TOGLIERE LA LIBERTA’ DI PAROLA.

 

TOGLIERE LA LIBERTA’ DI PAROLA.

 

 

Tutta la Disperazione del “Deep State”

 in una Dichiarazione:

“Togliere la Libertà di Parola”

 

Conoscenzealconfine.it – (6 Aprile 2023) – Redazione – ci dice:

 

Hillary Clinton chiede la fine della Libertà di parola: “L’America dovrebbe diventare più simile all’Europa”.

Che motivo avrebbe il deep state di essere così furioso e di minacciare di togliere la libertà di parola, se tutto andasse secondo i loro piani?

Se tutto stesse procedendo come da copione, farebbero come hanno sempre fatto: starebbero nell’ombra a godersi lo spettacolo.

La “dolce Killary”, esponente di spicco del potere nascosto della (ex) élite, oltre a non avere una bella cera, sta esponendo al mondo la loro difficoltà e debolezza del momento.

Abbiamo vinto, direte.

Ancora no… ci sarà ancora da lottare.

 Ma vedere la loro disperazione disegnata sul volto, ci dà ancora più carica.

Il lupo, sente che l’avversario è ferito, ha perso lucidità, si dimena e ha paura.

È in una posizione di debolezza sistemica.

Proprio per questo, il lupo, terrà le mascelle ancora più serrate sulla sua preda, per essere certo che non abbia alcuna via di fuga.

Quel lupo, siamo noi…

(t.me/In_Telegram_Veritas)

(en-volve.com/2023/04/04/hillary-clinton-calls-for-an-end-to-free-speech-america-should-become-more-like-europe/)

 

 

 

LIBERTA’ DI PAROLA.

It.wikipedia.org – Redazione – (6 aprile 2023) – ci dice:

La libertà di parola è considerata, nel mondo moderno, un concetto basilare nelle democrazie liberali.

 Il diritto alla libertà di parola non è tuttavia da considerarsi illimitato:

 i governi possono decidere di limitare particolari forme di espressione, come per esempio l'incitamento all'odio razziale, nazionale o religioso, oppure l'appello alla violenza contro un individuo o una comunità, che anche nel diritto italiano costituiscono reato.

Secondo il diritto internazionale, le limitazioni alla libertà di parola devono rispettare tre condizioni:

a) devono essere specificate dalla legge,

 b)  devono perseguire uno scopo riconosciuto come legittimo,

c)  essere necessarie (ovvero proporzionate) al raggiungimento di quello scopo.

L'origine del concetto e della pratica della libertà di parola risale all'antica Grecia,

in particolare nelle polis con regime democratico, dove veniva chiamata col termine parresia (dovere morale di dire la verità) (gr. παρρησία), la facoltà che i cittadini (di condizione libera) avevano di esprimere liberamente la loro opinione durante le assemblee pubbliche che si svolgevano nell'agorà.

Il termine compare per la prima volta nel tragediografo greco Euripide nel V secolo a.C. e ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo d.C. e, per l'ultima volta, nel Dottore della Chiesa Giovanni Crisostomo.

Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorreva "dire tutto" ciò che si aveva in mente.

 La stessa etimologia di parresia (Παρρησὶα) è quello attribuito a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto).

 Nella parresia si supponeva che non ci fosse differenza tra ciò che uno pensava e ciò che diceva.

Il filosofo greco Platone distingue due forme di parresia:

una “parresia falsa” da un lato, dall'altro una “parresia veritiera”, sapiente e costruttiva.

 

 

 

Dove finisce la libertà di parola?

7 Luglio 2021 | Autore: Mariano Acquaviva

 

Dove finisce la libertà di parola?

 

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Ingiuria, diffamazione, istigazione a delinquere: quando la manifestazione del proprio pensiero costituisce un illecito?

 

La libertà di espressione è sancita direttamente in Costituzione: tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Si tratta di una libertà fondamentale, un principio sacrosanto in ogni tipo di democrazia. La libertà di parola, però, non può essere un pretesto per offendere o per ledere i diritti altrui: con una felice espressione si è soliti dire che la libertà di ognuno finisce dove inizia quella degli altri. Come vedremo con questo articolo, è proprio così.

 

 

 

Dove finisce la libertà di parola?

Laleggepertutti.it – Mariano Acquaviva – (7 luglio 2021) – ci dice:

 

 Sin da subito, possiamo affermare che il superamento dei limiti della libertà di manifestazione del proprio pensiero può condurre alla commissione di un crimine in piena regola:

si pensi alla diffamazione o, peggio ancora, all’istigazione a commettere un reato.

Anche quando non si integra un delitto vero e proprio, v’è comunque il rischio di dover risarcire i danni:

 è il caso dell’ingiuria, oggi costituente illecito civile.

Libertà di espressione: cos’è?

Come anticipato in premessa, la Costituzione italiana sancisce a chiare lettere il diritto, attribuito a ciascuna persona, di poter manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

  Si tratta di un diritto fondamentale e insopprimibile, connotato di qualsiasi democrazia.

 Solamente nelle dittature non si è liberi di poter esprimere la propria opinione.

Quanto appena detto, però, non significa che della propria libertà di parola si possa fare un uso smodato, magari offendendo la dignità altrui oppure incitando gli altri a commettere dei crimini.

In casi del genere, c‘è la possibilità di incorrere in un crimine, con tutte le conseguenze del caso.

Vediamo quali sono i principali illeciti che possono essere commessi quando si abusa della propria libertà di parola.

Quando c’è diffamazione?

La violazione dei limiti alla libertà di espressione può far scattare il reato di diffamazione.

La diffamazione è l’offesa alla reputazione altrui.

Per reputazione deve intendersi la considerazione che gli altri hanno di una persona.

In pratica, la reputazione è l’opinione sociale riferita a un individuo, quello che gli altri pensano di lui, la sua nomea.

Perché si abbia diffamazione occorre che il commento oltraggioso sia espresso in presenza di almeno altre due persone, esclusa ovviamente la vittima.

Quest’ultima non deve essere presente alla diffamazione oppure, anche se fisicamente presente, non deve essere in grado di percepire l’offesa.

 

È diffamazione anche comunicare un commento oltraggioso a una sola persona, se si è consapevoli che questa procederà a riferire lo stesso ad altre persone.

La condotta tipica della diffamazione è il commento oltraggioso o ingiurioso.

Nulla toglie, però, che il reato possa integrarsi anche con un gesto, un riferimento, un disegno oppure una foto (vedi esempio nel paragrafo dedicato alla diffamazione telematica).

La diffamazione è un reato comune, cioè un crimine che può essere commesso da qualunque persona, senza necessità che rivesta una particolare qualifica (giornalista, ecc.).

Di conseguenza, chiunque può macchiarsi del reato di diffamazione, anche la persona comune che, scrivendo sul proprio profilo social, offende pubblicamente un altro individuo.

In un’ipotesi del genere, anzi, la pena sarebbe aumentata:

per legge, si ha diffamazione aggravata (punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro) quando si offende la reputazione altrui con la stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.

Istigazione a delinquere: cos’è?

La violazione dei limiti alla libertà di parola può sfociare nel reato di istigazione a delinquere.

 Di cosa si tratta?

Istigare significa indurre qualcuno a fare qualcosa, persuaderlo circa una condotta da seguire.

 Chi istiga un’altra persona non si limita ad effettuare un’opera di convincimento, ma a potenziare un proposito già esistente nei progetti dell’istigato.

Secondo il Codice penale, chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione:

con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti (con pena aumentata della metà se i delitti sono quelli di terrorismo o si tratta di crimini contro l’umanità);

con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a 206 euro, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni.

con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni, se trattasi di istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia.

In pratica, se in pubblica piazza qualcuno comincia a sobillare le persone, dicendo loro di rapinare, rubare o di commettere qualsiasi altro delitto, si commette un reato per il solo fatto dell’istigazione.

 Lo stesso accade nel caso in cui, pubblicamente, ci si metta a difendere o ad esaltare la commissione di determinati crimini, in quanto l’apologia è equiparata all’istigazione.

Poiché oggi è molto più facile comunicare con la gente attraverso Internet che mediante i vecchi metodi (discorsi per strada, nei comizi, nei locali, ecc.), la legge prevede un aumento di pena se l’istigazione è commessa attraverso strumenti informatici o telematici.

Ingiuria: com’è punita?

Un tempo reato, oggi l’ingiuria è punita esclusivamente dal punto di vista civile.

Ciò significa che, se una persona offende un’altra (ad esempio, rivolgendole un epiteto oltraggioso), la persona offesa non potrà sporgere denuncia ma potrà agire in sede civile per chiedere il risarcimento dei danni.

Anche l’ingiuria rappresenta, quindi, un limite alla libertà di parola, sebbene tale violazione non sia punita con la reclusione.

Diffamazione e ingiuria: differenza.

Mentre l’ingiuria offende l’onore o il decoro di una persona presente, la diffamazione offende la reputazione di una persona assente.

Le due grandi differenze tra ingiuria e diffamazione sono dunque le seguenti:

l’ingiuria è commessa in presenza della persona offesa, in quanto il commento oltraggioso è diretto verso di lei;

l’ingiuria offende il decoro e l’onore della vittima, cioè la considerazione che egli ha di sé,

 mentre la diffamazione lede la reputazione, cioè la considerazione che gli altri hanno della vittima.

 

 

 

 

5 motivi per cui la libertà di espressione

è importante in una democrazia.

Liberties.eu – Eleanor Brooks – (1° aprile 2022) – ci dice:

 

Perché è importante la libertà di espressione? Perché è un principio fondamentale in una democrazia? In che modo viene minacciata? Come possiamo proteggerla?

Cos'è la libertà di espressione?

La libertà di espressione è uno dei pilastri fondamentali che sostengono il processo democratico e proteggerla è essenziale se vogliamo vivere in una società giusta e uguale per tutti.

Non farlo indebolisce la democrazia.

Ogni volta che condividi una notizia sui tuoi social media, partecipi a una protesta o scrivi al tuo politico locale su una questione che ti sta a cuore, questa è libertà di espressione in azione.

 Non tutti i discorsi sono considerati liberi.

 Per esempio, discutere a tavola se mangiare o meno le verdure non è considerata libertà di espressione.

La libertà di espressione esiste quando i cittadini possono esprimere la loro opinione - comprese le opinioni critiche nei confronti del governo - senza temere conseguenze negative, come il carcere o le minacce di violenza.

Nel 2000 la libertà di espressione è stata sancita come un diritto fondamentale nell'articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea:

Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione.

 Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

La libertà e il pluralismo dei media devono essere rispettati.

Tuttavia, la definizione di libertà di espressione non protegge ogni tipo di discorso.

Come tutti i diritti fondamentali, il diritto alla libertà di espressione non è assoluto, il che significa che può essere soggetto a restrizioni, purché abbiano una base legale.

Le restrizioni devono soddisfare due condizioni:

 1) sono proporzionate - le restrizioni non sono più forti del necessario per raggiungere il loro scopo

 2) sono necessarie e realisticamente soddisfano obiettivi di interesse generale o sono necessarie per proteggere i diritti e le libertà degli altri.

Quindi, qualcuno che si impegna in forme criminali di espressione, come discorsi di odio, contenuto terroristico o pornografia infantile, non può difendersi invocando il suo diritto alla libertà di espressione.

 

Perché la libertà di espressione è importante in una democrazia? Perché è un principio fondamentale?

L'obiettivo della democrazia è di avere una società pluralista e tollerante.

Affinché questo abbia successo, i cittadini dovrebbero essere in grado di parlare liberamente e apertamente di come vorrebbero essere governati e criticare chi è al potere.

Questo scambio di idee e opinioni non avviene solo una tantum nel giorno delle elezioni, ma è una comunicazione bidirezionale continua che ha luogo durante tutto il mandato di un governo.

1. Permette di lottare per la verità.

Per permettere ai cittadini di prendere decisioni significative su come vogliono che la società funzioni, hanno bisogno di accedere a informazioni veritiere e accurate su una vasta gamma di argomenti.

 Questo può accadere solo quando le persone si sentono sicure di discutere le questioni che riguardano le loro comunità.

Proteggere la libertà di espressione incoraggia le persone a parlare, il che rende più facile affrontare i problemi sistemici dall'interno.

 Questo dissuade le persone dall'abusare del loro potere, il che aiuta tutti a lungo periodo.

2. Rende tutti più responsabili.

Quando si tratta di elezioni, i cittadini hanno l'opportunità di chiedere conto ai loro politici.

 Per decidere chi votare, hanno bisogno di capire quanto bene si è comportato un partito politico quando era al potere e se ha mantenuto o meno le sue promesse elettorali.

Riportando le questioni sociali più urgenti della società, i media e le organizzazioni della società civile (OSC) contribuiscono alla percezione pubblica di quanto bene stia facendo il governo.

 Tuttavia, questo è utile solo se sono liberi di coprire in modo veritiero storie che sono critiche nei confronti dello stato.

3. Permette partecipazione attiva dei cittadini.

Le elezioni e i referendum sono una buona opportunità per i cittadini di plasmare la direzione della società, ma si svolgono solo ogni due anni.

La libertà di espressione rafforza altri diritti fondamentali come la libertà di riunione, che i cittadini usano per influenzare il processo decisionale pubblico assistendo a proteste, manifestazioni o partecipando a campagne.

Questo permette loro di protestare contro una decisione impopolare, come il divieto di aborto in Polonia, o mostrare al governo che vogliono un'azione politica più forte su una questione importante.

Quando i manifestanti in Germania hanno riempito le strade a centinaia di migliaia per protestare contro la guerra in Ucraina, questo ha inviato un forte segnale al governo che la gente sosteneva dure sanzioni contro la Russia.

4. Promuove il giusto trattamento delle minoranze.

In una società democratica, tutti dovrebbero essere trattati in modo uguale e giusto.

Tuttavia, i gruppi minoritari che sono sottorappresentati nel governo sono spesso messi da parte, e le loro opinioni vengono trascurate a favore di quelle appartenenti al gruppo sociale dominante.

Facendo campagne e parlando apertamente dei problemi che riguardano le loro comunità, le persone emarginate possono ottenere un ampio sostegno pubblico per la loro causa.

Questo aumenta la loro capacità di influenzare l'agenda pubblica e porre fine agli abusi dei diritti umani.

5. È essenziale per il cambiamento e l'innovazione.

Tutti vogliamo che la società diventi migliore per tutti, ma perché questo accada la società ha bisogno di incoraggiare e sostenere la libertà di espressione.

 I governi autoritari che sopprimono le critiche e trattengono le informazioni di interesse pubblico negano ai cittadini il diritto di prendere decisioni informate o di agire su importanti questioni sociali.

Trattenere informazioni vitali fa sì che i problemi si inaspriscano e peggiorino.

Questo ostacola il progresso e rende molto più difficile trovare una soluzione quando il problema viene finalmente alla luce.

In Cina, per esempio, un medico che ha cercato di avvertire la comunità medica di un virus mortale - Covid-19 - è stato invitato a "smettere di fare commenti falsi" ed è stato indagato per "diffusione di voci".

 Questo ha avuto l'effetto devastante di ritardare l'introduzione di misure per contenere il Covid-19, che ha provocato una pandemia globale e milioni di morti.

Quali sono le minacce alla libertà di espressione?

1. Governo

I governi autoritari, il cui obiettivo principale è quello di rimanere al potere, vogliono assicurarsi che qualsiasi copertura mediatica sia favorevole.

Per controllare la narrazione pubblica, nominano rappresentanti politici alle autorità dei media ed esercitano il controllo finanziario ed editoriale sui principali media.

 Come riportato dalla nostra organizzazione membro nel nostro “2022 Media Freedom Act”, un esempio lampante è l'Ungheria, dove oltre l'80% del mercato dei media è controllato direttamente o indirettamente dal governo ungherese.

2. Legge

I governi usano riforme legali restrittive, il controllo della folla da parte della polizia o misure eccezionali di emergenza per limitare la libertà di espressione.

In risposta all’emergenza durante la pandemia Covid-19, paesi come Belgio, Bulgaria, Germania, Slovenia e Spagna hanno limitato in modo sproporzionato l'esercizio del diritto di protestare nell'interesse della salute pubblica attraverso la brutalità della polizia e gli arresti degli attivisti.

Altri strumenti legali usati dallo stato per controllare il flusso di informazioni includono la criminalizzazione della diffusione di informazioni false o la negazione dell'accesso alle informazioni.

In Russia, l'invasione dell'Ucraina è definita da Putin come una "operazione militare" e i russi sanno che usare la parola "guerra" li esporrà alla legge sulle "fake news", che comporta una pena detentiva fino a 15 anni.

 Come risultato, molti russi che si oppongono alla guerra sono messi a tacere, mentre altri non sono a conoscenza della verità di ciò che sta accadendo.

3. Attacchi a giornalisti, OSC e whistleblowers.

I politici e le figure influenti che temono che i giornalisti espongano il loro comportamento corrotto ricorrono a tattiche sporche ed extra-legali per metterli a tacere.

 Strategie comuni includono molestie legali attraverso SLAPP (cause legali strategiche) o campagne diffamatorie volte a screditare le OSC critiche.

I whistleblower hanno subito conseguenze personali devastanti per aver fatto luce su attività contrarie all'interesse pubblico, come la corruzione, le attività illegali o le frodi.

Anche i giornalisti e i difensori dei diritti civili sono sempre più esposti a violenze verbali o fisiche, anche da parte della polizia.

4. Online.

I discorsi di odio o il trolling online possono creare un ambiente digitale ostile che scoraggia le donne e le persone emarginate dal partecipare ai dibattiti sociali online.

Tuttavia, gli sforzi ben intenzionati per affrontare questo problema possono inavvertitamente creare gli stessi effetti di silenziamento.

L'Unione europea sta attualmente spingendo attraverso il “Digital Services Act,” volto a rendere internet un luogo più sicuro e a proteggere la libertà di espressione online.

Tuttavia, la soluzione proposta per eliminare la disinformazione potrebbe avere l’effetto opposto.

 Nella nostra lettera agli eurodeputati, abbiamo sconsigliato l'uso obbligatorio di filtri di caricamento per rimuovere i contenuti online dannosi, poiché non sono abbastanza sofisticati per distinguere l’umorismo dall’abuso.

 Se usati, potrebbero limitare la libertà di espressione online.

5. Autocensura.

Quando la libertà di espressione è sotto attacco, si manda il messaggio che “dire la verità potrebbe mettere in pericolo”.

 L'ambiguità che esiste intorno a ciò che è accettabile e ciò che non lo è fa sì che le persone agiscano con cautela, quindi iniziano ad autocensurarsi.

 Il nostro “2022 Media Freedom Report” ha rivelato che i giornalisti in Bulgaria, Germania, Ungheria, Italia, Slovenia e Svezia si sono autocensurati a causa di attacchi o molestie online.

 

Come proteggere la libertà di espressione?

Per proteggere la libertà di espressione, ci dovrebbero essere leggi per proteggere gli individui e le organizzazioni che sono minacciate per aver denunciato la corruzione o il comportamento non etico.

 I giornalisti, i cani da guardia, gli attivisti e i whistleblower dovrebbero ricevere una solida protezione legale che permetta loro di svolgere il proprio lavoro in sicurezza e li protegga dalle ritorsioni di coloro che vogliono metterli a tacere.

Questo è il motivo per cui “Liberties” sta lavorando duramente per fare una campagna a favore di leggi migliori per proteggere la libertà dei media.

Il “Media Freedom Act” (MFA) attualmente in fase di elaborazione da parte della Commissione europea potrebbe fare una vera differenza.

Abbiamo inviato alla Commissione il nostro “Media Freedom Report “che ha verificato lo stato della libertà dei media in 15 paesi dell'UE, così come un documento politico che delinea le raccomandazioni che crediamo il MFA dovrebbe affrontare.

Dovrebbe includere misure per aumentare la trasparenza sulla proprietà dei media e sviluppare regole su come rendere più sicuro il lavoro dei giornalisti.

 

 

 

Libertà di espressione:

universale, ma non assoluta.

 

Swissinfo.ch - Yanina Welp – (1°-5-2021) – ci dice:

Formalmente sancita nel 1948 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la libertà di espressione è diventata probabilmente l'elemento più contestato della moderna democrazia rappresentativa in tutto il mondo.

Mentre è minacciata in un numero crescente di Paesi, i suoi limiti sono messi alla prova in altri.

 Secondo la ricercatrice Yanina Welp, siamo a un bivio critico.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR), adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi nel 1948, afferma che "ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere." (articolo 19).

La libertà di espressione, quindi, si riferisce alla capacità di un individuo o di un gruppo di esprimere le proprie credenze, pensieri, idee ed emozioni su diverse questioni senza censura.

Ma è un diritto assoluto?

Chiaramente no.

Un esempio recente viene dalla Svizzera, quando l’anno scorso i cittadini hanno votato con il 63,1% contro il 36,9% a favore di una legge che vieta la discriminazione anti-LGBT, nel quadro di un referendum sui limiti della libertà di parola.

 Un altro referendum nel 1994 aveva già stabilito che l'omofobia è un crimine, non "una questione di opinione".

Nel frattempo, varie fonti e classifiche mostrano che i media svizzeri sono liberi da interferenze editoriali e governative;

ma ci si aspetta che aderiscano al codice penale, che proibisce discorsi razzisti o antisemiti così come omofobi.

 

Durante la pandemia, tuttavia, sono emerse nuove sfide:

da un lato, sono sorte forme di pensiero negazionista, come quelle propinate da gruppi anti-scienza e anti-vaccini, e dall'altro, vi sono persone che ritengono che i governi stiano "approfittando della pandemia per introdurre più controllo e meno democrazia".

Quest'ultima affermazione viene dagli "Amici della Costituzione" in Svizzera, che lo scorso autunno hanno raccolto delle firme per contestare la "legge Covid" del 2020, che il governo e il Parlamento svizzero hanno elaborato per gestire la risposta al coronavirus.

Il voto del 13 giugno sarà probabilmente l'unico caso al mondo in cui i cittadini saranno direttamente in grado di prendere una decisione vincolante sulla risposta del loro Paese alla pandemia.

Chi decide sulla libertà di parola?

La democrazia contro Facebook e compagni: il dibattito negli USA, in Europa e in Svizzera sui limiti da porre alle grandi aziende digitali.

Un pilastro della democrazia moderna.

La libertà di espressione è quindi un diritto fondamentale ma non assoluto.

 È anche un pilastro della democrazia moderna.

Ciò è riconosciuto dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, adottato il 15 dicembre 1791, che garantisce:

"Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti."

All'epoca, un obiettivo chiave dell'emendamento, sottolineato da Thomas Jefferson, era quello di costruire "un muro tra Chiesa e Stato".

Ma col tempo, la libertà dei media e di parola è diventata una componente fondamentale dei governi democratici, dato che il diritto alla libera espressione mostra l'apertura di un sistema politico a permettere controlli sul suo potere e a prendersi le sue responsabilità.

Oggigiorno, la libertà di espressione sta affrontando minacce crescenti.

 Da un lato, gli “autocrati globalisti” si stanno moltiplicando in tutto il mondo, così come le persecuzioni dei media indipendenti e degli attivisti sociali.

Dall'altro lato, l’influenza sempre maggiore delle grandi aziende tecnologiche ha creato nuovi problemi per i sistemi democratici esistenti.

Una combinazione di entrambe le sfide - leader autoritari e nuovi media – si è incarnata nell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Tuttavia, la decisione di Twitter e Facebook di sospendere i suoi account ha anche lasciato irrisolte domande cruciali:

le aziende private dovrebbero essere incaricate di decidere quali affermazioni sono accettabili?

Dove si trovano i limiti tra i discorsi di odio e la libertà di espressione?

 I social media stanno portando all'erosione della libertà di stampa plurale e indipendente?

Sotto pressione.

Nel 2021, diverse nazioni del G20, tra cui Brasile, India e Turchia, stanno vivendo un declino della democrazia o si stanno trasformando in autocrazie.

La Polonia è in testa in questa dubbia corsa.

 I numeri riportati dall'istituto “Varieties of Democracy” (V-Dem) di Göteborg sono impressionanti:

il 68% della popolazione mondiale (87 Paesi) vive ormai in regimi autocratici;

l'India, con una popolazione di 1,37 miliardi, è recentemente regredita da "più grande democrazia del mondo" ad "autocrazia elettorale".

Tra i fattori che hanno portato alla retrocessione dell'India, i più sostanziali sono state le minacce alla libertà dei media, del mondo accademico e della società civile.

Il numero di democrazie liberali, nel frattempo, è sceso da 41 nel 2010 a 32 nel 2020, e ora conta solo il 14% della popolazione globale.

Le democrazie elettorali sono presenti in 60 Paesi e rappresentano il restante 19% della popolazione mondiale.

Il modello seguito dalle aspiranti autocrazie è quasi sempre lo stesso: "i governi al potere prima attaccano i media e la società civile, e polarizzano le società mancando di rispetto agli avversari e diffondendo informazioni false, poi minano le elezioni".

Le proteste a Hong Kong nel 2018 e 2019 chiedevano più democrazia. La risposta della Cina è stata la repressione violenta e la legalizzazione delle restrizioni.

La legge sulla “sicurezza nazionale”, approvata a metà del 2020, significa che i cittadini non sono più liberi di esprimersi.

Anche la Russia ha intrapreso un percorso repressivo arrestando e imprigionando il leader dell'opposizione Alexei Navalny - dopo un tentativo fallito di ucciderlo.

(Il governo svizzero si è unito agli appelli internazionali che chiedono il "rilascio immediato" di Navalny).

A livello globale, anche la libertà di espressione è particolarmente sotto pressione.

Secondo V-Dem, l'anno scorso 32 Paesi hanno assistito al declino sostanziale di questo pilastro democratico; tre anni fa, il numero era "solo" 19.

E nell'ultimo decennio, otto dei dieci indicatori democratici in peggioramento erano legati alla libertà di espressione.

 

Il populismo illiberale come segno di stanchezza.

C'è anche una tendenza globale che merita maggiore attenzione: la recente ascesa di leader populisti illiberali in tutto il mondo.

Questo emergere del populismo è un sintomo di stanchezza.

Le disuguaglianze strutturali in molti Paesi – e specialmente nel sistema politico statunitense – così come il crescente razzismo (come capro espiatorio della disuguaglianza) sono stati i motori della popolarità dell'ex presidente americano Donald Trump, per esempio.

Per contrastare questa tendenza de-democratizzante, non ha senso bloccare tali leader e partiti.

 Piuttosto il loro discorso deve essere contrastato democraticamente, offrendo alternative attraverso la cittadinanza attiva e più democrazia.

Quando un sistema politico non è in grado di fornire né benessere sufficiente né la protezione dei diritti umani, i discorsi di odio aiutano a mobilitare l'elettorato.

 Dietro questo meccanismo, c'è l'incapacità dei leader e del sistema di rispondere alle richieste della popolazione e di dimostrare che la politica può cambiare le cose.

Come può la politica cambiare le cose?

 Permettendo la partecipazione democratica, migliorando le condizioni per la formazione dell'opinione pubblica e l'esercizio dei diritti politici.

 In altre parole, non c'è democrazia senza libertà di espressione.

 

 

Nel mondo c’è sempre

meno libertà di stampa.

Youtrend.it - Federico Roberti – (21 Febbraio 2022) – ci dice:

 

Com’è cambiata la situazione della libertà di stampa negli ultimi anni?

 Il trend è negativo ed è preoccupante.

Il 2021 è stato l’anno che più di ogni altro ha mostrato quanto l’informazione e la libertà di espressione abbiano un ruolo cruciale nella decodificazione della società.

Le notizie legate alla pandemia hanno contribuito alla polarizzazione del dibattito e hanno mostrato entrambe le facce dell’informazione: da una parte la possibilità di accedere a una quantità di nozioni praticamente infinite sui temi di cui vogliamo discutere consente un’informazione che senza il web non sarebbe possibile; dall’altra c’è il rischio di restare inconsapevolmente vittime della mastodontica rete di “fake news” in cui ci muoviamo ogni giorno.

La pandemia e la sfiducia.

Il tema della pandemia è quello che si presta meglio a quest’analisi:

 il continuo bombardamento mediatico sfuma i contorni della verità e mina le certezze riguardo alle notizie che vediamo ogni giorno.

Non a caso solo il 13,9% degli italiani reputa “equilibrata” la gestione comunicativa legata alla pandemia.

Si stima che gli italiani si siano imbattuti in 29 milioni di “fake news” nell’ultimo anno, stando a quanto riportato da una ricerca Censis di aprile 2021.

Non si tratta, però, di un problema unicamente italiano.

Globalmente c’è una crescente parabola di sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione.

Una ricerca di “Edelman Trust” Barometer, che ha analizzato 28 Paesi, riporta che oltre il 60% degli intervistati ha dichiarato che i media non sono oggettivi ma di parte:

per questo le persone fanno fatica a riconoscere le fonti di informazione affidabili da quelle che non lo sono.

Una maggioranza di persone sostiene che i leader di governo, i businessmen e i giornalisti depistano e plagiano le informazioni a seconda dei loro interessi.

 Inoltre, solo il 35% delle persone ha fiducia nell’informazione sui social network, che sono comunque la principale fonte da cui si recepiscono, anche se involontariamente, le informazioni.

La sfiducia e le visioni politiche.

Un buon modo per capire come la fiducia verso i mezzi di comunicazione sia legata alle visioni politiche – e quindi come queste due sfere si influenzino a vicenda – può essere analizzare i votanti di Trump e quelli di Biden nel 2020.

Chi ha votato Trump ha solo il 18% di fiducia nell’informazione, mentre chi ha votato Biden il 57%:

 una discrepanza di 39 punti percentuali che ben fotografa la radicalizzazione del pensiero politico e come esso influenzi tutto il resto.

Tutti i discorsi negazionisti, complottisti e manipolatori di Trump sul proprio elettorato hanno avuto un’efficacia riscontrabile in questi numeri.

A questo proposito, Ipsos ha condotto un’indagine su un campione statunitense di 21.502 adulti a luglio 2021 riguardo a quali sono le fonti di informazione meno credibili secondo chi rispondeva: al primo posto c’è il governo, poi i media, infine i social media.

Questo quadro di sfiducia sociale collettiva rende l’informazione fonte di scetticismo e indebolisce i regimi democratici.

Il risultato è proprio che tra il 2020 e il 2021 “Freedom House” ha riportato un calo di 3 punti di libertà complessiva negli Stati Uniti.

I giornalisti detenuti.

Una volta menzionati i trend più evidenti riguardo la sfiducia verso l’informazione tradizionale e digitale, è bene entrare nel dettaglio delle condizioni dei giornalisti nel mondo.

L’accenno precedente al calo di libertà complessiva negli Stati Uniti è correlato al crescente scetticismo riguardo alla comunicazione:

c’è infatti un rapporto serrato che intercorre tra la libertà di espressione e i regimi nei quali è situata.

Capire questo significa capire perché nel 2021 i 5 Paesi che detengono il maggior numero di giornalisti prigionieri al mondo sono tutti regimi autoritari.

In regimi di questo genere, infatti, dove il potere è detenuto da giunte militari, singoli uomini o ristretti gruppi di persone, l’informazione è il primo fattore da arginare per far sì che il popolo non protesti.

 I 5 Paesi in questione sono: Cina (127 giornalisti detenuti); Myanmar (53); Vietnam (43); Bielorussia (32) ed Arabia Saudita (31).

Anche nel 2020 Cina, Arabia Saudita e Vietnam erano presenti nella top 5.

Complessivamente nel 2021 ci sono stati 488 giornalisti detenuti, 46 uccisi e 65 tenuti in ostaggio, oltre a 2 momentaneamente spariti, con un aumento di oltre il 20% solo nell’ultimo anno.

 A cosa è dovuto questo aumento? A tre Paesi principalmente incuranti delle norme umanitarie dei propri cittadini: Myanmar, Bielorussia e Cina.

Tutti i dati sono presi da RSF, che dal 1995 redige un report annuale sulla libertà di stampa nel mondo.

La crisi del giornalismo in 5 fattori

Secondo una ricerca di “Reporters Sans Frontières”, soltanto il 26,7% del mondo versa in una situazione giornalistica definita “buona” o “piuttosto buona”: tutto il resto è etichettato in modo negativo, oscillando tra una definizione “problematica” o “difficile” o “molto grave”.

Il progressivo impoverimento della libertà nel giornalismo mondiale è legato a molte crisi che si sono susseguite e anzi sovrapposte negli ultimi anni.

In primis una crisi geopolitica alimentata dall’aggressività dei regimi autoritari:

 basti pensare a ciò che è accaduto ultimamente al confine tra Russia e Ucraina, con la spinta violenta di Putin verso un’espansione territoriale che ha messo in crisi il Paese controllato da Zelensky.

L’influenza diretta della Russia ai danni della Bielorussia è nota sin dalla fine della Guerra Fredda: nelle ultime settimane proprio in Bielorussia, a sua volta confinante con l’Ucraina, sono state svolte delle esercitazioni militari russe per mettere pressione all’Ucraina stessa.

 Questa pressione specifica e complessiva della Russia sulla Bielorussia non prevede come possibilità la libertà d’espressione.

Il risultato è che la Bielorussia è tra i principali detentori di giornalisti: ecco spiegato come le crisi geopolitiche influenzano il giornalismo.

Altri fattori che influenzano la crisi giornalistica sono sicuramente la crisi di fiducia e i sospetti verso l’informazione – di cui si è già discusso – così come la crisi economica che impoverisce la qualità del giornalismo e la possibilità di allocare risorse finanziarie sull’informazione, cosa che nel migliore dei casi diventa un lusso e nel peggiore un problema.

Appare importante anche valutare la “crisi della tecnologia”.                     

Il fattore tecnologico è quello più controverso: se da una parte consente l’accesso a molte informazioni, dall’altro può provocare danni ingenti se usato in modo distruttivo.

Basti pensare agli attacchi hacker russi nei confronti degli ucraini, oppure alla censura attuata da Xi Jinping in Cina, a quella di Putin in Russia, oppure ancora al caso del blackout di Internet del Myanmar, stratagemma utilizzato spesso durante le guerre civili o i colpi di stato per staccare lo Stato e quindi i cittadini da ogni collegamento esterno.

Infine, la crisi democratica è la più evidente tra le cause.

 Il livello di democraticità di uno Stato è del resto direttamente proporzionale alla libertà di stampa e di espressione:

 non a caso i Paesi meno democratici – che vengono così definiti da “Freedom House” sulla base di parametri empirici – sono anche quelli con il minor grado di libertà di stampa.

Lo stesso vale per il contrario: esempi sono l’Italia, la Germania, la Spagna e il Regno Unito.

In conclusione.

È l’11° anno consecutivo in cui la libertà su internet è in declino.      I peggioramenti più evidenti sono stati registrati in Myanmar, Bielorussia e Uganda (3 regimi autoritari).

Il Myanmar in particolar modo ha subìto un declino di 14 punti percentuali, il peggior risultato mai registrato dai report di “Freedom House”.

Il brusco calo del Myanmar è iniziato il 1° febbraio 2021, quando il governo di Aung San Suu Kyi è stato smantellato, con la destituzione e l’arresto della vincitrice del Nobel per la pace.

Il motivo ufficiale è legato alle accuse di brogli elettorali e instabilità, ma nei fatti si è trattato di un colpo di stato a tutti gli effetti:

l’ennesima dimostrazione di come libertà di stampa e regimi politici siano indissolubilmente legati.

La conseguenza più notevole è che la libertà di espressione online è sotto controllo più che mai.

Non ci sono mai stati così tanti arresti per discorsi e pensieri non violenti, siano essi politici, sociali o religiosi.

Internet è stato sospeso durante il 2021 in almeno 20 Paesi e 21 Stati hanno bloccato l’accesso ai social media.

“Stiamo entrando in una decade decisiva per il giornalismo, e questo dipende da tutte le crisi che ne stanno mettendo a rischio il futuro.

La pandemia di Covid-19 ha mostrato i fattori negativi che minacciano il diritto a un’informazione affidabile.

Come sarà la libertà di informazione, il pluralismo e l’affidabilità del giornalismo nel 2030?

 La risposta a questa domanda sarà determinata da ciò che accade oggi.

” Lo dice Cristophe Deloire, il segretario generale di RSF”.

 

 

 

Rapporto 2022 sulla libertà di pensiero

nel mondo: a rischio la laicità

e le persone non credenti.

Blog.uaar.it – (9 dicembre 2022) – Redazione Uaar – ci dice:

(UAAR: Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti)

L’11esima edizione del rapporto di “Humanists International” evidenzia sistematiche discriminazioni nei confronti degli atei.

Per il 70% della popolazione mondiale è impossibile realizzare pienamente il proprio diritto alla libertà di religione e dalla religione.

Soltanto il 4 per cento della popolazione globale vive in società davvero laiche.

Lo sostiene l’11esimo Rapporto sulla libertà di pensiero di “Humanists International”, che fornisce inoltre le prove di chiare e sistematiche discriminazioni contro gli umanisti e le persone non religiose.

Per contro il 70% della popolazione mondiale vive in Paesi in cui manifestare il proprio pensiero ateo o agnostico comporta vari livelli di repressione e dove la piena realizzazione del proprio diritto alla libertà di religione e dalla religione è letteralmente impossibile.

È purtroppo comune la presenza di dure pene per l’apostasia, di maggiori probabilità di tramandare pratiche tradizionali dannose e di nazionalismi religiosi che radicano nella società idee profondamente reazionarie.

Il Rapporto sulla libertà di pensiero nasce nel 2012 dal lavoro di diverse organizzazioni affiliate a “Humanists International”, associazione fondata nel 1952 e composta da 150 gruppi umanisti e non religiosi – tra cui l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – in più di 40 Paesi.

L’edizione 2022 del Freedom of thought report (Fotr) Key Countries Edition analizza un campione di dieci Stati in relazione alla difesa dei diritti dei non credenti: Barbados, Francia, Filippine, India, Nepal, Pakistan, Senegal, Sri Lanka, Turchia, Ungheria.

È stato infatti osservato come la laicità dello Stato possa influenzare sia il rispetto del diritto alla libertà di religione, ma soprattutto il diritto a essere atei o agnostici.

Quattro le categorie scelte: Costituzione e governo, Educazione e diritti dell’infanzia, Società e comunità, Libertà di espressione e valori umanisti.

Sono sei invece i livelli di violazione rappresentati in una cartina tornasole con colori dal rosso scuro al verde chiaro:

gravi violazioni, severe discriminazioni, discriminazioni sistemiche, principalmente soddisfacente, liberi e uguali e nessuna valutazione (per mancanza di informazioni).

Quest’anno l’edizione “Paesi chiave” del rapporto dimostra la progressiva erosione del principio di laicità nel mondo, e con essa un calo della tutela dei diritti umani.

Tra i Paesi più repressivi Pakistan, Arabia Saudita, Afganistan che reagiscono simbolicamente all’analisi, generando un colore rosso scuro su tutte e quattro le categorie, per le leggi sulla blasfemia crudeli (è prevista la pena di morte).

 Anche la Repubblica islamica dell’Iran è sotto osservazione:

severamente limitati il diritto alla libertà di religione e le libertà di espressione, associazione e riunione.

La legge iraniana vieta qualsiasi critica all’Islam o deviazione dagli standard islamici vigenti.

 Gravi le conseguenze delle proteste scoppiate a settembre in risposta all’omicidio di Mahsa Amini, curdo-iraniana di 22 anni, arrestata, detenuta e torturata dalla “polizia morale” iraniana per aver indossato la sua hijab in modo improprio.

Il Fotr cita poi un rapporto del 2012 secondo cui l’ateismo e la popolazione non religiosa stanno crescendo rapidamente.

La religione è diminuita del 9% e l’ateismo è aumentato del 3% tra il 2005 e il 2012.

In sostanza la religione diminuisce in proporzione all’aumento dell’istruzione e del reddito personale, tendenza che pare destinata a crescere.

Nonostante quest’orientamento, in alcuni Paesi è illegale essere o identificarsi come atei.

Oltre alle leggi per punire la blasfemia esistono quelle contro l’apostasia che prevedono ancora oggi la pena di morte in Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen.

Spesso la critica della religione è inclusa nelle leggi sull’incitamento all’odio; gli atei sono esclusi dal matrimonio a meno che non fingano di essere religiosi; altri Stati limitano posizioni amministrative o di potere a persone di una particolare religione; l’indicazione della religione può essere richiesta anche nei documenti di identità, ma è illegale identificarsi come atei o non religiosi.

La promozione del privilegio religioso da parte dello Stato è infatti una delle forme più comuni di discriminazione nei confronti degli atei.

«Ormai all’undicesima edizione del report – dichiara Giorgio Maone, responsabile relazioni internazionali dell’Uaar – possiamo rilevare una tendenza preoccupante:

alla progressiva e inevitabile secolarizzazione delle società, nelle quali non credenza, cultura dei diritti umani e valori umanisti si diffondono inesorabilmente, corrisponde purtroppo una forte reazione conservatrice a livello politico, con iniziative tese a restaurare dall’alto l’influenza della religione nella sfera pubblica e privata, riducendo l’autodeterminazione personale.

 L’abbiamo visto accadere in tutto il mondo, dagli Usa all’Est Europa, dall’Afghanistan all’India, dalla Russia a numerosi Stati africani.

 L’Italia, la cui laicità è costituzionalmente sancita, ma al contempo viziata dal Concordato e della presenza strabordante del Vaticano nei media e nel discorso politico, negli anni è comunque progredita nei diritti laici soprattutto, lo affermiamo senza falsa modestia, grazie al lavoro della nostra associazione.

Un lavoro però tutt’altro che terminato, e già le prime dichiarazioni di esponenti del nuovo governo ci inducono a moltiplicare gli sforzi per non tornare protagonisti in negativo delle prossime edizioni del Fotr».

«Il report di quest’anno non mette sotto la lente d’ingrandimento l’Italia – commenta Roberto Grendene, segretario nazionale Uaar – ma possiamo assicurare che il nostro Paese ha conservato se non peggiorato la penosa posizione dello scorso anno, con una colorazione rossastra nella mappa complessiva elaborata da “Humanists International”, che la colloca a metà strada tra le discriminazioni severe e quelle sistemiche della libertà di pensiero.

Basti pensare ai 26mila insegnanti di religione cattolica scelti dal vescovo e pagati dallo Stato, alla piaga degli obiettori di coscienza nei reparti di ginecologia della Sanità pubblica, alle norme che tutelano il “sentimento religioso” condannando a sanzioni amministrative i “blasfemi” e prevedendo addirittura il reato di vilipendio.

E col nuovo esecutivo e la nuova maggioranza parlamentare il rischio concreto è vedere sprofondare ulteriormente l’Italia nella classifica del Fotr».

 

 

 

 

“Gli Assassini di Muammar Gheddafi

vogliono insegnarci la Democrazia?”

Conoscenzealconfine.it – (7 Aprile 2023) – Redazione – ci dice:

 

Fred M’membe:

 “Il paese che ha ucciso tanti dei nostri leader in Africa e in altre parti del mondo vuole insegnarci la democrazia?”

Il leader dell’opposizione dello Zambia, Fred M’membe, durante la visita di Kamala Harris nel Paese il 31/03/’23, ha affermato:

 “Un paese che ha rovesciato così tanti governi in Africa, che ha condotto così tanti colpi di stato in Africa e in altre parti del mondo.

Il paese che ha ucciso tanti dei nostri leader in Africa e in altre parti del mondo.

Gli assassini di Patrice Lumumba, gli assassini di Kwame Nkrumah, gli assassini di Nasser, gli assassini di Muammar Gheddafi verranno oggi a insegnarci la democrazia!?

Un Paese che è stato costruito sulla violenza brutale, sulla schiavitù di altre persone, sull’umiliazione degli africani, sullo sfruttamento degli africani, verrà oggi a insegnarci la democrazia?

Se non si rispetta la dignità degli altri, se non si rispetta la sovranità degli altri Paesi, non si può pretendere di essere il ‘campione della democrazia’ “.

(t.me/MIKAYOUTUBERS)

 

 

 

 

Gli inginocchiatori. Un saggio contro

il Woke e le nuove religioni radicali.

 Ilfoglio.it - DANIELE RIELLI – (03 LUG. 2021) -  ci dice:

 Quando una protesta diventa obbligatoria cambia la sua natura e da atto di solidarietà verso una rivolta altrui diventa imposizione e quindi, per definizione, può rovesciarsi nel suo esatto contrario.

Perché molti commentatori, giornalisti e politici faticano a capire che cosa ci sia di così fastidioso per tanti italiani nella pressante richiesta fatta ai calciatori della Nazionale di inginocchiarsi in omaggio al movimento Black lives matter?

Perché non riescono ad accettare che si possa essere contro il razzismo e al contempo non sposare questa determinata forma di protesta?

È una domanda a cui non è facile rispondere se non si prende in considerazione la natura di religione estremista che contraddistingue la “cultura Woke”, una natura che in questa vicenda specifica si coglie da almeno due elementi, che sono poi quelli che probabilmente non convincono – a livello più o meno istintivo – anche la maggioranza della popolazione.

Il primo è la presunzione di colpevolezza universale, ovvero, in termini religiosi per l’appunto, il peccato originale.

Ogni occidentale, e segnatamente ogni occidentale bianco, secondo il credo Woke nascerebbe colpevole a priori di razzismo (e di sessismo e di omofobia), colpe delle quali, anche con tutta la buona volontà, non si potrà mai emancipare.

Non conta il suo comportamento, non conta la sua responsabilità personale, il colore della pelle lo definisce in toto e lo definisce come colpevole.

 La sua perciò deve essere una vita contraddistinta dal senso di colpa, questa la sua croce, il suo destino e tutto questo in virtù della sua appartenenza razziale (è questa la direzione auto-contraddittoria che ha preso l’antirazzismo contemporaneo).

Questa colpa ontologica – antitetica a una cultura della responsabilità personale – è ciò che sul piano geografico conduce alla pretesa di far travalicare al rito dell’inginocchiamento i confini della realtà sociale dove è nato (gli Stati Uniti, con la loro storia di schiavismo e segregazione), mutandolo in una più generica proposizione morale che per l’appunto presuppone una colpa condivisa, una responsabilità che da storica e locale diventerebbe presente, universale e inemendabile, tanto che anche da italiani non assecondare il rito sarebbe di per sé stesso un gesto di empietà e di colpevolezza.

Andrebbe ancora bene se gli atleti potessero scegliere liberamente e individualmente se partecipare a questa ritualità – seppur così più invasiva di tante altre a cui hanno già acconsentito in passato (i nastrini per i lutti, i segni rossi sul volto contro la violenza sulle donne) – il problema sta tutto nel ricatto morale, nella pressione mediatica e nei rischi di perdere le sponsorizzazioni per chi decide in scienza e coscienza che, come lo scrivano di Melville, preferirebbe di no.

Quando una protesta diventa obbligatoria cambia la sua natura e da atto di solidarietà verso una rivolta altrui diventa imposizione e quindi, per definizione, si rovescia nel suo esatto contrario.

 Da qui quella sorta di obbligatorietà irritata che molti percepiscono, giustamente, come travalicante i confini di una protesta condivisibile e sentono invece come un atto di imposizione prepotente, peggio ancora come un atto di accusa del tutto immotivato nei confronti di chi vuole decidere le forme e i modi attraverso cui rappresentare la propria coscienza morale.

Le accuse generalizzate dei Woke sono, a ben guardare, pesantissime e profondamente offensive.

 Nella loro ripetizione meccanica si perde l’assoluta gravità del fatto che per loro sia del tutto normale tacciare una larga parte della popolazione di razzismo (o sessismo, o omofobia) senza mai sentire su di sé l’onere della prova, questo però non toglie che si tratti di una generalizzazione violenta e inaccettabile: accusare qualcuno di razzismo è un processo lesivo della dignità altrui e questo non andrebbe mai dimenticato.

Queste generalizzazioni arbitrarie sono però anche la pietra angolare dell’intero edificio woke:

tutto crolla se solo si ricorda l’ovvio:

 essere nati di un determinato colore in una determinata zona del pianeta non significa in automatico essere colpevoli di ogni genere di nefandezza.

 Il razzismo autolesionista rimane comunque razzismo.

Il credo woke con la sua pretesa di ridurre tutta la complessità dell’esperienza umana solamente all’apparenza a questa o quella categoria (bianco, nero, donna, trans, eccetera) è la più subdola e insidiosa fra le forme di razzismo.

(Deputati e senatori dem inginocchiati in silenzio per otto minuti e 46 secondi) (Foto di Chip Somodevilla/Getty Images) .

  L’idea che si possano non accettare le forme e i modi del culto woke e ciononostante non essere affatto razzisti (anzi, di fatto esserlo molto di meno), non è però, per l’appunto, contemplata.

Le scelte offerte dai nuovi adepti, sempre più numerosi nel mondo dei media e della cultura, sono solo l’adesione completa o la profonda empietà.

Da qui all’obbligatorietà il passo è naturalmente molto breve.

Nel silenzio timoroso di ritorsioni economiche e sociali, vanno persi i distinguo, compresi i limiti e le criticità del movimento “Black lives matter” sul fronte interno, come i saccheggi sistematici, l’impennata di violenze nei quartieri neri a danno della popolazione nera (uno dei mantra di Blm è anche “Defund the police” togliere fondi alla polizia, non migliorarla), in particolare nei quartieri di Portland rimasti per mesi in mano ai manifestanti di Blm e senza polizia, zone dove il tasso di omicidi è schizzato alle stelle.

 Si oppone anche un anatema di impronunciabilità a chi fa notare la tribalità anti-illuministica del nome “Black lives matter”, preferito a “All lives matter”, slogan tanto più giusto e progressista da parere ovvio.

Tuttavia anche questa semplice osservazione rispetto al nome è oggi considerata segno di massima eresia presso i credenti, non conta che il senso delle parole – se le parole hanno ancora un senso – sia fin troppo evidente:

All” è un sovra-insieme che contiene anche “Black” ne conta che come concetto “Tutte le vite contano” sia molto più evoluto e includente, un vero obbiettivo a cui tendere:

 un mondo dove non conta più di che colore sia la pelle di una persona, non ci si fa neppure più caso perché sono altre le cose che contano.

È questo uno dei tanti casi in cui il logos contemporaneo si piega al ricatto di appartenenza della tribù, alle presunzioni di malafede, agli “straw man argument”, insomma all’impossibilità di intraprendere una discussione razionale che vada oltre il ricordare a tutti che si è sempre dalla parte giusta.

Anni fa incontrai “Frank Serpico” nel nord dello “stato di New York”, mi raccontò che la sua attività principale era diventata fare da consulente per i parenti delle vittime della polizia.

Seguiva omicidi sia di neri che di bianchi, la differenza principale, mi raccontò, era che nel caso dei bianchi era tendenzialmente più facile ottenere dei risarcimenti.

Anche al di là dell’aneddotica, seppur di un esperto di settore, i dati parlano chiaro, in America i neri muoiono per mano della polizia percentualmente più dei bianchi, tuttavia anche i bianchi vengono uccisi a ritmi che in Europa non osiamo nemmeno immaginare.

Insomma, il problema è articolato, riguarda anche la diffusione nella popolazione delle armi da fuoco, l’attitudine e l’addestramento della polizia americana, così come una concezione culturale specifica del rapporto fra cittadino e forze dell’ordine, la diffusione delle aziende private nelle gestione della sicurezza pubblica (a questo proposito può essere interessante leggere “Il dilemma dello sconosciuto” di Malcolm Gladwell), senza dimenticare le problematiche socio-economiche che rendono alcune zone delle città molto più esposte di altre al rischio di omicidio per mano della polizia.

Insomma al netto delle diverse incidenze razziali che nessuno nega, il problema andrebbe affrontato complessivamente: davvero tutte le vite contano.

In una situazione dai toni orwelliani molte persone negli Stati Uniti sono invece state licenziate per aver detto che come slogan avrebbero preferito “All lives matter “a “Black lives matter” (sorte toccata fra gli altri anche un radiocronista della Nba), tutto sommato quindi la pressione a cui sono stati sottoposti i calciatori italiani, per quanto espressione di questo nuovo maccartismo globale, rappresenta una fase meno intensa e precedente rispetto alle persecuzioni oggi apertamente in atto nel mondo anglosassone.

Ogni giorno però l’Italia e l’Europa si avvicinano all’America.

Il credo “woke” ha nel capitalismo corporate il suo alleato d’elezione, perché niente torna comodo a una multinazionale quanto dare una passata superficiale di colore “inclusivo” alla comunicazione del suo brand garantendosi così maggiore benevolenza su tutto il resto:

dalle condizioni dei lavoratori, alle responsabilità ambientali, alle pratiche monopolistiche.

Una larga parte del sistema economico oggi ha imparato a temere le capacità di boicottaggio della minoranza” woke” ma sa anche che, se accarezzato dal lato giusto del pelo, questo nuovo radicalismo può rivelarsi un volano con pochi uguali per garantire affari e un sostanziale lasciapassare per le malefatte che non rientrino nel cono di attenzione dei moderni sacerdoti dell’inclusività.

 Per non sbagliare, gli influencer più importanti vengono comunque messi spesso sotto contratto come “brand ambassador” attraverso accordi che limitano la loro libertà di espressione sulle attività delle multinazionali per cui lavorano.

Nel suo “Skin in the game”, Nassim Taleb ricorda che nel capitalismo avanzato vige, per motivi di mera efficienza economica, il primato della “minoranza ostinata”, in buona sostanza per quanto possa sembrare contro-intuitivo a una minoranza molto determinata basta raggiungere il 3-4 per cento della popolazione per costringere la maggioranza ad adeguarsi alle sue esigenze.

Un esempio? La limonata kosher.

 Laddove il costo per produrre una limonata kosher è simile a quello della limonata non kosher e i consumatori kosher raggiungono almeno il 3-4 per cento del mercato, tutti i produttori di limonata assennati produrranno limonata kosher, in genere certificata attraverso un marchio che verrà notato solo da coloro che consumano kosher (negli Stati Uniti è una U stampata vicino agli ingredienti).

 In termini tecnici quello che abbiamo qui è un gruppo intransigente (la minoranza) e un gruppo flessibile (la maggioranza).

Una dinamica simile a quella della “limonata kosher “negli Stati Uniti la osserviamo nelle carni halal in Gran Bretagna.

Ora, questi sono esempi di produzioni alimentari ma la stessa dinamica si può applicare alla pressione degli attivisti woke a favore di una censura del linguaggio, del licenziamento di persone che esercitano la loro libertà di espressione e altre cosiddette battaglie inclusive.

La maggioranza della popolazione ritiene che siano esagerazioni ma ha altro a cui pensare, teme ritorsioni e in fondo pensa che si tratti comunque di esagerazioni a fin di bene.

Finché, naturalmente, non arriva il loro turno.

Non è in corso quindi nessun rinascimento inclusivo, né alcun cambiamento nella sensibilità popolare: si tratta di un meccanismo di mercato capitalista.

 In sostanza stiamo parlando, almeno finché i costi rimangono equiparabili, di una sorta di dittatura nascosta delle minoranze.

 La battaglia attorno alle parole segue la stessa logica:

non è certo delle più costose in termini produttivi – una pubblicità costa grossomodo uguale che sia censurata o meno – quindi rientra in questa dinamica.

 I costi culturali e democratici sono in compenso elevatissimi, perché il linguaggio è un bene comune e il fatto che venga preso in ostaggio dalle minoranze ideologizzate genera danni collettivi pesanti e finisce per cambiare l’essenza stessa del nostro sistema politico.

Si pensi a come in pochi anni minoranze risicatissime ma ostinate siano riuscite a far passare diverse aberrazioni linguistiche anche nella lingua italiana.

(I giocatori degli Houston Texans si inginocchiano prima di una partita della NFL contro i Jacksonville Jaguars) (AP Photo/Stephen B. Morton)

 

In virtù di questo genere di meccanismi il “marketing corporate” è una delle grandi forze propulsive storiche del “wokismo”, come ha colto in profondità anche Bret Easton Ellis nel suo “White”.

 L’altro fattore centrale nell’affermazione del “wokismo” è stata la diffusione dei social network.

Marketing aziendale e social network rappresentano rispettivamente il braccio strutturale e quello sovrastrutturale del “culto woke”, d’altronde non si è mai vista una religione che si sia affermata senza incarnare le esigenze strategiche delle parti sociali più influenti del proprio tempo o senza che i suoi contenuti avessero la giusta fitness evolutiva rispetto alle caratteristiche dei media più diffusi.

Questo concretamente significa che le religioni si adattano ai mutamenti dei mezzi di comunicazione, per cui se in una società della tradizione orale è importante essere degli abili racconta-storie attorno al fuoco o stratificare efficaci narrazioni metaforiche all’interno dei riti sacrificali,

in quella della scrittura è centrale la redazione di testi sacri, in quella della stampa e della televisione è importante un controllo dei media di massa.

La società dei social network non fa certo eccezione e la sua architettura premia coloro che sanno avvantaggiarsi della dinamica vittimaria e del rogo primordiale del capro espiatorio perché è questo il modo con cui le piattaforme massimizzano il tempo che gli utenti passano esposti alle pubblicità.

In un certo senso nella scala della storia si tratta di un’involuzione messa però in atto con ampio dispiegamento di tecnologie raffinatissime.

La disintermediazione per molti aspetti primitivizza e appiattendo ogni cosa riporta allo stato originario di guerra di tutti contro tutti.

 La figura centrale dell’”epoca woke” è la vittima sacra, che ha sostituto quella del vincente, dell’uomo pio o dell’uomo virtuoso delle epoche precedenti.

 Il cambiamento è agevolato dal meccanismo di denuncia perpetua dei social network, ambienti in cui l’incentivo numero uno per ottenere l’attenzione è la denuncia di qualche malefatta subita, sempre nel codice più binario, immediato e bianco e nero possibile.

Il meccanismo è ciclico per cui la vittima di oggi può facilmente diventare il capro espiatorio di domani, come vediamo accadere più o meno quotidianamente.

I sacerdoti supremi di questo meccanismo in virtù del quale l’indignazione genera attenzione che a sua volta genera denaro, sono naturalmente gli “influencer”.

Proprio su queste pagine è apparso un bel racconto di Michele Masneri a proposito di un suo scontro con l’Estetista cinica.

Dai dettagli della storia emerge il ritratto di un’industria che sul mercato dell’indignazione prospera, inscena scientificamente una sorta di “wrestling morale”, dove l’indignazione forse non sarà genuina ma di sicuro genera engagement e aumenta i fatturati.

Curiosamente, nonostante la brillantezza del suo pezzo e la durezza dell’esperienza subita, Masneri ironizza sull’“improbabile dittatura del politicamente corretto” senza cogliere come le due cose siano fra di loro legate in maniera indissolubile:

il vittimismo è precisamente la radice filosofica del politicamente corretto.

 Il secondo non può esistere senza il primo.

Il secondo segnale che l’affaire inginocchiamento ci offre rispetto alla natura religiosa del “wokismo” è fin troppo chiaro e sotto gli occhi di tutti:

è l’atto dell’inginocchiamento in sé.

Poche cose sono più potenti di un’analogia quando si tratta di sintetizzare concetti complessi e c’è qualcosa di fin troppo evidente nella radice teologica nel gesto di inginocchiarsi di “Black lives matter”.

Nella nostra cultura ci si inginocchia solamente di fronte a Dio (o almeno così fanno i credenti) o in situazioni estreme in cui la dignità personale viene messa da parte per gli scopi superiori, come la richiesta di perdono o per una proposta di matrimonio.

 Pentimento o amore, non proprio due motivi banali, come è giusto che sia perché l’inginocchiarsi è un’infrazione piuttosto pesante alla dignità di un uomo o di una donna propriamente detti.

L’espressione “con la schiena dritta” esprime l’altro estremo, quello auspicabile, della metafora fisico-morale.

Non ci si inginocchia a cuor leggero, con buona pace di tutti i commentatori che dicono “cosa costerà mai inginocchiarsi”. Dipende, temo, da quanto valore si dà alla propria dignità personale, alla simbologia corporea, al potere delle metafore, all’idea che sia importante chiedere scusa ma solo quando si sia veramente colpevoli di qualcosa, altrimenti si tratta di una banalizzazione o di una subdola forma di sopraffazione.

 Per altro è piuttosto ironico che questa propensione a inginocchiarsi- come si trattasse di bere un bicchier d’acqua - arrivi da un culto la cui origine filosofica affonda nel post-strutturalismo francese.

Era proprio Michel Foucault, infatti, a parlare di corpi docili, forgiati dai regolamenti invasivi delle istituzioni pubbliche e private, istituzioni che attraverso il governo dei piccoli gesti quotidiani arrivavano a dominare le menti e i cuori degli uomini a loro sottoposti.

Su questo Foucault aveva ragione e l’obbligo di inginocchiamento non fa eccezione:

è ginnastica mentale oltre che fisica ed è una metafora di sottomissione, come lo sono ogni piccola e grande prepotenza a cui i” woke” vogliono sottoporre, attraverso leggi, regolamenti e ricatti occupazionali, il resto della popolazione.

Tutto questo scompare però nella capacità di unire queste contraddizioni all’interno di un principio unificante, l’idea cioè che tutte queste dinamiche – che contengono i semi di una deriva autoritaria – siano in fondo meno importanti dello scopo, in questo caso l’eliminazione del razzismo.

 Che questo modo intollerante, settario e tribale di provare a risolvere questi mali sia l’unico possibile e che sia in qualsivoglia modo efficace è qualcosa su cui però non ci sono dubbi di sorta: non solo non funziona ma fortunatamente non è nemmeno l’unico modo.

 L’illuminismo con i suoi ideali di uguaglianza di fronte alla legge è un modello universale non perfetto ma infinitamente superiore dal punto di vista sia della raffinatezza teorica sia dell’efficacia pratica.

Ci sono cioè modi migliori di cercare di eliminare il razzismo, il sessismo e l’omofobia, ad esempio smettere di giudicare una persona prima di tutto sulla base del suo colore della pelle, del suo sesso o del suo orientamento sessuale.

Un nero non è necessariamente una vittima sacra, un bianco non è necessariamente un carnefice fascista: sono esseri umani.

 Ai “woke” piace raccontare l’inclusione come il risultato delle sue battaglie ma prima dell’esplosione del culto questa era già la direzione a cui era avviato da tempo l’Occidente, con risultati sempre più incoraggianti.

 Che ogni cosa si possa risolvere dall’oggi al domani e che il sistema sia in toto disfunzionale in ogni sua manifestazione e intenzione, è invece la” tipica convinzione massimalista woke” (proprio come il postulato del razzismo universale), frasi che suoneranno bene su Instagram ma non hanno alcuna aderenza con l’effettiva realtà delle cose.

 La direttrice di “Quilette”, rivista americana che si occupa di documentare la deriva totalitaria del “wokismo”, ha detto a proposito della “Critical race theory “(il capitolo del wokismo che si occupa di razzismo) che “l’etichetta di “teoria” non dovrebbe essere applicata a un gruppo di assiomi che hanno un livello di sofisticazione superato da molti bambini dell’asilo”.

Questa sua semplicità apodittica, unita all’efficacia del ricatto morale e al timore di ripercussione professionali, è però precisamente anche la sua forza nell’ambiente informativo digitale in cui viviamo.

C’è anche un’altra questione che va considerata nel successo di “Blm” e del “movimento woke” presso le élite bianche occidentali

(sappiamo dalle ultime elezioni americane come il “wokismo” stia allontanando l’elettorato nero dai liberal -Dem Usa-, è insomma del tutto controproducente rispetto ai suoi scopi ufficiali);

da critica sociale il wokismo è passato a “neo-religione primitiva” per molti motivi ma anche, e forse soprattutto, per riempire un vuoto.

Jordan B. Peterson, il più colto e lucido fra i critici dell’”ideologia woke”, è stato il primo a notare come questo culto sia esploso fra le fila dei figli dei” baby boomer liberal dem Usa” , esponenti della classe media culturale occidentale in via di scomparsa – almeno dal punto di vista economico – individui privi di una seria posizione socio-economica nel mondo e di una religione, aperti all’universalità del desiderio ma con risorse limitate in maniera grottesca rispetto all’ampiezza delle loro aspettative, oltretutto afflitti spesso da un radicale senso di colpa per una vita vissuta sui patrimoni dei genitori.

Una popolazione con delle caratteristiche ideali per il fiorire del “fanatismo woke”, fenomeno che delle religioni seleziona alcuni dei tratti peggiori ma se non altro ha il pregio di fornire ai suoi adepti delle mappe morali, una prospettiva di senso, per quanto con forti tratti persecutori e una intensa pulsione autodistruttiva.

 Il risultato paradossale è che oggi questa fascia di persone “estromessa brutalmente dalla classe media” sembra avere come prima preoccupazione politica l’ “esistenza di un patriarcato” estinto in realtà ormai da decenni.

Un limite del dibattito pubblico occidentale nei riguardi dello studio delle religioni è il concentrarsi in maniera grossomodo esclusiva sulle violenze e le discriminazioni che le maggiori fedi hanno agevolato lungo la storia, dimenticando spesso di aggiungere all’equazione anche i loro effetti benefici, come la riduzione della conflittualità interna, lo sviluppo di un’etica pubblica e quello delle arti, solo per citarne alcuni.

Lo stesso concetto di uguaglianza fra gli esseri umani era un’assoluta novità storica quando fu introdotto dal cristianesimo.

Questo buttare via il bambino con l’acqua sporca ha fatto in modo che si sottovalutasse l’alto tasso di anti fragilità contenuto nella tradizione, il fatto, in sostanza, che le religioni, essendo stratificazioni secolari quando non millenarie di strategie di sopravvivenza evolutive, siano passate attraverso un meccanismo di affinamento e miglioramento lunghissimo, orientato a eliminare gli eccessi e selezionare gli aspetti più stabili.

Ora, tutto questo è difficile da cogliere non solo per un discorso storiografico ma anche perché i cambiamenti tecnologici degli ultimi due secoli hanno totalmente mutato il nostro immaginario, relegando progressivamente le religioni tradizionali in un angolo piuttosto tristanzuolo e celebrando a senso unico il nuovo.

Ci sono poche cose che oggi appaiono così fuori dal tempo e “un cool” come un prete, forse solo un prete che cerca di rimanere al passo coi tempi.

Consolerà forse i credenti sapere che le cose non vanno poi tanto meglio per i filosofi atei:

 il presente è più che religioso, è bigotto di un bigottismo nuovo.

 Il punto è che non sa di esserlo.

L’immaginario va tutto in una nuova direzione come dimostra il felice matrimonio fra le industrie della moda e dello spettacolo con il” wokismo”.

Il tribalismo e la discriminazione si coprono con le pelli del loro contrario, si ammantano di valori che in realtà rinnegano.

 In questo sta tanta parte della sua insidiosità.

 Il “wokismo” ha, come ho sostenuto qui sopra, i tratti di una religione estremista e radicale, ma è anche un fenomeno giovane a sufficienza perché gli manchi quel lungo percorso evolutivo che lo porterebbe o a estinguersi o a mitigarsi, a migliorare cioè la propria sostenibilità.

Religione laica senza una storia alle spalle, il “woke” al momento ricorda per certi aspetti quei meccanismi infernali di pensiero – la gara a chi è più puro, la delazione come regola, l’idea di creare da zero un’umanità nuova – che hanno contraddistinto i totalitarismi del Novecento.

 In “Arcipelago Gulag” di Solgenitsin vediamo in atto molti meccanismi simili a quelli implementati dal “wokismo” e della “cancel culture”, con la principale differenza che a oggi mancano al “woke” gli esiti violenti.

 In compenso sono già in atto la spogliazione delle persone dei loro diritti, della loro dignità professionale e la caduta nell’ignominia e nell’impossibilità di svolgere il proprio mestiere per essersi macchiati di quelli che sono sostanzialmente reati di pensiero.

 Tutto questo è un attacco alle fondamenta della società liberale occidentale, rispetto alla quale il diffondersi del “wokismo” – con i suoi ricatti morali subdoli, la sua alleanza con le forze produttive, la sua doppia morale – è una minaccia esistenziale con pochi precedenti, un ritorno al fascino antico della tribù.

 È difficile tuttavia che il “wokismo” duri a lungo nel tempo, gli esiti più probabili sono la sua graduale estinzione o un rafforzamento della sua egemonia culturale che molto probabilmente porterebbe, per effetto della sua elevata tossicità, al definitivo tramonto dell’Occidente.

 In entrambi i casi difficilmente potrà essere un fenomeno duraturo nei termini in cui si presenta oggi: nessuna società può reggere una deriva al contempo ultra-ideologica, anti-scientifica, anti-religiosa e tribale; non le rimarrebbe niente su cui basarsi e finirebbe per mangiarsi da sola.

La prima opzione, l’estinzione del culto, è naturalmente quella che mi auguro, ma in ogni caso non si tratterà di un processo rapido e perché accada sarà necessario l’emergere di un nuovo sistema di senso che rinnovi le promesse illuministiche non solo nelle menti ma anche nei cuori.

Un compito che oggi appare di una difficoltà assoluta.

C’è, insomma, più di qualche motivo per non prendere affatto alla leggera il dilemma dell’inginocchiamento e ce ne sono di certamente validi per rifiutare l’equivalenza “anti-woke=razzista”.

Il più delle volte è vero l’esatto contrario.

 

 

 

LIMITI ALLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE.

Proversi.it – Redazione – (30 -6 – 2022) – ci dice:

La libertà di espressione sancisce il diritto di ogni cittadino a esprimere le proprie convinzioni e idee.

 Ma anche nelle democrazie in cui è riconosciuta, la libertà di espressione presenta dei limiti giuridici, legati alla morale pubblica, alla dignità della persona, all’ordine pubblico e alla sicurezza.

 È opportuno limitare la libertà di espressione?

Se sì, in che misura?

 

Esistono TESI FAVOREVOLI e TESI CONTRARIE.

01 - La libertà di espressione deve tenere conto della realtà umana e perciò deve essere prudente.

La libertà di espressione è sì un diritto, ma ha bisogno del limite della prudenza, in virtù della convivenza umana.

 A sostegno di un limite si è pronunciato, nel 2015, papa Francesco, riguardo alle vignette satiriche su Maometto e sull’Islam, che avrebbero causato l’attacco terroristico di Parigi, alla sede del giornale “Charlie Hebdo”.

Non si può limitare la libertà di espressione, nemmeno a rischio di ferire convinzioni religiose, morali e politiche altrui.

Tale diritto dev’essere senza limitazioni, fatte salve le leggi a tutela della dignità della persona, altrimenti si rischierebbe di legittimare forme di censura.

 Nel mondo intellettuale si critica molto l’imposizione di tale limite, che svuoterebbe il diritto di significato.

 

02 - Limitare la libertà di espressione non significa introdurre una censura oscurantista, ma assumersi responsabilità politiche, spesso a difesa dei più deboli.

Non vi è nessuna libertà o diritto che possa essere inteso come illimitato, senza considerare la possibile violazione di libertà e diritti altrui.

 Oggi i media sono spesso così privi di responsabilità morale che la libertà di stampa rischia di trasformarsi in uno strapotere superiore ai poteri classici dello Stato di diritto: esecutivo, legislativo e giudiziario.

 

La rivendicazione della libertà d’espressione è sacrosanta.

Tutte le opinioni meritano rispetto e pensare a società moderne che si prefiggano di controllare tale libertà apre al rischio della “società della sorveglianza”.

Bisogna avere consapevolezza del sottile confine che può esistere tra l’imposizione di limiti alla libertà di espressione e il concedere spazio a forme di vera e propria censura.

 

03 - Non si processano mai le parole.

La libertà di espressione, anche in democrazia, può avere dei limiti, come per i cosiddetti reati di opinione (propaganda e apologia sovversiva, vilipendio della Repubblica e delle istituzioni).

Laddove la manifestazione di un’opinione risulta aggressiva dell’altrui sfera morale, ovvero non rispettosa dei parametri costituzionali previsti da un ordinamento, è giusto prevedere dei limiti.

 

Nell’ambito dei limiti alla libertà di espressione, vi sono quelli posti a garanzia dell’ordine pubblico, della sicurezza, dell’autorità giudiziaria e a difesa di valori costituzionali.

A fronte di chi sostiene che l’interesse dello Stato possa imporre dei limiti alla libertà di parola, di dissenso e di critica, c’è chi ritiene che le parole non possano mai essere processate.

 

 

 

Libertà di espressione online:

quali sono i limiti legali?

Dirittodellinformatica.it – (8 gennaio 2022) – Avv. Giuseppe Croari – ci dice:

 

Libertà di pensiero online.

La manifestazione del pensiero per la Costituzione Italiana.

L’art. 21 Cost. è la norma costituzionale principe e di ampia portata che tutela la libertà di manifestazione del pensiero, un principio cardine delle democrazie di stampo occidentale, che ha visto i propri esordi – in termini di riconoscimento – con la Rivoluzione Francese.

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” […].

I limiti di portata generale a tale principio, impliciti ed espliciti, si possono riassumere in:

buon costume;

interessi costituzionalmente rilevanti (a mero titolo esemplificativo, tutti i diritti che appartengono alla sfera della personalità, come il diritto alla riservatezza, alla onorabilità, alla dignità della persona);

ordine pubblico;

tutela del prestigio delle istituzioni pubbliche (tutela del prestigio del governo, dell’ordine giudiziario e delle forze armate).

Come si evince da questo sintetico quadro, i beni giuridici tutelati tramite la limitazione dell’irrinunciabile diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero possiedono tutti un tenore pubblicistico:

è difatti dall’esigenza di garantire un quieto e rispettoso vivere civile che nasce il peso e contrappeso di limiti e garanzie dell’altresì detto “diritto di parola”.

 

 

Tutela della libertà d’espressione: CEDU E ICCPR.

Ampliando l’orizzonte, anche CEDU e ICCPR, tutelano la libertà di espressione, rispettivamente all’art. 10 e all’art. 19.

Secondo il manuale “Libertà d’espressione diritto dei media e diffamazione(Media Legal Defence Initiative, Internationl Press Institute – ottobre 2016), i limiti alla libertà di espressione desumibili a livello europeo si possono riassumere in:

protezione dei diritti e le reputazioni altrui;

sicurezza nazionale;

ordre public (che significa non solo ordine pubblico, ma anche benessere pubblico generale);

sanità ed etica pubblica;

integrità territoriale o pubblica sicurezza;

riservatezza su informazioni confidenziali;

autorità ed imparzialità della magistratura.

Si evince, quindi, che la ratio di questi due articoli di poco o nulla si allontana rispetto all’art. 21 della nostra Costituzione.

La CEDU, inoltre, indica che le limitazioni a questo diritto devono rispettare tre requisiti:

ogni limitazione deve essere prescritta dalla legge;

la limitazione deve adattarsi a una delle ragioni stabilite nel testo sullo strumento dei diritti dell’uomo;

la limitazione deve essere necessaria al raggiungimento dello scopo prescritto.

I requisiti di cui sopra sono la rappresentazione di uno dei capisaldi dello Stato di Diritto, il bilanciamento della tutela e della limitazione di qualsivoglia diritto, in ottica di ricerca di un’armonia tra bene pubblico e bene privato.

Limiti giuridici sulla libertà di espressione sui social network.

I social network sono piattaforme gestite da privati, pertanto non ascrivibili a canali di servizio pubblico, sebbene l’ampia portata degli stessi li definisca nel concreto sempre più simili, nella sostanza, ai mass media.

Le piattaforme social sottostanno a regole contrattuali che esulano dall’obbligo di controlli preventivi.

Agli stessi si applica la direttiva 2000/31/CE, recepita in Italia con il d.lgs. n. 70/2003.

I limiti di diritto pubblico alla libertà di espressione (ordine pubblico, buon costume ecc.…), valgono anche nei rapporti tra privati e, quindi, nel contesto social?

Il titolare della piattaforma può imporre regole più rigide che non lasciano spazio all’anarchia nell’ambito del pluralismo interno che deve garantire una piattaforma social?

Il titolare della piattaforma può cancellare l’account di un utente?

A livello europeo (ma non solo) il dibattito è aperto – amplificato anche sulla scorta degli eventi oltreoceano che hanno visto protagonista l’ex presidente americano Donald Trump – ma sembra convergere, sulla base di diverse iniziative, tra cui il Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio online, che un limite alla libertà di espressione sui social e di conseguenza online tout court è l’incitamento all’odio.

A questo si aggiungano i già citati limiti di portata generale.Sempre sulla scorta di una riflessione sui social, che si è poi allargata al web in generale, in Europa è stato adottato il Codice europeo sulla pratica della disinformazione, che si occupa delle cd. fake news.

La libertà di espressione online trova qui il limite nel:

diritto all’informazione;

diritto di cronaca.

I già menzionati limiti si applicano sia se oggetto della manifestazione “illecita” del pensiero è una persona fisica, sia se lo è un’entità astratta come un’idea, una legge, un orientamento politico, una scoperta scientifica.

diffamazione social.

Il confine tra libertà di espressione online e i diritti della sfera individuale.

Parlando ora direttamente di web in generale, se la manifestazione del pensiero si riferisce ad una persona fisica identificata o identificabile, il discorso si fa ancora più complesso.

Innanzitutto, i limiti che subentrano in tal caso sono:

protezione della reputazione altrui;

diritto all’immagine;

diritto alla riservatezza;

dignità della persona umana.

A tutela di questi ultimi vi è il reato di diffamazione, integrato quando l’offesa è finalizzata alla portata conoscenza di un numero indeterminato di persone.

Una forma di diffamazione aggravata è quella che si realizza con il mezzo della stampa, con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (materiale o digitale), o in atto pubblico (comma 3).

 

Una martellante campagna di diffamazione effettuata tramite web o social è stata equiparata a mezzo di pubblicità; pertanto, la diffamazione online può integrare la fattispecie aggravata.

(Cass. pen., V sez., n. 7904/19; Cass. pen. sez. V, 13/07/2015, n. 8328; Tribunale Pescara, 05/03/2018, n. 652).

Quando la libertà di espressione si scontra con la concorrenza sleale.

Sempre più frequenti sono i casi di pubblicizzazione via web di attività di tenore economico o vere e proprie attività di impresa, il cui fatturato ha prevalentemente origine online.

In tal caso la libertà di espressione si sostanzia spesso in libertà di critica che, nel concreto e nella maggioranza dei casi, interessa i competitor dei soggetti “commentati”.

In tal caso i limiti ampliano la loro portata e comprendono, oltre alla tutela dell’immagine e della reputazione dell’influencer o dell’azienda – ovverosia i diritti che appartengono alla sfera della personalità – tutti quei diritti che sono in relazione con la libertà di iniziativa economica altrui.

Vengono in tal caso in rilievo i seguenti:

diritto di proprietà ed utilizzo esclusivo del proprio marchio e dominio internet;

divieto di concorrenza sleale;

rispetto del diritto d’autore;

divieto di plagio;

divieto di sfruttamento economico delle attività e dei contenuti di proprietà altrui;

rispetto della libertà di iniziativa economica altrui e di esercizio dell’attività di impresa.

IL TECNOFEUDALESIMO CHE CI

RIMANDA TUTTI NEL CINQUECENTO.

libertaeguistizia.it – Fabrizio Tonello – (19 novembre 2022) – ci dice:

Benvenuti nell’Europa del Cinquecento o, se volete, nella Russia del 1820.

Elon Musk, impropriamente chiamato “visionario imprenditore” oltre che uomo più ricco del mondo, è in realtà un tecno-feudatario, cioè qualcuno che fa ciò che vuole grazie al potere del denaro e della tecnologia.

 I miliardari di oggi sono spesso chiamati “oligarchi “ma in realtà assomigliano di più al “duca di Guisa” nella Francia del 1588, più potente dello stesso re, o al conte di Warwick che nel 1553 riuscì a fare della nuora la regina d’Inghilterra (in entrambi i casi finirono male, ma questo è un altro discorso).

Elon Musk si è impadronito di Twitter un po’ per megalomania e un po’ per farne uno strumento politico al servizio dell’estrema destra:

 la prima cosa che ha fatto nei giorni scorsi è stato licenziare l’intero gruppo responsabile del controllo dei messaggi razzisti e delle incitazioni alla violenza.

 Lo “Hate Speech” tornerà alla grande nelle prossime settimane.

Ieri ha annunciato licenziamenti di massa con una letterina in cui diceva che a partire dalle 1 del mattino di oggi (ora italiana) i dipendenti che potevano rimanere in servizio sarebbero stati avvertiti.

Nel frattempo tutti i tesserini di accesso agli uffici dell’azienda sarebbero stati disattivati.

 

Gi ingegneri in carne ed ossa che hanno costruito la piattaforma sono stati eliminati con un meccanismo simile alla compravendita delle “anime morte” nel romanzo omonimo, ambientato nel 1820, ai tempi della servitù della gleba in Russia.

Il protagonista di Gogol era però un piccolo truffatore mentre Elon Musk fa sul serio.

Negli Stati Uniti del 2022 è rinata una forma di servitù della gleba che, come ci ricordano le enciclopedie, era una figura “a metà tra lo schiavo e l’uomo libero”.

Oggi in California c’è la libertà di consumare (definita dal massimale della vostra carta di credito) mentre quella di lavorare è legata al buon volere dei tecno-feudatari e delle banche che li sostengono.

I tecno-feudatari come “Elon Musk”, “Jeff Bezos”, “Bill Gates”, “i fratelli Koch” sono più potenti dei governi, com’è ovvio visto che il patrimonio personale di Musk è superiore al prodotto interno lordo della Grecia, il patrimonio di Bezos è poco meno del pil del Perù e occorrono un paio di dozzine di paesi africani per mettere insieme quello di Bill Gates.

Negli anni scorsi c’erano un buon numero di ricchi e potenti feudatari anche in Russia ma ultimamente tendono ad avere un’aspettativa di vita piuttosto breve.

 Il potere del denaro significa che perfino un “finto milionario come Trump” è riuscito fino ad ora a tenere a bada quel governo degli Stati Uniti che aveva tentato di rovesciare con un assalto al Congresso il 6 gennaio 2021.

Tutti loro considerano le leggi un fastidioso impiccio da lasciar risolvere agli avvocati (Berlusconi lo faceva già nel 1990, quando Musk era una matricola in una università canadese).

Hanno ambizioni politiche talvolta palesi (i fratelli Koch, Rebeka Mercer e Sheldon Adelson hanno praticamente inventato l’estrema destra americana con i loro miliardi), talvolta nascoste (come Jeff Bezos e lo stesso Musk).

Benvenuti nel tecno-feudalesimo, Anno Domini 2022.

(il manifesto, 5 novembre 2022)

 (ilmanifesto.it)

 

 

 

LA LIBERTÀ DI PAROLA E

DI ESPRESSIONE, UN BENE PER ADULTI.

Libertaegiusizia.it – Nadia Urbinati – (13 giugno 2021) – ci dice:

In una libreria Feltrinelli, un lettore ha espresso la sua opinione politica mettendo a testa in giù il libro di Giorgia Meloni, “Io sono Giorgia”, esposto in vetrina.

L’immagine è stata poi postata su Facebook e un docente di storia contemporanea che insegna all’università Ca’ Foscari di Venezia l’ha condivisa sulla sua pagina Facebook con il commento, «nelle librerie Feltrinelli può capitare».

Giornali e siti di destra hanno accusato il professore di offendere la leader di Fratelli d’Italia, associando il suo libro a testa in giù al corpo di Mussolini esposto a testa in giù insieme a quello di Claretta Petacci a Piazzale Loreto.

L’associazione tra fascismo e postfascismo non ha aperto alcuna discussione.

L’immagine postata dal docente è stata invece usata per giustificare la richiesta di provvedimenti disciplinari a suo carico.

Una richiesta fuori luogo, ma che merita di essere esaminata per parlare del valore e dei limiti della libertà di espressione, e perché consente di alzare il velo sulla fedeltà della destra postfascista ai diritti di libertà, conquistati da chi ha subito gli effetti della censura di regime.

Conquistati per il bene di tutti, di chi milita a destra come di chi milita a sinistra o non milita da nessuna parte.

Valore della persona.

Perché la nostra società è così pignola sulla libertà di espressione?

Lo è per ragioni che solo in parte dipendono dal funzionamento del sistema politico.

Questa libertà è incardinata sul valore della persona, della sua autonomia di pensiero e di espressione.

La stessa Meloni, liberista di fronte al virus e alla mascherina, dovrebbe fare un passo oltre e dire a chi la critica: «rispetto il tuo pensiero e lotterò fino a quando anche solo una persona è costretta a tacere le sue opinioni per non far torto a qualcuno, magari potente».

Ma la leader di Fratelli d’Italia non è ancora arrivata a fare questo passo liberale.

 

Non sarà quindi inutile andare alle ragioni che giustificano la libertà di parola e di espressione.

Una prima ragione ce l’ha offerta John Stuart Mill:

perché solo in questo modo possiamo partecipare alla ricerca della verità; senza falsificazione o discussione pro e contro non solo la ricerca non potrebbe procedere, ma perfino una verità conclamata ne risentirebbe.

L’obiezione serve a tener allenato il cervello perché anche una verità condivisa può diventare un dogma o un cieco atto di fede, se non discussa.

Si può non essere d’accordo con Mill, ma è certo che in una società liberale lo stesso liberalismo dovrebbe poter essere contestato.

Contesti dunque la Meloni coloro che la criticano, coloro che nel nome del diritto di parola tuonano contro il fascismo di ieri e di oggi, ma accetti la contesa.

Oppure vuol godere di una speciale protezione in quanto esponente politico e per di più in crescita di consensi?

 Quindi, un argomento a favore della libertà di parola è che essa tiene viva la dialettica e può essere usata da tutti.

 Se solo alcuni la rivendicassero sarebbe un privilegio.

 Se anche la stragrande maggioranza degli italiani fosse di destra, chi non condividesse questa idea o la condividesse a modo suo (crediamo che i postfascisti non siano tutti identici) ha il diritto di dirlo pubblicamente, e inoltre di associarsi con altri per rafforzare la propria opinione.

Perché?

Perché in democrazia ciascuna persona ha un valore irriducibile e perché la politica vive di dissenso e competizione (non solo fino a quando si sta all’opposizione), che servono a selezionare programmi e candidati e poi a chiedere conto agli eletti e, se necessario, a mandarli a casa.

Infine: la libertà di espressione non è parte del diritto di proprietà, ovvero mi appartiene non perché le corde vocali sono mie.

Mi appartiene perché usando tutti gli strumenti comunicativi che ho a disposizione (anche le corde vocali) entro in contatto con gli altri.

 Rivendicarla contro me stessa mentre sto a casa mia non ha senso.

 

La libertà di parola c’è (ed è sacrosanta) perché viviamo con gli altri.

Il rapporto con gli altri.

Date queste ragioni, qual è la differenza tra parole che vogliono indurre un’azione (per esempio l’incitamento ad assaltare le persone di colore o gli omosessuali), le azioni espressive (mettere a testa in giù il libro di Meloni) e le azioni che possono essere espressive (incatenarsi a un albero in segno di protesta)?

Benché non sia un agire e non faccia male come un’azione – per esempio come un sasso o un calcio – la parola detta in pubblico può avere un impatto sulle menti di chi ascolta e anche tradursi in azione.

È però rischioso associarla al danno, perché l’idea del danno ha una latitudine troppo ampia e discrezionale (chi decide che cosa è un danno?).

Dobbiamo quindi fare una distinzione tra le cose dette:

stanno fuori dal principio della piena libertà di espressione quelle parole che significano promessa, minaccia, menzogna, millantato credito, eccetera.

 In questi casi la legge può intervenire e se necessario reprimere.

Dei tre casi sopra menzionati, le parole che vogliono indurre un’azione sono le sole a essere giudicabili per il danno che possono arrecare.

Ma solo se c’è un interesse evidente

. Se possiedo un’azienda e commercio un prodotto attribuendogli effetti straordinari che so che non ha, sono passibile di punizione.

Non lo sono se non ho alcun interesse in quel prodotto e in effetti non so nulla di quel che contiene anche se sostengo in pubblico che ha proprietà straordinarie.

 I No-vax godono di piena libertà di parola.

Come anche chi mette il libro della Meloni a testa in giù o chi commenta sui social.

Lo spazio pubblico non è posseduto da qualcuno.

È un bene comune perché un luogo dove esprimiamo le nostre idee politiche, religiose, estetiche o morali sulle questioni che ci riguardano, ci interessano o ci incuriosiscono.

Lo spazio pubblico è un luogo nel quale si può chiedere di giustificare quel che viene detto: perché il libro della Meloni è stato messo a testa in giù?

È anche un luogo nel quale si può commentare un gesto espressivo e dire apertamente, «io non lo farei» oppure «io lo farei».

Lo spazio pubblico è un luogo che accoglie le opinioni le più diverse e scomode, che celebra anzi la libertà quando, e proprio perché, le cose dette non ci piacciono.

Pubblico e privato.

Però, però…

Quello pubblico è uno spazio abitato da molti e diversi e, mentre in casa possiamo gridare gli improperi che vogliamo contro i politici, in pubblico ci sono regole di civiltà non imposte dalla legge e che dovremmo accettare.

Perché?

Perché ciascuno possa godere della libertà di dire in pubblico quel che opina occorre che l’espressione non ecceda certi limiti di stile e di forma.

Questi limiti sono rubricabili nella categoria “virtù di civilità” per usare un’espressione di John Rawls, oppure in quella del dovere morale di non offendere, come scriveva Mill.

Si tratta di regole di buon comportamento che non necessitano interventi d’autorità;

e una società è tanto più libera quanto più i suoi cittadini sanno parlare in pubblico con civiltà.

 Anche il forum immateriale del web è uno spazio pubblico dove ognuno gode della libertà di parola e non deve essere escluso senza una ragione comprovabile.

 Irritare qualcuno per un’opinione non è offendere o giustifica l’esclusione. Sostenere un’idea politica che può infastidire chi la rappresenta o chi vi crede non può essere oggetto di punizione da parte della legge o del pubblico.

Al massimo può essere oggetto di critica.

 Come nel caso dell’immagine del libro rovesciato della Meloni:

 chi l’ha postata ha esercitato il suo diritto di espressione, e non può essere oggetto di repressione;

al massimo può essere criticato, com’è avvenuto nei giornali e da parte di esponenti politici di FdI.

Fino a quando non si offende…come nel caso del professore di Siena che, qualche mese fa, in una trasmissione radiofonica aveva usato aggettivi offensivi indirizzati alla Meloni.

 Ma parlare di fatti storici, interpretarli, associarli, e rendere pubbliche queste opinioni non può assolutamente essere fatto oggetto di coercizione o repressione. Neppure lo può il commento di comportamenti e idee relativi a una persona pubblica.

La libertà di parola e di espressione è a tutti gli effetti un bene per adulti.

Essa tocca l’altrui e la propria sensibilità e muove le emozioni.

E l’apprezziamo proprio per questo.

 

 

 

 

Ecco le professioni che saranno

rottamate da “ChatGpt”.

Report Nyt.

Starmat.it - Redazione Start Magazine – (2 Aprile 2023) – ci dice:

L’intelligenza artificiale opera da anni sullo sfondo di molte aziende e molti progressi tecnologici nel corso dei secoli hanno ridotto la necessità di alcuni lavoratori, ma ogni volta i posti di lavoro creati hanno più che compensato il numero di quelli persi.

Tuttavia, con “ChatGpt” potrebbe essere diverso.

Ecco perché e quali sono le professioni più a rischio.

L’articolo del New York Times.

A dicembre, lo staff dell’”American Writers and Artists Institute”, un’organizzazione di 26 anni che riunisce i copywriter, si è reso conto che stava succedendo qualcosa di grosso.

Era stata appena rilasciata l’ultima edizione di “ChatGPT”, un “modello linguistico di grandi dimensioni” che analizza Internet per rispondere a domande ed eseguire compiti a comando.

Le sue capacità erano sorprendenti e rientravano perfettamente nel campo delle persone che generano contenuti, come testi pubblicitari e post di blog, per vivere.

“Sono inorriditi”, ha detto Rebecca Matter, presidente dell’istituto.

Durante le vacanze, si è affrettata a organizzare un “webinar” sulle insidie e sul potenziale della nuova tecnologia di intelligenza artificiale.

Più di 3.000 persone si sono iscritte, ha detto, e il messaggio generale è stato cautelativo ma rassicurante:

gli scrittori potrebbero usare “ChatGPT” per completare gli incarichi più rapidamente e passare a ruoli di livello superiore nella pianificazione dei contenuti e nell’ottimizzazione per i motori di ricerca.

“Penso che ridurrà al minimo i progetti di copy di breve durata”, ha detto Matter.

“Ma dal lato opposto, credo che ci saranno più opportunità per cose come la strategia”.

Scrive il New York Times.

ChatGPT di “OpenAI” è l’ultima novità di una serie di innovazioni che hanno offerto il potenziale di trasformare molte professioni e di eliminarne altre, a volte in modo congiunto.

È troppo presto per fare il conto degli abilitati e dei minacciati, o per valutare l’impatto complessivo sulla domanda di lavoro e sulla produttività.

 Ma sembra chiaro che l’intelligenza artificiale influirà sul lavoro in modi diversi rispetto alle precedenti ondate tecnologiche.

La visione positiva di strumenti come “ChatGPT” è che potrebbero essere complementari al lavoro umano, piuttosto che sostituirlo. Non tutti i lavoratori, tuttavia, sono ottimisti riguardo all’impatto futuro.

Katie Brown si occupa di sovvenzioni nella periferia di Chicago per un piccolo gruppo non profit contro la violenza domestica.

 All’inizio di febbraio è rimasta scioccata nell’apprendere che un’associazione professionale di redattori come lei stava promuovendo l’uso di un software di intelligenza artificiale che avrebbe completato automaticamente alcune parti di una domanda, richiedendo all’uomo solo di rifinirla prima di inviarla.

La piattaforma, chiamata “Grantable”, si basa sulla stessa tecnologia di “ChatGPT” e si rivolge a liberi professionisti che si fanno pagare a domanda. Questo, a suo avviso, minaccia chiaramente le opportunità del settore.

L’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico operano da anni sullo sfondo di molte aziende, aiutando ad esempio a valutare un gran numero di possibili decisioni e ad allineare meglio l’offerta alla domanda.

 E molti progressi tecnologici nel corso dei secoli hanno ridotto la necessità di alcuni lavoratori, anche se ogni volta i posti di lavoro creati hanno più che compensato il numero di quelli persi.

“ChatGPT”, tuttavia, è il primo a confrontarsi direttamente con un’ampia gamma di lavoratori dipendenti e a essere così accessibile da poter essere utilizzato nel proprio lavoro.

 E sta migliorando rapidamente, con una nuova edizione rilasciata questo mese.

Secondo un sondaggio condotto dal sito di ricerca di lavoro “ZipRecruiter “dopo l’uscita di” ChatGPT,” il 62% delle persone in cerca di lavoro ha dichiarato di essere preoccupato che l’intelligenza artificiale possa far deragliare le loro carriere.

“ChatGPT è quello che ha reso più visibile il problema”, ha detto Michael Chui, partner del McKinsey Global Institute che studia gli effetti dell’automazione.

 “Quindi penso che abbia iniziato a sollevare domande su dove le tempistiche potrebbero iniziare a essere accelerate”.

Questa è anche la conclusione di un rapporto della Casa Bianca sulle implicazioni della tecnologia “A.I”., compreso” ChatGPT”.

 “Il rischio principale dell’A.I. per la forza lavoro è rappresentato dall’interruzione generale che probabilmente causerà ai lavoratori, sia che scoprano che il loro lavoro è stato automatizzato di recente, sia che la struttura del loro lavoro è cambiata radicalmente”, hanno scritto gli autori.

Per il momento, “Guillermo Rubio” ha scoperto che il suo lavoro di copywriter è cambiato notevolmente da quando ha iniziato a usare “ChatGPT “per generare idee per i post del blog, scrivere le prime bozze delle newsletter, creare centinaia di piccole variazioni sui testi pubblicitari e riassumere le ricerche su un argomento su cui potrebbe scrivere un” white paper”.

Dal momento che continua a chiedere ai suoi clienti le stesse tariffe, lo strumento gli ha semplicemente permesso di lavorare meno.

Tuttavia, se il prezzo della copy dovesse diminuire, come potrebbe accadere con il miglioramento della tecnologia, è sicuro di poter passare alla consulenza sulla strategia dei contenuti, oltre che alla produzione.

“Credo che le persone siano più riluttanti e timorose, e a ragione”, ha detto Rubio, che vive a Orange County, in California.

Si può vedere la cosa sotto una luce negativa, oppure abbracciarla.

Penso che la cosa più importante da fare è essere adattabili. Bisogna essere aperti ad accoglierlo”.

Dopo decenni di studi, i ricercatori hanno capito molto dell’impatto dell’automazione sulla forza lavoro.

Economisti come “Daron Acemoglu” del Massachusetts Institute of Technology hanno scoperto che dal 1980 la tecnologia ha svolto un ruolo primario nell’amplificare la disuguaglianza di reddito.

 Mentre i sindacati si sono atrofizzati, svuotando i sistemi di formazione e riqualificazione, i lavoratori senza istruzione universitaria hanno visto ridursi il loro potere contrattuale di fronte a macchine in grado di svolgere compiti rudimentali.

L’avvento di” ChatGPT” tre mesi fa, tuttavia, ha suscitato una raffica di studi basati sull’idea che non si tratta di un robot qualunque.

Un gruppo di ricercatori ha condotto un’analisi che mostra i settori e le professioni più esposti all’intelligenza artificiale, sulla base di un modello adattato agli strumenti di linguaggio generativo.

In cima alla lista ci sono i professori universitari di materie umanistiche, i fornitori di servizi legali, gli agenti assicurativi e gli addetti al telemarketing.

La mera esposizione, tuttavia, non determina se la tecnologia sia destinata a sostituire i lavoratori o semplicemente ad aumentare le loro competenze.

Shakked Noy e Whitney Zhang, dottorandi del MIT, hanno condotto uno studio randomizzato e controllato su professionisti esperti in settori quali le relazioni umane e il marketing.

Ai partecipanti sono stati assegnati compiti che di solito richiedono 20-30 minuti, come la stesura di comunicati stampa e brevi relazioni.

Coloro che hanno utilizzato “ChatGPT” hanno completato i compiti in media il 37% più velocemente di coloro che non l’hanno fatto, con un notevole aumento della produttività.

Inoltre, hanno registrato un aumento del 20% della soddisfazione sul lavoro.

Un terzo studio – che utilizza un programma sviluppato da “GitHub”, di proprietà di “Microsoft” – ha valutato l’impatto dell’IA generativa in particolare sugli sviluppatori di software.

 In una prova condotta dai ricercatori di “GitHub”, gli sviluppatori a cui è stato affidato un compito di base e che sono stati incoraggiati a usare il programma, chiamato “Copilot”, hanno completato il loro compito il 55% più velocemente di quelli che hanno svolto il compito manualmente.

Questi aumenti di produttività non sono paragonabili a quelli osservati dall’adozione diffusa del personal computer.

“Sembra che stia facendo qualcosa di fondamentalmente diverso”, ha detto David Autor, un altro economista del MIT, consulente di Zhang e Noy.

 “Prima i computer erano potenti, ma facevano semplicemente e roboticamente quello che la gente li programmava a fare”.

L’intelligenza artificiale generativa, invece, è “adattiva, impara ed è in grado di risolvere i problemi in modo flessibile”.

Questo è molto evidente a “Peter Dolkens”, sviluppatore di software per un’azienda che produce principalmente strumenti online per l’industria dello sport.

Ha integrato” ChatGPT “nel suo lavoro per svolgere compiti come riassumere parti di codice per aiutare i colleghi che potrebbero prendere in mano il progetto dopo di lui e proporre soluzioni ai problemi che lo lasciano perplesso.

Se la risposta non è perfetta, chiede a “ChatGPT “di perfezionarla o di provare qualcosa di diverso.

“È l’equivalente di uno stagista molto preparato”, ha detto Dolkens, che si trova a Londra.

“Magari non hanno l’esperienza per sapere come applicarlo, ma conoscono tutte le parole, hanno letto tutti i libri e sono in grado di arrivare in parte a destinazione”.

C’è un altro risultato della ricerca iniziale:

” ChatGPT” e “Copilot” hanno elevato maggiormente i lavoratori meno esperti. Se fosse vero, in generale, questo potrebbe attenuare gli effetti di disuguaglianza dell’intelligenza artificiale.

D’altra parte, se ogni lavoratore diventa più produttivo, è necessario un numero minore di lavoratori per completare una serie di compiti.

 Il fatto che ciò si traduca in una riduzione dei posti di lavoro in particolari settori dipende dalla domanda del servizio fornito e dai posti di lavoro che potrebbero essere creati per aiutare a gestire e dirigere l’”I.A”.

 Il “Prompt engineering”, ad esempio, è già un’abilità che coloro che giocano con “ChatGPT “abbastanza a lungo possono aggiungere al loro curriculum.

Poiché la domanda di codice software sembra insaziabile e gli stipendi degli sviluppatori sono estremamente elevati, è improbabile che l’aumento della produttività precluda le opportunità di ingresso nel settore.

Tuttavia, non sarà così per tutte le professioni, e “Dominic Russo” è abbastanza sicuro che non sarà così per la sua:

 scrivere appelli ai gestori di farmacie e alle compagnie di assicurazione quando rifiutano le prescrizioni di farmaci costosi.

Fa questo lavoro da circa sette anni e ha costruito la sua esperienza solo con una formazione sul campo, dopo aver studiato giornalismo all’università.

Dopo la nascita di “ChatGPT”, gli ha chiesto di scrivere un appello per conto di una persona affetta da psoriasi che voleva il costoso farmaco “Otezla”.

Il risultato è stato abbastanza buono da richiedere solo poche modifiche prima di essere inviato.

“Se si sa cosa chiedere all’IA, chiunque può fare il lavoro”, ha detto Russo.

“È questo che mi spaventa davvero. Perché una farmacia dovrebbe pagarmi 70.000 dollari all’anno, quando può concedere in licenza la tecnologia e pagare le persone 12 dollari all’ora per eseguire le richieste?”.

Per cercare di proteggersi da questo possibile futuro, Russo si è dedicato a un’attività secondaria:

vendere pizze dalla sua casa nel sud del New Jersey, un’attività che, secondo lui, non sarà interrotta dall’intelligenza artificiale.

 

 

 

 

Non sai nulla e ciò che

credi di sapere è falso.

Area-cr4.it – Redazione- (20-3-2023) – ci dice:

 

La storia segreta e il Nuovo Ordine Mondiale.

(…)

"Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che fanno produrre gli avvenimenti; un gruppo un po’ più importante che veglia alla loro esecuzione e assiste al loro compimento, e infine una vasta maggioranza che giammai saprà ciò che in realtà è accaduto".

Così si espresse Nicholas Murray Butler. Giova ricordare chi era questo personaggio. Il Dr. Nicholas Murray Butler è stato presidente dell’Università di Columbia, presidente della Carnegie Endwment for International Peace, membro fondatore, presidente della Pilgrims Society e membro del Council on Foreign Relations (CFR) e capo del British Israel.

 Taluni autori denunciano, sempre con maggiore insistenza, che è in atto una cospirazione super politica, "religiosa" o satanica che coinvolge l’alta finanza, le massonerie e l’integralismo islamico.

I fili della storia, asseriscono questi studiosi, si tirano proprio nelle logge massoniche e nei consigli di amministrazione delle multinazionali e delle grandi banche.

La Rivoluzione francese fu una congiura massonica, preparata da "società di pensiero" – uguali a quelle studiate da Augustin Cochin (1876-1916) – e da altri gruppi di pressione.

La Rivoluzione bolscevica fu una congiura giudaico-massonica.

 Diversi storici sono convinti di questo. Lo stesso "Times" (10 marzo 1920) confermò il complotto:

 "Si può considerare ormai come accettato che la rivoluzione bolscevica del 1917 è stata finanziata e sostenuta principalmente dall’alta finanza ebraica attraverso la Svezia: ciò non è che un aspetto della messa in atto del complotto del 1773".

Estrema importanza assume, sempre al riguardo della rivoluzione russa del febbraio del 1917, il fatto che, non affatto casualmente, il governo fosse costituito principalmente da massoni, tra questi risaltava Kerensky.

 È anche rivelatore il libro "Rossija nakanune revoljucii" di Grigorij Aronson, che fu pubblicato nel 1962 a New York e che riporta delle missive di E. D. Kuskova, moglie del massone Prokopovic, legato da grande amicizia al confratello Kerensky.

In una di queste lettere, datata 15 novembre 1955, si legge: "Avevamo la ‘nostra’ gente dappertutto. Fino a questo momento il segreto di questa organizzazione non è stato mai divulgato, eppure l’organizzazione era enorme.

Al tempo della rivoluzione di febbraio tutta la Russia era coperta da una rete di logge".

L’iniziato Jean Marques-Rivière scrisse: "L’esoterismo, con la sua forza sul piano ideologico, guida il mondo".

 Non bisogna stupirsene. È innegabile il diffondersi, nelle maglie della nostra società, di una subdola propagazione di idee, combattute con inflessibilità dalla Chiesa, ma non estirpate del tutto,che ora godono di un pericoloso risveglio e diffusione.

È una letteratura imponente quella dei cosiddetti cospirazionisti, disprezzata dagli storici ufficiali, che, invece, non obiettano quando la stessa metodologia viene adottata dalla sinistra e dall’estrema sinistra, vedi "golpe De Lorenzo", "strategia della tensione", ecc. che non sono altro che capitoli di una teoria della cospirazione, che nega di esserlo.

Il lato occulto della storia contemporanea è complesso e, oltremodo, variegato. Insospettabili VIP

del mondo che conta sono affiliati ad oscuri ordini esoterici.

L’ex presidente americano George Bush è un 33° grado della Massoneria di Rito Scozzese, lo ha rivelato Giuliano Di Bernardo, Gran Maestro della Massoneria italiana, al quotidiano "La Stampa" (23 marzo 1990).

Bush sarebbe stato iniziato, nel 1943, alla setta "Skull and Bones" (Teschio e Ossa) dell’Università di Yale, fondata nel 1832.

George Bush ha diretto anche la Cia.

La Skull and Bones assieme a società come il Rhodes Trust, secondo l’autorevole rivista inglese "Economist" (25 dicembre 1992), sono la moderna

risorgenza degli "Illuminati di Baviera" di Jean Adam Weisshaupt (1748-1830).

Anche suo padre Prescott sarebbe stato membro della setta "Skull and Bones".

Di essa farebbero parte le più potenti famiglie degli Stati Uniti.

Tra queste vale la pena di menzionare "la famiglia Harriman, della Morgan Guaranty Trust, è Skull and Bones da generazioni.

Petrolio: ci sono i Rockefeller, fra gli iniziati. Studi legali di grido. Poltrone alte della Cia. Vicepresidenza degli Stati Uniti".

È anche molto interessante venire a sapere che, secondo quanto scrive lo storico Antony C. Sutton in "America’s Secret Establishment" (liberty House Press. Bilings 1986, pagg. 207 e segg.), la "Skull and Bones" è collegata al movimento New Age e ad essa,asserisce ancora Sutton, non sono estranei aspetti satanisti.

Marylin Ferguson nel suo libro "The Aquarian Conspiracy", una vera e propria Bibbia del movimento New Age, mette assieme Huxley con Teilhard de Chardin, Carl Gustav Jung, Maslow, Carl Rogers, Roberto Assagioli, Krishnamurti,

ecc. tra i personaggi, che sono da considerare come padri spirituali del New Age.

 Aldous Huxley e suo fratello Julian, quest’ultimo fu il primo dirigente dell’U.N.E.S.C.O., erano anche membri di importanti affiliazioni mondialiste, tra queste ricordo l’anglosassone Fabian Society.

Sui vertici del mondialismo, René Guenon, che era un 33° grado del Rito Scozzese Antico Accettato e un 90° del Rito Egiziano di Memphis-Misraim, ebbe ad affermare: "…ma dietro tutti questi movimenti non potrebbe esserci qualcosa di altrimenti temibile, che forse neanche i loro stessi capi conoscono, e di cui essi a loro volta quindi, non sono che dei semplici strumenti?

Noi ci accontenteremo di porre questa domanda senza cercare di risolverla qui" (cit. da "Il Teosofismo", edizioni Arktos, 1987, vol. II, pag. 297).

Ritornando alla "Skull and Bones" la sua importanza può essere ben compresa se si riflette che, nel 1917, essa diresse, tra l’altro, quel centro finanziario denominato "120 Brodway", finanziatore del bolscevismo in Russia e del nazismo in Germania che, tra l’altro, portò al potere.

Non ci si meravigli se, a questi livelli, parole come "destra e sinistra" non hanno più significato, più esattamente, non si bada a razze, religioni o ideologie: questi sono solo mezzi da utilizzare per raggiungere il fine ultimo, su scala mondiale, con l’antica strategia del "divide et impera".

E, a questo punto, non meraviglia venire a conoscenza delle trattative segrete intercorse tra George Bush ed alte personalità del governo dell’Iran, che poi hanno portato allo scandalo dell’Irangate.

Gli accordi furono resi possibili da Khomeini e dal suo entourage, comprendente buona parte dei suoi ministri, il capo della polizia, il comandante dell’esercito, il procuratore generale del tribunale islamico, il capo della polizia segreta, ecc., sono, o sono stati, affiliati alla Grande Loggia dell’Iran, che è sottoposta alla dipendenza della Gran Loggia d’Inghilterra. È poi noto che l’ex presidente

George Bush è esponente di rilievo della sinarchia internazionale, figura di spicco del C.F.R, della Trilaterale, della potente Pilgrims Society oltre che della Skull and Bones.

È anche interessante accennare ad un articolo, firmato M. Dornbierer, apparso, il 29 gennaio 1991, sul giornale messicano "Excelsior" che spiegava lo "smisurato sionismo" di Bush documentando la sua origine ebraica secondo quanto indicato nell’Enciclopedia ebraica castigliana.

 Bush è inoltre un W.A.S.P. (White Anglo-Saxon Protestant), ovvero un americano convinto che la sua origine razziale e le sue convinzioni religiose lo pongano al di sopra degli altri uomini.

Scrive Blondet che "secondo Sutton, lo storico della Skull and Bones, la stessa locuzione ‘Nuovo Ordine Mondiale’ descrive il fine ultimo che gli affiliati alla società segreta di Yale s’impegnano a perseguire.

 A questo i membri dell’Ordine s’impegnerebbero a giungere attraverso la gestione di conflitti artificialmente generati, come quello tra nazismo e comunismo.

Per Sutton, questa filosofia segreta dell’Ordine rivelerebbe la sua origine tedesca (che Sutton ritiene di poter provare): gli iniziati sarebbero dei tardi seguaci di Hegel, votati a far progredire il mondo attraverso opposizioni, tesi e antitesi, per poi comporle in una sintesi superiore.

 L’ipotesi, affascinante, può essere superflua.

A noi sembra sufficiente evocare uno dei motti, delle insegne della Massoneria, che suona: Ordo ab Chao, l’Ordine (nasce) dal Caos".

 L’idea del "Nuovo Ordine del Mondo" è perseguita con accanimento del presidente Bill Clinton,scrive Epiphanius: "la sua educazione l’ha ricevuta nella britannica Oxford, dove venne ammesso nel super elitario ‘Rhodes Group’, una società superiore dell’area del POTERE affine alla ‘Skull and Bones", come scrisse l’’Economist’ inglese nel suo numero del 25 dicembre 1992.

 L’’Economist’ elencava una decina delle maggiori ‘società d’influenza’ del mondo occidentale rivelando la loro comune derivazione dall’Ordine degli Illuminati di Weisshaupt fondato nel 1776.

 Clinton appartiene anche al C.F.R., alla Commissione Trilaterale e al Bilderberg…". Clinton ha portato con sé Les Aspin (CFR) che, tra l’altro, ha firmato la "Dichiarazione di Interdipendenza", che è, in sostanza, - una mozione del Congresso che nel 1962, proponeva di cancellare dalla Costituzione ogni dichiarazione di sovranità nazionale, in quanto ostacolo all’instaurazione di un ‘Nuovo Ordine Mondiale’".

"Il Rhodes Group – ci fa sapere ancora Epiphanius, del suo "Massoneria e sette segrete" (cit.) – nacque nel 1891 per iniziativa di Lord Cecil Rhodes, ricchissimo personaggio legato ai Rothschild, assieme a Lord Milner, Lord Isher, Lord Balfour e un Rothschild, intorno all’idea-guida di organizzare una federazione mondiale di cui U.S.A. e Impero britannico sarebbero stati il centro propulsore.

Il mezzo per attuarla consisteva in una selezione elitaria dei quadri protagonisti degli ambienti universitari, politici, finanziari. Attorno a questo nucleo iniziale permeato delle idee mondialiste e socialiste della Fabian Society, sorsero i gruppi della Round Table che a loro volta, nel 1919, diedero vita ai due odierni pilastri del potere mondialista, cioè gli Istituti Affari Internazionali britannico (R.I.I.A.) e americano (C.F.R.).

 Il Rhodes Group, al pari della Skull and Bones, controlla il C.F.R., (che a sua volta controlla la Trilaterale), il governo-ombra americano il cui comitato direttivo

annovera personaggi in grado di gestire bilanci superiori a quello annuale lordo americano".

Ritornando al progetto del Nuovo Ordine Mondiale, già il 17 febbraio del 1950 il banchiere James Warburg, alla Commissione Esteri del Senato, era stato fin troppo chiaro quando aveva affermato:

"Che vi piaccia o no, avremo un governo mondiale, o col consenso o con la forza".

Anche con le stragi.

Il Palazzo Federale "Alfred P. Murrah" ad Oklahoma, U.S.A., viene fatto saltare in aria da una tremenda esplosione, il 19 aprile del 1995. Le vittime furono 168. Furono sospettate dell’attentato e arrestate tre persone: Timothy McVeigh, Terry Nichols e James Nichols.

L’FBI ha iniziato "col dichiarare che il meccanismo esplosivo era un’auto-bomba imbottita di 1.000 libbre di esplosivo. Poi era un’auto con 1.400 libbre. In seguito si trattava di un camion con 4.000 libbre. Adesso è un furgone per traslochi con 5.000 libbre di esplosivo".

Ted Gunderson, ex dirigente dell’FBI, al contrario di quanto vuol far credere il Dipartimento di Giustizia Americano e cioè che si è trattato di "una singola semplice bomba fertilizzante", ha affermato che: "la bomba era un congegno elettro idrodinamico a combustibile gassoso (bomba barometrica), che non è possibile sia stata costruita da McVeigh... la bomba utilizzata era un sofisticato congegno A-neutronico, usato dall’esercito americano...".

Sam Cohen, padre della bomba neutronica, il 28 giugno dello stesso anno, al telegiornale della KFOR-TV ha dichiarato:

 "Non mi interessa quanto fertilizzante e gasolio hanno usato, non sarebbe mai stato sufficiente. Cariche di demolizione, piazzate sulle colonne chiave, hanno fatto lo sporco lavoro".

Antefatto: non è stato molto pubblicizzato che, "il 28 marzo 1994, l’Assemblea Legislativa dello Stato dell’Oklahoma passò una risoluzione che colpiva quello che veniva percepito come un programma di governo mondiale. Fu il primo e forse il solo Stato ad approvare tale legislazione".

Di seguito riporto alcuni estratti relativi alla decisione dell’Assemblea Legislativa dell’Oklahoma:

"Risoluzione N. 1047: Una risoluzione in relazione alle forze militari degli Stati Uniti e alle Nazioni Unite; si presenta una petizione al Congresso affinché cessi determinate attività concernenti le Nazioni Unite... Considerato che non c’è appoggio popolare per l’instaurazione di un "nuovo ordine mondiale" o di una sovranità mondiale di qualsiasi tipo, sia sotto le Nazioni Unite o sotto qualsivoglia

organismo mondiale in qualsiasi forma di governo globale…;

Considerato che un governo globale significherebbe la distruzione della nostra Costituzione e la corruzione dello spirito della Dichiarazione di Indipendenza della nostra libertà e del nostro sistema di vita. ...sia deliberato dalla Camera dei Rappresentanti della seconda Sessione della 44ma legislatura dell’Oklaoma:

Che al Congresso degli Stati Uniti sia con la presente rammentato di: (...). Cessare ogni supporto per l’instaurazione di un "nuovo ordine mondiale" o qualsiasi altra forma di governo globale.

Che al Congresso degli Stati Uniti è con la presente rammentato di astenersi dal prendere qualsiasi ulteriore iniziativa verso la fusione economica o politica degli Stati Uniti in un organismo mondiale o qualsiasi altra forma di governo mondiale.

 (Fonte: Newsgroup alt. conspiracy, via Pegasus computer networks, Australia)".

Cosa dire di questi fatti?

Quale oligarchia misteriosa dirige, in segreto, i vari governi delle nazioni?

Lascio al lettore il compito di arrivare a delle conclusioni.

 Alla luce di certi accadimenti i governi, la politica e gli stessi politici assumono contorni sbiaditi, sfumati. Misteri che travasano nella storia altri misteri frammisti a bugie.

Pochissimi, forse, sanno che "Il fascismo non è nato in Italia e in Germania. Ebbe la sua prima manifestazione in Russia, col movimento dei ‘Cento Neri’, completo già all’inizio del ‘900 nelle sue azioni e nei suoi simboli: la violenza politica, l’antisemitismo feroce, i neri stendardi col teschio".

Chi tira i fili della storia?

Ricercare certe dinamiche è cosa ardua specie quando riguarda la sfera

politica e ciò che sembra del tutto casuale, in molti casi, sono state attentamente preparate.

 Franklin Delano Roosvelt, presidente americano e 33° del Rito Scozzese, nonché appartenente alla Pilgrim Society e al C.F.R., il governo-ombra americano, affermò: "In politica nulla accade a caso. Ogni qualvolta sopravviene un avvenimento si può star certi che esso era stato previsto per svolgersi in quel modo".

Quindi una oscura oligarchia, tira le fila di fantocci, solo apparentemente, alla ribalta della scena politica.

 Aveva ragione Benjiamin Disraeli, statista inglese del secolo scorso, quando

disse: "Il mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti da coloro i quali non sanno guardare dietro le quinte".

Neppure i partiti contano poi molto. Essi stessi sono a loro volta

manovrati, usati, in relazione a degli scopi precisi.

René Guenon ci informa, nel suo articolo "Réflexions à popos du pouvoir occulte" pubblicato, con lo pseudonimo di “Le Sphinx”, sul numero dell’11 giugno 1914, pag. 277, della rivista cattolica "France Antimaconnique", che "Un potere occulto di ordine politico e finanziario non dovrà essere confuso con un potere occulto di ordine puramente iniziatico…

Un altro punto da tenere presente è che i “Superiori Incogniti”, di qualunque ordine siano e qualunque sia il campo in cui vogliono agire, non cercano mai di creare dei ‘movimenti’.

Essi creano solo degli stati d’animo (état d’esprit), ciò che è molto più efficace, ma, forse, un poco meno alla portata di chiunque.

 È incontestabile che la mentalità degli individui e delle collettività può essere modificata da un insieme sistematico di suggestioni appropriate; in fondo, l’educazione stessa non è altro che questo, e non c’è qui nessun ‘occultismo’.

 Uno stato d’animo determinato richiede, per stabilirsi, condizioni favorevoli, e occorre o approfittare di queste condizioni se esistono, o provocarne la realizzazione".

Al riguardo dei movimenti rivoluzionari sempre il Guénon, nel suo libro "L’Esoterismo di Dante" (Ediz, Atanòr, Roma 1971), spiega: "...tali movimenti sono talvolta suscitati o guidati, invisibilmente, da potenti organizzazioni iniziatiche, possiamo dire che queste li dominano senza mescolarvisi, in modo da esercitare la loro influenza, egualmente, su ciascuno dei partiti contrari".

Sul fenomeno del terrorismo delle Brigate Rosse e su quello di estrema destra, il giudice Pietro Calogero, uno dei magistrati che più ha studiato il problema, ammetteva l’esistenza di: "una rete di collegamenti che si raccoglie intorno a un centro di interesse unitario, che permette ai due terrorismi di procedere insieme nell’assalto dello Stato".

Quali misteriosi personaggi si celano dietro le quinte dei vari governi?

Serge Hutin racconta, a tal proposito, quanto accadde ad uno scrittore inglese che sotto lo pseudonimo di “Robert Payne” pubblicò a Londra, nel 1951, un’opera intitolata "Zero. The story of terrorism".

Payne cercò di dimostrare che la strategia del terrore ha abili registi dietro le quinte dei governi apparenti.

All’uscita della pubblicazione si verificarono tutta una serie di "coincidenze" molto strane. Tutte le copie del libro furono acquistate da misteriosi personaggi prima ancora che venisse messo in vendita.

 I giornali ignorarono l’opera nonostante il carattere sensazionale delle rivelazioni in essa contenute.

La casa editrice Wingate, una delle più importanti di Londra fallì improvvisamente.

Robert Payne morì qualche mese dopo in circostanze a dir poco misteriose.

Hutin osserva "La sola spiegazione possibile era che l’autore avesse scoperto l’esistenza, a livello mondiale, di governanti occulti...".

La domanda che ora si pone è: come si procederà alla frantumazione degli Stati per la realizzazione del Governo Mondiale?

Scrive Blondet: "Michel Albert è un grand commis della politica

sovrannazionale... oggi presidente delle” Assurances Générales de France”, una delle grandi entità finanziarie che hanno promosso il Mercato Unico Europeo.

 Nel 1989, Albert ha pubblicato un saggio, subito tradotto in Italia dall’editrice il Mulino con il titolo: “Crisi, Disastro, Miracolo”.

Il libro contiene una prognosi sulla fine degli Stati nazionali che rivela un’analisi sicuramente elaborata negli uffici-studi della Trilaterale, e un progetto di ingegneria sociale. …

"L’Europa ‘92 lancia il Mercato Unico all’assalto degli Stati nazionali. Li smantellerà".

Come? Con "l’anarchia che risulterà" da "un mercato libero e senza frontiere in una società plurinazionale che non riesce a prendere decisioni comuni".

A questo "disastro" pianificato, l’oligarchia spera seguirà il "miracolo": gli Stati nazionali devastati invocheranno "una moneta comune, una Banca centrale europea e un bilancio comunitario".

Il programma, tuttavia, era già chiaro nel lontano 1957:

"Creare un mercato monetario e finanziario europeo, con una Banca europea il libero flusso dei capitali tra i paesi membri e, infine, una politica finanziaria centralizzata".

L’attuazione del programma per insediare un "Nuovo Ordine Mondiale"

collegato al movimento "New Age" (di cui parlo più diffusamente nel mio saggio "Il serpente e l’arcobaleno", Ediz. "Segno" di Udine), o chiamata anche "Nuova Era", "Età dell’Aquario" o Era del "Condor", come dicono gli studiosi delle civiltà pre-colombiane, si articola in più strategie per realizzare questa grande utopia della parodia del “Romanum Imperium”.

Fantapolitica e tendenza al complottismo?

 Tutt’altro. Ecco due esempi italiani. Leggete cosa la rivista americana "Eir" scriveva: "Il 2 aprile 1993... il capogruppo Dc alla Camera, Gerardo Bianco, e il suo collega al Senato, Gabriele De Rosa, presentano un esposto alla procura di Roma, chiedendo di appurare se c’è una cospirazione politica per distruggere l’ordine costituzionale italiano.

Gli scandali rappresentano un tentativo da parte delle forze Anglo-Americane, segnatamente la” Fra Massoneria”, di orchestrare una generale destabilizzazione della nazione italiana per distruggere il sistema politico esistente e insediare un nuovo ordine, a loro più gradito".

Ai cronisti, che chiedevano a Mancino cosa c’è dietro le stragi italiane, lui rispose: "Non escludo un ruolo della finanza internazionale".

Strategie occulte della “secret fraternity bancaria internazionale”.

David Rockefeller "credendo di parlare a orecchie fidate, nel ‘91... ha ammesso:

1) che una cospirazione esiste ‘da quaranta anni’;

2) che essa ha lo scopo di instaurare nel segreto ‘un governo mondiale’ e ‘la sovranità nazionale’ dei

banchieri;

3) che il nemico dei cospiratori è ‘l’autodeterminazione nazionale’".

Nel frattempo, si verificano nel mondo barbarie, solo apparentemente, prive di sottile regia, occulta naturalmente.

Ed è interessante apprendere quanto il misterioso personaggio "esperto di un genere assai speciale", che fa da sfondo al tema trattato da Blondet ne "Gli "Adelphi" della dissoluzione, in una lettera indirizzata allo scrittore suggerisce:

"Può anche darsi che il Nuovo Ordine Mondiale non possa avviarsi a un’epocale “clash of civilizations”, come alcuni insiders già auspicano in America, ma si limiti a sgranare stermini e genocidi locali, killing fields per poveri straccioni, danze di Shiva e di Kali su carnai confinati a luoghi dove l’uomo è abbondante e ‘sprecabile’.

Un’accusa è sempre pronta, a squalificare e ridicolizzare chi esprime ad alta voce le idee che io sommessamente descrivo: quella di ‘complottista’, di allucinato immaginatore di complotti universali.

A queste lapidazioni moderne si prestano volontari precisi ambienti giornalistici;

 espressione di una categoria umana tra le più artificiali, la più ridicolmente sicura di ‘vivere’ in proprio, mentre è la più totalmente ‘vissuta’ e agitata dalle idee correnti, dagli états d’esprit dominanti, dai climi culturali egemoni che ‘Altri’ hanno pur diffuso nell’aria".

 

 

Ricchi e poveri: destino o merito?

Riflessioni sul destino dell’umanità

e dell’eguaglianza.

Sebastianozanolli.com – (6 Marzo 2019) – Sebastiano Zanolli – ci dice:

 

Esattamente un anno fa, di questi tempi, il discorso principale riguardava il reddito di cittadinanza.

 Ci si domandava cosa si apprendeva dal test della Finlandia, cosa sarebbe successo nel nostro paese e in generale se fosse "giusto" aiutare chi sta peggio.

In altre parole, una parte dei discorsi riguardava la solita domanda: sfortuna o pigrizia?

 Giusto che chi si sia dato da fare e stia meglio aiuti chi sta peggio?

Alla luce del Covid - adesso si parla di reddito di cittadinanza di emergenza, si parla di redistribuzione della ricchezza e differenze sociali da ridurre. - le domande tornano prepotentemente attuali.

E dovremmo tutti pensarci bene e, nel nostro piccolo, fare la nostra parte.

Perché il reddito universale in Finlandia non verrà prolungato?

 Che lezioni potrebbero trarne i paesi che sono impegnati in programmi analoghi? Cosa sta succedendo e cosa accadrà in Italia con il reddito di cittadinanza?

Cosa possiamo capire dalle esperienze degli Stati Uniti con le loro grandi differenze distribuzione della ricchezza?

E ancora, ricchi e poveri: destino o merito?

Ho provato ad approfondire cosa si sia fatto al riguardo in giro per il mondo surfando tra le diverse correnti di pensiero.

Unendo quello che ho capito sulla motivazione umana e su come venga generata l’azione.

Ragioneremo di uomini e donne che cercano a buon diritto di fare la propria Grande Differenza senza la pretesa di dare soluzioni ma con l’intento di aggiungere materiale, esempi e dati al tavolo di discussione.

Questo articolo rientra nella categoria approfondimenti.

Se non hai il tempo di leggerlo adesso o ti può fare piacere, ho preparato un pdf da scaricare per leggerlo quando vuoi, anche off line.

Note:

 la parola “poveri” è ambigua e purtroppo si presta a molte generalizzazioni.

Intendiamo con questo termine le persone in situazioni di povertà estrema (persone che vivono, secondo la definizione della Banca Mondiale, con meno di 1,90 dollari al giorno), così come persone che vivono situazioni difficili e al limite; quello che intendiamo con povertà relativa).

Per una questione comunicativa utilizzerò la parola “povero” in uno e nell’altro caso, cercando di specificare di volta in volta i vari contesti e situazioni.

Altra cosa che mi preme sottolineare è che, nella trattazione di un tema così complesso, cercherò di stare lontano dal giustificare tesi in base a credo religiosi o a ideologie o di abbracciarne alcune.

Non perché non abbia la mia idea ma perché le scienze sociali e le indagini storiche hanno dimostrato che mentre la religione e le ideologie spesso aiutino a produrre cambiamenti sociali ed economici a vantaggio di chi vive in povertà, possono anche essere indirizzate a giustificare disuguaglianze sociali ed economiche che hanno effetti negativi sul povero.

Proverò quindi a scattare foto di esperimenti e risultati e trarne delle riflessioni che non abbisognino di atti di fede ciechi e pregiudiziali.

Lì, nella savana, c’è un popolo di uomini che ci racconta e ci dà speranza.

(Foto tratta da “A multimedia exhibit documenting the Hadza tribe of Tanzania”)

Nella parte settentrionale della Tanzania, attorno al lago “Eyasi”, in uno degli scenari più suggestivi del pianeta, tra savane e praterie, vivono gli” Hadza”, l’ultimo dei popoli a non averci seguito nel processo di “sviluppo” e industrializzazione.

Sono ancora cacciatori-raccoglitori, sono organizzati in piccoli gruppi e sono la prova che l’uomo non è intrinsecamente egoista e competitivo.

 Gli studiosi che da anni li osservano e raccontano, hanno evidenziato che:

Le relazioni tra le persone sono basate sulla condivisione e sulla reciprocità ma non implicano vincoli e dipendenza.

L’accesso alle risorse è comune e non vi sono requisiti per i quali qualcuno ne ha più o prima.

Nessuno è in grado di esercitare un’autorità permanente sul resto del gruppo, eventuali controversie sono sempre regolate da terzi che non hanno interesse nella questione.

Nessuno è in grado di accumulare risorse.

Le risorse in eccesso si scommettono in curiosi giochi d’azzardo.

Se anche qualcuno momentaneamente dovesse accumulare una piccola fortuna, le leggi della probabilità dicono che facilmente la perderà.

Andarsene via con il patrimonio poi non servirebbe a nulla, perché gli altri seguirebbero il compagno fortunato nel nuovo accampamento e continuerebbero a giocare con lui.

Sono probabilmente la società più eguale che si possa incontrare e rappresentano probabilmente il punto storico dal quale il genere umano è partito.

 In principio infatti, quando gli uomini erano raccoglitori e cacciatori, non esistevano la possibilità e nemmeno la necessità di conservare e di accumulare beni.

 Le risorse venivano distribuite equamente tra tutti gli appartenenti alla comunità, proprio come gli “Hazda”.

Semplificando un po’ gli avvenimenti e sintetizzando la storia umana, con il passaggio a una società basata sull’agricoltura iniziarono invece ad emergere concetti e bisogni quali l’accumulo, le scorte, la proprietà.

 In qualche modo e in qualche momento, i più bravi o i “più fortunati”, acquisirono risorse e conoscenze che permettevano loro di avere sempre di più faticando di meno.

 Le risorse da quel momento non vengono più distribuite in maniera omogenea.

Gli studiosi sono abbastanza concordi nell’individuare in quei momenti pivotali l’inizio di un mondo diseguale.

Il resto è noto, da scavi archeologici, da libri di storia, dai film, abbiamo appreso di quanta differenza ci sia sempre stata tra il faraone e lo schiavo, il re e i sudditi, il ricco mercante e il garzone, il cavaliere e lo stalliere.

Andando veloce nella storia, sempre a causa dalla ineguale distribuzione delle ricchezze, incontriamo tumulti, trattamenti disumani, rivoluzioni.

Un mondo spaccato tra fortunati e sfortunati, facoltosi e indigenti, e secondo alcuni tra meritevoli e incapaci.

 Sino ai nostri giorni.

Giorni in cui appena 8 persone detengono la ricchezza di metà della popolazione mondiale.

 E in cui 8 miliardi di persone godono di benessere e opportunità alquanto eguali.

Uguaglianza: problemi e paradossi.

La maggior parte delle persone immagina di vivere un mondo pieno di squilibri e diseguaglianze.

La maggior parte delle persone ha ragione però solo a metà.

 È una situazione complessa e contro-intuitiva e che presenta più di un paradosso.

Viviamo nella società globalmente più ricca della storia umana e in un’era di progresso, salute, benessere e comodità in cui accade tutto e il contrario di tutto.

Vediamo alcuni dati interessanti quando parliamo di ricchezza.

1) I poveri “poveri” esistono ma non sono moltissimi.

Esistono i poveri “poveri ma va meglio di quanto sembra.

 Siamo globalmente la società più eguale della storia umana: solo il 9 % degli abitanti del mondo vive in Paesi a basso reddito.

Più del 90% di tutti i bambini del mondo frequenta la scuola primaria.

Ci sono chiaramente ancora tanti problemi ma dati alla mano viviamo un’era di prosperità e anche pace.

Hans Rosling spiegò bene il motivo per cui, sul capitolo povertà assoluta, tendiamo ad essere negativi e mostrò in un celebre Ted “le migliori statistiche” che dimostrano come sia, incredibilmente, uno dei periodi della storia in cui si è fatto di più in termini di eguaglianza. Ne avevo già parlato.

2) 8 miliardi di persone più 8.

Pochissime persone, appena 8, detengono una ricchezza pari alla metà del resto del pianeta.

 Qualcosa che ormai abbiamo imparato a dare per scontato e che, di norma, è un cruccio al quale pensiamo solo di rado.

Dopotutto è un po’ quello che chiamo l’“effetto cognato”:

ti secca se tuo cognato guadagna più di te e se può passare le ferie in posti da urlo, ti lascia indifferente o quasi il fatto che Cristiano Ronaldo guadagni in un solo giorno circa 255 mila dollari, qualcosa come 10.600 dollari ogni ora della sua giornata.

(Stima tratta dai dati del 2017 che registrano un fatturato di 93 milioni di dollari)

La ricchezza di chi ti è distante è meno fastidiosa di quella di chi ti è vicino e con cui ti compari.

3) La disuguaglianza ravvicinata è il problema.

Le disparità ravvicinate in un paese e in una comunità sono il punto focale e di tensione quando si parla di disuguaglianza e di reddito di cittadinanza e reddito universale.

 Un problema che vede tutti protagonisti: tanto chi è rimasto indietro, tanto chi è avanti.

Richard Wilkinson, accademico e saggista inglese, tra i più attivi nello studio delle diseguaglianze sociali, inquadra bene il problema in un celebre “Ted”:

“Il benessere medio delle nostre società non dipende più dal reddito nazionale o dalla crescita economica.

 È molto importante nei paesi più poveri, ma non nel mondo ricco e sviluppato.

Ma le differenze tra di noi e dove siamo posizionati l’uno rispetto all’altro ora hanno molta importanza.”

Per spiegarlo utilizza un esempio molto chiaro:

il rapporto tra reddito e aspettativa di vita confrontando i dati di reddito tra paesi diversi, in un caso, e tra redditi diversi all’interno di uno stesso paese.

“Norvegia e gli Stati Uniti, sono due volte più ricchi di Israele, Grecia e Portogallo ma non mostrano differenze nell’aspettativa di vita… Ma se guardiamo all’interno delle nostre (singole) società, ci sono enormi gradienti sociali nella salute proprio all’interno delle società e queste influenzano le aspettative di vita degli individui.”

Se le disparità di reddito all’interno di un paese incidono sull’aspettativa di vita degli individui, emerge il motivo per cui la sfida dell’eguaglianza sia così centrale.

Il caso Finlandia, ha occupato intere colonne sui quotidiani e in Italia siamo alle prese con la legge sul reddito di cittadinanza.

 

A rendere più complessa la questione c’è poi una società in divenire e da decifrare, basata su nuovi fattori e dinamiche.

 Robot e Intelligenza Artificiale (IA) rischiano infatti di diventare un punto di grande squilibrio che potrà assicurare tanto benessere (potremmo ad esempio non aver più bisogno di lavorare vivendo delle tasse sui robot?) quanto di una disuguaglianza senza precedenti, con intere classi di “inutili” e irrilevanti lavoratori tagliati fuori da una società governata e gestita da pochissimi potenti e tecno-burocrati.

“L’ascesa dell’IA potrebbe annullare il valore economico e il potere politico della maggioranza degli esseri umani.

Allo stesso tempo i progressi nella biotecnologia potrebbero far sì che la disuguaglianza economica si traduca in disuguaglianza biologica.”

Yuval Noah Harari.

Approfondimento: povertà relativa.

“Il ricco che si sentiva povero

Nel Febbraio del 2015 “Jesse Klein”, scrisse al “The Michigan Daily” per condividere il suo problema: non era di certo ricco.

Il reddito di famiglia era di 250 mila dollari annui, la sua casa valeva 2 milioni di dollari, poteva permettersi di viaggiare abitualmente e non sacrificarsi negli acquisti di vestiti e altre esperienze.

 Però non era di certo ricco.

 Era semplicemente una persona di classe media.

Per capirlo, gli bastava guardarsi intorno.

In confronto ai vicini, ai veri ricchi, la sua era in fondo una modesta casa di tre camere da letto e due bagni.

Altri avevano ville con piscina e un garage pieno di Tesla e altre macchine lussuose.

Come scriveva nel titolo della sua lettera: la ricchezza è relativa.

Vivere a “Palo Alto” significava vivere in una città tra le più costose del mondo. Tutto costava molto di più che nelle zone ricche di altri luoghi.

Ad esempio nella zona di” Ann Arbor”, una zona considerata di lusso in Michigan, il valore di una casa è di soli 274 mila dollari.

E sono case di due piani con grandi spazi, soffitte e semi-interrati.

 Qualcosa che lui non avrebbe mai potuto permettersi.

Un altro punto che lo rendeva inquieto era che le persone non capissero il fatto che i “soldi sono diversi”.

A Palo Alto non contavano come in altri luoghi.

Non erano uno status symbol come in altri luoghi.

Se vivi nella” Bay Area”, significa che sei benestante perché solo vivere nella “Silicon Valley” è sufficiente e non c’è altro da dimostrare.

Di soldi non se ne parla e hanno un valore diverso.

Ad esempio lui e i suoi amici non si curavano delle marche di abbigliamento e lo scoprì solo parlando con le persone in Michigan.

 Lì scoprì quanto contassero per le persone.

 Quando fai un’osservazione su un capo di abbigliamento, iniziano a dire chi l’ha progettato e bisogna fare molta attenzione a nomi come Patagonia, Lululemon, Hunters, Tory Burch, Versace, ecc.

E non era perfettamente comprensibile perché tante persone risparmiassero tanti soldi e rinunciassero a tante cose solo per un vestito firmato.

Dalle sue parti invece i soldi si spendevano in viaggi ed esperienze.

 E, come diceva sempre un suo amico era meglio “viaggiare vestiti da stracci che rimanere a casa con un vestito di Versace”.

Insomma, per “Klein” la ricchezza era relativa e lui si sentiva povero.

Tra le risposte al messaggio, la più votata fu questa: “Sei ricco”. Punto.

Le altre risposte dei lettori erano relative al fatto che il solo fatto di poter scegliere se comprare vestiti di marca o spenderli in viaggi, era sufficiente per renderlo ricco e non in grado di capire altre situazioni.

Ma Klein si sentiva povero.

C’è anche una storia completamente diversa: “la povera che si sentiva ricca”.

Qualche anno prima della lettera di Klein, c’è stata una storia completamente opposta che ottenne grande attenzione: la storia di Donna Freedman.

A 49 anni, appena uscita da un tormentato divorzio, tornò all’università e si apprestò a vivere la sua vita con soli 12 mila dollari l’anno.

 Soldi che avrebbero dovuto mantenere lei ma anche supportare la figlia disabile. Qui sotto trovate alcuni estratti dal diario di Donna su come pensava cavarsela.

È una spiegazione involontaria sul tema della sensazione di “ricchezza relativa”.

Due passaggi su tutti:

“Ho deciso di aumentare il sostegno alla chiesa. Darò 20 dollari al mese. So che potrei risparmiare quei 240 dollari l’anno.

Sono pari al costo dell’abito da sposa per mia figlia e la metà del premio di assicurazione da pagare.

Però dare questi soldi mi fa sentire ricca.

Posso essere parte dei servizi che la Chiesa offre ai senzatetto, agli anziani, ai malati di Aids.

 E quindi lo farò volentieri.”

“Sentirsi ricca” è un po’ la cifra dell’intero messaggio.

 E fa effetto che lo dica una donna che viva con a disposizione, tolte le spese, 382 dollari al mese.

“Ho un tetto sulla testa, cibo ogni giorno, parenti e amici, e occasionalmente persino un biglietto da $ 10 per la “Seattle Symphony”. Alcuni giorni mi sento la persona più fortunata del mondo.”

Perché preoccuparsi dei poveri?

“Louis Brandeis”, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939, disse: “Possiamo avere una società democratica o possiamo avere una grande ricchezza concentrata nelle mani di pochi. Non possiamo avere entrambi.”

Il Professor “Enzo Spaltro”, mio mentore, spiegava con maggiore pragmatismo: “Se chi sta bene non fa stare meglio chi sta male, prima o poi chi sta male fa stare peggio chi sta bene”.

Una frase di acuta intelligenza e prezioso buon senso che permette di analizzare, discutere e affrontare il problema senza fare affidamento a precetti religiosi e sentimenti caritatevoli.

Basta rileggere la storia e analizzare i dati e le ricerche a disposizione.

Se prendiamo dunque come riferimento la nascita dell’agricoltura possiamo trovare rivolte contadine dal 205 a.c con la grande rivolta egiziana nel Regno Tolemaico sino alla rivolta zapatista, in Messico nel 1994.

Quasi ogni sorta di tumulti, guerre civili, disordini, è facilmente riconducibile a situazioni di squilibrio, povertà, scarse risorse.

Negli ultimi giorni è facile pensare alla protesta dei pastori sardi tagliati fuori dal mercato per via di un prezzo del latte.

In “The Great Leveler”, lo storico “Walter Scheidel” afferma che nel corso dei secoli, la disuguaglianza economica è stata “risolta” solo da uno dei “Quattro cavalieri dell’uguaglianza”: guerra, rivoluzione, collasso dello stato e pestilenza.

 E questo dovrebbe portare a concordare con il professore di Stanford quando avverte che:

“Questo ci impone di essere più creativi nel gestire la disuguaglianza. Soprattutto dobbiamo pensare più duramente alla fattibilità. Non è sufficiente che gli economisti propongano ricette per ridurre la disuguaglianza, ma dobbiamo anche capire come implementarle in un ambiente politicamente polarizzato ed economicamente globalizzato.”

In termini economici, il costo è alto.

Ad esempio, 7 giorni di sciopero, ad Aprile 2018, dei lavoratori di Air France, che rivendicavano un adeguamento salariale, sono costati alla compagnia ben 170 milioni di euro.

La salute mentale (episodi di stress e di umore non collegati dunque a malattie mentali diagnosticate) costano ogni anno oltre i $ 53 miliardi nel solo mercato americano.

Di contro “Questo inizia a darci un’idea di cosa potrebbe essere il guadagno, se spendessimo più soldi per aiutare le persone che hanno problemi”, ha detto “Goetz”, studioso che ha collaborato alla ricerca.

Ma in generale il punto è ascrivibile ad una sola e fondamentale parola: sicurezza.

Sempre Il professor “Wilkinson”, citato sopra, evidenzia 3 fattori strettamente correlati alla povertà, (ricordo che si parla di disparità relative all’interno dello stesso paese e non di “soglia di povertà assoluta”), che incidono direttamente e indirettamente con la sicurezza dell’individuo.

Nei paesi con forti disparità sociali solo il 15% delle persone tende a concedere fiducia al prossimo, contro il 60% delle società con livelli bassi di disparità.

Paesi con forti disparità sociali presentano tre volte il tasso di malattie mentali (dall’8% nei paesi con minori disparità sino al 24%).

Quanto alla violenza, sempre in base al livello di disparità interno, si va dai 15 omicidi per milione di abitanti sino ai 150.

E la disuguaglianza incide anche sull’asprezza delle pene, non è un caso, secondo Wilkinson, che nei paesi con forti disparità sia ancora in vigore la pena di morte.

Sicurezza che varia non solo in rapporto ai tassi di criminalità ma anche da un punto di vista sanitario.

Un caso emblematico è rappresentato dagli episodi di” Epatite A” in Michigan a partire dal 2016.

Tra il 2015 e il 2016, i casi di “epatite A” nello stato del Michigan sono aumentati del 44%, da 1.390 nel 2015 a 2.007 casi nel 2016.

Un recente e ulteriore aggiustamento dei dati ha fatto salire il numero di infezioni a oltre 4.000.

Durante il 2017, i casi sono segnalati sono stati 3164, nel 2018 si è arrivati a ben 10.582 episodi.

 La situazione viene ancora oggi monitorata con dati aggiornati settimanalmente, consultabili.

Melinda Wenner Moyer, giornalista scientifica, ha sposato la tesi e ha reso tutto molto più chiaro, e per certi versi agghiacciante, in un articolo apparso su “Scientific American”.

 Ecco alcuni passaggi salienti.

“Ci sono molte cause per queste crescenti ondate infettive, ma i ricercatori concordano sul fatto che un driver importante è la crescente disuguaglianza di reddito del paese … Il numero di famiglie che guadagnano meno di $ 15.000 all’anno è cresciuto del 37% tra il 2000 e il 2016 …

Nelle aree povere dove quasi la metà le persone vivono al di sotto dei livelli federali di povertà, le popolazioni sono raddoppiate durante questo periodo.

 Le persone su questi gradini più bassi della scala della società vivono in condizioni affollate, spesso impure, hanno cure sanitarie limitate, devono lavorare quando sono malati, hanno una cattiva alimentazione, sperimentano uno stress debilitante e sono più propensi degli altri ad abusare di droghe e alcol – tutti noti rischi di infezione.

 (…) Inoltre, i lavoratori poveri nelle aree urbane sono anche posizionati in modo “favorevole” per diffondere le malattie infettive a causa delle condizioni di lavoro.

Più di un milione di americani a basso reddito (intorno ai $ 13.200 all’anno) lavorano in ristoranti, mense, in ruoli a contatto con il cibo.

Molte di queste persone lavorano per forza di cose anche quando sono malate.”

Due riflessioni che possiamo fare.

La prima è che la sicurezza, in questo caso la nostra salute, è strettamente correlata a quella di tutti, come aveva provato a spiegare “Rudolf Virchow” nel 1848, nel corso di un’epidemia di tifo.

In quell’occasione, il patologo e scienziato tedesco, aveva suggerito che la terapia migliore sarebbe stata l’educazione, l’istruzione e il benessere economico diffuso. Questo prima di essere esiliato dal governo prussiano.

La seconda riflessione è che oggi, in un momento in cui temiamo soprattutto le ripercussioni derivate dall’immigrazione come la paura per l’Ebola e altre terribili malattie, ci troviamo ad affrontare un pericolo ancora maggiore in termini numerici e per tipologia “del contatto”.

Quello con chi è molto povero e dunque a rischio.

Riprendendo le parole di “Melinda Wenner Moyer”, portatori di nuove e vecchie epidemie potrebbero essere persone normalissime (una fascia di reddito che potremmo collocare intorno ai 15 mila euro).

Persone che prendono la Metro insieme a noi, che lavorano con noi, che ci servono un pasto, e che non possiamo evitare.

Anche se qualcuno sta provando a farlo.

Il caso delle “Gated community”.

Con il termine inglese gated community (o walled community) si definisce una tipologia di modello residenziale auto-segregativa, recintata, formata da gruppi di residenze esclusive e con accesso costantemente sorvegliato.

Si tratta di vere e proprie città separate, nelle intenzioni, dal resto del mondo e dalle metropoli che le ospitano.

 All’interno vi è tutto ciò che può servire: parchi o piscine oppure, nel caso la community sia più grande o prestigiosa, servizi di uso quotidiano, ad esempio ristoranti, bar o scuole, grazie ai quali i residenti possono svolgere la maggior parte delle attività quotidiane senza uscire all’esterno.

Il fenomeno si è sviluppato negli Stati Uniti dagli anni ’60 ma ha rapidamente attecchito in quasi tutto il mondo, specie in zone con un alto coefficiente di “Gini”.

 In Messico, a causa delle forti disparità economiche, vi è la più alta percentuale di residenti all’interno di tali comunità.

 In paesi come il Sudafrica, le gated community hanno avuto grande successo perché riescono a contrastare criminalità e fenomeni di squatting.

In Cina sono molto diffuse soprattutto nella regione del Delta del Fiume delle Perle e intorno a Pechino, dove le residenze vengono acquistate molto spesso da cinesi residenti all’estero, cittadini di Hong Kong e nuovi ricchi.

 In Arabia Saudita, Paese che ha subito anche diversi atti terroristici, sono invece edificate per alloggiare separatamente gli occidentali con le loro famiglie.

Ne abbiamo anche due esempi in Italia, come Borgo di Vione che è una frazione del Comune di Basiglio, piccolo Comune dell’hinterland milanese che ogni anno si contende con Portofino il primato di città più ricca d’Italia.

 

Il motivo per il quale “chiudersi” in prigioni dorate è individuabile nel bisogno di sicurezza, nel desiderio di privacy, nel senso di identità e voler vivere con persone dello stesso ceto sociale, nella volontà di chiudere fuori il mondo esterno e il diverso.

Da una parte si tratta di un potenziale simbolo di fallimento:

quando i governi non riescono a garantire uguaglianza e benessere diffuso, alcune persone potrebbero scegliere di provvedere in modo autonomo.

D’altra parte, quando succede non è mai privo di rischi.

Riflessioni e polemiche sulle Gated Community hanno trovato l’apice nel 2012, con l’uccisione di “Trayvon Martin).

(Esiste un murales dedicato a Trayvon Martin nel quartiere di “Sandon”)

“Il ragazzo aveva passato il pomeriggio a casa del padre della ragazza, in una “gated community”, un quartiere cintato di Sanford, alla periferia di Orlando.

Durante una pausa della partita di basket in TV, Trayvon decide di andare a comprare dei dolcetti in un vicino negozio della 7 Eleven.

Sulla via di casa, incontra “George Zimmerman”, un vigilante volontario della zona che, insospettito dal ragazzo (che indossa, appunto, una felpa con cappuccio), comincia a seguirlo.

Tra i due scoppia presto una lite.

 Zimmerman chiama il 911 e dice all’operatore (che gli consiglia di non intervenire) che “questo ragazzo ha un’aria losca, è drogato o qualcosa di simile”.

 Durante l’alterco, anche” Trayvon” telefona a un amico (che più tardi testimonierà di aver udito Zimmerman proferire insulti razzisti come “fottuto negro”).

La lite degenera presto in uno scontro.

Alcuni abitanti della zona dicono di aver sentito “Trayvon” urlare, chiedere aiuto. Poi, lo sparo.

La polizia, che arriva pochi minuti dopo, trova il ragazzo riverso a terra, senza vita.”

(il virgolettato è tratto da un articolo di “Roberto Festa” su” Il Fatto Quotidiano”)

Trayvon Martin aveva solo 17 anni, il suo assassino, George Zimmerman aveva all’epoca 28 anni.

E fu prosciolto.

L’ondata di proteste che ne scaturì è ancora nell’aria e pone più di un interrogativo su forme abitative di questo genere.

Alcuni sostengono questo tipo di comunità causino chiusura, xenofobia e anche una certa dose di paranoia verso l’esterno.

“Edward Blakely” ad esempio, autore di “Fortress America”, uno dei primi studiosi del fenomeno “Gated Community”, osservò che il rischio è quello di “ridurre la nozione di impegno civico e permettere ai residenti di ritirarsi dalla responsabilità civica”.

Cosa si può fare e cosa si sta facendo.

L’esperimento in Finlandia.

L’idea di un reddito di base è fonte di contrasti in tutto il mondo.

 I sostenitori sottolineano una serie di vantaggi: dai benefici economici al miglioramento del benessere psicologico.

Gli oppositori dicono che è economicamente irrealizzabile e renderà le persone ancora più pigre.

L’idea gode invece di un crescente sostegno popolare.

In un referendum pubblico, il 68% degli europei voterebbe a favore del reddito di base (rispetto al 64% dell’anno precedente), ha rivelato un’ampia indagine condotta in 28 paesi europei.

 

L’esperimento appena concluso in Finlandia, in concomitanza con il varo del reddito di cittadinanza italiano, che però ha un sistema molto diverso, sembra una buona occasione per chiarirsi le idee.

I risultati che abbiamo sono ancora parziali, dati ufficiali e completi verranno rilasciati presumibilmente a fine 2019 o inizio 2020.

Quello che abbiamo sono solo alcune testimonianze e un report preliminare ma vediamo di ragionarci sopra.

Il reddito di cittadinanza funziona?

 Come ha scritto” Emma Charlton2, giornalista economica, sul sito del World Economic Forum: “Dipende”.

Dipende da cosa ci si attendeva.

“I risultati iniziali del primo di un programma biennale in Finlandia, dove i partecipanti hanno ricevuto 560 euro (circa 630 dollari al mese), hanno mostrato effetti positivi su salute e stress, ma nessun miglioramento nello stato lavorativo.

Le persone che hanno ricevuto un reddito di base non hanno avuto più probabilità di trovare lavoro.

Quindi, mentre l’obiettivo del governo di “promuovere una partecipazione più attiva” e “fornire un incentivo più forte al lavoro” non sembra essere stato raggiunto, il successo può essere riscontrato in altre aree come il benessere e la riduzione dello stress.”

Un vantaggio di diverso tipo emerge invece nella testimonianza del giornalista e autore “Tuomas Muraja”, uno dei pochi liberi professionisti ad aver ricevuto il reddito in questione.

Nelle parole di” Muraja” ciò che ha inciso favorevolmente è stato il fatto di poter assumere piccoli lavori senza paura di intaccare i benefici economici acquisiti e dover poi ripresentare tutta la documentazione.

“Mi sento molto più sicuro ora che i lavori a breve termine non riducono più i miei benefici né ritardano il loro pagamento.”

 

Dalla Finlandia all’Italia.

All’indomani della fine dell’esperimento del reddito universale in Finlandia, mi sono arrivati messaggi dal contenuto discordante e opposto:

“Hai visto che non serve a niente?”, “Hai visto che le persone si dichiarano più felici”?

È rischioso voler trasferire risultati, consigli e lezioni da un paese all’altro e senza tenere in considerazione il contesto e non lo farò.

 Ma il vero nodo dell’esperimento finlandese e di qualunque analoga sperimentazione è in realtà prima di tutto economico:

capire se e come si concilia un reddito davvero universale con le esigenze di bilancio, in altre parole:” È sostenibile?”.

Per “Olli Kangas”

 «molto dipende dalle politiche fiscali, ossia dalla capacità di spostare risorse dalle fasce più ricche al reddito di base».

Secondo “Ernesto Hartikainen” «bisogna considerare anche il Paese: la Finlandia destina già molte risorse al Welfare e una delle idee alla base della sperimentazione è che il reddito universale di base possa essere meno costoso di un sistema più burocratico.

Inoltre si devono considerare i costi sociali negativi di un aumento della disoccupazione, dei sussidi, della criminalità: l’alternativa potrebbe in definitiva essere più dispendiosa del costo diretto del reddito di base universale».

Poi c’è da considerare la differenza di impatto che può avere il reddito di cittadinanza (così come concepito e attuato in Italia che va a sostenere persone senza lavoro e senza adeguato reddito) da un reddito di base o universale, come testato in Finlandia, che assicura una somma di denaro indipendentemente dall’avere un lavoro e dalla fascia di reddito.

Il caso di “Muraja”, freelance che indipendentemente dal reddito ha ricevuto il sussidio finlandese per intenderci non potrebbe esistere nel nostro paese.

 Diversi punti critici ruotano dunque su questo punto e cioè nel dubbio che una misura volta a favorire eguaglianza possa diventare un pericoloso strumento di disparità.

Sul Sole 24 ore, nelle scorse settimane c’è stato un vivace scambio tra “Massimo Famularo”, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) e “Gabriele Guzzi”, laurea con lode in Economia alla Luiss e poi alla Bocconi, attualmente dottorando presso l’Università Roma Tre.

“I contro”

L’idea di Famularo, che cito perché rappresenta buona parte delle critiche, è che:

“ll reddito di cittadinanza è una misura ingiusta, disfunzionale, dannosa e non adatta a raggiungere gli scopi dichiarati da chi la propone: per semplificare, ancora una volta i politici preferiscono dare pesci alle persone (in cambio di voti) invece di fare in modo che imparino a pescare.

Ingiusta perché dà lo stesso sussidio ad aree geografiche con potere d’acquisto e soglie di povertà differenti.

Disfunzionale perché si propone reiterare meccanismi di intervento statale che in passato hanno fallito e che hanno scarse probabilità di funzionare perché non affrontano il problema di fondo, che risiede nella necessità di creare nuovi posti di lavoro e formare i lavoratori per meglio rispondere a quelli che esistono già.”

 

“I pro”

L’idea di Guzzi, anche qui rappresentativa di una buona fetta della popolazione, è che:

“la (più diffusa obiezione) è che il reddito di cittadinanza potrebbe risultare troppo elevato in rapporto ai salari medi percepiti oggi in Italia. Il punto che meglio fa capire come questa obiezione sia radicata su una visione iniqua dei rapporti economici, è che dinanzi a una misura che vuole offrire una compensazione di reddito a tutti quelli che vivono sotto la soglia di povertà, non ci si indigna per il fatto che il salario di milioni di lavoratori è inferiore o di poco superiore alla soglia minima di povertà, fatto quanto mai allarmante per un paese civile che si fonda sull’art.36 della Costituzione, o che in Italia più di 5 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta.

No, dinanzi a questa situazione ci si indigna perché una misura di welfare potrebbe spingere al rialzo la soglia dei lavori accettati dai nostri giovani in termini di dignità, di salari e di condizioni lavorative.

Certo, il reddito di cittadinanza potrebbe disincentivare un ragazzo ad accettare un lavoro da 500 euro al mese per 40 ore alla settimana.

Ma è proprio l’esistenza di un tale lavoro che dovrebbe quantomeno destare preoccupazione nella classe politica e intellettuale di un paese avanzato.

(In merito all’ingiustizia), “Massimo Famularo” nel suo pezzo sostiene che poiché il sussidio è concepito come una “misura ibrida tra indennità di disoccupazione e sostegno ai meno abbienti”, chi ha un lavoro ma vive sotto la soglia di povertà, non sarebbe “eleggibile per il Rdc”, e questo rappresenterebbe un fattore di ingiustizia.

 Credo che qui ci sia semplicemente una errata interpretazione del testo del decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 28 gennaio 2019.

 Infatti, Il Rdc non è concepito come una misura ibrida tra indennità di disoccupazione e sostengo ai meno abbienti, ma come un reddito minimo condizionato, ossia come un’unione tra le politiche attive del lavoro e la lotta contro la povertà.

Questa precisazione apparentemente innocua, in realtà, confuta ciò che dice Famularo.

Infatti, il Rdc è concepito come “un’integrazione al reddito famigliare” (art.3), e quindi se un lavoratore guadagna meno di 780 euro, è single, e non ha altre fonti di reddito, avrebbe diritto a una compensazione esattamente pari a 780 euro meno il salario percepito.

Ed è quindi l’opposto di quanto sostiene Massimo Famularo.

Ho riportato questo scambio per raccontare quanto la questione Reddito di cittadinanza in Italia sia discordante.

 Sono del parere che siano ragioni dall’una e dall’altra parte e, al netto di interventi strutturali e controllo che sono indispensabili, ritengo che sarà necessario un certo lasso di tempo per avviare, normalizzare il sistema.

Tuttavia, ciò che qui mi preme analizzare è se siano davvero i soldi sufficienti a innescare comportamenti virtuosi, maggiore impegno e, in definitiva, promuovere davvero uguaglianza.

Ci sono alcune storie, ricerche e idee che aiutano una riflessione su tutto ciò.

 

Soldi, motivazione e differenze.

Come si diventa ricchi, come si rimane poveri.

“Padri ricchi, figli ricchi e padri poveri, figli poveri?”

 Nei paesi con minori disparità, come i paesi scandinavi la correlazione è meno forte. In paesi con alta disparità è invece decisamente pronunciata.

In Italia? Rispondo innanzitutto con una storia.

Ho la fortuna di fare un lavoro che amo e che mi pone a contatto con grandi imprenditori e grandi persone, ogni volta imparo e mi lascio contaminare da idee e suggestioni di ognuno di loro.

 Tempo fa però fui completamente rapito da un imprenditore che parlò per più di un’ora in modo impeccabile, spaziando dalla storia alla filosofia antica, durante la convention della forza vendite alla quale ero invitato come speaker.

Più di 350 milioni di fatturato. Una bella azienda.

Al termine non potei che non fermarmi e congratularmi con lui.

 Mi rispose “Grazie Sebastiano però sa in famiglia siamo tutti così.

Mio nonno e prim’ancora suo padre cioè il mio bisnonno, poi mio padre e poi io abbiamo avuto sin da piccoli un’educazione classica, volta alla filosofia, alla letteratura e al pensiero.

Sebastiano la mia famiglia si è affrancata dal lavoro parecchie generazioni fa per questo possiamo permetterci di approfondire tutto questo”

Non dissi nulla, sorrisi ringraziando per la franchezza e ammettendo dentro di me che aveva assolutamente colto il punto, semplice ma non banale.

Chi è ricco può permettersi non solo cose ma anche approfondimenti culturali e spirituali che chi è povero ha molte difficoltà ad approcciare.

Il tema è purtroppo ben documentato.

Federico Fubini è un brillante giornalista con cui ho avuto il piacere di conversare, è autore di “La maestra e la camorrista”.

 Nel libro Fubini conduce un’inchiesta sul nostro Paese, da Nord a Sud – le disparità all’interno di un paese possono avere anche carattere locale(ndr )– per raccontare di un paese senza mobilità sociale, dove resti quello che sei.

“Nel 1427 un capofamiglia fiorentino, Manno Mannucci figlio di Benincasa, discendente di un soldato di ventura tedesco sbandato in Toscana durante le incursioni di Federico Barbarossa, si dichiarò al catasto come artigiano del legno.

Sei secoli dopo, nel «laboratorio di un quartiere di Firenze che sta dolcemente invecchiando», il suo discendente Fabio Mannucci fa più o meno lo stesso lavoro: il restauratore.

Forse tra gli arredi medievali che sono passati dalle sue mani ce n’è qualcuno intagliato dal suo avo.

 Nel 1427 il patrimonio finanziario e immobiliare dei Mannucci — 4 nuclei familiari, 21 persone — arrivava a 437 fiorini, pari a circa tredici anni di lavoro di un manovale, circa di un terzo superiore alla mediana delle famiglie fiorentine.

«Nell’anno di imposta 2012, fra i contribuenti di Firenze compaiono 149 Mannucci e il loro reddito dichiarato in media è di 31.775 euro: un quarto sopra la media cittadina, ovvero più o meno esattamente dov’era il patrimonio dei Mannucci rispetto al patrimonio mediano dei fiorentini sei secoli fa.

Erano e restano solidamente ceto medio.

Il caso dei Mannucci non è isolato.

Incrociando redditi e patrimoni degli 807 cognomi che compaiono sia nel catasto della Firenze del 1427, sia nelle dichiarazioni dei redditi della Firenze del 2012, si nota che quasi nulla è cambiato.

I ricchissimi sono rimasti ricchissimi; i ricchi, ricchi; il ceto medio, medio; i poveri, poveri; i poverissimi, poverissimi.

 Tre dei primi cinque contribuenti della Firenze di oggi appartengono alle famiglie più in vista nella Firenze dell’inizio del Rinascimento;

e le famiglie dei cinque contribuenti oggi più poveri facevano già parte della metà meno abbiente della popolazione.”

La tesi di Fubini è spietata: «Non si rischia di scendere quando si parte da sopra, non si riesce a salire quando si parte da sotto.»

Certo Fubini riconosce che la capacità di chi sta bene di rimanere ricco è data anche dal fatto che, per esempio i figli di imprenditori, spesso vengono immersi in un bagno somato-sensoriale di stimoli ed esempi che li rende più capaci di fare affari. Ma questo non cambia la sostanza.

Chi è ricco ha più probabilità di rimanere ricco e chi è povero di rimanere povero.

I ricchi sono diversi da noi, il problema delle statistiche e l’origine della diseguaglianza.

In un famoso scambio tra Hemingway e Fitzgerald, si dice che Fitzgerald abbia detto, “I ricchi sono diversi dal resto di noi”, a cui Hemingway rispose, “Sì, lo so, hanno più soldi.”

Ma i poveri sono poveri perché si comportano da poveri o perché ci sono delle circostanze che non controllano?

Rispondere a questa domanda e tracciare come si è risposto nella storia, sono il primo passo per capire come intervenire.

Ad esempio, Benjamin Franklin, gigantesco personaggio della storia, un giorno disse:

“Più si organizzano forme di assistenza pubblica per prendersi cura dei poveri, meno questi ultimi avranno cura di sé […], meno si fa per loro, più faranno qualcosa per sé stessi”.

Ancora oggi troviamo opinioni simili di chi dice che i poveri sono poveri perché si comportano da poveri e sono poveri perché indolenti per natura.

 La maggior parte delle volte si tende a ridurre tutto a una scelta.

La povertà “come scelta” deriva da una corrente di pensiero tipica della società nordamericana e figlia del pensiero di “Ralph Waldo Emerson” che ipotizzava l’esistenza di “un’anima superiore”, “Over-soul”, che in sé comprende tutti ciò che vive e che ti incita a superare i limiti di qualsiasi natura.

Gran parte dell’ambiente della formazione e dell’auto-miglioramento insiste ancora oggi sul mantra “volere è potere” e che, di contro, chi non si impegna abbastanza si cerchi e meriti in un certo senso una situazione di povertà.

Io sono del pensiero che giudicare il comportamento altrui è difficile perché il nostro giudizio è ammantato di “Bias cognitivi”, come quello” Attore-Osservatore”.

Quando guardiamo gli altri, tendiamo a vederli guidati da tratti intrinseci della personalità, mentre nel nostro caso sappiamo che, ad esempio, abbiamo agito con rabbia perché ad esempio siamo stati licenziati e non perché siamo persone naturalmente aggressive o con un temperamento irascibile.

 In altre parole, gli altri poveri sono poveri perché fanno scelte sbagliate – ma se io sono povero, è a causa di un sistema ingiusto.

 

Da uno studio del 2009 pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology” (JPSP), emergono due considerazioni interessanti:

 le persone di ceto alto, diciamo benestanti, tendono a ignorare le diseguaglianze e quando vengono messi di fronte all’evidenza tendono a giustificarle con argomenti quale il duro lavoro e il talento.

Questo non è solo un dato che in fondo potremmo comprendere ma incide poi realmente su come ci comportiamo di fronte alle diseguaglianze. Dall’individuazione delle cause sino alle soluzioni messe in atto agiamo sulla base di ciò che crediamo sia reale.

Bennett Callaghan e Michael Kraus dell’Università dell’Illinois, partendo dalla citata ricerca, si sono presi la briga di analizzare il comportamento legislativo dei membri del Congresso degli Stati Uniti.

I risultati, anche in questo caso prevedibili, dimostrarono che i membri più ricchi tendevano sponsorizzare interventi legislativi volti ad accrescere o non ridurre le diseguaglianze;

 situazione dettata certamente dalla volontà di accrescere il proprio status ma anche da una visione “distorta” o comunque “personale” delle cause di povertà.

Sugli effetti della diseguaglianza economica e il comportamento umano, è interessante e originale l’analisi che “Paul Piff” psicologo e studioso del comportamento, ne trae in seguito ad un esperimento che prevedeva una partita di Monopoli truccata.

Oppure, in questo esperimento condotto dagli psicologi della New York University, dove viene analizzato perché le persone “ricche” tendano inconsciamente a prestare meno attenzione ai passanti e alle persone “povere”. Altre visioni distorte sono quelle che mettono in correlazione povertà e cattive scelte o povertà e scarsa cultura.

 Per intenderci “scegli male dunque sei povero” e “sei poco colto dunque sei povero”.

Molte volte, senza neanche qui voler generalizzare, basterebbe rovesciare l’ordine delle parole per avere una rappresentazione più fedele della realtà.

 La diseguaglianza non cresce dunque lungo la linea “basso reddito”-scarsa cultura- cattive scelte ma, come evidenziato da “Susan Mayer” nel suo libro “What Money can not Buy”, perché adulti con più successo finanziario tendono ad avere una varietà di altre caratteristiche che conferiscono diversi vantaggi ai propri figli.

Scelte complicate

Un altro motivo per cui non è possibile affrontare con superficialità l’argomento è dato da un interessante esperimento sociale portato avanti dagli studiosi sociali James Andreoni, Nikos Nikiforakis e Jan Stoop.

Lo studio osserva i diversi comportamenti dei ricchi e dei poveri di fronte ad eventi uguali.

I risultati mettono in risalto una componente importante: le decisioni critiche ai quali sono sottoposti con più frequenza i poveri rispetto ai ricchi.

L’esperimento, condotto su un gruppo casuale di persone di classa agiata e non, venne condotto nei Paesi Bassi e consisteva nell’inviare una busta con 5 o 20 euro e un biglietto che spiegava che si trattava di un regalo di un nonno a un nipote.

 Il denaro è stato inoltre inviato in due modi:

come banconote o come assegno che dunque non si poteva incassare essendo intestato a una persona fittizia e non alle persone sottoposte all’esperimento.

I risultati dimostrarono che i ricchi restituivano nell’80% dei casi le buste e la percentuale scendeva di poco quando all’interno vi erano le banconote.

 I poveri invece conservano la metà delle buste con gli assegni (non prendendosi la briga di rispedirli al mittente) e conservavano nel ¾ dei casi le buste con le banconote.

Perché “i poveri” tenevano le buste con assegni che non avrebbero potuto incassare?

Lo studio, analizzando più a fondo, scoprì che questo succedeva prevalentemente nei giorni in cui presumibilmente le persone erano in difficoltà finanziaria, ad esempio a metà mese.

Mentre nella settimana in cui le persone ricevevano sussidi e stipendi, verso fine mese, la maggior parte di loro restituiva le buste.

 Se c’è ne fosse bisogno l’esperimento rende evidente quanto anche scelte apparentemente facili diventino complesse in momenti di grande tensione ed è normale che “i poveri” vivano molti e più frequenti momenti di questo tipo.

Esistono molte posizioni che seguono e confermano queste conclusioni. Alla metà degli anni ’80 ad esempio, la provincia canadese di Manitoba condusse nella città di Dauphine un insolito esperimento battezzato “Mincome”, “minimum income”.

 Si iniziò a distribuire denaro ad alcuni cittadini, una forma di reddito di cittadinanza, dopo un po’ di anni l’esperimento venne abbandonato per un cambio della guardia politico ma i risultati analizzati anni dopo da “Evelyn Forget”, economista all’Università di Manitoba dimostrò che la qualità della vita era migliorata, i tassi di ospedalizzazione diminuiti.

Minore abbandono scolastico e tassi di occupazioni più alti.

Lo racconta “Rutger Bregman”, storico e giornalista olandese autore di: “Utopia per realisti” e di un famoso “TED Talk “intitolato:

La povertà non è una mancanza di carattere: è una mancanza di denaro”, in cui supporta anche il reddito universale (la forma più estesa di reddito di cittadinanza che si intende solo per i bisognosi).

 

 

Non sposo del tutto la posizione di “Bregman” che sembra suggerire, anche ideologicamente, un mondo di totale redistribuzione delle ricchezze.

La mia posizione è che quando sei in difficoltà hai bisogno di un pesce ma quando non lo sei più devi imparare a pescare e tutto ciò in un movimento continuo attivo e pro-attivo che stimoli la responsabilità individuale.

Certo il problema “meglio un pesce o insegnare a pescare” non si risolve poi in pratica così facilmente.

 Aiutare un individuo è cosa ben diversa che non aiutarne milioni.

Il” Financial Time”, attraverso il Professor “Ian Goldin” spiega molti dei motivi per cui il reddito di cittadinanza non farà bene a nessuno citando come prova i conti impossibili da fare tornare per pagarlo al fatto che attraverso un sussidio monetario le persone ottengono solo reddito, ma a loro serve anche significato, status, abilità, reti e amicizie attraverso il lavoro.

Se questo non avviene si stimolano comportamenti fuorvianti e antisociali come consumo di droghe e alcol.

Secondo “Ian Goldin “un sussidio non convincerà gli individui e le famiglie a partecipare alla vita della società.

Le reti di sicurezza come il reddito di cittadinanza dovrebbero essere un’ancora di salvezza verso il lavoro e la partecipazione significativa nella società e non una garanzia di una vita di dipendenza.

Che fare allora?

La mia idea è che si debba con forza attingere ad un’idea di equilibrio.

Per prima cosa, i “poveri” vivono situazioni diverse che vanno trattate in modo diverso.

Un esempio reale è stato raccontato da “Isabel V. Sawill”, ricercatrice e studiosa economica.

 

“Negli anni ’90, due giornalisti hanno raccontato in modo indipendente la vita di due famiglie del centro città a Washington, DC.

 Uno di loro, Leon Dash, un giornalista del Washington Post, ha seguito la storia di Rosa Lee Cunningham e della sua famiglia.

A quel tempo, Cunningham era una nonna di 52 anni che aveva avuto il suo primo figlio all’età di 14 anni e abbandonato la scuola.

Figlia dei mezzadri della Carolina del Nord, è cresciuta nei pressi di Capitol Hill ed è poi andata avanti, lavorando come prostituta, vendendo droghe e di rapina. Divenne dipendente dall’eroina e passò del tempo in prigione per traffico di droga. Ha avuto otto figli generati da sei uomini diversi e tutti tranne due sono diventati, come la madre.

Ron Suskind, un giornalista del Wall Street Journal ha invece seguito la vita di un adolescente di nome Cedric Jennings, che al tempo viveva con sua madre nello stesso quartiere di Cunningham.

Ma la madre di Cedric, Barbara, aveva tre figli e aveva lavorato per 11 anni con una paga di cinque dollari all’ora come addetta ai dati per il Dipartimento dell’Agricoltura.

 Frequentava regolarmente la chiesa, viveva frugalmente, sorvegliava attentamente i suoi figli e aveva instillato nel figlio un desiderio feroce di riuscire. Cedric non solo divenne uno studente d’onore alla Ballou High School, ma alla fine ottenne l’ammissione alla Brown University.

Come suggeriscono queste storie, le persone che vivono in povertà sono un gruppo eterogeneo.

Alcuni sono poveri soprattutto perché, come Cunningham, persistono in comportamenti perversi e antisociali.

Altri, come Jennings, hanno fatto del loro meglio con risorse limitate.

Quindi le due visioni contrapposte di ciò che causa la povertà – il comportamento delle persone o le loro circostanze avverse – avranno una certa validità solo in parte.

 La maggior parte delle persone povere non è né disastrosa come Cunningham, né tanto laboriosa e dedita al successo dei loro figli come Jennings.

Ma ciò che mostra una ricerca più sistematica è che il comportamento è importante e deve essere preso in considerazione se vogliamo ridurre la povertà e la disuguaglianza.”

“Un pesce o insegnare a pescare” dunque?

Certe volte l’uno, certe volte l’altro.

 Certe volte quello che serve è solo un paio di calzini asciutti come ha raccontato “Scott Benner” attingendo alla sua storia di senza tetto , altre volte una quantità di denaro, un pesce, è sufficiente per ottenere quella serenità per scegliere correttamente, come dimostra l’esempio delle buste citato prima.

Altre volte ancora la situazione non si può affatto risolvere con il denaro.

Il caso di “Tree For Car” mi pare sempre un buon esempio per porre il rischio di risolvere tutto con una somma di soldi.

 

Nel 2013 il ventitreenne Patrick McConlogue aveva fatto amicizia con un senzatetto, Leo Grand, che incontrava ogni mattina andando al lavoro. Grand viveva sui marciapiedi, lungo la West Side Highway di Manhattan. Patrick gli fece una proposta: ti do subito cento dollari, e ne fai quel che vuoi, oppure ti insegno a programmare e ti aiuto e trovarti un lavoro.

Grand scelse la seconda offerta e riuscì a realizzare un’app che ottenne un buon successo sul mercato.

 Poco dopo però, alle prime difficoltà imprenditoriali, abbandonò tutto e torno a vivere per strada.

Così come, nella mia esperienza riconosco di avere incontrato persone che una volta messe nella situazione di non fare fatica si impigriscono e non pensano più a come migliorare la loro condizione. Insomma, o lavoriamo con le statistiche o lavoriamo con i singoli individui.

I figli di Bill e quando i soldi sono un problema.

Qualche tempo fa creò scalpore la notizia che Bill Gates non avrebbe lasciato la sua eredità ai figli ma avrebbe devoluto la sua fortuna in beneficenza.

Il motivo, ha spiegato, che lasciare così tanti soldi ai suoi figli non sarebbe affatto un favore: “distorcerebbe tutto ciò che potrebbero fare e il loro percorso”.

Sta invece incentivando un’educazione universitaria e sta chiaramente sostenendo tutte le spese necessarie affinché avvenga – forse una buona analogia su come aiutare le persone a creare il proprio percorso.

Il suo altrettanto ricco e celebre amico, Warren Buffet, la pensa allo stesso modo e lascerà ai suoi tre figli solo 6 dei suoi 66 miliardi di patrimonio.

E la lista è ancora lunga:

Zuckerberg ha pubblicato una lettera in occasione della nascita di sua figlia Max, nella quale annunciava che avrebbe donato in beneficenza il 99% delle sue azioni facebook valutate oltre 45 miliardi.

 L’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, con un patrimonio di oltre 50 miliardi, farà altrettanto:

“Se vuoi fare qualcosa per i tuoi figli e mostrare quanto li ami, l’unica cosa migliore è sostenere le organizzazioni che creeranno un mondo migliore per loro e per i loro figli.”

Sting, con un patrimonio di 300 milioni di dollari, ha già chiarito ai suoi sette figli “Devono lavorare. Tutti i miei figli lo sanno e raramente mi chiedono qualcosa.”

Perché tanti miliardari non lasceranno il proprio patrimonio ai loro figli?

Howard Sharfman, esperto di trasferimento di ricchezza familiare, ha provato a spiegare:

“I genitori sono preoccupati di assicurarsi che i bambini abbiano una vita significativa e non vogliono che le loro fortune finanziarie possano ritorcersi contro di loro. Vogliono aiutare, e questo è un equilibrio molto difficile.”

Su questo equilibrio si è espresso ancora Warren Buffet:

“L’importo perfetto da lasciare ai figli è abbastanza denaro in modo che sentano di poter fare qualsiasi cosa, ma non così tanto da non poter fare nulla”.

Lo chef Nigella Lawson si è espresso in modo ancora più radicale:

“Sono determinato nel dire che i miei figli non dovrebbero avere alcuna sicurezza finanziaria. Rovina le persone che non devono guadagnarsi quei soldi.”

Detto che in quasi tutti i casi sono previsti sistemi di sicurezza e che, anche una piccolissima parte del patrimonio, renderà ricchi i figli di queste persone, c’è qualcosa da imparare in questo approccio e soprattutto dall’equilibrio di cui parla Buffet.

L’aiuto vincolato (cosa insegna il caso del Kenya).

Come detto, uno degli stratagemmi utilizzati da molti ricchi in al momento di destinare la propria eredità, è quello di suddividere il proprio patrimonio e impostare un sistema “di rilascio” in momenti diversi della vita degli eredi.

Un sistema simile, in qualche modo, è quanto spesso si è auspicato per supportare le fasce deboli della popolazione.

Nel nostro paese ad esempio, la social card limita la possibilità di spendere i fondi a beni di prima necessità.

Il reddito di cittadinanza introdotto oggi in Italia parte da presupposti simili, vincolando il mantenimento del beneficio a una ricerca attiva di lavoro e all’accettazione di possibili lavori che vengano proposti.

Ma davvero i “poveri” sono incapaci e bisogna vincolare l’aiuto?

 Il caso del Kenya sembra confutarlo.

 

A Kisumu, nel Kenya occidentale, un’associazione benefica chiamata GiveDirectly ha dedicato più di cinque anni a distribuire direttamente somme di denaro alla popolazione.

Ogni destinatario riceve circa $ 1.000 in due o tre rate e possono spendere i soldi per quello che vogliono.

I risultati rilasciati dal governo kenyano e commentati da povertyactionlab.org hanno, forse sorprendentemente dimostrato che i soldi ricevuti dalle persone sono stati spesi in attività produttive come cibo e cultura e non è aumentato il livello di beni di tentazione come alcol e tabacco.

Quanto contano i soldi? E quando non contano?

Buona parte delle polemiche intorno al reddito di cittadinanza in Italia, sembrano riconducibili al fatto che non si riesca a vedere la completa risoluzione a un problema.

Se bisogna considerarlo come una misura per contrastare la diseguaglianza, rimangono tutti i dubbi dati dal fatto che le somme destinate non sembrano sufficienti, specie in alcune zone di Italia ad assicurare quella dignità di vita così chiaramente espressa nell’articolo 25 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

“Quasi la metà delle famiglie beneficiarie sono in realtà single, che costituiscono il 47,9% della platea (626 mila) e riceveranno in media, un sussidio di 4 mila 485 euro l’anno.

 Le coppie con figli minorenni sono 257 mila (il 19,6% delle famiglie beneficiarie) e percepiranno in media, 6 mila 470 euro, quindi, per effetto delle scale di equivalenza, meno delle coppie con figli tutti adulti (che percepiranno 7041 euro). Gli stranieri si attestano al 12,4% dei beneficiari.” (fonte Istat)

Se lo intendiamo come una misura volta a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro – anche alla luce della nuova e curiosa figura dei navigator – rimangono tutti i dubbi classici su come il denaro influisca nella motivazione e nel favorire l’ingresso nel mondo del lavoro (in Finlandia, come discusso prima, l’effetto non è stato dimostrato).

 

Sul rapporto e la correlazione tra denaro e motivazione, ci si perde infine in una letteratura ancora più incerta e discordante.

Un paio di esempi e ricerche interessanti mostrano come gli incentivi possano avere effetti strani e a volte opposti; sintomo che non abbiamo chiaro in testa tutti gli elementi del problema.

I “guadagni” pubblici.

In Finlandia ogni anno, il 1° novembre, soprannominato “Giornata nazionale dell’invidia”, viene rivelato il reddito imponibile di ogni cittadino finlandese, ricercabile da chiunque.

Anche la Svezia e la Norvegia pubblicano le dichiarazioni dei redditi dei cittadini.

“Se la pubblicazione di liste delle tasse abbia un impatto positivo o negativo sulla società è però una questione controversa”, afferma Kristiina Äimä, specializzata in diritto tributario all’Università di Helsinki.

“Alcune persone pensano che la trasparenza promuova la democrazia nella società e alcuni pensano che violi la privacy”.

Appunto.

Uno studio dell’Università della California del 2011 ha rilevato che coloro che guadagnano meno della paga media e ne sono a conoscenza, hanno riportato una minore soddisfazione lavorativa ed erano più propensi a voler trovare un altro ruolo, mentre quelli che guadagnano sopra non hanno riportato alcun effetto stimolante.

Dall’altra parte uno studio della Cornell University del 2016, ha scoperto che sapere quanto guadagnano i colleghi può aumentare le prestazioni.

David Burkus, professore associato di leadership e innovazione presso la Oral Roberts University spiega che il meccanismo utile per fare fruttare la trasparenza nelle organizzazioni è quello di comunicare come si possono ottenere gli stipendi più alti e perché a un dipendente è stato dato.

“Non molte organizzazioni però possono percorrere la strada della totale trasparenza” conclude Burkus.

Le multe inutili.

“I bambini usciranno da scuola alle 4” ma molti genitori arrivano costantemente in ritardo con ovvi problemi logistici per il personale scolastico.

Che fare?

In un esperimento condotto in dieci scuole materne di Haifa, in Israele, si testò se multe economiche avrebbero risolto il problema, la tesi era che lo avrebbe fatto.

Fu dunque annunciato che, trascorsi i primi 10 minuti di tolleranza, ogni ritardo sarebbe costato l’equivalente di 3 dollari a bambino, sotto forma di supplemento che sarebbe andato ad aggiungersi ai 380 dollari di retta mensile.

I risultati però furono ben diversi:

ben presto la media dei ritardatari salì a venti alla settimana, con un aumento più che doppio.

 Quello che doveva essere un incentivo si era rivelato invece un boomerang.

Cosa non ha funzionato?

 La spiegazione data dagli studiosi fu che 3 dollari erano una sanzione troppo lieve. A quel prezzo, qualunque genitore poteva permettersi di arrivare in ritardo anche ogni giorno con un sovrapprezzo mensile di 60 dollari (pari a neppure un sesto della retta).

Molto più economico di una baby-sitter.

Inoltre, il limite della misura adottata dalle scuole fu quello di sostituire un incentivo economico (risparmiare 3 dollari) a un incentivo di ordine morale (evitare il disagio e il senso di colpa connesso al ritardo).

Per pochi dollari al giorno, di fatto si acquistava il diritto di tardare a piacimento, e con la coscienza a posto.

Potrebbe essere che i sussidi come il reddito di cittadinanza producano gli stessi effetti di disimpegno?

L’esperimento fu condotto da Uri Gneezy e Aldo Rustichini , la semplificazione e i risultati sono stati resi celebri da Steven D. Levitt e Stephen J. Dubner nel libro Freakonomics – Il calcolo dell’incalcolabile.

Furti indotti.

Un altro caso di come gli incentivi si possano ritorcere contro è un esempio studiato e raccontato da Robert Cialdini, psicologo e tra i massimi esponenti in termini di persuasione e motivazione.

“Il parco nazionale dell’Arizona aveva un problema, ed era espresso molto chiaramente da un cartello: OGNI GIORNO, UN PEZZETTO PER VOLTA, QUESTA VOSTRA EREDITÀ VIENE VANDALIZZATA DA FURTI PER 14 TONNELLATE ALL’ANNO.

Il cartello voleva chiaramente risvegliare il senso di indignazione dei visitatori. Cialdini e colleghi volevano capire quanto questo appello fosse efficace, quindi hanno condotto un esperimento disseminando frammenti di legno pietrificato qua e là lungo i sentieri del parco: praticamente, un invito al furto.

Su alcuni percorsi hanno piantato anche loro un cartello che invitava a non rubare, su altri no.

Il risultato? Lungo i sentieri con gli avvisi i furti sono stati quasi il triplo degli altri. Com’era possibile?

Cialdini ha concluso che i cartelli del parco, oltre a trasmettere un messaggio morale, ne contenevano anche un altro.

Qualcosa tipo: Wow! La foresta pietrificata sta scomparendo… meglio che me ne prenda un pezzo finché sono in tempo!

Oppure: Quattordici tonnellate all’anno?

Che differenza può fare se me ne prendo un pezzetto anch’io?”

Il punto è che gli incentivi morali non funzionano affatto come si potrebbe pensare.

«Molto spesso», spiega Cialdini, «i messaggi di pubblica utilità sono pensati per orientare le persone verso comportamenti socialmente desiderabili comunicando loro quante altre, invece, ne assumono di indesiderabili.

Il reddito di cittadinanza, con le sue implicazioni morali, potrebbe essere frainteso?

E dunque?

Devo ripetere ciò che mi trovo a dire nelle riunioni con i responsabili del personale che tentano di convincermi che piani generali e algoritmi collettivi risolveranno il tema della responsabilità dei lavoratori.

La motivazione è a mio parere soprattutto un tema personale, singolare, individuale.

O lavoriamo con le statistiche o lavoriamo con gli individui.

Fin dove si può, l’intervento dovrebbe essere sul singolo.

Dove non si può l’obiettivo sarà quello di limitare i danni.

Le sfide del futuro: sfruttamento e irrilevanza.

Più ne parliamo, più ci si rende conto che la situazione è tutt’altro che facile, sfaccettata come è in tanti piccoli micro problemi e conseguenze per le quali servirà sicuramente grande attenzione e grande equilibrio.

 Non abbiamo però molto tempo.

Se è vero che la diseguaglianza ha caratterizzato buona parte della storia umana – ad eccezione del felice popolo degli “Hazda” naturalmente – è anche vero che mai come oggi viviamo in una società complessa, veloce e in continuo mutamento.

Ci sono soprattutto due grandi e per certi versi nuovi problemi che ne derivano.

Il primo problema non è del tutto nuovo ma lo è nella forma: la gig economy sembra solo apparentemente offrire nuove opportunità mentre aumenta il rischio dello sfruttamento e della diseguaglianza.

Questo almeno è il parere di Riccardo Staglianò, scrittore e giornalista italiano, corrispondente per La Repubblica.

 Nel suo libro sull’argomento, “Lavoretti: così la sharing economy ci rende tutti più poveri”, Staglianò sottolinea ed evidenzia che per quanto le nuove dinamiche offrono inaspettate opportunità lavorative, “i lavori, a differenza dei voti, oltre che contarli si pesano.”

 

La tesi principale è che “calano i lavori di una volta, quelli nutrienti con cui puoi sfamare una famiglia, mentre crescono i lavoretti, snack che butti giù uno dopo l’altro e non ti saziano mai.”

Partendo dall’esempio di Uber, emblema della sharing economy, nota infatti che si sia giunti a un sistema in cui “i nuovi lavoratori” assumono tutti i rischi imprenditoriali in cambio di saltuarie e per niente stabili entrate, tanto che “Infatti solo il 4 per cento degli autisti continua a lavorare per l’azienda dopo un anno da quando ha cominciato.

 Tasso di ritenzione scarsissimo che dimostra, altrettanto evidentemente, che chi ha provato non si è trovato tanto bene.”

 Il vero punto a suo dire è pero che, in una società fatta da “poveri” il ricambio è costante e questo porta al crescere delle compagnie e del sistema della sharing economy in cambio di quello che definisce “un downgrade di civiltà che, sinceramente, non possiamo permetterci.”

Numeri alla mano, si pensi anche alle recenti polemiche dei riders, viene difficile dare torto a Staglianò.

 La mia personale opinione è che da una parte non sia mai saggio combattere il “cambiamento” per definizione.

Si tratta di leggerlo, tenerne il buono, sistemare le storture e buttare l’inaccettabile, quando per inaccettabile si intende ciò che la sensibilità dei tempi, lo “Zeitgeist” indica.

Un’altra visione della storia racconta come la gig economy possa rappresentare, specie all’inizio del proprio percorso professionale o ad esempio per mantenersi gli studi, un buon compromesso e una diffusa opportunità.

 D’altra parte è chiaro che non risolve il problema del lavoro delle persone e che sistemi di questo tipo siano più pensati per massimizzare i vantaggi ed obbedire ad un’economia di competizione che per assicurare un vantaggio diffuso agli individui.

 

Staglianò parla in fondo di sfruttamento delle persone, di downgrade di civiltà e del lavoro, fenomeno che nel corso della storia ci siamo sempre trovati volenti o nolenti a dover affrontare.

Allo stesso tempo però la tecnologia, pensiamo a robot e “Ai”, sta correndo così veloce da creare una società che probabilmente vedrà una sempre più marcata divisione in termini di opportunità, equità ed eguaglianza.

 La nuova linea di demarcazione sarà data non più dalle origini di nascita ma dalle competenze e in particolar modo dalla capacità di relazionarsi insieme “alle macchine” e portare in dote quello che “Tyler Cowen” in “La Media non conta più” definisce marginalità o valore.

 Di contro, sempre con le parole di “Cowen”, ci sarà sempre meno spazio per coloro a marginalità zero.

Persone che per cultura, incapacità di adattarsi al cambiamento, renderanno preferibile l’uso di un software o di un robot anche solo intelligente “per metà”.

In questo caso quale sarà il destino di queste persone?

C’è una barzelletta amara che circola in questi casi: «Uno stabilimento tessile moderno impiega solo un uomo e un cane: l’uomo per dare da mangiare al cane e il cane per tenere l’uomo lontano dalle macchine».

Detto che una sola persona per stabilimento rende inutili tutte le altre persone, a marginalità zero, dove finiranno i discorsi sul senso e significato per chi si ritroverà ai bordi della società?

Il grande rischio che si prospetta è ancora peggio dello sfruttamento: è l’irrilevanza.

E anche in questo caso mi viene da dire che non solo è triste, poco umano, ma che ancora una volta non conviene a nessuno perché:

 “Se chi sta bene non fa stare meglio chi sta male, prima o poi chi sta male fa stare peggio chi sta bene”.

(Sebastiano Zanolli)

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