Il tradimento della democrazia popolare da parte delle élite di governo.
Il
tradimento della democrazia popolare da parte delle élite di governo.
La
rivolta delle élite.
Il
tradimento della democrazia.
Neripozza.it – Editore- Feltrinelli – (1995) -
Christopher Lasch – (22-5-2023) - ci dice:
Pubblicato
per la prima volta nel 1995, un anno dopo la morte del suo autore, La rivolta delle élite apparve subito come un libro
fondamentale, capace di cogliere, più di qualsiasi testo di politologia, le
ragioni profonde della crisi delle moderne democrazie liberali.
«Anziché
attenersi ai sondaggi», scrisse il “Washington Post”, «gli analisti politici
farebbero meglio a impiegare il loro tempo leggendo l’ultimo libro di
Christopher Lasch».
Oggi,
a oltre vent’anni di distanza, il volume si svela non soltanto come un libro
fondamentale, ma come una vera e propria opera profetica, in grado di prefigurare la
nascita dei populismi odierni, di quella” secessio plebis” che si comprende
appunto soltanto come una naturale conseguenza della rottura del legame sociale
operata tempo fa dalle élite.
Il
libro ritrae per la prima volta, nei suoi tratti essenziali a noi oggi così
familiari, quell’élite
liberale e cosmopolita di tecnocrati, manager e agenti della comunicazione che
determinano le sorti delle società contemporanee: uomini che si sentono a casa
propria soltanto quando si muovono, quando «sono en route verso una conferenza
ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival
cinematografico internazionale».
Uomini
che, in possesso di «una visione essenzialmente turistica del mondo», lasciano volentieri l’idea di una
residenza stabile a una middle class ritenuta «tecnologicamente arretrata,
politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti
culturali».
Uno
smart people che, a Hong Kong come a Bruxelles o a New York, si sente
«creativo», ma la cui creatività è rivolta soltanto a «una serie di attività
mentali astratte svolte in un ufficio, preferibilmente con l’aiuto di un
computer, e non alla produzione di cibo, case o altri generi di prima
necessità».
Il
solo rapporto che, nel liberalismo moderno, l’élite ha con il lavoro produttivo
è, per Christopher Lasch, il consumo.
Per il
resto essa vive in una «iper realtà», un mondo simulato di modelli
computerizzati, dove non ne è più nulla del mondo comune e dove l’ossessione
fondamentale è il controllo, la «costruzione della realtà» (diremmo, con il termine oggi in
voga, “la governance”).
Lasch
non si sottrae alla questione di cosa opporre alla rottura del legame sociale
prodotta dalla rivolta delle élite.
Nel
sindacalismo agrario e operaio americano dell’Ottocento, confluito poi nel “People’s
Party” e nel “Partito Democratico”, vi è, secondo lui, la possibile risposta:
l’esperienza di comunità fondate su valori
come l’eguaglianza delle opportunità, la competenza, la mutua collaborazione, e
per questo «capaci di autogoverno».
“La
rivolta delle élite” fu pubblicata per la prima volta in Italia nel 1995
dall’editore Feltrinelli con il titolo” La ribellione delle élite”.
La sua riproposta oggi, con un titolo più
fedele a quello originale, nasce da una profonda convinzione:
che l’opera sveli oggi più di ieri la sua indiscussa
attualità.
La
scellerata guerra di Putin
avrà
conseguenze sugli
autocrati
di tutto il mondo
Linkiesta.it
– Redazione – (2 aprile 2023) – ci dice:
I
leader sovranisti e nazionalisti seguono a distanza l’invasione russa in
Ucraina, rifiutandosi di condannare le nefandezze del Cremlino.
Un lungo articolo del “Financial Times” spiega
perché l’esito di questo conflitto avrà un impatto sul futuro di un’intera
generazione di dittatori, o aspiranti tali.
L’invasione
dell’Ucraina è sembrata una naturale conseguenza delle politiche autoritarie di
Vladimir Putin.
A
quasi un mese e mezzo dall’inizio del conflitto, i discorsi sulla
«denazificazione» e sulla necessità urgente di interrompere un «genocidio», la
venerazione della forza e della violenza, il disprezzo per il liberalismo e la
legge, appaiono sempre più come deliri d’onnipotenza dell’uomo forte che non ha
opposizione in patria.
Negli
ultimi anni Putin è diventato l’archetipo dell’autocrate che governa con pugno
di ferro.
I suoi metodi sono stati emulati, o sono stati
d’ispirazione, per molti altri leader autoritari.
Narendra
Modi in India, Jair Bolsonaro in Brasile, Viktor Orbán in Ungheria, Mohammad
bin-Salman in Arabia Saudita, Xi Jinping in Cina sono entrati nel solco
tracciato dal capo del Cremlino.
Sono
leader nazionalisti e conservatori, con tolleranza nulla per minoranze,
dissenso e immigrati.
In casa loro si vantano di difendere i
cittadini da presunti assalti delle élite globaliste;
all’estero si presentano come l’incarnazione
delle nazioni che rappresentano.
I
tanti punti di contatto tra i regimi autoritari creano un fronte comune in cui
i destini politici dei diversi leader sembrano tutti connessi.
«È possibile che un’eventuale catastrofe russa
in Ucraina screditi definitivamente lo stile politico dell’uomo forte», si
legge sul” Financial Times”, in un lungo articolo firmato da “Gideon Rachman”,
il quale però sottolinea che prima di decretare il fallimento su tutta la linea
di questo attacco bisogna tenere a mente che questo «stile politico» ha messo
radici profonde negli ultimi 20 anni.
L’età
dell’uomo forte in epoca recente è iniziata il 31 dicembre 1999, quando Putin
ha prestato giuramento come presidente della Russia:
da
quel momento è diventato il prototipo per un nuovo tipo di “sovrano” che
avrebbe rimodellato la politica globale per una generazione.
Dopo
di lui sarebbe arrivato, nel 2003, “Recep Tayyip Erdogan”, diventato primo
ministro della Turchia.
In poco più di un decennio hanno preso il
potere nei loro Paesi anche Orbán, Modi, Bolsonaro.
E ovviamente anche Xi Jinping in Cina, che è
riuscito a rendere il suo mandato praticamente eterno nel 2018, quando ha
rinnovato e rafforzato la sua leadership abolendo i limiti del mandato
presidenziale.
«Il
rifiuto di lasciare il potere è uno dei marchi di fabbrica dell’uomo forte»,
scrive il “Financial Times”.
Anche Erdogan e Putin hanno anche cambiato le
costituzioni dei loro Paesi per prolungare il loro periodo al vertice.
«Una
caratteristica dell’uomo forte è che deve essere considerato indispensabile.
L’obiettivo
di questi leader è convincere le persone che solo loro possono salvare la
nazione.
In questo modo distinzione tra lo Stato e il
leader viene erosa, rendendo pericolosa o inconcepibile la sostituzione
dell’uomo forte con un mortale inferiore»,
si
legge nell’articolo del “Financial Times”.
Insomma,
deve crearsi una distanza netta tra i leader autoritari e i cittadini comuni:
Putin, Xi Jinping, Modi, Edorgan, hanno incoraggiato un culto della personalità
che va ben oltre gli standard dei partiti personali che ci sono in Italia o in
altri Paesi europei.
Durante
la sua campagna di rielezione del 2019, Modi ha fatto leva proprio su
un’immagine machista, vantandosi delle dimensioni del suo petto e della sua
volontà di usare la violenza contro i nemici dell’India.
Un giorno si è rivolto così agli elettori:
«Quando
si vota per Lotus (il suo simbolo del partito, ndr), non si preme un pulsante
su una macchina, ma si preme un grilletto per sparare ai terroristi».
Sembrava
una cifra stilistica estranea alle democrazie mature dell’Occidente.
Invece
l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato questo paradigma.
Ha ripetuto più volte – a metà tra il serio e
il faceto – che anche la più grande democrazia del mondo dovrebbe cambiare la
sua costituzione per permettergli di governare più a lungo rispetto al limite
dei due mandati.
E nel 2015, quando era ancora solo un
candidato, Trump elogiò Putin anche di fronte alle accuse di omicidio di
giornalisti e oppositori:
«Penso che anche il nostro Paese uccida
parecchio».
Un
presidente americano disposto a dire, in buona sostanza, che anche le democrazie
mentono, uccidono, hanno media ingannevoli, truccano le elezioni e hanno
tribunali disonesti, fa il gioco degli autocrati.
«La cancellazione di una linea di separazione tra la
leadership nei sistemi democratici e autoritari è stata per decenni un
obiettivo chiave degli autoritari», scrive il Financial Times.
L’uomo
forte di queste dittature spesso giustifica i suoi metodi spietati dipingendo
la patria come una nazione in crisi così profonde da non poter più permettersi
di rispettare gli ideali liberali;
spesso
gioca sulla paura che la maggioranza del Paese stia per essere spodestata da
nuove minoranze, al costo di enormi perdite culturali ed economiche.
È
quello che “Gideon Rachman” nel suo articolo definisce «nazionalismo nostalgico».
È il
“Make America Great Again” di Trump; il «rande ringiovanimento del popolo
cinese» voluto da Xi Jinping; l’orgoglio indù sbandierato da Modi; la
riconquista dei territori persi dall’Ungheria dopo la Prima Guerra Mondiale
reclamata da Orbán; i continui richiami all’Impero Ottomano di Erdogan.
I
governi autoritari hanno anche una predilezione per la violenza, la conquista e
l’anarchia internazionale: l’era dell’uomo forte degli anni ’30, con Mussolini,
Franco, Stalin e Hitler portò il mondo intero – o quasi – in guerra.
Putin
ora sta ripetendo questo schema.
La sua invasione dell’Ucraina ha finalmente
spinto gli Stati Uniti e l’Unione europea a tentare di combattere
l’autoritarismo degli uomini forti.
L’invocazione
forse sbadata ma sincera di Joe Biden in Polonia, «per l’amor di Dio quest’uomo
non può rimanere al potere», è stata molto criticata.
Ma
riflette l’idea di un mondo che si ritrova, una volta di più, bloccato in una
lotta sanguinosa autocrazia e democrazia.
Non è
un caso che molti leader autoritari in tutto il mondo siano rimasti
strategicamente neutrali sulla guerra, forse rifiutandosi di condannare Putin
ma tenendosi alla larga dall’impegno nelle sanzioni internazionali.
«Ci
sono buone ragioni per credere che il mondo democratico liberale alla fine
prevarrà», scrive il “Financial Times”
. «La
regola dell’uomo forte – si legge ancora nell’articolo – è che il modello è
intrinsecamente imperfetto», quindi destinato a sgretolarsi prima o poi.
Uno
Stato governato da Putin o Xi Jinping o Modi non può affrontare il problema
della successione, è carente in tutti quei proverbiali pesi e contrappesi che
consentono alle democrazie di liberarsi di politiche e governanti fallimentari.
Ed è
altrettanto evidente che più a lungo un autocrate è al potere, più è probabile
che sia sopraffatto dalla paranoia o alla megalomania.
«La
criticità di questi giorni – è la conclusione dell’articolo – è che gli uomini
forti sono molto difficili da rimuovere dal potere:
questa
nuova generazione di leader ha messo le radici nel corso di un ventennio e
potrebbero esserci molte altre turbolenze e sofferenze prima che si chiuda
questo capitolo di storia».
Il
mondo paranoico e classista
dei
super-ricchi.
Transform-italia.it
– (01/02/2023) - Alessandro Scassellati – ci dice:
Questo
testo era stato scritto per essere incluso nel mio libro “Il suprematismo
bianco”.
Alle
radici dell’economia, ideologia e cultura della società occidentale,
DeriveApprodi, Roma, 2023, nelle librerie entro questo febbraio. Purtroppo, per
ragioni di spazio l’ho dovuto tagliare, ma ora mi sembra utile condividere
queste riflessioni con i lettori di “Transform! Italia”.
(C’è
guerra di classe, va bene, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo
la guerra, e stiamo vincendo.
Warren
E. Buffet.)
Il
populismo reazionario che da ormai un decennio investe le società occidentali è
in grado di attirare, oltre che i ceti più vulnerabili, anche gli elettori
ricchi, in quanto il pregiudizio e l’ostilità possono essere ugualmente
prevalenti tra le fasce più abbienti della popolazione.
“Mols” e” Jetten” parlano di «paradosso della
ricchezza» e sostengono che le fasce più abbienti percepiscono che i confini
tra il loro gruppo e quelli socialmente inferiori (come il ceto medio) sono
permeabili, e quindi si percepiscono insidiate dal pericolo di un declino della
propria posizione.
Cercano di rafforzare i meccanismi di
legittimazione dei propri livelli di reddito e di ricchezza che giustificano
che altri stiano peggio, o perfino che restino esclusi dall’accesso a
fondamentali diritti e opportunità.
In loro cresce il timore che la propria ricchezza si
possa dissipare in un breve lasso di tempo per l’instabilità politica o per
quella economica (ad esempio, a seguito dei crolli delle azioni in borsa o
della crisi dell’impresa familiare), e accumulano risentimento credendo di
essere colpiti dalle misure di austerità implementate dai governi più duramente
degli altri gruppi.
I veri
ricchi, come ha osservato “Francis Scott Fitzgerald” ne “Il grande Gatsby”,
«sono diversi da te e me», perché la loro ricchezza li rende «cinici dove noi
siamo fiduciosi» e li fa pensare che siano «migliori di noi».
I super ricchi americani – nel 2022, tre
multimiliardari, Elon Musk, Jeff Bezos e Bill Gates possedevano più ricchezza
della metà inferiore della società americana, ossia di 160 milioni di americani
– sono consapevoli che nel medio e lungo termine queste dinamiche sociali ed
economiche così inique (basti pensare che i maschi americani più ricchi vivono
15 anni in più rispetto ai maschi americani più poveri, mentre per le donne la
differenza è di 10 anni) non sono sostenibili e in molti, oltre a fare la
tradizionale beneficenza filantropica, vivono nell’ansia che il paese possa
insorgere contro di loro e che nel prossimo futuro possano scoppiare gravi
disordini, sommosse, tensioni razziali e conflitti sociali.
I
super ricchi vivono in un’atmosfera paranoica (in linea con il «paranoid style»
presente nella storia della politica americana che venne denunciato dallo
storico “Richard Hofstadter” nel 1964 ) e temono l’arrivo del collasso
ambientale, di una catastrofe (come nei casi degli uragani Katrina e Irma o di
un’esplosione nucleare o di una tempesta solare), di una pandemia (come il coronavirus CoVid-19), di una guerra civile, di una
rivoluzione, di un hacking digitale che distrugge tutto o di un collasso del
governo e delle istituzioni.
Una
situazione di crollo dell’apparato statale che viene chiamata” wrol – without
rule of law “– cioè «fine dello stato di diritto».
Per questo si preparano a sopravvivere
(«survivalism») rifugiandosi in bunker sotterranei con armi automatiche e
provviste o predisponendo vie di fuga in rifugi dorati in isole sperdute o in
case di lusso in Alaska e Nuova Zelanda, un arcipelago di oltre 600 isole che
ai loro occhi offre distanza e sicurezza, ma dove di recente, proprio per
contenere il «caro-casa» e bloccare la «invasione» dei super ricchi americani e
cinesi, il governo laburista ha bloccato la possibilità di acquistare case da
parte di stranieri non residenti.
Il
loro manifesto è il libro “The sovereign individual: how to survive and thrive during
the collapse of the welfare state”, pubblicato nel 1997 da “Simon & Schuster”, i
cui co-autori sono “James Dale Davidson”, un investitore privato specializzato
nel consigliare i ricchi su come trarre profitto dalle catastrofi economiche, e
il defunto “Lord William Rees-Mogg”, a lungo direttore del “Times” (il cui
figlio, “Jacob Rees-Mogg”, è deputato e ex-Ministro ultra-conservatore
pro-Brexit britannico).
Il libro-manifesto è un testo apocalittico e
distopico che preconizza il collasso della civiltà occidentale basata sullo
Stato-nazione, rimpiazzata da deboli confederazioni di città-Stato corporative,
con la presa del potere da parte di una «élite cognitaria» globale, una classe
di individui sovrani in grado di controllare enormi risorse (una sorta di
neo-feudalesimo oligarchico).
Inoltre,
molte delle persone più ricche della Silicon Valley (come Peter Thiel, oltre
che co-fondatore di “PayPal”, uno dei primi investitori in “Facebook “e un
libertario e tecno-elitista convinto, o “Serge Faguet”) e di WALL Street (come “Julian
Robertson”, guru degli hedge funds), stanno investendo a piene mani nel
«business dell’immortalità» per migliorare chi è già in salute e costituire una
nuova élite di super uomini potenziati in grado di controllare i propri
algoritmi biochimici, applicando a sé stessi forme di “biohacking” (che uniscono l’alta tecnologia
dell’intelligenza artificiale, wellness, interventi anti-invecchiamento) – per cui c’è chi, come gli
sviluppatori dell’intelligenza artificiale “Sam Altman” e “Ray Kurzweil,” che
cerca di caricare la sua mente nei supercomputer, chi dorme su materassi
elettromagnetici, fa continui esercizi fisici sotto la guida di personal
trainer, segue rigide diete alimentari, si fa fare trasfusioni di cellule
staminali e prende fino a 150 pillole «cognitive» al giorno.
Finanziano a piene mani la ricerca
nell’ingegneria genetica (modifiche del DNA e dei telomeri) e biomedica (organi
artificiali), medicina rigenerativa, nanotecnologie e interfacce
cervello-intelligenza artificiale.
Di
recente, “Facebook” ha comprato per circa un miliardo di dollari “Ctrl-Labs”,
una startup che sta studiando il modo di comunicare con i computer tramite
segnali cerebrali (il pensiero) con l’obiettivo di utilizzare la tecnologia a
interfaccia neurale di Ctrl-Labs per sviluppare un braccialetto «che dia alle
persone il controllo dei loro dispositivi come una naturale estensione del
movimento».
Inoltre,
con l’avvento delle “tecnologie della biologia sintetica” ora i geni possono essere prodotti e
modificati ripetutamente.
La capacità di progettare cose viventi che questa
evoluzione tecnico-scientifica fornisce rappresenta un cambiamento
fondamentale nel modo in cui gli esseri umani interagiscono con la vita del
pianeta, potenzialmente di maggiore impatto rispetto al sorgere
dell’agricoltura o dello sfruttamento dei combustibili fossili.
Per i
super-ricchi, il futuro della tecnologia riguarda solo una cosa:
fuggire dal resto dell’umanità e
dall’apocalisse che loro stessi stanno producendo.
Cercano
di accumulare abbastanza denaro per isolarsi dalla realtà terrestre devastata,
elevarsi al di sopra dei comuni mortali ed approntare la propria exit strategy.
Secondo un acuto storico scenarista come “Yuval
Noah Harari”,
«due
processi insieme – la bio progettazione abbinata alla crescita
dell’intelligenza artificiale – potrebbero avere come conseguenza la divisione
dell’umanità in una ristretta classe di superuomini e in una sconfinata
sottoclasse di inutili Homo Sapiens.
A peggiorare la già nefasta situazione, con la
perdita di importanza economica e potere politico delle masse, lo Stato perderà
gran parte dei motivi per investire in salute, educazione e welfare.
È
pericoloso essere superflui.
Il
futuro delle masse dipenderà allora dalla buona volontà di un’élite. Forse ci
sarà buona volontà per alcuni decenni.
Ma in un momento di crisi – nel caso per
esempio di una catastrofe climatica – sarà facile essere tentati di scaricare
le persone superflue».
Un
mondo in cui l’umanità cercherebbe di percorrere la strada del “dottor
Frankenstein” e potrebbe finire per essere divisa non più solo in diverse
classi sociali, ma addirittura «in diverse caste biologiche o persino in diverse
specie», con una casta superiore di entità super-intelligenti che potrebbe
decidere di costruire muri o colonie spaziali su altri pianeti (Luna e Marte)
per tenere fuori le masse dei «barbari» divenuti ormai irrilevanti perché la loro
forza lavoro sarebbe sostituita da quella di fedeli e meno costosi robot e
cyborg prodotti in serie e dotati di intelligenza artificiale, in grado di dare
vita ad una «robonomics».
Da
questo punto di vista, grazie alla combinazione di bioingegneria, interfacce
cervello-intelligenza artificiale e ingegneria sociale, sembra ormai a portata
di mano la possibile costruzione di quel «mondo nuovo» distopico preconizzato
dalle visioni fantascientifiche di grandi scrittori come” Aldous Huxley”, “George
Orwell” (memorabile la sua descrizione dello Stato di sorveglianza), “Isaac
Asimov”, “Philip K. Dick”, “Anthony Burgess”, “James D. Ballard”, “Cormac
McCarthy” e dei narratori cyberpunk degli anni ’80 (William Gibson, Bruce
Sterling, Pat Cadigan, Rudy Rucker e altri), oltre che di grandi registi
cinematografici come “Stanley Kubrick” con 2001:” Odissea nello Spazio”, “Ridley
Scott” con “Blade Runner”, “Steven Spielberg” con “Minority Report”, “James
Cameron” con la saga “Terminator”, le sorelle “Lana e Lilly Wachowski” con “The
Matrix” e “Peter Weir” con “The Truman Show”.
Per
questo molti dei teorici dell’intelligenza artificiale – guidati dal filosofo”
Nick Bostrom” – sostengono che lo scenario apparentemente fantascientifico di
un’intelligenza artificiale cosciente che sfugge al controllo umano (e in
effetti la storia della programmazione informatica è piena di piccoli errori
che hanno scatenato catastrofi) e si impadronisce del mondo, rappresenta una
minaccia esistenziale per l’umanità così enorme che è ora di prendere
provvedimenti – da parte dei parlamenti, dei governi, dell’ONU e degli altri
organismi internazionali – per evitare che ciò accada.
Affidarsi
alla super-intelligenza artificiale potrebbe essere un’enorme minaccia per la
sopravvivenza dell’umanità ed è possibile che ad un certo punto la stessa
comunità dell’intelligenza artificiale possa seguire l’esempio del movimento
anti-nucleare degli anni ’40 del secolo scorso quando, dopo i bombardamenti di
Hiroshima e Nagasaki, gli scienziati si unirono per cercare di limitare
ulteriori test nucleari.
Negli
ultimi tre decenni, una parte rilevante degli ultraricchi americani – con i
fratelli “Koch”, “Dick e Betsy DeVos” e” Lynde e Harry Bradley” in prima fila –
ha finanziato a piene mani la filantropia di orientamento conservatore.
La
loro agenda è stata quella di cambiare il dibattito pubblico in modo che fosse
più accomodante nei confronti della loro visione del mondo neoliberista e
anarcocapitalista, contraria alla regolamentazione della finanza, al
miglioramento del salario minimo, ai controlli sulle industrie inquinanti e
alla creazione di un’assistenza sanitaria universale.
Finanziano
accademici che negano il cambiamento climatico o propugnano un «nazionalismo
climatico»
(ponendo l’accento sul pericolo che il cambiamento climatico pone agli
interessi nazionali), sostengono “think-tanks” del libero mercato, stringono
alleanze con gruppi religiosi conservatori, finanziano stazioni televisive e
radio populiste e creano «istituti aziendali» all’interno delle università, che consentono loro, non ai consigli
universitari, di selezionare gli accademici.
Allo
stesso tempo, c’è anche un altro crescente segmento «illuminato» di ultraricchi
americani – guidato da “Bill e Melinda Gates” e da” George Soros” – che
promuove l’idea di cambiamento sociale e che aspira a guidarlo.
Vogliono
essere adulati, si aspettano di essere elogiati come eroici creatori di posti
di lavoro e come esempi di uomini d’affari innovativi e moralmente integri e
responsabili che non hanno beneficiato di un «sistema truccato».
La
maggior parte dei miliardari, ha affermato “Zuckerberg”, sono semplicemente
«persone che fanno cose veramente buone e che aiutano un sacco di altre
persone; e per questo sono ben ricompensati».
Molti
di questi ultraricchi si ritengono altruisti e sostengono finanziariamente
movimenti sociali iniziati da altri che cercano di cambiare aspetti specifici
della società.
Più spesso, avviano nuove iniziative autonome
gestite non in modo democratico, e che non riflettono realmente la ricerca di
soluzioni collettive o universali, ma piuttosto privilegiano l’uso del settore
privato e delle sue appendici universitarie, di comunicazione e
istituzionali/fondazionali filantropiche, nate principalmente per eludere le
tasse e mantenere il controllo delle corporations che accumulano ricchezza.
Sostengono che la soluzione ai problemi del
mondo attuale – prevenire il riscaldamento globale, promuovere la diversità e
l’inclusione, eliminare la povertà, prepararsi alle nuove pandemie – debba
essere trovata nel mercato privato, nelle tecnologie sviluppate dalle imprese e
nell’azione volontaria gestita in modo imprenditoriale, non nella vita politica
pubblica, nella democrazia partecipativa, nell’azione di governanti eletti e
responsabili nei confronti di cittadini/elettori, nella legge, nell’intervento
redistributivo e regolativo statale.
Il magnate del computer “Michael Dell”, la 39esima
persona più ricca al mondo, ad esempio, a Davos 2019 ha affermato che:
«Mi sento molto più a mio agio con la nostra
capacità […] di allocare quei fondi rispetto che a darli al governo».
Sono
convinti che la tassazione tolga la libertà di scegliere di essere dei
benefattori virtuosi e che gli strumenti, le mentalità e i valori che li hanno
aiutati ad essere dei vincenti, siano il segreto per rimediare alle ingiustizie
sociali.
Per
cui, paradossalmente, coloro che con metodi predatori e spesso monopolistici (o
semplicemente per avere ereditato giganteschi patrimoni finanziari dai loro
padri o nonni) sono tra i maggiori beneficiari dell’attuale sistema economico,
ma anche tra i maggiori responsabili delle crescenti disuguaglianze sociali, si
mobilitano per difendere le loro rendite di posizione, mentre pretendono di
presentarsi come salvatori dell’umanità da un’epoca di disuguaglianze e
catastrofe ambientale.
Dei riformatori che vogliono «cambiare il mondo per
renderlo un posto migliore».
Ma,
nel migliore dei casi, questi paladini del «filantrocapitalismo» cercano di curare i sintomi, non di
affrontare le cause profonde del disagio sociale.
La
filantropia è la disposizione dell’animo a iniziative umanitarie che si traduce
in attività dirette a realizzarle, mentre il filantropo è senza dubbio una
persona generosa che aiuta il prossimo, ma è altresì una persona molto ricca
che usa una parte del suo cospicuo patrimonio per iniziative caritatevoli.
Sentimento
e carità, non diritti.
Attraverso
la filantropia gli ultraricchi migliorano la propria immagine pubblica e
condizionano il dibattito pubblico, spostando l’attenzione da soluzioni
politicamente più radicali che potrebbero risolvere i problemi per tutti, ma
metterebbero in discussione le basi e la legittimità della loro enorme
ricchezza.
Finanziano progetti per nutrire gli affamati,
creare posti di lavoro per «soggetti deboli», costruire alloggi di housing
sociale e migliorare i servizi, ma tutto questo lavoro a fin di bene può essere
spazzato via da tagli alla spesa pubblica, prestiti predatori o bassi livelli
di retribuzione.
Essendo
le persone che più hanno da perdere da un vero cambiamento sociale, di fatto,
per loro la società dovrebbe essere cambiata secondo modalità che non cambiano
il sistema economico sottostante che ha permesso loro di essere dei vincitori
ma, allo stesso tempo, ha favorito l’acuirsi di molti problemi sociali,
economici ed ambientali che essi ora vorrebbero cercare di risolvere con la
beneficenza.
Un’operazione
«gattopardesca», una sorta di «smokescreen», di cortina fumogena di autodifesa
conservatrice in linea con l’affermazione «se vogliamo che tutto rimanga come
è, bisogna che tutto cambi» dell’aristocratico “Tancredi Falconeri” nel romanzo
di “Giuseppe Tomasi di Lampedusa”.
Così
ci sono i
finanzieri di Goldman Sachs e BlackRock che cercano di cambiare il mondo
attraverso iniziative «win-win» (soluzioni vantaggiose per tutti) come i «green
bonds», l’investimento ESG (ossia attento alle politiche aziendali in campo
ambientale, sociale e della governance), l’«impact investing» nei
«purpose-driven brands» (portafogli basati su attività che curano l’ambiente e
portano benefici per la società), il «social venture capital» e il
miglioramento della qualità della governance.
Oppure, aziende tecnologiche come “Uber” e “Airbnb”
che si dipingono come strumenti che danno potere ai poveri, consentendo loro di
fare gli autisti o di affittare stanze delle loro case ai turisti, ma operano
per deregolamentare i settori dei taxi e dell’accoglienza turistica, erodere i
diritti dei lavoratori e aumentare il controllo delle corporations su privacy e
dati delle persone.
O finanzieri che cercano di convincere il
mondo dell’associazionismo sociale che la ricerca di una maggiore uguaglianza
debba essere perseguita accettando posti nei consigli di amministrazione e
posizioni di leadership.
Ancora,
grandi corporations costruite e gestite in modi discutibili che si dichiarano
impegnate nel perseguire la responsabilità sociale d’impresa e lo «stakeholder
capitalism», tenendo conto del benessere dei consumatori, dei dipendenti, dei
fornitori, della comunità in cui opera l’impresa.
D’altra
parte, sappiamo che i consumatori tendono a premiare le imprese che appaiono eticamente
responsabili, oppure possono causare danni seri attraverso i boicottaggi,
coordinati sui social media, a quelle che violano apertamente i princìpi di
equità e correttezza.
Ma,
qualunque sia il bene che questi ultraricchi e le “global corporations” che
essi controllano potrebbero fare, l’instancabile spinta verso l’efficienza, la
sistematica distruzione del potere dei sindacati, la massimizzazione del valore
per gli azionisti, l’avvelenamento dell’ambiente naturale e l’evasione o
elusione delle tasse (non pagano la loro giusta quota anche grazie agli
incentivi fiscali per le donazioni filantropiche) minano la qualità e le basi
stesse dello Stato democratico, privando necessariamente la maggior parte delle
persone della loro dignità, del loro potere sociale e politico, della loro
voce, dei loro diritti e della possibilità di incidere sullo stato reale delle
cose, migliorando l’istruzione e l’assistenza sanitaria universale e riducendo
la povertà e i disagio abitativo.
Il
presidente Theodore
Roosevelt dava
un duro giudizio dei ricchi filantropi come” John D. Rockefeller”, esponente di spicco della
generazione dei “robber barons” cinici costruttori dei grandi imperi
monopolistici del capitalismo americano convertitosi alla filantropia
industriale, sostenendo che «nessuna quantità di beneficenza nello spendere tali fortune
può in alcun modo compensare la cattiva condotta nell’acquisirle».
La risposta di Roosevelt ai “robber barons”
era di applicare delle norme antitrust e di tassare la ricchezza.
Un’imposta
federale sui redditi venne introdotta nel 1913, la tassa di successione fu
emanata nel 1916 e l’imposta sulle plusvalenze nel 1922.
“Thomas Paine” (1737–1809), un
rivoluzionario, politico intellettuale, filosofo illuminista e studioso
britannico, estensore de” I diritti dell’uomo” (1791) e dell’opuscolo di 47
pagine” Common Sense” contro i «ruffiani incoronati» che divenne virale nelle
colonie americane quando fu pubblicato nel gennaio 1776, viene considerato uno
dei «padri fondatori» degli Stati Uniti d’America e riteneva che la ricchezza
estrema dovesse essere tassata perché mina l’uguaglianza essenziale per il
funzionamento del governo repubblicano.
Il giovane storico olandese “Rutger Bregman”
ha suscitato scandalo per aver detto al meeting di Davos 2019 che «il re è
nudo», che la volontà degli ultraricchi del
«club dei globalisti» di impiegare parte delle loro ricchezze nelle fondazioni
filantropiche, piuttosto che vederla spesa da uno Stato legittimo, è una forma
di anarchismo e una «cazzata»:
«sento persone che parlano il linguaggio della
partecipazione, della giustizia, dell’uguaglianza e della trasparenza, ma
nessuno solleva il vero problema dell’elusione fiscale e dei ricchi che
semplicemente non pagano la loro giusta quota».
Se nel
mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio
per la filantropia, perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati o oligarchi
che detengono più della metà delle risorse del pianeta.
D’altra
parte, negli Stati Uniti, il paese dove le statistiche mostrano che la
filantropia è più diffusa e massiccia, appena un quinto del denaro donato dai
grandi donatori va ai poveri.
Molto
va alle arti, alle squadre sportive e ad altre attività culturali, e la metà va
all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Le
donazioni più grandi nel settore dell’istruzione nel 2019, però, sono andate
alle università e alle scuole d’élite frequentate dagli stessi ricchi.
Gli
ultra ricchi filantropi dicono di volere una società più giusta, ma non sono
disponibili a discutere su quali debbano essere gli strumenti realmente
necessari, come se ad una conferenza dei vigili del fuoco «nessuno avesse il
permesso di parlare dell’acqua», ha affermato “Bregman”.
“Apple”,
“Google”, “Amazon” e tante altre aziende come loro e anche i loro azionisti
pretendono di essere considerati dei soggetti socialmente responsabili, ma il
primo elemento della responsabilità sociale dovrebbe essere quello di pagare
una giusta quota di tasse.
“Amazon”
ha realizzato un profitto di 11,2 miliardi di dollari nel 2018, ma non ha
pagato alcuna imposta federale per il secondo anno consecutivo, a causa di vari
«crediti d’imposta» non specificati e il tax break per le stock options dei
suoi amministratori.
Lo stesso è successo per “Netflix” (un
profitto di 845 milioni e zero tasse federali o statali pagate).
Il
numero di aziende che hanno pagato zero imposte societarie è raddoppiato nel
2018 per effetto della riforma fiscale di Trump del 2017 e tra queste c’erano,
oltre “Amazon” e “Netflix”, anche altre delle più redditizie corporations (60
delle Fortune 500):
Delta
Airlines, Chevron, General Motors, EOG Resources, Duke Energy, Occidental
Petroleum, Dominion Energy, Honeywell, Deere & Co, American Electric Power,
Hulliburton, IBM, Saleforce.
Zero tasse per un totale di utili pari a 79
miliardi di dollari nel 2018.
“Amazon”
ha anche costretto Seattle, la sua città natale, a fare marcia indietro su un
piano volto a tassare le grandi corporations per finanziare un programma di
edilizia popolare per i senzatetto e per una popolazione in crescita che non
può permettersi gli altissimi affitti causati in parte dalla stessa “Amazon”.
Se
tutti evitassero e evadessero le tasse come queste società – che, grazie alle
catene del valore e all’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale hanno
di fatto reso inapplicabile il sistema del cosiddetto “transfer pricing” basato
sul principio che le tasse si pagano dove si svolge un’attività economica – la società e lo Stato non potrebbero
funzionare, né tanto meno fare quegli investimenti pubblici che hanno portato a
Internet, da cui le stesse “Google”, “Apple”, “Facebook”, “Amazon” e “Microsoft”
dipendono.
(Alessandro
Scassellati)
Élite
e democrazia nel
pensiero
politico moderno.
Pandorarivista.it
- Lorenzo Mesini – (13-3-2020) – ci dice:
Punto
di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni
formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone: governanti
e governati, dominatori e dominati.
I primi costituiscono una minoranza più o meno
ristretta, che tende a concentrare nelle proprie mani una grande quantità di
potere e di risorse (sia materiali che simboliche).
I
secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei
governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.
Obiettivo
principale della teoria delle élite, a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo
Pareto, è stato quello di elaborare una giustificazione teorica a questa
indiscutibile uniformità che, con forme diverse, attraversa la storia e le
società umane.
La
distinzione tra governanti e governati non è tuttavia una scoperta della
scienza politica tra Otto e Novecento, ma è sempre stata oggetto delle varie
tradizioni che attraversano la storia del pensiero politico.
In
questo contributo verranno inquadrate alcune delle principali linee di sviluppo
del pensiero politico moderno in merito al rapporto che lega élite e
democrazia.
Ci si
concentrerà, innanzitutto, sulle modalità con cui il rapporto tra i governanti
e i governati viene declinato nei diversi filoni del razionalismo politico
moderno.
Si procederà con l’opera di Gaetano Mosca,
esponente dell’elitismo classico, per poi affrontare la critica dialettica
svolta nei suoi confronti da Antonio Gramsci.
In conclusione si proporranno alcune
riflessioni sulla prospettiva sviluppata dall’elitismo democratico nel
Novecento.
Ripercorrendo
queste tappe si cercherà di illustrare come il rapporto tra governati e
governanti, tra élite e democrazia sia stato declinato con esiti e modalità
diverse, a seconda degli orizzonti valoriali e concettuali attraverso cui è
stata di volta in volta pensata la politica, le relazioni sociali e la storia.
Il
pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto
radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica.
Se
l’ordine politico antico e cristiano era concepito come un ordine naturale
(oggettivo e gerarchico) posto a stabile fondamento della politica, l’età
moderna pensa invece l’ordine come prodotto umano e artificiale, fondato
sull’attività razionale degli individui, soggetto al conflitto e al mutamento.
L’idea
di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione
della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.
I
grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando
per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a
partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia
naturale tra gli uomini.
L’assenza
di un ordine naturale tra gli individui costituisce il problema da cui muove il
pensiero politico moderno: la naturale uguaglianza tra gli uomini sono infatti
forieri di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra omnes dello
stato di natura).
La necessità dell’ordine politico nasce quindi
dall’esigenza di difendere l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli
uomini, uguaglianza che deve essere tutelata dai suoi stessi effetti
collaterali.
Attraverso
il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a
edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge
universalmente valida al suo interno.
Gli autori del potere (gli individui)
tuttavia, non lo esercitano in maniera diretta, ma attraverso istituzioni
rappresentative (il sovrano rappresentativo o un’assemblea parlamentare) che
sono superiori a coloro che rappresentano.
Gli
autori del potere non coincidono quindi in maniera diretta con i suoi attori
(le istituzioni rappresentative).
Questo
elemento di disuguaglianza all’interno del corpo politico moderno non deriva da
alcuna superiorità di carattere ontologico o naturale ma è di carattere prettamente
funzionale, volta a garantire l’unità dello Stato.
In
linea di principio nessuna distinzione sociale deve giustificare alcuna
distinzione politica, dato che la politica è il prodotto della razionalità
comune di cittadini uguali.
A
esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità
del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo
interno.
Ovviamente
nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è
avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche,
amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione
reciproca.
Il pensiero politico moderno e la sua idea di
democrazia (sia nella sua versione liberale che socialista) traggono la propria
forza da:
a)
l’idea che nessuna differenza pre-politica (naturale o sociale) possa
giustificare in linea di principio la superiorità politica di nessun cittadino,
b) la necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati.
Questo,
beninteso, nella ferma consapevolezza del ruolo strategico giocato da una
particolare élite sociale nello sviluppo dello Stato e del capitalismo (la
borghesia).
L’importanza
della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere
funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello
Stato.
Per il
pensiero politico moderno risulta infatti illegittima ogni forma di ordine
politico in cui i cittadini soggetti al potere non ne siano al contempo gli
stessi autori.
Legittimo
è quel potere che nasce e si concepisce come autogoverno di cittadini uguali,
obbedienti a leggi universali.
A
questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto
meno a livello teorico.
Ogni
forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di
rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata
dispotica o tirannica.
Nei
confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni
politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite
(Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica.
Muovendo dalla constatazione che in ogni
contesto sociale ad esercitare il potere sono sempre gruppi ristretti, i
teorici delle élite mostrano come la storia e il reale funzionamento delle
istituzioni e della politica smentiscano di fatto la teoria liberale
parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le dottrine socialiste.
Gaetano
Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il
primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della
storia e della politica sono sempre state le élite.
La
distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della politica.
La dinamica storica consiste per Mosca
essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per assicurarsi
maggior potere.
Nella
Teorica dei governi e governo parlamentare (1883) si sottolinea come ogni
governo consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si
impone su una maggioranza divisa e disorganizzata.
Mosca
distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di
quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia
classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi
ambiti della società.
Il
fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate
costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali
classificazioni delle forme di governo.
Le principali classificazioni tradizionali,
quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella
elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere
sotto le critiche di Mosca.
Le classiche forme di governo non sono semplicemente
il risultato di classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la
maschera legale dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di
persone esercita effettivamente il potere.
Mosca
è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo
mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei
governati.
Con la teoria della formula politica Mosca
intende individuare quelli che a suo avviso sono i principi astratti che
consentono ai governanti di giustificare il proprio potere, in accordo con le
convinzioni più diffuse nella società.
Le ‘formule politiche’ non costituiscono
semplici mistificazioni ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la
propria obbedienza richiamandosi a norme generali.
Mosca riconduce la molteplicità di formule
politiche a due principi:
uno
soprannaturale e uno (apparentemente) razionale.
Democrazia
è per Mosca solo una delle formule politiche razionali con cui determinate
élite giustificano il proprio potere.
Il
principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura
oligarchica di ogni governo.
Al di sopra delle molteplici formule
politiche, per Mosca c’è sempre il potere di un’élite.
Anche
quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze
organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti). Queste, lungi dall’essere promotrici
di emancipazione, sono le effettive detentrici del potere.
L’indagine
moschiana sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del
parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del
suo intreccio con la democrazia.
Consapevole
dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le
vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in
espansione contro i vecchi ceti dominanti.
Mediante l’uso di principi universali
(libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia ha coinvolto il popolo nella
sua ascesa al potere, legittimandosi come rappresentativa di tutta la nazione e
non come classe particolare.
Dall’analisi
di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra
parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo:
la
legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui
un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere.
Contrariamente
a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere
rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma gli interessi particolari del ceto
politico o, peggio, dei suoi singoli membri.
La
ricca riflessione condotta da Antonio Gramsci nei” Quaderni del carcere” si
confronta con la scienza politica elitista con l’intenzione di superare le sue
obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica
nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno.
La
critica gramsciana all’elitismo si inserisce nell’orizzonte di una scienza
politica integralmente storicizzata e incentrata sul concetto di egemonia, come
categoria generale della politica e della storia.
Obiettivo di Gramsci è quello di superare
dialetticamente la teoria delle élite, sviluppandola in una prospettiva
radicalmente democratica.
È
soprattutto sulle opere di “Gaetano Mosca” (e in misura minore quelle di
Michels e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci.
Le sue critiche riguardano sia l’impianto
analitico della teoria moschiana sia il suo implicito orientamento politico
conservatore.
Gramsci
condivide il principio secondo cui in ogni formazione sociale «esistono davvero
governati e governanti, dirigenti e diretti», come condivide il fatto che
«tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale,
irriducibile (in certe condizioni generali)».
Anche
per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la
lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli elitisti.
La
critica gramsciana all’elitismo riguarda il suo impianto positivista, che si
limita a registrare meccanicamente determinati fatti e processi per poi
elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della storia.
Tale
approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e oligarchico
dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a mantenere le
disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.
Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca,
sia nella Teorica sia negli Elementi di scienza politica (1896, 1923),
accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di
concetti vaghi.
Quello che gli elitisti italiani non sono in
grado di comprendere sono la natura e le dinamiche delle élite nel momento in
cui le masse irrompono sulla scena politica europea, in particolare con
l’avvento del primo conflitto mondiale.
Per questo Gramsci intende indagare la nascita,
la selezione e le dinamiche politiche delle élite in una prospettiva
essenzialmente storicista e dialettica.
Questa
deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso
cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto
comprendere le modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono
coscienza di sé e del proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente
degli intellettuali.
Nelle
ricerche condotte nei “Quaderni” Gramsci non intende limitarsi a constatare la
divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle
minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana.
Per questo si domanda «come si può dirigere
nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo
migliore i dirigenti».
Formazione
dei dirigenti che deve avvenire muovendo dal presupposto che la distinzione tra
governanti e governati non rappresenti un destino immutabile, ma «sia solo un
fatto storico, rispondente a certe condizioni».
Il problema che Gramsci si pone è quello di
tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta
mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il
soggetto e lo Stato. Questi permangono contrapposti in modo conflittuale e
contraddittorio nelle architetture istituzionali liberal-democratiche.
L’elitismo
approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice,
affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e
governati.
Per
Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si
costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di
articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.
Nel partito politico Gramsci individua il
mezzo «più adeguato a elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in
vista di un’educazione delle masse capace di integrarle nel progetto di una
piena autodeterminazione del corpo sociale («società regolata»).
Nel partito come «moderno Principe»,
l’esercizio delle funzioni politiche da parte delle proprie élite non è
semplice dominio sulle masse.
Al
contrario costituisce quella combinazione di direzione, produzione di consenso,
senso storico e organizzazione che ne determina la capacità egemonica nella
società.
La prospettiva radicalmente democratica di
Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle
contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese.
Superamento della contrapposizione netta tra
governanti e governati attraverso le funzioni organizzative di un partito che
ha l’ambizione di porsi come l’elemento rappresentativo e direttivo dello
sviluppo dei conflitti e delle forze sociali.
Il
pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa
il problema del rapporto tra élite e democrazia.
Se per
Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era
di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per Antonio
Gramsci la soluzione del problema indicato dagli elitisti consisteva nel
superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici
contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.)
hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche
dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore
in una prospettiva liberale.
Obiettivo
comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la
presenza di una pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema
democratico.
L’immagine di democrazia che ne emerge,
specialmente dall’opera di Schumpeter, è quella di uno strumento istituzionale
in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi di élite,
elette attraverso il voto popolare.
La
democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione
pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite.
Ne
emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership:
i cittadini dispongono del diritto di scegliere chi si assumerà la
responsabilità di prendere le decisioni politiche e solo indirettamente cosa
deciderà per la comunità intera.
Se,
come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in
competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni:
la loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una
legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento
(le elezioni).
In
altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci, della mediazione
tra élite e società.
Ecco
come l'élite
di Davos
ha
ripreso il controllo.
Magachip-globalist.it
– Redazione -Thomas Fazi – (20-1-2023) – ci dice:
“Il
WEF sta isolando il processo decisionale dalla democrazia”.
“Esercita
un potere immenso, che ha cementato il dominio della classe capitalista
transnazionale a un livello mai visto prima nella storia”.
E lo
dichiara a chiare lettere.
(Thomas
Fazi)
Migliaia
di persone dell’élite globale del mondo convengono stamane a Davos per il loro
più importante incontro annuale: l’incontro del “World Economic Forum” (WEF).
Accanto ai capi di Stato di tutto il mondo, si
riuniranno gli amministratori delegati di “Amazon”, “BlackRock”, “JPMorgan
Chase”, “Pfizer e Moderna”, così come la “Presidente della Commissione
Europea”, la” Direttrice Operativa del FMI”, il “Segretario Generale della
Nato”, i vertici dell’”FBI” e dell’”MI6”, l’editore del “New York Times” e, naturalmente,
il famigerato presentatore dell’evento, il fondatore e presidente del WEF,
“Klaus Schwab”.
Fino a 5mila soldati sarebbero schierati per
la loro protezione.
Data
la natura elitaria quasi da cartone animato di questa baldoria, sembra naturale
che l’organizzazione sia diventata oggetto di ogni sorta di teoria del
complotto riguardo al suo presunto intento malevolo e alle sue agende segrete
legate alla nozione di “Great Reset”.
In
verità, non c’è nulla di cospiratorio nel WEF, nella misura in cui le
cospirazioni implicano segretezza.
Al
contrario, il WEF – a differenza, per dire, del “Bilderberg” – si tiene molto
aperto sulla sua agenda: puoi persino seguire le sessioni in streaming online.
Fondato
nel 1971 dallo stesso Schwab, il WEF è “impegnato a migliorare lo stato del mondo attraverso la
cooperazione pubblico-privata”, nota anche come “multistakeholder governance” [“gestione con una pluralità di
portatori d’interessi”, NdT].
L’idea
è che il processo decisionale globale non dovrebbe essere lasciato ai governi e
agli stati-nazione — come nel quadro multilateralista del dopoguerra sancito
dalle Nazioni Unite — ma dovrebbe coinvolgere un’intera gamma di parti
interessate non governative:
organismi
della società civile, accademici esperti, personaggi dei media e, soprattutto,
multinazionali.
Nelle
sue stesse parole, il progetto del WEF è «ridefinire il sistema internazionale
come costitutivo di un sistema più ampio e sfaccettato di cooperazione globale
in cui i quadri giuridici e le istituzioni intergovernative sono inseriti come
una componente centrale, ma non l’unica e talvolta non la più cruciale».
Anche
se tutto questo può suonare ancora piuttosto benigno, incapsula perfettamente
la filosofia di base del globalismo:
isolare la politica dalla democrazia
trasferendo il processo decisionale dal livello nazionale e internazionale, dove i cittadini sono teoricamente in
grado di esercitare un certo grado di influenza sulla politica, al livello
sovranazionale, affidando a un gruppo auto selezionato di “stakeholder” non
eletti e irresponsabili – principalmente aziende – il compito di decisioni
globali riguardanti tutto, dalla produzione di energia e cibo ai media e alla
salute pubblica.
La
filosofia antidemocratica sottostante è la stessa che sostiene l’approccio
filantrocapitalista di persone come “Bill Gates”, lui stesso partner di lunga
data del WEF:
ossia che le organizzazioni sociali e imprenditoriali
non governative sono più adatte a risolvere i problemi del mondo rispetto ai
governi e alle istituzioni multilaterali.
Anche
se il WEF ha sempre più focalizzato la sua agenda su argomenti alla moda come la protezione dell’ambiente e
l’imprenditoria sociale, non ci sono dubbi su quali interessi l’idea di Schwab stia
effettivamente promuovendo e potenziando:
il WEF stesso è finanziato principalmente da
circa 1.000 aziende associate, tipicamente imprese globali con fatturati
multimiliardari, che includono alcune delle più grandi multinazionali del
petrolio (Saudi Aramco, Shell, Chevron, BP), del cibo (Unilever, The Coca-Cola
Company, Nestlé), della tecnologia (Facebook, Google, Amazon, Microsoft, Apple)
e farmaceutica (AstraZeneca, Pfizer, Moderna).
Anche
la composizione del consiglio di amministrazione del WEF è molto rivelatrice, poiché
annovera Laurence D. Fink, CEO di Blackrock, David M. Rubenstein, co-presidente
del Carlyle Group, e Mark Schneider, CEO di Nestlé.
Non
c’è bisogno di ricorrere a teorie del complotto per affermare che è molto più
probabile che l’agenda del WEF venga adattata agli interessi dei suoi
finanziatori e membri del consiglio – le élite mondiali ultra-ricche e
corporative – piuttosto che allo scopo di “migliorare lo stato del mondo”, come
rivendica l’organizzazione.
Forse
l’esempio più simbolico della spinta globalista del WEF è il controverso
accordo di partenariato strategico che l’organizzazione ha firmato con le
Nazioni Unite nel 2019, che molti ritengono aver attirato le Nazioni Unite
nella logica della cooperazione pubblico-privata del WEF.
Secondo
una lettera aperta firmata da più di 400 organizzazioni della società civile e
40 reti internazionali, l’accordo rappresenta una «inquietante presa
corporativa sulle Nazioni Unite, che ha sospinto il mondo pericolosamente verso
una governance globale privatizzata».
Le disposizioni del partenariato strategico, notano,
«prevedono effettivamente che i leader aziendali diventino ‘suggeritori’ per i
capi dei dipartimenti del sistema delle Nazioni Unite, utilizzando il loro accesso privato
per sostenere ‘soluzioni’ a scopo di lucro basate sul mercato ai problemi
globali,
minando al contempo per contro le soluzioni reali radicate nell’interesse
pubblico e le procedure democratiche trasparenti».
Questa
conquista aziendale dell’agenda globale, aiutata e incoraggiata dal WEF, è
diventata particolarmente evidente durante la pandemia di Covid-19.
La
politica sanitaria globale e la “preparazione all’epidemia” sono state a lungo
al centro del WEF.
Nel 2017 è stata lanciata a Davos la “Coalition
for Epidemic Preparedness Innovations” (CEPI, trad.: “coalizione per le
innovazioni in materia di prontezza alle epidemie), un’iniziativa volta a
garantire la fornitura di vaccini per le emergenze globali e le pandemie,
finanziata dal governo e da donatori privati, tra cui Gates.
Quindi,
nell’ottobre 2019, appena due mesi prima dell’inizio ufficiale dell’epidemia a
Wuhan, il
WEF ha co-sponsorizzato un’esercitazione denominata Evento 201, che ha simulato «un focolaio di un
nuovo coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali fino alle
persone che alla fine diventa efficacemente trasmissibile da persona a persona,
portando a una grave pandemia».
In caso di pandemia, hanno osservato gli
organizzatori, i governi nazionali, le organizzazioni internazionali e il
settore privato dovrebbero fornire ampie risorse per la produzione e la
distribuzione di grandi quantità di vaccini attraverso «forme robuste di cooperazione
pubblico-privato».
Quindi,
è lecito affermare che quando è scoppiata la pandemia di Covid, il WEF era ben
posizionato per assumere un ruolo centrale nella risposta alla pandemia.
È stato al raduno del 2020 a Davos, dal 21 al
24 gennaio – poche settimane dopo che il nuovo coronavirus era stato
identificato in Cina – che la CEPI ha incontrato l’amministratore delegato di
Moderna, Stéphane Bancel, per stabilire piani per un vaccino Covid-19, in
collaborazione con il “National Institutes of Health” (NIH) negli Stati Uniti.
Nel corso dell’anno, la CEPI è stata
determinante nella creazione del programma Covax (Covid-19 Vaccines Global
Access), in collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), e
nel fornire finanziamenti per diversi vaccini Covid.
Queste
coalizioni pubblico-private e incentrate sulle aziende – tutte legate al WEF e
fuori dalla portata della responsabilità democratica – hanno svolto un ruolo cruciale nella
promozione di una risposta alla pandemia incentrata sul vaccino e orientata al
profitto, e quindi nella supervisione dell’adozione diffusa del vaccino.
In altre parole, la pandemia ha messo in netto
rilievo le conseguenze della decennale spinta globalista del WEF.
Ancora
una volta, sarebbe sbagliato considerare questo come un complotto, dal momento
che il WEF è sempre stato molto sincero sui suoi obiettivi:
questo
è semplicemente l’inevitabile risultato di un approccio “multistakeholderista”
in cui gli interessi privati e “filantropici” trovano maggiore ascolto negli
affari globali rispetto alla maggior parte dei governi.
Ciò
che risulta preoccupante, tuttavia, è che il WEF stia ora promuovendo lo stesso
approccio dall’alto verso il basso guidato dalle aziende in una vasta gamma di
altri settori, dall’energia al cibo alle politiche di sorveglianza globale, con
conseguenze altrettanto drammatiche.
C’è
una ragione per cui i governi sembrano spesso così disposti ad accettare queste
politiche, anche di fronte a una diffusa opposizione sociale:
ovvero
che la strategia del WEF, nel corso degli anni, non è stata solo quella di spostare
il potere dai governi, ma anche di infiltrarsi in questi ultimi.
Il WEF
ha ampiamente raggiunto questo obiettivo attraverso un programma noto come
iniziativa “Young Global Leaders” (YGL), volto a formare i futuri leader
globali.
Lanciata nel 1992 (quando si chiamava “Global
Leaders for Tomorrow”), l’iniziativa ha disseminato molti capi di stato,
ministri e dirigenti d’azienda allineati al globalismo.
Tony Blair, ad esempio, partecipò al primo evento,
mentre Gordon Brown vi partecipò nel 1993.
In effetti,
la sua partecipazione iniziale era piena di altri futuri leader, tra cui “Angela
Merkel”, “Victor Orbán”, “Nicholas Sarkozy”,” Guy Verhofstadt” e “José Maria
Aznar” .
Nel
2017, Schwab ha ammesso di aver utilizzato i giovani leader globali per
“penetrare nei gabinetti” di diversi governi, aggiungendo che nel 2017 “più
della metà” del gabinetto del primo ministro canadese Justin Trudeau era stato
membro del programma.
Più di
recente, a seguito della proposta del primo ministro olandese “Mark Rutte” di
ridurre drasticamente le emissioni di azoto in linea con le politiche “verdi”
ispirate dal WEF, che ha scatenato grandi proteste nel paese, i critici hanno
attirato l’attenzione sul fatto che, oltre allo stesso Rutte che aveva stretti
legami con il WEF, il suo ministro degli affari sociali e dell’occupazione è
stato eletto ‘Young Global Leader’ del WEF nel 2008, mentre il suo vice primo
ministro e ministro delle finanze “Sigrid Kaag” contribuisce all’agenda del
WEF.
Nel dicembre 2021, il governo olandese ha
pubblicato la sua passata corrispondenza con i rappresentanti del “World
Economic Forum”, mostrando un’ampia interazione tra il WEF e il governo
olandese.
Altrove,
l’ex primo ministro dello “Sri Lanka” “Ranil Wickremesinghe” – che l’anno
scorso è stato costretto a dimettersi a seguito di una rivolta popolare contro
la sua decisione di vietare fertilizzanti e pesticidi a favore di alternative
organiche e “amiche del clima” – è stato anche un membro devoto e collaboratore
dell’Agenda del WEF.
Nel
2018 ha pubblicato un articolo sul sito web dell’organizzazione dal titolo:
“Ecco come renderò ricco il mio paese entro il
2025”. (In
seguito alle proteste, il WEF ha rapidamente rimosso l’articolo dal suo sito
web.)
Ancora una volta, sembra chiaro che il ruolo
del WEF nella formazione e nella selezione dei membri delle élite politiche
mondiali non attua una cospirazione, ma semmai una politica sbandieratamente di
pubblico dominio che Schwab è proprio ben lieto di ostentare.
In
definitiva, non si può negare che il WEF eserciti un potere immenso, che ha
cementato il dominio della classe capitalista transnazionale a un livello mai
visto prima nella storia.
Ma è
importante riconoscere che il suo potere è semplicemente una manifestazione del
potere della “superclasse” che rappresenta:
ossia
un piccolo gruppo che ammonta, secondo i ricercatori, a non più di 6mila o
7mila persone, ovvero lo 0,0001% della popolazione mondiale, eppure più potente
di qualsiasi classe sociale che il mondo abbia mai conosciuto.
“Samuel
Huntington”,
che ha il merito di aver inventato il termine “uomo di Davos”, ha sostenuto che i membri di questa
élite globale «hanno poco bisogno di lealtà nazionale, vedono i confini
nazionali come ostacoli che fortunatamente stanno svanendo e “vedono i governi nazionali come
residui del passato” i cui l’unica funzione utile è facilitare le operazioni
globali dell’élite».
Era
solo questione di tempo prima che “questi aspiranti cosmocrati” sviluppassero uno strumento attraverso
il quale esercitare pienamente il loro dominio sulle classi inferiori.
E il “WEF” si è dimostrato il veicolo perfetto
per farlo.
(Thomas
Fazi)
(unherd.com/2023/01/how-the-davos-elite-took-back-control/
L’autore
Thomas Fazi ha recentemente pubblicato “The Covid Consensus”, assieme a “Toby
Green”.
COSPIRAZIONE
DEI “DEMOCRATICI”
CONTRO
LA DEMOCRAZIA.
Geopolitika.ru
– (22.02.2021) – Redazione - Valeriy Korovin – ci dice:
Pochi
giorni fa il Senato degli Stati Uniti ha respinto il processo d’impeachment a
Trump.
Perché dovremmo essere interessati a questo?
Perché se qualche evento accade negli Stati
Uniti, grazie alla globalizzazione americana non ancora arrendevole, ovviamente
ne siamo coinvolti.
Qualunque
cosa avviene negli USA, gli effetti si diffondono in tutto mondo, influenzando
i mercati finanziari, le politiche militari e i processi politici
internazionali.
La
palude di Washington, come l’ha definita Donald Trump, ha vinto e ora dirige
l’America, è ora il momento di regolare i conti non solo con i suoi avversari
politici, ma anche con la maggioranza americana che ha sostenuto Trump.
Non ci sono più due partiti, c’ è solo il partito dei “globalisti
neo-liberali”, erroneamente chiamato “Partito Democratico”, impegnato nel governo degli USA,
riprendendo nuovamente il progetto globalista temporaneamente sospeso da Trump.
Il
destino di tanti Stati europei, dipende da quanto accade negli Stati Uniti,
alcuni di essi non soddisfatti dell’alleanza con gli attuali rappresentanti del
partito democratico.
L’ascesa
del movimento maggioritario americano conservatore.
L’influenza dei media americani e le strategie di
comunicazioni sono stati due alimenti per la vittoria di Biden su Trump, in poche
settimane la pressione dei media ha violentato ogni diritto fondamentale
costruito nel corso di due secoli, spingendo sempre più in una palude ogni
principio democratico.
I
globalisti sono riusciti ad imporre il loro modo di pensare, ed avviare la
vendetta nei confronti di Trump, indebolito dal mancato sostegno di alcuni dei
suoi più fidati collaboratori ideologici come, “Steve Bannon”, “Alex John” e
altri.
Questo
è stato un errore politico commesso da Trump, sono i significati e le idee che
governeranno il mondo a venire.
E chi
sa come operare con questi significati, manterrà il potere nelle sue mani.
La
quintessenza della campagna elettorale che ha avuto luogo è che la stragrande
maggioranza dei cittadini americani con diritto di voto – quasi settantacinque
milioni di persone – è stata ignorata.
Se
osserviamo i candidati alla presidenza in corsa per il secondo mandato, il
sostegno di Trump, alle ultime elezioni, è stato un record assoluto nell’intera
storia elettorale degli Stati Uniti d’America.
Tuttavia,
questo non ha minimamente confuso i “democratici” che hanno gettato questa
maggioranza assoluta alla periferia del mainstream politico.
È
bastato bollarli come marginali, radicali ed estremisti, come i votanti
deceduti resuscitati da Biden “anime morte”.
Questa,
a quanto pare, è la decantata “Democracy for Democrats” americana. Chi non è un
democratico, va via!
In
effetti, il potere negli Stati Uniti è stato preso dalle minoranze contro la
volontà della maggioranza.
Biden è stato votato dagli strati sociali più
marginali dalle comunità “colorate” delle periferie della città, sulle reti BLM, sui radicali
antifascisti, che insieme hanno saccheggiato l’America per diversi mesi prima delle
elezioni, riducendola in mille pezzi.
E ora
queste minoranze hanno il potere, mettono etichette agli avversari e valutano
positivamente il “proprio”.
Di
conseguenza, chi ha distrutto l’America sono combattenti per la democrazia, per
tutto ciò che è buono e brillante, invece i sostenitori di Trump che, essendo
cittadini rispettosi della legge degli Stati Uniti, chiedevano ordine e
legalità, cercando di impedire ogni forma di estremismo e terrorismo.
Che
cosa hanno fatto?
Sono
andati al Campidoglio e hanno dimostrato il loro disaccordo con l’illegalità in
corso.
Questo, dal punto di vista dei Democratici, è
terrorismo?
I
sostenitori di Trump, infatti, si sono dimostrati un movimento politico che
comprende la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti d’America: capaci,
eleggibili al voto, titolari di tutti i diritti previsti dalla Costituzione, e
sostenendo il loro leader in una situazione di completa illegalità.
E
questo è un punto di partenza importante per la formazione e il funzionamento
di questo movimento di americani conservatori impegnati a salvare il loro
paese.
Democratici
contro la democrazia.
Ora
possiamo affermare con sicurezza che nelle ultime elezioni, tutti i fondamenti
della cosiddetta” Democrazia americana” dai Padri Fondatori a Donald Trump, tutto ciò su cui l’America si trovava,
e ciò cui si riferivano come un assoluto, come una sorta d’immagine ideale
della democrazia, stabilendo che dovrebbe essere così ovunque – tutto questo è stato calpestato,
spazzato via, trasformato in polvere dalle passate elezioni.
E
tutto per impedire a Trump un secondo mandato.
Ad
ogni costo. Questo prezzo si è rivelato così alto che la democrazia stessa ha
dovuto pagare.
Ora
negli Stati Uniti non c’è democrazia né democratici, e c’è solo “democrazia” – il governo della minoranza, e
“democratici” – chi ha ucciso la democrazia per il bene di un obiettivo politico
momentaneo.
Perché
tale illegalità non è stata vista da nessun paese al mondo.
Anche
la Turkmenistan, un frammento dell’ex URSS proveniente dall’Asia centrale, è
probabilmente un paese più democratico degli attuali Stati Uniti, che ha
trascinato Joe Biden con le voci delle” anime morte”, gli sforzi di zombi,
post-umani, cloni, mutati e cyborg.
È il loro presidente che è salito su trono
degli Stati Uniti.
Presidente del post-america.
Oggi è
evidente a tutto il mondo: le elezioni che si sono svolte negli Stati Uniti
hanno superato ogni limite di decenza.
Lasciano
troppi dubbi, le elezioni americane da sempre si presentavano al mondo come un
modello di democrazia.
E la
minima deviazione da questo schema è diventata la ragione dell’invasione e
della distruzione americana di molti stati.
Bastava
dire: “Non avete elezioni sufficientemente democratiche” e i bombardieri della
NATO volavano a bombardare città pacifiche.
La
NATO bombarderà Washington per mancanza di democrazia?
E’ una
banale retorica.
Eppure,
con tutta l’evidenza dell’illegalità e il palese eccesso di falsificazioni,
nonostante Trump abbia raccolto voti più di tutti quelli che in precedenza
hanno partecipato per la seconda volta alle elezioni presidenziali, in
tribunale né lui né i suoi sostenitori non ha potuto provare nulla in merito a
brogli.
I
pubblici ministeri hanno taciuto, la Corte Suprema non era dalla parte di
Trump.
I
Trumpisti non hanno potuto presentare alcuna prova seria per cambiare il
risultato finale.
Qual è il problema?
Perché
la maggioranza conservatrice americana non è stata in grado di difendere le
proprie scelte e perché la voce di decine di milioni americani vivi (non morti)
non è mai stata ascoltata, né dai pubblici ministeri né dai tribunali?
Il controllo totale dei risultati è evidente a
tutti, ma nessuno ha potuto provare che le elezioni sono state truccate e i
risultati falsificati.
Le
nonne del diciannovesimo secolo che morirono nel ventesimo e votarono per Biden
si rivelarono testimoni più convincenti per la corte americana dei conservatori
viventi.
Cospirazione
delle élite contro le masse.
Il
fatto è che nella storia dell’elezione americana Biden contro Trump, è una
tipica, cospirazione americana delle élite che si è sviluppata negli Stati
Uniti d’America nel corso della sua storia.
Agli
americani spesso piace ridicolizzare tutto ciò che appartiene alla categoria
delle teorie del complotto, qualsiasi cospirazione, accusando i teorici di
essere frivoli.
E questo accade ogni volta che loro stessi
iniziano a condannare per questo.
Qui
traducono immediatamente tutto in uno scherzo, in fumetti, dicendo: “Beh,
niente di che, questo non è serio”.
Questo
è ciò che sta accadendo nella realtà, ha conseguenze reali che sono evidenti a
tutti, ma, allo stesso tempo, non ci sono prove concrete.
Questo
è il motivo per cui è un complotto, che non può essere provato con documenti o
altre prove, in base al quale si potrebbe provare la sua esistenza.
Se la
cospirazione è provata, non è più una cospirazione, ma un crimine.
Oppure
una buona azione: ecco come valutare.
Se non
ci sono prove dirette, questo va nello stato di una cospirazione. La cospirazione, quindi, non è una
scienza delle invenzioni ma un fatto dell’esistente, ma non provato.
E se
qualcosa è classificato come una cospirazione, questo non significa che non lo
fosse.
È solo
che tutti tacciono.
L’assassinio
di Kennedy, l’11 settembre – questi sono solo gli episodi più sorprendenti di una serie
infinita di cospirazioni americane, di cui, tuttavia, di solito non si parla ad
alta voce.
Dopotutto,
è molto serio lì.
Numerosi episodi nella storia di questo Stato,
che sono rimasti coperti da un velo di segretezza, indicano che l’America è un
paese di cospirazioni.
E nelle ultime elezioni abbiamo visto tutti
come ha preso forma la cospirazione delle élite globaliste statunitensi contro
la maggioranza americana.
Le minoranze americane, che oggi governano lo
Stato americano, ignorando la volontà della maggioranza, hanno fatto di tutto
per impedire a Trump di restare al potere, per impedirgli di assumere la
presidenza una seconda volta.
Questo
era il consenso delle élite.
E
quando è presente un tale consenso, allora c’è una cospirazione, il che
significa che tutto è fatto per eliminare le prove.
Cospirazione
e silenzio.
La
cospirazione del silenzio di omertà, portata nell’attuale élite americana dalla
mafia italiana, è qualcosa che dovrebbe essere così familiare ai lettori in
Italia.
Ma questo è ciò che consente alle élite
americane di andare non solo contro la maggioranza americana, ignorando la loro
volontà, ma anche contro la legge.
Ciò significa che non importa quanto siano importanti
le tue prove di frode elettorale, i pubblici ministeri lasceranno i casi
ammuffire, i tribunali li ignoreranno e il Congresso confermerà Biden eletto
illegalmente come presidente, avviando l’impeachment contro Trump.
Quello che era vestito con gli abiti della democrazia
ha perso ogni legittimità e diritto morale anche a balbettare sulla democrazia.
Devi
solo tenerlo a mente ogni volta quando vuoi fare qualcosa con la “democrazia”
americana a
cui abbiamo creduto da tanto tempo come la forma di democrazia migliore.
(Valery
Korovin)
LA
FOLLIA FINALE DEL
MONDO
OCCIDENTALE.
Geopoilitika.ru-
Paul Craig Roberts – (17.05.2023) - ci dice:
La
vittoria del complesso militare/sicurezza sul presidente Trump ha condannato
gli Stati Uniti e il loro impero europeo, canadese, australiano e giapponese a
un declino irreversibile.
L'intenzione
di Trump di “normalizzare le relazioni con la Russia” è stata percepita dal
potente complesso militare e di sicurezza, su cui avevano messo in guardia sia
il presidente Eisenhower che il presidente John F. Kennedy, come una minaccia
al proprio bilancio, al proprio potere, al proprio primato.
Così è
stata avviata dalla CIA e dall'FBI la lunga e continua era delle false accuse
contro un Presidente americano, sia in carica che fuori, da parte dei servizi
di sicurezza degli Stati Uniti.
La
conseguenza è che il mondo si sta allontanando dalla nostra influenza,
abbandonando il sistema finanziario dominato dal dollaro e aderendo ad uno
stato di diritto invece che alle regole egoistiche di Washington.
Le
conseguenze per il mondo occidentale saranno il declino della moneta,
l'inflazione e l'abbassamento del tenore di vita, la scarsità di energia e la
decadenza sociale dovuta a masse non assimilate di immigrati-invasori che il
mondo occidentale non ha la convinzione di poter respingere.
Anche
una guerra rovinosa potrebbe essere una conseguenza, con risultati disastrosi
per l'Occidente, i cui sistemi di armamento sono inferiori a quelli russi e i
cui eserciti sono demoralizzati dalle “promozioni della diversità” e
dall'indottrinamento anti-bianco.
Il
Presidente russo Putin ha definito “folle” l'ambizione neocon di egemonia
americana.
Putin
ha preso le misure dell'Occidente:
“Qualsiasi
ideologia di superiorità è per sua natura disgustosa, criminale e mortale.
Le élite globaliste continuano a insistere sul
loro eccezionalismo; mettono le persone l'una contro l'altra, dividono le
società, provocano conflitti sanguinosi e colpi di stato, seminano odio,
russofobia e nazionalismo aggressivo, distruggono i valori familiari
tradizionali che rendono umani gli esseri umani”.
Putin
descrive l'“ordine basato sulle regole” di Washington come “un sistema di
rapina, violenza e soppressione sulla scena internazionale”.
Contrariamente
agli interessi di americani, russi, cinesi e del resto del mondo, il complesso
militare e di sicurezza statunitense e i suoi scagnozzi neoconservatori hanno
istituzionalizzato l'Occidente come nemico del resto del mondo.
Le
conseguenze per l'America e il suo impero saranno disastrose.
(Paul
Craig Roberts)
LA
FOLLIA PROGRESSIVA
DELLA
BANDA UKRONAZI.
Geopolitika.ru
– (09.05.2023) - Bobana M. Andjelkovic – ci dice:
Il
territorio in rovina che si presenta ancora come un Paese sovrano mentre è solo
un tentacolo della plutocrazia capitalista selvaggia occidentale e del porcile
neonazista ha ancora un’ambasciata in Serbia e non solo.
L’ambasciata
della “banda ucro-nazista” in Serbia ha inviato venerdì scorso un’e-mail ai
media serbi, in cui si spiega come devono riferire dell’”operazione militare
speciale” delle forze armate russe sul territorio dell’ex Ucraina, come
riferire delle armi occidentali per i banditi armati ucro-nazisti, degli
istruttori della NATO e come presentare la propaganda occidentale a favore
della banda “ucro-nazista”.
L’ambasciata
prescrive anche le parole e le frasi esatte che i media serbi, secondo loro,
DEVONO usare quando parlano dell’ex Ucraina, delle sue bande armate neonaziste,
dei suoi tossicodipendenti in luoghi importanti…
Questo
gesto dimostra quanto sia delirante e folle la banda degli ucraini.
Ma
dimostra anche tutto quello che l’Occidente collettivo è pronto a fare per
controllare la propaganda che lentamente gli sfugge di mano perché la realtà è
evidente e non può essere nascosta.
La
dissonanza cognitiva è stata espressa per molti anni sia dai funzionari
occidentali che dalla banda di ucraini a Kiev.
Jens
Stoltenberg, Segretario Generale della NATO, ha recentemente affermato che la
via più veloce per la pace è armare i banditi ucraini. Josep Borell, capo della
politica estera dell’UE, ha dichiarato che è estremamente urgente che l’UE si
accordi sull’acquisto di più munizioni per i banditi ucraini, al fine di
combattere meglio e salvare le loro vite.
Ursula
von der Leyen, capo della Commissione europea, ritiene che l’ex Ucraina sia un
candidato perfetto per diventare membro dell’UE.
Annalena
Baerbock, Ministro della Difesa della Germania, ha dichiarato che non le
interessa cosa pensano i tedeschi della politica ufficiale della Germania nei
confronti dell’Ucraina.
Emmanuel Macron, presidente francese, chiede
la pace in Ucraina, condanna la violenza e gli scontri armati mentre la Francia
sta diventando un disastro totale.
Mark
Rutte, premier olandese, si preoccupa delle esportazioni di colture
dall’Ucraina, ma non si preoccupa molto degli agricoltori olandesi e dei loro
problemi causati dalla sua politica idiota.
Per
non parlare delle persone deliranti del Regno Unito e degli Stati Uniti:
dai Primi Ministri britannici che sono tutti
imbecilli quando si tratta delle loro dichiarazioni e dei loro atteggiamenti
nei confronti della Russia, alle sciocche “analisi militari” del Ministro della
Difesa britannico e ai dettagli sul sottomarino britannico nella toilette del
pub o a Joe Biden, distaccato dalla realtà, e al Segretario alla Difesa USA
Loyd Austin che ancora combatte contro l’Unione Sovietica o a Hillary Clinton
che dice che gli scontri nell’ex Ucraina dimostrano che il cambiamento
climatico colpisce soprattutto le donne.
C’è una lista infinita di dichiarazioni idiote e
deliranti dei funzionari occidentali che sostengono l’ex Ucraina e i suoi
banditi narco-nazi-satanici di Kiev.
L’attore
mediocre Zelensky, a cui è stato affidato il ruolo di presidente di un Paese
quasi inesistente, ha ammesso più volte ufficialmente e pubblicamente che la
banda ucraina dipende interamente dall’aiuto occidentale.
Non solo di forniture di armi o di denaro.
Numerose
troupe televisive, case di produzione, agenzie pubblicitarie, specialisti
informatici dei Paesi occidentali sono impegnati nel processo di diffusione
della propaganda ucraina.
Anche
l’elenco di “linguaggio e frasi politicamente corrette” inviato ai media serbi
dal Ministero degli Esteri ucraino tramite l’ambasciata è prodotto sotto il
patrocinio di operatori di propaganda occidentali.
È
anche molto interessante il tempismo con cui viene inviata una tale follia ai
media – il venerdì.
C’è un
fine settimana e dopo il fine settimana due giorni non lavorativi in occasione
del 1° maggio e i funzionari saranno nei loro uffici il 3 maggio.
Ma il
2 maggio c’è un incontro di funzionari serbi con il terrorista albanese a Bruxelles.
I
funzionari serbi non hanno appreso in tempo che non ci sono negoziati con i
terroristi.
Dopo
la sessione irregolare al Consiglio d’Europa, sull’accoglienza di un’entità
terroristica illegale nel territorio del Kosovo e Metochia occupato, tenutasi
qualche giorno fa, quando il rappresentante ucraino si è astenuto dal voto, il
Ministero degli Affari Esteri serbo ha annunciato di aver riconsiderato le
relazioni con tutti coloro che si sono astenuti dal voto e ha fatto notare che
considera l’astensione dal voto un sostegno silenzioso ai terroristi albanesi.
L’e-mail
inviata ai media serbi per correggere i loro resoconti sulla situazione nell’ex
Ucraina è arrivata dopo l’annuncio delle autorità serbe di riconsiderare la
politica estera serba in accordo con l’atteggiamento verso la sovranità e
l’integrità territoriale della Serbia.
Va
inoltre notato che il rappresentante serbo al “concorso musicale Eurovision” è
apparso venerdì scorso in pubblico con bandiere britanniche e ucroniche prima
di partire per il Regno Unito per la competizione.
Poiché l’emittente pubblica serba RTS è
responsabile di questo bizzarro concorso e RTS è l’avamposto della BBC, non c’è
da stupirsi.
Sceglie
sempre qualche personaggio bizzarro per presentare il Paese in Eurovisione.
Questa
è l’ennesima prova che il voto non ha nulla a che fare con il risultato finale.
Le
autorità serbe saranno ora pressate dall’opinione pubblica per reagire al
comportamento dell’ambasciata ucraina in stile Goebbels.
Quasi
il 90% dei serbi è contrario a qualsiasi sanzione alla Russia e un numero
simile di serbi è contrario all’adesione alla NATO; anche il numero di persone
contrarie alla prospettiva serba nell’UE è aumentato rispetto agli anni
precedenti.
Per non parlare di qualsiasi tipo di cessione
del Kosovo e della Metochia alla Serbia.
La
banda degli ucraini aumenta gradualmente la sua ostilità verso la Serbia.
Anche
i tirapiedi occidentali nei Balcani cercano deliberatamente di creare la stessa
propaganda e la stessa narrazione degli anni ’90, con l’aggiunta che ora non
solo la Serbia, ma anche la Russia rappresenta una minaccia al loro stile di
vita paradisiaco portato loro dalla NATO, dall’UE, dagli USA e dal Regno Unito.
L’ambasciata della banda ucraina si limita a
seguire la linea prescritta dai padroni occidentali.
È
possibile aspettarsi ulteriori pressioni sulla Serbia da parte della banda Ukro-nazi.
Non
solo sulla Serbia, ma anche sulla Repubblica Srpska e sull’intero popolo serbo
nei Balcani.
Gli ex
generali della NATO e dell’esercito statunitense, Scaparrotti e Ben Hodges,
hanno sottolineato da tempo che i loro principali problemi nei Balcani sono il
popolo serbo e la Chiesa ortodossa serba.
L’ambasciata ucraina, accanto alle ambasciate
dei Paesi occidentali in Serbia, diventa un altro punto da cui vengono inviati
i dardi avvelenati verso la Serbia.
(Bobana M. Andjelkovic)
GRIDA
E SUSSURRI LUNGO
LE
TORRI DI GUARDIA RUSSE.
Geopolitika.ru
– (16.05.2023) - Pepe Escobar – ci dice:
Ricorda
Putin: “Non abbiamo ancora iniziato nulla.”
I
sussurri di una “potenza malvagia” si sentivano nelle file ai negozi di
latticini, nei tram, nei negozi, negli appartamenti, nelle cucine, nei treni
suburbani e a lunga percorrenza, nelle stazioni grandi e piccole, nelle dacie e
sulle spiagge.
Inutile
dire che le persone veramente mature e colte non raccontavano queste storie
sulla visita di una potenza malvagia nella capitale.
Anzi,
le prendevano in giro e cercavano di far ragionare chi le raccontava”.
Mikhail
Bulgakov, Il Maestro e Margherita.
Per
citare “Dylan”, che potrebbe essere un epigono di Bulgakov: “Quindi smettiamo
di parlare falsamente ora/ l’ora si sta facendo tarda”.
Ormai
è chiaro che l’illusione di un accordo di “pace” in Ucraina è l’ultimo sogno
erotico dei soliti sospetti “capaci di non accordarsi”, sempre attaccati alle
menzogne e al saccheggio mentre manipolano abilmente alcuni liberali
selezionati tra l’élite russa.
L’obiettivo
sarebbe quello di placare Mosca con alcune concessioni, mantenendo Odessa,
Nikolaev e Dnipro e salvaguardando quello che sarebbe l’accesso della NATO al
Mar Nero.
Tutto
questo mentre si investe nella rabbiosa e risentita Polonia per farla diventare
una milizia militare dell’UE armata fino ai denti.
Quindi,
qualsiasi “negoziato” verso la “pace” maschera in realtà una spinta a rimandare
– solo per un po’ – il piano originale: smembrare e distruggere la Russia.
A
Mosca si discute molto seriamente, anche ai livelli più alti, su come sia
realmente posizionata l’élite.
Si possono identificare grosso modo tre
gruppi:
il partito della Vittoria; il partito della
“Pace” – che la Vittoria descriverebbe come arrendevole; e i Neutrali/indecisi.
Il
partito della Vittoria comprende certamente attori cruciali come Dmitry Medvedev,
Igor Sechin di Rosneft, il ministro degli Esteri Lavrov, Nikolai Patrushev, il
capo del Comitato Investigativo della Russia, Aleksandr Bastrykin, e – anche se
sotto tiro – certamente il ministro della Difesa Shoigu.
Tra i
“pacifici” figurano, tra gli altri, il capo di Telegram, Pavel Durov;
l’imprenditore miliardario Andrey Melnichenko; lo zar del metallo e
dell’estrazione Alisher Usmanov (nato in Uzbekistan); il portavoce del Cremlino
Dmitry Peskov.
Tra i
neutrali/indecisi figurano il primo ministro “Mikhail Mishustin”, il sindaco di
Mosca “Sergei Sobyanin”, il capo di gabinetto dell’ufficio presidenziale “Anton
Vaino”, il primo vice capo di gabinetto dell’amministrazione presidenziale e
zar dei media “Alexey Gromov”, l’amministratore delegato di “Sberbank Herman
Gref”, l’amministratore delegato di “Gazprom Alexey Mille”r e – pomo della
discordia – forse il capo dell’FSB Alexander Bortnikov.
È
lecito affermare che il terzo gruppo rappresenta la maggioranza dell’élite.
Ciò significa che essi influenzano
pesantemente l’intero corso dell’”Operazione militare speciale” (OMS), che
ormai si è trasformata in un’”Operazione antiterrorismo “(ATO).
La
“controffensiva” nella nebbia della guerra.
Questi
diversi punti di vista russi ai vertici della Nato suscitano, com’è
prevedibile, frenetiche speculazioni tra i “Think Tankland” statunitensi e
della “NATO”.
Ostaggio della loro stessa eccitazione,
dimenticano persino ciò che chiunque abbia un quoziente intellettivo superiore
alla temperatura ambiente sa:
Kiev –
imbottita di 30 miliardi di dollari in armamenti NATO – potrebbe ottenere meno
di zero effetti dalla sua tanto decantata “controffensiva”.
Le forze russe sono più che preparate e all’Ucraina
manca l’elemento sorpresa.
Gli
hacker del “Collettivo Occidentale”, dopo essersi febbrilmente grattati la
testa, hanno finalmente scoperto che Kiev ha bisogno di una “operazione ad armi combinate” per ottenere qualcosa dal suo nuovo
diluvio di giocattoli della “NATO”.
John
Cleese ha notato come l’incoronazione di “Charles The Tampax King” sembrasse
uno “sketch “dei “Monty Python”.
Ora
provate questo come sequel:
l’Egemone non riesce nemmeno a pagare i suoi
trilioni di debiti, mentre i tirapiedi di Kiev si lamentano che i 30 miliardi
di dollari ottenuti sono noccioline.
Sul
fronte russo, l’indispensabile “Andrei Martyanov “– un vortice di arguzia – ha
osservato come la maggior parte degli allarmati corrispondenti militari russi
semplicemente non abbia idea “del tipo e del volume di informazioni sul
combattimento che arrivano ai posti di comando a Mosca, Rostov-on-Don o agli
staff delle formazioni di prima linea”.
Sottolinea
che “nessun ufficiale di livello operativo serio” parlerà con questi ragazzi,
gioiosamente descritti come “voenkurva” (all’incirca, “puttane militari”), e
semplicemente non “divulgheranno alcun tipo di dati operativi altamente
classificati”.
Quindi,
allo stato attuale, tutto il rumore e il furore della “controffensiva” è
avvolto da una fitta nebbia di guerra.
Ciò
non fa altro che aggiungere altra benzina al fuoco delle illusioni dei Think
Tankland statunitensi.
La
nuova narrativa dominante nella “Beltway” è che la leadership di Mosca è
“frammentata e imprevedibile”.
E
questo potrebbe portare a “una sconfitta convenzionale di una grande potenza nucleare”
il cui “sistema di comando e controllo si è rotto”
Sì:
credono
davvero alla loro sciocca propaganda (copyright John Cleese). Sono
l’equivalente americano del “Ministero delle Passeggiate Sciocche”.
Incapaci di analizzare perché e come l’élite russa
abbia opinioni diverse sul metodo e sulla portata dello SMO/ATO, il meglio che
riescono a proporre è “proteggere l’Ucraina è una necessità strategica, poiché la
minaccia russa aumenta se Mosca vince in Ucraina”.
Cosa
c’è dietro il suono e la furia di Prighozin.
La
tipica arroganza/ignoranza americana non cancella il fatto che sembra esserci
una seria lotta di potere tra i siloviki.
Yevgeny
Prigozhin, un siloviki, ha infatti denunciato Shoigu e Gerasimov come
incompetenti, insinuando che mantengono i loro incarichi solo per fedeltà al
presidente Putin.
Questo
è quanto di più grave possa esistere.
Perché
è legata a una domanda chiave posta in diversi silos istruiti a Mosca:
se la Russia è ampiamente nota per essere la
potenza militare più forte al mondo, con i missili difensivi e offensivi più
avanzati, come mai non ha concluso l’intero affare sul campo di battaglia
ucraino?
Una
risposta plausibile è che solo 200.000 membri dell’esercito russo stanno
attualmente combattendo, e circa 400.000-600.000 sono in riserva per l’attacco
all’Ucraina.
Nell’attesa
sono in costante addestramento; quindi l’attesa va a vantaggio della Russia.
Quando
la famosa “controffensiva” si esaurirà, l’Ucraina sarà colpita con forza
massiccia.
Non ci
sarà alcun accordo negoziale.
Solo
una resa incondizionata.
Ciò
che sta accadendo in questo momento – il dramma di Prigozhin – è subordinato a
questa logica, che si svolge parallelamente a un’operazione mediatica piuttosto
sofisticata.
Sì, il
Ministero della Difesa (MoD) ha commesso diversi gravi errori, così come altre
istituzioni russe, dall’inizio della SMO.
Criticarli in pubblico, in modo costruttivo, è un
esercizio salutare.
Le
tattiche di Prighozin sono un gioiello: manipola un certo grado di indignazione
pubblica per fare pressione sulla burocrazia del Ministero della Difesa,
dicendo essenzialmente la verità.
Potrebbe
persino arrivare a fare i nomi degli ufficiali che stanno abbandonando diversi
settori del fronte.
Al
contrario, i suoi “musicisti” Wagner sono dipinti come veri e propri eroi.
Se il
suono e la furia di Prigozhin saranno sufficienti a mettere a punto la
burocrazia radicata del Ministero della Difesa è una questione aperta.
Tuttavia,
la copertura mediatica dell’intero dramma è essenziale; ora che questi problemi
sono di dominio pubblico, la gente si aspetta che il Ministero della Difesa
agisca.
Comunque,
questo è il fatto essenziale: a Prighozin è stato permesso (corsivo mio) di
andare fino in fondo dal Potere Superiore (la connessione con San Pietroburgo).
Altrimenti sarebbe già in un gulag rinnovato.
Le
prossime settimane sono quindi assolutamente cruciali.
Putin e il Consiglio di Sicurezza sanno
certamente ciò che tutti gli altri non sanno, compreso Prighozin.
L’aspetto
fondamentale è che si inizierà a gettare le basi per consentire agli Stati
Uniti e alla NATO di trasformare l’Ucraina, i cagnolini baltici, la rabbiosa
Polonia e alcune altre comparse in una sorta di fortezza dell’Europa orientale
impegnata in una guerra di logoramento contro la Russia che potrebbe durare
decenni.
Questo
potrebbe essere l’argomento definitivo che spinge la Russia a prendere finalmente
il sopravvento, il prima possibile.
Altrimenti il futuro sarà tetro.
Beh, non così cupo.
Ricorda Putin: “Non abbiamo ancora iniziato
nulla”.
(Pepe
Escobar)
(Strategic
Culture)
Lombardia,
Acque “Potabili”
Contaminate:
Sostanze Tossiche
nel
20% dei Campioni!
Conoscenzealconfine.it
– (22 Maggio 2023) - Elisabetta Barbadoro – ci dice:
Dai
rubinetti della Lombardia sgorga acqua contaminata.
Lo ha
scoperto “Greenpeace” dopo varie richieste di accesso agli atti: studiando i
risultati delle analisi sui campioni prelevati dagli acquedotti delle dodici
province lombarde è stata riscontrata la presenza di “Pfas”, sostanze
alchiliche per fluorurate, in percentuali elevate, in particolare in alcune
zone.
Cosa
sono i Composti “Pfas”.
I
composti Pfas sono un gruppo di sostanze chimiche usate per impermeabilizzare
alcune superfici.
Vengono
impiegate per rivestire le padelle antiaderenti e altre superfici come tessuti,
tappeti, carta, e contenitori di alimenti.
Si
tratta però di molecole con un certo grado di tossicità: un’esposizione prolungata a queste
sostanze può provocare infertilità, problemi alle ghiandole e l’insorgenza di
alcuni tipi di cancro.
“Su
circa 4 mila campioni analizzati dagli enti preposti tra il 2018 e il 2022 –
scrive l’associazione ambientalista – circa il 19% del totale è risultato
positivo alla presenza di “Pfas”.
Lodi,
Bergamo e Como le Province più Contaminate.
Se si
entra nel dettaglio si scopre che in alcune province la situazione è
particolarmente allarmante:
a Lodi, ad esempio, la percentuale di campioni
positivi alla presenza di questi composti sfiora l’85%.
Sopra
il 60% la provincia di Bergamo, oltre il 40% a Como, 32% Monza e Brianza, 28% a
Cremona e quasi il 21% a Milano.
“Osservando
i risultati – comunica Greenpeace – si nota come parte dell’acqua della
Lombardia sarebbe considerata non potabile secondo i nuovi parametri proposti
negli Stati Uniti o quelli vigenti in Danimarca “.
I
Precedenti: lo Scandalo in Veneto.
La
contaminazione da “Pfas” nelle acque potabili non è un problema nuovo in
Italia:
nel
2013 è stata riscontrata una concentrazione anomala, addirittura sopra i
livelli rilevati in Lombardia, in vari comuni del Veneto, in particolare nelle
province di Vicenza, Verona e Padova: coinvolti 350mila residenti.
Nel 2018 il governo emanò lo stato di emergenza e in
30 comuni veneti fu vietato di bere acqua del rubinetto.
Lo
scandalo delle acque contaminate in Veneto è stato portato anche all’attenzione
delle Nazioni Unite.
Dopo una missione nella regione, l’Onu stilò
un rapporto in cui si afferma che “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a
proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche “.
Dallo
scandalo veneto è nato un processo che vede imputati 15 manager di tre
multinazionali, accusati a vario titolo di avvelenamento delle acque, disastro
ambientale, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e
reati fallimentari.
Dove
sono le Politiche “Green”?
Con il
recente rapporto di “Greenpeace” scopriamo che il problema non è confinato in
Regione Veneto e la contaminazione delle acque è stata scoperta anche nella
regione più popolosa d’Italia.
E
mentre le autorità preparano “la guerra all’anidride carbonica e alle
automobili”, milioni di cittadini continuano da anni a bere e consumare acqua
contaminata da sostanze tossiche pericolose per la salute umana.
(Elisabetta
Barbadoro)
(byoblu.com/2023/05/19/lombardia-acque-potabili-contaminate-sostanze-tossiche-nel-20-dei-campioni/)
Orban
trionfa ancora,
schiaffo
alle élite.
Iltimone.org
– Giuliano Guzzo – (4 aprile 2022) – ci dice:
Formalmente
è stata una vittoria, di fatto trattasi di trionfo.
In quello che più osservatori hanno valutato
essere uno dei voti più importanti nella storia dell’Ungheria, Viktor Orban, in
corsa per il suo quarto mandato consecutivo, non solo non ha deluso le
aspettative ma, forse, le ha perfino superate.
Sì, perché la vittoria del premier uscente, al
potere dal 2010, è stata schiacciante e superiore, a ben vedere, alle
previsioni più rosee dei sondaggisti.
Basti
qui sottolineare come il suo partito, il Fidesz, abbia ottenuto ben il 54%
delle preferenze, per un totale di 135 seggi sui 199 del Parlamento magiaro.
“Uniti
per l’Ungheria”, l’alleanza delle opposizioni, guidata da “Peter Marki-Zay”, si
è invece arrestata al 34% dei consensi e a 56 seggi;
mentre
all’estrema destra, che ha ottenuto il 6% dei voti, vanno 8 seggi. Degna di
nota è anche l’affluenza elevata, arrivata al 70% degli aventi diritto.
A
rendere significativa tale vittoria, vi sono poi stati due fattori.
Il primo, strettamente interno alla compagine
politica ungherese, riguarda l’assetto della poc’anzi citata opposizione,
giunta ad unire – in un’alleanza che, per eterogeneità, ricorda il”
brancaleonesco Ulivo” che, in Italia, aveva per leader Romano Prodi – forze
assai diverse tra loro, pur di scongiurare la vittoria di Fidesz.
Già
questo, a ben vedere, è un dato rilevante, specie considerato come Orban abbia
più legislature alle spalle e, quindi, la possibilità d’un elettorato
desideroso di cambiar aria era concreta.
Il
secondo tipo
di fattori che rendono questo trionfo significativo è internazionale.
Da
anni, il leader ungherese è infatti la bestia nera di Bruxelles, del “mondo Lgbt “e, più di un generale, del circuito
dei grandi media.
Non è
un caso che lui stesso abbia scelto di commentare l’esito delle urne così,
presentandolo cioè come «un chiaro segnale a Bruxelles» e non solo.
«Abbiamo
vinto anche a livello internazionale contro il globalismo», ha infatti dichiarato Orban,
elencando i tanti contro cui si è consumata la sua vittoria:
«Contro Soros. Contro i media mainstream
europei. E anche contro il presidente ucraino” Volodymyr Zelensky, che nella
notte di sabato si è rivolto nuovamente ad Orbán, “unico in Europa a sostenere
apertamente Putin”».
Immancabilmente,
varie voci si sono levate per criticare la vittoria del leader ungherese che
sarebbe stata sì netta, ma condizionata – se non del tutto truccata – da
presunti brogli.
L’ong “Hungarian
Civil Liberties Union”, per esempio, ha segnalato irregolarità in varie regioni,
dove degli attivisti avrebbero organizzato autobus per portare la gente a
votare;
se è accaduto, si tratta senza dubbio di
qualcosa di censurabile anche se è da vedere su quanto vi sia da
scandalizzarsi, dato che episodi simili sono accaduti innumerevoli volte, e
forse accadono ancora, anche in occasione di consultazioni elettorali italiane.
Ciò
detto, senza voler negare come quella di Orban sia una democrazia illiberale – assetto politico che descrive bene
pure altre realtà nazionali che, però, non destano analoga indignazione, a
partire proprio dall’Ucraina sotto la presidenza di Zelensky – è indubbio come l’Ungheria, pur con
una piccola popolazione, sotto la guida di Fidesz sia un Paese parecchio
scomodo.
Perché dimostra che si può disobbedire all’”agenda Lgbt, puntare sulla famiglia e risollevare
la denatalità senza ricorrere all’immigrazione”; e si può pure continuare a seguire
con convinzione il leader che in questa direzione, negli anni, ha remato.
I “social
network” a servizio
dei
governi statunitensi.
Resegoneonline.it
- Alberto Comuzzi – (27-12-2022) – ci dice:
Il
giornalista “David Zweig” ha scoperchiato la narrazione della pandemia imposta
dall'Amministrazione Biden.
Da
quanto emerge nell'Ue e in Usa c'è da chiedersi:
europei e statunitensi da chi sono governati?
Sotto
il titolo "Come twitter ha truccato il dibattito sul Covid", “David Zweig” ha pubblicato
in "The
free press"
il 26 Dicembre, un articolo in cui svela come il Governo degli Stati Uniti abbia usato i
social media per influenzare l'opinione pubblica.
Afferma
il giornalista:
«Avevo
sempre pensato che uno dei compiti principali della stampa fosse quello di
essere scettico nei confronti del potere, in particolare del potere del
governo.
Ma durante la “pandemia di Covid-19”, io e tanti altri abbiamo scoperto
che i “media
legacy” avevano dimostrato di funzionare in gran parte come piattaforma di
messaggistica per le nostre istituzioni di sanità pubblica.
Quelle
istituzioni operavano quasi in blocco totale, in parte eliminando i dissidenti
interni e screditando gli esperti esterni».
In
pratica consultando le e-mail del social media, “Zweig” ha potuto verificare
che sia l'Amministrazione Trump, sia l'Amministrazione Biden «hanno sollecitato
direttamente i dirigenti di Twitter a moderare i contenuti della piattaforma
secondo i loro desideri».
Alle
conferenze stampa governative prendevano parte ovviamente anche rappresentanti
di Facebook, Google, Microsoft ed altri.
All'inizio
della pandemia l'Amministrazione Trump, preoccupata della corsa ai
supermercati, ha cercato l'aiuto delle società tecnologiche per negare la
spinta sfrenata agli acquisti.
Con
l'avvento alla casa bianca di Biden il messaggio da diffondere chiesto ai
social media è mutato radicalmente e, commenta “Zweig”, riassumibile in «abbi molta paura di Covid e fai
esattamente quello che diciamo per stare al sicuro».
Nell'articolo
sono citati numerosi esempi di censura e tra questi, quello del giornalista “Alex
Berenson”, che aveva centinaia di migliaia di “follower” sulla piattaforma, perché si era dimostrato scettico sui
blocchi e sui vaccini a mRNA.
Aldilà
delle rivelazioni sulla vicenda pandemia, che mette in cattiva luce l'attuale
Amministrazione statunitense, l'elemento più preoccupante per l'opinione pubblica è la
diabolica efficacia dei social media per pilotare le democrazie.
Ciò
che hanno sperimentato le élite globaliste è che, agendo su pochi dirigenti del
“mondo
higt tech”,
è possibile spingere miliardi di persone a uniformare i loro comportamenti
secondo modelli preconfezionati.
Usando
media tradizionali (giornali, radio e tv) e social per diffondere il
"pensiero unico" e contemporaneamente silenziando coloro che si
pongono domande o non si allineano supinamente alla vulgata, è possibile raggiungere
obiettivi mai realizzati da alcun monarca nella storia dell'umanità.
Adesso
il re è nudo e, giorno dopo giorno, vengono alla luce i disegni di governi
occidentali che ben poco incarnano i valori della democrazia.
Quello
che i vertici europei e statunitensi stanno mostrando al mondo sono una prova
inconfutabile.
Osserviamo
l'autoritarismo di Paesi non occidentali e ignoriamo quello che accade nei
nostri?
Se gli
strumenti usati per la narrazione della pandemia hanno funzionato al punto di
convincere milioni di persone che solo i vaccini mRNA rendevano immuni e
salvavano la vita, perché non utilizzarli per raggiungere altri obiettivi.
A
questo punto però sorgono una serie di altri interrogativi:
quanto fondamento ha tutto ciò che ci viene raccontato
sul "verde", sulla necessità di convertire la mobilità passando dal
petrolio all'elettrico, sul nutrirci con gli insetti e sul proiettarci
velocemente nel metaverso?
Ancor
più inquietante è la domanda:
l'invasione
dell'Ucraina era evitabile?
Chi e
dove sono i complottisti, i terrapiattisti?
«GLOBALISMO
“CRIMINE PERFETTO”».
Inchiostronero.it
– (19 – 2 – 2020) - Roberto Pecchioli – ci dice:
” La
maggioranza globalizzata contro la democrazia.
Non hanno più bisogno della nostra
“democratica” approvazione. Globalismo come “crimine perfetto”: la democrazia
postmoderna è solo una tirannide rivestita da “Democrazia formale”.
Creatura
instabile e pericolosa, l’Occidente minaccia il mondo minacciando sé stesso di
distruzione.
In particolare, sembra entrata in crisi una
delle sue narrazioni più credute, la democrazia.
Una
delle classificazioni più comuni della psicologia è quella tra apocalittici e
integrati.
Non
abbiamo il minimo dubbio di appartenere alla prima categoria, ma una notizia ci
ha restituito il buonumore e un po’ di speranza.
Sembra
proprio che la democrazia “reale” abbia perduto molto del suo fascino, non solo
agli occhi degli europei e degli occidentali che affermano di averla inventata
e la esportano con la canna del fucile, sotto forma di polizia internazionale,
ristabilimento della pace, lotta ai tiranni, liberazione.
Molti – speriamo sia vero – non ci credono più.
È quanto afferma un rapporto dell’Università di
Cambridge,
pubblicato dal “Bennet Institute for Public Policy”, un’istituzione operante
con fondi statunitensi.
Lo
scenario globale dell’immigrazione.
Nel mondo ci sono 244 milioni di migranti, 41%
in più dal 2000.
I
popoli dell’Europa orientale, avevano già sperimentato i guasti del liberismo e
della disgregazione sociale.
A
milioni avevano dovuto emigrare, con devastanti conseguenze.
Gli
studiosi britannici affermano che dopo il 2005 la popolarità della democrazia è
in costante discesa.
Quindici
anni or sono solo il 38 per cento degli intervistati di tutto il mondo si
dichiaravano insoddisfatti della democrazia;
oggi,
sarebbero ben il 57, 5 per cento gli abitanti del pianeta delusi dal principio,
o dal metodo chiamato democrazia.
La maggioranza assoluta del mondo
globalizzato.
Tra
gli Stati che guidano il disincanto, spiccano Stati Uniti, Brasile, Messico e
Nigeria.
Ci
guardiamo bene dall’attribuire perfezione predittiva allo studio. Civiltà, culture, religioni,
popolazioni tanto diverse non possono essere interpellati sullo stesso tema
senza sorprese.
Inoltre,
diffidiamo per principio delle statistiche anglosassoni, che tendono a
generalizzare, ridurre problemi complessi a schemi semplicistici, binari, sì, no,
mi piace non mi piace, il modello delle reti sociali.
Tuttavia,
merita riflettere su questo dato.
Iniziamo
dai tempi:
nel
2005 non era ancora esplosa la crisi finanziaria globale, che ha lasciato sul
terreno troppe vittime per non determinare conseguenze nella percezione comune.
La
globalizzazione era certa già in atto, ma non aveva ancora dispiegato l’immenso
potenziale di cui siamo testimoni e vittime.
I popoli dell’Europa orientale, ad esempio,
finivano di digerire la sbornia del dopo comunismo, ma avevano già sperimentato
i guasti del liberismo e della disgregazione sociale.
A
milioni avevano dovuto emigrare, con devastanti conseguenze su quelle società e
su quelle di destinazione.
Il
potere del mercato finanziario.
Il
potere finanziario, da allora, ha guadagnato ulteriore terreno: le grandi
banche sono “troppo grandi per fallire” e i costi sono stati addebitati ai
popoli, attraverso i bilanci degli Stati.
La
dominazione attraverso la creazione monetaria, l’inganno del debito, la morsa
del mercato misura di tutte le cose e ora della tecnologia diventata biopotere,
non ha cessato di schiacciare i popoli.
I governi, gli Stati nazionali non hanno mai
contato così poco.
Gli
unici poteri che restano loro sono i più indigesti:
impongono
tasse sempre maggiori in cambio di quasi nulla – sanità, scuola, protezione
sociale ai minimi – e gestiscono l’ordine pubblico senza assicurare giustizia,
sicurezza, imparzialità.
Il
dissenso è represso in maniera sempre meno soft.
Non si
può in alcun modo contestare il modello sociale, politico, economico,
finanziario e culturale dominante, che si afferma unico, naturale, privo di
alternative.
Gli
strumenti di partecipazione popolare alle grandi decisioni sono esauriti o
pressoché impossibili da concretizzare.
Trionfa
su tutta la linea la libertà dei moderni, teorizzata due secoli fa da “Benjamin
Constant”.
Liberazione dai vincoli, preferenza assoluta
della dimensione privata, con il suo precipitato di indifferenza per il bene
comune, egoismo, disinteresse per la cosa pubblica.
La
libertà e la democrazia degli antichi, al contrario, erano soprattutto
partecipazione, esercizio di responsabilità e decisione.
Pessime cose, dal punto dei padroni del
vapore.
La
democrazia, dunque, si è ridotta sempre più a vuota procedura, formalità, gioco
di ruolo, circo equestre in cui si combattono non idee o progetti, ma gli
interessi più potenti, industriali, finanziari, tecnologici. La politica scade
ad amministrazione, il governo diventa governance, gestione.
La
fine possibile della democrazia.
Oggi
in nessun grande Stato occidentale è al potere chi rappresenta la maggioranza
aritmetica non dei cittadini, ma dei votanti, che diminuiscono a ogni tornata.
(Jean-Jacques
Rousseau).
Si
finisce per dare ragione al vecchio Rousseau, allorché avvertiva che la
democrazia rappresentativa e la sovranità popolare, vanto e fiore all’occhiello
dei popoli d’occidente, funziona per un solo giorno ogni quattro o cinque anni.
Nel
momento delle elezioni, il popolo esercita un fugace potere di scelta di
rappresentanti, ai quali cede immediatamente le sue prerogative. Addio
partecipazione, addio alla volontà generale, qualunque cosa voglia dire.
Per di
più, pur essendo evidente l’impossibilità di fuoriuscire da forme di
rappresentanza, e che il potere sarà sempre in mano a oligarchie, i sistemi
democratici si impegnano con successo a negare sé stessi. L’ingegneria politica
applicata alle tecniche elettorali fa sì che vinca non la maggioranza, ma la
minoranza meglio organizzata, che significa inevitabilmente la più ricca.
Il
potere del denaro svuota la democrazia, scriveva “Giano Accame”.
Oggi
in nessun grande Stato occidentale è al potere chi rappresenta la maggioranza
aritmetica non dei cittadini, ma dei votanti, che diminuiscono a ogni tornata.
Donald
Trump è stato eletto da circa il 25 per cento degli americani, la metà dei
quali non si è recata a votare.
Il recente, largo successo di Boris Johnson in
Gran Bretagna è legato al sistema maggioritario inglese.
Il
partito conservatore ha ottenuto meno del 44 per cento dei voti, con un terzo
dei britannici lontano dai seggi.
Lo
stesso in Francia e in Italia, dove è macroscopica la distanza dei partiti di
governo dal sentire maggioritario dei cittadini.
Incredibile
il caso della Spagna: il governo è al potere nonostante non abbia conseguito la
maggioranza parlamentare.
Si
regge sull’astensione di movimenti diversissimi e opposti.
I due
partiti di governo, i socialisti e i neo comunisti di Podemos non hanno che il
40 per cento dei voti; un terzo abbondante dei cittadini non ha votato.
Persino
“Norberto Bobbio”, dopo una vita di studi e dopo aver importato in Italia il
positivismo giuridico di Hans Kelsen , ovvero la norma elevata a puro potere,
ha dovuto ammettere che la democrazia è una procedura.
Non ci
si innamora delle procedure, ancor meno si è disposti a dare la vita per esse.
Di
più: quando ci si accorge che le carte sono truccate e la nostra volontà conta
meno di niente, si cercano altre forme per far sentire la propria voce.
Grottesca
è la realtà americana, il paese che si considera il leader della democrazia,
investito del destino manifesto di imporla a tutti i popoli dell’orbe
terracqueo.
Molti
ricorderanno che “George Bush jr” fu dichiarato presidente nel 2004 solo dopo
settimane di lotte sanguinose – e certamente di imbrogli da una parte e
dall’altra, relative al conteggio dei voti in Florida.
Il più
potente Stato del mondo non fu capace di stabilire quanti voti avessero
ottenuto non cento candidati, ma due.
Addirittura
comico, se non risultasse l’evidenza di un inganno generalizzato, è il
recentissimo caso delle elezioni primarie nello stato dello Iowa.
Hanno votato 170 mila elettori in tutto,
iscritti alle Primarie Usa, in Iowa “Buttigieg” davanti a “Sanders”.
“Biden”
quarto.
Viviamo
in un sistema Zombie.
Liste
del Partito Democratico in base alle leggi locali.
Non è chiaro quanti voti abbiano riportato i
vari aspiranti alla nomina di candidato presidenziale.
Ci
vuole tempo, tanto tempo, molto di più di quello che occorre per decidere un
bombardamento con missili “intelligenti” diretti da remoto, o l’assassinio di
un dignitario straniero.
I
candidati vincenti saranno comunque quelli in grado di raccogliere i
finanziamenti più cospicui.
Per
arrivare alla Casa Bianca serve qualche miliardo di dollari. Dobbiamo spiegare
da dove arrivano cifre tanto elevate e che cosa comporta il sostegno dei
signori del denaro?
Eppure
il gioco funziona e lo chiamano democrazia.
È
un’ottima notizia che siano sempre meno a crederci.
I
ricercatori di Cambridge, “sinceri democratici” sono inquieti.
Soprattutto si preoccupano del disincanto americano.
Gli Stati Uniti non sono più “la città splendente
sulla collina”, portatori di una perfezione quasi ontologica.
Stupisce
che ai soloni detentori di prestigiose cattedre universitarie ci sia voluto uno
studio scientifico per prendere atto con sgomento di ciò che è sotto gli occhi
di chiunque viva e vesta panni.
Viviamo
in un sistema Zombie, rinserrato nella convinzione “scientifica” (o
a-scientifica?) che le élite hanno della propria superiorità.
Scambiano
un simulacro per la realtà, una procedura per un principio universale.
Fingono
di crederci, il problema che ci credono sempre meno i sudditi, per i quali è
stato creato il sistema.
Ha
ragione “Massimo Fini”, descrivendo ruvidamente la democrazia odierna come il
regime in cui il popolo lo prende nel … con il suo consenso.
Una democrazia sana richiede che la
maggioranza dei cittadini creda in elezioni eque e ritenga che la politica
offra soluzioni ai suoi problemi. Stato di diritto, rispetto per i diritti
delle minoranze.
Se
questa fiducia si perde, vince la fazione, la lotta di tutti contro tutti per
dominare gli avversari a tutti i costi, con ogni mezzo.
Eterotopia,
cioè fini opposti a quelli dichiarati e originari.
Questa
è la democrazia postmoderna.
Scriveva
un intellettuale francese della prima metà del XX secolo, “Jacques Barzun”, a
lungo prestigioso docente negli Usa:
“Se ce
n’era uno, l’obiettivo della guerra rivoluzionaria americana era reazionario:
il ritorno ai bei vecchi tempi!
I
contribuenti, i funzionari eletti e i commercianti, i proprietari volevano un
ritorno alle condizioni esistenti prima dell’istituzione della nuova politica
inglese.
I
riferimenti erano i diritti classici e immemorabili degli inglesi: autogoverno
attraverso rappresentanti e tasse garantite da assemblee locali e non
arbitrariamente stabilite dal re.
Non furono proclamate nuove idee che
suggerissero un cambiamento nelle forme e nelle strutture del potere – il segno
delle rivoluzioni.
Il
linguaggio della” Dichiarazione di Indipendenza” è quello di protesta contro
l’abuso di potere e non quello di una proposta di rifondazione del governo su
nuovi principi.”
Il
2005 segna l’inizio della recessione democratica globale.
Negli Usa, dopo la seconda guerra mondiale,
solo un quarto degli americani non si sentiva in sintonia con le istituzioni.
Oggi
la percentuale è del 55 per cento.
La
maggioranza dei cittadini della democrazia più grande, più ricca, più potente,
non la pensa come il potere, come l’apparato culturale, la comunicazione,
l’enorme struttura riservata di “dominio del deep State”, servizi segreti,
sistema militare industriale, giganti tecnologici di Silicon Valley.
Il problema è serio.
Innanzitutto,
una democrazia sana richiede che la maggioranza dei cittadini creda in elezioni
eque e ritenga che la politica offra soluzioni ai suoi problemi.
Controllo
ed equilibrio, istituzioni di garanzia, stato di diritto, rispetto per i
diritti delle minoranze.
Se
questa fiducia si perde, vince la fazione, la lotta di tutti contro tutti per
dominare gli avversari a tutti i costi, con ogni mezzo.
Tribalismo.
Qualcuno
lo chiama tribalismo, ma è il contrario: è il dominio di oligarchie padrone di
tutto.
La lotta politica si riduce ad una guerra
spietata tra gruppi contrapposti di potere, per i quali i cittadini non sono
che clienti, target da conquistare con operazioni di marketing pubblicitario,
slogan suggestivi ma privi di contenuto.
A
parità di mezzi – a disposizione solo di chi è già inserito nei meccanismi del
potere – vince chi conduce la più efficace campagna pubblicitaria.
Rousseau viene superato: il popolo conta solo nell’attimo
in cui pensa “mi piace”.
Gioco finito, anzi “game over”.
Poiché
l’America è stata costruita da immigrati, il suo successo si è fondato
sull’ottimismo e su un idealismo fatto di integrazione ed assimilazione del
modello dominante.
Dopo la crisi finanziaria del 2008, tutto
questo ha cominciato a cambiare, tutti i sistemi politici si sono deteriorati,
tra agenzie di rating, debito sovrano, distruzione delle classi medie,
polarizzazione della ricchezza e quindi del potere.
Nel
bene e soprattutto nel male, l’America è il modello di riferimento della nostra
parte di mondo.
Che cosa succederà quando la maggioranza dei
cittadini della prima democrazia del mondo, la più grande economia e l’esercito
più potente, perderà la fede nelle sue fondamenta?
Forse
è già accaduto e il sistema tiene attraverso l’imposizione, l’incapacità di
progettare alternative, l’immensa macchina organizzativa, propagandistica,
tecnica di cui dispone.
Quando
il vento cambierà per davvero, forse potremo tentare una rivoluzione
democratica, nel senso della partecipazione dei popoli al loro destino.
Sino
ad allora, vivremo sotto una tirannide rivestita degli abiti ingrigiti della
democrazia formale.
Paradiso
e tomba dei popoli, il suo successo dipende dalle differenze che nega.
L’istinto
dei popoli sta comprendendo che i regimi democratici sono quelli nei quali, di
tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera
sovranità sta in forze irresponsabili e riservate.
Vale
la pena sorridere dinanzi a una riflessione dell’economista “Harvey Liebenstein”: la democrazia è il principio di non
minoranza.
Per “Jean
Baudrillard” la vera apocalisse non era la fine del mondo fisica, materiale, ma
l’unificazione in quello che lui chiamava “il mondo”, ovvero il globalismo che ha
realizzato il simulacro definitivo, il “crimine perfetto”, la fine negando che sia tale,
nell’illusione che tutto continui.
Comandano
da remoto, da Matrix.
Non
hanno quasi più bisogno della nostra democratica approvazione. Quasi…
«LE
IDEOLOGIE ANTIUMANE
DELL’OCCIDENTE TERMINALE»
Inchiostronero.it
- Roberto Pecchioli – (22-5-2023) – ci dice:
La
logica antiumana dell’anti specismo, con la folle equiparazione di tutti gli
esseri “senzienti”, ha in “Pierre Singer “il suo più influente banditore, colui
che si è incaricato di spalancare” la finestra di Overton della regressione ad animali
della specie umana. “
Tuttavia,
sono alcuni movimenti estremi – minoritari, ma assai rumorosi – a fornire la
misura della confusione mentale che regna nel campo dell’”animalismo radicale.
Il
partito spagnolo “Pacma”, in occasione dell’8 marzo, ha diffuso un manifesto in
cui parifica le donne alle mucche, schierandosi per un “femminismo senza distinzione di
specie”.
L’immagine
della campagna mostra da un lato una giovane donna, dall’altro una mucca, con
lo slogan “per
un femminismo anti specista, di tutte e per tutte, senza distinzioni. “
SMANTELLAMENTO
DELLE OPPRESSIONI- UN APPROCCIO ANTI SPECISTA E FEMMINISTA.
L’egalitarismo
portato alle conseguenze estreme, unito alla commistione con altre suggestioni
culturali malamente masticate conduce a questo; niente di diverso,
qualitativamente, da alcuni movimenti del passato, specie di ambito cristiano,
come Catari, anabattisti, seguaci di Fra Dolcino, che tuttavia non si erano mai
spinti a equiparare la creatura umana – anche per loro oggetto di un piano
divino – all’animale.
Tuttavia, oltrepassato l’umanesimo, l’esito
obbligato dell’idea di uguaglianza è appunto l’equivalenza di ogni vivente in
nome di un equivoco biocentrismo.
Con
buona pace di “Singer”, peraltro, è proprio il cristianesimo, da lui criticato
per la morale che impedisce di uccidere i deboli (forse una lettura banalizzata
della “morale dei signori e degli schiavi” di Nietzsche) a porre le basi per la
distinzione ferrea tra uomini e animali.
Avvenne
all’alba dell’avventura coloniale europea, allorché i conquistatori spagnoli
tendevano a non considerare pienamente umani i popoli che stavano
sottomettendo.
Il
grande filosofo e giurista “Francisco de Vitoria” (1483-1546), domenicano,
fondatore del moderno diritto internazionale, nel saggio “De Indis” affermò
vigorosamente l’umanità delle popolazioni indigene, negando che i conquistatori
avessero il diritto di trarli in schiavitù.
I cosiddetti “indios”, infatti, avevano
coscienza piena di sé ed erano in grado di autogovernarsi, indipendentemente
dalle credenze religiose e da ogni altra pratica e usanza.
“Vitoria”
affermava che anche se anche fossero stati come bambini piccoli, avessero
qualche ritardo mentale o fossero pazzi, dominarli sarebbe stata un’ingiustizia
(iniuria) poiché immagini di Dio come ogni altro uomo.
L’argomentazione di “Vitoria” è specista,
ossia umanista, in quanto stabilisce che gli indios hanno i medesimi diritti
degli spagnoli in quanto esseri umani.
Il
“dominio di sé” implica il possesso di diritti come la proprietà, diversamente
dagli animali.
“Privare un lupo o un leone della sua preda
non implica un’ingiustizia”. Se gli animali avessero il dominio di sé,
continua, “chiunque recinti un terreno di erba frequentato dai cervi
commetterebbe un crimine, poiché ruberebbe il cibo senza il permesso del
proprietario”.
L’esempio
di “Vitoria” oggi sarebbe tacciato di antropocentrismo, un altro dei peccati capitali
della specie umana secondo i vangeli apocrifi “woke”.
Alcuni
settori del femminismo più radicale lambiscono l’anti specismo: è il caso del
cosiddetto xeno femminismo di “Helen Hester”, che contesta i limiti biologici
dell’essere umano e si definisce” alieno”, a partire dal prefisso “xeno”,
estraneo, straniero.
L’approdo
finale è il transumanesimo, l’ideologia antiumana delle oligarchie.
Caposcuola
di questi filoni femministi è “Donna Haraway”, autrice del celebre “Manifesto
Cyborg”, studiosa del rapporto tra scienza e “identità di genere”.
Il messaggio esprime il rifiuto della
condizione umana “normale”.
La
scelta “cyber femminista” è la logica conclusione della teoria dei dualismi
della “Haraway”:
la cultura occidentale è caratterizzata da una
struttura binaria ruotante intorno a coppie di categorie; uomo/donna,
naturale/artificiale, corpo/mente.
Un dualismo concettuale non simmetrico, basato
sul predominio di un elemento sull’altro:
sulle donne, sulla gente di colore, sulla
natura, sui lavoratori, sugli animali.
La
figura del cyborg, da invenzione fantascientifica diventa metafora della
condizione transumana:
contemporaneamente
uomo e macchina, individuo non sessuato situato oltre le categorie di genere,
creatura sospesa tra finzione e realtà;
un prodotto cibernetico, un ibrido di macchina
e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà quanto alla finzione.
“Il cyborg permette di comprendere come la
pretesa naturalità dell’uomo sia solo una costruzione culturale.”
Le
riflessioni della “Haraway” diventano profezia oscura nell’annuncio di un’era
detta “Chthulucene”.
Nella
nuova epoca l’aumento della popolazione verrà bypassato in favore di un modello
culturale teso “alla generazione di parentele in senso ampio, attraverso decisioni intime
e personali per creare vite fiorenti e generose senza mettere al mondo bambini.
” Una
delle tante declinazioni della cultura di morte da cui è pervaso l’Occidente
contemporaneo”.
Il
termine “Chthulucene” richiama il “mostro Chthulu,” personaggio dello scrittore
“Howard P. Lovecraft”, (tutti i Racconti) un essere semi-divino che vive in un
sonno simile alla morte, nell’attesa di una congiunzione astrale che ne
consenta il risveglio.
“Chtulhu” ha la radice di “ctonio”,
sotterraneo, legato all’inquietante mondo del sottosuolo.
Tutti
i salmi finiscono in gloria:
disprezzo
per l’essere umano reale, rivolta contro natura e biologia, volontà di superare
ogni limite, scatenamento di forze sotterranee.
Diverso,
ma altrettanto antiumano è il biocentrismo, alla base dell’ideologia climatica,
convinta che i cambiamenti del clima terrestre non siano dovuti all’azione di
lungo periodo delle forze della natura, ma all’agire umano.
L’obiettivo
finale è passare dall’”antropocene” –il termine coniato dal chimico olandese”
Paul Crutzen” per designare il tempo del dominio dell’uomo sulla natura- a una
sorta di “biocene”, giacché gli esseri umani sono degenerati in una minaccia
per il mondo naturale.
La conseguenza è considerare opportuna la loro
drastica diminuzione sino alla scomparsa della specie.
La biodiversità non vale per l’homo sapiens.
Se
vuoi lottare contro il cambiamento climatico, non avere figli, è uno degli
slogan.
L’idea
sottostante è che c’è natura solamente laddove non c’è l’essere umano.
Strano che non venga rilevato che solo la nostra
specie ha coscienza dei suoi stessi errori ed orrori, e che dunque ogni sistema
di idee – anche il più antiumano – può sorgere e sussistere solo dentro l’uomo,
che davvero è misura di tutte le cose, soprattutto se è respinta ogni ipotesi
di trascendenza.
L’”ideologia
climatica” è la forma più sofisticata di anti umanesimo.
Lo
dimostrano le conclusioni della ricerca” The climate mitigation gap”, elaborate
dalla rivista “Environmental research letters.”
Le misure suggerite per combattere “il
riscaldamento globale” – dogma ripetuto sino allo sfinimento – si dividono in
azioni a basso, medio e alto impatto.
Le
prime due sono sostanzialmente ragionevoli, da discutere entro la prospettiva
umanista.
Quelle ad alto impatto sono apertamente antiumane.
Spicca
la volontà di modificare le abitudini alimentari della specie – onnivora –
imponendo il “vegetarianesimo e il veganesimo”, che da scelte individuali
dovrebbero diventare obblighi.
In questo caso si tratta di capovolgere un
dato biologico naturale in omaggio … alla natura.
Ancora
più sconvolgente è la proposta di ridurre drasticamente il numero di esseri
umani, allo scopo di diminuire le emissioni di gas con “effetto serra”.
Ogni
nuovo nato contribuisce all’atmosfera con cinquantacinque tonnellate di CO2
all’anno, scrive lo studioso “Travis Rieder”. “Procreando, non stiamo solo creando
una nuova persona che emetterà gas serra, ma anche un essere che a sua volta
potrà procreare.”
La soluzione proposta è l’estinzione
volontaria della specie.
Non va
dimenticato che le tendenze esposte sono variazioni sul tema di un altro dogma
occidentale, l’evoluzionismo.
La
teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale elaborata nel XIX
secolo da “Charles Darwin” – peraltro sugli studi precedenti di Alfred Russell
Wallace – è stata imposta come verità cosmologica e scientifica senza che sia
stata provata oltre ogni dubbio.
Pensiamo ai vari “anelli di congiunzione” tra la
scimmia e l’uomo più volte annunciati e mai esibiti, come l’australopiteco
scoperto nel 1925 o l’ipotesi dell’uomo di Pechino del bizzarro gesuita” Pierre
Theilhard de Chardin”.
Nessuno può negare le modificazioni – del clima,
della natura, dei viventi – ma è sin troppo chiara l’utilità dell’evoluzionismo
per giustificare teorie economiche (il liberismo alla Adam Smith), pratiche
eugenetiche, teorie filosofiche come il positivismo di “Herbert Spencer”, vero
e proprio darwinismo sociale.
L’idea
di selezione “naturale” è il potentissimo supporto teorico alle peggiori derive
antiumane, costruzione ideologica ad uso di oligarchie che stanno plasmando il
senso comune delle generazioni occidentali come senso di colpa e disprezzo per
la specie umana, equiparata all’animale o considerata un male da estirpare.
Selezionare
significa scegliere; le classi dominanti lo stanno facendo per tutti, chiamando
eccedenza, scarto, pericolo, gran parte dell’umanità.
Non si
perviene al transumanesimo – volontà prometeica delle élite- senza prima
diffondere nella creatura umana, con le più varie giustificazioni ideali e
perfino morali, l’odio di sé.
Senza
identità, privato di amor proprio, convinto di incarnare il male, l’ex homo
sapiens diventa un atomo alla deriva nemico di sé stesso, a cui è impossibile
ascoltare la lezione di Terenzio:
“sono
un uomo; nulla di umano mi è estraneo.”
(Roberto
PECCHIOLI)
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