La
vita moderna è ostile a tutte le tematiche legate all’identità.
Identità
nazionali, identità politiche
"canoni"
e antitesi tra
moderno
e contemporaneo.
Storicamente.org
- Maria Pia Casalena – (20-5-2021) – ci dice:
1.
Antinomie irrisolte.
Democrazia
vs Autoritarismo, Rivoluzione vs Controrivoluzione, Spagnolismo vs
Antispagnolismo, Eccezionalità meridionale vs Unicità sostanziale della vicenda
italiana.
A queste
e ad altre coppie antitetiche sono dedicati i quattro volumi che, tra 2003 e
2004, hanno inaugurato la collana “Storiografica” diretta da Da Benedictis, De
Francesco e Musi.
I
primi tre presentano gli atti di convegni tenuti tra 1999 e 2002 a Potenza (La
democrazia alla prova della spada), Salerno (Nazione e controrivoluzione
nell’Europa contemporanea), Maiori (Antispagnolismo e identità italiana), che
hanno coinvolto studiosi – in gran parte modernisti – italiani, accanto a
specialisti di diversi paesi europei.
Il quarto, a firma di De Francesco, consiste
in una sintetica quanto densa e problematica ricostruzione del 1799 tra caso
napoletano e dinamiche italiane ed europee.
Una
triplice prospettiva di analisi – internazionale, nazionale, regionale –
caratterizza tutti i volumi, assieme al superamento critico degli ‘steccati’
tra moderno e contemporaneo in una indagine di lunga durata su permanenze e
mutamenti nei discorsi e nelle pratiche politiche.
Il
punto di partenza, o meglio, l’asse attorno al quale ruota direttamente o
indirettamente la riflessione, è la Rivoluzione francese.
Questa
è intesa sia come grande – e non univoco - spartiacque nella storia di quel
paese, sia come oggetto di una esportazione in armi destinata a mutare scenari
europei ed extra-europei tramite complessi processi di adesione, repulsione,
appropriazione selettiva e costruzioni di memorie collettive.
I
testi, “classici” o “minori”, del discorso politico e storiografico sono dunque
oggetto, nell’ambito dei volumi e della collana, di una grande attenzione che
si traduce in uno sforzo di contestualizzazione oltreché di
(re)interpretazione.
Ci si
muove, nelle citazioni e nelle note a piè di pagina, tra quei testi e una gran
copia di documenti d’archivio.
Nei
saggi introduttivi si fa tra l’altro il punto sul dibattito più recente,
offrendo in prima battuta percorsi “ragionati”, per lo meno pluridecennali, di
storia della storiografia.
Sembra
prevalere, in particolare in alcuni dei volumi e nei saggi dedicati alla realtà
meridionale, un orientamento da «Annales», una particolare attenzione ai
“caratteri originali” e alla sociologia storica.
Nel
più ‘modernista’ dei volumi, “Alle origini di una nazione”, emergono come punti
di riferimento la “Méditerranée” di Braudel e “la storiografia” di Giuseppe
Galasso.
Il
fulcro del discorso, si diceva all’inizio, è l’identità nazionale, per come essa si è venuta
plasmando, nei paesi toccati dall’Armée, tra antico regime e discorsi politici
otto-novecenteschi.
Dal
1799, anno particolarmente critico e dalla straordinaria valenza periodizzante,
prendono le mosse tre dei quattro volumi.
La
stagione “giacobina” e l’età napoleonica hanno impresso una forte accelerazione
ai processi di modernizzazione politica, socioeconomica e culturale di quei
paesi, senza però liquidare definitivamente l’antico regime, e senza
scongiurare l’approfondirsi di ferite, spaccature, contrapposizioni destinate a
riemergere periodicamente, a dimostrazione della persistente vitalità di
discorsi e patrimoni identitari ‘altri’.
Rimossi
dai processi di nazionalizzazione messi in moto con i sistemi
liberal-democratici, confinati tra parentesi, o banalizzati, o consegnati alla
storia dei vinti da testi e autori “canonici” , i termini negativi del
confronto tra nuovo e vecchio hanno in realtà conservato una propria
legittimità, in primis su particolari scale sociali o spaziali.
Ciò
che più conta, hanno essi stessi informato in senso costruttivo meditazioni
critiche che, minoritarie presso la liberal-democrazia del secondo ’800, sono
poi state recuperate (in chiave di strumentalizzazione) dai regimi
antidemocratici del XX secolo, fino a riemergere nell’agenda politica attuale
come problematiche irrisolte dentro e fuori i confini degli Stati nazionali.
2.
Libertà esportata, Libertà tutelata.
I
ventisei saggi dedicati alla Esperienza e memoria del 1799 in Europa si
confrontano in gran parte con il problema – politico e storiografico al contempo
– della legittimità di porre il colpo di stato napoleonico del 1799 a ‘modello’
di successivi regimi illiberali, che dalla Costituzione di quell’anno avrebbero
mutuato sic et simpliciter l’inedita e geniale sintesi tra espressione diretta
della volontà generale e sua reificazione nella centralità assoluta
dell’esecutivo - a sua volta identificabile tanto con l’imperatore o con il
presidente della repubblica quanto, soprattutto, con i leader di regimi
autoritari (fascismi, dittature militari, ecc.) nati dalla soppressione del
parlamentarismo ‘classico’.
Implicitamente,
si solleva un’altra questione, più generale e probabilmente resa più urgente da
questioni di stretta attualità.
Al di là delle opinioni e militanze
ideologiche, è plausibile teorizzare il connubio tra democrazia e autoritarismo
(o “tutela” autoritaria della libertà), tra diritto alla autodeterminazione dei
popoli e sua delega alle armi (per di più straniere)?
Nelle
prime due sezioni del volume, gli autori, portando a sintesi ricerche talvolta
molto lunghe, si confrontano con gli scenari politici, sociali ed economici sui
quali Brumaio andò ad innestarsi.
Autore di una recente monografia sulla
temperie di Brumaio, “Gainot” fa qui emergere in tutta la loro - spesso
dimenticata, o al contrario esagerata - drammaticità i problemi che la
repubblicanizzazione aveva procurato tanto in Francia quanto fuori, laddove la
‘democratizzazione’ era inscindibile dall’azione di generali sovente in
contrasto col Direttorio parigino.
L’instaurazione
delle “repubbliche sorelle” stava rapidamente evolvendo in una – preoccupante,
per Parigi - tensione delle stesse verso l’autonomia nazionale; mentre il
contesto internazionale e l’instabilità interna suggerivano ai governanti della
capitale francese di mediare, in un cauto attendismo, tra consolidamento in
Francia e fermo controllo sui territori portati alla “rigenerazione”.
Ovunque
fosse arrivata la Rivoluzione, si faceva comunque sentire il peso della Carta
del 1795, variamente aggirato ogni qual volta i contrasti tra legislativo ed
esecutivo si esprimessero troppo acutamente. Rivoluzione e nazionalità, volontà
generale e governabilità apparivano ormai difficilmente sintetizzabili.
Le
vittorie della Seconda coalizione e il crollo delle “repubbliche sorelle”, nel
1799, davano ragione sia ai nemici della modernità, sia a quanti, all’interno
del “giacobinismo”, avvertivano da tempo la necessità di nuove soluzioni
costituzionali e istituzionali.
La ricerca della stabilità diventò allora il primo
punto all’ordine del giorno.
Brumaio aprì quella transizione “dal Consolato
all’Impero” lungo la quale l’ordine repubblicano, scisso dalla libertà, si
sarebbe dispiegato fin nella cornice della monarchia amministrativa.
Anch’essa,
come già la repubblica, fu ‘esportata’ al di là delle Alpi, e avrebbe negli
anni appagato parecchi “giacobini” (auto)critici, preparando peraltro, nel
Mezzogiorno, la stagione rivoluzionaria del 1820.
Per altri, per il nocciolo duro del
democratismo tremendamente frustrato dall’esito costituzionale del 1802,
Brumaio avrebbe dovuto invece evolvere in una ripresa accelerata della
‘esportazione’ di democrazia, suggellata dalla proclamazione di repubbliche
indipendenti.
Per
tutti comunque si apriva, auspicata in Italia dal Saggio storico di “Cuoco”,
una lunga stagione di riflessione che avrebbe condotto ad interrogarsi su
quanto di originale vi era nella vicenda nazionale, e su come ciò potesse
conciliarsi con le novità (troppo) violentemente e tempestosamente imposte dai
generali dell’Armée.
La
riconciliazione di nazione e libertà sarebbe passata attraverso altri nodi; il
concetto stesso di libertà avrebbe definitivamente rotto i ponti, non solo nel
moderatismo, con la pregiudiziale ‘robespierrista’ che si vedeva allignare nel
“giacobinismo” del Triennio e che contraddiceva all’origine la buona eredità
illuministica e le sue possibilità di successo.
Si
pone, a questo punto, il problema della memoria del 1799.
Una memoria che, portandosi dietro l’onere di
dialettiche irrisolte con la Grande Nazione e di processi di
repubblicanizzazione imposta con grande celerità, si rivela necessariamente
divisa.
La
stagione “giacobina” sopravvive concretamente in quello che potrà rimanere in
piedi dell’architettura istituzionale rivoluzionaria e nelle priorità del
liberalismo ottocentesco.
La libertà, tuttavia, si salda in maniera più
stretta – e più diretta – con la nazionalità, rendendo urgenti strategie di
ricomposizione e rielaborazione condivisa.
È quanto accade nella Confederazione Elvetica,
il cui Verfassungspatriotismus si rivela però estremamente debole nel suo
tentativo di recuperare da una parte le premesse autoctone e, dall’altra, di
post-datare la “rigenerazione” nazionale al 1848.
È
quanto avviene in Olanda dopo la restaurazione orangista, allorché il ritorno
del ‘principio nazionale’ monarchico permette, salva la buona eredità
rivoluzionaria, di superare il dissidio tra filo francesi e filo britannici nel
trionfo di un patriottismo scevro da compromettenti connivenze internazionali.
E in Italia?
La
memoria del 1799, è noto, ha rappresentato uno dei nodi più sofferti e
controversi, intrecciata com’era in modo estremamente critico alla storia del
Risorgimento nazionale.
Essa forniva d’altro canto al Mezzogiorno un
titolo di ammissione inestimabile ai primordi del moto unitario, oltre che
porgli un plesso di quesiti cruciali circa i limiti della propria ‘vocazione’
alla civiltà liberal-democratica.
A partire da “Cuoco”, il patriottismo
risorgimentale ha elaborato una memoria selettiva o apertamente critica della
fine del XVIII secolo, recuperando piuttosto la stagione del riformismo
autoctono.
Questo,
a sua volta, dovette piegarsi alla critica di un Villari, fautore di una
serrata – e fortunata, nella mentalità e nella storiografia - stigmatizzazione
delle élites meridionali.
Indigesto
al sabaudismo trionfante, ma anche al “conciliatorismo” crispino e al
mazzinianesimo della Società per la storia del Risorgimento, il Novantanove
rimase tuttavia patrimonio genetico inestinguibile per il Sud, anche in quelle
province che avevano sperimentato più drammaticamente le insufficienze della
repubblicanizzazione, la persistenza dei poteri tradizionali, l’incolmabilità
della distanza tra “patrioti” e “plebe”.
La
memoria del Novantanove servì, adeguatamente corretta e ‘moderata’ a
legittimare l’ascesa di dinastie politiche; a fornire ad élites democratiche,
defilate tra 1848 e 1861, gli strumenti per rimpiazzare gradualmente i
potentati borbonici; a corroborare di patrimonio simbolico la battaglia contro
le tentazioni autoritarie di fine secolo.
Come
nei cantoni cattolici della Svizzera, come presso i cattolici tedeschi, il
Triennio “giacobino” si riassumeva per i fedeli italiani nell’“oltraggio”
perpetrato a Pio VI.
E di
questa memoria dolorosa si servirono abbondantemente i pontefici della Restaurazione,
allineati al progetto “zelante” di ricristianizzazione della società, fino a
Pio IX, la cui ‘fondazione’ del culto mariano affondava le radici proprio nella
battaglia a tutto campo contro il repubblicanesimo empio e invasore del 1798-99
e del 1849.
Per la
Francia, costruire la memoria del 1799 ha significato innanzi tutto provvedere
alla elaborazione di Brumaio.
Fortemente
voluta dallo stesso Bonaparte, essa presentò non pochi problemi e, soprattutto,
permise di aprire - tra le pieghe di récits prudentemente misurati – la breccia
per più di un lungimirante motivo critico.
Le interpretazioni furono tante e le
“deduzioni” variamente motivate: Brumaio come riparazione alla irresponsabilità
della borghesia, Brumaio come unica soluzione alle esigenze di politica
internazionale, Brumaio come provvidenziale saldatura tra libertà e ordine.
Per
gli storici di oggi, però, si pone il problema di distinguere tra
modellizzazioni eccessivamente acritiche e sistemi politici e costituzionali
concretamente esistiti (o esistenti).
Così,
mentre è utile riprendere le tesi di Tocqueville per spiegare il passaggio –
ricorrente nella storia francese – dalla democrazia all’autoritarismo (nella
forma del cesarismo), pare altrettanto doveroso abbattere ogni pretesa di
continuità ideale tra il giacobinismo rivoluzionario e l’antiparlamentarismo
conservatore.
Scisso
dall’idea di libertà, il secondo ha legami col primo solo in quanto
quest’ultimo è fatalmente sfociato nello Stato amministrativo, delegando
all’esecutivo gran parte delle funzioni originariamente riservate alle
assemblee espresse dalla volontà generale.
Considerando
la regolarità e la correttezza con cui si svolgevano le elezioni politiche e la
garanzia dell’assunzione di responsabilità, assieme alla durata limitata del
mandato presidenziale, sembra inoltre scorretto ammettere tra i cesarismi anche
il gaullismo.
Per
questo, conviene coniare piuttosto la definizione di “repubblica autoritaria”,
che rende giustizia al ruolo non formale assicurato alla “volontà generale”.
3.
Nazione, Nazioni.
Percorso
tortuoso, quello della liberal-democrazia originata dalla Rivoluzione francese.
Continuamente
minacciata dalle contraddizioni che essa stessa ha lasciato irrisolte – tanto
che è ancora necessario interrogarsi e interrogare i testi per comprendere
appieno il significato e il posto attribuiti alla “libertà” e alla “volontà
generale” -, essa ha subito ovunque riformulazioni, interruzioni, negazioni,
dolorose quanto necessarie per avvincerla più indissolubilmente all’idea
moderna di nazione politica.
Anche
quest’ultima, peraltro, si rivela essere un patrimonio tutt’altro che
unanimemente condiviso e ineluttabilmente trionfante, se solo ci si accosta con
occhio disincantato ai discorsi sulla crisi dello Stato nazionale e se ne
rintracciano le radici (socioeconomiche, ma anche culturali)
sette-ottocentesche.
L’individuazione,
con prosopografica esattezza, dei già molto denunciati limiti del
“giacobinismo” italiano, e in particolare di quello meridionale, introduce di
per sé il quesito su quanto avveniva – dando prova di coriacea resistenza - al
di fuori di quel perimetro.
Nel caso teramano, in un contesto di totale
contrapposizione tra realtà urbana e dominante componente rurale, proprio le
lacune del riformismo borbonico avevano predisposto le basi materiali
dell’incomunicabilità tra “giacobini” e antico regime, tra democratici e masse
popolari.
La
controrivoluzione godeva, qui e altrove, di autonome forme organizzative e
discorsivo-simboliche, che nel tempo – con evidente accelerazione a datare dal
regicidio d’Oltralpe – avevano saputo incamerare, mutuare e tradurre in un
controcanto per nulla pedissequo certe manifestazioni della modernità auspicate
già dall’illuminismo, come le forme accademiche e il latomismo massonico.
Del campo avverso una struttura
controrivoluzionaria come l’Accademia Sebezia poteva recuperare anche una parte
della composizione sociale;
per il
resto, si trattava di una associazione rigidamente gerarchizzata che, aprendo
la “base” anche alle donne, ospitava ai massimi vertici i portavoce del
legittimismo nobiliare e clericale, e annoverava tra i membri onorari niente
meno che i Borboni e il pontefice in persona.
Emancipata
dalle teleologie forgiate dai vincitori, la contemporaneità si presenta anche
come terreno di scontro tra la Rivoluzione e la Controrivoluzione.
Matrice
del liberalismo politico e culla della democrazia la prima, la seconda si è
prestata ad una indebita liquidazione come fenomeno circoscritto nel tempo e
nello spazio, residuale in ogni sua manifestazione.
E in effetti, nella gran parte dei casi, i
programmi e la memoria controrivoluzionari non hanno conservato nel XX secolo
che consensi risicati o fruizioni riservate a nicchie defilate e
autoreferenziali, inidonee a misurarsi con le regole della democrazia e quindi
destinate, tranne che in caso di reviviscenze eclatanti, all’oblio degli
osservatori e dell’opinione pubblica.
La
storiografia ha condiviso solo in parte tale oblio. L’interesse per la
controrivoluzione, come per ogni altra tematica, è oscillato assieme
all’alternarsi di orientamenti e approcci tanto sul piano politico quanto su
quello più interno alla comunità dei professionisti.
Ad introduzione della raccolta su Nazione e
controrivoluzione nell’Europa contemporanea (1799-1848), “Di Rienzo” si
sofferma sui contributi apparsi tra le due guerre, quando l’appropriazione del
Risorgimento rappresentò oggetto di contesa non ‘solo’ tra fascisti e
antifascisti ma anche all’interno degli opposti schieramenti.
Le
insorgenze antifrancesi acquistarono allora titoli di legittimità come
patrimonio genetico del patriottismo/nazionalismo spontaneo delle “plebi”, e
come manifestazione la più chiara dei limiti della rivoluzione ‘importata’.
Non
solo un problema e un ostacolo da superare, dunque, com’era stato per “Cuoco” e
per la democrazia ottocentesca:
le insorgenze potevano prestarsi ad arricchire
il discorso del fascismo di sinistra, ridare linfa al cattolicesimo intransigente, essere persino
ammesse - oculatamente selezionate - nella memoria liberal-democratica e nel
dna resistenziale.
Di più: della riflessione gramsciana poteva
giovarsi, dopo il tramonto dell’unità ciellenista, l’antirisorgimentismo comunista.
In
seguito, a parere di “Di Rienzo”, hanno avuto la meglio le letture
pregiudizialmente univoche della storiografia liberal-moderata ‘ortodossa’, di
quella “demoradicale” e, sulla scorta di Gramsci, di quella che viene definita
la “sinistra
storiografica” e verso cui sono espressi qui giudizi a nostro avviso affatto
ingenerosi.
Di
contro, certo favorita dalla pressione dell’attualità, una nuova storiografia,
disposta a recepire la dimensione internazionale, la capacità organizzativa,
l’importanza della collocazione spaziale, il pragmatismo discorsivo e operativo
della controrivoluzione, si è fatta strada nel dibattito europeo acquisendo
infine piena dignità istituzionale.
Interessato
al Mezzogiorno d’Italia, “De Francesco” rintraccia nella cultura politica
otto-novecentesca l’epifania di un nesso causale frettolosamente tracciato fra
la “naturale” indole antidemocratica – poi antirisorgimentale tout court –
attribuita a quelle “plebi” e l’immane consenso raccolto dal sanfedismo.
Si
tratta di un nesso improprio che, estraneo al patrimonio democratico
ottocentesco (da Mazzini a Pisacane), equivocamente anticipato dalla apologia
nazionalista delle insorgenze antifrancesi (da “Rodolico” al fascismo “di
sinistra”), ha finito per confluire nello strumentario dell’antirisorgimento.
Al
contempo, nel campo avverso non si sono colte le riflessioni di “Lumbros”o
sulla natura classista delle insorgenze, né si sono approfondite le critiche
dei “Ferrero”, “Lombroso”, “Turiello” e “Salvemini” che, da diversa posizione,
stigmatizzavano piuttosto l’accentramento amministrativo e la passività del
democratismo autoctono di fronte a direttive e modelli francesi.
Il
pionieristico e a lungo inimitato approccio lumbrosiano rivive nel lungo saggio
che “Cirillo “dedica al “sanfedismo”.
Qui si pone particolarmente l’accento sul
risultato conseguito dalla controrivoluzione – grazie anche al ‘cemento’ della
religione - nella ricerca di un’adesione diversificata:
ciò
che di fatto non riuscì ai “giacobini”.
D’altra
parte l’autore, esperto conoscitore della realtà socio-economica di antico
regime, insiste pure sulla specificità del retroterra pre-rivoluzionario, già
minato dall’emergere dell’individualismo agrario e dalla lotta tra clan feudali
in crisi.
Il”
familismo” e il “clientelismo”, in altre parole, devono spiegare gran parte
delle oltre cinquantamila adesioni su cui poté contare l’”esercito sanfedista”.
Che
gli stessi fossero poi alla base di un’agenda di rivendicazioni per nulla
compiacenti verso “Ferdinando IV”, lo dimostra il fatto – su cui finora si è
forse troppo poco insistito – che lo zelo controrivoluzionario fu presentato
come credito da riscuotere proprio presso la legittima monarchia, come
‘servizio’ da barattare con lo sconfessa mento del riformismo da parte del
Borbone .
“Familismo”
e” localismo” furono determinanti anche nel caso della prima rivolta vandeana, assieme al malessere sociale
e ad un attaccamento alla religione tradizionale che, di fatto, costituisce la
cifra distintiva di questo “fenomeno antirivoluzionario”.
Già
autore di importanti studi sulla costruzione del “mito” vandeano, anche in
questo contributo “Martin” prosegue oltre l’epoca della prima – e più famosa – “guerra
vandeana”, per seguire le mutazioni ottocentesche della cultura politica
regionale.
Essa diventa pienamente controrivoluzionaria
solo presso le élites, il cui “ralliement” completo alla dinastia borbonica si
fa attendere sino all’avvento al trono di “Carlo X”, e che dopo “le Tre
Gloriose” tornano ad organizzare, generosamente finanziate dalla duchessa di
Berry, il malcontento popolare all’interno di un progetto nazionale
antagonista.
All’indomani
della pacificazione (1832), élites e masse rientrano nei rispettivi ranghi,
destinate a incontrarsi solo allorché eventi particolari spingano le prime
all’interventismo.
Ormai
avviate ad una politicizzazione autonoma, maturata oltre il ricorso al
legittimismo filoborbonico e alla religione cattolica, le comunità rurali della
Vandea andarono ad ingrossare, nel corso del secolo, le ‘truppe’ dei “miguelisti”
e dei “carlisti”, partecipando ad una autentica “internazionale controrivoluzionaria”
ben organizzata e soprattutto forte di un progetto di “nation building” in
grado di superare le motivazioni particolaristiche di natura socio-economica.
Legittimismo,
cattolicesimo, xenofobia popolare: puntelli teorici e programmatici condivisi dal
carlismo spagnolo, noto per aver sostenuto vere e proprie guerre civili
(1833-40 e 1872-76) contro le forze liberali e i loro “tutori” britannici.
A
differenza di altri movimenti, tuttavia, il “carlismo” è stato in grado di
penetrare presso i ceti urbani e di integrare le voci del capitalismo atterrito
dagli ‘spettri’ della democrazia.
Sono coesistiti dunque un carlismo
rurale-popolare e un carlismo borghese.
Insieme, essi hanno assicurato al partito
carlista buona parte dei voti del malcontento di destra e di sinistra.
La
sfida elettorale poteva risolversi così positivamente solo a costo (o in virtù)
di una estrema generalizzazione dell’agenda politica, ridottasi in pratica
all’opposizione sistematica alle forze di governo;
e
tramite il ricorso a strategie speculari, dalla costituzione di un corpo
paramilitare (una sorta di guardia nazionale sui generis) alla diffusione di
associazioni e circoli, all’elaborazione di una moderna propaganda.
Di un
tale pragmatismo e mimetismo non furono invece capaci i “miguelisti”, il cui
partito non sopravvisse agli anni 1880.
Prodotto
della convergenza dei nemici della monarchia liberale, come il “carlismo”, ma
tenuto assieme da un legittimismo assai più tenue e discutibile, il” miguelismo”
non superò davvero la prova della guerra civile, dalla quale uscì sconfitto nel
1834.
I suoi ‘quadri’ si barcamenarono in seguito
tra progetti insurrezionali e via parlamentare.
Né i primi né la seconda potevano però aver
successo, data l’esiziale incapacità – e qui sta lo scarto dirimente rispetto
al carlismo - di captare l’ostilità allo Stato liberale pur massicciamente
manifestata da diverse frange popolari.
4. La
costruzione dell’“altro”: una variabile nel tempo e nello spazio.
I
case-studies analizzati dagli storici delle controrivoluzioni, al pari di
quelli presi in esame dagli autori che hanno dato conto del 1799 in miniatura –
così si intitola la terza sezione degli atti curati da “De Francesco” –
obbligano a riflettere sulle scale diverse e talvolta concorrenti sulle quali
si sono articolati, nel dopo-Rivoluzione francese, sentimenti di appartenenza e
patrimoni identitari.
La
nazione non surclassa la patria, come è stato già dimostrato.
La
patria, anzi, può a sua volta fungere da punto di partenza per un nuovo
discorso nazionale.
Ciò è avvenuto non solo nel campo illiberale.
Dall’ottica
‘locale’, al contrario, sono scaturiti programmi di prima fila del Risorgimento
italiano, da quello dei moderati toscani ai federalismi democratici.
Le
identità, si potrebbe dire, si distribuiscono – diversificate e talvolta
antitetiche – sulla mappa spaziale, nazionale ed europea, concretandosi quasi
come prodotto vettoriale di profili sociali, vocazioni produttive e memorie
storiche.
Rispetto
ai discorsi politici dominanti e alle “master narratives” storiografiche, ogni
comunità politica sub-nazionale denuncia scarti peculiari, variabili nel tempo
tra i poli opposti (ma invero più ideali che reali) del pieno conformismo e del
dissenso radicale.
La
democrazia ha
rappresentato tra XVIII e XIX secolo il motivo di un confronto particolarmente
energico tra questi campi in tensione, muovendo ad ogni livello a complesse
elaborazioni positive o negative del patrimonio rivoluzionario, del “fenomeno
giacobino”, della espansione francese in armi.
La
presenza tangibile o incombente dell’“altro”, in questo caso la Francia, è
stata determinante per la nascita dei movimenti nazionali, e ha contribuito non
poco a forgiare attitudini e comportamenti rispetto alla democrazia prima, alla
“monarchia amministrativa” poi.
Nella
cultura politica della penisola, comunque, un altro travagliato processo di
interpretazione e riassorbimento era in atto nel XVIII secolo, e avrebbe
affiancato in epoca romantica la riflessione sull’età francese.
L’“altro”
in questione era ovviamente la Spagna asburgica, che tra XVI e inizio XVIII
secolo aveva dato il tono alla vita politica italiana, e alla quale andava
attribuita una metà della responsabilità dell’alleanza Trono-Altare ripugnante
alla “mentalità illuminista”.
Come sottolinea “Musi” nel saggio introduttivo
alla raccolta su Anti spagnolismo e identità italiana, questi rilievi critici
hanno conosciuto una fase di univoca esaltazione piuttosto circoscritta nel
tempo, e non unanimemente condivisa nello spazio.
Vale a
dire che il paradigma della decadenza, consegnato alle giovani generazioni dello
Stato liberale dalla Storia di “Francesco De Sanctis”, rappresenta un motivo
tipicamente risorgimentale, complementare al medievalismo romantico e alla
riscoperta storiografica e politica della civiltà comunale.
Come
la cultura antigiacobina e nazionalista con le insorgenze antifrancesi, così il
movimento liberal-patriottico ottocentesco ha edificato sull’anti spagnolismo
una galleria del proto nazionalismo popolare o illustre – da Masaniello a
Galilei – sorvolando sul contesto generale e ancor più sulle pieghe meno
addomesticabili dei fatti.
L’anti
spagnolismo, promosso allora ad autentico stereotipo, poteva in seguito fornire
anche una (facile) spiegazione dell’indole antidemocratica, immobilista,
spontaneamente reazionaria del Mezzogiorno in generale, delle sue aristocrazie
e delle sue “plebi” in particolare.
La dominazione spagnola era stata dunque all’origine di tutti
i mali, ossia della decadenza morale e addirittura antropologica prima ancora
che economica, politica e intellettuale di buona parte della nazione italiana.
Di
ciò, sosteneva il patriottismo risorgimentale, sarebbero stati consapevoli per
primi i razionalisti del ’700, ai quali non casualmente si doveva il conio del
termine “Risorgimento”.
Il
discorso anti spagnolista, come detto, era destinato ad ampia e fortunata
diffusione; e, a metà ’900, esso sarebbe confluito – auspice l’opera di “Gabriele
Pepe” – nella storiografia gramsciana-marxista.
Tuttavia
è agevole dimostrare, tornando con occhio critico sulle scene e sugli scritti
dei due secoli precedenti, che lo stesso ebbe dei limiti non meno significativi
delle dimensioni del suo successo.
Oggetto
di una disamina squisitamente tecnico-amministrativa da parte dei razionalisti
e riformatori meridionali del primo ’700 – una critica più forte emerge solo
nella “fase tanucciana” e solo presso specifiche realtà borghesi, diventando
radicalismo in epoca ormai “giacobina” – la dominazione spagnola era un vero e
proprio problema per altri italiani: per quanti, dalla” Roma arcadica” alla “Lombardia”
al “Veneto”, si confrontarono con l’ostilità e la diffidenza della Repubblica
europea delle lettere.
La legittimazione della tradizione culturale
nazionale è ancora l’esigenza che determina il pronto accoglimento delle tesi
di “Mme de Stae”l e di “Simonde de Sismondi “nell’Italia degli anni 1810,
attraversata dai fremiti dell’anelito unitario e indipendentista.
Motivi
simili, del resto, erano stati alla base dell’anti spagnolismo portato a Roma
dai gesuiti ispano-americani scacciati nel 1767.
Anch’esso
aveva attraversato la parabola dall’illuminismo al romanticismo, e da disamina
“tecnica” del malgoverno spagnolo si era tradotto ad inizio ’800 in una critica
del colonialismo tout court quale oltraggio al diritto di autodeterminazione
dei popoli e delle nazioni.
La legittimazione alla libertà politica,
ricercata dal patriottismo italiano attraverso la cultura storica (fino alla
sublimazione romanzesca de I Promessi Sposi), l’indipendentismo
latino-americano la stava vivendo, tra anni 1810 e 1820, come moto di
liberazione da un dominatore ormai straniero.
Il
“canone” anti spagnolista romantico-risorgimentale fu fatto proprio dalla
cultura genovese tramite l’opera di “Michele Giuseppe Canale”, giornalista
mazziniano passato poi nel campo filosabaudo e dal 1857 primo presidente della “Società
ligure di storia patria”.
Il medievalismo, essenziale contraltare dialettico
dell’anti spagnolismo, consisteva in questo caso nella glorificazione della
repubblica marinara e della potenza commerciale, ‘svendute’ al tiranno iberico
dall’ignavia e dalla corruzione dell’oligarchia cinquecentesca.
Paradigma
chiaramente democratico e squisitamente borghese, esso doveva incontrare
qualche confutazione nell’opera di “Massimiliano Spinola”, portavoce da parte
sua di una memoria patrizia che molto teneva a riabilitare la figura di “Doria”
e la condotta dell’élite repubblicana nell’età di “Filippo II”.
Lo
spagnolismo “cetuale” di Spinola non trovò zelanti prosecutori e la lezione di “Canale”
passò facilmente a vulgata dominante.
Nella cultura veneta l’anti spagnolismo
denunciava, al contrario, una forte matrice patrizia, trascorsa senza problemi
dall’autocelebrazione della decaduta oligarchia alla storiografia romantica di “Gabotto”,
e ancor viva presso la prima generazione della storia ‘scientifica’ della
Serenissima - da “Ivo Raulich” a “Roberto Cessi”.
La
ferrea tenuta dell’anti spagnolismo, e la sua diffusione affatto ‘trasversale’
si spiegano, in questo caso, con la storia del governo veneziano di età
moderna:
a
differenza di quello genovese, il patriziato lagunare contava infatti su una
memoria di fiero autonomismo, unico nella penisola di epoca barocca, rispetto
alla potenza asburgica.
Venezia
non aveva in fondo troppo condiviso la decadenza che aveva piegato il resto
d’Italia.
L’anti
spagnolismo, e con esso l’età moderna, potevano così essere assunti come
patrimonio identitario unanimemente condiviso, in piena continuità con
splendori medievali.
L’anti
spagnolismo tanto funzionale alle élites veneziane risultava invece alieno a
quelle siciliane allineate nel fronte secessionista.
La memoria del “Parlamento di Palermo” aveva
sostenuto ogni manifestazione di questi gruppi, a datare dalla Costituzione del
1812 e dalla sollevazione anti napoletana di quella ‘capitale’ nel 1820.
Al
secessionismo palermitano faceva anzi comodo lo spagnolismo, dato che i veri
oltraggi alla dignità isolana si erano consumati per altre mani, da quelle
murattiane a quelle piemontesi.
Infatti,
la “Società storica palermitana” non tardò ad assumere un volto peculiare
nell’arcipelago delle istituzioni di storia locale: poco medievalista, essa
privilegiò la memoria di età moderna, mettendo a tacere le deboli voci
dissenzienti.
Di
questo spagnolismo - non del tutto artificiosamente opportunista - si sarebbe
servito il separatismo degli anni 1940, e lo stesso avrebbe sostenuto col suo
repertorio simbolico la costituzione della regione autonoma (1946).
Nel
caso “sardo”, a sua volta eccentrico, l’anti spagnolismo doveva fare tutt’uno
con l’anti piemontesismo presso le opposizioni democratiche o, all’opposto,
presso i ceti vittime della de-feudalizzazione;
mentre
per le élites dello Stato e per il moderatismo nobiliare il 1720 segnava –
coerentemente con la vulgata risorgimentale - la fine della decadenza, tanto
isolana quanto nazionale.
Dopo
il 1861, la presunta monoliticità dell’anti spagnolismo romantico si trovò
costretto anche altrove a fare i conti con la ricezione della
“piemontesizzazione”.
La
causa delle identità poteva eleggere, a seconda del vissuto storico,
altrettanto bene la Spagna e lo Stato sabaudo a poli negativi, a fautori della
decadenza regionale.
I
tempi della storia locale, insomma, erano stati diversi e concretamente
irriducibili alle scansioni del passato comune codificate a partire da “Mme de
Stael” e da “Sismondi”.
L’impatto,
al contempo critico e innovatore, che sulla storia locale siciliana o genovese
ebbe la “Mediterranee di Braudel”, sulla storia della Lombardia spagnola fu
esercitato a partire dalle ricerche di “Chabod” e dall’affermazione di un nuovo
approccio socio-istituzionale votato alla confutazione di miti proto
nazionalisti che non tenevano conto dell’osmosi intervenuta tra istituzioni
asburgiche ed élites dominate.
Un tale “revisionismo” contribuiva ad
allineare la nuova storiografia lombarda alla lezione affermatasi con” Galasso”
per il Mezzogiorno, obbligando a individuare nella loro effettiva consistenza e
importanza tanto le interazioni tra dominante e dominati, quanto lo specifico
dei contesti sub-regionali.
È
dunque riemersa, a partire dagli anni 1970, la tesi già crociana sull’importanza
della ‘statalizzazione’ come portato positivo dell’età spagnola.
Al
contempo si consumavano gli ultimi fasti del paradigma – “desanctisiano” e poi “gentiliano”,
nelle sue massime espressioni - della decadenza; ed entrava in crisi anche quello
gramsciano.
La
vicenda storica e culturale italiana ha potuto e dovuto uscire dal “dorato”
isolamento a cui l’ha costretta l’ipoteca risorgimentale, e confrontarsi con
discorsi finora pressoché ignorati:
quello
al contempo anti-asburgico e anti-imperiale dei giuristi di Salamanca (vivace
fin dal XVI secolo);
o lo
speciale spagnolismo forgiato al cadere del ’700 dagli oppositori della
rivoluzione “giacobina”;
o il
contro-mito della “Leyenda Negra”, col quale gli spagnoli di inizio ’900 hanno
tentato di demolire alle radici l’ingrato anti spagnolismo italiano.
5. Il
Novantanove napoletano: l’evento e il discorso tra Mezzogiorno, Italia ed
Europa.
L’anti
spagnolismo romantico si diffuse nella cultura liberale napoletana dopo il
fallimento e la soppressione dei noni Mestre costituzionale, ma divenne
incontrastato nelle sue declinazioni antiborboniche solo all’indomani del
tragico 15 maggio 1848.
Scatenando le masse popolari contro il
Parlamento e dando il via alla feroce repressione nelle province, “Ferdinando
II” ‘meritò’ di concentrare su di sé e sui propri discendenti il patrimonio di
critiche (e ora anche di “miti”) che escludevano la conciliabilità tra
l’ingresso del Mezzogiorno nella modernità e la permanenza della legittima
dinastia.
Liquidata
con questa anche la stagione del riformismo, si ricorreva a “Cuoco” e a “Sismondi”
per postulare la necessità di una rottura completa col passato e col presente,
nella nuova coscienza – estranea al ceto murattiano e allo spagnolismo
romantico che aveva celebrato la “Costituzione di Cadice” – delle conseguenze
particolarmente nefaste prodotte dalla ‘lunga decadenza’ sul Mezzogiorno.
Il
1848 segnerebbe dunque il termine a quo dell’allineamento, definitivo e
incontrastato, del liberal-democratismo meridionale al “canone” del movimento
unitario.
Il 1848, d’altra parte, sarà chiamato a segnare,
in tanta memoria post-unitaria, l’inizio autentico del Risorgimento come
eclatante manifestazione di una unanime tensione alla libertà e all’unità.
Già
accantonate le origini “giacobine”, crollato ora il “neoguelfismo”, imminente
il “tramonto del repubblicanesimo mazziniano” e l’esito tragico dell’”insurrezionalismo
meridionalista di Pisacane”, di lì a poco il consenso si sarebbe appuntato sul “Piemonte
cavouriano”:
su un Nord che molto faceva pesare il ritardo
del Sud, i legati esiziali della ri-feudalizzazione e le ripetute prove della
ingovernabilità delle sue masse.
Accantonate
nella vulgata le più fini analisi socio-economiche, rigettate le critiche alla
“piemontesizzazione”, il Mezzogiorno avrebbe pagato, come detto, lo scotto
della deriva antropologizzante di certo anti spagnolismo romantico.
E la memoria del Novantanove, con i suoi
martiri della libertà, con i suoi promotori di un Risorgimento al contempo
meridionale e nazionale, si sarebbe trovata esposta ad una non facile contesa
contro le liquidazioni di chi guardava acriticamente al trionfo del sanfedismo,
alla sollevazione del 15 maggio, alla “tragedia di Sapri” e all’indomito
dilagare del brigantaggio anti-unitario.
Non
pochi, a partire da “Croce”, si assunsero l’onere e la missione di reintegrare
appieno il Sud nell’epopea risorgimentale;
e la memoria “giacobina”, abbiamo visto, fu
oggetto di rivendicazione da parte della classe politica meridionale, o servì a
questa per legittimarsi come ceto dirigente locale.
La
controrivoluzione del 1799, lungi dall’essere ricostruita e spiegata nella sua
natura al contempo anti-riformista e anti-democratica, fu piegata alle più
varie strumentalizzazioni che, tutte, convergevano nell’attribuire al
Mezzogiorno l’ingrata qualifica di “culla dell’anti risorgimento”.
Su
tutti questi nodi si sofferma la rilettura della “Repubblica napoletana”
presentata da “De Francesco”, sicuramente uno tra i maggiori studiosi del
democratismo europeo tra “Grande Révolution” e “cultura politica romantica”,
già presente con propri contributi nei tre convegni.
Come a
sottolineare più fortemente la continuità con gli altri titoli della collana,
l’autore accoglie le esigenze critiche e analitiche emerse negli incontri del
1999-2002, e molto si sofferma a ripercorrere, contestualizzandoli, i
principali discorsi storiografici che l’hanno preceduto.
L’evento-Novantanove
è qui (ri)collocato nella più lunga durata dell’apogeo e crisi del riformismo
borbonico;
il Mezzogiorno è analizzato al contempo come realtà
specifica e come parte di un sistema nazionale e internazionale dalle tante
variabili;
i “lazzari” e i “sanfedisti” sono considerati
come componente di un fenomeno – le insorgenze antifrancesi – comune all’Europa
repubblicanizzata.
Si
pongono così con maggior chiarezza altri e più generali problemi, peraltro non
solo meridionali e già individuati da “Cuoco” o da “Croce”: la resistenza
all’affermazione dello Stato moderno, le ragioni strutturali dell’inquietudine
delle masse, il sottovalutato dinamismo del” fronte controrivoluzionari”o.
Come
messo in risalto nei contributi sulla “Repubblica Romana”, sugli esuli e su “Foscolo”,
una pregiudiziale nazionale era già ben presente nel “giacobinismo” della
penisola ante-Brumaio.
Questa ispirò non solo i modi e le forme della
repubblicanizzazione tra 1797 e 1799.
Determinò
gli orientamenti di politica internazionale, contribuì alla dialettica tra
generali e Direttorio parigino, promosse presso Bonaparte una causa
indipendentista frustrata dall’evoluzione verso l’accentramento imperiale.
Il
“giacobinismo” napoletano, lungi dall’essere sprovveduto e temerario, fin dagli
anni della “Convenzione” partecipava ad una rete internazionale con importanti
agganci nell’opposizione radicale francese;
e
intratteneva dal 1796 intensissimi scambi con il democratismo cisalpino.
Già
nel 1798 i “patrioti” napoletani erano diffidenti verso il governo della “Grande
Nation” tanto quanto erano ostili alla monarchia borbonica.
Quest’ultima, da parte sua, aveva avvertito
che l’”unitarismo propugnato a Milano” poteva rivelarsi anche più pericoloso
della politica tutto sommato cauta del Direttorio;
e provvedette, entrando nella Seconda
Coalizione, a garantire la propria sopravvivenza.
“Ferdinando IV” aveva visto bene, ma azzardò
troppo allorché mosse guerra alla “Repubblica Romana”, finendo, suo malgrado,
per rinsaldare la tenue intesa tra democratismo italiano ed esecutivo parigino.
La “Repubblica
Napoletana” fu l’esito, molto forzato dalla spregiudicatezza di “Championnet”,
della esigenza di auto-difesa da parte della “Grande Nation”, opportunamente
sfruttata dal “giacobinismo” meridionale per condurre in porto il proprio
progetto.
Non
voluta da Parigi, essa si ritrovò presto debole e isolata nel contesto
internazionale, mentre nessuno si nascondeva le particolari asperità cui
sarebbe incorso il processo di democratizzazione in quelle regioni.
Lo
stesso radicalismo locale – impersonato da anni dal ‘mitico’ L’Aubert – cercò
prima di ogni altra cosa la pacificazione e l’avvicinamento dei ceti urbani.
Quanto alle masse popolari, spiazzate dalla
fuga di Ferdinando IV al seguito degli inglesi, esse non riconobbero il nuovo
governo così come non avevano riconosciuto il “provvisorio” autoproclamatosi
all’arrivo dei francesi.
La
distanza tra ceti dirigenti e “plebi” era resa incolmabile da decenni di
riforme sorde alle rimostranze delle comunità.
Il mirabile sforzo pedagogico dei “giacobini”
muoveva appunto in questa direzione; ma, da solo, non poteva ovviamente por
rimedio a certi problemi.
Inviso
a Parigi, instabile all’interno e contrapposto ad una realtà sociale
particolarmente ostica, il “giacobinismo” napoletano non aveva scelta migliore,
dunque, che quella di mediare tra le opposte direttive di ordine e libertà, di
consolidamento e democratizzazione.
La Costituzione preparata da “Mario Pagano”
(già ‘diffidato’ dal Direttorio parigino per il suo radicalismo) era tutto
questo.
Essa era, cioè, la traduzione della
Rivoluzione in un contesto che si sapeva peculiare ma di cui non si disperava
l’emancipazione.
Si prevedeva infatti l’incentivazione della
“pedagogia patriottica” fino ad esiti repressivi addirittura robespierristi;
e, per il presente, ci si rifugiava nel
suffragio censitario postulato dalla Carta dell’Anno III.
Un nuovo istituto, l’”Eforato”, avrebbe
provveduto a dirimere le controversie tra esecutivo e legislativo, facendo
tesoro della lezione offerta dalla Francia post-termidoriana, ma anche
arginando gli effetti dell’‘immaturità’ dell’elettorato.
Un
lavoro alacre, quello dei legislatori napoletani, al quale si affiancò lo zelo
della pubblicistica e del giornalismo educativo.
Muovendosi (o barcamenandosi?) tra radicalismo
e moderatismo, il “giacobinismo” preparava il radicamento della rivoluzione
nelle province.
Queste,
irrisolta ancora l’eversione della feudalità, avevano subito una
dipartimentalizzazione che, abbiamo visto, non aveva se non minimamente
penalizzato attori e reti feudali dalle grandi risorse.
Le
basi materiali dell’anti rivoluzione, già riferite da” Cirillo”, erano
pressoché intatte al di fuori delle mura napoletane;
pressoché
invariato anche l’isolamento delle sparute pattuglie “patriottiche” nelle
realtà urbane.
Scoppiata
la guerra tra Parigi e la Coalizione, venuto meno il supporto militare
francese, la sorte della Repubblica era definitivamente segnata – come quella,
del resto, delle altre “repubbliche sorelle”.
Ma qui
doveva porsi il problema dello straordinario successo numerico del “sanfedismo”,
la cui soluzione va ricercata tanto in quelle basi materiali, quanto nella
particolare abilità dispiegata dal legittimismo meridionale nell’imitare
strutture e “pedagogie” massonico-latomistiche.
La
vicenda della “Sebezia” indagata da “Sannino” acquista ora tutto il suo
significato.
Come
il “patriottismo” meridionale era componente organica di un evoluto movimento
democratico-nazionale, così alla controrivoluzione dev’essere riconosciuto il
‘rango’ di formazione politica dalla notevolissima capacità di presa,
naturalmente proiettato verso un progetto e verso finalità che superavano di
molto la contingenza o la fedeltà alla persona di “Ferdinando IV”.
Per
scongiurare il ripetersi di quel drammatico successo, avrebbe suggerito “Cuoco”,
occorreva estirpare le radici dell’ingovernabilità attraverso strategie di
“rigenerazione” mirate e diversificate.
Dopo il 1821, anche la via della “democrazia
autoritaria” sfociata nella monarchia amministrativa del Decennio si sarebbe
prestata a molte e feroci critiche nel campo patriottico.
La
storia del Mezzogiorno contemporaneo si sarebbe risolta, agli occhi del
liberalismo nazionale, in una sequela di errori e improvvisazioni, il cui fallimento
era determinato all’origine dal portato di tanti secoli sulla mentalità delle
masse.
Semplificazioni e banalizzazioni di un
discorso patriottico già denso di miti e stereotipi all’indomani del
Quarantotto, esse avrebbero posto una pesantissima ipoteca cui assai poco
avrebbe giovato la ‘rivalutazione’ nazional-populista tra le due guerre.
La reintegrazione nella storia nazionale ed
europea del “secolo della libertà” è stata resa possibile – paradossalmente ma
non troppo – dal tramonto del mito stesso del Risorgimento.
Compromesso dalle appropriazioni del fascismo,
ulteriormente indebolito dalla ripresa della linea antirisorgimentale del PCI,
offerto dall’ortodossia gramsciana ad una critica serrata e a tutto campo,
approfondito con diversi strumenti d’analisi il suo esito istituzionale, nuovi
orientamenti sono emersi nella storiografia sulla penisola tra Sette e
Ottocento.
Sgravata
di molti stereotipi relativi all’età moderna a partire dalla lezione di “Braudel”,
alla storia del Mezzogiorno è stato infine ‘restituito’ il posto dovuto anche
in seno ad un “nuovo Risorgimento”, sgravato a sua volta dai più vetusti
schematismi delle opposte teleologie storicistiche.
Una
Proposta “Regale”: Lettera
di “Julian Assange” a “Re Carlo III”
Conoscenzealconfine.it
– (11 Maggio 2023) – Redazione – Julian assange- ci dice:
Il
giornalista detenuto invita il nuovo monarca del Regno Unito, in occasione
della sua incoronazione, a visitare “il suo regno all’interno di un regno”: la
“Prigione” di Sua Maestà “Belmarsh”.
A Sua
Maestà “Re Carlo III”,
nel
giorno dell’incoronazione del mio Sovrano, ritengo dovuto alla Maestà Vostra un
sincero invito a celebrare questo grande evento visitando un vero regno
all’interno del Vostro regno:” la prigione di Sua Maestà Belmarsh”.
Vostra
Maestà senza dubbio ricorderà le sagge parole di un famoso drammaturgo:
“La qualità della misericordia non è forzata.
Scende come dolce pioggia dal cielo sul luogo sottostante”.
Ah, ma
cosa ne può sapere della misericordia il “Bardo”, all’alba dello storico regno
di Vostra Maestà?
Dopotutto,
il valore di una società si può conoscere da come tratta i propri prigionieri,
e in questo, il “Vostro regno” si è certamente distinto.
La
prigione di Vostra Maestà, Belmarsh, si trova al prestigioso indirizzo di “One
Western Way”, Londra, a pochi passi dall’ “Old Royal Naval College” di
Greenwich.
Dev’essere
estremamente piacevole sapere che un’istituzione così stimata porta il Vostro
nome.
È qui
che “687 vostri fedeli sudditi sono incarcerati”, apportando così il proprio
contributo al primato del Regno Unito come la nazione con il più alto numero di
detenuti dell’Europa occidentale.
Come ha recentemente dichiarato il Vostro
nobile governo, il Vostro regno sta attualmente attraversando “la più grande espansione di posti
carcerari in oltre un secolo”, con le sue ambiziose proiezioni che mostrano un aumento
della popolazione carceraria da 82.000 a 106.000 unità entro i prossimi quattro
anni.
Fa davvero una certa impressione.
In
qualità di “prigioniero politico”, detenuto a discrezione di Vostra Maestà, per
conto di un vergognoso sovrano straniero, sono onorato di risiedere tra le mura
di questa istituzione di livello mondiale.
Invero,
il regno di Vostra Maestà non conosce limiti.
Durante
la Vostra visita, avrete l’opportunità di banchettare con le delizie culinarie
preparate per i vostri fedeli sudditi col generoso budget di due sterline al
giorno.
Potrete
gustare le teste di tonno macinate e le onnipresenti formelle ricostituite,
presumibilmente fatte di pollo.
E non preoccupatevi perché, a differenza di
istituzioni minori come “Alcatraz” o “San Quentin”, qui non ci sono pasti
comuni in mensa.
A “Belmarsh”, i prigionieri cenano da soli
nelle loro celle, godendo del proprio pasto nella massima intimità.
Ma, al
di là dei piaceri del palato, posso assicurarvi che “Belmarsh” offre ai vostri
sudditi anche ampie opportunità educative.
Come
si legge in Proverbi, 22:6:
“Inculca
al fanciullo la condotta che deve tenere; anche quando sarà vecchio non se ne
discosterà”.
Osservate
le lunghe code allo sportello delle medicine, dove i detenuti ritirano le
proprie prescrizioni, non su base giornaliera ma bensì tutte in una volta, per
assaporare un’esperienza di “libera uscita” che si espande oltre l’orizzonte.
Vostra
Maestà avrà poi anche l’opportunità di rendere omaggio al mio defunto amico
“Manoel Santos”, un omosessuale che rischiava la deportazione nel “Brasile di
Bolsonaro”, che si è tolto la vita a soli otto metri dalla mia cella, usando
una specie di corda ricavata da lenzuola annodate.
La sua
squisita voce da tenore ora tace per sempre.
Avventurandovi
ulteriormente nelle profondità di “Belmarsh” troverete il luogo più isolato
all’interno delle sue mura:
“Healthcare”, o “Hellcare” come lo chiamano
amorevolmente i suoi abitanti.
Qui resterete incantato dalle sensate regole
pensate per la sicurezza di tutti, come il divieto del gioco degli scacchi, pur
consentendo il gioco molto meno pericoloso della dama.
Nell’abisso
di “ Hellcare” si trova il luogo più gloriosamente edificante di tutta “Belmarsh”,
anzi, dell’intero Regno Unito, dal sublime nome di “Belmarsh End of Life Suite”.
Ascoltando attentamente potrete sentire i
prigionieri gridare “Fratello, morirò qui”, a testimonianza della qualità della
vita e della morte all’interno della vostra prigione.
Ma non
temete, perché tra queste mura troverete anche bellezza. Rifatevi gli occhi
osservando i corvi curiosi che nidificano tra il filo spinato e le centinaia di
topi affamati, di casa a “Belmarsh”.
E se
verrete in primavera, potreste persino intravedere gli anatroccoli schiusi
dalle uova di anatre selvatiche all’interno del cortile della prigione.
Ma non
tardate, perché i topi famelici si accertano presto che le loro vite siano fugaci.
Vi
imploro, re Carlo, di visitare la prigione di Sua Maestà “Belmarsh”, poiché è
un onore che si addice a un re.
Mentre
iniziate il Vostro regno, ricordate sempre le parole della “Bibbia di Re
Giacomo”: “Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia” (Matteo
5:7).
E
possa la misericordia essere la luce guida del Vostro regno, sia all’interno
che all’esterno delle mura di “Belmarsh”.
Il
Vostro devoto suddito, “Julian Assange”.
(declassifieduk.org/a-kingly-proposal-letter-from-julian-assange-to-king-charles-iii/).
Devianza
da Manuale.
Conoscenzealconfine.it
- (10 Maggio 2023) - Massimo Negrotti – ci dice:
Durante
un servizio televisivo sul blocco stradale attuato dai soliti ragazzi
ossessionati dal “Global Warming” si sente una giovane rivolgersi a un
poliziotto, intento a spostarla di peso, dicendo:
“Non potete trattarci così”.
Una
bella pretesa, negata però agli automobilisti bloccati, trattati così da un
manipolo di saputelli persuasi che sia loro diritto, e persino dovere,
combinare qualcosa di eclatante per stimolare la politica ad agire per
“salvare” l’umanità (cosa che tra l’altro i governi stanno già facendo…
mettendo la gente in ginocchio con auto elettriche, case da ristrutturare ecc.
secondo i dettami green…).
E allora cosa chiedono?
Quello
che il potere sta già facendo? …
Dopo i
nazi-pandemici, i nazi-russofobici, ora abbiamo anche i nazi-climatici… Fanno i
trasgressivi ma sono proprio come il sistema vuole… ma loro, forse… non lo
sanno!
Ma
veramente… c’è ancora qualcuno che se la beve? – (nota di conoscenze al confine).
Altrettanto,
vari importanti scultori, pittori e architetti le cui opere sono state
recentemente imbrattate, certamente si staranno lamentando, dall’aldilà, per il
trattamento ricevuto.
È
inutile negarlo:
siamo
di fronte a un abuso della libertà di espressione che trova le sue radici in un
atteggiamento trasgressivo che invariabilmente punta, adottando i termini del
gergo sessantottino, alla contestazione dell’esistente.
Il
tutto in nome di verità ritenute indiscutibili e tali da giustificare ogni forma
di devianza con la certezza, fra l’altro, di trovare il sostegno di
commentatori pronti, come al solito, a cavalcare la ribellione in nome di un
interessato buonismo di maniera. (Ben pagato! N.D.R.)
Una
situazione che può solo essere ricollegata, adottando la visione di “Émile
Durkheim”, alla crescente anomia della società contemporanea, ossia alla
progressiva eclissi di norme sociali stabili e condivise.
Il fatto è che fenomeni del genere tendono a
ripetersi secondo la stessa strategia da manuale:
progettare
qualcosa di altamente trasgressivo per ottenere visibilità e propagandare le
proprie idee sfondando il muro dell’indifferenza e del disinteresse.
I
gesti da compiere non devono essere violenti verso le persone e dunque vengono
accuratamente esclusi atti di aggressione fisica contro gli altri ma non contro
le cose, escluse le proprie.
L’obiettivo
deve essere simbolico, come, appunto, le opere d’arte o architettoniche, che
non possono né reagire né protestare.
Non si devono però escludere possibili
escalation che, per esempio, coinvolgano il traffico, nella convinzione che
maggiore è lo scandalo, maggiore sarà l’attenzione che si otterrà.
Contando,
inoltre, sull’efficacia delle immagini, che senza ombra di dubbio verranno
generosamente riversate sull’opinione pubblica dai vari mezzi di comunicazione,
nelle quali si vedranno giovani pacifici e pensanti rimossi da biechi
poliziotti al servizio del potere, sordo repressore di chi propugna la Verità.
Insomma,
un quadro noioso e per certi versi malinconico dal quale traspare l’insipienza
di ragazzi e ragazze che, di volta in volta, aspirano a emergere dalla massa
attraverso un protagonismo in cui le pulsioni aggressive dell’ego prevalgono
nettamente sulla ragione, credendo dogmaticamente di essere i soli a essere
stati folgorati sulla via di Damasco.
In
realtà, strategie di questo genere ottengono l’effetto immediato contrario, ma
poco importa, poiché i mass media provvederanno ad assegnare al movimento ampia
notorietà e i solerti “talk show” faranno il resto. (Profumo di denaro! N.D.R.)
Alla
fine, gli obiettivi ideali non saranno raggiunti in questo modo ma, statene
certi, “qualche pur modesto ma scaltro leader” finirà in Parlamento o in
qualche Consiglio comunale fra “sardine” e “stelle cadenti”.
(Massimo
Negrotti)
(opinione.it/societa/2023/05/08/massimo-negrotti_global-warming-giovani-blocco-stradale-poliziotti/)
Società
multiculturale
di
Göran Therborn - Enciclopedia
delle
scienze sociali.
Treccani.it
– Redazione - Gòran Therborn – scienze sociali - (10-1-2023) – ci dice:
ORIGINI
E USI DEL CONCETTO.
'Multiculturalismo'
e 'multiculturale' sono termini coniati di recente, ma i fenomeni che essi
designano sono tutt'altro che nuovi.
In
passato, le società che oggi definiamo multiculturali erano caratterizzate come
'multinazionali', 'multietniche', 'multiconfessionali', 'multirazziali', o
ancora come 'segmentate', come espressioni di 'pluralismo culturale', di
'diversità culturale', oppure di “mestizaje” (termine usato in America Latina
per indicare le mescolanze razziali).
Il
concetto di multiculturalismo venne coniato in Canada, negli anni sessanta, in
alternativa a quello di biculturalismo (anglo-francese), in quanto più adeguato
a cogliere la situazione e i compiti politici del paese, e nel 1971 venne
adottato ufficialmente nel linguaggio politico.
Dal
Canada la nozione di multiculturalismo si diffuse gradualmente nel resto del
mondo, a cominciare dall'Australia, dove entrò nell'uso negli anni settanta.
Il termine, tuttavia, non risulta registrato
nel VII volume dell'Australian Encyclopedia (1983), e nemmeno nella
Encyclopedia Americana del 1979.
Nell'area
europea si cominciò a parlare di multiculturalismo solo tra la fine degli anni
ottanta e l'inizio degli anni novanta.
Il termine non compare però nella 15 edizione
dell'Encyclopaedia Britannica del 1994, né nella 2 edizione della Gran
Enciclopédia Catalana (1988), e nemmeno nella Swedish National Encyclopedia del
1994, dove 'multikultur' si riferisce ad una tecnica agricola.
Lo si
trova menzionato invece nel “Grand Dictionnaire Encyclopédique Larousse” del
1984-1986, dove peraltro manca un articolo sull'argomento.
Il
lemma è ampiamente trattato, per contro, nella 19 edizione della Brockhaus
Enzyklopädie tedesca (1991).
Nei
volumi del 1989 del Grande Dizionario Enciclopedico dell'UTET la locuzione non
figura, ma a colmare tale lacuna ha provveduto l'Appendice del 1997.
La
Grande Enciclopedia de España al momento (1997) non è ancora arrivata alla lettera
M.
Sinora l'espressione è poco usata al di fuori
del Nordamerica, dell'Oceania e dell'Europa occidentale.
La
nozione di multiculturalismo viene usata fondamentalmente in tre differenti
accezioni o contesti: politico, descrittivo e teorico.
In
primo luogo, si designa con tale termine una politica volta a riconoscere e a
tutelare l'identità culturale e linguistica delle varie componenti etniche
presenti in un dato paese.
È questo il contesto in cui il termine è
apparso originariamente, in Canada, negli anni sessanta.
In
secondo luogo il concetto viene usato con funzioni descrittive o analitiche,
nel pubblico dibattito o nella discussione accademica, in riferimento alla
complessità culturale di una data società nei suoi vari aspetti.
È questo il contesto che ci interessa qui più
direttamente.
Il
terzo contesto è rappresentato infine dalla teoria politica e sociale, in cui
il multiculturalismo viene discusso in rapporto ai problemi concernenti
l'ordine sociale e politico e i diritti che nascono dalla complessità culturale
della società.
Il
crescente interesse che viene manifestato oggi nei confronti del
multiculturalismo, sia come fenomeno empirico che come costrutto teorico,
deriva dalla constatazione che le differenze culturali all'interno della
società di uno Stato o di una nazione tendono ad aumentare anziché a diminuire
o a scomparire.
All'origine di questa tendenza si possono
individuare due ordini di fenomeni e le loro nuove dinamiche.
Il
primo è rappresentato dalle nuove ondate migratorie.
L'immigrazione
non britannica ha minato il biculturalismo anglo-francese in Canada e il mono culturalismo
britannico-europeo in Australia.
Negli
Stati Uniti l'immigrazione europea ha lasciato il posto a flussi extraeuropei
provenienti dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia.
A partire dagli anni sessanta l'Europa è
diventata un continente di immigrazione, e tra la fine degli anni ottanta e
l'inizio degli anni novanta anche l'Italia, la Grecia, il Portogallo, la Spagna
e l'Irlanda, tradizionali paesi di emigrazione, sono diventati approdo di
consistenti comunità di immigrati, in prevalenza non europei.
In un paese tradizionalmente assai omogeneo
dal punto di vista etnico come la Svezia i cittadini nati all'estero
costituiscono il 10% della popolazione - una percentuale superiore a quella che
si registra negli Stati Uniti.
Ma le
nuove dinamiche del fenomeno migratorio hanno contribuito anche in un altro
senso, forse ancora più rilevante, all'emergere del multiculturalismo come
realtà e come problema.
Ci
riferiamo al mancato verificarsi della prevista integrazione/assimilazione
delle comunità di immigrati nei paesi di destinazione.
Nel Nuovo Mondo si sono affermate tendenze che
fanno dubitare della validità dell'ipotesi di un “melting pot” - dell'idea,
cioè, che dopo un certo tempo, o dopo una o due generazioni, le culture e le
identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle
dei paesi di destinazione.
In
Francia e nei paesi dell'Europa centrosettentrionale gli stessi dubbi investono
l'idea analoga di assimilazione.
Nell'Europa centrale gli immigrati a tempo
determinato (i cosiddetti Gastarbeitern) tendono a diventare residenti
permanenti.
Il
secondo fenomeno che ha contribuito all'affermarsi del multiculturalismo è
costituito dalla nuova politica culturale dell'identità.
Affermatasi
principalmente negli Stati Uniti, essa può essere considerata una filiazione
dei movimenti giovanili della seconda metà degli anni sessanta, con le loro
sfide all'autorità costituita, alle istituzioni e alla mentalità dominante.
Negli Stati Uniti il movimento giovanile ebbe
sin dall'inizio una forte valenza antirazzista, legata al movimento per i
diritti civili dei neri.
Tuttavia
la politica dell'identità, o della diversità come è stata anche chiamata, non
si ricollegava direttamente al movimento per i diritti civili, incentrato
sull'integrazione e sull'eguaglianza dei diritti individuali senza distinzioni
di razza.
Piuttosto,
essa era l'erede delle mobilitazioni in favore dell'eguaglianza istituzionale,
sotto forma di un'affermazione dell'identità specifica di determinati gruppi,
espressa ad esempio dai movimenti Black Power e Black is beautiful.
Analoghi
movimenti improntati all'orgoglio culturale di gruppi etnici in passato
discriminati, marginalizzati e spesso disprezzati si sono sviluppati tra le
popolazioni indigene dei paesi fondati dai coloni bianchi, in particolare in
Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Dalla
protesta giovanile radicale ha avuto origine anche un forte movimento
femminista.
Mentre
la gioventù di sinistra europea negli anni sessanta si andava orientando verso
la classe operaia e il movimento operaio tradizionale, negli Stati Uniti la
protesta giovanile dava vita ad un movimento culturale ampio ed eterogeneo, in
cui una varietà di gruppi di nuova formazione cercava di affermare i propri
diritti.
Ciò segnò l'inizio, negli anni settanta, di
una 'politica dell'identità' perseguita da gruppi che reclamavano
riconoscimento e rispetto:
dalle femministe, agli Afroamericani e agli
Ispanici, seguiti da altri gruppi etnici, ai gay e alle lesbiche.
Ciò
che univa queste differenti correnti era la sfida all'America dominante e ai
suoi valori - il maschilismo, la discendenza europea, l'eterosessualità -
nonché l'assenza di rivendicazioni territoriali e politiche.
Ciò che veniva messo in discussione era un
certo tipo di mono culturalismo o di egemonia culturale entro un dato
territorio, ma non in nome di una secessione, e nemmeno di una forma alternativa
di governo.
Fu questa la sfida del multiculturalismo.
QUATTRO
TIPI DI SOCIETÀ MULTICULTURALI.
A
seconda delle origini e delle dinamiche sociali dominanti, si possono
distinguere quattro tipi fondamentali di società multiculturale.
Gli
imperi premoderni.
Frutto
di conquiste armate - talvolta di matrimoni dinastici o di trasmissione
ereditaria - gli imperi premoderni perseguirono solo sporadicamente e in modo
parziale, se mai lo fecero, l'integrazione culturale delle popolazioni
assoggettate.
Ciò che l'impero richiedeva ai sudditi era la
completa sottomissione e il riconoscimento della sua autorità suprema, nonché
la corresponsione di tributi e/o tasse.
Di norma tali imperi erano caratterizzati da
un notevole pluralismo religioso, linguistico e normativo (leggi e
consuetudini).
Se la
discriminazione e l'occasionale persecuzione delle religioni diverse da quella
ufficiale dell'impero costituivano la regola, raramente veniva attuata una
politica coerente e sistematica di uniformazione religiosa.
Una
significativa eccezione a questo riguardo è costituita dall'Impero spagnolo
dopo il 1499.
Importanza ancora minore veniva data
all'uniformità linguistica e giuridica.
Mentre le corti, gli eserciti e le
amministrazioni imperiali avevano i propri codici linguistici, sebbene
raramente monolingui, le popolazioni assoggettate erano libere di usare la
lingua che volevano.
Raramente
venivano emanate leggi; ci si limitava a interpretare e ad applicare quelle
vigenti, e i conquistatori di solito rispettavano le norme e le consuetudini
dei paesi assoggettati, perlomeno de facto, e spesso de jure, in dichiarazioni
solenni.
Tali
leggi e consuetudini riguardavano prevalentemente la sfera della famiglia
(matrimonio, eredità), le questioni religiose, i diritti alla terra, i
privilegi aristocratici e i diritti corporati delle città, ma comprendevano
anche il diritto penale vigente presso la popolazione locale.
La dinamica culturale interna a questi sistemi
sociali scarsamente omogenei era fornita in larga misura dall'attrazione
esercitata da una carriera nell'amministrazione centrale o dalla possibilità di
spartire il bottino imperiale.
Ciò
incoraggiava le conversioni alla religione dei conquistatori e l'adozione della
lingua (o delle lingue) della corte, dell'esercito e dell'amministrazione.
A partire dal XIX secolo, per far fronte alle
sfide del moderno nazionalismo popolare, gli imperi cercarono attivamente di
inculcare nelle popolazioni assoggettate la lingua e la religione dei
dominatori, con risultati peraltro assai modesti.
È
questo il tipo di società che emerse in Oriente e nell'Europa mediorientale con
il “Commonwealth polacco-lituano”, gli “imperi degli Asburgo e dei Romanov”, l'
“Impero ottomano”, che comprendeva gran parte del mondo arabo, gli “imperi
persiani”, quello “moghūl” nelle regioni dell'India settentrionale, e infine l'
“Impero cinese”, il più vasto e uniforme di tutti.
Qui
infatti esisteva un gruppo etnico dominante, quello “Han” o cinese, con una
scrittura comune che coesisteva peraltro con una pluralità di dialetti
reciprocamente incomprensibili.
L'ultima
dinastia regnante, i “Ch'ing”, e una parte consistente della sua “nobiltà di
corte”, non era cinese bensì “mancese”, e aveva tre differenti lingue ufficiali
– “cinese”,” manciù” e “mongolo”.
L' “Impero
inca” nelle Americhe e quelli di “Ghana”, “Mali” e “Soghay” della savana
dell'Africa occidentale nel X-XVII secolo avevano caratteristiche simili.
I “regni del Giappone” e della “penisola
coreana”, per contro, presentavano un'eccezionale uniformità culturale.
All'epoca
delle “guerre di religione europee”, l'imperatore moghūl Akbar (fine del XVI
secolo) che governava l'India settentrionale - inclusi l'Afghanistan e il
Bengala - abolì
l'islamismo quale religione di Stato e proclamò l'eguaglianza religiosa.
Alla
sua corte vennero invitati rappresentanti del “cristianesimo”, dello “zoroastrismo”,
dell “'induismo” e del” jainismo”, nonché della “tradizionale religione
islamica”.
I
sovrani illuminati delle aree scarsamente popolate e relativamente meno
sviluppate dal punto di vista economico dell'Europa centrale ed orientale
incoraggiarono l'immigrazione di popoli di altre culture:
“Ebrei” in Polonia e in Lituania nel XIII e
nel XIV secolo, “Tedeschi” in Transilvania nel Medioevo e nella “Russia di
Caterina la Grande” nel XVIII secolo, “calvinisti francesi” nella Prussia
luterana di Federico il Grande sempre nel XVIII secolo.
Analogamente,
gli “Ebrei sefarditi” espulsi dalla Spagna della reconquista dopo il 1493
trovarono accoglienza presso i sovrani musulmani dell'Impero ottomano.
Le città e i villaggi della fascia
centrorientale d'Europa, da Istanbul a San Pietroburgo, erano di solito
multietnici o dominati da un gruppo etnico diverso da quello prevalente nei
territori circostanti.
“Greci”,”
Armeni”,” Ebrei” e “Tedeschi” erano presenti soprattutto tra la popolazione
urbana.
In
contrasto con l'uniformità religiosa che dopo la Riforma si instaurò in gran
parte dell'Occidente, nell'Europa orientale si affermò un modus vivendi
multiconfessionale, che vedeva la coesistenza di ortodossi, cattolici, uniati,
luterani, calvinisti, cristiani armeno-gregoriani e armeno-cattolici, ebrei e
musulmani (Tartari, Bosniaci, Albanesi, Turchi).
Tale
mosaico di religioni si doveva in buona parte agli Ottomani e alla loro
politica di tolleranza religiosa, non solo nei Balcani ma anche in Ungheria,
nonché alla protezione da essi concessa ai principi protestanti transilvani che
erano stati espulsi dall'Ungheria.
La
Controriforma cattolica, che tanto successo ebbe in Polonia, perlomeno per
quanto riguarda l'affermazione del cristianesimo quale unica religione, non
riuscì mai a riconquistare pienamente i territori ungheresi.
I
tardi imperi premoderni degli “Asburgo” e dei “Romanov” erano caratterizzati da
un multiculturalismo di proporzioni imponenti.
Il censimento russo del 1897, ad esempio, attestava
l'esistenza di oltre 130 lingue madri, che si sovrapponevano o si incrociavano
con tutte le principali denominazioni religiose cristiane o musulmane, cui si
affiancavano ebrei di varie congregazioni, buddisti e seguaci delle cosiddette
'religioni della natura'.
Alle
soglie della prima guerra mondiale, nell'Impero asburgico vi erano tredici
grandi gruppi etnici, che coesistevano con piccole minoranze: Tedeschi,
Ungheresi, Cechi, Polacchi, Ucraini, Rumeni, Croati, Serbi, Ebrei (i quali
peraltro non erano riconosciuti come gruppo etnico), Slovacchi, Sloveni,
Bosniaci e Italiani.
Sul
piano religioso, ciò implicava la compresenza di quattro principali versioni
del cristianesimo - cattolica, ortodossa, luterana, calvinista - cui si
aggiungevano l'ebraismo e l'islamismo sunnita.
Gli
ultimi imperi premoderni cessarono di esistere alla fine della prima guerra
mondiale, ma l'eredità degli imperi multiculturali rimase sino alla seconda
guerra mondiale nella pluralità dei diritti di famiglia della Polonia,
dell'Ungheria e della Romania.
L'Unione
Sovietica e, dopo la seconda guerra mondiale, la Iugoslavia comunista formarono
Stati multinazionali e monoculturali.
Da un
lato venne instaurata l'uniformità politica e ideologica e un rigido controllo
culturale, dall'altro si cercò di garantire istituzioni nazionali, sistemi
politici territoriali, sistemi di scrittura - là dove questi mancavano, come
avveniva in molti casi tra i popoli sovietici - nonché apparati simbolici
(bandiere, insegne, ecc.).
Dopo
il crollo dei regimi comunisti, nel 1991-1992, l'Unione Sovietica e la
Iugoslavia vennero divise in base ai precedenti confini territoriali ufficiali,
con o senza violenza etnica.
Le
eccezioni dell'Europa occidentale.
L'Europa
occidentale nel suo complesso costituisce una significativa eccezione ai
sistemi politici multiculturali premoderni.
A
differenza degli imperi dell'Europa centrorientale, internamente differenziati,
scarsamente coesi e spesso dichiaratamente pluralistici, nell'Europa
occidentale a partire dall'alto Medioevo si affermarono sistemi politici
complessi relativamente compatti e uniformi, in cui la Chiesa cattolica e la
lingua latina costituivano i principali elementi di unificazione.
Se è
vero che il Sacro Romano Impero della Germania di fatto non era un'unità
territoriale uniforme, esso peraltro non costituiva un vero e proprio impero,
né sul piano militare né sul piano fiscale.
L'espulsione
degli Ebrei nell'Europa occidentale iniziò in Francia nel 1182, sebbene con
scarsa efficacia, e venne ripresa con maggiore sistematicità in Inghilterra nel
1290, ancora in Francia nel 1306 e nel 1394, in altre parti dell'Europa
occidentale nel corso del XV secolo, in Spagna e in Sicilia nel 1492.
In
Germania l'espulsione degli Ebrei non fu frutto di una politica ufficiale e
generalizzata, ma di ripetuti pogrom e persecuzioni, mentre in Italia le
persecuzioni papali vennero eseguite solo parzialmente.
Le
metropoli commerciali indipendenti, come Venezia e in misura ancora maggiore
Amsterdam, rimasero aperte agli Ebrei.
Mentre
gli Ottomani nell'Europa sudorientale tolleravano la presenza di ebrei e
cristiani, considerandoli seguaci di religioni legittime sebbene di status
inferiore rispetto all'islamismo, e nel caso degli ebrei ne incoraggiarono
addirittura l'immigrazione, la riconquista cristiana nella penisola iberica
determinò l'espulsione sia dei musulmani che degli ebrei.
L'Inquisizione della Chiesa cattolica non ebbe
equivalenti in nessun'altra religione mondiale.
Le
guerre religiose all'epoca della Riforma, che possono essere considerate anche
espressione di un'aspirazione all'uniformità religiosa, terminarono con l'affermazione
del principio “cuius regio, eius religio”, secondo il quale spettava al sovrano
decidere la religione del paese.
Alle
soglie dell'epoca moderna, dell'illuminismo e della Rivoluzione francese,
l'Europa occidentale spiccava nel resto del mondo come un'area di chiusura mono
religiosa e mono culturale.
La
situazione, tuttavia, era differente per quanto riguarda i diritti individuali
- campo in cui l'Europa occidentale aveva una lunga e unica tradizione di
autonomia giuridica dal potere - e la partecipazione politica (elezione del
papa e dell'imperatore, rappresentanza dei ceti e autogoverno delle città).
L'illuminismo
e la Rivoluzione francese portarono la tolleranza religiosa e nuovi sviluppi
dei diritti civili nell'Europa occidentale.
Questi
ultimi però furono anche accompagnati e seguiti da una riuscita politica di
uniformazione giudiziale-amministrativa, giuridica ed etnolinguistica.
Fu la Svezia del XVII secolo a dare l'avvio a
tale processo, che raggiunse il culmine con la Rivoluzione francese.
A
quest'ultima si deve anche il modello internazionale di codificazione giuridica
uniforme, il Codice napoleonico.
Il XIX secolo e la prima metà del XX videro
l'affermarsi dell'uniformità etnolinguistica, creata e imposta dapprima nei
paesi occidentali e, successivamente, nell'Europa orientale e centrale
post-imperiale.
A
seguito di questo processo, i "contadini [vennero trasformati] in
Francesi" (Eugene Weber), e si 'crearono gli Italiani', per riprendere la famosa frase di
Massimo d'Azeglio, in un paese in cui peraltro solo il 2-3% della popolazione,
secondo le stime, era in grado di comprendere la lingua italiana.
La
Svizzera costituisce un caso unico di società multiculturale nel continente
europeo, e in particolare nell'Europa occidentale, con quattro lingue ufficiali
- tedesco, francese e italiano, cui si aggiunse nel 1938 il retoromanzo - e due
gruppi confessionali cristiani di eguale peso - i cattolici e i protestanti.
Originariamente
la nazione svizzera era costituita da una confederazione di cantoni autonomi e
culturalmente omogenei, che occupava una regione montuosa di dimensioni
relativamente ridotte, e per lungo tempo minacciata da potenze esterne, come
gli Asburgo e i Savoia.
La Svizzera cattolica non ha mai costituito
un'unità ecclesiastica.
Nel corso del XIX secolo, a seguito di una
serie di guerre interne su piccola scala, il paese fu trasformato da una
confederazione di cantoni in uno Stato federale con ampi margini di autonomia
degli Stati membri.
Tra le
due guerre mondiali emersero altre eccezioni all'eccezione rappresentata
dall'Europa occidentale, un altro multiculturalismo europeo di fatto, se non di
nome, che contrastava con l'uniformità politica dominante in quest'area.
Si trattava di una sorta di multiculturalismo
politico-religioso, basato su una mescolanza storica di mobilitazione di massa,
di fedeltà gerarchiche e di Stato debole.
I Paesi Bassi costituivano l'esempio più
complesso, meno conflittuale e più longevo di queste società occidentali
multiculturali, che comprendevano anche il Belgio e la Repubblica austriaca
dopo la disgregazione dell'impero e sino all'instaurazione dell''austro fascismo'
al principio degli anni trenta.
La
difficile ma stabile coesistenza di un insieme di gruppi o 'pilastri' (zuilen)
culturali - cattolici, calvinisti, socialdemocratici e una componente liberale
minoritaria - caratterizzò la società olandese dagli anni venti, allorché tali
gruppi vennero ufficialmente istituiti, sino alla metà degli anni sessanta, quando
iniziò il loro rapido processo di disgregazione.
Ognuno di essi aveva le proprie scuole, finanziati
attraverso l'imposizione fiscale, i propri ospedali, i propri operatori
sociali, i propri sindacati e le proprie organizzazioni di imprenditori (tranne
i socialdemocratici), i propri partiti politici, i propri giornali, le proprie
stazioni radio: in sintesi, un'organizzazione autonoma in pressoché tutti i
campi di attività, fatta eccezione per le corti di giustizia e le forze armate.
Ad
esempio, esistevano organizzazioni di allevatori cattolici e di giardinieri
protestanti.
Il
collegamento tra i vari gruppi era assicurato da coalizioni politiche al
vertice.
Sulle
questioni costituzionali i partiti 'confessionali' (religiosi) si dimostravano
uniti, e negli anni precedenti la seconda guerra mondiale i confessionali
(cattolici e calvinisti) e i liberali furono accomunati dall'ostilità nei
confronti dei socialdemocratici.
Nel secondo dopoguerra, un'analoga base
socioeconomica costituì il terreno per coalizioni sociopolitiche tra laburisti
e cattolici.
Una
situazione simile si riscontrava in Belgio, dove alle divisioni confessionali
tra cattolici e calvinisti (assenti, questi ultimi, dal paese) si sostituivano
quelle tra la comunità francofona e la fiamminga.
Nella
Repubblica austriaca, uscita impoverita e delegittimata dalla prima guerra
mondiale, si fronteggiavano tre schieramenti (Lager) dotati anche di formazioni
armate.
I cristiano-sociali rappresentavano lo
schieramento più forte, seguiti dai socialisti e in ultimo da una minoranza di
nazionalisti tedeschi anticlericali.
Le
ostilità tra tali schieramenti sfociarono in una guerra civile e in un colpo di
Stato poco prima dell’“Anschluss nazista”.
Con
alcune eccezioni storiche relativamente marginali, la situazione dell'Europa
occidentale fornisce un importante punto di riferimento empirico per una
discussione sul multiculturalismo.
Gli
esempi sopra illustrati mettono in evidenza tutta una gamma di possibilità
alternative:
di
conflittualità e di violenza oppure di coesistenza pacifica e di sviluppo
comune, di adattabilità oppure di rigidità nei confronti dei mutamenti
socioeconomici e culturali, di longevità e di stabilità nel tempo oppure di
durata effimera.
Gli
insediamenti del Nuovo Mondo.
Le Americhe
e l'Australia furono conquistate e non 'scoperte'.
Le
popolazioni autoctone vennero decimate in larga misura dai germi e dalle
malattie infettive portati dagli Europei, ma furono anche vittime di un
deliberato genocidio.
Il territorio dei due continenti venne
ripopolato da insediamenti europei su larga scala.
Fatta eccezione per il Guatemala e la Bolivia
nelle Americhe, la maggioranza della popolazione nel Nuovo Mondo attualmente è
costituita da gruppi di origine (più o meno) europea.
Solo
nei paesi andini dell'Ecuador e del Perù e in Nuova Zelanda la popolazione
autoctona rappresenta più del 10%.
In
alcune aree, come ad esempio in Messico, una percentuale ancora più alta è
costituita da meticci (mestizos).
In
ogni caso, come hanno dimostrato i movimenti etnici degli anni ottanta, i
gruppi indigeni e la loro cultura non sono mai scomparsi del tutto;
costretti alla latenza per un lungo periodo,
attualmente lottano per l'autoaffermazione.
Alla
mescolanza etnica hanno contribuito anche tre secoli di importazione di
schiavi africani per il lavoro nelle piantagioni, nonché il reclutamento di
manodopera coatta indiana nel XIX secolo, in particolare negli Stati Uniti,
nei Caraibi, in Brasile, Guiana e Trinidad. Tuttavia i flussi più importanti
furono quelli degli immigrati europei di differenti etnie, lingue e religioni.
Gli
Europei arrivarono per libera scelta, e svilupparono l'idea di un “melting pot”,
ossia di una fusione delle differenti identità etniche in una comune identità
americana, canadese, argentina, ecc.
Tale
idea, le cui origini possono essere fatte risalire, verso la fine del XVIII
secolo, allo scrittore francese naturalizzato americano” Michel-Guillaume-Jean
de Crèvecoeur”, divenne popolare ai primi del Novecento grazie ad una commedia
di Broadway.
Essa rispecchiava di fatto una importante
tendenza del mutamento sociale.
Verso
gli anni quaranta le organizzazioni e le pubblicazioni nella lingua degli
immigrati tendevano a scomparire o a trasformarsi in associazioni e
pubblicazioni di lingua americana (inglese o spagnolo).
Gli
Stati Uniti inoltre divennero uno dei principali approdi delle correnti
religiose dissidenti ed eterodosse del mondo, in particolare di dissidenti
cristiani e di minoranze ebraiche, assumendo i caratteri di un paese
multiconfessionale.
Gradualmente,
questa tendenza all'apertura religiosa si diffuse in altri paesi del Nuovo
Mondo.
Ma
soprattutto nel Nordamerica e in Australia l'identità religiosa si intrecciava
all'identità etnica, dando luogo a blocchi etnico-religiosi.
I
flussi migratori costituirono la principale dinamica culturale della
costruzione dello Stato nazionale nel Nuovo Mondo, in cui una pluralità di
culture diverse si insediarono, si adattarono e cercarono di sviluppare le
proprie istituzioni come basi di potere e ricchezza.
Ciò contrastò l'assimilazione del “melting pot”,
(ri)producendo interessi etnici o etnico-religiosi, gruppi di interesse e
movimenti politici.
Alla
base della costruzione della nazione nel Nuovo Mondo vi fu una politica di
'popolamento' del territorio, e nel XIX secolo politici e intellettuali - in
particolare in Argentina, Cile e Brasile - discutevano animatamente su quali
gruppi avrebbero dovuto essere incoraggiati ad immigrare nel paese e a prendere
parte alla formazione della nazione.
Durante
la prima guerra mondiale i movimenti migratori intercontinentali subirono un
rallentamento riducendosi vistosamente negli anni trenta e quaranta; una
piccola ripresa si ebbe nel secondo dopoguerra.
All'inizio
degli anni sessanta anche agli occhi di osservatori esperti sembrava che
l'emigrazione di massa nel Nuovo Mondo fosse un fenomeno del passato.
Ma nel caso del Nordamerica e dell'Australia i
fatti avrebbero smentito questa convinzione.
L'area
(ex) coloniale.
Una
vasta area del mondo, che si estende dall'Africa occidentale al subcontinente
indiano all'arcipelago del Sudest asiatico e alla Nuova Guinea (l'attuale
Papua), fu conquistata e sottomessa dalle potenze europee, ma diversamente da
quanto era accaduto nel Nuovo Mondo, la popolazione indigena non venne decimata
e sostituita da insediamenti bianchi.
A
seguito del processo di decolonizzazione, tra la fine degli anni quaranta e gli
anni sessanta, in quest'area nacquero nuovi Stati indipendenti, che ospitano le
società culturalmente più eterogenee del mondo.
Le
potenze coloniali unificarono artificialmente popolazioni in precedenza
separate o segmentate, oppure separarono altrettanto artificialmente popoli e
società in precedenza uniti, istituendo confini politici con altri domini
coloniali.
Scarsamente
sviluppate sul piano economico e politico, tali regioni erano abitate da
un'enorme varietà di popoli e di culture tra loro isolati, e in parte per
questa ragione soccombettero facilmente ai paesi colonizzatori.
Nella
Nuova Guinea, ad esempio, conquistata dagli Olandesi e dai Tedeschi, esistono
circa 750 lingue diverse (secondo altre stime il loro numero arriva a mille), e
in Africa si registrano 1.200 popoli o gruppi etnici diversi.
Dopo
la divisione o l'unificazione artificiale dei territori e dei popoli
conquistati, il secondo momento della politica coloniale consistette nella
creazione di una barriera efficacemente istituzionalizzata e ben visibile tra i
colonizzatori e la popolazione indigena.
A
tempo debito, in reazione a tale barriera nacquero i movimenti anticoloniali e
nazionalisti.
Il
programma e i simboli dei movimenti nazionalisti erano mutuati dalla storia
recente delle stesse potenze coloniali, e i nuovi Stati indipendenti sorti dopo
il processo di decolonizzazione definirono i propri confini seguendo le
divisioni arbitrarie stabilite dalle potenze coloniali, ereditando quindi la
realtà multiculturale degli ex imperi.
All'inizio
degli anni sessanta un gruppo di studiosi sovietici compì il tentativo più
ambizioso e sistematico sino ad allora mai realizzato di registrare e di
comparare il pluralismo etnolinguistico delle società di diverse nazioni.
Quindici
risultarono essere le società più multiculturali, di cui quattordici
nell'Africa subsahariana e l'altra in India (la Nuova Guinea non era incluso
nei paesi considerati).
Secondo
le stime degli studiosi sovietici, vi era al massimo una probabilità su dieci
di incontrare due Tanzaniani, Congolesi o Ugandesi appartenenti alla stessa
comunità etnolinguistica.
In
Giappone o in Portogallo, per contro, vi era una probabilità su cento di
incontrare due individui appartenenti a gruppi etnolinguistici diversi, e in
Germania e in Italia le probabilità erano rispettivamente tre e quattro su
cento.
Attualmente,
le circa 1.200 etnie africane sono distribuite tra 55 Stati, e uno dei più
vasti fra questi, la Nigeria, conta ben 400 lingue differenti.
In India secondo gli antropologi esistono
5.000 'comunità' culturali, definite in base alla lingua, alla religione, alla
casta o ad altri criteri etnici.
In
questo paese vi sono diciotto lingue ufficiali, più l'inglese quale lingua
franca dell'élite, cui si affiancano circa cento lingue parlate da 100.000 o
più individui, e una dozzina di alfabeti differenti.
Tutte
le stazioni radio indiane trasmettono in 190 lingue.
I
governi postcoloniali sinora sono riusciti a gestire la complessa realtà di
questa enorme differenziazione culturale.
Gli
episodi di rottura dell'ordine sociale e della convivenza pacifica sono stati
relativamente rari.
Nella
maggioranza dei casi, le violenze intercomunitarie sono derivate da specifici
conflitti biculturali - ne sono esempi gli scontri tra induisti e musulmani in
India all'epoca della divisione nel 1947, la guerra tra Yoruba e Ibo in Nigeria
per la secessione del Biafra nel 1967 e le ricorrenti guerre genocide tra gli
Hutu e i Tutsi in Burundi e Ruanda. Tuttavia, sembra che i perduranti
particolarismi etnoculturali siano stati d'ostacolo allo sviluppo economico e
sociale.
I paesi dell'Est asiatico che hanno intrapreso
con successo la strada della modernizzazione risultano assai più omogenei.
Il
multiculturalismo post-nazionale.
Il
multiculturalismo odierno è il prodotto di una dinamica culturale che non è né
pre-nazionale, come negli imperi premoderni, né nazionale, come nel Nuovo Mondo
e nell'area ex coloniale.
Si
tratta piuttosto di un fenomeno che potremmo definire post-nazionale, che si è
affermato dopo la costituzione di Stati nazionali ed entro i confini di questi
ultimi, e al cui sviluppo ha contribuito la diffusione dell'istruzione
superiore di massa a partire dagli anni sessanta e delle nuove culture musicali
e audiovisive di massa.
Questo
multiculturalismo post-nazionale ha avuto sinora come principali centri il
Nuovo Mondo, in particolare il Nordamerica e l'Australia, e l'Europa
occidentale, in particolare i paesi nordoccidentali.
In
entrambe queste aree si sono sviluppati processi e movimenti sociali che hanno
messo in discussione la precedente uniformità della nazione.
Nel “Nuovo
Mondo” la principale sfida alla 'nazione bianca', ovvero all'identità europea
della nazione fondata dai colonizzatori bianchi, è venuta dalle nuove ondate
migratorie.
Un
mercato del lavoro caratterizzato da una crescente domanda di manodopera
straniera, le notevoli pressioni interne ed esterne per l'abolizione delle
clausole di esclusione etnica nella regolamentazione dell'immigrazione, e
infine i nuovi sviluppi geoeconomici mondiali hanno aperto la strada a nuovi
flussi migratori multiculturali dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia in
direzione del Nordamerica e dell'Oceania.
D'altro
canto, l'America Latina è diventata a sua volta un subcontinente di
immigrazione.
Oltre
alle nuove dinamiche dell'emigrazione, altri due fattori contribuiscono oggi a
mettere in discussione con forza crescente l'identità bianca della nazione dei
colonizzatori, ponendo in primo piano la questione della razza e del razzismo:
il
primo riguarda la posizione delle popolazioni indigene, vittime della conquista
violenta;
il
secondo è rappresentato dai perduranti effetti dello schiavismo.
Dopo
un lungo periodo di oppressione e di marginalizzazione, i discendenti degli
schiavi e delle popolazioni indigene hanno acquistato sufficienti forze, nonché
numerosi sostenitori tra i colonizzatori stessi, per lottare contro la loro
esclusione.
Iniziato
negli Stati Uniti negli anni sessanta, tale processo si è poi diffuso negli
altri paesi del Nuovo Mondo.
I principali progressi sono stati realizzati
dagli Afroamericani negli Stati Uniti, dai Maori in Nuova Zelanda e dagli
Aborigeni in Australia.
I cambiamenti sono stati, per contro,
relativamente meno significativi nell'America Latina, sebbene nel 1992 il
quinto centenario della conquista europea delle Americhe abbia fornito un
importante punto di riferimento simbolico per la protesta degli Indiani
d'America.
Questa
sfida alla supremazia bianca è stata condotta in misura crescente non tanto o
non solo in termini di rivendicazione dell'eguaglianza, ma anche e soprattutto
come affermazione del diritto alla differenza - il diritto ad essere diversi senza
essere per questo marginalizzati o discriminati.
Su
questo punto si sono trovati uniti i movimenti delle popolazioni indigene -
guidati da una nuova élite colta - che chiedono riconoscimento e la
restituzione o il risarcimento delle terre espropriate dai colonizzatori, gli
Afroamericani, che riaffermano con orgoglio la propria identità etnica, e
alcune correnti sviluppatesi tra gli immigrati di origine non europea dopo
l'allentarsi delle leggi fortemente discriminatorie che regolavano
l'immigrazione.
Parallelamente
a questi nuovi movimenti etnici si sono sviluppati, con un lieve scarto
temporale, movimenti in difesa di nuovi soggetti con un'identità specifica,
come le donne o gli omosessuali (movimento femminista, movimento dei gay e
delle lesbiche).
Sulla
scia di questi ultimi, anche gruppi o comunità contraddistinti da stili di vita
particolari chiedono di essere riconosciuti come 'culture' all'interno di una
società multiculturale.
Anche
nell'Europa occidentale il fenomeno migratorio e le dinamiche culturali hanno
assunto caratteristiche nuove intorno agli anni sessanta-settanta.
Sin
dal principio delle conquiste e dell'espansione oltremare l'Europa fu un
continente di emigrazione.
La costruzione dello Stato nazionale
nell'Europa moderna era concepita in termini di uniformazione etnolinguistica,
considerata all'epoca assai più importante di quella religiosa.
La Francia, che rappresentò anche la prima
eccezione al modello migratorio europeo, fu il precursore sul piano ideologico
e istituzionale del principio dell'uniformità nazionale, sintetizzato nella definizione della nazione francese
come “une et indivisible”.
Negli
anni sessanta, con il processo di decolonizzazione e con la nuova prosperità
del dopoguerra, l'Europa divenne un continente di immigrazione.
Il processo ha conosciuto un'accelerazione
negli anni ottanta e all'inizio degli anni novanta, e attualmente anche paesi
come l'Irlanda, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l'Italia, in cui il
fenomeno dell'emigrazione aveva persistito tenacemente, si caratterizzano per
la presenza di consistenti minoranze di immigrati.
In un
tempo straordinariamente breve, le società dell'Europa occidentale sono
diventate multietniche come quelle del Nuovo Mondo.
Nel
1975 quasi l'11% della popolazione francese risultava nato in terra straniera
(inclusi i cittadini nati in Algeria e nelle altre ex colonie);
nel
1990 la percentuale di immigrati legalmente registrati ammontava al 10% (una
percentuale ancora più alta di quella calcolata per gli Stati Uniti, che
raggiungeva l'8% nel 1990 salendo al 9% nel 1996, dopo la massiccia
legalizzazione degli immigrati clandestini tra il 1989 e il 1991).
Nella
Germania occidentale tra gli anni sessanta e ottanta l'afflusso di immigrati è
stato eguale se non superiore, in proporzione, a quello sperimentato dagli
Stati Uniti alle soglie della prima guerra mondiale.
Alla
metà degli anni novanta in un paese tradizionalmente assai omogeneo dal punto
di vista etnico come la Svezia il 10% della popolazione è di origine straniera.
Data la tendenza alla concentrazione urbana
delle nuove popolazioni di immigrati, il multiculturalismo è diventato una
caratteristica distintiva soprattutto delle grandi città.
All'inizio
degli anni novanta un quinto della popolazione londinese risultava di razza non
bianca, e un quarto della popolazione di Bruxelles e di Francoforte era
costituito da 'stranieri'.
Il
multiculturalismo europeo, frutto delle nuove ondate di immigrazione, è
prevalentemente a base etnica, ma vi è anche una politica dell'identità in
particolari regioni storiche (soprattutto in Spagna) e la tendenza a
riaffermare i diritti di lingue minoritarie in passato marginalizzate (ad
esempio lo scozzese).
Le
culture legate all'identità sessuale, per contro, in Europa sono meno definite
e assertive rispetto a quelle statunitensi.
Il
multiculturalismo post-nazionale è fluido ed è in larga misura una questione di
scelta e di autoaffermazione consapevole, distinguendosi in questo dal
multiculturalismo di altre società, in specie da quello degli imperi
premoderni, assai più statico e in gran parte ereditato.
I moderni mezzi di comunicazione di massa e le
accresciute opportunità di spostamento e di contatto creano i presupposti per
nuove combinazioni di culture o per un processo di 'ibridazione culturale'.
Sinora
queste tendenze si sono manifestate in modo particolarmente evidente nelle
nuove culture musicali e nelle mescolanze di tradizioni culinarie etniche.
L'omologazione nazionale delle culture, che
ebbe il suo culmine in Europa intorno agli anni cinquanta, dopo le 'pulizie
etniche' associate ai due conflitti mondiali e il genocidio degli Ebrei
europei, comincia a mostrare segni di cedimento ovunque, nonostante
l'occasionale verificarsi di nuove azioni di pulizia etnica, ad esempio in
Bosnia e in Croazia.
ASPETTI
POLITICI E ISTITUZIONALI.
Il
multiculturalismo è diventato negli anni settanta una politica ufficialmente
riconosciuta in Australia e in Canada, che attualmente possono essere considerati
anche i due paesi di immigrazione più aperti del mondo.
All'epoca circa il 16% della popolazione
canadese e il 20% di quella australiana erano di origine straniera.
Sia in
Australia che in Canada la svolta verso il multiculturalismo rientrava nel
quadro di un significativo mutamento nei modelli di immigrazione.
Per lungo tempo alla base della politica
dell'immigrazione in Australia vi fu l'esplicito imperativo di preservare il
carattere di 'nazione bianca' del paese, e sino al secondo dopoguerra gli
immigrati furono in prevalenza britannici.
Successivamente vi fu un consistente afflusso
di Italiani e di Greci.
Negli anni sessanta la scarsità di manodopera
indusse a mitigare le restrizioni nei confronti dell'immigrazione europea, ed
ebbe inizio anche una consistente immigrazione asiatica.
Negli
stessi anni sia in Canada che in Australia cominciò la mobilitazione delle
minoranze indigene discriminate e marginalizzate.
La
politica multiculturalista iniziò in Canada, come reazione all'istituzione di
una Commissione sul bilinguismo e sul biculturalismo (1963) che si proponeva di
raggiungere un nuovo compromesso anglofrancese per fronteggiare il crescente
nazionalismo francofono nel Québec.
Si
cominciò allora a sostenere che il Canada non era costituito da due nazioni
bensì da tre, che quella degli Aborigeni era la prima nazione e di conseguenza
non poteva restare esclusa.
Il biculturalismo, si disse inoltre, era del tutto
inadeguato a cogliere la complessa realtà multietnica del Canada.
Queste
istanze vennero recepite dal governo internazionalista liberale di Pierre
Trudeau, che fu anche uno strenuo oppositore del nazionalismo del Québec.
Nell'ottobre
del 1971 il governo federale dichiarò ufficialmente il multiculturalismo quale
obiettivo della politica del paese.
Venne
sottolineata l'esigenza di preservare l'eredità culturale delle minoranze,
nonché di migliorare e di rendere più eguali i rapporti tra le diverse componenti
della nazione attraverso misure contro il razzismo o altre forme di
discriminazione e in favore delle pari opportunità, all'insegna del motto:
"una nazione, due lingue, una pluralità di popoli e di culture".
Nel
1972 venne istituito un Ufficio per il multiculturalismo all'interno del
Ministero degli Esteri, e sino alla metà degli anni novanta vi fu un Ministero
federale per gli affari multiculturali.
L'orientamento multiculturale è stato sancito
in una Carta dei diritti e delle libertà (1982) e in un” Multiculturalism act”
(1988), diventando un elemento centrale dell'autodefinizione della nazione
canadese.
Gli
Aborigeni australiani si videro riconosciuta la cittadinanza a pieno titolo
solo nel 1967 - atto che può essere considerato la fine, sia pure tardiva,
della politica dell''Australia bianca'.
Il
movimento anticolonialista internazionale e la peculiare posizione geopolitica
dell'Australia portarono gradualmente all'abbandono dei criteri esplicitamente
razziali che avevano improntato la politica dell'immigrazione.
L'ingresso
della Gran Bretagna nella Comunità Europea, negoziato negli anni sessanta e
sancito infine nel 1973, segnò una nuova apertura verso l'Asia della politica
estera e commerciale australiana.
Una
politica orientata in senso multiculturale venne avviata sotto il governo
laburista in carica tra il 1972 e il 1975, e fu proseguita dal successivo
governo liberale.
Essa
prevedeva, tra l'altro, l'adozione di una serie di misure contro la
discriminazione, il riconoscimento dei diritti alla terra degli Aborigeni, il
sostegno dello Stato alle etnie svantaggiate, la realizzazione di programmi
scolastici e radiotelevisivi diretti a comunità culturali speciali.
Negli anni ottanta, sotto un nuovo governo
laburista, venne istituito un Ufficio per gli affari multiculturali all'interno
della Presidenza del Consiglio, e nel 1989 fu annunciata una 'Agenda nazionale
per un'Australia multiculturale'.
Se da
un lato ha trovato sostenitori in tutti gli schieramenti politici, dall'altro
il multiculturalismo è stato sempre anche oggetto di critiche, derivate in
parte dal timore di un ulteriore aumento dell'immigrazione in periodi di crisi
economica.
Secondo
alcuni, inoltre, il multiculturalismo rappresenterebbe una potenziale minaccia
per l'unità nazionale o per i valori tradizionali della nazione.
Mettendo
in primo piano i diritti e gli interessi collettivi, il multiculturalismo entra
in conflitto con la concezione individualista che privilegia i diritti dei
singoli.
In Australia, ad esempio, si è creato un
conflitto tra i diritti alla terra degli Aborigeni e gli interessi delle
corporazioni dell'industria mineraria e dei pastori non aborigeni.
Negli
anni novanta sia in Australia che in Canada si osserva un certo declino del
multiculturalismo.
In
Canada, inoltre, il multiculturalismo tende a passare in secondo piano rispetto
ai conflitti biculturali che oppongono il Québec francofono alla comunità anglo
canadese.
Anche in Nuova Zelanda vi è un conflitto
biculturale di fronte al quale il multiculturalismo diventa un fenomeno
secondario.
Sebbene la società neozelandese si avvii a
diventare una società multietnica, a dominare la scena sono i conflitti e i
tentativi di conciliazione tra la maggioranza bianca, “i Pakeham”, e una
consistente minoranza indigena relativamente ricca di risorse, i” Maori”.
Negli
Stati Uniti il multiculturalismo non è stato adottato come politica ufficiale,
ma l'immigrazione in questo paese ha sempre avuto un carattere assai più
multiculturale di quella australiana, canadese e neozelandese.
In Australia, nel 1990-1991 oltre il 70% degli
immigrati era di origine europea, neozelandese o nordamericana;
in
Canada gli immigrati provenienti dagli Stati Uniti e dall'Europa costituivano
oltre il 60%.
Negli
Stati Uniti, per contro, Europei e Canadesi rappresentavano solo il 20% degli
immigrati regolarmente registrati.
Le politiche etniche e la formazione di
coalizioni multietniche sono una prassi consolidata nella politica americana.
Il
multiculturalismo è emerso negli Stati Uniti negli anni settanta, ma in un
contesto differente e con connotati diversi rispetto al Canada e all'Australia.
La mobilitazione in difesa dei diritti delle
minoranze culturali nella società statunitense è stata strettamente legata al
movimento delle donne (in particolare al femminismo culturale ed etnico), a
quello dei neri o Afroamericani, ai movimenti dei gay e delle lesbiche.
Le università e i colleges sono stati i
principali centri della mobilitazione: l'istituzione di quote di reclutamento
etniche, l'elaborazione di programmi di studio multiculturali e l'approvazione
di norme contro la discriminazione verbale e contro le molestie sessuali sono
stati temi di acceso dibattito.
Tuttavia
anche l'immigrazione, soprattutto dal Messico e dagli altri paesi dell'America
Latina, nonostante la legalizzazione di un consistente numero di immigrati
attuata tra il 1989 e il 1991, comincia ad essere sentita nuovamente come un
grave problema.
Sono
state adottate numerose misure per rafforzare i controlli alle frontiere con il
Messico, e da
molte parti è stata avanzata la richiesta di istituire formalmente l'inglese
quale unica lingua ufficiale del paese, nel timore che lo spagnolo, diffuso
soprattutto negli Stati sudoccidentali, finisca per acquistare la preminenza.
Alla
metà degli anni novanta lo studioso americano “Michael Lind” ha descritto i
mutamenti storici del ruolo dell'etnicità nell'autodefinizione dell'identità
americana, proponendo altresì un programma nazionalista liberale per il futuro.
Sino
alla guerra di Secessione, afferma “Lind”, nel paese sarebbe risultata
dominante un'identità originaria angloamericana, cui avrebbero fatto seguito
sino agli inizi dello smantellamento del razzismo, alla fine degli anni
cinquanta, un'identità euroamericana e infine l'attuale America multiculturale.
Ad essa si dovrà sostituire, secondo “Lind”,
una 'trans-America' in cui le differenze razziali e di genere non avranno più
alcuna rilevanza e l'immigrazione sarà ridotta a zero.
Il
multiculturalismo è entrato nella discussione politica e accademica europea
verso la metà degli anni ottanta, ma non costituisce una esplicita politica
dello Stato.
Tuttavia
alcune iniziative del governo svedese, come la sovvenzione di programmi
educativi speciali nelle lingue madri degli immigrati, la promozione di varie
associazioni degli immigrati e di manifestazioni folkloristiche pubbliche,
ecc., possono essere legittimamente considerate esempi di una politica multiculturale.
La
'politica delle minoranze' attuata in Olanda, che prevede forme di sostegno a
favore dei principali gruppi di immigrati, può essere anch'essa considerata
un'attiva politica multiculturale, sebbene non venga designata esplicitamente
con questo nome.
Le
generose sovvenzioni che lo Stato garantisce da tempo alle scuole confessionali
sono state concesse ora anche alle scuole musulmane e induiste.
Di
fatto, l'Europa occidentale è diventata un'area multiculturale, che ospita
significative minoranze di extracomunitari provenienti dal Sud asia (in Gran
Bretagna), dalle Indie occidentali e dall'Africa subsahariana (principalmente
nel Regno Unito e in Francia), nonché dal Nordafrica e dal Medio Oriente -
soprattutto dalla Turchia e dall'Iran - diffuse queste ultime in tutto il
continente ma concentrate soprattutto in Francia e in Germania.
Sono state costruite numerose moschee, la
maggioranza delle quali in Francia, e in Gran Bretagna esistono anche templi
induisti.
Nuove e diverse subculture si affermano tra la
gioventù urbana.
Questi
recenti sviluppi hanno originato anche tensioni culturali, che talvolta hanno
trovato espressione in episodi di violenza etnica.
Si
osserva altresì un revival di simboli nazionali quali bandiere e inni, intesi
come riaffermazione dei valori del mono culturalismo contro il nuovo
pluralismo.
In
Austria, Belgio e Francia, e in misura minore in altri paesi, il nazionalismo
monoculturale è diventato una significativa forza politica nelle elezioni degli
anni ottanta e novanta.
Se è
vero che il multiculturalismo si va affermando in misura crescente in tutto il
mondo, è vero anche che quasi ovunque ciò ha provocato le reazioni di un mono
culturalismo militante o 'fondamentalista'.
Negli
ultimi venti trent’anni si è assistito ad una rinascita del fondamentalismo
religioso - cristiano (prevalentemente protestante) negli Stati Uniti,
musulmano nel mondo arabo, in Iran, in Afghanistan e in Pakistan, ebraico in
Israele, induista in India, buddista nello Sri Lanka.
Un
significativo impulso allo sviluppo di” un nazionalismo sciovinista ed
esclusivista” è stato dato dal crollo dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia;
le
cause del collasso dei regimi comunisti peraltro sono da ricercarsi più nelle
manovre di élites politiche in competizione che non nell'azione di movimenti
nazionalisti di massa.
Nel
complesso, non è stata ancora sviluppata una politica adeguata alla nuova
situazione culturale.
Le forti tradizioni nazionaliste spesso
entrano in conflitto con le nuove realtà.
Così,
la concezione laica della scuola fortemente radicata in Francia ha portato a
violente reazioni contro l'uso del chador da parte di alcune scolare musulmane.
Di fatto il multilinguismo è inconciliabile
con l'idea della nazione come comunità linguistica unitaria propria della
cultura francese, ed europea in generale.
In Germania, nonostante la presenza di una
vasta comunità di immigrati che risiedono nel paese da una generazione, vi è
una forte volontà di preservare l'identità tedesca della nazione.
La vecchia definizione in termini etnici della
cittadinanza crea molti 'stranieri' nati in Germania e di madrelingua tedesca.
Solo
con grande lentezza i governi cercano di adeguare le loro politiche alle mutate
circostanze.
Alcuni passi in questa direzione, tuttavia,
sono già stati compiuti.
Nel
1989, ad esempio, Francoforte sul Meno, una delle città più multiculturali
d'Europa, ha istituito un Ufficio per gli affari multiculturali.
In alcuni paesi anche ai musulmani è stato
riconosciuto il diritto di istituire le proprie scuole, seppure tra molte
esitazioni e sotto un più stretto controllo.
I diritti culturali e di altro tipo delle
minoranze sono attualmente al centro dell'attenzione del Consiglio europeo.
IL
DIBATTITO NELL'AMBITO DELLA TEORIA POLITICA E SOCIALE.
Negli
anni novanta il multiculturalismo è diventato non solo un tema di controversie
politiche e ideologiche, ma anche un importante motivo di discussione e di
riflessione nell'ambito della teoria politica e sociale.
Esso
ha dato spunto ad una nuova e più approfondita indagine sulle motivazioni umane
e sui problemi dell'ordine sociale e politico della cittadinanza.
Confrontarsi
con la tematica del multiculturalismo significa interrogarsi sui concetti di
cultura, identità, diritti, comunità, classe, nazione, repubblica,
cittadinanza, globalizzazione.
Sinora
il centro di questi dibattiti è stato il Nordamerica, ma si tratta di problemi
che riguardano tutte le aree multiculturali del mondo e destano ovunque un
interesse crescente.
Culture
e identità.
La nascita
di movimenti che affermano il diritto alla diversità rispetto alle norme e ai
valori dominanti, e che reclamano riconoscimento e rispetto per la propria
specificità segnala una riaffermazione di culture e comunità culturali che sono
per certi versi controcorrente rispetto alle tendenze dominanti nell'Europa
occidentale, nel Nordamerica e nell'Oceania del dopoguerra.
Esse
sembrano smentire altresì gran parte delle teorizzazioni elaborate nell'ambito
delle scienze sociali a partire dagli anni cinquanta in merito alla
secolarizzazione, al post-nazionalismo e al post-materialismo, al prevalere
della prestazione sull'ascrizione e della comunicazione di massa sulle culture
profonde.
Inoltre,
sebbene queste comunità culturali che oggi vanno riaffermando la propria
identità siano costruzioni sociali, e non di rado siano presentate come tali,
alla loro base vi sono caratteristiche cosiddette 'primordiali' quali la razza,
l'appartenenza etnica e il genere, e non già valori post-materialisti quali la
libertà d'espressione, la tutela dell'ambiente, la qualità della vita.
Il
multiculturalismo pone in primo piano la cultura come identità.
Il
concetto di identità, sviluppato nel secondo dopoguerra da “Erik H. Erikson”
nella sua “teoria
dello sviluppo della personalità”, sino ad anni recenti è stato prevalentemente un concetto
della psicologia individuale, e nonostante la sua rilevanza non ha trovato
spazio nelle concezioni classiche del nazionalismo.
Negli anni novanta si è avuta una rinascita
dell'interesse per il problema dell'identità, ma sino ad ora tale problema è
stato affrontato prevalentemente sotto angolazioni specifiche.
Ben poco si è detto e compreso sui processi
generali di formazione e di mutamento dell'identità sia collettiva che
individuale -ad esempio sui meccanismi attraverso cui il soggetto differenzia
(o de-differenzia) se stesso dagli altri, sullo sviluppo e sul mutamento
dell'autoriferimento, sull'importanza del riconoscimento da parte degli altri e
sui modi in cui lo si ottiene.
Una
distinzione tipologica importante per comprendere i problemi posti dal
multiculturalismo è quella tra “culture fluide e culture statiche”.
Le
società multiculturali degli imperi premoderni erano prevalentemente statiche:
le loro diverse lingue, leggi, usanze e
religioni si evolvevano con grande lentezza.
Per contro, le società multiculturali
post-nazionali del Nordamerica e dell'Europa occidentale sono assai più fluide.
Tuttavia, il diritto di esistere e di
sopravvivere rivendicato dai nuovi movimenti culturali si richiama anch'esso a
un punto di riferimento fisso.
Entriamo
qui nel terreno della contrapposizione tra l'interpretazione “essenzialista” e
quella “costruttivista” della cultura.
Alla
distinzione tra società fluide e società statiche si ricollega quella tra
l'autenticità di una cultura e la sua adattabilità.
In riferimento a quest'ultima si parla oggi spesso di
'ibridizzazione' o 'creolizzazione' globale.
Tali distinzioni sono di grande rilievo per i
possibili orientamenti della politica multiculturale, che può considerare
prioritaria la sopravvivenza e l'autenticità di determinate culture, ad esempio
quelle dei gruppi etnici indigeni all'interno di un territorio, oppure può
avere come obiettivo primario quello di garantire il pluralismo culturale,
senza porsi il problema della sopravvivenza e dell'autenticità.
Cittadinanza,
ordinamento politico e diritti.
Sino
ad oggi il multiculturalismo è stato oggetto di un dibattito assai più vivace
nell'ambito della teoria politica e sociale che non in quello della teoria
culturale.
Il
multiculturalismo pone problemi di grande rilievo per le principali teorie
odierne in materia di diritti e di ordinamento politico.
Con le
sue rivendicazioni collettive e sostanziali, ossia non esclusivamente
procedurali, il multiculturalismo è in irriducibile contrasto con il liberalismo che ha improntato la tradizione
politica statunitense, fondata sullo smantellamento delle autorità del Vecchio
Mondo, su diritti individuali costituzionali, e su un esteso controllo
giudiziale delle politiche democratiche.
Senza
dubbio, negli ultimi decenni negli Stati Uniti si è affermato anche un orientamento
multiculturalista, che ha trovato espressione in una serie di misure di 'azione
positiva' (ossia di discriminazione favorevole) a tutela dei diritti collettivi
delle donne e delle minoranze etniche - sebbene ultimamente i provvedimenti in
questo senso abbiano segnato una battuta d'arresto.
Tuttavia,
nella misura in cui la realtà multiculturale è il risultato di nuovi modelli
migratori, la conservazione di una 'repubblica procedurale' di tipo liberale
richiederà una più rigida regolamentazione in materia di cittadinanza e di
immigrazione.
Ma come sarà possibile attuare tali restrizioni senza
far ricorso a politiche non liberali?
Nell'area
statunitense, i sostenitori del multiculturalismo si richiamano in genere ad
una concezione collettivista della vita sociale come radicata in comunità di
lingua e di valori.
Ma la concezione collettivista, a sua volta,
deve fare i conti con l'eterogeneità delle comunità, che pone il dilemma tra il
rispetto del relativismo culturale e l'intervento di un'istanza sovraordinata
in nome dei diritti universali dell'uomo e del cittadino.
Problemi
di questo tipo sono posti, ad esempio, dalla struttura patriarcale e dalla
misoginia che contraddistinguono determinate comunità culturali, o dalla loro
generale chiusura alla libertà di scelta individuale.
Il
multiculturalismo rappresenta un problema anche per altre importanti tradizioni
politiche.
Il repubblicanesimo, di cui la Francia
costituisce una delle principali approssimazioni empiriche, con la sua
esaltazione della virtù civica e della partecipazione attiva dei cittadini alla
realizzazione del bene comune, è a rigore incompatibile con il riconoscimento
della divisione della cittadinanza in differenti comunità culturali.
Ma dal momento che l'appartenenza alla
repubblica non è considerata preclusa a priori ai membri di particolari
culture, anzi al contrario, sembra esservi un'apertura per forme di
appartenenza di transizione che ammettono il multiculturalismo.
E in
ogni caso, una volta che la società abbia perso la sua uniformità culturale -
qualunque ne siano state le cause, anche le errate politiche del passato - in
che modo dovrà cambiare la concezione repubblicana della cittadinanza per far
fronte alla nuova realtà multiculturale, posto che venga escluso il ricorso
all'assimilazione forzata o all'espulsione?
Il
nazionalismo etnoculturale, teorizzato nella tradizione culturale tedesca e
slava a partire da “Herder”, è incentrato sull'idea dell'autoespressione e
dell'autodeterminazione della nazione, tradizionalmente concepita come una
specifica comunità etnoculturale definita nella maggior parte dei casi dalla
lingua.
Il multiculturalismo può conciliarsi con il
nazionalismo solo nella misura in cui esso è subordinato al principio e alle
esigenze dell'unità nazionale a fronte dei compiti della nazione nel mondo.
Ma non si è riflettuto a sufficienza sul fatto che le
trasformazioni intervenute nel mondo contemporaneo impongono una riconsiderazione
e una ridefinizione del ruolo della nazione e del concetto di unità nazionale.
Il
nazionalismo etnoculturale riconosce l'opportunità che alcune nazioni decidano
di unirsi ad altre nazioni in uno stesso Stato, senza per questo rinunciare al
proprio diritto ad un nuovo tipo di autodeterminazione in futuro.
Ciò
significa che in qualsiasi momento una nazione potrebbe esprimere la volontà di
separarsi da uno Stato multinazionale o multiculturale.
Ma resta da stabilire, e su questo punto regna
una grande disparità di opinioni, quando e in che modo una comunità culturale
che aspira a diventare una nazione abbia il diritto di separarsi, e quale
porzione di territorio le debba essere riconosciuta.
È questo un problema di grande rilievo per il
futuro del Québec in un Canada multiculturale, della nazione catalana in
Spagna, ecc., ed è diventato di drammatica attualità dopo il crollo dell'Unione
Sovietica e della Iugoslavia.
Il
multiculturalismo sembra dunque inconciliabile con le principali ideologie
politiche moderne, e la sua effettiva esistenza pone ad esse importanti sfide.
Per l'ideologia conservatrice di destra il
multiculturalismo costituisce un problema nella misura in cui non si tratta di
una tradizione - come nel caso degli imperi premoderni da tempo scomparsi - ma
di un fenomeno nuovo, prodotto dalle nuove ondate migratorie e dal crollo delle
autorità e delle gerarchie tradizionali.
D'altro
canto, il conservatorismo non è ostile al pluralismo culturale in sé stesso.
Per
l'ideologia liberale, tradizionale paladina del pluralismo e della tolleranza,
il multiculturalismo rappresenta un problema in quanto con le sue
rivendicazioni di diritti collettivi mette in discussione l'universalismo
liberale e il valore supremo dei diritti individuali.
Se il
multiculturalismo e la politica dell'identità possono essere considerati a buon
diritto un prodotto dell'ideologia di sinistra e delle sue lotte contro le
discriminazioni, l'ineguaglianza e l'oppressione, tuttavia ciò non significa
che essi non rappresentino una sfida anche per il socialismo e per
l'egualitarismo di sinistra.
Il
particolarismo del multiculturalismo è inconciliabile con l'ideologia di
sinistra non meno di quanto lo sia con l'universalismo liberale.
Soprattutto,
esso mette in questione l'idea di un attore specifico quale motore determinante
del mutamento sociale - la classe nella tradizione socialista, il popolo
oppresso nel nazionalismo rivoluzionario dell'ex area coloniale, dell'America
Latina e dei Caraibi - senza peraltro indicarne uno alternativo.
Comunque
si configureranno gli sviluppi futuri, è certo che le nuove dinamiche culturali
delle società multiculturali post-nazionali richiedono analisi e riflessioni
più approfondite.
IDENTITÀ
(identità culturale).
Interculturatorino.it
– Antonio Perotti – Selim Abou – (2-5-2013) – ci dicono:
Questo
termine riveste due significati molto importanti.
Il
primo riguarda il “concetto d’identità “, che ha soprattutto un significato di
ordine psicologico.
L’identità
si riferisce alla percezione che ogni individuo ha di sé stesso, cioè della
propria coscienza di esistere come persona in relazione con altri individui, con i quali forma un gruppo sociale
(per esempio: famiglia, associazioni, nazione, ecc.).
Questa
percezione di identità non è solo individuale.
È il riconoscimento reciproco fra l’individuo
e la società.
Essa
comporta un aspetto soggettivo (la percezione del fatto che gli altri
riconoscono l’individuo la sua identificazione e la sua continuità).
Il
termine “culturale” ha, invece, un significato più tipicamente sociologico.
Esso deriva dal termine “cultura “, concepito
come patrimonio globale evolutivo dell’individuo e dei gruppi sociali ai quali
questi appartiene.
Questo
patrimonio culturale è dunque formato dalle norme di condotta, dai valori,
dagli usi e dal linguaggio che uniscono o diversificano i gruppi umani.
Quando
parliamo di identità culturale di una persona indichiamo la sua identità
globale, cioè una costellazione di svariate identificazioni particolari
riferite ad altrettante appartenenze culturali distinte, in processo dinamico
costante.
Quando
si parla di diritto alla propria identità culturale (il primo dei diritti
culturali) l’identità culturale viene definita sulla base di una triplice
dialettica:
la
prima dialettica è quella della diversificazione/coesione.
L’identità
culturale è luogo di formazione del legame sociale e politico; essa, lo
ripetiamo, si costituisce per un processo interattivo di assimilazione e di
differenziazione in rapporto con l’altro.
Una identificazione è una creazione di legami.
L’identità
indica un “io” che si costituisce a partire da un plurale, attraverso un
movimento di andata-ritorno, d’integrazione ma anche di rigetto.
In questo senso implica una dialettica
continua di diversificazione / coesione.
La
seconda dialettica che fa parte dell’identità culturale è la dialettica
particolare / universale.
L’identità è il rapporto tra il recto e il
verso o il “faccia a faccia” tra il carattere personale e comunitario, tra
individuo e società.
La persona individuale non è isolata, la sua
individualità più originale si esprime quando essa si situa “in faccia”
all’altro (sia individuo o comunità).
Se si
afferma l’identità come un diritto alla differenza senza indicare l’altra
faccia, la somiglianza, il diritto alla mia identità si trasforma in
pseudo-diritto.
“L’esperienza
democratica, consiste meno a giocare la carta dell’universale contro quella del
singolare – e inversamente – che a vivere sulla tensione storica, quella cioè
che ormai si arrischia tra il singolare e l’universale senza rinunciare all’uno
o all’altro”.
La
terza dialettica che costituisce la dinamica di ogni diritto culturale (primo tra i quali il diritto alla
propria identità culturale) è la dialettica del risultato/processo.
L’identità culturale non è un dato fossilizzato ma
essa implica un atto permanente di identificazione che suppone nello stesso
tempo la tradizione (quel patrimonio identitario che ci è stato trasmesso per
nascita o per i cicli vitali dell’uomo) e la libertà che esprime le diversità
volontarie, le scelte etiche dell’uomo.
Qualsiasi
identificazione di una soggettività (sia esso il soggetto personale o
comunitario) si fa su quanto abbiamo definito il faccia a faccia tra tradizione
e libertà.
Senza
questa interfaccia non si può concepire il diritto all’identità.
La
definizione di identità culturale concepita sulla base della triplice
dialettica (particolare / universale; risultato / processo; diversificazione /
coesione) che abbiamo presentato, corrisponde alla definizione di identità culturale ritenuta
dal progetto relativo a una “dichiarazione dei diritti culturali”, formulata
dal Consiglio d’Europa e dall’UNESCO.
Ai
fini di questa dichiarazione per l’espressione “identità culturale” si intende
“l’insieme dei riferimenti culturali per il quale una persona o un gruppo si
definisce, si manifesta e desidera di essere riconosciuto;
l’identità
culturale implica le libertà inerenti alla dignità della persona e integra in un processo permanente
la diversità culturale, il particolare e l’universale, la memoria e il
progetto”.
(SELIM,
Abou)
(Antonio
Perotti)
Identità
digitale:
un valore
fragile
dall’etica alla roboetica?
Ilruoloterapeuticodigenova.it
– Prof. Rodolfo Zunino – Varchi – (10-3-2023) - ci dice:
Esperto
e uomo della strada concordano sul fatto che il progresso tecnologico dei
decenni scorsi pone sfide evolutive del tutto nuove a tutti i livelli
generazionali.
La massiva e pervasiva diffusione delle nuove
tecnologie, smartphone in primis, costituisce un fattore critico di
cambiamento;
ciascuno ha in tasca una connessione verso
tutto il mondo circostante, e questo è un fatto potenzialmente dirompente.
Il
concetto di “Identità Digitale” si è, all’inizio, associato semplicemente ad un
insieme di diritti di accesso a servizi o informazioni;
non a
caso il reato di “furto di identità”, che è uno dei crimini più frequenti sul
mezzo telematico, consegue spesso all’accesso abusivo a sistemi informatici da
parte di utenti non autorizzati.
Ma la
realtà sociale e soprattutto il mondo giovanile stanno affermando, nei fatti
prima che nei princìpi, che il concetto non può essere ridotto al possesso e
utilizzo di una password o di qualche credenziale di accesso.
L’analisi in questo articolo cercherà di proporre una
nuova interpretazione dell’”Identità Digitale” secondo una luce
multidisciplinare, sforzandosi di ricondurre allo stesso fenomeno componenti
tecnologiche con altre, in certo qual modo, antropologiche.
La
compresenza di aspetti tecnici e socio/psicologici spesso offusca una lettura
efficace dello scenario contemporaneo, anche perché le rispettive comunità di
esperti hanno difficoltà nel trovare un linguaggio comune.
L’analisi cercherà quindi di bilanciare considerazioni
di tipo tecnologico con l’impatto sulla vita dei nostri giovani, identificando
qualche aspetto o condizione che rendono il periodo attuale peculiare e per
certi versi senza precedenti.
Lo
scenario.
Una
prima considerazione deriva da un fatto nuovo nella storia della scienza:
forse per la prima volta una generazione
acquisisce e padroneggia una tecnologia dirompente prima (e meglio) delle generazioni
che la hanno preceduta.
Di
fatto era sempre accaduto che una generazione sviluppasse una nuova tecnologia
e la trasmettesse alle successive con un processo di training;
oggi con smartphone & Co le cose vanno
diversamente. Non è infrequente sentire un adulto - anche non anziano - rivolgersi ad
un giovane - di ogni età - affinché lo aiuti nella gestione del mezzo
tecnologico.
Dobbiamo pur tuttavia tenere ben presente che
le generazioni fruitrici di fatto non conoscono gli strumenti che invece meglio
padroneggiano.
In un ardito paragone, si potrebbe immaginare
di trovarci all’inizio del XX secolo durante la diffusione dei mezzi
automobilistici, in cui però ragazzi (bambini?) siano i migliori piloti.
E saremmo ancora senza un codice della strada
…
Non si
può peraltro ridurre un simile fenomeno sociale a una mera conseguenza del
progresso ingegneristico.
Si
assiste infatti ad un certo mutamento antropologico, perché la diversità nella
competenza digitale amplifica il già presente (e fisiologico) gap
generazionale.
Ad esempio, un tale meccanismo può costituire
alibi per quella forma di “abdicazione dal ruolo parentale” che si riscontra in giovani
genitori, che
concedono ai figli piena autonomia nel controllo del mezzo tecnologico perché
“mio figlio/a è esperto/a e ho fiducia in lui/lei”.
La
frattura generazionale basata sulle competenze digitali costituisce un vulnus
molto critico le cui conseguenze saranno ben evidenziate più oltre.
Un
ulteriore punto di singolarità consiste nella associazione delle tecnologie
informatiche con altre legate alle telecomunicazioni.
Si era
già osservato alla fine del secolo scorso, con la diffusione esplosiva dei “Personal
Computer”, quanto le nuove generazioni potessero rivelarsi plastiche e
ricettive nei confronti degli strumenti informatici.
Quella fase, del resto, si manifestò in ambiti
e con ricadute a livello individuale (pensiamo al mondo dei video games),
esponendo i soggetti più deboli a pericolose devianze o patologie nel
comportamento o nella personalità.
Ma un
punto di svolta si è avuto quando a tale disponibilità di potenza di calcolo si
è associata - sullo stesso dispositivo - una pervasiva tecnologia di
comunicazione.
Il
possessore di uno smartphone o tablet oggi ha in mano una capacità informatica
superiore a quella usata per le missioni lunari, ma detiene anche la
possibilità pratica di vedere luoghi e parlare con persone in ogni parte del
pianeta.
Spicca
in questa prospettiva il ruolo visionario e lungimirante di figure quali “Steve
Jobs” che, con tutti i limiti personali e storici della figura, di fatto
diedero impulso a questa rivoluzione digitale.
Il
concetto.
La
combinazione informatica-telecomunicazioni stabilisce quindi un nuovo paradigma
di relazione interpersonale.
Le
nuove generazioni parlano e comunicano in modo diverso da quelle che le hanno
precedute, e anche se queste ultime alla fine usano gli stessi strumenti (ad
esempio Social Networks), il modello di interazione è totalmente differente fra
i due mondi.
Spesso
le generazioni mature faticano a riconoscere che, de facto, il fatto di “stare
continuamente connessi sui Social” rappresenta un nuovo modello di relazione
sociale, con cui bisogna pur sempre fare i conti.
La
conseguenza di tutti questi aspetti singolari è che dobbiamo gestire una nuova
dimensione digitale, su cui molti giovani contemporanei fondano, talvolta
inconsciamente, il concetto di “Identità Digitale”.
Alla
tradizionale percezione della propria identità basata su coordinate di tipo
‘fisico’ (un soggetto si riconosce secondo la propria realtà esteriore, il
comportamento e le relazioni), la dimensione digitale aggiunge una coordinata
che è esclusivamente immateriale e relazionale: l’identità personale deriverà dalle
domande “chi sono io?” ma anche “con chi sono connesso?”.
Il
riconoscimento e la costruzione della propria identità nascono quindi da un
equilibrio di queste due componenti; per contro, molte problematiche di tipo
personale, giudiziario e infine patologico possono nascere dalla perdita di
questo equilibrio stesso. Nello scenario discusso in precedenza si ritrovano
parecchi fattori di rischio che possono compromettere questo delicato processo.
In
primis, la frattura generazionale sulle competenze digitali indebolisce la già
flebile possibilità di una guida parentale;
la disponibilità di tecnologia non
accompagnata da una adeguata conoscenza culturale (da parte dei genitori)
ostacola la formazione di un’etica nell’uso del mezzo tecnologico;
non da ultimo, la connettività ubiqua e
pervasiva può incidere sulla esigenza di privacy dell’individuo.
Possiamo
constatare che spesso gli adulti non hanno strumenti culturali e pedagogici per
indirizzare i propri successori.
Di
fatto esiste una nuova dimensione digitale, ma nessuno sa bene come questo sarà
gestito dalla generazione entrante e ci si basa su canoni interpretativi non
adeguati perché obsoleti. Proveremo almeno a basare l’analisi su una iniziale
prospettiva tecnologica.
Identità
fragile a livello individuale.
Un
significativo pericolo a livello individuale consiste nella (inesistente)
dicotomia fra mondo reale, che sarebbe meglio definire ‘fisico’, e mondo
‘virtuale’, che sarebbe meglio definire ‘digitale’.
Non
siamo predisposti (diremmo antropologicamente) a gestire una nuova dimensione
della nostra identità, il che in molti casi porta a gestire quest’ultima come
un fenomeno separato o separabile dal mondo fisico.
Quando
questo meccanismo non è accompagnato da una adeguata consapevolezza anche a
livello tecnico, può nascere una distorta percezione della propria identità,
con possibili sdoppiamenti fra la personalità e i comportamenti nel mondo
fisico e quelli nel mondo digitale.
Cronache
e vita comune testimoniano frequentemente casi di persone che conducono un
certo stile di vita nel mondo quotidiano e uno stile del tutto antitetico e
insospettabile in rete.
Diversi fattori tecnologici sono alla base
della tentazione di disaccoppiare la coordinata fisica da quella ‘virtuale’.
In
primo luogo troviamo, paradossalmente, la comodità di uso dei dispositivi:
esperti e forze dell’ordine concordano sul fatto che spesso si agisce in modo
improprio o illecito solo perché “è facile farlo”; in altre parole la
tecnologia sembra allentare un freno inibitore, naturalmente ancora una volta a
causa della mancanza di un’etica nell’uso del dispositivo.
Un
secondo fattore incentivante di comportamenti scorretti è la falsa percezione
di anonimato offerto dal mezzo tecnologico e in particolare dalla rete.
La
mancanza di conoscenze illude sul fatto che quanto fatto su Internet, solo
perché si sta usando magari un profilo alternativo, non sia rintracciabile:
questa
è una falsa percezione della verità perché ogni azione nel mondo digitale
lascia tracce al pari di ogni atto commesso nel mondo fisico.
Su
questo aspetto si sovrappone frequentemente una presunzione di non identificabilità
mediante una esposizione personale ‘selettiva’: in altre parole, uno si
convince di non poter essere identificato perché non espone informazioni che
possano ricondurre alla sua identità anagrafica.
L’esperienza insegna che in verità questa è
una percezione illusoria; ben poche persone (e solo quelle addestrate) riescono
a 'compartimentare' le informazioni esposte secondo profili precostruiti.
La chiave di lettura sta nella cronologia
delle informazioni ‘postate’ in rete: l’utente di solito opera secondo una
finestra temporale di consapevolezza molto ristretta, e non ricorda le
informazioni esposte in precedenza.
Il
problema è aggravato dall’ uso intensivo del mezzo tecnologico che tende a
spostare il focus di attenzione sul “qui e ora”.
È
interessante osservare che questo meccanismo non interessa solo la platea di
utenti “non informati” ma si rileva trasversale in tutto il cyberspace:
esistono casi ‘eccellenti’ di tecnici esperti o persino hacker che cadono nella
trappola della sovraesposizione o presunzione di non identificabilità. Questo a
riprova della dimensione antropologica e non solo tecnica del fenomeno.
Un'ultima
ma non meno importante componente di rischio derivante dalla tecnologia
consiste nella assunzione di irraggiungibilità, con cui ci illudiamo che gli
interlocutori telematici non possano entrare in contatto fisico con noi. In
sostanza, se anche la mia identità anagrafica fosse disponibile, percepisco il
mondo 'virtuale' come distante e quindi mi sento inviolabile dal momento che
non vedo un punto di contatto con il mondo reale.
Naturalmente
un tale punto di contatto esiste ed è la persona stessa, che integra in sé sia
la dimensione fisica sia quella digitale.
Questa
è una potente leva su cui agiscono gli esperti malintenzionati per raggiungere
obiettivi criminosi, di cui l'adescamento online rappresenta un esempio
indiscusso.
Identità
fragile a livello sociale.
Ad
aspetti che riferiscono alla sfera individuale si associano diverse componenti
legate alla dimensione sociale del mondo digitale.
In una realtà iperconnessa l'identità
personale si concretizza anche nell’universo tecnologico e lì, ovviamente, il
primo problema consiste nella vastità del contesto con cui ci si confronta.
Ancora
una volta la semplicità, potremmo dire talora la brutalità, del mezzo digitale
si fa complice contro una corretta maturazione della propria identità.
Aver
ridotto l’interazione digitale ad una categoria manichea del tipo “mi piace/non
mi piace” azzera le sfumature e trasforma un processo qualitativo di relazione
ricco di sfumature in un mero conteggio quantitativo, esasperando spesso
aspetti competitivi che portano a devianze comportamentali quali il sexting o
la esibizione incontrollata in rete.
Se
questa ultima componente riguarda soprattutto il mondo
giovanile/adolescenziale, il problema della scarsa attenzione alla visibilità
dei contenuti permea invece la popolazione digitale in modo trasversale.
Solo
di recente si sta affermando la consapevolezza che è opportuno porre un filtro
non solo ai contenuti esposti, ma anche a chi potrà accedervi.
Questo
è reso ancor più importante dalla natura persistente dei dati in rete: foto o
video, seppure rimossi dalla fonte primaria, possono restare accessibili
tramite fonti alternative anche molto tempo dopo la loro cancellazione.
In questo senso ogni volta che si posta qualcosa sul
web, si costruisce un pezzo della propria identità digitale ma al tempo stesso
se ne perde il controllo esclusivo.
Gli
impatti sociali di queste realtà sull'idea di Identità Digitale sono
molteplici.
Dedichiamo
volutamente appena un cenno al problema assai diffuso e critico del
cyber-bullismo, solamente perché è oggetto di approfondite analisi e azioni
correttive a diversi livelli.
Sottolineiamo
solo come questo fenomeno possa essere ricondotto alla gestione di una identità
personale, in cui la dimensione digitale agisce come rafforzativo di spinte o
percezioni verso comportamenti deviati.
Interessante
dal punto di vista sociale è il fatto che molte agenzie di placement e scouting
hanno iniziato a servirsi di tecnologie di profiling, che aggregano tutte le
informazioni riferibili ad una certa identità e ricostruiscono un quadro
complessivo, su cui basare interviste e processi di selezione.
Più in
profondità, attraverso la ricostruzione dell'identità digitale mediante
un'analisi accurata dei contatti in rete e dell'attività relazionale su Social
Network e blogs, è possibile di norma delineare i tratti della persona nella
sua interezza.
Prospettive.
Un
tratto comune che si riscontra spesso nelle interazioni in materia digitale fra
il mondo giovanile e le generazioni adulte è l'atteggiamento sconcertato e
spesso nostalgico di queste ultime: da un lato si constata la distanza dalla
controparte, ma dall'altro si auspica un imprecisato ritorno al passato in cui
le interazioni si attuavano in modo diverso o 'tradizionale' ["ai miei
tempi alla tua età mi vedevo con gli amici in giro invece di stare sempre
attaccato al cellulare"].
Escludendo
ovviamente fenomeni patologici o eccessi che pur sussistono, si deve prendere
atto che il modello tradizionale non tornerà perché il cambiamento è
irreversibile.
Tocca
quindi alle generazioni mature evolvere verso le nuove e avvicinarsi al loro
modello relazionale.
Una
semplice constatazione statistica ne fornisce una prova indiretta: se si chiede
ad un professionista di diffusione culturale quale sia la parte più difficile
nell'avviare i giovani ad un corretto approccio alle tecnologie, la risposta
invariante sarà "educare i genitori".
Se
tutti concordiamo sul ruolo imprescindibile della formazione, potrebbe invece
giovare uno spostamento di focus nella presentazione dei contenuti:
troppo spesso oggi la formazione digitale si
riduce a insegnare "come si usa qualcosa", mentre alla luce di tutto
quanto sopra sarebbe meglio che si educassero i giovani a chiedersi "come
divento io quando uso qualcosa".
La
variazione di prospettiva educativa o didattica deve tendere quindi verso una
maturazione di consapevolezza piuttosto che verso un arricchimento di
competenze.
Troppo
spesso si assiste nella scuola moderna ad un modello didattico in cui
l'insegnamento digitale consiste in lezioni di informatica o, anche peggio,
nell'uso di strumenti informatici.
Non
sembra velleitario auspicare che, grazie alla crescente attenzione al problema
da parte di vari attori istituzionali, si costruisca progressivamente la
generazione digitale di cui tanto si parla.
Un
punto utile di formazione può essere costituito dalla integrazione dei valori e
dell'etica nel nuovo contesto digitale.
Da un
lato il futuro non appare del tutto chiaro proprio per la mancanza di
precedenti storici o sociologici, ma piace pensare che le nuove generazioni
sapranno costruire in sé i valori e gli anticorpi per maturare, dietro una
guida mirata, una corretta costruzione della propria identità a tutto tondo.
La
tecnologia ha una identità?
Finora
abbiamo considerato l'evoluzione delle interazioni uomo-tecnologia dal punto di
vista del primo.
Il
progresso scientifico apre però una seconda prospettiva, anch'essa del tutto
inedita e ugualmente sfidante: anche le macchine digitali (in senso lato,
comprendendo anche strumenti software) possono maturare una propria identità.
Escludiamo
qui scenari più o meno avveniristici di macchine che acquisiscano una
auto-coscienza;
oggi
questo non sembra ancora attuale, sebbene potrebbe essere utile iniziare a
dotarsi di serie categorie concettuali per gestire una tale situazione nel
momento in cui si presentasse.
È
invece assolutamente realistico e concreto lo scenario in cui una macchina
dispone di
1) una
propria "personalità" e
2) la
capacità di apprendere.
Profetico in tal senso il ruolo dell'inglese “Alan
Turing”, altro gigante del secolo scorso, il quale preconizzò che presto si
sarebbero realizzati automi il cui comportamento sarebbe stato indistinguibile
da quello di un essere umano.
Oggi
esistono diversi esempi di realizzazioni digitali che superano il test di
Turing, basti pensare ad alcuni risponditori digitali evoluti o ad assistenti
virtuali.
Riguardo
al requisito di una personalità digitale, le macchine moderne hanno tanti gradi
di libertà e possibili parametri che due prototipi, di fronte ad una decisione,
quasi inevitabilmente seguiranno scelte individuali.
Turing
introdusse nelle macchine persino comportamenti irrazionali, facendo sì che
seguissero ogni tanto scelte casuali invece che deterministico-algoritmiche.
In altre parole, oggi due software evoluti si
comportano con noi in modi diversi e individuali.
La
capacità di apprendere caratterizza le macchine digitali ormai da diversi
decenni.
Chi
scrive si occupa di “machine learning” o “apprendimento empirico” dagli anni
'90 e il progresso su quel fronte è stato davvero notevole.
Oggi è
possibile costruire un sistema digitale che parte "vuoto", osserva
progressivamente il mondo (cioè gli stimoli cui è sottoposto) e si adatta di
conseguenza per ottimizzare un certo risultato.
Esistono
oggi macchine che, osservando il comportamento umano, imparano a pilotare
aerei, guidare automobili, riconoscere volti e persone, controllare impianti
industriali, leggere testi in linguaggio naturale, riprodurre le preferenze
percettive di un umano, prevedere andamenti di borsa, supportare diagnosi cliniche
(entro certi limiti).
Se
uniamo la possibilità di scelte individuali con la capacità di adattarsi al
contesto, otteniamo che oggi non esistono due macchine (evolute) che si
comportano in modo uguale;
questa è una importante premessa verso la
formazione di una identità digitale delle macchine.
Indispensabile
qui astenersi da ogni contaminazione 'mediatica': troppo spesso la divulgazione
in materia si piega a esigenze cinematografiche con macchine antropomorfe;
oggi le macchine 'intelligenti' che ci circondano
hanno ogni forma ma non umanoide.
Basti pensare ai robot che già puliscono molte
case e imparano da soli la mappa dell'appartamento nonché le nostre preferenze
di orario.
Non
pare oggi imminente uno scenario in cui le macchine acquisiscano un potere
cognitivo superiore a quello umano (incidentalmente, lo stesso Turing are
convinto che prima o poi sarebbe accaduto).
È invece realistica l'esigenza di costruire
un'etica digitale delle macchine:
dal
momento che possono avere una personalità autonoma e compiere scelte
individuali diventa necessario dotare i sistemi di meta-regole che ne governino
i comportamenti.
Molto
critico (e attualissimo) il caso dei droni militari, vere macchine autonome
dotate della capacità di apprendere, perseguire obiettivi, e compiere scelte di
evidente delicatezza.
Il contesto della” RoboEtica “per ora non ha
incontrato un vero riscontro di consapevolezza né nei media né, spesso, nella
comunità degli esperti.
Questo
probabilmente è anche dovuto alla associazione "intelligenza
artificiale" - "robot", anch'essa figlia di un mondo
cinematografico ma invece estremamente parziale e limitativa.
La
personalizzazione, l'apprendimento induttivo, l'esigenza di meta-regole etiche
travalicano il mondo della robotica e devono invece estendersi a tutto il mondo
delle macchine digitali evolute.
Un
tentativo di conclusione. Una conclusione importante di questa analisi, pur nella sua
incompletezza, consiste nell'aver definito l'Identità Digitale di ogni
individuo come un processo dinamico e non come un fatto statico.
Nel
momento in cui abbiamo maturato una nostra etica digitale, le informazioni che
acquisiamo e le interazioni che attuiamo sul mezzo telematico possono arricchirci
e migliorarci non meno di quanto apprendiamo dalle persone che incontriamo e
con cui colloquiamo.
Sembra
opportuno chiudere con alcune pillole di esperienza che possono aiutare a
definire e gestire la propria dimensione digitale;
consistono in considerazioni o domande (meno
che mai esaustive) che può essere utile tenere presenti quando ci si muove nel
mondo digitale.
Il
mondo virtuale non esiste; esiste solo quello reale.
Il tuo
mondo digitale è parte di te.
Lo
specchio riflette la tua immagine, il tuo mondo digitale rispecchia i tuoi
valori.
Quando
dici qualcosa a qualcuno in rete, chiediti se glielo diresti se lui/lei fosse
davanti a te.
Quando
fai qualcosa in rete, chiediti se lo faresti di fronte a tutti quelli che ti
conoscono.
Quando
posti qualcosa, chiediti se ti andrà bene che ciò che esponi si possa ancora
vedere fra dieci anni.
Ogni
tanto prova a chattare con i tuoi familiari.
(Rodolfo
Zunino è Professore Associato presso il Dipartimento DITEN)
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