Cosa aspettiamo ad uscire dall’UE?

 

Cosa aspettiamo ad uscire dall’UE?

 

 

Come (e perché) uscire dall'euro,

ma non dall'Unione europea.

   laterza.it - Luciano Gallino – (20-1-2023) – ci diceva nel 2016:

 

Lo scopo principale dell’uscita dall’euro sta nel riconquistare per l’Italia una tangibile quota di sovranità in tema di politiche economiche, sociali, monetarie, dopo gli espropri subiti per mano delle istituzioni dell’Unione europea, talora eseguiti violando gli stessi trattati dell’Unione con il consenso del nostro governo.

Luciano Gallino non era un euroscettico.

 Considerava l’Unione europea la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli.

Ma vedeva con sofferenza questa Europa ridotta al servizio delle potenti lobbies della finanza e delle banche, portavoce delle maggiori élites europee a scapito dei diritti fondamentali della grande maggioranza dei cittadini e, cosa ancor più grave, culla di un’inarrestabile redistribuzione del reddito e della ricchezza dal basso verso l’alto, con la conseguente crescita delle disuguaglianze.

Era sua convinzione che le politiche economiche e sociali dettate dai mercati finanziari hanno portato gli Stati a una cessione di sovranità in materia di spesa per protezione sociale, scuola, università, quota salari sul Pil, contratti di lavoro e molto altro ancora.

L’euro si è così trasformato nello strumento della vittoria del neoliberismo su ogni altra corrente di pensiero.

A causa di un’errata interpretazione della recessione, il peso esorbitante del sistema finanziario non ha avuto un freno, le relazioni industriali sono arretrate, i sindacati sono stati ridimensionati, la mancanza di occupazione mostra il profilo di una catastrofe sociale.

Prima che gli effetti del dissennato ‘Patto fiscale’ facciano scendere una cappa soffocante di miseria sulle prossime generazioni, Luciano Gallino elenca i modi concreti per uscire dall’euro, rimanendo l’Italia paese membro dell’Unione europea.

 Una soluzione per recuperare agli Stati la propria sovranità, restituendo alla democrazia la sua sostanza.

(Luciano Gallino -edizione La Terza ,2016).

 

 

 

Deal or no Deal: ecco come fanno

gli altri paesi non membri dell’UE.

Swissinfo.ch – Sibilla Bondolfi - Bruno Kaufmann – (26-1-2021) – ci dicono:

 

La cancelliera tedesca Angela Merkel passeggiava con la prima ministra islandese Katrin Jakobsdottir in un parco nazionale islandese.

La Brexit è cosa fatta.

 La Svizzera ora spera di rinegoziare l’Accordo istituzionale quadro con l’Unione europea.

Altri paesi non membri dell'UE offrono molti spunti, ma nessuno indica la via maestra per giungere con successo a un accordo con Bruxelles.

La Svizzera non è l’unica a non voler aderire all’Unione europea (UE).

L’Islanda teme per i propri diritti di pesca e alla Norvegia sta a cuore l’industria petrolifera, mentre per il piccolo Liechtenstein è impensabile aderire all’UE senza i vicini elvetici.

Nei Balcani occidentali, invece, tira un’aria diversa:

 da decenni la Macedonia del Nord cerca di entrare a far parte dell’UE, ma i paesi limitrofi che ne sono membri continuano a metterle i bastoni tra le ruote.

Altri sviluppi.

La Svizzera rischia molto con l'UE.

La Svizzera porta avanti un pericoloso gioco di equilibrismo con l'UE dal quale potrebbe uscire sconfitta.

Da quando nel 1992 ha rifiutato di entrare a far parte dello Spazio economico europeo (SEE), la Svizzera ha deciso di intraprendere la cosiddetta via bilaterale. L’UE però non intende proseguire su questa strada senza prima chiarire le questioni istituzionali tramite un accordo quadro.

UE e SEE.

Altri paesi che, come la Svizzera, non sono membri dell’UE offrono sì molti spunti in questa direzione, ma nessuno di loro mostra la via maestra per giungere con successo a un accordo.

Altri sviluppi.

 

Come proteggere gli interessi dell'Islanda a Bruxelles?

Gran Bretagna: verso il baratro in grande stile?

Nei giorni di Natale la Gran Bretagna è riuscita a raggiungere un accordo commerciale con l’UE che garantisce il libero scambio: esportazioni e importazioni non sono soggette a dazi.

Tuttavia, l’intesa non disciplina il settore dei servizi, che costituisce quasi l’80% della forza economica britannica.

Dopo la Brexit la Gran Bretagna è, tra quelli riportati nel presente articolo come termine di paragone, il paese che intrattiene con l’UE i rapporti meno vincolanti. Per la Gran Bretagna, d'altronde, qualsiasi altro scenario è fuori discussione, poiché sia la soluzione svizzera sia l’adesione allo SEE presupporrebbero la libera circolazione delle persone.

L'accordo sulla Brexit suscita gelosie in Svizzera.

L'accordo sulla Brexit fa gola in Svizzera: voci si levano per chiedere a Berna di ottenere dall'UE condizioni identiche.

"Una delle ragioni principali a favore della Brexit era stata proprio la limitazione dell’immigrazione", afferma il britannico Vernon Bogdanor, professore di scienze politiche, che di recente ha pubblicato un libro sulle relazioni ambivalenti della Gran Bretagna con l’UE.

Il professor Matt Qvortrup della Coventry University ritiene che la Gran Bretagna, diversamente da quanto si pensa in Svizzera, sia uscita perdente dai negoziati con l’UE.

 Infatti, mentre i francesi possono continuare a esportare champagne e i tedeschi automobili, nell’accordo non rientra il settore dei servizi, malgrado questi siano di significativa importanza per la Gran Bretagna.

La Gran Bretagna potrà ora controllare l'immigrazione?

"Stando alle stime degli economisti, alla Gran Bretagna tutto ciò costerà il 3-4% del PIL", dichiara Qvortrup.

Dal punto di vista economico, quindi, la stessa Gran Bretagna paga un conto salato.

Islanda: l’adesione all’UE non è più un’opzione sul tavolo.

Dieci anni fa l’Islanda era piombata nel vortice della crisi finanziaria mondiale.

Il sistema bancario dell’isola, che conta poco meno di 365'000 abitanti, era crollato praticamente da un giorno all’altro e la moneta islandese era stata fortemente svalutata.

Per uscire dalla crisi, il governo aveva presentato a Bruxelles una domanda di adesione.

"Tuttavia, gli interessi divergenti nel campo dell’industria della pesca resero impossibile l’adesione all’Unione europea", afferma l’economista islandese Magnús Árni Skúlason e aggiunge: "Per questo motivo, nel 2013 la domanda fu ritirata ufficialmente".

Secondo il ministro degli esteri islandese Guðlaugur Þór Þórðarson, membro del Partito dell’Indipendenza, schieramento euroscettico, il principale vantaggio di non far parte dell’UE consiste nel poter decidere liberamente in materia di politica commerciale:

"Per noi quasi il 90% del commercio internazionale complessivo è esente da dazi, mentre per l’UE si parla del 27% appena".

Riprendere il controllo sulla politica commerciale.

Dal 1994 l’Islanda è membro dello SEE e, secondo Þórðarson, si è trattato di una buona scelta.

 "Se mi chiedessero di scegliere tra l’uscire dallo SEE e l’aderire all’UE non saprei cosa rispondere", rivela lo stesso ministro degli esteri a swissinfo.ch.

Liechtenstein: una piccola nazione tra Svizzera e Unione europea.

Con una superficie di 160 km2 e meno di 40'000 abitanti, il Liechtenstein è uno degli Stati più piccoli del pianeta.

Il paese è molto legato alla Svizzera: già dagli anni Venti, infatti, il Principato del Liechtenstein fa parte dello spazio doganale ed economico svizzero e ha adottato il franco svizzero come valuta.

Allo stesso tempo, però, questo piccolo paese intrattiene buoni rapporti anche con l’UE e dagli anni Novanta fa parte dello SEE.

L’adesione del Liechtenstein all’UE resta comunque fuori discussione.

"La maggior parte dei politici, considerate le dimensioni del paese, ritiene inopportuno aderire all’UE", afferma Christian Frommelt, direttore e responsabile di ricerca della sezione di politica dell’Istituto del Liechtenstein.

In virtù dell’adesione allo SEE, il Liechtenstein è più integrato nell’UE rispetto alla Svizzera.

Lo SEE, infatti, copre più ambiti politici rispetto all’accordo quadro previsto per quest’ultima; esso disciplina, per esempio, anche i servizi finanziari e il mercato energetico.

Grazie a una regolamentazione speciale il Liechtenstein ha potuto continuare a gestire l’immigrazione autonomamente.

Per via delle dimensioni ridotte il Liechtenstein ha accettato il fatto di non poter essere completamente sovrano.

"Nonostante abbia recepito il diritto dell’UE in modo dinamico e malgrado il margine di manovra in alcuni ambiti di regolamentazione sia limitato, io personalmente nell’adesione allo SEE vedo un rafforzamento della sovranità del Liechtenstein", dichiara Frommelt.

 "Aderendo allo SEE, per esempio, il paese si è reso più indipendente dalla Svizzera".

Norvegia: scesi a patti con il "deficit democratico."

Dal punto di vista economico e culturale, da molti anni la Norvegia è fortemente legata all’UE: nel 1972 e nel 1994 aveva anche cercato di diventarne membro a pieno titolo.

In entrambe le occasioni, però, la maggioranza degli oltre cinque milioni di abitanti aveva bocciato i tentativi di adesione per timore di perdere la propria indipendenza.

Come Islanda e Liechtenstein, anche la Norvegia nella prima metà degli anni Novanta aveva scelto lo SEE come terza opzione.

 Questa via d’integrazione sembra essersi rivelata tutto sommato efficace, afferma Kate Hansen Bundt, esperta norvegese in materia di Europa: "Una grande maggioranza della popolazione norvegese, così come la maggior parte dei partiti, oggi sostiene lo SEE, sebbene in questo modo ci impegniamo a recepire le norme dell’UE senza avere voce in capitolo".

Stando alla politologa Hansen Bundt, per questa ragione lo SEE rappresenta "una soluzione d’integrazione subottimale che comporta un notevole deficit democratico".

Tuttavia, a suo modo di vedere la Norvegia sembra aver imparato a convivere con questo compromesso.

 Anche perché oggi la maggioranza della popolazione non voterebbe né per l’adesione all’UE, né tantomeno per l’uscita dallo SEE.

Macedonia del Nord: membro UE mancato per colpa dei paesi limitrofi.

Situata nell’Europa sudoccidentale e senza sbocco sul mare, fin dal crollo dell’ex Jugoslavia la Macedonia del Nord ha cercato di entrare a far parte dell’UE.

Il paese, circa 25'000 km2 di superficie e poco più di due milioni di abitanti, nel 2005 aveva presentato una richiesta ufficiale di adesione all’UE.

 

Politicamente ed economicamente il percorso pluridecennale di integrazione intrapreso dalla Macedonia del Nord ha avvicinato quest’ultima all’UE molto più di altri candidati della stessa regione geografica come Albania, Serbia e Kosovo. Tuttavia, i negoziati per trovare un accordo di adesione con Bruxelles sono ancora in salita.

 

 

 

Guai per Ursula anche in Belgio

denunciata per gli SMS con Pfizer.

(…un affare di proporzioni gigantesche…)

 

Laverita.info – (15 aprile 2023) – Francesco Bonazzi, pag.2 – ci dice: 

 

Prima denuncia penale per Ursula von der Leyen sul caso degli sms con Pfizer per l’acquisto dei vaccini contro il Covid.

Il presidente della Commissione europea è stato denunciato in Belgio da un lobbista di Bruxelles che la accusa di “Usurpazione di funzione e titolo”, di “distruzione di documenti pubblici “e di “vantaggi illeciti e corruzione”.

L’accusa principale è di essersi sostituita ai governi europei, tra i quali quello belga, nella trattativa e nell’acquisto di 1,8 miliardi di dosi per una spesa di 35 miliardi di euro.

Il tutto mentre pende una denuncia del New York Times alla Corte di giustizia europea contro la Commissione Ue per la mancata pubblicazione degli SMS tra la Von der Leyen e Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer.

Il Belgio è la nazione che ospita le istituzioni europee e questo esposto penale ha un elevato valore simbolico, oltre che potrebbe essere il primo di una lunga serie in altre nazioni.

E chi ha firmato la denuncia, il trentacinquenne belga Frederic Baldan, non è un cittadino qualsiasi, ma un lobbista accreditato presso i vari enti comunitari, abituato per lavoro a vedere come vanno in porto decine di affari all’ombra della Commissione.

Non c’è dubbio che l’acquisto dei vaccini, con trattativa segreta, nel maggio del 2021 sia stata la mamma di tutti i grandi affari.

Tanto è vero che è oggetto anche di una commissione d’inchiesta del Parlamento europeo che sta creando molti imbarazzi nell’establishment di Bruxelles.

La denuncia è diretta con nome e cognome contro la Von der Leyen, alla quale si addebita il fatto di essersi sostituita “senza alcun mandato” agli Stati membri dell’Unione, tra cui il governo belga, e di aver negoziato con il colosso americano “in modo diretto e segreto”, in particolar modo per sms, l’acquisto di vaccini.

Sulla falsariga di quanto emerso dall’inchiesta parlamentare e dal braccio di ferro con il New York Times, nella prima denuncia penale viene anche sottolineata la distruzione degli sms da parte della politica tedesca.  

La denuncia di Baldan è una sorta di causa pilota, come dimostra il fatto che il denunciante si sia limitato a chiedere un risarcimento per danni morali da 50.000 euro, sulla base del fatto che il comportamento di Von der Leyen avrebbe attentato alle finanze pubbliche del Belgio e alla fiducia dei cittadini nelle istituzioni belghe, scavalcate dalla trattativa diretta in sede Ue.

Quest’ultima accusa è decisamente insidiosa per la Von der Leyen, perché facilmente riproducibile in qualsiasi stato dell’Unione.

La querela belga sostiene che “l’usurpazione” della Commissione sull’acquisto dei vaccini “mina la fiducia collettiva nello Stato in termini di Forza delle istituzioni nazionali e di realizzazione del bene comune”.

Aprire un fronte penale significa anche poter arrivare a indagare e revisionare tutto quello che è stato fatto in Europa in materia di vaccini.

Come ha rilevato la Corte dei conti europea, tra agosto del 2020 e novembre del 2021, la Commissione ha firmato 11 contratti con le case farmaceutiche, in modo da assicurarsi 4,6 miliardi di dosi di vaccino per un costo totale stimato in 71 miliardi di euro.

Tutti gli Stati membri hanno avuto dei surplus di magazzino.

E tra le motivazioni della denuncia c’è anche il fatto che il Belgio, scavalcato come tutti, si è poi ritrovato una montagna di vaccini in più e a dicembre dello scorso anno aveva 13,5 milioni di dosi avanzate. Di queste, ben 9,2 milioni erano della Pfizer.

L’azione penale in Belgio, che come detto è la prima e rischia di fare scuola, arriva dopo una serie di ricorsi amministrativi contro la Commissione all’ombudsman europeo (partiti da un giornalista tedesco) e dopo il “Delete-gate” (caso cancellazioni) partito dagli Stati Uniti.

In tutte le cause, la Von der Leyen è sostanzialmente accusata di aver negoziato con Pfizer in modo superficiale quanto riservatissimo concedendo a Pfizer vantaggi indebiti.

Von der Leyen si è sempre difesa dicendo che aveva maturato un innocentissimo rapporto confidenziale con Albert Bourla e che gli sms contestati erano di natura amicale e quindi ininfluenti.

La Commissione ha fatto sapere che quei messaggi comunque è assai probabile che non ci siano più perché sarebbero stati cancellati.

In realtà per ottenerli, forse basterebbe che la commissione parlamentare d’inchiesta convocasse il manager statunitense e glieli chiedesse.

In ogni caso, il 25 gennaio scorso il New York Times si è rivolto alla Corte di giustizia Ue per la mancata pubblicazione dei messaggini e ha citato la Commissione.

La convinzione del quotidiano americano è che in quelle brevi comunicazioni di testo si nascondono molte informazioni utili per mettere meglio a fuoco un AFFARE DI PROPORZIONI GIGANTESCHE. 

               

 

 

La Commissione UE annuncia

un Nuovo Green Pass,

questa volta Permanente…

Conoscenzealconfine.it – (14 Aprile 2023) – Giorgia Audiello – ci dice:

 

La stessa tecnologia del Green Pass, ossia il Codice Qr, usato per attestare l’avvenuta vaccinazione contro il Covid 19, potrebbe ora essere utilizzata per le prescrizioni mediche elettroniche e per la tessera di vaccinazione dell’Ue, nel quadro dello Spazio europeo dei dati sanitari.

È questa l’iniziativa a cui sta lavorando la Commissione europea che dovrebbe presentare a breve i primi progetti pilota per entrambi i casi d’uso.

 Lo riferisce al portale Eunews, Stefan De Keersmaecker, portavoce della “Commissione europea per la salut”e, comunicando anche che la Commissione non rinnoverà oltre giugno 2023 il regolamento che ha istituito il Green Pass.

Secondo” De Keersmaecker”, tuttavia, quella del “certificato verde” è stata una “storia di successo”, da riproporre, dunque, non solo per eventuali prossime pandemie, ma anche e soprattutto per implementare la trasformazione digitale dei dati sanitari, secondo l’agenda di Bruxelles, che non a caso sta facendo pressione per far decollare il progetto del “portafoglio europeo di identità digitale”.

 “Il certificato digitale Covid dell’Ue ha facilitato il viaggio “libero e sicuro” per i cittadini ed è stato fondamentale per sostenere l’industria del turismo europea duramente colpita”, ha spiegato De Keersmaecker.

Quella del Green Pass, dunque, può essere considerata come una “sperimentazione” in vista di un metodo di organizzazione e controllo dei dati dei cittadini – attraverso il tracciamento digitale – strutturale e permanente.

Del resto, già Mario Draghi – in una conferenza stampa del 2022 – aveva avvertito che la struttura emergenziale non sarebbe stata del tutto smantellata, ma si sarebbe trasformata in struttura ordinaria, come non aveva mancato di far notare fin dall’inizio” L’indipendente”, tra i primi a parlare del rischio in questione.

Le emergenze, infatti, si sono spesso rivelate come l’espediente per introdurre misure diversamente non accettabili dalla popolazione, per poi renderle permanenti anche dopo le criticità e modellare così nuovi assetti sociali e nuovi metodi di governo, in questo caso sempre più all’insegna del paradigma usato in alcune zone della “Repubblica popolare cinese” e per questo identificato come “modello cinese”.

Quest’ultimo si caratterizza per una stretta sorveglianza sui cittadini per mezzo degli strumenti digitali e lo stesso Klaus Schwab del World Economic Forum (WEF) non ha mancato di elogiarlo.

 Non è un caso, dunque, che sia proprio il forum di Davos a propugnare la cosiddetta “transizione digitale” alla quale sono destinati la maggioranza dei fondi del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) della Commissione europea.

 C’è, dunque, una stretta connessione e comunione d’intenti, tra organizzazioni private come quella di Davos e le istituzioni comunitarie europee.

Tornando a Mario Draghi, l’ex Goldman Sachs e banchiere centrale europeo, aveva detto esplicitamente, con riferimento ad alcune misure introdotte per fronteggiare l’infezione virale, che “gradualmente questa struttura perde i caratteri di emergenza e acquista quello di ordinarietà”.

Dunque, potrebbe cambiare solo la forma attraverso cui uno strumento come il “certificato verde” viene richiesto.

Sebbene al momento non obbligatorio, infatti, la tessera vaccinale con Qr code potrebbe essere richiesta per accedere ad alcuni servizi, escludendo di fatto chi non la possiede.

In questo modo la digitalizzazione della vita e della società, uno dei pilastri del mondo disegnato a Davos, diventerà inevitabile e ogni singolo dato della popolazione sarà registrato e tracciato, fino a ridurre gli stessi cittadini a codici Qr.

Si tratta della completa tecnicizzazione del mondo dove l’uomo appare sempre più dipendente dalla tecnica e in balia del controllo dello Stato: non più, dunque, un libero cittadino, ma un “codice” monitorabile.

Lo stesso Vittorio Colao, ex ministro della transizione digitale aveva messo in risalto questi aspetti.

 Aveva, infatti, spiegato che “il grande tema è l’interoperabilità delle piattaforme digitali abilitanti che è molto importante per ampliare i servizi ma anche per renderne la fruizione semplice attraverso il così detto principio del ‘One’s only’, cioè il principio in cui il cittadino una sola volta deve mettere le proprie informazioni dentro il sistema e poi è lo Stato da solo che lo va a cercare e lo vede”, aggiungendo anche che proprio “il Green Pass è un grande esempio di interoperabilità, e che tra l’altro adesso sta facendo venire a mente tante altre possibili applicazioni meno drammatiche e meno di emergenza, in cui si potrebbe creare un sistema che permette in maniera istantanea di conoscere lo ‘stato’, il ‘diritto’ di attivazione o di fruizione di un servizio”.

A conferma delle anticipazioni di Draghi e Colao arriva, dunque, proprio in questi giorni la notizia che la “Commissione UE” sta lavorando a una nuova forma di Green Pass permanente che riguarderà sempre l’ambito sanitario, così da accelerare la transazione digitale, dando vita ad un sistema di sorveglianza impercepibile e ineludibile allo stesso tempo, dietro allo stendardo del progresso, dell’efficienza e della comodità.

Il Green Pass, dunque, lungi dall’essere una misura sanitaria, è stato il mezzo attraverso cui dare l’impulso alla transizione digitale in vista della nuova società e sanità 4.0, iper-tecnicizzata e irregimentata.

(Giorgia Audiello)

(lindipendente. online/2023/04/11/la-commissione-ue-annuncia-un-nuovo-green-pass-questa-volta-permanente/)          

 

 

 

 

La Denuncia delle Forze dell’Ordine:

“10.000 Agenti Malati dopo il Vaccino”.

Conoscenzealconfine.it – (16 Aprile 2023) - Tommaso Croco – ci dice:

 

Un dramma di cui nessuno parla…

Ammalati dopo il vaccino, costretti a fare i conti con delle condizioni di salute improvvisamente peggiorate.

E con la paura, opprimente, di non poter tornare più alla vita di prima.

In un Paese che continua a mettere il bavaglio a chi parla di effetti avversi, ad alzare la voce sono state le forze dell’ordine, portando l’attenzione su tanti casi di cui i giornali mainstream rifiutano di parlare.

Il segretario generale provinciale del sindacato “Cosap Torino”, Luca Cellamare, ha spiegato alle pagine della Verità:

 “Sono almeno 10.000 i nostri colleghi diventati malati cronici dopo il vaccino Covid.

Non guariranno più.

 E più di 50.000 gli appartenenti alle forze dell’ordine o i militari con seri problemi di salute dopo quegli inoculi”.

 Cellamare, che ricopre anche il ruolo di vicepresidente nazionale “Osa” (Operatori sicurezza associati) ha poi spiegato chi sono gli agenti più colpiti da questi terribili sintomi.

Secondo Cellamare, infatti, nella maggior parte dei casi si tratta di agenti “quarantenni ridotti a svolgere con grande fatica le mansioni di sempre. Hanno problemi di natura cardiovascolare, neurologica, pressione alle stelle, fatica a respirare”.

In molti casi si tratterebbe di militari guariti dal Covid e che, a causa dell’obbligo vaccinale, sono strati costretti comunque a sottoporsi all’inoculazione.

Cellamare ha ricostruito quanto accaduto nei mesi della campagna di vaccinazione di massa:

“Di fronte ai primi casi di morti sospette, i medici militari si spaventarono perché non protetti da scudo penale e, in barba ai protocolli, mandarono tutti a vaccinarsi negli hub, dove non veniva fatta l’anamnesi.

Se un collega si rifiutava di dare il braccio perché già guarito dal Covid, veniva sospeso”.

 Il numero uno dell’Aifa, Nicola Magrini, proprio in quei giorni lamentava di avere la mail “intasata” da richieste di esenzione dal vaccino.

 A suo dire “non fondate”.

Oggi sappiamo che, invece, erano più che legittime.

Secondo Cellamare, al momento le commissioni medico ospedaliere che si interessano delle forze dell’ordine “non si occupano delle reazioni avverse.

La maggior parte degli agenti, invece di segnalare le reazioni fa causa di servizio per malattia.

Nel giro di 2/3 anni, quando sarà riconosciuta, significherà almeno 200 euro in più al mese, ma sempre molto meno di quello che comporterebbe l’indennizzo per danno vaccinale”.

Il ragionamento che fanno in molti è:

meglio accontentarsi di qualche soldo in più che andare allo scontro totale e rischiare guai, sospensioni o peggio.

In questo modo, però, la verità è destinata a non venire mai a galla:

“Abbiamo un sommerso spaventoso, perché i colleghi non prossimi alla pensione preferiscono curarsi di nascosto”.

(Tommaso Croco)

(ilparagone.it/attualita/agenti-malati-vaccino-cosap-luca-cellamare/)

 

 

 

Sondaggio sulla Brexit: i due terzi

dei britannici sostengono un

nuovo referendum sul rientro nell’Ue.

Greenreport.it – (2 Gennaio 2023) – Redazione – ci dice:

 

Crescono la disillusione per le promesse non mantenute e la convinzione che il Regno Unito stia andando peggio di quanto era nell’Ue.

Secondo un sondaggio realizzato da “Savanta” per “The Independent”, «Due anni dopo che il Regno Unito è uscito dall’Unione Europea, quasi due terzi dei britannici ora sostengono un referendum per il rientro».

E il sondaggio dimostra anche che «Il numero di persone che si oppongono a un altro voto è diminuito».

Infatti, al di là di come sono intenzionati a votare, più di due terzi dei britannici vogliono un nuovo referendum sul rientro nell’Ue e più della metà degli intervistati ha definito sbagliata la decisione di uscirne.

Il Regno Unito ha lasciato ufficialmente l’Unione europea il 31 gennaio 2020, dopo il referendum sulla Brexit del 2016 che vide prevalere di poco i” sì “dopo una campagna referendaria segnata da fake news e da promesse di un nuovo miracolo economico e sociale che sarebbe arrivato dopo l’uscita dall’Ue e al posto del quale è arrivata una crisi economica e politica che sta demolendo il consenso del Partito conservatore.

 

Dal sondaggio “Savanta – The Independent” emerge che il 65% degli elettori britannici vuole un nuovo referendum, il 10% in più rispetto all’anno scorso.

 Ma l’opinione pubblica britannica è divisa su quando dovrebbe svolgersi questo nuovo referendum:

il 22% lo vorrebbe subito, il 24% entro i prossimi 5 anni, l’11% è per tenerlo tra 6 – 10 anni e il 4% tra più di 20 anni.

Come se l’Unione europea che per lunghi anni ha avuto a che fare con le bizze britanniche, ora dovesse aspettare che il Regno Unito facesse i suoi comodi per poi accoglierlo a braccia aperte…

Intanto, però, il numero di coloro che si oppongono a un secondo referendum sulla ri-adesione all’Ue è sceso dal 32% al 24% e il  sondaggio suggerisce anche che i britannici – che speravano in una rinascita nazionalista e in nuovi fasti imperiali dopo essersi liberati dei lacci e lacciuoli di Bruxelles – hanno maturato in pochissimi anni di delusioni una visione più negativa delle conseguenze della Brexit e il 54% degli intervistati è convinto che lasciare l’Ue è stata una decisione sbagliata, rispetto al 46% dello scorso anno.

Una constatazione che deriva dalla convinzione diffusa che in realtà l’economia e il peso globale del Regno Unito siano stati danneggiati dalla Brexit.

Il 56% degli intervistati afferma che l’abbandono dell’Ue ha peggiorato l’economia (un anno fa era il 44%) e la metà ritiene che dopo la Brexit l’influenza del Regno Unito sulla scena internazionale sia diminuita (erano il 39%).

Una disillusione e un malcontento che derivano dal fatto che i cambiamenti promessi dai fautori della Brexit sono stati scarsi e che la Gran Bretagna non ha aumentato la capacità di controllare i propri confini, per il 50% dei britannici è invece peggiorata e i dati più recenti sull’immigrazione clandestina sembrano dar loro ragione. Il sondaggio arriva dopo uno studio di dicembre del Centre for European Reform (CER), che ha stimato le perdite dovute alla Brexit nel Regno Unito ammontano a 33 miliardi di sterline (37, 33 miliardi di euro).

Swatti Dhingra, del Department of Economics and Centre for Economic Performance, London School of Economics e componente esterna del Monetary Policy Committee della Bank of England, evidenzia che nel frattempo «I prezzi dei generi alimentari sono cresciuti del 6% e la Brexit è costata ai lavoratori britannici (che la hanno votata in massa, ndr) circa il 2,6% dei loro salari in termini reali.

L’uscita dall’Ue ha anche causato una riduzione degli investimenti delle imprese e del commercio complessivo».

Sarà per questo che Fratelli d’Italia e la Lega, che fecero un tifo sfegatato per la Brexit, ora che sono al governo sono diventati europeisti e non parlano più di uscire dall’euro e dall’Europa?

 

 

 

Un’Europa sempre più chiusa.

Lavoce.info - MAURIZIO AMBROSINI – (31/01/2023) – ci dice:

La Commissione prova di nuovo a definire un quadro di regole comunitarie su asilo e ingressi non autorizzati.

Ma per cercare di ottenere l’approvazione dei governi europei sovranisti, il pacchetto allontana la Ue dalla carta dei suoi valori fondamentali.

La lettera di von der Leyen.

Ursula von der Leyen ci riprova.

 Dopo almeno un paio di tentativi di definire un nuovo quadro di regole comunitarie sui temi dell’asilo e degli ingressi non autorizzati (non dell’immigrazione, che è questione ben più ampia e complessa, e rimane in larga parte di competenza degli stati membri), la presidente della Commissione ha pubblicato una lettera ai capi di stato e di governo dei paesi membri con cui prova nuovamente ad assumere l’iniziativa in vista del Consiglio straordinario Ue del 9 e 10 febbraio.

Ogni pacchetto di proposte di von der Leyen sembra spostare la linea dell’Ue sempre più vicino a quella sovranista della chiusura dei confini nei confronti dei profughi provenienti dal Sud del mondo.

A cominciare dalla premessa, in cui ha parlato di un forte aumento degli arrivi irregolari attraverso le rotte mediterranee e dei Balcani occidentali nel 2022, con le cifre più alte dal 2016.

Sembra una constatazione obiettiva, nel felpato linguaggio delle istituzioni comunitarie, ma trascura almeno tre elementi:

primo, i richiedenti asilo non riescono quasi mai ad arrivare con documenti regolari, tanto che la legge li sgrava da contestazioni legali se ottengono lo status di rifugiati;

secondo, il 2022 viene dopo due anni di mobilità limitata causa pandemia;

terzo, nel mondo, oltre alla guerra in Ucraina, si protraggono situazioni di conflitto come quella siriana, mentre l’Afghanistan riconquistato dai talebani continua a produrre fuggiaschi, e nel Sahel è aumentata l’instabilità, insieme alla pressione jihadista.

I quattro pilastri della proposta.

Tra i quattro pilastri e i quindici punti del piano annunciato, il primo, significativamente, è dedicato a “rafforzare le frontiere esterne mediante misure mirate da parte dell’Ue”.

Tra queste, compare la proposta di impiegare fondi comunitari per aiutare gli stati membri “a rafforzare le infrastrutture per il controllo delle frontiere”.

Per parecchi commentatori, significa un cambiamento di linea di Bruxelles in favore del sostegno alla costruzione di muri e barriere, fin qui avvenuta su iniziativa dei governi nazionali, ma senza aiuti comunitari.

Per altri, compresa la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, la costruzione di muri rimane (per ora) esclusa, ma vi rientrano posti di guardia, strade di collegamento e altre strutture al servizio della sorveglianza dei confini.

Con i consueti artifici retorici, si prevede poi di offrire supporto, sotto forma di attrezzature e formazione, ai governi della sponda Sud del Mediterraneo, al fine di “rafforzare la loro capacità di ricerca e soccorso”.

Ossia, tradotto in termini operativi: fornire motovedette e addestramento perché riportino indietro i profughi che cercano di arrivare nell’Ue. È il modello libico applicato su scala più ampia.

Il secondo pilastro, dall’apparenza tecnocratica, parla di “snellimento delle procedure di frontiera”:

si tratta in realtà di perfezionare una lista di paesi di origine considerati sicuri, in modo da escludere per principio i loro cittadini dalla possibilità di ottenere asilo, di stabilire hotspot oltre le frontiere dell’Ue, così da obbligare i profughi a presentare lì le loro domande di asilo, di accelerare le procedure di rimpatrio, finora lente e inefficienti.

Il terzo pilastro dovrebbe preoccupare il governo italiano, perché riguarda la prevenzione dei movimenti secondari, ossia dei tentativi di passare dal primo paese di asilo a un altro paese dell’Ue, solitamente più a Nord.

Qui pesa il regolamento di Dublino, che impone al primo paese d’ingresso l’onere di valutare le richieste d’asilo.

La menzione di una “solidarietà”, ovviamente “volontaria” e quindi non vincolante, non basta ad attenuare la minaccia di nuovi controlli sulle Alpi e nuovi rinvii verso l’Italia di rifugiati intercettati in altri paesi dell’Ue.

 I governi del gruppo di Visegrad, nonostante la prossimità ideologica con il governo italiano e l’alleanza in sede Ue, difficilmente si lasceranno commuovere.

Il quarto pilastro riguarda gli investimenti negli accordi per favorire i rimpatri, con paesi come Pakistan, Bangladesh, Nigeria, oltre a Egitto, Marocco, Tunisia.

I finanziamenti sulla partita dovrebbero arrivare al 10 per cento dei fondi Ue per l’estero.

 Tradotto: spostamento di fondi dalla cooperazione per lo sviluppo al finanziamento di governi autoritari perché si riprendano rifugiati e migranti che la Ue non vuole.

Poche le parole dedicate al versante dell’accoglienza: una rapida menzione dei corridoi umanitari e un cenno agli ingressi per lavoro, che diversi paesi stanno cercando di incrementare.

L’Ue in definitiva si allontana dalla carta dei suoi valori fondamentali per favorire un accordo che coinvolga anche i governi più refrattari alla tutela dei diritti umani universali.

Il sogno sovranista si sta realizzando anche a Bruxelles.

 

 

Consiglio europeo, l'affondo di Schlein:

"Meloni isolata in Ue, FdI voleva uscire dall'euro.

Rapubblica.it - redazione Politica – (25 MARZO 2023) – ci dice:

La segretaria del Pd: per il governo bilancio misero, Italia costretta dietro i muri che i nazionalisti alleati di Meloni vogliono costruire.

Giorgia Meloni si dice "soddisfatta" del Consiglio europeo terminato ieri a Bruxelles.

La leader del Pd, Elly Schlein, la pensa all'opposto:

il governo, attacca la segretaria del Pd, ne esce isolato, schiacciato sull'asse di Visegrad e senza avere portato a casa risultati.

 "È un misero bilancio quello con il quale la presidente Meloni torna dal Consiglio europeo - è l'affondo dell'inquilina del Nazareno –

I nodi vengono al pettine e la mancanza di credibilità sulla scena europea è il risultato non solo delle scelte e delle alleanze strette in questi anni, ma anche dell'atteggiamento propagandistico ed euroscettico che ha portato spesso la leader di Fratelli d'Italia su posizioni vicine a chi vorrebbe l'uscita del nostro Paese dall'euro".

Schlein, che giovedì ha esordito proprio a Bruxelles al vertice del Partito socialista europeo, dove ha incontrato i primi ministri Pedro Sanchez, Olaf Scholz e Sanna Marin e i commissari europei Frans Timmermans e Paolo Gentiloni, gioca sul dualismo con Meloni.

 Sta tessendo la sua rete di relazioni internazionali e batte sul chiodo della solitudine della premier nel consesso europeo.

"Il governo italiano - sostiene Schlein - resta isolato nella condivisione di responsabilità sull'accoglienza, con l'Italia costretta dietro i muri che i nazionalisti alleati di Meloni vogliono costruire.

 La propaganda non risolve nulla, gli italiani e le italiane se ne stanno accorgendo.

In passato quando si è provato a riformare il Regolamento Dublino la destra non si è fatta trovare, i primi da convincere sono i loro alleati, chissà se con loro ha il coraggio di parlarne Giorgia Meloni".

 

 

 

Uscire dall’Euro: e se alla fine

lo facesse la Germania?

Il documento.

Quifinanza.it – (29 luglio 2022) – Redazione – ci dice:

 

Un fronte di economisti tedeschi lavora sull'opportunità di una procedura di uscita ordinata dall'euro, anche per la Germania stessa.

Che dunque ha a sua volta un piano B.

Uscire dall’Euro: e se alla fine lo facesse la Germania? Il documento.

Mentre in Italia infuriano le polemiche sugli sviluppi della crisi politico-istituzionale, nata in primo luogo sull’adesione o meno alla moneta unica, in Germania ci si divide fra chi tira un sospiro di sollievo e chi, in previsione di altri possibili futuri scossoni, studia un piano di uscire dall’euro.

 Non solo per paesi in difficoltà come l’Italia, ma anche per la Germania stessa, se dovessero verificarsi le condizioni.

Procedure.

Al momento, infatti, non è prevista alcuna procedura di questo tipo, indipendentemente da chi la rivendichi.

 Ci si pone dunque il problema di cosa dovrebbe accadere nel caso in cui un Paese, per scelta più o meno volontaria, non appaia più in grado di restare all’interno della moneta unica.

 Si presume che un Paese dovrebbe passare comunque per l’uscita dalla Ue:

gli accademici tedeschi – riporta Il Messaggero – vogliono invece che sia prevista esplicitamente e direttamente questa opzione, in modo che possa essere applicata a Paesi in difficoltà, ma anche alla stessa Germania qualora si prospetti un assetto europeo troppo basato sulla condivisione dei rischi degli altri, come da spinte dei paesi dell’Europa meridionale.

Insomma qualcosa che somiglia, dalla prospettiva tedesca, a quello stesso piano B di Paolo Savona che in questi giorni è entrato nell’attualità politica italiana.

Finanza.

A dimostrazione del fatto che la politica si agita tanto, ma di fronte alla finanza decide ben poco, non si tratta solo un tema politico, ma anche e forse soprattutto finanziario.

 Tutto ruota intorno a Target 2, la piattaforma dell’Eurosistema sulla quale passano i flussi di pagamento tra le banche europee.

Il numero due della Bce Constancio ha confermato recentemente quanto aveva già detto lo stesso Mario Draghi all’inizio dello scorso anno: in caso di uscita dall’Unione monetaria, un Paese dovrebbe regolare i conti.

L’Italia ha uno sbilancio di circa 400 miliardi, mentre Berlino al contrario ha una posizione positiva per circa 900: questi squilibri dovrebbero essere saldati, con evidente vantaggio per i Paesi forti.

 

 

I firmatari.

I firmatari del documento – riporta sempre Il Messaggero – includono Jürgen Stark, già membro del board della Bce e Hans-Werner Sinn, già a capo del think tank Ifo.

Nel mirino ci sono soprattutto le recenti proposte del presidente francese Marcon e del numero uno della commissione europea Juncker.

Non piace tutto ciò che può andare in direzione di una condivisione dei rischi all’interno di Eurolandia.

Dal punto di vista dei firmatari avrebbe l’effetto di deresponsabilizzare ulteriormente i Paesi meno attenti all’equilibrio dei conti e di fermare il processo di eliminazione dei crediti inesigibili delle banche.

Dunque no al Fondo monetario europeo, no al ministro delle Finanze e no ad un sistema comune di garanzia dei depositi.

Ma ce n’è anche per Mario Draghi, la cui politica monetaria rappresenterebbe già una forma di monetizzazione del debito, ben al di là di quanto prevede lo statuto della Bce.

E la monetizzazione del debito per molti in Germania è il peccato mortale della politica economica.

I tedeschi che vogliono un’altra Europa.

Anche in Germania, tuttavia, c’è chi caldeggia cambiamenti tangibili nell’architettura comunitaria per evitare uscite unilaterali dalla moneta unica.

Il presidente dell’Istituto economico tedesco Diw, Marcel Fratzscher, in un’intervista al RedaktionsNetwerk sollecita con urgenza il governo tedesco sulle riforme europee proposte da Emmanuel Macron, rilanciando l’allarme sulla circostanza che “le dimensioni e l’importanza dell’Italia” renderebbero una crisi a Roma molto problematica anche per la Germania.

“Se l’Italia anche solo si avvicina allo squilibrio è troppo grande per essere salvata”, afferma Fratzscher, uno degli economisti molto comprensivi con le esigenze dei paesi dell’Europa del Sud negli anni della crisi, e vicino a tesi keynesiane.

“La Bce non potrà dire: c’è forse una volontà politica di uscire dall’euro, ma noi eviteremo che il governo lo faccia”, aggiunge.

E se la Bce non può stabilizzare l’Italia, è il ragionamento, “non può farlo nessuno”. “Che cosa aspettiamo allora a svegliarci e a realizzare le riforme di Macron?”.

 Il governo tedesco dovrebbe finalmente muoversi, “mettere un piano concreto sul tavolo e dire cosa voglia”, è la conclusione.

 

 

 

Un’Europa delle patrie

senza visione comune.

Ilsole24ore.com - Donald Sassoon – (21 marzo 2017) – ci dice:

 

Europa, la parabola degli Stati-nazione.

(25 marzo 1957: firma del Trattato di Roma). 

E dunque eccoci ancora una volta a discutere dell’Europa. Qualcuno pensa sia ovvio: non abbiamo sempre discusso dell’Europa?

 In realtà no: noi europei abbiamo cominciato a discutere dell’Europa solo di recente, solo a partire dalla seconda guerra mondiale.

Quando l’Europa era il centro dell’universo, più di centocinquant’anni fa, gli europei non parlavano dell’Europa, ma delle rispettive nazioni.

Ma ora che ogni nazione europea, perfino la Francia, perfino la Gran Bretagna, perfino la Germania, appartiene alla periferia del mondo, parliamo incessantemente dell’Europa, ci domandiamo quale sia il suo ruolo, dove vada.

Perdonatemi se faccio un passo indietro, com’è abitudine degli storici; d’altronde, il passato è il nostro territorio.

Centocinquant’anni fa, gli europei erano impegnati a creare gli Stati-nazione, non l’Europa.

Nessuno parlava di un’Europa unita, nemmeno Giuseppe Mazzini, che accettava l’idea che un'Europa unita fosse possibile solo dopo la creazione degli Stati nazionali.

L’Europa all’epoca era talmente divisa che quando gli europei pensavano alla guerra pensavano soprattutto alla guerra contro altri europei:

i britannici e i francesi avevano paura dei tedeschi, gli italiani degli austriaci, i russi si inquietavano di tutto, come oggi.

Lungi dall’unirsi, centocinquant'anni fa gli europei si preparavano alle guerre più gravi della loro storia, più gravi della Guerra dei Cent’anni, più gravi della Guerra dei Trent’anni.

Un secolo fa, la prima guerra mondiale (definita mondiale, ma combattuta principalmente in Europa) distrusse la possibilità di una supremazia planetaria del vecchio continente.

 E si svolse in un’epoca in cui gli Stati Uniti erano già la prima potenza industriale del pianeta, anche se gli europei non ne erano ancora consapevoli.

 

Nel momento in cui il conflitto terminò, solo i più lungimiranti si resero conto che l’Europa non poteva più essere il centro dell’universo, ma la maggior parte degli europei non lo aveva ancora capito.

 I britannici e i francesi, che possedevano gli imperi più grandi, continuarono a coltivare le loro illusioni per tutti gli anni 20 e 30.

 E continuano a fare la stessa cosa oggi, decenni dopo aver perduto i loro imperi.

Anche altri coltivavano illusioni.

I russi esattamente cento anni fa cominciarono un’esperienza straordinaria: la costruzione di una società industriale che avrebbe dovuto diventare un modello per il resto del mondo, perché avrebbe condotto a una società comunista giusta ed eguale, senza classi sociali né proprietà privata.

Anche i tedeschi, sotto Adolf Hitler, sognavano un’Europa unita sotto la loro direzione, purificata di elementi indesiderabili come ebrei, zingari e slavi.

E non dimentichiamo Mussolini e i suoi sogni patetici di un ritorno alle glorie dell’antica Roma.

La seconda guerra mondiale aggiunse altri cinquanta milioni di morti ai venti della prima e completò la relegazione dell'Europa dal centro alla periferia del pianeta.

Nei decenni successivi, i francesi e i britannici, per non parlare dei belgi e dei portoghesi, dovettero abbandonare i loro imperi.

L’Europa stessa era divisa tra Est e Ovest, così come la Germania.

Le nuove generazioni erano consapevoli dell’orrore delle guerre e determinate ad abbandonare qualsiasi progetto bellicoso.

Il sogno comunista incarnato nell’Unione Sovietica sprofondò inopinatamente tra il 1989 e il 1991.

La situazione con cui ci confrontiamo oggi e che continueremo ad affrontare è determinata in larga parte da quell’evento capitale.

Ma consentitemi di tornare innanzitutto sulla questione della sedicente supremazia europea.

 L’Europa, anche prima del XVIII secolo, non era il centro dell’universo.

Immaginiamo un’astronave extraterrestre (da Marte o da Giove), con a bordo sociologi, storici, antropologi e così via, incaricata di una missione di indagine sul pianeta Terra.

Se fosse arrivata nel XVI o nel XVII secolo è poco probabile che avrebbe evidenziato, nel suo rapporto, la supremazia mondiale dell’Europa, salvo forse in certi ambiti scientifici.

La Cina, l’India dei Moghul e forse perfino il Giappone erano politicamente più avanzati, con una burocrazia più sofisticata e una medicina più progredita;

 questi tre imperi avevano un livello artistico comparabile a quello del Rinascimento, erano molto avanti dal punto di vista tecnologico e straordinari in matematica.

 (Dopo tutto furono gli indù a inventare quelli che chiamiamo numeri arabi nel III secolo avanti Cristo, ripresi poi dagli arabi a partire dal IX secolo e giunti in Europa soltanto nel X secolo.)

È anche certo che la barbarie e l’intolleranza in Europa erano molto più pronunciate che altrove: prima del XVIII secolo, era sicuramente meno pericoloso vivere sotto l’islam o il Buddha che nell’Europa cristiana.

E fuori dall’Europa gli europei non erano particolarmente illuminati, basti pensare alla sorte degli indiani d'America o degli aborigeni australiani, degli abitanti del Congo belga o dell’Africa Tedesca del Sudovest (l’odierna Namibia).

 E la barbarie e l’intolleranza europea proseguirono anche a Novecento inoltrato, come Auschwitz e i gulag dovrebbero ricordarci.

Consiglio prudenza quando si invoca, con una certa arroganza, la tradizione dell’Illuminismo.

 E sono molto diffidente ogni volta che sento qualcuno parlare con orgoglio dei valori britannici, o francesi, o europei.

L’ipotesi della supremazia europea è stata sviluppata nel corso del XVIII secolo, quando ci si compiaceva delle conquiste intellettuali dell’Illuminismo, della sua razionalità e del suo trionfo sull’oscurantismo clericale.

 Questo sentimento di superiorità si è rafforzato nel XIX secolo, quando la supremazia europea poggiava su una base solida: lo sviluppo di una società capitalista industriale e tecnologica.

Peraltro, quelli che all’epoca parlavano della superiorità dell’Europa non parlavano di tutto il continente.

Si inventa sempre l’Europa che si desidera.

Si inventa sempre l’Europa che si desidera.

L’«Europa» vista come faro di civiltà, modello di modernità, comprendeva tutt’al più l’Europa occidentale.

Non era l’Europa geografica che si estende dalla costa occidentale dell’Irlanda e dalla penisola iberica fino al Caucaso e a Costantinopoli, dai paesaggi ghiacciati dei Paesi scandinavi al clima più caldo della Sicilia.

Questa contrapposizione tra un Oriente e un Occidente astratti è di vecchia data e risale all’antichità, al mondo della Grecia antica e di Roma.

 Ma l’identificazione dell’«Europa» con l’Europa occidentale, e la concomitante visione negativa dell’Oriente, sono un traslato ricorrente dall’Illuminismo in poi.

Voltaire, nella sua Storia di Carlo XII (uno dei bestseller del XVIII secolo), dava per scontato, e non del tutto a torto, che i suoi lettori fossero quelli che vivevano in Europa occidentale, l’Europa civilizzata, e non nelle zone «desolate» e fredde del Nord, o nelle «regioni distanti» dell’Europa dell'est.

 Nella sua Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il Grande, il grande pensatore illuminista sottolineava che i riformatori come lo zar Pietro il Grande non cercavano di imitare la Persia o la Turchia, ma cercavano un modello nella «nostra parte dell'Europa, dove i talenti si rendono eterni in ogni genere».

 

L’Occidente significava il progresso, la laicità e i diritti dell’uomo, e perfino i diritti delle donne.

Montesquieu, nello Spirito delle leggi, dopo aver diviso i governi in repubblicano, monarchico e dispotico, conclude affermando che costumi come la poligamia confermano che è proprio in Asia «che il dispotismo è, per così dire, naturalizzato».

Alcuni esponenti delle classi dominanti nell’Impero Ottomano, in Cina e in Giappone erano d’accordo.

Desideravano preservare la loro «anima», la loro cultura, la loro tradizione, ma volevano anche la modernità, nella convinzione che il favoloso «pacchetto» occidentale potesse essere smantellato nei suoi diversi elementi e che fosse possibile scegliere fra di essi come si scelgono le pietanze da un menù.

D’altro canto, il loro fascino per l’Europa cominciò soltanto nel momento in cui l’Europa era diventata militarmente superiore, nel corso del XIX secolo, e minacciava la loro sopravvivenza.

Era una novità.

Prima, l’Oriente guardava l’Occidente dall’alto in basso, o per meglio dire non si prendeva il disturbo di guardarlo, perché non aveva nulla da imparare dall’Occidente.

 L’Occidente, al contrario, almeno nel XVII e XVIII secolo, era affascinato dall’Estremo Oriente, e in particolare dalla Cina della dinastia Qing:

 da qui i giardini anglocinesi di Kew, di Potsdam, di Drottningholm, di Monaco di Baviera, di Tivoli (a Copenaghen), le porcellane e gli armadi laccati importati o imitati, gli artisti rococò che si ispiravano ai motivi decorativi cinesi, la «saggezza» cinese (c'è sempre molta fantasia in questo genere di culto) ammirata dai pensatori europei dell’epoca.

Quella visione era costruita sulla base di resoconti che risalivano al XVII secolo ed erano stati scritti dai gesuiti, che erano andati in Asia per convertire i pagani e avevano scoperto la ricchezza, il gusto per la cultura e per l’arte, una burocrazia sbalorditiva e benevola e dirigenti tolleranti.

Poi tutto è cambiato.

Alla fine del XIX secolo gli imperatori Qing, a malincuore, decisero di abbracciare la modernità, e dunque l’Europa.

Venne distribuita una lettera ai funzionari provinciali di quel vasto impero, che sollecitava proposte di riforme.

 La risposta di due governatori provinciali, Liu Kunyi e Zhang Zhidong, è particolarmente significativa:

«Tre cose sono essenziali per una nazione: la prima è il governo, la seconda la ricchezza, la terza la potenza […] Il modo migliore per ottenere un buon governo è riformare le istituzioni autoctone; ma per ottenere ricchezza e potenza bisogna adottare i metodi occidentali».

L’Est ormai guardava all’Ovest con paura e ammirazione.

Poi, molto più tardi, fu il turno dell'Europa di guardare verso il «suo» Ovest, cioè gli Stati Uniti, con paura e ammirazione. Ma quell'Europa era ancora l’Europa occidentale (chiaramente non l’Europa comunista).

L’integrazione europea e l’orientamento al mercato.

Fu soprattutto la necessità di sviluppare un mercato più ampio di quelli nazionali che fece nascere la Comunità economica europea, come veniva chiamata allora.

All’inizio era essenzialmente una piccola zona di libero scambio: sei Paesi, una minoranza degli abitanti del continente.

Malgrado ciò, la Comunità divenne rapidamente, e anche imperfettamente, il fulcro dei sogni di unità per numerosi europei.

In alcuni casi, questi sogni erano quelli di un ritorno a una gloria molto lontana nel tempo.

In altri casi, erano un modo per resistere e difendersi contro la potenza americana. In altri casi ancora, era soltanto un desiderio di prosperità.

 E per molti tutto questo voleva dire far parte di un progetto moderno ed evitare di essere messi da parte.

 

 

I Sei sono diventati Ventotto.

Ogni tappa che conduceva dai Sei ai Ventotto veniva descritta come un passo verso l’unità europea.

Naturalmente le cose sono molto più complicate di così.

 L’Europa dei Ventotto (ben presto Ventisette) è profondamente divisa, cosa che non sorprende se si considera che l’Europa non è mai esistita come entità politica unita.

 Nessun conquistatore, nessun Paese, è mai riuscito a imporre il suo dominio su tutti gli abitanti del nostro continente: non i Romani, non Carlo Magno, non Napoleone e non Hitler.

Le origini dell’Unione Europea riflettono questa disunione.

Gli Stati membri hanno aderito per ragioni differenti.

Per i britannici fu il successo economico della Comunità europea che finì per convincerli;

 i danesi e gli irlandesi entrarono contestualmente a Londra perché all’epoca le loro economie erano fortemente legata a quella del Regno Unito.

 La Grecia, la Spagna e il Portogallo fecero il loro ingresso per facilitare la rottura con un passato recente di dittature.

Successivamente la Svezia, l’Austria e la Finlandia si aggiunsero agli altri per ragioni economiche, in buona parte.

Dopo il 1991, i Paesi che erano stati comunisti avevano bisogno di rompere con il passato, e soprattutto speravano di acquisire il livello di prosperità dell’Occidente.

Il fatto che l’ethos dominante sia orientato verso il mercato non deve sorprendere un osservatore della storia dell’integrazione europea.

 La sua forza motrice è sempre stata la soppressione delle barriere extraeconomiche e la creazione di un mercato unico a moneta unica.

 La legislazione sul welfare è sempre rimasta saldamente nelle mani degli Stati-nazione.

 Lo stesso dicasi per la fiscalità, principale strumento di decisione economica e protezione sociale.

Si può costruire un'identità europea?

È opportuno farlo? Che cosa implicherebbe?

Il solo modello che abbiamo a questo riguardo è la costruzione dell’identità nazionale, e questo ci riporta al XIX secolo, quando la storia, appena insediatasi nel mondo accademico, divenne una disciplina importante: la rivoluzione romantica l’aveva riposizionata come «narrazione maestra», un romanzo nazionale in cui i popoli potevano leggere la loro biografia.

Gli eroi potevano ancora essere re e regine, ma solo in quanto rappresentanti del «genio» della nazione.

Gli storici, che per secoli erano stati i lacchè dei sovrani, cronisti di menzogne, potevano ora acquisire un ruolo «democratico».

Gli storici britannici del XIX secolo presentavano una visione edulcorata e del tutto rassicurante dell’evoluzione della storia nazionale, come una successione di riforme intelligenti basate sul pragmatismo, un racconto di progressi costanti verso maggiore democrazia e maggiori diritti.

Una classe dirigente illuminata, secondo la loro visione, aveva ceduto alla pressione popolare esattamente nel momento giusto, prima che le masse imboccassero la strada di una rivoluzione violenta.

Contrariamente ai francesi, sempre rivoluzionari ma incapaci di creare uno Stato solido, agli italiani, confusi e incapaci, ai tedeschi militaristi, ai polacchi disperatamente romantici, i britannici avevano sempre fatto quello che bisognava fare e lo avevano fatto bene.

Questo cliché banale domina ancora la visione britannica e ha giocato un ruolo importante nel recente referendum sulla Brexit.

Non è possibile scrivere per l’Europa l’equivalente di quello che furono i romanzi nazionali.

Certo, c’è una mitologia del progresso e della missione civilizzatrice (che ignora i numerosi imprestiti culturali che ci vengono dall’Oriente, e in particolare dalla Cina, dall’India e dal Medio Oriente). Ma c’è anche una storia sanguinosa di guerre e genocidi.

Oggi, dopo aver conquistato la loro libertà professionale, gli storici non corrono il rischio di adattare i loro insegnamenti e i loro libri alle esigenze di un’«identità europea comune».

Certo, sarebbe una buona cosa se gli europei avessero una maggiore percezione di condividere un destino comune, soprattutto perché la dissoluzione dell’Unione Europea sarebbe una catastrofe politica ed economica.

 Ma la stessa Unione Europea ha sempre avuto cura di aggiungere, ogni volta che si parlava di coesione e identità, che era necessario anche rispettare le identità nazionali esistenti.

Io non penso che un’identità europea possa essere insegnata.

 Non penso che si possa fare dell’Europa uno Stato-nazione, anche se la costruzione lenta e faticosa dell'Unione Europea è il risultato di maggior rilievo di tutta la storia continentale.

Il nostro presunto patrimonio comune.

Ma non dimentichiamo che le conoscenze storiche della maggior parte delle persone non si fondano unicamente su quello che hanno imparato a scuola e all’università.

Un tempo la storia si apprendeva anche dai ricordi deformati o inventati dei genitori e dei nonni: oggi le conoscenze storiche, più o meno incoerenti, si formano sulla base delle informazioni diffuse dai media, i giornali, in parte i libri (i romanzi storici) e soprattutto le serie televisive e i film.

 

Attualmente, la storia che viene insegnata nelle scuole della maggior parte dei Paesi europei di solito poggia su un pilastro fondamentale: la storia del proprio Paese.

A questo pilastro si aggiunge un po’ di storia greca e romana, il nostro presunto patrimonio comune (un concetto inventato nel corso dei secoli precedenti); e poi si studiano una serie di avvenimenti maggiori (le Crociate, il viaggio di Cristoforo Colombo, la Rivoluzione Francese) e qualche punto di riferimento fondamentale, come il Rinascimento e l’Illuminismo.

La prima metà del XX secolo è presente con le due guerre mondiali.

 La seconda metà è pressoché assente.

Quello che non viene insegnato è che gli europei non hanno scelto realmente la propria nazione.

Sono diventati inglesi, e poi britannici, tedeschi, francesi, italiani e perfino belgi. Hanno delle identità regionali (scozzesi o gallesi, guasconi o bretoni, bavaresi o prussiani, siciliani o piemontesi) che avrebbero potuto essere identità nazionali se la storia avesse preso un’altra piega.

Ma alla fine, grazie a uno Stato che ha regalato loro una burocrazia, un sistema scolastico, una lingua comune, delle istituzioni comuni, e grazie a guerre, inni nazionali, tornei sportivi, concorsi canori in eurovisione e così via, gli europei hanno imparato a identificarsi con un insieme specifico di istituzioni politiche che chiamiamo «Stati-nazione».

Consentitemi di immaginare uno scenario.

Immaginiamo che nel Regno Unito succeda qualcosa di terribile, per esempio una catastrofe economica, qualcosa che convincerebbe gli scozzesi, i gallesi e gli irlandesi che sarebbe meglio separarsi. D’altronde può succedere, quantomeno in Scozia.

Immaginiamo anche che la catastrofe sia talmente grave che altre regioni dell’Inghilterra decidono di diventare indipendenti, per esempio lo Yorkshire, il Lancashire o la Cornovaglia.

Oggi esiste un partito nazionalista in Cornovaglia, ma è considerato una barzelletta. Ma anche i nazionalisti scozzesi venivano considerati una barzelletta quarant’anni fa, e oggi non ne ride più nessuno.

Immaginiamo la Cornovaglia come nuovo Paese indipendente.

Non è impossibile, considerando che la sua popolazione è più o meno la stessa del Lussemburgo (500mila abitanti) e la superficie è leggermente maggiore.

Il nuovo Governo nazionalista comincerà immediatamente a costruire un’identità cornica e una cultura cornica.

 Attualmente, a quanto risulta, a parlare il cornico, l’antica lingua celtica della Cornovaglia, sono meno di 3mila persone, ma il nuovo governo nazionalista potrebbe costringere le scuole a insegnarlo.

D’altronde il Governo britannico nel 2002, forse per compiacere l’elettorato locale, decise che il cornico poteva essere inserito nell’elenco delle lingue riconosciute dalla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (l’Unione Europea promuove le identità regionali locali).

 Nel 2005 stanziò 80mila sterline per la promozione della lingua, l’equivalente del salario di due insegnanti.

 

Successivamente, il Governo della Cornovaglia potrebbe stabilire che la conoscenza della lingua «nazionale» è un requisito obbligatorio per lavorare alle dipendenze dello Stato.

Potrebbe sovvenzionare un giornale in cornico (anche adesso uno dei giornali locali di tanto in tanto propone un articolo in cornico).

Non esiste una letteratura cornica (tranne qualche testo del Medioevo), ma il nuovo Governo potrebbe «annettersi» dei personaggi letterari che hanno vissuto in Cornovaglia (ce ne sono parecchi, perché è una bella regione), oltre a leggende antiche come quella di Tristano e Isotta, che si svolge in Cornovaglia e su cui Wagner ha fondato la sua celebre opera, basandosi su un racconto di un altro tedesco, Gottfried von Strassburg, del XIII secolo.

Per costruire un nazionalismo del genere, tuttavia, è necessario avere uno Stato, un sistema fiscale, una polizia e un esercito.

Se le cose andranno bene, si celebrerà una nuova età dell’oro per la Cornovaglia. Se andrà male, si potrà sempre dare la colpa agli inglesi.

L’Unione Europea non dispone di meccanismi come un sistema fiscale, una polizia e un esercito.

È impossibile costruire l’identità europea usando gli stessi metodi usati per costruire l’identità francese, britannica o tedesca.

Il desiderio di un’Europa sociale.

Al momento, lo Stato-nazione è ancora il riferimento principale in materia di identità politica per la maggior parte degli europei, anche se esiste un rigetto crescente verso i politici nazionali.

Il paradosso è che sarebbe legittimo aspettarsi che gli europei, delusi dalla politica nazionale, guardino all’Unione Europea: invece succede che la collera contro la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno alle destre nazionaliste.

Ma perché ci sono così tanti scontenti, o quantomeno delusi, considerando che gli europei non sono mai stati così ricchi e non hanno mai conosciuto un periodo così lungo di prosperità e pace?

Il progetto europeo non è riuscito a diventare un elemento centrale della vita politica perché l’Unione Europea avrebbe avuto bisogno di più poteri.

Ma per acquisire più poteri avrebbe dovuto avere il sostegno della maggior parte degli europei, avrebbe dovuto conquistare i cuori e gli spiriti, “hearts and minds”. Ed è appunto questa l'impasse in cui si trova l’Unione.

Si era provato a dare all’Europa una Costituzione, nella speranza che potesse divenire una carta federatrice.

Ma i problemi, al contrario si sono moltiplicati e la Costituzione è diventata un fattore di disunione.

Napoleone avrebbe detto che una Costituzione deve essere corta e oscura.

La Costituzione europea, abortita e ormai dimenticata, metà del test napoleonico lo superava: era oscura, ma di certo non era corta.

L’ambiguità è un’arma a doppio taglio: nel caso specifico era servita per unire quelli che volevano essere uniti e trovare qualcosa di positivo nel testo, ma fornì anche argomenti a quelli determinati a far naufragare il trattato costituzionale.

 È ciò che è successo con la vittoria del no nei referendum sull’adozione della Costituzione organizzati in Francia e in Olanda nel 2005.

Il trattato di Lisbona ha ripreso gli elementi di fondo del progetto, ma si tratta di un accordo fra Paesi e non possiede la forza simbolica di una Costituzione.

Gli europei desideravano un’unione sempre più stretta? Evidentemente no. Desideravano un’Europa ancora più orientata verso il mercato? Probabilmente no.

 Desideravano un’Europa «sociale»?

Sicuramente sì, e questo è normale, perché praticamente nessuno desidera pensioni basse, cure sanitarie costose, orari di lavoro lunghi e nessun aiuto per le famiglie giovani.

Tuttavia, non si può negare che l’etica della Costituzione (come della maggior parte delle iniziative dell'Ue) corrispondeva a un’Europa «dei mercati», più che a un'Europa «sociale».

Tutti i documenti europei, la Costituzione e i trattati, erano, inevitabilmente, un compromesso che riflette una realtà politica, un equilibrio determinato da forze dove l’Europa sociale è in posizione di debolezza.

È molto difficile, quindi, raggiungere un compromesso su questioni «interne»; non si riesce a raggiungerlo nemmeno sulla politica estera, dove non c’è una posizione europea comune, o quando c’è risulta inefficace.

Incapaci di vedere al di là del confine.

Sui principali temi internazionali non esiste una posizione europea comune che faccia da contrappeso agli Stati Uniti, soprattutto ora che l’inquilino della Casa Bianca si chiama Donald Trump.

 Non esistono iniziative europee uniche, non esistono soluzioni europee uniche. Nessuno si rivolge all’Europa per sapere cosa fare.

Inoltre, gli europei non sanno molto gli uni degli altri.

Non conoscono nemmeno le canzoni di musica leggera, i libri più venduti o i programmi televisivi degli altri Paesi.

 Il solo Paese che ogni europeo conosce altrettanto bene del proprio sono gli Stati Uniti.

Contribuiscono a ciò i film, i romanzi, le canzoni, ma anche i media giocano un ruolo:

le elezioni nei Paesi europei sono quasi ignorate dai mezzi di informazione degli altri Stati (anche se la Francia e la Gran Bretagna una certa attenzione la ricevono), mentre le elezioni americane sono sistematicamente esaminate, discusse, dissezionate e commentate.

Questo livello di attenzione è largamente giustificato: alla maggior parte di noi, per ragioni ovvie, interessa di più chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti che chi sarà il primo ministro di tutti gli altri Paesi membri dell’Unione Europea. E oggi più che mai, con Trump presidente, sarebbe essenziale che l’Europa fosse unità. Ma non lo è.

Un giovane belga sa qualcosa di Abraham Lincoln, George Washington, Martin Luther King, ma pochissimi giovani americani sanno anche soltanto dove si trovi il Belgio, e la maggior parte di loro non ha mai sentito parlare di Goethe, di Victor Hugo o di Dante Alighieri.

Esiste naturalmente una classe internazionale di intellettuali cosmopoliti, che parlano diverse lingue (in particolare l'inglese), viaggiano e hanno amici in diversi continenti, con cui condividono molte conoscenze.

 Sono l’equivalente degli eruditi del Medioevo che avevano in comune una religione (il cristianesimo), una lingua (il latino) e una cultura (la cultura classica), mentre la maggior parte degli europei non sapeva leggere e scrivere ed era capace a malapena di guardare al di là del proprio villaggio.

Oggi questa classe internazionale, anche se certamente più numerosa degli intellettuali cosmopoliti del Medioevo, è una minoranza.

Gli altri sono ancora rinchiusi nel loro villaggio, con l’unica differenza che ora il villaggio è lo Stato-nazione.

 La prova si può vedere nel successo di popolari giochi televisivi come Chi vuol essere milionario?

 Il gioco, nato originariamente in Gran Bretagna, si è esteso a un centinaio di Paesi diventando il quiz televisivo più internazionale di tutti i tempi.

 Il format è sempre lo stesso: le domande sono in ordine di difficoltà crescente e i concorrenti, quando non riescono a rispondere, hanno una o due possibilità di telefonare a un amico o domandare al pubblico.

Guardando questo programma si osserva che i concorrenti sono gente «ordinaria», non professori universitari (che hanno troppa paura di andare incontro a un’umiliazione pubblica), ma informatici, professori di liceo, segretarie e così via.

Il gioco non potrebbe funzionare se le domande non fossero adattate alle culture nazionali, perché esistono pochissime conoscenze che siano realmente globali.

 Per esempio la domanda «Chi ha scritto I promessi sposi?» in Italia sarebbe elementare, ma sarebbe di elevata difficoltà non soltanto in Illinois, ma anche in Francia o in Inghilterra, dove Manzoni è pressoché sconosciuto.

I personaggi conosciuti ovunque sono le celebrità della cultura popolare internazionale: certi cantanti, certi attori e certi politici, di solito americani.

Prove recenti di questa ignoranza della cultura dei Paesi vicini le fornisce un'indagine condotta nel 2008 dal ministero della Cultura francese (a cui ho partecipato).

Lo scopo dell'indagine era stabilire che cosa sapevano i tedeschi, gli italiani e i francesi delle altre culture vicine (dove la cultura era definita come il genere di conoscenze che si imparano a scuola).

 I risultati sono estremamente allarmanti.

Alla richiesta di citare due uomini che hanno avuto un impatto significativo sulla storia della Germania prima del 1900, il 70 per cento degli italiani e il 72 per cento dei francesi non hanno saputo fornire neanche una risposta: nemmeno Bismarck;

il 7 per cento ha citato Hitler, che nel 1900 aveva soltanto undici anni!

Il 70 per cento dei francesi e il 63 per cento dei tedeschi non sono in grado di menzionare un solo protagonista della storia italiana prima del 1900: neppure Garibaldi.

 La Francia va meglio grazie a Napoleone, che è citato da un terzo degli italiani e dei tedeschi, ma il 32 per cento dei tedeschi e il 40 per cento degli italiani non riuscivano a ricordarsi di un solo personaggio storico francese.

(Altrove va ancora peggio: il 12 per cento degli adulti americani identifica Giovanna d'Arco – Joan of Arc – come la moglie di Noè, per via di Noah's Ark, cioè l'Arca di Noè in inglese.)

Se siete un monumento, vi conviene essere pendente: la torre di Pisa era l’edificio italiano più conosciuto.

Solo il 10 per cento dei francesi sapeva che Dante è l’autore della Divina commedia, anche se la maggior parte degli europei probabilmente ha sentito parlare di Pinocchio (in gran parte grazie a Walt Disney).

 I partiti comunisti di Francia e Italia per molto tempo sono stati i partiti comunisti più forti dell’Europa occidentale, ma il loro fallimento è evidente: solo il 33 per cento degli italiani e il 16 per cento dei francesi erano in grado di identificare Karl Marx come l’autore del Capitale.

Un’Europa degli orticelli nazionali.

Potremmo continuare con queste statistiche penose, ma il fatto è che de Gaulle aveva ragione:

l’Europa in realtà è un’Europa delle patrie.

Tutti conoscono un po' il loro orticello nazionale, ma non quello degli altri.

Non è perché le persone sono «ignoranti», ma perché il meccanismo di rafforzamento culturale è dominato quasi completamente dallo Stato-nazione, sia che si parli dei mezzi di informazione sia che si parli della scuola.

Ci sono numerose «piccole» eccezioni a questa carenza di conoscenze mondiali, almeno nell’ambito della cultura popolare, e succede soprattutto quando si parla della cultura popolare inglese: tutti conoscono i Beatles, i Rolling Stones e Harry Potter.

 Tintin è mondiale, anche se non tutti sanno che il suo autore è belga.

Ma gli Stati Uniti restano in ogni caso il solo Paese capace di esportare gran parte della propria produzione culturale, forse perché non hanno una vera e propria cultura nazionale (cosa facilitata dal fatto che la loro cultura, essendo terra di immigrati, è un miscuglio di tante culture diverse).

Dunque non esiste una cultura europea comune, non esiste uno Stato sociale europeo, non esiste un esercito europeo, non esiste un patriottismo europeo.

 In queste condizioni non ci possono essere piani ambiziosi per l’Europa, nessuna bacchetta magica: solo il tentativo difficile di stabilire regole di coesistenza.

E l’Europa di oggi è sempre meno «sociale».

I Paesi dove il welfare è limitato (cioè la maggior parte dei nuovi membri) sanno che il loro vantaggio competitivo risiede in salari bassi, poche tasse e poche indennità sociali. Le disuguaglianze sociali tra i diversi Stati membri rimangono dunque un elemento costitutivo dell’Unione Europea.

C'è molto di «sociale» in Europa, ma avviene a livello dei singoli Stati membri, in particolare quelli di più vecchia data.

L'Europa sociale, infatti, è materia esclusiva della politica nazionale.

 La politica sociale rafforza l’identità svedese, danese, francese o tedesca, ma serve a poco per l’identità europea.

«Identità europea», come molti altri concetti nebulosi di cui è quasi impossibile definire il senso, è un’espressione calorosa e confortante. Quasi tutti possono essere europei più un’altra cosa.

 Solo gli ultranazionalisti temono l’identità europea.

E sappiamo tutti dove ha condotto il nazionalismo l’Europa.

L’identità europea evoca quindi un processo in cui l’Europa volta le spalle a un passato sinistro e guarda verso un avvenire di coesistenza pacifica tra popoli che mantengono le loro lingue e gli aspetti più gradevoli della loro identità nazionale.

Ma tutto questo ora è ancora più in pericolo, e soprattutto per colpa della Gran Bretagna.

I partiti politici, accusati costantemente di non riuscire a produrre risultati, hanno la tendenza a dare la colpa all’Unione Europea.

 Nessuno ha praticato quest’arte meglio dei due grandi partiti britannici, i conservatori e i laburisti, che hanno trovato ben poco di positivo da dire riguardo all’Unione Europea negli ultimi quarant’anni.

Buona fortuna, Europa!

La Gran Bretagna ha «raggiunto» l’Europa più di quarant’anni fa, ma non ha mai veramente accettato il progetto europeo.

Non ha mai pensato che fosse l’inizio di una nuova era, che l’Unione sarebbe diventata sempre più solida, sempre più stretta. Non c'era miraggio romantico, non c'era visione.

La Gran Bretagna entrò in Europa, nel 1973, perché riteneva che fosse nel suo interesse economico, che fosse un bene per i commerci, e questo sentimento nel 1975 (in occasione del referendum) era accettato da due terzi dell’elettorato.

In virtù di questa visione ristrettissima di quello che poteva essere l’Europa, condivisa da tutti i primi ministri dopo” Edward Heath” (l’unico vero europeista), da Harold Wilson a Jim Callaghan, da Margaret Thatcher a John Major, da Tony Blair a Gordon Brown, ogni passaggio verso una maggiore integrazione è stato bloccato.

 I britannici non hanno mai desiderato realmente approfondire l’unione.

Volevano un’unione economica, ma a patto che la Ue rimanesse un nano politico. Hanno accettato con entusiasmo tutti i nuovi membri perché era sempre meglio allargare che approfondire.

La Gran Bretagna ha limitato il trattato di Maastricht a un mercato unico.

Ha quasi applaudito quando i trattati di Amsterdam e di Nizza, e l’accordo costituzionale, si sono risolti in nulla o hanno cambiato poco.

Ha ricercato costantemente deroghe, trattamenti speciali.

 I britannici hanno partecipato alla stesura delle regole relative all’euro, ma hanno contribuito a rendere l’euro debole, con pochi controlli.

Hanno perfino cercato di bloccare la democratizzazione dell’Unione Europea e il rafforzamento del Parlamento europeo.

La débâcle sull'Europa, la Brexit, è stata imputata ai lavoratori scontenti, ai perdenti della società, agli abitanti della provincia, ai ceti medio-bassi, agli elettori ignoranti che hanno creduto alle frottole che raccontavano i sostenitori della Brexit sulla manna che sarebbe piovuta dal cielo per il Regno Unito una volta liberati dalla tirannia dei burocrati di Bruxelles, sulla storia che saremmo stati liberi, di nuovo padroni in casa nostra e così via.

In realtà, la responsabilità va ascritta a quei ceti politici che si spacciano per colti e intelligenti, e soprattutto al Governo in carica dal 2010 al 2015, e più ancora al primo ministro David Cameron, che per risolvere un problema interno al suo partito ha condotto il Paese e forse l’Europa verso un precipizio.

La Gran Bretagna è tutta sola e l’Europa è più disunita che mai; e tutto questo nel momento in cui il mondo deve fare i conti con Donald Trump.

 Buona fortuna, Europa!

 

 

 

L’arte del potere in Europa:

ritratto di Mario Draghi.

Legrancontinent.eu - Ben Judah – (16th Maggio 2021) – ci dice:

Prospettive Politiche.

Dalla scuola dai gesuiti ai più alti livelli della burocrazia nazionale ed europea, la traiettoria di Mario Draghi è quella di un uomo che ha compreso il funzionamento delle regole dell'Europa del XXI secolo per usarle a proprio vantaggio. In questo ritratto particolarmente vivido, Ben Judah ricostruisce la serie di scommesse che hanno portato Draghi fino alla Presidenza del Consiglio.

Se c’è stata una frase, in Europa nell’ultimo decennio, che ha causato una svolta nella storia, è stata questa.

Dopo un preambolo confuso su un calabrone che non dovrebbe essere in grado di volare, Draghi ha smesso di leggere dal suo copione e, per 16 secondi, ha guardato nella telecamera.

“All’interno del nostro mandato, all’interno del nostro mandato … la BCE è pronta a fare tutto il necessario, whatever it takes, per preservare l’euro”.

Ha fatto una pausa, aggiungendo, giusto per essere sicuro: “E credetemi, sarà sufficiente”.

 In pochi secondi, la notizia ha raggiunto i media di tutto il mondo; i miliardi che scommettevano contro l’euro hanno cominciato a muoversi nella direzione opposta.

Mario Draghi è ora il primo ministro italiano.

L’uomo che ha “salvato l’euro” è stato richiamato dalla pensione per “salvare l’Italia” dalla pandemia.

 C’è un’Europa dello spirito: di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa come funziona effettivamente oggi – l’Europa di Mario Draghi.

Una creatura dell’UE, capite lui e capite come crearsi degli amici a Bruxelles; come vincere le battaglie più importanti; e come essere, tra 27 paesi, davvero europei. Ma, soprattutto, capite Draghi e capirete come funziona il potere nella UE. Ha costruito un’Europa tecnocratica ed è asceso ai suoi vertici.

Draghi si è fatto a Roma.

 Non la città da vecchi che è oggi, ma la Roma di Fellini, degli attentati delle Brigate Rosse e del miracolo italiano: un mercato emergente in Europa, in cui le tensioni erano elevate con le agitazioni del mondo del lavoro, l’ascesa del partito comunista e le gioie della gioventù.

 Ma mentre la sua generazione era ribelle, flirtava con l’estremismo e sognava nuovi mondi nei campus, Draghi era mansueto e gravato dalla responsabilità.

Un outsider nel maggio del ’68.

C’è un’Europa dello spirito: di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa come funziona effettivamente oggi – l’Europa di Mario Draghi.

“Avevo i capelli abbastanza lunghi”, ha raccontato a Die Zeit, “ma non lunghissimi. E, a parte questo, non avevo genitori contro i quali avrei potuto ribellarmi”. Suo padre, il banchiere ben collegato Carlo Draghi, nato nel 1895, era morto quando lui aveva 15 anni.

Sua madre entrò in un rapido declino poco dopo. A 16 anni, tornando dalle vacanze, trovò una pila di bollette non pagate ad aspettarlo.

A 19 anni Draghi era orfano.

Gli amici ricordano come un’apparenza esterna posata nascondesse una vera angoscia.

Maurizio Franzini, un economista, una volta divideva l’ufficio con lui: “Diceva: ‘Non sembro ansioso. Ma sono davvero ansioso’”.

Al momento di scegliere l’università, ossessionato dalle discussioni con suo padre e da uno dei suoi primi ricordi, un viaggio in treno con il governatore della Banca d’Italia, Draghi scelse economia alla Sapienza di Roma.

Ma è stato il suo periodo scolastico, non la sua università, che quelli che lo conoscono meglio dicono che lo ha reso quello che è.

“È stato ben addestrato dai gesuiti”, ha detto Vincenzo Visco, che ha lavorato a stretto contatto con lui come ministro italiano delle finanze e poi del tesoro.

 “Gli hanno insegnato ad essere prudente, riservato e ad ascoltare. È un cattolico sociale”.

Menzionare i gesuiti ha molteplici significati per gli italiani. È un marcatore di classe che lo lega inesorabilmente al Massimiliano Massimo, l’Eton romana dei gesuiti, dove Draghi ha studiato con i figli di ministri e magnati.

È il segno di un’educazione severa e rigorosa per mano di studiosi-sacerdoti; ed è un privilegio. Per gli europei, è spesso un modo per attirare l’attenzione sul suo modo di fare: pedagogico; preciso, ombroso e, se necessario, spietato.

Herman Van Rompuy, l’ex presidente del Consiglio europeo che scriveva haiku, lo trovava divertente.

Più di una volta, nelle notti peggiori della crisi dell’euro, osservando un tavolo con Mario Monti e Mariano Rajoy, allora premier italiano e spagnolo, seduti accanto a Draghi, l’ex premier belga scherzava:

“Guardaci qui, che buoni studenti gesuiti che siamo, mentre cerchiamo di trovare un compromesso”.

Ma come ogni buona battuta, alludeva a qualcosa di serio: questi uomini usciti da una confraternita segreta fondata per salvare la Chiesa erano ora al servizio dell’Europa.

“Forse non sapete”, ha detto Mario Tiberi, un vecchio collega del mondo accademico, “che i gesuiti hanno un mantra del loro fondatore Sant’Ignazio di Loyola sul servire la visione di Dio: todo modo, che in inglese si traduce con ‘whatever it takes‘”.

Mentre un’ondata di omicidi politici seguiva il ’68, Draghi imparava la prima lezione della vita politica: trovare sempre il mentore giusto.

Il suo nome: Federico Caffè. In mezzo al clamore viveva, dicevano i suoi studenti, “come un monaco”.

 Caffè fu influente: il grande economista keynesiano italiano. Convinto che Draghi fosse brillante, lo presentò a Franco Modigliani, l’economista italiano del MIT, che lo accettò come studente.

Ma doveva ancora completare la sua tesi.

“Era sulla moneta unica e conclusi che la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare”, ha detto Draghi, in un evento in onore del suo mentore.

Mentre un’ondata di omicidi politici seguiva il ’68, Draghi imparava la prima lezione della vita politica: trovare sempre il mentore giusto.

Il suo nome: Federico Caffè.

Coloro che avrebbero plasmato il discorso economico dell’epoca hanno insegnato a Draghi al MIT.

Sottolinea con orgoglio che cinque dei suoi professori hanno vinto il premio Nobel – Paul Samuelson, Bob Solow, Franco Modigliani, Peter Diamond e Robert Engle. I suoi pari – Ben Bernanke, Paul Krugman, Kenneth Rogoff, Olivier Blanchard – sarebbero diventati rispettivamente i gran sacerdoti della Federal Reserve, del New York Times, dell’austerità e del FMI.

Mentre il nuovo mondo dei tassi di cambio fluttuanti, del capitale che scorre liberamente e dei banchieri centrali autorizzati cominciava ad emergere, un cerchio di economisti si stava coalizzando.

Insieme hanno dato forma all’era neoliberale.

Draghi non era alla ricerca di dogmi.

A differenza dei suoi mentori, l’economia di Draghi non si è mai fissata in una teoria, ma ha continuato a muoversi, sempre un punto a sinistra rispetto a dove si trova il centro.

Per lui si tratta di pragmatismo.

A quarant’anni aveva già deluso la sinistra di Caffè.

Draghi era ormai un direttore della Banca Mondiale. Nell’aprile 1987, sopraffatto dal dolore che il neoliberismo avesse trionfato sulla sinistra in economia, i suoi discepoli morti o in dissolvenza, Caffè, il grande keynesiano, scomparve.

 Non fu mai più visto. Alcuni dicono che si sia suicidato; altri che si sia trasferito in un monastero sulle Alpi, per nascondersi dal mondo che vedeva arrivare.

Nel febbraio 1992, Draghi è nella stanza di Maastricht quando nasce l’euro: un consigliere chiave del primo ministro italiano, Giulio Andreotti, quando firma il trattato.

Ha lasciato da tempo Caffè, la sinistra e le sue tesi.

L’umore è euforico; la popolarità e il successo della nuova moneta unica dell’Unione Europea travolgerà tutto davanti a sé. Tanto che alla conferenza stampa, Helmut Kohl scommette sei bottiglie di vino tedesco che la Gran Bretagna aderirà al progetto entro il 1997.

“Il governo fa sempre quello che vuole la City”, sbotta.

 “La City farà in modo che la Gran Bretagna entri nell’Unione monetaria”.

I britannici sono partiti con un “opt-out “; gli italiani con condizioni così dure che i tedeschi si sono sorpresi di averle accettate.

Il secondo mentore di Draghi, Modigliani, era indignato.

 La decisione di firmare fu di Draghi: era uno dei due italiani con l’autorità finale sulla valutazione dei termini.

Aveva consigliato al primo ministro di procedere con quella che nella sua tesi chiamava “follia”: un’unione monetaria senza un’unione politica ed economica. Perché?

La risposta: la sua teoria neoliberista della politica italiana.

Mezzogiorno a Roma.

Negli anni ’90. Una città di politica, vicoli e corridoi. Le campane suonano al Senato. I lavori si aggiornano a Palazzo Montecitorio. Gli avvocati si disperdono. I giornalisti urlano domande. Tutto il torrente di attività sembra riversarsi all’esterno e invadere le strade intorno a Piazza Navona.

Le trattative continuano sotto gli ombrelloni della gelateria Giolitti.

 I funzionari incontrano i ministri all’Hotel Forum. Questo è l’habitat naturale di Draghi.

 A capo del Tesoro dal 1991, è qui che il funzionario quarantenne ha fatto tutto il necessario per entrare nella moneta unica: regolare le banche italiane, gestire il debito e privatizzare oltre 100 miliardi di euro.

 Draghi era più che indispensabile. Ha costruito il neoliberismo italiano.

Non c’era scuola migliore di Roma per la politica dell’euro: era già un gioco per politici deboli e tecnocrati potenti.

Un quadro astratto italiano era appeso sopra la sua scrivania al Palazzo delle Finanze.

Fuori, la “prima Repubblica” stava cadendo a pezzi.

Esposti come un pasticcio clientelare di connessioni mafiose e tangenti, tutti e quattro i partiti del governo dimissionario del 1992 sarebbero scomparsi.

A tenere insieme il paese era la burocrazia più forte che l’Italia avesse:

 i tecnici finanziari della pubblica amministrazione sotto il primo ministro tecnocratico del paese, Carlo Azeglio Ciampi.

Draghi era nel suo elemento.

 Il capitalismo, credeva, aveva delle regole.

Finché i politici si fossero tolti di mezzo e i tecnocrati avessero impostato la giusta struttura, sarebbe seguita una crescita stabile.

 Questa era la filosofia del MIT.

In tutti i continenti, i suoi ex compagni di studi erano sempre più in ascesa. Come economisti credevano nell’intervento: aiutare a far funzionare il mercato.

Draghi era più che indispensabile. Ha costruito il neoliberismo italiano.

Questo era il motivo per cui l’Euro era imperativo.

Il capitalismo poteva fornire le regole – e la struttura – che mancavano all’Italia.

 I politici ora sarebbero stati limitati nella politica macroeconomica.

L’adesione a una moneta unica avrebbe messo le leve fondamentali della macroeconomia – le politiche fiscali e monetarie chiave – al di là della politica interna.

Questa strategia era nota come il vincolo esterno.

L’Italia stava andando così bene.

La sua economia era più grande di quella della Gran Bretagna; gli standard di vita si stavano avvicinando a quelli della Germania.

I primi anni novanta erano il momento dell’Italia: il vino toscano soppiantava quello francese negli Stati Uniti.

 Gucci e Prada stavano conquistando il mondo.

 I magnati non volevano rischiare. Volevano un aiuto.

 Nel 1992, il giovane Draghi aveva catturato l’attenzione di uno degli uomini più ricchi d’Italia, Carlo De Benedetti, allora proprietario della Repubblica, L’Espresso e una serie di giornali regionali.

Si incontravano spesso e discutevano dell’Euro.

 “Se l’Italia non avesse fatto parte dell’Eurozona, sarebbe stata come l’Egitto o il Nord Africa”, ha ricordato De Benedetti.

Questo è ciò che le élite temevano negli anni ’90: senza un vincolo esterno, un ritorno agli anni ’70.

Ma De Benedetti ha capito presto che Draghi era una sfinge.

 Segreto. Astuto. Non lasciava mai trapelare niente.

Ma cosa voleva da lui? “Una volta gliel’ho chiesto: Io traggo beneficio dalle nostre conversazioni. Ma tu cosa ne ricavi?”.

Draghi sorrise: “Disse che gli piaceva parlare con qualcuno della vita reale”.

De Benedetti aveva fatto bene a chiederlo. Perché Roma aveva già dato a Draghi lezioni importanti.

Mai far sapere a nessuno quello che si pensa, a meno che non si sia costretti a farlo.

E sempre, sempre farsi gli amici giusti: tra i media e i magnati. Un giorno avrai bisogno dei loro favori.

Il tocco politico di Draghi non era passato inosservato.

In parlamento, era spesso chiamato “Mr. Britannia”, a causa dei suoi frequenti incontri con i banchieri di Londra.

Salvatore Biasco, allora un legislatore di sinistra, dalla sua commissione guardava Draghi arrivare lentamente a quella che sarebbe stata la sua più grande realizzazione: si può esercitare il maggior potere come tecnocrate.

 “Si comportava come un ministro del Tesoro e non come un funzionario”, ha ricordato Biasco.

 “Era una specie di ministro del Tesoro ombra”.

 Fu qui, da politico non eletto, che affinò la Draghipolitik tecnocratica che avrebbe plasmato l’Europa.

Tutte le storie sul denaro europeo finiscono a Londra.

 Nel 2002, Draghi divenne vicepresidente di Goldman Sachs International.

 Gli amici, i seminari, i magnati: tutto aveva dato i suoi frutti. E così, a quanto pare, anche la sua strategia.

Un populista, Silvio Berlusconi, era diventato di nuovo primo ministro nel 2001.

 Ma allora?

Era ingabbiato dal vincolo esterno: le sue mani erano tenute lontane dalle vere leve del potere.

 I tecnici finanziari di Roma erano rilassati.

L’Italia non era stata dissoluta: aveva accumulato un grande debito nazionale negli anni ’80 a causa degli alti interessi che aveva imposto in gran parte per abbassare l’inflazione e tenere il passo con il sistema monetario europeo che aveva preceduto l’euro.

L’imminente boom lo avrebbe sicuramente eroso.

La generazione di Draghi credeva di aver fatto tutto bene.

Poi è arrivato il 2008.

La crisi finanziaria ha rivelato che questi tecnici avevano fatto un terribile errore. Avevano rotto un sistema che ora avrebbero passato il resto della loro carriera a cercare di riparare.

Questo avrebbe trasformato i banchieri centrali da tecnici regolatori del capitalismo in gestori politici di crisi che lo guidavano – e così facendo avrebbero riordinato per sempre il potere nell’UE.

Una fortuna sfacciata avrebbe dato a Draghi la possibilità di unirsi a questi nuovi Superman.

Prima uno scandalo di corruzione ha aperto un posto vacante come governatore della Banca d’Italia.

Poi, rifiutando di accettare una politica monetaria non ortodossa della BCE per combattere la crisi, il capo della Bundesbank, da tempo atteso come successore del francese Jean-Claude Trichet, si è dimesso.

Con Berlino ora senza un candidato, il posto alla BCE si è aperto per un altro banchiere centrale di un grande stato.

La gestione dei media ha assicurato che Draghi lo ottenesse nel giugno 2011.

 I media tedeschi odiavano l’idea di un italiano nell’Eurotower. Angela Merkel esitava.

De Benedetti ricevette una telefonata: il conto dei pranzi insieme era finalmente arrivato.

Il normalmente soave Mario, disse, era isterico.

 “Era diventato matto”, ricordava De Benedetti. La Bild aveva pubblicato una storia di copertina sull’Italia. “Mamma mia”, si leggeva.

“Per gli italiani l’inflazione è uno stile di vita, come la salsa di pomodoro con gli spaghetti”.

“Mi ha chiamato e mi ha detto: “Cosa puoi fare per me?”” ricorda De Benedetti, “era preoccupato che questo danneggiasse la sua immagine”.

Fu organizzato un incontro con il proprietario del tabloid. Seguì un ritratto raggiante con una prima pagina di Draghi che accetta un elmetto chiodato prussiano dalla Bild.

“Mario è sempre stato molto riconoscente”, ha detto De Benedetti.

Coltivare la sua immagine tecnocratica è stato fin dall’inizio il cuore della Draghipolitik.

Draghi si è approcciato al lavoro di vertice in modo politico.

Ancora una volta è stato fortunato.

Jean-Claude Trichet aveva concluso il suo mandato così male che qualsiasi successore avrebbe fatto bella figura al confronto.

Per dirla con le parole dello storico Adam Tooze: “Lasciando l’incarico, Trichet, appoggiando i governi in favore dell’austerità solo sul mercato, aveva aiutato Berlino a inserire l’austerità nel cuore del circuito dell’UE”.

È stata cattiva economia: questo ha portato alla depressione dei consumi prolungando la recessione.

Ma Draghi sarebbe andato oltre.

Nell’agosto 2011, firmò una lettera segreta al governo italiano: una nota in favore dell’austerità che sollecitava tagli e riforme del lavoro.

Roma era inorridita; Berlino era contenta.

Segnalando che Francoforte era pronta a mettere la sua liquidità solo dietro un certo tipo di politica, aprì la porta alla cacciata di Berlusconi.

Un governo tecnocratico lo sostituì – che il leader caduto definì un “colpo di stato” dell’UE.

La cerchia di Draghi ha continuato a plasmare il capitalismo: Ben Bernanke guidava la Fed e Stanley Fischer era a capo della Banca d’Israele.

 A Francoforte, Draghi trattava l’Eurotower come il Tesoro di Roma, vantandosi: “in ogni conferenza stampa da quando sono diventato presidente della BCE, ho concluso la dichiarazione introduttiva con un appello ad accelerare le riforme strutturali in Europa”.

 I banchieri centrali avevano superato il limite: non erano più tecnocrati, ma politici.

Entrare nella BCE a Francoforte è come mettersi le cuffie antirumore.

Tra il vetro blu e gli ascensori, tutto è improvvisamente silenzioso.

Ma il suo freddo gelido ha visto alcuni degli incontri più importanti d’Europa.

 Poco dopo essere diventato banchiere centrale, Maurizio Franzini, un vecchio amico, chiese a Draghi come gestisse l’ansia di un lavoro così importante:

“Disse che faceva ancora docce fredde ogni mattina, una tecnica per gestire la tensione che aveva imparato negli Stati Uniti”.

A Francoforte, Draghi avrebbe presto padroneggiato le tre forme del potere europeo:

il carismatico – la politica della persuasione – con cui avrebbe rivendicato il potere per la sua banca;

 il tecnico – la politica delle regole – con cui sarebbe stato l’esecutore dell’UE in Grecia;

e l’analitico – la politica dei numeri – con cui avrebbe vinto la battaglia per guidare i flussi di capitale con le quantitative easing.

Insieme, questi si sarebbero uniti nella Draghipolitik – con la quale avrebbe spostato il centro di gravità tedesco.

La sua sfida era nel disegno stesso che aveva accettato.

François Mitterrand aveva fatto dell’euro il prezzo per l’unificazione.

Ha costretto Kohl a tener fede a vaghi impegni per una moneta unica, stava prendendo tempo, minacciando il vice cancelliere Hans-Dietrich Genscher che se non si fosse impegnata, la Germania avrebbe affrontato una “tripla alleanza” di Gran Bretagna, Francia e URSS che l’avrebbe isolata.

Retoricamente, i suoi sfoghi erano estremi. “Torneremo al mondo del 1913”, aveva minacciato Bonn.

La Francia voleva l’euro per limitare il potere tedesco.

 Mitterrand disse che il marco tedesco era “l’arma nucleare” della Germania. Temeva che se non avesse avuto voce in capitolo sui tassi d’interesse tedeschi, Parigi sarebbe stata costretta per sempre a seguirli. Si sbagliava.

Non era la moneta. Era il credito tedesco l’arma nucleare.

 Concordare una moneta unica senza un Eurobond, un bene sicuro a cui tutti potevano attingere per finanziarsi in tempi di difficoltà, significava che le obbligazioni tedesche diventavano il bene sicuro dell’Eurozona.

Berlino aveva ora un veto de facto sulla politica del debito.

L’errore di Mitterrand rafforzò il potere tedesco.

Le esportazioni tedesche hanno avuto un boom; la competitività delle esportazioni italiane è diminuita, quelle francesi hanno ristagnato.

 L’euro aveva reso le merci tedesche più economiche che se fossero state in marchi tedeschi e le merci italiane più costose che se fossero state in lire.

Berlino poteva assumere nuovi debiti con poco rischio. Gli altri non sono stati così fortunati.

Dopo il 2008, i governi più deboli avevano bisogno che l’Unione comprasse le loro obbligazioni, li salvasse e collettivizzasse il loro debito.

Ma Kohl ha accettato l’euro a condizione che non ci fosse un debito collettivo, e che la BCE non finanziasse direttamente i governi.

Berlino doveva essere convinta.

La politica dell’euro divenne un gioco in cui tutti ballavano intorno alla Merkel cercando di convincerla ad aprire i rubinetti.

E in questo gioco, Draghi era il re.

Il problema dell’Unione europea non è che è un Superstato: è che non è uno Stato.

Era apparsa una crisi che aveva una soluzione chiara. Ma non esisteva un’autorità centrale per attuarla.

 Da Podemos a Syriza, molti politici sono stati eletti per costruire un’Eurozona più giusta. Ma le loro mani erano lontane dalle vere leve del potere.

È qui che entra in gioco la Draghipolitik:

l’arte tecnocratica di far smuovere Berlino. Draghi ha ricevuto un invito permanente al Consiglio europeo da parte del suo Presidente, Van Rompuy: un livello di accesso ai power broker molto superiore rispetto a quello del presidente della Fed o del governatore della Banca d’Inghilterra.

Qui ha iniziato a rendere la BCE una vera banca centrale e sé stesso un attore di primo piano.

 In primo luogo, Draghi ha usato il potere carismatico per smuovere la Merkel e i mercati.

 Secondo Nicolas Véron, uno dei principali ricercatori sulla crisi dell’euro, Draghi ha giocato un ruolo storico come “il capo pedagogo” che ha convinto la Cancelliera ad accettare un’unione bancaria nel 2012.

“Questo è dove Draghi eccelleva, ha detto Van Rompuy. “Aveva un grande potere persuasivo: parlava chiaramente, al punto e con un’autorità naturale”.

 Ha detto alla Merkel: questo è nell’interesse della Germania ed è il minimo indispensabile che tu debba fare.

Questa è la forza e i limiti della Draghipolitik.

 È la politica, che a tutt’oggi, chi era nella stanza all’epoca dice che lo mette estremamente a disagio: esporre i termini confusi dell'”indipendenza” della banca.

L’Unione Bancaria era solo la credibilità sufficiente per affermare che Berlino era dietro l’Eurozona.

Poi l’ha moltiplicata.

 Vedere Draghi dire “tutto quello che serve” è stato come vedere Hegel che guarda Napoleone a Jena.

“È davvero una sensazione meravigliosa”, scrisse Hegel, “vedere un tale individuo, che, concentrato in un solo punto, in sella a un cavallo, si protende sul mondo e lo domina.”

Ma chi era il cavaliere? Era Draghi? Era la Merkel? O sono stati i mercati?

Secondo il filosofo politico Luuk van Middelaar, allora consigliere di Van Rompuy, quei sedici secondi contengono tutto.

“Se ascoltate attentamente, prima c’è il tecnocrate.

Lui dice: ‘all’interno del nostro mandato’.

Poi, c’è il politico, ‘qualunque cosa sia necessaria’.

 E solo dopo, c’è l’autorità carismatica, ‘e credetemi, sarà sufficiente’.

Ed è questo che fa di lui il cavaliere”.

 Il giorno dopo Hollande e Merkel hanno confermato.

Aveva aperto la strada alla BCE per sostenere i mercati del debito sovrano.

La sua autorità carismatica aveva convinto i commercianti che dietro l’euro c’era il potere: usando il minimo indispensabile.

Da ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis ha avuto modo di conoscere un’altra delle qualità politiche di Draghi: la spietatezza.

Visto da Francoforte, un default greco seguito da un collasso bancario europeo incombeva a meno che Atene non riuscisse a prendere in mano la situazione.

Quando Atene ha cercato di far ricadere la colpa sui creditori, mettendo ai voti il piano di salvataggio nel 2015, Draghi ha segnalato che avrebbe interrotto l’assistenza di emergenza alle sue banche.

“Il liberi tutti contro di noi è stato guidato da Mario Draghi”, ha ricordato Varoufakis nella sua autobiografia.

 Era la politica delle regole dell’UE nella sua forma più brutale.

Ma punendo gli Stati più scialacquatori dell’UE con salvataggi basati sull’austerità, ha conquistato la fiducia di Berlino per continuare la Draghipolitik.

Infine, Draghi ha padroneggiato il potere analitico: cioè la politica dei numeri.

Nei powerpoint del Consiglio direttivo, Giuseppe Ragusa, ex senior economist della Bce, lo ha visto superare la resistenza della frugale Bundesbank per lanciare le quantitative easing nel 2014.

 “Il modo in cui è riuscito a convincere la gente a fare quello che ha fatto”, ha detto Ragusa, “è stato spostare il dibattito politico dalla politica ai numeri reali”.

Questi incontri hanno cambiato nuovamente il capitalismo europeo.

 I mercati genuinamente liberi, che si erano aperti negli anni ’70 con l’eliminazione dei controlli sui capitali, si chiusero.

Il capitalismo diretto arrivò in Europa con la BCE che incentivò i mercati a comprare asset più rischiosi comprando oltre 2,8 trilioni di dollari di asset più sicuri entro il 2018.

 È stato l’atto estremo di intervento senza ridistribuzione.

 Draghi era convinto che altrimenti l’euro non sarebbe sopravvissuto alla deflazione e a una terza recessione.

Ma i suoi errori avevano peggiorato proprio il problema che stava cercando di risolvere con l’austerità, prolungando il dolore a Sud.

Un sussurratore, un esecutore, un addetto ai numeri. Queste non sono le qualità che ci si aspetta da un grande uomo.

 Ma questo è fraintendere come funziona l’UE.

La sua macchina è stata costruita per depoliticizzare la politica, e quelli che lo fanno meglio, prosperano.

Il burocrate senza pretese diventa Napoleone.

Attraverso la Merkel, i media e i dati, la Draghipolitik ha sconfitto Jens Weidmann, il capo della Bundesbank.

“Draghi considerava Weidmann il suo nemico personale”, ha detto De Benedetti. Si trattava per lo più di una relazione gelida.

 Ma una volta a cena, racconta l’amico Salvatore Bragantini, la moglie Maria Serenella Cappello si è lasciata sfuggire la cosa:’

’Così lei è il nemico di mio marito’, disse, prendendolo alla sprovvista”.

Mentre la crisi rendeva lo Stato più dipendente dalla finanza, la finanza diventava più dipendente dallo Stato.

 E uomini come Draghi sono stati centrali in questo.

Queste vittorie rivelano un’enorme abilità.

Hanno trasformato la BCE in un’istituzione ancora più potente della Banca d’Inghilterra.

Ma sottolineano anche quanto la sua generazione abbia sbagliato.

Avevano scommesso su una casa costruita a metà per l’Europa come chiave per la stabilità.

Ma un’unione monetaria senza un’unione fiscale ha portato instabilità.

Avevano scommesso sul fissare regole neoliberali per il capitalismo e fare un passo indietro: ed è saltato tutto.

 Avevano scommesso sull’austerità: e hanno affrontato una depressione.

 Questi errori li hanno resi – l’élite dei banchieri centrali del mondo che poi hanno dovuto sistemare tutto – più potenti della maggior parte dei politici.

Nel suo breve pensionamento dopo il 2019, Draghi ha passato molto del suo tempo al telefono.

Ha chiamato presidenti passati o presenti: Bill Clinton, Emmanuel Macron.

 O gli altri superuomini che hanno guidato le banche centrali nella crisi: Ben Bernanke, ex della Fed; Mark Carney, ex della Banca d’Inghilterra, o Stanley Fischer, che ha guidato la Banca d’Israele.

“È l’unico uomo in Italia che può chiamare chiunque nel mondo”, ha detto De Benedetti.

Ha costruito la sua carriera attraverso le reti.

E la sua ricchezza: la casa a Roma, una in Umbria, una sulla costa laziale e una nuova villa in Veneto.

Per tutta la vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato.

 Ma allo stesso tempo, la sua più grande scommessa, quella che aveva promesso all’Italia – il vincolo esterno – è fallita.

Ha fallito la componente geopolitica: non ha aiutato a gestire la potenza tedesca. Ha fallito la componente economica: l’Italia ha mantenuto uno dei regimi fiscali più duri d’Europa, con un avanzo primario quasi ogni anno dal 1995.

 Eppure il paese è diventato più povera.

Nel 2000, il suo tenore di vita medio era il 98,6% di quello della Germania.

Oggi, il reddito pro capite italiano è del 20 per cento inferiore a quello d’oltralpe. Queste sono le conseguenze a lungo termine dell’austerità, delle riforme interrotte e dell’euro che rende le esportazioni non competitive.

 Il debito che l’Italia ha accumulato negli anni ’80 è diventato il suo albatros.

 La crescita promessa da Draghi non è mai arrivata.

 

Per tutta la vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato.

Ma allo stesso tempo, la sua più grande scommessa, quella che aveva promesso l’Italia – il vincolo esterno – è fallita.

E nel suo stesso successo, anche la politica ha fallito. I politici populisti e le coalizioni che flirtano con l’euro exit non sono riusciti a sfuggire all’ordine di Draghi.

Ma l’Italia è stata intrappolata in un ciclo di populisti sempre più deboli, punteggiato da deboli tecnocrati.

Entrambi hanno fallito alle loro condizioni.

Con le ricette per far ripartire la crescita fuori dalle loro mani, i politici a Roma si impadroniscono della politica dell’identità, non delle riforme.

La crescita è soffocata. Il governo è debole.

Ciò di cui l’Italia aveva bisogno erano dei leader forti, dopo tutto.

L’Italia è passata dal paese delle Brigate Rosse a un paese per vecchi.

L’industria italiana, il calcio italiano e il cinema italiano sono in declino.

Una generazione intera di italiani ambiziosi è tornata ad emigrare.

Nel 2010, il programma televisivo di culto Boris ha catturato l’umore amaro: “Questo è il futuro dell’Italia”, dice un regista in una battuta ormai iconica. “Un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte”.

All’inizio della pandemia la stessa storia ha ripreso ad accadere.

Ma questa volta, Macron ha convinto la Merkel a fare un passo indietro rispetto alle sue linee rosse più profonde – la condivisione del debito dell’UE.

 La Germania ha acconsentito a una decisione eccezionale di 750 miliardi di euro di prestiti Covid e sovvenzioni per la ripresa.

In modo significativo, il successo di Macron è arrivato solo quando ha smesso di essere più simile al greco Yanis Varoufakis, con discorsi alla Sorbona che enfatizzavano il suo mandato, e ha abbracciato la Draghipolitik per smuovere Berlino.

 È stata una svolta decisiva nelle manovre contro l’Europa frugale che Draghi aveva iniziato.

Ma l’Italia non è solo un paese per vecchi: è il paese, sembra, per sempre gli stessi uomini.

Ancora un’ultima volta, è stato pronto quando un altro uomo ha sbagliato.

 “Da quando ha lasciato la BCE, il fantasma di Draghi aleggiava sull’Italia”, ha detto una fonte. “È stato dopo la questione del Piano di ripresa che si è interessato a un ritorno in politica”.

Telefonate al presidente; telefonate a Renzi; telefonate a Berlusconi; quando il governo di Giuseppe Conte è imploso, Draghi ha avuto un’idea.

Sarebbe stato un primo ministro tecnocratico: ma con una svolta – un gabinetto prevalentemente politico che coinvolgeva tutti i partiti tranne la destra più estrema.

 Si offriva come soluzione al problema che il vincolo esterno aveva alimentato: politici deboli e incapaci di guidare il paese. Erano felici di usarlo.

“La verità”, ha detto lo storico Marcel Gauchet, “è che gli europei non sanno cosa hanno costruito”.

 Questo è ciò che le fatiche di Draghi rivelano.

 Come europei, la sua generazione ha costruito una casa a metà per l’Italia.

 L’euro significa che non si può tornare a modelli nazionali di gestione economica, svalutazione e default.

Ma anche la strada in avanti, verso una riduzione del debito, trasferimenti e unione fiscale, è bloccata.

Bloccata, la politica dei mandati popolari non funziona: l’unica politica che sembra in grado di farlo è la Draghipolitik.

Dopo essersi alzato in piedi con una mascherina sul volto in Parlamento, il tecnocrate senza partito – ma padrone della politica – osserva la sua coalizione di sei partiti che va dai populisti di destra della Lega a frammenti dell’estrema sinistra. Vede anche la sua occasione storica.

Nessuno sa meglio di lui che la vera politica dell’Europa è la politica del debito dell’Eurozona.

 

Ecco perché Bruxelles e Parigi osservano ora Draghi con attenzione.

Riuscirà a investire con successo i 200 miliardi di euro dell’Italia del fondo di ripresa?

 “Il Primo ministro vede così la sua missione economica”, dice un alto funzionario italiano.

 “Sta cercando di dimostrare come il nuovo debito comune del fondo di ripresa possa riavviare la crescita italiana.

 Draghi ha fatto il caso di un forte sostegno fiscale per affrontare i rischi futuri nella zona euro”.

Spendere saggiamente il denaro è la sua strada per rendere il fondo quel sostegno permanente.

Se riuscirà a tenere insieme la sua coalizione, Draghi può governare in questo modo fino alle prossime elezioni previste nel 2023.

 Ma prima di allora, quando il mandato di Mattarella scadrà l’anno prossimo, ci si aspetta che punti alla presidenza.

 “Questo è stato a lungo il ruolo che avrebbe preferito”, ha detto una fonte.

Più che un ruolo cerimoniale, con i poteri di formazione della coalizione che si aprono nel sistema Italia, gli permetterebbe di essere il vincolo interno. 

Un crollo dell’euro è ormai improbabile. Questa è la sua eredità.

Il rischio che l’Europa affronta ora è che il sistema Euro – la casa incompiuta – faccia lentamente all’UE nel suo complesso quello che ha fatto all’Italia, mettendola su una traiettoria di crescita permanentemente più bassa.

 L’UE ha bisogno di un debito collettivizzato per un maggiore stimolo collettivo.

Ma gli eredi della Merkel saranno d’accordo?

Con tutte le implicazioni per la sovranità di quella che è in definitiva un’unione di trasferimenti?

Finché qualcuno non riuscirà a fare il prossimo doloroso passo di consolidamento, il rischio è che l’Unione continui a perdere la battaglia per la globalizzazione. Draghi mostra cosa è possibile.

Dopo essersi alzato in piedi con una mascherina sul volto in Parlamento, il tecnocrate senza partito – ma padrone della politica – osserva la sua coalizione di sei partiti che va dai populisti di destra della Lega a frammenti dell’estrema sinistra. Vede anche la sua occasione storica. Nessuno sa meglio di lui che la vera politica dell’Europa è la politica del debito dell’Eurozona.

Ma il prezzo della Draghipolitik è questo: un consolidamento senza democrazia.

 Élite potenziate con elettori alienati.

 Una politica che solo uomini come lui possono giocare.

Il che, indebolendo i partiti e l’importanza delle elezioni, rende l’unica altra via per arrivare a un’Europa migliore, un movimento transnazionale e democratico per un’Eurozona più giusta, ancora meno praticabile.

 La Draghipolitik può offrire un percorso verso una soluzione tecnocratica, ma aggrava il problema politico.

Oggi Draghi è seduto sullo zeitgeist: promettendo di avviare l’uscita dell’Italia dal neoliberismo, il suo più recente pensiero fiscale si allinea perfettamente alla Bidenomics.

Ma non basta.

 Ora ha bisogno di fare l’opposto di quello che si era prefissato di fare all’inizio: favorire una nuova generazione di politici forti che gli succedano.

Solo questo può rompere il ciclo che sta indebolendo l’Italia.

Draghi ama citare Il Gattopardo, il grande romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa su un nobile siciliano che si adatta alla vita in una nuova Italia unita da Cavour e Garibaldi.

 “Tutto deve cambiare perché tutto rimanga uguale”, è l’ironica massima citata più volte. Eppure, alla fine del romanzo, l’Italia unita è davvero arrivata.

Ma cos’è questa Europa?

 Questo sistema, quello di Draghi, è un sistema che si è spoliticizzato per sopravvivere.

Ed è sopravvissuto. Ma a costo di non saper più distinguere tra stabilità e stagnazione.

 Un sistema che sa fare solo il minimo indispensabile. Non tutto il necessario.

 

 

 

 

I cambiamenti climatici esistono,

e i ghiacci si stanno alzando, però...

msn.com – Esquire – (17-04-2023) - Bret L. Stephens – ci dice:

(The New York Times)

Il nostro futuro è strettamente legato ai cambiamenti climatici.

 E il rapporto speciale dell’”Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite “ci mette in guardia:

 la temperatura del pianeta avrà un ruolo cruciale ed è fondamentale - affrontando una serie di trasformazioni complesse e connesse - limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era pre-industriale.

 Oggi siamo a quota + 1 °C, e se continueremo a emettere gas serra ai ritmi attuali, raggiungeremo +1,5 °C nel 2040.

Tra gli effetti più visibili, la perdita di ghiaccio artico è drammaticamente spettacolare.

 L’autore di questo reportage è un editorialista del New York Times noto per le sue posizioni negazioniste e polemiche sul global warming.

Un viaggio tra gli iceberg in Groenlandia - dove ha potuto constatare quanto drastici siano i cambiamenti in corso - gli ha fatto cambiare idea.

Rafforzando la sua convinzione che i mercati, e non i governi, siano la vera cura.

È una limpida giornata d’agosto quando un elicottero fa scendere me e alcuni compagni sull’estremità settentrionale del ghiacciaio “Jakobshavn” nella Groenlandia occidentale, circa 240 chilometri a nord del Circolo Polare Artico.

 Il terreno sotto i nostri piedi sembrava quasi lunare: limo e polvere grigi, rocce e massi in frantumi e, al margine della parete del ghiacciaio, un fango così profondo che quasi mi mangiava gli stivali.

A sud, il fronte di distacco del ghiacciaio noto in groenlandese come “Sermeq Kujalleq” depositava regolarmente enormi lastre di ghiaccio, alcune alte più di 30 metri, nel mare aperto.

 Chiesi al pilota di darmi un’idea di quanto il ghiacciaio si fosse ritirato da quando volava su quella sulla rotta.

Mi indicò una lontana isola rocciosa nel mezzo del fiordo.

«È lì che si trovava il ghiacciaio nel 2007», rispose.

Nel corso del XX secolo, il ghiacciaio “Jakobshavn” si è ritirato di circa 10-15 chilometri.

Secondo l’oceanografo Josh Willis del “Jet Propulsion Laboratory della Nasa”, negli otto anni successivi si è ritirato all’incirca di altrettanti chilometri.

In seguito, il fronte è avanzato un po’ - in funzione di dinamiche complesse che coinvolgono in parte le correnti oceaniche - prima di riprendere la sua ritirata.

Per chiunque abbia avuto dei dubbi sul riscaldamento del pianeta, un viaggio in Groenlandia è un corroborante correttivo.

Sorvolando a bassa quota la vasta calotta glaciale che ricopre la maggior parte dell’isola, ho notato immediatamente grandi specchi d’acqua cerulea di fusione e decine di corsi d’acqua che scorrono attraverso canaloni di ghiaccio bianco e talvolta scompaiono in caverne di ghiaccio verticali profonde migliaia di metri.

Secondo gli scienziati, questi laghi sono diventati molto più comuni negli ultimi due decenni e, rispetto al passato, durante l’anno si formano prima e a quote più elevate.

L’anno scorso ha persino piovuto nel punto più alto della calotta glaciale, circa 800 chilometri a nord del Circolo Polare Artico.

È la prima volta da quando si sono iniziati a registrare i dati negli anni Ottanta.

Più vicino alla costa, nel punto in cui la calotta si avvicina alle montagne scure che circondano l’isola, si trova una caratteristica linea beige di terra sterile, larga da centinaia a migliaia di metri.

Così come le linee scure - simili a quelle che restano nelle vasche da bagno - che si vedono nei laghi e nei bacini idrici esauriti dell’Ovest americano, questa linea mostra dove arrivava il ghiaccio e quanto si è ritirato.

La storia racconta anche che i grandi esploratori della Groenlandia del XIX secolo - uomini come il norvegese “Fridtjof Nansen” e l’americano “Robert Peary” - dovettero scalare ripide pareti glaciali solo per raggiungere la calotta stessa.

 Oggi è facile individuare i punti in cui il ghiaccio incontra la terraferma su un terreno pianeggiante.

 E poi, c’è la testimonianza del mercato.

 

Nella città costiera di “Ilulissat” ho cenato con “Bo Møller Stensgaard”, geologo e amministratore delegato di “Bluejay Mining”, che intende estrarre rame, nichel, cobalto, zinco e ilmenite.

Il ritiro della calotta glaciale ha aperto ulteriori territori per l’esplorazione, spiega “Stensgaard”, e il clima più caldo ha allungato la stagione in cui le navi possono raggiungere l’isola senza il rischio di rimanere intrappolate nel ghiaccio.

 «Posso mettere le persone sul campo più a lungo», aggiunge.

Avendo trascorso lunghi mesi in tenda per svolgere lavori geologici sul campo, vede la trasformazione in atto non solo come imprenditore, ma come testimone.

«Ho visto ghiacciai scomparire completamente», racconta.

 «Ho visto orsi polari morire di fame a causa della scomparsa del ghiaccio marino. Sono cambiamenti che personalmente trovo inquietanti».

 Ma poiché i minerali che spera di estrarre sono fondamentali per qualsiasi futura transizione energetica green, il cambiamento climatico sta creando in Groenlandia anche l’occasione per affrontare il motivo dello scioglimento dei ghiacci.

Come sono arrivato.

Per anni non mi sono visto come un negazionista del riscaldamento globale (un modo di dire pesante, che riecheggia in modo tendenzioso il negazionismo dell’Olocausto), ma piuttosto come un agnostico sulle cause del cambiamento climatico e come uno scettico rispetto all’idea che si tratti di una minaccia catastrofica per il futuro dell’umanità.

Non è che mi opponessi in modo assoluto all’idea che, pompando anidride carbonica nell’atmosfera, la civiltà moderna stesse contribuendo al riscaldamento di 1 grado e all’innalzamento del livello del mare che il pianeta aveva sperimentato fin dagli albori dell’era industriale.

 È che la gravità della minaccia mi sembrava esagerata e le cure proposte sapevano tutte di statalismo vecchio stile misto a religione new-age.

Non abbiamo forse già vissuto precedenti allarmi su altre presunte catastrofi ambientali imminenti che non si sono verificate, come la convinzione, diffusa negli anni ’70, che la sovrappopolazione avrebbe inevitabilmente portato alla fame di massa?

E se la Rivoluzione verde (evoluzione dell’agricoltura avvenuta nella seconda metà del XX secolo, ndr) ci ha risparmiato da quell’incubo malthusiano, perché non dovremmo avere fiducia che l’ingegno umano non sia in grado di impedire anche la sfilza di orrori che il cambiamento climatico dovrebbe provocare?

Avevo anche altri dubbi.

Mi sembrava arrogante, o peggio, fare scommesse politiche da miliardi di dollari basandosi su modelli computerizzati che cercavano di prevedere i modelli climatici con decenni di anticipo.

Gli attivisti per il clima continuavano a promuovere politiche basate su tecnologie tutt’altro che mature (energia solare) o talvolta attivamente dannose (biocarburanti).

I costosi sforzi per ridurre le emissioni di gas serra in Europa e in Nord America sembravano particolarmente infruttuosi quando la Cina, l’India e altri Paesi in via di sviluppo non avevano intenzione di frenare il loro appetito per i combustibili fossili.

C’era anche un fervore millenaristico che mi infastidiva nell’attivismo per il clima, con le sue immagini apocalittiche (la Statua della Libertà sott’acqua) e le minacce di sventura a meno che non fossimo disposti a vivere in modo molto più frugale.

Questo era il mio stato d’animo quando, nell’aprile 2017, ho scritto la mia prima rubrica per il “New York Times”, "Climate of Complete Certainty".

Il contraccolpo è stato intenso. Gli scienziati del clima mi hanno denunciato con lettere aperte; sono state diffuse petizioni che chiedevano il mio licenziamento. La reazione ha soprattutto rafforzato la mia convinzione che gli attivisti del clima fossero colpevoli proprio di ciò che li accusavo: un’auto certezza intellettuale che spesso è una ricetta per il disastro.

 

Tra i firmatari di una petizione c’era un oceanografo, “John Englander”, che gestisce un gruppo educativo e di salvaguardia, il “Rising Seas Institute”.

Due anni dopo, durante una visita a New York, mi scrisse all’improvviso e mi chiese di incontrarlo.

 A differenza della maggior parte dei miei detrattori, il suo biglietto era così cordiale che mi sembrò scortese dire di no.

 Ci incontrammo il giorno dopo.

“Englander” è un uomo di 72 anni, elegante, affabile ed eloquente, che in passato ha diretto la “Cousteau Society” e che mi ricorda un “Patrick Stewart” barbuto, anche se con accento americano.

Il suo discorso era semplice: le coste che abbiamo dato per scontate per migliaia di anni di storia dell’umanità sono cambiate rapidamente in passato a causa di forze naturali - e presto sarebbero cambiate rapidamente e in modo disastroso a causa di quelle create dall’uomo.

Un viaggio in Groenlandia, che conserva un ottavo dei ghiacci del mondo sulla terraferma (la maggior parte del resto è in Antartide), mi avrebbe mostrato quanto drastici siano stati questi cambiamenti.

Mi sarei unito a lui?

Pure in questo caso, mi sembrava scortese dire di no (anche se la pandemia avrebbe ritardato il mio viaggio di due anni).

Più precisamente, se la mia principale obiezione agli attivisti del clima era la netta impressione della loro smodata certezza, non era forse il caso di verificare la mia? Che male c’era - a parte il rischio di cambiare idea - nel mettere alla prova le mie opinioni?

Il passato predice il futuro?

Viste da un aereo di linea, le caratteristiche più evidenti della Groenlandia sembrano essere la sua vastità e il suo vuoto inespressivo, che mi hanno fatto venire in mente un verso della poesia di “Robert Frost Desert Places”:

 "Un biancore più vuoto di neve smarrita / Senza espressione, niente da esprimere".

 È stato solo quando sono arrivato alla calotta in sé che ho capito che la frase non poteva essere meno azzeccata.

Intrappolata nel bianco c’era una storia sul lontano passato e sul potenziale futuro del mondo.

La Groenlandia è grande quanto l’Alaska e la California messe insieme e, tranne che sulle sue coste, è coperta da ghiacci che in alcuni punti hanno uno spessore di quasi tre chilometri.

 Anche questa è solo una frazione del ghiaccio dell’Antartide, che è più di sei volte più grande.

 Ma l’Artico si sta riscaldando a un ritmo quasi quattro volte superiore alla media globale, il che significa che i ghiacci della Groenlandia rappresentano anche un rischio a breve termine, perché si stanno sciogliendo più rapidamente.

Se tutti i suoi ghiacci dovessero sciogliersi, il livello globale del mare si innalzerebbe di circa 6 metri.

Questo sarebbe più che sufficiente per inondare centinaia di città costiere in decine di nazioni, da Giacarta, Indonesia, e Bangkok, in Thailandia, a Copenaghen, Danimarca.

E poi Amsterdam, Miami e New Orleans.

Ma a che velocità, di preciso, si stanno sciogliendo i ghiacci della Groenlandia?

 È un’emergenza del nostro tempo o un problema del futuro?

Misurare la perdita di ghiaccio su scala così vasta non è un compito facile, poiché la Groenlandia, come un miliardario spendaccione, accumula e rilascia costantemente quantità di ghiaccio quasi imperscrutabili per lunghi periodi di tempo.

Ma gli scienziati hanno prelevato campioni di ghiaccio dalla Groenlandia per decenni, ricavando così un’idea molto precisa dei cambiamenti climatici avvenuti nel corso di migliaia di anni.

 Inoltre, un paio di satelliti che rilevano le anomalie nei campi gravitazionali della Terra effettuano regolarmente misurazioni della calotta da quasi 20 anni, dando agli scienziati un’idea molto più precisa di ciò che sta accadendo.

 E i dati mostrano inequivocabilmente che i ghiacci della Groenlandia non sono in equilibrio.

Sta perdendo molto più di quanto stia guadagnando.

A Copenaghen, prima della mia partenza per la Groenlandia, ho chiacchierato con “Liam Colgan”, un climatologo ricercatore canadese del Servizio geologico della Danimarca e della Groenlandia.

 «Non abbiamo avuto un anno con un bilancio di massa positivo dalla fine degli anni ’90», mi ha detto in un’e-mail quando gli ho chiesto di spiegarmi i dati.

 Le perdite possono variare notevolmente da un anno all’altro.

 La media annua degli ultimi 30 anni, ha aggiunto, è di 170 gigatoni all’anno (un gigatone corrisponde a un miliardo di tonnellate, ndr).

Ciò equivale a circa 5.400 tonnellate di perdita di ghiaccio al secondo.

 Questo «suggerisce che la perdita di ghiaccio della Groenlandia ha seguito lo scenario peggiore prefigurato dell’IPPC, quello con le più alte emissioni di carbonio» (l’Intergovernmental Panel on Climate Change è l’organismo delle Nazioni Unite che valuta i cambiamenti climatici).

Tuttavia, è difficile prevedere con precisione cosa significhi.

«Chiunque dica di sapere quale sarà il livello del mare nel 2100, sta facendo un’ipotesi approssimativa», ha detto “Willis” della Nasa.

 «Il fatto è che stiamo assistendo allo scioglimento di queste grandi distese di ghiaccio per la prima volta nella storia, e non sappiamo quanto velocemente possano andare avanti».

La sua stessa ipotesi:

 «Entro il 2100, probabilmente ci troveremo di fronte a perdite di più di un piede (che equivale a 30-40 centimetri) o due e, auspicabilmente, a meno di 7 o 8 piedi. Ma stiamo lottando per capire quanto velocemente possano sciogliersi le calotte glaciali.

Quindi l’estremo superiore del range non è ancora ben noto».

A prima vista, tutto questo sembra gestibile.

Anche se il livello del mare dovesse aumentare di due metri e mezzo, il mondo non avrà forse quasi 80 anni per affrontare il problema, durante i quali le tecnologie che ci aiutano a mitigare gli effetti del cambiamento climatico e ad adattarci alle sue conseguenze faranno probabilmente passi da gigante?

Il mondo, compresi i Paesi oggi poveri, non diventerà forse molto più ricco e quindi più in grado di far fronte a inondazioni, ondate e super tempeste?

“Englander” non è affatto ottimista.

Secondo le sue stime, il tasso medio di innalzamento del livello del mare nel mondo è più che triplicato negli ultimi tre decenni, passando da 1,5 millimetri all’anno a 5 millimetri.

Può sembrare un’inezia, ma come il mondo ha imparato durante la pandemia, gli aumenti esponenziali possono colpire duramente.

«Quando qualcosa segue una linea retta o una curva regolare, è possibile tracciarne la traiettoria», ha detto “Englander”.

«Ma il livello del mare, come i terremoti e gli smottamenti, è qualcosa che avviene in modo irregolare e può cambiare piuttosto rapidamente, sorprendendoci. Il punto è che non si può più prevedere il futuro in base al recente passato».

Un altro grande jolly è l’Antartide, dove il tasso medio di perdita di massa di ghiaccio è di oltre 150 gigatoni all’anno.

Poco dopo il mio ritorno dalla Groenlandia, un ghiacciaio nell’Antartide occidentale chiamato “Thwaites”, grande all’incirca come la Florida, ha attirato l’attenzione del mondo quando uno studio ha suggerito che, come afferma uno dei coautori, “Robert Larter del British Antarctic Survey”, «oggi si regge con le unghie».

 

Non è come un asteroide.

Era forse allarmismo?

Nelle pagine editoriali del “Wall Street Journal”, dove lavoravo, il fisico teorico “Steven Koonin”, ex sottosegretario alla “Scienza” del Dipartimento dell’Energia dell’amministrazione Obama, ha messo in dubbio la minaccia di “Thwaites “con una voce che avrebbe potuto essere la mia.

Egli ritiene inoltre che i rischi associati allo scioglimento della Groenlandia non siano tanto il prodotto del riscaldamento globale indotto dall’uomo, quanto piuttosto dei cicli naturali delle correnti e delle temperature dell’Atlantico settentrionale, che nel tempo hanno poi la tendenza a regredire verso la media.

«Molti report sul clima oggi mettono in evidenza i cambiamenti a breve termine quando si adattano alla narrazione di un clima in crisi, ma ignorano o minimizzano i cambiamenti quando non lo fanno, spesso liquidandoli come 'solo questioni meteo'», ha scritto a febbraio.

Un altro non-allarmista del clima è “Roger Pielke Jr”., professore di studi ambientali all’Università del Colorado, Boulder.

Definisco Pielke un non-allarmista piuttosto che uno scettico perché riconosce prontamente che le sfide associate al cambiamento climatico, compreso l’innalzamento del livello del mare, sono reali, serie e probabilmente inarrestabili, almeno per molti decenni.

 Ma questa è anche la fonte del suo (relativo) ottimismo. «Se dobbiamo avere un problema», mi ha detto quando l’ho raggiunto al telefono, «probabilmente ne vogliamo uno che abbia un’insorgenza lenta, che possiamo vedere arrivare. Non è come un asteroide che arriva dallo spazio».

Tra le aree di competenza di “Pielke” vi è l’analisi delle tendenze a lungo termine delle catastrofi meteorologiche e climatiche.

 Anche se il costo nominale di uragani, inondazioni, incendi e siccità è cresciuto, l’impatto economico di questi disastri rispetto alle dimensioni complessive dell’economia continua a diminuire, grazie al miglioramento delle previsioni, delle infrastrutture, della pianificazione e della capacità di reazione in caso di calamità - tutti fattori che, a loro volta, sono il risultato del massiccio aumento della ricchezza di cui il mondo ha goduto nell’ultimo secolo.

 

«Dagli anni ’40, l’impatto delle inondazioni in proporzione al Prodotto interno lordo degli Stati Uniti è diminuito di oltre il 70%», ha detto Pielke.

 «Lo vediamo in tutto il mondo, in tutti i fenomeni.

 I fatti sono che muoiono meno persone e i danni sono minori in proporzione al Pil».

Una notevole quantità di dati dà ragione a “Pielke”.

 Negli anni Venti del secolo scorso, il numero medio stimato di morti per catastrofi naturali in tutto il mondo era di oltre 500mila all’anno.

Le sole inondazioni del 1931 in Cina uccisero ben 4 milioni di persone non solo per annegamento, ma anche per assideramento, malattie e carestia.

 Un esempio più recente: il ciclone Bhola del 1970, ha ucciso ben 500mila persone in quello che oggi è il Bangladesh.

Negli anni Dieci del Duemila, la media annuale dei decessi è stata inferiore a 50mila, un decimo di quella di un secolo fa.

 L’uragano Ian, tra le tempeste più forti che abbiano mai colpito la Florida, ha avuto un bilancio di almeno 119 morti, una piccola frazione degli 8mila che si ritiene siano stati uccisi dal grande uragano di Galveston del 1900.

Anche i Paesi più poveri, pur rimanendo inaccettabilmente vulnerabili, stanno subendo perdite umane ed economiche di gran lunga inferiori a causa dei disastri legati al clima.

Il riscaldamento globale è reale e sta peggiorando, ha detto “Pielke”, ma è comunque possibile che l’umanità sia in grado di adattarsi e compensare i suoi effetti.

Come curare il cancro. O forse no. Qualche anno fa, avrei trovato convincenti voci come quelle di Koonin e Pielke.

 Ora ne sono meno sicuro. Ciò che è intervenuto nel frattempo è stata una pandemia.

Così come un tempo avevo scartato l’idea di una catastrofe climatica, per ragioni quasi identiche avevo anche scartato le previsioni di un’altra pandemia catastrofica alla stregua dell’epidemia di influenza del 1918-20.

Dopotutto, non avevamo superato i precedenti allarmi relativi a Ebola, Sars, Mers e malattia della mucca pazza senza immense perdite di vite umane?

La virologia, la ricerca sulla salute pubblica, l’igiene pubblica, lo sviluppo di farmaci e la medicina non avevano fatto molta strada dalla fine della Prima Guerra Mondiale, rendendo i paragoni con le pandemie passate per lo più privi di senso?

È quello che ho pensato fino alla primavera del 2020, quando, come tutti, ho sperimentato quanto la natura possa travolgere rapidamente e implacabilmente anche le società più ricche e tecnologicamente avanzate.

 È stata una lezione di umiltà intellettuale che ho raccomandato agli altri e che ho iniziato a capire di poter usare di più su me stesso.

È stata anche una lezione di riflessione sui rischi, in particolare quelli della categoria nota come "eventi ad alto impatto e bassa probabilità", che sembrano colpirci con regolarità in questo secolo:

gli attentati dell’11 settembre, gli tsunami del 2004 e del 2011 e le rivolte di massa nel mondo arabo iniziate con l’autoimmolazione di un venditore ambulante tunisino.

Ecco alcune delle domande che mi hanno attanagliato: e se il passato non fosse in grado di prevedere il futuro?

E se i rischi climatici non evolvessero in modo graduale e relativamente prevedibile, ma si impennassero improvvisamente in modo incontrollato?

Quanto tempo è necessario per affrontare un fenomeno come l’innalzamento del livello del mare? Come valutare i rischi di una reazione insufficiente al cambiamento climatico rispetto a quelli di una reazione eccessiva?

Ho chiamato “Seth Klarman”, uno dei gestori di “hedge fund “di maggior successo al mondo, per riflettere sulla questione del rischio.

Pur non essendo un esperto di cambiamenti climatici, ha trascorso decenni a riflettere profondamente su ogni tipo di rischio.

 È anche una delle rare persone con la capacità di cambiare idea, anche, come lui stesso riconosce, sul rischio climatico.

 «Ho parlato con così tanti esperti e ho visto così tante prove», mi ha detto su Zoom, «che sono convinto che il clima stia cambiando, e affrontare il cambiamento climatico è diventata una mia priorità filantropica».

«Se ci si trova ad affrontare qualcosa di potenzialmente esistenziale», ha spiegato, «esistenziale per le nazioni, persino per la vita così come la conosciamo, anche se si pensa che il rischio sia, ad esempio, del 5%, ci si vuole proteggere».

Come?

«Una cosa che cerchiamo di fare», ha detto, «è acquistare una protezione quando è davvero poco costosa, anche quando pensiamo di non averne bisogno».

Le forze che contribuiscono al cambiamento climatico, hanno osservato, facendo eco a “Englander”, «potrebbero essere irreversibili prima che i danni del cambiamento climatico siano diventati pienamente evidenti.

Non si può dire che è lontano e aspettare quando, se si fosse agito prima, si sarebbe potuto affrontare il problema meglio e con meno costi. Dobbiamo agire ora».

In altre parole, un grammo di prevenzione vale un chilo di cura. Questo è particolarmente vero se paragoniamo il cambiamento climatico a un cancro: gestibile o curabile nelle fasi iniziali, disastroso in quelle successive.

Agire in modo efficace non sarà facile.

Quando ho cenato con “Stensgaard”, il dirigente minerario, ha citato una statistica che mi ha stupito.

 Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni di anidride carbonica entro il 2050, entro il 2040 dovremo estrarre sei volte le quantità attuali di minerali critici - nichel, cobalto, rame, litio, manganese, grafite, cromo, terre rare e altri elementi - necessari per i veicoli elettrici, le turbine eoliche e i pannelli solari.

E quasi certamente dovremo farlo da fonti diverse rispetto a Russia, Cina, Congo e altri luoghi che presentano rischi strategici, ambientali o umanitari inaccettabili.

Questa dovrebbe essere un’ottima notizia per persone come “Stensgaard”, sempre a patto che i groenlandesi siano disposti a seguirlo.

Dall’altra parte della baia piena di iceberg, dove abbiamo cenato, si trova l’isola di Disko, due volte più grande di Long Island, dove vivono circa mille persone. Secondo “Stensgaard”, si ritiene che contenga da 12 a 16 milioni di tonnellate di nichel.

Per mettere questa cifra in prospettiva, “Stensgaard” mi ha detto che, secondo una stima, la miniera di nichel di Norilsk in Russia, una delle più grandi al mondo, ha prodotto circa 8,3 milioni di tonnellate dagli anni Quaranta.

Un mondo che si impegna a raggiungere lo zero netto avrà bisogno di molte più isole Disko per soddisfare il suo fabbisogno di energia "pulita".

Ho messo la parola "pulita" tra virgolette perché il termine è un termine improprio.

Come per ogni altra cosa nella vita, anche per l’ambiente non esiste un "pranzo gratis".

Che si tratti di nucleare, biocarburanti, gas naturale, idroelettrico o, sì, anche di eolico e di solare, ogni forma di energia, se utilizzata su vasta scala, presenta sempre gravi inconvenienti ambientali.

Una singola turbina eolica di dimensioni industriali, per esempio, richiede in genere circa una tonnellata di terre rare (metalli dalle straordinarie proprietà magnetiche e conduttive, ndr) e tre tonnellate di rame, che sono notoriamente distruttivi e sporchi da estrarre.

Inoltre, come credo da tempo, nessuna soluzione di "energia pulita" ci libererà facilmente dalla nostra schiacciante e, per ora, ineluttabile dipendenza dai combustibili fossili.

Nessuno centra il punto meglio di “Vaclav Smil”, l’eclettico canadese il cui ultimo libro, “Come funziona davvero il mondo”, dovrebbe essere una lettura obbligatoria per i politici e per chiunque sia interessato a una discussione seria sulle potenziali soluzioni climatiche.

Molte persone tendono a pensare ai combustibili fossili soprattutto in termini di trasporto, generazione di elettricità e riscaldamento.

Ma quanto spesso consideriamo la necessità dei combustibili fossili nella produzione di fertilizzanti azotati, senza i quali, ha osservato “Smil”, "sarebbe impossibile nutrire almeno il 40% e fino al 50% dei quasi 8 miliardi di persone di oggi"?

È difficile immaginare la vita moderna senza la plastica, ottenuta principalmente dagli idrocarburi etilene e propilene, o l’acciaio, prodotto con carbone da coke e gas naturale, o il cemento o l’asfalto.

Alcuni critici rispondono alle argomentazioni di “Smil” con un tipo di ottimismo eroico che sfiora il pensiero magico.

 Perché, si chiedono, non possiamo fare di più per coltivare il nostro cibo in modo biologico e distribuirlo e consumarlo localmente?

L’unico modo per farlo e per fare una differenza significativa per il clima è che milioni di noi tornino a coltivare, accettando un mondo che può nutrire molte meno persone.

Oppure acclamano gli investimenti nell’energia eolica e solare senza considerare adeguatamente che il semplice aumento dell’offerta di energia rinnovabile fa ben poco per diminuire la continua domanda complessiva di combustibili fossili, perché non abbiamo ancora risolto il problema dell’intermittenza:

il sole non splende sempre, il vento non soffia sempre e non abbiamo capito come immagazzinare l’energia extra nella scala necessaria.

Il manifesto di questo tipo di pensiero magico è la Germania, che ha intrapreso una storica “Energiewende” - "rivoluzione energetica" - per poi fallire.

All’inizio del secolo, la Germania ricavava circa l’85% della sua energia primaria dai combustibili fossili.

Ora ne ricava circa il 78%, una riduzione irrisoria se si considera che il Paese ha speso ingenti somme per aumentare la quota di elettricità generata dalle fonti rinnovabili.

Cosa è andato storto?

 Molte cose, non ultima la brusca decisione di Angela Merkel di chiudere tutte le centrali nucleari tedesche subito dopo il disastro di Fukushima del 2011.

Questo ha costretto la Germania ad affidarsi maggiormente al carbone, al petrolio e al gas esteri.

E ora la stessa Germania ha affrontato l’inverno con la prospettiva di forniture energetiche incerte da parte dei suoi ex partner di Mosca.

Le cose potrebbero cambiare quando gli scienziati riusciranno a trovare una soluzione tecnica al problema dell’accumulo di energia.

 O quando i governi e gli attori locali supereranno il loro “NIMBYismo” quando si tratterà di autorizzare e costruire una grande rete energetica per spostare l’elettricità dal ventoso nord della Germania al suo sud affamato di energia.

O quando gli attivisti ambientalisti si renderanno conto della necessità dell’energia nucleare, una delle poche fonti energetiche, insieme all’energia idroelettrica, che combina affidabilità, densità energetica e assenza di emissioni dirette di carbonio.

Fino ad allora, anche se sono arrivato ad accettare il pericolo che corriamo, penso che valga la pena di estendere la metafora del cancro un po’ di più: così come i trattamenti per il cancro, quando funzionano, possono avere effetti collaterali terribili, lo stesso si può dire dei trattamenti per il clima;

il divario tra una diagnosi accurata e un trattamento efficace rimane tristemente ampio. Il problema mi è diventato più chiaro, la soluzione no.

Il capitalismo può essere la chiave.

Forse - mi sono reso conto valutando le mie nuove preoccupazioni sul cambiamento climatico - le mie convinzioni di sempre potrebbero fornire una soluzione: guardare al mercato.

Il modo in cui abbiamo affrontato altri problemi di vasta portata e persistenti ci fornisce alcune lezioni.

Per molti decenni, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Agenzia statunitense per lo Sviluppo Internazionale e altre agenzie, straniere e nazionali, hanno pompato trilioni di dollari in alcuni dei Paesi più poveri del mondo, con piani di sviluppo ingegnosi che si sono sgretolati al contatto con le realtà locali.

I Paesi in via di sviluppo sono rimasti bloccati nelle trappole del debito, nella corruzione alimentata dagli aiuti e in cicli debilitanti di dipendenza.

Solo quando paesi come il Vietnam e la Cina si sono orientati verso un modello diverso, di sviluppo dal basso verso l’alto e guidato dal mercato, centinaia di milioni di persone sono state sottratte all’indigenza.

Oppure consideriamo un altro dato notevole rilevato da “Smil”: negli Stati Uniti, la differenza tra il consumo totale di acqua nel 1965 e nel 2015 è inferiore al 4%.

Nello stesso arco di tempo, la popolazione è cresciuta di oltre il 60%.

Le leggi, i regolamenti e la crescente consapevolezza ambientale hanno giocato un ruolo importante. Così come la crescente urbanizzazione: un maggior numero di persone che vivono in appartamenti significa meno prati da innaffiare.

Ma la trasformazione più importante è avvenuta nell’agricoltura, che utilizza circa il 70% delle riserve di acqua dolce del mondo.

Gli agricoltori hanno gradualmente adottato sistemi di irrigazione a pioggia e a goccia piuttosto che la più dispendiosa irrigazione a pioggia, non per risparmiare acqua ma perché la tecnologia offriva rese più elevate e maggiori margini di profitto.

L’Accordo di Parigi del 2015, a cui l’amministrazione Biden ha aderito con tanto clamore, fissa obiettivi molto ambiziosi per la riduzione dei gas serra, che esaltano le credenziali ambientali dei governi che lo firmano.

Ma l’accordo non prevede alcun meccanismo di applicazione e l’idea che Paesi come la Russia, l’Arabia Saudita, la Cina e l’India (che sta diventando sempre più - e non meno - dipendente dal carbone) raggiungano gli obiettivi dichiarati in materia di emissioni è fantasiosa fino all’assurdo.

Eppure, grazie alle forze di mercato, sono stati compiuti notevoli progressi in campo ambientale.

In questo secolo, le emissioni di anidride carbonica dell’America, per tutti i tipi di combustibile, sono scese ben al di sotto di 5mila milioni di tonnellate metriche all’anno, da un picco di circa 6mila milioni nel 2007, anche se il nostro Pil corretto per l’inflazione è cresciuto di oltre il 50% e la popolazione totale di circa il 17%.

Le energie rinnovabili, in particolare l’energia eolica, hanno svolto un ruolo importante.

 Così come i mandati di efficienza.

Tuttavia, il più grande fattore di riduzione delle emissioni dal 2005 al 2017 è stato il passaggio dal carbone al gas naturale per la produzione di energia, poiché il gas produce circa la metà di anidride carbonica rispetto al carbone.

Questo è stato a sua volta il risultato della rivoluzione rappresentata dal fracking nell’ultimo decennio, ferocemente contrastata da molti attivisti ambientali, che ha reso gli Stati Uniti il più grande produttore di gas al mondo.

 Come per l’energia nucleare, il fracking comporta rischi ambientali reali (tra cui le emissioni di metano) che non possono essere ignorati.

 Ma chiunque sia interessato a soluzioni utili che riducano significativamente le emissioni senza incorrere in costi enormi deve evitare - come recita un famoso aforisma - di "fare del perfetto il nemico del buono".

In pratica, insistere sulla perfezione a tutti i costi spesso impedisce l’attuazione di buoni miglioramenti.

A lungo termine, è più probabile che si facciano progressi quando si adottano soluzioni parziali che si adattano alla natura umana, e non grandi soluzioni che la contrastano.

 A volte queste soluzioni saranno di tipo legislativo, almeno quando spingono, piuttosto che costringere, il settore privato a muoversi nella giusta direzione.

Ma più spesso verranno dal basso, sotto forma di innovazioni e pratiche testate sui mercati, adottate dai consumatori e continuamente perfezionate dall’uso.

Potrebbero non essere direttamente collegate al cambiamento climatico, ma possono comunque avere un impatto positivo su di esso.

 E probabilmente non si presenteranno sotto forma di una grande idea, ma di migliaia di piccole idee il cui impatto cumulativo si somma.

Lasciando la Groenlandia.

La mia ultima sera in Groenlandia ho fatto un giro in barca tra gli enormi iceberg che si erano spinti fuori dall’”Icefjord di Ilulissat” e che ora cominciavano a galleggiare liberi nelle acque profonde della baia di Disko.

 Si ritiene generalmente che uno di questi iceberg si sia diretto dalla baia verso un punto dell’Atlantico settentrionale dove, la notte del 14 aprile 1912, incontrò il Titanic e lo affondò.

 È facile lasciarsi trasportare da una metafora, ma era difficile non pensare che la Groenlandia potesse riservare una sorpresa altrettanto terribile, su scala molto più ampia, a una civiltà troppo sicura di sé che non riesce a prepararsi adeguatamente per l’impensabile momento in cui potrebbe improvvisamente naufragare. Solo che noi non siamo quella civiltà.

Il problema della nostra civiltà non è l’eccesso di fiducia.

È la polarizzazione, la paralisi e la profonda mancanza di fiducia in tutte le istituzioni, compresa quella scientifica (un’altra lezione dell’era della pandemia).

L’elaborazione di politiche climatiche efficaci inizia con il riconoscere la realtà del panorama sociale e politico in cui ci si muove. Alcune riflessioni su come potremmo fare meglio.

 

1.   Il coinvolgimento di chi è critico è fondamentale.

Gli insulti e l’accanimento non sono mai buoni strumenti di persuasione, e cercare di costringere gli scettici del clima al silenzio o alla censura raramente funziona.

“Englander” ha ottenuto molto di più con me dicendo: "Parliamo", piuttosto che firmando una lettera che diceva, in effetti, "Stai zitto".

Anch’io avrei potuto risparmiarmi l’accoglienza indignata della mia prima rubrica, se non fosse stata preceduta dagli appellativi delle mie vecchie rubriche, come quando ho definito gli attivisti per il clima "una casta di persone spettacolarmente poco attraenti che fingono di possedere un’oscura forma di conoscenza che promette di far ritirare i mari e placare i venti".

 

2-Separare i fatti dalle previsioni e le previsioni dalla politica.

 Il riscaldamento globale è un fatto. Così come il contributo umano ad esso.

Così come lo sono gli aumenti osservati della temperatura e del livello del mare. E lo sono anche gli incrementi che vedremo se continueremo a fare lo stesso.

Ma il tasso di questi aumenti è difficile da prevedere anche con i modelli informatici più sofisticati.

 L’establishment scientifico farebbe di più per aumentare la fiducia se comunicasse ciò di cui non è sicuro - come la relazione tra il cambiamento climatico e specifici eventi meteorologici estremi - tanto quanto ciò che lo è.

 La fiducia aumenterebbe ulteriormente se gli scienziati del clima non usassero l’autorità conferita loro dal settore di competenza per spingere politiche le cui implicazioni economiche, politiche e sociali potrebbero non essere pienamente comprese.

2.   Non permettere che il clima diventi una preoccupazione prevalentemente di sinistra.

Uno dei motivi per cui il tema del clima è diventato un tale "anatema" per molti conservatori è che molte delle soluzioni proposte hanno il sapore e spesso il prezzo dello statalismo vecchio stile.

 Ma il clima è un bene universalmente condiviso e dovrebbe essere un interesse davvero comune.

I conservatori possono fare molto di più per sviluppare una propria serie di prescrizioni politiche realistiche (ad esempio, accelerare le autorizzazioni e le agevolazioni fiscali per l’energia nucleare di nuova generazione).

Ma prima, molti di loro devono essere convinti, come è successo a me quest’anno, della necessità di agire.

 

3.   Essere onesti sulla natura della sfida.

Parlare di una catastrofe climatica imminente è probabilmente fuorviante, almeno nel modo in cui la maggior parte delle persone intende il termine "imminente".

 Un continuo allarme potrebbe esaurire gli elettori più di quanto non faccia per risvegliarli.

Una descrizione più accurata della sfida potrebbe essere "punto di svolta potenzialmente imminente":

le conseguenze peggiori del cambiamento climatico possono essere ancora lontane, ma la nostra capacità di invertirle si sta avvicinando. Anche in questo caso, la metafora del cancro - mai sicuro da ignorare e sempre meglio da affrontare al secondo stadio che al quarto - può essere utile.

4.   Essere umili sulla natura delle soluzioni.

Quanto maggiore è l’investimento politico e finanziario in una risposta al cambiamento climatico di dimensioni pari a quelle dell’”Energiewende”, tanto maggiore è la perdita di tempo, di capitale e (soprattutto) di fiducia da parte dell’opinione pubblica quando non funziona come previsto.

A volte paga pensare in piccolo. Come ha osservato “Smil”, possiamo fare molto bene anche imponendo finestre a triplo vetro e un adeguato isolamento per rendere molto più efficienti dal punto di vista energetico case che spesso resteranno in piedi per 100 anni.

 Un allontanamento dai Suv - la cui ubiquità è una conseguenza perversa degli standard di efficienza energetica degli anni ’70 che hanno creato esenzioni per quelle auto che in America si definiscono “light trucks “- sarebbe un altro progresso silenzioso ma importante.

5.   Iniziare a risolvere i problemi che i nostri pronipoti dovranno affrontare.

A cominciare dall’innalzamento del livello del mare: non possiamo spostare Miami o Calcutta, in India, a breve, se non mai.

Ma possiamo agire immediatamente per preservare una parte più ampia della nostra costa da un ulteriore sviluppo e urbanizzazione.

6) Possiamo anche smettere di incentivare la costruzione in aree a rischio di inondazioni, aumentando il prezzo dell’assicurazione federale contro le inondazioni per riflettere più accuratamente l’aumento del rischio.

7. Smettere di considerare la crescita economica come un problema.

L’industrializzazione può essere la causa principale del cambiamento climatico. Ma non possiamo e non vogliamo invertire la tendenza attraverso una forma di deindustrializzazione, che manderebbe il mondo in povertà e privazioni.

Al contrario, la crescita economica dovrebbe essere vista come un alleato nella lotta contro il cambiamento climatico, perché crea sia la ricchezza che può mitigare gli effetti del cambiamento climatico sia l’innovazione tecnologica necessaria per affrontarne le cause.

Questo vale soprattutto per i Paesi più poveri, per i quali gli investimenti esteri, il libero scambio, le riforme orientate al mercato e i buoni quadri normativi faranno di più per costruire la resilienza climatica di ulteriori miliardi di aiuti esteri.

 

8. Prendere sul serio i compromessi ambientali che comporta l’energia pulita.

Non si possono sostenere i parchi eolici ma ostacolare le linee di trasmissione necessarie per portare l’energia ai mercati in cui è necessaria.

Non si possono appoggiare i parchi eolici ma fare causa per bloccarli nei punti in cui potrebbero ostruire la vista del Nantucket Sound.

Non si possono appoggiare i parchi eolici, ma sostenere le norme ambientali che rendono poco redditizia l’estrazione delle terre rare negli Stati Uniti e mandano l’industria in Cina (dove le norme significative sono di fatto inesistenti).

E non si può esultare per la riduzione delle emissioni di gas serra negli Stati Uniti ma opporsi alla “rivoluzione del fracking” del gas naturale che ha contribuito a realizzarla.

 

9. Un problema per il futuro è, per sua stessa natura, un problema morale.

Un movimento conservatore che afferma di preoccuparsi di ciò che dobbiamo al futuro ha la duplice responsabilità di dare l’esempio ai propri figli e allo stesso tempo di prepararsi per quel futuro.

 La stessa logica prudenziale che si applica alle finanze personali, alle decisioni aziendali, alla sicurezza sociale, al debito federale o ad altri rischi per la solvibilità finanziaria dovrebbe dettare politiche ponderate quando si tratta di clima.

(Bret L. Stephens è entrato a far parte del New York Times come editorialista Op-Ed nell’aprile 2017)

 

 

 

La guerra dello "stato profondo"

del Sudan potrebbe avere conseguenze

geostrategiche di vasta portata se continuasse.

 

Globalresearch.ca - Andrew Korybko – (17 aprile 2023) – ci dice:

 

Visto che l'Egitto, l'Etiopia, la Russia, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti hanno tutti interessi importanti in Sudan, è chiaro che quest'ultimo conflitto africano potrebbe effettivamente avere conseguenze di vasta portata se continua e soprattutto se la sua guerra dello "stato profondo" scende in una guerra civile.

 In tal caso, questo paese geostrategico potrebbe improvvisamente diventare oggetto di un'intensa competizione nella Nuova Guerra Fredda, che potrebbe catalizzare processi incontrollabili che culminano nella destabilizzazione di tutta l'Africa.

Tutte le parti interessate responsabili devono quindi fare tutto il possibile per evitare che ciò accada.

Feroci combattimenti sono scoppiati in tutto il Sudan questo fine settimana tra le forze armate sudanesi (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF), con l'una che incolpa l'altra per aver iniziato questo.

 Visto che questo conflitto rimane limitato per il momento a due fazioni militari, può quindi essere descritto come una guerra dello "stato profondo" e non civile come il conflitto che alla fine ha portato all'indipendenza del Sud Sudan.

Questo non significa che non si trasformerà in una guerra civile, ma solo che non lo era ancora avvenuta domenica sera.

 

La guerra dello "stato profondo" del Sudan era inevitabile, dal momento che queste fazioni sono state in competizione tra loro su chi rimarrà la forza più potente del paese in mezzo alla sua transizione continuamente ritardata verso la democrazia iniziata dopo il colpo di stato militare del 2019.

 La SAF è guidata dal capo generale “Abdel Fattah Al-Burhan” mentre la RSF è gestita dal generale “Mohamed Hamdan Dagalo”, noto anche come “Hemedti”.  

Entrambi gli uomini fanno parte del “Sovrano Consiglio di transizione”, il primo come presidente e il secondo come vicepresidente.

Un nuovo primo ministro e le istituzioni dell'autorità di transizione avrebbero dovuto essere annunciati entro martedì scorso, ma ovviamente non è accaduto.

 Le tensioni dello "stato profondo" iniziarono a diventare incontrollabili in quel periodo, forse a causa di uno o entrambi i partiti che calcolavano di poter fare il loro gioco di potere pianificato da tempo contro l'altro con il pretesto di presentarlo come una "difesa della democrazia" contro il loro presunto avversario "antidemocratico".

È difficile discernere esattamente cosa sta succedendo in questo momento e chi controlla cosa a causa della "nebbia di guerra", quindi il presente pezzo eviterà di toccare informazioni non confermate nell'analizzare la guerra dello "stato profondo" del Sudan, concentrandosi invece sulle conseguenze di questo sviluppo del tutto prevedibile.

 Per cominciare, questo conflitto si riflette molto male sull'esercito poiché mostra quanto profondamente diviso sia diventato nel corso degli anni che due centri di potere in competizione chiaramente distinti sono stati in grado di emergere al suo interno.

Le conseguenze del colpo di stato sudanese.

A seconda di quanto tempo si combattono l'un l'altro, questa istituzione potrebbe esaurirsi abbastanza al punto che le forze separatiste riemergono lungo la sua periferia come una potente minaccia all'integrità territoriale del Sudan, che potrebbe trasformarlo nella prossima Jugoslavia.

L'ex presidente Omar Al-Bashir ha persino avvertito il suo omologo russo di questo durante il loro incontro nel 2017, quando ha chiesto assistenza per evitare quello che ha detto essere "il desiderio degli Stati Uniti di dividere il Sudan in cinque stati".

Questo scenario non si è ancora sviluppato a causa del fatto che l'esercito rimane una forza formidabile nonostante le sue crescenti divisioni da allora, che sono culminate nell'inevitabile guerra dello "stato profondo" del Sudan questo fine settimana, ma tutto potrebbe cambiare rapidamente se il loro conflitto continua a infuriare.

 Più a lungo queste fazioni combattono, più è probabile che si verifichi anche un certo livello di intervento straniero, in particolare la possibilità che l'Egitto sostenga “Burhan” e gli Emirati Arabi Uniti sostengano “Hemedti”, con cui sono considerati vicini.

Anche se il presidente degli Emirati Mohammed bin Zayed (MBZ) ha appena incontrato il suo omologo egiziano Abdel Fattah El-Sisi al Cairo la scorsa settimana, questi due potrebbero rapidamente passare a sostenere i rispettivi partner se il conflitto continua a trascinarsi per dare loro un vantaggio sull'altro.

Per quanto riguarda il ruolo dell'Egitto, “RSF” ha catturato alcune delle sue truppe nel paese, che il Cairo sostiene fossero lì per condurre un addestramento congiunto.

Saranno restituiti, ma pochi sapevano che erano lì in primo luogo fino a quando questo non è accaduto.

La vicina Etiopia, con cui Egitto e Sudan sono coinvolti in un'aspra disputa su una diga sul Nilo che attraversa ciascuno dei loro territori, ne prenderà sicuramente atto così come i filmati sui social media che affermano di mostrare aerei da combattimento egiziani anche in Sudan.

 Ci sono già da un paio d'anni preoccupazioni che l'Egitto stia tramando un cosiddetto "attacco preventivo" contro l'Etiopia al fine di impedire ad Addis di riempire quella suddetta diga, la cui speculazione è stata ora ampliata da questa rivelazione.

Etiopia e Sudan sono anche in una disputa su una regione conosciuta come “Alfashaga”, che ha portato a scontri la scorsa estate, quindi è possibile che Addis possa fare una mossa militare lì a sostegno delle sue rivendicazioni se dovesse sentire che Khartoum è troppo divisa e debole per mantenere il controllo su di essa.

Per essere assolutamente chiari, non ci sono segni che questo venga preso in considerazione, ma vale comunque la pena menzionarlo nel contesto più ampio delle conseguenze che potrebbero svolgersi se la guerra dello "stato profondo" del Sudan continua.

Quest'ultimo conflitto è interessante anche per l'Etiopia perché la sua ottica ricorda molto da vicino la recente disputa tra il governo federale e alcuni elementi della regione di “Amhara” sulla riorganizzazione militare del paese.

Il capo di stato maggiore “Birhanu Jula” ha annunciato sabato che "a partire da oggi, la struttura delle forze speciali regionali non c'è più. Il nostro lavoro è finito", quindi i sostenitori federali potrebbero affermare che questa operazione di successo ha impedito una guerra di "stato profondo" simile a quella sudanese.

Non sono solo gli Stati Uniti, l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e l'Etiopia i cui interessi sono influenzati da questo conflitto, ma anche la Russia, che è diventata estremamente vicina a entrambe le fazioni militari in guerra dopo aver costruito sui legami che l'ex presidente Bashir ha stabilito durante il suo viaggio a Mosca nel 2017.

 Prevede di aprire presto una base navale a “Port Sudan”, secondo quanto riferito, le due parti cooperano sull'estrazione mineraria e sulla sicurezza e il Sudan facilita l'accesso russo alla vicina Repubblica Centrafricana (CAR).

Al Cremlino non importa quale parte vince finché il vincitore mantiene i suoi legami strategici, l'ultima dimensione dei quali è immensamente importante poiché qualsiasi potenziale ostacolo all'accesso trans-sudanese della Russia alla Repubblica Centrafricana potrebbe avere conseguenze disastrose per la sicurezza di quel paese.

 Mosca ha aiutato “Bangui” a ripristinare il suo mandato sovrano su vaste aree del paese con l'aiuto di “Wagner”, ma la capitale potrebbe ancora una volta essere minacciata dai ribelli se il Cremlino non riuscirà a rifornire adeguatamente le forze di quei due.

Il possibile collasso del progetto di "sicurezza democratica" della Russia avrebbe enormi implicazioni per il suo nuovo fascino per i paesi africani, che è dovuto alla combinazione di rafforzare efficacemente la sovranità dei suoi partner attraverso i mezzi pionieristici nella Repubblica centrafricana e la sua attraente visione del mondo multipolare.

 La possibile inversione del suo primo successo di "sicurezza democratica" nel continente a seguito della guerra sudanese dello "stato profondo" rappresenterebbe una significativa battuta d'arresto simbolica che l'Occidente certamente sfrutterebbe.

Con gli interessi di questi cinque stati in mente, è chiaro che questo ultimo conflitto africano potrebbe effettivamente avere conseguenze di vasta portata se continua e soprattutto se la guerra dello "stato profondo" del Sudan sfocia in una guerra civile.

In tal caso, questo paese geostrategico potrebbe improvvisamente diventare oggetto di un'intensa competizione nella Nuova Guerra Fredda, che potrebbe catalizzare processi incontrollabili che culminano nella destabilizzazione di tutta l'Africa.

Tutte le parti interessate responsabili devono quindi fare tutto il possibile per evitare che ciò accada.

 

 

 

Il FMI ha appena presentato

una nuova valuta globale nota

come "unità monetaria universale"

che dovrebbe rivoluzionare l'economia mondiale.

Globalresearch.ca - Michael Snyder – (17 aprile 2023) – ci dice:

 

Una nuova valuta globale è appena stata lanciata, ma il 99% della popolazione mondiale non ha idea di cosa sia appena successo.

 L'"Universal Monetary Unit", nota anche come "Unicoin", è una "valuta digitale della banca centrale internazionale" che è stata progettata per funzionare in combinazione con tutte le valute nazionali esistenti.

 Questo dovrebbe far scattare un campanello d'allarme per tutti noi, perché l'adozione diffusa di una nuova "valuta globale" sarebbe un enorme passo avanti per l'agenda globalista.

 Il FMI non ha creato questa nuova valuta, ma è stata svelata in una grande riunione del FMI all'inizio di questa settimana ...

Oggi, in occasione degli incontri di primavera 2023 del “Fondo monetario internazionale” (FMI), l'”Autorità monetaria della valuta digitale” (DCMA) ha annunciato il lancio ufficiale di una valuta digitale della “banca centrale internazionale” (CBDC) che rafforza la sovranità monetaria delle banche centrali partecipanti e rispetta le recenti raccomandazioni sulla politica delle attività crittografiche proposte dal FMI.

L'unità monetaria universale (UMU), simboleggiata come carattere ANSI, è legalmente una merce monetaria, può effettuare transazioni in qualsiasi valuta di regolamento a corso legale e funziona come una CBDC per far rispettare le normative bancarie e proteggere l'integrità finanziaria del sistema bancario internazionale.

Come indica il comunicato stampa citato sopra, questa nuova "Universal Monetary Unit" è stata creata dalla “Digital Currency Monetary Authority”.

Quindi, chi nel mondo è la “Digital Currency Monetary Authority”?

Onestamente, non ne avevo idea fino a quando non ho iniziato a fare ricerche per questo articolo.

Il comunicato stampa afferma che l'organizzazione è composta da "stati sovrani, banche centrali, banche commerciali e al dettaglio e altre istituzioni finanziarie" ...

La DCMA è leader mondiale nella difesa delle valute digitali e delle innovazioni di politica monetaria per i governi e le banche centrali. L'appartenenza alla DCMA è costituita da stati sovrani, banche centrali, banche commerciali e al dettaglio e altre istituzioni finanziarie.

Fondamentalmente, sembra che una cabala segreta di banche internazionali e governi nazionali stia cospirando per spingere questa nuova valuta giù per la gola.

Ci viene detto che l'"Unità Monetaria Universale" è "Crypto 2.0", e coloro che l'hanno creata sperano che sarà ampiamente adottata da "tutti i collegi elettorali in un'economia globale" ...

Il DCMA introduce l'unità monetaria universale come Crypto 2.0 perché innova una nuova ondata di tecnologie crittografiche per la realizzazione di un sistema monetario pubblico di valuta digitale con un quadro di adozione diffuso che comprende casi d'uso per tutte le circoscrizioni in un'economia globale.

La “Banca centrale europea” (BCE) afferma che il contante "non è adatto" per l'economia digitale, respinge le preoccupazioni sulla privacy della CBDC.

Non so voi, ma questo mi sembra super ombroso.

Naturalmente la “Digital Currency Monetary Authority” non è l'unica che ha lavorato su una nuova valuta digitale.

Anche il Regno Unito ha lavorato su uno.

Lo stesso vale per l'Unione europea.

E sorprenderebbe qualcuno che l'amministrazione Biden stia propagandando i potenziali benefici di una "forma digitale del dollaro USA"?

 Quanto segue proviene dal sito ufficiale della Casa Bianca ...

Una valuta digitale della banca centrale degli Stati Uniti (CBDC) sarebbe una forma digitale del dollaro USA.

 Mentre gli Stati Uniti non hanno ancora deciso se perseguire una CBDC, gli Stati Uniti hanno esaminato attentamente le implicazioni e le opzioni per l'emissione di una CBDC.

 Se gli Stati Uniti perseguissero una CBDC, ci potrebbero essere molti possibili benefici, come facilitare transazioni efficienti e a basso costo, promuovere un maggiore accesso al sistema finanziario, stimolare la crescita economica e sostenere la continua centralità degli Stati Uniti all'interno del sistema finanziario internazionale.

Non credo sia una coincidenza che i governi di tutto il mondo occidentale stiano sviluppando contemporaneamente CBDC.

E il FMI ha già messo insieme un ampio manuale "per assistere le banche centrali e i governi di tutto il mondo nelle loro implementazioni di CBDC"...

 

Pubblicato pubblicamente il 10 aprile, il rapporto "IMF Approach to Central Bank Digital Currency Capacity Development" delinea la strategia pluriennale del FMI per aiutare le implementazioni di CBDC, incluso lo sviluppo di un "Manuale CBDC" vivente da seguire per le autorità monetarie.

Molte persone là fuori applaudiranno quando verranno introdotte queste valute digitali.

Ma è imperativo capire che una volta che tutti li usano, la tua privacy finanziaria sarà quasi completamente sparita.

Le autorità saranno in grado di tracciare praticamente tutto ciò che acquisti e vendi, e sono sicuro che non esiteranno a usare queste informazioni contro di te.

Inutile dire che il potenziale di tirannia in un tale sistema è fuori classifica.

Riesci a immaginare un mondo in cui ti viene impedito di acquistare carne per un po’ perché hai già usato i tuoi "crediti di carbonio" per il mese?

I tuoi "privilegi finanziari" potrebbero potenzialmente essere limitati in qualsiasi momento per il capriccio di un burocrate governativo, e se sei un piantagrane abbastanza grande potresti essere "de-piattaformato" dal sistema in modo permanente.

Naturalmente, affinché un tale sistema abbia un reale incisivo, sarà necessario eliminare gradualmente il contante e altre forme di pagamento, ed è proprio ciò che sta accadendo in questo momento in Europa.

Quanto segue è tratto dal sito ufficiale del Parlamento europeo...

Per limitare le transazioni in contanti e cripto, i deputati vogliono limitare i pagamenti che possono essere accettati da persone che forniscono beni o servizi. Stabiliscono limiti fino a € 7000 per i pagamenti in contanti e € 1000 per i trasferimenti di cripto-attività, in cui il cliente non può essere identificato.

In definitiva, continueranno ad abbassare i limiti fino a quando l'uso del contante non sarà quasi completamente eliminato.

Tutti saranno lentamente ma inesorabilmente costretti al nuovo sistema digitale, e sarà un sistema che controlleranno con il pugno di ferro.

E la maggior parte delle persone lo asseconderà volentieri.

 In questi giorni, la maggior parte delle persone sta solo raschiando di mese in mese e un recente sondaggio ha rilevato che il 70% di tutti gli americani è "finanziariamente stressato" a questo punto ...

L'inflazione, l'instabilità economica e la mancanza di risparmi hanno un numero crescente di americani che si sentono finanziariamente stressati.

Circa il 70% degli americani ammette di essere stressato per le proprie finanze personali in questi giorni e la maggioranza – il 52% – degli adulti statunitensi ha dichiarato che il loro stress finanziario è aumentato da prima che la pandemia di Covid-19 iniziasse a marzo 2020, secondo un nuovo sondaggio sulla fiducia finanziaria di CNBC Your Money condotto in collaborazione con “Momentive”.

Alla maggior parte degli americani semplicemente non importa che queste nuove valute digitali possano aprire una porta per una grande tirannia.

Vogliono solo essere in grado di pagare le bollette e prendersi cura delle loro famiglie, e se i nostri politici dicono loro che questo nuovo sistema è buono per l'economia, saranno tutti d'accordo.

Ma quelli di noi che sono svegli sanno che più globalismo non porta da nessuna parte di buono.

Concentrare ancora più potere nelle mani dell'élite internazionale è sempre una cattiva idea, e speriamo di poter iniziare a far capire a più persone questo.

(Michael Snyder ha pubblicato migliaia di articoli su “The Economic Collapse Blog”, “The End Of The American Dream” e “The Most Important News”).

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.