un calabrone che non dovrebbe essere in grado di
volare, Draghi ha smesso di leggere dal suo copione e, per 16 secondi, ha
guardato nella telecamera.
“All’interno
del nostro mandato, all’interno del nostro mandato … la BCE è pronta a fare
tutto il necessario, whatever it takes, per preservare l’euro”.
Ha
fatto una pausa, aggiungendo, giusto per essere sicuro: “E credetemi, sarà
sufficiente”.
In pochi secondi, la notizia ha raggiunto i
media di tutto il mondo; i miliardi che scommettevano contro l’euro hanno
cominciato a muoversi nella direzione opposta.
Mario
Draghi è ora il primo ministro italiano.
L’uomo
che ha “salvato l’euro” è stato richiamato dalla pensione per “salvare
l’Italia” dalla pandemia.
C’è un’Europa dello spirito: di Beethoven, delle
vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa come funziona
effettivamente oggi – l’Europa di Mario Draghi.
Una
creatura dell’UE, capite lui e capite come crearsi degli amici a Bruxelles;
come vincere le battaglie più importanti; e come essere, tra 27 paesi, davvero
europei. Ma,
soprattutto, capite Draghi e capirete come funziona il potere nella UE. Ha
costruito un’Europa tecnocratica ed è asceso ai suoi vertici.
Draghi
si è fatto a Roma.
Non la città da vecchi che è oggi, ma la Roma
di Fellini, degli attentati delle Brigate Rosse e del miracolo italiano: un
mercato emergente in Europa, in cui le tensioni erano elevate con le agitazioni
del mondo del lavoro, l’ascesa del partito comunista e le gioie della gioventù.
Ma mentre la sua generazione era ribelle,
flirtava con l’estremismo e sognava nuovi mondi nei campus, Draghi era mansueto
e gravato dalla responsabilità.
Un
outsider nel maggio del ’68.
C’è
un’Europa dello spirito: di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del
caffè. E poi c’è l’Europa come funziona effettivamente oggi – l’Europa di Mario
Draghi.
“Avevo
i capelli abbastanza lunghi”, ha raccontato a Die Zeit, “ma non lunghissimi. E,
a parte questo, non avevo genitori contro i quali avrei potuto ribellarmi”. Suo
padre, il banchiere ben collegato Carlo Draghi, nato nel 1895, era morto quando
lui aveva 15 anni.
Sua
madre entrò in un rapido declino poco dopo. A 16 anni, tornando dalle vacanze,
trovò una pila di bollette non pagate ad aspettarlo.
A 19
anni Draghi era orfano.
Gli
amici ricordano come un’apparenza esterna posata nascondesse una vera angoscia.
Maurizio
Franzini, un economista, una volta divideva l’ufficio con lui: “Diceva: ‘Non
sembro ansioso. Ma sono davvero ansioso’”.
Al
momento di scegliere l’università, ossessionato dalle discussioni con suo padre
e da uno dei suoi primi ricordi, un viaggio in treno con il governatore della
Banca d’Italia, Draghi scelse economia alla Sapienza di Roma.
Ma è
stato il suo periodo scolastico, non la sua università, che quelli che lo
conoscono meglio dicono che lo ha reso quello che è.
“È
stato ben addestrato dai gesuiti”, ha detto Vincenzo Visco, che ha lavorato a
stretto contatto con lui come ministro italiano delle finanze e poi del tesoro.
“Gli hanno insegnato ad essere prudente,
riservato e ad ascoltare. È un cattolico sociale”.
Menzionare
i gesuiti ha molteplici significati per gli italiani. È un marcatore di classe
che lo lega inesorabilmente al Massimiliano Massimo, l’Eton romana dei gesuiti,
dove Draghi ha studiato con i figli di ministri e magnati.
È il
segno di un’educazione severa e rigorosa per mano di studiosi-sacerdoti; ed è
un privilegio. Per gli europei, è spesso un modo per attirare l’attenzione sul
suo modo di fare: pedagogico; preciso, ombroso e, se necessario, spietato.
Herman
Van Rompuy, l’ex presidente del Consiglio europeo che scriveva haiku, lo
trovava divertente.
Più di
una volta, nelle notti peggiori della crisi dell’euro, osservando un tavolo con
Mario Monti e Mariano Rajoy, allora premier italiano e spagnolo, seduti accanto
a Draghi, l’ex premier belga scherzava:
“Guardaci
qui, che buoni studenti gesuiti che siamo, mentre cerchiamo di trovare un
compromesso”.
Ma
come ogni buona battuta, alludeva a qualcosa di serio: questi uomini usciti da
una confraternita segreta fondata per salvare la Chiesa erano ora al servizio
dell’Europa.
“Forse
non sapete”, ha detto Mario Tiberi, un vecchio collega del mondo accademico,
“che i gesuiti hanno un mantra del loro fondatore Sant’Ignazio di Loyola sul
servire la visione di Dio: todo modo, che in inglese si traduce con ‘whatever it
takes‘”.
Mentre
un’ondata di omicidi politici seguiva il ’68, Draghi imparava la prima lezione
della vita politica: trovare sempre il mentore giusto.
Il suo
nome: Federico Caffè. In mezzo al clamore viveva, dicevano i suoi studenti,
“come un monaco”.
Caffè fu influente: il grande economista
keynesiano italiano. Convinto che Draghi fosse brillante, lo presentò a Franco
Modigliani, l’economista italiano del MIT, che lo accettò come studente.
Ma
doveva ancora completare la sua tesi.
“Era
sulla moneta unica e conclusi che la moneta unica era una follia, una cosa
assolutamente da non fare”, ha detto Draghi, in un evento in onore del suo
mentore.
Mentre
un’ondata di omicidi politici seguiva il ’68, Draghi imparava la prima lezione
della vita politica: trovare sempre il mentore giusto.
Il suo
nome: Federico Caffè.
Coloro
che avrebbero plasmato il discorso economico dell’epoca hanno insegnato a
Draghi al MIT.
Sottolinea
con orgoglio che cinque dei suoi professori hanno vinto il premio Nobel – Paul
Samuelson, Bob Solow, Franco Modigliani, Peter Diamond e Robert Engle. I suoi
pari – Ben Bernanke, Paul Krugman, Kenneth Rogoff, Olivier Blanchard –
sarebbero diventati rispettivamente i gran sacerdoti della Federal Reserve, del
New York Times, dell’austerità e del FMI.
Mentre
il nuovo mondo dei tassi di cambio fluttuanti, del capitale che scorre
liberamente e dei banchieri centrali autorizzati cominciava ad emergere, un
cerchio di economisti si stava coalizzando.
Insieme
hanno dato forma all’era neoliberale.
Draghi
non era alla ricerca di dogmi.
A
differenza dei suoi mentori, l’economia di Draghi non si è mai fissata in una
teoria, ma ha continuato a muoversi, sempre un punto a sinistra rispetto a dove
si trova il centro.
Per
lui si tratta di pragmatismo.
A
quarant’anni aveva già deluso la sinistra di Caffè.
Draghi
era ormai un direttore della Banca Mondiale. Nell’aprile 1987, sopraffatto dal
dolore che il neoliberismo avesse trionfato sulla sinistra in economia, i suoi
discepoli morti o in dissolvenza, Caffè, il grande keynesiano, scomparve.
Non fu mai più visto. Alcuni dicono che si sia
suicidato; altri che si sia trasferito in un monastero sulle Alpi, per
nascondersi dal mondo che vedeva arrivare.
Nel
febbraio 1992, Draghi è nella stanza di Maastricht quando nasce l’euro: un
consigliere chiave del primo ministro italiano, Giulio Andreotti, quando firma
il trattato.
Ha
lasciato da tempo Caffè, la sinistra e le sue tesi.
L’umore
è euforico; la popolarità e il successo della nuova moneta unica dell’Unione
Europea travolgerà tutto davanti a sé. Tanto che alla conferenza stampa, Helmut
Kohl scommette sei bottiglie di vino tedesco che la Gran Bretagna aderirà al
progetto entro il 1997.
“Il
governo fa sempre quello che vuole la City”, sbotta.
“La City farà in modo che la Gran Bretagna
entri nell’Unione monetaria”.
I
britannici sono partiti con un “opt-out “; gli italiani con condizioni così
dure che i tedeschi si sono sorpresi di averle accettate.
Il
secondo mentore di Draghi, Modigliani, era indignato.
La decisione di firmare fu di Draghi: era uno
dei due italiani con l’autorità finale sulla valutazione dei termini.
Aveva
consigliato al primo ministro di procedere con quella che nella sua tesi
chiamava “follia”: un’unione monetaria senza un’unione politica ed economica.
Perché?
La
risposta: la
sua teoria neoliberista della politica italiana.
Mezzogiorno
a Roma.
Negli anni
’90. Una città di politica, vicoli e corridoi. Le campane suonano al Senato. I
lavori si aggiornano a Palazzo Montecitorio. Gli avvocati si disperdono. I
giornalisti urlano domande. Tutto il torrente di attività sembra riversarsi
all’esterno e invadere le strade intorno a Piazza Navona.
Le
trattative continuano sotto gli ombrelloni della gelateria Giolitti.
I funzionari incontrano i ministri all’Hotel
Forum. Questo è l’habitat naturale di Draghi.
A capo del Tesoro dal 1991, è qui che il
funzionario quarantenne ha fatto tutto il necessario per entrare nella moneta
unica: regolare le banche italiane, gestire il debito e privatizzare oltre 100
miliardi di euro.
Draghi era più che indispensabile. Ha costruito il
neoliberismo italiano.
Non
c’era scuola migliore di Roma per la politica dell’euro: era già un gioco per
politici deboli e tecnocrati potenti.
Un
quadro astratto italiano era appeso sopra la sua scrivania al Palazzo delle
Finanze.
Fuori,
la “prima Repubblica” stava cadendo a pezzi.
Esposti
come un pasticcio clientelare di connessioni mafiose e tangenti, tutti e
quattro i partiti del governo dimissionario del 1992 sarebbero scomparsi.
A
tenere insieme il paese era la burocrazia più forte che l’Italia avesse:
i tecnici finanziari della pubblica amministrazione
sotto il primo ministro tecnocratico del paese, Carlo Azeglio Ciampi.
Draghi
era nel suo elemento.
Il capitalismo, credeva, aveva delle regole.
Finché
i politici si fossero tolti di mezzo e i tecnocrati avessero impostato la
giusta struttura, sarebbe seguita una crescita stabile.
Questa era la filosofia del MIT.
In
tutti i continenti, i suoi ex compagni di studi erano sempre più in ascesa.
Come economisti credevano nell’intervento: aiutare a far funzionare il mercato.
Draghi
era più che indispensabile. Ha costruito il neoliberismo italiano.
Questo
era il motivo per cui l’Euro era imperativo.
Il
capitalismo poteva fornire le regole – e la struttura – che mancavano
all’Italia.
I politici ora sarebbero stati limitati nella
politica macroeconomica.
L’adesione
a una moneta unica avrebbe messo le leve fondamentali della macroeconomia – le
politiche fiscali e monetarie chiave – al di là della politica interna.
Questa
strategia era nota come il vincolo esterno.
L’Italia
stava andando così bene.
La sua
economia era più grande di quella della Gran Bretagna; gli standard di vita si
stavano avvicinando a quelli della Germania.
I
primi anni novanta erano il momento dell’Italia: il vino toscano soppiantava
quello francese negli Stati Uniti.
Gucci e Prada stavano conquistando il mondo.
I magnati non volevano rischiare. Volevano un
aiuto.
Nel 1992, il giovane Draghi aveva catturato
l’attenzione di uno degli uomini più ricchi d’Italia, Carlo De Benedetti,
allora proprietario della Repubblica, L’Espresso e una serie di giornali
regionali.
Si
incontravano spesso e discutevano dell’Euro.
“Se l’Italia non avesse fatto parte
dell’Eurozona, sarebbe stata come l’Egitto o il Nord Africa”, ha ricordato De
Benedetti.
Questo
è ciò che le élite temevano negli anni ’90: senza un vincolo esterno, un
ritorno agli anni ’70.
Ma De
Benedetti ha capito presto che Draghi era una sfinge.
Segreto. Astuto. Non lasciava mai trapelare
niente.
Ma
cosa voleva da lui? “Una volta gliel’ho chiesto: Io traggo beneficio dalle
nostre conversazioni. Ma tu cosa ne ricavi?”.
Draghi
sorrise: “Disse che gli piaceva parlare con qualcuno della vita reale”.
De
Benedetti aveva fatto bene a chiederlo. Perché Roma aveva già dato a Draghi
lezioni importanti.
Mai
far sapere a nessuno quello che si pensa, a meno che non si sia costretti a
farlo.
E
sempre, sempre farsi gli amici giusti: tra i media e i magnati. Un giorno avrai
bisogno dei loro favori.
Il
tocco politico di Draghi non era passato inosservato.
In
parlamento, era spesso chiamato “Mr. Britannia”, a causa dei suoi frequenti
incontri con i banchieri di Londra.
Salvatore
Biasco, allora un legislatore di sinistra, dalla sua commissione guardava
Draghi arrivare lentamente a quella che sarebbe stata la sua più grande
realizzazione: si può esercitare il maggior potere come tecnocrate.
“Si comportava come un ministro del Tesoro e
non come un funzionario”, ha ricordato Biasco.
“Era una specie di ministro del Tesoro ombra”.
Fu qui, da politico non eletto, che affinò la
Draghipolitik tecnocratica che avrebbe plasmato l’Europa.
Tutte
le storie sul denaro europeo finiscono a Londra.
Nel 2002, Draghi divenne vicepresidente di
Goldman Sachs International.
Gli amici, i seminari, i magnati: tutto aveva
dato i suoi frutti. E così, a quanto pare, anche la sua strategia.
Un
populista, Silvio Berlusconi, era diventato di nuovo primo ministro nel 2001.
Ma allora?
Era
ingabbiato dal vincolo esterno: le sue mani erano tenute lontane dalle vere
leve del potere.
I tecnici finanziari di Roma erano rilassati.
L’Italia
non era stata dissoluta: aveva accumulato un grande debito nazionale negli anni
’80 a causa degli alti interessi che aveva imposto in gran parte per abbassare
l’inflazione e tenere il passo con il sistema monetario europeo che aveva
preceduto l’euro.
L’imminente
boom lo avrebbe sicuramente eroso.
La
generazione di Draghi credeva di aver fatto tutto bene.
Poi è
arrivato il 2008.
La
crisi finanziaria ha rivelato che questi tecnici avevano fatto un terribile
errore. Avevano rotto un sistema che ora avrebbero passato il resto della loro
carriera a cercare di riparare.
Questo
avrebbe trasformato i banchieri centrali da tecnici regolatori del capitalismo
in gestori politici di crisi che lo guidavano – e così facendo avrebbero
riordinato per sempre il potere nell’UE.
Una
fortuna sfacciata avrebbe dato a Draghi la possibilità di unirsi a questi nuovi
Superman.
Prima
uno scandalo di corruzione ha aperto un posto vacante come governatore della
Banca d’Italia.
Poi,
rifiutando di accettare una politica monetaria non ortodossa della BCE per
combattere la crisi, il capo della Bundesbank, da tempo atteso come successore
del francese Jean-Claude Trichet, si è dimesso.
Con
Berlino ora senza un candidato, il posto alla BCE si è aperto per un altro
banchiere centrale di un grande stato.
La
gestione dei media ha assicurato che Draghi lo ottenesse nel giugno 2011.
I media tedeschi odiavano l’idea di un
italiano nell’Eurotower. Angela Merkel esitava.
De
Benedetti ricevette una telefonata: il conto dei pranzi insieme era finalmente
arrivato.
Il
normalmente soave Mario, disse, era isterico.
“Era diventato matto”, ricordava De Benedetti.
La Bild aveva pubblicato una storia di copertina sull’Italia. “Mamma mia”, si
leggeva.
“Per
gli italiani l’inflazione è uno stile di vita, come la salsa di pomodoro con
gli spaghetti”.
“Mi ha
chiamato e mi ha detto: “Cosa puoi fare per me?”” ricorda De Benedetti, “era
preoccupato che questo danneggiasse la sua immagine”.
Fu
organizzato un incontro con il proprietario del tabloid. Seguì un ritratto
raggiante con una prima pagina di Draghi che accetta un elmetto chiodato
prussiano dalla Bild.
“Mario
è sempre stato molto riconoscente”, ha detto De Benedetti.
Coltivare
la sua immagine tecnocratica è stato fin dall’inizio il cuore della
Draghipolitik.
Draghi
si è approcciato al lavoro di vertice in modo politico.
Ancora
una volta è stato fortunato.
Jean-Claude
Trichet aveva concluso il suo mandato così male che qualsiasi successore
avrebbe fatto bella figura al confronto.
Per
dirla con le parole dello storico Adam Tooze: “Lasciando l’incarico, Trichet,
appoggiando i governi in favore dell’austerità solo sul mercato, aveva aiutato
Berlino a inserire l’austerità nel cuore del circuito dell’UE”.
È
stata cattiva economia: questo ha portato alla depressione dei consumi
prolungando la recessione.
Ma
Draghi sarebbe andato oltre.
Nell’agosto
2011, firmò una lettera segreta al governo italiano: una nota in favore
dell’austerità che sollecitava tagli e riforme del lavoro.
Roma
era inorridita; Berlino era contenta.
Segnalando
che Francoforte era pronta a mettere la sua liquidità solo dietro un certo tipo
di politica, aprì la porta alla cacciata di Berlusconi.
Un
governo tecnocratico lo sostituì – che il leader caduto definì un “colpo di
stato” dell’UE.
La
cerchia di Draghi ha continuato a plasmare il capitalismo: Ben Bernanke guidava
la Fed e Stanley Fischer era a capo della Banca d’Israele.
A Francoforte, Draghi trattava l’Eurotower
come il Tesoro di Roma, vantandosi: “in ogni conferenza stampa da quando
sono diventato presidente della BCE, ho concluso la dichiarazione introduttiva
con un appello ad accelerare le riforme strutturali in Europa”.
I banchieri centrali avevano superato il
limite: non erano più tecnocrati, ma politici.
Entrare
nella BCE a Francoforte è come mettersi le cuffie antirumore.
Tra il
vetro blu e gli ascensori, tutto è improvvisamente silenzioso.
Ma il
suo freddo gelido ha visto alcuni degli incontri più importanti d’Europa.
Poco dopo essere diventato banchiere centrale,
Maurizio Franzini, un vecchio amico, chiese a Draghi come gestisse l’ansia di
un lavoro così importante:
“Disse
che faceva ancora docce fredde ogni mattina, una tecnica per gestire la
tensione che aveva imparato negli Stati Uniti”.
A
Francoforte, Draghi avrebbe presto padroneggiato le tre forme del potere
europeo:
il
carismatico – la politica della persuasione – con cui avrebbe rivendicato il
potere per la sua banca;
il tecnico – la politica delle regole – con
cui sarebbe stato l’esecutore dell’UE in Grecia;
e
l’analitico – la politica dei numeri – con cui avrebbe vinto la battaglia per
guidare i flussi di capitale con le quantitative easing.
Insieme,
questi si sarebbero uniti nella Draghipolitik – con la quale avrebbe spostato
il centro di gravità tedesco.
La sua
sfida era nel disegno stesso che aveva accettato.
François
Mitterrand aveva fatto dell’euro il prezzo per l’unificazione.
Ha
costretto Kohl a tener fede a vaghi impegni per una moneta unica, stava
prendendo tempo, minacciando il vice cancelliere Hans-Dietrich Genscher che se
non si fosse impegnata, la Germania avrebbe affrontato una “tripla alleanza” di
Gran Bretagna, Francia e URSS che l’avrebbe isolata.
Retoricamente,
i suoi sfoghi erano estremi. “Torneremo al mondo del 1913”, aveva minacciato
Bonn.
La
Francia voleva l’euro per limitare il potere tedesco.
Mitterrand disse che il marco tedesco era
“l’arma nucleare” della Germania. Temeva che se non avesse avuto voce in
capitolo sui tassi d’interesse tedeschi, Parigi sarebbe stata costretta per
sempre a seguirli. Si sbagliava.
Non
era la moneta. Era il credito tedesco l’arma nucleare.
Concordare una moneta unica senza un Eurobond,
un bene sicuro a cui tutti potevano attingere per finanziarsi in tempi di
difficoltà, significava che le obbligazioni tedesche diventavano il bene sicuro
dell’Eurozona.
Berlino
aveva ora un veto de facto sulla politica del debito.
L’errore
di Mitterrand rafforzò il potere tedesco.
Le
esportazioni tedesche hanno avuto un boom; la competitività delle esportazioni
italiane è diminuita, quelle francesi hanno ristagnato.
L’euro aveva reso le merci tedesche più
economiche che se fossero state in marchi tedeschi e le merci italiane più
costose che se fossero state in lire.
Berlino
poteva assumere nuovi debiti con poco rischio. Gli altri non sono stati così
fortunati.
Dopo
il 2008, i governi più deboli avevano bisogno che l’Unione comprasse le loro
obbligazioni, li salvasse e collettivizzasse il loro debito.
Ma
Kohl ha accettato l’euro a condizione che non ci fosse un debito collettivo, e
che la BCE non finanziasse direttamente i governi.
Berlino
doveva essere convinta.
La
politica dell’euro divenne un gioco in cui tutti ballavano intorno alla Merkel
cercando di convincerla ad aprire i rubinetti.
E in
questo gioco, Draghi era il re.
Il
problema dell’Unione europea non è che è un Superstato: è che non è uno Stato.
Era
apparsa una crisi che aveva una soluzione chiara. Ma non esisteva un’autorità
centrale per attuarla.
Da Podemos a Syriza, molti politici sono stati
eletti per costruire un’Eurozona più giusta. Ma le loro mani erano lontane
dalle vere leve del potere.
È qui
che entra in gioco la Draghipolitik:
l’arte
tecnocratica di far smuovere Berlino. Draghi ha ricevuto un invito permanente
al Consiglio europeo da parte del suo Presidente, Van Rompuy: un livello di
accesso ai power broker molto superiore rispetto a quello del presidente della
Fed o del governatore della Banca d’Inghilterra.
Qui ha
iniziato a rendere la BCE una vera banca centrale e sé stesso un attore di
primo piano.
In primo luogo, Draghi ha usato il potere
carismatico per smuovere la Merkel e i mercati.
Secondo Nicolas Véron, uno dei principali
ricercatori sulla crisi dell’euro, Draghi ha giocato un ruolo storico come “il
capo pedagogo” che ha convinto la Cancelliera ad accettare un’unione bancaria
nel 2012.
“Questo
è dove Draghi eccelleva, ha detto Van Rompuy. “Aveva un grande potere
persuasivo: parlava chiaramente, al punto e con un’autorità naturale”.
Ha detto alla Merkel: questo è nell’interesse
della Germania ed è il minimo indispensabile che tu debba fare.
Questa
è la forza e i limiti della Draghipolitik.
È la politica, che a tutt’oggi, chi era nella
stanza all’epoca dice che lo mette estremamente a disagio: esporre i termini confusi
dell'”indipendenza” della banca.
L’Unione
Bancaria era solo la credibilità sufficiente per affermare che Berlino era
dietro l’Eurozona.
Poi
l’ha moltiplicata.
Vedere Draghi dire “tutto quello che serve” è
stato come vedere Hegel che guarda Napoleone a Jena.
“È
davvero una sensazione meravigliosa”, scrisse Hegel, “vedere un tale individuo,
che, concentrato in un solo punto, in sella a un cavallo, si protende sul mondo
e lo domina.”
Ma chi
era il cavaliere? Era Draghi? Era la Merkel? O sono stati i mercati?
Secondo
il filosofo politico Luuk van Middelaar, allora consigliere di Van Rompuy, quei
sedici secondi contengono tutto.
“Se
ascoltate attentamente, prima c’è il tecnocrate.
Lui
dice: ‘all’interno del nostro mandato’.
Poi,
c’è il politico, ‘qualunque cosa sia necessaria’.
E solo dopo, c’è l’autorità carismatica, ‘e
credetemi, sarà sufficiente’.
Ed è
questo che fa di lui il cavaliere”.
Il giorno dopo Hollande e Merkel hanno
confermato.
Aveva
aperto la strada alla BCE per sostenere i mercati del debito sovrano.
La sua
autorità carismatica aveva convinto i commercianti che dietro l’euro c’era il
potere: usando il minimo indispensabile.
Da
ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis ha avuto modo di conoscere
un’altra delle qualità politiche di Draghi: la spietatezza.
Visto
da Francoforte, un default greco seguito da un collasso bancario europeo
incombeva a meno che Atene non riuscisse a prendere in mano la situazione.
Quando
Atene ha cercato di far ricadere la colpa sui creditori, mettendo ai voti il
piano di salvataggio nel 2015, Draghi ha segnalato che avrebbe interrotto
l’assistenza di emergenza alle sue banche.
“Il
liberi tutti contro di noi è stato guidato da Mario Draghi”, ha ricordato
Varoufakis nella sua autobiografia.
Era la politica delle regole dell’UE nella sua
forma più brutale.
Ma
punendo gli Stati più scialacquatori dell’UE con salvataggi basati
sull’austerità, ha conquistato la fiducia di Berlino per continuare la Draghipolitik.
Infine,
Draghi ha padroneggiato il potere analitico: cioè la politica dei numeri.
Nei
powerpoint del Consiglio direttivo, Giuseppe Ragusa, ex senior economist della
Bce, lo ha visto superare la resistenza della frugale Bundesbank per lanciare le
quantitative easing nel 2014.
“Il modo in cui è riuscito a convincere la
gente a fare quello che ha fatto”, ha detto Ragusa, “è stato spostare il
dibattito politico dalla politica ai numeri reali”.
Questi
incontri hanno cambiato nuovamente il capitalismo europeo.
I mercati genuinamente liberi, che si erano
aperti negli anni ’70 con l’eliminazione dei controlli sui capitali, si
chiusero.
Il
capitalismo diretto arrivò in Europa con la BCE che incentivò i mercati a
comprare asset più rischiosi comprando oltre 2,8 trilioni di dollari di asset
più sicuri entro il 2018.
È stato l’atto estremo di intervento senza
ridistribuzione.
Draghi era convinto che altrimenti l’euro non
sarebbe sopravvissuto alla deflazione e a una terza recessione.
Ma i
suoi errori avevano peggiorato proprio il problema che stava cercando di
risolvere con l’austerità, prolungando il dolore a Sud.
Un
sussurratore, un esecutore, un addetto ai numeri. Queste non sono le qualità
che ci si aspetta da un grande uomo.
Ma questo è fraintendere come funziona l’UE.
La sua
macchina è stata costruita per depoliticizzare la politica, e quelli che lo
fanno meglio, prosperano.
Il
burocrate senza pretese diventa Napoleone.
Attraverso
la Merkel, i media e i dati, la Draghipolitik ha sconfitto Jens Weidmann, il
capo della Bundesbank.
“Draghi
considerava Weidmann il suo nemico personale”, ha detto De Benedetti. Si
trattava per lo più di una relazione gelida.
Ma una volta a cena, racconta l’amico
Salvatore Bragantini, la moglie Maria Serenella Cappello si è lasciata sfuggire
la cosa:’
’Così
lei è il nemico di mio marito’, disse, prendendolo alla sprovvista”.
Mentre
la crisi rendeva lo Stato più dipendente dalla finanza, la finanza diventava
più dipendente dallo Stato.
E uomini come Draghi sono stati centrali in
questo.
Queste
vittorie rivelano un’enorme abilità.
Hanno
trasformato la BCE in un’istituzione ancora più potente della Banca
d’Inghilterra.
Ma
sottolineano anche quanto la sua generazione abbia sbagliato.
Avevano
scommesso su una casa costruita a metà per l’Europa come chiave per la
stabilità.
Ma
un’unione monetaria senza un’unione fiscale ha portato instabilità.
Avevano
scommesso sul fissare regole neoliberali per il capitalismo e fare un passo
indietro: ed è saltato tutto.
Avevano scommesso sull’austerità: e hanno
affrontato una depressione.
Questi errori li hanno resi – l’élite dei banchieri
centrali del mondo che poi hanno dovuto sistemare tutto – più potenti della
maggior parte dei politici.
Nel
suo breve pensionamento dopo il 2019, Draghi ha passato molto del suo tempo al
telefono.
Ha
chiamato presidenti passati o presenti: Bill Clinton, Emmanuel Macron.
O gli altri superuomini che hanno guidato le
banche centrali nella crisi: Ben Bernanke, ex della Fed; Mark Carney, ex della
Banca d’Inghilterra, o Stanley Fischer, che ha guidato la Banca d’Israele.
“È
l’unico uomo in Italia che può chiamare chiunque nel mondo”, ha detto De
Benedetti.
Ha
costruito la sua carriera attraverso le reti.
E la
sua ricchezza: la casa a Roma, una in Umbria, una sulla costa laziale e una
nuova villa in Veneto.
Per
tutta la vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato.
Ma allo stesso tempo, la sua più grande
scommessa, quella che aveva promesso all’Italia – il vincolo esterno – è
fallita.
Ha
fallito la componente geopolitica: non ha aiutato a gestire la potenza tedesca.
Ha fallito la componente economica: l’Italia ha mantenuto uno dei regimi
fiscali più duri d’Europa, con un avanzo primario quasi ogni anno dal 1995.
Eppure il paese è diventato più povera.
Nel
2000, il suo tenore di vita medio era il 98,6% di quello della Germania.
Oggi,
il reddito pro capite italiano è del 20 per cento inferiore a quello
d’oltralpe. Queste sono le conseguenze a lungo termine dell’austerità, delle
riforme interrotte e dell’euro che rende le esportazioni non competitive.
Il debito che l’Italia ha accumulato negli
anni ’80 è diventato il suo albatros.
La crescita promessa da Draghi non è mai arrivata.
Per
tutta la vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato.
Ma
allo stesso tempo, la sua più grande scommessa, quella che aveva promesso
l’Italia – il vincolo esterno – è fallita.
E nel
suo stesso successo, anche la politica ha fallito. I politici populisti e le
coalizioni che flirtano con l’euro exit non sono riusciti a sfuggire all’ordine
di Draghi.
Ma
l’Italia è stata intrappolata in un ciclo di populisti sempre più deboli,
punteggiato da deboli tecnocrati.
Entrambi
hanno fallito alle loro condizioni.
Con le
ricette per far ripartire la crescita fuori dalle loro mani, i politici a Roma
si impadroniscono della politica dell’identità, non delle riforme.
La
crescita è soffocata. Il governo è debole.
Ciò di
cui l’Italia aveva bisogno erano dei leader forti, dopo tutto.
L’Italia
è passata dal paese delle Brigate Rosse a un paese per vecchi.
L’industria
italiana, il calcio italiano e il cinema italiano sono in declino.
Una
generazione intera di italiani ambiziosi è tornata ad emigrare.
Nel
2010, il programma televisivo di culto Boris ha catturato l’umore amaro: “Questo è il futuro dell’Italia”,
dice un regista in una battuta ormai iconica. “Un paese di musichette, mentre
fuori c’è la morte”.
All’inizio
della pandemia la stessa storia ha ripreso ad accadere.
Ma
questa volta, Macron ha convinto la Merkel a fare un passo indietro rispetto
alle sue linee rosse più profonde – la condivisione del debito dell’UE.
La Germania ha acconsentito a una decisione
eccezionale di 750 miliardi di euro di prestiti Covid e sovvenzioni per la
ripresa.
In
modo significativo, il successo di Macron è arrivato solo quando ha smesso di
essere più simile al greco Yanis Varoufakis, con discorsi alla Sorbona che
enfatizzavano il suo mandato, e ha abbracciato la Draghipolitik per smuovere
Berlino.
È stata una svolta decisiva nelle manovre
contro l’Europa frugale che Draghi aveva iniziato.
Ma
l’Italia non è solo un paese per vecchi: è il paese, sembra, per sempre gli
stessi uomini.
Ancora
un’ultima volta, è stato pronto quando un altro uomo ha sbagliato.
“Da quando ha lasciato la BCE, il fantasma di
Draghi aleggiava sull’Italia”, ha detto una fonte. “È stato dopo la questione
del Piano di ripresa che si è interessato a un ritorno in politica”.
Telefonate
al presidente; telefonate a Renzi; telefonate a Berlusconi; quando il governo
di Giuseppe Conte è imploso, Draghi ha avuto un’idea.
Sarebbe
stato un primo ministro tecnocratico: ma con una svolta – un gabinetto
prevalentemente politico che coinvolgeva tutti i partiti tranne la destra più
estrema.
Si offriva come soluzione al problema che il
vincolo esterno aveva alimentato: politici deboli e incapaci di guidare il
paese. Erano felici di usarlo.
“La
verità”, ha detto lo storico Marcel Gauchet, “è che gli europei non sanno cosa
hanno costruito”.
Questo è ciò che le fatiche di Draghi
rivelano.
Come europei, la sua generazione ha costruito
una casa a metà per l’Italia.
L’euro significa che non si può tornare a
modelli nazionali di gestione economica, svalutazione e default.
Ma
anche la strada in avanti, verso una riduzione del debito, trasferimenti e
unione fiscale, è bloccata.
Bloccata,
la politica dei mandati popolari non funziona: l’unica politica che sembra in
grado di farlo è la Draghipolitik.
Dopo
essersi alzato in piedi con una mascherina sul volto in Parlamento, il
tecnocrate senza partito – ma padrone della politica – osserva la sua
coalizione di sei partiti che va dai populisti di destra della Lega a frammenti
dell’estrema sinistra. Vede anche la sua occasione storica.
Nessuno
sa meglio di lui che la vera politica dell’Europa è la politica del debito
dell’Eurozona.
Ecco
perché Bruxelles e Parigi osservano ora Draghi con attenzione.
Riuscirà
a investire con successo i 200 miliardi di euro dell’Italia del fondo di
ripresa?
“Il Primo ministro vede così la sua missione
economica”, dice un alto funzionario italiano.
“Sta cercando di dimostrare come il nuovo
debito comune del fondo di ripresa possa riavviare la crescita italiana.
Draghi ha fatto il caso di un forte sostegno
fiscale per affrontare i rischi futuri nella zona euro”.
Spendere
saggiamente il denaro è la sua strada per rendere il fondo quel sostegno
permanente.
Se
riuscirà a tenere insieme la sua coalizione, Draghi può governare in questo
modo fino alle prossime elezioni previste nel 2023.
Ma prima di allora, quando il mandato di
Mattarella scadrà l’anno prossimo, ci si aspetta che punti alla presidenza.
“Questo è stato a lungo il ruolo che avrebbe
preferito”, ha detto una fonte.
Più
che un ruolo cerimoniale, con i poteri di formazione della coalizione che si
aprono nel sistema Italia, gli permetterebbe di essere il vincolo interno.
Un
crollo dell’euro è ormai improbabile. Questa è la sua eredità.
Il
rischio che l’Europa affronta ora è che il sistema Euro – la casa incompiuta –
faccia lentamente all’UE nel suo complesso quello che ha fatto all’Italia,
mettendola su una traiettoria di crescita permanentemente più bassa.
L’UE ha bisogno di un debito collettivizzato per un
maggiore stimolo collettivo.
Ma gli
eredi della Merkel saranno d’accordo?
Con
tutte le implicazioni per la sovranità di quella che è in definitiva un’unione
di trasferimenti?
Finché
qualcuno non riuscirà a fare il prossimo doloroso passo di consolidamento, il
rischio è che l’Unione continui a perdere la battaglia per la globalizzazione.
Draghi mostra cosa è possibile.
Dopo
essersi alzato in piedi con una mascherina sul volto in Parlamento, il
tecnocrate senza partito – ma padrone della politica – osserva la sua
coalizione di sei partiti che va dai populisti di destra della Lega a frammenti
dell’estrema sinistra. Vede anche la sua occasione storica. Nessuno sa meglio
di lui che la vera politica dell’Europa è la politica del debito dell’Eurozona.
Ma il
prezzo della Draghipolitik è questo: un consolidamento senza democrazia.
Élite potenziate con elettori alienati.
Una politica che solo uomini come lui possono
giocare.
Il
che, indebolendo i partiti e l’importanza delle elezioni, rende l’unica altra
via per arrivare a un’Europa migliore, un movimento transnazionale e
democratico per un’Eurozona più giusta, ancora meno praticabile.
La Draghipolitik può offrire un percorso verso
una soluzione tecnocratica, ma aggrava il problema politico.
Oggi
Draghi è seduto sullo zeitgeist: promettendo di avviare l’uscita dell’Italia
dal neoliberismo, il suo più recente pensiero fiscale si allinea perfettamente
alla Bidenomics.
Ma non
basta.
Ora ha bisogno di fare l’opposto di quello che
si era prefissato di fare all’inizio: favorire una nuova generazione di
politici forti che gli succedano.
Solo
questo può rompere il ciclo che sta indebolendo l’Italia.
Draghi
ama citare Il Gattopardo, il grande romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa su
un nobile siciliano che si adatta alla vita in una nuova Italia unita da Cavour
e Garibaldi.
“Tutto deve cambiare perché tutto rimanga
uguale”, è l’ironica massima citata più volte. Eppure, alla fine del romanzo,
l’Italia unita è davvero arrivata.
Ma
cos’è questa Europa?
Questo sistema, quello di Draghi, è un sistema
che si è spoliticizzato per sopravvivere.
Ed è
sopravvissuto. Ma a costo di non saper più distinguere tra stabilità e
stagnazione.
Un sistema che sa fare solo il minimo
indispensabile. Non tutto il necessario.
I
cambiamenti climatici esistono,
e i
ghiacci si stanno alzando, però...
msn.com
– Esquire – (17-04-2023) - Bret L. Stephens – ci dice:
(The
New York Times)
Il
nostro futuro è strettamente legato ai cambiamenti climatici.
E il rapporto speciale dell’”Intergovernmental
Panel on Climate Change delle Nazioni Unite “ci mette in guardia:
la temperatura del pianeta avrà un ruolo
cruciale ed è fondamentale - affrontando una serie di trasformazioni complesse
e connesse - limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era
pre-industriale.
Oggi siamo a quota + 1 °C, e se continueremo a
emettere gas serra ai ritmi attuali, raggiungeremo +1,5 °C nel 2040.
Tra
gli effetti più visibili, la perdita di ghiaccio artico è drammaticamente
spettacolare.
L’autore di questo reportage è un
editorialista del New York Times noto per le sue posizioni negazioniste e
polemiche sul global warming.
Un
viaggio tra gli iceberg in Groenlandia - dove ha potuto constatare quanto
drastici siano i cambiamenti in corso - gli ha fatto cambiare idea.
Rafforzando
la sua convinzione che i mercati, e non i governi, siano la vera cura.
È una
limpida giornata d’agosto quando un elicottero fa scendere me e alcuni compagni
sull’estremità settentrionale del ghiacciaio “Jakobshavn” nella Groenlandia
occidentale, circa 240 chilometri a nord del Circolo Polare Artico.
Il terreno sotto i nostri piedi sembrava quasi
lunare: limo e polvere grigi, rocce e massi in frantumi e, al margine della
parete del ghiacciaio, un fango così profondo che quasi mi mangiava gli
stivali.
A sud,
il fronte di distacco del ghiacciaio noto in groenlandese come “Sermeq Kujalleq”
depositava regolarmente enormi lastre di ghiaccio, alcune alte più di 30 metri,
nel mare aperto.
Chiesi al pilota di darmi un’idea di quanto il
ghiacciaio si fosse ritirato da quando volava su quella sulla rotta.
Mi
indicò una lontana isola rocciosa nel mezzo del fiordo.
«È lì
che si trovava il ghiacciaio nel 2007», rispose.
Nel
corso del XX secolo, il ghiacciaio “Jakobshavn” si è ritirato di circa 10-15
chilometri.
Secondo
l’oceanografo Josh Willis del “Jet Propulsion Laboratory della Nasa”, negli
otto anni successivi si è ritirato all’incirca di altrettanti chilometri.
In
seguito, il fronte è avanzato un po’ - in funzione di dinamiche complesse che
coinvolgono in parte le correnti oceaniche - prima di riprendere la sua
ritirata.
Per
chiunque abbia avuto dei dubbi sul riscaldamento del pianeta, un viaggio in
Groenlandia è un corroborante correttivo.
Sorvolando
a bassa quota la vasta calotta glaciale che ricopre la maggior parte
dell’isola, ho notato immediatamente grandi specchi d’acqua cerulea di fusione
e decine di corsi d’acqua che scorrono attraverso canaloni di ghiaccio bianco e
talvolta scompaiono in caverne di ghiaccio verticali profonde migliaia di
metri.
Secondo
gli scienziati, questi laghi sono diventati molto più comuni negli ultimi due
decenni e, rispetto al passato, durante l’anno si formano prima e a quote più
elevate.
L’anno
scorso ha persino piovuto nel punto più alto della calotta glaciale, circa 800
chilometri a nord del Circolo Polare Artico.
È la
prima volta da quando si sono iniziati a registrare i dati negli anni Ottanta.
Più
vicino alla costa, nel punto in cui la calotta si avvicina alle montagne scure
che circondano l’isola, si trova una caratteristica linea beige di terra
sterile, larga da centinaia a migliaia di metri.
Così
come le linee scure - simili a quelle che restano nelle vasche da bagno - che
si vedono nei laghi e nei bacini idrici esauriti dell’Ovest americano, questa
linea mostra dove arrivava il ghiaccio e quanto si è ritirato.
La
storia racconta anche che i grandi esploratori della Groenlandia del XIX secolo
- uomini come il norvegese “Fridtjof Nansen” e l’americano “Robert Peary” -
dovettero scalare ripide pareti glaciali solo per raggiungere la calotta
stessa.
Oggi è facile individuare i punti in cui il
ghiaccio incontra la terraferma su un terreno pianeggiante.
E poi, c’è la testimonianza del mercato.
Nella
città costiera di “Ilulissat” ho cenato con “Bo Møller Stensgaard”, geologo e
amministratore delegato di “Bluejay Mining”, che intende estrarre rame, nichel,
cobalto, zinco e ilmenite.
Il
ritiro della calotta glaciale ha aperto ulteriori territori per l’esplorazione,
spiega “Stensgaard”, e il clima più caldo ha allungato la stagione in cui le
navi possono raggiungere l’isola senza il rischio di rimanere intrappolate nel
ghiaccio.
«Posso mettere le persone sul campo più a
lungo», aggiunge.
Avendo
trascorso lunghi mesi in tenda per svolgere lavori geologici sul campo, vede la
trasformazione in atto non solo come imprenditore, ma come testimone.
«Ho
visto ghiacciai scomparire completamente», racconta.
«Ho visto orsi polari morire di fame a causa
della scomparsa del ghiaccio marino. Sono cambiamenti che personalmente trovo
inquietanti».
Ma poiché i minerali che spera di estrarre sono
fondamentali per qualsiasi futura transizione energetica green, il cambiamento climatico sta
creando in Groenlandia anche l’occasione per affrontare il motivo dello scioglimento
dei ghiacci.
Come
sono arrivato.
Per
anni non mi sono visto come un negazionista del riscaldamento globale (un modo
di dire pesante, che riecheggia in modo tendenzioso il negazionismo
dell’Olocausto), ma piuttosto come un agnostico sulle cause del cambiamento
climatico e come uno scettico rispetto all’idea che si tratti di una minaccia
catastrofica per il futuro dell’umanità.
Non è
che mi opponessi in modo assoluto all’idea che, pompando anidride carbonica
nell’atmosfera, la civiltà moderna stesse contribuendo al riscaldamento di 1
grado e all’innalzamento del livello del mare che il pianeta aveva sperimentato
fin dagli albori dell’era industriale.
È che la gravità della minaccia mi sembrava
esagerata e le cure proposte sapevano tutte di statalismo vecchio stile misto a
religione new-age.
Non
abbiamo forse già vissuto precedenti allarmi su altre presunte catastrofi
ambientali imminenti che non si sono verificate, come la convinzione, diffusa
negli anni ’70, che la sovrappopolazione avrebbe inevitabilmente portato alla
fame di massa?
E se
la Rivoluzione verde (evoluzione dell’agricoltura avvenuta nella seconda metà del
XX secolo, ndr) ci ha risparmiato da quell’incubo malthusiano, perché non dovremmo avere
fiducia che l’ingegno umano non sia in grado di impedire anche la sfilza di
orrori che il cambiamento climatico dovrebbe provocare?
Avevo
anche altri dubbi.
Mi
sembrava arrogante, o peggio, fare scommesse politiche da miliardi di dollari
basandosi su modelli computerizzati che cercavano di prevedere i modelli
climatici con decenni di anticipo.
Gli
attivisti per il clima continuavano a promuovere politiche basate su tecnologie
tutt’altro che mature (energia solare) o talvolta attivamente dannose (biocarburanti).
I
costosi sforzi per ridurre le emissioni di gas serra in Europa e in Nord America
sembravano particolarmente infruttuosi quando la Cina, l’India e altri Paesi in
via di sviluppo non avevano intenzione di frenare il loro appetito per i
combustibili fossili.
C’era
anche un fervore millenaristico che mi infastidiva nell’attivismo per il clima,
con le sue immagini apocalittiche (la Statua della Libertà sott’acqua) e le minacce di sventura a meno che
non fossimo disposti a vivere in modo molto più frugale.
Questo
era il mio stato d’animo quando, nell’aprile 2017, ho scritto la mia prima rubrica
per il “New York Times”, "Climate of Complete Certainty".
Il
contraccolpo è stato intenso. Gli scienziati del clima mi hanno denunciato con
lettere aperte; sono state diffuse petizioni che chiedevano il mio
licenziamento. La reazione ha soprattutto rafforzato la mia convinzione che gli
attivisti del clima fossero colpevoli proprio di ciò che li accusavo: un’auto
certezza intellettuale che spesso è una ricetta per il disastro.
Tra i
firmatari di una petizione c’era un oceanografo, “John Englander”, che gestisce
un gruppo educativo e di salvaguardia, il “Rising Seas Institute”.
Due
anni dopo, durante una visita a New York, mi scrisse all’improvviso e mi chiese
di incontrarlo.
A differenza della maggior parte dei miei
detrattori, il suo biglietto era così cordiale che mi sembrò scortese dire di
no.
Ci incontrammo il giorno dopo.
“Englander”
è un uomo di 72 anni, elegante, affabile ed eloquente, che in passato ha
diretto la “Cousteau Society” e che mi ricorda un “Patrick Stewart” barbuto,
anche se con accento americano.
Il suo
discorso era semplice: le coste che abbiamo dato per scontate per migliaia di
anni di storia dell’umanità sono cambiate rapidamente in passato a causa di
forze naturali - e presto sarebbero cambiate rapidamente e in modo disastroso a
causa di quelle create dall’uomo.
Un
viaggio in Groenlandia, che conserva un ottavo dei ghiacci del mondo sulla
terraferma (la maggior parte del resto è in Antartide), mi avrebbe mostrato
quanto drastici siano stati questi cambiamenti.
Mi
sarei unito a lui?
Pure
in questo caso, mi sembrava scortese dire di no (anche se la pandemia avrebbe
ritardato il mio viaggio di due anni).
Più
precisamente, se la mia principale obiezione agli attivisti del clima era la
netta impressione della loro smodata certezza, non era forse il caso di
verificare la mia? Che male c’era - a parte il rischio di cambiare idea - nel
mettere alla prova le mie opinioni?
Il
passato predice il futuro?
Viste
da un aereo di linea, le caratteristiche più evidenti della Groenlandia
sembrano essere la sua vastità e il suo vuoto inespressivo, che mi hanno fatto
venire in mente un verso della poesia di “Robert Frost Desert Places”:
"Un biancore più vuoto di neve smarrita /
Senza espressione, niente da esprimere".
È stato solo quando sono arrivato alla calotta
in sé che ho capito che la frase non poteva essere meno azzeccata.
Intrappolata
nel bianco c’era una storia sul lontano passato e sul potenziale futuro del
mondo.
La
Groenlandia è grande quanto l’Alaska e la California messe insieme e, tranne
che sulle sue coste, è coperta da ghiacci che in alcuni punti hanno uno
spessore di quasi tre chilometri.
Anche questa è solo una frazione del ghiaccio
dell’Antartide, che è più di sei volte più grande.
Ma l’Artico si sta riscaldando a un ritmo
quasi quattro volte superiore alla media globale, il che significa che i
ghiacci della Groenlandia rappresentano anche un rischio a breve termine,
perché si stanno sciogliendo più rapidamente.
Se
tutti i suoi ghiacci dovessero sciogliersi, il livello globale del mare si
innalzerebbe di circa 6 metri.
Questo
sarebbe più che sufficiente per inondare centinaia di città costiere in decine
di nazioni, da Giacarta, Indonesia, e Bangkok, in Thailandia, a Copenaghen,
Danimarca.
E poi
Amsterdam, Miami e New Orleans.
Ma a
che velocità, di preciso, si stanno sciogliendo i ghiacci della Groenlandia?
È un’emergenza del nostro tempo o un problema
del futuro?
Misurare
la perdita di ghiaccio su scala così vasta non è un compito facile, poiché la
Groenlandia, come un miliardario spendaccione, accumula e rilascia
costantemente quantità di ghiaccio quasi imperscrutabili per lunghi periodi di
tempo.
Ma gli
scienziati hanno prelevato campioni di ghiaccio dalla Groenlandia per decenni,
ricavando così un’idea molto precisa dei cambiamenti climatici avvenuti nel
corso di migliaia di anni.
Inoltre, un paio di satelliti che rilevano le
anomalie nei campi gravitazionali della Terra effettuano regolarmente
misurazioni della calotta da quasi 20 anni, dando agli scienziati un’idea molto
più precisa di ciò che sta accadendo.
E i dati mostrano inequivocabilmente che i
ghiacci della Groenlandia non sono in equilibrio.
Sta
perdendo molto più di quanto stia guadagnando.
A
Copenaghen, prima della mia partenza per la Groenlandia, ho chiacchierato con “Liam
Colgan”, un climatologo ricercatore canadese del Servizio geologico della
Danimarca e della Groenlandia.
«Non abbiamo avuto un anno con un bilancio di
massa positivo dalla fine degli anni ’90», mi ha detto in un’e-mail quando gli
ho chiesto di spiegarmi i dati.
Le perdite possono variare notevolmente da un
anno all’altro.
La media annua degli ultimi 30 anni, ha
aggiunto, è di 170 gigatoni all’anno (un gigatone corrisponde a un miliardo di
tonnellate, ndr).
Ciò
equivale a circa 5.400 tonnellate di perdita di ghiaccio al secondo.
Questo «suggerisce che la perdita di ghiaccio
della Groenlandia ha seguito lo scenario peggiore prefigurato dell’IPPC, quello
con le più alte emissioni di carbonio» (l’Intergovernmental Panel on Climate
Change è
l’organismo delle Nazioni Unite che valuta i cambiamenti climatici).
Tuttavia,
è difficile prevedere con precisione cosa significhi.
«Chiunque
dica di sapere quale sarà il livello del mare nel 2100, sta facendo un’ipotesi
approssimativa», ha detto “Willis” della Nasa.
«Il fatto è che stiamo assistendo allo
scioglimento di queste grandi distese di ghiaccio per la prima volta nella
storia, e non sappiamo quanto velocemente possano andare avanti».
La sua
stessa ipotesi:
«Entro il 2100, probabilmente ci troveremo di
fronte a perdite di più di un piede (che equivale a 30-40 centimetri) o due e,
auspicabilmente, a meno di 7 o 8 piedi. Ma stiamo lottando per capire quanto
velocemente possano sciogliersi le calotte glaciali.
Quindi
l’estremo superiore del range non è ancora ben noto».
A
prima vista, tutto questo sembra gestibile.
Anche
se il livello del mare dovesse aumentare di due metri e mezzo, il mondo non
avrà forse quasi 80 anni per affrontare il problema, durante i quali le
tecnologie che ci aiutano a mitigare gli effetti del cambiamento climatico e ad
adattarci alle sue conseguenze faranno probabilmente passi da gigante?
Il
mondo, compresi i Paesi oggi poveri, non diventerà forse molto più ricco e
quindi più in grado di far fronte a inondazioni, ondate e super tempeste?
“Englander”
non è affatto ottimista.
Secondo
le sue stime, il tasso medio di innalzamento del livello del mare nel mondo è
più che triplicato negli ultimi tre decenni, passando da 1,5 millimetri
all’anno a 5 millimetri.
Può
sembrare un’inezia, ma come il mondo ha imparato durante la pandemia, gli
aumenti esponenziali possono colpire duramente.
«Quando
qualcosa segue una linea retta o una curva regolare, è possibile tracciarne la
traiettoria», ha detto “Englander”.
«Ma il
livello del mare, come i terremoti e gli smottamenti, è qualcosa che avviene in
modo irregolare e può cambiare piuttosto rapidamente, sorprendendoci. Il punto
è che non si può più prevedere il futuro in base al recente passato».
Un
altro grande jolly è l’Antartide, dove il tasso medio di perdita di massa di
ghiaccio è di oltre 150 gigatoni all’anno.
Poco
dopo il mio ritorno dalla Groenlandia, un ghiacciaio nell’Antartide occidentale
chiamato “Thwaites”, grande all’incirca come la Florida, ha attirato
l’attenzione del mondo quando uno studio ha suggerito che, come afferma uno dei
coautori, “Robert Larter del British Antarctic Survey”, «oggi si regge con le
unghie».
Non è
come un asteroide.
Era
forse allarmismo?
Nelle
pagine editoriali del “Wall Street Journal”, dove lavoravo, il fisico teorico “Steven
Koonin”, ex sottosegretario alla “Scienza” del Dipartimento dell’Energia
dell’amministrazione Obama, ha messo in dubbio la minaccia di “Thwaites “con
una voce che avrebbe potuto essere la mia.
Egli
ritiene inoltre che i rischi associati allo scioglimento della Groenlandia non
siano tanto il prodotto del riscaldamento globale indotto dall’uomo, quanto
piuttosto dei cicli naturali delle correnti e delle temperature dell’Atlantico
settentrionale, che nel tempo hanno poi la tendenza a regredire verso la media.
«Molti
report sul clima oggi mettono in evidenza i cambiamenti a breve termine quando
si adattano alla narrazione di un clima in crisi, ma ignorano o minimizzano i
cambiamenti quando non lo fanno, spesso liquidandoli come 'solo questioni
meteo'», ha scritto a febbraio.
Un
altro non-allarmista del clima è “Roger Pielke Jr”., professore di studi
ambientali all’Università del Colorado, Boulder.
Definisco
Pielke un non-allarmista piuttosto che uno scettico perché riconosce
prontamente che le sfide associate al cambiamento climatico, compreso
l’innalzamento del livello del mare, sono reali, serie e probabilmente
inarrestabili, almeno per molti decenni.
Ma questa è anche la fonte del suo (relativo)
ottimismo. «Se dobbiamo avere un problema», mi ha detto quando l’ho raggiunto
al telefono, «probabilmente ne vogliamo uno che abbia un’insorgenza lenta, che
possiamo vedere arrivare. Non è come un asteroide che arriva dallo spazio».
Tra le
aree di competenza di “Pielke” vi è l’analisi delle tendenze a lungo termine
delle catastrofi meteorologiche e climatiche.
Anche se il costo nominale di uragani,
inondazioni, incendi e siccità è cresciuto, l’impatto economico di questi
disastri rispetto alle dimensioni complessive dell’economia continua a
diminuire, grazie al miglioramento delle previsioni, delle infrastrutture,
della pianificazione e della capacità di reazione in caso di calamità - tutti
fattori che, a loro volta, sono il risultato del massiccio aumento della
ricchezza di cui il mondo ha goduto nell’ultimo secolo.
«Dagli
anni ’40, l’impatto delle inondazioni in proporzione al Prodotto interno lordo
degli Stati Uniti è diminuito di oltre il 70%», ha detto Pielke.
«Lo vediamo in tutto il mondo, in tutti i
fenomeni.
I fatti sono che muoiono meno persone e i
danni sono minori in proporzione al Pil».
Una
notevole quantità di dati dà ragione a “Pielke”.
Negli anni Venti del secolo scorso, il numero
medio stimato di morti per catastrofi naturali in tutto il mondo era di oltre
500mila all’anno.
Le
sole inondazioni del 1931 in Cina uccisero ben 4 milioni di persone non solo
per annegamento, ma anche per assideramento, malattie e carestia.
Un esempio più recente: il ciclone Bhola del 1970, ha ucciso
ben 500mila persone in quello che oggi è il Bangladesh.
Negli
anni Dieci del Duemila, la media annuale dei decessi è stata inferiore a
50mila, un decimo di quella di un secolo fa.
L’uragano Ian, tra le tempeste più forti che abbiano
mai colpito la Florida, ha avuto un bilancio di almeno 119 morti, una piccola
frazione degli 8mila che si ritiene siano stati uccisi dal grande uragano di
Galveston del 1900.
Anche
i Paesi più poveri, pur rimanendo inaccettabilmente vulnerabili, stanno subendo
perdite umane ed economiche di gran lunga inferiori a causa dei disastri legati
al clima.
Il
riscaldamento globale è reale e sta peggiorando, ha detto “Pielke”, ma è
comunque possibile che l’umanità sia in grado di adattarsi e compensare i suoi
effetti.
Come
curare il cancro. O forse no. Qualche anno fa, avrei trovato convincenti voci
come quelle di Koonin e Pielke.
Ora ne sono meno sicuro. Ciò che è intervenuto nel frattempo è
stata una pandemia.
Così
come un tempo avevo scartato l’idea di una catastrofe climatica, per ragioni
quasi identiche avevo anche scartato le previsioni di un’altra pandemia
catastrofica alla stregua dell’epidemia di influenza del 1918-20.
Dopotutto,
non avevamo superato i precedenti allarmi relativi a Ebola, Sars, Mers e
malattia della mucca pazza senza immense perdite di vite umane?
La
virologia, la ricerca sulla salute pubblica, l’igiene pubblica, lo sviluppo di
farmaci e la medicina non avevano fatto molta strada dalla fine della Prima
Guerra Mondiale, rendendo i paragoni con le pandemie passate per lo più privi
di senso?
È
quello che ho pensato fino alla primavera del 2020, quando, come tutti, ho
sperimentato quanto la natura possa travolgere rapidamente e implacabilmente
anche le società più ricche e tecnologicamente avanzate.
È stata una lezione di umiltà intellettuale
che ho raccomandato agli altri e che ho iniziato a capire di poter usare di più
su me stesso.
È
stata anche una lezione di riflessione sui rischi, in particolare quelli della
categoria nota come "eventi ad alto impatto e bassa probabilità", che sembrano colpirci con
regolarità in questo secolo:
gli
attentati dell’11 settembre, gli tsunami del 2004 e del 2011 e le rivolte di
massa nel mondo arabo iniziate con l’autoimmolazione di un venditore ambulante
tunisino.
Ecco
alcune delle domande che mi hanno attanagliato: e se il passato non fosse in
grado di prevedere il futuro?
E se i
rischi climatici non evolvessero in modo graduale e relativamente prevedibile,
ma si impennassero improvvisamente in modo incontrollato?
Quanto
tempo è necessario per affrontare un fenomeno come l’innalzamento del livello
del mare? Come
valutare i rischi di una reazione insufficiente al cambiamento climatico
rispetto a quelli di una reazione eccessiva?
Ho
chiamato “Seth Klarman”, uno dei gestori di “hedge fund “di maggior successo al
mondo, per
riflettere sulla questione del rischio.
Pur
non essendo un esperto di cambiamenti climatici, ha trascorso decenni a
riflettere profondamente su ogni tipo di rischio.
È anche una delle rare persone con la capacità
di cambiare idea, anche, come lui stesso riconosce, sul rischio climatico.
«Ho parlato con così tanti esperti e ho visto
così tante prove», mi ha detto su Zoom, «che sono convinto che il clima stia
cambiando, e affrontare il cambiamento climatico è diventata una mia priorità
filantropica».
«Se ci
si trova ad affrontare qualcosa di potenzialmente esistenziale», ha spiegato,
«esistenziale per le nazioni, persino per la vita così come la conosciamo,
anche se si pensa che il rischio sia, ad esempio, del 5%, ci si vuole
proteggere».
Come?
«Una
cosa che cerchiamo di fare», ha detto, «è acquistare una protezione quando è
davvero poco costosa, anche quando pensiamo di non averne bisogno».
Le
forze che contribuiscono al cambiamento climatico, hanno osservato, facendo eco
a “Englander”, «potrebbero essere irreversibili prima che i danni del
cambiamento climatico siano diventati pienamente evidenti.
Non si
può dire che è lontano e aspettare quando, se si fosse agito prima, si sarebbe
potuto affrontare il problema meglio e con meno costi. Dobbiamo agire ora».
In
altre parole, un grammo di prevenzione vale un chilo di cura. Questo è particolarmente vero se
paragoniamo il cambiamento climatico a un cancro: gestibile o curabile nelle
fasi iniziali, disastroso in quelle successive.
Agire
in modo efficace non sarà facile.
Quando
ho cenato con “Stensgaard”, il dirigente minerario, ha citato una statistica
che mi ha stupito.
Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, per
raggiungere l’obiettivo di zero emissioni di anidride carbonica entro il 2050,
entro il 2040 dovremo estrarre sei volte le quantità attuali di minerali
critici - nichel, cobalto, rame, litio, manganese, grafite, cromo, terre rare e
altri elementi - necessari per i veicoli elettrici, le turbine eoliche e i
pannelli solari.
E
quasi certamente dovremo farlo da fonti diverse rispetto a Russia, Cina, Congo
e altri luoghi che presentano rischi strategici, ambientali o umanitari
inaccettabili.
Questa
dovrebbe essere un’ottima notizia per persone come “Stensgaard”, sempre a patto
che i groenlandesi siano disposti a seguirlo.
Dall’altra
parte della baia piena di iceberg, dove abbiamo cenato, si trova l’isola di Disko, due volte più grande di Long
Island, dove vivono circa mille persone. Secondo “Stensgaard”, si ritiene che
contenga da 12 a 16 milioni di tonnellate di nichel.
Per
mettere questa cifra in prospettiva, “Stensgaard” mi ha detto che, secondo una
stima, la miniera di nichel di Norilsk in Russia, una delle più grandi al
mondo, ha prodotto circa 8,3 milioni di tonnellate dagli anni Quaranta.
Un
mondo che si impegna a raggiungere lo zero netto avrà bisogno di molte più
isole Disko per soddisfare il suo fabbisogno di energia "pulita".
Ho
messo la parola "pulita" tra virgolette perché il termine è un
termine improprio.
Come
per ogni altra cosa nella vita, anche per l’ambiente non esiste un "pranzo
gratis".
Che si
tratti di nucleare, biocarburanti, gas naturale, idroelettrico o, sì, anche di
eolico e di solare, ogni forma di energia, se utilizzata su vasta scala,
presenta sempre gravi inconvenienti ambientali.
Una
singola turbina eolica di dimensioni industriali, per esempio, richiede in
genere circa una tonnellata di terre rare (metalli dalle straordinarie
proprietà magnetiche e conduttive, ndr) e tre tonnellate di rame, che sono
notoriamente distruttivi e sporchi da estrarre.
Inoltre,
come credo da tempo, nessuna soluzione di "energia pulita" ci libererà
facilmente dalla nostra schiacciante e, per ora, ineluttabile dipendenza dai
combustibili fossili.
Nessuno
centra il punto meglio di “Vaclav Smil”, l’eclettico canadese il cui ultimo
libro, “Come
funziona davvero il mondo”, dovrebbe essere una lettura obbligatoria per i politici e per
chiunque sia interessato a una discussione seria sulle potenziali soluzioni
climatiche.
Molte
persone tendono a pensare ai combustibili fossili soprattutto in termini di
trasporto, generazione di elettricità e riscaldamento.
Ma
quanto spesso consideriamo la necessità dei combustibili fossili nella
produzione di fertilizzanti azotati, senza i quali, ha osservato “Smil”, "sarebbe impossibile nutrire
almeno il 40% e fino al 50% dei quasi 8 miliardi di persone di oggi"?
È difficile immaginare la vita moderna
senza la plastica, ottenuta principalmente dagli idrocarburi etilene e
propilene, o l’acciaio, prodotto con carbone da coke e gas naturale, o il
cemento o l’asfalto.
Alcuni
critici rispondono alle argomentazioni di “Smil” con un tipo di ottimismo
eroico che sfiora il pensiero magico.
Perché, si chiedono, non possiamo fare di più
per coltivare il nostro cibo in modo biologico e distribuirlo e consumarlo
localmente?
L’unico
modo per farlo e per fare una differenza significativa per il clima è che
milioni di noi tornino a coltivare, accettando un mondo che può nutrire molte
meno persone.
Oppure
acclamano gli investimenti nell’energia eolica e solare senza considerare
adeguatamente che il semplice aumento dell’offerta di energia rinnovabile fa
ben poco per diminuire la continua domanda complessiva di combustibili fossili,
perché non abbiamo ancora risolto il problema dell’intermittenza:
il
sole non splende sempre, il vento non soffia sempre e non abbiamo capito come
immagazzinare l’energia extra nella scala necessaria.
Il
manifesto di questo tipo di pensiero magico è la Germania, che ha intrapreso
una storica “Energiewende” - "rivoluzione energetica" - per poi
fallire.
All’inizio
del secolo, la Germania ricavava circa l’85% della sua energia primaria dai
combustibili fossili.
Ora ne
ricava circa il 78%, una riduzione irrisoria se si considera che il Paese ha
speso ingenti somme per aumentare la quota di elettricità generata dalle fonti
rinnovabili.
Cosa è
andato storto?
Molte cose, non ultima la brusca decisione di
Angela Merkel di chiudere tutte le centrali nucleari tedesche subito dopo il
disastro di Fukushima del 2011.
Questo
ha costretto la Germania ad affidarsi maggiormente al carbone, al petrolio e al
gas esteri.
E ora
la stessa Germania ha affrontato l’inverno con la prospettiva di forniture
energetiche incerte da parte dei suoi ex partner di Mosca.
Le
cose potrebbero cambiare quando gli scienziati riusciranno a trovare una
soluzione tecnica al problema dell’accumulo di energia.
O quando i governi e gli attori locali
supereranno il loro “NIMBYismo” quando si tratterà di autorizzare e costruire
una grande rete energetica per spostare l’elettricità dal ventoso nord della
Germania al suo sud affamato di energia.
O
quando gli attivisti ambientalisti si renderanno conto della necessità
dell’energia nucleare, una delle poche fonti energetiche, insieme all’energia
idroelettrica, che combina affidabilità, densità energetica e assenza di
emissioni dirette di carbonio.
Fino
ad allora, anche se sono arrivato ad accettare il pericolo che corriamo, penso
che valga la pena di estendere la metafora del cancro un po’ di più: così come i trattamenti per il
cancro, quando funzionano, possono avere effetti collaterali terribili, lo
stesso si può dire dei trattamenti per il clima;
il
divario tra una diagnosi accurata e un trattamento efficace rimane tristemente
ampio. Il problema mi è diventato più chiaro, la soluzione no.
Il
capitalismo può essere la chiave.
Forse
- mi sono reso conto valutando le mie nuove preoccupazioni sul cambiamento
climatico - le mie convinzioni di sempre potrebbero fornire una soluzione:
guardare al mercato.
Il
modo in cui abbiamo affrontato altri problemi di vasta portata e persistenti ci
fornisce alcune lezioni.
Per
molti decenni, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Agenzia
statunitense per lo Sviluppo Internazionale e altre agenzie, straniere e
nazionali, hanno pompato trilioni di dollari in alcuni dei Paesi più poveri del
mondo, con piani di sviluppo ingegnosi che si sono sgretolati al contatto con
le realtà locali.
I
Paesi in via di sviluppo sono rimasti bloccati nelle trappole del debito, nella
corruzione alimentata dagli aiuti e in cicli debilitanti di dipendenza.
Solo
quando paesi come il Vietnam e la Cina si sono orientati verso un modello
diverso, di sviluppo dal basso verso l’alto e guidato dal mercato, centinaia di
milioni di persone sono state sottratte all’indigenza.
Oppure
consideriamo un altro dato notevole rilevato da “Smil”: negli Stati Uniti, la
differenza tra il consumo totale di acqua nel 1965 e nel 2015 è inferiore al
4%.
Nello
stesso arco di tempo, la popolazione è cresciuta di oltre il 60%.
Le
leggi, i regolamenti e la crescente consapevolezza ambientale hanno giocato un
ruolo importante. Così come la crescente urbanizzazione: un maggior numero di
persone che vivono in appartamenti significa meno prati da innaffiare.
Ma la
trasformazione più importante è avvenuta nell’agricoltura, che utilizza circa
il 70% delle riserve di acqua dolce del mondo.
Gli
agricoltori hanno gradualmente adottato sistemi di irrigazione a pioggia e a
goccia piuttosto che la più dispendiosa irrigazione a pioggia, non per
risparmiare acqua ma perché la tecnologia offriva rese più elevate e maggiori
margini di profitto.
L’Accordo
di Parigi del 2015, a cui l’amministrazione Biden ha aderito con tanto clamore,
fissa obiettivi molto ambiziosi per la riduzione dei gas serra, che esaltano le
credenziali ambientali dei governi che lo firmano.
Ma
l’accordo non prevede alcun meccanismo di applicazione e l’idea che Paesi come
la Russia, l’Arabia Saudita, la Cina e l’India (che sta diventando sempre più -
e non meno - dipendente dal carbone) raggiungano gli obiettivi dichiarati in
materia di emissioni è fantasiosa fino all’assurdo.
Eppure,
grazie alle forze di mercato, sono stati compiuti notevoli progressi in campo
ambientale.
In
questo secolo, le emissioni di anidride carbonica dell’America, per tutti i
tipi di combustibile, sono scese ben al di sotto di 5mila milioni di tonnellate
metriche all’anno, da un picco di circa 6mila milioni nel 2007, anche se il
nostro Pil corretto per l’inflazione è cresciuto di oltre il 50% e la
popolazione totale di circa il 17%.
Le
energie rinnovabili, in particolare l’energia eolica, hanno svolto un ruolo
importante.
Così come i mandati di efficienza.
Tuttavia,
il più grande fattore di riduzione delle emissioni dal 2005 al 2017 è stato il passaggio dal carbone al gas
naturale per la produzione di energia, poiché il gas produce circa la metà di
anidride carbonica rispetto al carbone.
Questo
è stato a sua volta il risultato della rivoluzione rappresentata dal fracking
nell’ultimo decennio, ferocemente contrastata da molti attivisti ambientali, che
ha reso gli Stati Uniti il più grande produttore di gas al mondo.
Come per l’energia nucleare, il fracking
comporta rischi ambientali reali (tra cui le emissioni di metano) che non
possono essere ignorati.
Ma chiunque sia interessato a soluzioni utili
che riducano significativamente le emissioni senza incorrere in costi enormi
deve evitare - come recita un famoso aforisma - di "fare del perfetto il
nemico del buono".
In
pratica, insistere sulla perfezione a tutti i costi spesso impedisce
l’attuazione di buoni miglioramenti.
A
lungo termine, è più probabile che si facciano progressi quando si adottano
soluzioni parziali che si adattano alla natura umana, e non grandi soluzioni
che la contrastano.
A volte queste soluzioni saranno di tipo
legislativo, almeno quando spingono, piuttosto che costringere, il settore
privato a muoversi nella giusta direzione.
Ma più
spesso verranno dal basso, sotto forma di innovazioni e pratiche testate sui
mercati, adottate dai consumatori e continuamente perfezionate dall’uso.
Potrebbero
non essere direttamente collegate al cambiamento climatico, ma possono comunque
avere un impatto positivo su di esso.
E probabilmente non si presenteranno sotto
forma di una grande idea, ma di migliaia di piccole idee il cui impatto
cumulativo si somma.
Lasciando
la Groenlandia.
La mia
ultima sera in Groenlandia ho fatto un giro in barca tra gli enormi iceberg che
si erano spinti fuori dall’”Icefjord di Ilulissat” e che ora cominciavano a
galleggiare liberi nelle acque profonde della baia di Disko.
Si ritiene generalmente che uno di questi
iceberg si sia diretto dalla baia verso un punto dell’Atlantico settentrionale
dove, la notte del 14 aprile 1912, incontrò il Titanic e lo affondò.
È facile lasciarsi trasportare da una
metafora, ma era difficile non pensare che la Groenlandia potesse riservare una
sorpresa altrettanto terribile, su scala molto più ampia, a una civiltà troppo
sicura di sé che non riesce a prepararsi adeguatamente per l’impensabile
momento in cui potrebbe improvvisamente naufragare. Solo che noi non siamo
quella civiltà.
Il
problema della nostra civiltà non è l’eccesso di fiducia.
È la
polarizzazione, la paralisi e la profonda mancanza di fiducia in tutte le
istituzioni, compresa quella scientifica (un’altra lezione dell’era della pandemia).
L’elaborazione
di politiche climatiche efficaci inizia con il riconoscere la realtà del
panorama sociale e politico in cui ci si muove. Alcune riflessioni su come
potremmo fare meglio.
1. Il coinvolgimento di chi è critico è
fondamentale.
Gli insulti e l’accanimento non sono mai buoni
strumenti di persuasione, e cercare di costringere gli scettici del clima al
silenzio o alla censura raramente funziona.
“Englander” ha ottenuto molto di più con me dicendo:
"Parliamo", piuttosto che firmando una lettera che diceva, in
effetti, "Stai zitto".
Anch’io avrei potuto risparmiarmi l’accoglienza
indignata della mia prima rubrica, se non fosse stata preceduta dagli
appellativi delle mie vecchie rubriche, come quando ho definito gli attivisti
per il clima "una casta di persone spettacolarmente poco attraenti che
fingono di possedere un’oscura forma di conoscenza che promette di far ritirare
i mari e placare i venti".
2-Separare i fatti dalle previsioni e le previsioni
dalla politica.
Il riscaldamento globale è un fatto. Così come
il contributo umano ad esso.
Così
come lo sono gli aumenti osservati della temperatura e del livello del mare. E
lo sono anche gli incrementi che vedremo se continueremo a fare lo stesso.
Ma il
tasso di questi aumenti è difficile da prevedere anche con i modelli
informatici più sofisticati.
L’establishment scientifico farebbe di più per
aumentare la fiducia se comunicasse ciò di cui non è sicuro - come la relazione tra il cambiamento
climatico e specifici eventi meteorologici estremi - tanto quanto ciò che lo è.
La fiducia aumenterebbe ulteriormente se gli
scienziati del clima non usassero l’autorità conferita loro dal settore di
competenza per spingere politiche le cui implicazioni economiche, politiche e
sociali potrebbero non essere pienamente comprese.
2. Non permettere che il clima diventi
una preoccupazione prevalentemente di sinistra.
Uno
dei motivi per cui il tema del clima è diventato un tale "anatema"
per molti conservatori è che molte delle soluzioni proposte hanno il sapore e
spesso il prezzo dello statalismo vecchio stile.
Ma il clima è un bene universalmente condiviso
e dovrebbe essere un interesse davvero comune.
I
conservatori possono fare molto di più per sviluppare una propria serie di
prescrizioni politiche realistiche (ad esempio, accelerare le autorizzazioni e
le agevolazioni fiscali per l’energia nucleare di nuova generazione).
Ma
prima, molti di loro devono essere convinti, come è successo a me quest’anno, della
necessità di agire.
3. Essere onesti sulla natura della
sfida.
Parlare
di una catastrofe climatica imminente è probabilmente fuorviante, almeno nel
modo in cui la maggior parte delle persone intende il termine
"imminente".
Un continuo allarme potrebbe esaurire gli
elettori più di quanto non faccia per risvegliarli.
Una
descrizione più accurata della sfida potrebbe essere "punto di svolta
potenzialmente imminente":
le
conseguenze peggiori del cambiamento climatico possono essere ancora lontane,
ma la nostra capacità di invertirle si sta avvicinando. Anche in questo caso, la metafora del
cancro - mai sicuro da ignorare e sempre meglio da affrontare al secondo stadio
che al quarto - può essere utile.
4. Essere umili sulla natura delle
soluzioni.
Quanto
maggiore è l’investimento politico e finanziario in una risposta al cambiamento
climatico di dimensioni pari a quelle dell’”Energiewende”, tanto maggiore è la
perdita di tempo, di capitale e (soprattutto) di fiducia da parte dell’opinione
pubblica quando non funziona come previsto.
A
volte paga pensare in piccolo. Come ha osservato “Smil”, possiamo fare molto
bene anche imponendo finestre a triplo vetro e un adeguato isolamento per
rendere molto più efficienti dal punto di vista energetico case che spesso
resteranno in piedi per 100 anni.
Un allontanamento dai Suv - la cui ubiquità è una conseguenza
perversa degli standard di efficienza energetica degli anni ’70 che hanno
creato esenzioni per quelle auto che in America si definiscono “light trucks “-
sarebbe un altro progresso silenzioso ma importante.
5. Iniziare a risolvere i problemi che i
nostri pronipoti dovranno affrontare.
A
cominciare dall’innalzamento del livello del mare: non possiamo spostare Miami
o Calcutta, in India, a breve, se non mai.
Ma
possiamo agire immediatamente per preservare una parte più ampia della nostra
costa da un ulteriore sviluppo e urbanizzazione.
6) Possiamo anche smettere di
incentivare la costruzione in aree a rischio di inondazioni, aumentando il
prezzo dell’assicurazione federale contro le inondazioni per riflettere più
accuratamente l’aumento del rischio.
7.
Smettere di considerare la crescita economica come un problema.
L’industrializzazione
può essere la causa principale del cambiamento climatico. Ma non possiamo e non
vogliamo invertire la tendenza attraverso una forma di deindustrializzazione,
che manderebbe il mondo in povertà e privazioni.
Al
contrario, la crescita economica dovrebbe essere vista come un alleato nella
lotta contro il cambiamento climatico, perché crea sia la ricchezza che può
mitigare gli effetti del cambiamento climatico sia l’innovazione tecnologica
necessaria per affrontarne le cause.
Questo
vale soprattutto per i Paesi più poveri, per i quali gli investimenti esteri,
il libero scambio, le riforme orientate al mercato e i buoni quadri normativi
faranno di più per costruire la resilienza climatica di ulteriori miliardi di
aiuti esteri.
8.
Prendere sul serio i compromessi ambientali che comporta l’energia pulita.
Non si
possono sostenere i parchi eolici ma ostacolare le linee di trasmissione
necessarie per portare l’energia ai mercati in cui è necessaria.
Non si
possono appoggiare i parchi eolici ma fare causa per bloccarli nei punti in cui
potrebbero ostruire la vista del Nantucket Sound.
Non si
possono appoggiare i parchi eolici, ma sostenere le norme ambientali che
rendono poco redditizia l’estrazione delle terre rare negli Stati Uniti e
mandano l’industria in Cina (dove le norme significative sono di fatto inesistenti).
E non
si può esultare per la riduzione delle emissioni di gas serra negli Stati Uniti
ma opporsi alla “rivoluzione del fracking” del gas naturale che ha contribuito
a realizzarla.
9. Un
problema per il futuro è, per sua stessa natura, un problema morale.
Un
movimento conservatore che afferma di preoccuparsi di ciò che dobbiamo al
futuro ha la duplice responsabilità di dare l’esempio ai propri figli e allo
stesso tempo di prepararsi per quel futuro.
La stessa logica prudenziale che si applica alle
finanze personali, alle decisioni aziendali, alla sicurezza sociale, al debito
federale o ad altri rischi per la solvibilità finanziaria dovrebbe dettare
politiche ponderate quando si tratta di clima.
(Bret
L. Stephens è entrato a far parte del New York Times come editorialista Op-Ed
nell’aprile 2017)
La
guerra dello "stato profondo"
del Sudan
potrebbe
avere conseguenze
geostrategiche
di vasta portata se continuasse.
Globalresearch.ca
- Andrew Korybko – (17 aprile 2023) – ci dice:
Visto
che l'Egitto, l'Etiopia, la Russia, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti
hanno tutti interessi importanti in Sudan, è chiaro che quest'ultimo conflitto
africano potrebbe effettivamente avere conseguenze di vasta portata se continua
e soprattutto se la sua guerra dello "stato profondo" scende in una
guerra civile.
In tal caso, questo paese geostrategico potrebbe
improvvisamente diventare oggetto di un'intensa competizione nella Nuova Guerra
Fredda, che potrebbe catalizzare processi incontrollabili che culminano nella
destabilizzazione di tutta l'Africa.
Tutte
le parti interessate responsabili devono quindi fare tutto il possibile per
evitare che ciò accada.
Feroci
combattimenti sono scoppiati in tutto il Sudan questo fine settimana tra le
forze armate sudanesi (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF), con l'una che
incolpa l'altra per aver iniziato questo.
Visto che questo conflitto rimane limitato per
il momento a due fazioni militari, può quindi essere descritto come una guerra
dello "stato
profondo"
e non civile come il conflitto che alla fine ha portato all'indipendenza del
Sud Sudan.
Questo
non significa che non si trasformerà in una guerra civile, ma solo che non lo
era ancora avvenuta domenica sera.
La
guerra dello "stato profondo" del Sudan era inevitabile, dal momento
che queste fazioni sono state in competizione tra loro su chi rimarrà la forza
più potente del paese in mezzo alla sua transizione continuamente ritardata
verso la democrazia iniziata dopo il colpo di stato militare del 2019.
La SAF è guidata dal capo generale “Abdel
Fattah Al-Burhan” mentre la RSF è gestita dal generale “Mohamed Hamdan Dagalo”,
noto anche come “Hemedti”.
Entrambi
gli uomini fanno parte del “Sovrano Consiglio di transizione”, il primo come presidente e il
secondo come vicepresidente.
Un
nuovo primo ministro e le istituzioni dell'autorità di transizione avrebbero
dovuto essere annunciati entro martedì scorso, ma ovviamente non è accaduto.
Le tensioni dello "stato profondo"
iniziarono a diventare incontrollabili in quel periodo, forse a causa di uno o
entrambi i partiti che calcolavano di poter fare il loro gioco di potere
pianificato da tempo contro l'altro con il pretesto di presentarlo come una
"difesa
della democrazia" contro il loro presunto avversario "antidemocratico".
È
difficile discernere esattamente cosa sta succedendo in questo momento e chi
controlla cosa a causa della "nebbia di guerra", quindi il presente
pezzo eviterà di toccare informazioni non confermate nell'analizzare la guerra
dello "stato profondo" del Sudan, concentrandosi invece sulle
conseguenze di questo sviluppo del tutto prevedibile.
Per cominciare, questo conflitto si riflette
molto male sull'esercito poiché mostra quanto profondamente diviso sia
diventato nel corso degli anni che due centri di potere in competizione
chiaramente distinti sono stati in grado di emergere al suo interno.
Le
conseguenze del colpo di stato sudanese.
A
seconda di quanto tempo si combattono l'un l'altro, questa istituzione potrebbe
esaurirsi abbastanza al punto che le forze separatiste riemergono lungo la sua
periferia come una potente minaccia all'integrità territoriale del Sudan, che
potrebbe trasformarlo nella prossima Jugoslavia.
L'ex
presidente Omar Al-Bashir ha persino avvertito il suo omologo russo di questo
durante il loro incontro nel 2017, quando ha chiesto assistenza per evitare
quello che ha detto essere "il desiderio degli Stati Uniti di dividere il Sudan in
cinque stati".
Questo
scenario non si è ancora sviluppato a causa del fatto che l'esercito rimane una
forza formidabile nonostante le sue crescenti divisioni da allora, che sono
culminate nell'inevitabile guerra dello "stato profondo" del Sudan
questo fine settimana, ma tutto potrebbe cambiare rapidamente se il loro
conflitto continua a infuriare.
Più a lungo queste fazioni combattono, più è
probabile che si verifichi anche un certo livello di intervento straniero, in
particolare la possibilità che l'Egitto sostenga “Burhan” e gli Emirati Arabi
Uniti sostengano “Hemedti”, con cui sono considerati vicini.
Anche
se il presidente degli Emirati Mohammed bin Zayed (MBZ) ha appena incontrato il
suo omologo egiziano Abdel Fattah El-Sisi al Cairo la scorsa settimana, questi
due potrebbero rapidamente passare a sostenere i rispettivi partner se il
conflitto continua a trascinarsi per dare loro un vantaggio sull'altro.
Per
quanto riguarda il ruolo dell'Egitto, “RSF” ha catturato alcune delle sue
truppe nel paese, che il Cairo sostiene fossero lì per condurre un
addestramento congiunto.
Saranno
restituiti, ma pochi sapevano che erano lì in primo luogo fino a quando questo
non è accaduto.
La
vicina Etiopia, con cui Egitto e Sudan sono coinvolti in un'aspra disputa su
una diga sul Nilo che attraversa ciascuno dei loro territori, ne prenderà
sicuramente atto così come i filmati sui social media che affermano di mostrare
aerei da combattimento egiziani anche in Sudan.
Ci sono già da un paio d'anni preoccupazioni
che l'Egitto stia tramando un cosiddetto "attacco preventivo" contro
l'Etiopia al fine di impedire ad Addis di riempire quella suddetta diga, la cui
speculazione è stata ora ampliata da questa rivelazione.
Etiopia
e Sudan sono anche in una disputa su una regione conosciuta come “Alfashaga”,
che ha portato a scontri la scorsa estate, quindi è possibile che Addis possa
fare una mossa militare lì a sostegno delle sue rivendicazioni se dovesse
sentire che Khartoum è troppo divisa e debole per mantenere il controllo su di
essa.
Per
essere assolutamente chiari, non ci sono segni che questo venga preso in
considerazione, ma vale comunque la pena menzionarlo nel contesto più ampio
delle conseguenze che potrebbero svolgersi se la guerra dello "stato
profondo" del Sudan continua.
Quest'ultimo
conflitto è interessante anche per l'Etiopia perché la sua ottica ricorda molto
da vicino la recente disputa tra il governo federale e alcuni elementi della
regione di “Amhara” sulla riorganizzazione militare del paese.
Il
capo di stato maggiore “Birhanu Jula” ha annunciato sabato che "a partire da oggi, la struttura
delle forze speciali regionali non c'è più. Il nostro lavoro è finito", quindi i sostenitori federali
potrebbero affermare che questa operazione di successo ha impedito una guerra
di "stato profondo" simile a quella sudanese.
Non
sono solo gli Stati Uniti, l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e l'Etiopia i cui
interessi sono influenzati da questo conflitto, ma anche la Russia, che è
diventata estremamente vicina a entrambe le fazioni militari in guerra dopo
aver costruito sui legami che l'ex presidente Bashir ha stabilito durante il
suo viaggio a Mosca nel 2017.
Prevede di aprire presto una base navale a “Port
Sudan”, secondo quanto riferito, le due parti cooperano sull'estrazione
mineraria e sulla sicurezza e il Sudan facilita l'accesso russo alla vicina
Repubblica Centrafricana (CAR).
Al
Cremlino non importa quale parte vince finché il vincitore mantiene i suoi
legami strategici, l'ultima dimensione dei quali è immensamente importante
poiché qualsiasi potenziale ostacolo all'accesso trans-sudanese della Russia
alla Repubblica Centrafricana potrebbe avere conseguenze disastrose per la
sicurezza di quel paese.
Mosca ha aiutato “Bangui” a ripristinare il
suo mandato sovrano su vaste aree del paese con l'aiuto di “Wagner”, ma la
capitale potrebbe ancora una volta essere minacciata dai ribelli se il Cremlino
non riuscirà a rifornire adeguatamente le forze di quei due.
Il
possibile collasso del progetto di "sicurezza democratica" della
Russia avrebbe enormi implicazioni per il suo nuovo fascino per i paesi
africani, che è dovuto alla combinazione di rafforzare efficacemente la
sovranità dei suoi partner attraverso i mezzi pionieristici nella Repubblica
centrafricana e la sua attraente visione del mondo multipolare.
La possibile inversione del suo primo successo di
"sicurezza democratica" nel continente a seguito della guerra
sudanese dello "stato profondo" rappresenterebbe una significativa
battuta d'arresto simbolica che l'Occidente certamente sfrutterebbe.
Con
gli interessi di questi cinque stati in mente, è chiaro che questo ultimo
conflitto africano potrebbe effettivamente avere conseguenze di vasta portata
se continua e soprattutto se la guerra dello "stato profondo" del
Sudan sfocia in una guerra civile.
In tal
caso, questo paese geostrategico potrebbe improvvisamente diventare oggetto di
un'intensa competizione nella Nuova Guerra Fredda, che potrebbe catalizzare
processi incontrollabili che culminano nella destabilizzazione di tutta
l'Africa.
Tutte
le parti interessate responsabili devono quindi fare tutto il possibile per
evitare che ciò accada.
Il FMI
ha appena presentato
una
nuova valuta globale nota
come "unità monetaria universale"
che
dovrebbe rivoluzionare l'economia mondiale.
Globalresearch.ca
- Michael Snyder – (17 aprile 2023) – ci dice:
Una
nuova valuta globale è appena stata lanciata, ma il 99% della popolazione
mondiale non ha idea di cosa sia appena successo.
L'"Universal Monetary Unit", nota anche come "Unicoin", è una "valuta digitale della banca centrale
internazionale" che è stata progettata per funzionare in combinazione con tutte le
valute nazionali esistenti.
Questo dovrebbe far scattare un campanello
d'allarme per tutti noi, perché l'adozione diffusa di una nuova "valuta
globale" sarebbe un enorme passo avanti per l'agenda globalista.
Il FMI non ha creato questa nuova valuta, ma è stata
svelata in una grande riunione del FMI all'inizio di questa settimana ...
Oggi,
in occasione degli incontri di primavera 2023 del “Fondo monetario
internazionale” (FMI), l'”Autorità monetaria della valuta digitale” (DCMA) ha
annunciato il lancio ufficiale di una valuta digitale della “banca centrale
internazionale” (CBDC) che rafforza la sovranità monetaria delle banche
centrali partecipanti e rispetta le recenti raccomandazioni sulla politica
delle attività crittografiche proposte dal FMI.
L'unità
monetaria universale (UMU), simboleggiata come carattere ANSI, è legalmente una merce
monetaria, può effettuare transazioni in qualsiasi valuta di regolamento a
corso legale e funziona come una CBDC per far rispettare le normative bancarie e proteggere
l'integrità finanziaria del sistema bancario internazionale.
Come
indica il comunicato stampa citato sopra, questa nuova "Universal Monetary
Unit" è stata creata dalla “Digital Currency Monetary Authority”.
Quindi,
chi nel mondo è la “Digital Currency Monetary Authority”?
Onestamente,
non ne avevo idea fino a quando non ho iniziato a fare ricerche per questo
articolo.
Il
comunicato stampa afferma che l'organizzazione è composta da "stati sovrani,
banche centrali, banche commerciali e al dettaglio e altre istituzioni
finanziarie"
...
La
DCMA è leader mondiale nella difesa delle valute digitali e delle innovazioni
di politica monetaria per i governi e le banche centrali. L'appartenenza alla DCMA è costituita
da stati sovrani, banche centrali, banche commerciali e al dettaglio e altre
istituzioni finanziarie.
Fondamentalmente,
sembra che una cabala segreta di banche internazionali e governi nazionali stia
cospirando per spingere questa nuova valuta giù per la gola.
Ci
viene detto che l'"Unità Monetaria Universale" è "Crypto
2.0", e coloro che l'hanno creata sperano che sarà ampiamente adottata da
"tutti
i collegi elettorali in un'economia globale" ...
Il
DCMA introduce l'unità monetaria universale come Crypto 2.0 perché innova una
nuova ondata di tecnologie crittografiche per la realizzazione di un sistema
monetario pubblico di valuta digitale con un quadro di adozione diffuso che
comprende casi d'uso per tutte le circoscrizioni in un'economia globale.
La “Banca
centrale europea” (BCE) afferma che il contante "non è adatto" per
l'economia digitale, respinge le preoccupazioni sulla privacy della CBDC.
Non so
voi, ma questo mi sembra super ombroso.
Naturalmente
la “Digital Currency Monetary Authority” non è l'unica che ha lavorato su una
nuova valuta digitale.
Anche
il Regno Unito ha lavorato su uno.
Lo
stesso vale per l'Unione europea.
E
sorprenderebbe qualcuno che l'amministrazione Biden stia propagandando i
potenziali benefici di una "forma digitale del dollaro USA"?
Quanto segue proviene dal sito ufficiale della
Casa Bianca ...
Una
valuta digitale della banca centrale degli Stati Uniti (CBDC) sarebbe una forma
digitale del dollaro USA.
Mentre gli Stati Uniti non hanno ancora deciso
se perseguire una CBDC, gli Stati Uniti hanno esaminato attentamente le
implicazioni e le opzioni per l'emissione di una CBDC.
Se gli Stati Uniti perseguissero una CBDC, ci
potrebbero essere molti possibili benefici, come facilitare transazioni
efficienti e a basso costo, promuovere un maggiore accesso al sistema
finanziario, stimolare la crescita economica e sostenere la continua centralità
degli Stati Uniti all'interno del sistema finanziario internazionale.
Non
credo sia una coincidenza che i governi di tutto il mondo occidentale stiano
sviluppando contemporaneamente CBDC.
E il
FMI ha già
messo insieme un ampio manuale "per assistere le banche centrali e i
governi di tutto il mondo nelle loro implementazioni di CBDC"...
Pubblicato
pubblicamente il 10 aprile, il rapporto "IMF Approach to Central Bank Digital
Currency Capacity Development" delinea la strategia pluriennale del FMI per aiutare le
implementazioni di CBDC, incluso lo sviluppo di un "Manuale CBDC"
vivente da seguire per le autorità monetarie.
Molte
persone là fuori applaudiranno quando verranno introdotte queste valute
digitali.
Ma è
imperativo capire che una volta che tutti li usano, la tua privacy finanziaria
sarà quasi completamente sparita.
Le
autorità saranno in grado di tracciare praticamente tutto ciò che acquisti e
vendi, e sono sicuro che non esiteranno a usare queste informazioni contro di
te.
Inutile
dire che il potenziale di tirannia in un tale sistema è fuori classifica.
Riesci
a immaginare un mondo in cui ti viene impedito di acquistare carne per un po’ perché
hai già usato i tuoi "crediti di carbonio" per il mese?
I tuoi
"privilegi finanziari" potrebbero potenzialmente essere limitati in
qualsiasi momento per il capriccio di un burocrate governativo, e se sei un
piantagrane abbastanza grande potresti essere "de-piattaformato" dal
sistema in modo permanente.
Naturalmente,
affinché un tale sistema abbia un reale incisivo, sarà necessario eliminare
gradualmente il contante e altre forme di pagamento, ed è proprio ciò che sta
accadendo in questo momento in Europa.
Quanto
segue è tratto dal sito ufficiale del Parlamento europeo...
Per
limitare le transazioni in contanti e cripto, i deputati vogliono limitare i
pagamenti che possono essere accettati da persone che forniscono beni o
servizi. Stabiliscono limiti fino a € 7000 per i pagamenti in contanti e € 1000
per i trasferimenti di cripto-attività, in cui il cliente non può essere
identificato.
In
definitiva, continueranno ad abbassare i limiti fino a quando l'uso del
contante non sarà quasi completamente eliminato.
Tutti
saranno lentamente ma inesorabilmente costretti al nuovo sistema digitale, e
sarà un sistema che controlleranno con il pugno di ferro.
E la
maggior parte delle persone lo asseconderà volentieri.
In questi giorni, la maggior parte delle
persone sta solo raschiando di mese in mese e un recente sondaggio ha rilevato
che il 70% di tutti gli americani è "finanziariamente stressato" a
questo punto ...
L'inflazione,
l'instabilità economica e la mancanza di risparmi hanno un numero crescente di
americani che si sentono finanziariamente stressati.
Circa
il 70% degli americani ammette di essere stressato per le proprie finanze
personali in questi giorni e la maggioranza – il 52% – degli adulti
statunitensi ha dichiarato che il loro stress finanziario è aumentato da prima
che la pandemia di Covid-19 iniziasse a marzo 2020, secondo un nuovo sondaggio
sulla fiducia finanziaria di CNBC Your Money condotto in collaborazione con “Momentive”.
Alla
maggior parte degli americani semplicemente non importa che queste nuove valute
digitali possano aprire una porta per una grande tirannia.
Vogliono
solo essere in grado di pagare le bollette e prendersi cura delle loro
famiglie, e se i nostri politici dicono loro che questo nuovo sistema è buono
per l'economia, saranno tutti d'accordo.
Ma
quelli di noi che sono svegli sanno che più globalismo non porta da nessuna
parte di buono.
Concentrare
ancora più potere nelle mani dell'élite internazionale è sempre una cattiva
idea, e speriamo di poter iniziare a far capire a più persone questo.
(Michael
Snyder ha pubblicato migliaia di articoli su “The Economic Collapse Blog”, “The
End Of The American Dream” e “The Most Important News”).
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