LA “FUFFA AMBIENTALE” NON PRODUCE NESSUN BENEFICIO PER L’AMBIENTE.
LA
“FUFFA AMBIENTALE” NON PRODUCE NESSUN BENEFICIO
PER
L’AMBIENTE.
La
felicità ambientale.
Wanderingwil.com
– Francesco Grandis – Redazione –
(20-3-2023) – ci dice:
E se un
giorno ci accorgessimo che è proprio l'ambiente in cui viviamo a renderci
infelici?
Durante
una mia breve permanenza in Brasile conobbi Mariana, una bella studentessa di
musica all’università di San Paolo.
Un
giorno si finì a parlare di samba, e in quell’occasione mi disse una cosa che
mi rimase impressa:
“La
samba che viene da San Paolo è molto più triste di quella di Rio.
San Paolo è una città brutta, piena di
condomini, la gente pensa solo a lavorare. Rio invece è bellissima: spiagge,
natura, gente solare che pensa a divertirsi e fare festa.
Per
forza la samba di Rio è più allegra!”
Senza
saperlo, quella ragazza aveva appena fornito la prima prova empirica ad un
pensiero che avevo in testa da moltissimo: l’ambiente può influenzare la
serenità delle persone in un modo che NON dipende dalle persone.
Spiego
meglio.
Che
l’ambiente influenzi la serenità è ovvio.
Già
molto prima di mettermi in viaggio mi bastava confrontare un giorno passato in
una zona industriale con uno in montagna.
Questo
lo può vedere chiunque.
Durante
il mio giro del mondo, però, avevo rivisto lo stesso fenomeno su scala molto
più ampia.
In
alcuni luoghi mi ero sentito immediatamente a casa, sereno ed accolto.
In
altri invece scacciato e infastidito.
Spostandomi
molto velocemente, tutte le esperienze erano fresche e le differenze molto
evidenti, ma non sempre spiegabili.
Fino
ad allora ero stato convinto che quelle sensazioni dipendessero solo da come io
mi ponevo nei confronti di un determinato ambiente, invece Mariana mi fece venire
il dubbio.
E se
invece dipendesse ANCHE dall’ambiente stesso?
Se ci
fossero posti che davvero “emanano serenità” e altri che la distruggono, al
punto da influenzare persino l’intera produzione musicale che proviene da lì?
Se
l’intera popolazione di San Paolo è davvero più triste rispetto a quella di
Rio, a chi si dovrebbe dare la colpa?
A ogni
singolo abitante di San Paolo o alla città stessa?
Per
descrivere questo fenomeno ho coniato il termine “felicità ambientale”: quella parte di felicità che ci
viene trasmessa, o sottratta, dall’ambiente che ci circonda.
Per
“ambiente” intendo il quadro generale: bellezza, natura, persone, clima, stile
di vita…
Ora,
qui ci vorrebbero sociologi e antropologi e tuttologi per verificare che io non
stia dicendo una immane cazzata, ma supponiamo per un attimo che non lo sia.
Supponiamo
che l’ambiente abbia questo potere.
Le
conseguenze sono serissime.
Vorrebbe
dire che non importa quanto bene stiamo con noi stessi o quanto ci impegniamo a
vedere le cose in modo positivo: se viviamo in un posto “ostile”, una parte
della nostra serenità dovrà essere sacrificata ogni giorno per contrastare la
negatività dell’ambiente.
Sarebbe
come convivere con una leggera ma costante emicrania.
Dopo un po’ ti ci abitui e te la dimentichi,
ma quando passa ti accorgi che puoi stare meglio.
Viceversa,
un ambiente positivo potrebbe lenire una parte dei nostri mali.
Certo,
non basta sicuramente vivere in un posto felice per essere felici a nostra
volta.
Se abbiamo ancora questioni personali da
risolvere, non sarà certo l’ambiente a risolverli per noi.
D’altra
parte è come andare in bicicletta: per muoverci dobbiamo spingere noi sui
pedali, ma non è la stessa cosa pedalare con il vento contro o a favore.
Io per
esempio non amo il posto in cui vivo:
clima
orrendo, luoghi monotoni (con qualche eccezione), natura da cercare col
lanternino, persone mediamente fredde e distaccate, traffico, un cielo che non
è mai davvero azzurro, zanzare sei mesi l’anno.
E ripeto
sempre: questo posto è deprimente.
E se
lo fosse davvero?
Avendone
la possibilità, non avrebbe più senso andare a vivere in un posto più sereno, e
combattere da lì le nostre guerre personali?
Non si
tratterebbe di una fuga, come probabilmente i “difensori del divano” stanno già pensando, ma piuttosto di cambiare campo di
gioco, in cerca di uno che ci semplifichi la vita invece di complicarcela.
È per
questo che, nonostante io dica sempre che la felicità si può cercare
comodamente anche da casa, viaggiare aiuta molto, quando è fatto in un
determinato modo: alcune cose non si notano stando fermi sempre nello stesso
posto.
L’ho
sempre pensato, in fondo:
Lo
scopo ultimo del viaggio non è viaggiare, ma trovare il posto in cui fermarsi.
Un
posto felice, magari.
Se la
mobilità sostenibile
prende
una direzione sbagliata.
Lavoce.info
– Carlo Stagnaro – (12-5-2021) – ci dice:
INFRASTRUTTURE
E TRASPORTI.
Il “Pnrr”
affronta la questione della mobilità sostenibile all’interno delle missioni dedicate
alla transizione
ecologica e alle infrastrutture. Lo fa senza un criterio chiaro sulle scelte di
destinazione dei fondi.
E con un approccio troppo centralizzato.
Come
decarbonizzare i trasporti.
I
trasporti producono circa il 30 per cento delle emissioni climalteranti
derivanti da usi energetici nel nostro paese.
Nessuna strategia di mitigazione del
cambiamento climatico può dunque prescindere da una sostanziale decarbonizzazione
del settore.
Ma
come?
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza affronta la mobilità sostenibile
all’interno delle missioni dedicate alla transizione ecologica e alle
infrastrutture, e lo fa con due tipologie di interventi:
quelli
finalizzati a decarbonizzare il trasporto privato e quelli dedicati a trasferire i trasporti dal mezzo individuale a
quello collettivo (e dalla gomma ad altre modalità).
Del
primo gruppo fanno parte una serie di investimenti sui carburanti alternativi: “idrogeno,
biometano e mobilità elettrica”.
Per quanto riguarda l’idrogeno, il “Pnrr”
destina circa un miliardo di euro al suo utilizzo nei trasporti stradali e
ferroviari, oltre a 500 milioni per incentivarne la produzione (senza specificare attraverso quali
processi).
Allo
sviluppo del biometano andranno quasi due miliardi di euro, mentre 750 milioni
serviranno al potenziamento dell’infrastruttura di ricarica.
In
tutti questi ambiti sono anche previste semplificazioni per rimuovere eventuali
ostacoli burocratici.
In
particolare, per la mobilità elettrica viene annunciata una modifica normativa
per garantire criteri trasparenti, non discriminatori e contendibili per
l’assegnazione degli spazi per le colonnine, come chiesto dall’Antitrust.
Poi ci
sono investimenti il cui obiettivo è spostare traffico dal trasporto
individuale a quello collettivo o da mezzi inquinanti ad altri puliti:
600 milioni per le piste ciclabili; 3,60
miliardi per il trasporto di massa; 3,64 miliardi per rinnovare le flotte di
bus e treni.
Da ultimo, le ferrovie fanno l’asso piglia
tutto, con ben 24,8 miliardi di euro su un totale di 25,1 allocate nella
Missione 3 (il resto, 0,4 miliardi, è destinato all’intermodalità).
Così,
si prevede la realizzazione di linee ad alta velocità, specialmente al Sud.
Non è
detto che questi interventi producano gli effetti sperati.
Per
esempio, uno studio sulle piste ciclabili di Parigi ha trovato che hanno un
modesto impatto positivo sul benessere sociale, ma dal punto di vista
ambientale molto dipende da circostanze locali:
se le
piste ciclabili sottraggono troppo spazio alle carreggiate, possono aumentare
la congestione e ridurre la velocità media del flusso veicolare, con
conseguente aumento delle emissioni.
Anche
per quanto riguarda le ferrovie la situazione è, per usare un eufemismo,
ambigua.
Se la domanda di trasporto ferroviario
raddoppiasse, le emissioni stradali scenderebbero di appena il 5 per cento,
quelle nazionali dell’1,5 per cento, a dispetto delle enormi risorse necessarie
a ottenere tale risultato.
Nel
complesso, insomma, non è chiaro il criterio con cui siano stati allocati i fondi: non c’è (o, almeno, non è resa
esplicita) una
valutazione del costo implicito di abbattimento delle emissioni attraverso le
varie tipologie di investimento.
Qual è la ratio di spendere decine di miliardi
nell’alta velocità e prevedere solo 11 chilometri di nuove metropolitane?
Inoltre,
i due assi di intervento – la decarbonizzazione del trasporto privato e lo spostamento
verso quello collettivo – sono in parte complementari, ma nel lungo termine
alternativi:
più il mezzo individuale diventa sostenibile,
meno è forte l’esigenza di trasferire persone e merci dalla gomma al ferro (almeno dal punto di vista
ambientale).
L’apparente
contraddizione viene esacerbata dalla distribuzione delle risorse con scelte
top-down:
si
rischia di sovra-incentivare talune tecnologie e se ne spiazzano altre
(potenzialmente migliori).
Da
questo punto di vista, sorprende l’assenza dei biocarburanti (tranne il biometano), che possono contribuire – e già
contribuiscono – a ridurre sensibilmente le emissioni dei veicoli al motore e
rappresentano, con l’idrogeno, l’unica alternativa per gli aerei.
Coerentemente
con questo approccio centralizzato, la mobilità sostenibile viene interamente
vista dal lato dell’offerta, ignorando possibili interventi e riforme dal lato
della domanda.
Sarebbe
interessante, per esempio, esplorare politiche di altro tipo, come le “congestion charge”, per fluidificare il traffico
urbano, anche sulla scorta delle tante esperienze positive.
Tra
l’altro, abbiamo un importante precedente proprio in Italia: l’esperienza
milanese dell’Ecopass prima e dell’Area C poi.
L’imposizione
di un prezzo d’ingresso nelle ore di punta ha prodotto una riduzione delle
emissioni e un incremento dell’uso delle modalità di trasporto alternative, tra
cui la bicicletta.
In
sintesi, il “Pnrr” può essere descritto come il tentativo di trovare un
equilibrio tra finanziamenti e riforme:
la
mobilità sostenibile è fortemente sbilanciata sui primi.
Angiolino
Maule a “Vi.Na.Ri”.:
“Il
vino naturale senza
controlli
non sono credibili”
intravino.com - Nicola Cereda – (27/02/2023) – ci
dice:
Nel
movimento del vino naturale convivono da sempre due anime apparentemente
inconciliabili.
Da una
parte c’è lo spirito squisitamente anarchico immortalato da “Jonathan Nossiter “in
“Resistenza naturale”, dall’altra il pragmatismo tutto organizzazione, regole e
controlli ben rappresentato da” Angiolino Maule”.
Io
sarei per sposare la causa sessantottino-insurrezionalista non fosse che, come
sentenzia con cinismo nichilista “Larry David “nello strepitoso monologo
iniziale di “Basta che funzioni”, tutte le grandi idee si basano su un
presupposto errato, ovvero che l’essere umano sia fondamentalmente buono.
Un
pomeriggio a “Vi.Na.Ri”., l’evento sul vino naturale organizzato a Milano da”
VinNatur” e” Vi.Te”. per la prima volta insieme, mi ha permesso di avvicinare
proprio Angiolino Maule, presidente di “VinNatur”, con il preciso obiettivo di
estorcergli a forza qualcuna delle sue sentenze che non fanno prigionieri.
Non è
stato necessario.
“Vi.Na.Ri”.
“VinNatur”
è ancora sotto il giogo della tua tirannide?
All’inizio
era davvero così, ma l’ho sempre detto pubblicamente e motivato a chiare
lettere.
L’associazione è ormai ben strutturata e
procede con le proprie gambe.
Nel consiglio direttivo possono mettermi in
minoranza quando vogliono (ride).
È già
capitato in un paio di occasioni, come ad esempio al momento dell’approvazione
del disciplinare di produzione.
Quali
sono gli obiettivi a breve termine?
Produrre
buon vino,
limitando
sempre di più l’uso di rame e zolfo, migliorando la vitalità dei suoli,
incentivando la pulizia e la riduzione dei difetti provenienti da gestioni poco
accurate della cantina.
È ciò
a cui si lavora quotidianamente assieme ai produttori associati, organizzando
incontri, webinar formativi e di aggiornamento con professionisti di
viticoltura ed enologia naturale.
“VinNatur”
non è solo fiere, anzi, occasioni come queste sono solo la punta dell’iceberg.
Chi
sono i nemici del vino naturale oggi?
Non ho
nessun interesse a condurre una battaglia contro la grande industria.
Per paradosso i nostri nemici, oggi, sono i
furbetti del naturale che si stanno riciclando.
Produttori
espulsi dalle associazioni e i naturali dell’ultim’ora che si propongono al
pubblico senza sottoporsi ad alcun controllo o certificazione, sfruttando il
momento storico favorevole.
Non vorrei ritrovarmeli di fronte come
interlocutori in qualche contesto.
A proposito,
come procede il dialogo con le altre associazioni?
Ci
vuol poco a mettersi al tavolo e scrivere un manifesto comune.
Il
problema fondamentale riguarda i controlli.
Senza
controlli nessun disciplinare può essere credibile.
Come diceva quella pubblicità?
La
potenza è nulla senza controllo! (ride)
Vanno messi i paletti sulle questioni
imprescindibili.
Con “ViniVeri” sono stati fatti due incontri
(assieme a” Vi.Te”.) senza trovare purtroppo un punto di incontro, almeno per
il momento.
Con “Vi.Te.”
stiamo andando avanti e già il fatto di essere riusciti a fare le analisi dei
pesticidi a tutti i partecipanti ed organizzare questo evento è molto positivo.
Sono ottimista.
E le
sfide più a lungo termine?
Ovunque
vada, dall’Europa, agli Stati Uniti fino al Giappone, questi vini li chiamano
naturali, quindi c’è un’identità di fondo condivisa.
I vini naturali oggi sono buoni ed affidabili
ma devono ambire a diventare qualcosa di più della copia carbone dei
convenzionali.
L’aspirazione
del vignaiolo dovrebbe essere quella di creare vini in grado di emozionare.
Una volta in una conferenza mi hanno chiesto
cos’è un’emozione.
Ti insegna qualcuno a emozionarti davanti a un
tramonto o a un prato in fiore?
Mi
piacerebbe che il vino naturale fosse in grado di regalare alle persone quel
genere di sensazione.
Intanto
mi versa due differenti “Sassaia 2006 “(sì, stessa annata) prodotti CON e SENZA
solfiti aggiunti.
Al
banchetto si scatena il dibattito.
A mio
parere la versione solfitata ha dalla sua un profilo olfattivo più definito e
piacevole, mentre quella senza SO2 si rivela al palato più sfaccettata e originale,
come se al vino fosse stata concessa la possibilità di uscire dai binari senza
mai deragliare.
Azzardo
una battuta che non va a segno:
“comunque…sass…omigliano”.
Solfiti o meno, la cosa davvero sorprendente è che un
vino bianco venduto a suo tempo a 4-5 euro sia qui oggi, 17 anni dopo la
vendemmia, a suscitare meraviglia.
“Era il mio principale obiettivo” rivendica
Angiolino con orgoglio.
Il
pomeriggio è poi proseguito con gradevoli assaggi assortiti.
Ecco i
miei favoriti saltando di palo in frasca tra i 150 banchetti schierati dalle
due associazioni.
Valpolicella
Superiore Podere Castagnè 2018, Camerani.
Marinella
Camerani è il motore di Corte Sant’Alda, cantina che di recente ha acquisito
due nuovi appezzamenti per dare vita a tre separate linee di prodotti
rinnovando anche il marchio aziendale.
Podere
Castagnè è il frutto della prima vendemmia da una vigna di soli 6 anni piantata
dove una volta c’era un pascolo.
Peccato per il pascolo, forse, ma il risultato
nel bicchiere è di una levità, una leggibilità, un fascino davvero
straordinari.
Chi ha
detto che un grande vino viene sempre e solo da viti vecchie?
Top assoluto di giornata.
Chimbanta
2020 Romangia IGT, Tenute Dettori.
Da uve
“monica” in purezza, è un trionfo di frutta rossa e aromi di macchia
mediterranea disciolti in 18 gradi alcolici senza che l’equilibrio generale
abbia a risentirne.
È vero che certi vini sembrano fatti apposta
per strappare applausi in degustazione per poi faticare a tavola, ma qui si
sente il profumo del miracolo. Dedicato a chi afferma che i lieviti indigeni
oltre una certa soglia non siano in grado di completare a dovere la
fermentazione alcolica.
Foglia
Tonda IGT Toscana Rosso 2018, Podere Casaccia.
Un
vino a base di foglia tonda, uva a bacca rossa autoctona del Chianti, non
l’avevo ancora provato.
Roberto
Moretti è uno degli artefici della riscoperta di questo antico vitigno che
sembrava destinato all’estinzione.
Sorso profondo, vellutato e goloso, con un’identità
molto spiccata.
Patrimonio
da preservare.
T.N.76
Weissburgunder, Thomas Niedermayr.
Thomas
sfoggia un catalogo di vini impeccabili da vitigni “Piwi”, eppure il suo
fuoriclasse resta il pinot bianco del quale, nel trambusto da fiera, dimentico
di annotare l’annata.
Non importa, tutta la produzione è di livello
superiore e soprattutto costante di vendemmia in vendemmia.
Una
garanzia.
Malbec
2019, Bodega Stella Crinita – Mendoza (Argentina).
Menzione
speciale per questa piccola cantina della semidesertica Valle de Uco (nuova
frontiera del vino argentino) e a suoi vini (da vigne situate a 1.100 metri
d’altezza) tutti di ottima qualità, a partire dai gioiosi pet-nat (con
sboccatura) fino ai più seriosi Malbec (il mio preferito del lotto), Cabernet
Franc e Petit Verdot, fermentati in uova di cemento e invariabilmente prodotti
senza solfiti.
È un
sollievo scoprire che a Mendoza non esistano solo i colossi che monopolizzano
il mercato.
Garganega
Veneto IGT Taibane 2018, La Biancara.
Vino
da vendemmia tardiva prodotto esclusivamente nelle annate fortunate. Miele e
fiori al naso, ricco e complesso in bocca ma completamente secco e con un’anima
minerale che, secondo l’autorevole parere del vignaiolo, è ancora in piena fase
di sviluppo.
Insomma,
chi lo fa l’aspetta; a me piace già adesso, così com’è.
Alto
Mincio IGP Garganega Frizzante 2020, Josef.
Cedro,
pompelmo e tanto sale sostenuti da una bollicina finissima e persistente. Altro
giro, altra garganega (con un piccolo saldo di tocai) stavolta frizzante, da
500 piante centenarie (anno di impianto 1922) radicate nella zona sfigata del
Garda.
Dico
sfigata in quanto le colline moreniche dell’alto mantovano, a sud del grande
lago, vengono sistematicamente snobbate ed è un vero peccato, almeno a
giudicare da questa rifermentazione in bottiglia che Luca Francesconi riesce a
rendere migliore anno dopo anno.
Un vino vivo ed elettrico, tutt’altro che
semplice, da servire fresco e non freddo per poterne apprezzare tutta la
ricchezza organolettica.
E se avrete la pazienza di attenderlo ancora
qualche anno in bottiglia, troverete un tesoro.
Vin
Santo di Gambellara Vin de Granaro 2015 Menti Giovanni.
A
proposito di emozioni forti, quello di Stefano Menti è tra i migliori vini
dolci per comuni mortali che mi sia capitato di incontrare nel bicchiere.
Da uve
garganega appassite 6 mesi con l’antico sistema vicentino detto “picaio” e
fatte fermentare in caratelli posizionati nella soffitta dell’edifico
settecentesco dove ha sede la cantina.
Il
dolcissimo, denso, scuro, caleidoscopico nettare che confluisce in poche
bottiglie da 37cl è tutto ciò che resta dopo 7 anni di forti escursioni
termiche, ossidazione e concentrazione per evaporazione.
Provare
per credere.
Una considerazione
in chiusura.
Si
stima che il vino naturale rappresenti l’uno percento circa del mercato
globale.
Il termine, sebbene inadeguato e
giuridicamente non consentito, fa comunque ormai parte del linguaggio comune
(vedi wikipedia in italiano, francese, inglese, spagnolo…).
L’associazionismo ha avuto il merito di
favorire la nascita e il consolidamento di uno zoccolo duro di produttori molto
attivi nella promozione all’interno della specifica nicchia di mercato, ma è
anche responsabile dell’attuale frazionamento delle forze in campo.
Fare
fronte comune è possibile e porterebbe vantaggi all’intera filiera.
Affinché
questo accada è necessario che tutte le associazioni facciano un passo decisivo
nella stessa direzione.
Il messaggio di “VinNatur” è molto chiaro:
ognuno
insegua il proprio sogno e persegua la propria filosofia ma in un contesto
condiviso e trasparente di regole e controlli per spazzare via sospetti e ogni
forma di ambiguità.
Ne va
della credibilità dell’intero settore.
(Non
sanno ancora cosa li aspetta dalla UE! N.D.R.)
Indonesia:
Popolo Incontattato
a
Rischio per la Produzione di
Batterie
per Auto Elettriche.
Conoscenzealconfine.it
– (13 Aprile 2023) – Redazione – ci dice:
Tesla
è collegata a un enorme programma di estrazione di nichel insieme ad aziende
francesi e tedesche che sta mettendo a rischio la sopravvivenza degli indigeni.
In
Indonesia, un imponente progetto di estrazione di nichel sull’isola di
Halmahera rischia di spazzar via un popolo incontattato.
Il
progetto fa parte di un più ampio programma del governo indonesiano che mira a
diventare un importante produttore di batterie per auto elettriche, proprio
grazie all’estrazione e alla fusione di nichel e di altri minerali:
un
piano in cui compagnie internazionali come Tesla stanno già investendo miliardi
di dollari.
Ma
l’estrazione di nichel sull’isola di Halmahera è destinata a distruggere vaste aree forestali abitate da circa
300-500 membri incontattati del popolo Hongana Manyawa.
Se le
attività minerarie dovessero proseguire come previsto, non sopravviveranno.
Come
si apprende sul sito di “Survival”, gli Hongana Manyawa – nome che nella loro
lingua significa “popolo della foresta” – sono uno degli ultimi popoli di cacciatori-raccoglitori
nomadi dell’Indonesia.
Oggi
rischiano di vedere la loro terra, e tutto ciò di cui hanno bisogno per
sopravvivere, distrutto da multinazionali che si affannano per fornire uno
stile di vita apparentemente “sostenibile” a persone lontane migliaia di
chilometri.
“È
scioccante che le aziende che producono auto elettriche vendano ai clienti la
promessa di un ‘consumo etico’ mentre la loro filiera di approvvigionamento distrugge un
popolo incontattato“ha dichiarato la Direttrice generale di “Survival
International”, Caroline Pearce.
“Non c’è ‘rispetto del clima’ nel devastare la foresta degli
Hongana Manyawa, e niente di ‘sostenibile’ nel causare la morte di indigeni che
vivono in modo autosufficiente.”
Secondo
la legge internazionale, queste attività minerarie sono illegali perché i popoli incontattati non
possono dare il loro Consenso Libero, Previo e Informato, allo sfruttamento
della loro terra – un requisito legalmente necessario per tutte le attività di
‘sviluppo’ nelle terre indigene.
(dolcevitaonline.it/indonesia-popolo-incontattato-a-rischio/)
CHE
COS’È LA TRASPARENZA AZIENDALE?
Sistemieconsulenze.it
– Redazione – (13-3-2023) – ci dice:
Perché
la trasparenza è importante per la sicurezza e qualità degli alimenti?
La
trasparenza aziendale è la capacità in cui l’operato di una organizzazione
venga reso disponibile e valutabile dall’esterno.
Il
valore relativo alla qualità percepita dagli “stakeholder” rispetto ad
informazioni rese fruibili volontariamente dall’azienda.
Perché
la trasparenza aziendale è importante per la sicurezza e qualità degli
alimenti.
Da non
confondere con comunicazione.
La
comunicazione, al contrario della trasparenza, è una attività che ha uno scopo
ben preciso, e per la quale sono stati definiti degli obiettivi.
Facendo
un esempio semplice, potremmo considerare la differenza da ciò che si vede
nella vetrina di un negozio, rispetto a quello di cui ci parla il commesso,
nell’intento di farci acquistare.
La
trasparenza aziendale, senza ostentazione, è un modo molto utile per
fidelizzare i clienti a lungo termine.
Portare
avanti politiche di trasparenza nella tua organizzazione, evidenzierà
l’apertura nei confronti degli stakeholder.
La
trasparenza è molto importante per la sicurezza e qualità degli alimenti,
perché permetterà ai consumatori di ‘leggere’ la tua realtà, permettendogli
scelte consapevoli rispetto ai propri gusti e necessità.
Perché
c’è bisogno di trasparenza aziendale?
Perché
permettere di leggere la propria azienda, è alla base del saper diffondere
sicurezza del proprio operato.
Potremmo
quasi dire che è un primo passo per poter assicurare la qualità.
È un principio
che cozza con la fantomatica compartimentazione obsoleta, che molti continuano
a perpetuare, convinti che vengano rubati segreti.
O
forse, e spesso il motivo è questo, non vogliono far vedere i pastrocchi
aziendali.
Ti
fideresti di un’azienda che non condivide nessuna informazione, perché si
nasconde dietro a privacy e proprietà industriale?
Poi
sui social…. Non comprendo neppure che cosa ci facciano sul mercato aziende
così.
Allo
stato odierno il consumatore si pone delle domande.
È consapevole, perché bombardato, a volte
negativamente, da notizie su ambiente, sicurezza dei prodotti, benessere
animale, sostenibilità, luoghi comuni.
L’acquisto
passa da una sensazione di fiducia, promossa nei confronti di un’azienda, che
per esempio dimostra i propri impegni ambientali, con tanto di risultati, e non
si ferma ad esporre il raggiungimento di una certificazione ambientale, senza
mettere sul piatto il campo di applicazione.
Siamo
nell’era delle informazioni, e dopo due decenni di slogan, adesso il
consumatore esige evidenze.
Vuol essere informato e si informa.
Ha
bisogno quindi di informazioni, che devono essere date nel modo più trasparente
possibile senza nessuna invenzione.
Il
fattore della trasparenza va a braccetto con l’etica aziendale, si narra, sia
una delle novità che l’ente di normazione” ISO,” introdurrà nei requisiti della
futura “ISO 9001”, non a caso il sistema di gestione che ha come focus la
soddisfazione del cliente.
I
vantaggi della trasparenza per la tua azienda
I vantaggi
di adottare politiche basate sulla trasparenza aziendale nella tua
organizzazione, possono essere riassunte il:
Crea
un senso di coinvolgimento e sicurezza nella comunità;
Crea
un flusso di comunicazioni innovative con il cliente;
Aiuta
a definire le aspettative realistiche dei clienti;
Permette
una gestione ed un coinvolgimento migliore di tutte le risorse aziendali.
Quanto
è importante la trasparenza nel settore alimentare?
I
consumatori non hanno mai avuto accesso a così tante informazioni.
Per questo è fondamentale creare un sistema
trasparente che assicuri al consumatore la sicurezza, qualità e legalità,
dell’alimento che sta per acquistare.
Per
esempio prima bastava un Made in Italy, ed il consumatore era rassicurato che
stava consumando un alimento italiano.
Oggi ha compreso, che invece, l’alimento è solamente
prodotto in Italia, ma che le materie prime possono provenire da una
moltitudine di zone del globo.
Questa
è trasparenza? NO.
Siamo
chiari, la legge lo permette, e perché le materie prime possano provenire da
paesi terzi, non vuol dire che sia un cattivo prodotto.
Ma il
consumatore si sente preso in giro, e va oltre.
Risultato
l’azienda perde clienti.
Un
buon processo di trasparenza sulla filiera, invece è quella che viene implementato
grazie alla norma” ISO 22005”.
I sistemi di gestione per la tracciabilità di
filiera, infatti permettono, e possono mettere a disposizione dei clienti, le
informazioni sulla la provenienza dal campo alla tavola di tutte le materie
prime impiegate nell’alimento acquistato.
Vantaggi
della trasparenza nella catena di approvvigionamento.
La
trasparenza nella catena di approvvigionamento è composta di vari principi,
onestà, apertura, saper raccontare.
Principi
che se ben applicati permetteranno una importante fidelizzazione con i
consumatori.
Vediamo
di seguito i fattori che guidano il consumatore a scegliere un’azienda
alimentare che promuove la propria trasparenza aziendale:
Qualità. Un fattore importante che abbiamo
approfondito in questo articolo. Far conoscere che cosa sia la qualità e utilizzare
slogan;
Sostenibilità. Non solo quella ambientale,
importantissima, fanno ridere quelle politiche che si spacciano per
sostenibili, poi sfruttano flotte di navi per approvvigionarsi di materie prime
dall’altro capo del mondo.
Importante
è anche quella sociale ed economica, rispetto dei salari minimi, parità di
diritti, contro gli sfruttamenti.
Ed
alla comunità;
Spreco
alimentare. Comunicare che cosa faccia l’azienda, riciclo, riuso, rilavorazione,
politiche e progetti contro gli sprechi alimentari.
Grave
piaga globale;
Sicurezza. Mangia buono, mangia sano, mangia
sempre italiano. Slogan da politicanti, ma un alimento perché è sicuro?
Quali
informazioni devo fornire al cliente, in meri alla sicurezza alimentare ed alla
tracciabilità del prodotto?
Informazioni
nutrizionali.
Ci
sono molte diete, alcune che fanno fede a mode, altre a piani alimentari
definiti rispetto a patologie o a prevenzione.
Che meritano il rispetto dei requisiti di
etichettatura.
Trasparenza
aziendale: conclusioni
Ogni
qual volta ti rovini un concetto, se ne conia un altro, speriamo che in merito
alla trasparenza aziendale ci sia più attenzione.
Qua
non si tratta di saper raccontare la storia, fregando i consumatori. Qua si
tratta di dar modo di leggere la propria azienda, ed intenti, al consumatore.
Cosa
ben diversa.
Come
sempre, è bene ricordare, che quando si comunica un qualcosa, se ne devono
avere le evidenze e non le chiacchiere da banco del bar.
Un
processo che dovrà essere studiato, importante come ogni altro e spesso molto
di ogni altro.
Da
affidare a figure competenti, che valutino ed analizzino, e non che cerchino
scorciatoie facili, perché se un domani qualcuno rispetterà la tua azienda, non
sarà di certo per slogan, o per campagne fuffa o visibilità acquistata.
Ma per
il rispetto e la fidelizzazione che avrà nei confronti della tua azienda e dei
tuoi prodotti.
Ambiente
in genere.
L’inserimento
dell’ambiente in
Costituzione
non è né inutile né pericoloso
Lexambiente.it - Gianfranco AMENDOLA – (04 Marzo 2022)
– ci dice:
Come è
noto, dottrina e giurisprudenza hanno dibattuto a lungo la delicata
problematica relativa alla assenza della tutela dell’ambiente nella nostra
Costituzione, cui, con una intelligente e travagliata elaborazione, aveva
tentato di porre rimedio la Corte Costituzionale attraverso la lettura
congiunta degli artt. 9 (paesaggio) e 32 (salute).
Pochi giorni fa, tuttavia, dopo un laborioso
iter parlamentare, con una votazione praticamente unanime, la tutela
dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi sono state inserite nella
Carta attraverso la modifica degli artt. 9 e 41.
Stupisce,
tuttavia, che una riforma costituzionale di tale rilevanza sia passata quasi
sotto silenzio e, pertanto, appare opportuno evidenziarne subito alcuni aspetti
particolarmente significativi, anche per tentare sommessamente di rispondere
alle critiche che, da più parti, sono state formulate nei suoi confronti, a
volte ancor prima che questa importante riforma giungesse a compimento.
Sommario:
1. Premessa - 2. Ambiente e Costituzione prima della modifica. - 3. In
particolare, il valore-ambiente nella giurisprudenza costituzionale. - 4. La
riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione - 5. Ambiente e paesaggio - 6.
Conclusioni.
1.
Premessa.
Come è
noto, dottrina e giurisprudenza hanno dibattuto a lungo la delicata
problematica relativa alla assenza della tutela dell’ambiente nella nostra
Costituzione, cui, con una intelligente e travagliata elaborazione durata
decenni, aveva tentato di porre rimedio la Corte Costituzionale attraverso la
lettura congiunta degli artt. 9 (paesaggio) e 32 (salute). Pochi giorni fa,
tuttavia, con una votazione praticamente unanime, dopo un laborioso iter
parlamentare che ha accorpato diversi disegni di legge costituzionale ed ha
proceduto, nelle commissioni competenti, alla audizione di numerosi esperti, la tutela dell’ambiente, della
biodiversità e degli ecosistemi sono state inserite nella Carta attraverso la
modifica degli artt. 9 e 41.
Resta
solo da ricordare, in premessa, che, in realtà, come è noto, l’inserimento
dell’ambiente in Costituzione era già formalmente avvenuto, anche se
indirettamente, nel 2001 con la riscrittura dell’art. 117, ove compare per la
prima volta “ la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ma solo per sancire che si tratta
di materia soggetta a legislazione esclusiva dello Stato unitamente alla
potestà legislativa concorrente delle Regioni per la valorizzazione dei beni
culturali ed ambientali.
Senza,
quindi, conferire in alcun modo all’ambiente quella tutela costituzionale
giunta solo oggi con la modifica in esame.
2.
Ambiente e Costituzione prima della modifica.
In
realtà, tuttavia, come si è accennato, attraverso un lungo processo di
elaborazione, la tutela costituzionale dell’ambiente era stata affermata dalla
Corte costituzionale leggendo congiuntamente l’art. 9 (tutela del paesaggio),
rispetto al quale la Corte accoglieva «l’interpretazione data da Predieri del
paesaggio come l’«ambiente naturale modificato dall’uomo» (Corte cost. n. 94
del 1985 e n. 151 del 1986)»; e l’art. 32 (diritto alla salute) «il quale ha
permesso, dapprima alla Cassazione civile, poi alla stessa Corte costituzionale
di affermare il diritto all’ambiente salubre (Cass. S.U. 6.10.1979, n. 5172;
Corte cost. n. 167 del 1987)».
Basta
ricordare, a questo proposito, che già nel 1987 (sent. n. 210) la Corte si
sforzava «di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell'ambiente
come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della
collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione»;
modellandola, quindi, sul diritto alla salute
, e concludendo che «trattasi di valori che in sostanza la Costituzione prevede e
garantisce (artt. 9 e 32 Cost.), alla stregua dei quali, le norme di previsione
abbisognano di una sempre più moderna interpretazione »;
conclusione
ribadita dopo la riforma del 2001, tra le altre, con sentenza n. 536/2002,
secondo cui «già prima della riforma del titolo V della parte seconda della
Costituzione, la protezione dell’ambiente aveva assunto una propria autonoma
consistenza … configurandosi l’ambiente come bene unitario, che può risultare
compromesso anche da interventi minori e che va pertanto salvaguardato nella
sua interezza.
La
natura di valore trasversale, idoneo ad incidere anche su materie di competenza
di altri enti nella forma degli standards minimi di tutela, già ricavabile
dagli artt. 9 e 32 della Costituzione, trova ora conferma nella previsione
contenuta nella lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione,
che affida allo Stato il compito di garantire la tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema»;
ricordando,
infine, più di recente (sentenza n. 126 del 2016), che «è noto che, sebbene il testo
originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né
disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, questa Corte con numerose
sentenze aveva riconosciuto (sentenza n. 247 del 1974) la preminente rilevanza
accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32)
e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma),
quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987)».
3. In
particolare, il valore-ambiente nella giurisprudenza costituzionale.
Giova,
a questo punto, soffermarsi brevemente sul significato che la giurisprudenza
della Corte ha attribuito al termine” ambiente” nel riconoscergli tutela
costituzionale.
Come già si intuisce dalle citazioni
precedenti, infatti, per la Corte occorre far capo ad «una concezione unitaria
del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso
comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle
condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue
componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e
marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato
naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni»
(sentenza n. 210 del 1987, cit.).
Più in
particolare, quindi, «l’ambiente è protetto come elemento determinativo della
qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità
naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel
quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa,
ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da
precetti costituzionali (artt. 9 e 32 della Costituzione) per cui essa assurge
a valore primario ed assoluto» (sentenza n. 641 del 1987).
E
peraltro, «come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, la
biosfera viene presa in considerazione non solo per le sue varie componenti, ma
anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità,
la circolazione dei loro elementi, e così via.
Occorre, in altri termini, guardare
all'ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale
realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto» (sentenza
n. 378 del 2007), tenendo conto che nella tutela dell’ambiente esiste «un
contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene,
l'ambiente (sentenze n. 367 e n. 378 del 2007; n. 12 del 2009), e finalistico,
perché tende alla migliore conservazione del bene stesso (vedi sentenze n. 104
del 2008; n. 10, n. 30 e n. 220 del 2009)» (sentenza n. 225 del 2009).
In
sostanza, quindi, prima della riforma odierna, la Corte costituzionale aveva
riconosciuto l’ambiente come «bene immateriale» e «valore costituzionale
primario e assoluto» di tipo trasversale, comprensivo di tutte le risorse
naturali e culturali con incidenza diretta sulla qualità della vita dell’uomo.
4. La
riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione.
È
pertanto in questo quadro sommariamente delineato che va letta la riforma degli
artt. 9 e 41 di cui riportiamo il testo attuale (le modifiche in maiuscolo)
insieme all’art. 32 (rimasto invariato):
art. 9.
La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica
Tutela
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
TUTELA
L’AMBIENTE, LA BIODIVERSITÀ E GLI ECOSISTEMI, ANCHE NELL’INTERESSE DELLE FUTURE
GENERAZIONI.
LA
LEGGE DELLO STATO DISCIPLINA I MODI E LE FORME DI TUTELA DEGLI ANIMALI.
art.
41.
L’iniziativa
economica privata è libera.
Non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ALLA SALUTE E ALL’AMBIENTE.
La
legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali E
AMBIENTALI.
art.
32.
La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge.
La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Già a
caldo, sotto il profilo letterale, alcune osservazioni appaiono di tutta
evidenza:
1) la
tutela dell’ambiente viene equiparata alla tutela del paesaggio e del
patrimonio storico ed artistico della nazione;
2)
insieme, ed accomunate alla tutela dell’ambiente, compaiono anche la tutela della
biodiversità e quella degli ecosistemi;
3)
queste tre nuove tutele sono qualificate dal richiamo (anche) all’interesse
delle future generazioni;
4)
aumentano i limiti alla libertà dell’iniziativa economica privata, che non solo
non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ma
(ora) neanche alla salute e all’ambiente;
5) in
più, per l’attività economica pubblica e privata, si aggiunge che la legge deve
indirizzarla e coordinarla a fini non solo sociali ma anche ambientali;
6) contestualmente
si sancisce anche la tutela degli animali senza, però, attribuirle diretta
rilevanza costituzionale ma rinviandone l’attuazione alla legge ordinaria.
Il
primo interrogativo che si presenta attiene, ovviamente, alla portata di questa
modifica, contro cui, ancor prima della sua approvazione, si erano levate
diverse voci per sostenerne la inutilità (se non, come vedremo, la
pericolosità) visto che, per merito della giurisprudenza sopra citata, la tutela dell’ambiente era, di
fatto, già esistente in Costituzione.
Diciamo
subito, a questo proposito, che, in ogni caso, la trasformazione di una
condivisibile acquisizione giurisprudenziale in legge non può che essere vista
con favore, dato che elimina ogni dubbio anche in vista di possibili oscillazioni
giurisprudenziali. In più, anche a livello formale, vista la rilevanza della
questione ambientale per la nostra stessa esistenza, è necessario e doveroso far risultare
con chiarezza che la nostra Costituzione tutela direttamente l’ambiente, la
biodiversità e gli ecosistemi come valori a sé senza doverli ricavare in via
interpretativa da altri valori e diritti costituzionali.
Ciò
premesso, per comprendere a pieno la portata innovativa di queste modifiche,
occorre leggerle e considerarle non separatamente ma nel loro insieme.
Se,
infatti, è certamente vero che la tutela della biodiversità e degli ecosistemi
deve intendersi ricompresa nella tutela dell’ambiente, è altrettanto vero che
aver elencato insieme la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli
ecosistemi, accomunandole tutte attraverso il richiamo (anche) all’interesse
delle future generazioni fornisce dell’ambiente un quadro complessivo di ampio
respiro sociale e politico che racchiude in sé sia l’elemento naturalistico
(con particolare riferimento alla biodiversità ed agli ecosistemi) sia tutti
gli altri elementi che, direttamente o indirettamente, sia oggi sia per il
futuro, possono incidere sulla vita e sulla qualità della vita dell’uomo.
In tal
modo, quindi, non solo si confermano le migliori conclusioni della
giurisprudenza costituzionale ma si inserisce la novità del richiamo
all’interesse delle future generazioni, altamente qualificante al fine di
interpretare nel suo giusto valore l’ambito di applicazione di tutta la riforma.
Peraltro,
a proposito dell’art. 41, la lettura complessiva delle modifiche apportate alla
Costituzione porta a ritenere che esse, in sostanza, hanno anche introdotto il
cd. principio dello “sviluppo sostenibile”, oggi tanto di moda (pare che ormai
sia tutto “sostenibile”), chiarendo opportunamente che, poiché l’attività
economica deve essere indirizzata e coordinata dalla legge “a fini sociali e
ambientali” (e cioè, ex art. 9 novellato, tenendo conto anche dell’interesse
delle future generazioni), la “sostenibilità” deve essere valutata e perseguita
con riferimento alla tutela dell’ambiente e della collettività nel suo
complesso e con un occhio al futuro, e non, come spesso si intende, alle
esigenze dell’economia e del profitto immediato.
5.
Ambiente e paesaggio.
È,
pertanto, sulla base di queste considerazioni che deve essere affrontato il
difficile rapporto tra ambiente e paesaggio.
Abbiamo,
visto, infatti che la tutela del paesaggio sancita dall’art. 9 (unitamente
all’art. 32) è stato il fulcro su cui si è basata la giurisprudenza per
pervenire alla tutela dell’ambiente;
allargando,
a tal fine, l’ambito del “paesaggio”, non più considerato solo come un valore
estetico ma facendolo coincidere «con quello di habitat e con la tutela degli
interessi ecologici e degli equilibri ambientali (sentt. nn. 302 e 356/1994), e
dunque con la tutela ambientale nel suo complesso … comprensiva tanto
dell'ambiente naturale che di quello antropizzato ...».
Adesso,
tuttavia, la tutela dell’ambiente viene formalmente separata da quella del
paesaggio che deve, quindi, ritenersi limitata al solo “aspetto visivo”
relativo alla “morfologia del territorio” (sentenza n. 367 del 2007).
Proprio
per questo “sdoppiamento”, ben prima che questa modifica costituzionale
diventasse definitiva, si sono levate diverse voci preoccupate del possibile
contrasto tra ambiente e paesaggio in quanto «si profila con ogni serietà il
rischio che la modifica costituzionale possa provocare, quale suo immediato
effetto tangibile, quello di subordinare la tutela paesaggistica alla
straripante diffusione degli impianti industriali di produzione di energia da
fonti rinnovabili».
E
pertanto, specie in considerazione delle esigenze di far fronte alla mutazione
climatica, il diritto all’ambiente potrebbe trasformarsi, a fini di
speculazione economica, in «un nuovo “interesse tiranno”, capace di facilmente
travolgere la tutela paesaggistica», finendo per «veicolare senza remore la
trasformazione industriale dei paesaggi agrari e appenninici del Paese» attraverso
il massiccio collocamento di pale eoliche e sconfinate distese di pannelli
fotovoltaici.
Trattasi,
certamente, di preoccupazione legittima visto lo scempio e gli ecomostri che,
nonostante l’art. 9, la speculazione edilizia ha sovente generato in alcune
delle più belle località del nostro paese.
Ma
questa riforma non ha eliminato né depotenziato la tutela del paesaggio e,
anzi, a nostro sommesso avviso, se ben applicata ed interpretata, potrebbe
indurre elementi non di preoccupazione ma di cauto ottimismo.
In
primo luogo, infatti, tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente, se pure ora
sono formalmente distinte, hanno pari dignità costituzionale e fanno parte di
uno stesso filone contenuto nell’art. 9 che comprende, come ben evidenziato dalla
Corte, beni immateriali non monetizzabili ma necessari per garantire all’uomo e
alle future generazioni una accettabile qualità della vita .
E,
pertanto, si tratta di tutele che, in sostanza, non si contrappongono ma si
integrano con la differenza che mentre prima, con qualche (benedetta)
forzatura, la tutela dell’ambiente si ricavava da quella del paesaggio adesso,
più propriamente, si tutelano insieme ambiente e paesaggio.
Anzi,
vista la pregressa giurisprudenza della Corte sull’ampiezza dell’ambiente e
visto il richiamo all’ interesse delle future generazioni, si dovrebbe
ritenere, al di là del dato formale, che, in realtà, la tutela dell’ambiente
non può non ricomprendere anche quella del paesaggio.
Osservazione
particolarmente rilevante quando ambiente e paesaggio vengono messi in pericolo
da attività economiche le quali non devono recar danno alla salute e
all’ambiente e devono essere indirizzate e coordinate dalla legge a fini
sociali ed ambientali.
In
altri termini la nuova formulazione degli artt. 9 e 41 porta a concludere che
la tutela dell’ambiente non può essere perseguita a scapito della tutela del
paesaggio e che è compito della legge attuare una programmazione tale da
indirizzare e coordinare tutte le iniziative economiche in modo da “bilanciare”
opportunamente due esigenze di valenza costituzionale formalmente separate ma,
in realtà, attinenti entrambe alla qualità della vita di oggi e delle future
generazioni.
6.
Conclusioni.
Ci
sarà tempo e modo per approfondire l’importanza di questa modifica della
Costituzione, ma, a nostro sommesso avviso, vista la pessima qualità di gran
parte della nostra normativa ambientale, sin da ora si può dire che una lettura
complessiva della riforma alla luce degli importanti risultati cui era giunta
la Corte costituzionale può portare sin da ora a prevedere rilevanti
conseguenze di questa modifica costituzionale rispetto a numerose norme di
legge esistenti troppo spesso più attente alle esigenze dell’economia che a
quelle dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi anche
nell’interesse delle future generazioni; e, pertanto, oggi fondatamente
sospette di illegittimità.
Si
pensi solo, a titolo di esempio, al delitto di disastro ambientale che consiste
(oltre all’offesa per la pubblica incolumità) in un danno rilevante o
irreversibile per l’ambiente e l’ecosistema che sono beni oggi direttamente
tutelati dall’art. 9 della Costituzione e che, tuttavia, viene punito solo se
cagionato “abusivamente”; ipotizzando, quindi, che qualcuno possa attentare a
beni costituzionalmente protetti, agendo non «abusivamente», e, quindi, in modo
legittimo e consentito. In palese contrasto, peraltro, anche con il novellato
art. 41, secondo cui, come abbiamo visto, nessuna iniziativa economica privata
può recare danno alla salute e all’ambiente e, se si tratta di attività
economica pubblica o privata, la legge deve determinare i programmi ed i
controlli per indirizzarla e coordinarla «a fini…ambientali», evitando,
ovviamente, che possa provocare addirittura un disastro ambientale.
Il
cambiamento climatico e
il
futuro della globalizzazione.
Iklsole24ore.com
- Stefan Klebert – (2 febbraio 2023) – ci dice:
Tra i
continui dibattiti sui valori “occidentali” o “cinesi” e le sempre più
complesse politiche globali sul cambiamento climatico, le aziende sono
fondamentali per affermare la lotta contro il cambiamento climatico come valore
globale fondamentale.
Nonostante
i crescenti segnali di divisione dell’economia globale in blocchi politici e le
grandi sfide come l’inflazione, non possiamo commettere l’errore di ignorare il
cambiamento climatico.
A fronte di una politica globale del
cambiamento climatico sempre più complessa, un punto sta diventando sempre più
chiaro:
le aziende giocheranno un ruolo chiave
nell’affermare la lotta al cambiamento climatico come valore globale
fondamentale. La natura imprevedibile dei rischi operativi e di bilancio associati ai
cambiamenti climatici rappresenta un forte incentivo per le aziende ad agire.
Questo
vale per le singole aziende, ma ancora di più per il coordinamento dei loro
sforzi.
La
logica di fondo è semplice:
Quando
le aziende fissano obiettivi ambiziosi per se stesse e contemporaneamente
chiedono un maggiore impegno e trasparenza ai loro fornitori principali, si
crea una pressione per l’azione lungo l’intera catena del valore.
Questa pressione aumenta quando le grandi
aziende agisce da apripista, tracciando un percorso che gli altri dovranno
seguire.
Il
fatto che molte banche e investitori istituzionali riconoscano sempre più il
rischio del cambiamento climatico e stiano modificando i loro processi di
prestito e investimento è un ulteriore evento che spinge all’azione.
Inoltre,
un impegno concreto nella lotta al cambiamento climatico è uno strumento
importante per molte aziende per attrarre e trattenere i talenti.
Sappiamo
anche che abbiamo maggiori possibilità di riuscire a guidare un cambiamento
positivo quando i dipendenti trovano i loro valori personali riflessi in una
missione aziendale.
Il
ruolo centrale delle aziende.
Lo
strumento attraverso il quale le reti di aziende possono affermare che la lotta
al cambiamento climatico è un valore fondamentale nella pratica è quello di
affrontare le cosiddette emissioni “Scope 3”.
Le
emissioni Scope 3 sono generate dai fornitori di un’azienda e dai suoi clienti
durante e dopo la fase di utilizzo dei prodotti.
Raggiungere
l’azzeramento delle emissioni dell’Ambito 3 non sarà un’impresa facile, ma ha
il potenziale per avere un ampio impatto.
Per
ottenere una maggiore chiarezza su dove e come è necessario intervenire, è
necessaria una grande trasparenza reciproca tra le aziende.
Ciò
significa verificare la conformità agli standard di CO2 concordati,
analogamente alle pratiche di revisione dei bilanci.
Per
progredire, le aziende possono richiedere ai fornitori di consentire a
verificatori di fiducia di stabilire una scheda di valutazione della
sostenibilità, di fornire dati per l’analisi del ciclo di vita del prodotto e
di stabilire i propri obiettivi di sostenibilità convalidati da” SBTi”.
Se i
fornitori si rifiutano di collaborare, il loro status di fornitore preferito
può essere riconsiderato o revocato.
Queste
iniziative creeranno forti incentivi anche per quelle aziende che finora hanno
esitato a concentrarsi sulla decarbonizzazione del proprio portafoglio.
Naturalmente,
stabilire e gestire la conformità agli standard di rendicontazione è solo il
primo passo di un lungo percorso.
Ridurre
le emissioni nella pratica è un compito quotidiano che deve essere svolto da tutta
l’azienda.
Mettere
in pratica.
Dato
che le aziende di ingegneria meccanica sono posizionate a monte di molti altri
settori, gran parte delle emissioni associate ai loro prodotti si verificano
durante la fase di utilizzo presso il cliente e oltre.
Ecco
perché il compito di collaborare con i clienti per sviluppare soluzioni
tecniche che rendano i prodotti sempre più efficienti dal punto di vista
energetico e del risparmio delle risorse è così importante per tutte le parti
coinvolte, compresi, in ultima analisi, i consumatori.
L’impegno di un numero sempre maggiore di
aziende in questo processo avrà effetti significativi a livello globale.
Uno
studio condotto da” BCG” e “VDMA” mostra l’impatto che può avere l’industria
meccanica in senso lato.
Secondo questo studio, le tecnologie
sviluppate o in fase di sviluppo potrebbero portare a una riduzione delle
emissioni dell’86% nelle applicazioni industriali.
Di
questi, 37 punti percentuali potrebbero essere raggiunti grazie
all’implementazione di tecnologie che oggi sono tecnologicamente ed
economicamente fattibili.
La parte restante può essere mitigata
attraverso tecnologie tecnologicamente fattibili ma non ancora economicamente
sostenibili, tra cui i combustibili verdi e la cattura del carbonio.
Tutto
questo comporta un lavoro molto impegnativo.
Ma
come ingegnere, so anche che a volte possono essere i piccoli miglioramenti -
da soli o di concerto - a fare la differenza anche nei sistemi più complessi.
Conclusione.
Se da
un lato il settore privato deve intervenire dove può, dall’altro anche i
governi devono svolgere un ruolo sensibile per facilitare questi sforzi.
In un contesto globale, concentrarsi sulla
riduzione delle emissioni e sull’uso efficiente di risorse preziose (pensa
all’acqua, non all’oro) può aiutare a stabilire un ponte valido e basato sui
valori tra le aziende di diverse regioni del mondo.
Se
applichiamo uno spirito di collaborazione e stabiliamo un’adeguata
responsabilità, le capacità di risoluzione dei problemi e la mentalità di
miglioramento continuo del settore privato possono rivelarsi una grande
risorsa.
(Stefan Klebert- CEO di GEA Group,
Düsseldorf).
(…Se
qualcuno vi esorta ad agire in un certo modo per “salvare il pianeta “, non
seguite questa sirena: vi porta alla miseria … Franco Battaglia - la verità del 12 aprile 2023) – N.D.R.
CAMBIAMENTI
CLIMATICI e
Risaldamento
globale.
Wwf.it
– Redazione – (20-1-2023) – ci dice:
Ormai
da decenni la comunità scientifica, anche avvalendosi di modelli matematici
sempre più accurati, ha descritto come il clima del Pianeta stia cambiando in
modo preoccupante e come le responsabilità di questi cambiamenti sia delle
attività umane, a cominciare dall’uso massiccio dei combustibili fossili.
Oggi
siamo di fronte a fenomeni climatici sempre più estremi, frequenti e
devastanti.
Molte
specie stanno tentando di reagire al cambiamento: alcuni uccelli migratori
stanno cambiando periodi di arrivo e di partenza anno dopo anno, le fioriture
stanno anticipando, le specie montane si spingono, finché possono, in alta
quota. Ma tutto questo ha un prezzo.
Ormai
nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima
del Pianeta e sulla nostra responsabilità.
1.5°C.
limite
massimo al riscaldamento del Pianeta per contenere i danni più devastanti
provocati da un innalzamento delle temperature.
55%
Obiettivo
minimo dell’UE di riduzione netta di gas serra entro il 2030, per non superare
la soglia di 1,5°C.
12.85%
è il
tasso del calo del ghiaccio artico per decennio.
OVERVIEW.
L’estate
del 2022 è stata la più calda della storia in Europa. Il mese di luglio ha
fatto registrare 2,26 gradi centigradi in più rispetto alla media italiana dal
1800, anno da cui si registrano i dati.
Le
misurazioni strumentali, la frequenza e la violenza di eventi climatici che
stiamo osservando, i cambiamenti nei comportamenti, nelle abitudini migratorie
e riproduttive di molte specie animali e vegetali lasciano poco spazio a interpretazioni:
la crisi climatica è ormai un dato di fatto.
La
comunità scientifica è ormai unanime nell’indicare le attività umane quali
responsabili della crisi climatica, in particolare a causa dell’aumento dei gas
serra immessi nell’atmosfera.
La concentrazione di gas serra nell’atmosfera
ha raggiunto livelli record:
l’anidride
carbonica è aumentata di quasi il 150% rispetto ai livelli preindustriali, il
metano del 262% e il protossido di azoto del 123% rispetto ai livelli
preindustriali (public.wmo.int/en/our-mandate/climate/wmo-statement-state-of-global-climate).
La
concentrazione della CO2 in atmosfera viene misurata dal “Mauna Loa Center “del
NOAA americano:
nel
maggio 2022 la media era stata di 420,99 parti per milione, una concentrazione
che non si registra da almeno 650 mila anni, ma probabilmente da molto prima.
La
concentrazione di CO2 provoca l’innalzamento globale della temperatura che a
sua volta rende sempre più frequenti fenomeni di inondazioni, siccità, dissesto
idrogeologico, diffusione di malattie, crisi dei sistemi agricoli, crisi idrica
e estinzione di specie animali e vegetali.
Non
possiamo più attendere, dobbiamo invertire la rotta.
COSA
FA IL WWF.
Per
combattere il cambiamento climatico e assicurare un futuro al Pianeta e alle
persone bisogna raggiungere una nuova impostazione dell’economia, sostenibile,
equa e non fondata sul carbonio di origine fossile entro il 2050, in grado di
resistere a quel livello di cambiamento climatico che non siamo più in grado di
evitare.
Per
questo siamo impegnati per raggiungere un nuovo accordo globale a livello
internazionale, efficace, giusto e legalmente vincolante.
Proponiamo
al governo nazionale la promozione di strategie e percorsi con obiettivi e
tappe precise per arrivare all’azzeramento delle emissioni prima della metà del
secolo, costruendo una transizione all’economia del futuro.
Promuoviamo
l’efficienza energetica per ridurre le emissioni di CO2 e la conversione della
produzione energetica verso le fonti energetiche rinnovabili, come l’energia
solare ed eolica.
Proponiamo lo sviluppo di strategie di adattamento
al cambiamento climatico per salvaguardare le persone e gli ecosistemi a
rischio.
(…chi
vi dice che un giorno le auto saranno solo elettriche mente spudoratamente: non
bastano le riserve mondiali di cobalto per avere elettrico solo la metà del
parco-auto della sola Italia…
Franco Battaglia-La Verità del 12 aprile
2023). (N.D.R.)
La
sfida del cambiamento climatico.
Globalizzazione
e Antropocene.
Ombrecorte.it
- Dipesh Chakrabarty – Prefazione Girolamo De Michele – (25-2-2023) – ci dice:
Prefazione:
“Il
concetto di Antropocene, nato all’interno delle scienze naturali, designa
l’epoca nella quale l’essere umano come specie è in condizione di incidere, con
le sue pratiche, sull’ecosistema globale.
Dopo la rivoluzione industriale, e soprattutto la
grande accelerazione del xx secolo e l’intensificazione della
globalizzazione capitalistica ed estrattiva nel secondo dopoguerra, e il
conseguente cambiamento climatico, l’Antropocene costituisce un terreno di intersezione
fra la crisi economico-sociale globale e la crisi climatica.
In
questo campo si collocano le riflessioni dell’ultimo decennio di Dipesh Chakrabarty, già autore del fondamentale
“Provincializzare l’Europa”, con una serie di interventi finora inediti in
Italia.
La crisi determinata dall’azione dell’essere
umano e dello sfruttamento capitalistico dell’ambiente pone, secondo Chakrabarty, questioni di giustizia climatica
per via della natura disomogenea e diseguale del globo che il capitalismo e gli
imperi europei hanno creato assieme.
Al
tempo stesso, la crisi climatica, e la crisi pandemica ad essa collegata, pone un altro
ordine di questioni che concernono il rapporto fra l’umanità come specie e il
pianeta Terra:
la
costruzione di un mondo, e la critica dei processi che l’hanno attuata, si
intreccia con l’esistenza della vita in senso biologico e fisico-chimico.
La
critica ai processi che hanno prodotto un’umanità differenziata e con
disuguaglianze di classe, e la consapevolezza della crisi ambientale, mettono in questione la concezione
antropocentrica del mondo, e alludono alla necessità di decentrare l’umano.”
(Dipesh
Chakrabarty è uno storico indiano, professore presso l’Università di Chicago).
LE
RAGIONI DELLA GLOBALIZZAZIONE
OVVERO
LE VERE CAUSE
DEL
RISCALDAMENTO GLOBALE.
Operaicontro.it – (19 Ottobre 2019) – Pietro
Demarco – ci dice:
A fasi
alterne il riscaldamento globale torna in auge, si fanno manifestazioni,
dibattiti, convegni, ma poi tutto è dimenticato e i buoni propositi
accantonati.
Qualche
settimana fa è stata Greta a promuovere il dibattito con le sue azioni
clamorose, sfociate in una manifestazione mondiale dei giovani il 15 marzo.
Adesso
vi è la fase di declino d’interesse per queste problematiche, per questo voglio
parlarne, in senso critico, su questo telematico, per individuare il nesso tra
globalizzazione e riscaldamento climatico globale.
Notizie
e informazioni che difficilmente si trovano sugli organi di (dis)informazione
di massa.
UN PO’
DI STORIA.
La
globalizzazione si è affermata alla fine del secolo scorso con la caduta del
Muro di Berlino.
L’imperialismo mondiale aveva la necessità di
espandere su scala globale il proprio sistema produttivo, ora che tutte le
barriere erano cadute.
Che
cosa ha permesso la globalizzazione dei mercati?
Molti
pensano che siano state le differenze di costo della mano d’opera a stimolare
l’espansione del sistema produttivo, ma non è così.
La
globalizzazione è stata possibile grazie alla rilevante riduzione dei costi del
trasporto per via marittima, dovuta allo sviluppo di nuovi motori navali.
A fine
anni ottanta del secolo scorso sono diventati operativi sulle navi commerciali
dei nuovi propulsori a Ciclo Diesel a due tempi, a bassissimo numero di giri
con potenze mai ottenute, finora, con motori a combustione interna: centinaia
di migliaia di c.v. per un unico blocco propulsivo.
Il vantaggio principale di questi motori,
però, era la loro estrema semplicità costruttiva che ha permesso di utilizzare
qualsiasi tipo di carburante:
questi propulsori erano sprovvisti di
distribuzione e funzionavano allo stesso modo dei motorini e degli scooter, ma
erano diesel.
In
definitiva funzionavano con gli scarti della raffinazione dei carburanti, dal
costo quasi nullo!
Infine la messa a punto del trasporto
intermodale dei container, ha permesso di scaricare facilmente le merci da un
punto all’altro del Pianeta a costi irrisori.
Sono
state queste innovazioni che hanno permesso la delocalizzazione delle attività
produttive e non le differenze salariali che sono sempre esistite: è convenuto
pescare del merluzzo in Scandinavia, farlo lavorare in Asia, dove il lavoro
costava pochissimo, e importare il prodotto lavorato, grazie al costo di
trasporto irrisorio.
Lo stesso discorso è valso per tutte le altre
merci.
Non
solo, il basso costo delle derrate alimentari è servito da strumento di
assoggettamento dei popoli, attraverso la distruzione delle agricolture locali
che permettevano la sussistenza delle popolazioni indigene, giacché conveniva
comprare grano e altre derrate alimentari piuttosto che produrle in loco.
Anche
la centralità della Cina, dell’India e dell’Asia in genere è dovuta allo
sviluppo del commercio navale, possibile grazie alle innovazioni sopra descritte.
Nell’arco
di qualche decennio si è giunti ai nostri tempi con la globalizzazione
pienamente affermata, dove l’intero Pianeta è diventato, un unico sistema
produttivo e ogni prodotto finito è fatto di materie prime che hanno compiuto
anche più volte il giro del mondo.
Si pensa che, allo stato attuale, ogni nazione
abbia, al massimo, il 10% di autonomia produttiva, per il resto dipende
dall’esterno.
In queste condizioni è facile affamare un
popolo con l’embargo, il Venezuela insegna.
DA
COSA DIPENDE IL RISCALDAMENTO GLOBALE.
Torniamo
adesso al tema centrale di questo mio intervento il riscaldamento globale.
Premesso
che il nesso tra concentrazione di gas serra e innalzamento della temperatura
globale è certo, bisogna comprendere perché ciò stia avvenendo con un ritmo
sempre più sostenuto.
Le borghesie mondiali puntano sempre più il
dito sulle automobili inquinanti, vogliono cavalcare l’onda emotiva per
risolvere la crisi automobilistica per imporre le auto elettriche, istallare
qualche pannello solare e tutto torna a posto.
Ma non
è così, vediamo il perché.
L’INQUINAMENTO
DELLE NAVI.
Molti studiosi sostengono che venti navi
portacontainer inquinano come tutte le auto circolanti al mondo, per via del
pessimo carburante usato.
Ogni anno, però, solcano i mari circa 60.000
navi di questo tipo, qual è allora il livello d’inquinamento prodotto?
Difficile pensarlo.
Perché
in nessun incontro internazionale sui cambiamenti climatici non si pongono
queste problematiche?
Domanda retorica, si metterebbe in discussione
il sistema, ma basterebbe fare una moratoria dell’uso dei carburanti bituminosi
nelle navi portacontainer per ridurre drasticamente l’inquinamento globale!
In
questo modo, però, il trasferimento delle merci non sarebbe più conveniente e
tutta la globalizzazione crollerebbe.
Il
trasporto navale delle merci, però svolge altre funzioni:
ogni
anno, inspiegabilmente, circa 120 navi piene zeppe di container affondano con
tutto l’equipaggio, nessuno conosce il contenuto dei “contenitori”; un modo elegante
di smaltire i rifiuti tossici?
Chi ha
indagato è stato “elegantemente” neutralizzato, è la legge della
(dis)informazione globale!
Oppure
queste navi riportano nei paesi dove hanno prelevato materie prime, rifiuti
elettronici di ogni genere, sotto forma di “aiuti”.
Non
c’è che dire, un bel servizio!
Questo
immenso spostamento di navi comporta altri gravissimi problemi ecologici:
quando le navi sono vuote pompano grandissime quantità di acqua di mare per
essere stabilizzate, con tutte le specie ittiche in essa presenti;
specie
ittiche trasferite in altri porti con immensi squilibri ambientali.
Infine
il rumore assordante dei motori navali provoca continui spiaggiamenti di balene
e cetacei, con conseguenze ecologiche facilmente immaginabili.
LA PRODUZIONE
DI CIBO.
Ebbene, questa è l’attività umana che ha il
maggior impatto sul riscaldamento globale, sia direttamente che indirettamente.
Chiaramente
mi riferisco alla produzione di cibo così com’è attuata nel mondo globalizzato,
finalizzata principalmente al profitto delle imprese del settore.
Sono
due, in particolare, le attività che maggiormente incidono sull’ambiente:
i concimi azotati di sintesi e l’allevamento
intensivo degli animali.
La sintesi dei concimi azotati richiede
immense quantità di energia, mentre i grandi allevamenti di bestiame inquinano
come delle metropoli!
LA
RIDUZIONE DELLE CAPACITA’ OMEOSTATICHE DEL PIANETA.
È un aspetto mai considerato nei dibattiti sul
tema:
il problema non è tanto l’aumento
dell’anidride carbonica globale, ma la riduzione della capacità di assorbimento
di essa da parte del suolo e dei mari!
La Terra nelle ere geologiche ha avuto picchi
di anidride carbonica ben maggiori dell’attuale, ma i meccanismi regolatori non
erano intaccati e l’equilibrio veniva facilmente ristabilito;
allo
stato attuale, Invece la cementificazione selvaggia, la riduzione della
sostanza organica dei suoli coltivati e l’inquinamento marino dovrebbe
preoccupare di più della produzione dei gas serra, invece questi aspetti
vengono completamente ignorati.
CONCLUSIONI.
Innanzitutto
sfatiamo un mito:
gli
sconvolgimenti climatici non potranno mai distruggere la vita sulla Terra, ma
provocare fame, morte e sofferenza di milioni, forse miliardi di poveri cristi
sacrificati sull’altare del profitto.
I
porconi troveranno sempre un posto sulla Terra dove stare.
Allora
bisogna prendere coscienza delle vere cause degli sconvolgimenti ambientali,
dovuti al sistema produttivo finalizzato al profitto generato dal lavoro
salariato.
Non c’è soluzione, bisogna rovesciare lo stato
delle cose esistenti, punto.
Nel frattempo
bisogna mettere il bastone fra le ruote allo sfruttamento in qualunque forma si
presenti, tutte le forme di protesta che vanno in questa direzione vanno
appoggiate.
(Pietro
Demarco)
(…chi
dice che i poveri dell’Africa devono alimentare il proprio fabbisogno di
energia col fotovoltaico, dice loro che devono rimanere poveri… Franco
Battaglia. La Verità del 12-4-2023). (N.D.R.)
La globalizzazione
“4.0”
salverà
il clima.
Enel.com
– (28 gennaio 2019) – Redazione – ci dice:
La
quarta rivoluzione industriale offre molte opportunità per contrastare il
cambiamento climatico.
Il punto è come coglierle: se ne è parlato al
WEF di Davos, a cui ha partecipato anche il CEO di Enel Francesco Starace.
“Mission
possible”.
Nonostante
gli ultimi segnali poco incoraggianti, fermare il cambiamento climatico è
un’impresa alla portata del pianeta.
Una
nota di ottimismo è arrivata da Davos (Svizzera), dove dal 22 al 25 gennaio si
è tenuto il World Economic Forum (WEF), a cui hanno partecipato oltre 250
leader politici e più di 1000 esponenti di alto livello del mondo economico e
industriale.
La
speranza viene dalle opportunità offerte dalla “quarta rivoluzione industriale
“e dalla “globalizzazione”:
in breve, dalla “globalizzazione 4.0”, per
usare l’espressione scelta come tema del WEF di questa edizione.
La
speranza, però, deve essere accompagnata dall’azione: le opportunità vanno
colte e valorizzate.
Il messaggio del WEF è chiaro:
bisogna
alzare lo sguardo al di là del proprio orizzonte, sia in termini temporali, per
pensare alle generazioni future, sia geografici, perché la collaborazione
internazionale è indispensabile.
Il
riscaldamento è globale: anche la soluzione deve essere globale.
La
globalizzazione 4.0.
La
quarta rivoluzione industriale si differenzia dalle precedenti (compresa quella
digitale della fine del Novecento) per la velocità con cui si avvicendano le
innovazioni, per la portata geografica che abbraccia l’intero pianeta e
soprattutto per l’impatto, che non riguarda solo i sistemi di produzione
industriale ma anche l’organizzazione sociale e politica: una rivoluzione globale in ogni
senso.
“Internet
of Things”, scienza dei materiali, veicoli a guida autonoma, robotica,
intelligenza artificiale, stampa 3D, nanotecnologie, biotecnologie, stoccaggio
dell’energia: sono solo alcuni degli ambiti che stanno cambiando la nostra vita
e il mondo intorno a noi.
La
quarta rivoluzione industriale abbraccia il mondo fisico, quello digitale e
quello biologico.
In
questo contesto l’energia è uno dei settori più promettenti sia per dare forma
al mondo futuro sia, soprattutto, per contrastare il pericolo più urgente che
lo minaccia:
il
riscaldamento globale, appunto.
“Con i
rapidi progressi tecnologici della quarta rivoluzione industriale saremo in
grado di utilizzare nuovi sistemi per monitorare, verificare e comunicare
l’avanzamento delle azioni globali, regionali e industriali per il clima”:
Klaus
Schwab, fondatore e presidente esecutivo del WEF.
L’energia
si trasforma.
La
parola chiave per capire il settore dell’energia oggi è “trasformazione”: non
solo la transizione verso le fonti rinnovabili, ma anche i progressi nello
storage, cioè i sistemi di accumulo dell’elettricità, la progressiva
elettrificazione, la decentralizzazione della produzione e la digitalizzazione
delle reti di distribuzione. Tutti strumenti utili per la riduzione delle emissioni di gas
serra in atmosfera.
Diversi
studi (come quelli della New Climate Economy e della Energy Transitions
Commission, citati da Schwab) dimostrano che questa trasformazione non solo
favorisce il clima, ma lo fa senza costi aggiuntivi, anzi generando crescita
economica e posti di lavoro.
Rinnovabili,
il primo passo verso il cambiamento.
Della
transizione energetica e del suo ruolo per il clima si è discusso nella
sessione “Realizing
the Energy Transition”, moderata da Jules Kortenhorst, CEO del Rocky Mountain
Institute americano, alla quale ha partecipato anche il nostro CEO Francesco
Starace.
Starace
ha sottolineato il ruolo decisivo dell’innovazione tecnologica (in particolare
per quanto riguarda la digitalizzazione e la scienza dei materiali), grazie
alla quale la rivoluzione sta procedendo più rapidamente di quanto si possa
percepire.
Anche dal
punto di vista economico Starace osserva una tendenza positiva: non solo le
energie pulite stanno decarbonizzando il sistema energetico, affermandosi
sempre più grazie alla loro competitività sul mercato, ma creano anche posti di
lavoro che possono attrarre chi proviene da altri settori.
Inoltre, la diffusione delle rinnovabili
riduce la volatilità dei prezzi e favorisce l’elettrificazione di settori come
i trasporti e il riscaldamento, a tutto vantaggio dell’ambiente.
“La
transizione energetica sta sfumando i confini che erano netti fra il settore
dell’energia e altre industrie.
Oggi
abbiamo molto più in comune con l’industria dell’automobile, con quella dei
semiconduttori per via dei pannelli fotovoltaici e con quella chimica per le
batterie”.
(Francesco
Starace, CEO di Enel)
L’ottimismo
di Starace è condiviso da “Christiana Figueres, Founding Partner
dell’organizzazione Global Optimism”, secondo cui siamo nella direzione giusta per
salvare il clima anche se occorre accelerare in alcuni campi (in particolare
per contrastare la deforestazione):
il
bicchiere è mezzo pieno e abbiamo gli strumenti per riempirlo del tutto.
Un esempio significativo sono gli incredibili
progressi di Cina e India nel passaggio dal carbone alle energie pulite:
le
cause sono principalmente le pessime condizioni sanitarie nelle metropoli
altamente inquinate, ma le conseguenze sono un vantaggio per tutti.
Si
sono dette fiduciose anche María Fernanda Suárez, ministro dell’energia e delle
risorse minerarie della Colombia, e Vicki Hollub, CEO della “Occidental Petroleum
Corporation”, ma hanno ricordato come le fonti fossili continueranno ad avere
un ruolo importante ancora per molti anni:
a loro parere occorre dunque ridurre le
emissioni anche in questi settori, attraverso la CCS (Carbon Capture and Storage, cioè
cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica), una strada molto costosa e, secondo
Starace, non economicamente sostenibile.
Al
dibattito è intervenuto anche Jeff Radebe, ministro dell’energia del Sudafrica, spiegando come il suo Paese, anche
se ancora dipendente dal carbone per la generazione di elettricità, ha
imboccato con decisione la strada della transizione verso le rinnovabili.
La
soluzione al cambiamento climatico è la collaborazione.
Anche
se tutti gli osservatori sono d’accordo sulle grandi opportunità offerte dalla
globalizzazione 4.0, occorre agire in fretta sulla riduzione delle emissioni
per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5 gradi al di sopra
dei livelli preindustriali, come raccomandato dall’Intergovernmental Panel on Climate
Change (IPCC).
Come?
Secondo
Schwab la via è rafforzare le collaborazioni internazionali: un punto di vista
condiviso da molti dei partecipanti al forum.
A
livello di governi questo significa in primo luogo accelerare la messa in
pratica degli accordi di Parigi, nonostante il ritiro deciso dal governo degli
Stati Uniti (assente anche da Davos).
Altrettanto
importanti sono le collaborazioni fra pubblico e privato – come lo stesso WEF –
e quelle tra privati, per esempio l’Alliance of CEO Climate Leaders (a cui
aderisce anche Francesco Starace):
un’associazione
di top manager industriali che, dal 2015 a oggi, è riuscita a ridurre nel
complesso del 9% le emissioni delle rispettive aziende.
A novembre, in occasione della COP24 di
Katowice, l’associazione ha inviato ai leader mondiali una lettera aperta
invitandoli alla collaborazione:
insieme possiamo fermare il riscaldamento
globale.
L’appello
dei post-millennials.
A
Davos l’urgenza dell’impegno per il clima è stata ribadita anche da chi il
futuro lo abiterà da protagonista.
Una tavola rotonda animata da sei
post-millennials è stato uno degli eventi più significativi del forum e ha
trasmesso un messaggio inequivocabile ed emozionante.
Una
ragazza irachena, tornata dagli Stati Uniti nel suo Paese devastato dalla
guerra per contribuire a ricostruirlo, ha dichiarato che gli investimenti
dovranno andare nella direzione di un futuro pulito e sostenibile.
E una
giovane ragazza svedese, già attiva in politica, si è rivolta idealmente a
tutti i decisori del mondo con parole molto nette:
“Fate
di più per il clima oppure fatevi da parte”.
(…Signori:
o ci rendiamo conto che siamo vittime della più colossale frode del secolo o
siamo finiti… Franco Battaglia -La Verità del 12 aprile 2023) – (N.D.R.)
Non
chiamatelo maltempo.
Greenpeace.org
– Luca Iacoboni – (5 novembre 2018) – ci dice:
(secure.gravatar.com/avatar/cb60e3e6c3481a2aadb98895e936c63a?s=96&d=mm&r=g)
Qualche
anno fa si parlava di cambiamenti climatici come una minaccia per il futuro.
Oggi, purtroppo, gli effetti dei cambiamenti
climatici sono in tutta Italia, ma li chiamiamo maltempo.
D’altronde,
con il maltempo non ci si può arrabbiare.
Con i cambiamenti climatici si potrebbe invece
provare a chiarire le cause, note da anni alla scienza, e le conseguenti
responsabilità di chi per decenni non ha fatto nulla.
Responsabilità
che sono sia della politica, che fa lo slalom tra annunci ed impegni non
abbastanza ambiziosi, sia delle aziende che da anni bruciano carbone, petrolio
e gas lasciando le conseguenze sulle spalle, e sui polmoni, dei cittadini.
Più
facile allora chiamarlo maltempo, bombe d’acqua, ondate di calore.
Poco si può fare contro questi eventi meteo.
Stare
chiusi in casa, al massimo, e quando la tempesta è passata lasciare spazio per
qualche passerella politica, magari con la tuta della protezione civile.
Senza mai parlare delle vere cause e delle
possibili soluzioni, sia chiaro, perché con quelle non si guadagnano voti.
Eppure
è la scienza a dirci che bombe d’acqua, ondate di calore, siccità, e tutti i
fenomeni meteorologici estremi sono sempre più intensi e frequenti proprio a
causa dei cambiamenti climatici.
Sempre
la scienza, in particolare l’IPCC – il braccio scientifico dell’ONU che si occupa dei
cambiamenti climatici – ha delineato delle chiare soluzioni: abbandonare i
combustibili fossili, carbone petrolio e gas, e accelerare la transizione
energetica verso un mondo 100% rinnovabile.
Oltre
che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione. Il tutto, a
detta degli scienziati, va fatto adesso.
Non
domani, oggi.
Senza mezzi termini.
La
politica però preferisce chiamare tutto questo maltempo. Supportata da gran
parte dei mezzi di informazione, che si guardano bene dal fare parlare uno
scienziato di questo “maltempo”: meglio dare spazio a politici che si
rimpallano le responsabilità in un terribile gioco a chi ha fatto peggio nella
difesa del territorio.
Se in
Italia il collegamento tra maltempo e cambiamenti climatici è ancora latitante,
non è così in altre parti del mondo.
Ci sono infatti persone che hanno addirittura
deciso di percorrere oltre 2mila km a piedi per difendere il clima.
Si
chiamano “pellegrini per il clima” e sono un gruppo che è partito da Roma lo
scorso 3 ottobre, dopo aver incontrato il Papa, e che arriverà a Katowice, in
Polonia, ad inizio dicembre.
Punto
di arrivo non scelto a caso, visto che proprio a Katowice a dicembre si terrà
la COP24, l’annuale conferenza sul clima.
Una
delle ultime possibilità per la politica di prendere impegni concreti di riduzione
delle emissioni e di produzione di energia da rinnovabili che ci permettano di
limitare gli effetti dei disastri climatici.
Questi
pellegrini vengono da tutto il mondo: Filippine, Irlanda, Stati Uniti, Francia,
Regno Unito e… Italia.
A
queste persone non sfugge il collegamento tra maltempo e cambiamenti climatici.
Uno di loro, ad esempio, si chiama AG e viene
dalla Filippine.
A causa del tifone Haiyan, che ha colpito il
suo Paese nel 2013, ha perso quasi tutta la famiglia e i suoi amici.
Lui è uno dei pochi sopravvissuti al più
devastante tifone della storia, con venti a quasi 350 chilometri orari.
E oggi
ha la forza di girare il mondo, insieme alla sua nuova famiglia di pellegrini,
portando un messaggio di speranza.
Ma anche di urgenza, di necessità di agire
subito.
Questo
gruppo di persone, motivate, forti e sorridenti, ha passato ieri il confine
dell’Italia entrando in Slovenia.
In 4 settimane di cammino sul suolo italiano
ha incontrato centinaia di persone, studenti, sindaci, vescovi, comunità
locali, che li hanno accolti con grande calore e orecchie pronte ad ascoltare.
Il messaggio principale che questo gruppo di
camminatori ha lasciato in Italia è che ognuno può fare la sua parte.
A cominciare da tutti noi, con le nostre
scelte individuali, ma non solo.
Le
aziende ad esempio giocano un ruolo decisivo nella partita dei cambiamenti
climatici.
E per questo motivo lo scorso sabato i
pellegrini hanno incontrato Assicurazioni Generali, il più grande gruppo
assicurativo italiano, che da un anno è al centro di una campagna
internazionale che chiede al Leone di Trieste di smettere di assicurare ed
investire nel carbone, la più inquinante fonte di energia che esiste.
Il gruppo di camminatori ha raccontato le
proprie storie, facendo capire a Generali che quelli che per loro sono solo
investimenti, possono invece trasformarsi in disastri climatici, vittime e
tragedie.
O si è parte della soluzione o si è parte del
problema.
Non ci
sono vie di mezzo.
Generali è chiamata a decidere una volta per
tutte quale ruolo vuole giocare.
E deve farlo subito, perché la “COP24” è alle
porte.
Ma se
ognuno deve far la sua parte, chi deve indubbiamente fare più di tutti è la
politica che in questo campo in Italia non si distingue certo per ambizione e
concretezza.
Proprio ieri il ministro dell’Interno Salvini
ha detto in conferenza stampa che “Troppi anni di incuria e malinteso
ambientalismo da salotto, che non ti fanno toccare l’albero nell’alveo, ed ecco
che l’alberello ti presenta il conto”.
Salvini non ha mai nominato i cambiamenti
climatici durante il suo discorso.
Forse
non gli è chiaro che il conto lo stanno presentando i cambiamenti climatici,
non l’alberello.
Tutto
questo non stupisce, visto che proprio Salvini nel 2016 ha votato
nell’Europarlamento contro l’adozione degli Accordi di Parigi.
Proprio quegli accordi che tutti, da Papa
Francesco a grandi manager di aziende come Apple, hanno accolto come il
possibile punto di svolta nella lotta ai cambiamenti climatici.
Salvini
e la Lega si sono opposti a quegli accordi.
E anni
prima, nel 2009, sempre la Lega ha votato al Senato una risoluzione
negazionista sul tema dei cambiamenti climatici. Andando così contro il messaggio sostanzialmente
unanime della scienza.
In compenso però Salvini ha gioito per
l’elezione di Trump, dichiarando che “grazie a Trump il dibattito sul clima ora
torna serio”.
Forse
il ministro Salvini preferisce parlare con Trump, che ha dichiarato di voler abbandonare
gli Accordi di Parigi e bruciare carbone per i decenni a venire, piuttosto che
con gli ambientalisti, che lui definisce “da salotto”.
Noi
saremmo contenti di sederci nel suo di salotto, per fargli una semplice
domanda:
“La
Lega è un partito negazionista sui cambiamenti climatici, che preferisce Trump
alla scienza, e dà la colpa del maltempo agli alberelli?”
Gli
italiani dovrebbero poter sapere qual è la posizione del partito di governo su
questo tema che è ormai su tutti i quotidiani, anche se sotto il falso nome di
“maltempo” e se il ministro Salvini vuol continuare a dare la colpa ai salotti
e al meteo inclemente o se intende ascoltare il monito della comunità
scientifica internazionale.
Prima
che sia troppo tardi.
(…Nel
dicembre 2020 il ministro alla salute tedesco ha detto: “Per affrontare
l’emergenza climatica saranno necessarie restrizioni alla libertà personale
simili a quelle adottate per affrontare il Covid”. E Maria Mazzuccato, consigliera
dell’Enel scriveva nel settembre 2020:
“Il
mondo dovrà far ancora ricorso a misure di lockdown, ma stavolta per affrontare
l’emergenza climatica” … Franco Battaglia -La Verità del 12 aprile 2023) –
(N.D.R.)
Perché
dobbiamo preservare la biodiversità?
Duegradi.eu
– Pietro Cesaro – (20 agosto 2020) – ci dice:
Tra i
fattori che causano la perdita di biodiversità vi è un unico comun
denominatore: noi umani e le nostre attività.
La
biodiversità o diversità biologica, consiste, secondo la Convenzione sulla diversità
biologica (CBD), nella varietà della vita sulla terra e delle sue diverse forme
all’interno dei rispettivi ecosistemi (sia terrestri che acquatici);
tale diversità può essere all’interno della
stessa specie, tra le specie e tra gli ecosistemi.
La
conservazione della biodiversità è fondamentale, poiché quest’ultima
costituisce parte integrante del nostro capitale naturale (formato anche da
aria, acqua e suolo).
Capitale
naturale e biodiversità stabilizzano e garantiscono il corretto funzionamento
degli ecosistemi e dei servizi che quest’ultimi ci offrono, e da cui noi esseri
umani dipendiamo: i servizi ecosistemici.
Il
capitale naturale e i servizi ecosistemici ci forniscono infatti cibo, materie
prime come il legno, acqua e aria filtrate, sequestro di anidride carbonica
attraverso i serbatoi di carbonio come foreste e oceani, mitigazione di
disastri naturali, pollinazione e fertilizzazione di colture e via discorrendo.
La
biodiversità può essere dunque vista come la nostra “assicurazione” contro le
crisi naturali:
gli
ulivi resistenti alla Xylella, per esempio, possono salvaguardare la produzione
dell’olio d’oliva;
alcune
varietà di grano resistenti alla siccità possono aiutarci in caso di annate
meno umide;
gli
impollinatori garantiscono la vita delle piante ad essi dipendenti, e da cui
dipende anche la nostra agricoltura e nutrizione.
Ma
come sono connessi biodiversità e cambiamenti climatici?
Tra i
fattori principali che causano la perdita di diversità biologica vi sono i
cambiamenti nell’utilizzo del suolo (tra cui anche la perdita o la
frammentazione degli habitat naturali per cause legate alla produzione umane),
il cambiamento climatico, l’estrazione delle risorse naturali, l’inquinamento e
le specie aliene invasive.
Cambiamento
climatico e perdita di biodiversità sono quindi due fenomeni intrecciati e
interdipendenti, che si alimentano in modo reciproco.
Anche
un occhio non attento si accorgerebbe che tra i fattori che causano la perdita
di biodiversità vi è un unico comun denominatore: noi umani e le nostre
attività.
Siamo noi a deforestare al fine di utilizzare
il suolo;
e con
la deforestazione distruggiamo, oltre che parte di un habitat naturale, anche
delle riserve di carbonio (le piante), velocizzando quindi il processo di
innalzamento delle temperature, che è anche una delle cause della perdita di
biodiversità.
Siamo
noi a estrarre risorse naturali in maniera insostenibile per gli ecosistemi;
sempre noi che, a causa dell’inquinamento, minacciamo la biodiversità mentre
emettiamo gas serra e produciamo polveri deleterie come sottoprodotto del
nostro lavoro.
Potremmo
continuare nel descrivere questo intreccio di concause, ma non vi pare che si
stia parlando sempre della stessa cosa?
Cioè
di una crisi ambientale direttamente correlata alle nostre attività, che si
riflette, tra le altre cose, su innalzamento delle temperature, perdita di
diversità biologica e inquinamento dell’aria?
L’importanza
di preservare la biodiversità.
Cercare
quindi di conservare e ripristinare gli ecosistemi è essenziale non solo per
gli obiettivi legati al mondo della biodiversità, ma anche per quelli che
leggiamo nelle righe dell’Accordo di Parigi.
Gli ecosistemi giocano infatti un ruolo
fondamentale nel ciclo del carbonio e nell’adattamento al cambiamento
climatico.
Gli
habitat in salute sono ottime riserve di carbonio ed alcune piante sono
decisive nel ridurre il rischio di eventi climatici estremi (ad esempio, le
mangrovie riducono il rischio di mareggiate e alluvioni).
Secondo il “Millennium Ecosystem Assesment”,
il cambiamento climatico diventerà entro il 2100 il più importante fattore di
perdita di biodiversità.
Ecco
dunque quanto interconnessi sono questi due concetti, e quanto di conseguenza è
importante approcciare la crisi ambientale tenendo conto di tutte le sue
componenti:
aria
(e quindi anche clima), acqua, suolo e biodiversità.
Il problema climatico non si risolve senza
tener conto della perdita di biodiversità, e viceversa.
Cosa
sta facendo l’Europa?
La
Commissione europea ha adottato a fine maggio la nuova strategia sulla
biodiversità per il 2030.
Vi si
trova anche un piano d’azione con degli obiettivi specifici di corto e lungo
termine, volti a proteggere la natura e invertire il degrado degli ecosistemi.
Gli
esempi spaziano da iniziative per l’inverdimento urbano fino alla protezione
degli impollinatori, da “una rinnovata strategia forestale UE” fino a alla
revisione di quella per la protezione del suolo.
Nel
suo insieme, la strategia mira a dare il via al ripristino degli ecosistemi
europei entro il 2030 per portare, come si legge nel suo testo, benefici alle
persone, al clima ed al pianeta.
La strategia contiene anche una dimensione
internazionale, dal momento che vi è una chiara e proattiva proposta riguardo
al contributo dell’UE durante i prossimi negoziati internazionali sul quadro
globale della biodiversità post-2020 (la COP sulla biodiversità, per
intenderci).
È
importante considerare la strategia per la biodiversità non solo nel contesto del
“Green
Deal”, ma
anche in quello di crisi post pandemica, dal momento che è volta a rafforzare
la resilienza delle nostre società a minacce future come gli impatti dei
cambiamenti climatici, gli incendi boschivi, l’insicurezza alimentare o le
epidemie di malattie;
cercando
dunque di portare in Europa una ripresa verde.
Alcune sezioni del piano di ripresa “NextGenerationEU” sono infatti chiaramente legate ad
investimenti mirati ad hoc per la biodiversità.
Uno
sforzo ancora insufficiente.
Anche
un veloce sguardo alla generale legislazione europea sulla natura lascia
intuire che il nostro continente, nel contesto globale, è all’avanguardia per
quanto riguarda la biodiversità.
Tuttavia, non è abbastanza:
non siamo ancora al livello di politiche
trasformative richieste dal “Green Deal” e dal contesto globale di crisi.
Per raggiungere gli obiettivi prefissati nella
strategia e delle cosiddette “Nature Directives” (le varie norme e direttive europee
legate al capitale naturale in generale e alla biodiversità in particolare), si
dovrà fare affidamento sull’ambizione degli stati membri e sulla loro
convinzione nell’applicare queste ultime in modo sistemico.
Un
cambio di paradigma può avvenire soltanto col coinvolgendo delle autorità
locali e dei vari attori coinvolti, primi fra tutti le aziende private;
che
con un” cambio verde” nel loro modo di produrre e concepire la creazione di
ricchezza potrebbero diminuire di molto l’impatto sul capitale naturale.
Per ottenere risultati che comincino davvero a
mitigare questa intrecciata e complessa crisi (climatica e ambientale, ma anche post
pandemica),
servono infatti norme e direttive climatiche e ambientali all’altezza.
Ma anche coerenza fra queste ultime e
l’ambizione e il coinvolgimento dei vari strati della nostra società, persone
fisiche comprese.
Clima:
i Grandi non bastano
Ispionline.it
– (5 Nov. 2021) – Gianpiero Massolo – ci dice:
Riscaldamento
globale.
EUROPA
E GOVERNANCE GLOBALE.
Si può
combattere il cambiamento climatico per decreto governativo?
Gli
appuntamenti internazionali di questi giorni, il G20 e la COP26, sono stati un
bagno di realismo.
Hanno
rinnovato collettivamente gli impegni esistenti – e già questo non era scontato
– ma ammettendo che, all’attuale ritmo di adempimento, la temperatura salirà di
2,7 gradi: per contenerne l’aumento a 1,5 le emissioni carboniche dovrebbero
ridursi del 45% al 2030.
Semplicemente
inattuabile, oggi come oggi, a sentire i distinguo dei Governi.
E non
solo dei grandi assenti cinese e russo.
Il gap
tra impegni e adempimenti esiste da tempo.
È in fondo il limite di ogni esercizio
prevalentemente intergovernativo:
la consapevolezza crescente della posta in
gioco, l’atmosfera di emulazione connaturata alle assise multilaterali, la
spinta delle società civili, il politicamente corretto spingono ad approvare –
o almeno a non opporsi – a formule deliberate per consenso, spesso senza vero
dibattito.
Ambiziose
a parole, poco stringenti nei fatti e nelle procedure.
La realtà finisce poi sempre per presentare il
conto:
è fatta di leadership che ricercano il
consenso ciascuna a modo suo, di assetti istituzionali diversi, di differenze
oggettive tra le rispettive situazioni economico-industriali e i differenti
modelli di sviluppo, di mix energetici in contraddizione tra di loro.
Sempre
più spesso, anche il cambiamento climatico diventa motivo di competizione
geostrategica:
la contrapposizione per il dominio delle
tecnologie pulite si accentua, con la Cina che ne controlla la catena di
fornitura.
Cosa
ci si può ragionevolmente aspettare per il futuro in una situazione come
questa?
Se ci
si limiterà come finora al confronto tra gli Stati, a ben guardare gli elementi
per un compromesso del possibile si delineano con una certa precisione:
il mantra della riaffermazione degli impegni
della conferenza di Parigi senza scadenze troppo precise per raggiungere la
neutralità carbonica, uno sforzo di aggiornamento tecnologico che aiuti a
perseguirli senza troppo modificare il mix energetico attuale, aiuti più
sostanziosi per l’adattamento ai cambiamenti climatici ai paesi più poveri (ma non solo: adattarsi servirà anche
a noi, se mitigare non sarà abbastanza).
E
tuttavia dal G20 e dalla COP 26 emergono anche elementi meno scoraggianti.
Soprattutto da tutto quanto ha circondato i due eventi
e che accompagna, più in generale, oggi la trattazione a livello globale del
dossier del clima.
Intanto,
specie in questi ultimi anni – Roma e Glasgow non hanno fatto eccezione – si è
fatta sempre più sentire la ‘piazza’:
in
questo senso, ha ragione Greta Thunberg a dire che a contare davvero sono le
opinioni pubbliche fuori dal palazzo;
sempre
più incalzano i Governi, non solo quelli occidentali, sui temi ambientali,
fanno valere il loro peso in termini di consenso politico.
Poi, è
significativamente cresciuta – in parte, per conseguenza – la disponibilità
degli ambienti economico-finanziari, delle imprese a mettersi in gioco;
i fattori reputazionali e il ritorno sugli
investimenti verdi rappresentano una spinta decisiva in questo senso.
Tutto
ciò, infine, fa aumentare sensibilmente il capitale politico e quello materiale
a disposizione:
i
soldi non mancano, ha detto il Presidente Draghi.
E non
tutti a spese dei Governi.
La
crescente interazione tra opinioni pubbliche, imprese, organizzazioni non
governative, attivisti, autorità statali finisce per configurare, infatti, una
forma innovativa di multilateralismo, che surroga in qualche modo la semplice,
spesso insoddisfacente collaborazione tra Governi.
Un
multilateralismo dal basso, ‘bottom up’, che coinvolge un numero sempre più
ampio di stakeholders su temi definiti: il clima, la salute, l’alimentazione,
la qualità di vita, per citarne alcuni.
Se non
si rinnova, il metodo multilaterale continuerà la sua crisi, sarà percepito
come inefficace per la soluzione dei problemi globali, cresceranno nazionalismi
e introspezione.
Il dossier climatico rappresenta un’occasione
decisiva per invertire la tendenza: troppo importante per lasciarlo solo
ai Governi.
Qual è
l’impatto dei cambiamenti
climatici
su infrastrutture
e
mobilità in Italia.
Greenreport.it
– Carlo Carraro – (13-2-2023) – ci dice:
(carlocarraro.org)
La
grande importanza del settore dei trasporti nel quadro delle emissioni e la sua
fortissima dipendenza dai combustibili fossili ne fanno il settore cardine di
ogni strategia di riduzione delle emissioni.
L’importanza
di analizzare gli impatti dei cambiamenti climatici su trasporti, mobilità e
infrastrutture può sembrare ovvia, alla luce dell’evoluzione molto rapida dei
cambiamenti climatici e il crescente impatto negativo sulle infrastrutture, in
particolare quelle di trasporto, a causa di eventi estremi – quali piogge
eccezionali, trombe d’aria, alluvioni, ondate di calore, incendi, siccità –
sempre più frequenti.
Eventi
che sono oramai oggetto di cronaca quasi quotidiana, non solo di analisi
scientifiche.
Così
come sono ovvie, e dimostrate dai tanti casi di questi ultimi anni, le
ripercussioni ambientali ed economiche di questi eventi meteorologici estremi e
più in generale dei cambiamenti climatici già avvenuti.
Purtuttavia,
un’analisi sistematica ed estesa degli effetti dei cambiamenti climatici su
infrastrutture, trasporti e mobilità, una loro proiezione nel futuro, almeno
fino a metà secolo, così come un’analisi di come si evolveranno di conseguenza
i costi per i sistemi economici e sociali, non era stata fino ad ora fatta,
almeno per l’Italia.
Molto
poche sono anche le analisi delle tecnologie, delle iniziative, degli
investimenti, delle politiche – e dei relativi costi e benefici – sempre
relative a trasporti e infrastrutture in Italia, in grado di far fronte ai
cambiamenti climatici che verranno.
È
quindi da apprezzare in modo particolare la pubblicazione da parte del
Ministero delle “Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili” (MIMS) di un
nuovo rapporto su Cambiamenti Climatici, Infrastrutture e Mobilità.
L’importanza
di considerare il settore dei trasporti, mobilità e infrastrutture anche dal
punto di vista della mitigazione emerge in modo molto chiaro da alcuni dati di
partenza.
Il
settore dei trasporti in Italia rappresentava nel 2019 (ultimo anno pre-Covid)
il 25,2% delle emissioni totali di gas ad effetto serra in Italia e il
30,7% delle emissioni totali di CO2, una cifra all’incirca corrispondente alla
percentuale di combustibili fossili consumati a livello nazionale.
Il
92,6% di tali emissioni sono attribuibili al trasporto stradale (persone e
merci), il 4,3% alla navigazione, lo 0,75% all’aviazione domestica, lo 0,65%
alle condotte, lo 0,15% alle ferrovie ed il rimanente 1,52% circa ad altri
sistemi.
La grande importanza del settore dei
trasporti nel quadro delle emissioni nazionali e la sua fortissima dipendenza
dai combustibili fossili ne fanno quindi il settore cardine di ogni strategia
di riduzione delle emissioni.
Allo
stesso tempo, il settore delle infrastrutture e dei trasporti è tra i più
vulnerabili ai cambiamenti climatici.
Gli
impatti dei cambiamenti climatici hanno e avranno effetti di vasta portata
anche in Italia.
La
scarsità di acqua legata a lunghi periodi di siccità, ad esempio, ha
interessato e interesserà attività economiche diverse tra loro, come
l’agricoltura, l’acquacoltura, il turismo, il raffreddamento delle centrali
elettriche e il trasporto merci sui fiumi.
Le
perdite economiche dovute alla maggiore frequenza di eventi estremi legati al
clima sono in aumento ed i danni riguardano soprattutto le reti ed
infrastrutture di trasporto, interne e costiere, di telecomunicazione e
digitali.
Il
lento innalzamento del livello del mare è inoltre una fonte di crescente
preoccupazione per le zone costiere ed i relativi insediamenti urbani,
produttivi e portuali.
Serve quindi una strategia che permetta di
proteggere, adattare e rendere resilienti infrastrutture e trasporti ai
cambiamenti climatici.
Il
Rapporto del MIMS ha il compito di analizzare e valutare non solo gli impatti
dei cambiamenti climatici su infrastrutture e trasporti, ma soprattutto quello
di disegnare iniziative, misure, politiche in grado da un lato di proteggere le
infrastrutture ed i servizi di mobilità dai cambiamenti climatici che verranno
e dall’altro in grado di ridurre in modo sostanziale le emissioni di gas serra
provenienti da infrastrutture e trasporti.
Il Rapporto ha quindi un ruolo progettuale,
con l’obiettivo di ridisegnare le infrastrutture in Italia alla luce dei
cambiamenti climatici attesi: sia per renderle più resilienti ed adattarle ai
cambiamenti climatici che verranno; sia perché contribuiscano alla
indispensabile riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Il Rapporto
vuole pertanto essere uno strumento per indirizzare misure, politiche ed
investimenti nella duplice direzione di proteggere infrastrutture e mobilità
dai cambiamenti climatici ed allo stesso contribuire alla realizzazione dei
piani di controllo dei cambiamenti climatici, in linea con gli obiettivi della
EU “Climate Law”, che prevede una riduzione delle emissioni di gas serra del
55% al 2030 e il raggiungimento delle zero emissioni nette al 2050.
Nel
Rapporto viene evidenziato il ruolo cruciale che una strategia di investimenti
in infrastrutture e mobilità sostenibili – accompagnata dall’adozione di
adeguate tecnologie, strumenti di policy e pratiche di governance – può avere
per lo sviluppo economico dell’Italia.
Strategia che va intesa in modo ampio, non
solo con un approccio ambientale, ma associata ad una strategia di sviluppo e
politica industriale che accompagni il paese in tutte le trasformazioni
necessarie per divenire effettivamente sostenibile. Trasformazioni che
riguardano numerosi settori industriali, ma anche il mondo dell’occupazione e
quello della formazione e che associano, come correttamente fa l’EU Green New
Deal, la trasformazione ecologica a quella digitale.
Le
sfide della mitigazione e dell’adattamento richiedono uno sforzo collettivo che
coinvolge soggetti pubblici e privati.
È
fondamentale che il settore privato e quello pubblico collaborino maggiormente,
in particolare sul fronte del finanziamento delle misure necessarie (questo
tema è oggetto del Rapporto della Commissione “Finanza per le Infrastrutture e
la Mobilità Sostenibili” sempre istituita dal MIMS).
L’auspicio
è che questi due Rapporti, grazie alle loro analisi e proposte, possano aiutare
il settore pubblico e quello privato ad individuare i rischi e ad orientare gli
investimenti a favore di interventi in materia di adattamento, resilienza e
mitigazione, offrendo soluzioni per contribuire a dare risposte alla crescente
consapevolezza degli impatti climatici.
Come
già detto, l’obiettivo non è soltanto far fronte agli importanti effetti dei
cambiamenti climatici sul nostro Paese, soprattutto sulle sue regioni
meridionali.
L’obiettivo
più ampio è utilizzare investimenti, incentivi, standard e norme per guidare il
Paese verso uno sviluppo più competitivo, sostenibile e meno diseguale,
affrontando allo stesso tempo, grazie alle risorse introdotte, le sfide del
cambiamento climatico e quelle della globalizzazione e della trasformazione
(digitale, demografica, ecc.) dell’economia italiana.
DOSSIER
ASSEMBLEE dei CITTADINI
Emergenza
climatica e partecipazione:
le
assemblee non bastano se la politica
non
riscopre il proprio ruolo.
Agenda17.it
– (Novembre 14, 2022) - Marzia De Donno – ci dice:
Il
contesto.
“Gli
obiettivi ambientali dell’Agenda 2030 dell’Onu, l’Accordo di Parigi sul clima,
le strategie europee e nazionali in materia di ambiente richiedono l’impegno
concreto di tutte le componenti della società, a partire dalle istituzioni”.
Questo l’incipit del recente Rapporto
ambientale 2022 della Banca d’Italia.
L’emergenza
ambientale e climatica che si sta imponendo sullo scenario globale oltre che
nazionale – per l’Italia basterebbe ricordare i disastri ambientali di questi
ultimi mesi:
il distacco del ghiacciaio sulla Marmolada,
l’alluvione che ha invaso l’isola di Stromboli, la recente tragedia delle
Marche, senza considerare la siccità che quest’estate ha colpito anche la
Pianura Padana e il Po –, lascia prevedere in maniera ormai sempre più nitida
quali possano essere i pericoli causati dalla “sovrapposizione fra cambiamenti
climatici, errori umani e cattiva amministrazione” (come afferma Maurizio Molinari su
La Repubblica, nel suo editoriale Il
clima contro I populismi del 18 settembre 2022) ed impone una riflessione non più
rinviabile sugli strumenti, sugli interventi e prima ancora sullo stesso ruolo
che la società, i partiti, le istituzioni, le amministrazioni pubbliche, gli
stessi cittadini sono chiamati a svolgere.
Prendendo
a prestito le parole del Presidente della Repubblica, “la sfida più grande della
contemporaneità è la salvezza del Pianeta dallo sfruttamento di cui l’uomo
stesso si è reso responsabile”;
ed è
una sfida rispetto alla quale si misurano, da un lato, i ritardi dei governi
nazionali e delle stesse amministrazioni regionali e locali, e, dall’altro, le
richieste di “protezione climatica” da parte specialmente delle nuove
generazioni.
Sono
in atto mutamenti profondi nella nostra società.
Entrati
ormai in un’epoca di costante emergenza o di crisi permanente, alle istituzioni
si richiede uno sforzo di adattamento, revisione e innovazione dei propri
sistemi decisionali per far fronte anche, ma non solo, alle minacce ambientali
che incombono sull’umanità intera.
È in
gioco il ruolo della scienza, il suo posizionamento rispetto ai decisori
pubblici e alle stesse responsabilità – non solo politiche – che questi ultimi
sono chiamati ad assumere nei confronti dei propri cittadini.
Ed è
in gioco anche il ruolo degli stessi cittadini, tanto nell’acquisizione di
nuovi comportamenti e stili di vita, quanto, e più in generale, nel loro
coinvolgimento attivo in sede di definizione, tra l’altro, delle politiche di
contrasto ai cambiamenti climatici.
Riforme
e compliance.
Non è
questa la sede per ripercorrere quanto sin qui è stato compiuto sul piano delle
riforme e degli interventi normativi in materia.
Ci si
potrebbe limitare a ricordare due recentissimi episodi.
A
distanza di cinquant’anni esatti dalla “Dichiarazione delle Nazioni Unite”
assunta durante la Conferenza di Stoccolma del 1972 sull’“Ambiente Umano”, che
per la prima volta poneva in stretta relazione l’obiettivo del miglioramento
delle condizioni di vita umane con la necessità di salvaguardare le risorse
naturali, lo scorso 26 luglio, l’”Assemblea generale dell’Onu”, con una storica
risoluzione ancorché non giuridicamente vincolante, ha finalmente riconosciuto
l’accesso ad un ambiente salubre, sano e sostenibile quale nuovo diritto umano
universale.
Durante
invece lo scorso febbraio, il Parlamento italiano ha approvato una riforma
costituzionale con la quale sono stati riscritti gli articoli 9 e 41 della
nostra Costituzione.
La legge costituzionale n. 1 del 2022 ha
introdotto espressamente la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli
ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, accanto alla tutela
del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione (art. 9), e, al
contempo, ha subordinato esplicitamente l’esercizio della libertà di iniziativa
economica privata al rispetto delle salute e dell’ambiente, aggiungendo questi
due nuovi limiti a quelli della sicurezza, della libertà e della dignità umana
(art. 41).
Si
tratta di interventi o riforme tardive?
È
sufficiente approvare delle risoluzioni o modificare la Costituzione per far
fronte all’inquinamento, al cambiamento climatico, alla perdita di
biodiversità, al consumo di suolo?
No,
certamente.
In alcuni recenti articoli apparsi sulla
stampa nazionale, il Presidente Emerito della Corte costituzionale, Prof.
Giuliano Amato, ha giustamente ricordato che il tema attuale “è quello dell’osservanza delle norme,
della compliance”, indicando una strada su tutte, ovvero la partecipazione dei
cittadini specialmente nelle sedi locali di definizione delle decisioni e delle
scelte pubbliche:
«(…) Ci si deve saper sottrarre alla
tentazione del centralismo, che è particolarmente forte in tempi di emergenza,
ma che proprio in una emergenza come quella che ci aspetta è davvero la
tentazione sbagliata. Se è vero infatti che l’approdo ha da essere, non l’arrivo
delle scelte di governo in Gazzetta Ufficiale (e a quel che segue provvede la
forza del diritto), ma la generalizzata convinzione che esse vanno condivise e
attuate dal maggior numero possibile di noi e possibilmente da tutti, le
istituzioni centrali di una democrazia non dispongono di ciò che, a quel punto,
serve di più: i processi e le sedi di partecipazione che, in modi diversi,
coinvolgono tanti cittadini attivi ora nell’elaborazione, ora nell’attuazione
delle scelte pubbliche e che sono previste e praticate, non a caso, nelle sedi
regionali e locali, le sedi più vicine al territorio».
Ancorata
direttamente ai principi costituzionali di uguaglianza e di parità di
trattamento di tutti i cittadini in sede di «partecipazione all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.), la democrazia
partecipativa diviene, allora, «veicolo del bene comune», strumento «non meno
irrinunciabile della scelta dei propri rappresentanti» per l’elaborazione, la
comprensione, la condivisione e, in ultimo, la stessa osservanza ed attuazione
delle decisioni pubbliche, e ciò specialmente nella fase presente di crisi dei
partiti ma, soprattutto, in un momento storico in cui il tema del clima e della
tutela dell’ambiente sta intercettando pericolosamente quello della tenuta
democratica dei governi nazionali, dei regimi autoritari e dei populismi.
Così,
nel pieno spirito del federalismo cooperativo, gli Stati dovrebbero lasciare
spazio alle amministrazioni regionali e soprattutto locali per perseguire (e
istituzionalizzare) un dialogo e un confronto costante con i cittadini, i
volontari, gli addetti del terzo settore.
Tutto
ciò starebbe a confermare esattamente un dato, che ci sembra centrale: il
crescente ruolo delle amministrazioni territoriali, e, in particolare, delle
città nel riconoscimento, nell’affermazione e nella stessa garanzia dei diritti
delle persone. Ed è questo un aspetto da tenere a mente dinanzi alla recente
diffusione a livello locale di alcune inedite soluzioni di democrazia
partecipativa innestate esattamente nell’ambito dei processi decisionali
pubblici in materia di contrasto ai cambiamenti climatici.
La
democrazia partecipativa in Italia e le (nuove) assemblee cittadine per il
clima.
Se
questo è il contesto e la cornice (anche giuridica) di riferimento, ben si può
cogliere ed applaudire allora alle iniziative di alcune amministrazioni
territoriali che, ancorché in presenza di un quadro normativo statale non
certamente compiuto ma comunque fertile e in divenire (si pensi al dibattito
pubblico introdotto nel 2016 con il nuovo Codice dei contratti pubblici, ma
effettivamente operante dal 2018), hanno portato anche nel nostro Paese
all’apparizione delle prime assemblee cittadine per il clima.
A
differenza di altri Stati, come la Francia o l’Inghilterra, l’Italia non
conosce una disciplina generale di fonte nazionale in materia di partecipazione
del pubblico.
Non è
un caso, del resto, che fino ad un recente passato proprio la realizzazione di
alcune grandi opere pubbliche di interesse nazionale e ad elevato impatto
ambientale abbia provocato forti conflitti e contrasti, cagionati molto spesso
anche dalla messa in atto di meccanismi partecipativi alquanto carenti e non
adeguati.
Solo per ricordarne alcuni, si pensi al progetto di
dighe mobili pensato per la Laguna di Venezia (c.d. M.O.S.E., Modulo
Sperimentale Elettromeccanico), al ponte sullo Stretto di Messina, alle ben
note vicende legate alla linea ferroviaria ad alta velocità lungo la tratta
Torino-Lione o ancora più di recente al Gasdotto trans-adriatico in Salento.
Così è
soprattutto grazie all’introduzione a livello regionale di discipline legislative
in materia di dibattito, consultazione e istruttoria pubblica, di istituti
affini come i town meeting, i citizen meeting, e di altri processi
partecipativi variamente denominati, che in fondo hanno fatto la loro comparsa
anche in Italia le prime discipline normative sui consigli dei cittadini e
delle cittadine (Provincia autonoma di Bolzano, 2018) o sui tavoli e assemblee
cittadine (Comune
di Susa, 2020; Comune di Milano, 2021; Comune di Bologna, 2021).
Dichiaratamente
ispirate ad alcune esperienze straniere, fra le quali quella francese della” Convention Citoyenne pour le Climat” istituita nel 2019 dal Presidente
Macron, la peculiarità di questo tipo di assemblee – e che le differenzia dagli
altri istituti partecipativi appena menzionati – è data dal fatto che esse pur
collocandosi tra le forme di democrazia partecipativa, in quanto volte a
favorire l’intervento civico in sede di approvazione, da parte degli organi
democraticamente eletti (siano essi di livello nazionale, regionale o locale),
di atti normativi e amministrativi d’interesse per la comunità di riferimento, si inscrivono nell’ambito della c.d. “democrazia
aleatoria” di ateniese memoria.
L’estrazione
a sorte di un campione casuale di cittadini adeguatamente rappresentativo della
popolazione, unitamente al metodo della formazione, da parte di esperti neutri,
dei componenti di quest’organo deliberante sarebbe quanto necessario per
assicurare legittimazione al consesso e rafforzarne il ruolo dinanzi agli
stessi organi assembleari di governo.
Si
tratterebbe, in estrema sintesi, di un’assemblea civica:
i) i
cui componenti vengono sorteggiati secondo procedure statistiche sofisticate;
ii)
sviluppata attorno ad un complesso sistema di governance che ne garantisce
l’ordinato funzionamento;
iii)
adeguatamente sorretta sul piano informativo e conoscitivo, tramite il supporto
e la consultazione, in seno al processo deliberativo, di tecnici e ricercatori
indipendenti, selezionati tramite procedure trasparenti;
iv)
che si informa alla massima pubblicità e trasparenza di tutte le sue
operazioni, dalla fase della sua costituzione sino a quella della
deliberazione;
v) che
produce proposte e raccomandazioni che possono influire, senza vincolarle,
sulle scelte pubbliche, e segnatamente su quelle aventi un impatto ambientale e
climatico;
vi)
che si affianca – non si sostituisce – agli organi di governo e ai loro
apparati, tenuti, di riflesso, ad intrattenere con i cittadini sorteggiati un
dialogo trasparente ed uno scambio corretto, leale e costante.
È in
nostra convinzione che se congegnata in questo modo (le opzioni in campo sono varie e
differenti – si vedano, fra gli altri, M. Gerwin, Le assemblee civiche. Guida
ad una democrazia che funziona, e Guida di Extinction Rebellion alle Assemblee
di cittadine e cittadini), questa forma di partecipazione civica possa realmente
garantire, da un lato, la produzione di decisioni pubbliche maggiormente
informate e, dall’altro, l’innalzamento del livello di accettazione e dunque di
osservanza ed attuazione delle stesse.
È da
sostenere con fermezza, infatti, l’idea che la valorizzazione delle occasioni
di partecipazione e di confronto con i cittadini – specie nella fase di attuale
debolezza delle istituzioni democratiche – contribuiscano realmente ad
arricchire la base conoscitiva dei processi decisionali pubblici e a sostenere
la legittimazione delle istituzioni e delle loro decisioni.
Ciò
ribadito, è opportuno trarre un’ulteriore e finale considerazione, che si spera
possa fungere anche da caveat:
le
istituzioni, a qualunque livello di governo si collochino, non possono né
svuotare le proprie decisioni né rinunciare ad assumersi le proprie
responsabilità dinanzi ai cittadini tutti, rinviando a meccanismi di questo
tipo.
Sono
ancora troppo vivi nella memoria per non ricordarli, i casi in cui la politica,
per gestire l’emergenza sanitaria da Covid-19, ha ceduto talora il passo alla “scienza”,
lasciando
che le conoscenze tecniche ammantassero di legittimazione decisioni difficili e
fortemente limitative delle libertà dei cittadini.
Solo,
allora, se la politica non abdica al proprio ruolo, il patto di collaborazione
con la società civile (e la comunità scientifica) può davvero avere un senso e
produrre i suoi frutti, e ciò nell’interesse esclusivo e permanente delle
generazioni future, dell’ambiente e della qualità della vita di tutti noi.
Protezione
del clima e dimensione
intertemporale
dei diritti
fondamentali:
Karlsruhe for Future?
Cerdap.eu
- Andrea De Petris – (21 October 2021) – ci dice:
Diritti e Libertà fondamentali, Diritto
dell'ambiente, Giustizia, Unione europea.
L’articolo
esamina la sentenza con cui lo scorso 24 marzo 2021 il Tribunale Costituzionale
Federale tedesco ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni
della” Legge
sulla protezione del clima del 12 dicembre 2019” (KSG).
Gli
obiettivi nazionali di protezione del clima e i volumi annuali di emissioni
ammessi fino al 2030 che la norma prevede sono stati ritenuti incompatibili con
i diritti fondamentali, in quanto mancano dei requisiti sufficienti per
ulteriori riduzioni delle emissioni a partire dal 2031.
La sentenza riconosce che ogni libertà è potenzialmente
interessata da questi futuri obblighi di riduzione delle emissioni, in quanto
quasi tutte le aree della vita umana sono ancora legate alle emissioni di gas
serra e sono quindi condizionate da drastiche restrizioni che in base
all’attuale disciplina potrebbero aver luogo dopo il 2030.
Il
legislatore avrebbe dovuto quindi assumere delle precauzioni per attenuare
questi oneri elevati, al fine di salvaguardare i diritti fondamentali in
un’innovativa prospettiva “intertemporale”, e garantire così in misura adeguata
anche i diritti delle generazioni future.
1.
Introduzione
Lo
scorso 24 marzo 2021 non era un venerdì, ma nei corridoi del Tribunale
Costituzionale Federale a Karlsruhe erano molti i rappresentanti di gruppi
legati al movimento “Fridays for Future” in attesa.
Nell’occasione, facendo ricorso a contenuti
argomentativi in gran parte inediti e già oggetto di vivace dibattito
dottrinario, il Primo Senato del BVerfG ha emanato una sentenza tesa a
verificare la costituzionalità delle misure contenute nella Legge sulla protezione del clima
(KSG) del 12 dicembre 2019, con cui la Germania si era impegnata a realizzare gli
obiettivi nazionali di protezione del clima e a regolamentare i volumi annuali
di emissione di gas serra (soprattutto CO2) ammessi fino al 2030.
Rispetto
al sistema di regolamentazione delle emissioni, la norma impugnata operava una
netta distinzione tra il periodo fino al 2030 ed il periodo successivo, fino al
previsto raggiungimento della neutralità climatica nel 2050.
Per l’intervallo di tempo fino al 2030, la
legge prevedeva un percorso di riduzione di emissioni con massimali vincolanti
per i settori dell’energia, dell’industria, dell’edilizia, dei trasporti,
dell’agricoltura, della gestione dei rifiuti e altri, unitamente ad un programma
di graduali restrizioni riguardo all’uso del suolo, del cambiamento di uso del
suolo e della gestione del patrimonio forestale.
Per il
periodo successivo al 2030, di contro, la norma non definiva limiti annuali
altrettanto concreti rispetto all’entità delle emissioni consentite, ma si
limitava a prevedere una serie di provvedimenti autorizzativi e vincolanti per
il Governo federale, chiamato a definire un percorso di riduzione delle
emissioni attraverso ordinanze per “ulteriori periodi”, al più tardi nel 2025.
Alle
riduzioni delle emissioni post 2030 tramite ordinanza dell’Esecutivo era posto
il solo vincolo di essere coerenti con il raggiungimento degli obiettivi di
protezione del clima stabiliti nella Legge sulla protezione del clima e
con i requisiti posti dal diritto dell’UE.
2. I
punti salienti del ricorso.
Secondo
i ricorrenti, molti dei quali assai giovani e due dei quali residenti in
Bangladesh e in Nepal, con gli artt. 3 comma 1 e 4 comma 1 frase 3 in combinato
disposto con l’allegato 2 del KSG, lo Stato tedesco non avrebbe regolamentato
in modo sufficientemente efficace il processo di riduzione immediata dei gas ad
effetto serra, in particolare dell’anidride carbonica (CO2):
riduzione
che si renderebbe tuttavia assolutamente necessaria per mantenere il
riscaldamento globale «ben al di sotto di 2 °C ed il più possibile entro il
limite di 1,5 °C», che è l’obiettivo concordato dai cd. “Accordi di Parigi” del
dicembre 2015.
I ricorrenti sostengono che il conseguimento
di tale obiettivo sarebbe tuttavia imprescindibile, dal momento che il mancato
rispetto di tale soglia di incremento metterebbe a rischio l’esistenza di
milioni di vite umane, con conseguenze imprevedibili per la tenuta del sistema
climatico e per la collettività mondiale.
Richiamando
il rapporto “Global Warming of 1.5°C” pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)
nel 2018, il ricorso evidenzia come dal 1° gennaio 2020 sarebbero ancora
disponibili a livello globale 336 Gigatonnellate di emissioni per raggiungere
l’obiettivo di riscaldamento globale “entro 1,5 °C” con la massima probabilità
possibile (66%).
In assenza di misure aggiuntive, sostengono i
ricorrenti, il budget globale di CO2 sarà esaurito tra il 2030 e il 2052.
La Repubblica Federale di Germania può
disporre di un budget di 3,465 Gigatonnellate di CO2, a cui ha diritto in base
alla sua quota di popolazione.
Gli
obiettivi di riduzione delle emissioni fissati nella Legge sulla protezione del
clima sarebbero tuttavia completamente inadeguati a garantire il rispetto di
questo limite, in quanto la riduzione di emissioni di almeno il 55% rispetto al
1990, statuita dalla Legge sulla protezione del clima in attuazione degli
Accordi di Parigi, determinerebbe l’esaurimento del restante budget nazionale
di emissioni di anidride carbonica già nel 2024, o al più tardi nel 2025.
In uno scenario del genere, per mantenere
l’aumento del riscaldamento globale entro i limiti fissati dagli accordi di
Parigi, a cui il Legislatore tedesco è espressamente vincolato, a partire dal
2030 si dovrebbe ricorrere a quello che i ricorrenti definiscono un “arresto totale” (Vollbremsung) delle
emissioni,
con
conseguenti ripercussioni sull’effettivo godimento del loro patrimonio di
libertà costituzionalmente garantite.
I
ricorrenti chiamano a fondamento delle loro argomentazioni in particolare i
doveri di protezione dei diritti fondamentali ex artt. 2 comma 2 frase 1 e 14
comma 1 della Legge Fondamentale, unitamente al diritto fondamentale ad un
futuro degno di un essere umano (“auf menschenwürdige Zukunft”) e ad un livello
minimo di sussistenza ecologica (“auf das ökologische Existenzminimum”),
sussunti rispettivamente dall’art. 2.1 in combinazione con l’art. 20a e
dall’art. 2.1 in combinazione con l’art. 1.1 frase 11 della Legge Fondamentale.
3. La
decisione di Karlsruhe.
Come
ricordato, la Legge sulla protezione del clima ha imposto una riduzione delle
emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030 rispetto ai dati
registrati nel 1990, fissando i percorsi di riduzione applicabili entro tale
data mediante la definizione di quantità annuali di emissioni settoriali
consentite.
In
termini generali, il Tribunale Costituzionale federale non ritiene che con la disposizione
impugnata il legislatore sia venuto meno ai suoi obblighi di tutela dei diritti
fondamentali per quanto attiene al suo dovere di proteggere i ricorrenti dai
pericoli connessi al cambiamento climatico, o che abbia violato il proprio
dovere di tutela del clima sancito dall’art. 20a della Legge Fondamentale.
Tuttavia,
secondo i Giudici di Karlsruhe il KSG viola le libertà dei ricorrenti, alcuni
dei quali come detto ancora molto giovani, in quanto la legge impugnata prevede
attualmente un percorso di riduzione delle emissioni da gas serra fino al 2030
ritenuto troppo blando (sebbene di per sé non viziato da incostituzionalità), e
conseguentemente poco efficace rispetto agli obiettivi complessivi che la norma
si prefigge, dal momento che rinvia a periodi successivi oneri di riduzione
delle emissioni molto più gravosi.
In questo modo, osserva il BVerfG, saranno le
generazioni future a dover sopportare in massima parte uno sforzo molto più
ingente di quello richiesto fino al 2030 per realizzare una efficace politica
di tutela del clima.
D’altro
canto, ricorda la decisione in commento, è la stessa Legge Fondamentale a prevedere
espressamente che le emissioni di gas serra debbano essere ridotte:
una finalità statuita dal citato art. 20a del
Grundgesetz, e che si concretizza nella necessità di contenere l’aumento della
temperatura media globale entro un limite ampiamente inferiore a 2 °C e il più
possibile entro 1,5 °C rispetto al livello preindustriale, in conformità con i
citati “obiettivi di Parigi”.
Per
raggiungere questi parametri, applicando le disposizioni attualmente vigenti in
materia le riduzioni di emissioni che si renderebbero necessarie dopo il 2030
si renderebbero tuttavia sempre più urgenti e drastiche.
La
Corte di Karlsruhe riconosce infatti che, di fatto, ogni libertà è
potenzialmente interessata dai futuri obblighi di riduzione delle emissioni,
dal momento che quasi tutte le aree della vita umana sono legate alle emissioni
di gas serra, e rischierebbero quindi di subire drastiche restrizioni dopo il
2030, in
quanto la Legge sulla protezione del clima non regola dettagliatamente il
processo di riduzione di gas serra dal 2031 in poi.
Pertanto, il processo di riduzione delle
emissioni post 2030 previsto dal KSG non risulta adeguato rispetto agli
obiettivi che la norma stessa dichiara di voler realizzare.
Il
Legislatore avrebbe dunque dovuto assumere le adeguate precauzioni per
attenuare questi oneri elevati per il periodo di implementazione successivo al
2030, soprattutto con riguardo alle ripercussioni della disciplina impugnata
sulle generazioni future, al fine di salvaguardare una piena fruizione delle
libertà fondamentali anche da parte loro.
La sentenza statuisce quindi che, per la
transizione tempestiva verso la neutralità climatica richiesta dagli obiettivi
di Parigi, la disciplina messa in atto in Germania per realizzare il processo
di riduzione delle emissioni di gas serra a partire dal 2031 non è adeguata, ed
impone pertanto al Bundestag di regolare entro il 31 dicembre 2022 più
dettagliatamente l’attuazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni di
gas a effetto serra per i periodi successivi al 2030.
Unitamente
alla portata delle sue conseguenze a livello nazionale, la sentenza assume una
grande importanza anche nel contesto internazionale, sotto vari punti di vista.
In primo luogo, poiché la decisione conferma
il coinvolgimento della Germania nella comunità internazionale, anche sul piano
della tutela ambientale, nella parte in cui sottolinea come una soluzione al
problema della protezione del clima vada cercata appunto anche a livello
sovranazionale.
Allo
stesso modo, il BVerfG ribadisce la vincolatività per la Germania del rispetto
degli obblighi internazionali nella lotta contro il cambiamento climatico e
rispetto ai doveri di tutela ex art. 2 Frase 1 della Legge Fondamentale.
In
secondo luogo, poiché il BVerfG mostra di tenere in debita considerazione la
dimensione scientifica del tema di fondo, ammettendo la possibilità che anche
l’obiettivo fissato rispetto al livello massimo ammissibile di incremento della
temperatura («ben al di sotto dei 2 °C»), descritto solo come un “range”
nell’accordo di Parigi, potrebbe dover essere corretto ulteriormente verso il
basso in considerazione di ulteriori scoperte scientifiche che dovessero
dimostrarne l’inefficacia.
Infine,
è significativo il richiamo ampio ed esplicito che il BVerfG opera
nell’occasione rispetto a sentenze e decisioni dei tribunali internazionali e
nazionali già emesse in questa materia, rafforzando il confronto giudiziario
internazionale sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico.
4. Gli
aspetti innovativi della sentenza.
La
decisione del BVerfG sul KSG ha utilizzato argomentazioni in buona parte
inedite rispetto alla giurisprudenza preesistente, tanto da spingere alcuni a
definire “storica” la pronuncia, soprattutto per quanto attiene alla
considerazione riconosciuta al contenuto dell’art. 20a GG.
In
primo luogo, il Tribunale Costituzionale Federale ravvisa esplicitamente nella Legge Fondamentale un mandato costituzionalmente
vincolante e sindacabile sul piano giudiziario di protezione del clima a carico
delle istituzioni della RFT, derivato dal citato art. 20a GG, che dal 1994 annovera la protezione
delle basi naturali della vita tra le competenze dello Stato.
Va
ricordato come la ricezione dell’art. 20a GG nella giurisprudenza costituzionale
di Karlsruhe abbia conosciuto fasi molto alterne, dal 1994 ad oggi.
Nella sua prima decisione a riguardo, nel
1998, il BverfG si era limitato a definire l’art. 20a GG una “disposizione statuale di rango
programmatico” (Staatszielbestimmung).
La natura
dogmatica dell’articolo si è andata poi definendo piuttosto sommessamente nelle
successive decisioni sia del Tribunale Costituzionale federale che del
Tribunale Amministrativo federale, lasciando spazio solamente ai normali
strumenti esegetici giurisprudenziali.
Ad
es., dall’interpretazione dell’art 20a GG non è stato tratto un obbligo
costituzionale ad agire per realizzare uno “Stato dell’Ambiente” (Umweltstaat):
il portato costituzionale della norma in questione era inteso dal BVerfG con
funzione essenzialmente repressiva, negando il riconoscimento ad istanze giuridiche
individuali.
I
tentativi operati dalla dottrina dell’epoca per delineare un nucleo normativo e
sussumibile nell’art. 20a GG, per quanto ammirevoli, non produssero effetti a
livello giurisprudenzial.
La
novella costituzionale era al massimo considerata «favorevole alla tutela del
bene comune», in particolare nell’ambito dei poteri discrezionali di
valutazione ed accertamento spettanti al Legislatore, da utilizzare al fine di
dare attuazione ad un obbligo di considerare (anche) le finalità di tutela
sancite dall’art. 20a GG.
Successivamente,
l’art. 20a GG è stato utilizzato per qualificare la protezione delle basi
naturali della vita come un bene comune di particolare rilevanza, senza che
d’altro canto gli fosse riconosciuta la capacità di imporre allo Stato obblighi
di protezione più severi di quelli già sanciti dall’art. 2 (2) 1 GG.
Nel complesso, si può convenire che nel suo
primo decennio di utilizzo, la rilevanza costituzionale della norma in oggetto
fosse dunque estremamente contenuta, al punto da farla classificare come una
“lex imperfecta”.
Le
supreme magistrature della RFT evitarono di esaminarne il contenuto materiale,
senza tenere in considerazione la dottrina che nel frattempo andava
sviluppandosi sul tema.
Dal
2006, si sono invece registrati segnali di cambiamento negli orientamenti della
giurisprudenza.
Il
primo a cambiare indirizzo interpretativo fu il Tribunale amministrativo
federale, ponendo in diretta relazione l’art. 20a GG con la protezione del
clima.
Il
BVerfG, dal canto suo, ha modificato le proprie posizioni sul tema a partire
dal 2007, in un caso di controllo astratto di una norma, in cui il Land
Sassonia-Anhalt aveva impugnato la Legge Federale sullo Scambio di Emissioni
chiamando in causa appunto l’art. 20a GG.
Il Legislatore, nell’emanare la norma
contestata, si era attivato per dare attuazione ad una Direttiva comunitaria relativa al
Protocollo di Kyoto (1997).
Il
Bundesverfassungsgericht attestò la conformità della norma impugnata con il
dettato costituzionale, affermando che l’art. 20a GG obbliga il Legislatore a «dare attuazione nella sua
legislazione al mandato contenuto nell’art. 20a della Legge Fondamentale e ad
emanare disposizioni adeguate di protezione dell’ambiente».
Per la prima volta, dunque, il Tribunale
Costituzionale federale riconosceva esplicitamente nell’art. 20a GG un «mandato
costituzionale» a carico delle istituzioni federali di garantire la «protezione
delle basi naturali della vita», sebbene da tale articolo non riuscisse ad
evincersi una formulazione specifica del modo in cui tale mandato avrebbe
dovuto trovare realizzazione.
Al Legislatore restava in primo luogo il ruolo
di soggetto attuatore del mandato costituzionale, mandato che poteva da quel
momento in poi richiedere, o almeno legittimare, sia un intervento di difesa da
un pericolo (Gefahrenabwehr) che di prevenzione di un rischio (Risikovorsorge).
Nel
2009, il I Senato del BVerfG ha poi dichiarato che l’art. 20a GG obbliga il
Legislatore a emanare norme adeguate alla protezione dell’ambiente.
Nel
caso in esame Karlsruhe aveva comunque escluso la rilevanza della tutela della
sicurezza ambientale a lungo termine con riferimento al posizionamento di
scorie nucleari, ritenendo che il tema non avesse alcuna relazione con gli
interessi presenti ed attuali del ricorrente.
Secondo i Supremi giudici tedeschi, un diritto
fondamentale giustiziabile finalizzato alla prevenzione di pericoli per
l’ambiente e le generazioni future che si verificheranno solo in un momento
successivo alla vita del ricorrente non può essere dedotto né dall’art. 2 (2) 1
GG, né da altre garanzie di diritti fondamentali previste dal dettato
costituzionale.
Nel
caso in esame, dunque, la questione dell’effetto a lungo termine dell’art. 20a
GG – quello cioè relativo «alla responsabilità per le generazioni future» – viene traslato nell’orizzonte di
intervento dell’art. 2 (1) GG, e comunque non riconosciuto come meritevole di
speciale tutela.
Come
visto, invece, nella decisione sul KSG del 24 marzo 2021 il Tribunale
Costituzionale federale non ripete la stessa strategia interpretativa, e
soprattutto non intende il termine “generazioni future” come un concetto collocato in
un futuro indeterminato, ma lo considera come riferito anche a categorie di
soggetti legati al momento presente.
Basandosi
sugli studi scientifici disponibili sul tema, nella sua ultima sentenza
riferita all’art. 20a GG il BVerfG interpreta il mandato sulla protezione dell’ambiente
in modo tale che l’azione delle istituzioni debba imprescindibilmente condurre
al conseguimento della neutralità climatica, e chiarisce come vi sia un solo
modo per raggiungere tale obiettivo: essendo la crisi climatica causata da
comportamenti attuati a livello globale, e le cui conseguenze causano effetti
devastanti per l’intera collettività internazionale, è necessario un piano di
intervento sia politico che giuridico di portata planetaria.
Allo
stesso tempo, tuttavia, la sentenza ammonisce sul fatto che l’inazione di altri
Stati non deve essere addotta a giustificazione per una mancanza di impegno da
parte delle istituzioni nazionali tedesche, che non possono per questo venire
meno alle loro responsabilità sancite da precisi obblighi costituzionali
interni.
Inoltre,
la decisione amplia considerevolmente la portata del controllo di
costituzionalità sulle misure relative alla protezione climatica:
un
aspetto che ha sorpreso molti, ma che ha anche suscitato reazioni positive, ad
es. da parte di chi – come Kurt Faßbender – ritiene che il BVerfG abbia agito
bene nel trasporre in una indefinita dimensione futura la questione della
tutela climatica, fornendo in tal modo una interpretazione corretta dell’art.
20a GG, nella parte in cui impegna le istituzioni nazionali a proteggere i
diritti delle generazioni future.
Un
altro aspetto innovativo della decisione riguarda il suo richiamo alla
rilevanza sovranazionale delle scelte operate da singole istituzioni nazionali
in materia climatica.
Nel momento in cui tali scelte provocano
conseguenze anche per gruppi di persone sottorappresentate – o non
rappresentate affatto – nelle istituzioni che assumono tali scelte, si pone un
problema per la loro legittimità, dal momento anche persone che vivono fuori
dalla Germania sono drammaticamente colpite dal cambiamento climatico.
A
questo riguardo, il BVerfG riconosce che il dovere del Governo tedesco di
proteggere i diritti fondamentali non si arresta alle frontiere nazionali del
Paese, ma si estende anche alle persone residenti all’estero, compreso il
gruppo di ricorrenti che vivono in Nepal e Bangladesh.
Nel caso in esame, in ogni caso, Karlsruhe
ritiene che il Governo abbia soddisfatto i suoi doveri di protezione, in
particolare con la ratifica dell’Accordo di Parigi del 2015, e questo ha
condotto al respingimento dei ricorsi presentati da cittadini stranieri
nell’occasione:
tuttavia, la posizione espressa dalla sentenza
sul punto potrebbe assumere un immenso significato nei casi futuri in cui
l’unico modo per superare i problemi globali fosse rappresentato dalla
cooperazione internazionale, con i cittadini stranieri che potrebbero d’ora in
poi costringere la Germania ad essere all’altezza dei suoi doveri di “buon
cittadino globale”.
Il
punto più interessante della sentenza, tuttavia, attiene alle modalità con cui la
sentenza configura la violazione dell’obbligo di protezione del clima, che deriva da una concezione
innovativa di libertà costituzionalmente garantita fruibile non solo nel tempo
presente, ma anche nel futuro.
Il BVerfG spiega come la tutela ed il
miglioramento delle condizioni climatiche devono essere perseguite
efficacemente nel nostro tempo poiché, diversamente, si renderanno necessarie
misure molto più invasive e penalizzanti per l’esercizio delle libertà delle
generazioni future.
In
questo senso, la sentenza parla di una «protezione intertemporale della libertà» (intertemporale
Freiheitssicherung), tale per cui la tutela costituzionale dei diritti
fondamentali garantisce i ricorrenti contro un unilaterale ed indebito
slittamento nel futuro dell’onere di riduzione dei gas serra previsto dall’art.
20a GG.
Il legislatore, nel momento in cui emana una
disciplina mirata a garantire l’esercizio delle libertà fondamentali, deve
farlo tenendo in considerazione non solo l’effettività del loro godimento nel
presente, ma anche nel futuro, in quanto i comportamenti odierni definiscono le
condizioni di esercizio delle medesime libertà anche per gli anni e le
generazioni a venire.
Colpisce
a questo riguardo il timore di chi legge nell’estensione “intertemporale” della
protezione dei diritti fondamentali condotta dal BVerfG un’ulteriore
restrizione della libertà dei diritti fondamentali:
un
apparente paradosso, spiegato con l’argomentazione secondo cui con la dogmatica
dei diritti fondamentali inaugurata dalla decisione in commento, questi non
possono più essere limitati solo da diritti fondamentali di terzi concretamente
nominati ed effettivamente limitati, ma (anche) in favore di un esercizio
futuro della libertà da parte di terzi.
Se si
accolgono le risultanze scientifiche sull’emergenza climatica, tuttavia, non si
vede come si possa conservare un’effettività delle libertà costituzionalmente
garantite se non ponendo oggi le basi per consentirne il godimento anche in
futuro: che ciò comporti una limitazione all’esercizio dei diritti fondamentali
dei contemporanei è, in fondo, il nucleo essenziale delle conclusioni a cui è
pervenuta la ricerca scientifica in materia.
È
proprio per questo che Karlsruhe sanziona il comportamento del legislatore il
quale, avendo disciplinato in modo dettagliato il processo di riduzione delle
emissioni solo fino al 2030 e peraltro attingendo in questa fase a gran parte
del budget di produzione di CO2 a disposizione della RFT, ha ignorato la dimensione
intertemporale delle libertà costituzionali.
È in questa mancata considerazione delle
conseguenze future del processo di contenimento del riscaldamento globale che
si sostanzia il vizio di costituzionalità del KSG, ed è per questo che Governo e
Bundestag sono chiamati a regolare in modo più efficiente e concreto la
riduzione delle emissioni anche dal 2031 in poi, avendo cura che l’obiettivo
finale della neutralità climatica venga raggiunto entro il 2050.
Spicca,
dunque, questa richiesta di un approccio responsabile alla libertà, che non può
(più?) essere pensata solo nel “qui e ora”, ma deve tenere in considerazione le
implicazioni del suo esercizio anche per il futuro.
In
questo, l’azione politica è chiamata ad operare conformandosi ai risultati
dell’analisi scientifica, che in un contesto come quello climatico forniscono
parametri di riferimento imprescindibili per una regolamentazione adeguata
della materia.
Inoltre, come è stato fatto opportunamente
notare, l’attenzione ad una concezione della libertà che deve necessariamente
essere preservata anche per il futuro, protegge anche la democrazia: più tardi
si interviene, infatti, più drastiche dovranno essere le misure e minore sarà
il margine di manovra a disposizione dei futuri legislatori, con una
probabilità sempre più elevata che, una volta inaugurata questa nuova linea
giurisprudenziale, Karlsruhe registri un’ondata di ricorsi da parte di
cittadini insoddisfatti rispetto alla tutela intertemporale dei diritti
fondamentali di norme in materia ambientale talmente corposa da rischiare di
tradursi in una “ecodittatura”.
La
sentenza valuta la legittimità del KSG anche alla luce del principio di
proporzionalità:
pur
riconoscendo un margine di apprezzamento al legislatore nel dare attuazione
agli obblighi ex art. 20a GG, il BVerfG conclude sul punto che le attuali disposizioni di
protezione del clima violano il principio di proporzionalità.
Questo
principio richiede, secondo Karlsruhe, una distribuzione efficiente e
rispettosa dei diritti connessi al budget di CO2 rimanente.
In
questo modo, per la prima volta il Tribunale Costituzionale Federale introduce
l’obbligo di protezione delle generazioni future unitamente al principio di
equità intergenerazionale nella Costituzione tedesca, statuendo che «ad una
generazione non deve essere permesso di consumare grandi porzioni del budget di
CO2 sopportando una parte relativamente minore dello sforzo di riduzione [di
emissioni], se questo comporterebbe lasciare alle generazioni successive un
drastico onere di riduzione ed esporre le loro vite a ampie perdite di libertà».
Con l’aggravarsi del cambiamento climatico, le
misure di protezione del clima si configurano un dovere costituzionale che
interferisce con tutti i tipi di libertà individuali, e un tale onere non può
essere posto sproporzionatamente sulle generazioni future.
Anche
se le misure concrete che saranno necessarie in futuro non sono ad oggi secondo
il BVerfG prevedibili, il Tribunale presume tuttavia un rischio significativo
di gravi oneri che richiedono misure precauzionali da assumersi nel presente,
poiché un tale processo «richiede anche l’avvio della transizione verso la neutralità
climatica in tempo utile».
Perché
questa condizione sia soddisfatta, un semplice obbligo governativo di
aggiornare gli obiettivi climatici entro il 2025 e oltre tramite ordinanze,
come previsto dalla vigente Legge sulla protezione del clima, è insufficiente:
pertanto,
«il
legislatore deve perlomeno determinare l’entità delle quantità annuali di
emissioni da fissare per i periodi successivi al 2030 stesso o imporre
requisiti più dettagliati per la loro definizione da parte dell’autorità
esecutiva responsabile dell’emissione dell’ordinanza».
Ancora,
la sentenza mostra attenzione anche agli aspetti tecnologici connessi alle
politiche climatiche, nel momento in cui impone di «evitare una distribuzione troppo
miope e quindi unilaterale degli oneri di libertà e di riduzione [delle
emissioni] a scapito del futuro».
Ciò
richiede che lo scarso budget residuo di CO2 venga consumato con sufficiente
cautela, guadagnando così tempo per avviare le trasformazioni necessarie ad
attenuare «le
perdite di libertà causate dalla riduzione costituzionalmente inevitabile delle
emissioni […],
rendendo
disponibili alternative comportamentali neutrali per la CO2».
Pertanto,
la norma impugnata risulta incostituzionale anche perché consente di consumare
una quantità talmente ampia del bilancio rimanente di emissioni «che le future perdite di libertà
assumerebbero inevitabilmente proporzioni inaccettabili dal punto di vista
odierno, perché non rimarrebbe tempo per sviluppi e trasformazioni in grado di
mitigare» gli effetti indicati. Nel complesso, dunque, emerge dalla sentenza un’interpretazione
innovat
iva
dell’art. 20a GG, per alcuni persino una sua “oggettivizzazione”, tale da
delineare un “diritto fondamentale” ad una protezione assoluta contro il superamento
del limite di riscaldamento globale di 1,5-2 °C.
Tuttavia,
se ne lamenta allo stesso tempo una definizione così ristretta in termini di
protezione sostanziale, da renderla almeno per il momento di rilevanza
contenuta rispetto alla dogmatica dei diritti fondamentali.
Da non
sottovalutare, infine, le possibili conseguenze dell’apertura alla dimensione
intertemporale delle libertà condotto dal BVerfG sull’operato della giustizia
amministrativa, nel momento in cui questa si troverà a valutare atti di natura
esecutiva in materia ambientale.
Opportunamente,
ad ogni modo, Karlsruhe sceglie di rimettere al titolare del potere di
decisione in materia il compito di rivedere la normativa costituzionalmente
illegittima, affinché operi i correttivi richiesti dalla pronuncia in esame.
5. Le
successive modifiche alla Legge sulla protezione del clima.
Sebbene,
come ricordato, il BVerfG avesse concesso al Legislatore federale tempo fino al
31 dicembre 2022 per eseguire le modifiche necessarie a eliminare i profili
ritenuti incostituzionali della Legge sulla protezione del clima, già il 12
maggio 2021 il Governo tedesco aveva presentato il disegno di revisione della
norma, approvato poi dal Bundestag il 24 giugno e dal Bundesrat il giorno
successivo.
La
legge emendata incrementa gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2,
innalzandoli di 10 punti percentuali fino ad almeno il 65%:
ciò
significa che la Germania dovrà ridurre le sue emissioni di gas serra del 65%
entro il 2030 rispetto al 1990.
Le
riduzioni del biossido di carbonio entro il 2030 saranno più forti nei settori
riguardanti energia, industria, trasporti, edifici e agricoltura.
Inoltre,
è previsto che gli obiettivi climatici siano in futuro regolarmente sottoposti
a monitoraggio per verificare lo stato della loro realizzazione.
Per la prima volta, il Consiglio di Esperti
sulle Questioni Climatiche presenterà un rapporto ogni due anni a partire dal
2022 sugli obiettivi, le misure e le tendenze raggiunte finora.
Se gli
obiettivi non saranno rispettati, il Governo federale sarà chiamato ad assumere
provvedimenti immediati.
È
previsto un obiettivo di riduzione delle emissioni di almeno l’88% entro l’anno
2040, ma la novella prevede anche obiettivi concreti annuali di riduzione delle
emissioni fino al 2030.
Entro
il 2045, la Germania dovrà raggiungere la neutralità dei gas a effetto serra,
con il conseguimento di un graduale equilibrio tra le emissioni di gas serra e
la loro riduzione:
seguendo
questa strategia, dopo il 2050 il governo tedesco punta a raggiungere un
livello negativo di emissioni negative, conservando nei cd. pozzi naturali più
gas serra di quanti ne emetta.
Ancora,
la Legge sottolinea il contributo degli ecosistemi naturali alla protezione del
clima. Le foreste e le brughiere sono serbatoi di carbonio (i citati pozzi
naturali di CO2), importanti per vincolare le emissioni residue inevitabili di
gas a effetto serra.
Per
raggiungere gli ambiziosi obiettivi di protezione del clima stabiliti nella
Legge, il Governo tedesco ha adottato un programma di emergenza da € 8
miliardi, con cui fornire ulteriore sostegno alla decarbonizzazione
dell’industria, alla produzione di idrogeno verde, alla ristrutturazione di
edifici efficienti dal punto di vista energetico, alla mobilità rispettosa del
clima, ad una silvicoltura ed agricoltura sostenibili.
Il programma si concentra principalmente su
misure a breve termine, in grado di ridurre in modo visibile e verificabile le
emissioni di gas a effetto serra.
A
livello europeo, le proposte concrete della Commissione UE sulle misure per una
maggiore protezione del clima non sono ancora in vigore:
pertanto, la novella tedesca prevede che una
proposta legislativa per l’adeguamento ai requisiti europei sia presentata
entro sei mesi dalla loro entrata in vigore.
A
partire dal 2024, anche gli strumenti di tariffazione di CO2 dovranno essere
valutati ogni due anni in conformità con il Regolamento UE previsto in materia.
L’obiettivo
a cui la riforma del KSG punta è un insieme adeguatamente coordinato di
strumenti operativo sul piano nazionale ed europeo.
La Legge
sulla protezione sul clima resta in ogni modo una “norma cornice”, la cui
implementazione necessita di un’ampia serie di provvedimenti di natura
esecutiva che interessano aspetti amministrativi e tecnici connessi al tema
generale, e che dovranno essere a loro volta adeguati alle nuove disposizioni
contenute nella riforma appena emanata.
6. Un
nuovo dialogo fra Corti su clima e ambiente?
Nonostante
la sua innovatività rispetto alla giurisprudenza nazionale pregressa, la
sentenza del Tribunale Costituzionale ha richiamato le argomentazioni sostenute
da pronunce emesse su temi connessi alla conservazione del clima da parte di
altre massime corti nazionali.
Una di
queste decisioni riguarda la vicenda della fondazione olandese Urgenda, i cui iscritti fin dagli anni ‘90
hanno ripetutamente invocato l’intervento dei giudici contro stati o singoli
soggetti per far stabilire in tribunale le loro responsabilità riguardo al
cambiamento climatico, ma sempre senza successo.
Alla
fine del 2019, invece, una causa intentata da Urgenda è stata una delle prime a ricevere
una decisione positiva da pare dello Hoge Raad, il più alto tribunale
civile dei Paesi Bassi, che ha obbligato lo Stato olandese a ridurre le emissioni di
gas serra del 25% entro la fine del 2020 rispetto al 1990.
La
causa prendeva le mosse dall’obiettivo posto a carico dello Stato olandese per
il 2020 di ridurre le emissioni di gas-serra del 20% rispetto ai livelli del
1990.
Urgenda riteneva invece che, dati i gravi
rischi del cambiamento climatico, l’obiettivo olandese non fosse sufficiente a
garantire una effettiva tutela climatica, chiedendo una riduzione delle
emissioni di almeno il 25% nel 2020 rispetto ai livelli del 1990.
Nel 2015 il Tribunale Distrettuale dell’Aia si
era pronunciato in accordo con Urgenda, ordinando alle autorità nazionali di ridurre le
emissioni di gas serra del 25% entro la fine del 2020, ordine poi confermato
dalla Corte d’appello dell’Aia nel 2018.
La decisione della Corte Suprema del 20
dicembre 2019 ha definitivamente respinto il ricorso dello Stato olandese
contro questa deliberazione.
Lo
Stato olandese aveva sostenuto che spetta ai politici decidere sulla riduzione
delle emissioni di gas serra, ma secondo la Corte suprema la Costituzione
olandese impone ai tribunali nazionali di applicare le disposizioni della CEDU,
a cui le leggi nazionali devono conformarsi anche in materia di tutela
climatica, confermando la correttezza della decisione emessa dalla Corte
d’appello.
La
sentenza olandese, che si basava su un’interpretazione degli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo (CEDU), è stata richiamata ben cinque volte nella decisione del BVerfG, ad es.
nella parte in cui stabilisce che la Germania non può sottrarsi alle proprie
responsabilità in materia climatica chiamando in causa le emissioni di gas
serra prodotte da altri Stati.
Dello
stesso tenore anche la decisione della Corte Suprema irlandese nel caso Friends of the Irish Environment v.
Ireland del 31 Luglio 2020, scaturita da un’iniziativa del gruppo ambientalista Friends of the
Irish Environment (FIE), che aveva intentato una causa presso l’Alta Corte irlandese,
sostenendo che l’approvazione nel 2017 da parte del governo nazionale del “Piano Nazionale di Contenimento” (National Mitigation Plan) delle
emissioni di gas serra violava l’Irish Climate Action and Low Carbon Development Act
2015, la
Costituzione irlandese e gli obblighi imposti alle autorità nazionali dalla
Convenzione Europea dei Diritti Umani, in particolare il rispetto del diritto
alla vita ed alla vita privata e familiare.
FIE
aveva affermato che il National Mitigation Plan, finalizzato ad implementare il
passaggio ad un’economia a basse emissioni di carbonio entro il 2050, fosse incoerente con la legge e con
gli impegni dell’Irlanda in materia di diritti umani, in quanto non progettato
per ottenere sostanziali riduzioni delle emissioni a breve termine.
FIE
chiedeva pertanto all’Alta Corte di annullare la decisione del governo di
approvare il piano e, se del caso, ordinare che venisse redatto un nuovo piano.
Dopo
una sentenza di primo grado che dava ragione al Governo olandese, il 31 luglio
2020 la Corte Suprema ha revocato la decisione del tribunale inferiore
annullando il Piano.
Secondo
la Corte, che pure ha escluso la legittimità del FIE a presentare ricorsi ai
sensi della Costituzione o della CEDU, il Piano non possiede il grado di
specificità che la legge richiede, perché non spiega come l’Irlanda dovrebbe
raggiungere i suoi obiettivi in materia climatica per il 2050.
Statuendo
che un programma adeguato di riduzione delle emissioni deve essere
sufficientemente dettagliato in merito alle specifiche strategie da attuare su
tutto il periodo della sua validità fino al 2050, e giudicando il National Mitigation Plan troppo generico e quindi non valido, la Corte Suprema irlandese ha fornito
un supporto argomentativo rilevante per la sentenza del BVerfG.
Inoltre,
la sentenza di Karlsruhe non si è limitata a citare soltanto corti supreme
europee, ma
ha incluso anche pronunce extraeuropee sul cambiamento climatico, secondo una
strategia coerente con una giurisprudenza che riconosce l’importanza cruciale
della dimensione internazionale della protezione del clima.
Il
Primo Senato cita, da un lato, il caso neozelandese Thomson, in cui l’Alta
Corte aveva sottolineato l’obbligo statale di una politica di protezione del
clima basata sulla scienza e rivedibile giudizialmente, e richiama dall’altro
il caso “Juliana” sorto negli Stati Uniti, in cui bambini e giovani avevano
cercato di obbligare lo Stato di Washington a ridurre i suoi gas serra per via
giudiziaria.
Nel
caso Thomson, l’Alta Corte neozelandese aveva fornito un chiaro esempio di come
la complessa questione della giustificabilità dell’azione di tutela per il
clima possa essere affrontata prendendo in considerazione decisioni straniere.
La vicenda aveva preso l’avvio dall’iniziativa
di Sarah Thomson, una studentessa di legge neozelandese, che nel 2015 aveva
presentato un ricorso contro il Ministro neozelandese per il cambiamento
climatico dell’epoca, sostenendo che questi avesse fallito in diversi aspetti
rispetto alla definizione degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas
serra richiesti dalla legge neozelandese del 2002 sulla risposta al cambiamento
climatico.
Tale
legge ampliava gli obblighi della Nuova Zelanda in quanto membro dell’Allegato I della Convenzione
quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention
on Climate Change – UNFCCC), e richiedeva al Ministro di fissare un obiettivo di riduzione
delle emissioni in linea con le dichiarazioni del Gruppo intergovernativo sui
cambiamenti climatici (IPCC), nonché di valutare l’opportunità di rivedere tale
obiettivo a fronte di analisi aggiornate in materia da parte dell’IPCC.
L’Alta
Corte aveva valutato la legalità di entrambi gli obiettivi 2030 e 2050 fissati
dal Ministro nel 2015:
per
quanto riguarda l’obiettivo del 2050, la Corte aveva decretato che, sebbene ai
sensi della legge del 2002 al Ministro fosse riconosciuta la discrezionalità di
determinare e rivedere l’obiettivo di riduzione delle emissioni della Nuova
Zelanda per il 2050, tale discrezionalità era limitata dallo scopo della Legge
e dalle prove contenute nel V Rapporto di Valutazione dell’IPCC, che fissavano
un obiettivo nazionale di emissioni inferiore a quello stabilito sulla base del
IV Rapporto di Valutazione dell’IPCC.
Tuttavia,
poiché non era chiaro se una revisione dell’obiettivo del 2050 alla luce del V
Rapporto IPCC avrebbe certamente condotto alla revisione dell’obiettivo della
legge nazionale, e poiché la questione politica era stata superata dalle
recenti elezioni (che nel 2017 avevano portato ad un avvicendamento del
Ministro coinvolto nel ricorso), la Corte aveva concluso che il nuovo Ministro
per il cambiamento climatico avrebbe dovuto rivedere l’obiettivo, ma non che
una decisione di mantenere l’obiettivo esistente dopo tale revisione sarebbe
stata necessariamente illegale.
Per
quanto riguarda l’obiettivo previsto nel piano di intervento neozelandese per
il clima per il 2030, la Corte neozelandese aveva decretato di possedere
l’autorità di rivedere la fissazione di quell’obiettivo da parte del Ministro
competente, ma che non sussistevano ragioni per invalidarlo, in quanto questi non aveva commesso
«alcun errore rivedibile per cui la Corte possa intervenire».
Per
quanto attiene all’autorità degli organi giurisdizionali di esaminare le
politiche di intervento contro il cambiamento climatico, l’Alta Corte aveva
osservato come «può essere appropriato che i tribunali nazionali svolgano un ruolo nel
processo decisionale del governo sulle politiche relative al cambiamento
climatico […]. I tribunali nazionali hanno riconosciuto che l’intera materia
non rappresenta una “no go area”, sia perché lo Stato ha assunto degli obblighi
internazionali, sia perché il problema è globale e gli sforzi di un Paese da
solo non possono prevenire i danni alla popolazione di quel Paese e al loro
ambiente, sia perché la risposta del Governo implica la ponderazione di fattori
sociali, economici e politici, sia a causa della complessità della scienza.
I
tribunali hanno riconosciuto l’importanza della questione per il pianeta e i
suoi abitanti, e che coloro che rientrano nella giurisdizione di una corte
fanno necessariamente parte di tutti coloro che sono vittime di sforzi
inadeguati rispetto al cambiamento climatico.
Le
varie corti nazionali hanno ritenuto di avere un ruolo adeguato da svolgere nel
processo decisionale del governo su questo argomento, pur sottolineando che ci
sono limiti costituzionali rispetto alla misura con cui tale ruolo può
estendersi.
I rapporti dell’IPCC forniscono una base
oggettiva su cui possono essere prese le decisioni.
I rimedi sono concepiti per garantire che sia
intrapresa un’azione appropriata, lasciando le scelte politiche sul contenuto
di tale azione all’organo statale competente».
Sebbene
sommario, anche il riferimento di Karlsruhe al caso “Juliana” sollevato davanti
ai giudici del IX Circuito delle Corti d’Appello degli Stati Uniti, conferma la
possibilità di espansione del dialogo giurisdizionale sul clima in ambito
internazionale.
Ciò
che secondo il BVerfG rileva nella decisione in questione, è che le esigenze di
protezione non vengono meno per il fatto che il cambiamento climatico è un
fenomeno globale, e che coinvolge la responsabilità di molti soggetti.
Karlsruhe non ha tenuto conto del fatto che in
“Juliana” la Corte d’appello avesse respinto con riluttanza il caso – pur condividendo il timore dei
ricorrenti che il mondo sia «sull’orlo della distruzione» a causa del
cambiamento climatico.
Ciononostante, secondo l’opinione della
maggioranza dei giudici d’appello, non rientra nei loro poteri costituzionali
fermare l’imminente catastrofe climatica, poiché «non tutti i problemi che
pongono una minaccia – anche un chiaro e presente pericolo – all’esperimento
americano possono essere risolti dai giudici federali».
In ogni caso, sia “Thomson” che “Juliana” sono
citate dal Tribunale Costituzionale Federale unitamente ad altre sentenze, a
riprova del fatto che lo Stato non può sottrarsi alle proprie responsabilità in
materia di protezione del clima chiamando in causa le emissioni di CO2 prodotte
in altri Stati.
Manca
nell’elenco, ma colpisce per la contiguità con le argomentazioni accolte da
Karlsruhe, la sentenza della Corte Suprema USA Massachusetts v. Environmental
Protection Agency del 2.4.2007, un caso in cui dodici Stati e diverse città
degli Stati Uniti avevano citato in giudizio l’Environmental Protection Agency
(EPA) per costringere l’agenzia federale a
classificare l’anidride carbonica e altri gas a effetto serra come sostanze
inquinanti.
Con
una maggioranza di 5-4, la Corte aveva rinviato la questione all’EPA, chiedendo
di motivare più adeguatamente le ragioni per cui essa escludesse i gas citati
dalle sostanze inquinanti per l’ambiente.
Nel corso del processo, l’EPA aveva escluso la
possibilità che una regolamentazione delle emissioni di nuovi veicoli (negli
USA) potesse mitigare il cambiamento climatico globale, in quanto qualsiasi
riduzione nazionale delle emissioni sarebbe stata vanificata dalla produzione
di gas serra in altre parti del mondo, in particolare in Cina ed India.
La Corte aveva dissentito sul punto,
contraddicendo la cd. “Death by Thousand Cuts Doctrine”, secondo cui non è il taglio di un
singolo albero a decretare la morte di una foresta:
invece,
i Supremi Giudici avevano osservato che l’assunto dell’EPA si basava sulla
premessa sbagliata che un incremento marginale della riduzione di gas serra non
possa essere invocato in sede giurisdizionale, appunto per la sua marginalità.
In realtà, secondo la Corte l’enormità delle
potenziali conseguenze legate al cambiamento climatico causato dall’uomo rende
non determinante il fatto che i Paesi in via di sviluppo come Cina e India
siano pronti ad aumentare le emissioni di gas serra in modo sostanziale, in
quanto «una
riduzione delle emissioni interne rallenterebbe il ritmo dell’aumento delle
emissioni globali, indipendentemente da qualunque cosa accada altrove».
Le
pronunce di Nuova Zelanda e Stati Uniti forniscono quindi una sorta di scudo
contro la possibile obiezione che l’enfasi di Karlsruhe sulla responsabilità
internazionale della protezione del clima sia espressione di una visione
«tipicamente tedesca o almeno eurocentrica» della materia.
Anche
a livello sovranazionale europeo, peraltro, è lecito attendersi in tempi brevi
pronunce giurisprudenziali sugli stessi temi affrontati dalla decisione del
Tribunale Costituzionale Federale.
Sono
infatti diversi i casi sul clima attualmente pendenti davanti alla Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo:
è noto
il ricorso di sei giovani portoghesi di età compresa tra gli 8 e i 21 anni
contro 33 Stati membri del Consiglio d’Europa, dichiarato ammissibile a fine
2020 ed accompagnato da una grande attenzione mediatica, a cui si allinea il
caso sollevato dall’associazione Klima-Seniorinnen contro la Svizzera, ammesso
alla valutazione della Corte di Strasburgo il 26 marzo 2021.
La
Corte EDU ha recentemente riconosciuto priorità a entrambi i casi, in
considerazione dell’importanza e dell’urgenza delle sollevate.
A
questi due procedimenti potrebbe aggiungersi il ricorso presentato nell’aprile
2021 alla Corte di Strasburgo da un cittadino austriaco affetto da una forma di
sclerosi multipla dipendente dalla temperatura (nota come Fenomeno di Uhthoff),
costretto alla sedia a rotelle quando si raggiungono i 25 °C, le cui condizioni
di vita sono quindi fortemente influenzate dalla situazione climatica.
In
generale, sembra che si vada formando un’attenzione giudiziaria più forte – non
solo in ambito europeo – riguardo agli obblighi degli Stati in tema di
politiche climatiche.
Sempre
più spesso, i tribunali si vedono chiamati a riconoscere e denunciare i
fallimenti dei legislatori nazionali rispetto alla protezione del clima.
Anche
se le singole sentenze non hanno un impatto diretto sui procedimenti in altri
Paesi, esse possono incentivare le iniziative di potenziali ricorrenti presso
altri tribunali nazionali, implementando un generale processo di consapevolezza
dell’interdipendenza tra comportamenti umani, regolamentazione delle politiche
ambientali e condizioni del clima a livello globale.
Anche lo stesso BVerfG sembra intenzionato a
favorire lo sviluppo di questa giurisprudenza ed un innovativo dialogo tra
corti sui temi della tutela del clima, come dimostra la rapidità con cui sono
state rese disponibili le traduzioni in inglese e francese del comunicato
stampa riassuntivo dei tratti salienti della decisione, nonché – poco dopo – la
sua traduzione integrale in lingua inglese sul sito della Corte tedesca.
Da
notare, in chiusura, come appaiono non condivisibili le accuse secondo cui tali
pronunce imporrebbero ai rispettivi legislatori nazionali delle revisioni
normative talmente invasive delle discipline vigenti da compromettere il
rispetto del principio della separazione tra i poteri.
Se si
accolgono le premesse scientifiche alla base delle sentenze citate, secondo cui
sussiste uno stringente rapporto di causa/effetto tra le politiche climatiche e
le condizioni di vita collettive attuali e (soprattutto) future, decisioni come
quelle dello Hoge Raad olandese sul caso Urgenda o del BVerfG sul KSG risultano
perseguire l’obiettivo di garantire diritti, libertà ed autonomie individuali,
in piena conformità con il compito più tipico e consolidato che in era moderna
sia stato attribuito al potere giudiziario.
Come è
stato opportunamente sottolineato proprio a commento della sentenza in parola,
d’altro canto, se è vero che gli interessi in gioco in relazione alla tutela
climatica esulano le esigenze delle sole generazioni presenti, è altrettanto
vero che le conseguenze delle deliberazioni assunte (o meno) in materia
impattano ormai direttamente sulla qualità dell’esistenza, quando non della
mera sopravvivenza, dei nostri contemporanei, come purtroppo proprio i tragici
eventi dello scorso luglio 2021 in Germania ancora una volta drammaticamente
dimostrano.
Aspettando
la fine del mondo.
Unz.com
- PEPE ESCOBAR – (11 APRILE 2023) – ci dice:
Non
possiamo nemmeno iniziare a scandagliare gli effetti a catena senza sosta
derivanti dal terremoto geopolitico del 2023 che ha scosso il mondo:
Putin e Xi, a Mosca, segnalano di fatto
l'inizio della fine della Pax Americana.
Questo
è stato l'ultimo anatema per le élite egemoniche anglo-americane per oltre un
secolo:
una partnership
strategica firmata, sigillata e completa di due concorrenti alla pari, che
intreccia una massiccia base manifatturiera e la preminenza nella fornitura di
risorse naturali – con armi russe all'avanguardia a valore aggiunto e “nous”
diplomatico.
Dal
punto di vista di queste élite, il cui Piano A è sempre stato una versione
degradata del” Divide et Impera” dell'Impero Romano, questo non sarebbe mai
dovuto accadere.
Infatti,
accecati dall'arroganza, non l'hanno mai visto arrivare.
Storicamente, questo non si qualifica nemmeno
come un remix del Torneo delle Ombre; è più simile a “Tawdry Empire Left in the
Shade,” "schiuma alla bocca" (copyright Maria Zakharova).
Xi e
Putin, con una mossa di Sun Tzu, hanno immobilizzato l'orientalismo,
l'eurocentrismo, l'eccezionalismo e, ultimo ma non meno importante, il
neocolonialismo.
Non
c'è da stupirsi che il Sud del mondo sia stato inchiodato da ciò che si è
sviluppato a Mosca.
Aggiungendo
la beffa al danno, abbiamo la Cina, la più grande economia del mondo di gran
lunga se misurata dalla parità di potere d'acquisto (PPP), nonché il più grande
esportatore.
E
abbiamo la Russia, un'economia che per PPP è equivalente o addirittura più
grande di quella tedesca – con l'ulteriore vantaggio di essere il più grande
esportatore di energia del mondo e non costretto a deindustrializzarsi.
Insieme,
in sincronia, sono concentrati sulla creazione delle condizioni necessarie per
aggirare il dollaro USA.
Prendiamo
spunto da una delle battute cruciali del presidente Putin: "Siamo favorevoli all'uso dello
yuan cinese per gli insediamenti tra la Russia e i paesi dell'Asia, dell'Africa
e dell'America Latina".
Una
conseguenza chiave di questa alleanza geopolitica e geoeconomica, attentamente
progettata nel corso degli ultimi anni, è già in gioco:
l'emergere
di una possibile triade in termini di relazioni commerciali globali e, per
molti aspetti, una guerra commerciale globale.
L'Eurasia
è guidata – e in gran parte organizzata – dalla partnership Russia-Cina.
Anche la
Cina svolgerà un ruolo chiave in tutto il Sud del mondo, ma l'India potrebbe
anche diventare piuttosto influente, agglutinando quello che sarebbe un
Movimento dei Non Allineati (NAM) con steroidi.
E poi
c'è l'ex "nazione indispensabile" che governa i vassalli dell'UE e
l'anglosfera radunata nei Five Eyes.
Cosa
vogliono veramente i cinesi.
L'Egemone, sotto il suo auto-inventato "ordine internazionale basato
sulle regole", essenzialmente non ha mai fatto diplomazia.
“Divide
et Impera”, per definizione, preclude la diplomazia.
Ora la
loro versione della "diplomazia" è degenerata ancora di più in rozzi
insulti da parte di una serie di funzionari intellettualmente sfidati e
francamente idioti di Stati Uniti, UE e Regno Unito.
Non
c'è da meravigliarsi che un vero gentiluomo, il ministro degli Esteri Sergey
Lavrov, sia stato costretto ad ammettere:
"La Russia non è più un partner dell'UE
... L'Unione europea ha "perso" la Russia.
Ma la
colpa è dell'Unione stessa.
Dopo tutto, gli Stati membri dell'UE ... dichiarare
apertamente che alla Russia dovrebbe essere inflitta una sconfitta strategica.
Ecco perché consideriamo l'UE un'organizzazione nemica".
Eppure
il nuovo concetto di politica estera russa, annunciato da Putin il 31 marzo, lo
rende abbastanza chiaro: la Russia non si considera un "nemico
dell'Occidente" e non cerca l'isolamento.
Il
problema è che non c'è praticamente nessun adulto con cui parlare dall'altra
parte, piuttosto un gruppo di iene.
Ciò ha portato Lavrov a sottolineare ancora
una volta che misure "simmetriche e asimmetriche" possono essere
utilizzate contro coloro che sono coinvolti in azioni "ostili" contro
Mosca.
Quando
si tratta di Exceptionalistan, è evidente:
gli
Stati Uniti sono designati da Mosca come il principale istigatore anti-Russia,
e la politica generale dell'Occidente collettivo è descritta come "un
nuovo tipo di guerra ibrida".
Tuttavia,
ciò che conta davvero per Mosca sono gli aspetti positivi più avanti lungo la strada:
l'integrazione
non-stop dell'Eurasia; legami più stretti con i "centri globali
amici" Cina e India; aumento degli aiuti all'Africa; una cooperazione più
strategica con l'America Latina e i Caraibi, le terre dell'Islam – Turchia,
Iran, Arabia Saudita, Siria, Egitto – e l'ASEAN.
E
questo ci porta a qualcosa di essenziale che è stato – prevedibilmente –
ignorato in massa dai media occidentali:
il Forum Boao per l'Asia, che si è svolto
quasi contemporaneamente all'annuncio del nuovo concetto di politica estera
della Russia.
Il
Forum Boao, iniziato all'inizio del 2001, ancora nell'era pre-9/11, è stato
modellato su Davos, ma è Top China in tutto e per tutto, con il segretariato
con sede a Pechino.
Boao
si trova nella provincia di Hainan, una delle isole del Golfo del Tonchino e
oggi un paradiso turistico.
Una
delle sessioni chiave del forum di quest'anno è stata sullo sviluppo e la
sicurezza, presieduta dall'ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban
Ki-moon, che è attualmente presidente di Boao.
C'erano
parecchi riferimenti alla Global Development Initiative di Xi e alla Global Security
Initiative – che tra l'altro è stata lanciata a Boao nel 2022.
Il
problema è che queste due iniziative sono direttamente collegate al concetto di
pace e sicurezza delle Nazioni Unite e all'Agenda 2030 estremamente dubbia
sullo "sviluppo sostenibile" – che non riguarda esattamente lo
sviluppo e tanto meno "sostenibile": è un intruglio super-aziendale
di Davos.
L'ONU da parte sua è fondamentalmente ostaggio dei
capricci di Washington. Pechino, per il momento, gioca d'accordo.
Il
premier Li Qiang è stato più specifico.
Sottolineando
il concetto caratteristico di "comunità di futuro condiviso per
l'umanità" come base per la pace e lo sviluppo, ha collegato la coesistenza pacifica
con lo "Spirito di Bandung" – in diretta continuità con l'emergere del NAM nel
1955:
questa dovrebbe essere la "Via asiatica" del
rispetto reciproco e della costruzione del consenso – in opposizione a
"l'uso indiscriminato di sanzioni unilaterali e giurisdizione di lunga
portata", e il rifiuto di "una nuova guerra fredda".
E
questo ha portato Li Qiang a porre l'accento sulla spinta cinese ad
approfondire l'accordo commerciale RCEP dell'Asia orientale e anche a far
avanzare i negoziati sull'accordo di libero scambio tra Cina e ASEAN.
E
tutto ciò integrato con la nuova espansione della Belt and Road Initiative (BRI), in contrasto con il protezionismo
commerciale.
Quindi
per i cinesi ciò che conta, intrecciato con il business, sono le interazioni culturali;
inclusività; fiducia reciproca; e un severo rifiuto dello "scontro di
civiltà" e del confronto ideologico.
Per
quanto Mosca sottoscriva facilmente tutto quanto sopra – e di fatto lo pratichi
attraverso la finezza diplomatica – Washington è terrorizzata da quanto
sia avvincente questa narrativa cinese per l'intero Sud del mondo.
Dopo
tutto, l'unica
offerta di Exceptionalistan nel mercato delle idee è il dominio unilaterale;
Dividere una regola; e "sei con noi o contro di
noi".
E in quest'ultimo caso sarai sanzionato, molestato,
bombardato e / o cambiato regime.
È di
nuovo il 1848?
Nel
frattempo, nei territori vassalli, sorge la possibilità di una rinascita del
1848, quando una grande ondata rivoluzionaria colpì tutta l'Europa.
Nel 1848
queste furono rivoluzioni liberali; oggi abbiamo essenzialmente
rivoluzioni popolari anti-liberali (e contro la guerra) – dai contadini nei
Paesi Bassi e in Belgio ai populisti non ricostruiti in Italia e ai populisti
di sinistra e di destra combinati in Francia.
Forse
è troppo presto per considerarla una primavera europea. Eppure ciò che è certo a diverse
latitudini è che i cittadini europei medi si sentono sempre più inclini a
liberarsi del giogo della tecnocrazia neoliberista e della sua dittatura del
capitale e della sorveglianza.
Per
non parlare del guerrafondaio della NATO.
Poiché
praticamente tutti i media europei sono controllati da tecnocrati, le persone
non vedranno questa discussione nel MSM.
Eppure
c'è una sensazione nell'aria che questo potrebbe annunciare la fine di una
dinastia in stile cinese.
Nel
calendario cinese è così che va sempre: il loro orologio storico-sociale
funziona sempre con periodi compresi tra 200 e 400 anni per dinastia.
Ci
sono infatti indizi che l'Europa potrebbe essere testimone di una rinascita.
Il
periodo di sconvolgimenti sarà lungo e arduo – a causa delle orde di anarco-liberali
che sono così utili idioti per l'oligarchia occidentale – o potrebbe arrivare tutto al
culmine in un solo giorno.
L'obiettivo è abbastanza chiaro: la morte
della tecnocrazia neoliberista.
È così
che la visione di Xi-Putin potrebbe fare breccia in tutto l'Occidente
collettivo:
mostrare che questa "modernità" surrogata (che incorpora la rabbiosa cancel
culture) è
essenzialmente vuota rispetto ai valori culturali tradizionali e profondamente
radicati – che si tratti di confucianesimo, taoismo o ortodossia orientale.
I concetti cinesi e russi di civiltà-stato
sono molto più attraenti di quanto appaiano.
Bene,
la rivoluzione (culturale) non sarà trasmessa in televisione;
ma può
funzionare il suo fascino attraverso innumerevoli canali Telegram.
La
Francia, infatuata dalla ribellione nel corso della sua storia, potrebbe
saltare all'avanguardia – di nuovo.
Eppure
nulla cambierà se il casinò finanziario globale non viene sovvertito.
La Russia ha dato al mondo una lezione: si stava
preparando, in silenzio, per una guerra totale a lungo termine.
Tanto che il suo contro pugno calibrato ha capovolto
la guerra finanziaria, destabilizzando completamente il casinò.
La
Cina, nel frattempo, si sta riequilibrando, ed è sulla buona strada per essere
preparata anche per “Total War”, ibrida e non.
L'inestimabile
Michael Hudson, fresco del suo ultimo libro, The Collapse of Antiquity, dove analizza abilmente il ruolo
del debito in Grecia e a Roma, le radici della civiltà occidentale, spiega
succintamente il nostro attuale stato di gioco:
"L'America
ha portato una rivoluzione colorata al vertice, in Germania, Olanda,
Inghilterra e Francia, essenzialmente, dove la politica estera dell'Europa non
rappresenta i propri interessi economici (...)
L'America
ha semplicemente detto: "Siamo impegnati a sostenere una guerra di (ciò che
chiamano) democrazia (con cui intendono l'oligarchia, incluso il nazismo
dell'Ucraina) contro l'autocrazia (...)
L'autocrazia è qualsiasi paese abbastanza forte da
impedire l'emergere di un'oligarchia creditrice, come la Cina ha impedito
l'oligarchia creditrice.
Quindi
"l'oligarchia creditrice", di fatto, può essere spiegata come
l'intersezione tossica tra i sogni bagnati globalisti di controllo totale e il
dominio militarizzato a spettro completo.
La
differenza ora è che la Russia e la Cina stanno mostrando al Sud del mondo che
ciò che gli strateghi americani avevano in serbo per loro – si "congela
nel buio" se si devia da ciò che diciamo – non è più applicabile.
La maggior parte del Sud del mondo è ora in
aperta rivolta geoeconomica.
Il
totalitarismo globalista neoliberista, naturalmente, non scomparirà sotto una
tempesta di sabbia.
Almeno
non ancora.
C'è ancora un vortice di tossicità da
affrontare: sospensione dei diritti costituzionali; propaganda orwelliana;
squadre di scagnozzi; censura; cancel culture; conformità ideologica; limiti
irrazionali alla libertà di movimento; odio e persino persecuzione di – slavi –
Untermenschen; segregazione; criminalizzazione del dissenso; roghi di libri,
processi farsa; falsi mandati di arresto da parte del canguro ICC; Terrore in
stile ISIS.
Ma il
vettore più importante è che sia la Cina che la Russia, ognuna delle quali
esibisce le proprie complesse particolarità – ed entrambe respinte
dall'Occidente come “Altri non assimilabili” – sono pesantemente investite
nella costruzione di modelli economici praticabili che non sono collegati, in
diversi gradi, al casinò finanziario occidentale e / o alle reti della catena
di approvvigionamento.
E questo è ciò che sta facendo impazzire gli
Exceptionalists – ancora più” berserk” di quanto non lo siano già.
(Pepe
Escobar è un analista geopolitico e autore indipendente in tutta l'Eurasia).
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