TOGLIERE LA LIBERTA’ DI PAROLA.
TOGLIERE
LA LIBERTA’ DI PAROLA.
Tutta
la Disperazione del “Deep State”
in una Dichiarazione:
“Togliere
la Libertà di Parola”
Conoscenzealconfine.it
– (6 Aprile 2023) – Redazione – ci dice:
Hillary
Clinton chiede la fine della Libertà di parola: “L’America dovrebbe diventare
più simile all’Europa”.
Che
motivo avrebbe il deep state di essere così furioso e di minacciare di togliere la libertà
di parola, se tutto andasse secondo i loro piani?
Se
tutto stesse procedendo come da copione, farebbero come hanno sempre fatto:
starebbero nell’ombra a godersi lo spettacolo.
La
“dolce Killary”, esponente di spicco del potere nascosto della (ex) élite, oltre a non
avere una bella cera, sta esponendo al mondo la loro difficoltà e debolezza del
momento.
Abbiamo
vinto, direte.
Ancora
no… ci sarà ancora da lottare.
Ma vedere la loro disperazione disegnata sul
volto, ci dà ancora più carica.
Il
lupo, sente che l’avversario è ferito, ha perso lucidità, si dimena e ha paura.
È in
una posizione di debolezza sistemica.
Proprio
per questo, il lupo, terrà le mascelle ancora più serrate sulla sua preda, per
essere certo che non abbia alcuna via di fuga.
Quel
lupo, siamo noi…
(t.me/In_Telegram_Veritas)
(en-volve.com/2023/04/04/hillary-clinton-calls-for-an-end-to-free-speech-america-should-become-more-like-europe/)
LIBERTA’
DI PAROLA.
It.wikipedia.org
– Redazione – (6 aprile 2023) – ci dice:
La libertà
di parola è considerata, nel mondo moderno, un concetto basilare nelle
democrazie liberali.
Il diritto alla libertà di parola non è tuttavia da
considerarsi illimitato:
i governi possono decidere di limitare particolari
forme di espressione, come per esempio l'incitamento all'odio razziale,
nazionale o religioso, oppure l'appello alla violenza contro un individuo o una
comunità, che anche nel diritto italiano costituiscono reato.
Secondo
il diritto internazionale, le limitazioni alla libertà di parola devono rispettare tre
condizioni:
a)
devono essere specificate dalla legge,
b) devono
perseguire uno scopo riconosciuto come legittimo,
c) essere necessarie (ovvero proporzionate) al
raggiungimento di quello scopo.
L'origine
del concetto e della pratica della libertà di parola risale all'antica Grecia,
in
particolare nelle polis con regime democratico, dove veniva chiamata col termine
parresia (dovere morale di dire la verità) (gr. παρρησία), la facoltà che i
cittadini (di condizione libera) avevano di esprimere liberamente la loro
opinione durante le assemblee pubbliche che si svolgevano nell'agorà.
Il
termine compare per la prima volta nel tragediografo greco Euripide nel V
secolo a.C. e ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici
del V secolo d.C. e, per l'ultima volta, nel Dottore della Chiesa Giovanni
Crisostomo.
Gli
antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorreva "dire
tutto" ciò che si aveva in mente.
La stessa etimologia di parresia (Παρρησὶα) è
quello attribuito a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto).
Nella parresia si supponeva che non ci fosse
differenza tra ciò che uno pensava e ciò che diceva.
Il
filosofo greco Platone distingue due forme di parresia:
una “parresia
falsa” da un lato, dall'altro una “parresia veritiera”, sapiente e costruttiva.
Dove
finisce la libertà di parola?
7
Luglio 2021 | Autore: Mariano Acquaviva
Dove
finisce la libertà di parola?
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PROFESSIONISTI
Ingiuria,
diffamazione, istigazione a delinquere: quando la manifestazione del proprio
pensiero costituisce un illecito?
La
libertà di espressione è sancita direttamente in Costituzione: tutti hanno il
diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione. Si tratta di una libertà fondamentale, un principio
sacrosanto in ogni tipo di democrazia. La libertà di parola, però, non può
essere un pretesto per offendere o per ledere i diritti altrui: con una felice
espressione si è soliti dire che la libertà di ognuno finisce dove inizia
quella degli altri. Come vedremo con questo articolo, è proprio così.
Dove
finisce la libertà di parola?
Laleggepertutti.it
– Mariano Acquaviva – (7 luglio 2021) – ci dice:
Sin da subito, possiamo affermare che il
superamento dei limiti della libertà di manifestazione del proprio pensiero può
condurre alla commissione di un crimine in piena regola:
si
pensi alla diffamazione o, peggio ancora, all’istigazione a commettere un
reato.
Anche
quando non si integra un delitto vero e proprio, v’è comunque il rischio di
dover risarcire i danni:
è il caso dell’ingiuria, oggi costituente
illecito civile.
Libertà
di espressione: cos’è?
Come
anticipato in premessa, la Costituzione italiana sancisce a chiare lettere il
diritto, attribuito a ciascuna persona, di poter manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Si tratta di un diritto fondamentale e
insopprimibile, connotato di qualsiasi democrazia.
Solamente nelle dittature non si è liberi di
poter esprimere la propria opinione.
Quanto
appena detto, però, non significa che della propria libertà di parola si possa
fare un uso smodato, magari offendendo la dignità altrui oppure incitando gli
altri a commettere dei crimini.
In
casi del genere, c‘è la possibilità di incorrere in un crimine, con tutte le
conseguenze del caso.
Vediamo
quali sono i principali illeciti che possono essere commessi quando si abusa
della propria libertà di parola.
Quando
c’è diffamazione?
La
violazione dei limiti alla libertà di espressione può far scattare il reato di
diffamazione.
La
diffamazione è l’offesa alla reputazione altrui.
Per
reputazione deve intendersi la considerazione che gli altri hanno di una
persona.
In
pratica, la reputazione è l’opinione sociale riferita a un individuo, quello
che gli altri pensano di lui, la sua nomea.
Perché
si abbia diffamazione occorre che il commento oltraggioso sia espresso in
presenza di almeno altre due persone, esclusa ovviamente la vittima.
Quest’ultima
non deve essere presente alla diffamazione oppure, anche se fisicamente
presente, non deve essere in grado di percepire l’offesa.
È
diffamazione anche comunicare un commento oltraggioso a una sola persona, se si
è consapevoli che questa procederà a riferire lo stesso ad altre persone.
La
condotta tipica della diffamazione è il commento oltraggioso o ingiurioso.
Nulla
toglie, però, che il reato possa integrarsi anche con un gesto, un riferimento,
un disegno oppure una foto (vedi esempio nel paragrafo dedicato alla
diffamazione telematica).
La
diffamazione è un reato comune, cioè un crimine che può essere commesso da
qualunque persona, senza necessità che rivesta una particolare qualifica (giornalista, ecc.).
Di
conseguenza, chiunque può macchiarsi del reato di diffamazione, anche la
persona comune che, scrivendo sul proprio profilo social, offende pubblicamente
un altro individuo.
In
un’ipotesi del genere, anzi, la pena sarebbe aumentata:
per
legge, si ha diffamazione aggravata (punita con la reclusione da sei mesi
a tre anni o con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro) quando si offende la reputazione
altrui con la stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.
Istigazione
a delinquere: cos’è?
La
violazione dei limiti alla libertà di parola può sfociare nel reato di
istigazione a delinquere.
Di cosa si tratta?
Istigare
significa indurre qualcuno a fare qualcosa, persuaderlo circa una condotta da
seguire.
Chi istiga un’altra persona non si limita ad
effettuare un’opera di convincimento, ma a potenziare un proposito già
esistente nei progetti dell’istigato.
Secondo
il Codice penale, chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è
punito, per il solo fatto dell’istigazione:
con la
reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti (con
pena aumentata della metà se i delitti sono quelli di terrorismo o si tratta di
crimini contro l’umanità);
con la
reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a 206 euro, se trattasi di
istigazione a commettere contravvenzioni.
con la
reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni, se trattasi di istigazione a
pratiche di pedofilia e di pedopornografia.
In
pratica, se in pubblica piazza qualcuno comincia a sobillare le persone,
dicendo loro di rapinare, rubare o di commettere qualsiasi altro delitto, si commette
un reato per il solo fatto dell’istigazione.
Lo stesso accade nel caso in cui, pubblicamente, ci si
metta a difendere o ad esaltare la commissione di determinati crimini, in
quanto l’apologia è equiparata all’istigazione.
Poiché
oggi è molto più facile comunicare con la gente attraverso Internet che
mediante i vecchi metodi (discorsi per strada, nei comizi, nei locali, ecc.),
la legge prevede un aumento di pena se l’istigazione è commessa attraverso
strumenti informatici o telematici.
Ingiuria:
com’è punita?
Un
tempo reato, oggi l’ingiuria è punita esclusivamente dal punto di vista civile.
Ciò
significa che, se una persona offende un’altra (ad esempio, rivolgendole un
epiteto oltraggioso), la persona offesa non potrà sporgere denuncia ma potrà
agire in sede civile per chiedere il risarcimento dei danni.
Anche
l’ingiuria rappresenta, quindi, un limite alla libertà di parola, sebbene tale
violazione non sia punita con la reclusione.
Diffamazione
e ingiuria:
differenza.
Mentre
l’ingiuria offende l’onore o il decoro di una persona presente, la diffamazione
offende la reputazione di una persona assente.
Le due
grandi differenze tra ingiuria e diffamazione sono dunque le seguenti:
l’ingiuria
è commessa in presenza della persona offesa, in quanto il commento oltraggioso
è diretto verso di lei;
l’ingiuria
offende il decoro e l’onore della vittima, cioè la considerazione che egli ha
di sé,
mentre la diffamazione lede la reputazione, cioè la considerazione che gli
altri hanno della vittima.
5
motivi per cui la libertà di espressione
è
importante in una democrazia.
Liberties.eu
– Eleanor Brooks – (1° aprile 2022) – ci dice:
Perché
è importante la libertà di espressione? Perché è un principio fondamentale in
una democrazia? In che modo viene minacciata? Come possiamo proteggerla?
Cos'è
la libertà di espressione?
La
libertà di espressione è uno dei pilastri fondamentali che sostengono il
processo democratico e proteggerla è essenziale se vogliamo vivere in una
società giusta e uguale per tutti.
Non
farlo indebolisce la democrazia.
Ogni
volta che condividi una notizia sui tuoi social media, partecipi a una protesta
o scrivi al tuo politico locale su una questione che ti sta a cuore, questa è
libertà di espressione in azione.
Non tutti i discorsi sono considerati liberi.
Per esempio, discutere a tavola se mangiare o
meno le verdure non è considerata libertà di espressione.
La
libertà di espressione esiste quando i cittadini possono esprimere la loro
opinione - comprese
le opinioni critiche nei confronti del governo - senza temere conseguenze negative,
come il carcere o le minacce di violenza.
Nel
2000 la libertà di espressione è stata sancita come un diritto fondamentale
nell'articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea:
Ogni
individuo ha diritto alla libertà di espressione.
Tale diritto include la libertà di opinione e
la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa
essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
La
libertà e il pluralismo dei media devono essere rispettati.
Tuttavia,
la definizione di libertà di espressione non protegge ogni tipo di discorso.
Come
tutti i diritti fondamentali, il diritto alla libertà di espressione non è
assoluto, il che significa che può essere soggetto a restrizioni, purché
abbiano una base legale.
Le
restrizioni devono soddisfare due condizioni:
1) sono proporzionate - le restrizioni non
sono più forti del necessario per raggiungere il loro scopo
2) sono necessarie e realisticamente
soddisfano obiettivi di interesse generale o sono necessarie per proteggere i
diritti e le libertà degli altri.
Quindi,
qualcuno che si impegna in forme criminali di espressione, come discorsi di
odio, contenuto terroristico o pornografia infantile, non può difendersi
invocando il suo diritto alla libertà di espressione.
Perché
la libertà di espressione è importante in una democrazia? Perché è un principio
fondamentale?
L'obiettivo
della democrazia è di avere una società pluralista e tollerante.
Affinché
questo abbia successo, i cittadini dovrebbero essere in grado di parlare
liberamente e apertamente di come vorrebbero essere governati e criticare chi è
al potere.
Questo
scambio di idee e opinioni non avviene solo una tantum nel giorno delle
elezioni, ma
è una comunicazione bidirezionale continua che ha luogo durante tutto il
mandato di un governo.
1.
Permette di lottare per la verità.
Per
permettere ai cittadini di prendere decisioni significative su come vogliono
che la società funzioni, hanno bisogno di accedere a informazioni veritiere e
accurate su una vasta gamma di argomenti.
Questo può accadere solo quando le persone si
sentono sicure di discutere le questioni che riguardano le loro comunità.
Proteggere
la libertà di espressione incoraggia le persone a parlare, il che rende più
facile affrontare i problemi sistemici dall'interno.
Questo dissuade le persone dall'abusare del loro
potere, il che aiuta tutti a lungo periodo.
2.
Rende tutti più responsabili.
Quando
si tratta di elezioni, i cittadini hanno l'opportunità di chiedere conto ai
loro politici.
Per decidere chi votare, hanno bisogno di
capire quanto bene si è comportato un partito politico quando era al potere e
se ha mantenuto o meno le sue promesse elettorali.
Riportando
le questioni sociali più urgenti della società, i media e le organizzazioni
della società civile (OSC) contribuiscono alla percezione pubblica di quanto
bene stia facendo il governo.
Tuttavia, questo è utile solo se sono liberi
di coprire in modo veritiero storie che sono critiche nei confronti dello
stato.
3.
Permette partecipazione attiva dei cittadini.
Le
elezioni e i referendum sono una buona opportunità per i cittadini di plasmare
la direzione della società, ma si svolgono solo ogni due anni.
La
libertà di espressione rafforza altri diritti fondamentali come la libertà di
riunione, che i cittadini usano per influenzare il processo decisionale
pubblico assistendo a proteste, manifestazioni o partecipando a campagne.
Questo
permette loro di protestare contro una decisione impopolare, come il divieto di
aborto in Polonia, o mostrare al governo che vogliono un'azione politica più
forte su una questione importante.
Quando
i manifestanti in Germania hanno riempito le strade a centinaia di migliaia per
protestare contro la guerra in Ucraina, questo ha inviato un forte segnale al
governo che la gente sosteneva dure sanzioni contro la Russia.
4.
Promuove il giusto trattamento delle minoranze.
In una
società democratica, tutti dovrebbero essere trattati in modo uguale e giusto.
Tuttavia,
i gruppi minoritari che sono sottorappresentati nel governo sono spesso messi
da parte, e le loro opinioni vengono trascurate a favore di quelle appartenenti
al gruppo sociale dominante.
Facendo
campagne e parlando apertamente dei problemi che riguardano le loro comunità,
le persone emarginate possono ottenere un ampio sostegno pubblico per la loro
causa.
Questo
aumenta la loro capacità di influenzare l'agenda pubblica e porre fine agli
abusi dei diritti umani.
5. È
essenziale per il cambiamento e l'innovazione.
Tutti
vogliamo che la società diventi migliore per tutti, ma perché questo accada la
società ha bisogno di incoraggiare e sostenere la libertà di espressione.
I governi autoritari che sopprimono le
critiche e trattengono le informazioni di interesse pubblico negano ai
cittadini il diritto di prendere decisioni informate o di agire su importanti
questioni sociali.
Trattenere
informazioni vitali fa sì che i problemi si inaspriscano e peggiorino.
Questo
ostacola il progresso e rende molto più difficile trovare una soluzione quando il problema
viene finalmente alla luce.
In
Cina, per esempio, un medico che ha cercato di avvertire la comunità medica di
un virus mortale - Covid-19 - è stato invitato a "smettere di fare
commenti falsi" ed è stato indagato per "diffusione di voci".
Questo ha avuto l'effetto devastante di ritardare
l'introduzione di misure per contenere il Covid-19, che ha provocato una
pandemia globale e milioni di morti.
Quali
sono le minacce alla libertà di espressione?
1.
Governo
I
governi autoritari, il cui obiettivo principale è quello di rimanere al potere,
vogliono assicurarsi che qualsiasi copertura mediatica sia favorevole.
Per
controllare la narrazione pubblica, nominano rappresentanti politici alle
autorità dei media ed esercitano il controllo finanziario ed editoriale sui
principali media.
Come riportato dalla nostra organizzazione membro nel
nostro “2022 Media Freedom Act”, un esempio lampante è l'Ungheria, dove oltre
l'80% del mercato dei media è controllato direttamente o indirettamente dal
governo ungherese.
2.
Legge
I
governi usano riforme legali restrittive, il controllo della folla da parte
della polizia o misure eccezionali di emergenza per limitare la libertà di
espressione.
In
risposta all’emergenza durante la pandemia Covid-19, paesi come Belgio,
Bulgaria, Germania, Slovenia e Spagna hanno limitato in modo sproporzionato
l'esercizio del diritto di protestare nell'interesse della salute pubblica
attraverso la brutalità della polizia e gli arresti degli attivisti.
Altri
strumenti legali usati dallo stato per controllare il flusso di informazioni
includono la criminalizzazione della diffusione di informazioni false o la negazione dell'accesso alle
informazioni.
In
Russia, l'invasione dell'Ucraina è definita da Putin come una "operazione
militare" e i russi sanno che usare la parola "guerra" li
esporrà alla legge sulle "fake news", che comporta una pena detentiva
fino a 15 anni.
Come risultato, molti russi che si oppongono
alla guerra sono messi a tacere, mentre altri non sono a conoscenza della
verità di ciò che sta accadendo.
3.
Attacchi a giornalisti, OSC e whistleblowers.
I
politici e le figure influenti che temono che i giornalisti espongano il loro
comportamento corrotto ricorrono a tattiche sporche ed extra-legali per
metterli a tacere.
Strategie comuni includono molestie legali
attraverso SLAPP (cause legali strategiche) o campagne diffamatorie volte a
screditare le OSC critiche.
I
whistleblower hanno subito conseguenze personali devastanti per aver fatto luce su
attività contrarie all'interesse pubblico, come la corruzione, le attività
illegali o le frodi.
Anche
i giornalisti e i difensori dei diritti civili sono sempre più esposti a
violenze verbali o fisiche, anche da parte della polizia.
4.
Online.
I
discorsi di odio o il trolling online possono creare un ambiente digitale
ostile che scoraggia le donne e le persone emarginate dal partecipare ai
dibattiti sociali online.
Tuttavia,
gli sforzi ben intenzionati per affrontare questo problema possono
inavvertitamente creare gli stessi effetti di silenziamento.
L'Unione
europea sta attualmente spingendo attraverso il “Digital Services Act,” volto a
rendere internet un luogo più sicuro e a proteggere la libertà di espressione
online.
Tuttavia,
la soluzione proposta per eliminare la disinformazione potrebbe avere l’effetto
opposto.
Nella nostra lettera agli eurodeputati,
abbiamo sconsigliato l'uso obbligatorio di filtri di caricamento per rimuovere
i contenuti online dannosi, poiché non sono abbastanza sofisticati per
distinguere l’umorismo dall’abuso.
Se usati, potrebbero limitare la libertà di
espressione online.
5.
Autocensura.
Quando
la libertà di espressione è sotto attacco, si manda il messaggio che “dire la
verità potrebbe mettere in pericolo”.
L'ambiguità che esiste intorno a ciò che è
accettabile e ciò che non lo è fa sì che le persone agiscano con cautela,
quindi iniziano ad autocensurarsi.
Il nostro “2022 Media Freedom Report” ha rivelato che
i giornalisti in Bulgaria, Germania, Ungheria, Italia, Slovenia e Svezia si
sono autocensurati a causa di attacchi o molestie online.
Come
proteggere la libertà di espressione?
Per
proteggere la libertà di espressione, ci dovrebbero essere leggi per proteggere
gli individui e le organizzazioni che sono minacciate per aver denunciato la
corruzione o il comportamento non etico.
I giornalisti, i cani da guardia, gli
attivisti e i whistleblower dovrebbero ricevere una solida protezione legale
che permetta loro di svolgere il proprio lavoro in sicurezza e li protegga
dalle ritorsioni di coloro che vogliono metterli a tacere.
Questo
è il motivo per cui “Liberties” sta lavorando duramente per fare una campagna a
favore di leggi migliori per proteggere la libertà dei media.
Il “Media
Freedom Act” (MFA) attualmente in fase di elaborazione da parte della
Commissione europea potrebbe fare una vera differenza.
Abbiamo
inviato alla Commissione il nostro “Media Freedom Report “che ha verificato lo
stato della libertà dei media in 15 paesi dell'UE, così come un documento
politico che delinea le raccomandazioni che crediamo il MFA dovrebbe
affrontare.
Dovrebbe
includere misure per aumentare la trasparenza sulla proprietà dei media e
sviluppare regole su come rendere più sicuro il lavoro dei giornalisti.
Libertà
di espressione:
universale,
ma non assoluta.
Swissinfo.ch
- Yanina Welp – (1°-5-2021) – ci dice:
Formalmente
sancita nel 1948 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la libertà
di espressione è diventata probabilmente l'elemento più contestato della
moderna democrazia rappresentativa in tutto il mondo.
Mentre
è minacciata in un numero crescente di Paesi, i suoi limiti sono messi alla
prova in altri.
Secondo la ricercatrice Yanina Welp, siamo a
un bivio critico.
La
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR), adottata dall'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite a Parigi nel 1948, afferma che "ogni individuo ha diritto alla
libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato
per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni
e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere." (articolo 19).
La
libertà di espressione, quindi, si riferisce alla capacità di un individuo o di
un gruppo di esprimere le proprie credenze, pensieri, idee ed emozioni su
diverse questioni senza censura.
Ma è
un diritto assoluto?
Chiaramente
no.
Un esempio
recente viene dalla Svizzera, quando l’anno scorso i cittadini hanno votato con
il 63,1% contro il 36,9% a favore di una legge che vieta la discriminazione
anti-LGBT, nel quadro di un referendum sui limiti della libertà di parola.
Un altro referendum nel 1994 aveva già
stabilito che l'omofobia è un crimine, non "una questione di
opinione".
Nel
frattempo, varie fonti e classifiche mostrano che i media svizzeri sono liberi
da interferenze editoriali e governative;
ma ci
si aspetta che aderiscano al codice penale, che proibisce discorsi razzisti o
antisemiti così come omofobi.
Durante
la pandemia, tuttavia, sono emerse nuove sfide:
da un
lato, sono sorte forme di pensiero negazionista, come quelle propinate da
gruppi anti-scienza e anti-vaccini, e dall'altro, vi sono persone che
ritengono che i governi stiano "approfittando della pandemia per
introdurre più controllo e meno democrazia".
Quest'ultima
affermazione viene dagli "Amici della Costituzione" in Svizzera, che
lo scorso autunno hanno raccolto delle firme per contestare la "legge
Covid" del 2020, che il governo e il Parlamento svizzero hanno elaborato
per gestire la risposta al coronavirus.
Il
voto del 13 giugno sarà probabilmente l'unico caso al mondo in cui i cittadini
saranno direttamente in grado di prendere una decisione vincolante sulla
risposta del loro Paese alla pandemia.
Chi
decide sulla libertà di parola?
La
democrazia contro Facebook e compagni: il dibattito negli USA, in Europa e in
Svizzera sui limiti da porre alle grandi aziende digitali.
Un
pilastro della democrazia moderna.
La
libertà di espressione è quindi un diritto fondamentale ma non assoluto.
È anche un pilastro della democrazia moderna.
Ciò è
riconosciuto dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti,
adottato il 15 dicembre 1791, che garantisce:
"Il
Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una
religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la
libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi
pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione
dei torti."
All'epoca,
un obiettivo chiave dell'emendamento, sottolineato da Thomas Jefferson, era
quello di costruire "un muro tra Chiesa e Stato".
Ma col
tempo, la libertà dei media e di parola è diventata una componente fondamentale
dei governi democratici, dato che il diritto alla libera espressione mostra
l'apertura di un sistema politico a permettere controlli sul suo potere e a
prendersi le sue responsabilità.
Oggigiorno,
la libertà di espressione sta affrontando minacce crescenti.
Da un lato, gli “autocrati globalisti” si stanno
moltiplicando in tutto il mondo, così come le persecuzioni dei media
indipendenti e degli attivisti sociali.
Dall'altro
lato, l’influenza sempre maggiore delle grandi aziende tecnologiche ha creato
nuovi problemi per i sistemi democratici esistenti.
Una
combinazione di entrambe le sfide - leader autoritari e nuovi media – si è
incarnata nell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Tuttavia,
la decisione di Twitter e Facebook di sospendere i suoi account ha anche
lasciato irrisolte domande cruciali:
le
aziende private dovrebbero essere incaricate di decidere quali affermazioni
sono accettabili?
Dove
si trovano i limiti tra i discorsi di odio e la libertà di espressione?
I social media stanno portando all'erosione
della libertà di stampa plurale e indipendente?
Sotto
pressione.
Nel
2021, diverse nazioni del G20, tra cui Brasile, India e Turchia, stanno vivendo
un declino della democrazia o si stanno trasformando in autocrazie.
La
Polonia è in testa in questa dubbia corsa.
I numeri riportati dall'istituto “Varieties of
Democracy” (V-Dem) di Göteborg sono impressionanti:
il 68%
della popolazione mondiale (87 Paesi) vive ormai in regimi autocratici;
l'India,
con una popolazione di 1,37 miliardi, è recentemente regredita da "più
grande democrazia del mondo" ad "autocrazia elettorale".
Tra i
fattori che hanno portato alla retrocessione dell'India, i più sostanziali sono
state le minacce alla libertà dei media, del mondo accademico e della società
civile.
Il
numero di democrazie liberali, nel frattempo, è sceso da 41 nel 2010 a 32 nel
2020, e ora conta solo il 14% della popolazione globale.
Le
democrazie elettorali sono presenti in 60 Paesi e rappresentano il restante 19%
della popolazione mondiale.
Il
modello seguito dalle aspiranti autocrazie è quasi sempre lo stesso: "i governi al potere prima
attaccano i media e la società civile, e polarizzano le società mancando di
rispetto agli avversari e diffondendo informazioni false, poi minano le
elezioni".
Le
proteste a Hong Kong nel 2018 e 2019 chiedevano più democrazia. La risposta
della Cina è stata la repressione violenta e la legalizzazione delle restrizioni.
La
legge sulla “sicurezza nazionale”, approvata a metà del 2020, significa che i
cittadini non sono più liberi di esprimersi.
Anche
la Russia ha intrapreso un percorso repressivo arrestando e imprigionando il
leader dell'opposizione Alexei Navalny - dopo un tentativo fallito di ucciderlo.
(Il
governo svizzero si è unito agli appelli internazionali che chiedono il
"rilascio immediato" di Navalny).
A
livello globale, anche la libertà di espressione è particolarmente sotto
pressione.
Secondo
V-Dem, l'anno scorso 32 Paesi hanno assistito al declino sostanziale di questo
pilastro democratico; tre anni fa, il numero era "solo" 19.
E nell'ultimo
decennio, otto dei dieci indicatori democratici in peggioramento erano legati
alla libertà di espressione.
Il
populismo illiberale come segno di stanchezza.
C'è
anche una tendenza globale che merita maggiore attenzione: la recente ascesa di
leader populisti illiberali in tutto il mondo.
Questo
emergere del populismo è un sintomo di stanchezza.
Le
disuguaglianze strutturali in molti Paesi – e specialmente nel sistema politico
statunitense – così come il crescente razzismo (come capro espiatorio della
disuguaglianza) sono stati i motori della popolarità dell'ex presidente
americano Donald Trump, per esempio.
Per
contrastare questa tendenza de-democratizzante, non ha senso bloccare tali
leader e partiti.
Piuttosto il loro discorso deve essere contrastato
democraticamente, offrendo alternative attraverso la cittadinanza attiva e più
democrazia.
Quando
un sistema politico non è in grado di fornire né benessere sufficiente né la
protezione dei diritti umani, i discorsi di odio aiutano a mobilitare l'elettorato.
Dietro questo meccanismo, c'è l'incapacità dei
leader e del sistema di rispondere alle richieste della popolazione e di
dimostrare che la politica può cambiare le cose.
Come
può la politica cambiare le cose?
Permettendo la partecipazione democratica,
migliorando le condizioni per la formazione dell'opinione pubblica e
l'esercizio dei diritti politici.
In altre parole, non c'è democrazia senza
libertà di espressione.
Nel
mondo c’è sempre
meno
libertà di stampa.
Youtrend.it
- Federico Roberti – (21 Febbraio 2022) – ci dice:
Com’è
cambiata la situazione della libertà di stampa negli ultimi anni?
Il trend è negativo ed è preoccupante.
Il
2021 è stato l’anno che più di ogni altro ha mostrato quanto l’informazione e
la libertà di espressione abbiano un ruolo cruciale nella decodificazione della
società.
Le
notizie legate alla pandemia hanno contribuito alla polarizzazione del
dibattito e hanno mostrato entrambe le facce dell’informazione: da una parte la
possibilità di accedere a una quantità di nozioni praticamente infinite sui
temi di cui vogliamo discutere consente un’informazione che senza il web non
sarebbe possibile; dall’altra c’è il rischio di restare inconsapevolmente
vittime della mastodontica rete di “fake news” in cui ci muoviamo ogni giorno.
La
pandemia e la sfiducia.
Il
tema della pandemia è quello che si presta meglio a quest’analisi:
il continuo bombardamento mediatico sfuma i
contorni della verità e mina le certezze riguardo alle notizie che vediamo ogni
giorno.
Non a
caso solo il 13,9% degli italiani reputa “equilibrata” la gestione comunicativa
legata alla pandemia.
Si
stima che gli italiani si siano imbattuti in 29 milioni di “fake news”
nell’ultimo anno, stando a quanto riportato da una ricerca Censis di aprile
2021.
Non si
tratta, però, di un problema unicamente italiano.
Globalmente
c’è una crescente parabola di sfiducia nei confronti dei mezzi di
comunicazione.
Una
ricerca di “Edelman Trust” Barometer, che ha analizzato 28 Paesi, riporta che oltre il 60% degli
intervistati ha dichiarato che i media non sono oggettivi ma di parte:
per
questo le persone fanno fatica a riconoscere le fonti di informazione
affidabili da quelle che non lo sono.
Una
maggioranza di persone sostiene che i leader di governo, i businessmen e i
giornalisti depistano e plagiano le informazioni a seconda dei loro interessi.
Inoltre, solo il 35% delle persone ha fiducia
nell’informazione sui social network, che sono comunque la principale fonte da
cui si recepiscono, anche se involontariamente, le informazioni.
La
sfiducia e le visioni politiche.
Un
buon modo per capire come la fiducia verso i mezzi di comunicazione sia legata
alle visioni politiche – e quindi come queste due sfere si influenzino a
vicenda – può essere analizzare i votanti di Trump e quelli di Biden nel 2020.
Chi ha
votato Trump ha solo il 18% di fiducia nell’informazione, mentre chi ha votato
Biden il 57%:
una discrepanza di 39 punti percentuali che
ben fotografa la radicalizzazione del pensiero politico e come esso influenzi
tutto il resto.
Tutti
i discorsi negazionisti, complottisti e manipolatori di Trump sul proprio
elettorato hanno avuto un’efficacia riscontrabile in questi numeri.
A
questo proposito, Ipsos ha condotto un’indagine su un campione statunitense di
21.502 adulti a luglio 2021 riguardo a quali sono le fonti di informazione meno
credibili secondo chi rispondeva: al primo posto c’è il governo, poi i media, infine i
social media.
Questo
quadro di sfiducia sociale collettiva rende l’informazione fonte di scetticismo
e indebolisce i regimi democratici.
Il
risultato è proprio che tra il 2020 e il 2021 “Freedom House” ha riportato un
calo di 3 punti di libertà complessiva negli Stati Uniti.
I
giornalisti detenuti.
Una
volta menzionati i trend più evidenti riguardo la sfiducia verso l’informazione
tradizionale e digitale, è bene entrare nel dettaglio delle condizioni dei
giornalisti nel mondo.
L’accenno
precedente al calo di libertà complessiva negli Stati Uniti è correlato al
crescente scetticismo riguardo alla comunicazione:
c’è
infatti un rapporto serrato che intercorre tra la libertà di espressione e i
regimi nei quali è situata.
Capire
questo significa capire perché nel 2021 i 5 Paesi che detengono il maggior
numero di giornalisti prigionieri al mondo sono tutti regimi autoritari.
In
regimi di questo genere, infatti, dove il potere è detenuto da giunte militari,
singoli uomini o ristretti gruppi di persone, l’informazione è il primo fattore
da arginare per far sì che il popolo non protesti.
I 5 Paesi in questione sono: Cina (127
giornalisti detenuti); Myanmar (53); Vietnam (43); Bielorussia (32) ed Arabia
Saudita (31).
Anche
nel 2020 Cina, Arabia Saudita e Vietnam erano presenti nella top 5.
Complessivamente
nel 2021 ci sono stati 488 giornalisti detenuti, 46 uccisi e 65 tenuti in
ostaggio, oltre a 2 momentaneamente spariti, con un aumento di oltre il 20%
solo nell’ultimo anno.
A cosa è dovuto questo aumento? A tre Paesi
principalmente incuranti delle norme umanitarie dei propri cittadini: Myanmar,
Bielorussia e Cina.
Tutti
i dati sono presi da RSF, che dal 1995 redige un report annuale sulla libertà
di stampa nel mondo.
La
crisi del giornalismo in 5 fattori
Secondo
una ricerca di “Reporters Sans Frontières”, soltanto il 26,7% del mondo versa
in una situazione giornalistica definita “buona” o “piuttosto buona”: tutto il
resto è etichettato in modo negativo, oscillando tra una definizione
“problematica” o “difficile” o “molto grave”.
Il
progressivo impoverimento della libertà nel giornalismo mondiale è legato a
molte crisi che si sono susseguite e anzi sovrapposte negli ultimi anni.
In
primis una crisi geopolitica alimentata dall’aggressività dei regimi autoritari:
basti pensare a ciò che è accaduto ultimamente
al confine tra Russia e Ucraina, con la spinta violenta di Putin verso
un’espansione territoriale che ha messo in crisi il Paese controllato da
Zelensky.
L’influenza
diretta della Russia ai danni della Bielorussia è nota sin dalla fine della
Guerra Fredda: nelle ultime settimane proprio in Bielorussia, a sua volta
confinante con l’Ucraina, sono state svolte delle esercitazioni militari russe
per mettere pressione all’Ucraina stessa.
Questa pressione specifica e complessiva della
Russia sulla Bielorussia non prevede come possibilità la libertà d’espressione.
Il
risultato è che la Bielorussia è tra i principali detentori di giornalisti:
ecco spiegato come le crisi geopolitiche influenzano il giornalismo.
Altri
fattori che influenzano la crisi giornalistica sono sicuramente la crisi di
fiducia e i sospetti verso l’informazione – di cui si è già discusso – così
come la crisi economica che impoverisce la qualità del giornalismo e la
possibilità di allocare risorse finanziarie sull’informazione, cosa che nel
migliore dei casi diventa un lusso e nel peggiore un problema.
Appare
importante anche valutare la “crisi della tecnologia”.
Il
fattore tecnologico è quello più controverso: se da una parte consente
l’accesso a molte informazioni, dall’altro può provocare danni ingenti se usato
in modo distruttivo.
Basti
pensare agli attacchi hacker russi nei confronti degli ucraini, oppure alla
censura attuata da Xi Jinping in Cina, a quella di Putin in Russia, oppure
ancora al caso del blackout di Internet del Myanmar, stratagemma utilizzato
spesso durante le guerre civili o i colpi di stato per staccare lo Stato e
quindi i cittadini da ogni collegamento esterno.
Infine,
la crisi democratica è la più evidente tra le cause.
Il livello di democraticità di uno Stato è del resto
direttamente proporzionale alla libertà di stampa e di espressione:
non a caso i Paesi meno democratici – che
vengono così definiti da “Freedom House” sulla base di parametri empirici –
sono anche quelli con il minor grado di libertà di stampa.
Lo
stesso vale per il contrario: esempi sono l’Italia, la Germania, la Spagna e il
Regno Unito.
In
conclusione.
È
l’11° anno consecutivo in cui la libertà su internet è in declino.
I peggioramenti più evidenti sono
stati registrati in Myanmar, Bielorussia e Uganda (3 regimi autoritari).
Il
Myanmar in particolar modo ha subìto un declino di 14 punti percentuali, il
peggior risultato mai registrato dai report di “Freedom House”.
Il
brusco calo del Myanmar è iniziato il 1° febbraio 2021, quando il governo di
Aung San Suu Kyi è stato smantellato, con la destituzione e l’arresto della
vincitrice del Nobel per la pace.
Il
motivo ufficiale è legato alle accuse di brogli elettorali e instabilità, ma
nei fatti si è trattato di un colpo di stato a tutti gli effetti:
l’ennesima
dimostrazione di come libertà di stampa e regimi politici siano
indissolubilmente legati.
La
conseguenza più notevole è che la libertà di espressione online è sotto
controllo più che mai.
Non ci
sono mai stati così tanti arresti per discorsi e pensieri non violenti, siano
essi politici, sociali o religiosi.
Internet
è stato sospeso durante il 2021 in almeno 20 Paesi e 21 Stati hanno bloccato l’accesso
ai social media.
“Stiamo
entrando in una decade decisiva per il giornalismo, e questo dipende da tutte
le crisi che ne stanno mettendo a rischio il futuro.
La
pandemia di Covid-19 ha mostrato i fattori negativi che minacciano il diritto a
un’informazione affidabile.
Come
sarà la libertà di informazione, il pluralismo e l’affidabilità del giornalismo
nel 2030?
La risposta a questa domanda sarà determinata
da ciò che accade oggi.
” Lo
dice Cristophe Deloire, il segretario generale di RSF”.
Rapporto
2022 sulla libertà di pensiero
nel
mondo: a rischio la laicità
e le
persone non credenti.
Blog.uaar.it
– (9 dicembre 2022) – Redazione Uaar – ci dice:
(UAAR:
Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti)
L’11esima
edizione del rapporto di “Humanists International” evidenzia sistematiche
discriminazioni nei confronti degli atei.
Per il
70% della popolazione mondiale è impossibile realizzare pienamente il proprio
diritto alla libertà di religione e dalla religione.
Soltanto
il 4 per cento della popolazione globale vive in società davvero laiche.
Lo
sostiene l’11esimo Rapporto sulla libertà di pensiero di “Humanists
International”, che fornisce inoltre le prove di chiare e sistematiche
discriminazioni contro gli umanisti e le persone non religiose.
Per
contro il 70% della popolazione mondiale vive in Paesi in cui manifestare il
proprio pensiero ateo o agnostico comporta vari livelli di repressione e dove
la piena realizzazione del proprio diritto alla libertà di religione e dalla
religione è letteralmente impossibile.
È
purtroppo comune la presenza di dure pene per l’apostasia, di maggiori
probabilità di tramandare pratiche tradizionali dannose e di nazionalismi
religiosi che radicano nella società idee profondamente reazionarie.
Il
Rapporto sulla libertà di pensiero nasce nel 2012 dal lavoro di diverse organizzazioni
affiliate a “Humanists International”, associazione fondata nel 1952 e composta
da 150 gruppi umanisti e non religiosi – tra cui l’Unione degli Atei e degli
Agnostici Razionalisti – in più di 40 Paesi.
L’edizione
2022 del Freedom of thought report (Fotr) Key Countries Edition analizza un
campione di dieci Stati in relazione alla difesa dei diritti dei non credenti:
Barbados, Francia, Filippine, India, Nepal, Pakistan, Senegal, Sri Lanka, Turchia,
Ungheria.
È
stato infatti osservato come la laicità dello Stato possa influenzare sia il
rispetto del diritto alla libertà di religione, ma soprattutto il diritto a
essere atei o agnostici.
Quattro
le categorie scelte: Costituzione e governo, Educazione e diritti dell’infanzia,
Società e comunità, Libertà di espressione e valori umanisti.
Sono
sei invece i livelli di violazione rappresentati in una cartina tornasole con
colori dal rosso scuro al verde chiaro:
gravi
violazioni, severe discriminazioni, discriminazioni sistemiche, principalmente
soddisfacente, liberi e uguali e nessuna valutazione (per mancanza di informazioni).
Quest’anno
l’edizione “Paesi
chiave”
del rapporto dimostra la progressiva erosione del principio di laicità nel
mondo, e con essa un calo della tutela dei diritti umani.
Tra i
Paesi più repressivi Pakistan, Arabia Saudita, Afganistan che reagiscono
simbolicamente all’analisi, generando un colore rosso scuro su tutte e quattro
le categorie, per le leggi sulla blasfemia crudeli (è prevista la pena di morte).
Anche la Repubblica islamica dell’Iran è sotto
osservazione:
severamente
limitati il diritto alla libertà di religione e le libertà di espressione,
associazione e riunione.
La
legge iraniana vieta qualsiasi critica all’Islam o deviazione dagli standard
islamici vigenti.
Gravi le conseguenze delle proteste scoppiate
a settembre in risposta all’omicidio di Mahsa Amini, curdo-iraniana di 22 anni,
arrestata, detenuta e torturata dalla “polizia morale” iraniana per aver indossato
la sua hijab in modo improprio.
Il
Fotr cita
poi un rapporto del 2012 secondo cui l’ateismo e la popolazione non religiosa
stanno crescendo rapidamente.
La
religione è diminuita del 9% e l’ateismo è aumentato del 3% tra il 2005 e il
2012.
In
sostanza la religione diminuisce in proporzione all’aumento dell’istruzione e
del reddito personale, tendenza che pare destinata a crescere.
Nonostante
quest’orientamento, in alcuni Paesi è illegale essere o identificarsi come
atei.
Oltre
alle leggi per punire la blasfemia esistono quelle contro l’apostasia che
prevedono ancora oggi la pena di morte in Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive,
Mauritania, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen.
Spesso
la critica della religione è inclusa nelle leggi sull’incitamento all’odio; gli
atei sono esclusi dal matrimonio a meno che non fingano di essere religiosi;
altri Stati limitano posizioni amministrative o di potere a persone di una
particolare religione; l’indicazione della religione può essere richiesta anche
nei documenti di identità, ma è illegale identificarsi come atei o non
religiosi.
La
promozione del privilegio religioso da parte dello Stato è infatti una delle
forme più comuni di discriminazione nei confronti degli atei.
«Ormai
all’undicesima edizione del report – dichiara Giorgio Maone, responsabile
relazioni internazionali dell’Uaar – possiamo rilevare una tendenza
preoccupante:
alla
progressiva e inevitabile secolarizzazione delle società, nelle quali non
credenza, cultura dei diritti umani e valori umanisti si diffondono inesorabilmente,
corrisponde purtroppo una forte reazione conservatrice a livello politico, con
iniziative tese a restaurare dall’alto l’influenza della religione nella sfera
pubblica e privata, riducendo l’autodeterminazione personale.
L’abbiamo visto accadere in tutto il mondo,
dagli Usa all’Est Europa, dall’Afghanistan all’India, dalla Russia a numerosi
Stati africani.
L’Italia, la cui laicità è costituzionalmente
sancita, ma al contempo viziata dal Concordato e della presenza strabordante
del Vaticano nei media e nel discorso politico, negli anni è comunque
progredita nei diritti laici soprattutto, lo affermiamo senza falsa modestia,
grazie al lavoro della nostra associazione.
Un
lavoro però tutt’altro che terminato, e già le prime dichiarazioni di esponenti
del nuovo governo ci inducono a moltiplicare gli sforzi per non tornare
protagonisti in negativo delle prossime edizioni del Fotr».
«Il
report di quest’anno non mette sotto la lente d’ingrandimento l’Italia –
commenta Roberto Grendene, segretario nazionale Uaar – ma possiamo assicurare
che il nostro Paese ha conservato se non peggiorato la penosa posizione dello
scorso anno, con una colorazione rossastra nella mappa complessiva elaborata da
“Humanists International”, che la colloca a metà strada tra le discriminazioni
severe e quelle sistemiche della libertà di pensiero.
Basti
pensare ai 26mila insegnanti di religione cattolica scelti dal vescovo e pagati
dallo Stato, alla piaga degli obiettori di coscienza nei reparti di ginecologia
della Sanità pubblica, alle norme che tutelano il “sentimento religioso”
condannando a sanzioni amministrative i “blasfemi” e prevedendo addirittura il
reato di vilipendio.
E col
nuovo esecutivo e la nuova maggioranza parlamentare il rischio concreto è
vedere sprofondare ulteriormente l’Italia nella classifica del Fotr».
“Gli
Assassini di Muammar Gheddafi
vogliono
insegnarci la Democrazia?”
Conoscenzealconfine.it
– (7 Aprile 2023) – Redazione – ci dice:
Fred
M’membe:
“Il paese che ha ucciso tanti dei nostri
leader in Africa e in altre parti del mondo vuole insegnarci la democrazia?”
Il
leader dell’opposizione dello Zambia, Fred M’membe, durante la visita di Kamala
Harris nel Paese il 31/03/’23, ha affermato:
“Un paese che ha rovesciato così tanti governi
in Africa, che ha condotto così tanti colpi di stato in Africa e in altre parti
del mondo.
Il
paese che ha ucciso tanti dei nostri leader in Africa e in altre parti del
mondo.
Gli
assassini di Patrice Lumumba, gli assassini di Kwame Nkrumah, gli assassini di
Nasser, gli assassini di Muammar Gheddafi verranno oggi a insegnarci la
democrazia!?
Un
Paese che è stato costruito sulla violenza brutale, sulla schiavitù di altre
persone, sull’umiliazione degli africani, sullo sfruttamento degli africani,
verrà oggi a insegnarci la democrazia?
Se non
si rispetta la dignità degli altri, se non si rispetta la sovranità degli altri
Paesi, non si può pretendere di essere il ‘campione della democrazia’ “.
(t.me/MIKAYOUTUBERS)
Gli
inginocchiatori. Un saggio contro
il Woke
e le nuove religioni radicali.
Ilfoglio.it - DANIELE RIELLI – (03 LUG. 2021)
- ci dice:
Quando una protesta diventa obbligatoria
cambia la sua natura e da atto di solidarietà verso una rivolta altrui diventa
imposizione e quindi, per definizione, può rovesciarsi nel suo esatto contrario.
Perché
molti commentatori, giornalisti e politici faticano a capire che cosa ci sia di
così fastidioso per tanti italiani nella pressante richiesta fatta ai
calciatori della Nazionale di inginocchiarsi in omaggio al movimento Black lives matter?
Perché
non riescono ad accettare che si possa essere contro il razzismo e al contempo
non sposare questa determinata forma di protesta?
È una
domanda a cui non è facile rispondere se non si prende in considerazione la natura di
religione estremista che contraddistingue la “cultura Woke”, una natura che in questa vicenda
specifica si coglie da almeno due elementi, che sono poi quelli che
probabilmente non convincono – a livello più o meno istintivo – anche la
maggioranza della popolazione.
Il
primo è la presunzione di colpevolezza universale, ovvero, in termini religiosi
per l’appunto, il peccato originale.
Ogni
occidentale, e segnatamente ogni occidentale bianco, secondo il credo Woke
nascerebbe colpevole a priori di razzismo (e di sessismo e di omofobia), colpe
delle quali, anche con tutta la buona volontà, non si potrà mai emancipare.
Non
conta il suo comportamento, non conta la sua responsabilità personale, il
colore della pelle lo definisce in toto e lo definisce come colpevole.
La sua perciò deve essere una vita contraddistinta dal
senso di colpa, questa la sua croce, il suo destino e tutto questo in virtù
della sua appartenenza razziale (è questa la direzione auto-contraddittoria che ha
preso l’antirazzismo contemporaneo).
Questa
colpa ontologica – antitetica a una cultura della responsabilità personale – è
ciò che sul piano geografico conduce alla pretesa di far travalicare al rito
dell’inginocchiamento i confini della realtà sociale dove è nato (gli Stati Uniti, con la loro storia di
schiavismo e segregazione), mutandolo in una più generica proposizione morale che per
l’appunto presuppone una colpa condivisa, una responsabilità che da storica e
locale diventerebbe presente, universale e inemendabile, tanto che anche da
italiani non assecondare il rito sarebbe di per sé stesso un gesto di empietà e
di colpevolezza.
Andrebbe
ancora bene se gli atleti potessero scegliere liberamente e individualmente se
partecipare a questa ritualità – seppur così più invasiva di tante altre a cui
hanno già acconsentito in passato (i nastrini per i lutti, i segni rossi sul
volto contro la violenza sulle donne) – il problema sta tutto nel ricatto
morale, nella pressione mediatica e nei rischi di perdere le sponsorizzazioni
per chi decide in scienza e coscienza che, come lo scrivano di Melville,
preferirebbe di no.
Quando
una protesta diventa obbligatoria cambia la sua natura e da atto di solidarietà
verso una rivolta altrui diventa imposizione e quindi, per definizione, si
rovescia nel suo esatto contrario.
Da qui quella sorta di obbligatorietà irritata
che molti percepiscono, giustamente, come travalicante i confini di una
protesta condivisibile e sentono invece come un atto di imposizione prepotente,
peggio ancora come un atto di accusa del tutto immotivato nei confronti di chi
vuole decidere le forme e i modi attraverso cui rappresentare la propria
coscienza morale.
Le
accuse generalizzate dei Woke sono, a ben guardare, pesantissime e
profondamente offensive.
Nella loro ripetizione meccanica si perde
l’assoluta gravità del fatto che per loro sia del tutto normale tacciare una
larga parte della popolazione di razzismo (o sessismo, o omofobia) senza mai
sentire su di sé l’onere della prova, questo però non toglie che si tratti di
una generalizzazione violenta e inaccettabile: accusare qualcuno di razzismo è
un processo lesivo della dignità altrui e questo non andrebbe mai dimenticato.
Queste
generalizzazioni arbitrarie sono però anche la pietra angolare dell’intero
edificio woke:
tutto
crolla se solo si ricorda l’ovvio:
essere nati di un determinato colore in una
determinata zona del pianeta non significa in automatico essere colpevoli di
ogni genere di nefandezza.
Il razzismo autolesionista rimane comunque
razzismo.
Il
credo woke con la sua pretesa di ridurre tutta la complessità dell’esperienza
umana solamente all’apparenza a questa o quella categoria (bianco, nero, donna,
trans, eccetera) è la più subdola e insidiosa fra le forme di razzismo.
(Deputati
e senatori dem inginocchiati in silenzio per otto minuti e 46 secondi) (Foto di
Chip Somodevilla/Getty Images) .
L’idea che si possano non accettare le forme
e i modi del culto woke e ciononostante non essere affatto razzisti (anzi, di
fatto esserlo molto di meno), non è però, per l’appunto, contemplata.
Le
scelte offerte dai nuovi adepti, sempre più numerosi nel mondo dei media e
della cultura, sono solo l’adesione completa o la profonda empietà.
Da qui
all’obbligatorietà il passo è naturalmente molto breve.
Nel
silenzio timoroso di ritorsioni economiche e sociali, vanno persi i distinguo, compresi i limiti e le criticità del
movimento “Black
lives matter” sul fronte interno, come i saccheggi sistematici, l’impennata di violenze
nei quartieri neri a danno della popolazione nera (uno dei mantra di Blm è
anche “Defund the police” togliere fondi alla polizia, non migliorarla), in
particolare nei quartieri di Portland rimasti per mesi in mano ai manifestanti
di Blm e senza polizia, zone dove il tasso di omicidi è schizzato alle stelle.
Si oppone anche un anatema di impronunciabilità a chi
fa notare la tribalità anti-illuministica del nome “Black lives matter”, preferito
a “All lives matter”, slogan tanto più giusto e progressista da parere ovvio.
Tuttavia
anche questa semplice osservazione rispetto al nome è oggi considerata segno di
massima eresia presso i credenti, non conta che il senso delle parole – se le parole
hanno ancora un senso – sia fin troppo evidente:
“All” è un sovra-insieme che contiene anche
“Black” ne conta che come concetto “Tutte le vite contano” sia molto più evoluto e includente,
un vero obbiettivo a cui tendere:
un mondo dove non conta più di che colore sia la pelle
di una persona, non ci si fa neppure più caso perché sono altre le cose che
contano.
È
questo uno dei tanti casi in cui il logos contemporaneo si piega al ricatto di
appartenenza della tribù, alle presunzioni di malafede, agli “straw man
argument”, insomma all’impossibilità di intraprendere una discussione razionale
che vada oltre il ricordare a tutti che si è sempre dalla parte giusta.
Anni
fa incontrai “Frank Serpico” nel nord dello “stato di New York”, mi raccontò
che la sua attività principale era diventata fare da consulente per i parenti
delle vittime della polizia.
Seguiva
omicidi sia di neri che di bianchi, la differenza principale, mi raccontò, era
che nel caso dei bianchi era tendenzialmente più facile ottenere dei
risarcimenti.
Anche
al di là dell’aneddotica, seppur di un esperto di settore, i dati parlano
chiaro, in America i neri muoiono per mano della polizia percentualmente più
dei bianchi, tuttavia anche i bianchi vengono uccisi a ritmi che in Europa non
osiamo nemmeno immaginare.
Insomma,
il problema è articolato, riguarda anche la diffusione nella popolazione delle
armi da fuoco, l’attitudine e l’addestramento della polizia americana, così
come una concezione culturale specifica del rapporto fra cittadino e forze
dell’ordine, la diffusione delle aziende private nelle gestione della sicurezza
pubblica (a questo proposito può essere interessante leggere “Il dilemma dello
sconosciuto” di Malcolm Gladwell), senza dimenticare le problematiche
socio-economiche che rendono alcune zone delle città molto più esposte di altre
al rischio di omicidio per mano della polizia.
Insomma
al netto delle diverse incidenze razziali che nessuno nega, il problema
andrebbe affrontato complessivamente: davvero tutte le vite contano.
In una
situazione dai toni orwelliani molte persone negli Stati Uniti sono invece
state licenziate per aver detto che come slogan avrebbero preferito “All lives
matter “a “Black lives matter” (sorte toccata fra gli altri anche un radiocronista
della Nba), tutto sommato quindi la pressione a cui sono stati sottoposti i
calciatori italiani, per quanto espressione di questo nuovo maccartismo
globale, rappresenta una fase meno intensa e precedente rispetto alle
persecuzioni oggi apertamente in atto nel mondo anglosassone.
Ogni
giorno però l’Italia e l’Europa si avvicinano all’America.
Il
credo “woke” ha nel capitalismo corporate il suo alleato d’elezione, perché
niente torna comodo a una multinazionale quanto dare una passata superficiale
di colore “inclusivo” alla comunicazione del suo brand garantendosi così
maggiore benevolenza su tutto il resto:
dalle
condizioni dei lavoratori, alle responsabilità ambientali, alle pratiche
monopolistiche.
Una
larga parte del sistema economico oggi ha imparato a temere le capacità di
boicottaggio della minoranza” woke” ma sa anche che, se accarezzato dal lato
giusto del pelo, questo nuovo radicalismo può rivelarsi un volano con pochi
uguali per garantire affari e un sostanziale lasciapassare per le malefatte che
non rientrino nel cono di attenzione dei moderni sacerdoti dell’inclusività.
Per non sbagliare, gli influencer più
importanti vengono comunque messi spesso sotto contratto come “brand ambassador”
attraverso accordi che limitano la loro libertà di espressione sulle attività
delle multinazionali per cui lavorano.
Nel
suo “Skin
in the game”,
Nassim Taleb ricorda che nel capitalismo avanzato vige, per motivi di mera
efficienza economica, il primato della “minoranza ostinata”, in buona sostanza per quanto possa
sembrare contro-intuitivo a una minoranza molto determinata basta raggiungere il 3-4 per cento della popolazione
per costringere la maggioranza ad adeguarsi alle sue esigenze.
Un
esempio? La limonata kosher.
Laddove il costo per produrre una limonata
kosher è simile a quello della limonata non kosher e i consumatori kosher
raggiungono almeno il 3-4 per cento del mercato, tutti i produttori di limonata
assennati produrranno limonata kosher, in genere certificata attraverso un
marchio che verrà notato solo da coloro che consumano kosher (negli Stati Uniti è una U stampata
vicino agli ingredienti).
In termini tecnici quello che abbiamo qui è un gruppo
intransigente (la minoranza) e un gruppo flessibile (la maggioranza).
Una
dinamica simile a quella della “limonata kosher “negli Stati Uniti la
osserviamo nelle carni halal in Gran Bretagna.
Ora,
questi sono esempi di produzioni alimentari ma la stessa dinamica si può
applicare alla pressione degli attivisti woke a favore di una censura del linguaggio, del licenziamento di persone che
esercitano la loro libertà di espressione e altre cosiddette battaglie
inclusive.
La
maggioranza della popolazione ritiene che siano esagerazioni ma ha altro a cui
pensare, teme ritorsioni e in fondo pensa che si tratti comunque di
esagerazioni a fin di bene.
Finché,
naturalmente, non arriva il loro turno.
Non è
in corso quindi nessun rinascimento inclusivo, né alcun cambiamento nella
sensibilità popolare: si tratta di un meccanismo di mercato capitalista.
In sostanza stiamo parlando, almeno finché i
costi rimangono equiparabili, di una sorta di dittatura nascosta delle
minoranze.
La battaglia attorno alle parole segue la
stessa logica:
non è
certo delle più costose in termini produttivi – una pubblicità costa grossomodo
uguale che sia censurata o meno – quindi rientra in questa dinamica.
I costi culturali e democratici sono in compenso
elevatissimi, perché il linguaggio è un bene comune e il fatto che venga preso
in ostaggio dalle minoranze ideologizzate genera danni collettivi pesanti e
finisce per cambiare l’essenza stessa del nostro sistema politico.
Si
pensi a come in pochi anni minoranze risicatissime ma ostinate siano riuscite a
far passare diverse aberrazioni linguistiche anche nella lingua italiana.
(I
giocatori degli Houston Texans si inginocchiano prima di una partita della NFL
contro i Jacksonville Jaguars) (AP Photo/Stephen B. Morton)
In
virtù di questo genere di meccanismi il “marketing corporate” è una delle
grandi forze propulsive storiche del “wokismo”, come ha colto in profondità
anche Bret Easton Ellis nel suo “White”.
L’altro fattore centrale nell’affermazione del
“wokismo” è stata la diffusione dei social network.
Marketing
aziendale e social network rappresentano rispettivamente il braccio strutturale
e quello sovrastrutturale del “culto woke”, d’altronde non si è mai vista una
religione che si sia affermata senza incarnare le esigenze strategiche delle
parti sociali più influenti del proprio tempo o senza che i suoi contenuti
avessero la giusta fitness evolutiva rispetto alle caratteristiche dei media
più diffusi.
Questo
concretamente significa che le religioni si adattano ai mutamenti dei mezzi di
comunicazione, per cui se in una società della tradizione orale è importante
essere degli abili racconta-storie attorno al fuoco o stratificare efficaci
narrazioni metaforiche all’interno dei riti sacrificali,
in
quella della scrittura è centrale la redazione di testi sacri, in quella della
stampa e della televisione è importante un controllo dei media di massa.
La
società dei social network non fa certo eccezione e la sua architettura premia
coloro che sanno avvantaggiarsi della dinamica vittimaria e del rogo
primordiale del capro espiatorio perché è questo il modo con cui le piattaforme
massimizzano il tempo che gli utenti passano esposti alle pubblicità.
In un
certo senso nella scala della storia si tratta di un’involuzione messa però in
atto con ampio dispiegamento di tecnologie raffinatissime.
La
disintermediazione per molti aspetti primitivizza e appiattendo ogni cosa
riporta allo stato originario di guerra di tutti contro tutti.
La figura centrale dell’”epoca woke” è la
vittima sacra, che ha sostituto quella del vincente, dell’uomo pio o dell’uomo
virtuoso delle epoche precedenti.
Il cambiamento è agevolato dal meccanismo di
denuncia perpetua dei social network, ambienti in cui l’incentivo numero uno
per ottenere l’attenzione è la denuncia di qualche malefatta subita, sempre nel
codice più binario, immediato e bianco e nero possibile.
Il
meccanismo è ciclico per cui la vittima di oggi può facilmente diventare il capro
espiatorio di domani, come vediamo accadere più o meno quotidianamente.
I sacerdoti
supremi di questo meccanismo in virtù del quale l’indignazione genera
attenzione che a sua volta genera denaro, sono naturalmente gli “influencer”.
Proprio
su queste pagine è apparso un bel racconto di Michele Masneri a proposito di un
suo scontro con l’Estetista cinica.
Dai
dettagli della storia emerge il ritratto di un’industria che sul mercato
dell’indignazione prospera, inscena scientificamente una sorta di “wrestling
morale”, dove l’indignazione forse non sarà genuina ma di sicuro genera
engagement e aumenta i fatturati.
Curiosamente,
nonostante la brillantezza del suo pezzo e la durezza dell’esperienza subita,
Masneri ironizza sull’“improbabile dittatura del politicamente corretto” senza cogliere come le due cose
siano fra di loro legate in maniera indissolubile:
il
vittimismo è precisamente la radice filosofica del politicamente corretto.
Il secondo non può esistere senza il primo.
Il
secondo segnale che l’affaire inginocchiamento ci offre rispetto alla natura
religiosa del “wokismo” è fin troppo chiaro e sotto gli occhi di tutti:
è
l’atto dell’inginocchiamento in sé.
Poche
cose sono più potenti di un’analogia quando si tratta di sintetizzare concetti
complessi e c’è qualcosa di fin troppo evidente nella radice teologica nel
gesto di inginocchiarsi di “Black lives matter”.
Nella
nostra cultura ci si inginocchia solamente di fronte a Dio (o almeno così fanno i credenti) o in situazioni estreme in cui la
dignità personale viene messa da parte per gli scopi superiori, come la
richiesta di perdono o per una proposta di matrimonio.
Pentimento o amore, non proprio due motivi
banali, come è giusto che sia perché l’inginocchiarsi è un’infrazione piuttosto
pesante alla dignità di un uomo o di una donna propriamente detti.
L’espressione
“con la schiena dritta” esprime l’altro estremo, quello auspicabile, della
metafora fisico-morale.
Non ci
si inginocchia a cuor leggero, con buona pace di tutti i commentatori che
dicono “cosa costerà mai inginocchiarsi”. Dipende, temo, da quanto valore si dà
alla propria dignità personale, alla simbologia corporea, al potere delle
metafore, all’idea che sia importante chiedere scusa ma solo quando si sia
veramente colpevoli di qualcosa, altrimenti si tratta di una banalizzazione o
di una subdola forma di sopraffazione.
Per altro è piuttosto ironico che questa propensione a
inginocchiarsi- come si trattasse di bere un bicchier d’acqua - arrivi da un
culto la cui origine filosofica affonda nel post-strutturalismo francese.
Era
proprio Michel Foucault, infatti, a parlare di corpi docili, forgiati dai regolamenti
invasivi delle istituzioni pubbliche e private, istituzioni che attraverso il
governo dei piccoli gesti quotidiani arrivavano a dominare le menti e i cuori
degli uomini a loro sottoposti.
Su
questo Foucault aveva ragione e l’obbligo di inginocchiamento non fa eccezione:
è
ginnastica mentale oltre che fisica ed è una metafora di sottomissione, come lo sono ogni piccola e grande
prepotenza a cui i” woke” vogliono sottoporre, attraverso leggi, regolamenti e
ricatti occupazionali, il resto della popolazione.
Tutto
questo scompare però nella capacità di unire queste contraddizioni all’interno
di un principio unificante, l’idea cioè che tutte queste dinamiche – che
contengono i semi di una deriva autoritaria – siano in fondo meno importanti
dello scopo, in questo caso l’eliminazione del razzismo.
Che questo modo intollerante, settario e
tribale di provare a risolvere questi mali sia l’unico possibile e che sia in
qualsivoglia modo efficace è qualcosa su cui però non ci sono dubbi di sorta: non solo non funziona ma
fortunatamente non è nemmeno l’unico modo.
L’illuminismo con i suoi ideali di uguaglianza di
fronte alla legge è un modello universale non perfetto ma infinitamente
superiore dal punto di vista sia della raffinatezza teorica sia dell’efficacia
pratica.
Ci
sono cioè modi migliori di cercare di eliminare il razzismo, il sessismo e
l’omofobia, ad esempio smettere di giudicare una persona prima di tutto sulla
base del suo colore della pelle, del suo sesso o del suo orientamento sessuale.
Un
nero non è necessariamente una vittima sacra, un bianco non è necessariamente
un carnefice fascista: sono esseri umani.
Ai “woke” piace raccontare l’inclusione come il
risultato delle sue battaglie ma prima dell’esplosione del culto questa era già
la direzione a cui era avviato da tempo l’Occidente, con risultati sempre più
incoraggianti.
Che ogni cosa si possa risolvere dall’oggi al
domani e che il sistema sia in toto disfunzionale in ogni sua manifestazione e
intenzione, è invece la” tipica convinzione massimalista woke” (proprio come il postulato del
razzismo universale), frasi che suoneranno bene su Instagram ma non hanno alcuna
aderenza con l’effettiva realtà delle cose.
La direttrice di “Quilette”, rivista americana che si occupa di
documentare la deriva totalitaria del “wokismo”, ha detto a proposito della “Critical race theory “(il capitolo del wokismo che si
occupa di razzismo) che “l’etichetta di “teoria” non dovrebbe essere applicata a
un gruppo di assiomi che hanno un livello di sofisticazione superato da molti
bambini dell’asilo”.
Questa
sua semplicità apodittica, unita all’efficacia del ricatto morale e al timore di
ripercussione professionali, è però precisamente anche la sua forza nell’ambiente
informativo digitale in cui viviamo.
C’è
anche un’altra questione che va considerata nel successo di “Blm” e del “movimento
woke” presso le élite bianche occidentali
(sappiamo dalle ultime elezioni americane
come il “wokismo” stia allontanando l’elettorato nero dai liberal -Dem Usa-, è
insomma del tutto controproducente rispetto ai suoi scopi ufficiali);
da
critica sociale il wokismo è passato a “neo-religione primitiva” per molti motivi ma anche, e forse
soprattutto, per riempire un vuoto.
Jordan
B. Peterson, il più colto e lucido fra i critici dell’”ideologia woke”, è stato il primo a notare come questo
culto sia esploso fra le fila dei figli dei” baby boomer liberal dem Usa” , esponenti della classe media
culturale occidentale in via di scomparsa – almeno dal punto di vista economico
– individui privi di una seria posizione socio-economica nel mondo e di una
religione, aperti all’universalità del desiderio ma con risorse limitate in
maniera grottesca rispetto all’ampiezza delle loro aspettative, oltretutto afflitti spesso da un
radicale senso di colpa per una vita vissuta sui patrimoni dei genitori.
Una
popolazione con delle caratteristiche ideali per il fiorire del “fanatismo woke”,
fenomeno che delle religioni seleziona alcuni dei tratti peggiori ma se non
altro ha il pregio di fornire ai suoi adepti delle mappe morali, una
prospettiva di senso, per quanto con forti tratti persecutori e una intensa
pulsione autodistruttiva.
Il risultato paradossale è che oggi questa
fascia di persone “estromessa brutalmente dalla classe media” sembra avere come
prima preoccupazione politica l’ “esistenza di un patriarcato” estinto in
realtà ormai da decenni.
Un
limite del dibattito pubblico occidentale nei riguardi dello studio delle
religioni è il concentrarsi in maniera grossomodo esclusiva sulle violenze e le
discriminazioni che le maggiori fedi hanno agevolato lungo la storia,
dimenticando spesso di aggiungere all’equazione anche i loro effetti benefici,
come la riduzione della conflittualità interna, lo sviluppo di un’etica
pubblica e quello delle arti, solo per citarne alcuni.
Lo
stesso concetto di uguaglianza fra gli esseri umani era un’assoluta novità
storica quando fu introdotto dal cristianesimo.
Questo
buttare via il bambino con l’acqua sporca ha fatto in modo che si
sottovalutasse l’alto tasso di anti fragilità contenuto nella tradizione, il
fatto, in sostanza, che le religioni, essendo stratificazioni secolari quando
non millenarie di strategie di sopravvivenza evolutive, siano passate
attraverso un meccanismo di affinamento e miglioramento lunghissimo, orientato
a eliminare gli eccessi e selezionare gli aspetti più stabili.
Ora,
tutto questo è difficile da cogliere non solo per un discorso storiografico ma
anche perché i cambiamenti tecnologici degli ultimi due secoli hanno totalmente
mutato il nostro immaginario, relegando progressivamente le religioni tradizionali in un
angolo piuttosto tristanzuolo e celebrando a senso unico il nuovo.
Ci
sono poche cose che oggi appaiono così fuori dal tempo e “un cool” come un
prete, forse solo un prete che cerca di rimanere al passo coi tempi.
Consolerà
forse i credenti sapere che le cose non vanno poi tanto meglio per i filosofi
atei:
il presente è più che religioso, è bigotto di
un bigottismo nuovo.
Il punto è che non sa di esserlo.
L’immaginario
va tutto in una nuova direzione come dimostra il felice matrimonio fra le
industrie della moda e dello spettacolo con il” wokismo”.
Il
tribalismo e la discriminazione si coprono con le pelli del loro contrario, si
ammantano di valori che in realtà rinnegano.
In questo sta tanta parte della sua
insidiosità.
Il “wokismo” ha, come ho sostenuto qui sopra,
i tratti di una religione estremista e radicale, ma è anche un fenomeno giovane a
sufficienza perché gli manchi quel lungo percorso evolutivo che lo porterebbe o
a estinguersi o a mitigarsi, a migliorare cioè la propria sostenibilità.
Religione
laica senza una storia alle spalle, il “woke” al momento ricorda per certi
aspetti quei meccanismi infernali di pensiero – la gara a chi è più puro, la
delazione come regola, l’idea di creare da zero un’umanità nuova – che hanno contraddistinto i
totalitarismi del Novecento.
In “Arcipelago Gulag” di Solgenitsin vediamo in atto
molti meccanismi simili a quelli implementati dal “wokismo” e della “cancel
culture”, con la principale differenza che a oggi mancano al “woke” gli esiti
violenti.
In compenso sono già in atto la spogliazione
delle persone dei loro diritti, della loro dignità professionale e la caduta
nell’ignominia e nell’impossibilità di svolgere il proprio mestiere per essersi
macchiati di quelli che sono sostanzialmente reati di pensiero.
Tutto questo è un attacco alle fondamenta della
società liberale occidentale, rispetto alla quale il diffondersi del “wokismo”
– con i suoi ricatti morali subdoli, la sua alleanza con le forze
produttive, la sua doppia morale – è una minaccia esistenziale con pochi precedenti, un ritorno al fascino antico della
tribù.
È difficile tuttavia che il “wokismo” duri a
lungo nel tempo, gli esiti più probabili sono la sua graduale estinzione o un
rafforzamento della sua egemonia culturale che molto probabilmente porterebbe, per effetto della sua elevata
tossicità, al definitivo tramonto dell’Occidente.
In entrambi i casi difficilmente potrà essere
un fenomeno duraturo nei termini in cui si presenta oggi: nessuna società può reggere una
deriva al contempo ultra-ideologica, anti-scientifica, anti-religiosa e
tribale; non le rimarrebbe niente su cui basarsi e finirebbe per mangiarsi da
sola.
La
prima opzione, l’estinzione del culto, è naturalmente quella che mi auguro, ma
in ogni caso non si tratterà di un processo rapido e perché accada sarà
necessario l’emergere di un nuovo sistema di senso che rinnovi le promesse
illuministiche non solo nelle menti ma anche nei cuori.
Un
compito che oggi appare di una difficoltà assoluta.
C’è,
insomma, più di qualche motivo per non prendere affatto alla leggera il dilemma dell’inginocchiamento e ce
ne sono di certamente validi per rifiutare l’equivalenza “anti-woke=razzista”.
Il più
delle volte è vero l’esatto contrario.
LIMITI
ALLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE.
Proversi.it
– Redazione – (30 -6 – 2022) – ci dice:
La
libertà di espressione sancisce il diritto di ogni cittadino a esprimere le
proprie convinzioni e idee.
Ma anche nelle democrazie in cui è
riconosciuta, la libertà di espressione presenta dei limiti giuridici, legati
alla morale pubblica, alla dignità della persona, all’ordine pubblico e alla
sicurezza.
È opportuno limitare la libertà di
espressione?
Se sì,
in che misura?
Esistono
TESI FAVOREVOLI e TESI CONTRARIE.
01 -
La libertà di espressione deve tenere conto della realtà umana e perciò deve
essere prudente.
La
libertà di espressione è sì un diritto, ma ha bisogno del limite della
prudenza, in virtù della convivenza umana.
A sostegno di un limite si è pronunciato, nel
2015, papa Francesco, riguardo alle vignette satiriche su Maometto e
sull’Islam, che avrebbero causato l’attacco terroristico di Parigi, alla sede
del giornale “Charlie Hebdo”.
Non si
può limitare la libertà di espressione, nemmeno a rischio di ferire convinzioni
religiose, morali e politiche altrui.
Tale
diritto dev’essere senza limitazioni, fatte salve le leggi a tutela della
dignità della persona, altrimenti si rischierebbe di legittimare forme di
censura.
Nel mondo intellettuale si critica molto
l’imposizione di tale limite, che svuoterebbe il diritto di significato.
02 -
Limitare la libertà di espressione non significa introdurre una censura
oscurantista, ma assumersi responsabilità politiche, spesso a difesa dei più
deboli.
Non vi
è nessuna libertà o diritto che possa essere inteso come illimitato, senza
considerare la possibile violazione di libertà e diritti altrui.
Oggi i media sono spesso così privi di
responsabilità morale che la libertà di stampa rischia di trasformarsi in uno
strapotere superiore ai poteri classici dello Stato di diritto: esecutivo,
legislativo e giudiziario.
La
rivendicazione della libertà d’espressione è sacrosanta.
Tutte
le opinioni meritano rispetto e pensare a società moderne che si prefiggano di
controllare tale libertà apre al rischio della “società della sorveglianza”.
Bisogna
avere consapevolezza del sottile confine che può esistere tra l’imposizione di
limiti alla libertà di espressione e il concedere spazio a forme di vera e
propria censura.
03 -
Non si processano mai le parole.
La
libertà di espressione, anche in democrazia, può avere dei limiti, come per i
cosiddetti reati di opinione (propaganda e apologia sovversiva, vilipendio
della Repubblica e delle istituzioni).
Laddove
la manifestazione di un’opinione risulta aggressiva dell’altrui sfera morale,
ovvero non rispettosa dei parametri costituzionali previsti da un ordinamento,
è giusto prevedere dei limiti.
Nell’ambito
dei limiti alla libertà di espressione, vi sono quelli posti a garanzia
dell’ordine pubblico, della sicurezza, dell’autorità giudiziaria e a difesa di
valori costituzionali.
A
fronte di chi sostiene che l’interesse dello Stato possa imporre dei limiti
alla libertà di parola, di dissenso e di critica, c’è chi ritiene che le parole non
possano mai essere processate.
Libertà
di espressione online:
quali
sono i limiti legali?
Dirittodellinformatica.it
– (8 gennaio 2022) – Avv. Giuseppe Croari – ci dice:
Libertà
di pensiero online.
La
manifestazione del pensiero per la Costituzione Italiana.
L’art.
21 Cost. è la norma costituzionale principe e di ampia portata che tutela la
libertà di manifestazione del pensiero, un principio cardine delle democrazie
di stampo occidentale, che ha visto i propri esordi – in termini di
riconoscimento – con la Rivoluzione Francese.
“Tutti
hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione” […].
I
limiti di portata generale a tale principio, impliciti ed espliciti, si possono
riassumere in:
buon
costume;
interessi
costituzionalmente rilevanti (a mero titolo esemplificativo, tutti i diritti che
appartengono alla sfera della personalità, come il diritto alla riservatezza,
alla onorabilità, alla dignità della persona);
ordine
pubblico;
tutela
del prestigio delle istituzioni pubbliche (tutela del prestigio del governo,
dell’ordine giudiziario e delle forze armate).
Come
si evince da questo sintetico quadro, i beni giuridici tutelati tramite la
limitazione dell’irrinunciabile diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero possiedono tutti un tenore pubblicistico:
è
difatti dall’esigenza di garantire un quieto e rispettoso vivere civile che
nasce il peso e contrappeso di limiti e garanzie dell’altresì detto “diritto di
parola”.
Tutela
della libertà d’espressione: CEDU E ICCPR.
Ampliando
l’orizzonte, anche CEDU e ICCPR, tutelano la libertà di espressione,
rispettivamente all’art. 10 e all’art. 19.
Secondo
il manuale “Libertà d’espressione diritto dei media e diffamazione” (Media Legal Defence Initiative,
Internationl Press Institute – ottobre 2016), i limiti alla libertà di espressione
desumibili a livello europeo si possono riassumere in:
protezione
dei diritti e le reputazioni altrui;
sicurezza
nazionale;
ordre
public (che
significa non solo ordine pubblico, ma anche benessere pubblico generale);
sanità
ed etica pubblica;
integrità
territoriale o pubblica sicurezza;
riservatezza
su informazioni confidenziali;
autorità
ed imparzialità della magistratura.
Si
evince, quindi, che la ratio di questi due articoli di poco o nulla si
allontana rispetto all’art. 21 della nostra Costituzione.
La
CEDU,
inoltre, indica che le limitazioni a questo diritto devono rispettare tre
requisiti:
ogni
limitazione deve essere prescritta dalla legge;
la
limitazione deve adattarsi a una delle ragioni stabilite nel testo sullo
strumento dei diritti dell’uomo;
la
limitazione deve essere necessaria al raggiungimento dello scopo prescritto.
I
requisiti di cui sopra sono la rappresentazione di uno dei capisaldi dello
Stato di Diritto, il bilanciamento della tutela e della limitazione di
qualsivoglia diritto, in ottica di ricerca di un’armonia tra bene pubblico e
bene privato.
Limiti
giuridici sulla libertà di espressione sui social network.
I
social network sono piattaforme gestite da privati, pertanto non ascrivibili a
canali di servizio pubblico, sebbene l’ampia portata degli stessi li definisca
nel concreto sempre più simili, nella sostanza, ai mass media.
Le
piattaforme social sottostanno a regole contrattuali che esulano dall’obbligo
di controlli preventivi.
Agli
stessi si applica la direttiva 2000/31/CE, recepita in Italia con il d.lgs. n.
70/2003.
I
limiti di diritto pubblico alla libertà di espressione (ordine pubblico, buon
costume ecc.…), valgono anche nei rapporti tra privati e, quindi, nel contesto
social?
Il
titolare della piattaforma può imporre regole più rigide che non lasciano
spazio all’anarchia nell’ambito del pluralismo interno che deve garantire una
piattaforma social?
Il
titolare della piattaforma può cancellare l’account di un utente?
A
livello europeo (ma non solo) il dibattito è aperto – amplificato anche sulla
scorta degli eventi oltreoceano che hanno visto protagonista l’ex presidente
americano Donald Trump – ma sembra convergere, sulla base di diverse iniziative, tra
cui il Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento
all’odio online, che un limite alla libertà di espressione sui social e di
conseguenza online tout court è l’incitamento all’odio.
A
questo si aggiungano i già citati limiti di portata generale.Sempre sulla scorta di una
riflessione sui social, che si è poi allargata al web in generale, in Europa è
stato adottato il Codice europeo sulla pratica della disinformazione, che si occupa
delle cd. fake news.
La
libertà di espressione online trova qui il limite nel:
diritto
all’informazione;
diritto
di cronaca.
I già
menzionati limiti si applicano sia se oggetto della manifestazione “illecita”
del pensiero è una persona fisica, sia se lo è un’entità astratta come un’idea,
una legge, un orientamento politico, una scoperta scientifica.
diffamazione
social.
Il
confine tra libertà di espressione online e i diritti della sfera individuale.
Parlando
ora direttamente di web in generale, se la manifestazione del pensiero si
riferisce ad una persona fisica identificata o identificabile, il discorso si
fa ancora più complesso.
Innanzitutto,
i limiti che subentrano in tal caso sono:
protezione
della reputazione altrui;
diritto
all’immagine;
diritto
alla riservatezza;
dignità
della persona umana.
A
tutela di questi ultimi vi è il reato di diffamazione, integrato quando
l’offesa è finalizzata alla portata conoscenza di un numero indeterminato di
persone.
Una
forma di diffamazione aggravata è quella che si realizza con il mezzo della
stampa, con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (materiale o digitale), o in
atto pubblico (comma 3).
Una
martellante campagna di diffamazione effettuata tramite web o social è stata
equiparata a mezzo di pubblicità; pertanto, la diffamazione online può
integrare la fattispecie aggravata.
(Cass.
pen., V sez., n. 7904/19; Cass. pen. sez. V, 13/07/2015, n. 8328; Tribunale
Pescara, 05/03/2018, n. 652).
Quando
la libertà di espressione si scontra con la concorrenza sleale.
Sempre
più frequenti sono i casi di pubblicizzazione via web di attività di tenore
economico o vere e proprie attività di impresa, il cui fatturato ha
prevalentemente origine online.
In tal
caso la libertà di espressione si sostanzia spesso in libertà di critica che,
nel concreto e nella maggioranza dei casi, interessa i competitor dei soggetti
“commentati”.
In tal
caso i limiti ampliano la loro portata e comprendono, oltre alla tutela
dell’immagine e della reputazione dell’influencer o dell’azienda – ovverosia i
diritti che appartengono alla sfera della personalità – tutti quei diritti che
sono in relazione con la libertà di iniziativa economica altrui.
Vengono
in tal caso in rilievo i seguenti:
diritto
di proprietà ed utilizzo esclusivo del proprio marchio e dominio internet;
divieto
di concorrenza sleale;
rispetto
del diritto d’autore;
divieto
di plagio;
divieto
di sfruttamento economico delle attività e dei contenuti di proprietà altrui;
rispetto
della libertà di iniziativa economica altrui e di esercizio dell’attività di
impresa.
IL
TECNOFEUDALESIMO CHE CI
RIMANDA
TUTTI NEL CINQUECENTO.
libertaeguistizia.it
– Fabrizio Tonello – (19 novembre 2022) – ci dice:
Benvenuti
nell’Europa del Cinquecento o, se volete, nella Russia del 1820.
Elon
Musk, impropriamente chiamato “visionario imprenditore” oltre che uomo più
ricco del mondo, è in realtà un tecno-feudatario, cioè qualcuno che fa ciò che
vuole grazie al potere del denaro e della tecnologia.
I miliardari di oggi sono spesso chiamati
“oligarchi “ma in realtà assomigliano di più al “duca di Guisa” nella Francia
del 1588, più potente dello stesso re, o al conte di Warwick che nel 1553 riuscì
a fare della nuora la regina d’Inghilterra (in entrambi i casi finirono male, ma
questo è un altro discorso).
Elon
Musk si è impadronito di Twitter un po’ per megalomania e un po’ per farne uno
strumento politico al servizio dell’estrema destra:
la prima cosa che ha fatto nei giorni scorsi è
stato licenziare l’intero gruppo responsabile del controllo dei messaggi
razzisti e delle incitazioni alla violenza.
Lo “Hate Speech” tornerà alla grande nelle
prossime settimane.
Ieri
ha annunciato licenziamenti di massa con una letterina in cui diceva che a
partire dalle 1 del mattino di oggi (ora italiana) i dipendenti che potevano
rimanere in servizio sarebbero stati avvertiti.
Nel
frattempo tutti i tesserini di accesso agli uffici dell’azienda sarebbero stati
disattivati.
Gi
ingegneri in carne ed ossa che hanno costruito la piattaforma sono stati
eliminati con un meccanismo simile alla compravendita delle “anime morte” nel
romanzo omonimo, ambientato nel 1820, ai tempi della servitù della gleba in Russia.
Il
protagonista di Gogol era però un piccolo truffatore mentre Elon Musk fa sul
serio.
Negli
Stati Uniti del 2022 è rinata una forma di servitù della gleba che, come ci
ricordano le enciclopedie, era una figura “a metà tra lo schiavo e l’uomo libero”.
Oggi
in California c’è la libertà di consumare (definita dal massimale della vostra
carta di credito) mentre quella di lavorare è legata al buon volere dei
tecno-feudatari e delle banche che li sostengono.
I
tecno-feudatari come “Elon Musk”, “Jeff Bezos”, “Bill Gates”, “i fratelli Koch”
sono più
potenti dei governi, com’è ovvio visto che il patrimonio personale di Musk è
superiore al prodotto interno lordo della Grecia, il patrimonio di Bezos è poco
meno del pil del Perù e occorrono un paio di dozzine di paesi africani per
mettere insieme quello di Bill Gates.
Negli
anni scorsi c’erano un buon numero di ricchi e potenti feudatari anche in
Russia ma ultimamente tendono ad avere un’aspettativa di vita piuttosto breve.
Il potere del denaro significa che perfino un “finto milionario come Trump” è riuscito fino ad ora a tenere a
bada quel governo degli Stati Uniti che aveva tentato di rovesciare con un
assalto al Congresso il 6 gennaio 2021.
Tutti
loro considerano le leggi un fastidioso impiccio da lasciar risolvere agli
avvocati
(Berlusconi lo faceva già nel 1990, quando Musk era una matricola in una
università canadese).
Hanno
ambizioni politiche talvolta palesi (i fratelli Koch, Rebeka Mercer e
Sheldon Adelson hanno praticamente inventato l’estrema destra americana con i
loro miliardi), talvolta nascoste (come Jeff Bezos e lo stesso Musk).
Benvenuti
nel tecno-feudalesimo, Anno Domini 2022.
(il
manifesto, 5 novembre 2022)
(ilmanifesto.it)
LA
LIBERTÀ DI PAROLA E
DI
ESPRESSIONE, UN BENE PER ADULTI.
Libertaegiusizia.it – Nadia Urbinati – (13 giugno
2021) – ci dice:
In una
libreria Feltrinelli, un lettore ha espresso la sua opinione politica mettendo
a testa in giù il libro di Giorgia Meloni, “Io sono Giorgia”, esposto in
vetrina.
L’immagine
è stata poi postata su Facebook e un docente di storia contemporanea che insegna
all’università Ca’ Foscari di Venezia l’ha condivisa sulla sua pagina Facebook
con il commento, «nelle librerie Feltrinelli può capitare».
Giornali
e siti di destra hanno accusato il professore di offendere la leader di
Fratelli d’Italia, associando il suo libro a testa in giù al corpo di Mussolini
esposto a testa in giù insieme a quello di Claretta Petacci a Piazzale Loreto.
L’associazione
tra fascismo e postfascismo non ha aperto alcuna discussione.
L’immagine
postata dal docente è stata invece usata per giustificare la richiesta di
provvedimenti disciplinari a suo carico.
Una
richiesta fuori luogo, ma che merita di essere esaminata per parlare del valore
e dei limiti della libertà di espressione, e perché consente di alzare il velo
sulla fedeltà della destra postfascista ai diritti di libertà, conquistati da
chi ha subito gli effetti della censura di regime.
Conquistati
per il bene di tutti, di chi milita a destra come di chi milita a sinistra o
non milita da nessuna parte.
Valore
della persona.
Perché
la nostra società è così pignola sulla libertà di espressione?
Lo è
per ragioni che solo in parte dipendono dal funzionamento del sistema politico.
Questa
libertà è incardinata sul valore della persona, della sua autonomia di pensiero
e di espressione.
La
stessa Meloni, liberista di fronte al virus e alla mascherina, dovrebbe fare un
passo oltre e dire a chi la critica: «rispetto il tuo pensiero e lotterò fino a quando
anche solo una persona è costretta a tacere le sue opinioni per non far torto a
qualcuno, magari potente».
Ma la
leader di Fratelli d’Italia non è ancora arrivata a fare questo passo liberale.
Non
sarà quindi inutile andare alle ragioni che giustificano la libertà di parola e
di espressione.
Una
prima ragione ce l’ha offerta John Stuart Mill:
perché
solo in questo modo possiamo partecipare alla ricerca della verità; senza
falsificazione o discussione pro e contro non solo la ricerca non potrebbe
procedere, ma perfino una verità conclamata ne risentirebbe.
L’obiezione
serve a tener allenato il cervello perché anche una verità condivisa può
diventare un dogma o un cieco atto di fede, se non discussa.
Si può
non essere d’accordo con Mill, ma è certo che in una società liberale lo stesso
liberalismo dovrebbe poter essere contestato.
Contesti
dunque la Meloni coloro che la criticano, coloro che nel nome del diritto di
parola tuonano contro il fascismo di ieri e di oggi, ma accetti la contesa.
Oppure
vuol godere di una speciale protezione in quanto esponente politico e per di
più in crescita di consensi?
Quindi, un argomento a favore della libertà di parola
è che essa tiene viva la dialettica e può essere usata da tutti.
Se solo alcuni la rivendicassero sarebbe un
privilegio.
Se anche la stragrande maggioranza degli italiani
fosse di destra, chi non condividesse questa idea o la condividesse a modo suo
(crediamo che i postfascisti non siano tutti identici) ha il diritto di dirlo
pubblicamente, e inoltre di associarsi con altri per rafforzare la propria
opinione.
Perché?
Perché
in democrazia ciascuna persona ha un valore irriducibile e perché la politica
vive di dissenso e competizione (non solo fino a quando si sta all’opposizione),
che servono a selezionare programmi e candidati e poi a chiedere conto agli
eletti e, se necessario, a mandarli a casa.
Infine:
la libertà di espressione non è parte del diritto di proprietà, ovvero mi
appartiene non perché le corde vocali sono mie.
Mi
appartiene perché usando tutti gli strumenti comunicativi che ho a disposizione
(anche le corde vocali) entro in contatto con gli altri.
Rivendicarla contro me stessa mentre sto a
casa mia non ha senso.
La
libertà di parola c’è (ed è sacrosanta) perché viviamo con gli altri.
Il
rapporto con gli altri.
Date
queste ragioni, qual è la differenza tra parole che vogliono indurre un’azione
(per esempio l’incitamento ad assaltare le persone di colore o gli
omosessuali), le azioni espressive (mettere a testa in giù il libro di Meloni)
e le azioni che possono essere espressive (incatenarsi a un albero in segno di
protesta)?
Benché
non sia un agire e non faccia male come un’azione – per esempio come un sasso o
un calcio – la parola detta in pubblico può avere un impatto sulle menti di chi
ascolta e anche tradursi in azione.
È però
rischioso associarla al danno, perché l’idea del danno ha una latitudine troppo
ampia e discrezionale (chi decide che cosa è un danno?).
Dobbiamo
quindi fare una distinzione tra le cose dette:
stanno
fuori dal principio della piena libertà di espressione quelle parole che
significano promessa, minaccia, menzogna, millantato credito, eccetera.
In questi casi la legge può intervenire e se
necessario reprimere.
Dei tre
casi sopra menzionati, le parole che vogliono indurre un’azione sono le sole a
essere giudicabili per il danno che possono arrecare.
Ma
solo se c’è un interesse evidente
. Se
possiedo un’azienda e commercio un prodotto attribuendogli effetti straordinari
che so che non ha, sono passibile di punizione.
Non lo
sono se non ho alcun interesse in quel prodotto e in effetti non so nulla di
quel che contiene anche se sostengo in pubblico che ha proprietà straordinarie.
I No-vax godono di piena libertà di parola.
Come
anche chi mette il libro della Meloni a testa in giù o chi commenta sui social.
Lo
spazio pubblico non è posseduto da qualcuno.
È un
bene comune perché un luogo dove esprimiamo le nostre idee politiche,
religiose, estetiche o morali sulle questioni che ci riguardano, ci interessano
o ci incuriosiscono.
Lo
spazio pubblico è un luogo nel quale si può chiedere di giustificare quel che
viene detto: perché il libro della Meloni è stato messo a testa in giù?
È
anche un luogo nel quale si può commentare un gesto espressivo e dire
apertamente, «io non lo farei» oppure «io lo farei».
Lo
spazio pubblico è un luogo che accoglie le opinioni le più diverse e scomode,
che celebra anzi la libertà quando, e proprio perché, le cose dette non ci
piacciono.
Pubblico
e privato.
Però,
però…
Quello
pubblico è uno spazio abitato da molti e diversi e, mentre in casa possiamo
gridare gli improperi che vogliamo contro i politici, in pubblico ci sono
regole di civiltà non imposte dalla legge e che dovremmo accettare.
Perché?
Perché
ciascuno possa godere della libertà di dire in pubblico quel che opina occorre
che l’espressione non ecceda certi limiti di stile e di forma.
Questi
limiti sono rubricabili nella categoria “virtù di civilità” per usare un’espressione di John Rawls, oppure in quella del dovere morale di
non
offendere, come scriveva Mill.
Si
tratta di regole di buon comportamento che non necessitano interventi
d’autorità;
e una
società è tanto più libera quanto più i suoi cittadini sanno parlare in
pubblico con civiltà.
Anche il forum immateriale del web è uno
spazio pubblico dove ognuno gode della libertà di parola e non deve essere
escluso senza una ragione comprovabile.
Irritare qualcuno per un’opinione non è
offendere o giustifica l’esclusione. Sostenere un’idea politica che può infastidire
chi la rappresenta o chi vi crede non può essere oggetto di punizione da parte
della legge o del pubblico.
Al
massimo può essere oggetto di critica.
Come nel caso dell’immagine del libro
rovesciato della Meloni:
chi l’ha postata ha esercitato il suo diritto
di espressione, e non può essere oggetto di repressione;
al
massimo può essere criticato, com’è avvenuto nei giornali e da parte di
esponenti politici di FdI.
Fino a
quando non si offende…come nel caso del professore di Siena che, qualche mese
fa, in una trasmissione radiofonica aveva usato aggettivi offensivi indirizzati
alla Meloni.
Ma parlare di fatti storici, interpretarli,
associarli, e rendere pubbliche queste opinioni non può assolutamente essere
fatto oggetto di coercizione o repressione. Neppure lo può il commento di
comportamenti e idee relativi a una persona pubblica.
La
libertà di parola e di espressione è a tutti gli effetti un bene per adulti.
Essa
tocca l’altrui e la propria sensibilità e muove le emozioni.
E
l’apprezziamo proprio per questo.
Ecco
le professioni che saranno
rottamate
da “ChatGpt”.
Report
Nyt.
Starmat.it
- Redazione Start Magazine – (2 Aprile 2023) – ci dice:
L’intelligenza
artificiale opera da anni sullo sfondo di molte aziende e molti progressi
tecnologici nel corso dei secoli hanno ridotto la necessità di alcuni
lavoratori, ma ogni volta i posti di lavoro creati hanno più che compensato il
numero di quelli persi.
Tuttavia,
con “ChatGpt” potrebbe essere diverso.
Ecco
perché e quali sono le professioni più a rischio.
L’articolo
del New York Times.
A
dicembre, lo staff dell’”American Writers and Artists Institute”, un’organizzazione di 26 anni che riunisce
i copywriter, si è reso conto che stava succedendo qualcosa di grosso.
Era
stata appena rilasciata l’ultima edizione di “ChatGPT”, un “modello linguistico
di grandi dimensioni” che analizza Internet per rispondere a domande ed
eseguire compiti a comando.
Le sue
capacità erano sorprendenti e rientravano perfettamente nel campo delle persone
che generano contenuti, come testi pubblicitari e post di blog, per vivere.
“Sono
inorriditi”, ha detto Rebecca Matter, presidente dell’istituto.
Durante
le vacanze, si è affrettata a organizzare un “webinar” sulle insidie e sul
potenziale della nuova tecnologia di intelligenza artificiale.
Più di
3.000 persone si sono iscritte, ha detto, e il messaggio generale è stato
cautelativo ma rassicurante:
gli
scrittori potrebbero usare “ChatGPT” per completare gli incarichi più
rapidamente e passare a ruoli di livello superiore nella pianificazione dei
contenuti e nell’ottimizzazione per i motori di ricerca.
“Penso
che ridurrà al minimo i progetti di copy di breve durata”, ha detto Matter.
“Ma
dal lato opposto, credo che ci saranno più opportunità per cose come la
strategia”.
Scrive
il New York Times.
ChatGPT
di “OpenAI” è l’ultima novità di una serie di innovazioni che hanno offerto il
potenziale di trasformare molte professioni e di eliminarne altre, a volte in
modo congiunto.
È
troppo presto per fare il conto degli abilitati e dei minacciati, o per
valutare l’impatto complessivo sulla domanda di lavoro e sulla produttività.
Ma sembra chiaro che l’intelligenza
artificiale influirà sul lavoro in modi diversi rispetto alle precedenti ondate
tecnologiche.
La
visione positiva di strumenti come “ChatGPT” è che potrebbero essere
complementari al lavoro umano, piuttosto che sostituirlo. Non tutti i lavoratori, tuttavia,
sono ottimisti riguardo all’impatto futuro.
Katie
Brown si
occupa di sovvenzioni nella periferia di Chicago per un piccolo gruppo non
profit contro la violenza domestica.
All’inizio di febbraio è rimasta scioccata
nell’apprendere che un’associazione professionale di redattori come lei stava
promuovendo l’uso di un software di intelligenza artificiale che avrebbe
completato automaticamente alcune parti di una domanda, richiedendo all’uomo
solo di rifinirla prima di inviarla.
La
piattaforma, chiamata “Grantable”, si basa sulla stessa tecnologia di “ChatGPT”
e si rivolge a liberi professionisti che si fanno pagare a domanda. Questo, a suo avviso, minaccia
chiaramente le opportunità del settore.
L’intelligenza
artificiale e l’apprendimento automatico operano da anni sullo sfondo di molte
aziende, aiutando ad esempio a valutare un gran numero di possibili decisioni e
ad allineare meglio l’offerta alla domanda.
E molti progressi tecnologici nel corso dei secoli
hanno ridotto la necessità di alcuni lavoratori, anche se ogni volta i posti di
lavoro creati hanno più che compensato il numero di quelli persi.
“ChatGPT”,
tuttavia, è il primo a confrontarsi direttamente con un’ampia gamma di
lavoratori dipendenti e a essere così accessibile da poter essere utilizzato
nel proprio lavoro.
E sta migliorando rapidamente, con una nuova edizione
rilasciata questo mese.
Secondo
un sondaggio condotto dal sito di ricerca di lavoro “ZipRecruiter “dopo
l’uscita di” ChatGPT,” il 62% delle persone in cerca di lavoro ha dichiarato di
essere preoccupato che l’intelligenza artificiale possa far deragliare le loro
carriere.
“ChatGPT
è quello che ha reso più visibile il problema”, ha detto Michael Chui, partner
del McKinsey Global Institute che studia gli effetti dell’automazione.
“Quindi penso che abbia iniziato a sollevare domande
su dove le tempistiche potrebbero iniziare a essere accelerate”.
Questa
è anche la conclusione di un rapporto della Casa Bianca sulle implicazioni
della tecnologia “A.I”., compreso” ChatGPT”.
“Il rischio principale dell’A.I. per la forza
lavoro è rappresentato dall’interruzione generale che probabilmente causerà ai
lavoratori, sia che scoprano che il loro lavoro è stato automatizzato di
recente, sia che la struttura del loro lavoro è cambiata radicalmente”, hanno
scritto gli autori.
Per il
momento, “Guillermo Rubio” ha scoperto che il suo lavoro di copywriter è
cambiato notevolmente da quando ha iniziato a usare “ChatGPT “per generare idee
per i post del blog, scrivere le prime bozze delle newsletter, creare centinaia
di piccole variazioni sui testi pubblicitari e riassumere le ricerche su un
argomento su cui potrebbe scrivere un” white paper”.
Dal
momento che continua a chiedere ai suoi clienti le stesse tariffe, lo strumento
gli ha semplicemente permesso di lavorare meno.
Tuttavia,
se il prezzo della copy dovesse diminuire, come potrebbe accadere con il
miglioramento della tecnologia, è sicuro di poter passare alla consulenza sulla
strategia dei contenuti, oltre che alla produzione.
“Credo
che le persone siano più riluttanti e timorose, e a ragione”, ha detto Rubio,
che vive a Orange County, in California.
“Si può vedere la cosa sotto una luce
negativa, oppure abbracciarla.
Penso
che la cosa più importante da fare è essere adattabili. Bisogna essere aperti
ad accoglierlo”.
Dopo
decenni di studi, i ricercatori hanno capito molto dell’impatto
dell’automazione sulla forza lavoro.
Economisti
come “Daron Acemoglu” del Massachusetts Institute of Technology hanno scoperto
che dal 1980 la tecnologia ha svolto un ruolo primario nell’amplificare la
disuguaglianza di reddito.
Mentre i sindacati si sono atrofizzati, svuotando i sistemi di formazione e
riqualificazione, i lavoratori senza istruzione universitaria hanno visto ridursi il loro potere
contrattuale di fronte a macchine in grado di svolgere compiti rudimentali.
L’avvento
di” ChatGPT” tre mesi fa, tuttavia, ha suscitato una raffica di studi
basati sull’idea che non si tratta di un robot qualunque.
Un
gruppo di ricercatori ha condotto un’analisi che mostra i settori e le professioni più
esposti all’intelligenza artificiale, sulla base di un modello adattato
agli strumenti di linguaggio generativo.
In
cima alla lista ci sono i professori universitari di materie umanistiche, i fornitori
di servizi legali, gli agenti assicurativi e gli addetti al telemarketing.
La
mera esposizione, tuttavia, non determina se la tecnologia sia destinata a
sostituire i lavoratori o semplicemente ad aumentare le loro competenze.
Shakked
Noy e Whitney Zhang, dottorandi del MIT, hanno condotto uno studio
randomizzato e controllato su professionisti esperti in settori quali le
relazioni umane e il marketing.
Ai
partecipanti sono stati assegnati compiti che di solito richiedono 20-30
minuti, come la stesura di comunicati stampa e brevi relazioni.
Coloro
che hanno utilizzato “ChatGPT” hanno completato i compiti in media il 37% più
velocemente di coloro che non l’hanno fatto, con un notevole aumento della
produttività.
Inoltre,
hanno registrato un aumento del 20% della soddisfazione sul lavoro.
Un
terzo studio – che utilizza un programma sviluppato da “GitHub”, di proprietà
di “Microsoft” – ha valutato l’impatto dell’IA generativa in particolare sugli
sviluppatori di software.
In una prova condotta dai ricercatori di “GitHub”, gli
sviluppatori a cui è stato affidato un compito di base e che sono stati
incoraggiati a usare il programma, chiamato “Copilot”, hanno completato il loro
compito il 55% più velocemente di quelli che hanno svolto il compito
manualmente.
Questi
aumenti di produttività non sono paragonabili a quelli osservati dall’adozione
diffusa del personal computer.
“Sembra
che stia facendo qualcosa di fondamentalmente diverso”, ha detto David Autor,
un altro economista del MIT, consulente di Zhang e Noy.
“Prima i computer erano potenti, ma facevano
semplicemente e roboticamente quello che la gente li programmava a fare”.
L’intelligenza
artificiale generativa, invece, è “adattiva, impara ed è in grado di risolvere
i problemi in modo flessibile”.
Questo
è molto evidente a “Peter Dolkens”, sviluppatore di software per un’azienda che
produce principalmente strumenti online per l’industria dello sport.
Ha
integrato” ChatGPT “nel suo lavoro per svolgere compiti come riassumere parti
di codice per aiutare i colleghi che potrebbero prendere in mano il progetto
dopo di lui e proporre soluzioni ai problemi che lo lasciano perplesso.
Se la
risposta non è perfetta, chiede a “ChatGPT “di perfezionarla o di provare
qualcosa di diverso.
“È
l’equivalente di uno stagista molto preparato”, ha detto Dolkens, che si trova
a Londra.
“Magari
non hanno l’esperienza per sapere come applicarlo, ma conoscono tutte le
parole, hanno letto tutti i libri e sono in grado di arrivare in parte a
destinazione”.
C’è un
altro risultato della ricerca iniziale:
”
ChatGPT” e “Copilot” hanno elevato maggiormente i lavoratori meno esperti. Se
fosse vero, in generale, questo potrebbe attenuare gli effetti di
disuguaglianza dell’intelligenza artificiale.
D’altra
parte, se ogni lavoratore diventa più produttivo, è necessario un numero minore
di lavoratori per completare una serie di compiti.
Il fatto che ciò si traduca in una riduzione
dei posti di lavoro in particolari settori dipende dalla domanda del servizio
fornito e dai posti di lavoro che potrebbero essere creati per aiutare a
gestire e dirigere l’”I.A”.
Il “Prompt engineering”, ad esempio, è già un’abilità
che coloro che giocano con “ChatGPT “abbastanza a lungo possono aggiungere al
loro curriculum.
Poiché
la domanda di codice software sembra insaziabile e gli stipendi degli
sviluppatori sono estremamente elevati, è improbabile che l’aumento della
produttività precluda le opportunità di ingresso nel settore.
Tuttavia,
non sarà così per tutte le professioni, e “Dominic Russo” è abbastanza sicuro
che non sarà così per la sua:
scrivere appelli ai gestori di farmacie e alle
compagnie di assicurazione quando rifiutano le prescrizioni di farmaci costosi.
Fa
questo lavoro da circa sette anni e ha costruito la sua esperienza solo con una
formazione sul campo, dopo aver studiato giornalismo all’università.
Dopo
la nascita di “ChatGPT”, gli ha chiesto di scrivere un appello per conto di una
persona affetta da psoriasi che voleva il costoso farmaco “Otezla”.
Il
risultato è stato abbastanza buono da richiedere solo poche modifiche prima di
essere inviato.
“Se si
sa cosa chiedere all’IA, chiunque può fare il lavoro”, ha detto Russo.
“È
questo che mi spaventa davvero. Perché una farmacia dovrebbe pagarmi 70.000 dollari
all’anno, quando può concedere in licenza la tecnologia e pagare le persone 12
dollari all’ora per eseguire le richieste?”.
Per
cercare di proteggersi da questo possibile futuro, Russo si è dedicato a
un’attività secondaria:
vendere
pizze dalla sua casa nel sud del New Jersey, un’attività che, secondo lui, non
sarà interrotta dall’intelligenza artificiale.
Non
sai nulla e ciò che
credi
di sapere è falso.
Area-cr4.it
– Redazione- (20-3-2023) – ci dice:
La
storia segreta e il Nuovo Ordine Mondiale.
(…)
"Il
mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che fanno
produrre gli avvenimenti; un gruppo un po’ più importante che veglia alla loro
esecuzione e assiste al loro compimento, e infine una vasta maggioranza che
giammai saprà ciò che in realtà è accaduto".
Così
si espresse Nicholas Murray Butler. Giova ricordare chi era questo personaggio.
Il Dr.
Nicholas Murray Butler è stato presidente dell’Università di Columbia,
presidente della Carnegie Endwment for International Peace, membro fondatore,
presidente della Pilgrims Society e membro del Council on Foreign Relations
(CFR) e capo del British Israel.
Taluni autori denunciano, sempre con maggiore
insistenza, che è in atto una cospirazione super politica,
"religiosa" o satanica che coinvolge l’alta finanza, le massonerie e
l’integralismo islamico.
I fili
della storia, asseriscono questi studiosi, si tirano proprio nelle logge
massoniche e nei consigli di amministrazione delle multinazionali e delle
grandi banche.
La
Rivoluzione francese fu una congiura massonica, preparata da "società di
pensiero" – uguali a quelle studiate da Augustin Cochin (1876-1916) – e da
altri gruppi di pressione.
La
Rivoluzione bolscevica fu una congiura giudaico-massonica.
Diversi storici sono convinti di questo. Lo
stesso "Times" (10 marzo 1920) confermò il complotto:
"Si può considerare ormai come accettato
che la rivoluzione bolscevica del 1917 è stata finanziata e sostenuta
principalmente dall’alta finanza ebraica attraverso la Svezia: ciò non è che un
aspetto della messa in atto del complotto del 1773".
Estrema
importanza assume, sempre al riguardo della rivoluzione russa del febbraio del
1917, il fatto che, non affatto casualmente, il governo fosse costituito
principalmente da massoni, tra questi risaltava Kerensky.
È anche rivelatore il libro "Rossija nakanune revoljucii" di Grigorij Aronson, che fu
pubblicato nel 1962 a New York e che riporta delle missive di E. D. Kuskova,
moglie del massone Prokopovic, legato da grande amicizia al confratello
Kerensky.
In una
di queste lettere, datata 15 novembre 1955, si legge: "Avevamo la ‘nostra’
gente dappertutto. Fino a questo momento il segreto di questa organizzazione
non è stato mai divulgato, eppure l’organizzazione era enorme.
Al
tempo della rivoluzione di febbraio tutta la Russia era coperta da una rete di
logge".
L’iniziato
Jean Marques-Rivière scrisse: "L’esoterismo, con la sua forza sul piano
ideologico, guida il mondo".
Non bisogna stupirsene. È innegabile il
diffondersi, nelle maglie della nostra società, di una subdola propagazione di
idee, combattute con inflessibilità dalla Chiesa, ma non estirpate del
tutto,che ora godono di un pericoloso risveglio e diffusione.
È una
letteratura imponente quella dei cosiddetti cospirazionisti, disprezzata dagli
storici ufficiali, che, invece, non obiettano quando la stessa metodologia
viene adottata dalla sinistra e dall’estrema sinistra, vedi "golpe De
Lorenzo", "strategia della tensione", ecc. che non sono altro
che capitoli di una teoria della cospirazione, che nega di esserlo.
Il
lato occulto della storia contemporanea è complesso e, oltremodo, variegato. Insospettabili VIP
del
mondo che conta sono affiliati ad oscuri ordini esoterici.
L’ex
presidente americano George Bush è un 33° grado della Massoneria di Rito
Scozzese, lo ha rivelato Giuliano Di Bernardo, Gran Maestro della Massoneria
italiana, al quotidiano "La Stampa" (23 marzo 1990).
Bush
sarebbe stato iniziato, nel 1943, alla setta "Skull and Bones" (Teschio e Ossa)
dell’Università di Yale, fondata nel 1832.
George
Bush ha diretto anche la Cia.
La
Skull and Bones assieme a società come il Rhodes Trust, secondo l’autorevole
rivista inglese "Economist" (25 dicembre 1992), sono la moderna
risorgenza
degli "Illuminati di Baviera" di Jean Adam Weisshaupt (1748-1830).
Anche
suo padre Prescott sarebbe stato membro della setta "Skull and
Bones".
Di
essa farebbero parte le più potenti famiglie degli Stati Uniti.
Tra
queste vale la pena di menzionare "la famiglia Harriman, della Morgan
Guaranty Trust, è Skull and Bones da generazioni.
Petrolio:
ci sono i Rockefeller, fra gli iniziati. Studi legali di grido. Poltrone alte
della Cia. Vicepresidenza
degli Stati Uniti".
È
anche molto interessante venire a sapere che, secondo quanto scrive lo storico
Antony C. Sutton in "America’s Secret Establishment" (liberty House
Press. Bilings 1986, pagg. 207 e segg.), la "Skull and Bones" è
collegata al movimento New Age e ad essa,asserisce ancora Sutton, non sono
estranei aspetti satanisti.
Marylin
Ferguson nel suo libro "The Aquarian Conspiracy", una vera e propria
Bibbia del movimento New Age, mette assieme Huxley con Teilhard de Chardin,
Carl Gustav Jung, Maslow, Carl Rogers, Roberto Assagioli, Krishnamurti,
ecc.
tra i personaggi, che sono da considerare come padri spirituali del New Age.
Aldous Huxley e suo fratello Julian,
quest’ultimo fu il primo dirigente dell’U.N.E.S.C.O., erano anche membri di importanti
affiliazioni mondialiste, tra queste ricordo l’anglosassone Fabian Society.
Sui
vertici del mondialismo, René Guenon, che era un 33° grado del Rito Scozzese
Antico Accettato e un 90° del Rito Egiziano di Memphis-Misraim, ebbe ad
affermare: "…ma dietro tutti questi movimenti non potrebbe esserci
qualcosa di altrimenti temibile, che forse neanche i loro stessi capi conoscono,
e di cui essi a loro volta quindi, non sono che dei semplici strumenti?
Noi ci
accontenteremo di porre questa domanda senza cercare di risolverla qui"
(cit. da "Il Teosofismo", edizioni Arktos, 1987, vol. II, pag. 297).
Ritornando
alla "Skull and Bones" la sua importanza può essere ben compresa se
si riflette che, nel 1917, essa diresse, tra l’altro, quel centro finanziario
denominato "120 Brodway", finanziatore del bolscevismo in Russia e
del nazismo in Germania che, tra l’altro, portò al potere.
Non ci
si meravigli se, a questi livelli, parole come "destra e sinistra"
non hanno più significato, più esattamente, non si bada a razze, religioni o
ideologie: questi sono solo mezzi da utilizzare per raggiungere il fine ultimo,
su scala mondiale, con l’antica strategia del "divide et impera".
E, a
questo punto, non meraviglia venire a conoscenza delle trattative segrete
intercorse tra George Bush ed alte personalità del governo dell’Iran, che poi
hanno portato allo scandalo dell’Irangate.
Gli
accordi furono resi possibili da Khomeini e dal suo entourage, comprendente
buona parte dei suoi ministri, il capo della polizia, il comandante
dell’esercito, il procuratore generale del tribunale islamico, il capo della
polizia segreta, ecc., sono, o sono stati, affiliati alla Grande Loggia
dell’Iran, che è sottoposta alla dipendenza della Gran Loggia d’Inghilterra. È poi noto che l’ex presidente
George
Bush è esponente di rilievo della sinarchia internazionale, figura di spicco
del C.F.R, della Trilaterale, della potente Pilgrims Society oltre che della
Skull and Bones.
È
anche interessante accennare ad un articolo, firmato M. Dornbierer, apparso, il
29 gennaio 1991, sul giornale messicano "Excelsior" che spiegava lo
"smisurato sionismo" di Bush documentando la sua origine ebraica
secondo quanto indicato nell’Enciclopedia ebraica castigliana.
Bush è inoltre un W.A.S.P. (White Anglo-Saxon
Protestant), ovvero un americano convinto che la sua origine razziale e le sue
convinzioni religiose lo pongano al di sopra degli altri uomini.
Scrive
Blondet che "secondo Sutton, lo storico della Skull and Bones, la stessa
locuzione ‘Nuovo Ordine Mondiale’ descrive il fine ultimo che gli affiliati
alla società segreta di Yale s’impegnano a perseguire.
A questo i membri dell’Ordine s’impegnerebbero a
giungere attraverso la gestione di conflitti artificialmente generati, come
quello tra nazismo e comunismo.
Per
Sutton, questa filosofia segreta dell’Ordine rivelerebbe la sua origine tedesca
(che Sutton ritiene di poter provare): gli iniziati sarebbero dei tardi seguaci
di Hegel, votati a far progredire il mondo attraverso opposizioni, tesi e antitesi,
per poi comporle in una sintesi superiore.
L’ipotesi, affascinante, può essere superflua.
A noi
sembra sufficiente evocare uno dei motti, delle insegne della Massoneria, che
suona: Ordo ab Chao, l’Ordine (nasce) dal Caos".
L’idea del "Nuovo Ordine del Mondo" è
perseguita con accanimento del presidente Bill Clinton,scrive Epiphanius: "la sua
educazione l’ha ricevuta nella britannica Oxford, dove venne ammesso nel super
elitario ‘Rhodes Group’, una società superiore dell’area del POTERE affine alla
‘Skull and Bones", come scrisse l’’Economist’ inglese nel suo numero del
25 dicembre 1992.
L’’Economist’ elencava una decina delle maggiori
‘società d’influenza’ del mondo occidentale rivelando la loro comune
derivazione dall’Ordine degli Illuminati di Weisshaupt fondato nel 1776.
Clinton appartiene anche al C.F.R., alla
Commissione Trilaterale e al Bilderberg…". Clinton ha portato con sé Les
Aspin (CFR) che, tra l’altro, ha firmato la "Dichiarazione di
Interdipendenza", che è, in sostanza, - una mozione del Congresso che nel
1962, proponeva di cancellare dalla Costituzione ogni dichiarazione di
sovranità nazionale, in quanto ostacolo all’instaurazione di un ‘Nuovo Ordine
Mondiale’".
"Il
Rhodes Group – ci fa sapere ancora Epiphanius, del suo "Massoneria e sette
segrete" (cit.) – nacque nel 1891 per iniziativa di Lord Cecil Rhodes,
ricchissimo personaggio legato ai Rothschild, assieme a Lord Milner, Lord Isher,
Lord Balfour e un Rothschild, intorno all’idea-guida di organizzare una
federazione mondiale di cui U.S.A. e Impero britannico sarebbero stati il
centro propulsore.
Il
mezzo per attuarla consisteva in una selezione elitaria dei quadri protagonisti
degli ambienti universitari, politici, finanziari. Attorno a questo nucleo
iniziale permeato delle idee mondialiste e socialiste della Fabian Society,
sorsero i gruppi della Round Table che a loro volta, nel 1919, diedero vita ai
due odierni pilastri del potere mondialista, cioè gli Istituti Affari
Internazionali britannico (R.I.I.A.) e americano (C.F.R.).
Il Rhodes Group, al pari della Skull and
Bones, controlla il C.F.R., (che a sua volta controlla la Trilaterale), il
governo-ombra americano il cui comitato direttivo
annovera
personaggi in grado di gestire bilanci superiori a quello annuale lordo
americano".
Ritornando
al progetto del Nuovo Ordine Mondiale, già il 17 febbraio del 1950 il banchiere
James Warburg, alla Commissione Esteri del Senato, era stato fin troppo chiaro
quando aveva affermato:
"Che
vi piaccia o no, avremo un governo mondiale, o col consenso o con la forza".
Anche
con le stragi.
Il
Palazzo Federale "Alfred P. Murrah" ad Oklahoma, U.S.A., viene fatto
saltare in aria da una tremenda esplosione, il 19 aprile del 1995. Le vittime
furono 168. Furono sospettate dell’attentato e arrestate tre persone: Timothy
McVeigh, Terry Nichols e James Nichols.
L’FBI
ha iniziato "col dichiarare che il meccanismo esplosivo era un’auto-bomba
imbottita di 1.000 libbre di esplosivo. Poi era un’auto con 1.400 libbre. In
seguito si trattava di un camion con 4.000 libbre. Adesso è un furgone per
traslochi con 5.000 libbre di esplosivo".
Ted
Gunderson, ex dirigente dell’FBI, al contrario di quanto vuol far credere il
Dipartimento di Giustizia Americano e cioè che si è trattato di "una
singola semplice bomba fertilizzante", ha affermato che: "la bomba
era un congegno elettro idrodinamico a combustibile gassoso (bomba barometrica),
che non è possibile sia stata costruita da McVeigh... la bomba utilizzata era
un sofisticato congegno A-neutronico, usato dall’esercito americano...".
Sam
Cohen, padre della bomba neutronica, il 28 giugno dello stesso anno, al
telegiornale della KFOR-TV ha dichiarato:
"Non mi interessa quanto fertilizzante e
gasolio hanno usato, non sarebbe mai stato sufficiente. Cariche di demolizione,
piazzate sulle colonne chiave, hanno fatto lo sporco lavoro".
Antefatto:
non è stato molto pubblicizzato che, "il 28 marzo 1994, l’Assemblea
Legislativa dello Stato dell’Oklahoma passò una risoluzione che colpiva quello
che veniva percepito come un programma di governo mondiale. Fu il primo e forse
il solo Stato ad approvare tale legislazione".
Di
seguito riporto alcuni estratti relativi alla decisione dell’Assemblea
Legislativa dell’Oklahoma:
"Risoluzione
N. 1047: Una risoluzione in relazione alle forze militari degli Stati Uniti e
alle Nazioni Unite; si presenta una petizione al Congresso affinché cessi determinate
attività concernenti le Nazioni Unite... Considerato che non c’è appoggio
popolare per l’instaurazione di un "nuovo ordine mondiale" o di una
sovranità mondiale di qualsiasi tipo, sia sotto le Nazioni Unite o sotto
qualsivoglia
organismo
mondiale in qualsiasi forma di governo globale…;
Considerato
che un governo globale significherebbe la distruzione della nostra Costituzione
e la corruzione dello spirito della Dichiarazione di Indipendenza della nostra
libertà e del nostro sistema di vita. ...sia deliberato dalla Camera dei
Rappresentanti della seconda Sessione della 44ma legislatura dell’Oklaoma:
Che al
Congresso degli Stati Uniti sia con la presente rammentato di: (...). Cessare
ogni supporto per l’instaurazione di un "nuovo ordine mondiale" o
qualsiasi altra forma di governo globale.
Che al
Congresso degli Stati Uniti è con la presente rammentato di astenersi dal
prendere qualsiasi ulteriore iniziativa verso la fusione economica o politica
degli Stati Uniti in un organismo mondiale o qualsiasi altra forma di governo
mondiale.
(Fonte: Newsgroup alt. conspiracy, via Pegasus
computer networks, Australia)".
Cosa
dire di questi fatti?
Quale
oligarchia misteriosa dirige, in segreto, i vari governi delle nazioni?
Lascio
al lettore il compito di arrivare a delle conclusioni.
Alla luce di certi accadimenti i governi, la
politica e gli stessi politici assumono contorni sbiaditi, sfumati. Misteri che
travasano nella storia altri misteri frammisti a bugie.
Pochissimi,
forse, sanno che "Il fascismo non è nato in Italia e in Germania. Ebbe la
sua prima manifestazione in Russia, col movimento dei ‘Cento Neri’, completo già all’inizio del ‘900
nelle sue azioni e nei suoi simboli: la violenza politica, l’antisemitismo
feroce, i neri stendardi col teschio".
Chi
tira i fili della storia?
Ricercare
certe dinamiche è cosa ardua specie quando riguarda la sfera
politica
e ciò che sembra del tutto casuale, in molti casi, sono state attentamente
preparate.
Franklin Delano Roosvelt, presidente americano
e 33° del Rito Scozzese, nonché appartenente alla Pilgrim Society e al C.F.R.,
il governo-ombra americano, affermò: "In politica nulla accade a caso.
Ogni qualvolta sopravviene un avvenimento si può star certi che esso era stato
previsto per svolgersi in quel modo".
Quindi
una oscura oligarchia, tira le fila di fantocci, solo apparentemente, alla
ribalta della scena politica.
Aveva ragione Benjiamin Disraeli, statista
inglese del secolo scorso, quando
disse:
"Il
mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti da coloro i quali
non sanno guardare dietro le quinte".
Neppure
i partiti contano poi molto. Essi stessi sono a loro volta
manovrati,
usati, in relazione a degli scopi precisi.
René
Guenon ci informa, nel suo articolo "Réflexions à popos du pouvoir
occulte"
pubblicato, con lo pseudonimo di “Le Sphinx”, sul numero dell’11 giugno 1914,
pag. 277, della rivista cattolica "France Antimaconnique", che "Un potere occulto di ordine
politico e finanziario non dovrà essere confuso con un potere occulto di ordine
puramente iniziatico…
Un
altro punto da tenere presente è che i “Superiori Incogniti”, di qualunque
ordine siano e qualunque sia il campo in cui vogliono agire, non cercano mai di
creare dei ‘movimenti’.
Essi
creano solo degli stati d’animo (état d’esprit), ciò che è molto più efficace,
ma, forse, un poco meno alla portata di chiunque.
È incontestabile che la mentalità degli
individui e delle collettività può essere modificata da un insieme sistematico
di suggestioni appropriate; in fondo, l’educazione stessa non è altro che questo,
e non c’è qui nessun ‘occultismo’.
Uno stato d’animo determinato richiede, per
stabilirsi, condizioni favorevoli, e occorre o approfittare di queste
condizioni se esistono, o provocarne la realizzazione".
Al
riguardo dei movimenti rivoluzionari sempre il Guénon, nel suo libro
"L’Esoterismo di Dante" (Ediz, Atanòr, Roma 1971), spiega: "...tali movimenti sono talvolta
suscitati o guidati, invisibilmente, da potenti organizzazioni iniziatiche,
possiamo dire che queste li dominano senza mescolarvisi, in modo da esercitare
la loro influenza, egualmente, su ciascuno dei partiti contrari".
Sul
fenomeno del terrorismo delle Brigate Rosse e su quello di estrema destra, il
giudice Pietro Calogero, uno dei magistrati che più ha studiato il problema,
ammetteva l’esistenza di: "una rete di collegamenti che si raccoglie
intorno a un centro di interesse unitario, che permette ai due terrorismi di
procedere insieme nell’assalto dello Stato".
Quali
misteriosi personaggi si celano dietro le quinte dei vari governi?
Serge
Hutin racconta, a tal proposito, quanto accadde ad uno scrittore inglese che
sotto lo pseudonimo di “Robert Payne” pubblicò a Londra, nel 1951, un’opera intitolata "Zero. The story of terrorism".
Payne
cercò di dimostrare che la strategia del terrore ha abili registi dietro le
quinte dei governi apparenti.
All’uscita
della pubblicazione si verificarono tutta una serie di "coincidenze"
molto strane. Tutte le copie del libro furono acquistate da misteriosi personaggi prima
ancora che venisse messo in vendita.
I giornali ignorarono l’opera nonostante il
carattere sensazionale delle rivelazioni in essa contenute.
La
casa editrice Wingate, una delle più importanti di Londra fallì improvvisamente.
Robert
Payne morì qualche mese dopo in circostanze a dir poco misteriose.
Hutin
osserva "La
sola spiegazione possibile era che l’autore avesse scoperto l’esistenza, a
livello mondiale, di governanti occulti...".
La
domanda che ora si pone è: come si procederà alla frantumazione degli Stati per la
realizzazione del Governo Mondiale?
Scrive
Blondet: "Michel Albert è un grand commis della politica
sovrannazionale...
oggi presidente delle” Assurances Générales de France”, una delle grandi entità
finanziarie che hanno promosso il Mercato Unico Europeo.
Nel 1989, Albert ha pubblicato un saggio, subito
tradotto in Italia dall’editrice il Mulino con il titolo: “Crisi, Disastro, Miracolo”.
Il
libro contiene una prognosi sulla fine degli Stati nazionali che rivela
un’analisi sicuramente elaborata negli uffici-studi della Trilaterale, e un progetto di ingegneria
sociale. …
"L’Europa
‘92 lancia il Mercato Unico all’assalto degli Stati nazionali. Li
smantellerà".
Come?
Con "l’anarchia
che risulterà" da "un mercato libero e senza frontiere in una società
plurinazionale che non riesce a prendere decisioni comuni".
A
questo "disastro" pianificato, l’oligarchia spera seguirà il
"miracolo": gli Stati nazionali devastati invocheranno "una
moneta comune, una Banca centrale europea e un bilancio comunitario".
Il
programma, tuttavia, era già chiaro nel lontano 1957:
"Creare
un mercato monetario e finanziario europeo, con una Banca europea il libero
flusso dei capitali tra i paesi membri e, infine, una politica finanziaria
centralizzata".
L’attuazione
del programma per insediare un "Nuovo Ordine Mondiale"
collegato
al movimento "New Age" (di cui parlo più diffusamente nel mio saggio "Il
serpente e l’arcobaleno", Ediz. "Segno" di Udine), o chiamata anche "Nuova
Era", "Età dell’Aquario" o Era del "Condor", come
dicono gli studiosi delle civiltà pre-colombiane, si articola in più strategie
per realizzare questa grande utopia della parodia del “Romanum Imperium”.
Fantapolitica
e tendenza al complottismo?
Tutt’altro. Ecco due esempi italiani. Leggete cosa la rivista
americana "Eir" scriveva: "Il 2 aprile 1993... il
capogruppo Dc alla Camera, Gerardo Bianco, e il suo collega al Senato, Gabriele
De Rosa, presentano un esposto alla procura di Roma, chiedendo di appurare se
c’è una cospirazione politica per distruggere l’ordine costituzionale italiano.
Gli
scandali rappresentano un tentativo da parte delle forze Anglo-Americane,
segnatamente la” Fra Massoneria”, di orchestrare una generale destabilizzazione
della nazione italiana per distruggere il sistema politico esistente e
insediare un nuovo ordine, a loro più gradito".
Ai
cronisti, che chiedevano a Mancino cosa c’è dietro le stragi italiane, lui
rispose: "Non
escludo un ruolo della finanza internazionale".
Strategie
occulte della “secret fraternity bancaria internazionale”.
David
Rockefeller "credendo di parlare a orecchie fidate, nel ‘91... ha ammesso:
1) che
una cospirazione esiste ‘da quaranta anni’;
2) che
essa ha lo scopo di instaurare nel segreto ‘un governo mondiale’ e ‘la
sovranità nazionale’ dei
banchieri;
3) che
il nemico dei cospiratori è ‘l’autodeterminazione nazionale’".
Nel
frattempo, si verificano nel mondo barbarie, solo apparentemente, prive di
sottile regia, occulta naturalmente.
Ed è
interessante apprendere quanto il misterioso personaggio "esperto di un
genere assai speciale", che fa da sfondo al tema trattato da Blondet ne "Gli "Adelphi" della
dissoluzione, in una lettera indirizzata allo scrittore suggerisce:
"Può
anche darsi che il Nuovo Ordine Mondiale non possa avviarsi a un’epocale “clash
of civilizations”, come alcuni insiders già auspicano in America, ma si limiti a sgranare stermini e genocidi
locali, killing fields per poveri straccioni, danze di Shiva e di Kali su
carnai confinati a luoghi dove l’uomo è abbondante e ‘sprecabile’.
Un’accusa
è sempre pronta, a squalificare e ridicolizzare chi esprime ad alta voce le
idee che io sommessamente descrivo: quella di ‘complottista’, di allucinato
immaginatore di complotti universali.
A
queste lapidazioni moderne si prestano volontari precisi ambienti
giornalistici;
espressione di una categoria umana tra le più
artificiali, la più ridicolmente sicura di ‘vivere’ in proprio, mentre è la più totalmente ‘vissuta’
e agitata dalle idee correnti, dagli états d’esprit dominanti, dai climi
culturali egemoni che ‘Altri’ hanno pur diffuso nell’aria".
Ricchi
e poveri: destino o merito?
Riflessioni
sul destino dell’umanità
e
dell’eguaglianza.
Sebastianozanolli.com
– (6 Marzo 2019) – Sebastiano Zanolli – ci dice:
Esattamente
un anno fa, di questi tempi, il discorso principale riguardava il reddito di
cittadinanza.
Ci si domandava cosa si apprendeva dal test
della Finlandia, cosa sarebbe successo nel nostro paese e in generale se fosse
"giusto" aiutare chi sta peggio.
In
altre parole, una parte dei discorsi riguardava la solita domanda: sfortuna o
pigrizia?
Giusto che chi si sia dato da fare e stia
meglio aiuti chi sta peggio?
Alla
luce del Covid - adesso si parla di reddito di cittadinanza di emergenza, si
parla di redistribuzione della ricchezza e differenze sociali da ridurre. - le
domande tornano prepotentemente attuali.
E
dovremmo tutti pensarci bene e, nel nostro piccolo, fare la nostra parte.
Perché
il reddito universale in Finlandia non verrà prolungato?
Che lezioni potrebbero trarne i paesi che sono
impegnati in programmi analoghi? Cosa sta succedendo e cosa accadrà in Italia
con il reddito di cittadinanza?
Cosa
possiamo capire dalle esperienze degli Stati Uniti con le loro grandi
differenze distribuzione della ricchezza?
E
ancora, ricchi e poveri: destino o merito?
Ho
provato ad approfondire cosa si sia fatto al riguardo in giro per il mondo
surfando tra le diverse correnti di pensiero.
Unendo
quello che ho capito sulla motivazione umana e su come venga generata l’azione.
Ragioneremo
di uomini e donne che cercano a buon diritto di fare la propria Grande
Differenza senza la pretesa di dare soluzioni ma con l’intento di aggiungere
materiale, esempi e dati al tavolo di discussione.
Questo
articolo rientra nella categoria approfondimenti.
Se non
hai il tempo di leggerlo adesso o ti può fare piacere, ho preparato un pdf da
scaricare per leggerlo quando vuoi, anche off line.
Note:
la parola “poveri” è ambigua e purtroppo si presta a
molte generalizzazioni.
Intendiamo
con questo termine le persone in situazioni di povertà estrema (persone che vivono,
secondo la definizione della Banca Mondiale, con meno di 1,90 dollari al
giorno), così come persone che vivono situazioni difficili e al limite; quello
che intendiamo con povertà relativa).
Per
una questione comunicativa utilizzerò la parola “povero” in uno e nell’altro
caso, cercando di specificare di volta in volta i vari contesti e situazioni.
Altra
cosa che mi preme sottolineare è che, nella trattazione di un tema così
complesso, cercherò di stare lontano dal giustificare tesi in base a credo religiosi
o a ideologie o di abbracciarne alcune.
Non
perché non abbia la mia idea ma perché le scienze sociali e le indagini
storiche hanno dimostrato che mentre la religione e le ideologie spesso aiutino
a produrre cambiamenti sociali ed economici a vantaggio di chi vive in povertà,
possono anche essere indirizzate a giustificare disuguaglianze sociali ed
economiche che hanno effetti negativi sul povero.
Proverò
quindi a scattare foto di esperimenti e risultati e trarne delle riflessioni
che non abbisognino di atti di fede ciechi e pregiudiziali.
Lì,
nella savana, c’è un popolo di uomini che ci racconta e ci dà speranza.
(Foto
tratta da “A multimedia exhibit documenting the Hadza tribe of Tanzania”)
Nella
parte settentrionale della Tanzania, attorno al lago “Eyasi”, in uno degli
scenari più suggestivi del pianeta, tra savane e praterie, vivono gli” Hadza”,
l’ultimo dei popoli a non averci seguito nel processo di “sviluppo” e
industrializzazione.
Sono
ancora cacciatori-raccoglitori, sono organizzati in piccoli gruppi e sono la
prova che l’uomo non è intrinsecamente egoista e competitivo.
Gli studiosi che da anni li osservano e
raccontano, hanno evidenziato che:
Le
relazioni tra le persone sono basate sulla condivisione e sulla reciprocità ma
non implicano vincoli e dipendenza.
L’accesso
alle risorse è comune e non vi sono requisiti per i quali qualcuno ne ha più o
prima.
Nessuno
è in grado di esercitare un’autorità permanente sul resto del gruppo, eventuali
controversie sono sempre regolate da terzi che non hanno interesse nella
questione.
Nessuno
è in grado di accumulare risorse.
Le
risorse in eccesso si scommettono in curiosi giochi d’azzardo.
Se
anche qualcuno momentaneamente dovesse accumulare una piccola fortuna, le leggi
della probabilità dicono che facilmente la perderà.
Andarsene
via con il patrimonio poi non servirebbe a nulla, perché gli altri seguirebbero
il compagno fortunato nel nuovo accampamento e continuerebbero a giocare con
lui.
Sono
probabilmente la società più eguale che si possa incontrare e rappresentano
probabilmente il punto storico dal quale il genere umano è partito.
In principio infatti, quando gli uomini erano
raccoglitori e cacciatori, non esistevano la possibilità e nemmeno la necessità
di conservare e di accumulare beni.
Le risorse venivano distribuite equamente tra
tutti gli appartenenti alla comunità, proprio come gli “Hazda”.
Semplificando
un po’ gli avvenimenti e sintetizzando la storia umana, con il passaggio a una
società basata sull’agricoltura iniziarono invece ad emergere concetti e
bisogni quali l’accumulo, le scorte, la proprietà.
In qualche modo e in qualche momento, i più
bravi o i “più fortunati”, acquisirono risorse e conoscenze che permettevano
loro di avere sempre di più faticando di meno.
Le risorse da quel momento non vengono più
distribuite in maniera omogenea.
Gli
studiosi sono abbastanza concordi nell’individuare in quei momenti pivotali
l’inizio di un mondo diseguale.
Il
resto è noto, da scavi archeologici, da libri di storia, dai film, abbiamo
appreso di quanta differenza ci sia sempre stata tra il faraone e lo schiavo,
il re e i sudditi, il ricco mercante e il garzone, il cavaliere e lo stalliere.
Andando
veloce nella storia, sempre a causa dalla ineguale distribuzione delle
ricchezze, incontriamo tumulti, trattamenti disumani, rivoluzioni.
Un
mondo spaccato tra fortunati e sfortunati, facoltosi e indigenti, e secondo
alcuni tra meritevoli e incapaci.
Sino ai nostri giorni.
Giorni
in cui appena 8 persone detengono la ricchezza di metà della popolazione
mondiale.
E in cui 8 miliardi di persone godono di
benessere e opportunità alquanto eguali.
Uguaglianza:
problemi e paradossi.
La
maggior parte delle persone immagina di vivere un mondo pieno di squilibri e
diseguaglianze.
La
maggior parte delle persone ha ragione però solo a metà.
È una situazione complessa e contro-intuitiva
e che presenta più di un paradosso.
Viviamo
nella società globalmente più ricca della storia umana e in un’era di
progresso, salute, benessere e comodità in cui accade tutto e il contrario di
tutto.
Vediamo
alcuni dati interessanti quando parliamo di ricchezza.
1) I
poveri “poveri” esistono ma non sono moltissimi.
Esistono
i poveri “poveri ma va meglio di quanto sembra.
Siamo globalmente la società più eguale della
storia umana: solo il 9 % degli abitanti del mondo vive in Paesi a basso
reddito.
Più
del 90% di tutti i bambini del mondo frequenta la scuola primaria.
Ci
sono chiaramente ancora tanti problemi ma dati alla mano viviamo un’era di
prosperità e anche pace.
Hans
Rosling spiegò
bene il motivo per cui, sul capitolo povertà assoluta, tendiamo ad essere
negativi e mostrò in un celebre Ted “le migliori statistiche” che dimostrano
come sia, incredibilmente, uno dei periodi della storia in cui si è fatto di
più in termini di eguaglianza. Ne avevo già parlato.
2) 8
miliardi di persone più 8.
Pochissime
persone, appena 8, detengono una ricchezza pari alla metà del resto del pianeta.
Qualcosa che ormai abbiamo imparato a dare per
scontato e che, di norma, è un cruccio al quale pensiamo solo di rado.
Dopotutto
è un po’ quello che chiamo l’“effetto cognato”:
ti
secca se tuo cognato guadagna più di te e se può passare le ferie in posti da
urlo, ti lascia indifferente o quasi il fatto che Cristiano Ronaldo guadagni in
un solo giorno circa 255 mila dollari, qualcosa come 10.600 dollari ogni ora
della sua giornata.
(Stima
tratta dai dati del 2017 che registrano un fatturato di 93 milioni di dollari)
La
ricchezza di chi ti è distante è meno fastidiosa di quella di chi ti è vicino e
con cui ti compari.
3) La
disuguaglianza ravvicinata è il problema.
Le
disparità ravvicinate in un paese e in una comunità sono il punto focale e di tensione
quando si parla di disuguaglianza e di reddito di cittadinanza e reddito
universale.
Un problema che vede tutti protagonisti: tanto
chi è rimasto indietro, tanto chi è avanti.
Richard
Wilkinson, accademico e saggista inglese, tra i più attivi nello studio delle
diseguaglianze sociali, inquadra bene il problema in un celebre “Ted”:
“Il
benessere medio delle nostre società non dipende più dal reddito nazionale o
dalla crescita economica.
È molto importante nei paesi più poveri, ma
non nel mondo ricco e sviluppato.
Ma le
differenze tra di noi e dove siamo posizionati l’uno rispetto all’altro ora
hanno molta importanza.”
Per
spiegarlo utilizza un esempio molto chiaro:
il
rapporto tra reddito e aspettativa di vita confrontando i dati di reddito tra
paesi diversi, in un caso, e tra redditi diversi all’interno di uno stesso
paese.
“Norvegia
e gli Stati Uniti, sono due volte più ricchi di Israele, Grecia e Portogallo ma
non mostrano differenze nell’aspettativa di vita… Ma se guardiamo all’interno
delle nostre (singole) società, ci sono enormi gradienti sociali nella salute
proprio all’interno delle società e queste influenzano le aspettative di vita
degli individui.”
Se le disparità
di reddito all’interno di un paese incidono sull’aspettativa di vita degli
individui, emerge il motivo per cui la sfida dell’eguaglianza sia così centrale.
Il
caso Finlandia, ha occupato intere colonne sui quotidiani e in Italia siamo alle prese con la
legge sul reddito di cittadinanza.
A
rendere più complessa la questione c’è poi una società in divenire e da
decifrare, basata su nuovi fattori e dinamiche.
Robot e Intelligenza Artificiale (IA) rischiano
infatti di diventare un punto di grande squilibrio che potrà assicurare tanto
benessere (potremmo ad esempio non aver più bisogno di lavorare vivendo delle
tasse sui robot?) quanto di una disuguaglianza senza precedenti, con intere
classi di “inutili” e irrilevanti lavoratori tagliati fuori da una società
governata e gestita da pochissimi potenti e tecno-burocrati.
“L’ascesa
dell’IA potrebbe annullare il valore economico e il potere politico della
maggioranza degli esseri umani.
Allo
stesso tempo i progressi nella biotecnologia potrebbero far sì che la
disuguaglianza economica si traduca in disuguaglianza biologica.”
Yuval
Noah Harari.
Approfondimento:
povertà relativa.
“Il
ricco che si sentiva povero”
Nel
Febbraio del 2015 “Jesse Klein”, scrisse al “The Michigan Daily” per
condividere il suo problema: non era di certo ricco.
Il
reddito di famiglia era di 250 mila dollari annui, la sua casa valeva 2 milioni
di dollari, poteva permettersi di viaggiare abitualmente e non sacrificarsi
negli acquisti di vestiti e altre esperienze.
Però non era di certo ricco.
Era semplicemente una persona di classe media.
Per
capirlo, gli bastava guardarsi intorno.
In
confronto ai vicini, ai veri ricchi, la sua era in fondo una modesta casa di
tre camere da letto e due bagni.
Altri
avevano ville con piscina e un garage pieno di Tesla e altre macchine lussuose.
Come
scriveva nel titolo della sua lettera: la ricchezza è relativa.
Vivere
a “Palo Alto” significava vivere in una città tra le più costose del mondo.
Tutto costava molto di più che nelle zone ricche di altri luoghi.
Ad
esempio nella zona di” Ann Arbor”, una zona considerata di lusso in Michigan,
il valore di una casa è di soli 274 mila dollari.
E sono
case di due piani con grandi spazi, soffitte e semi-interrati.
Qualcosa che lui non avrebbe mai potuto
permettersi.
Un
altro punto che lo rendeva inquieto era che le persone non capissero il fatto
che i “soldi sono diversi”.
A Palo
Alto non contavano come in altri luoghi.
Non
erano uno status symbol come in altri luoghi.
Se
vivi nella” Bay Area”, significa che sei benestante perché solo vivere nella “Silicon
Valley” è sufficiente e non c’è altro da dimostrare.
Di
soldi non se ne parla e hanno un valore diverso.
Ad esempio
lui e i suoi amici non si curavano delle marche di abbigliamento e lo scoprì
solo parlando con le persone in Michigan.
Lì scoprì quanto contassero per le persone.
Quando fai un’osservazione su un capo di
abbigliamento, iniziano a dire chi l’ha progettato e bisogna fare molta
attenzione a nomi come Patagonia, Lululemon, Hunters, Tory Burch, Versace, ecc.
E non
era perfettamente comprensibile perché tante persone risparmiassero tanti soldi
e rinunciassero a tante cose solo per un vestito firmato.
Dalle
sue parti invece i soldi si spendevano in viaggi ed esperienze.
E, come diceva sempre un suo amico era meglio
“viaggiare vestiti da stracci che rimanere a casa con un vestito di Versace”.
Insomma,
per “Klein” la ricchezza era relativa e lui si sentiva povero.
Tra le
risposte al messaggio, la più votata fu questa: “Sei ricco”. Punto.
Le
altre risposte dei lettori erano relative al fatto che il solo fatto di poter
scegliere se comprare vestiti di marca o spenderli in viaggi, era sufficiente
per renderlo ricco e non in grado di capire altre situazioni.
Ma
Klein si sentiva povero.
C’è anche
una storia completamente diversa: “la povera che si sentiva ricca”.
Qualche
anno prima della lettera di Klein, c’è stata una storia completamente opposta
che ottenne grande attenzione: la storia di Donna Freedman.
A 49
anni, appena uscita da un tormentato divorzio, tornò all’università e si
apprestò a vivere la sua vita con soli 12 mila dollari l’anno.
Soldi che avrebbero dovuto mantenere lei ma
anche supportare la figlia disabile. Qui sotto trovate alcuni estratti dal
diario di Donna su come pensava cavarsela.
È una
spiegazione involontaria sul tema della sensazione di “ricchezza relativa”.
Due
passaggi su tutti:
“Ho
deciso di aumentare il sostegno alla chiesa. Darò 20 dollari al mese. So che
potrei risparmiare quei 240 dollari l’anno.
Sono
pari al costo dell’abito da sposa per mia figlia e la metà del premio di
assicurazione da pagare.
Però
dare questi soldi mi fa sentire ricca.
Posso
essere parte dei servizi che la Chiesa offre ai senzatetto, agli anziani, ai
malati di Aids.
E quindi lo farò volentieri.”
“Sentirsi
ricca” è un po’ la cifra dell’intero messaggio.
E fa effetto che lo dica una donna che viva con a
disposizione, tolte le spese, 382 dollari al mese.
“Ho un
tetto sulla testa, cibo ogni giorno, parenti e amici, e occasionalmente persino
un biglietto da $ 10 per la “Seattle Symphony”. Alcuni giorni mi sento la persona più
fortunata del mondo.”
Perché
preoccuparsi dei poveri?
“Louis
Brandeis”, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939,
disse: “Possiamo
avere una società democratica o possiamo avere una grande ricchezza concentrata
nelle mani di pochi. Non possiamo avere entrambi.”
Il
Professor “Enzo Spaltro”, mio mentore, spiegava con maggiore pragmatismo: “Se chi sta bene non fa stare meglio
chi sta male, prima o poi chi sta male fa stare peggio chi sta bene”.
Una
frase di acuta intelligenza e prezioso buon senso che permette di analizzare,
discutere e affrontare il problema senza fare affidamento a precetti religiosi
e sentimenti caritatevoli.
Basta
rileggere la storia e analizzare i dati e le ricerche a disposizione.
Se
prendiamo dunque come riferimento la nascita dell’agricoltura possiamo trovare
rivolte contadine dal 205 a.c con la grande rivolta egiziana nel Regno
Tolemaico sino alla rivolta zapatista, in Messico nel 1994.
Quasi
ogni sorta di tumulti, guerre civili, disordini, è facilmente riconducibile a
situazioni di squilibrio, povertà, scarse risorse.
Negli
ultimi giorni è facile pensare alla protesta dei pastori sardi tagliati fuori
dal mercato per via di un prezzo del latte.
In “The Great Leveler”, lo storico “Walter Scheidel”
afferma che nel corso dei secoli, la disuguaglianza economica è stata “risolta”
solo da uno dei “Quattro cavalieri dell’uguaglianza”: guerra, rivoluzione,
collasso dello stato e pestilenza.
E questo dovrebbe portare a concordare con il
professore di Stanford quando avverte che:
“Questo
ci impone di essere più creativi nel gestire la disuguaglianza. Soprattutto
dobbiamo pensare più duramente alla fattibilità. Non è sufficiente che gli
economisti propongano ricette per ridurre la disuguaglianza, ma dobbiamo anche
capire come implementarle in un ambiente politicamente polarizzato ed
economicamente globalizzato.”
In
termini economici, il costo è alto.
Ad
esempio, 7 giorni di sciopero, ad Aprile 2018, dei lavoratori di Air France,
che rivendicavano un adeguamento salariale, sono costati alla compagnia ben 170
milioni di euro.
La
salute mentale (episodi di stress e di umore non collegati dunque a malattie
mentali diagnosticate) costano ogni anno oltre i $ 53 miliardi nel solo mercato
americano.
Di
contro “Questo
inizia a darci un’idea di cosa potrebbe essere il guadagno, se spendessimo più
soldi per aiutare le persone che hanno problemi”, ha detto “Goetz”, studioso che ha
collaborato alla ricerca.
Ma in
generale il punto è ascrivibile ad una sola e fondamentale parola: sicurezza.
Sempre
Il professor “Wilkinson”, citato sopra, evidenzia 3 fattori strettamente
correlati alla povertà, (ricordo che si parla di disparità relative all’interno dello
stesso paese e non di “soglia di povertà assoluta”), che incidono direttamente e
indirettamente con la sicurezza dell’individuo.
Nei
paesi con forti disparità sociali solo il 15% delle persone tende a concedere
fiducia al prossimo, contro il 60% delle società con livelli bassi di disparità.
Paesi
con forti disparità sociali presentano tre volte il tasso di malattie mentali
(dall’8% nei paesi con minori disparità sino al 24%).
Quanto
alla violenza, sempre in base al livello di disparità interno, si va dai 15
omicidi per milione di abitanti sino ai 150.
E la
disuguaglianza incide anche sull’asprezza delle pene, non è un caso, secondo
Wilkinson, che nei paesi con forti disparità sia ancora in vigore la pena di
morte.
Sicurezza
che varia non solo in rapporto ai tassi di criminalità ma anche da un punto di
vista sanitario.
Un
caso emblematico è rappresentato dagli episodi di” Epatite A” in Michigan a
partire dal 2016.
Tra il
2015 e il 2016, i casi di “epatite A” nello stato del Michigan sono aumentati
del 44%, da 1.390 nel 2015 a 2.007 casi nel 2016.
Un
recente e ulteriore aggiustamento dei dati ha fatto salire il numero di
infezioni a oltre 4.000.
Durante
il 2017, i casi sono segnalati sono stati 3164, nel 2018 si è arrivati a ben
10.582 episodi.
La situazione viene ancora oggi monitorata con
dati aggiornati settimanalmente, consultabili.
Melinda
Wenner Moyer, giornalista scientifica, ha sposato la tesi e ha reso tutto molto più
chiaro, e per certi versi agghiacciante, in un articolo apparso su “Scientific
American”.
Ecco alcuni passaggi salienti.
“Ci
sono molte cause per queste crescenti ondate infettive, ma i ricercatori
concordano sul fatto che un driver importante è la crescente disuguaglianza di
reddito del paese … Il numero di famiglie che guadagnano meno di $ 15.000
all’anno è cresciuto del 37% tra il 2000 e il 2016 …
Nelle
aree povere dove quasi la metà le persone vivono al di sotto dei livelli
federali di povertà, le popolazioni sono raddoppiate durante questo periodo.
Le persone su questi gradini più bassi della scala
della società vivono in condizioni affollate, spesso impure, hanno cure
sanitarie limitate, devono lavorare quando sono malati, hanno una cattiva
alimentazione, sperimentano uno stress debilitante e sono più propensi degli
altri ad abusare di droghe e alcol – tutti noti rischi di infezione.
(…) Inoltre, i lavoratori poveri nelle aree
urbane sono anche posizionati in modo “favorevole” per diffondere le malattie
infettive a causa delle condizioni di lavoro.
Più di
un milione di americani a basso reddito (intorno ai $ 13.200 all’anno) lavorano
in ristoranti, mense, in ruoli a contatto con il cibo.
Molte
di queste persone lavorano per forza di cose anche quando sono malate.”
Due
riflessioni che possiamo fare.
La
prima è che la sicurezza, in questo caso la nostra salute, è strettamente correlata a
quella di tutti, come aveva provato a spiegare “Rudolf Virchow” nel 1848, nel corso di
un’epidemia di tifo.
In
quell’occasione, il patologo e scienziato tedesco, aveva suggerito che la
terapia migliore sarebbe stata l’educazione, l’istruzione e il benessere
economico diffuso. Questo prima di essere esiliato dal governo prussiano.
La
seconda riflessione è che oggi, in un momento in cui temiamo soprattutto le
ripercussioni derivate dall’immigrazione come la paura per l’Ebola e altre
terribili malattie, ci troviamo ad affrontare un pericolo ancora maggiore in
termini numerici e per tipologia “del contatto”.
Quello
con chi è molto povero e dunque a rischio.
Riprendendo
le parole di “Melinda Wenner Moyer”, portatori di nuove e vecchie epidemie
potrebbero essere persone normalissime (una fascia di reddito che potremmo
collocare intorno ai 15 mila euro).
Persone
che prendono la Metro insieme a noi, che lavorano con noi, che ci servono un
pasto, e che non possiamo evitare.
Anche
se qualcuno sta provando a farlo.
Il
caso delle “Gated community”.
Con il
termine inglese gated community (o walled community) si definisce una tipologia di modello residenziale
auto-segregativa, recintata, formata da gruppi di residenze esclusive e con accesso
costantemente sorvegliato.
Si
tratta di vere e proprie città separate, nelle intenzioni, dal resto del mondo
e dalle metropoli che le ospitano.
All’interno vi è tutto ciò che può servire: parchi o
piscine oppure, nel caso la community sia più grande o prestigiosa, servizi di
uso quotidiano, ad esempio ristoranti, bar o scuole, grazie ai quali i
residenti possono svolgere la maggior parte delle attività quotidiane senza
uscire all’esterno.
Il
fenomeno si è sviluppato negli Stati Uniti dagli anni ’60 ma ha rapidamente
attecchito in quasi tutto il mondo, specie in zone con un alto coefficiente di “Gini”.
In Messico, a causa delle forti disparità
economiche, vi è la più alta percentuale di residenti all’interno di tali
comunità.
In paesi come il Sudafrica, le gated community hanno avuto grande successo perché
riescono a contrastare criminalità e fenomeni di squatting.
In
Cina sono molto diffuse soprattutto nella regione del Delta del Fiume delle
Perle e intorno a Pechino, dove le residenze vengono acquistate molto spesso da
cinesi residenti all’estero, cittadini di Hong Kong e nuovi ricchi.
In Arabia Saudita, Paese che ha subito anche
diversi atti terroristici, sono invece edificate per alloggiare separatamente
gli occidentali con le loro famiglie.
Ne
abbiamo anche due esempi in Italia, come Borgo di Vione che è una frazione del
Comune di Basiglio, piccolo Comune dell’hinterland milanese che ogni anno si
contende con Portofino il primato di città più ricca d’Italia.
Il
motivo per il quale “chiudersi” in prigioni dorate è individuabile nel bisogno
di sicurezza, nel desiderio di privacy, nel senso di identità e voler vivere
con persone dello stesso ceto sociale, nella volontà di chiudere fuori il mondo
esterno e il diverso.
Da una
parte si tratta di un potenziale simbolo di fallimento:
quando
i governi non riescono a garantire uguaglianza e benessere diffuso, alcune
persone potrebbero scegliere di provvedere in modo autonomo.
D’altra
parte, quando succede non è mai privo di rischi.
Riflessioni
e polemiche sulle Gated Community hanno trovato l’apice nel 2012, con l’uccisione di “Trayvon
Martin).
(Esiste
un murales dedicato a Trayvon Martin nel quartiere di “Sandon”)
“Il
ragazzo aveva passato il pomeriggio a casa del padre della ragazza, in una “gated community”, un quartiere cintato di Sanford, alla
periferia di Orlando.
Durante
una pausa della partita di basket in TV, Trayvon decide di andare a comprare
dei dolcetti in un vicino negozio della 7 Eleven.
Sulla
via di casa, incontra “George Zimmerman”, un vigilante volontario della zona
che, insospettito dal ragazzo (che indossa, appunto, una felpa con cappuccio), comincia a seguirlo.
Tra i
due scoppia presto una lite.
Zimmerman chiama il 911 e dice all’operatore (che gli consiglia di non intervenire) che “questo ragazzo ha un’aria losca, è
drogato o qualcosa di simile”.
Durante l’alterco, anche” Trayvon” telefona a un amico
(che più tardi testimonierà di aver udito Zimmerman proferire insulti razzisti
come “fottuto negro”).
La
lite degenera presto in uno scontro.
Alcuni
abitanti della zona dicono di aver sentito “Trayvon” urlare, chiedere aiuto.
Poi, lo sparo.
La
polizia, che arriva pochi minuti dopo, trova il ragazzo riverso a terra, senza
vita.”
(il
virgolettato è tratto da un articolo di “Roberto Festa” su” Il Fatto Quotidiano”)
Trayvon
Martin aveva solo 17 anni, il suo assassino, George Zimmerman aveva all’epoca
28 anni.
E fu
prosciolto.
L’ondata
di proteste che ne scaturì è ancora nell’aria e pone più di un interrogativo su
forme abitative di questo genere.
Alcuni
sostengono questo tipo di comunità causino chiusura, xenofobia e anche una
certa dose di paranoia verso l’esterno.
“Edward
Blakely” ad esempio, autore di “Fortress America”, uno dei primi studiosi del
fenomeno “Gated Community”, osservò che il rischio è quello di “ridurre la nozione di impegno civico
e permettere ai residenti di ritirarsi dalla responsabilità civica”.
Cosa
si può fare e cosa si sta facendo.
L’esperimento
in Finlandia.
L’idea
di un reddito di base è fonte di contrasti in tutto il mondo.
I sostenitori sottolineano una serie di
vantaggi: dai benefici economici al miglioramento del benessere psicologico.
Gli
oppositori dicono che è economicamente irrealizzabile e renderà le persone
ancora più pigre.
L’idea
gode invece di un crescente sostegno popolare.
In un
referendum pubblico, il 68% degli europei voterebbe a favore del reddito di
base (rispetto al 64% dell’anno precedente), ha rivelato un’ampia indagine condotta
in 28 paesi europei.
L’esperimento
appena concluso in Finlandia, in concomitanza con il varo del reddito di
cittadinanza italiano, che però ha un sistema molto diverso, sembra una buona
occasione per chiarirsi le idee.
I
risultati che abbiamo sono ancora parziali, dati ufficiali e completi verranno
rilasciati presumibilmente a fine 2019 o inizio 2020.
Quello
che abbiamo sono solo alcune testimonianze e un report preliminare ma vediamo
di ragionarci sopra.
Il
reddito di cittadinanza funziona?
Come ha scritto” Emma Charlton2, giornalista
economica, sul sito del World Economic Forum: “Dipende”.
Dipende
da cosa ci si attendeva.
“I
risultati iniziali del primo di un programma biennale in Finlandia, dove i
partecipanti hanno ricevuto 560 euro (circa 630 dollari al mese), hanno
mostrato effetti positivi su salute e stress, ma nessun miglioramento nello
stato lavorativo.
Le
persone che hanno ricevuto un reddito di base non hanno avuto più probabilità
di trovare lavoro.
Quindi,
mentre l’obiettivo del governo di “promuovere una partecipazione più attiva” e “fornire
un incentivo più forte al lavoro” non sembra essere stato raggiunto, il successo può essere riscontrato in
altre aree come il benessere e la riduzione dello stress.”
Un
vantaggio di diverso tipo emerge invece nella testimonianza del giornalista e
autore “Tuomas Muraja”, uno dei pochi liberi professionisti ad aver ricevuto il
reddito in questione.
Nelle
parole di” Muraja” ciò che ha inciso favorevolmente è stato il fatto di poter
assumere piccoli lavori senza paura di intaccare i benefici economici acquisiti
e dover poi ripresentare tutta la documentazione.
“Mi
sento molto più sicuro ora che i lavori a breve termine non riducono più i miei
benefici né ritardano il loro pagamento.”
Dalla
Finlandia all’Italia.
All’indomani
della fine dell’esperimento del reddito universale in Finlandia, mi sono
arrivati messaggi dal contenuto discordante e opposto:
“Hai
visto che non serve a niente?”, “Hai visto che le persone si dichiarano più
felici”?
È
rischioso voler trasferire risultati, consigli e lezioni da un paese all’altro
e senza tenere in considerazione il contesto e non lo farò.
Ma il vero nodo dell’esperimento finlandese e di
qualunque analoga sperimentazione è in realtà prima di tutto economico:
capire
se e come si concilia un reddito davvero universale con le esigenze di
bilancio, in altre parole:” È sostenibile?”.
Per “Olli
Kangas”
«molto dipende dalle politiche fiscali, ossia
dalla capacità di spostare risorse dalle fasce più ricche al reddito di base».
Secondo
“Ernesto Hartikainen” «bisogna considerare anche il Paese: la Finlandia destina già
molte risorse al Welfare e una delle idee alla base della sperimentazione è che
il reddito universale di base possa essere meno costoso di un sistema più
burocratico.
Inoltre
si devono considerare i costi sociali negativi di un aumento della
disoccupazione, dei sussidi, della criminalità: l’alternativa potrebbe in
definitiva essere più dispendiosa del costo diretto del reddito di base
universale».
Poi
c’è da considerare la differenza di impatto che può avere il reddito di
cittadinanza (così
come concepito e attuato in Italia che va a sostenere persone senza lavoro e
senza adeguato reddito) da un reddito di base o universale, come testato in
Finlandia, che assicura una somma di denaro indipendentemente dall’avere un
lavoro e dalla fascia di reddito.
Il
caso di “Muraja”, freelance che indipendentemente dal reddito ha ricevuto il
sussidio finlandese per intenderci non potrebbe esistere nel nostro paese.
Diversi punti critici ruotano dunque su questo punto e
cioè nel dubbio che una misura volta a favorire eguaglianza possa diventare un
pericoloso strumento di disparità.
Sul
Sole 24 ore, nelle scorse settimane c’è stato un vivace scambio tra “Massimo
Famularo”, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) e “Gabriele Guzzi”, laurea con lode
in Economia alla Luiss e poi alla Bocconi, attualmente dottorando presso
l’Università Roma Tre.
“I
contro”
L’idea
di Famularo,
che cito perché rappresenta buona parte delle critiche, è che:
“ll
reddito di cittadinanza è una misura ingiusta, disfunzionale, dannosa e non
adatta a raggiungere gli scopi dichiarati da chi la propone: per semplificare,
ancora una volta i politici preferiscono dare pesci alle persone (in cambio di
voti) invece di fare in modo che imparino a pescare.
Ingiusta perché dà lo stesso sussidio ad aree
geografiche con potere d’acquisto e soglie di povertà differenti.
Disfunzionale perché si propone reiterare
meccanismi di intervento statale che in passato hanno fallito e che hanno scarse probabilità di
funzionare perché non affrontano il problema di fondo, che risiede nella
necessità di creare nuovi posti di lavoro e formare i lavoratori per meglio
rispondere a quelli che esistono già.”
“I
pro”
L’idea
di Guzzi, anche qui rappresentativa di una buona fetta della popolazione, è
che:
“la
(più diffusa obiezione) è che il reddito di cittadinanza potrebbe risultare
troppo elevato in rapporto ai salari medi percepiti oggi in Italia. Il punto che meglio fa capire come
questa obiezione sia radicata su una visione iniqua dei rapporti economici, è
che dinanzi a una misura che vuole offrire una compensazione di reddito a tutti
quelli che vivono sotto la soglia di povertà, non ci si indigna per il fatto
che il salario di milioni di lavoratori è inferiore o di poco superiore alla
soglia minima di povertà, fatto quanto mai allarmante per un paese civile che
si fonda sull’art.36 della Costituzione, o che in Italia più di 5 milioni di
persone vivono in condizioni di povertà assoluta.
No,
dinanzi a questa situazione ci si indigna perché una misura di welfare potrebbe
spingere al rialzo la soglia dei lavori accettati dai nostri giovani in termini
di dignità, di salari e di condizioni lavorative.
Certo,
il reddito di cittadinanza potrebbe disincentivare un ragazzo ad accettare un
lavoro da 500 euro al mese per 40 ore alla settimana.
Ma è
proprio l’esistenza di un tale lavoro che dovrebbe quantomeno destare
preoccupazione nella classe politica e intellettuale di un paese avanzato.
(In
merito all’ingiustizia), “Massimo Famularo” nel suo pezzo sostiene che poiché il
sussidio è concepito come una “misura ibrida tra indennità di disoccupazione e
sostegno ai meno abbienti”, chi ha un lavoro ma vive sotto la soglia di povertà, non
sarebbe “eleggibile
per il Rdc”,
e questo rappresenterebbe un fattore di ingiustizia.
Credo che qui ci sia semplicemente una errata
interpretazione del testo del decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il
28 gennaio 2019.
Infatti, Il Rdc non è concepito come una
misura ibrida tra indennità di disoccupazione e sostengo ai meno abbienti, ma come un reddito minimo condizionato, ossia come un’unione tra le
politiche attive del lavoro e la lotta contro la povertà.
Questa
precisazione apparentemente innocua, in realtà, confuta ciò che dice Famularo.
Infatti, il Rdc è concepito come
“un’integrazione al reddito famigliare” (art.3), e quindi se un lavoratore guadagna
meno di 780 euro, è single, e non ha altre fonti di reddito, avrebbe diritto a
una compensazione esattamente pari a 780 euro meno il salario percepito.
Ed è
quindi l’opposto di quanto sostiene Massimo Famularo.
Ho
riportato questo scambio per raccontare quanto la questione Reddito di
cittadinanza in Italia sia discordante.
Sono del parere che siano ragioni dall’una e
dall’altra parte e, al netto di interventi strutturali e controllo che sono
indispensabili, ritengo che sarà necessario un certo lasso di tempo per avviare,
normalizzare il sistema.
Tuttavia,
ciò che qui mi preme analizzare è se siano davvero i soldi sufficienti a
innescare comportamenti virtuosi, maggiore impegno e, in definitiva, promuovere
davvero uguaglianza.
Ci
sono alcune storie, ricerche e idee che aiutano una riflessione su tutto ciò.
Soldi,
motivazione e differenze.
Come
si diventa ricchi, come si rimane poveri.
“Padri
ricchi, figli ricchi e padri poveri, figli poveri?”
Nei paesi con minori disparità, come i paesi
scandinavi la correlazione è meno forte. In paesi con alta disparità è invece
decisamente pronunciata.
In
Italia? Rispondo
innanzitutto con una storia.
Ho la
fortuna di fare un lavoro che amo e che mi pone a contatto con grandi
imprenditori e grandi persone, ogni volta imparo e mi lascio contaminare da
idee e suggestioni di ognuno di loro.
Tempo fa però fui completamente rapito da un
imprenditore che parlò per più di un’ora in modo impeccabile, spaziando dalla storia
alla filosofia antica, durante la convention della forza vendite alla quale ero
invitato come speaker.
Più di
350 milioni di fatturato. Una bella azienda.
Al
termine non potei che non fermarmi e congratularmi con lui.
Mi rispose “Grazie Sebastiano però sa in
famiglia siamo tutti così.
Mio
nonno e prim’ancora suo padre cioè il mio bisnonno, poi mio padre e poi io
abbiamo avuto sin da piccoli un’educazione classica, volta alla filosofia, alla
letteratura e al pensiero.
Sebastiano
la mia famiglia si è affrancata dal lavoro parecchie generazioni fa per questo
possiamo permetterci di approfondire tutto questo”
Non
dissi nulla, sorrisi ringraziando per la franchezza e ammettendo dentro di me
che aveva assolutamente colto il punto, semplice ma non banale.
Chi è
ricco può permettersi non solo cose ma anche approfondimenti culturali e
spirituali che chi è povero ha molte difficoltà ad approcciare.
Il
tema è purtroppo ben documentato.
Federico
Fubini è un brillante giornalista con cui ho avuto il piacere di conversare, è autore di
“La
maestra e la camorrista”.
Nel libro Fubini conduce un’inchiesta sul
nostro Paese, da Nord a Sud – le disparità all’interno di un paese possono avere anche
carattere locale(ndr )– per raccontare di un paese senza mobilità sociale, dove
resti quello che sei.
“Nel
1427 un capofamiglia fiorentino, Manno Mannucci figlio di Benincasa,
discendente di un soldato di ventura tedesco sbandato in Toscana durante le incursioni
di Federico Barbarossa, si dichiarò al catasto come artigiano del legno.
Sei
secoli dopo, nel «laboratorio di un quartiere di Firenze che sta dolcemente
invecchiando», il suo discendente Fabio Mannucci fa più o meno lo stesso
lavoro: il restauratore.
Forse
tra gli arredi medievali che sono passati dalle sue mani ce n’è qualcuno
intagliato dal suo avo.
Nel 1427 il patrimonio finanziario e
immobiliare dei Mannucci — 4 nuclei familiari, 21 persone — arrivava a 437
fiorini, pari a circa tredici anni di lavoro di un manovale, circa di un terzo
superiore alla mediana delle famiglie fiorentine.
«Nell’anno
di imposta 2012, fra i contribuenti di Firenze compaiono 149 Mannucci e il loro
reddito dichiarato in media è di 31.775 euro: un quarto sopra la media
cittadina, ovvero più o meno esattamente dov’era il patrimonio dei Mannucci
rispetto al patrimonio mediano dei fiorentini sei secoli fa.
Erano
e restano solidamente ceto medio.
Il
caso dei Mannucci non è isolato.
Incrociando
redditi e patrimoni degli 807 cognomi che compaiono sia nel catasto della
Firenze del 1427, sia nelle dichiarazioni dei redditi della Firenze del 2012,
si nota che quasi nulla è cambiato.
I
ricchissimi sono rimasti ricchissimi; i ricchi, ricchi; il ceto medio, medio; i
poveri, poveri; i poverissimi, poverissimi.
Tre dei primi cinque contribuenti della
Firenze di oggi appartengono alle famiglie più in vista nella Firenze
dell’inizio del Rinascimento;
e le
famiglie dei cinque contribuenti oggi più poveri facevano già parte della metà
meno abbiente della popolazione.”
La
tesi di Fubini è spietata: «Non si rischia di scendere quando si parte da sopra, non si
riesce a salire quando si parte da sotto.»
Certo
Fubini riconosce che la capacità di chi sta bene di rimanere ricco è data anche
dal fatto che, per esempio i figli di imprenditori, spesso vengono immersi in
un bagno somato-sensoriale di stimoli ed esempi che li rende più capaci di fare
affari. Ma questo non cambia la sostanza.
Chi è
ricco ha più probabilità di rimanere ricco e chi è povero di rimanere povero.
I
ricchi sono diversi da noi, il problema delle statistiche e l’origine della
diseguaglianza.
In un
famoso scambio tra Hemingway e Fitzgerald, si dice che Fitzgerald abbia detto,
“I ricchi sono diversi dal resto di noi”, a cui Hemingway rispose, “Sì, lo so,
hanno più soldi.”
Ma i
poveri sono poveri perché si comportano da poveri o perché ci sono delle
circostanze che non controllano?
Rispondere
a questa domanda e tracciare come si è risposto nella storia, sono il primo
passo per capire come intervenire.
Ad
esempio, Benjamin
Franklin,
gigantesco personaggio della storia, un giorno disse:
“Più
si organizzano forme di assistenza pubblica per prendersi cura dei poveri, meno
questi ultimi avranno cura di sé […], meno si fa per loro, più faranno qualcosa
per sé stessi”.
Ancora
oggi troviamo opinioni simili di chi dice che i poveri sono poveri perché si
comportano da poveri e sono poveri perché indolenti per natura.
La maggior parte delle volte si tende a
ridurre tutto a una scelta.
La
povertà “come scelta” deriva da una corrente di pensiero tipica della società
nordamericana e figlia del pensiero di “Ralph Waldo Emerson” che ipotizzava
l’esistenza di “un’anima superiore”, “Over-soul”, che in sé comprende tutti ciò
che vive e che ti incita a superare i limiti di qualsiasi natura.
Gran
parte dell’ambiente della formazione e dell’auto-miglioramento insiste ancora
oggi sul mantra “volere è potere” e che, di contro, chi non si impegna abbastanza si
cerchi e meriti in un certo senso una situazione di povertà.
Io
sono del pensiero che giudicare il comportamento altrui è difficile perché il
nostro giudizio è ammantato di “Bias cognitivi”, come quello” Attore-Osservatore”.
Quando
guardiamo gli altri, tendiamo a vederli guidati da tratti intrinseci della
personalità, mentre nel nostro caso sappiamo che, ad esempio, abbiamo agito con
rabbia perché ad esempio siamo stati licenziati e non perché siamo persone
naturalmente aggressive o con un temperamento irascibile.
In altre parole, gli altri poveri sono poveri perché
fanno scelte sbagliate – ma se io sono povero, è a causa di un sistema
ingiusto.
Da uno
studio del 2009 pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology”
(JPSP), emergono due considerazioni interessanti:
le persone di ceto alto, diciamo benestanti, tendono a
ignorare le diseguaglianze e quando vengono messi di fronte all’evidenza
tendono a giustificarle con argomenti quale il duro lavoro e il talento.
Questo
non è solo un dato che in fondo potremmo comprendere ma incide poi realmente su
come ci comportiamo di fronte alle diseguaglianze. Dall’individuazione delle cause sino
alle soluzioni messe in atto agiamo sulla base di ciò che crediamo sia reale.
Bennett
Callaghan e Michael Kraus dell’Università dell’Illinois, partendo dalla citata ricerca,
si sono
presi la briga di analizzare il comportamento legislativo dei membri del Congresso
degli Stati Uniti.
I
risultati, anche in questo caso prevedibili, dimostrarono che i membri più
ricchi tendevano sponsorizzare interventi legislativi volti ad accrescere o non
ridurre le diseguaglianze;
situazione dettata certamente dalla volontà di
accrescere il proprio status ma anche da una visione “distorta” o comunque “personale”
delle cause di povertà.
Sugli
effetti della diseguaglianza economica e il comportamento umano, è interessante
e originale l’analisi che “Paul Piff” psicologo e studioso del comportamento,
ne trae in seguito ad un esperimento che prevedeva una partita di Monopoli
truccata.
Oppure,
in questo esperimento condotto dagli psicologi della New York University, dove
viene analizzato perché le persone “ricche” tendano inconsciamente a prestare
meno attenzione ai passanti e alle persone “povere”. Altre visioni distorte sono quelle
che mettono in correlazione povertà e cattive scelte o povertà e scarsa
cultura.
Per intenderci “scegli male dunque sei povero”
e “sei poco colto dunque sei povero”.
Molte
volte, senza neanche qui voler generalizzare, basterebbe rovesciare l’ordine
delle parole per avere una rappresentazione più fedele della realtà.
La diseguaglianza non cresce dunque lungo la
linea “basso reddito”-scarsa cultura- cattive scelte ma, come evidenziato da “Susan
Mayer” nel suo libro “What Money can not Buy”, perché adulti con più successo
finanziario tendono ad avere una varietà di altre caratteristiche che
conferiscono diversi vantaggi ai propri figli.
Scelte
complicate
Un
altro motivo per cui non è possibile affrontare con superficialità l’argomento
è dato da un interessante esperimento sociale portato avanti dagli studiosi
sociali James
Andreoni, Nikos Nikiforakis e Jan Stoop.
Lo
studio osserva i diversi comportamenti dei ricchi e dei poveri di fronte ad
eventi uguali.
I
risultati mettono in risalto una componente importante: le decisioni critiche ai quali sono
sottoposti con più frequenza i poveri rispetto ai ricchi.
L’esperimento,
condotto su un gruppo casuale di persone di classa agiata e non, venne condotto
nei Paesi Bassi e consisteva nell’inviare una busta con 5 o 20 euro e un
biglietto che spiegava che si trattava di un regalo di un nonno a un nipote.
Il denaro è stato inoltre inviato in due modi:
come
banconote o come assegno che dunque non si poteva incassare essendo intestato a
una persona fittizia e non alle persone sottoposte all’esperimento.
I
risultati dimostrarono che i ricchi restituivano nell’80% dei casi le buste e
la percentuale scendeva di poco quando all’interno vi erano le banconote.
I poveri invece conservano la metà delle buste
con gli assegni (non prendendosi la briga di rispedirli al mittente) e
conservavano nel ¾ dei casi le buste con le banconote.
Perché
“i poveri” tenevano le buste con assegni che non avrebbero potuto incassare?
Lo
studio, analizzando più a fondo, scoprì che questo succedeva prevalentemente
nei giorni in cui presumibilmente le persone erano in difficoltà finanziaria,
ad esempio a metà mese.
Mentre
nella settimana in cui le persone ricevevano sussidi e stipendi, verso fine
mese, la maggior parte di loro restituiva le buste.
Se c’è ne fosse bisogno l’esperimento rende
evidente quanto anche scelte apparentemente facili diventino complesse in
momenti di grande tensione ed è normale che “i poveri” vivano molti e più
frequenti momenti di questo tipo.
Esistono
molte posizioni che seguono e confermano queste conclusioni. Alla metà degli anni ’80 ad
esempio, la provincia canadese di Manitoba condusse nella città di Dauphine un
insolito esperimento battezzato “Mincome”, “minimum income”.
Si iniziò a distribuire denaro ad alcuni
cittadini, una
forma di reddito di cittadinanza, dopo un po’ di anni l’esperimento venne abbandonato
per un cambio della guardia politico ma i risultati analizzati anni dopo da “Evelyn
Forget”, economista all’Università di Manitoba dimostrò che la qualità della
vita era migliorata, i tassi di ospedalizzazione diminuiti.
Minore
abbandono scolastico e tassi di occupazioni più alti.
Lo
racconta “Rutger Bregman”, storico e giornalista olandese autore di: “Utopia per realisti” e di un famoso “TED Talk “intitolato:
“La povertà non è una mancanza di
carattere: è una mancanza di denaro”, in cui supporta anche il reddito universale (la forma più estesa di reddito di
cittadinanza che si intende solo per i bisognosi).
Non
sposo del tutto la posizione di “Bregman” che sembra suggerire, anche
ideologicamente, un mondo di totale redistribuzione delle ricchezze.
La mia
posizione è che quando sei in difficoltà hai bisogno di un pesce ma quando non
lo sei più devi imparare a pescare e tutto ciò in un movimento continuo attivo
e pro-attivo che stimoli la responsabilità individuale.
Certo
il problema “meglio un pesce o insegnare a pescare” non si risolve poi in pratica così
facilmente.
Aiutare un individuo è cosa ben diversa che
non aiutarne milioni.
Il”
Financial Time”, attraverso il Professor “Ian Goldin” spiega molti dei motivi
per cui il reddito
di cittadinanza non farà bene a nessuno citando come prova i conti
impossibili da fare tornare per pagarlo al fatto che attraverso un sussidio
monetario le persone ottengono solo reddito, ma a loro serve anche significato,
status, abilità, reti e amicizie attraverso il lavoro.
Se
questo non avviene si stimolano comportamenti fuorvianti e antisociali come
consumo di droghe e alcol.
Secondo
“Ian Goldin “un sussidio non convincerà gli individui e le famiglie a partecipare
alla vita della società.
Le
reti di sicurezza come il reddito di cittadinanza dovrebbero essere un’ancora
di salvezza verso il lavoro e la partecipazione significativa nella società e
non una garanzia di una vita di dipendenza.
Che
fare allora?
La mia
idea è che si debba con forza attingere ad un’idea di equilibrio.
Per
prima cosa, i “poveri” vivono situazioni diverse che vanno trattate in modo diverso.
Un
esempio reale è stato raccontato da “Isabel V. Sawill”, ricercatrice e studiosa
economica.
“Negli
anni ’90, due giornalisti hanno raccontato in modo indipendente la vita di due
famiglie del centro città a Washington, DC.
Uno di loro, Leon Dash, un giornalista del
Washington Post, ha seguito la storia di Rosa Lee Cunningham e della sua famiglia.
A quel
tempo, Cunningham era una nonna di 52 anni che aveva avuto il suo primo figlio
all’età di 14 anni e abbandonato la scuola.
Figlia
dei mezzadri della Carolina del Nord, è cresciuta nei pressi di Capitol Hill ed
è poi andata avanti, lavorando come prostituta, vendendo droghe e di rapina. Divenne dipendente dall’eroina e
passò del tempo in prigione per traffico di droga. Ha avuto otto figli generati
da sei uomini diversi e tutti tranne due sono diventati, come la madre.
Ron
Suskind,
un giornalista del Wall Street Journal ha invece seguito la vita di un
adolescente di nome Cedric Jennings, che al tempo viveva con sua madre nello stesso
quartiere di Cunningham.
Ma la
madre di Cedric, Barbara, aveva tre figli e aveva lavorato per 11 anni con una
paga di cinque dollari all’ora come addetta ai dati per il Dipartimento
dell’Agricoltura.
Frequentava regolarmente la chiesa, viveva
frugalmente, sorvegliava attentamente i suoi figli e aveva instillato nel
figlio un desiderio feroce di riuscire. Cedric non solo divenne uno studente
d’onore alla Ballou High School, ma alla fine ottenne l’ammissione alla Brown University.
Come
suggeriscono queste storie, le persone che vivono in povertà sono un gruppo
eterogeneo.
Alcuni
sono poveri soprattutto perché, come Cunningham, persistono in comportamenti
perversi e antisociali.
Altri,
come Jennings, hanno fatto del loro meglio con risorse limitate.
Quindi
le due visioni contrapposte di ciò che causa la povertà – il comportamento
delle persone o le loro circostanze avverse – avranno una certa validità solo
in parte.
La maggior parte delle persone povere non è né
disastrosa come Cunningham, né tanto laboriosa e dedita al successo dei loro
figli come Jennings.
Ma ciò
che mostra una ricerca più sistematica è che il comportamento è importante e
deve essere preso in considerazione se vogliamo ridurre la povertà e la
disuguaglianza.”
“Un
pesce o insegnare a pescare” dunque?
Certe
volte l’uno, certe volte l’altro.
Certe volte quello che serve è solo un paio di
calzini asciutti come ha raccontato “Scott Benner” attingendo alla sua storia
di senza tetto , altre volte una quantità di denaro, un pesce, è sufficiente per ottenere
quella serenità per scegliere correttamente, come dimostra l’esempio delle buste
citato prima.
Altre
volte ancora la situazione non si può affatto risolvere con il denaro.
Il
caso di “Tree For Car” mi pare sempre un buon esempio per porre il rischio di
risolvere tutto con una somma di soldi.
Nel
2013 il ventitreenne Patrick McConlogue aveva fatto amicizia con un senzatetto,
Leo Grand, che incontrava ogni mattina andando al lavoro. Grand viveva sui marciapiedi, lungo la West Side Highway di
Manhattan. Patrick gli fece una proposta: ti do subito cento dollari, e ne fai
quel che vuoi, oppure ti insegno a programmare e ti aiuto e trovarti un lavoro.
Grand
scelse la seconda offerta e riuscì a realizzare un’app che ottenne un buon
successo sul mercato.
Poco dopo però, alle prime difficoltà imprenditoriali,
abbandonò tutto e torno a vivere per strada.
Così
come, nella mia esperienza riconosco di avere incontrato persone che una volta
messe nella situazione di non fare fatica si impigriscono e non pensano più a
come migliorare la loro condizione. Insomma, o lavoriamo con le statistiche o lavoriamo
con i singoli individui.
I
figli di Bill e quando i soldi sono un problema.
Qualche
tempo fa creò scalpore la notizia che Bill Gates non avrebbe lasciato la sua eredità
ai figli ma avrebbe devoluto la sua fortuna in beneficenza.
Il
motivo, ha spiegato, che lasciare così tanti soldi ai suoi figli non sarebbe
affatto un favore: “distorcerebbe tutto ciò che potrebbero fare e il loro
percorso”.
Sta
invece incentivando un’educazione universitaria e sta chiaramente sostenendo
tutte le spese necessarie affinché avvenga – forse una buona analogia su come
aiutare le persone a creare il proprio percorso.
Il suo
altrettanto ricco e celebre amico, Warren Buffet, la pensa allo stesso modo e lascerà
ai suoi tre figli solo 6 dei suoi 66 miliardi di patrimonio.
E la
lista è ancora lunga:
Zuckerberg
ha pubblicato una lettera in occasione della nascita di sua figlia Max, nella
quale annunciava che avrebbe donato in beneficenza il 99% delle sue azioni
facebook valutate oltre 45 miliardi.
L’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, con un patrimonio di oltre 50
miliardi, farà altrettanto:
“Se
vuoi fare qualcosa per i tuoi figli e mostrare quanto li ami, l’unica cosa
migliore è sostenere le organizzazioni che creeranno un mondo migliore per loro
e per i loro figli.”
Sting, con un patrimonio di 300 milioni di
dollari, ha già chiarito ai suoi sette figli “Devono lavorare. Tutti i miei figli
lo sanno e raramente mi chiedono qualcosa.”
Perché
tanti miliardari non lasceranno il proprio patrimonio ai loro figli?
Howard
Sharfman,
esperto di trasferimento di ricchezza familiare, ha provato a spiegare:
“I
genitori sono preoccupati di assicurarsi che i bambini abbiano una vita
significativa e non vogliono che le loro fortune finanziarie possano ritorcersi
contro di loro. Vogliono aiutare, e questo è un equilibrio molto difficile.”
Su
questo equilibrio si è espresso ancora Warren Buffet:
“L’importo
perfetto da lasciare ai figli è abbastanza denaro in modo che sentano di poter
fare qualsiasi cosa, ma non così tanto da non poter fare nulla”.
Lo
chef Nigella
Lawson si
è espresso in modo ancora più radicale:
“Sono
determinato nel dire che i miei figli non dovrebbero avere alcuna sicurezza
finanziaria. Rovina le persone che non devono guadagnarsi quei soldi.”
Detto
che in quasi tutti i casi sono previsti sistemi di sicurezza e che, anche una
piccolissima parte del patrimonio, renderà ricchi i figli di queste persone,
c’è qualcosa da imparare in questo approccio e soprattutto dall’equilibrio di
cui parla Buffet.
L’aiuto
vincolato (cosa
insegna il caso del Kenya).
Come
detto, uno degli stratagemmi utilizzati da molti ricchi in al momento di
destinare la propria eredità, è quello di suddividere il proprio patrimonio e
impostare un sistema “di rilascio” in momenti diversi della vita degli eredi.
Un
sistema simile, in qualche modo, è quanto spesso si è auspicato per supportare
le fasce deboli della popolazione.
Nel
nostro paese ad esempio, la social card limita la possibilità di spendere i fondi a beni di
prima necessità.
Il
reddito di cittadinanza introdotto oggi in Italia parte da presupposti simili,
vincolando il mantenimento del beneficio a una ricerca attiva di lavoro e
all’accettazione di possibili lavori che vengano proposti.
Ma
davvero i “poveri” sono incapaci e bisogna vincolare l’aiuto?
Il caso del Kenya sembra confutarlo.
A
Kisumu, nel Kenya occidentale, un’associazione benefica chiamata GiveDirectly ha dedicato più di cinque anni a
distribuire direttamente somme di denaro alla popolazione.
Ogni
destinatario riceve circa $ 1.000 in due o tre rate e possono spendere i soldi
per quello che vogliono.
I
risultati rilasciati dal governo kenyano e commentati da povertyactionlab.org hanno, forse sorprendentemente dimostrato
che i soldi ricevuti dalle persone sono stati spesi in attività produttive come
cibo e cultura e non è aumentato il livello di beni di tentazione come alcol e
tabacco.
Quanto
contano i soldi? E quando non contano?
Buona
parte delle polemiche intorno al reddito di cittadinanza in Italia, sembrano riconducibili al fatto che
non si riesca a vedere la completa risoluzione a un problema.
Se
bisogna considerarlo come una misura per contrastare la diseguaglianza,
rimangono tutti i dubbi dati dal fatto che le somme destinate non sembrano sufficienti,
specie in alcune zone di Italia ad assicurare quella dignità di vita così
chiaramente espressa nell’articolo 25 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
“Quasi
la metà delle famiglie beneficiarie sono in realtà single, che costituiscono il
47,9% della platea (626 mila) e riceveranno in media, un sussidio di 4 mila 485
euro l’anno.
Le coppie con figli minorenni sono 257 mila
(il 19,6% delle famiglie beneficiarie) e percepiranno in media, 6 mila 470
euro, quindi, per effetto delle scale di equivalenza, meno delle coppie con
figli tutti adulti (che percepiranno 7041 euro). Gli stranieri si attestano al
12,4% dei beneficiari.” (fonte Istat)
Se lo
intendiamo come una misura volta a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro
– anche alla luce della nuova e curiosa figura dei navigator – rimangono tutti
i dubbi classici su come il denaro influisca nella motivazione e nel favorire
l’ingresso nel mondo del lavoro (in Finlandia, come discusso prima, l’effetto non è
stato dimostrato).
Sul
rapporto e la correlazione tra denaro e motivazione, ci si perde infine in una
letteratura ancora più incerta e discordante.
Un
paio di esempi e ricerche interessanti mostrano come gli incentivi possano
avere effetti strani e a volte opposti; sintomo che non abbiamo chiaro in testa
tutti gli elementi del problema.
I
“guadagni” pubblici.
In
Finlandia ogni anno, il 1° novembre, soprannominato “Giornata nazionale dell’invidia”, viene rivelato il reddito imponibile
di ogni cittadino finlandese, ricercabile da chiunque.
Anche
la Svezia e la Norvegia pubblicano le dichiarazioni dei redditi dei cittadini.
“Se la
pubblicazione di liste delle tasse abbia un impatto positivo o negativo sulla
società è però una questione controversa”, afferma Kristiina Äimä,
specializzata in diritto tributario all’Università di Helsinki.
“Alcune
persone pensano che la trasparenza promuova la democrazia nella società e
alcuni pensano che violi la privacy”.
Appunto.
Uno
studio dell’Università della California del 2011 ha rilevato che coloro che guadagnano
meno della paga media e ne sono a conoscenza, hanno riportato una minore
soddisfazione lavorativa ed erano più propensi a voler trovare un altro ruolo,
mentre quelli che guadagnano sopra non hanno riportato alcun effetto
stimolante.
Dall’altra
parte uno studio della Cornell University del 2016, ha scoperto che sapere
quanto guadagnano i colleghi può aumentare le prestazioni.
David
Burkus,
professore associato di leadership e innovazione presso la Oral Roberts University spiega che il meccanismo utile per
fare fruttare la trasparenza nelle organizzazioni è quello di comunicare come si
possono ottenere gli stipendi più alti e perché a un dipendente è stato dato.
“Non
molte organizzazioni però possono percorrere la strada della totale
trasparenza” conclude Burkus.
Le
multe inutili.
“I
bambini usciranno da scuola alle 4” ma molti genitori arrivano costantemente in
ritardo con ovvi problemi logistici per il personale scolastico.
Che
fare?
In un
esperimento condotto in dieci scuole materne di Haifa, in Israele, si testò se multe economiche
avrebbero risolto il problema, la tesi era che lo avrebbe fatto.
Fu
dunque annunciato che, trascorsi i primi 10 minuti di tolleranza, ogni ritardo
sarebbe costato l’equivalente di 3 dollari a bambino, sotto forma di
supplemento che sarebbe andato ad aggiungersi ai 380 dollari di retta mensile.
I
risultati però furono ben diversi:
ben
presto la media dei ritardatari salì a venti alla settimana, con un aumento più
che doppio.
Quello che doveva essere un incentivo si era
rivelato invece un boomerang.
Cosa
non ha funzionato?
La spiegazione data dagli studiosi fu che 3
dollari erano una sanzione troppo lieve. A quel prezzo, qualunque genitore
poteva permettersi di arrivare in ritardo anche ogni giorno con un sovrapprezzo
mensile di 60 dollari (pari a neppure un sesto della retta).
Molto
più economico di una baby-sitter.
Inoltre,
il limite della misura adottata dalle scuole fu quello di sostituire un
incentivo economico (risparmiare 3 dollari) a un incentivo di ordine morale
(evitare il disagio e il senso di colpa connesso al ritardo).
Per
pochi dollari al giorno, di fatto si acquistava il diritto di tardare a
piacimento, e con la coscienza a posto.
Potrebbe
essere che i sussidi come il reddito di cittadinanza producano gli stessi
effetti di disimpegno?
L’esperimento
fu condotto da Uri Gneezy e Aldo Rustichini , la semplificazione e i risultati
sono stati resi celebri da Steven D. Levitt e Stephen J. Dubner nel libro
Freakonomics – Il calcolo dell’incalcolabile.
Furti
indotti.
Un
altro caso di come gli incentivi si possano ritorcere contro è un esempio
studiato e raccontato da Robert Cialdini, psicologo e tra i massimi esponenti in termini di
persuasione e motivazione.
“Il
parco nazionale dell’Arizona aveva un problema, ed era espresso molto
chiaramente da un cartello: OGNI GIORNO, UN PEZZETTO PER VOLTA, QUESTA VOSTRA
EREDITÀ VIENE VANDALIZZATA DA FURTI PER 14 TONNELLATE ALL’ANNO.
Il
cartello voleva chiaramente risvegliare il senso di indignazione dei
visitatori. Cialdini e colleghi volevano capire quanto questo appello fosse
efficace, quindi hanno condotto un esperimento disseminando frammenti di legno
pietrificato qua e là lungo i sentieri del parco: praticamente, un invito al furto.
Su
alcuni percorsi hanno piantato anche loro un cartello che invitava a non
rubare, su altri no.
Il
risultato? Lungo i sentieri con gli avvisi i furti sono stati quasi il triplo
degli altri. Com’era possibile?
Cialdini
ha concluso che i cartelli del parco, oltre a trasmettere un messaggio morale,
ne contenevano anche un altro.
Qualcosa
tipo: Wow! La foresta pietrificata sta scomparendo… meglio che me ne prenda un
pezzo finché sono in tempo!
Oppure:
Quattordici tonnellate all’anno?
Che
differenza può fare se me ne prendo un pezzetto anch’io?”
Il
punto è che gli incentivi morali non funzionano affatto come si potrebbe
pensare.
«Molto
spesso», spiega Cialdini, «i messaggi di pubblica utilità sono pensati per
orientare le persone verso comportamenti socialmente desiderabili comunicando
loro quante altre, invece, ne assumono di indesiderabili.
Il
reddito di cittadinanza, con le sue implicazioni morali, potrebbe essere
frainteso?
E
dunque?
Devo
ripetere ciò che mi trovo a dire nelle riunioni con i responsabili del
personale che tentano di convincermi che piani generali e algoritmi collettivi
risolveranno il tema della responsabilità dei lavoratori.
La
motivazione è a mio parere soprattutto un tema personale, singolare,
individuale.
O
lavoriamo con le statistiche o lavoriamo con gli individui.
Fin
dove si può, l’intervento dovrebbe essere sul singolo.
Dove
non si può l’obiettivo sarà quello di limitare i danni.
Le
sfide del futuro: sfruttamento e irrilevanza.
Più ne
parliamo, più ci si rende conto che la situazione è tutt’altro che facile,
sfaccettata come è in tanti piccoli micro problemi e conseguenze per le quali
servirà sicuramente grande attenzione e grande equilibrio.
Non abbiamo però molto tempo.
Se è
vero che la diseguaglianza ha caratterizzato buona parte della storia umana –
ad eccezione del felice popolo degli “Hazda” naturalmente – è anche vero che mai come oggi
viviamo in una società complessa, veloce e in continuo mutamento.
Ci
sono soprattutto due grandi e per certi versi nuovi problemi che ne derivano.
Il
primo problema non è del tutto nuovo ma lo è nella forma: la gig economy sembra solo apparentemente offrire
nuove opportunità mentre aumenta il rischio dello sfruttamento e della
diseguaglianza.
Questo
almeno è il parere di Riccardo Staglianò, scrittore e giornalista italiano,
corrispondente per La Repubblica.
Nel suo libro sull’argomento, “Lavoretti: così la sharing economy ci
rende tutti più poveri”, Staglianò sottolinea ed evidenzia che per quanto le nuove
dinamiche offrono inaspettate opportunità lavorative, “i lavori, a differenza dei voti, oltre
che contarli si pesano.”
La
tesi principale è che “calano i lavori di una volta, quelli nutrienti con cui
puoi sfamare una famiglia, mentre crescono i lavoretti, snack che butti giù uno
dopo l’altro e non ti saziano mai.”
Partendo
dall’esempio di Uber,
emblema della sharing economy, nota infatti che si sia giunti a un sistema in cui “i nuovi lavoratori” assumono tutti i rischi imprenditoriali in cambio di
saltuarie e per niente stabili entrate, tanto che “Infatti solo il 4 per cento degli
autisti continua a lavorare per l’azienda dopo un anno da quando ha cominciato.
Tasso di ritenzione scarsissimo che dimostra,
altrettanto evidentemente, che chi ha provato non si è trovato tanto bene.”
Il vero punto a suo dire è pero che, in una società fatta da “poveri” il
ricambio è costante e questo porta al crescere delle compagnie e del sistema
della sharing economy in cambio di quello che definisce “un downgrade di
civiltà che, sinceramente, non possiamo permetterci.”
Numeri
alla mano, si pensi anche alle recenti polemiche dei riders, viene difficile dare torto a
Staglianò.
La mia personale opinione è che da una parte non sia
mai saggio combattere il “cambiamento” per definizione.
Si
tratta di leggerlo, tenerne il buono, sistemare le storture e buttare
l’inaccettabile, quando per inaccettabile si intende ciò che la sensibilità dei
tempi, lo “Zeitgeist” indica.
Un’altra
visione della storia racconta come la gig economy possa rappresentare, specie
all’inizio del proprio percorso professionale o ad esempio per mantenersi gli
studi, un buon compromesso e una diffusa opportunità.
D’altra parte è chiaro che non risolve il problema del
lavoro delle persone e che sistemi di questo tipo siano più pensati per
massimizzare i vantaggi ed obbedire ad un’economia di competizione che per
assicurare un vantaggio diffuso agli individui.
Staglianò parla in fondo di sfruttamento delle
persone, di downgrade di civiltà e del lavoro, fenomeno che nel corso della
storia ci siamo sempre trovati volenti o nolenti a dover affrontare.
Allo
stesso tempo però la tecnologia, pensiamo a robot e “Ai”, sta correndo così veloce da creare
una società che probabilmente vedrà una sempre più marcata divisione in termini di
opportunità, equità ed eguaglianza.
La nuova linea di demarcazione sarà data non
più dalle origini di nascita ma dalle competenze e in particolar modo dalla
capacità di relazionarsi insieme “alle macchine” e portare in dote quello che “Tyler
Cowen” in “La Media non conta più” definisce marginalità o valore.
Di contro, sempre con le parole di “Cowen”, ci
sarà sempre meno spazio per coloro a marginalità zero.
Persone
che per cultura, incapacità di adattarsi al cambiamento, renderanno preferibile
l’uso di un software o di un robot anche solo intelligente “per metà”.
In questo caso quale sarà il destino
di queste persone?
C’è
una barzelletta amara che circola in questi casi: «Uno stabilimento tessile moderno
impiega solo un uomo e un cane: l’uomo per dare da mangiare al cane e il cane
per tenere l’uomo lontano dalle macchine».
Detto
che una sola persona per stabilimento rende inutili tutte le altre persone, a
marginalità zero, dove finiranno i discorsi sul senso e significato per chi si
ritroverà ai bordi della società?
Il
grande rischio che si prospetta è ancora peggio dello sfruttamento: è
l’irrilevanza.
E
anche in questo caso mi viene da dire che non solo è triste, poco umano, ma che
ancora una volta non conviene a nessuno perché:
“Se chi sta bene non fa stare meglio chi sta
male, prima o poi chi sta male fa stare peggio chi sta bene”.
(Sebastiano
Zanolli)
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