LA “FUFFA AMBIENTALE” NON PRODUCE NESSUN BENEFICIO PER L’AMBIENTE.

 

LA “FUFFA AMBIENTALE” NON PRODUCE NESSUN BENEFICIO

PER L’AMBIENTE.

 

La felicità ambientale.

Wanderingwil.com Francesco Grandis – Redazione – (20-3-2023) – ci dice:

 

E se un giorno ci accorgessimo che è proprio l'ambiente in cui viviamo a renderci infelici?

Durante una mia breve permanenza in Brasile conobbi Mariana, una bella studentessa di musica all’università di San Paolo.

Un giorno si finì a parlare di samba, e in quell’occasione mi disse una cosa che mi rimase impressa:

“La samba che viene da San Paolo è molto più triste di quella di Rio.

 San Paolo è una città brutta, piena di condomini, la gente pensa solo a lavorare. Rio invece è bellissima: spiagge, natura, gente solare che pensa a divertirsi e fare festa.

Per forza la samba di Rio è più allegra!”

Senza saperlo, quella ragazza aveva appena fornito la prima prova empirica ad un pensiero che avevo in testa da moltissimo: l’ambiente può influenzare la serenità delle persone in un modo che NON dipende dalle persone.

Spiego meglio.

Che l’ambiente influenzi la serenità è ovvio.

Già molto prima di mettermi in viaggio mi bastava confrontare un giorno passato in una zona industriale con uno in montagna.

Questo lo può vedere chiunque.

Durante il mio giro del mondo, però, avevo rivisto lo stesso fenomeno su scala molto più ampia.

In alcuni luoghi mi ero sentito immediatamente a casa, sereno ed accolto.

In altri invece scacciato e infastidito.

Spostandomi molto velocemente, tutte le esperienze erano fresche e le differenze molto evidenti, ma non sempre spiegabili.

Fino ad allora ero stato convinto che quelle sensazioni dipendessero solo da come io mi ponevo nei confronti di un determinato ambiente, invece Mariana mi fece venire il dubbio.

E se invece dipendesse ANCHE dall’ambiente stesso?

Se ci fossero posti che davvero “emanano serenità” e altri che la distruggono, al punto da influenzare persino l’intera produzione musicale che proviene da lì?

Se l’intera popolazione di San Paolo è davvero più triste rispetto a quella di Rio, a chi si dovrebbe dare la colpa?

A ogni singolo abitante di San Paolo o alla città stessa?

Per descrivere questo fenomeno ho coniato il termine “felicità ambientale”: quella parte di felicità che ci viene trasmessa, o sottratta, dall’ambiente che ci circonda.

Per “ambiente” intendo il quadro generale: bellezza, natura, persone, clima, stile di vita…

Ora, qui ci vorrebbero sociologi e antropologi e tuttologi per verificare che io non stia dicendo una immane cazzata, ma supponiamo per un attimo che non lo sia.

Supponiamo che l’ambiente abbia questo potere.

 

Le conseguenze sono serissime.

Vorrebbe dire che non importa quanto bene stiamo con noi stessi o quanto ci impegniamo a vedere le cose in modo positivo: se viviamo in un posto “ostile”, una parte della nostra serenità dovrà essere sacrificata ogni giorno per contrastare la negatività dell’ambiente.

Sarebbe come convivere con una leggera ma costante emicrania.

 Dopo un po’ ti ci abitui e te la dimentichi, ma quando passa ti accorgi che puoi stare meglio.

Viceversa, un ambiente positivo potrebbe lenire una parte dei nostri mali.

Certo, non basta sicuramente vivere in un posto felice per essere felici a nostra volta.

 Se abbiamo ancora questioni personali da risolvere, non sarà certo l’ambiente a risolverli per noi.

D’altra parte è come andare in bicicletta: per muoverci dobbiamo spingere noi sui pedali, ma non è la stessa cosa pedalare con il vento contro o a favore.

Io per esempio non amo il posto in cui vivo:

clima orrendo, luoghi monotoni (con qualche eccezione), natura da cercare col lanternino, persone mediamente fredde e distaccate, traffico, un cielo che non è mai davvero azzurro, zanzare sei mesi l’anno.

E ripeto sempre: questo posto è deprimente.

E se lo fosse davvero?

Avendone la possibilità, non avrebbe più senso andare a vivere in un posto più sereno, e combattere da lì le nostre guerre personali?

Non si tratterebbe di una fuga, come probabilmente i “difensori del divano” stanno già pensando, ma piuttosto di cambiare campo di gioco, in cerca di uno che ci semplifichi la vita invece di complicarcela.

 

È per questo che, nonostante io dica sempre che la felicità si può cercare comodamente anche da casa, viaggiare aiuta molto, quando è fatto in un determinato modo: alcune cose non si notano stando fermi sempre nello stesso posto.

L’ho sempre pensato, in fondo:

Lo scopo ultimo del viaggio non è viaggiare, ma trovare il posto in cui fermarsi.

Un posto felice, magari.

 

 

 

 

Se la mobilità sostenibile

prende una direzione sbagliata.

Lavoce.info – Carlo Stagnaro – (12-5-2021) – ci dice:

 

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI.

Il “Pnrr” affronta la questione della mobilità sostenibile all’interno delle missioni dedicate alla transizione ecologica e alle infrastrutture. Lo fa senza un criterio chiaro sulle scelte di destinazione dei fondi.

 E con un approccio troppo centralizzato.

Come decarbonizzare i trasporti.

I trasporti producono circa il 30 per cento delle emissioni climalteranti derivanti da usi energetici nel nostro paese.

 Nessuna strategia di mitigazione del cambiamento climatico può dunque prescindere da una sostanziale decarbonizzazione del settore.

Ma come?

 Il Piano nazionale di ripresa e resilienza affronta la mobilità sostenibile all’interno delle missioni dedicate alla transizione ecologica e alle infrastrutture, e lo fa con due tipologie di interventi:

quelli finalizzati a decarbonizzare il trasporto privato e quelli dedicati a trasferire i trasporti dal mezzo individuale a quello collettivo (e dalla gomma ad altre modalità).

 

Del primo gruppo fanno parte una serie di investimenti sui carburanti alternativi: “idrogeno, biometano e mobilità elettrica”.

 Per quanto riguarda l’idrogeno, il “Pnrr” destina circa un miliardo di euro al suo utilizzo nei trasporti stradali e ferroviari, oltre a 500 milioni per incentivarne la produzione (senza specificare attraverso quali processi).

Allo sviluppo del biometano andranno quasi due miliardi di euro, mentre 750 milioni serviranno al potenziamento dell’infrastruttura di ricarica.

In tutti questi ambiti sono anche previste semplificazioni per rimuovere eventuali ostacoli burocratici.

In particolare, per la mobilità elettrica viene annunciata una modifica normativa per garantire criteri trasparenti, non discriminatori e contendibili per l’assegnazione degli spazi per le colonnine, come chiesto dall’Antitrust.

Poi ci sono investimenti il cui obiettivo è spostare traffico dal trasporto individuale a quello collettivo o da mezzi inquinanti ad altri puliti:

 600 milioni per le piste ciclabili; 3,60 miliardi per il trasporto di massa; 3,64 miliardi per rinnovare le flotte di bus e treni.

 Da ultimo, le ferrovie fanno l’asso piglia tutto, con ben 24,8 miliardi di euro su un totale di 25,1 allocate nella Missione 3 (il resto, 0,4 miliardi, è destinato all’intermodalità).

Così, si prevede la realizzazione di linee ad alta velocità, specialmente al Sud.

Non è detto che questi interventi producano gli effetti sperati.

Per esempio, uno studio sulle piste ciclabili di Parigi ha trovato che hanno un modesto impatto positivo sul benessere sociale, ma dal punto di vista ambientale molto dipende da circostanze locali:

se le piste ciclabili sottraggono troppo spazio alle carreggiate, possono aumentare la congestione e ridurre la velocità media del flusso veicolare, con conseguente aumento delle emissioni.

Anche per quanto riguarda le ferrovie la situazione è, per usare un eufemismo, ambigua.

 Se la domanda di trasporto ferroviario raddoppiasse, le emissioni stradali scenderebbero di appena il 5 per cento, quelle nazionali dell’1,5 per cento, a dispetto delle enormi risorse necessarie a ottenere tale risultato.

Nel complesso, insomma, non è chiaro il criterio con cui siano stati allocati i fondi: non c’è (o, almeno, non è resa esplicita) una valutazione del costo implicito di abbattimento delle emissioni attraverso le varie tipologie di investimento.

 Qual è la ratio di spendere decine di miliardi nell’alta velocità e prevedere solo 11 chilometri di nuove metropolitane?

Inoltre, i due assi di intervento – la decarbonizzazione del trasporto privato e lo spostamento verso quello collettivo – sono in parte complementari, ma nel lungo termine alternativi:

 più il mezzo individuale diventa sostenibile, meno è forte l’esigenza di trasferire persone e merci dalla gomma al ferro (almeno dal punto di vista ambientale).

L’apparente contraddizione viene esacerbata dalla distribuzione delle risorse con scelte top-down:

si rischia di sovra-incentivare talune tecnologie e se ne spiazzano altre (potenzialmente migliori).

Da questo punto di vista, sorprende l’assenza dei biocarburanti (tranne il biometano), che possono contribuire – e già contribuiscono – a ridurre sensibilmente le emissioni dei veicoli al motore e rappresentano, con l’idrogeno, l’unica alternativa per gli aerei.

Coerentemente con questo approccio centralizzato, la mobilità sostenibile viene interamente vista dal lato dell’offerta, ignorando possibili interventi e riforme dal lato della domanda.

Sarebbe interessante, per esempio, esplorare politiche di altro tipo, come le “congestion charge”, per fluidificare il traffico urbano, anche sulla scorta delle tante esperienze positive.

Tra l’altro, abbiamo un importante precedente proprio in Italia: l’esperienza milanese dell’Ecopass prima e dell’Area C poi.

L’imposizione di un prezzo d’ingresso nelle ore di punta ha prodotto una riduzione delle emissioni e un incremento dell’uso delle modalità di trasporto alternative, tra cui la bicicletta.

In sintesi, il “Pnrr” può essere descritto come il tentativo di trovare un equilibrio tra finanziamenti e riforme:

la mobilità sostenibile è fortemente sbilanciata sui primi.

 

 

 

Angiolino Maule a “Vi.Na.Ri”.:

“Il vino naturale senza

controlli non sono credibili”

  intravino.com - Nicola Cereda – (27/02/2023) – ci dice:

Nel movimento del vino naturale convivono da sempre due anime apparentemente inconciliabili.

Da una parte c’è lo spirito squisitamente anarchico immortalato da “Jonathan Nossiter “in “Resistenza naturale”, dall’altra il pragmatismo tutto organizzazione, regole e controlli ben rappresentato da” Angiolino Maule”.

Io sarei per sposare la causa sessantottino-insurrezionalista non fosse che, come sentenzia con cinismo nichilista “Larry David “nello strepitoso monologo iniziale di “Basta che funzioni”, tutte le grandi idee si basano su un presupposto errato, ovvero che l’essere umano sia fondamentalmente buono.

Un pomeriggio a “Vi.Na.Ri”., l’evento sul vino naturale organizzato a Milano da” VinNatur” e” Vi.Te”. per la prima volta insieme, mi ha permesso di avvicinare proprio Angiolino Maule, presidente di “VinNatur”, con il preciso obiettivo di estorcergli a forza qualcuna delle sue sentenze che non fanno prigionieri.

Non è stato necessario.

“Vi.Na.Ri”.

“VinNatur” è ancora sotto il giogo della tua tirannide?

All’inizio era davvero così, ma l’ho sempre detto pubblicamente e motivato a chiare lettere.

 L’associazione è ormai ben strutturata e procede con le proprie gambe.

 Nel consiglio direttivo possono mettermi in minoranza quando vogliono (ride).

È già capitato in un paio di occasioni, come ad esempio al momento dell’approvazione del disciplinare di produzione.

Quali sono gli obiettivi a breve termine?

Produrre buon vino, limitando sempre di più l’uso di rame e zolfo, migliorando la vitalità dei suoli, incentivando la pulizia e la riduzione dei difetti provenienti da gestioni poco accurate della cantina.

È ciò a cui si lavora quotidianamente assieme ai produttori associati, organizzando incontri, webinar formativi e di aggiornamento con professionisti di viticoltura ed enologia naturale.

“VinNatur” non è solo fiere, anzi, occasioni come queste sono solo la punta dell’iceberg.

Chi sono i nemici del vino naturale oggi?

Non ho nessun interesse a condurre una battaglia contro la grande industria.

 Per paradosso i nostri nemici, oggi, sono i furbetti del naturale che si stanno riciclando.

Produttori espulsi dalle associazioni e i naturali dell’ultim’ora che si propongono al pubblico senza sottoporsi ad alcun controllo o certificazione, sfruttando il momento storico favorevole.

 Non vorrei ritrovarmeli di fronte come interlocutori in qualche contesto.

A proposito, come procede il dialogo con le altre associazioni?

Ci vuol poco a mettersi al tavolo e scrivere un manifesto comune.

Il problema fondamentale riguarda i controlli.

Senza controlli nessun disciplinare può essere credibile.

 Come diceva quella pubblicità?

La potenza è nulla senza controllo! (ride)

 Vanno messi i paletti sulle questioni imprescindibili.

 Con “ViniVeri” sono stati fatti due incontri (assieme a” Vi.Te”.) senza trovare purtroppo un punto di incontro, almeno per il momento.

Con “Vi.Te.” stiamo andando avanti e già il fatto di essere riusciti a fare le analisi dei pesticidi a tutti i partecipanti ed organizzare questo evento è molto positivo. Sono ottimista.

E le sfide più a lungo termine?

Ovunque vada, dall’Europa, agli Stati Uniti fino al Giappone, questi vini li chiamano naturali, quindi c’è un’identità di fondo condivisa.

 I vini naturali oggi sono buoni ed affidabili ma devono ambire a diventare qualcosa di più della copia carbone dei convenzionali.

L’aspirazione del vignaiolo dovrebbe essere quella di creare vini in grado di emozionare.

 Una volta in una conferenza mi hanno chiesto cos’è un’emozione.

 Ti insegna qualcuno a emozionarti davanti a un tramonto o a un prato in fiore?

Mi piacerebbe che il vino naturale fosse in grado di regalare alle persone quel genere di sensazione.

Intanto mi versa due differenti “Sassaia 2006 “(sì, stessa annata) prodotti CON e SENZA solfiti aggiunti.

Al banchetto si scatena il dibattito.

A mio parere la versione solfitata ha dalla sua un profilo olfattivo più definito e piacevole, mentre quella senza SO2 si rivela al palato più sfaccettata e originale, come se al vino fosse stata concessa la possibilità di uscire dai binari senza mai deragliare.

Azzardo una battuta che non va a segno:

“comunque…sass…omigliano”.

 Solfiti o meno, la cosa davvero sorprendente è che un vino bianco venduto a suo tempo a 4-5 euro sia qui oggi, 17 anni dopo la vendemmia, a suscitare meraviglia.

 “Era il mio principale obiettivo” rivendica Angiolino con orgoglio.

Il pomeriggio è poi proseguito con gradevoli assaggi assortiti.

Ecco i miei favoriti saltando di palo in frasca tra i 150 banchetti schierati dalle due associazioni.

Valpolicella Superiore Podere Castagnè 2018, Camerani.

Marinella Camerani è il motore di Corte Sant’Alda, cantina che di recente ha acquisito due nuovi appezzamenti per dare vita a tre separate linee di prodotti rinnovando anche il marchio aziendale.

Podere Castagnè è il frutto della prima vendemmia da una vigna di soli 6 anni piantata dove una volta c’era un pascolo.

 Peccato per il pascolo, forse, ma il risultato nel bicchiere è di una levità, una leggibilità, un fascino davvero straordinari.

Chi ha detto che un grande vino viene sempre e solo da viti vecchie?

 Top assoluto di giornata.

Chimbanta 2020 Romangia IGT, Tenute Dettori.

Da uve “monica” in purezza, è un trionfo di frutta rossa e aromi di macchia mediterranea disciolti in 18 gradi alcolici senza che l’equilibrio generale abbia a risentirne.

 È vero che certi vini sembrano fatti apposta per strappare applausi in degustazione per poi faticare a tavola, ma qui si sente il profumo del miracolo. Dedicato a chi afferma che i lieviti indigeni oltre una certa soglia non siano in grado di completare a dovere la fermentazione alcolica.

Foglia Tonda IGT Toscana Rosso 2018, Podere Casaccia.

Un vino a base di foglia tonda, uva a bacca rossa autoctona del Chianti, non l’avevo ancora provato.

Roberto Moretti è uno degli artefici della riscoperta di questo antico vitigno che sembrava destinato all’estinzione.

 Sorso profondo, vellutato e goloso, con un’identità molto spiccata.

Patrimonio da preservare.

T.N.76 Weissburgunder, Thomas Niedermayr.

Thomas sfoggia un catalogo di vini impeccabili da vitigni “Piwi”, eppure il suo fuoriclasse resta il pinot bianco del quale, nel trambusto da fiera, dimentico di annotare l’annata.

 Non importa, tutta la produzione è di livello superiore e soprattutto costante di vendemmia in vendemmia.

Una garanzia.

Malbec 2019, Bodega Stella Crinita – Mendoza (Argentina).

Menzione speciale per questa piccola cantina della semidesertica Valle de Uco (nuova frontiera del vino argentino) e a suoi vini (da vigne situate a 1.100 metri d’altezza) tutti di ottima qualità, a partire dai gioiosi pet-nat (con sboccatura) fino ai più seriosi Malbec (il mio preferito del lotto), Cabernet Franc e Petit Verdot, fermentati in uova di cemento e invariabilmente prodotti senza solfiti.

È un sollievo scoprire che a Mendoza non esistano solo i colossi che monopolizzano il mercato.

Garganega Veneto IGT Taibane 2018, La Biancara.

Vino da vendemmia tardiva prodotto esclusivamente nelle annate fortunate. Miele e fiori al naso, ricco e complesso in bocca ma completamente secco e con un’anima minerale che, secondo l’autorevole parere del vignaiolo, è ancora in piena fase di sviluppo.

Insomma, chi lo fa l’aspetta; a me piace già adesso, così com’è.

Alto Mincio IGP Garganega Frizzante 2020, Josef.

Cedro, pompelmo e tanto sale sostenuti da una bollicina finissima e persistente. Altro giro, altra garganega (con un piccolo saldo di tocai) stavolta frizzante, da 500 piante centenarie (anno di impianto 1922) radicate nella zona sfigata del Garda.

Dico sfigata in quanto le colline moreniche dell’alto mantovano, a sud del grande lago, vengono sistematicamente snobbate ed è un vero peccato, almeno a giudicare da questa rifermentazione in bottiglia che Luca Francesconi riesce a rendere migliore anno dopo anno.

 Un vino vivo ed elettrico, tutt’altro che semplice, da servire fresco e non freddo per poterne apprezzare tutta la ricchezza organolettica.

 E se avrete la pazienza di attenderlo ancora qualche anno in bottiglia, troverete un tesoro.

Vin Santo di Gambellara Vin de Granaro 2015 Menti Giovanni.

A proposito di emozioni forti, quello di Stefano Menti è tra i migliori vini dolci per comuni mortali che mi sia capitato di incontrare nel bicchiere.

Da uve garganega appassite 6 mesi con l’antico sistema vicentino detto “picaio” e fatte fermentare in caratelli posizionati nella soffitta dell’edifico settecentesco dove ha sede la cantina.

Il dolcissimo, denso, scuro, caleidoscopico nettare che confluisce in poche bottiglie da 37cl è tutto ciò che resta dopo 7 anni di forti escursioni termiche, ossidazione e concentrazione per evaporazione.

Provare per credere.

Una considerazione in chiusura.

Si stima che il vino naturale rappresenti l’uno percento circa del mercato globale.

 Il termine, sebbene inadeguato e giuridicamente non consentito, fa comunque ormai parte del linguaggio comune (vedi wikipedia in italiano, francese, inglese, spagnolo…).

 L’associazionismo ha avuto il merito di favorire la nascita e il consolidamento di uno zoccolo duro di produttori molto attivi nella promozione all’interno della specifica nicchia di mercato, ma è anche responsabile dell’attuale frazionamento delle forze in campo.

Fare fronte comune è possibile e porterebbe vantaggi all’intera filiera.

Affinché questo accada è necessario che tutte le associazioni facciano un passo decisivo nella stessa direzione.

 Il messaggio di “VinNatur” è molto chiaro:

ognuno insegua il proprio sogno e persegua la propria filosofia ma in un contesto condiviso e trasparente di regole e controlli per spazzare via sospetti e ogni forma di ambiguità.

Ne va della credibilità dell’intero settore.

(Non sanno ancora cosa li aspetta dalla UE! N.D.R.)

 

 

 

Indonesia: Popolo Incontattato

a Rischio per la Produzione di

Batterie per Auto Elettriche.

 

Conoscenzealconfine.it – (13 Aprile 2023) – Redazione – ci dice:

Tesla è collegata a un enorme programma di estrazione di nichel insieme ad aziende francesi e tedesche che sta mettendo a rischio la sopravvivenza degli indigeni.

In Indonesia, un imponente progetto di estrazione di nichel sull’isola di Halmahera rischia di spazzar via un popolo incontattato.

Il progetto fa parte di un più ampio programma del governo indonesiano che mira a diventare un importante produttore di batterie per auto elettriche, proprio grazie all’estrazione e alla fusione di nichel e di altri minerali:

un piano in cui compagnie internazionali come Tesla stanno già investendo miliardi di dollari.

Ma l’estrazione di nichel sull’isola di Halmahera è destinata a distruggere vaste aree forestali abitate da circa 300-500 membri incontattati del popolo Hongana Manyawa.

Se le attività minerarie dovessero proseguire come previsto, non sopravviveranno.

Come si apprende sul sito di “Survival”, gli Hongana Manyawa – nome che nella loro lingua significa “popolo della foresta” – sono uno degli ultimi popoli di cacciatori-raccoglitori nomadi dell’Indonesia.

Oggi rischiano di vedere la loro terra, e tutto ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere, distrutto da multinazionali che si affannano per fornire uno stile di vita apparentemente “sostenibile” a persone lontane migliaia di chilometri.

“È scioccante che le aziende che producono auto elettriche vendano ai clienti la promessa di un ‘consumo etico’ mentre la loro filiera di approvvigionamento distrugge un popolo incontattato“ha dichiarato la Direttrice generale di “Survival International”, Caroline Pearce.

Non c’è ‘rispetto del clima’ nel devastare la foresta degli Hongana Manyawa, e niente di ‘sostenibile’ nel causare la morte di indigeni che vivono in modo autosufficiente.”

Secondo la legge internazionale, queste attività minerarie sono illegali perché i popoli incontattati non possono dare il loro Consenso Libero, Previo e Informato, allo sfruttamento della loro terra – un requisito legalmente necessario per tutte le attività di ‘sviluppo’ nelle terre indigene.

(dolcevitaonline.it/indonesia-popolo-incontattato-a-rischio/)

 

 

 

 

 

CHE COS’È LA TRASPARENZA AZIENDALE?

Sistemieconsulenze.it – Redazione – (13-3-2023) – ci dice:

Perché la trasparenza è importante per la sicurezza e qualità degli alimenti?

La trasparenza aziendale è la capacità in cui l’operato di una organizzazione venga reso disponibile e valutabile dall’esterno.

Il valore relativo alla qualità percepita dagli “stakeholder” rispetto ad informazioni rese fruibili volontariamente dall’azienda.

Perché la trasparenza aziendale è importante per la sicurezza e qualità degli alimenti.

Da non confondere con comunicazione.

La comunicazione, al contrario della trasparenza, è una attività che ha uno scopo ben preciso, e per la quale sono stati definiti degli obiettivi.

Facendo un esempio semplice, potremmo considerare la differenza da ciò che si vede nella vetrina di un negozio, rispetto a quello di cui ci parla il commesso, nell’intento di farci acquistare.

La trasparenza aziendale, senza ostentazione, è un modo molto utile per fidelizzare i clienti a lungo termine.

Portare avanti politiche di trasparenza nella tua organizzazione, evidenzierà l’apertura nei confronti degli stakeholder.

La trasparenza è molto importante per la sicurezza e qualità degli alimenti, perché permetterà ai consumatori di ‘leggere’ la tua realtà, permettendogli scelte consapevoli rispetto ai propri gusti e necessità.

Perché c’è bisogno di trasparenza aziendale?

Perché permettere di leggere la propria azienda, è alla base del saper diffondere sicurezza del proprio operato.

Potremmo quasi dire che è un primo passo per poter assicurare la qualità.

È un principio che cozza con la fantomatica compartimentazione obsoleta, che molti continuano a perpetuare, convinti che vengano rubati segreti.

O forse, e spesso il motivo è questo, non vogliono far vedere i pastrocchi aziendali.

Ti fideresti di un’azienda che non condivide nessuna informazione, perché si nasconde dietro a privacy e proprietà industriale?

Poi sui social…. Non comprendo neppure che cosa ci facciano sul mercato aziende così.

Allo stato odierno il consumatore si pone delle domande.

 È consapevole, perché bombardato, a volte negativamente, da notizie su ambiente, sicurezza dei prodotti, benessere animale, sostenibilità, luoghi comuni.

 

L’acquisto passa da una sensazione di fiducia, promossa nei confronti di un’azienda, che per esempio dimostra i propri impegni ambientali, con tanto di risultati, e non si ferma ad esporre il raggiungimento di una certificazione ambientale, senza mettere sul piatto il campo di applicazione.

Siamo nell’era delle informazioni, e dopo due decenni di slogan, adesso il consumatore esige evidenze.

 Vuol essere informato e si informa.

Ha bisogno quindi di informazioni, che devono essere date nel modo più trasparente possibile senza nessuna invenzione.

Il fattore della trasparenza va a braccetto con l’etica aziendale, si narra, sia una delle novità che l’ente di normazione” ISO,” introdurrà nei requisiti della futura “ISO 9001”, non a caso il sistema di gestione che ha come focus la soddisfazione del cliente.

I vantaggi della trasparenza per la tua azienda

I vantaggi di adottare politiche basate sulla trasparenza aziendale nella tua organizzazione, possono essere riassunte il:

Crea un senso di coinvolgimento e sicurezza nella comunità;

Crea un flusso di comunicazioni innovative con il cliente;

Aiuta a definire le aspettative realistiche dei clienti;

Permette una gestione ed un coinvolgimento migliore di tutte le risorse aziendali.

Quanto è importante la trasparenza nel settore alimentare?

I consumatori non hanno mai avuto accesso a così tante informazioni.

 Per questo è fondamentale creare un sistema trasparente che assicuri al consumatore la sicurezza, qualità e legalità, dell’alimento che sta per acquistare.

Per esempio prima bastava un Made in Italy, ed il consumatore era rassicurato che stava consumando un alimento italiano.

 Oggi ha compreso, che invece, l’alimento è solamente prodotto in Italia, ma che le materie prime possono provenire da una moltitudine di zone del globo.

Questa è trasparenza? NO.

Siamo chiari, la legge lo permette, e perché le materie prime possano provenire da paesi terzi, non vuol dire che sia un cattivo prodotto.

Ma il consumatore si sente preso in giro, e va oltre.

Risultato l’azienda perde clienti.

Un buon processo di trasparenza sulla filiera, invece è quella che viene implementato grazie alla norma” ISO 22005”.

 I sistemi di gestione per la tracciabilità di filiera, infatti permettono, e possono mettere a disposizione dei clienti, le informazioni sulla la provenienza dal campo alla tavola di tutte le materie prime impiegate nell’alimento acquistato.

Vantaggi della trasparenza nella catena di approvvigionamento.

La trasparenza nella catena di approvvigionamento è composta di vari principi, onestà, apertura, saper raccontare.

Principi che se ben applicati permetteranno una importante fidelizzazione con i consumatori.

Vediamo di seguito i fattori che guidano il consumatore a scegliere un’azienda alimentare che promuove la propria trasparenza aziendale:

Qualità. Un fattore importante che abbiamo approfondito in questo articolo. Far conoscere che cosa sia la qualità e utilizzare slogan;

Sostenibilità. Non solo quella ambientale, importantissima, fanno ridere quelle politiche che si spacciano per sostenibili, poi sfruttano flotte di navi per approvvigionarsi di materie prime dall’altro capo del mondo.

Importante è anche quella sociale ed economica, rispetto dei salari minimi, parità di diritti, contro gli sfruttamenti.

Ed alla comunità;

Spreco alimentare. Comunicare che cosa faccia l’azienda, riciclo, riuso, rilavorazione, politiche e progetti contro gli sprechi alimentari.

Grave piaga globale;

Sicurezza. Mangia buono, mangia sano, mangia sempre italiano. Slogan da politicanti, ma un alimento perché è sicuro?

Quali informazioni devo fornire al cliente, in meri alla sicurezza alimentare ed alla tracciabilità del prodotto?

Informazioni nutrizionali.

Ci sono molte diete, alcune che fanno fede a mode, altre a piani alimentari definiti rispetto a patologie o a prevenzione.

 Che meritano il rispetto dei requisiti di etichettatura.

Trasparenza aziendale: conclusioni

Ogni qual volta ti rovini un concetto, se ne conia un altro, speriamo che in merito alla trasparenza aziendale ci sia più attenzione.

Qua non si tratta di saper raccontare la storia, fregando i consumatori. Qua si tratta di dar modo di leggere la propria azienda, ed intenti, al consumatore.

Cosa ben diversa.

Come sempre, è bene ricordare, che quando si comunica un qualcosa, se ne devono avere le evidenze e non le chiacchiere da banco del bar.

Un processo che dovrà essere studiato, importante come ogni altro e spesso molto di ogni altro.

Da affidare a figure competenti, che valutino ed analizzino, e non che cerchino scorciatoie facili, perché se un domani qualcuno rispetterà la tua azienda, non sarà di certo per slogan, o per campagne fuffa o visibilità acquistata.

 

Ma per il rispetto e la fidelizzazione che avrà nei confronti della tua azienda e dei tuoi prodotti.

 

 

 

Ambiente in genere.

L’inserimento dell’ambiente in

Costituzione non è né inutile né pericoloso

 Lexambiente.it - Gianfranco AMENDOLA – (04 Marzo 2022) – ci dice:

Come è noto, dottrina e giurisprudenza hanno dibattuto a lungo la delicata problematica relativa alla assenza della tutela dell’ambiente nella nostra Costituzione, cui, con una intelligente e travagliata elaborazione, aveva tentato di porre rimedio la Corte Costituzionale attraverso la lettura congiunta degli artt. 9 (paesaggio) e 32 (salute).

 Pochi giorni fa, tuttavia, dopo un laborioso iter parlamentare, con una votazione praticamente unanime, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi sono state inserite nella Carta attraverso la modifica degli artt. 9 e 41.

Stupisce, tuttavia, che una riforma costituzionale di tale rilevanza sia passata quasi sotto silenzio e, pertanto, appare opportuno evidenziarne subito alcuni aspetti particolarmente significativi, anche per tentare sommessamente di rispondere alle critiche che, da più parti, sono state formulate nei suoi confronti, a volte ancor prima che questa importante riforma giungesse a compimento.

Sommario: 1. Premessa - 2. Ambiente e Costituzione prima della modifica. - 3. In particolare, il valore-ambiente nella giurisprudenza costituzionale. - 4. La riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione - 5. Ambiente e paesaggio - 6. Conclusioni.

 

1. Premessa.

Come è noto, dottrina e giurisprudenza hanno dibattuto a lungo la delicata problematica relativa alla assenza della tutela dell’ambiente nella nostra Costituzione, cui, con una intelligente e travagliata elaborazione durata decenni, aveva tentato di porre rimedio la Corte Costituzionale attraverso la lettura congiunta degli artt. 9 (paesaggio) e 32 (salute). Pochi giorni fa, tuttavia, con una votazione praticamente unanime, dopo un laborioso iter parlamentare che ha accorpato diversi disegni di legge costituzionale ed ha proceduto, nelle commissioni competenti, alla audizione di numerosi esperti, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi sono state inserite nella Carta attraverso la modifica degli artt. 9 e 41.

Resta solo da ricordare, in premessa, che, in realtà, come è noto, l’inserimento dell’ambiente in Costituzione era già formalmente avvenuto, anche se indirettamente, nel 2001 con la riscrittura dell’art. 117, ove compare per la prima volta “ la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ma solo per sancire che si tratta di materia soggetta a legislazione esclusiva dello Stato unitamente alla potestà legislativa concorrente delle Regioni per la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali.

Senza, quindi, conferire in alcun modo all’ambiente quella tutela costituzionale giunta solo oggi con la modifica in esame.

2. Ambiente e Costituzione prima della modifica.

In realtà, tuttavia, come si è accennato, attraverso un lungo processo di elaborazione, la tutela costituzionale dell’ambiente era stata affermata dalla Corte costituzionale leggendo congiuntamente l’art. 9 (tutela del paesaggio), rispetto al quale la Corte accoglieva «l’interpretazione data da Predieri del paesaggio come l’«ambiente naturale modificato dall’uomo» (Corte cost. n. 94 del 1985 e n. 151 del 1986)»; e l’art. 32 (diritto alla salute) «il quale ha permesso, dapprima alla Cassazione civile, poi alla stessa Corte costituzionale di affermare il diritto all’ambiente salubre (Cass. S.U. 6.10.1979, n. 5172; Corte cost. n. 167 del 1987)».

Basta ricordare, a questo proposito, che già nel 1987 (sent. n. 210) la Corte si sforzava «di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell'ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione»; modellandola, quindi, sul diritto alla salute  , e concludendo che «trattasi di valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.), alla stregua dei quali, le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna interpretazione »;

conclusione ribadita dopo la riforma del 2001, tra le altre, con sentenza n. 536/2002, secondo cui «già prima della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, la protezione dell’ambiente aveva assunto una propria autonoma consistenza … configurandosi l’ambiente come bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va pertanto salvaguardato nella sua interezza.

La natura di valore trasversale, idoneo ad incidere anche su materie di competenza di altri enti nella forma degli standards minimi di tutela, già ricavabile dagli artt. 9 e 32 della Costituzione, trova ora conferma nella previsione contenuta nella lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, che affida allo Stato il compito di garantire la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema»;

ricordando, infine, più di recente (sentenza n. 126 del 2016), che «è noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, questa Corte con numerose sentenze aveva riconosciuto (sentenza n. 247 del 1974) la preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma), quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987)».

 

3. In particolare, il valore-ambiente nella giurisprudenza costituzionale.

Giova, a questo punto, soffermarsi brevemente sul significato che la giurisprudenza della Corte ha attribuito al termine” ambiente” nel riconoscergli tutela costituzionale.

 Come già si intuisce dalle citazioni precedenti, infatti, per la Corte occorre far capo ad «una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni» (sentenza n. 210 del 1987, cit.).

Più in particolare, quindi, «l’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 della Costituzione) per cui essa assurge a valore primario ed assoluto» (sentenza n. 641 del 1987).

E peraltro, «come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, la biosfera viene presa in considerazione non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via.

 Occorre, in altri termini, guardare all'ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto» (sentenza n. 378 del 2007), tenendo conto che nella tutela dell’ambiente esiste «un contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene, l'ambiente (sentenze n. 367 e n. 378 del 2007; n. 12 del 2009), e finalistico, perché tende alla migliore conservazione del bene stesso (vedi sentenze n. 104 del 2008; n. 10, n. 30 e n. 220 del 2009)» (sentenza n. 225 del 2009).

In sostanza, quindi, prima della riforma odierna, la Corte costituzionale aveva riconosciuto l’ambiente come «bene immateriale» e «valore costituzionale primario e assoluto» di tipo trasversale, comprensivo di tutte le risorse naturali e culturali con incidenza diretta sulla qualità della vita dell’uomo.

4. La riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione.

È pertanto in questo quadro sommariamente delineato che va letta la riforma degli artt. 9 e 41 di cui riportiamo il testo attuale (le modifiche in maiuscolo) insieme all’art. 32 (rimasto invariato):

art. 9.

 

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

TUTELA L’AMBIENTE, LA BIODIVERSITÀ E GLI ECOSISTEMI, ANCHE NELL’INTERESSE DELLE FUTURE GENERAZIONI.

LA LEGGE DELLO STATO DISCIPLINA I MODI E LE FORME DI TUTELA DEGLI ANIMALI.

art. 41.

L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ALLA SALUTE E ALL’AMBIENTE.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali E AMBIENTALI.

art. 32.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

 La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Già a caldo, sotto il profilo letterale, alcune osservazioni appaiono di tutta evidenza:

1) la tutela dell’ambiente viene equiparata alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico della nazione;

2) insieme, ed accomunate alla tutela dell’ambiente, compaiono anche la tutela della biodiversità e quella degli ecosistemi;

 

3) queste tre nuove tutele sono qualificate dal richiamo (anche) all’interesse delle future generazioni;

4) aumentano i limiti alla libertà dell’iniziativa economica privata, che non solo non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ma (ora) neanche alla salute e all’ambiente;

5) in più, per l’attività economica pubblica e privata, si aggiunge che la legge deve indirizzarla e coordinarla a fini non solo sociali ma anche ambientali;

6) contestualmente si sancisce anche la tutela degli animali senza, però, attribuirle diretta rilevanza costituzionale ma rinviandone l’attuazione alla legge ordinaria.

Il primo interrogativo che si presenta attiene, ovviamente, alla portata di questa modifica, contro cui, ancor prima della sua approvazione, si erano levate diverse voci per sostenerne la inutilità (se non, come vedremo, la pericolosità) visto che, per merito della giurisprudenza sopra citata, la tutela dell’ambiente era, di fatto, già esistente in Costituzione.

Diciamo subito, a questo proposito, che, in ogni caso, la trasformazione di una condivisibile acquisizione giurisprudenziale in legge non può che essere vista con favore, dato che elimina ogni dubbio anche in vista di possibili oscillazioni giurisprudenziali. In più, anche a livello formale, vista la rilevanza della questione ambientale per la nostra stessa esistenza, è necessario e doveroso far risultare con chiarezza che la nostra Costituzione tutela direttamente l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi come valori a sé senza doverli ricavare in via interpretativa da altri valori e diritti costituzionali.

Ciò premesso, per comprendere a pieno la portata innovativa di queste modifiche, occorre leggerle e considerarle non separatamente ma nel loro insieme.

Se, infatti, è certamente vero che la tutela della biodiversità e degli ecosistemi deve intendersi ricompresa nella tutela dell’ambiente, è altrettanto vero che aver elencato insieme la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, accomunandole tutte attraverso il richiamo (anche) all’interesse delle future generazioni fornisce dell’ambiente un quadro complessivo di ampio respiro sociale e politico che racchiude in sé sia l’elemento naturalistico (con particolare riferimento alla biodiversità ed agli ecosistemi) sia tutti gli altri elementi che, direttamente o indirettamente, sia oggi sia per il futuro, possono incidere sulla vita e sulla qualità della vita dell’uomo.

In tal modo, quindi, non solo si confermano le migliori conclusioni della giurisprudenza costituzionale ma si inserisce la novità del richiamo all’interesse delle future generazioni, altamente qualificante al fine di interpretare nel suo giusto valore l’ambito di applicazione di tutta la riforma.

Peraltro, a proposito dell’art. 41, la lettura complessiva delle modifiche apportate alla Costituzione porta a ritenere che esse, in sostanza, hanno anche introdotto il cd. principio dello “sviluppo sostenibile”, oggi tanto di moda (pare che ormai sia tutto “sostenibile”), chiarendo opportunamente che, poiché l’attività economica deve essere indirizzata e coordinata dalla legge “a fini sociali e ambientali” (e cioè, ex art. 9 novellato, tenendo conto anche dell’interesse delle future generazioni), la “sostenibilità” deve essere valutata e perseguita con riferimento alla tutela dell’ambiente e della collettività nel suo complesso e con un occhio al futuro, e non, come spesso si intende, alle esigenze dell’economia e del profitto immediato.

5. Ambiente e paesaggio.

È, pertanto, sulla base di queste considerazioni che deve essere affrontato il difficile rapporto tra ambiente e paesaggio.

Abbiamo, visto, infatti che la tutela del paesaggio sancita dall’art. 9 (unitamente all’art. 32) è stato il fulcro su cui si è basata la giurisprudenza per pervenire alla tutela dell’ambiente;

allargando, a tal fine, l’ambito del “paesaggio”, non più considerato solo come un valore estetico ma facendolo coincidere «con quello di habitat e con la tutela degli interessi ecologici e degli equilibri ambientali (sentt. nn. 302 e 356/1994), e dunque con la tutela ambientale nel suo complesso … comprensiva tanto dell'ambiente naturale che di quello antropizzato ...».

Adesso, tuttavia, la tutela dell’ambiente viene formalmente separata da quella del paesaggio che deve, quindi, ritenersi limitata al solo “aspetto visivo” relativo alla “morfologia del territorio” (sentenza n. 367 del 2007).

Proprio per questo “sdoppiamento”, ben prima che questa modifica costituzionale diventasse definitiva, si sono levate diverse voci preoccupate del possibile contrasto tra ambiente e paesaggio in quanto «si profila con ogni serietà il rischio che la modifica costituzionale possa provocare, quale suo immediato effetto tangibile, quello di subordinare la tutela paesaggistica alla straripante diffusione degli impianti industriali di produzione di energia da fonti rinnovabili».

E pertanto, specie in considerazione delle esigenze di far fronte alla mutazione climatica, il diritto all’ambiente potrebbe trasformarsi, a fini di speculazione economica, in «un nuovo “interesse tiranno”, capace di facilmente travolgere la tutela paesaggistica», finendo per «veicolare senza remore la trasformazione industriale dei paesaggi agrari e appenninici del Paese» attraverso il massiccio collocamento di pale eoliche e sconfinate distese di pannelli fotovoltaici.

Trattasi, certamente, di preoccupazione legittima visto lo scempio e gli ecomostri che, nonostante l’art. 9, la speculazione edilizia ha sovente generato in alcune delle più belle località del nostro paese.

Ma questa riforma non ha eliminato né depotenziato la tutela del paesaggio e, anzi, a nostro sommesso avviso, se ben applicata ed interpretata, potrebbe indurre elementi non di preoccupazione ma di cauto ottimismo.

In primo luogo, infatti, tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente, se pure ora sono formalmente distinte, hanno pari dignità costituzionale e fanno parte di uno stesso filone contenuto nell’art. 9 che comprende, come ben evidenziato dalla Corte, beni immateriali non monetizzabili ma necessari per garantire all’uomo e alle future generazioni una accettabile qualità della vita .

E, pertanto, si tratta di tutele che, in sostanza, non si contrappongono ma si integrano con la differenza che mentre prima, con qualche (benedetta) forzatura, la tutela dell’ambiente si ricavava da quella del paesaggio adesso, più propriamente, si tutelano insieme ambiente e paesaggio.

Anzi, vista la pregressa giurisprudenza della Corte sull’ampiezza dell’ambiente e visto il richiamo all’ interesse delle future generazioni, si dovrebbe ritenere, al di là del dato formale, che, in realtà, la tutela dell’ambiente non può non ricomprendere anche quella del paesaggio.

Osservazione particolarmente rilevante quando ambiente e paesaggio vengono messi in pericolo da attività economiche le quali non devono recar danno alla salute e all’ambiente e devono essere indirizzate e coordinate dalla legge a fini sociali ed ambientali.

In altri termini la nuova formulazione degli artt. 9 e 41 porta a concludere che la tutela dell’ambiente non può essere perseguita a scapito della tutela del paesaggio e che è compito della legge attuare una programmazione tale da indirizzare e coordinare tutte le iniziative economiche in modo da “bilanciare” opportunamente due esigenze di valenza costituzionale formalmente separate ma, in realtà, attinenti entrambe alla qualità della vita di oggi e delle future generazioni.

6. Conclusioni.

Ci sarà tempo e modo per approfondire l’importanza di questa modifica della Costituzione, ma, a nostro sommesso avviso, vista la pessima qualità di gran parte della nostra normativa ambientale, sin da ora si può dire che una lettura complessiva della riforma alla luce degli importanti risultati cui era giunta la Corte costituzionale può portare sin da ora a prevedere rilevanti conseguenze di questa modifica costituzionale rispetto a numerose norme di legge esistenti troppo spesso più attente alle esigenze dell’economia che a quelle dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni; e, pertanto, oggi fondatamente sospette di illegittimità.

Si pensi solo, a titolo di esempio, al delitto di disastro ambientale che consiste (oltre all’offesa per la pubblica incolumità) in un danno rilevante o irreversibile per l’ambiente e l’ecosistema che sono beni oggi direttamente tutelati dall’art. 9 della Costituzione e che, tuttavia, viene punito solo se cagionato “abusivamente”; ipotizzando, quindi, che qualcuno possa attentare a beni costituzionalmente protetti, agendo non «abusivamente», e, quindi, in modo legittimo e consentito. In palese contrasto, peraltro, anche con il novellato art. 41, secondo cui, come abbiamo visto, nessuna iniziativa economica privata può recare danno alla salute e all’ambiente e, se si tratta di attività economica pubblica o privata, la legge deve determinare i programmi ed i controlli per indirizzarla e coordinarla «a fini…ambientali», evitando, ovviamente, che possa provocare addirittura un disastro ambientale.

 

 

 

Il cambiamento climatico e

il futuro della globalizzazione.

Iklsole24ore.com - Stefan Klebert – (2 febbraio 2023) – ci dice:

 

Tra i continui dibattiti sui valori “occidentali” o “cinesi” e le sempre più complesse politiche globali sul cambiamento climatico, le aziende sono fondamentali per affermare la lotta contro il cambiamento climatico come valore globale fondamentale.

Nonostante i crescenti segnali di divisione dell’economia globale in blocchi politici e le grandi sfide come l’inflazione, non possiamo commettere l’errore di ignorare il cambiamento climatico.

 A fronte di una politica globale del cambiamento climatico sempre più complessa, un punto sta diventando sempre più chiaro:

 le aziende giocheranno un ruolo chiave nell’affermare la lotta al cambiamento climatico come valore globale fondamentale. La natura imprevedibile dei rischi operativi e di bilancio associati ai cambiamenti climatici rappresenta un forte incentivo per le aziende ad agire.

Questo vale per le singole aziende, ma ancora di più per il coordinamento dei loro sforzi.

La logica di fondo è semplice:

Quando le aziende fissano obiettivi ambiziosi per se stesse e contemporaneamente chiedono un maggiore impegno e trasparenza ai loro fornitori principali, si crea una pressione per l’azione lungo l’intera catena del valore.

 Questa pressione aumenta quando le grandi aziende agisce da apripista, tracciando un percorso che gli altri dovranno seguire.

Il fatto che molte banche e investitori istituzionali riconoscano sempre più il rischio del cambiamento climatico e stiano modificando i loro processi di prestito e investimento è un ulteriore evento che spinge all’azione.

Inoltre, un impegno concreto nella lotta al cambiamento climatico è uno strumento importante per molte aziende per attrarre e trattenere i talenti.

Sappiamo anche che abbiamo maggiori possibilità di riuscire a guidare un cambiamento positivo quando i dipendenti trovano i loro valori personali riflessi in una missione aziendale.

Il ruolo centrale delle aziende.

Lo strumento attraverso il quale le reti di aziende possono affermare che la lotta al cambiamento climatico è un valore fondamentale nella pratica è quello di affrontare le cosiddette emissioni “Scope 3”.

Le emissioni Scope 3 sono generate dai fornitori di un’azienda e dai suoi clienti durante e dopo la fase di utilizzo dei prodotti.

Raggiungere l’azzeramento delle emissioni dell’Ambito 3 non sarà un’impresa facile, ma ha il potenziale per avere un ampio impatto.

 

Per ottenere una maggiore chiarezza su dove e come è necessario intervenire, è necessaria una grande trasparenza reciproca tra le aziende.

Ciò significa verificare la conformità agli standard di CO2 concordati, analogamente alle pratiche di revisione dei bilanci.

Per progredire, le aziende possono richiedere ai fornitori di consentire a verificatori di fiducia di stabilire una scheda di valutazione della sostenibilità, di fornire dati per l’analisi del ciclo di vita del prodotto e di stabilire i propri obiettivi di sostenibilità convalidati da” SBTi”.

Se i fornitori si rifiutano di collaborare, il loro status di fornitore preferito può essere riconsiderato o revocato.

Queste iniziative creeranno forti incentivi anche per quelle aziende che finora hanno esitato a concentrarsi sulla decarbonizzazione del proprio portafoglio.

Naturalmente, stabilire e gestire la conformità agli standard di rendicontazione è solo il primo passo di un lungo percorso.

Ridurre le emissioni nella pratica è un compito quotidiano che deve essere svolto da tutta l’azienda.

Mettere in pratica.

Dato che le aziende di ingegneria meccanica sono posizionate a monte di molti altri settori, gran parte delle emissioni associate ai loro prodotti si verificano durante la fase di utilizzo presso il cliente e oltre.

Ecco perché il compito di collaborare con i clienti per sviluppare soluzioni tecniche che rendano i prodotti sempre più efficienti dal punto di vista energetico e del risparmio delle risorse è così importante per tutte le parti coinvolte, compresi, in ultima analisi, i consumatori.

 L’impegno di un numero sempre maggiore di aziende in questo processo avrà effetti significativi a livello globale.

 

Uno studio condotto da” BCG” e “VDMA” mostra l’impatto che può avere l’industria meccanica in senso lato.

 Secondo questo studio, le tecnologie sviluppate o in fase di sviluppo potrebbero portare a una riduzione delle emissioni dell’86% nelle applicazioni industriali.

Di questi, 37 punti percentuali potrebbero essere raggiunti grazie all’implementazione di tecnologie che oggi sono tecnologicamente ed economicamente fattibili.

 La parte restante può essere mitigata attraverso tecnologie tecnologicamente fattibili ma non ancora economicamente sostenibili, tra cui i combustibili verdi e la cattura del carbonio.

Tutto questo comporta un lavoro molto impegnativo.

Ma come ingegnere, so anche che a volte possono essere i piccoli miglioramenti - da soli o di concerto - a fare la differenza anche nei sistemi più complessi.

Conclusione.

Se da un lato il settore privato deve intervenire dove può, dall’altro anche i governi devono svolgere un ruolo sensibile per facilitare questi sforzi.

 In un contesto globale, concentrarsi sulla riduzione delle emissioni e sull’uso efficiente di risorse preziose (pensa all’acqua, non all’oro) può aiutare a stabilire un ponte valido e basato sui valori tra le aziende di diverse regioni del mondo.

Se applichiamo uno spirito di collaborazione e stabiliamo un’adeguata responsabilità, le capacità di risoluzione dei problemi e la mentalità di miglioramento continuo del settore privato possono rivelarsi una grande risorsa.

(Stefan Klebert- CEO di GEA Group, Düsseldorf).

(…Se qualcuno vi esorta ad agire in un certo modo per “salvare il pianeta “, non seguite questa sirena: vi porta alla miseria … Franco Battaglia  - la verità del 12 aprile 2023) – N.D.R.

CAMBIAMENTI CLIMATICI e

Risaldamento globale.

Wwf.it – Redazione – (20-1-2023) – ci dice:

Ormai da decenni la comunità scientifica, anche avvalendosi di modelli matematici sempre più accurati, ha descritto come il clima del Pianeta stia cambiando in modo preoccupante e come le responsabilità di questi cambiamenti sia delle attività umane, a cominciare dall’uso massiccio dei combustibili fossili.

Oggi siamo di fronte a fenomeni climatici sempre più estremi, frequenti e devastanti.

Molte specie stanno tentando di reagire al cambiamento: alcuni uccelli migratori stanno cambiando periodi di arrivo e di partenza anno dopo anno, le fioriture stanno anticipando, le specie montane si spingono, finché possono, in alta quota. Ma tutto questo ha un prezzo.

Ormai nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima del Pianeta e sulla nostra responsabilità.

1.5°C.

limite massimo al riscaldamento del Pianeta per contenere i danni più devastanti provocati da un innalzamento delle temperature.

55%

Obiettivo minimo dell’UE di riduzione netta di gas serra entro il 2030, per non superare la soglia di 1,5°C.

12.85%

è il tasso del calo del ghiaccio artico per decennio.

OVERVIEW.

L’estate del 2022 è stata la più calda della storia in Europa. Il mese di luglio ha fatto registrare 2,26 gradi centigradi in più rispetto alla media italiana dal 1800, anno da cui si registrano i dati.

Le misurazioni strumentali, la frequenza e la violenza di eventi climatici che stiamo osservando, i cambiamenti nei comportamenti, nelle abitudini migratorie e riproduttive di molte specie animali e vegetali lasciano poco spazio a interpretazioni: la crisi climatica è ormai un dato di fatto.

La comunità scientifica è ormai unanime nell’indicare le attività umane quali responsabili della crisi climatica, in particolare a causa dell’aumento dei gas serra immessi nell’atmosfera.

 La concentrazione di gas serra nell’atmosfera ha raggiunto livelli record:

l’anidride carbonica è aumentata di quasi il 150% rispetto ai livelli preindustriali, il metano del 262% e il protossido di azoto del 123% rispetto ai livelli preindustriali (public.wmo.int/en/our-mandate/climate/wmo-statement-state-of-global-climate).

La concentrazione della CO2 in atmosfera viene misurata dal “Mauna Loa Center “del NOAA americano:

nel maggio 2022 la media era stata di 420,99 parti per milione, una concentrazione che non si registra da almeno 650 mila anni, ma probabilmente da molto prima.

La concentrazione di CO2 provoca l’innalzamento globale della temperatura che a sua volta rende sempre più frequenti fenomeni di inondazioni, siccità, dissesto idrogeologico, diffusione di malattie, crisi dei sistemi agricoli, crisi idrica e estinzione di specie animali e vegetali.

Non possiamo più attendere, dobbiamo invertire la rotta.

COSA FA IL WWF.

Per combattere il cambiamento climatico e assicurare un futuro al Pianeta e alle persone bisogna raggiungere una nuova impostazione dell’economia, sostenibile, equa e non fondata sul carbonio di origine fossile entro il 2050, in grado di resistere a quel livello di cambiamento climatico che non siamo più in grado di evitare.

Per questo siamo impegnati per raggiungere un nuovo accordo globale a livello internazionale, efficace, giusto e legalmente vincolante.

Proponiamo al governo nazionale la promozione di strategie e percorsi con obiettivi e tappe precise per arrivare all’azzeramento delle emissioni prima della metà del secolo, costruendo una transizione all’economia del futuro.

Promuoviamo l’efficienza energetica per ridurre le emissioni di CO2 e la conversione della produzione energetica verso le fonti energetiche rinnovabili, come l’energia solare ed eolica.

 Proponiamo lo sviluppo di strategie di adattamento al cambiamento climatico per salvaguardare le persone e gli ecosistemi a rischio.

(…chi vi dice che un giorno le auto saranno solo elettriche mente spudoratamente: non bastano le riserve mondiali di cobalto per avere elettrico solo la metà del parco-auto della sola Italia…

 Franco Battaglia-La Verità del 12 aprile 2023). (N.D.R.)

 

 

 

La sfida del cambiamento climatico.

Globalizzazione e Antropocene.

Ombrecorte.it - Dipesh Chakrabarty – Prefazione Girolamo De Michele – (25-2-2023) – ci dice:

Prefazione:

“Il concetto di Antropocene, nato all’interno delle scienze naturali, designa l’epoca nella quale l’essere umano come specie è in condizione di incidere, con le sue pratiche, sull’ecosistema globale.

 Dopo la rivoluzione industriale, e soprattutto la grande accelerazione del xx secolo e l’intensificazione della globalizzazione capitalistica ed estrattiva nel secondo dopoguerra, e il conseguente cambiamento climatico, l’Antropocene costituisce un terreno di intersezione fra la crisi economico-sociale globale e la crisi climatica.

In questo campo si collocano le riflessioni dell’ultimo decennio di Dipesh Chakrabarty, già autore del fondamentale “Provincializzare l’Europa”, con una serie di interventi finora inediti in Italia.

 La crisi determinata dall’azione dell’essere umano e dello sfruttamento capitalistico dell’ambiente pone, secondo Chakrabarty, questioni di giustizia climatica per via della natura disomogenea e diseguale del globo che il capitalismo e gli imperi europei hanno creato assieme.

Al tempo stesso, la crisi climatica, e la crisi pandemica ad essa collegata, pone un altro ordine di questioni che concernono il rapporto fra l’umanità come specie e il pianeta Terra:

la costruzione di un mondo, e la critica dei processi che l’hanno attuata, si intreccia con l’esistenza della vita in senso biologico e fisico-chimico.

La critica ai processi che hanno prodotto un’umanità differenziata e con disuguaglianze di classe, e la consapevolezza della crisi ambientale, mettono in questione la concezione antropocentrica del mondo, e alludono alla necessità di decentrare l’umano.”

(Dipesh Chakrabarty è uno storico indiano, professore presso l’Università di Chicago).

 

 

 

 

 

LE RAGIONI DELLA GLOBALIZZAZIONE

OVVERO LE VERE CAUSE

DEL RISCALDAMENTO GLOBALE.

  Operaicontro.it – (19 Ottobre 2019) – Pietro Demarco – ci dice:

 

A fasi alterne il riscaldamento globale torna in auge, si fanno manifestazioni, dibattiti, convegni, ma poi tutto è dimenticato e i buoni propositi accantonati.

Qualche settimana fa è stata Greta a promuovere il dibattito con le sue azioni clamorose, sfociate in una manifestazione mondiale dei giovani il 15 marzo.

Adesso vi è la fase di declino d’interesse per queste problematiche, per questo voglio parlarne, in senso critico, su questo telematico, per individuare il nesso tra globalizzazione e riscaldamento climatico globale.

Notizie e informazioni che difficilmente si trovano sugli organi di (dis)informazione di massa.

UN PO’ DI STORIA.

La globalizzazione si è affermata alla fine del secolo scorso con la caduta del Muro di Berlino.

 L’imperialismo mondiale aveva la necessità di espandere su scala globale il proprio sistema produttivo, ora che tutte le barriere erano cadute.

Che cosa ha permesso la globalizzazione dei mercati?

Molti pensano che siano state le differenze di costo della mano d’opera a stimolare l’espansione del sistema produttivo, ma non è così.

La globalizzazione è stata possibile grazie alla rilevante riduzione dei costi del trasporto per via marittima, dovuta allo sviluppo di nuovi motori navali.

A fine anni ottanta del secolo scorso sono diventati operativi sulle navi commerciali dei nuovi propulsori a Ciclo Diesel a due tempi, a bassissimo numero di giri con potenze mai ottenute, finora, con motori a combustione interna: centinaia di migliaia di c.v. per un unico blocco propulsivo.

 Il vantaggio principale di questi motori, però, era la loro estrema semplicità costruttiva che ha permesso di utilizzare qualsiasi tipo di carburante:

 questi propulsori erano sprovvisti di distribuzione e funzionavano allo stesso modo dei motorini e degli scooter, ma erano diesel.

In definitiva funzionavano con gli scarti della raffinazione dei carburanti, dal costo quasi nullo!

 Infine la messa a punto del trasporto intermodale dei container, ha permesso di scaricare facilmente le merci da un punto all’altro del Pianeta a costi irrisori.

Sono state queste innovazioni che hanno permesso la delocalizzazione delle attività produttive e non le differenze salariali che sono sempre esistite: è convenuto pescare del merluzzo in Scandinavia, farlo lavorare in Asia, dove il lavoro costava pochissimo, e importare il prodotto lavorato, grazie al costo di trasporto irrisorio.

 Lo stesso discorso è valso per tutte le altre merci.

Non solo, il basso costo delle derrate alimentari è servito da strumento di assoggettamento dei popoli, attraverso la distruzione delle agricolture locali che permettevano la sussistenza delle popolazioni indigene, giacché conveniva comprare grano e altre derrate alimentari piuttosto che produrle in loco.

Anche la centralità della Cina, dell’India e dell’Asia in genere è dovuta allo sviluppo del commercio navale, possibile grazie alle innovazioni sopra descritte.

Nell’arco di qualche decennio si è giunti ai nostri tempi con la globalizzazione pienamente affermata, dove l’intero Pianeta è diventato, un unico sistema produttivo e ogni prodotto finito è fatto di materie prime che hanno compiuto anche più volte il giro del mondo.

 Si pensa che, allo stato attuale, ogni nazione abbia, al massimo, il 10% di autonomia produttiva, per il resto dipende dall’esterno.

 In queste condizioni è facile affamare un popolo con l’embargo, il Venezuela insegna.

DA COSA DIPENDE IL RISCALDAMENTO GLOBALE.

Torniamo adesso al tema centrale di questo mio intervento il riscaldamento globale.

Premesso che il nesso tra concentrazione di gas serra e innalzamento della temperatura globale è certo, bisogna comprendere perché ciò stia avvenendo con un ritmo sempre più sostenuto.

 Le borghesie mondiali puntano sempre più il dito sulle automobili inquinanti, vogliono cavalcare l’onda emotiva per risolvere la crisi automobilistica per imporre le auto elettriche, istallare qualche pannello solare e tutto torna a posto.

Ma non è così, vediamo il perché.

L’INQUINAMENTO DELLE NAVI.

 Molti studiosi sostengono che venti navi portacontainer inquinano come tutte le auto circolanti al mondo, per via del pessimo carburante usato.

 Ogni anno, però, solcano i mari circa 60.000 navi di questo tipo, qual è allora il livello d’inquinamento prodotto?

 Difficile pensarlo.

Perché in nessun incontro internazionale sui cambiamenti climatici non si pongono queste problematiche?

 Domanda retorica, si metterebbe in discussione il sistema, ma basterebbe fare una moratoria dell’uso dei carburanti bituminosi nelle navi portacontainer per ridurre drasticamente l’inquinamento globale!

In questo modo, però, il trasferimento delle merci non sarebbe più conveniente e tutta la globalizzazione crollerebbe.

Il trasporto navale delle merci, però svolge altre funzioni:

ogni anno, inspiegabilmente, circa 120 navi piene zeppe di container affondano con tutto l’equipaggio, nessuno conosce il contenuto dei “contenitori”; un modo elegante di smaltire i rifiuti tossici?

Chi ha indagato è stato “elegantemente” neutralizzato, è la legge della (dis)informazione globale!

Oppure queste navi riportano nei paesi dove hanno prelevato materie prime, rifiuti elettronici di ogni genere, sotto forma di “aiuti”.

Non c’è che dire, un bel servizio!

Questo immenso spostamento di navi comporta altri gravissimi problemi ecologici: quando le navi sono vuote pompano grandissime quantità di acqua di mare per essere stabilizzate, con tutte le specie ittiche in essa presenti;

specie ittiche trasferite in altri porti con immensi squilibri ambientali.

Infine il rumore assordante dei motori navali provoca continui spiaggiamenti di balene e cetacei, con conseguenze ecologiche facilmente immaginabili.

LA PRODUZIONE DI CIBO.

 Ebbene, questa è l’attività umana che ha il maggior impatto sul riscaldamento globale, sia direttamente che indirettamente.

Chiaramente mi riferisco alla produzione di cibo così com’è attuata nel mondo globalizzato, finalizzata principalmente al profitto delle imprese del settore.

Sono due, in particolare, le attività che maggiormente incidono sull’ambiente:

 i concimi azotati di sintesi e l’allevamento intensivo degli animali.

 La sintesi dei concimi azotati richiede immense quantità di energia, mentre i grandi allevamenti di bestiame inquinano come delle metropoli!

LA RIDUZIONE DELLE CAPACITA’ OMEOSTATICHE DEL PIANETA.

 È un aspetto mai considerato nei dibattiti sul tema:

 il problema non è tanto l’aumento dell’anidride carbonica globale, ma la riduzione della capacità di assorbimento di essa da parte del suolo e dei mari!

 La Terra nelle ere geologiche ha avuto picchi di anidride carbonica ben maggiori dell’attuale, ma i meccanismi regolatori non erano intaccati e l’equilibrio veniva facilmente ristabilito;

allo stato attuale, Invece la cementificazione selvaggia, la riduzione della sostanza organica dei suoli coltivati e l’inquinamento marino dovrebbe preoccupare di più della produzione dei gas serra, invece questi aspetti vengono completamente ignorati.

CONCLUSIONI.

Innanzitutto sfatiamo un mito:

gli sconvolgimenti climatici non potranno mai distruggere la vita sulla Terra, ma provocare fame, morte e sofferenza di milioni, forse miliardi di poveri cristi sacrificati sull’altare del profitto.

I porconi troveranno sempre un posto sulla Terra dove stare.

Allora bisogna prendere coscienza delle vere cause degli sconvolgimenti ambientali, dovuti al sistema produttivo finalizzato al profitto generato dal lavoro salariato.

 Non c’è soluzione, bisogna rovesciare lo stato delle cose esistenti, punto.

Nel frattempo bisogna mettere il bastone fra le ruote allo sfruttamento in qualunque forma si presenti, tutte le forme di protesta che vanno in questa direzione vanno appoggiate.

(Pietro Demarco)

(…chi dice che i poveri dell’Africa devono alimentare il proprio fabbisogno di energia col fotovoltaico, dice loro che devono rimanere poveri… Franco Battaglia. La Verità del 12-4-2023). (N.D.R.)

 

 

 

 

La globalizzazione “4.0”

salverà il clima.

Enel.com – (28 gennaio 2019) – Redazione – ci dice:

 

La quarta rivoluzione industriale offre molte opportunità per contrastare il cambiamento climatico.

 Il punto è come coglierle: se ne è parlato al WEF di Davos, a cui ha partecipato anche il CEO di Enel Francesco Starace.

“Mission possible”.

Nonostante gli ultimi segnali poco incoraggianti, fermare il cambiamento climatico è un’impresa alla portata del pianeta.

Una nota di ottimismo è arrivata da Davos (Svizzera), dove dal 22 al 25 gennaio si è tenuto il World Economic Forum (WEF), a cui hanno partecipato oltre 250 leader politici e più di 1000 esponenti di alto livello del mondo economico e industriale.

La speranza viene dalle opportunità offerte dalla “quarta rivoluzione industriale “e dalla “globalizzazione”:

 in breve, dalla “globalizzazione 4.0”, per usare l’espressione scelta come tema del WEF di questa edizione.

La speranza, però, deve essere accompagnata dall’azione: le opportunità vanno colte e valorizzate.

 Il messaggio del WEF è chiaro:

bisogna alzare lo sguardo al di là del proprio orizzonte, sia in termini temporali, per pensare alle generazioni future, sia geografici, perché la collaborazione internazionale è indispensabile.

Il riscaldamento è globale: anche la soluzione deve essere globale.

La globalizzazione 4.0.

La quarta rivoluzione industriale si differenzia dalle precedenti (compresa quella digitale della fine del Novecento) per la velocità con cui si avvicendano le innovazioni, per la portata geografica che abbraccia l’intero pianeta e soprattutto per l’impatto, che non riguarda solo i sistemi di produzione industriale ma anche l’organizzazione sociale e politica: una rivoluzione globale in ogni senso.

“Internet of Things”, scienza dei materiali, veicoli a guida autonoma, robotica, intelligenza artificiale, stampa 3D, nanotecnologie, biotecnologie, stoccaggio dell’energia: sono solo alcuni degli ambiti che stanno cambiando la nostra vita e il mondo intorno a noi.

La quarta rivoluzione industriale abbraccia il mondo fisico, quello digitale e quello biologico.

In questo contesto l’energia è uno dei settori più promettenti sia per dare forma al mondo futuro sia, soprattutto, per contrastare il pericolo più urgente che lo minaccia: il riscaldamento globale, appunto.

“Con i rapidi progressi tecnologici della quarta rivoluzione industriale saremo in grado di utilizzare nuovi sistemi per monitorare, verificare e comunicare l’avanzamento delle azioni globali, regionali e industriali per il clima”:

Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del WEF.

L’energia si trasforma.

La parola chiave per capire il settore dell’energia oggi è “trasformazione”: non solo la transizione verso le fonti rinnovabili, ma anche i progressi nello storage, cioè i sistemi di accumulo dell’elettricità, la progressiva elettrificazione, la decentralizzazione della produzione e la digitalizzazione delle reti di distribuzione. Tutti strumenti utili per la riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera.

Diversi studi (come quelli della New Climate Economy e della Energy Transitions Commission, citati da Schwab) dimostrano che questa trasformazione non solo favorisce il clima, ma lo fa senza costi aggiuntivi, anzi generando crescita economica e posti di lavoro.

Rinnovabili, il primo passo verso il cambiamento.

Della transizione energetica e del suo ruolo per il clima si è discusso nella sessione “Realizing the Energy Transition”, moderata da Jules Kortenhorst, CEO del Rocky Mountain Institute americano, alla quale ha partecipato anche il nostro CEO Francesco Starace.

Starace ha sottolineato il ruolo decisivo dell’innovazione tecnologica (in particolare per quanto riguarda la digitalizzazione e la scienza dei materiali), grazie alla quale la rivoluzione sta procedendo più rapidamente di quanto si possa percepire.

Anche dal punto di vista economico Starace osserva una tendenza positiva: non solo le energie pulite stanno decarbonizzando il sistema energetico, affermandosi sempre più grazie alla loro competitività sul mercato, ma creano anche posti di lavoro che possono attrarre chi proviene da altri settori.

 Inoltre, la diffusione delle rinnovabili riduce la volatilità dei prezzi e favorisce l’elettrificazione di settori come i trasporti e il riscaldamento, a tutto vantaggio dell’ambiente.

“La transizione energetica sta sfumando i confini che erano netti fra il settore dell’energia e altre industrie.

Oggi abbiamo molto più in comune con l’industria dell’automobile, con quella dei semiconduttori per via dei pannelli fotovoltaici e con quella chimica per le batterie”.

(Francesco Starace, CEO di Enel)

 

L’ottimismo di Starace è condiviso da “Christiana Figueres, Founding Partner dell’organizzazione Global Optimism”, secondo cui siamo nella direzione giusta per salvare il clima anche se occorre accelerare in alcuni campi (in particolare per contrastare la deforestazione):

il bicchiere è mezzo pieno e abbiamo gli strumenti per riempirlo del tutto.

 Un esempio significativo sono gli incredibili progressi di Cina e India nel passaggio dal carbone alle energie pulite:

le cause sono principalmente le pessime condizioni sanitarie nelle metropoli altamente inquinate, ma le conseguenze sono un vantaggio per tutti.

 

Si sono dette fiduciose anche María Fernanda Suárez, ministro dell’energia e delle risorse minerarie della Colombia, e Vicki Hollub, CEO della “Occidental Petroleum Corporation”, ma hanno ricordato come le fonti fossili continueranno ad avere un ruolo importante ancora per molti anni:

 a loro parere occorre dunque ridurre le emissioni anche in questi settori, attraverso la CCS (Carbon Capture and Storage, cioè cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica), una strada molto costosa e, secondo Starace, non economicamente sostenibile.

Al dibattito è intervenuto anche Jeff Radebe, ministro dell’energia del Sudafrica, spiegando come il suo Paese, anche se ancora dipendente dal carbone per la generazione di elettricità, ha imboccato con decisione la strada della transizione verso le rinnovabili.

La soluzione al cambiamento climatico è la collaborazione.

Anche se tutti gli osservatori sono d’accordo sulle grandi opportunità offerte dalla globalizzazione 4.0, occorre agire in fretta sulla riduzione delle emissioni per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali, come raccomandato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).

Come?

Secondo Schwab la via è rafforzare le collaborazioni internazionali: un punto di vista condiviso da molti dei partecipanti al forum.

A livello di governi questo significa in primo luogo accelerare la messa in pratica degli accordi di Parigi, nonostante il ritiro deciso dal governo degli Stati Uniti (assente anche da Davos).

Altrettanto importanti sono le collaborazioni fra pubblico e privato – come lo stesso WEF – e quelle tra privati, per esempio l’Alliance of CEO Climate Leaders (a cui aderisce anche Francesco Starace):

un’associazione di top manager industriali che, dal 2015 a oggi, è riuscita a ridurre nel complesso del 9% le emissioni delle rispettive aziende.

 A novembre, in occasione della COP24 di Katowice, l’associazione ha inviato ai leader mondiali una lettera aperta invitandoli alla collaborazione:

 insieme possiamo fermare il riscaldamento globale.

L’appello dei post-millennials.

A Davos l’urgenza dell’impegno per il clima è stata ribadita anche da chi il futuro lo abiterà da protagonista.

 Una tavola rotonda animata da sei post-millennials è stato uno degli eventi più significativi del forum e ha trasmesso un messaggio inequivocabile ed emozionante.

Una ragazza irachena, tornata dagli Stati Uniti nel suo Paese devastato dalla guerra per contribuire a ricostruirlo, ha dichiarato che gli investimenti dovranno andare nella direzione di un futuro pulito e sostenibile.

E una giovane ragazza svedese, già attiva in politica, si è rivolta idealmente a tutti i decisori del mondo con parole molto nette:

“Fate di più per il clima oppure fatevi da parte”.

(…Signori: o ci rendiamo conto che siamo vittime della più colossale frode del secolo o siamo finiti… Franco Battaglia -La Verità del 12 aprile 2023) – (N.D.R.)

 

 

 

 

Non chiamatelo maltempo.

Greenpeace.org – Luca Iacoboni – (5 novembre 2018) – ci dice:

(secure.gravatar.com/avatar/cb60e3e6c3481a2aadb98895e936c63a?s=96&d=mm&r=g)

 

Qualche anno fa si parlava di cambiamenti climatici come una minaccia per il futuro.

 Oggi, purtroppo, gli effetti dei cambiamenti climatici sono in tutta Italia, ma li chiamiamo maltempo.

D’altronde, con il maltempo non ci si può arrabbiare.

 Con i cambiamenti climatici si potrebbe invece provare a chiarire le cause, note da anni alla scienza, e le conseguenti responsabilità di chi per decenni non ha fatto nulla.

Responsabilità che sono sia della politica, che fa lo slalom tra annunci ed impegni non abbastanza ambiziosi, sia delle aziende che da anni bruciano carbone, petrolio e gas lasciando le conseguenze sulle spalle, e sui polmoni, dei cittadini.

Più facile allora chiamarlo maltempo, bombe d’acqua, ondate di calore.

 Poco si può fare contro questi eventi meteo.

Stare chiusi in casa, al massimo, e quando la tempesta è passata lasciare spazio per qualche passerella politica, magari con la tuta della protezione civile.

 Senza mai parlare delle vere cause e delle possibili soluzioni, sia chiaro, perché con quelle non si guadagnano voti.

 

Eppure è la scienza a dirci che bombe d’acqua, ondate di calore, siccità, e tutti i fenomeni meteorologici estremi sono sempre più intensi e frequenti proprio a causa dei cambiamenti climatici.

Sempre la scienza, in particolare l’IPCC – il braccio scientifico dell’ONU che si occupa dei cambiamenti climatici – ha delineato delle chiare soluzioni: abbandonare i combustibili fossili, carbone petrolio e gas, e accelerare la transizione energetica verso un mondo 100% rinnovabile.

Oltre che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione. Il tutto, a detta degli scienziati, va fatto adesso.

Non domani, oggi.

 Senza mezzi termini.

La politica però preferisce chiamare tutto questo maltempo. Supportata da gran parte dei mezzi di informazione, che si guardano bene dal fare parlare uno scienziato di questo “maltempo”: meglio dare spazio a politici che si rimpallano le responsabilità in un terribile gioco a chi ha fatto peggio nella difesa del territorio.

Se in Italia il collegamento tra maltempo e cambiamenti climatici è ancora latitante, non è così in altre parti del mondo.

 Ci sono infatti persone che hanno addirittura deciso di percorrere oltre 2mila km a piedi per difendere il clima.

Si chiamano “pellegrini per il clima” e sono un gruppo che è partito da Roma lo scorso 3 ottobre, dopo aver incontrato il Papa, e che arriverà a Katowice, in Polonia, ad inizio dicembre.

Punto di arrivo non scelto a caso, visto che proprio a Katowice a dicembre si terrà la COP24, l’annuale conferenza sul clima.

Una delle ultime possibilità per la politica di prendere impegni concreti di riduzione delle emissioni e di produzione di energia da rinnovabili che ci permettano di limitare gli effetti dei disastri climatici.

 

Questi pellegrini vengono da tutto il mondo: Filippine, Irlanda, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e… Italia.

A queste persone non sfugge il collegamento tra maltempo e cambiamenti climatici.

 Uno di loro, ad esempio, si chiama AG e viene dalla Filippine.

 A causa del tifone Haiyan, che ha colpito il suo Paese nel 2013, ha perso quasi tutta la famiglia e i suoi amici.

 Lui è uno dei pochi sopravvissuti al più devastante tifone della storia, con venti a quasi 350 chilometri orari.

E oggi ha la forza di girare il mondo, insieme alla sua nuova famiglia di pellegrini, portando un messaggio di speranza.

 Ma anche di urgenza, di necessità di agire subito.

Questo gruppo di persone, motivate, forti e sorridenti, ha passato ieri il confine dell’Italia entrando in Slovenia.

 In 4 settimane di cammino sul suolo italiano ha incontrato centinaia di persone, studenti, sindaci, vescovi, comunità locali, che li hanno accolti con grande calore e orecchie pronte ad ascoltare.

 Il messaggio principale che questo gruppo di camminatori ha lasciato in Italia è che ognuno può fare la sua parte.

 A cominciare da tutti noi, con le nostre scelte individuali, ma non solo.

Le aziende ad esempio giocano un ruolo decisivo nella partita dei cambiamenti climatici.

 E per questo motivo lo scorso sabato i pellegrini hanno incontrato Assicurazioni Generali, il più grande gruppo assicurativo italiano, che da un anno è al centro di una campagna internazionale che chiede al Leone di Trieste di smettere di assicurare ed investire nel carbone, la più inquinante fonte di energia che esiste.

 Il gruppo di camminatori ha raccontato le proprie storie, facendo capire a Generali che quelli che per loro sono solo investimenti, possono invece trasformarsi in disastri climatici, vittime e tragedie.

 O si è parte della soluzione o si è parte del problema.

Non ci sono vie di mezzo.

 Generali è chiamata a decidere una volta per tutte quale ruolo vuole giocare.

 E deve farlo subito, perché la “COP24” è alle porte.

Ma se ognuno deve far la sua parte, chi deve indubbiamente fare più di tutti è la politica che in questo campo in Italia non si distingue certo per ambizione e concretezza.

 Proprio ieri il ministro dell’Interno Salvini ha detto in conferenza stampa che “Troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto, che non ti fanno toccare l’albero nell’alveo, ed ecco che l’alberello ti presenta il conto”.

 Salvini non ha mai nominato i cambiamenti climatici durante il suo discorso.

Forse non gli è chiaro che il conto lo stanno presentando i cambiamenti climatici, non l’alberello.

Tutto questo non stupisce, visto che proprio Salvini nel 2016 ha votato nell’Europarlamento contro l’adozione degli Accordi di Parigi.

 Proprio quegli accordi che tutti, da Papa Francesco a grandi manager di aziende come Apple, hanno accolto come il possibile punto di svolta nella lotta ai cambiamenti climatici.

Salvini e la Lega si sono opposti a quegli accordi.

 

E anni prima, nel 2009, sempre la Lega ha votato al Senato una risoluzione negazionista sul tema dei cambiamenti climatici. Andando così contro il messaggio sostanzialmente unanime della scienza.

 In compenso però Salvini ha gioito per l’elezione di Trump, dichiarando che “grazie a Trump il dibattito sul clima ora torna serio”.

Forse il ministro Salvini preferisce parlare con Trump, che ha dichiarato di voler abbandonare gli Accordi di Parigi e bruciare carbone per i decenni a venire, piuttosto che con gli ambientalisti, che lui definisce “da salotto”.

Noi saremmo contenti di sederci nel suo di salotto, per fargli una semplice domanda:

“La Lega è un partito negazionista sui cambiamenti climatici, che preferisce Trump alla scienza, e dà la colpa del maltempo agli alberelli?”

Gli italiani dovrebbero poter sapere qual è la posizione del partito di governo su questo tema che è ormai su tutti i quotidiani, anche se sotto il falso nome di “maltempo” e se il ministro Salvini vuol continuare a dare la colpa ai salotti e al meteo inclemente o se intende ascoltare il monito della comunità scientifica internazionale.

Prima che sia troppo tardi.

(…Nel dicembre 2020 il ministro alla salute tedesco ha detto: “Per affrontare l’emergenza climatica saranno necessarie restrizioni alla libertà personale simili a quelle adottate per affrontare il Covid”. E Maria Mazzuccato, consigliera dell’Enel scriveva nel settembre 2020:

“Il mondo dovrà far ancora ricorso a misure di lockdown, ma stavolta per affrontare l’emergenza climatica” … Franco Battaglia -La Verità del 12 aprile 2023) – (N.D.R.)

 

 

 

 

Perché dobbiamo preservare la biodiversità?

Duegradi.eu – Pietro Cesaro – (20 agosto 2020) – ci dice:

 

Tra i fattori che causano la perdita di biodiversità vi è un unico comun denominatore: noi umani e le nostre attività.

La biodiversità o diversità biologica, consiste, secondo la Convenzione sulla diversità biologica (CBD), nella varietà della vita sulla terra e delle sue diverse forme all’interno dei rispettivi ecosistemi (sia terrestri che acquatici);

 tale diversità può essere all’interno della stessa specie, tra le specie e tra gli ecosistemi.

La conservazione della biodiversità è fondamentale, poiché quest’ultima costituisce parte integrante del nostro capitale naturale (formato anche da aria, acqua e suolo).

Capitale naturale e biodiversità stabilizzano e garantiscono il corretto funzionamento degli ecosistemi e dei servizi che quest’ultimi ci offrono, e da cui noi esseri umani dipendiamo: i servizi ecosistemici.

Il capitale naturale e i servizi ecosistemici ci forniscono infatti cibo, materie prime come il legno, acqua e aria filtrate, sequestro di anidride carbonica attraverso i serbatoi di carbonio come foreste e oceani, mitigazione di disastri naturali, pollinazione e fertilizzazione di colture e via discorrendo.

La biodiversità può essere dunque vista come la nostra “assicurazione” contro le crisi naturali:

gli ulivi resistenti alla Xylella, per esempio, possono salvaguardare la produzione dell’olio d’oliva;

alcune varietà di grano resistenti alla siccità possono aiutarci in caso di annate meno umide;

gli impollinatori garantiscono la vita delle piante ad essi dipendenti, e da cui dipende anche la nostra agricoltura e nutrizione.

Ma come sono connessi biodiversità e cambiamenti climatici?

Tra i fattori principali che causano la perdita di diversità biologica vi sono i cambiamenti nell’utilizzo del suolo (tra cui anche la perdita o la frammentazione degli habitat naturali per cause legate alla produzione umane), il cambiamento climatico, l’estrazione delle risorse naturali, l’inquinamento e le specie aliene invasive.

Cambiamento climatico e perdita di biodiversità sono quindi due fenomeni intrecciati e interdipendenti, che si alimentano in modo reciproco.

Anche un occhio non attento si accorgerebbe che tra i fattori che causano la perdita di biodiversità vi è un unico comun denominatore: noi umani e le nostre attività.

 Siamo noi a deforestare al fine di utilizzare il suolo;

e con la deforestazione distruggiamo, oltre che parte di un habitat naturale, anche delle riserve di carbonio (le piante), velocizzando quindi il processo di innalzamento delle temperature, che è anche una delle cause della perdita di biodiversità.

Siamo noi a estrarre risorse naturali in maniera insostenibile per gli ecosistemi; sempre noi che, a causa dell’inquinamento, minacciamo la biodiversità mentre emettiamo gas serra e produciamo polveri deleterie come sottoprodotto del nostro lavoro.

Potremmo continuare nel descrivere questo intreccio di concause, ma non vi pare che si stia parlando sempre della stessa cosa?

Cioè di una crisi ambientale direttamente correlata alle nostre attività, che si riflette, tra le altre cose, su innalzamento delle temperature, perdita di diversità biologica e inquinamento dell’aria?

L’importanza di preservare la biodiversità.

Cercare quindi di conservare e ripristinare gli ecosistemi è essenziale non solo per gli obiettivi legati al mondo della biodiversità, ma anche per quelli che leggiamo nelle righe dell’Accordo di Parigi.

 Gli ecosistemi giocano infatti un ruolo fondamentale nel ciclo del carbonio e nell’adattamento al cambiamento climatico.

Gli habitat in salute sono ottime riserve di carbonio ed alcune piante sono decisive nel ridurre il rischio di eventi climatici estremi (ad esempio, le mangrovie riducono il rischio di mareggiate e alluvioni).

 Secondo il “Millennium Ecosystem Assesment”, il cambiamento climatico diventerà entro il 2100 il più importante fattore di perdita di biodiversità.

Ecco dunque quanto interconnessi sono questi due concetti, e quanto di conseguenza è importante approcciare la crisi ambientale tenendo conto di tutte le sue componenti:

aria (e quindi anche clima), acqua, suolo e biodiversità.

 Il problema climatico non si risolve senza tener conto della perdita di biodiversità, e viceversa. 

Cosa sta facendo l’Europa?

La Commissione europea ha adottato a fine maggio la nuova strategia sulla biodiversità per il 2030.

Vi si trova anche un piano d’azione con degli obiettivi specifici di corto e lungo termine, volti a proteggere la natura e invertire il degrado degli ecosistemi.

Gli esempi spaziano da iniziative per l’inverdimento urbano fino alla protezione degli impollinatori, da “una rinnovata strategia forestale UE” fino a alla revisione di quella per la protezione del suolo.

 

Nel suo insieme, la strategia mira a dare il via al ripristino degli ecosistemi europei entro il 2030 per portare, come si legge nel suo testo, benefici alle persone, al clima ed al pianeta.

 La strategia contiene anche una dimensione internazionale, dal momento che vi è una chiara e proattiva proposta riguardo al contributo dell’UE durante i prossimi negoziati internazionali sul quadro globale della biodiversità post-2020 (la COP sulla biodiversità, per intenderci).

È importante considerare la strategia per la biodiversità non solo nel contesto del “Green Deal”, ma anche in quello di crisi post pandemica, dal momento che è volta a rafforzare la resilienza delle nostre società a minacce future come gli impatti dei cambiamenti climatici, gli incendi boschivi, l’insicurezza alimentare o le epidemie di malattie;

cercando dunque di portare in Europa una ripresa verde.

 Alcune sezioni del piano di ripresa “NextGenerationEU” sono infatti chiaramente legate ad investimenti mirati ad hoc per la biodiversità.

Uno sforzo ancora insufficiente.

Anche un veloce sguardo alla generale legislazione europea sulla natura lascia intuire che il nostro continente, nel contesto globale, è all’avanguardia per quanto riguarda la biodiversità.

 Tuttavia, non è abbastanza:

 non siamo ancora al livello di politiche trasformative richieste dal “Green Deal” e dal contesto globale di crisi.

 Per raggiungere gli obiettivi prefissati nella strategia e delle cosiddette “Nature Directives” (le varie norme e direttive europee legate al capitale naturale in generale e alla biodiversità in particolare), si dovrà fare affidamento sull’ambizione degli stati membri e sulla loro convinzione nell’applicare queste ultime in modo sistemico.

Un cambio di paradigma può avvenire soltanto col coinvolgendo delle autorità locali e dei vari attori coinvolti, primi fra tutti le aziende private;

che con un” cambio verde” nel loro modo di produrre e concepire la creazione di ricchezza potrebbero diminuire di molto l’impatto sul capitale naturale.

 Per ottenere risultati che comincino davvero a mitigare questa intrecciata e complessa crisi (climatica e ambientale, ma anche post pandemica), servono infatti norme e direttive climatiche e ambientali all’altezza.

 Ma anche coerenza fra queste ultime e l’ambizione e il coinvolgimento dei vari strati della nostra società, persone fisiche comprese.

 

 

 

 

Clima: i Grandi non bastano

Ispionline.it – (5 Nov. 2021) – Gianpiero Massolo – ci dice:

Riscaldamento globale.

EUROPA E GOVERNANCE GLOBALE.

Si può combattere il cambiamento climatico per decreto governativo?

Gli appuntamenti internazionali di questi giorni, il G20 e la COP26, sono stati un bagno di realismo.

Hanno rinnovato collettivamente gli impegni esistenti – e già questo non era scontato – ma ammettendo che, all’attuale ritmo di adempimento, la temperatura salirà di 2,7 gradi: per contenerne l’aumento a 1,5 le emissioni carboniche dovrebbero ridursi del 45% al 2030.

Semplicemente inattuabile, oggi come oggi, a sentire i distinguo dei Governi.

E non solo dei grandi assenti cinese e russo.

Il gap tra impegni e adempimenti esiste da tempo.

 È in fondo il limite di ogni esercizio prevalentemente intergovernativo:

 la consapevolezza crescente della posta in gioco, l’atmosfera di emulazione connaturata alle assise multilaterali, la spinta delle società civili, il politicamente corretto spingono ad approvare – o almeno a non opporsi – a formule deliberate per consenso, spesso senza vero dibattito.

Ambiziose a parole, poco stringenti nei fatti e nelle procedure.

 La realtà finisce poi sempre per presentare il conto:

 è fatta di leadership che ricercano il consenso ciascuna a modo suo, di assetti istituzionali diversi, di differenze oggettive tra le rispettive situazioni economico-industriali e i differenti modelli di sviluppo, di mix energetici in contraddizione tra di loro.

Sempre più spesso, anche il cambiamento climatico diventa motivo di competizione geostrategica:

 la contrapposizione per il dominio delle tecnologie pulite si accentua, con la Cina che ne controlla la catena di fornitura.

Cosa ci si può ragionevolmente aspettare per il futuro in una situazione come questa?

Se ci si limiterà come finora al confronto tra gli Stati, a ben guardare gli elementi per un compromesso del possibile si delineano con una certa precisione:

 il mantra della riaffermazione degli impegni della conferenza di Parigi senza scadenze troppo precise per raggiungere la neutralità carbonica, uno sforzo di aggiornamento tecnologico che aiuti a perseguirli senza troppo modificare il mix energetico attuale, aiuti più sostanziosi per l’adattamento ai cambiamenti climatici ai paesi più poveri (ma non solo: adattarsi servirà anche a noi, se mitigare non sarà abbastanza).

E tuttavia dal G20 e dalla COP 26 emergono anche elementi meno scoraggianti.

 Soprattutto da tutto quanto ha circondato i due eventi e che accompagna, più in generale, oggi la trattazione a livello globale del dossier del clima.

Intanto, specie in questi ultimi anni – Roma e Glasgow non hanno fatto eccezione – si è fatta sempre più sentire la ‘piazza’:

in questo senso, ha ragione Greta Thunberg a dire che a contare davvero sono le opinioni pubbliche fuori dal palazzo;

sempre più incalzano i Governi, non solo quelli occidentali, sui temi ambientali, fanno valere il loro peso in termini di consenso politico.

Poi, è significativamente cresciuta – in parte, per conseguenza – la disponibilità degli ambienti economico-finanziari, delle imprese a mettersi in gioco;

 i fattori reputazionali e il ritorno sugli investimenti verdi rappresentano una spinta decisiva in questo senso.

Tutto ciò, infine, fa aumentare sensibilmente il capitale politico e quello materiale a disposizione:

i soldi non mancano, ha detto il Presidente Draghi.

E non tutti a spese dei Governi.

La crescente interazione tra opinioni pubbliche, imprese, organizzazioni non governative, attivisti, autorità statali finisce per configurare, infatti, una forma innovativa di multilateralismo, che surroga in qualche modo la semplice, spesso insoddisfacente collaborazione tra Governi.

Un multilateralismo dal basso, ‘bottom up’, che coinvolge un numero sempre più ampio di stakeholders su temi definiti: il clima, la salute, l’alimentazione, la qualità di vita, per citarne alcuni.

Se non si rinnova, il metodo multilaterale continuerà la sua crisi, sarà percepito come inefficace per la soluzione dei problemi globali, cresceranno nazionalismi e introspezione.

 Il dossier climatico rappresenta un’occasione decisiva per invertire la tendenza: troppo importante per lasciarlo solo ai Governi.

 

 

Qual è l’impatto dei cambiamenti

climatici su infrastrutture

e mobilità in Italia.

Greenreport.it – Carlo Carraro – (13-2-2023) – ci dice:

(carlocarraro.org)

 

La grande importanza del settore dei trasporti nel quadro delle emissioni e la sua fortissima dipendenza dai combustibili fossili ne fanno il settore cardine di ogni strategia di riduzione delle emissioni.

L’importanza di analizzare gli impatti dei cambiamenti climatici su trasporti, mobilità e infrastrutture può sembrare ovvia, alla luce dell’evoluzione molto rapida dei cambiamenti climatici e il crescente impatto negativo sulle infrastrutture, in particolare quelle di trasporto, a causa di eventi estremi – quali piogge eccezionali, trombe d’aria, alluvioni, ondate di calore, incendi, siccità – sempre più frequenti.

Eventi che sono oramai oggetto di cronaca quasi quotidiana, non solo di analisi scientifiche.

Così come sono ovvie, e dimostrate dai tanti casi di questi ultimi anni, le ripercussioni ambientali ed economiche di questi eventi meteorologici estremi e più in generale dei cambiamenti climatici già avvenuti.

Purtuttavia, un’analisi sistematica ed estesa degli effetti dei cambiamenti climatici su infrastrutture, trasporti e mobilità, una loro proiezione nel futuro, almeno fino a metà secolo, così come un’analisi di come si evolveranno di conseguenza i costi per i sistemi economici e sociali, non era stata fino ad ora fatta, almeno per l’Italia.

Molto poche sono anche le analisi delle tecnologie, delle iniziative, degli investimenti, delle politiche – e dei relativi costi e benefici – sempre relative a trasporti e infrastrutture in Italia, in grado di far fronte ai cambiamenti climatici che verranno.

È quindi da apprezzare in modo particolare la pubblicazione da parte del Ministero delle “Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili” (MIMS) di un nuovo rapporto su Cambiamenti Climatici, Infrastrutture e Mobilità.

L’importanza di considerare il settore dei trasporti, mobilità e infrastrutture anche dal punto di vista della mitigazione emerge in modo molto chiaro da alcuni dati di partenza.

Il settore dei trasporti in Italia rappresentava nel 2019 (ultimo anno pre-Covid) il 25,2% delle emissioni totali di gas ad effetto serra in Italia e il 30,7% delle emissioni totali di CO2, una cifra all’incirca corrispondente alla percentuale di combustibili fossili consumati a livello nazionale.

Il 92,6% di tali emissioni sono attribuibili al trasporto stradale (persone e merci), il 4,3% alla navigazione, lo 0,75% all’aviazione domestica, lo 0,65% alle condotte, lo 0,15% alle ferrovie ed il rimanente 1,52% circa ad altri sistemi.

 La grande importanza del settore dei trasporti nel quadro delle emissioni nazionali e la sua fortissima dipendenza dai combustibili fossili ne fanno quindi il settore cardine di ogni strategia di riduzione delle emissioni.

Allo stesso tempo, il settore delle infrastrutture e dei trasporti è tra i più vulnerabili ai cambiamenti climatici.

Gli impatti dei cambiamenti climatici hanno e avranno effetti di vasta portata anche in Italia.

La scarsità di acqua legata a lunghi periodi di siccità, ad esempio, ha interessato e interesserà attività economiche diverse tra loro, come l’agricoltura, l’acquacoltura, il turismo, il raffreddamento delle centrali elettriche e il trasporto merci sui fiumi.

Le perdite economiche dovute alla maggiore frequenza di eventi estremi legati al clima sono in aumento ed i danni riguardano soprattutto le reti ed infrastrutture di trasporto, interne e costiere, di telecomunicazione e digitali.

Il lento innalzamento del livello del mare è inoltre una fonte di crescente preoccupazione per le zone costiere ed i relativi insediamenti urbani, produttivi e portuali.

 Serve quindi una strategia che permetta di proteggere, adattare e rendere resilienti infrastrutture e trasporti ai cambiamenti climatici.

 

Il Rapporto del MIMS ha il compito di analizzare e valutare non solo gli impatti dei cambiamenti climatici su infrastrutture e trasporti, ma soprattutto quello di disegnare iniziative, misure, politiche in grado da un lato di proteggere le infrastrutture ed i servizi di mobilità dai cambiamenti climatici che verranno e dall’altro in grado di ridurre in modo sostanziale le emissioni di gas serra provenienti da infrastrutture e trasporti.

 Il Rapporto ha quindi un ruolo progettuale, con l’obiettivo di ridisegnare le infrastrutture in Italia alla luce dei cambiamenti climatici attesi: sia per renderle più resilienti ed adattarle ai cambiamenti climatici che verranno; sia perché contribuiscano alla indispensabile riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Il Rapporto vuole pertanto essere uno strumento per indirizzare misure, politiche ed investimenti nella duplice direzione di proteggere infrastrutture e mobilità dai cambiamenti climatici ed allo stesso contribuire alla realizzazione dei piani di controllo dei cambiamenti climatici, in linea con gli obiettivi della EU “Climate Law”, che prevede una riduzione delle emissioni di gas serra del 55% al 2030 e il raggiungimento delle zero emissioni nette al 2050.

Nel Rapporto viene evidenziato il ruolo cruciale che una strategia di investimenti in infrastrutture e mobilità sostenibili – accompagnata dall’adozione di adeguate tecnologie, strumenti di policy e pratiche di governance – può avere per lo sviluppo economico dell’Italia.

 Strategia che va intesa in modo ampio, non solo con un approccio ambientale, ma associata ad una strategia di sviluppo e politica industriale che accompagni il paese in tutte le trasformazioni necessarie per divenire effettivamente sostenibile. Trasformazioni che riguardano numerosi settori industriali, ma anche il mondo dell’occupazione e quello della formazione e che associano, come correttamente fa l’EU Green New Deal, la trasformazione ecologica a quella digitale.

 

Le sfide della mitigazione e dell’adattamento richiedono uno sforzo collettivo che coinvolge soggetti pubblici e privati.

È fondamentale che il settore privato e quello pubblico collaborino maggiormente, in particolare sul fronte del finanziamento delle misure necessarie (questo tema è oggetto del Rapporto della Commissione “Finanza per le Infrastrutture e la Mobilità Sostenibili” sempre istituita dal MIMS).

L’auspicio è che questi due Rapporti, grazie alle loro analisi e proposte, possano aiutare il settore pubblico e quello privato ad individuare i rischi e ad orientare gli investimenti a favore di interventi in materia di adattamento, resilienza e mitigazione, offrendo soluzioni per contribuire a dare risposte alla crescente consapevolezza degli impatti climatici.

Come già detto, l’obiettivo non è soltanto far fronte agli importanti effetti dei cambiamenti climatici sul nostro Paese, soprattutto sulle sue regioni meridionali.

L’obiettivo più ampio è utilizzare investimenti, incentivi, standard e norme per guidare il Paese verso uno sviluppo più competitivo, sostenibile e meno diseguale, affrontando allo stesso tempo, grazie alle risorse introdotte, le sfide del cambiamento climatico e quelle della globalizzazione e della trasformazione (digitale, demografica, ecc.) dell’economia italiana.

 

 

 

 

 

DOSSIER ASSEMBLEE dei CITTADINI

Emergenza climatica e partecipazione:

le assemblee non bastano se la politica

non riscopre il proprio ruolo.

Agenda17.it – (Novembre 14, 2022) - Marzia De Donno – ci dice:

 

Il contesto.

“Gli obiettivi ambientali dell’Agenda 2030 dell’Onu, l’Accordo di Parigi sul clima, le strategie europee e nazionali in materia di ambiente richiedono l’impegno concreto di tutte le componenti della società, a partire dalle istituzioni”.

 Questo l’incipit del recente Rapporto ambientale 2022 della Banca d’Italia.

L’emergenza ambientale e climatica che si sta imponendo sullo scenario globale oltre che nazionale – per l’Italia basterebbe ricordare i disastri ambientali di questi ultimi mesi:

 il distacco del ghiacciaio sulla Marmolada, l’alluvione che ha invaso l’isola di Stromboli, la recente tragedia delle Marche, senza considerare la siccità che quest’estate ha colpito anche la Pianura Padana e il Po –, lascia prevedere in maniera ormai sempre più nitida quali possano essere i pericoli causati dalla “sovrapposizione fra cambiamenti climatici, errori umani e cattiva amministrazione” (come afferma Maurizio Molinari su La   Repubblica, nel suo editoriale Il clima contro I populismi del 18 settembre 2022) ed impone una riflessione non più rinviabile sugli strumenti, sugli interventi e prima ancora sullo stesso ruolo che la società, i partiti, le istituzioni, le amministrazioni pubbliche, gli stessi cittadini sono chiamati a svolgere.

Prendendo a prestito le parole del Presidente della Repubblica, “la sfida più grande della contemporaneità è la salvezza del Pianeta dallo sfruttamento di cui l’uomo stesso si è reso responsabile”;

ed è una sfida rispetto alla quale si misurano, da un lato, i ritardi dei governi nazionali e delle stesse amministrazioni regionali e locali, e, dall’altro, le richieste di “protezione climatica” da parte specialmente delle nuove generazioni.

Sono in atto mutamenti profondi nella nostra società.

Entrati ormai in un’epoca di costante emergenza o di crisi permanente, alle istituzioni si richiede uno sforzo di adattamento, revisione e innovazione dei propri sistemi decisionali per far fronte anche, ma non solo, alle minacce ambientali che incombono sull’umanità intera.

È in gioco il ruolo della scienza, il suo posizionamento rispetto ai decisori pubblici e alle stesse responsabilità – non solo politiche – che questi ultimi sono chiamati ad assumere nei confronti dei propri cittadini.

Ed è in gioco anche il ruolo degli stessi cittadini, tanto nell’acquisizione di nuovi comportamenti e stili di vita, quanto, e più in generale, nel loro coinvolgimento attivo in sede di definizione, tra l’altro, delle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici.

Riforme e compliance.

Non è questa la sede per ripercorrere quanto sin qui è stato compiuto sul piano delle riforme e degli interventi normativi in materia.

Ci si potrebbe limitare a ricordare due recentissimi episodi.

A distanza di cinquant’anni esatti dalla “Dichiarazione delle Nazioni Unite” assunta durante la Conferenza di Stoccolma del 1972 sull’“Ambiente Umano”, che per la prima volta poneva in stretta relazione l’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita umane con la necessità di salvaguardare le risorse naturali, lo scorso 26 luglio, l’”Assemblea generale dell’Onu”, con una storica risoluzione ancorché non giuridicamente vincolante, ha finalmente riconosciuto l’accesso ad un ambiente salubre, sano e sostenibile quale nuovo diritto umano universale.

Durante invece lo scorso febbraio, il Parlamento italiano ha approvato una riforma costituzionale con la quale sono stati riscritti gli articoli 9 e 41 della nostra Costituzione.

 La legge costituzionale n. 1 del 2022 ha introdotto espressamente la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione (art. 9), e, al contempo, ha subordinato esplicitamente l’esercizio della libertà di iniziativa economica privata al rispetto delle salute e dell’ambiente, aggiungendo questi due nuovi limiti a quelli della sicurezza, della libertà e della dignità umana (art. 41).

Si tratta di interventi o riforme tardive?

È sufficiente approvare delle risoluzioni o modificare la Costituzione per far fronte all’inquinamento, al cambiamento climatico, alla perdita di biodiversità, al consumo di suolo?

No, certamente.

 In alcuni recenti articoli apparsi sulla stampa nazionale, il Presidente Emerito della Corte costituzionale, Prof. Giuliano Amato, ha giustamente ricordato che il tema attuale “è quello dell’osservanza delle norme, della compliance”, indicando una strada su tutte, ovvero la partecipazione dei cittadini specialmente nelle sedi locali di definizione delle decisioni e delle scelte pubbliche:

 

«(…) Ci si deve saper sottrarre alla tentazione del centralismo, che è particolarmente forte in tempi di emergenza, ma che proprio in una emergenza come quella che ci aspetta è davvero la tentazione sbagliata. Se è vero infatti che l’approdo ha da essere, non l’arrivo delle scelte di governo in Gazzetta Ufficiale (e a quel che segue provvede la forza del diritto), ma la generalizzata convinzione che esse vanno condivise e attuate dal maggior numero possibile di noi e possibilmente da tutti, le istituzioni centrali di una democrazia non dispongono di ciò che, a quel punto, serve di più: i processi e le sedi di partecipazione che, in modi diversi, coinvolgono tanti cittadini attivi ora nell’elaborazione, ora nell’attuazione delle scelte pubbliche e che sono previste e praticate, non a caso, nelle sedi regionali e locali, le sedi più vicine al territorio».

Ancorata direttamente ai principi costituzionali di uguaglianza e di parità di trattamento di tutti i cittadini in sede di «partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.), la democrazia partecipativa diviene, allora, «veicolo del bene comune», strumento «non meno irrinunciabile della scelta dei propri rappresentanti» per l’elaborazione, la comprensione, la condivisione e, in ultimo, la stessa osservanza ed attuazione delle decisioni pubbliche, e ciò specialmente nella fase presente di crisi dei partiti ma, soprattutto, in un momento storico in cui il tema del clima e della tutela dell’ambiente sta intercettando pericolosamente quello della tenuta democratica dei governi nazionali, dei regimi autoritari e dei populismi.

Così, nel pieno spirito del federalismo cooperativo, gli Stati dovrebbero lasciare spazio alle amministrazioni regionali e soprattutto locali per perseguire (e istituzionalizzare) un dialogo e un confronto costante con i cittadini, i volontari, gli addetti del terzo settore.

Tutto ciò starebbe a confermare esattamente un dato, che ci sembra centrale: il crescente ruolo delle amministrazioni territoriali, e, in particolare, delle città nel riconoscimento, nell’affermazione e nella stessa garanzia dei diritti delle persone. Ed è questo un aspetto da tenere a mente dinanzi alla recente diffusione a livello locale di alcune inedite soluzioni di democrazia partecipativa innestate esattamente nell’ambito dei processi decisionali pubblici in materia di contrasto ai cambiamenti climatici.

La democrazia partecipativa in Italia e le (nuove) assemblee cittadine per il clima.

Se questo è il contesto e la cornice (anche giuridica) di riferimento, ben si può cogliere ed applaudire allora alle iniziative di alcune amministrazioni territoriali che, ancorché in presenza di un quadro normativo statale non certamente compiuto ma comunque fertile e in divenire (si pensi al dibattito pubblico introdotto nel 2016 con il nuovo Codice dei contratti pubblici, ma effettivamente operante dal 2018), hanno portato anche nel nostro Paese all’apparizione delle prime assemblee cittadine per il clima.

A differenza di altri Stati, come la Francia o l’Inghilterra, l’Italia non conosce una disciplina generale di fonte nazionale in materia di partecipazione del pubblico.

Non è un caso, del resto, che fino ad un recente passato proprio la realizzazione di alcune grandi opere pubbliche di interesse nazionale e ad elevato impatto ambientale abbia provocato forti conflitti e contrasti, cagionati molto spesso anche dalla messa in atto di meccanismi partecipativi alquanto carenti e non adeguati.

 Solo per ricordarne alcuni, si pensi al progetto di dighe mobili pensato per la Laguna di Venezia (c.d. M.O.S.E., Modulo Sperimentale Elettromeccanico), al ponte sullo Stretto di Messina, alle ben note vicende legate alla linea ferroviaria ad alta velocità lungo la tratta Torino-Lione o ancora più di recente al Gasdotto trans-adriatico in Salento.

Così è soprattutto grazie all’introduzione a livello regionale di discipline legislative in materia di dibattito, consultazione e istruttoria pubblica, di istituti affini come i town meeting, i citizen meeting, e di altri processi partecipativi variamente denominati, che in fondo hanno fatto la loro comparsa anche in Italia le prime discipline normative sui consigli dei cittadini e delle cittadine (Provincia autonoma di Bolzano, 2018) o sui tavoli e assemblee cittadine (Comune di Susa, 2020; Comune di Milano, 2021; Comune di Bologna, 2021).

Dichiaratamente ispirate ad alcune esperienze straniere, fra le quali quella francese della” Convention Citoyenne pour le Climat” istituita nel 2019 dal Presidente Macron, la peculiarità di questo tipo di assemblee – e che le differenzia dagli altri istituti partecipativi appena menzionati – è data dal fatto che esse pur collocandosi tra le forme di democrazia partecipativa, in quanto volte a favorire l’intervento civico in sede di approvazione, da parte degli organi democraticamente eletti (siano essi di livello nazionale, regionale o locale), di atti normativi e amministrativi d’interesse per la comunità di riferimento, si inscrivono nell’ambito della c.d. “democrazia aleatoria” di ateniese memoria.

L’estrazione a sorte di un campione casuale di cittadini adeguatamente rappresentativo della popolazione, unitamente al metodo della formazione, da parte di esperti neutri, dei componenti di quest’organo deliberante sarebbe quanto necessario per assicurare legittimazione al consesso e rafforzarne il ruolo dinanzi agli stessi organi assembleari di governo.

Si tratterebbe, in estrema sintesi, di un’assemblea civica:

i) i cui componenti vengono sorteggiati secondo procedure statistiche sofisticate;

ii) sviluppata attorno ad un complesso sistema di governance che ne garantisce l’ordinato funzionamento;

iii) adeguatamente sorretta sul piano informativo e conoscitivo, tramite il supporto e la consultazione, in seno al processo deliberativo, di tecnici e ricercatori indipendenti, selezionati tramite procedure trasparenti;

iv) che si informa alla massima pubblicità e trasparenza di tutte le sue operazioni, dalla fase della sua costituzione sino a quella della deliberazione;

v) che produce proposte e raccomandazioni che possono influire, senza vincolarle, sulle scelte pubbliche, e segnatamente su quelle aventi un impatto ambientale e climatico;

vi) che si affianca – non si sostituisce – agli organi di governo e ai loro apparati, tenuti, di riflesso, ad intrattenere con i cittadini sorteggiati un dialogo trasparente ed uno scambio corretto, leale e costante.

 

È in nostra convinzione che se congegnata in questo modo (le opzioni in campo sono varie e differenti – si vedano, fra gli altri, M. Gerwin, Le assemblee civiche. Guida ad una democrazia che funziona, e Guida di Extinction Rebellion alle Assemblee di cittadine e cittadini), questa forma di partecipazione civica possa realmente garantire, da un lato, la produzione di decisioni pubbliche maggiormente informate e, dall’altro, l’innalzamento del livello di accettazione e dunque di osservanza ed attuazione delle stesse.

È da sostenere con fermezza, infatti, l’idea che la valorizzazione delle occasioni di partecipazione e di confronto con i cittadini – specie nella fase di attuale debolezza delle istituzioni democratiche – contribuiscano realmente ad arricchire la base conoscitiva dei processi decisionali pubblici e a sostenere la legittimazione delle istituzioni e delle loro decisioni.

Ciò ribadito, è opportuno trarre un’ulteriore e finale considerazione, che si spera possa fungere anche da caveat:

le istituzioni, a qualunque livello di governo si collochino, non possono né svuotare le proprie decisioni né rinunciare ad assumersi le proprie responsabilità dinanzi ai cittadini tutti, rinviando a meccanismi di questo tipo.

Sono ancora troppo vivi nella memoria per non ricordarli, i casi in cui la politica, per gestire l’emergenza sanitaria da Covid-19, ha ceduto talora il passo alla “scienza”, lasciando che le conoscenze tecniche ammantassero di legittimazione decisioni difficili e fortemente limitative delle libertà dei cittadini.

Solo, allora, se la politica non abdica al proprio ruolo, il patto di collaborazione con la società civile (e la comunità scientifica) può davvero avere un senso e produrre i suoi frutti, e ciò nell’interesse esclusivo e permanente delle generazioni future, dell’ambiente e della qualità della vita di tutti noi.

 

 

 

 

Protezione del clima e dimensione

intertemporale dei diritti

fondamentali: Karlsruhe for Future?

Cerdap.eu - Andrea De Petris – (21 October 2021) – ci dice:

 

 Diritti e Libertà fondamentali, Diritto dell'ambiente, Giustizia, Unione europea.

 

L’articolo esamina la sentenza con cui lo scorso 24 marzo 2021 il Tribunale Costituzionale Federale tedesco ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni della” Legge sulla protezione del clima del 12 dicembre 2019” (KSG).

Gli obiettivi nazionali di protezione del clima e i volumi annuali di emissioni ammessi fino al 2030 che la norma prevede sono stati ritenuti incompatibili con i diritti fondamentali, in quanto mancano dei requisiti sufficienti per ulteriori riduzioni delle emissioni a partire dal 2031.

 La sentenza riconosce che ogni libertà è potenzialmente interessata da questi futuri obblighi di riduzione delle emissioni, in quanto quasi tutte le aree della vita umana sono ancora legate alle emissioni di gas serra e sono quindi condizionate da drastiche restrizioni che in base all’attuale disciplina potrebbero aver luogo dopo il 2030.

Il legislatore avrebbe dovuto quindi assumere delle precauzioni per attenuare questi oneri elevati, al fine di salvaguardare i diritti fondamentali in un’innovativa prospettiva “intertemporale”, e garantire così in misura adeguata anche i diritti delle generazioni future.

1. Introduzione

Lo scorso 24 marzo 2021 non era un venerdì, ma nei corridoi del Tribunale Costituzionale Federale a Karlsruhe erano molti i rappresentanti di gruppi legati al movimento “Fridays for Future” in attesa.

 Nell’occasione, facendo ricorso a contenuti argomentativi in gran parte inediti e già oggetto di vivace dibattito dottrinario, il Primo Senato del BVerfG ha emanato una sentenza tesa a verificare la costituzionalità delle misure contenute nella Legge sulla protezione del clima (KSG) del 12 dicembre 2019, con cui la Germania si era impegnata a realizzare gli obiettivi nazionali di protezione del clima e a regolamentare i volumi annuali di emissione di gas serra (soprattutto CO2) ammessi fino al 2030.

Rispetto al sistema di regolamentazione delle emissioni, la norma impugnata operava una netta distinzione tra il periodo fino al 2030 ed il periodo successivo, fino al previsto raggiungimento della neutralità climatica nel 2050.

 Per l’intervallo di tempo fino al 2030, la legge prevedeva un percorso di riduzione di emissioni con massimali vincolanti per i settori dell’energia, dell’industria, dell’edilizia, dei trasporti, dell’agricoltura, della gestione dei rifiuti e altri, unitamente ad un programma di graduali restrizioni riguardo all’uso del suolo, del cambiamento di uso del suolo e della gestione del patrimonio forestale.

Per il periodo successivo al 2030, di contro, la norma non definiva limiti annuali altrettanto concreti rispetto all’entità delle emissioni consentite, ma si limitava a prevedere una serie di provvedimenti autorizzativi e vincolanti per il Governo federale, chiamato a definire un percorso di riduzione delle emissioni attraverso ordinanze per “ulteriori periodi”, al più tardi nel 2025.

Alle riduzioni delle emissioni post 2030 tramite ordinanza dell’Esecutivo era posto il solo vincolo di essere coerenti con il raggiungimento degli obiettivi di protezione del clima stabiliti nella Legge sulla protezione del clima e con i requisiti posti dal diritto dell’UE.

2. I punti salienti del ricorso.

Secondo i ricorrenti, molti dei quali assai giovani e due dei quali residenti in Bangladesh e in Nepal, con gli artt. 3 comma 1 e 4 comma 1 frase 3 in combinato disposto con l’allegato 2 del KSG, lo Stato tedesco non avrebbe regolamentato in modo sufficientemente efficace il processo di riduzione immediata dei gas ad effetto serra, in particolare dell’anidride carbonica (CO2):

riduzione che si renderebbe tuttavia assolutamente necessaria per mantenere il riscaldamento globale «ben al di sotto di 2 °C ed il più possibile entro il limite di 1,5 °C», che è l’obiettivo concordato dai cd. “Accordi di Parigi” del dicembre 2015.

 I ricorrenti sostengono che il conseguimento di tale obiettivo sarebbe tuttavia imprescindibile, dal momento che il mancato rispetto di tale soglia di incremento metterebbe a rischio l’esistenza di milioni di vite umane, con conseguenze imprevedibili per la tenuta del sistema climatico e per la collettività mondiale.

 

Richiamando il rapporto “Global Warming of 1.5°C” pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel 2018, il ricorso evidenzia come dal 1° gennaio 2020 sarebbero ancora disponibili a livello globale 336 Gigatonnellate di emissioni per raggiungere l’obiettivo di riscaldamento globale “entro 1,5 °C” con la massima probabilità possibile (66%).

 

 In assenza di misure aggiuntive, sostengono i ricorrenti, il budget globale di CO2 sarà esaurito tra il 2030 e il 2052.

 La Repubblica Federale di Germania può disporre di un budget di 3,465 Gigatonnellate di CO2, a cui ha diritto in base alla sua quota di popolazione.

Gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati nella Legge sulla protezione del clima sarebbero tuttavia completamente inadeguati a garantire il rispetto di questo limite, in quanto la riduzione di emissioni di almeno il 55% rispetto al 1990, statuita dalla Legge sulla protezione del clima in attuazione degli Accordi di Parigi, determinerebbe l’esaurimento del restante budget nazionale di emissioni di anidride carbonica già nel 2024, o al più tardi nel 2025.

 In uno scenario del genere, per mantenere l’aumento del riscaldamento globale entro i limiti fissati dagli accordi di Parigi, a cui il Legislatore tedesco è espressamente vincolato, a partire dal 2030 si dovrebbe ricorrere a quello che i ricorrenti definiscono un “arresto totale” (Vollbremsung) delle emissioni, con conseguenti ripercussioni sull’effettivo godimento del loro patrimonio di libertà costituzionalmente garantite.

I ricorrenti chiamano a fondamento delle loro argomentazioni in particolare i doveri di protezione dei diritti fondamentali ex artt. 2 comma 2 frase 1 e 14 comma 1 della Legge Fondamentale, unitamente al diritto fondamentale ad un futuro degno di un essere umano (“auf menschenwürdige Zukunft”) e ad un livello minimo di sussistenza ecologica (“auf das ökologische Existenzminimum”), sussunti rispettivamente dall’art. 2.1 in combinazione con l’art. 20a e dall’art. 2.1 in combinazione con l’art. 1.1 frase 11 della Legge Fondamentale.

 

3. La decisione di Karlsruhe.

Come ricordato, la Legge sulla protezione del clima ha imposto una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030 rispetto ai dati registrati nel 1990, fissando i percorsi di riduzione applicabili entro tale data mediante la definizione di quantità annuali di emissioni settoriali consentite.

In termini generali, il Tribunale Costituzionale federale non ritiene che con la disposizione impugnata il legislatore sia venuto meno ai suoi obblighi di tutela dei diritti fondamentali per quanto attiene al suo dovere di proteggere i ricorrenti dai pericoli connessi al cambiamento climatico, o che abbia violato il proprio dovere di tutela del clima sancito dall’art. 20a della Legge Fondamentale.

Tuttavia, secondo i Giudici di Karlsruhe il KSG viola le libertà dei ricorrenti, alcuni dei quali come detto ancora molto giovani, in quanto la legge impugnata prevede attualmente un percorso di riduzione delle emissioni da gas serra fino al 2030 ritenuto troppo blando (sebbene di per sé non viziato da incostituzionalità), e conseguentemente poco efficace rispetto agli obiettivi complessivi che la norma si prefigge, dal momento che rinvia a periodi successivi oneri di riduzione delle emissioni molto più gravosi.

 In questo modo, osserva il BVerfG, saranno le generazioni future a dover sopportare in massima parte uno sforzo molto più ingente di quello richiesto fino al 2030 per realizzare una efficace politica di tutela del clima.

D’altro canto, ricorda la decisione in commento, è la stessa Legge Fondamentale a prevedere espressamente che le emissioni di gas serra debbano essere ridotte:

 una finalità statuita dal citato art. 20a del Grundgesetz, e che si concretizza nella necessità di contenere l’aumento della temperatura media globale entro un limite ampiamente inferiore a 2 °C e il più possibile entro 1,5 °C rispetto al livello preindustriale, in conformità con i citati “obiettivi di Parigi”.

Per raggiungere questi parametri, applicando le disposizioni attualmente vigenti in materia le riduzioni di emissioni che si renderebbero necessarie dopo il 2030 si renderebbero tuttavia sempre più urgenti e drastiche.

La Corte di Karlsruhe riconosce infatti che, di fatto, ogni libertà è potenzialmente interessata dai futuri obblighi di riduzione delle emissioni, dal momento che quasi tutte le aree della vita umana sono legate alle emissioni di gas serra, e rischierebbero quindi di subire drastiche restrizioni dopo il 2030, in quanto la Legge sulla protezione del clima non regola dettagliatamente il processo di riduzione di gas serra dal 2031 in poi.

 Pertanto, il processo di riduzione delle emissioni post 2030 previsto dal KSG non risulta adeguato rispetto agli obiettivi che la norma stessa dichiara di voler realizzare.

Il Legislatore avrebbe dunque dovuto assumere le adeguate precauzioni per attenuare questi oneri elevati per il periodo di implementazione successivo al 2030, soprattutto con riguardo alle ripercussioni della disciplina impugnata sulle generazioni future, al fine di salvaguardare una piena fruizione delle libertà fondamentali anche da parte loro.

 La sentenza statuisce quindi che, per la transizione tempestiva verso la neutralità climatica richiesta dagli obiettivi di Parigi, la disciplina messa in atto in Germania per realizzare il processo di riduzione delle emissioni di gas serra a partire dal 2031 non è adeguata, ed impone pertanto al Bundestag di regolare entro il 31 dicembre 2022 più dettagliatamente l’attuazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra per i periodi successivi al 2030.

Unitamente alla portata delle sue conseguenze a livello nazionale, la sentenza assume una grande importanza anche nel contesto internazionale, sotto vari punti di vista.

 In primo luogo, poiché la decisione conferma il coinvolgimento della Germania nella comunità internazionale, anche sul piano della tutela ambientale, nella parte in cui sottolinea come una soluzione al problema della protezione del clima vada cercata appunto anche a livello sovranazionale.

Allo stesso modo, il BVerfG ribadisce la vincolatività per la Germania del rispetto degli obblighi internazionali nella lotta contro il cambiamento climatico e rispetto ai doveri di tutela ex art. 2 Frase 1 della Legge Fondamentale.

In secondo luogo, poiché il BVerfG mostra di tenere in debita considerazione la dimensione scientifica del tema di fondo, ammettendo la possibilità che anche l’obiettivo fissato rispetto al livello massimo ammissibile di incremento della temperatura («ben al di sotto dei 2 °C»), descritto solo come un “range” nell’accordo di Parigi, potrebbe dover essere corretto ulteriormente verso il basso in considerazione di ulteriori scoperte scientifiche che dovessero dimostrarne l’inefficacia.

Infine, è significativo il richiamo ampio ed esplicito che il BVerfG opera nell’occasione rispetto a sentenze e decisioni dei tribunali internazionali e nazionali già emesse in questa materia, rafforzando il confronto giudiziario internazionale sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico.

4. Gli aspetti innovativi della sentenza.

La decisione del BVerfG sul KSG ha utilizzato argomentazioni in buona parte inedite rispetto alla giurisprudenza preesistente, tanto da spingere alcuni a definire “storica” la pronuncia, soprattutto per quanto attiene alla considerazione riconosciuta al contenuto dell’art. 20a GG.

In primo luogo, il Tribunale Costituzionale Federale ravvisa esplicitamente nella Legge Fondamentale un mandato costituzionalmente vincolante e sindacabile sul piano giudiziario di protezione del clima a carico delle istituzioni della RFT, derivato dal citato art. 20a GG, che dal 1994 annovera la protezione delle basi naturali della vita tra le competenze dello Stato.

Va ricordato come la ricezione dell’art. 20a GG nella giurisprudenza costituzionale di Karlsruhe abbia conosciuto fasi molto alterne, dal 1994 ad oggi.

 Nella sua prima decisione a riguardo, nel 1998, il BverfG si era limitato a definire l’art. 20a GG una “disposizione statuale di rango programmatico” (Staatszielbestimmung).

La natura dogmatica dell’articolo si è andata poi definendo piuttosto sommessamente nelle successive decisioni sia del Tribunale Costituzionale federale che del Tribunale Amministrativo federale, lasciando spazio solamente ai normali strumenti esegetici giurisprudenziali.

Ad es., dall’interpretazione dell’art 20a GG non è stato tratto un obbligo costituzionale ad agire per realizzare uno “Stato dell’Ambiente” (Umweltstaat): il portato costituzionale della norma in questione era inteso dal BVerfG con funzione essenzialmente repressiva, negando il riconoscimento ad istanze giuridiche individuali.

I tentativi operati dalla dottrina dell’epoca per delineare un nucleo normativo e sussumibile nell’art. 20a GG, per quanto ammirevoli, non produssero effetti a livello giurisprudenzial.

La novella costituzionale era al massimo considerata «favorevole alla tutela del bene comune», in particolare nell’ambito dei poteri discrezionali di valutazione ed accertamento spettanti al Legislatore, da utilizzare al fine di dare attuazione ad un obbligo di considerare (anche) le finalità di tutela sancite dall’art. 20a GG.

Successivamente, l’art. 20a GG è stato utilizzato per qualificare la protezione delle basi naturali della vita come un bene comune di particolare rilevanza, senza che d’altro canto gli fosse riconosciuta la capacità di imporre allo Stato obblighi di protezione più severi di quelli già sanciti dall’art. 2 (2) 1 GG.

 Nel complesso, si può convenire che nel suo primo decennio di utilizzo, la rilevanza costituzionale della norma in oggetto fosse dunque estremamente contenuta, al punto da farla classificare come una “lex imperfecta”.

Le supreme magistrature della RFT evitarono di esaminarne il contenuto materiale, senza tenere in considerazione la dottrina che nel frattempo andava sviluppandosi sul tema.

Dal 2006, si sono invece registrati segnali di cambiamento negli orientamenti della giurisprudenza.

Il primo a cambiare indirizzo interpretativo fu il Tribunale amministrativo federale, ponendo in diretta relazione l’art. 20a GG con la protezione del clima.

Il BVerfG, dal canto suo, ha modificato le proprie posizioni sul tema a partire dal 2007, in un caso di controllo astratto di una norma, in cui il Land Sassonia-Anhalt aveva impugnato la Legge Federale sullo Scambio di Emissioni chiamando in causa appunto l’art. 20a GG.

 Il Legislatore, nell’emanare la norma contestata, si era attivato per dare attuazione ad una Direttiva comunitaria relativa al Protocollo di Kyoto (1997).

Il Bundesverfassungsgericht attestò la conformità della norma impugnata con il dettato costituzionale, affermando che l’art. 20a GG obbliga il Legislatore a «dare attuazione nella sua legislazione al mandato contenuto nell’art. 20a della Legge Fondamentale e ad emanare disposizioni adeguate di protezione dell’ambiente».

 Per la prima volta, dunque, il Tribunale Costituzionale federale riconosceva esplicitamente nell’art. 20a GG un «mandato costituzionale» a carico delle istituzioni federali di garantire la «protezione delle basi naturali della vita», sebbene da tale articolo non riuscisse ad evincersi una formulazione specifica del modo in cui tale mandato avrebbe dovuto trovare realizzazione.

 Al Legislatore restava in primo luogo il ruolo di soggetto attuatore del mandato costituzionale, mandato che poteva da quel momento in poi richiedere, o almeno legittimare, sia un intervento di difesa da un pericolo (Gefahrenabwehr) che di prevenzione di un rischio (Risikovorsorge).

 

Nel 2009, il I Senato del BVerfG ha poi dichiarato che l’art. 20a GG obbliga il Legislatore a emanare norme adeguate alla protezione dell’ambiente.

Nel caso in esame Karlsruhe aveva comunque escluso la rilevanza della tutela della sicurezza ambientale a lungo termine con riferimento al posizionamento di scorie nucleari, ritenendo che il tema non avesse alcuna relazione con gli interessi presenti ed attuali del ricorrente.

 Secondo i Supremi giudici tedeschi, un diritto fondamentale giustiziabile finalizzato alla prevenzione di pericoli per l’ambiente e le generazioni future che si verificheranno solo in un momento successivo alla vita del ricorrente non può essere dedotto né dall’art. 2 (2) 1 GG, né da altre garanzie di diritti fondamentali previste dal dettato costituzionale.

Nel caso in esame, dunque, la questione dell’effetto a lungo termine dell’art. 20a GG – quello cioè relativo «alla responsabilità per le generazioni future» – viene traslato nell’orizzonte di intervento dell’art. 2 (1) GG, e comunque non riconosciuto come meritevole di speciale tutela.

Come visto, invece, nella decisione sul KSG del 24 marzo 2021 il Tribunale Costituzionale federale non ripete la stessa strategia interpretativa, e soprattutto non intende il termine “generazioni future” come un concetto collocato in un futuro indeterminato, ma lo considera come riferito anche a categorie di soggetti legati al momento presente.

Basandosi sugli studi scientifici disponibili sul tema, nella sua ultima sentenza riferita all’art. 20a GG il BVerfG interpreta il mandato sulla protezione dell’ambiente in modo tale che l’azione delle istituzioni debba imprescindibilmente condurre al conseguimento della neutralità climatica, e chiarisce come vi sia un solo modo per raggiungere tale obiettivo: essendo la crisi climatica causata da comportamenti attuati a livello globale, e le cui conseguenze causano effetti devastanti per l’intera collettività internazionale, è necessario un piano di intervento sia politico che giuridico di portata planetaria.

Allo stesso tempo, tuttavia, la sentenza ammonisce sul fatto che l’inazione di altri Stati non deve essere addotta a giustificazione per una mancanza di impegno da parte delle istituzioni nazionali tedesche, che non possono per questo venire meno alle loro responsabilità sancite da precisi obblighi costituzionali interni.

Inoltre, la decisione amplia considerevolmente la portata del controllo di costituzionalità sulle misure relative alla protezione climatica:

un aspetto che ha sorpreso molti, ma che ha anche suscitato reazioni positive, ad es. da parte di chi – come Kurt Faßbender – ritiene che il BVerfG abbia agito bene nel trasporre in una indefinita dimensione futura la questione della tutela climatica, fornendo in tal modo una interpretazione corretta dell’art. 20a GG, nella parte in cui impegna le istituzioni nazionali a proteggere i diritti delle generazioni future.

Un altro aspetto innovativo della decisione riguarda il suo richiamo alla rilevanza sovranazionale delle scelte operate da singole istituzioni nazionali in materia climatica.

 Nel momento in cui tali scelte provocano conseguenze anche per gruppi di persone sottorappresentate – o non rappresentate affatto – nelle istituzioni che assumono tali scelte, si pone un problema per la loro legittimità, dal momento anche persone che vivono fuori dalla Germania sono drammaticamente colpite dal cambiamento climatico.

A questo riguardo, il BVerfG riconosce che il dovere del Governo tedesco di proteggere i diritti fondamentali non si arresta alle frontiere nazionali del Paese, ma si estende anche alle persone residenti all’estero, compreso il gruppo di ricorrenti che vivono in Nepal e Bangladesh.

 Nel caso in esame, in ogni caso, Karlsruhe ritiene che il Governo abbia soddisfatto i suoi doveri di protezione, in particolare con la ratifica dell’Accordo di Parigi del 2015, e questo ha condotto al respingimento dei ricorsi presentati da cittadini stranieri nell’occasione:

 tuttavia, la posizione espressa dalla sentenza sul punto potrebbe assumere un immenso significato nei casi futuri in cui l’unico modo per superare i problemi globali fosse rappresentato dalla cooperazione internazionale, con i cittadini stranieri che potrebbero d’ora in poi costringere la Germania ad essere all’altezza dei suoi doveri di “buon cittadino globale”.

Il punto più interessante della sentenza, tuttavia, attiene alle modalità con cui la sentenza configura la violazione dell’obbligo di protezione del clima, che deriva da una concezione innovativa di libertà costituzionalmente garantita fruibile non solo nel tempo presente, ma anche nel futuro.

 Il BVerfG spiega come la tutela ed il miglioramento delle condizioni climatiche devono essere perseguite efficacemente nel nostro tempo poiché, diversamente, si renderanno necessarie misure molto più invasive e penalizzanti per l’esercizio delle libertà delle generazioni future.

In questo senso, la sentenza parla di una «protezione intertemporale della libertà» (intertemporale Freiheitssicherung), tale per cui la tutela costituzionale dei diritti fondamentali garantisce i ricorrenti contro un unilaterale ed indebito slittamento nel futuro dell’onere di riduzione dei gas serra previsto dall’art. 20a GG.

 Il legislatore, nel momento in cui emana una disciplina mirata a garantire l’esercizio delle libertà fondamentali, deve farlo tenendo in considerazione non solo l’effettività del loro godimento nel presente, ma anche nel futuro, in quanto i comportamenti odierni definiscono le condizioni di esercizio delle medesime libertà anche per gli anni e le generazioni a venire.

Colpisce a questo riguardo il timore di chi legge nell’estensione “intertemporale” della protezione dei diritti fondamentali condotta dal BVerfG un’ulteriore restrizione della libertà dei diritti fondamentali:

un apparente paradosso, spiegato con l’argomentazione secondo cui con la dogmatica dei diritti fondamentali inaugurata dalla decisione in commento, questi non possono più essere limitati solo da diritti fondamentali di terzi concretamente nominati ed effettivamente limitati, ma (anche) in favore di un esercizio futuro della libertà da parte di terzi.

Se si accolgono le risultanze scientifiche sull’emergenza climatica, tuttavia, non si vede come si possa conservare un’effettività delle libertà costituzionalmente garantite se non ponendo oggi le basi per consentirne il godimento anche in futuro: che ciò comporti una limitazione all’esercizio dei diritti fondamentali dei contemporanei è, in fondo, il nucleo essenziale delle conclusioni a cui è pervenuta la ricerca scientifica in materia.

È proprio per questo che Karlsruhe sanziona il comportamento del legislatore il quale, avendo disciplinato in modo dettagliato il processo di riduzione delle emissioni solo fino al 2030 e peraltro attingendo in questa fase a gran parte del budget di produzione di CO2 a disposizione della RFT, ha ignorato la dimensione intertemporale delle libertà costituzionali.

 È in questa mancata considerazione delle conseguenze future del processo di contenimento del riscaldamento globale che si sostanzia il vizio di costituzionalità del KSG, ed è per questo che Governo e Bundestag sono chiamati a regolare in modo più efficiente e concreto la riduzione delle emissioni anche dal 2031 in poi, avendo cura che l’obiettivo finale della neutralità climatica venga raggiunto entro il 2050.

Spicca, dunque, questa richiesta di un approccio responsabile alla libertà, che non può (più?) essere pensata solo nel “qui e ora”, ma deve tenere in considerazione le implicazioni del suo esercizio anche per il futuro.

In questo, l’azione politica è chiamata ad operare conformandosi ai risultati dell’analisi scientifica, che in un contesto come quello climatico forniscono parametri di riferimento imprescindibili per una regolamentazione adeguata della materia.

 Inoltre, come è stato fatto opportunamente notare, l’attenzione ad una concezione della libertà che deve necessariamente essere preservata anche per il futuro, protegge anche la democrazia: più tardi si interviene, infatti, più drastiche dovranno essere le misure e minore sarà il margine di manovra a disposizione dei futuri legislatori, con una probabilità sempre più elevata che, una volta inaugurata questa nuova linea giurisprudenziale, Karlsruhe registri un’ondata di ricorsi da parte di cittadini insoddisfatti rispetto alla tutela intertemporale dei diritti fondamentali di norme in materia ambientale talmente corposa da rischiare di tradursi in una “ecodittatura”.

La sentenza valuta la legittimità del KSG anche alla luce del principio di proporzionalità:

pur riconoscendo un margine di apprezzamento al legislatore nel dare attuazione agli obblighi ex art. 20a GG, il BVerfG conclude sul punto che le attuali disposizioni di protezione del clima violano il principio di proporzionalità.

Questo principio richiede, secondo Karlsruhe, una distribuzione efficiente e rispettosa dei diritti connessi al budget di CO2 rimanente.

In questo modo, per la prima volta il Tribunale Costituzionale Federale introduce l’obbligo di protezione delle generazioni future unitamente al principio di equità intergenerazionale nella Costituzione tedesca, statuendo che «ad una generazione non deve essere permesso di consumare grandi porzioni del budget di CO2 sopportando una parte relativamente minore dello sforzo di riduzione [di emissioni], se questo comporterebbe lasciare alle generazioni successive un drastico onere di riduzione ed esporre le loro vite a ampie perdite di libertà».

 Con l’aggravarsi del cambiamento climatico, le misure di protezione del clima si configurano un dovere costituzionale che interferisce con tutti i tipi di libertà individuali, e un tale onere non può essere posto sproporzionatamente sulle generazioni future.

Anche se le misure concrete che saranno necessarie in futuro non sono ad oggi secondo il BVerfG prevedibili, il Tribunale presume tuttavia un rischio significativo di gravi oneri che richiedono misure precauzionali da assumersi nel presente, poiché un tale processo «richiede anche l’avvio della transizione verso la neutralità climatica in tempo utile».

Perché questa condizione sia soddisfatta, un semplice obbligo governativo di aggiornare gli obiettivi climatici entro il 2025 e oltre tramite ordinanze, come previsto dalla vigente Legge sulla protezione del clima, è insufficiente:

pertanto, «il legislatore deve perlomeno determinare l’entità delle quantità annuali di emissioni da fissare per i periodi successivi al 2030 stesso o imporre requisiti più dettagliati per la loro definizione da parte dell’autorità esecutiva responsabile dell’emissione dell’ordinanza».

Ancora, la sentenza mostra attenzione anche agli aspetti tecnologici connessi alle politiche climatiche, nel momento in cui impone di «evitare una distribuzione troppo miope e quindi unilaterale degli oneri di libertà e di riduzione [delle emissioni] a scapito del futuro».

Ciò richiede che lo scarso budget residuo di CO2 venga consumato con sufficiente cautela, guadagnando così tempo per avviare le trasformazioni necessarie ad attenuare «le perdite di libertà causate dalla riduzione costituzionalmente inevitabile delle emissioni […], rendendo disponibili alternative comportamentali neutrali per la CO2».

Pertanto, la norma impugnata risulta incostituzionale anche perché consente di consumare una quantità talmente ampia del bilancio rimanente di emissioni «che le future perdite di libertà assumerebbero inevitabilmente proporzioni inaccettabili dal punto di vista odierno, perché non rimarrebbe tempo per sviluppi e trasformazioni in grado di mitigare» gli effetti indicati. Nel complesso, dunque, emerge dalla sentenza un’interpretazione innovat

iva dell’art. 20a GG, per alcuni persino una sua “oggettivizzazione”, tale da delineare un “diritto fondamentale” ad una protezione assoluta contro il superamento del limite di riscaldamento globale di 1,5-2 °C.

Tuttavia, se ne lamenta allo stesso tempo una definizione così ristretta in termini di protezione sostanziale, da renderla almeno per il momento di rilevanza contenuta rispetto alla dogmatica dei diritti fondamentali.

 

Da non sottovalutare, infine, le possibili conseguenze dell’apertura alla dimensione intertemporale delle libertà condotto dal BVerfG sull’operato della giustizia amministrativa, nel momento in cui questa si troverà a valutare atti di natura esecutiva in materia ambientale.

Opportunamente, ad ogni modo, Karlsruhe sceglie di rimettere al titolare del potere di decisione in materia il compito di rivedere la normativa costituzionalmente illegittima, affinché operi i correttivi richiesti dalla pronuncia in esame.

5. Le successive modifiche alla Legge sulla protezione del clima.

Sebbene, come ricordato, il BVerfG avesse concesso al Legislatore federale tempo fino al 31 dicembre 2022 per eseguire le modifiche necessarie a eliminare i profili ritenuti incostituzionali della Legge sulla protezione del clima, già il 12 maggio 2021 il Governo tedesco aveva presentato il disegno di revisione della norma, approvato poi dal Bundestag il 24 giugno e dal Bundesrat il giorno successivo.

La legge emendata incrementa gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, innalzandoli di 10 punti percentuali fino ad almeno il 65%:

ciò significa che la Germania dovrà ridurre le sue emissioni di gas serra del 65% entro il 2030 rispetto al 1990.

Le riduzioni del biossido di carbonio entro il 2030 saranno più forti nei settori riguardanti energia, industria, trasporti, edifici e agricoltura.

Inoltre, è previsto che gli obiettivi climatici siano in futuro regolarmente sottoposti a monitoraggio per verificare lo stato della loro realizzazione.

 Per la prima volta, il Consiglio di Esperti sulle Questioni Climatiche presenterà un rapporto ogni due anni a partire dal 2022 sugli obiettivi, le misure e le tendenze raggiunte finora.

Se gli obiettivi non saranno rispettati, il Governo federale sarà chiamato ad assumere provvedimenti immediati.

È previsto un obiettivo di riduzione delle emissioni di almeno l’88% entro l’anno 2040, ma la novella prevede anche obiettivi concreti annuali di riduzione delle emissioni fino al 2030.

Entro il 2045, la Germania dovrà raggiungere la neutralità dei gas a effetto serra, con il conseguimento di un graduale equilibrio tra le emissioni di gas serra e la loro riduzione:

seguendo questa strategia, dopo il 2050 il governo tedesco punta a raggiungere un livello negativo di emissioni negative, conservando nei cd. pozzi naturali più gas serra di quanti ne emetta.

Ancora, la Legge sottolinea il contributo degli ecosistemi naturali alla protezione del clima. Le foreste e le brughiere sono serbatoi di carbonio (i citati pozzi naturali di CO2), importanti per vincolare le emissioni residue inevitabili di gas a effetto serra.

Per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di protezione del clima stabiliti nella Legge, il Governo tedesco ha adottato un programma di emergenza da € 8 miliardi, con cui fornire ulteriore sostegno alla decarbonizzazione dell’industria, alla produzione di idrogeno verde, alla ristrutturazione di edifici efficienti dal punto di vista energetico, alla mobilità rispettosa del clima, ad una silvicoltura ed agricoltura sostenibili.

 Il programma si concentra principalmente su misure a breve termine, in grado di ridurre in modo visibile e verificabile le emissioni di gas a effetto serra.

A livello europeo, le proposte concrete della Commissione UE sulle misure per una maggiore protezione del clima non sono ancora in vigore:

 pertanto, la novella tedesca prevede che una proposta legislativa per l’adeguamento ai requisiti europei sia presentata entro sei mesi dalla loro entrata in vigore.

A partire dal 2024, anche gli strumenti di tariffazione di CO2 dovranno essere valutati ogni due anni in conformità con il Regolamento UE previsto in materia. L’obiettivo a cui la riforma del KSG punta è un insieme adeguatamente coordinato di strumenti operativo sul piano nazionale ed europeo.

La Legge sulla protezione sul clima resta in ogni modo una “norma cornice”, la cui implementazione necessita di un’ampia serie di provvedimenti di natura esecutiva che interessano aspetti amministrativi e tecnici connessi al tema generale, e che dovranno essere a loro volta adeguati alle nuove disposizioni contenute nella riforma appena emanata.

6. Un nuovo dialogo fra Corti su clima e ambiente?

Nonostante la sua innovatività rispetto alla giurisprudenza nazionale pregressa, la sentenza del Tribunale Costituzionale ha richiamato le argomentazioni sostenute da pronunce emesse su temi connessi alla conservazione del clima da parte di altre massime corti nazionali.

Una di queste decisioni riguarda la vicenda della fondazione olandese Urgenda, i cui iscritti fin dagli anni ‘90 hanno ripetutamente invocato l’intervento dei giudici contro stati o singoli soggetti per far stabilire in tribunale le loro responsabilità riguardo al cambiamento climatico, ma sempre senza successo.

Alla fine del 2019, invece, una causa intentata da Urgenda è stata una delle prime a ricevere una decisione positiva da pare dello Hoge Raad, il più alto tribunale civile dei Paesi Bassi, che ha obbligato lo Stato olandese a ridurre le emissioni di gas serra del 25% entro la fine del 2020 rispetto al 1990.

La causa prendeva le mosse dall’obiettivo posto a carico dello Stato olandese per il 2020 di ridurre le emissioni di gas-serra del 20% rispetto ai livelli del 1990.

Urgenda riteneva invece che, dati i gravi rischi del cambiamento climatico, l’obiettivo olandese non fosse sufficiente a garantire una effettiva tutela climatica, chiedendo una riduzione delle emissioni di almeno il 25% nel 2020 rispetto ai livelli del 1990.

 Nel 2015 il Tribunale Distrettuale dell’Aia si era pronunciato in accordo con Urgenda, ordinando alle autorità nazionali di ridurre le emissioni di gas serra del 25% entro la fine del 2020, ordine poi confermato dalla Corte d’appello dell’Aia nel 2018.

 La decisione della Corte Suprema del 20 dicembre 2019 ha definitivamente respinto il ricorso dello Stato olandese contro questa deliberazione.

Lo Stato olandese aveva sostenuto che spetta ai politici decidere sulla riduzione delle emissioni di gas serra, ma secondo la Corte suprema la Costituzione olandese impone ai tribunali nazionali di applicare le disposizioni della CEDU, a cui le leggi nazionali devono conformarsi anche in materia di tutela climatica, confermando la correttezza della decisione emessa dalla Corte d’appello.

La sentenza olandese, che si basava su un’interpretazione degli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), è stata richiamata ben cinque volte nella decisione del BVerfG, ad es. nella parte in cui stabilisce che la Germania non può sottrarsi alle proprie responsabilità in materia climatica chiamando in causa le emissioni di gas serra prodotte da altri Stati.

Dello stesso tenore anche la decisione della Corte Suprema irlandese nel caso Friends of the Irish Environment v. Ireland del 31 Luglio 2020, scaturita da un’iniziativa del gruppo ambientalista Friends of the Irish Environment (FIE), che aveva intentato una causa presso l’Alta Corte irlandese, sostenendo che l’approvazione nel 2017 da parte del governo nazionale del “Piano Nazionale di Contenimento” (National Mitigation Plan) delle emissioni di gas serra violava l’Irish Climate Action and Low Carbon Development Act 2015, la Costituzione irlandese e gli obblighi imposti alle autorità nazionali dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani, in particolare il rispetto del diritto alla vita ed alla vita privata e familiare.

FIE aveva affermato che il National Mitigation Plan, finalizzato ad implementare il passaggio ad un’economia a basse emissioni di carbonio entro il 2050, fosse incoerente con la legge e con gli impegni dell’Irlanda in materia di diritti umani, in quanto non progettato per ottenere sostanziali riduzioni delle emissioni a breve termine.

FIE chiedeva pertanto all’Alta Corte di annullare la decisione del governo di approvare il piano e, se del caso, ordinare che venisse redatto un nuovo piano.

Dopo una sentenza di primo grado che dava ragione al Governo olandese, il 31 luglio 2020 la Corte Suprema ha revocato la decisione del tribunale inferiore annullando il Piano.

Secondo la Corte, che pure ha escluso la legittimità del FIE a presentare ricorsi ai sensi della Costituzione o della CEDU, il Piano non possiede il grado di specificità che la legge richiede, perché non spiega come l’Irlanda dovrebbe raggiungere i suoi obiettivi in materia climatica per il 2050.

Statuendo che un programma adeguato di riduzione delle emissioni deve essere sufficientemente dettagliato in merito alle specifiche strategie da attuare su tutto il periodo della sua validità fino al 2050, e giudicando il National Mitigation Plan troppo generico e quindi non valido, la Corte Suprema irlandese ha fornito un supporto argomentativo rilevante per la sentenza del BVerfG.

Inoltre, la sentenza di Karlsruhe non si è limitata a citare soltanto corti supreme europee, ma ha incluso anche pronunce extraeuropee sul cambiamento climatico, secondo una strategia coerente con una giurisprudenza che riconosce l’importanza cruciale della dimensione internazionale della protezione del clima.

Il Primo Senato cita, da un lato, il caso neozelandese Thomson, in cui l’Alta Corte aveva sottolineato l’obbligo statale di una politica di protezione del clima basata sulla scienza e rivedibile giudizialmente, e richiama dall’altro il caso “Juliana” sorto negli Stati Uniti, in cui bambini e giovani avevano cercato di obbligare lo Stato di Washington a ridurre i suoi gas serra per via giudiziaria.

Nel caso Thomson, l’Alta Corte neozelandese aveva fornito un chiaro esempio di come la complessa questione della giustificabilità dell’azione di tutela per il clima possa essere affrontata prendendo in considerazione decisioni straniere.

 La vicenda aveva preso l’avvio dall’iniziativa di Sarah Thomson, una studentessa di legge neozelandese, che nel 2015 aveva presentato un ricorso contro il Ministro neozelandese per il cambiamento climatico dell’epoca, sostenendo che questi avesse fallito in diversi aspetti rispetto alla definizione degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra richiesti dalla legge neozelandese del 2002 sulla risposta al cambiamento climatico.

Tale legge ampliava gli obblighi della Nuova Zelanda in quanto membro dell’Allegato I della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC), e richiedeva al Ministro di fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni in linea con le dichiarazioni del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), nonché di valutare l’opportunità di rivedere tale obiettivo a fronte di analisi aggiornate in materia da parte dell’IPCC.

L’Alta Corte aveva valutato la legalità di entrambi gli obiettivi 2030 e 2050 fissati dal Ministro nel 2015:

per quanto riguarda l’obiettivo del 2050, la Corte aveva decretato che, sebbene ai sensi della legge del 2002 al Ministro fosse riconosciuta la discrezionalità di determinare e rivedere l’obiettivo di riduzione delle emissioni della Nuova Zelanda per il 2050, tale discrezionalità era limitata dallo scopo della Legge e dalle prove contenute nel V Rapporto di Valutazione dell’IPCC, che fissavano un obiettivo nazionale di emissioni inferiore a quello stabilito sulla base del IV Rapporto di Valutazione dell’IPCC.

Tuttavia, poiché non era chiaro se una revisione dell’obiettivo del 2050 alla luce del V Rapporto IPCC avrebbe certamente condotto alla revisione dell’obiettivo della legge nazionale, e poiché la questione politica era stata superata dalle recenti elezioni (che nel 2017 avevano portato ad un avvicendamento del Ministro coinvolto nel ricorso), la Corte aveva concluso che il nuovo Ministro per il cambiamento climatico avrebbe dovuto rivedere l’obiettivo, ma non che una decisione di mantenere l’obiettivo esistente dopo tale revisione sarebbe stata necessariamente illegale.

Per quanto riguarda l’obiettivo previsto nel piano di intervento neozelandese per il clima per il 2030, la Corte neozelandese aveva decretato di possedere l’autorità di rivedere la fissazione di quell’obiettivo da parte del Ministro competente, ma che non sussistevano ragioni per invalidarlo, in quanto questi non aveva commesso «alcun errore rivedibile per cui la Corte possa intervenire».

Per quanto attiene all’autorità degli organi giurisdizionali di esaminare le politiche di intervento contro il cambiamento climatico, l’Alta Corte aveva osservato come «può essere appropriato che i tribunali nazionali svolgano un ruolo nel processo decisionale del governo sulle politiche relative al cambiamento climatico […]. I tribunali nazionali hanno riconosciuto che l’intera materia non rappresenta una “no go area”, sia perché lo Stato ha assunto degli obblighi internazionali, sia perché il problema è globale e gli sforzi di un Paese da solo non possono prevenire i danni alla popolazione di quel Paese e al loro ambiente, sia perché la risposta del Governo implica la ponderazione di fattori sociali, economici e politici, sia a causa della complessità della scienza.

I tribunali hanno riconosciuto l’importanza della questione per il pianeta e i suoi abitanti, e che coloro che rientrano nella giurisdizione di una corte fanno necessariamente parte di tutti coloro che sono vittime di sforzi inadeguati rispetto al cambiamento climatico.

Le varie corti nazionali hanno ritenuto di avere un ruolo adeguato da svolgere nel processo decisionale del governo su questo argomento, pur sottolineando che ci sono limiti costituzionali rispetto alla misura con cui tale ruolo può estendersi.

 I rapporti dell’IPCC forniscono una base oggettiva su cui possono essere prese le decisioni.

 I rimedi sono concepiti per garantire che sia intrapresa un’azione appropriata, lasciando le scelte politiche sul contenuto di tale azione all’organo statale competente».

Sebbene sommario, anche il riferimento di Karlsruhe al caso “Juliana” sollevato davanti ai giudici del IX Circuito delle Corti d’Appello degli Stati Uniti, conferma la possibilità di espansione del dialogo giurisdizionale sul clima in ambito internazionale.

Ciò che secondo il BVerfG rileva nella decisione in questione, è che le esigenze di protezione non vengono meno per il fatto che il cambiamento climatico è un fenomeno globale, e che coinvolge la responsabilità di molti soggetti.

 Karlsruhe non ha tenuto conto del fatto che in “Juliana” la Corte d’appello avesse respinto con riluttanza il caso – pur condividendo il timore dei ricorrenti che il mondo sia «sull’orlo della distruzione» a causa del cambiamento climatico.

 Ciononostante, secondo l’opinione della maggioranza dei giudici d’appello, non rientra nei loro poteri costituzionali fermare l’imminente catastrofe climatica, poiché «non tutti i problemi che pongono una minaccia – anche un chiaro e presente pericolo – all’esperimento americano possono essere risolti dai giudici federali».

 In ogni caso, sia “Thomson” che “Juliana” sono citate dal Tribunale Costituzionale Federale unitamente ad altre sentenze, a riprova del fatto che lo Stato non può sottrarsi alle proprie responsabilità in materia di protezione del clima chiamando in causa le emissioni di CO2 prodotte in altri Stati.

Manca nell’elenco, ma colpisce per la contiguità con le argomentazioni accolte da Karlsruhe, la sentenza della Corte Suprema USA Massachusetts v. Environmental Protection Agency del 2.4.2007, un caso in cui dodici Stati e diverse città degli Stati Uniti avevano citato in giudizio l’Environmental Protection Agency (EPA) per costringere l’agenzia federale a classificare l’anidride carbonica e altri gas a effetto serra come sostanze inquinanti.

Con una maggioranza di 5-4, la Corte aveva rinviato la questione all’EPA, chiedendo di motivare più adeguatamente le ragioni per cui essa escludesse i gas citati dalle sostanze inquinanti per l’ambiente.

 Nel corso del processo, l’EPA aveva escluso la possibilità che una regolamentazione delle emissioni di nuovi veicoli (negli USA) potesse mitigare il cambiamento climatico globale, in quanto qualsiasi riduzione nazionale delle emissioni sarebbe stata vanificata dalla produzione di gas serra in altre parti del mondo, in particolare in Cina ed India.

 La Corte aveva dissentito sul punto, contraddicendo la cd. “Death by Thousand Cuts Doctrine”, secondo cui non è il taglio di un singolo albero a decretare la morte di una foresta:

invece, i Supremi Giudici avevano osservato che l’assunto dell’EPA si basava sulla premessa sbagliata che un incremento marginale della riduzione di gas serra non possa essere invocato in sede giurisdizionale, appunto per la sua marginalità.

 In realtà, secondo la Corte l’enormità delle potenziali conseguenze legate al cambiamento climatico causato dall’uomo rende non determinante il fatto che i Paesi in via di sviluppo come Cina e India siano pronti ad aumentare le emissioni di gas serra in modo sostanziale, in quanto «una riduzione delle emissioni interne rallenterebbe il ritmo dell’aumento delle emissioni globali, indipendentemente da qualunque cosa accada altrove».

Le pronunce di Nuova Zelanda e Stati Uniti forniscono quindi una sorta di scudo contro la possibile obiezione che l’enfasi di Karlsruhe sulla responsabilità internazionale della protezione del clima sia espressione di una visione «tipicamente tedesca o almeno eurocentrica» della materia.

Anche a livello sovranazionale europeo, peraltro, è lecito attendersi in tempi brevi pronunce giurisprudenziali sugli stessi temi affrontati dalla decisione del Tribunale Costituzionale Federale.

Sono infatti diversi i casi sul clima attualmente pendenti davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo:

è noto il ricorso di sei giovani portoghesi di età compresa tra gli 8 e i 21 anni contro 33 Stati membri del Consiglio d’Europa, dichiarato ammissibile a fine 2020 ed accompagnato da una grande attenzione mediatica, a cui si allinea il caso sollevato dall’associazione Klima-Seniorinnen contro la Svizzera, ammesso alla valutazione della Corte di Strasburgo il 26 marzo 2021.

La Corte EDU ha recentemente riconosciuto priorità a entrambi i casi, in considerazione dell’importanza e dell’urgenza delle sollevate.

A questi due procedimenti potrebbe aggiungersi il ricorso presentato nell’aprile 2021 alla Corte di Strasburgo da un cittadino austriaco affetto da una forma di sclerosi multipla dipendente dalla temperatura (nota come Fenomeno di Uhthoff), costretto alla sedia a rotelle quando si raggiungono i 25 °C, le cui condizioni di vita sono quindi fortemente influenzate dalla situazione climatica.

In generale, sembra che si vada formando un’attenzione giudiziaria più forte – non solo in ambito europeo – riguardo agli obblighi degli Stati in tema di politiche climatiche.

Sempre più spesso, i tribunali si vedono chiamati a riconoscere e denunciare i fallimenti dei legislatori nazionali rispetto alla protezione del clima.

Anche se le singole sentenze non hanno un impatto diretto sui procedimenti in altri Paesi, esse possono incentivare le iniziative di potenziali ricorrenti presso altri tribunali nazionali, implementando un generale processo di consapevolezza dell’interdipendenza tra comportamenti umani, regolamentazione delle politiche ambientali e condizioni del clima a livello globale.

 Anche lo stesso BVerfG sembra intenzionato a favorire lo sviluppo di questa giurisprudenza ed un innovativo dialogo tra corti sui temi della tutela del clima, come dimostra la rapidità con cui sono state rese disponibili le traduzioni in inglese e francese del comunicato stampa riassuntivo dei tratti salienti della decisione, nonché – poco dopo – la sua traduzione integrale in lingua inglese sul sito della Corte tedesca.

Da notare, in chiusura, come appaiono non condivisibili le accuse secondo cui tali pronunce imporrebbero ai rispettivi legislatori nazionali delle revisioni normative talmente invasive delle discipline vigenti da compromettere il rispetto del principio della separazione tra i poteri.

Se si accolgono le premesse scientifiche alla base delle sentenze citate, secondo cui sussiste uno stringente rapporto di causa/effetto tra le politiche climatiche e le condizioni di vita collettive attuali e (soprattutto) future, decisioni come quelle dello Hoge Raad olandese sul caso Urgenda o del BVerfG sul KSG risultano perseguire l’obiettivo di garantire diritti, libertà ed autonomie individuali, in piena conformità con il compito più tipico e consolidato che in era moderna sia stato attribuito al potere giudiziario.

Come è stato opportunamente sottolineato proprio a commento della sentenza in parola, d’altro canto, se è vero che gli interessi in gioco in relazione alla tutela climatica esulano le esigenze delle sole generazioni presenti, è altrettanto vero che le conseguenze delle deliberazioni assunte (o meno) in materia impattano ormai direttamente sulla qualità dell’esistenza, quando non della mera sopravvivenza, dei nostri contemporanei, come purtroppo proprio i tragici eventi dello scorso luglio 2021 in Germania ancora una volta drammaticamente dimostrano.

 

Aspettando la fine del mondo.

Unz.com - PEPE ESCOBAR – (11 APRILE 2023) – ci dice:

 

Non possiamo nemmeno iniziare a scandagliare gli effetti a catena senza sosta derivanti dal terremoto geopolitico del 2023 che ha scosso il mondo:

 Putin e Xi, a Mosca, segnalano di fatto l'inizio della fine della Pax Americana.

Questo è stato l'ultimo anatema per le élite egemoniche anglo-americane per oltre un secolo:

una partnership strategica firmata, sigillata e completa di due concorrenti alla pari, che intreccia una massiccia base manifatturiera e la preminenza nella fornitura di risorse naturali – con armi russe all'avanguardia a valore aggiunto e “nous” diplomatico.

Dal punto di vista di queste élite, il cui Piano A è sempre stato una versione degradata del” Divide et Impera” dell'Impero Romano, questo non sarebbe mai dovuto accadere.

Infatti, accecati dall'arroganza, non l'hanno mai visto arrivare.

 Storicamente, questo non si qualifica nemmeno come un remix del Torneo delle Ombre; è più simile a “Tawdry Empire Left in the Shade,” "schiuma alla bocca" (copyright Maria Zakharova).

Xi e Putin, con una mossa di Sun Tzu, hanno immobilizzato l'orientalismo, l'eurocentrismo, l'eccezionalismo e, ultimo ma non meno importante, il neocolonialismo.

Non c'è da stupirsi che il Sud del mondo sia stato inchiodato da ciò che si è sviluppato a Mosca.

Aggiungendo la beffa al danno, abbiamo la Cina, la più grande economia del mondo di gran lunga se misurata dalla parità di potere d'acquisto (PPP), nonché il più grande esportatore.

E abbiamo la Russia, un'economia che per PPP è equivalente o addirittura più grande di quella tedesca – con l'ulteriore vantaggio di essere il più grande esportatore di energia del mondo e non costretto a deindustrializzarsi.

Insieme, in sincronia, sono concentrati sulla creazione delle condizioni necessarie per aggirare il dollaro USA.

Prendiamo spunto da una delle battute cruciali del presidente Putin: "Siamo favorevoli all'uso dello yuan cinese per gli insediamenti tra la Russia e i paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina".

Una conseguenza chiave di questa alleanza geopolitica e geoeconomica, attentamente progettata nel corso degli ultimi anni, è già in gioco:

l'emergere di una possibile triade in termini di relazioni commerciali globali e, per molti aspetti, una guerra commerciale globale.

L'Eurasia è guidata – e in gran parte organizzata – dalla partnership Russia-Cina.

Anche la Cina svolgerà un ruolo chiave in tutto il Sud del mondo, ma l'India potrebbe anche diventare piuttosto influente, agglutinando quello che sarebbe un Movimento dei Non Allineati (NAM) con steroidi.

E poi c'è l'ex "nazione indispensabile" che governa i vassalli dell'UE e l'anglosfera radunata nei Five Eyes.

 

Cosa vogliono veramente i cinesi.

L'Egemone, sotto il suo auto-inventato "ordine internazionale basato sulle regole", essenzialmente non ha mai fatto diplomazia.

“Divide et Impera”, per definizione, preclude la diplomazia.

Ora la loro versione della "diplomazia" è degenerata ancora di più in rozzi insulti da parte di una serie di funzionari intellettualmente sfidati e francamente idioti di Stati Uniti, UE e Regno Unito.

Non c'è da meravigliarsi che un vero gentiluomo, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, sia stato costretto ad ammettere:

 "La Russia non è più un partner dell'UE ... L'Unione europea ha "perso" la Russia.

Ma la colpa è dell'Unione stessa.

 Dopo tutto, gli Stati membri dell'UE ... dichiarare apertamente che alla Russia dovrebbe essere inflitta una sconfitta strategica. Ecco perché consideriamo l'UE un'organizzazione nemica".

Eppure il nuovo concetto di politica estera russa, annunciato da Putin il 31 marzo, lo rende abbastanza chiaro: la Russia non si considera un "nemico dell'Occidente" e non cerca l'isolamento.

Il problema è che non c'è praticamente nessun adulto con cui parlare dall'altra parte, piuttosto un gruppo di iene.

 Ciò ha portato Lavrov a sottolineare ancora una volta che misure "simmetriche e asimmetriche" possono essere utilizzate contro coloro che sono coinvolti in azioni "ostili" contro Mosca.

Quando si tratta di Exceptionalistan, è evidente:

gli Stati Uniti sono designati da Mosca come il principale istigatore anti-Russia, e la politica generale dell'Occidente collettivo è descritta come "un nuovo tipo di guerra ibrida".

Tuttavia, ciò che conta davvero per Mosca sono gli aspetti positivi più avanti lungo la strada:

l'integrazione non-stop dell'Eurasia; legami più stretti con i "centri globali amici" Cina e India; aumento degli aiuti all'Africa; una cooperazione più strategica con l'America Latina e i Caraibi, le terre dell'Islam – Turchia, Iran, Arabia Saudita, Siria, Egitto – e l'ASEAN.

E questo ci porta a qualcosa di essenziale che è stato – prevedibilmente – ignorato in massa dai media occidentali:

 il Forum Boao per l'Asia, che si è svolto quasi contemporaneamente all'annuncio del nuovo concetto di politica estera della Russia.

Il Forum Boao, iniziato all'inizio del 2001, ancora nell'era pre-9/11, è stato modellato su Davos, ma è Top China in tutto e per tutto, con il segretariato con sede a Pechino.

Boao si trova nella provincia di Hainan, una delle isole del Golfo del Tonchino e oggi un paradiso turistico.

Una delle sessioni chiave del forum di quest'anno è stata sullo sviluppo e la sicurezza, presieduta dall'ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, che è attualmente presidente di Boao.

C'erano parecchi riferimenti alla Global Development Initiative di Xi e alla Global Security Initiative – che tra l'altro è stata lanciata a Boao nel 2022.

Il problema è che queste due iniziative sono direttamente collegate al concetto di pace e sicurezza delle Nazioni Unite e all'Agenda 2030 estremamente dubbia sullo "sviluppo sostenibile" – che non riguarda esattamente lo sviluppo e tanto meno "sostenibile": è un intruglio super-aziendale di Davos.

 L'ONU da parte sua è fondamentalmente ostaggio dei capricci di Washington. Pechino, per il momento, gioca d'accordo.

Il premier Li Qiang è stato più specifico.

Sottolineando il concetto caratteristico di "comunità di futuro condiviso per l'umanità" come base per la pace e lo sviluppo, ha collegato la coesistenza pacifica con lo "Spirito di Bandung" – in diretta continuità con l'emergere del NAM nel 1955:

 questa dovrebbe essere la "Via asiatica" del rispetto reciproco e della costruzione del consenso – in opposizione a "l'uso indiscriminato di sanzioni unilaterali e giurisdizione di lunga portata", e il rifiuto di "una nuova guerra fredda".

E questo ha portato Li Qiang a porre l'accento sulla spinta cinese ad approfondire l'accordo commerciale RCEP dell'Asia orientale e anche a far avanzare i negoziati sull'accordo di libero scambio tra Cina e ASEAN.

E tutto ciò integrato con la nuova espansione della Belt and Road Initiative (BRI), in contrasto con il protezionismo commerciale.

Quindi per i cinesi ciò che conta, intrecciato con il business, sono le interazioni culturali; inclusività; fiducia reciproca; e un severo rifiuto dello "scontro di civiltà" e del confronto ideologico.

Per quanto Mosca sottoscriva facilmente tutto quanto sopra – e di fatto lo pratichi attraverso la finezza diplomatica – Washington è terrorizzata da quanto sia avvincente questa narrativa cinese per l'intero Sud del mondo.

Dopo tutto, l'unica offerta di Exceptionalistan nel mercato delle idee è il dominio unilaterale;

 Dividere una regola; e "sei con noi o contro di noi".

 E in quest'ultimo caso sarai sanzionato, molestato, bombardato e / o cambiato regime.

È di nuovo il 1848?

Nel frattempo, nei territori vassalli, sorge la possibilità di una rinascita del 1848, quando una grande ondata rivoluzionaria colpì tutta l'Europa.

Nel 1848 queste furono rivoluzioni liberali; oggi abbiamo essenzialmente rivoluzioni popolari anti-liberali (e contro la guerra) – dai contadini nei Paesi Bassi e in Belgio ai populisti non ricostruiti in Italia e ai populisti di sinistra e di destra combinati in Francia.

Forse è troppo presto per considerarla una primavera europea. Eppure ciò che è certo a diverse latitudini è che i cittadini europei medi si sentono sempre più inclini a liberarsi del giogo della tecnocrazia neoliberista e della sua dittatura del capitale e della sorveglianza.

Per non parlare del guerrafondaio della NATO.

Poiché praticamente tutti i media europei sono controllati da tecnocrati, le persone non vedranno questa discussione nel MSM.

Eppure c'è una sensazione nell'aria che questo potrebbe annunciare la fine di una dinastia in stile cinese.

Nel calendario cinese è così che va sempre: il loro orologio storico-sociale funziona sempre con periodi compresi tra 200 e 400 anni per dinastia.

Ci sono infatti indizi che l'Europa potrebbe essere testimone di una rinascita.

Il periodo di sconvolgimenti sarà lungo e arduo – a causa delle orde di anarco-liberali che sono così utili idioti per l'oligarchia occidentale – o potrebbe arrivare tutto al culmine in un solo giorno.

 L'obiettivo è abbastanza chiaro: la morte della tecnocrazia neoliberista.

È così che la visione di Xi-Putin potrebbe fare breccia in tutto l'Occidente collettivo:

 mostrare che questa "modernità" surrogata (che incorpora la rabbiosa cancel culture) è essenzialmente vuota rispetto ai valori culturali tradizionali e profondamente radicati – che si tratti di confucianesimo, taoismo o ortodossia orientale.

 I concetti cinesi e russi di civiltà-stato sono molto più attraenti di quanto appaiano.

Bene, la rivoluzione (culturale) non sarà trasmessa in televisione;

ma può funzionare il suo fascino attraverso innumerevoli canali Telegram.

La Francia, infatuata dalla ribellione nel corso della sua storia, potrebbe saltare all'avanguardia – di nuovo.

Eppure nulla cambierà se il casinò finanziario globale non viene sovvertito.

 La Russia ha dato al mondo una lezione: si stava preparando, in silenzio, per una guerra totale a lungo termine.

 Tanto che il suo contro pugno calibrato ha capovolto la guerra finanziaria, destabilizzando completamente il casinò.

La Cina, nel frattempo, si sta riequilibrando, ed è sulla buona strada per essere preparata anche per “Total War”, ibrida e non.

L'inestimabile Michael Hudson, fresco del suo ultimo libro, The Collapse of Antiquity, dove analizza abilmente il ruolo del debito in Grecia e a Roma, le radici della civiltà occidentale, spiega succintamente il nostro attuale stato di gioco:

"L'America ha portato una rivoluzione colorata al vertice, in Germania, Olanda, Inghilterra e Francia, essenzialmente, dove la politica estera dell'Europa non rappresenta i propri interessi economici (...)

L'America ha semplicemente detto: "Siamo impegnati a sostenere una guerra di (ciò che chiamano) democrazia (con cui intendono l'oligarchia, incluso il nazismo dell'Ucraina) contro l'autocrazia (...)

 L'autocrazia è qualsiasi paese abbastanza forte da impedire l'emergere di un'oligarchia creditrice, come la Cina ha impedito l'oligarchia creditrice.

Quindi "l'oligarchia creditrice", di fatto, può essere spiegata come l'intersezione tossica tra i sogni bagnati globalisti di controllo totale e il dominio militarizzato a spettro completo.

La differenza ora è che la Russia e la Cina stanno mostrando al Sud del mondo che ciò che gli strateghi americani avevano in serbo per loro – si "congela nel buio" se si devia da ciò che diciamo – non è più applicabile.

 La maggior parte del Sud del mondo è ora in aperta rivolta geoeconomica.

Il totalitarismo globalista neoliberista, naturalmente, non scomparirà sotto una tempesta di sabbia.

Almeno non ancora.

 C'è ancora un vortice di tossicità da affrontare: sospensione dei diritti costituzionali; propaganda orwelliana; squadre di scagnozzi; censura; cancel culture; conformità ideologica; limiti irrazionali alla libertà di movimento; odio e persino persecuzione di – slavi – Untermenschen; segregazione; criminalizzazione del dissenso; roghi di libri, processi farsa; falsi mandati di arresto da parte del canguro ICC; Terrore in stile ISIS.

Ma il vettore più importante è che sia la Cina che la Russia, ognuna delle quali esibisce le proprie complesse particolarità – ed entrambe respinte dall'Occidente come “Altri non assimilabili” – sono pesantemente investite nella costruzione di modelli economici praticabili che non sono collegati, in diversi gradi, al casinò finanziario occidentale e / o alle reti della catena di approvvigionamento.

 E questo è ciò che sta facendo impazzire gli Exceptionalists – ancora più” berserk” di quanto non lo siano già.

(Pepe Escobar è un analista geopolitico e autore indipendente in tutta l'Eurasia).

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