Il tradimento della democrazia popolare da parte delle élite di governo.

 

Il tradimento della democrazia popolare da parte delle élite di governo.

 

 

La rivolta delle élite.

Il tradimento della democrazia.

 Neripozza.it – Editore- Feltrinelli – (1995) - Christopher Lasch – (22-5-2023) - ci dice:

 

Pubblicato per la prima volta nel 1995, un anno dopo la morte del suo autore, La rivolta delle élite apparve subito come un libro fondamentale, capace di cogliere, più di qualsiasi testo di politologia, le ragioni profonde della crisi delle moderne democrazie liberali.

«Anziché attenersi ai sondaggi», scrisse il “Washington Post”, «gli analisti politici farebbero meglio a impiegare il loro tempo leggendo l’ultimo libro di Christopher Lasch».

Oggi, a oltre vent’anni di distanza, il volume si svela non soltanto come un libro fondamentale, ma come una vera e propria opera profetica, in grado di prefigurare la nascita dei populismi odierni, di quella” secessio plebis” che si comprende appunto soltanto come una naturale conseguenza della rottura del legame sociale operata tempo fa dalle élite.

Il libro ritrae per la prima volta, nei suoi tratti essenziali a noi oggi così familiari, quell’élite liberale e cosmopolita di tecnocrati, manager e agenti della comunicazione che determinano le sorti delle società contemporanee: uomini che si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando «sono en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale».

Uomini che, in possesso di «una visione essenzialmente turistica del mondo», lasciano volentieri l’idea di una residenza stabile a una middle class ritenuta «tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali».

Uno smart people che, a Hong Kong come a Bruxelles o a New York, si sente «creativo», ma la cui creatività è rivolta soltanto a «una serie di attività mentali astratte svolte in un ufficio, preferibilmente con l’aiuto di un computer, e non alla produzione di cibo, case o altri generi di prima necessità».

Il solo rapporto che, nel liberalismo moderno, l’élite ha con il lavoro produttivo è, per Christopher Lasch, il consumo.

Per il resto essa vive in una «iper realtà», un mondo simulato di modelli computerizzati, dove non ne è più nulla del mondo comune e dove l’ossessione fondamentale è il controllo, la «costruzione della realtà» (diremmo, con il termine oggi in voga, “la governance”).

Lasch non si sottrae alla questione di cosa opporre alla rottura del legame sociale prodotta dalla rivolta delle élite.

Nel sindacalismo agrario e operaio americano dell’Ottocento, confluito poi nel “People’s Party” e nel “Partito Democratico”, vi è, secondo lui, la possibile risposta:

 l’esperienza di comunità fondate su valori come l’eguaglianza delle opportunità, la competenza, la mutua collaborazione, e per questo «capaci di autogoverno».

“La rivolta delle élite” fu pubblicata per la prima volta in Italia nel 1995 dall’editore Feltrinelli con il titolo” La ribellione delle élite”.

 La sua riproposta oggi, con un titolo più fedele a quello originale, nasce da una profonda convinzione:

 che l’opera sveli oggi più di ieri la sua indiscussa attualità.

 

 

 

La scellerata guerra di Putin

avrà conseguenze sugli

autocrati di tutto il mondo

Linkiesta.it – Redazione – (2 aprile 2023) – ci dice:

 

I leader sovranisti e nazionalisti seguono a distanza l’invasione russa in Ucraina, rifiutandosi di condannare le nefandezze del Cremlino.

 Un lungo articolo del “Financial Times” spiega perché l’esito di questo conflitto avrà un impatto sul futuro di un’intera generazione di dittatori, o aspiranti tali.

L’invasione dell’Ucraina è sembrata una naturale conseguenza delle politiche autoritarie di Vladimir Putin.

A quasi un mese e mezzo dall’inizio del conflitto, i discorsi sulla «denazificazione» e sulla necessità urgente di interrompere un «genocidio», la venerazione della forza e della violenza, il disprezzo per il liberalismo e la legge, appaiono sempre più come deliri d’onnipotenza dell’uomo forte che non ha opposizione in patria.

Negli ultimi anni Putin è diventato l’archetipo dell’autocrate che governa con pugno di ferro.

 I suoi metodi sono stati emulati, o sono stati d’ispirazione, per molti altri leader autoritari.

Narendra Modi in India, Jair Bolsonaro in Brasile, Viktor Orbán in Ungheria, Mohammad bin-Salman in Arabia Saudita, Xi Jinping in Cina sono entrati nel solco tracciato dal capo del Cremlino.

Sono leader nazionalisti e conservatori, con tolleranza nulla per minoranze, dissenso e immigrati.

 In casa loro si vantano di difendere i cittadini da presunti assalti delle élite globaliste;

 all’estero si presentano come l’incarnazione delle nazioni che rappresentano.

I tanti punti di contatto tra i regimi autoritari creano un fronte comune in cui i destini politici dei diversi leader sembrano tutti connessi.

 «È possibile che un’eventuale catastrofe russa in Ucraina screditi definitivamente lo stile politico dell’uomo forte», si legge sul” Financial Times”, in un lungo articolo firmato da “Gideon Rachman”, il quale però sottolinea che prima di decretare il fallimento su tutta la linea di questo attacco bisogna tenere a mente che questo «stile politico» ha messo radici profonde negli ultimi 20 anni.

L’età dell’uomo forte in epoca recente è iniziata il 31 dicembre 1999, quando Putin ha prestato giuramento come presidente della Russia:

da quel momento è diventato il prototipo per un nuovo tipo di “sovrano” che avrebbe rimodellato la politica globale per una generazione.

Dopo di lui sarebbe arrivato, nel 2003, “Recep Tayyip Erdogan”, diventato primo ministro della Turchia.

 In poco più di un decennio hanno preso il potere nei loro Paesi anche Orbán, Modi, Bolsonaro.

 E ovviamente anche Xi Jinping in Cina, che è riuscito a rendere il suo mandato praticamente eterno nel 2018, quando ha rinnovato e rafforzato la sua leadership abolendo i limiti del mandato presidenziale.

«Il rifiuto di lasciare il potere è uno dei marchi di fabbrica dell’uomo forte», scrive il “Financial Times”.

 Anche Erdogan e Putin hanno anche cambiato le costituzioni dei loro Paesi per prolungare il loro periodo al vertice.

«Una caratteristica dell’uomo forte è che deve essere considerato indispensabile.

L’obiettivo di questi leader è convincere le persone che solo loro possono salvare la nazione.

 In questo modo distinzione tra lo Stato e il leader viene erosa, rendendo pericolosa o inconcepibile la sostituzione dell’uomo forte con un mortale inferiore»,

si legge nell’articolo del “Financial Times”.

Insomma, deve crearsi una distanza netta tra i leader autoritari e i cittadini comuni: Putin, Xi Jinping, Modi, Edorgan, hanno incoraggiato un culto della personalità che va ben oltre gli standard dei partiti personali che ci sono in Italia o in altri Paesi europei.

Durante la sua campagna di rielezione del 2019, Modi ha fatto leva proprio su un’immagine machista, vantandosi delle dimensioni del suo petto e della sua volontà di usare la violenza contro i nemici dell’India.

 Un giorno si è rivolto così agli elettori:

«Quando si vota per Lotus (il suo simbolo del partito, ndr), non si preme un pulsante su una macchina, ma si preme un grilletto per sparare ai terroristi».

Sembrava una cifra stilistica estranea alle democrazie mature dell’Occidente.

Invece l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato questo paradigma.

 Ha ripetuto più volte – a metà tra il serio e il faceto – che anche la più grande democrazia del mondo dovrebbe cambiare la sua costituzione per permettergli di governare più a lungo rispetto al limite dei due mandati.

 E nel 2015, quando era ancora solo un candidato, Trump elogiò Putin anche di fronte alle accuse di omicidio di giornalisti e oppositori:

 «Penso che anche il nostro Paese uccida parecchio».

Un presidente americano disposto a dire, in buona sostanza, che anche le democrazie mentono, uccidono, hanno media ingannevoli, truccano le elezioni e hanno tribunali disonesti, fa il gioco degli autocrati.

 «La cancellazione di una linea di separazione tra la leadership nei sistemi democratici e autoritari è stata per decenni un obiettivo chiave degli autoritari», scrive il Financial Times.

L’uomo forte di queste dittature spesso giustifica i suoi metodi spietati dipingendo la patria come una nazione in crisi così profonde da non poter più permettersi di rispettare gli ideali liberali;

spesso gioca sulla paura che la maggioranza del Paese stia per essere spodestata da nuove minoranze, al costo di enormi perdite culturali ed economiche.

È quello che “Gideon Rachman” nel suo articolo definisce «nazionalismo nostalgico».

È il “Make America Great Again” di Trump; il «rande ringiovanimento del popolo cinese» voluto da Xi Jinping; l’orgoglio indù sbandierato da Modi; la riconquista dei territori persi dall’Ungheria dopo la Prima Guerra Mondiale reclamata da Orbán; i continui richiami all’Impero Ottomano di Erdogan.

I governi autoritari hanno anche una predilezione per la violenza, la conquista e l’anarchia internazionale: l’era dell’uomo forte degli anni ’30, con Mussolini, Franco, Stalin e Hitler portò il mondo intero – o quasi – in guerra.

Putin ora sta ripetendo questo schema.

 La sua invasione dell’Ucraina ha finalmente spinto gli Stati Uniti e l’Unione europea a tentare di combattere l’autoritarismo degli uomini forti.

L’invocazione forse sbadata ma sincera di Joe Biden in Polonia, «per l’amor di Dio quest’uomo non può rimanere al potere», è stata molto criticata.

Ma riflette l’idea di un mondo che si ritrova, una volta di più, bloccato in una lotta sanguinosa autocrazia e democrazia.

 

Non è un caso che molti leader autoritari in tutto il mondo siano rimasti strategicamente neutrali sulla guerra, forse rifiutandosi di condannare Putin ma tenendosi alla larga dall’impegno nelle sanzioni internazionali.

«Ci sono buone ragioni per credere che il mondo democratico liberale alla fine prevarrà», scrive il “Financial Times”

. «La regola dell’uomo forte – si legge ancora nell’articolo – è che il modello è intrinsecamente imperfetto», quindi destinato a sgretolarsi prima o poi.

Uno Stato governato da Putin o Xi Jinping o Modi non può affrontare il problema della successione, è carente in tutti quei proverbiali pesi e contrappesi che consentono alle democrazie di liberarsi di politiche e governanti fallimentari.

Ed è altrettanto evidente che più a lungo un autocrate è al potere, più è probabile che sia sopraffatto dalla paranoia o alla megalomania.

«La criticità di questi giorni – è la conclusione dell’articolo – è che gli uomini forti sono molto difficili da rimuovere dal potere:

questa nuova generazione di leader ha messo le radici nel corso di un ventennio e potrebbero esserci molte altre turbolenze e sofferenze prima che si chiuda questo capitolo di storia».

 

 

 

Il mondo paranoico e classista

dei super-ricchi.

Transform-italia.it – (01/02/2023) - Alessandro Scassellati – ci dice:

 

Questo testo era stato scritto per essere incluso nel mio libro “Il suprematismo bianco”.

Alle radici dell’economia, ideologia e cultura della società occidentale, DeriveApprodi, Roma, 2023, nelle librerie entro questo febbraio. Purtroppo, per ragioni di spazio l’ho dovuto tagliare, ma ora mi sembra utile condividere queste riflessioni con i lettori di “Transform! Italia”.

 

(C’è guerra di classe, va bene, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo.

Warren E. Buffet.)

Il populismo reazionario che da ormai un decennio investe le società occidentali è in grado di attirare, oltre che i ceti più vulnerabili, anche gli elettori ricchi, in quanto il pregiudizio e l’ostilità possono essere ugualmente prevalenti tra le fasce più abbienti della popolazione.

 “Mols” e” Jetten” parlano di «paradosso della ricchezza» e sostengono che le fasce più abbienti percepiscono che i confini tra il loro gruppo e quelli socialmente inferiori (come il ceto medio) sono permeabili, e quindi si percepiscono insidiate dal pericolo di un declino della propria posizione.

 Cercano di rafforzare i meccanismi di legittimazione dei propri livelli di reddito e di ricchezza che giustificano che altri stiano peggio, o perfino che restino esclusi dall’accesso a fondamentali diritti e opportunità.

 In loro cresce il timore che la propria ricchezza si possa dissipare in un breve lasso di tempo per l’instabilità politica o per quella economica (ad esempio, a seguito dei crolli delle azioni in borsa o della crisi dell’impresa familiare), e accumulano risentimento credendo di essere colpiti dalle misure di austerità implementate dai governi più duramente degli altri gruppi.

 

I veri ricchi, come ha osservato “Francis Scott Fitzgerald” ne “Il grande Gatsby”, «sono diversi da te e me», perché la loro ricchezza li rende «cinici dove noi siamo fiduciosi» e li fa pensare che siano «migliori di noi».

 I super ricchi americani – nel 2022, tre multimiliardari, Elon Musk, Jeff Bezos e Bill Gates possedevano più ricchezza della metà inferiore della società americana, ossia di 160 milioni di americani – sono consapevoli che nel medio e lungo termine queste dinamiche sociali ed economiche così inique (basti pensare che i maschi americani più ricchi vivono 15 anni in più rispetto ai maschi americani più poveri, mentre per le donne la differenza è di 10 anni) non sono sostenibili e in molti, oltre a fare la tradizionale beneficenza filantropica, vivono nell’ansia che il paese possa insorgere contro di loro e che nel prossimo futuro possano scoppiare gravi disordini, sommosse, tensioni razziali e conflitti sociali.

I super ricchi vivono in un’atmosfera paranoica (in linea con il «paranoid style» presente nella storia della politica americana che venne denunciato dallo storico “Richard Hofstadter” nel 1964 ) e temono l’arrivo del collasso ambientale, di una catastrofe (come nei casi degli uragani Katrina e Irma o di un’esplosione nucleare o di una tempesta solare), di una pandemia (come il coronavirus CoVid-19), di una guerra civile, di una rivoluzione, di un hacking digitale che distrugge tutto o di un collasso del governo e delle istituzioni.

Una situazione di crollo dell’apparato statale che viene chiamata” wrol – without rule of law “– cioè «fine dello stato di diritto».

 Per questo si preparano a sopravvivere («survivalism») rifugiandosi in bunker sotterranei con armi automatiche e provviste o predisponendo vie di fuga in rifugi dorati in isole sperdute o in case di lusso in Alaska e Nuova Zelanda, un arcipelago di oltre 600 isole che ai loro occhi offre distanza e sicurezza, ma dove di recente, proprio per contenere il «caro-casa» e bloccare la «invasione» dei super ricchi americani e cinesi, il governo laburista ha bloccato la possibilità di acquistare case da parte di stranieri non residenti.

 

Il loro manifesto è il libro “The sovereign individual: how to survive and thrive during the collapse of the welfare state”, pubblicato nel 1997 da “Simon & Schuster”, i cui co-autori sono “James Dale Davidson”, un investitore privato specializzato nel consigliare i ricchi su come trarre profitto dalle catastrofi economiche, e il defunto “Lord William Rees-Mogg”, a lungo direttore del “Times” (il cui figlio, “Jacob Rees-Mogg”, è deputato e ex-Ministro ultra-conservatore pro-Brexit britannico).

 Il libro-manifesto è un testo apocalittico e distopico che preconizza il collasso della civiltà occidentale basata sullo Stato-nazione, rimpiazzata da deboli confederazioni di città-Stato corporative, con la presa del potere da parte di una «élite cognitaria» globale, una classe di individui sovrani in grado di controllare enormi risorse (una sorta di neo-feudalesimo oligarchico).

Inoltre, molte delle persone più ricche della Silicon Valley (come Peter Thiel, oltre che co-fondatore di “PayPal”, uno dei primi investitori in “Facebook “e un libertario e tecno-elitista convinto, o “Serge Faguet”) e di WALL Street (come “Julian Robertson”, guru degli hedge funds), stanno investendo a piene mani nel «business dell’immortalità» per migliorare chi è già in salute e costituire una nuova élite di super uomini potenziati in grado di controllare i propri algoritmi biochimici, applicando a sé stessi forme di “biohacking” (che uniscono l’alta tecnologia dell’intelligenza artificiale, wellness, interventi anti-invecchiamento) – per cui c’è chi, come gli sviluppatori dell’intelligenza artificiale “Sam Altman” e “Ray Kurzweil,” che cerca di caricare la sua mente nei supercomputer, chi dorme su materassi elettromagnetici, fa continui esercizi fisici sotto la guida di personal trainer, segue rigide diete alimentari, si fa fare trasfusioni di cellule staminali e prende fino a 150 pillole «cognitive» al giorno.

 Finanziano a piene mani la ricerca nell’ingegneria genetica (modifiche del DNA e dei telomeri) e biomedica (organi artificiali), medicina rigenerativa, nanotecnologie e interfacce cervello-intelligenza artificiale.

Di recente, “Facebook” ha comprato per circa un miliardo di dollari “Ctrl-Labs”, una startup che sta studiando il modo di comunicare con i computer tramite segnali cerebrali (il pensiero) con l’obiettivo di utilizzare la tecnologia a interfaccia neurale di Ctrl-Labs per sviluppare un braccialetto «che dia alle persone il controllo dei loro dispositivi come una naturale estensione del movimento».

Inoltre, con l’avvento delle “tecnologie della biologia sintetica” ora i geni possono essere prodotti e modificati ripetutamente.

 La capacità di progettare cose viventi che questa evoluzione tecnico-scientifica fornisce rappresenta un cambiamento fondamentale nel modo in cui gli esseri umani interagiscono con la vita del pianeta, potenzialmente di maggiore impatto rispetto al sorgere dell’agricoltura o dello sfruttamento dei combustibili fossili.

Per i super-ricchi, il futuro della tecnologia riguarda solo una cosa:

 fuggire dal resto dell’umanità e dall’apocalisse che loro stessi stanno producendo.

Cercano di accumulare abbastanza denaro per isolarsi dalla realtà terrestre devastata, elevarsi al di sopra dei comuni mortali ed approntare la propria exit strategy.

 Secondo un acuto storico scenarista come “Yuval Noah Harari”, «due processi insieme – la bio progettazione abbinata alla crescita dell’intelligenza artificiale – potrebbero avere come conseguenza la divisione dell’umanità in una ristretta classe di superuomini e in una sconfinata sottoclasse di inutili Homo Sapiens.

 A peggiorare la già nefasta situazione, con la perdita di importanza economica e potere politico delle masse, lo Stato perderà gran parte dei motivi per investire in salute, educazione e welfare.

È pericoloso essere superflui.

Il futuro delle masse dipenderà allora dalla buona volontà di un’élite. Forse ci sarà buona volontà per alcuni decenni.

 Ma in un momento di crisi – nel caso per esempio di una catastrofe climatica – sarà facile essere tentati di scaricare le persone superflue».

 

Un mondo in cui l’umanità cercherebbe di percorrere la strada del “dottor Frankenstein” e potrebbe finire per essere divisa non più solo in diverse classi sociali, ma addirittura «in diverse caste biologiche o persino in diverse specie», con una casta superiore di entità super-intelligenti che potrebbe decidere di costruire muri o colonie spaziali su altri pianeti (Luna e Marte) per tenere fuori le masse dei «barbari» divenuti ormai irrilevanti perché la loro forza lavoro sarebbe sostituita da quella di fedeli e meno costosi robot e cyborg prodotti in serie e dotati di intelligenza artificiale, in grado di dare vita ad una «robonomics».

Da questo punto di vista, grazie alla combinazione di bioingegneria, interfacce cervello-intelligenza artificiale e ingegneria sociale, sembra ormai a portata di mano la possibile costruzione di quel «mondo nuovo» distopico preconizzato dalle visioni fantascientifiche di grandi scrittori come” Aldous Huxley”, “George Orwell” (memorabile la sua descrizione dello Stato di sorveglianza), “Isaac Asimov”, “Philip K. Dick”, “Anthony Burgess”, “James D. Ballard”, “Cormac McCarthy” e dei narratori cyberpunk degli anni ’80 (William Gibson, Bruce Sterling, Pat Cadigan, Rudy Rucker e altri), oltre che di grandi registi cinematografici come “Stanley Kubrick” con 2001:” Odissea nello Spazio”, “Ridley Scott” con “Blade Runner”, “Steven Spielberg” con “Minority Report”, “James Cameron” con la saga “Terminator”, le sorelle “Lana e Lilly Wachowski” con “The Matrix” e “Peter Weir” con “The Truman Show”.

Per questo molti dei teorici dell’intelligenza artificiale – guidati dal filosofo” Nick Bostrom” – sostengono che lo scenario apparentemente fantascientifico di un’intelligenza artificiale cosciente che sfugge al controllo umano (e in effetti la storia della programmazione informatica è piena di piccoli errori che hanno scatenato catastrofi) e si impadronisce del mondo, rappresenta una minaccia esistenziale per l’umanità così enorme che è ora di prendere provvedimenti – da parte dei parlamenti, dei governi, dell’ONU e degli altri organismi internazionali – per evitare che ciò accada.

Affidarsi alla super-intelligenza artificiale potrebbe essere un’enorme minaccia per la sopravvivenza dell’umanità ed è possibile che ad un certo punto la stessa comunità dell’intelligenza artificiale possa seguire l’esempio del movimento anti-nucleare degli anni ’40 del secolo scorso quando, dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, gli scienziati si unirono per cercare di limitare ulteriori test nucleari.

Negli ultimi tre decenni, una parte rilevante degli ultraricchi americani – con i fratelli “Koch”, “Dick e Betsy DeVos” e” Lynde e Harry Bradley” in prima fila – ha finanziato a piene mani la filantropia di orientamento conservatore.

La loro agenda è stata quella di cambiare il dibattito pubblico in modo che fosse più accomodante nei confronti della loro visione del mondo neoliberista e anarcocapitalista, contraria alla regolamentazione della finanza, al miglioramento del salario minimo, ai controlli sulle industrie inquinanti e alla creazione di un’assistenza sanitaria universale.

Finanziano accademici che negano il cambiamento climatico o propugnano un «nazionalismo climatico» (ponendo l’accento sul pericolo che il cambiamento climatico pone agli interessi nazionali), sostengono “think-tanks” del libero mercato, stringono alleanze con gruppi religiosi conservatori, finanziano stazioni televisive e radio populiste e creano «istituti aziendali» all’interno delle università, che consentono loro, non ai consigli universitari, di selezionare gli accademici.

Allo stesso tempo, c’è anche un altro crescente segmento «illuminato» di ultraricchi americani – guidato da “Bill e Melinda Gates” e da” George Soros” – che promuove l’idea di cambiamento sociale e che aspira a guidarlo.

Vogliono essere adulati, si aspettano di essere elogiati come eroici creatori di posti di lavoro e come esempi di uomini d’affari innovativi e moralmente integri e responsabili che non hanno beneficiato di un «sistema truccato».

La maggior parte dei miliardari, ha affermato “Zuckerberg”, sono semplicemente «persone che fanno cose veramente buone e che aiutano un sacco di altre persone; e per questo sono ben ricompensati».

 

Molti di questi ultraricchi si ritengono altruisti e sostengono finanziariamente movimenti sociali iniziati da altri che cercano di cambiare aspetti specifici della società.

 Più spesso, avviano nuove iniziative autonome gestite non in modo democratico, e che non riflettono realmente la ricerca di soluzioni collettive o universali, ma piuttosto privilegiano l’uso del settore privato e delle sue appendici universitarie, di comunicazione e istituzionali/fondazionali filantropiche, nate principalmente per eludere le tasse e mantenere il controllo delle corporations che accumulano ricchezza.

 Sostengono che la soluzione ai problemi del mondo attuale – prevenire il riscaldamento globale, promuovere la diversità e l’inclusione, eliminare la povertà, prepararsi alle nuove pandemie – debba essere trovata nel mercato privato, nelle tecnologie sviluppate dalle imprese e nell’azione volontaria gestita in modo imprenditoriale, non nella vita politica pubblica, nella democrazia partecipativa, nell’azione di governanti eletti e responsabili nei confronti di cittadini/elettori, nella legge, nell’intervento redistributivo e regolativo statale.

 Il magnate del computer “Michael Dell”, la 39esima persona più ricca al mondo, ad esempio, a Davos 2019 ha affermato che:

 «Mi sento molto più a mio agio con la nostra capacità […] di allocare quei fondi rispetto che a darli al governo».

 

Sono convinti che la tassazione tolga la libertà di scegliere di essere dei benefattori virtuosi e che gli strumenti, le mentalità e i valori che li hanno aiutati ad essere dei vincenti, siano il segreto per rimediare alle ingiustizie sociali.

Per cui, paradossalmente, coloro che con metodi predatori e spesso monopolistici (o semplicemente per avere ereditato giganteschi patrimoni finanziari dai loro padri o nonni) sono tra i maggiori beneficiari dell’attuale sistema economico, ma anche tra i maggiori responsabili delle crescenti disuguaglianze sociali, si mobilitano per difendere le loro rendite di posizione, mentre pretendono di presentarsi come salvatori dell’umanità da un’epoca di disuguaglianze e catastrofe ambientale.

 Dei riformatori che vogliono «cambiare il mondo per renderlo un posto migliore».

Ma, nel migliore dei casi, questi paladini del «filantrocapitalismo» cercano di curare i sintomi, non di affrontare le cause profonde del disagio sociale.

La filantropia è la disposizione dell’animo a iniziative umanitarie che si traduce in attività dirette a realizzarle, mentre il filantropo è senza dubbio una persona generosa che aiuta il prossimo, ma è altresì una persona molto ricca che usa una parte del suo cospicuo patrimonio per iniziative caritatevoli.

Sentimento e carità, non diritti.

Attraverso la filantropia gli ultraricchi migliorano la propria immagine pubblica e condizionano il dibattito pubblico, spostando l’attenzione da soluzioni politicamente più radicali che potrebbero risolvere i problemi per tutti, ma metterebbero in discussione le basi e la legittimità della loro enorme ricchezza.

 Finanziano progetti per nutrire gli affamati, creare posti di lavoro per «soggetti deboli», costruire alloggi di housing sociale e migliorare i servizi, ma tutto questo lavoro a fin di bene può essere spazzato via da tagli alla spesa pubblica, prestiti predatori o bassi livelli di retribuzione.

Essendo le persone che più hanno da perdere da un vero cambiamento sociale, di fatto, per loro la società dovrebbe essere cambiata secondo modalità che non cambiano il sistema economico sottostante che ha permesso loro di essere dei vincitori ma, allo stesso tempo, ha favorito l’acuirsi di molti problemi sociali, economici ed ambientali che essi ora vorrebbero cercare di risolvere con la beneficenza.

Un’operazione «gattopardesca», una sorta di «smokescreen», di cortina fumogena di autodifesa conservatrice in linea con l’affermazione «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» dell’aristocratico “Tancredi Falconeri” nel romanzo di “Giuseppe Tomasi di Lampedusa”.

Così ci sono i finanzieri di Goldman Sachs e BlackRock che cercano di cambiare il mondo attraverso iniziative «win-win» (soluzioni vantaggiose per tutti) come i «green bonds», l’investimento ESG (ossia attento alle politiche aziendali in campo ambientale, sociale e della governance), l’«impact investing» nei «purpose-driven brands» (portafogli basati su attività che curano l’ambiente e portano benefici per la società), il «social venture capital» e il miglioramento della qualità della governance.

 Oppure, aziende tecnologiche come “Uber” e “Airbnb” che si dipingono come strumenti che danno potere ai poveri, consentendo loro di fare gli autisti o di affittare stanze delle loro case ai turisti, ma operano per deregolamentare i settori dei taxi e dell’accoglienza turistica, erodere i diritti dei lavoratori e aumentare il controllo delle corporations su privacy e dati delle persone.

 O finanzieri che cercano di convincere il mondo dell’associazionismo sociale che la ricerca di una maggiore uguaglianza debba essere perseguita accettando posti nei consigli di amministrazione e posizioni di leadership.

Ancora, grandi corporations costruite e gestite in modi discutibili che si dichiarano impegnate nel perseguire la responsabilità sociale d’impresa e lo «stakeholder capitalism», tenendo conto del benessere dei consumatori, dei dipendenti, dei fornitori, della comunità in cui opera l’impresa.

D’altra parte, sappiamo che i consumatori tendono a premiare le imprese che appaiono eticamente responsabili, oppure possono causare danni seri attraverso i boicottaggi, coordinati sui social media, a quelle che violano apertamente i princìpi di equità e correttezza.

 

Ma, qualunque sia il bene che questi ultraricchi e le “global corporations” che essi controllano potrebbero fare, l’instancabile spinta verso l’efficienza, la sistematica distruzione del potere dei sindacati, la massimizzazione del valore per gli azionisti, l’avvelenamento dell’ambiente naturale e l’evasione o elusione delle tasse (non pagano la loro giusta quota anche grazie agli incentivi fiscali per le donazioni filantropiche) minano la qualità e le basi stesse dello Stato democratico, privando necessariamente la maggior parte delle persone della loro dignità, del loro potere sociale e politico, della loro voce, dei loro diritti e della possibilità di incidere sullo stato reale delle cose, migliorando l’istruzione e l’assistenza sanitaria universale e riducendo la povertà e i disagio abitativo.

Il presidente Theodore Roosevelt dava un duro giudizio dei ricchi filantropi come” John D. Rockefeller”, esponente di spicco della generazione dei “robber barons” cinici costruttori dei grandi imperi monopolistici del capitalismo americano convertitosi alla filantropia industriale, sostenendo che «nessuna quantità di beneficenza nello spendere tali fortune può in alcun modo compensare la cattiva condotta nell’acquisirle».

 La risposta di Roosevelt ai “robber barons” era di applicare delle norme antitrust e di tassare la ricchezza.

Un’imposta federale sui redditi venne introdotta nel 1913, la tassa di successione fu emanata nel 1916 e l’imposta sulle plusvalenze nel 1922.

Thomas Paine” (1737–1809), un rivoluzionario, politico intellettuale, filosofo illuminista e studioso britannico, estensore de” I diritti dell’uomo” (1791) e dell’opuscolo di 47 pagine” Common Sense” contro i «ruffiani incoronati» che divenne virale nelle colonie americane quando fu pubblicato nel gennaio 1776, viene considerato uno dei «padri fondatori» degli Stati Uniti d’America e riteneva che la ricchezza estrema dovesse essere tassata perché mina l’uguaglianza essenziale per il funzionamento del governo repubblicano.

 Il giovane storico olandese “Rutger Bregman” ha suscitato scandalo per aver detto al meeting di Davos 2019 che «il re è nudo», che la volontà degli ultraricchi del «club dei globalisti» di impiegare parte delle loro ricchezze nelle fondazioni filantropiche, piuttosto che vederla spesa da uno Stato legittimo, è una forma di anarchismo e una «cazzata»:

 «sento persone che parlano il linguaggio della partecipazione, della giustizia, dell’uguaglianza e della trasparenza, ma nessuno solleva il vero problema dell’elusione fiscale e dei ricchi che semplicemente non pagano la loro giusta quota».

Se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia, perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati o oligarchi che detengono più della metà delle risorse del pianeta.

D’altra parte, negli Stati Uniti, il paese dove le statistiche mostrano che la filantropia è più diffusa e massiccia, appena un quinto del denaro donato dai grandi donatori va ai poveri.

Molto va alle arti, alle squadre sportive e ad altre attività culturali, e la metà va all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Le donazioni più grandi nel settore dell’istruzione nel 2019, però, sono andate alle università e alle scuole d’élite frequentate dagli stessi ricchi.

Gli ultra ricchi filantropi dicono di volere una società più giusta, ma non sono disponibili a discutere su quali debbano essere gli strumenti realmente necessari, come se ad una conferenza dei vigili del fuoco «nessuno avesse il permesso di parlare dell’acqua», ha affermato “Bregman”.

“Apple”, “Google”, “Amazon” e tante altre aziende come loro e anche i loro azionisti pretendono di essere considerati dei soggetti socialmente responsabili, ma il primo elemento della responsabilità sociale dovrebbe essere quello di pagare una giusta quota di tasse.

“Amazon” ha realizzato un profitto di 11,2 miliardi di dollari nel 2018, ma non ha pagato alcuna imposta federale per il secondo anno consecutivo, a causa di vari «crediti d’imposta» non specificati e il tax break per le stock options dei suoi amministratori.

 Lo stesso è successo per “Netflix” (un profitto di 845 milioni e zero tasse federali o statali pagate).

Il numero di aziende che hanno pagato zero imposte societarie è raddoppiato nel 2018 per effetto della riforma fiscale di Trump del 2017 e tra queste c’erano, oltre “Amazon” e “Netflix”, anche altre delle più redditizie corporations (60 delle Fortune 500):

Delta Airlines, Chevron, General Motors, EOG Resources, Duke Energy, Occidental Petroleum, Dominion Energy, Honeywell, Deere & Co, American Electric Power, Hulliburton, IBM, Saleforce.

 Zero tasse per un totale di utili pari a 79 miliardi di dollari nel 2018.

“Amazon” ha anche costretto Seattle, la sua città natale, a fare marcia indietro su un piano volto a tassare le grandi corporations per finanziare un programma di edilizia popolare per i senzatetto e per una popolazione in crescita che non può permettersi gli altissimi affitti causati in parte dalla stessa “Amazon”.

Se tutti evitassero e evadessero le tasse come queste società – che, grazie alle catene del valore e all’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale hanno di fatto reso inapplicabile il sistema del cosiddetto “transfer pricing” basato sul principio che le tasse si pagano dove si svolge un’attività economica la società e lo Stato non potrebbero funzionare, né tanto meno fare quegli investimenti pubblici che hanno portato a Internet, da cui le stesse “Google”, “Apple”, “Facebook”, “Amazon” e “Microsoft” dipendono.

(Alessandro Scassellati)

 

 

Élite e democrazia nel

pensiero politico moderno.

Pandorarivista.it - Lorenzo Mesini – (13-3-2020) – ci dice:

 

Punto di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone: governanti e governati, dominatori e dominati.

 I primi costituiscono una minoranza più o meno ristretta, che tende a concentrare nelle proprie mani una grande quantità di potere e di risorse (sia materiali che simboliche).

I secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.

Obiettivo principale della teoria delle élite, a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, è stato quello di elaborare una giustificazione teorica a questa indiscutibile uniformità che, con forme diverse, attraversa la storia e le società umane.

La distinzione tra governanti e governati non è tuttavia una scoperta della scienza politica tra Otto e Novecento, ma è sempre stata oggetto delle varie tradizioni che attraversano la storia del pensiero politico.

In questo contributo verranno inquadrate alcune delle principali linee di sviluppo del pensiero politico moderno in merito al rapporto che lega élite e democrazia.

Ci si concentrerà, innanzitutto, sulle modalità con cui il rapporto tra i governanti e i governati viene declinato nei diversi filoni del razionalismo politico moderno.

 Si procederà con l’opera di Gaetano Mosca, esponente dell’elitismo classico, per poi affrontare la critica dialettica svolta nei suoi confronti da Antonio Gramsci.

 In conclusione si proporranno alcune riflessioni sulla prospettiva sviluppata dall’elitismo democratico nel Novecento.

Ripercorrendo queste tappe si cercherà di illustrare come il rapporto tra governati e governanti, tra élite e democrazia sia stato declinato con esiti e modalità diverse, a seconda degli orizzonti valoriali e concettuali attraverso cui è stata di volta in volta pensata la politica, le relazioni sociali e la storia.

Il pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica.

Se l’ordine politico antico e cristiano era concepito come un ordine naturale (oggettivo e gerarchico) posto a stabile fondamento della politica, l’età moderna pensa invece l’ordine come prodotto umano e artificiale, fondato sull’attività razionale degli individui, soggetto al conflitto e al mutamento.

L’idea di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

I grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

L’assenza di un ordine naturale tra gli individui costituisce il problema da cui muove il pensiero politico moderno: la naturale uguaglianza tra gli uomini sono infatti forieri di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra omnes dello stato di natura).

 La necessità dell’ordine politico nasce quindi dall’esigenza di difendere l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli uomini, uguaglianza che deve essere tutelata dai suoi stessi effetti collaterali.

Attraverso il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge universalmente valida al suo interno.

 Gli autori del potere (gli individui) tuttavia, non lo esercitano in maniera diretta, ma attraverso istituzioni rappresentative (il sovrano rappresentativo o un’assemblea parlamentare) che sono superiori a coloro che rappresentano.

Gli autori del potere non coincidono quindi in maniera diretta con i suoi attori (le istituzioni rappresentative).

Questo elemento di disuguaglianza all’interno del corpo politico moderno non deriva da alcuna superiorità di carattere ontologico o naturale ma è di carattere prettamente funzionale, volta a garantire l’unità dello Stato.

In linea di principio nessuna distinzione sociale deve giustificare alcuna distinzione politica, dato che la politica è il prodotto della razionalità comune di cittadini uguali.

A esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo interno.

Ovviamente nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche, amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione reciproca.

 Il pensiero politico moderno e la sua idea di democrazia (sia nella sua versione liberale che socialista) traggono la propria forza da:

a) l’idea che nessuna differenza pre-politica (naturale o sociale) possa giustificare in linea di principio la superiorità politica di nessun cittadino, b) la necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati.

Questo, beninteso, nella ferma consapevolezza del ruolo strategico giocato da una particolare élite sociale nello sviluppo dello Stato e del capitalismo (la borghesia).

L’importanza della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello Stato.

Per il pensiero politico moderno risulta infatti illegittima ogni forma di ordine politico in cui i cittadini soggetti al potere non ne siano al contempo gli stessi autori.

Legittimo è quel potere che nasce e si concepisce come autogoverno di cittadini uguali, obbedienti a leggi universali.

A questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto meno a livello teorico.

Ogni forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata dispotica o tirannica.

Nei confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite (Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica.

 Muovendo dalla constatazione che in ogni contesto sociale ad esercitare il potere sono sempre gruppi ristretti, i teorici delle élite mostrano come la storia e il reale funzionamento delle istituzioni e della politica smentiscano di fatto la teoria liberale parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le dottrine socialiste.

Gaetano Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della storia e della politica sono sempre state le élite.

La distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della politica.

 La dinamica storica consiste per Mosca essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per assicurarsi maggior potere.

Nella Teorica dei governi e governo parlamentare (1883) si sottolinea come ogni governo consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si impone su una maggioranza divisa e disorganizzata.

Mosca distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi ambiti della società.

Il fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali classificazioni delle forme di governo.

 Le principali classificazioni tradizionali, quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere sotto le critiche di Mosca.

 Le classiche forme di governo non sono semplicemente il risultato di classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la maschera legale dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di persone esercita effettivamente il potere.

Mosca è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei governati.

 Con la teoria della formula politica Mosca intende individuare quelli che a suo avviso sono i principi astratti che consentono ai governanti di giustificare il proprio potere, in accordo con le convinzioni più diffuse nella società.

 Le ‘formule politiche’ non costituiscono semplici mistificazioni ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la propria obbedienza richiamandosi a norme generali.

 Mosca riconduce la molteplicità di formule politiche a due principi:

uno soprannaturale e uno (apparentemente) razionale.

Democrazia è per Mosca solo una delle formule politiche razionali con cui determinate élite giustificano il proprio potere.

Il principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura oligarchica di ogni governo.

 Al di sopra delle molteplici formule politiche, per Mosca c’è sempre il potere di un’élite.

Anche quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti). Queste, lungi dall’essere promotrici di emancipazione, sono le effettive detentrici del potere.

 

L’indagine moschiana sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del suo intreccio con la democrazia.

Consapevole dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in espansione contro i vecchi ceti dominanti.

 Mediante l’uso di principi universali (libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia ha coinvolto il popolo nella sua ascesa al potere, legittimandosi come rappresentativa di tutta la nazione e non come classe particolare.

Dall’analisi di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo:

la legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere.

Contrariamente a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma gli interessi particolari del ceto politico o, peggio, dei suoi singoli membri.

 

La ricca riflessione condotta da Antonio Gramsci nei” Quaderni del carcere” si confronta con la scienza politica elitista con l’intenzione di superare le sue obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno.

La critica gramsciana all’elitismo si inserisce nell’orizzonte di una scienza politica integralmente storicizzata e incentrata sul concetto di egemonia, come categoria generale della politica e della storia.

 Obiettivo di Gramsci è quello di superare dialetticamente la teoria delle élite, sviluppandola in una prospettiva radicalmente democratica.

È soprattutto sulle opere di “Gaetano Mosca” (e in misura minore quelle di Michels e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci.

 Le sue critiche riguardano sia l’impianto analitico della teoria moschiana sia il suo implicito orientamento politico conservatore.

Gramsci condivide il principio secondo cui in ogni formazione sociale «esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti», come condivide il fatto che «tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)».

Anche per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli elitisti.

La critica gramsciana all’elitismo riguarda il suo impianto positivista, che si limita a registrare meccanicamente determinati fatti e processi per poi elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della storia.

Tale approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e oligarchico dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a mantenere le disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.

 Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca, sia nella Teorica sia negli Elementi di scienza politica (1896, 1923), accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di concetti vaghi.

 Quello che gli elitisti italiani non sono in grado di comprendere sono la natura e le dinamiche delle élite nel momento in cui le masse irrompono sulla scena politica europea, in particolare con l’avvento del primo conflitto mondiale.

 Per questo Gramsci intende indagare la nascita, la selezione e le dinamiche politiche delle élite in una prospettiva essenzialmente storicista e dialettica.

Questa deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto comprendere le modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono coscienza di sé e del proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente degli intellettuali.

 

Nelle ricerche condotte nei “Quaderni” Gramsci non intende limitarsi a constatare la divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana.

 Per questo si domanda «come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti».

Formazione dei dirigenti che deve avvenire muovendo dal presupposto che la distinzione tra governanti e governati non rappresenti un destino immutabile, ma «sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni».

 Il problema che Gramsci si pone è quello di tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il soggetto e lo Stato. Questi permangono contrapposti in modo conflittuale e contraddittorio nelle architetture istituzionali liberal-democratiche.

L’elitismo approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice, affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e governati.

Per Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.

 Nel partito politico Gramsci individua il mezzo «più adeguato a elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di un’educazione delle masse capace di integrarle nel progetto di una piena autodeterminazione del corpo sociale («società regolata»).

 Nel partito come «moderno Principe», l’esercizio delle funzioni politiche da parte delle proprie élite non è semplice dominio sulle masse.

Al contrario costituisce quella combinazione di direzione, produzione di consenso, senso storico e organizzazione che ne determina la capacità egemonica nella società.

 La prospettiva radicalmente democratica di Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese.

 Superamento della contrapposizione netta tra governanti e governati attraverso le funzioni organizzative di un partito che ha l’ambizione di porsi come l’elemento rappresentativo e direttivo dello sviluppo dei conflitti e delle forze sociali.

 

Il pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa il problema del rapporto tra élite e democrazia.

Se per Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per Antonio Gramsci la soluzione del problema indicato dagli elitisti consisteva nel superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.) hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore in una prospettiva liberale.

Obiettivo comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la presenza di una pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema democratico.

 L’immagine di democrazia che ne emerge, specialmente dall’opera di Schumpeter, è quella di uno strumento istituzionale in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi di élite, elette attraverso il voto popolare.

 

La democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite.

Ne emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership: i cittadini dispongono del diritto di scegliere chi si assumerà la responsabilità di prendere le decisioni politiche e solo indirettamente cosa deciderà per la comunità intera.

Se, come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni: la loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento (le elezioni).

In altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci, della mediazione tra élite e società.

 

 

 

 

Ecco come l'élite di Davos

ha ripreso il controllo.

Magachip-globalist.it – Redazione -Thomas Fazi – (20-1-2023) – ci dice:

“Il WEF sta isolando il processo decisionale dalla democrazia”.

“Esercita un potere immenso, che ha cementato il dominio della classe capitalista transnazionale a un livello mai visto prima nella storia”.

E lo dichiara a chiare lettere.

(Thomas Fazi)

Migliaia di persone dell’élite globale del mondo convengono stamane a Davos per il loro più importante incontro annuale: l’incontro del “World Economic Forum” (WEF).

 Accanto ai capi di Stato di tutto il mondo, si riuniranno gli amministratori delegati di “Amazon”, “BlackRock”, “JPMorgan Chase”, “Pfizer e Moderna”, così come la “Presidente della Commissione Europea”, la” Direttrice Operativa del FMI”, il “Segretario Generale della Nato”, i vertici dell’”FBI” e dell’”MI6”, l’editore del “New York Times” e, naturalmente, il famigerato presentatore dell’evento, il fondatore e presidente del WEF, “Klaus Schwab”.

 Fino a 5mila soldati sarebbero schierati per la loro protezione.

 

Data la natura elitaria quasi da cartone animato di questa baldoria, sembra naturale che l’organizzazione sia diventata oggetto di ogni sorta di teoria del complotto riguardo al suo presunto intento malevolo e alle sue agende segrete legate alla nozione di “Great Reset”.

In verità, non c’è nulla di cospiratorio nel WEF, nella misura in cui le cospirazioni implicano segretezza.

Al contrario, il WEF – a differenza, per dire, del “Bilderberg” – si tiene molto aperto sulla sua agenda: puoi persino seguire le sessioni in streaming online.

Fondato nel 1971 dallo stesso Schwab, il WEF è “impegnato a migliorare lo stato del mondo attraverso la cooperazione pubblico-privata”, nota anche come “multistakeholder governance” [“gestione con una pluralità di portatori d’interessi”, NdT].

L’idea è che il processo decisionale globale non dovrebbe essere lasciato ai governi e agli stati-nazione — come nel quadro multilateralista del dopoguerra sancito dalle Nazioni Unite — ma dovrebbe coinvolgere un’intera gamma di parti interessate non governative:

organismi della società civile, accademici esperti, personaggi dei media e, soprattutto, multinazionali.

Nelle sue stesse parole, il progetto del WEF è «ridefinire il sistema internazionale come costitutivo di un sistema più ampio e sfaccettato di cooperazione globale in cui i quadri giuridici e le istituzioni intergovernative sono inseriti come una componente centrale, ma non l’unica e talvolta non la più cruciale».

 

Anche se tutto questo può suonare ancora piuttosto benigno, incapsula perfettamente la filosofia di base del globalismo:

 isolare la politica dalla democrazia trasferendo il processo decisionale dal livello nazionale e internazionale, dove i cittadini sono teoricamente in grado di esercitare un certo grado di influenza sulla politica, al livello sovranazionale, affidando a un gruppo auto selezionato di “stakeholder” non eletti e irresponsabili – principalmente aziende – il compito di decisioni globali riguardanti tutto, dalla produzione di energia e cibo ai media e alla salute pubblica.

La filosofia antidemocratica sottostante è la stessa che sostiene l’approccio filantrocapitalista di persone come “Bill Gates”, lui stesso partner di lunga data del WEF:

 ossia che le organizzazioni sociali e imprenditoriali non governative sono più adatte a risolvere i problemi del mondo rispetto ai governi e alle istituzioni multilaterali.

Anche se il WEF ha sempre più focalizzato la sua agenda su argomenti alla moda come la protezione dell’ambiente e l’imprenditoria sociale, non ci sono dubbi su quali interessi l’idea di Schwab stia effettivamente promuovendo e potenziando:

 il WEF stesso è finanziato principalmente da circa 1.000 aziende associate, tipicamente imprese globali con fatturati multimiliardari, che includono alcune delle più grandi multinazionali del petrolio (Saudi Aramco, Shell, Chevron, BP), del cibo (Unilever, The Coca-Cola Company, Nestlé), della tecnologia (Facebook, Google, Amazon, Microsoft, Apple) e farmaceutica (AstraZeneca, Pfizer, Moderna).

Anche la composizione del consiglio di amministrazione del WEF è molto rivelatrice, poiché annovera Laurence D. Fink, CEO di Blackrock, David M. Rubenstein, co-presidente del Carlyle Group, e Mark Schneider, CEO di Nestlé.

Non c’è bisogno di ricorrere a teorie del complotto per affermare che è molto più probabile che l’agenda del WEF venga adattata agli interessi dei suoi finanziatori e membri del consiglio – le élite mondiali ultra-ricche e corporative – piuttosto che allo scopo di “migliorare lo stato del mondo”, come rivendica l’organizzazione.

Forse l’esempio più simbolico della spinta globalista del WEF è il controverso accordo di partenariato strategico che l’organizzazione ha firmato con le Nazioni Unite nel 2019, che molti ritengono aver attirato le Nazioni Unite nella logica della cooperazione pubblico-privata del WEF.

Secondo una lettera aperta firmata da più di 400 organizzazioni della società civile e 40 reti internazionali, l’accordo rappresenta una «inquietante presa corporativa sulle Nazioni Unite, che ha sospinto il mondo pericolosamente verso una governance globale privatizzata».

 Le disposizioni del partenariato strategico, notano, «prevedono effettivamente che i leader aziendali diventino ‘suggeritori’ per i capi dei dipartimenti del sistema delle Nazioni Unite, utilizzando il loro accesso privato per sostenere ‘soluzioni’ a scopo di lucro basate sul mercato ai problemi globali, minando al contempo per contro le soluzioni reali radicate nell’interesse pubblico e le procedure democratiche trasparenti».

Questa conquista aziendale dell’agenda globale, aiutata e incoraggiata dal WEF, è diventata particolarmente evidente durante la pandemia di Covid-19.

La politica sanitaria globale e la “preparazione all’epidemia” sono state a lungo al centro del WEF.

 Nel 2017 è stata lanciata a Davos la “Coalition for Epidemic Preparedness Innovations” (CEPI, trad.: “coalizione per le innovazioni in materia di prontezza alle epidemie), un’iniziativa volta a garantire la fornitura di vaccini per le emergenze globali e le pandemie, finanziata dal governo e da donatori privati, tra cui Gates.

Quindi, nell’ottobre 2019, appena due mesi prima dell’inizio ufficiale dell’epidemia a Wuhan, il WEF ha co-sponsorizzato un’esercitazione denominata Evento 201, che ha simulato «un focolaio di un nuovo coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali fino alle persone che alla fine diventa efficacemente trasmissibile da persona a persona, portando a una grave pandemia».

 In caso di pandemia, hanno osservato gli organizzatori, i governi nazionali, le organizzazioni internazionali e il settore privato dovrebbero fornire ampie risorse per la produzione e la distribuzione di grandi quantità di vaccini attraverso «forme robuste di cooperazione pubblico-privato».

Quindi, è lecito affermare che quando è scoppiata la pandemia di Covid, il WEF era ben posizionato per assumere un ruolo centrale nella risposta alla pandemia.

 È stato al raduno del 2020 a Davos, dal 21 al 24 gennaio – poche settimane dopo che il nuovo coronavirus era stato identificato in Cina – che la CEPI ha incontrato l’amministratore delegato di Moderna, Stéphane Bancel, per stabilire piani per un vaccino Covid-19, in collaborazione con il “National Institutes of Health” (NIH) negli Stati Uniti.

 Nel corso dell’anno, la CEPI è stata determinante nella creazione del programma Covax (Covid-19 Vaccines Global Access), in collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), e nel fornire finanziamenti per diversi vaccini Covid.

Queste coalizioni pubblico-private e incentrate sulle aziende – tutte legate al WEF e fuori dalla portata della responsabilità democratica – hanno svolto un ruolo cruciale nella promozione di una risposta alla pandemia incentrata sul vaccino e orientata al profitto, e quindi nella supervisione dell’adozione diffusa del vaccino.

 In altre parole, la pandemia ha messo in netto rilievo le conseguenze della decennale spinta globalista del WEF.

Ancora una volta, sarebbe sbagliato considerare questo come un complotto, dal momento che il WEF è sempre stato molto sincero sui suoi obiettivi:

questo è semplicemente l’inevitabile risultato di un approccio “multistakeholderista” in cui gli interessi privati e “filantropici” trovano maggiore ascolto negli affari globali rispetto alla maggior parte dei governi.

Ciò che risulta preoccupante, tuttavia, è che il WEF stia ora promuovendo lo stesso approccio dall’alto verso il basso guidato dalle aziende in una vasta gamma di altri settori, dall’energia al cibo alle politiche di sorveglianza globale, con conseguenze altrettanto drammatiche.

C’è una ragione per cui i governi sembrano spesso così disposti ad accettare queste politiche, anche di fronte a una diffusa opposizione sociale:

ovvero che la strategia del WEF, nel corso degli anni, non è stata solo quella di spostare il potere dai governi, ma anche di infiltrarsi in questi ultimi.

Il WEF ha ampiamente raggiunto questo obiettivo attraverso un programma noto come iniziativa “Young Global Leaders” (YGL), volto a formare i futuri leader globali.

 Lanciata nel 1992 (quando si chiamava “Global Leaders for Tomorrow”), l’iniziativa ha disseminato molti capi di stato, ministri e dirigenti d’azienda allineati al globalismo.

 Tony Blair, ad esempio, partecipò al primo evento, mentre Gordon Brown vi partecipò nel 1993.

In effetti, la sua partecipazione iniziale era piena di altri futuri leader, tra cui “Angela Merkel”, “Victor Orbán”, “Nicholas Sarkozy”,” Guy Verhofstadt” e “José Maria Aznar” .

 

Nel 2017, Schwab ha ammesso di aver utilizzato i giovani leader globali per “penetrare nei gabinetti” di diversi governi, aggiungendo che nel 2017 “più della metà” del gabinetto del primo ministro canadese Justin Trudeau era stato membro del programma.

Più di recente, a seguito della proposta del primo ministro olandese “Mark Rutte” di ridurre drasticamente le emissioni di azoto in linea con le politiche “verdi” ispirate dal WEF, che ha scatenato grandi proteste nel paese, i critici hanno attirato l’attenzione sul fatto che, oltre allo stesso Rutte che aveva stretti legami con il WEF, il suo ministro degli affari sociali e dell’occupazione è stato eletto ‘Young Global Leader’ del WEF nel 2008, mentre il suo vice primo ministro e ministro delle finanze “Sigrid Kaag” contribuisce all’agenda del WEF.

 Nel dicembre 2021, il governo olandese ha pubblicato la sua passata corrispondenza con i rappresentanti del “World Economic Forum”, mostrando un’ampia interazione tra il WEF e il governo olandese.

 

Altrove, l’ex primo ministro dello “Sri Lanka” “Ranil Wickremesinghe” – che l’anno scorso è stato costretto a dimettersi a seguito di una rivolta popolare contro la sua decisione di vietare fertilizzanti e pesticidi a favore di alternative organiche e “amiche del clima” – è stato anche un membro devoto e collaboratore dell’Agenda del WEF.

Nel 2018 ha pubblicato un articolo sul sito web dell’organizzazione dal titolo:

 “Ecco come renderò ricco il mio paese entro il 2025”. (In seguito alle proteste, il WEF ha rapidamente rimosso l’articolo dal suo sito web.)

 Ancora una volta, sembra chiaro che il ruolo del WEF nella formazione e nella selezione dei membri delle élite politiche mondiali non attua una cospirazione, ma semmai una politica sbandieratamente di pubblico dominio che Schwab è proprio ben lieto di ostentare.

In definitiva, non si può negare che il WEF eserciti un potere immenso, che ha cementato il dominio della classe capitalista transnazionale a un livello mai visto prima nella storia.

Ma è importante riconoscere che il suo potere è semplicemente una manifestazione del potere della “superclasse” che rappresenta:

ossia un piccolo gruppo che ammonta, secondo i ricercatori, a non più di 6mila o 7mila persone, ovvero lo 0,0001% della popolazione mondiale, eppure più potente di qualsiasi classe sociale che il mondo abbia mai conosciuto.

“Samuel Huntington”, che ha il merito di aver inventato il termine “uomo di Davos”, ha sostenuto che i membri di questa élite globale «hanno poco bisogno di lealtà nazionale, vedono i confini nazionali come ostacoli che fortunatamente stanno svanendo e “vedono i governi nazionali come residui del passato” i cui l’unica funzione utile è facilitare le operazioni globali dell’élite».

Era solo questione di tempo prima che “questi aspiranti cosmocrati” sviluppassero uno strumento attraverso il quale esercitare pienamente il loro dominio sulle classi inferiori.

 E il “WEF” si è dimostrato il veicolo perfetto per farlo.

(Thomas Fazi)

(unherd.com/2023/01/how-the-davos-elite-took-back-control/

L’autore Thomas Fazi ha recentemente pubblicato “The Covid Consensus”, assieme a “Toby Green”.

 

 

 

COSPIRAZIONE DEI “DEMOCRATICI”

CONTRO LA DEMOCRAZIA.

Geopolitika.ru – (22.02.2021) – Redazione - Valeriy Korovin – ci dice:

 

Pochi giorni fa il Senato degli Stati Uniti ha respinto il processo d’impeachment a Trump.

 Perché dovremmo essere interessati a questo?

 Perché se qualche evento accade negli Stati Uniti, grazie alla globalizzazione americana non ancora arrendevole, ovviamente ne siamo coinvolti.

 

Qualunque cosa avviene negli USA, gli effetti si diffondono in tutto mondo, influenzando i mercati finanziari, le politiche militari e i processi politici internazionali.

La palude di Washington, come l’ha definita Donald Trump, ha vinto e ora dirige l’America, è ora il momento di regolare i conti non solo con i suoi avversari politici, ma anche con la maggioranza americana che ha sostenuto Trump.

 Non ci sono più due partiti, c’ è solo il partito dei “globalisti neo-liberali”, erroneamente chiamato “Partito Democratico”, impegnato nel governo degli USA, riprendendo nuovamente il progetto globalista temporaneamente sospeso da Trump.

Il destino di tanti Stati europei, dipende da quanto accade negli Stati Uniti, alcuni di essi non soddisfatti dell’alleanza con gli attuali rappresentanti del partito democratico.

L’ascesa del movimento maggioritario americano conservatore.

 L’influenza dei media americani e le strategie di comunicazioni sono stati due alimenti per la vittoria di Biden su Trump, in poche settimane la pressione dei media ha violentato ogni diritto fondamentale costruito nel corso di due secoli, spingendo sempre più in una palude ogni principio democratico.

I globalisti sono riusciti ad imporre il loro modo di pensare, ed avviare la vendetta nei confronti di Trump, indebolito dal mancato sostegno di alcuni dei suoi più fidati collaboratori ideologici come, “Steve Bannon”, “Alex John” e altri.

Questo è stato un errore politico commesso da Trump, sono i significati e le idee che governeranno il mondo a venire.

E chi sa come operare con questi significati, manterrà il potere nelle sue mani.

La quintessenza della campagna elettorale che ha avuto luogo è che la stragrande maggioranza dei cittadini americani con diritto di voto – quasi settantacinque milioni di persone – è stata ignorata.

Se osserviamo i candidati alla presidenza in corsa per il secondo mandato, il sostegno di Trump, alle ultime elezioni, è stato un record assoluto nell’intera storia elettorale degli Stati Uniti d’America.

Tuttavia, questo non ha minimamente confuso i “democratici” che hanno gettato questa maggioranza assoluta alla periferia del mainstream politico.

È bastato bollarli come marginali, radicali ed estremisti, come i votanti deceduti resuscitati da Biden “anime morte”.

Questa, a quanto pare, è la decantata “Democracy for Democrats” americana. Chi non è un democratico, va via!

 

In effetti, il potere negli Stati Uniti è stato preso dalle minoranze contro la volontà della maggioranza.

 Biden è stato votato dagli strati sociali più marginali dalle comunità “colorate” delle periferie della città, sulle reti BLM, sui radicali antifascisti, che insieme hanno saccheggiato l’America per diversi mesi prima delle elezioni, riducendola in mille pezzi.

E ora queste minoranze hanno il potere, mettono etichette agli avversari e valutano positivamente il “proprio”.

Di conseguenza, chi ha distrutto l’America sono combattenti per la democrazia, per tutto ciò che è buono e brillante, invece i sostenitori di Trump che, essendo cittadini rispettosi della legge degli Stati Uniti, chiedevano ordine e legalità, cercando di impedire ogni forma di estremismo e terrorismo.

Che cosa hanno fatto?

Sono andati al Campidoglio e hanno dimostrato il loro disaccordo con l’illegalità in corso.

 Questo, dal punto di vista dei Democratici, è terrorismo?

I sostenitori di Trump, infatti, si sono dimostrati un movimento politico che comprende la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti d’America: capaci, eleggibili al voto, titolari di tutti i diritti previsti dalla Costituzione, e sostenendo il loro leader in una situazione di completa illegalità.

E questo è un punto di partenza importante per la formazione e il funzionamento di questo movimento di americani conservatori impegnati a salvare il loro paese.

Democratici contro la democrazia.

Ora possiamo affermare con sicurezza che nelle ultime elezioni, tutti i fondamenti della cosiddetta” Democrazia americana” dai Padri Fondatori a Donald Trump, tutto ciò su cui l’America si trovava, e ciò cui si riferivano come un assoluto, come una sorta d’immagine ideale della democrazia, stabilendo che dovrebbe essere così ovunque – tutto questo è stato calpestato, spazzato via, trasformato in polvere dalle passate elezioni.

E tutto per impedire a Trump un secondo mandato.

Ad ogni costo. Questo prezzo si è rivelato così alto che la democrazia stessa ha dovuto pagare.

Ora negli Stati Uniti non c’è democrazia né democratici, e c’è solo “democrazia” – il governo della minoranza, e “democratici” – chi ha ucciso la democrazia per il bene di un obiettivo politico momentaneo.

Perché tale illegalità non è stata vista da nessun paese al mondo.

Anche la Turkmenistan, un frammento dell’ex URSS proveniente dall’Asia centrale, è probabilmente un paese più democratico degli attuali Stati Uniti, che ha trascinato Joe Biden con le voci delle” anime morte”, gli sforzi di zombi, post-umani, cloni, mutati e cyborg.

 È il loro presidente che è salito su trono degli Stati Uniti.

 Presidente del post-america.

Oggi è evidente a tutto il mondo: le elezioni che si sono svolte negli Stati Uniti hanno superato ogni limite di decenza.

Lasciano troppi dubbi, le elezioni americane da sempre si presentavano al mondo come un modello di democrazia.

E la minima deviazione da questo schema è diventata la ragione dell’invasione e della distruzione americana di molti stati.

Bastava dire: “Non avete elezioni sufficientemente democratiche” e i bombardieri della NATO volavano a bombardare città pacifiche.

La NATO bombarderà Washington per mancanza di democrazia?

E’ una banale retorica.

Eppure, con tutta l’evidenza dell’illegalità e il palese eccesso di falsificazioni, nonostante Trump abbia raccolto voti più di tutti quelli che in precedenza hanno partecipato per la seconda volta alle elezioni presidenziali, in tribunale né lui né i suoi sostenitori non ha potuto provare nulla in merito a brogli.

I pubblici ministeri hanno taciuto, la Corte Suprema non era dalla parte di Trump.

I Trumpisti non hanno potuto presentare alcuna prova seria per cambiare il risultato finale.

 Qual è il problema?

Perché la maggioranza conservatrice americana non è stata in grado di difendere le proprie scelte e perché la voce di decine di milioni americani vivi (non morti) non è mai stata ascoltata, né dai pubblici ministeri né dai tribunali?

 Il controllo totale dei risultati è evidente a tutti, ma nessuno ha potuto provare che le elezioni sono state truccate e i risultati falsificati.

Le nonne del diciannovesimo secolo che morirono nel ventesimo e votarono per Biden si rivelarono testimoni più convincenti per la corte americana dei conservatori viventi.

Cospirazione delle élite contro le masse.

Il fatto è che nella storia dell’elezione americana Biden contro Trump, è una tipica, cospirazione americana delle élite che si è sviluppata negli Stati Uniti d’America nel corso della sua storia.

Agli americani spesso piace ridicolizzare tutto ciò che appartiene alla categoria delle teorie del complotto, qualsiasi cospirazione, accusando i teorici di essere frivoli.

 E questo accade ogni volta che loro stessi iniziano a condannare per questo.

Qui traducono immediatamente tutto in uno scherzo, in fumetti, dicendo: “Beh, niente di che, questo non è serio”.

Questo è ciò che sta accadendo nella realtà, ha conseguenze reali che sono evidenti a tutti, ma, allo stesso tempo, non ci sono prove concrete.

Questo è il motivo per cui è un complotto, che non può essere provato con documenti o altre prove, in base al quale si potrebbe provare la sua esistenza.

Se la cospirazione è provata, non è più una cospirazione, ma un crimine.

Oppure una buona azione: ecco come valutare.

Se non ci sono prove dirette, questo va nello stato di una cospirazione. La cospirazione, quindi, non è una scienza delle invenzioni ma un fatto dell’esistente, ma non provato.

E se qualcosa è classificato come una cospirazione, questo non significa che non lo fosse.

È solo che tutti tacciono.

L’assassinio di Kennedy, l’11 settembre – questi sono solo gli episodi più sorprendenti di una serie infinita di cospirazioni americane, di cui, tuttavia, di solito non si parla ad alta voce.

Dopotutto, è molto serio lì.

 Numerosi episodi nella storia di questo Stato, che sono rimasti coperti da un velo di segretezza, indicano che l’America è un paese di cospirazioni.

 E nelle ultime elezioni abbiamo visto tutti come ha preso forma la cospirazione delle élite globaliste statunitensi contro la maggioranza americana.

 Le minoranze americane, che oggi governano lo Stato americano, ignorando la volontà della maggioranza, hanno fatto di tutto per impedire a Trump di restare al potere, per impedirgli di assumere la presidenza una seconda volta.

Questo era il consenso delle élite.

E quando è presente un tale consenso, allora c’è una cospirazione, il che significa che tutto è fatto per eliminare le prove.

Cospirazione e silenzio.

La cospirazione del silenzio di omertà, portata nell’attuale élite americana dalla mafia italiana, è qualcosa che dovrebbe essere così familiare ai lettori in Italia.

 Ma questo è ciò che consente alle élite americane di andare non solo contro la maggioranza americana, ignorando la loro volontà, ma anche contro la legge.

 Ciò significa che non importa quanto siano importanti le tue prove di frode elettorale, i pubblici ministeri lasceranno i casi ammuffire, i tribunali li ignoreranno e il Congresso confermerà Biden eletto illegalmente come presidente, avviando l’impeachment contro Trump.

 Quello che era vestito con gli abiti della democrazia ha perso ogni legittimità e diritto morale anche a balbettare sulla democrazia.

Devi solo tenerlo a mente ogni volta quando vuoi fare qualcosa con la “democrazia” americana a cui abbiamo creduto da tanto tempo come la forma di democrazia migliore.

(Valery Korovin)

 

 

 

LA FOLLIA FINALE DEL

MONDO OCCIDENTALE.

Geopoilitika.ru- Paul Craig Roberts – (17.05.2023) - ci dice:

                                                            

La vittoria del complesso militare/sicurezza sul presidente Trump ha condannato gli Stati Uniti e il loro impero europeo, canadese, australiano e giapponese a un declino irreversibile.

L'intenzione di Trump di “normalizzare le relazioni con la Russia” è stata percepita dal potente complesso militare e di sicurezza, su cui avevano messo in guardia sia il presidente Eisenhower che il presidente John F. Kennedy, come una minaccia al proprio bilancio, al proprio potere, al proprio primato.

Così è stata avviata dalla CIA e dall'FBI la lunga e continua era delle false accuse contro un Presidente americano, sia in carica che fuori, da parte dei servizi di sicurezza degli Stati Uniti.

La conseguenza è che il mondo si sta allontanando dalla nostra influenza, abbandonando il sistema finanziario dominato dal dollaro e aderendo ad uno stato di diritto invece che alle regole egoistiche di Washington.

Le conseguenze per il mondo occidentale saranno il declino della moneta, l'inflazione e l'abbassamento del tenore di vita, la scarsità di energia e la decadenza sociale dovuta a masse non assimilate di immigrati-invasori che il mondo occidentale non ha la convinzione di poter respingere.

Anche una guerra rovinosa potrebbe essere una conseguenza, con risultati disastrosi per l'Occidente, i cui sistemi di armamento sono inferiori a quelli russi e i cui eserciti sono demoralizzati dalle “promozioni della diversità” e dall'indottrinamento anti-bianco.

Il Presidente russo Putin ha definito “folle” l'ambizione neocon di egemonia americana. 

Putin ha preso le misure dell'Occidente:

“Qualsiasi ideologia di superiorità è per sua natura disgustosa, criminale e mortale.

 Le élite globaliste continuano a insistere sul loro eccezionalismo; mettono le persone l'una contro l'altra, dividono le società, provocano conflitti sanguinosi e colpi di stato, seminano odio, russofobia e nazionalismo aggressivo, distruggono i valori familiari tradizionali che rendono umani gli esseri umani”.

Putin descrive l'“ordine basato sulle regole” di Washington come “un sistema di rapina, violenza e soppressione sulla scena internazionale”.

Contrariamente agli interessi di americani, russi, cinesi e del resto del mondo, il complesso militare e di sicurezza statunitense e i suoi scagnozzi neoconservatori hanno istituzionalizzato l'Occidente come nemico del resto del mondo.

Le conseguenze per l'America e il suo impero saranno disastrose.

(Paul Craig Roberts)

 

 

 

LA FOLLIA PROGRESSIVA

DELLA BANDA UKRONAZI.

 

Geopolitika.ru – (09.05.2023) - Bobana M. Andjelkovic – ci dice:

Il territorio in rovina che si presenta ancora come un Paese sovrano mentre è solo un tentacolo della plutocrazia capitalista selvaggia occidentale e del porcile neonazista ha ancora un’ambasciata in Serbia e non solo.

L’ambasciata della “banda ucro-nazista” in Serbia ha inviato venerdì scorso un’e-mail ai media serbi, in cui si spiega come devono riferire dell’”operazione militare speciale” delle forze armate russe sul territorio dell’ex Ucraina, come riferire delle armi occidentali per i banditi armati ucro-nazisti, degli istruttori della NATO e come presentare la propaganda occidentale a favore della banda “ucro-nazista”.

L’ambasciata prescrive anche le parole e le frasi esatte che i media serbi, secondo loro, DEVONO usare quando parlano dell’ex Ucraina, delle sue bande armate neonaziste, dei suoi tossicodipendenti in luoghi importanti…

 

Questo gesto dimostra quanto sia delirante e folle la banda degli ucraini.

Ma dimostra anche tutto quello che l’Occidente collettivo è pronto a fare per controllare la propaganda che lentamente gli sfugge di mano perché la realtà è evidente e non può essere nascosta.

La dissonanza cognitiva è stata espressa per molti anni sia dai funzionari occidentali che dalla banda di ucraini a Kiev.

Jens Stoltenberg, Segretario Generale della NATO, ha recentemente affermato che la via più veloce per la pace è armare i banditi ucraini. Josep Borell, capo della politica estera dell’UE, ha dichiarato che è estremamente urgente che l’UE si accordi sull’acquisto di più munizioni per i banditi ucraini, al fine di combattere meglio e salvare le loro vite.

Ursula von der Leyen, capo della Commissione europea, ritiene che l’ex Ucraina sia un candidato perfetto per diventare membro dell’UE.

Annalena Baerbock, Ministro della Difesa della Germania, ha dichiarato che non le interessa cosa pensano i tedeschi della politica ufficiale della Germania nei confronti dell’Ucraina.

 Emmanuel Macron, presidente francese, chiede la pace in Ucraina, condanna la violenza e gli scontri armati mentre la Francia sta diventando un disastro totale.

Mark Rutte, premier olandese, si preoccupa delle esportazioni di colture dall’Ucraina, ma non si preoccupa molto degli agricoltori olandesi e dei loro problemi causati dalla sua politica idiota.

Per non parlare delle persone deliranti del Regno Unito e degli Stati Uniti:

 dai Primi Ministri britannici che sono tutti imbecilli quando si tratta delle loro dichiarazioni e dei loro atteggiamenti nei confronti della Russia, alle sciocche “analisi militari” del Ministro della Difesa britannico e ai dettagli sul sottomarino britannico nella toilette del pub o a Joe Biden, distaccato dalla realtà, e al Segretario alla Difesa USA Loyd Austin che ancora combatte contro l’Unione Sovietica o a Hillary Clinton che dice che gli scontri nell’ex Ucraina dimostrano che il cambiamento climatico colpisce soprattutto le donne.

 C’è una lista infinita di dichiarazioni idiote e deliranti dei funzionari occidentali che sostengono l’ex Ucraina e i suoi banditi narco-nazi-satanici di Kiev.

L’attore mediocre Zelensky, a cui è stato affidato il ruolo di presidente di un Paese quasi inesistente, ha ammesso più volte ufficialmente e pubblicamente che la banda ucraina dipende interamente dall’aiuto occidentale.

 Non solo di forniture di armi o di denaro.

Numerose troupe televisive, case di produzione, agenzie pubblicitarie, specialisti informatici dei Paesi occidentali sono impegnati nel processo di diffusione della propaganda ucraina.

Anche l’elenco di “linguaggio e frasi politicamente corrette” inviato ai media serbi dal Ministero degli Esteri ucraino tramite l’ambasciata è prodotto sotto il patrocinio di operatori di propaganda occidentali.

È anche molto interessante il tempismo con cui viene inviata una tale follia ai media – il venerdì.

C’è un fine settimana e dopo il fine settimana due giorni non lavorativi in occasione del 1° maggio e i funzionari saranno nei loro uffici il 3 maggio.

Ma il 2 maggio c’è un incontro di funzionari serbi con il terrorista albanese a Bruxelles.

I funzionari serbi non hanno appreso in tempo che non ci sono negoziati con i terroristi.

Dopo la sessione irregolare al Consiglio d’Europa, sull’accoglienza di un’entità terroristica illegale nel territorio del Kosovo e Metochia occupato, tenutasi qualche giorno fa, quando il rappresentante ucraino si è astenuto dal voto, il Ministero degli Affari Esteri serbo ha annunciato di aver riconsiderato le relazioni con tutti coloro che si sono astenuti dal voto e ha fatto notare che considera l’astensione dal voto un sostegno silenzioso ai terroristi albanesi.

L’e-mail inviata ai media serbi per correggere i loro resoconti sulla situazione nell’ex Ucraina è arrivata dopo l’annuncio delle autorità serbe di riconsiderare la politica estera serba in accordo con l’atteggiamento verso la sovranità e l’integrità territoriale della Serbia.

Va inoltre notato che il rappresentante serbo al “concorso musicale Eurovision” è apparso venerdì scorso in pubblico con bandiere britanniche e ucroniche prima di partire per il Regno Unito per la competizione.

 Poiché l’emittente pubblica serba RTS è responsabile di questo bizzarro concorso e RTS è l’avamposto della BBC, non c’è da stupirsi.

Sceglie sempre qualche personaggio bizzarro per presentare il Paese in Eurovisione.

Questa è l’ennesima prova che il voto non ha nulla a che fare con il risultato finale.

Le autorità serbe saranno ora pressate dall’opinione pubblica per reagire al comportamento dell’ambasciata ucraina in stile Goebbels.

Quasi il 90% dei serbi è contrario a qualsiasi sanzione alla Russia e un numero simile di serbi è contrario all’adesione alla NATO; anche il numero di persone contrarie alla prospettiva serba nell’UE è aumentato rispetto agli anni precedenti.

 Per non parlare di qualsiasi tipo di cessione del Kosovo e della Metochia alla Serbia.

La banda degli ucraini aumenta gradualmente la sua ostilità verso la Serbia.

Anche i tirapiedi occidentali nei Balcani cercano deliberatamente di creare la stessa propaganda e la stessa narrazione degli anni ’90, con l’aggiunta che ora non solo la Serbia, ma anche la Russia rappresenta una minaccia al loro stile di vita paradisiaco portato loro dalla NATO, dall’UE, dagli USA e dal Regno Unito.

 L’ambasciata della banda ucraina si limita a seguire la linea prescritta dai padroni occidentali.

È possibile aspettarsi ulteriori pressioni sulla Serbia da parte della banda Ukro-nazi.

Non solo sulla Serbia, ma anche sulla Repubblica Srpska e sull’intero popolo serbo nei Balcani.

Gli ex generali della NATO e dell’esercito statunitense, Scaparrotti e Ben Hodges, hanno sottolineato da tempo che i loro principali problemi nei Balcani sono il popolo serbo e la Chiesa ortodossa serba.

 L’ambasciata ucraina, accanto alle ambasciate dei Paesi occidentali in Serbia, diventa un altro punto da cui vengono inviati i dardi avvelenati verso la Serbia.

(Bobana M. Andjelkovic)

 

GRIDA E SUSSURRI LUNGO

LE TORRI DI GUARDIA RUSSE.

Geopolitika.ru – (16.05.2023) - Pepe Escobar – ci dice:

 

Ricorda Putin: “Non abbiamo ancora iniziato nulla.”

I sussurri di una “potenza malvagia” si sentivano nelle file ai negozi di latticini, nei tram, nei negozi, negli appartamenti, nelle cucine, nei treni suburbani e a lunga percorrenza, nelle stazioni grandi e piccole, nelle dacie e sulle spiagge.

Inutile dire che le persone veramente mature e colte non raccontavano queste storie sulla visita di una potenza malvagia nella capitale.

Anzi, le prendevano in giro e cercavano di far ragionare chi le raccontava”.

Mikhail Bulgakov, Il Maestro e Margherita.

Per citare “Dylan”, che potrebbe essere un epigono di Bulgakov: “Quindi smettiamo di parlare falsamente ora/ l’ora si sta facendo tarda”.

Ormai è chiaro che l’illusione di un accordo di “pace” in Ucraina è l’ultimo sogno erotico dei soliti sospetti “capaci di non accordarsi”, sempre attaccati alle menzogne e al saccheggio mentre manipolano abilmente alcuni liberali selezionati tra l’élite russa.

 

L’obiettivo sarebbe quello di placare Mosca con alcune concessioni, mantenendo Odessa, Nikolaev e Dnipro e salvaguardando quello che sarebbe l’accesso della NATO al Mar Nero.

Tutto questo mentre si investe nella rabbiosa e risentita Polonia per farla diventare una milizia militare dell’UE armata fino ai denti.

Quindi, qualsiasi “negoziato” verso la “pace” maschera in realtà una spinta a rimandare – solo per un po’ – il piano originale: smembrare e distruggere la Russia.

A Mosca si discute molto seriamente, anche ai livelli più alti, su come sia realmente posizionata l’élite.

 Si possono identificare grosso modo tre gruppi:

 il partito della Vittoria; il partito della “Pace” – che la Vittoria descriverebbe come arrendevole; e i Neutrali/indecisi.

Il partito della Vittoria comprende certamente attori cruciali come Dmitry Medvedev, Igor Sechin di Rosneft, il ministro degli Esteri Lavrov, Nikolai Patrushev, il capo del Comitato Investigativo della Russia, Aleksandr Bastrykin, e – anche se sotto tiro – certamente il ministro della Difesa Shoigu.

Tra i “pacifici” figurano, tra gli altri, il capo di Telegram, Pavel Durov; l’imprenditore miliardario Andrey Melnichenko; lo zar del metallo e dell’estrazione Alisher Usmanov (nato in Uzbekistan); il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.

Tra i neutrali/indecisi figurano il primo ministro “Mikhail Mishustin”, il sindaco di Mosca “Sergei Sobyanin”, il capo di gabinetto dell’ufficio presidenziale “Anton Vaino”, il primo vice capo di gabinetto dell’amministrazione presidenziale e zar dei media “Alexey Gromov”, l’amministratore delegato di “Sberbank Herman Gref”, l’amministratore delegato di “Gazprom Alexey Mille”r e – pomo della discordia – forse il capo dell’FSB Alexander Bortnikov.

È lecito affermare che il terzo gruppo rappresenta la maggioranza dell’élite.

 Ciò significa che essi influenzano pesantemente l’intero corso dell’”Operazione militare speciale” (OMS), che ormai si è trasformata in un’”Operazione antiterrorismo “(ATO).

La “controffensiva” nella nebbia della guerra.

Questi diversi punti di vista russi ai vertici della Nato suscitano, com’è prevedibile, frenetiche speculazioni tra i “Think Tankland” statunitensi e della “NATO”.

 Ostaggio della loro stessa eccitazione, dimenticano persino ciò che chiunque abbia un quoziente intellettivo superiore alla temperatura ambiente sa:

Kiev – imbottita di 30 miliardi di dollari in armamenti NATO – potrebbe ottenere meno di zero effetti dalla sua tanto decantata “controffensiva”.

 Le forze russe sono più che preparate e all’Ucraina manca l’elemento sorpresa.

Gli hacker del “Collettivo Occidentale”, dopo essersi febbrilmente grattati la testa, hanno finalmente scoperto che Kiev ha bisogno di una “operazione ad armi combinate” per ottenere qualcosa dal suo nuovo diluvio di giocattoli della “NATO”.

John Cleese ha notato come l’incoronazione di “Charles The Tampax King” sembrasse uno “sketch “dei “Monty Python”.

Ora provate questo come sequel:

 l’Egemone non riesce nemmeno a pagare i suoi trilioni di debiti, mentre i tirapiedi di Kiev si lamentano che i 30 miliardi di dollari ottenuti sono noccioline.

Sul fronte russo, l’indispensabile “Andrei Martyanov “– un vortice di arguzia – ha osservato come la maggior parte degli allarmati corrispondenti militari russi semplicemente non abbia idea “del tipo e del volume di informazioni sul combattimento che arrivano ai posti di comando a Mosca, Rostov-on-Don o agli staff delle formazioni di prima linea”.

 

Sottolinea che “nessun ufficiale di livello operativo serio” parlerà con questi ragazzi, gioiosamente descritti come “voenkurva” (all’incirca, “puttane militari”), e semplicemente non “divulgheranno alcun tipo di dati operativi altamente classificati”.

Quindi, allo stato attuale, tutto il rumore e il furore della “controffensiva” è avvolto da una fitta nebbia di guerra.

Ciò non fa altro che aggiungere altra benzina al fuoco delle illusioni dei Think Tankland statunitensi.

La nuova narrativa dominante nella “Beltway” è che la leadership di Mosca è “frammentata e imprevedibile”.

E questo potrebbe portare a “una sconfitta convenzionale di una grande potenza nucleare” il cui “sistema di comando e controllo si è rotto”

Sì:

credono davvero alla loro sciocca propaganda (copyright John Cleese). Sono l’equivalente americano del “Ministero delle Passeggiate Sciocche”.

 Incapaci di analizzare perché e come l’élite russa abbia opinioni diverse sul metodo e sulla portata dello SMO/ATO, il meglio che riescono a proporre è proteggere l’Ucraina è una necessità strategica, poiché la minaccia russa aumenta se Mosca vince in Ucraina”.

 

Cosa c’è dietro il suono e la furia di Prighozin.

La tipica arroganza/ignoranza americana non cancella il fatto che sembra esserci una seria lotta di potere tra i siloviki.

Yevgeny Prigozhin, un siloviki, ha infatti denunciato Shoigu e Gerasimov come incompetenti, insinuando che mantengono i loro incarichi solo per fedeltà al presidente Putin.

Questo è quanto di più grave possa esistere.

Perché è legata a una domanda chiave posta in diversi silos istruiti a Mosca:

 se la Russia è ampiamente nota per essere la potenza militare più forte al mondo, con i missili difensivi e offensivi più avanzati, come mai non ha concluso l’intero affare sul campo di battaglia ucraino?

Una risposta plausibile è che solo 200.000 membri dell’esercito russo stanno attualmente combattendo, e circa 400.000-600.000 sono in riserva per l’attacco all’Ucraina.

Nell’attesa sono in costante addestramento; quindi l’attesa va a vantaggio della Russia.

Quando la famosa “controffensiva” si esaurirà, l’Ucraina sarà colpita con forza massiccia.

Non ci sarà alcun accordo negoziale.

Solo una resa incondizionata.

 

Ciò che sta accadendo in questo momento – il dramma di Prigozhin – è subordinato a questa logica, che si svolge parallelamente a un’operazione mediatica piuttosto sofisticata.

Sì, il Ministero della Difesa (MoD) ha commesso diversi gravi errori, così come altre istituzioni russe, dall’inizio della SMO.

 Criticarli in pubblico, in modo costruttivo, è un esercizio salutare.

Le tattiche di Prighozin sono un gioiello: manipola un certo grado di indignazione pubblica per fare pressione sulla burocrazia del Ministero della Difesa, dicendo essenzialmente la verità.

Potrebbe persino arrivare a fare i nomi degli ufficiali che stanno abbandonando diversi settori del fronte.

Al contrario, i suoi “musicisti” Wagner sono dipinti come veri e propri eroi.

Se il suono e la furia di Prigozhin saranno sufficienti a mettere a punto la burocrazia radicata del Ministero della Difesa è una questione aperta.

Tuttavia, la copertura mediatica dell’intero dramma è essenziale; ora che questi problemi sono di dominio pubblico, la gente si aspetta che il Ministero della Difesa agisca.

 

Comunque, questo è il fatto essenziale: a Prighozin è stato permesso (corsivo mio) di andare fino in fondo dal Potere Superiore (la connessione con San Pietroburgo).

 Altrimenti sarebbe già in un gulag rinnovato.

Le prossime settimane sono quindi assolutamente cruciali.

 Putin e il Consiglio di Sicurezza sanno certamente ciò che tutti gli altri non sanno, compreso Prighozin.

L’aspetto fondamentale è che si inizierà a gettare le basi per consentire agli Stati Uniti e alla NATO di trasformare l’Ucraina, i cagnolini baltici, la rabbiosa Polonia e alcune altre comparse in una sorta di fortezza dell’Europa orientale impegnata in una guerra di logoramento contro la Russia che potrebbe durare decenni.

Questo potrebbe essere l’argomento definitivo che spinge la Russia a prendere finalmente il sopravvento, il prima possibile.

 Altrimenti il futuro sarà tetro.

 Beh, non così cupo.

 Ricorda Putin: “Non abbiamo ancora iniziato nulla”.

(Pepe Escobar)

(Strategic Culture)

 

 

Lombardia, Acque “Potabili”

Contaminate: Sostanze Tossiche

nel 20% dei Campioni!

Conoscenzealconfine.it – (22 Maggio 2023) - Elisabetta Barbadoro – ci dice:

 

Dai rubinetti della Lombardia sgorga acqua contaminata.

Lo ha scoperto “Greenpeace” dopo varie richieste di accesso agli atti: studiando i risultati delle analisi sui campioni prelevati dagli acquedotti delle dodici province lombarde è stata riscontrata la presenza di “Pfas”, sostanze alchiliche per fluorurate, in percentuali elevate, in particolare in alcune zone.

Cosa sono i Composti “Pfas”.

I composti Pfas sono un gruppo di sostanze chimiche usate per impermeabilizzare alcune superfici.

Vengono impiegate per rivestire le padelle antiaderenti e altre superfici come tessuti, tappeti, carta, e contenitori di alimenti.

Si tratta però di molecole con un certo grado di tossicità: un’esposizione prolungata a queste sostanze può provocare infertilità, problemi alle ghiandole e l’insorgenza di alcuni tipi di cancro.

“Su circa 4 mila campioni analizzati dagli enti preposti tra il 2018 e il 2022 – scrive l’associazione ambientalista – circa il 19% del totale è risultato positivo alla presenza di “Pfas”.

 

Lodi, Bergamo e Como le Province più Contaminate.

Se si entra nel dettaglio si scopre che in alcune province la situazione è particolarmente allarmante:

 a Lodi, ad esempio, la percentuale di campioni positivi alla presenza di questi composti sfiora l’85%.

Sopra il 60% la provincia di Bergamo, oltre il 40% a Como, 32% Monza e Brianza, 28% a Cremona e quasi il 21% a Milano.

“Osservando i risultati – comunica Greenpeace – si nota come parte dell’acqua della Lombardia sarebbe considerata non potabile secondo i nuovi parametri proposti negli Stati Uniti o quelli vigenti in Danimarca “.

I Precedenti: lo Scandalo in Veneto.

La contaminazione da “Pfas” nelle acque potabili non è un problema nuovo in Italia:

nel 2013 è stata riscontrata una concentrazione anomala, addirittura sopra i livelli rilevati in Lombardia, in vari comuni del Veneto, in particolare nelle province di Vicenza, Verona e Padova: coinvolti 350mila residenti.

 Nel 2018 il governo emanò lo stato di emergenza e in 30 comuni veneti fu vietato di bere acqua del rubinetto.

Lo scandalo delle acque contaminate in Veneto è stato portato anche all’attenzione delle Nazioni Unite.

 Dopo una missione nella regione, l’Onu stilò un rapporto in cui si afferma che “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche “.

Dallo scandalo veneto è nato un processo che vede imputati 15 manager di tre multinazionali, accusati a vario titolo di avvelenamento delle acque, disastro ambientale, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari.

Dove sono le Politiche “Green”?

Con il recente rapporto di “Greenpeace” scopriamo che il problema non è confinato in Regione Veneto e la contaminazione delle acque è stata scoperta anche nella regione più popolosa d’Italia.

E mentre le autorità preparano “la guerra all’anidride carbonica e alle automobili”, milioni di cittadini continuano da anni a bere e consumare acqua contaminata da sostanze tossiche pericolose per la salute umana.

(Elisabetta Barbadoro)

(byoblu.com/2023/05/19/lombardia-acque-potabili-contaminate-sostanze-tossiche-nel-20-dei-campioni/)

 

 

 

Orban trionfa ancora,

schiaffo alle élite.

Iltimone.org – Giuliano Guzzo – (4 aprile 2022) – ci dice:

 

Formalmente è stata una vittoria, di fatto trattasi di trionfo.

 In quello che più osservatori hanno valutato essere uno dei voti più importanti nella storia dell’Ungheria, Viktor Orban, in corsa per il suo quarto mandato consecutivo, non solo non ha deluso le aspettative ma, forse, le ha perfino superate.

 Sì, perché la vittoria del premier uscente, al potere dal 2010, è stata schiacciante e superiore, a ben vedere, alle previsioni più rosee dei sondaggisti.

 

Basti qui sottolineare come il suo partito, il Fidesz, abbia ottenuto ben il 54% delle preferenze, per un totale di 135 seggi sui 199 del Parlamento magiaro.

“Uniti per l’Ungheria”, l’alleanza delle opposizioni, guidata da “Peter Marki-Zay”, si è invece arrestata al 34% dei consensi e a 56 seggi;

mentre all’estrema destra, che ha ottenuto il 6% dei voti, vanno 8 seggi. Degna di nota è anche l’affluenza elevata, arrivata al 70% degli aventi diritto.

A rendere significativa tale vittoria, vi sono poi stati due fattori.

 Il primo, strettamente interno alla compagine politica ungherese, riguarda l’assetto della poc’anzi citata opposizione, giunta ad unire – in un’alleanza che, per eterogeneità, ricorda il” brancaleonesco Ulivo” che, in Italia, aveva per leader Romano Prodi – forze assai diverse tra loro, pur di scongiurare la vittoria di Fidesz.

Già questo, a ben vedere, è un dato rilevante, specie considerato come Orban abbia più legislature alle spalle e, quindi, la possibilità d’un elettorato desideroso di cambiar aria era concreta.

Il secondo tipo di fattori che rendono questo trionfo significativo è internazionale.

Da anni, il leader ungherese è infatti la bestia nera di Bruxelles, del “mondo Lgbt “e, più di un generale, del circuito dei grandi media.

Non è un caso che lui stesso abbia scelto di commentare l’esito delle urne così, presentandolo cioè come «un chiaro segnale a Bruxelles» e non solo.

«Abbiamo vinto anche a livello internazionale contro il globalismo», ha infatti dichiarato Orban, elencando i tanti contro cui si è consumata la sua vittoria:

 «Contro Soros. Contro i media mainstream europei. E anche contro il presidente ucraino” Volodymyr Zelensky, che nella notte di sabato si è rivolto nuovamente ad Orbán, “unico in Europa a sostenere apertamente Putin”».

Immancabilmente, varie voci si sono levate per criticare la vittoria del leader ungherese che sarebbe stata sì netta, ma condizionata – se non del tutto truccata – da presunti brogli.

L’ong “Hungarian Civil Liberties Union”, per esempio, ha segnalato irregolarità in varie regioni, dove degli attivisti avrebbero organizzato autobus per portare la gente a votare;

 se è accaduto, si tratta senza dubbio di qualcosa di censurabile anche se è da vedere su quanto vi sia da scandalizzarsi, dato che episodi simili sono accaduti innumerevoli volte, e forse accadono ancora, anche in occasione di consultazioni elettorali italiane.

Ciò detto, senza voler negare come quella di Orban sia una democrazia illiberale assetto politico che descrive bene pure altre realtà nazionali che, però, non destano analoga indignazione, a partire proprio dall’Ucraina sotto la presidenza di Zelensky è indubbio come l’Ungheria, pur con una piccola popolazione, sotto la guida di Fidesz sia un Paese parecchio scomodo.

 Perché dimostra che si può disobbedire all’”agenda Lgbt, puntare sulla famiglia e risollevare la denatalità senza ricorrere all’immigrazione”; e si può pure continuare a seguire con convinzione il leader che in questa direzione, negli anni, ha remato.

 

 

 

I “social network” a servizio

dei governi statunitensi.

 

Resegoneonline.it - Alberto Comuzzi – (27-12-2022) – ci dice:

Il giornalista “David Zweig” ha scoperchiato la narrazione della pandemia imposta dall'Amministrazione Biden.

Da quanto emerge nell'Ue e in Usa c'è da chiedersi:

 europei e statunitensi da chi sono governati?

Sotto il titolo "Come twitter ha truccato il dibattito sul Covid", “David Zweig” ha pubblicato in "The free press" il 26 Dicembre, un articolo in cui svela come il Governo degli Stati Uniti abbia usato i social media per influenzare l'opinione pubblica.

 

Afferma il giornalista:

«Avevo sempre pensato che uno dei compiti principali della stampa fosse quello di essere scettico nei confronti del potere, in particolare del potere del governo.

 Ma durante la “pandemia di Covid-19”, io e tanti altri abbiamo scoperto che i “media legacy” avevano dimostrato di funzionare in gran parte come piattaforma di messaggistica per le nostre istituzioni di sanità pubblica.

Quelle istituzioni operavano quasi in blocco totale, in parte eliminando i dissidenti interni e screditando gli esperti esterni».

In pratica consultando le e-mail del social media, “Zweig” ha potuto verificare che sia l'Amministrazione Trump, sia l'Amministrazione Biden «hanno sollecitato direttamente i dirigenti di Twitter a moderare i contenuti della piattaforma secondo i loro desideri».

Alle conferenze stampa governative prendevano parte ovviamente anche rappresentanti di Facebook, Google, Microsoft ed altri.

All'inizio della pandemia l'Amministrazione Trump, preoccupata della corsa ai supermercati, ha cercato l'aiuto delle società tecnologiche per negare la spinta sfrenata agli acquisti.

Con l'avvento alla casa bianca di Biden il messaggio da diffondere chiesto ai social media è mutato radicalmente e, commenta “Zweig”, riassumibile in «abbi molta paura di Covid e fai esattamente quello che diciamo per stare al sicuro».

Nell'articolo sono citati numerosi esempi di censura e tra questi, quello del giornalista “Alex Berenson”, che aveva centinaia di migliaia di “follower” sulla piattaforma, perché si era dimostrato scettico sui blocchi e sui vaccini a mRNA.

Aldilà delle rivelazioni sulla vicenda pandemia, che mette in cattiva luce l'attuale Amministrazione statunitense, l'elemento più preoccupante per l'opinione pubblica è la diabolica efficacia dei social media per pilotare le democrazie.

Ciò che hanno sperimentato le élite globaliste è che, agendo su pochi dirigenti del “mondo higt tech”, è possibile spingere miliardi di persone a uniformare i loro comportamenti secondo modelli preconfezionati.

Usando media tradizionali (giornali, radio e tv) e social per diffondere il "pensiero unico" e contemporaneamente silenziando coloro che si pongono domande o non si allineano supinamente alla vulgata, è possibile raggiungere obiettivi mai realizzati da alcun monarca nella storia dell'umanità.

Adesso il re è nudo e, giorno dopo giorno, vengono alla luce i disegni di governi occidentali che ben poco incarnano i valori della democrazia.

Quello che i vertici europei e statunitensi stanno mostrando al mondo sono una prova inconfutabile.

Osserviamo l'autoritarismo di Paesi non occidentali e ignoriamo quello che accade nei nostri?

Se gli strumenti usati per la narrazione della pandemia hanno funzionato al punto di convincere milioni di persone che solo i vaccini mRNA rendevano immuni e salvavano la vita, perché non utilizzarli per raggiungere altri obiettivi.

A questo punto però sorgono una serie di altri interrogativi:

 quanto fondamento ha tutto ciò che ci viene raccontato sul "verde", sulla necessità di convertire la mobilità passando dal petrolio all'elettrico, sul nutrirci con gli insetti e sul proiettarci velocemente nel metaverso?

Ancor più inquietante è la domanda:

l'invasione dell'Ucraina era evitabile?

Chi e dove sono i complottisti, i terrapiattisti?

 

 

 

«GLOBALISMO “CRIMINE PERFETTO”».

Inchiostronero.it – (19 – 2 – 2020) - Roberto Pecchioli – ci dice:

 

” La maggioranza globalizzata contro la democrazia.

 Non hanno più bisogno della nostra “democratica” approvazione. Globalismo come “crimine perfetto”: la democrazia postmoderna è solo una tirannide rivestita da “Democrazia formale”.

Creatura instabile e pericolosa, l’Occidente minaccia il mondo minacciando sé stesso di distruzione.

 In particolare, sembra entrata in crisi una delle sue narrazioni più credute, la democrazia.

Una delle classificazioni più comuni della psicologia è quella tra apocalittici e integrati.

Non abbiamo il minimo dubbio di appartenere alla prima categoria, ma una notizia ci ha restituito il buonumore e un po’ di speranza.

Sembra proprio che la democrazia “reale” abbia perduto molto del suo fascino, non solo agli occhi degli europei e degli occidentali che affermano di averla inventata e la esportano con la canna del fucile, sotto forma di polizia internazionale, ristabilimento della pace, lotta ai tiranni, liberazione.

 Molti – speriamo sia vero – non ci credono più.

 È quanto afferma un rapporto dell’Università di Cambridge, pubblicato dal “Bennet Institute for Public Policy”, un’istituzione operante con fondi statunitensi.

Lo scenario globale dell’immigrazione.

 Nel mondo ci sono 244 milioni di migranti, 41% in più dal 2000.

 

I popoli dell’Europa orientale, avevano già sperimentato i guasti del liberismo e della disgregazione sociale.

A milioni avevano dovuto emigrare, con devastanti conseguenze.

Gli studiosi britannici affermano che dopo il 2005 la popolarità della democrazia è in costante discesa.

Quindici anni or sono solo il 38 per cento degli intervistati di tutto il mondo si dichiaravano insoddisfatti della democrazia;

oggi, sarebbero ben il 57, 5 per cento gli abitanti del pianeta delusi dal principio, o dal metodo chiamato democrazia.

 La maggioranza assoluta del mondo globalizzato.

Tra gli Stati che guidano il disincanto, spiccano Stati Uniti, Brasile, Messico e Nigeria.

Ci guardiamo bene dall’attribuire perfezione predittiva allo studio. Civiltà, culture, religioni, popolazioni tanto diverse non possono essere interpellati sullo stesso tema senza sorprese.

Inoltre, diffidiamo per principio delle statistiche anglosassoni, che tendono a generalizzare, ridurre problemi complessi a schemi semplicistici, binari, sì, no, mi piace non mi piace, il modello delle reti sociali.

Tuttavia, merita riflettere su questo dato.

Iniziamo dai tempi:

nel 2005 non era ancora esplosa la crisi finanziaria globale, che ha lasciato sul terreno troppe vittime per non determinare conseguenze nella percezione comune.

La globalizzazione era certa già in atto, ma non aveva ancora dispiegato l’immenso potenziale di cui siamo testimoni e vittime.

 I popoli dell’Europa orientale, ad esempio, finivano di digerire la sbornia del dopo comunismo, ma avevano già sperimentato i guasti del liberismo e della disgregazione sociale.

A milioni avevano dovuto emigrare, con devastanti conseguenze su quelle società e su quelle di destinazione.

Il potere del mercato finanziario.

Il potere finanziario, da allora, ha guadagnato ulteriore terreno: le grandi banche sono “troppo grandi per fallire” e i costi sono stati addebitati ai popoli, attraverso i bilanci degli Stati.

La dominazione attraverso la creazione monetaria, l’inganno del debito, la morsa del mercato misura di tutte le cose e ora della tecnologia diventata biopotere, non ha cessato di schiacciare i popoli.

 I governi, gli Stati nazionali non hanno mai contato così poco.

Gli unici poteri che restano loro sono i più indigesti:

impongono tasse sempre maggiori in cambio di quasi nulla – sanità, scuola, protezione sociale ai minimi – e gestiscono l’ordine pubblico senza assicurare giustizia, sicurezza, imparzialità.

Il dissenso è represso in maniera sempre meno soft.

Non si può in alcun modo contestare il modello sociale, politico, economico, finanziario e culturale dominante, che si afferma unico, naturale, privo di alternative.

Gli strumenti di partecipazione popolare alle grandi decisioni sono esauriti o pressoché impossibili da concretizzare.

Trionfa su tutta la linea la libertà dei moderni, teorizzata due secoli fa da “Benjamin Constant”.

 Liberazione dai vincoli, preferenza assoluta della dimensione privata, con il suo precipitato di indifferenza per il bene comune, egoismo, disinteresse per la cosa pubblica.

La libertà e la democrazia degli antichi, al contrario, erano soprattutto partecipazione, esercizio di responsabilità e decisione.

 Pessime cose, dal punto dei padroni del vapore.

La democrazia, dunque, si è ridotta sempre più a vuota procedura, formalità, gioco di ruolo, circo equestre in cui si combattono non idee o progetti, ma gli interessi più potenti, industriali, finanziari, tecnologici. La politica scade ad amministrazione, il governo diventa governance, gestione.

La fine possibile della democrazia.

Oggi in nessun grande Stato occidentale è al potere chi rappresenta la maggioranza aritmetica non dei cittadini, ma dei votanti, che diminuiscono a ogni tornata.

(Jean-Jacques Rousseau).

Si finisce per dare ragione al vecchio Rousseau, allorché avvertiva che la democrazia rappresentativa e la sovranità popolare, vanto e fiore all’occhiello dei popoli d’occidente, funziona per un solo giorno ogni quattro o cinque anni.

Nel momento delle elezioni, il popolo esercita un fugace potere di scelta di rappresentanti, ai quali cede immediatamente le sue prerogative. Addio partecipazione, addio alla volontà generale, qualunque cosa voglia dire.

Per di più, pur essendo evidente l’impossibilità di fuoriuscire da forme di rappresentanza, e che il potere sarà sempre in mano a oligarchie, i sistemi democratici si impegnano con successo a negare sé stessi. L’ingegneria politica applicata alle tecniche elettorali fa sì che vinca non la maggioranza, ma la minoranza meglio organizzata, che significa inevitabilmente la più ricca.

Il potere del denaro svuota la democrazia, scriveva “Giano Accame”.

Oggi in nessun grande Stato occidentale è al potere chi rappresenta la maggioranza aritmetica non dei cittadini, ma dei votanti, che diminuiscono a ogni tornata.

Donald Trump è stato eletto da circa il 25 per cento degli americani, la metà dei quali non si è recata a votare.

 Il recente, largo successo di Boris Johnson in Gran Bretagna è legato al sistema maggioritario inglese.

Il partito conservatore ha ottenuto meno del 44 per cento dei voti, con un terzo dei britannici lontano dai seggi.

Lo stesso in Francia e in Italia, dove è macroscopica la distanza dei partiti di governo dal sentire maggioritario dei cittadini.

Incredibile il caso della Spagna: il governo è al potere nonostante non abbia conseguito la maggioranza parlamentare.

Si regge sull’astensione di movimenti diversissimi e opposti.

I due partiti di governo, i socialisti e i neo comunisti di Podemos non hanno che il 40 per cento dei voti; un terzo abbondante dei cittadini non ha votato.

 

Persino “Norberto Bobbio”, dopo una vita di studi e dopo aver importato in Italia il positivismo giuridico di Hans Kelsen , ovvero la norma elevata a puro potere, ha dovuto ammettere che la democrazia è una procedura.

Non ci si innamora delle procedure, ancor meno si è disposti a dare la vita per esse.

Di più: quando ci si accorge che le carte sono truccate e la nostra volontà conta meno di niente, si cercano altre forme per far sentire la propria voce.

Grottesca è la realtà americana, il paese che si considera il leader della democrazia, investito del destino manifesto di imporla a tutti i popoli dell’orbe terracqueo.

Molti ricorderanno che “George Bush jr” fu dichiarato presidente nel 2004 solo dopo settimane di lotte sanguinose – e certamente di imbrogli da una parte e dall’altra, relative al conteggio dei voti in Florida.

Il più potente Stato del mondo non fu capace di stabilire quanti voti avessero ottenuto non cento candidati, ma due.

Addirittura comico, se non risultasse l’evidenza di un inganno generalizzato, è il recentissimo caso delle elezioni primarie nello stato dello Iowa.

 Hanno votato 170 mila elettori in tutto, iscritti alle Primarie Usa, in Iowa “Buttigieg” davanti a “Sanders”.

“Biden” quarto.

 

Viviamo in un sistema Zombie.

Liste del Partito Democratico in base alle leggi locali.

 Non è chiaro quanti voti abbiano riportato i vari aspiranti alla nomina di candidato presidenziale.

Ci vuole tempo, tanto tempo, molto di più di quello che occorre per decidere un bombardamento con missili “intelligenti” diretti da remoto, o l’assassinio di un dignitario straniero.

I candidati vincenti saranno comunque quelli in grado di raccogliere i finanziamenti più cospicui.

Per arrivare alla Casa Bianca serve qualche miliardo di dollari. Dobbiamo spiegare da dove arrivano cifre tanto elevate e che cosa comporta il sostegno dei signori del denaro?

Eppure il gioco funziona e lo chiamano democrazia.

È un’ottima notizia che siano sempre meno a crederci. 

I ricercatori di Cambridge, “sinceri democratici” sono inquieti.

 Soprattutto si preoccupano del disincanto americano.

 Gli Stati Uniti non sono più “la città splendente sulla collina”, portatori di una perfezione quasi ontologica.

Stupisce che ai soloni detentori di prestigiose cattedre universitarie ci sia voluto uno studio scientifico per prendere atto con sgomento di ciò che è sotto gli occhi di chiunque viva e vesta panni.

Viviamo in un sistema Zombie, rinserrato nella convinzione “scientifica” (o a-scientifica?) che le élite hanno della propria superiorità.

Scambiano un simulacro per la realtà, una procedura per un principio universale.

Fingono di crederci, il problema che ci credono sempre meno i sudditi, per i quali è stato creato il sistema.

Ha ragione “Massimo Fini”, descrivendo ruvidamente la democrazia odierna come il regime in cui il popolo lo prende nel … con il suo consenso.  

 

 Una democrazia sana richiede che la maggioranza dei cittadini creda in elezioni eque e ritenga che la politica offra soluzioni ai suoi problemi. Stato di diritto, rispetto per i diritti delle minoranze.

Se questa fiducia si perde, vince la fazione, la lotta di tutti contro tutti per dominare gli avversari a tutti i costi, con ogni mezzo.

Eterotopia, cioè fini opposti a quelli dichiarati e originari.

Questa è la democrazia postmoderna.

Scriveva un intellettuale francese della prima metà del XX secolo, “Jacques Barzun”, a lungo prestigioso docente negli Usa:

“Se ce n’era uno, l’obiettivo della guerra rivoluzionaria americana era reazionario: il ritorno ai bei vecchi tempi!

I contribuenti, i funzionari eletti e i commercianti, i proprietari volevano un ritorno alle condizioni esistenti prima dell’istituzione della nuova politica inglese.

I riferimenti erano i diritti classici e immemorabili degli inglesi: autogoverno attraverso rappresentanti e tasse garantite da assemblee locali e non arbitrariamente stabilite dal re.

 Non furono proclamate nuove idee che suggerissero un cambiamento nelle forme e nelle strutture del potere – il segno delle rivoluzioni.

Il linguaggio della” Dichiarazione di Indipendenza” è quello di protesta contro l’abuso di potere e non quello di una proposta di rifondazione del governo su nuovi principi.”    

Il 2005 segna l’inizio della recessione democratica globale.

 Negli Usa, dopo la seconda guerra mondiale, solo un quarto degli americani non si sentiva in sintonia con le istituzioni.

Oggi la percentuale è del 55 per cento.

La maggioranza dei cittadini della democrazia più grande, più ricca, più potente, non la pensa come il potere, come l’apparato culturale, la comunicazione, l’enorme struttura riservata di “dominio del deep State”, servizi segreti, sistema militare industriale, giganti tecnologici di Silicon Valley.

 Il problema è serio.

Innanzitutto, una democrazia sana richiede che la maggioranza dei cittadini creda in elezioni eque e ritenga che la politica offra soluzioni ai suoi problemi.

Controllo ed equilibrio, istituzioni di garanzia, stato di diritto, rispetto per i diritti delle minoranze.

Se questa fiducia si perde, vince la fazione, la lotta di tutti contro tutti per dominare gli avversari a tutti i costi, con ogni mezzo.

Tribalismo.

Qualcuno lo chiama tribalismo, ma è il contrario: è il dominio di oligarchie padrone di tutto.

 La lotta politica si riduce ad una guerra spietata tra gruppi contrapposti di potere, per i quali i cittadini non sono che clienti, target da conquistare con operazioni di marketing pubblicitario, slogan suggestivi ma privi di contenuto.

A parità di mezzi – a disposizione solo di chi è già inserito nei meccanismi del potere – vince chi conduce la più efficace campagna pubblicitaria.

 Rousseau viene superato: il popolo conta solo nell’attimo in cui pensa “mi piace”.

 Gioco finito, anzi “game over”.

Poiché l’America è stata costruita da immigrati, il suo successo si è fondato sull’ottimismo e su un idealismo fatto di integrazione ed assimilazione del modello dominante.

 Dopo la crisi finanziaria del 2008, tutto questo ha cominciato a cambiare, tutti i sistemi politici si sono deteriorati, tra agenzie di rating, debito sovrano, distruzione delle classi medie, polarizzazione della ricchezza e quindi del potere.

Nel bene e soprattutto nel male, l’America è il modello di riferimento della nostra parte di mondo.

 Che cosa succederà quando la maggioranza dei cittadini della prima democrazia del mondo, la più grande economia e l’esercito più potente, perderà la fede nelle sue fondamenta?

Forse è già accaduto e il sistema tiene attraverso l’imposizione, l’incapacità di progettare alternative, l’immensa macchina organizzativa, propagandistica, tecnica di cui dispone.

Quando il vento cambierà per davvero, forse potremo tentare una rivoluzione democratica, nel senso della partecipazione dei popoli al loro destino.

Sino ad allora, vivremo sotto una tirannide rivestita degli abiti ingrigiti della democrazia formale.

Paradiso e tomba dei popoli, il suo successo dipende dalle differenze che nega.

L’istinto dei popoli sta comprendendo che i regimi democratici sono quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera sovranità sta in forze irresponsabili e riservate.

Vale la pena sorridere dinanzi a una riflessione dell’economista “Harvey Liebenstein”: la democrazia è il principio di non minoranza.  

 

Per “Jean Baudrillard” la vera apocalisse non era la fine del mondo fisica, materiale, ma l’unificazione in quello che lui chiamava “il mondo”, ovvero il globalismo che ha realizzato il simulacro definitivo, il “crimine perfetto”, la fine negando che sia tale, nell’illusione che tutto continui.

Comandano da remoto, da Matrix.

Non hanno quasi più bisogno della nostra democratica approvazione. Quasi…

 

 

 

«LE IDEOLOGIE ANTIUMANE

 DELL’OCCIDENTE TERMINALE»

Inchiostronero.it - Roberto Pecchioli – (22-5-2023) – ci dice:

 

La logica antiumana dell’anti specismo, con la folle equiparazione di tutti gli esseri “senzienti”, ha in “Pierre Singer “il suo più influente banditore, colui che si è incaricato di spalancare” la finestra di Overton della regressione ad animali della specie umana. “

Tuttavia, sono alcuni movimenti estremi – minoritari, ma assai rumorosi – a fornire la misura della confusione mentale che regna nel campo dell’”animalismo radicale.

Il partito spagnolo “Pacma”, in occasione dell’8 marzo, ha diffuso un manifesto in cui parifica le donne alle mucche, schierandosi per un “femminismo senza distinzione di specie”.

L’immagine della campagna mostra da un lato una giovane donna, dall’altro una mucca, con lo slogan “per un femminismo anti specista, di tutte e per tutte, senza distinzioni. “

 

SMANTELLAMENTO DELLE OPPRESSIONI- UN APPROCCIO ANTI SPECISTA E FEMMINISTA.

L’egalitarismo portato alle conseguenze estreme, unito alla commistione con altre suggestioni culturali malamente masticate conduce a questo; niente di diverso, qualitativamente, da alcuni movimenti del passato, specie di ambito cristiano, come Catari, anabattisti, seguaci di Fra Dolcino, che tuttavia non si erano mai spinti a equiparare la creatura umana – anche per loro oggetto di un piano divino – all’animale.

 Tuttavia, oltrepassato l’umanesimo, l’esito obbligato dell’idea di uguaglianza è appunto l’equivalenza di ogni vivente in nome di un equivoco biocentrismo. 

Con buona pace di “Singer”, peraltro, è proprio il cristianesimo, da lui criticato per la morale che impedisce di uccidere i deboli (forse una lettura banalizzata della “morale dei signori e degli schiavi” di Nietzsche) a porre le basi per la distinzione ferrea tra uomini e animali.

Avvenne all’alba dell’avventura coloniale europea, allorché i conquistatori spagnoli tendevano a non considerare pienamente umani i popoli che stavano sottomettendo.

Il grande filosofo e giurista “Francisco de Vitoria” (1483-1546), domenicano, fondatore del moderno diritto internazionale, nel saggio “De Indis” affermò vigorosamente l’umanità delle popolazioni indigene, negando che i conquistatori avessero il diritto di trarli in schiavitù.

 I cosiddetti “indios”, infatti, avevano coscienza piena di sé ed erano in grado di autogovernarsi, indipendentemente dalle credenze religiose e da ogni altra pratica e usanza.

“Vitoria” affermava che anche se anche fossero stati come bambini piccoli, avessero qualche ritardo mentale o fossero pazzi, dominarli sarebbe stata un’ingiustizia (iniuria) poiché immagini di Dio come ogni altro uomo.

 L’argomentazione di “Vitoria” è specista, ossia umanista, in quanto stabilisce che gli indios hanno i medesimi diritti degli spagnoli in quanto esseri umani.

Il “dominio di sé” implica il possesso di diritti come la proprietà, diversamente dagli animali.

 “Privare un lupo o un leone della sua preda non implica un’ingiustizia”. Se gli animali avessero il dominio di sé, continua, “chiunque recinti un terreno di erba frequentato dai cervi commetterebbe un crimine, poiché ruberebbe il cibo senza il permesso del proprietario”.

L’esempio di “Vitoria” oggi sarebbe tacciato di antropocentrismo, un altro dei peccati capitali della specie umana secondo i vangeli apocrifi “woke”.

Alcuni settori del femminismo più radicale lambiscono l’anti specismo: è il caso del cosiddetto xeno femminismo di “Helen Hester”, che contesta i limiti biologici dell’essere umano e si definisce” alieno”, a partire dal prefisso “xeno”, estraneo, straniero.

L’approdo finale è il transumanesimo, l’ideologia antiumana delle oligarchie.

Caposcuola di questi filoni femministi è “Donna Haraway”, autrice del celebre “Manifesto Cyborg”, studiosa del rapporto tra scienza e “identità di genere”.

 Il messaggio esprime il rifiuto della condizione umana “normale”.

La scelta “cyber femminista” è la logica conclusione della teoria dei dualismi della “Haraway”:

 la cultura occidentale è caratterizzata da una struttura binaria ruotante intorno a coppie di categorie; uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente.

 Un dualismo concettuale non simmetrico, basato sul predominio di un elemento sull’altro:

 sulle donne, sulla gente di colore, sulla natura, sui lavoratori, sugli animali.

La figura del cyborg, da invenzione fantascientifica diventa metafora della condizione transumana:

contemporaneamente uomo e macchina, individuo non sessuato situato oltre le categorie di genere, creatura sospesa tra finzione e realtà;

 un prodotto cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà quanto alla finzione.

 “Il cyborg permette di comprendere come la pretesa naturalità dell’uomo sia solo una costruzione culturale.” 

Le riflessioni della “Haraway” diventano profezia oscura nell’annuncio di un’era detta “Chthulucene”.

Nella nuova epoca l’aumento della popolazione verrà bypassato in favore di un modello culturale teso “alla generazione di parentele in senso ampio, attraverso decisioni intime e personali per creare vite fiorenti e generose senza mettere al mondo bambini.

” Una delle tante declinazioni della cultura di morte da cui è pervaso l’Occidente contemporaneo”.

 

Il termine “Chthulucene” richiama il “mostro Chthulu,” personaggio dello scrittore “Howard P. Lovecraft”, (tutti i Racconti) un essere semi-divino che vive in un sonno simile alla morte, nell’attesa di una congiunzione astrale che ne consenta il risveglio.

 “Chtulhu” ha la radice di “ctonio”, sotterraneo, legato all’inquietante mondo del sottosuolo.

Tutti i salmi finiscono in gloria:

disprezzo per l’essere umano reale, rivolta contro natura e biologia, volontà di superare ogni limite, scatenamento di forze sotterranee.

Diverso, ma altrettanto antiumano è il biocentrismo, alla base dell’ideologia climatica, convinta che i cambiamenti del clima terrestre non siano dovuti all’azione di lungo periodo delle forze della natura, ma all’agire umano.

L’obiettivo finale è passare dall’”antropocene” –il termine coniato dal chimico olandese” Paul Crutzen” per designare il tempo del dominio dell’uomo sulla natura- a una sorta di “biocene”, giacché gli esseri umani sono degenerati in una minaccia per il mondo naturale.

 La conseguenza è considerare opportuna la loro drastica diminuzione sino alla scomparsa della specie.

 La biodiversità non vale per l’homo sapiens.

Se vuoi lottare contro il cambiamento climatico, non avere figli, è uno degli slogan.

L’idea sottostante è che c’è natura solamente laddove non c’è l’essere umano.

 Strano che non venga rilevato che solo la nostra specie ha coscienza dei suoi stessi errori ed orrori, e che dunque ogni sistema di idee – anche il più antiumano – può sorgere e sussistere solo dentro l’uomo, che davvero è misura di tutte le cose, soprattutto se è respinta ogni ipotesi di trascendenza.

L’”ideologia climatica” è la forma più sofisticata di anti umanesimo.

Lo dimostrano le conclusioni della ricerca” The climate mitigation gap”, elaborate dalla rivista “Environmental research letters.”

 Le misure suggerite per combattere “il riscaldamento globale” – dogma ripetuto sino allo sfinimento – si dividono in azioni a basso, medio e alto impatto.

Le prime due sono sostanzialmente ragionevoli, da discutere entro la prospettiva umanista.

 Quelle ad alto impatto sono apertamente antiumane.

Spicca la volontà di modificare le abitudini alimentari della specie – onnivora – imponendo il “vegetarianesimo e il veganesimo”, che da scelte individuali dovrebbero diventare obblighi.

 In questo caso si tratta di capovolgere un dato biologico naturale in omaggio … alla natura.

Ancora più sconvolgente è la proposta di ridurre drasticamente il numero di esseri umani, allo scopo di diminuire le emissioni di gas con “effetto serra”.

Ogni nuovo nato contribuisce all’atmosfera con cinquantacinque tonnellate di CO2 all’anno, scrive lo studioso “Travis Rieder”. “Procreando, non stiamo solo creando una nuova persona che emetterà gas serra, ma anche un essere che a sua volta potrà procreare.”

 La soluzione proposta è l’estinzione volontaria della specie.

Non va dimenticato che le tendenze esposte sono variazioni sul tema di un altro dogma occidentale, l’evoluzionismo.

La teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale elaborata nel XIX secolo da “Charles Darwin” – peraltro sugli studi precedenti di Alfred Russell Wallace – è stata imposta come verità cosmologica e scientifica senza che sia stata provata oltre ogni dubbio.

 Pensiamo ai vari “anelli di congiunzione” tra la scimmia e l’uomo più volte annunciati e mai esibiti, come l’australopiteco scoperto nel 1925 o l’ipotesi dell’uomo di Pechino del bizzarro gesuita” Pierre Theilhard de Chardin”.

 Nessuno può negare le modificazioni – del clima, della natura, dei viventi – ma è sin troppo chiara l’utilità dell’evoluzionismo per giustificare teorie economiche (il liberismo alla Adam Smith), pratiche eugenetiche, teorie filosofiche come il positivismo di “Herbert Spencer”, vero e proprio darwinismo sociale.

L’idea di selezione “naturale” è il potentissimo supporto teorico alle peggiori derive antiumane, costruzione ideologica ad uso di oligarchie che stanno plasmando il senso comune delle generazioni occidentali come senso di colpa e disprezzo per la specie umana, equiparata all’animale o considerata un male da estirpare.

Selezionare significa scegliere; le classi dominanti lo stanno facendo per tutti, chiamando eccedenza, scarto, pericolo, gran parte dell’umanità.

Non si perviene al transumanesimo – volontà prometeica delle élite- senza prima diffondere nella creatura umana, con le più varie giustificazioni ideali e perfino morali, l’odio di sé.

Senza identità, privato di amor proprio, convinto di incarnare il male, l’ex homo sapiens diventa un atomo alla deriva nemico di sé stesso, a cui è impossibile ascoltare la lezione di Terenzio:

“sono un uomo; nulla di umano mi è estraneo.”

(Roberto PECCHIOLI)

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