La vita moderna è ostile a tutte le tematiche legate all’identità.

 

 

Identità nazionali, identità politiche

"canoni" e antitesi tra

moderno e contemporaneo.

Storicamente.org - Maria Pia Casalena – (20-5-2021) – ci dice:

 

1. Antinomie irrisolte.

Democrazia vs Autoritarismo, Rivoluzione vs Controrivoluzione, Spagnolismo vs Antispagnolismo, Eccezionalità meridionale vs Unicità sostanziale della vicenda italiana.

A queste e ad altre coppie antitetiche sono dedicati i quattro volumi che, tra 2003 e 2004, hanno inaugurato la collana “Storiografica” diretta da Da Benedictis, De Francesco e Musi.

I primi tre presentano gli atti di convegni tenuti tra 1999 e 2002 a Potenza (La democrazia alla prova della spada), Salerno (Nazione e controrivoluzione nell’Europa contemporanea), Maiori (Antispagnolismo e identità italiana), che hanno coinvolto studiosi – in gran parte modernisti – italiani, accanto a specialisti di diversi paesi europei.

 Il quarto, a firma di De Francesco, consiste in una sintetica quanto densa e problematica ricostruzione del 1799 tra caso napoletano e dinamiche italiane ed europee.

Una triplice prospettiva di analisi – internazionale, nazionale, regionale – caratterizza tutti i volumi, assieme al superamento critico degli ‘steccati’ tra moderno e contemporaneo in una indagine di lunga durata su permanenze e mutamenti nei discorsi e nelle pratiche politiche.

 

Il punto di partenza, o meglio, l’asse attorno al quale ruota direttamente o indirettamente la riflessione, è la Rivoluzione francese.

Questa è intesa sia come grande – e non univoco - spartiacque nella storia di quel paese, sia come oggetto di una esportazione in armi destinata a mutare scenari europei ed extra-europei tramite complessi processi di adesione, repulsione, appropriazione selettiva e costruzioni di memorie collettive.

I testi, “classici” o “minori”, del discorso politico e storiografico sono dunque oggetto, nell’ambito dei volumi e della collana, di una grande attenzione che si traduce in uno sforzo di contestualizzazione oltreché di (re)interpretazione.

Ci si muove, nelle citazioni e nelle note a piè di pagina, tra quei testi e una gran copia di documenti d’archivio.

Nei saggi introduttivi si fa tra l’altro il punto sul dibattito più recente, offrendo in prima battuta percorsi “ragionati”, per lo meno pluridecennali, di storia della storiografia.

Sembra prevalere, in particolare in alcuni dei volumi e nei saggi dedicati alla realtà meridionale, un orientamento da «Annales», una particolare attenzione ai “caratteri originali” e alla sociologia storica.

Nel più ‘modernista’ dei volumi, “Alle origini di una nazione”, emergono come punti di riferimento la “Méditerranée” di Braudel e “la storiografia” di Giuseppe Galasso.

 

Il fulcro del discorso, si diceva all’inizio, è l’identità nazionale, per come essa si è venuta plasmando, nei paesi toccati dall’Armée, tra antico regime e discorsi politici otto-novecenteschi.

Dal 1799, anno particolarmente critico e dalla straordinaria valenza periodizzante, prendono le mosse tre dei quattro volumi.

La stagione “giacobina” e l’età napoleonica hanno impresso una forte accelerazione ai processi di modernizzazione politica, socioeconomica e culturale di quei paesi, senza però liquidare definitivamente l’antico regime, e senza scongiurare l’approfondirsi di ferite, spaccature, contrapposizioni destinate a riemergere periodicamente, a dimostrazione della persistente vitalità di discorsi e patrimoni identitari ‘altri’.

Rimossi dai processi di nazionalizzazione messi in moto con i sistemi liberal-democratici, confinati tra parentesi, o banalizzati, o consegnati alla storia dei vinti da testi e autori “canonici” , i termini negativi del confronto tra nuovo e vecchio hanno in realtà conservato una propria legittimità, in primis su particolari scale sociali o spaziali.

Ciò che più conta, hanno essi stessi informato in senso costruttivo meditazioni critiche che, minoritarie presso la liberal-democrazia del secondo ’800, sono poi state recuperate (in chiave di strumentalizzazione) dai regimi antidemocratici del XX secolo, fino a riemergere nell’agenda politica attuale come problematiche irrisolte dentro e fuori i confini degli Stati nazionali.

 

2. Libertà esportata, Libertà tutelata.

I ventisei saggi dedicati alla Esperienza e memoria del 1799 in Europa si confrontano in gran parte con il problema – politico e storiografico al contempo – della legittimità di porre il colpo di stato napoleonico del 1799 a ‘modello’ di successivi regimi illiberali, che dalla Costituzione di quell’anno avrebbero mutuato sic et simpliciter l’inedita e geniale sintesi tra espressione diretta della volontà generale e sua reificazione nella centralità assoluta dell’esecutivo - a sua volta identificabile tanto con l’imperatore o con il presidente della repubblica quanto, soprattutto, con i leader di regimi autoritari (fascismi, dittature militari, ecc.) nati dalla soppressione del parlamentarismo ‘classico’.

Implicitamente, si solleva un’altra questione, più generale e probabilmente resa più urgente da questioni di stretta attualità.

 Al di là delle opinioni e militanze ideologiche, è plausibile teorizzare il connubio tra democrazia e autoritarismo (o “tutela” autoritaria della libertà), tra diritto alla autodeterminazione dei popoli e sua delega alle armi (per di più straniere)?

 

Nelle prime due sezioni del volume, gli autori, portando a sintesi ricerche talvolta molto lunghe, si confrontano con gli scenari politici, sociali ed economici sui quali Brumaio andò ad innestarsi.

 Autore di una recente monografia sulla temperie di Brumaio, “Gainot” fa qui emergere in tutta la loro - spesso dimenticata, o al contrario esagerata - drammaticità i problemi che la repubblicanizzazione aveva procurato tanto in Francia quanto fuori, laddove la ‘democratizzazione’ era inscindibile dall’azione di generali sovente in contrasto col Direttorio parigino.

L’instaurazione delle “repubbliche sorelle” stava rapidamente evolvendo in una – preoccupante, per Parigi - tensione delle stesse verso l’autonomia nazionale; mentre il contesto internazionale e l’instabilità interna suggerivano ai governanti della capitale francese di mediare, in un cauto attendismo, tra consolidamento in Francia e fermo controllo sui territori portati alla “rigenerazione”.

Ovunque fosse arrivata la Rivoluzione, si faceva comunque sentire il peso della Carta del 1795, variamente aggirato ogni qual volta i contrasti tra legislativo ed esecutivo si esprimessero troppo acutamente. Rivoluzione e nazionalità, volontà generale e governabilità apparivano ormai difficilmente sintetizzabili.

 

Le vittorie della Seconda coalizione e il crollo delle “repubbliche sorelle”, nel 1799, davano ragione sia ai nemici della modernità, sia a quanti, all’interno del “giacobinismo”, avvertivano da tempo la necessità di nuove soluzioni costituzionali e istituzionali.

 La ricerca della stabilità diventò allora il primo punto all’ordine del giorno.

 Brumaio aprì quella transizione “dal Consolato all’Impero” lungo la quale l’ordine repubblicano, scisso dalla libertà, si sarebbe dispiegato fin nella cornice della monarchia amministrativa.

Anch’essa, come già la repubblica, fu ‘esportata’ al di là delle Alpi, e avrebbe negli anni appagato parecchi “giacobini” (auto)critici, preparando peraltro, nel Mezzogiorno, la stagione rivoluzionaria del 1820.

 Per altri, per il nocciolo duro del democratismo tremendamente frustrato dall’esito costituzionale del 1802, Brumaio avrebbe dovuto invece evolvere in una ripresa accelerata della ‘esportazione’ di democrazia, suggellata dalla proclamazione di repubbliche indipendenti. 

Per tutti comunque si apriva, auspicata in Italia dal Saggio storico di “Cuoco”, una lunga stagione di riflessione che avrebbe condotto ad interrogarsi su quanto di originale vi era nella vicenda nazionale, e su come ciò potesse conciliarsi con le novità (troppo) violentemente e tempestosamente imposte dai generali dell’Armée.

La riconciliazione di nazione e libertà sarebbe passata attraverso altri nodi; il concetto stesso di libertà avrebbe definitivamente rotto i ponti, non solo nel moderatismo, con la pregiudiziale ‘robespierrista’ che si vedeva allignare nel “giacobinismo” del Triennio e che contraddiceva all’origine la buona eredità illuministica e le sue possibilità di successo.

 

Si pone, a questo punto, il problema della memoria del 1799.

 Una memoria che, portandosi dietro l’onere di dialettiche irrisolte con la Grande Nazione e di processi di repubblicanizzazione imposta con grande celerità, si rivela necessariamente divisa.

La stagione “giacobina” sopravvive concretamente in quello che potrà rimanere in piedi dell’architettura istituzionale rivoluzionaria e nelle priorità del liberalismo ottocentesco.

 La libertà, tuttavia, si salda in maniera più stretta – e più diretta – con la nazionalità, rendendo urgenti strategie di ricomposizione e rielaborazione condivisa.

 È quanto accade nella Confederazione Elvetica, il cui Verfassungspatriotismus si rivela però estremamente debole nel suo tentativo di recuperare da una parte le premesse autoctone e, dall’altra, di post-datare la “rigenerazione” nazionale al 1848.

È quanto avviene in Olanda dopo la restaurazione orangista, allorché il ritorno del ‘principio nazionale’ monarchico permette, salva la buona eredità rivoluzionaria, di superare il dissidio tra filo francesi e filo britannici nel trionfo di un patriottismo scevro da compromettenti connivenze internazionali.

 E in Italia?

La memoria del 1799, è noto, ha rappresentato uno dei nodi più sofferti e controversi, intrecciata com’era in modo estremamente critico alla storia del Risorgimento nazionale.

 Essa forniva d’altro canto al Mezzogiorno un titolo di ammissione inestimabile ai primordi del moto unitario, oltre che porgli un plesso di quesiti cruciali circa i limiti della propria ‘vocazione’ alla civiltà liberal-democratica.

 A partire da “Cuoco”, il patriottismo risorgimentale ha elaborato una memoria selettiva o apertamente critica della fine del XVIII secolo, recuperando piuttosto la stagione del riformismo autoctono.

Questo, a sua volta, dovette piegarsi alla critica di un Villari, fautore di una serrata – e fortunata, nella mentalità e nella storiografia - stigmatizzazione delle élites meridionali.

Indigesto al sabaudismo trionfante, ma anche al “conciliatorismo” crispino e al mazzinianesimo della Società per la storia del Risorgimento, il Novantanove rimase tuttavia patrimonio genetico inestinguibile per il Sud, anche in quelle province che avevano sperimentato più drammaticamente le insufficienze della repubblicanizzazione, la persistenza dei poteri tradizionali, l’incolmabilità della distanza tra “patrioti” e “plebe”.

La memoria del Novantanove servì, adeguatamente corretta e ‘moderata’ a legittimare l’ascesa di dinastie politiche; a fornire ad élites democratiche, defilate tra 1848 e 1861, gli strumenti per rimpiazzare gradualmente i potentati borbonici; a corroborare di patrimonio simbolico la battaglia contro le tentazioni autoritarie di fine secolo.

 

Come nei cantoni cattolici della Svizzera, come presso i cattolici tedeschi, il Triennio “giacobino” si riassumeva per i fedeli italiani nell’“oltraggio” perpetrato a Pio VI.

E di questa memoria dolorosa si servirono abbondantemente i pontefici della Restaurazione, allineati al progetto “zelante” di ricristianizzazione della società, fino a Pio IX, la cui ‘fondazione’ del culto mariano affondava le radici proprio nella battaglia a tutto campo contro il repubblicanesimo empio e invasore del 1798-99 e del 1849.

 

Per la Francia, costruire la memoria del 1799 ha significato innanzi tutto provvedere alla elaborazione di Brumaio.

Fortemente voluta dallo stesso Bonaparte, essa presentò non pochi problemi e, soprattutto, permise di aprire - tra le pieghe di récits prudentemente misurati – la breccia per più di un lungimirante motivo critico.

 Le interpretazioni furono tante e le “deduzioni” variamente motivate: Brumaio come riparazione alla irresponsabilità della borghesia, Brumaio come unica soluzione alle esigenze di politica internazionale, Brumaio come provvidenziale saldatura tra libertà e ordine.

 

Per gli storici di oggi, però, si pone il problema di distinguere tra modellizzazioni eccessivamente acritiche e sistemi politici e costituzionali concretamente esistiti (o esistenti).

Così, mentre è utile riprendere le tesi di Tocqueville per spiegare il passaggio – ricorrente nella storia francese – dalla democrazia all’autoritarismo (nella forma del cesarismo), pare altrettanto doveroso abbattere ogni pretesa di continuità ideale tra il giacobinismo rivoluzionario e l’antiparlamentarismo conservatore.

Scisso dall’idea di libertà, il secondo ha legami col primo solo in quanto quest’ultimo è fatalmente sfociato nello Stato amministrativo, delegando all’esecutivo gran parte delle funzioni originariamente riservate alle assemblee espresse dalla volontà generale.

Considerando la regolarità e la correttezza con cui si svolgevano le elezioni politiche e la garanzia dell’assunzione di responsabilità, assieme alla durata limitata del mandato presidenziale, sembra inoltre scorretto ammettere tra i cesarismi anche il gaullismo.

Per questo, conviene coniare piuttosto la definizione di “repubblica autoritaria”, che rende giustizia al ruolo non formale assicurato alla “volontà generale”.

3. Nazione, Nazioni.

Percorso tortuoso, quello della liberal-democrazia originata dalla Rivoluzione francese.

Continuamente minacciata dalle contraddizioni che essa stessa ha lasciato irrisolte – tanto che è ancora necessario interrogarsi e interrogare i testi per comprendere appieno il significato e il posto attribuiti alla “libertà” e alla “volontà generale” -, essa ha subito ovunque riformulazioni, interruzioni, negazioni, dolorose quanto necessarie per avvincerla più indissolubilmente all’idea moderna di nazione politica.

Anche quest’ultima, peraltro, si rivela essere un patrimonio tutt’altro che unanimemente condiviso e ineluttabilmente trionfante, se solo ci si accosta con occhio disincantato ai discorsi sulla crisi dello Stato nazionale e se ne rintracciano le radici (socioeconomiche, ma anche culturali) sette-ottocentesche.

L’individuazione, con prosopografica esattezza, dei già molto denunciati limiti del “giacobinismo” italiano, e in particolare di quello meridionale, introduce di per sé il quesito su quanto avveniva – dando prova di coriacea resistenza - al di fuori di quel perimetro.

 Nel caso teramano, in un contesto di totale contrapposizione tra realtà urbana e dominante componente rurale, proprio le lacune del riformismo borbonico avevano predisposto le basi materiali dell’incomunicabilità tra “giacobini” e antico regime, tra democratici e masse popolari.

La controrivoluzione godeva, qui e altrove, di autonome forme organizzative e discorsivo-simboliche, che nel tempo – con evidente accelerazione a datare dal regicidio d’Oltralpe – avevano saputo incamerare, mutuare e tradurre in un controcanto per nulla pedissequo certe manifestazioni della modernità auspicate già dall’illuminismo, come le forme accademiche e il latomismo massonico.

 Del campo avverso una struttura controrivoluzionaria come l’Accademia Sebezia poteva recuperare anche una parte della composizione sociale;

per il resto, si trattava di una associazione rigidamente gerarchizzata che, aprendo la “base” anche alle donne, ospitava ai massimi vertici i portavoce del legittimismo nobiliare e clericale, e annoverava tra i membri onorari niente meno che i Borboni e il pontefice in persona.

 

Emancipata dalle teleologie forgiate dai vincitori, la contemporaneità si presenta anche come terreno di scontro tra la Rivoluzione e la Controrivoluzione.

Matrice del liberalismo politico e culla della democrazia la prima, la seconda si è prestata ad una indebita liquidazione come fenomeno circoscritto nel tempo e nello spazio, residuale in ogni sua manifestazione.

 E in effetti, nella gran parte dei casi, i programmi e la memoria controrivoluzionari non hanno conservato nel XX secolo che consensi risicati o fruizioni riservate a nicchie defilate e autoreferenziali, inidonee a misurarsi con le regole della democrazia e quindi destinate, tranne che in caso di reviviscenze eclatanti, all’oblio degli osservatori e dell’opinione pubblica.

 

La storiografia ha condiviso solo in parte tale oblio. L’interesse per la controrivoluzione, come per ogni altra tematica, è oscillato assieme all’alternarsi di orientamenti e approcci tanto sul piano politico quanto su quello più interno alla comunità dei professionisti.

 Ad introduzione della raccolta su Nazione e controrivoluzione nell’Europa contemporanea (1799-1848), “Di Rienzo” si sofferma sui contributi apparsi tra le due guerre, quando l’appropriazione del Risorgimento rappresentò oggetto di contesa non ‘solo’ tra fascisti e antifascisti ma anche all’interno degli opposti schieramenti.

 

Le insorgenze antifrancesi acquistarono allora titoli di legittimità come patrimonio genetico del patriottismo/nazionalismo spontaneo delle “plebi”, e come manifestazione la più chiara dei limiti della rivoluzione ‘importata’.

Non solo un problema e un ostacolo da superare, dunque, com’era stato per “Cuoco” e per la democrazia ottocentesca:

 le insorgenze potevano prestarsi ad arricchire il discorso del fascismo di sinistra, ridare linfa al cattolicesimo intransigente, essere persino ammesse - oculatamente selezionate - nella memoria liberal-democratica e nel dna resistenziale.

 Di più: della riflessione gramsciana poteva giovarsi, dopo il tramonto dell’unità ciellenista, l’antirisorgimentismo comunista.

In seguito, a parere di “Di Rienzo”, hanno avuto la meglio le letture pregiudizialmente univoche della storiografia liberal-moderata ‘ortodossa’, di quella “demoradicale” e, sulla scorta di Gramsci, di quella che viene definita la “sinistra storiografica” e verso cui sono espressi qui giudizi a nostro avviso affatto ingenerosi.

Di contro, certo favorita dalla pressione dell’attualità, una nuova storiografia, disposta a recepire la dimensione internazionale, la capacità organizzativa, l’importanza della collocazione spaziale, il pragmatismo discorsivo e operativo della controrivoluzione, si è fatta strada nel dibattito europeo acquisendo infine piena dignità istituzionale.

 

Interessato al Mezzogiorno d’Italia, “De Francesco” rintraccia nella cultura politica otto-novecentesca l’epifania di un nesso causale frettolosamente tracciato fra la “naturale” indole antidemocratica – poi antirisorgimentale tout court – attribuita a quelle “plebi” e l’immane consenso raccolto dal sanfedismo.

Si tratta di un nesso improprio che, estraneo al patrimonio democratico ottocentesco (da Mazzini a Pisacane), equivocamente anticipato dalla apologia nazionalista delle insorgenze antifrancesi (da “Rodolico” al fascismo “di sinistra”), ha finito per confluire nello strumentario dell’antirisorgimento.

Al contempo, nel campo avverso non si sono colte le riflessioni di “Lumbros”o sulla natura classista delle insorgenze, né si sono approfondite le critiche dei “Ferrero”, “Lombroso”, “Turiello” e “Salvemini” che, da diversa posizione, stigmatizzavano piuttosto l’accentramento amministrativo e la passività del democratismo autoctono di fronte a direttive e modelli francesi.

 

Il pionieristico e a lungo inimitato approccio lumbrosiano rivive nel lungo saggio che “Cirillo “dedica al “sanfedismo”.

 Qui si pone particolarmente l’accento sul risultato conseguito dalla controrivoluzione – grazie anche al ‘cemento’ della religione - nella ricerca di un’adesione diversificata:

ciò che di fatto non riuscì ai “giacobini”.

D’altra parte l’autore, esperto conoscitore della realtà socio-economica di antico regime, insiste pure sulla specificità del retroterra pre-rivoluzionario, già minato dall’emergere dell’individualismo agrario e dalla lotta tra clan feudali in crisi.

Il” familismo” e il “clientelismo”, in altre parole, devono spiegare gran parte delle oltre cinquantamila adesioni su cui poté contare l’”esercito sanfedista”.

Che gli stessi fossero poi alla base di un’agenda di rivendicazioni per nulla compiacenti verso “Ferdinando IV”, lo dimostra il fatto – su cui finora si è forse troppo poco insistito – che lo zelo controrivoluzionario fu presentato come credito da riscuotere proprio presso la legittima monarchia, come ‘servizio’ da barattare con lo sconfessa mento del riformismo da parte del Borbone .

 

“Familismo” e” localismo” furono determinanti anche nel caso della prima rivolta vandeana, assieme al malessere sociale e ad un attaccamento alla religione tradizionale che, di fatto, costituisce la cifra distintiva di questo “fenomeno antirivoluzionario”.

Già autore di importanti studi sulla costruzione del “mito” vandeano, anche in questo contributo “Martin” prosegue oltre l’epoca della prima – e più famosa – “guerra vandeana”, per seguire le mutazioni ottocentesche della cultura politica regionale.

 Essa diventa pienamente controrivoluzionaria solo presso le élites, il cui “ralliement” completo alla dinastia borbonica si fa attendere sino all’avvento al trono di “Carlo X”, e che dopo “le Tre Gloriose” tornano ad organizzare, generosamente finanziate dalla duchessa di Berry, il malcontento popolare all’interno di un progetto nazionale antagonista.

All’indomani della pacificazione (1832), élites e masse rientrano nei rispettivi ranghi, destinate a incontrarsi solo allorché eventi particolari spingano le prime all’interventismo.

Ormai avviate ad una politicizzazione autonoma, maturata oltre il ricorso al legittimismo filoborbonico e alla religione cattolica, le comunità rurali della Vandea andarono ad ingrossare, nel corso del secolo, le ‘truppe’ dei “miguelisti” e dei “carlisti”, partecipando ad una autentica “internazionale controrivoluzionaria” ben organizzata e soprattutto forte di un progetto di “nation building” in grado di superare le motivazioni particolaristiche di natura socio-economica.

 

Legittimismo, cattolicesimo, xenofobia popolare: puntelli teorici e programmatici condivisi dal carlismo spagnolo, noto per aver sostenuto vere e proprie guerre civili (1833-40 e 1872-76) contro le forze liberali e i loro “tutori” britannici.

A differenza di altri movimenti, tuttavia, il “carlismo” è stato in grado di penetrare presso i ceti urbani e di integrare le voci del capitalismo atterrito dagli ‘spettri’ della democrazia.

 Sono coesistiti dunque un carlismo rurale-popolare e un carlismo borghese.

 Insieme, essi hanno assicurato al partito carlista buona parte dei voti del malcontento di destra e di sinistra.

La sfida elettorale poteva risolversi così positivamente solo a costo (o in virtù) di una estrema generalizzazione dell’agenda politica, ridottasi in pratica all’opposizione sistematica alle forze di governo;

e tramite il ricorso a strategie speculari, dalla costituzione di un corpo paramilitare (una sorta di guardia nazionale sui generis) alla diffusione di associazioni e circoli, all’elaborazione di una moderna propaganda.

 

Di un tale pragmatismo e mimetismo non furono invece capaci i “miguelisti”, il cui partito non sopravvisse agli anni 1880.

Prodotto della convergenza dei nemici della monarchia liberale, come il “carlismo”, ma tenuto assieme da un legittimismo assai più tenue e discutibile, il” miguelismo” non superò davvero la prova della guerra civile, dalla quale uscì sconfitto nel 1834.

 I suoi ‘quadri’ si barcamenarono in seguito tra progetti insurrezionali e via parlamentare.

 Né i primi né la seconda potevano però aver successo, data l’esiziale incapacità – e qui sta lo scarto dirimente rispetto al carlismo - di captare l’ostilità allo Stato liberale pur massicciamente manifestata da diverse frange popolari.

 

4. La costruzione dell’“altro”: una variabile nel tempo e nello spazio.

I case-studies analizzati dagli storici delle controrivoluzioni, al pari di quelli presi in esame dagli autori che hanno dato conto del 1799 in miniatura – così si intitola la terza sezione degli atti curati da “De Francesco” – obbligano a riflettere sulle scale diverse e talvolta concorrenti sulle quali si sono articolati, nel dopo-Rivoluzione francese, sentimenti di appartenenza e patrimoni identitari.

La nazione non surclassa la patria, come è stato già dimostrato.

La patria, anzi, può a sua volta fungere da punto di partenza per un nuovo discorso nazionale.

 Ciò è avvenuto non solo nel campo illiberale.

Dall’ottica ‘locale’, al contrario, sono scaturiti programmi di prima fila del Risorgimento italiano, da quello dei moderati toscani ai federalismi democratici.

Le identità, si potrebbe dire, si distribuiscono – diversificate e talvolta antitetiche – sulla mappa spaziale, nazionale ed europea, concretandosi quasi come prodotto vettoriale di profili sociali, vocazioni produttive e memorie storiche.

Rispetto ai discorsi politici dominanti e alle “master narratives” storiografiche, ogni comunità politica sub-nazionale denuncia scarti peculiari, variabili nel tempo tra i poli opposti (ma invero più ideali che reali) del pieno conformismo e del dissenso radicale.

La democrazia ha rappresentato tra XVIII e XIX secolo il motivo di un confronto particolarmente energico tra questi campi in tensione, muovendo ad ogni livello a complesse elaborazioni positive o negative del patrimonio rivoluzionario, del “fenomeno giacobino”, della espansione francese in armi.

La presenza tangibile o incombente dell’“altro”, in questo caso la Francia, è stata determinante per la nascita dei movimenti nazionali, e ha contribuito non poco a forgiare attitudini e comportamenti rispetto alla democrazia prima, alla “monarchia amministrativa” poi.

 

Nella cultura politica della penisola, comunque, un altro travagliato processo di interpretazione e riassorbimento era in atto nel XVIII secolo, e avrebbe affiancato in epoca romantica la riflessione sull’età francese.

 

L’“altro” in questione era ovviamente la Spagna asburgica, che tra XVI e inizio XVIII secolo aveva dato il tono alla vita politica italiana, e alla quale andava attribuita una metà della responsabilità dell’alleanza Trono-Altare ripugnante alla “mentalità illuminista”.

 Come sottolinea “Musi” nel saggio introduttivo alla raccolta su Anti spagnolismo e identità italiana, questi rilievi critici hanno conosciuto una fase di univoca esaltazione piuttosto circoscritta nel tempo, e non unanimemente condivisa nello spazio.

Vale a dire che il paradigma della decadenza, consegnato alle giovani generazioni dello Stato liberale dalla Storia di “Francesco De Sanctis”, rappresenta un motivo tipicamente risorgimentale, complementare al medievalismo romantico e alla riscoperta storiografica e politica della civiltà comunale.

Come la cultura antigiacobina e nazionalista con le insorgenze antifrancesi, così il movimento liberal-patriottico ottocentesco ha edificato sull’anti spagnolismo una galleria del proto nazionalismo popolare o illustre – da Masaniello a Galilei – sorvolando sul contesto generale e ancor più sulle pieghe meno addomesticabili dei fatti.

 

L’anti spagnolismo, promosso allora ad autentico stereotipo, poteva in seguito fornire anche una (facile) spiegazione dell’indole antidemocratica, immobilista, spontaneamente reazionaria del Mezzogiorno in generale, delle sue aristocrazie e delle sue “plebi” in particolare.

 La dominazione spagnola era stata dunque all’origine di tutti i mali, ossia della decadenza morale e addirittura antropologica prima ancora che economica, politica e intellettuale di buona parte della nazione italiana.

Di ciò, sosteneva il patriottismo risorgimentale, sarebbero stati consapevoli per primi i razionalisti del ’700, ai quali non casualmente si doveva il conio del termine “Risorgimento”.

Il discorso anti spagnolista, come detto, era destinato ad ampia e fortunata diffusione; e, a metà ’900, esso sarebbe confluito – auspice l’opera di “Gabriele Pepe” – nella storiografia gramsciana-marxista.

Tuttavia è agevole dimostrare, tornando con occhio critico sulle scene e sugli scritti dei due secoli precedenti, che lo stesso ebbe dei limiti non meno significativi delle dimensioni del suo successo.

Oggetto di una disamina squisitamente tecnico-amministrativa da parte dei razionalisti e riformatori meridionali del primo ’700 – una critica più forte emerge solo nella “fase tanucciana” e solo presso specifiche realtà borghesi, diventando radicalismo in epoca ormai “giacobina” – la dominazione spagnola era un vero e proprio problema per altri italiani: per quanti, dalla” Roma arcadica” alla “Lombardia” al “Veneto”, si confrontarono con l’ostilità e la diffidenza della Repubblica europea delle lettere.

 La legittimazione della tradizione culturale nazionale è ancora l’esigenza che determina il pronto accoglimento delle tesi di “Mme de Stae”l e di “Simonde de Sismondi “nell’Italia degli anni 1810, attraversata dai fremiti dell’anelito unitario e indipendentista.

 

Motivi simili, del resto, erano stati alla base dell’anti spagnolismo portato a Roma dai gesuiti ispano-americani scacciati nel 1767.

Anch’esso aveva attraversato la parabola dall’illuminismo al romanticismo, e da disamina “tecnica” del malgoverno spagnolo si era tradotto ad inizio ’800 in una critica del colonialismo tout court quale oltraggio al diritto di autodeterminazione dei popoli e delle nazioni.

 La legittimazione alla libertà politica, ricercata dal patriottismo italiano attraverso la cultura storica (fino alla sublimazione romanzesca de I Promessi Sposi), l’indipendentismo latino-americano la stava vivendo, tra anni 1810 e 1820, come moto di liberazione da un dominatore ormai straniero.

Il “canone” anti spagnolista romantico-risorgimentale fu fatto proprio dalla cultura genovese tramite l’opera di “Michele Giuseppe Canale”, giornalista mazziniano passato poi nel campo filosabaudo e dal 1857 primo presidente della “Società ligure di storia patria”.

 Il medievalismo, essenziale contraltare dialettico dell’anti spagnolismo, consisteva in questo caso nella glorificazione della repubblica marinara e della potenza commerciale, ‘svendute’ al tiranno iberico dall’ignavia e dalla corruzione dell’oligarchia cinquecentesca.

Paradigma chiaramente democratico e squisitamente borghese, esso doveva incontrare qualche confutazione nell’opera di “Massimiliano Spinola”, portavoce da parte sua di una memoria patrizia che molto teneva a riabilitare la figura di “Doria” e la condotta dell’élite repubblicana nell’età di “Filippo II”.

 

Lo spagnolismo “cetuale” di Spinola non trovò zelanti prosecutori e la lezione di “Canale” passò facilmente a vulgata dominante.

 Nella cultura veneta l’anti spagnolismo denunciava, al contrario, una forte matrice patrizia, trascorsa senza problemi dall’autocelebrazione della decaduta oligarchia alla storiografia romantica di “Gabotto”, e ancor viva presso la prima generazione della storia ‘scientifica’ della Serenissima - da “Ivo Raulich” a “Roberto Cessi”.

La ferrea tenuta dell’anti spagnolismo, e la sua diffusione affatto ‘trasversale’ si spiegano, in questo caso, con la storia del governo veneziano di età moderna:

a differenza di quello genovese, il patriziato lagunare contava infatti su una memoria di fiero autonomismo, unico nella penisola di epoca barocca, rispetto alla potenza asburgica.

Venezia non aveva in fondo troppo condiviso la decadenza che aveva piegato il resto d’Italia.

L’anti spagnolismo, e con esso l’età moderna, potevano così essere assunti come patrimonio identitario unanimemente condiviso, in piena continuità con splendori medievali.

 

L’anti spagnolismo tanto funzionale alle élites veneziane risultava invece alieno a quelle siciliane allineate nel fronte secessionista.

 La memoria del “Parlamento di Palermo” aveva sostenuto ogni manifestazione di questi gruppi, a datare dalla Costituzione del 1812 e dalla sollevazione anti napoletana di quella ‘capitale’ nel 1820.

Al secessionismo palermitano faceva anzi comodo lo spagnolismo, dato che i veri oltraggi alla dignità isolana si erano consumati per altre mani, da quelle murattiane a quelle piemontesi.

Infatti, la “Società storica palermitana” non tardò ad assumere un volto peculiare nell’arcipelago delle istituzioni di storia locale: poco medievalista, essa privilegiò la memoria di età moderna, mettendo a tacere le deboli voci dissenzienti.

Di questo spagnolismo - non del tutto artificiosamente opportunista - si sarebbe servito il separatismo degli anni 1940, e lo stesso avrebbe sostenuto col suo repertorio simbolico la costituzione della regione autonoma (1946).

Nel caso “sardo”, a sua volta eccentrico, l’anti spagnolismo doveva fare tutt’uno con l’anti piemontesismo presso le opposizioni democratiche o, all’opposto, presso i ceti vittime della de-feudalizzazione;

mentre per le élites dello Stato e per il moderatismo nobiliare il 1720 segnava – coerentemente con la vulgata risorgimentale - la fine della decadenza, tanto isolana quanto nazionale.

 

Dopo il 1861, la presunta monoliticità dell’anti spagnolismo romantico si trovò costretto anche altrove a fare i conti con la ricezione della “piemontesizzazione”.

La causa delle identità poteva eleggere, a seconda del vissuto storico, altrettanto bene la Spagna e lo Stato sabaudo a poli negativi, a fautori della decadenza regionale.

I tempi della storia locale, insomma, erano stati diversi e concretamente irriducibili alle scansioni del passato comune codificate a partire da “Mme de Stael” e da “Sismondi”.

L’impatto, al contempo critico e innovatore, che sulla storia locale siciliana o genovese ebbe la “Mediterranee di Braudel”, sulla storia della Lombardia spagnola fu esercitato a partire dalle ricerche di “Chabod” e dall’affermazione di un nuovo approccio socio-istituzionale votato alla confutazione di miti proto nazionalisti che non tenevano conto dell’osmosi intervenuta tra istituzioni asburgiche ed élites dominate.

 Un tale “revisionismo” contribuiva ad allineare la nuova storiografia lombarda alla lezione affermatasi con” Galasso” per il Mezzogiorno, obbligando a individuare nella loro effettiva consistenza e importanza tanto le interazioni tra dominante e dominati, quanto lo specifico dei contesti sub-regionali.

È dunque riemersa, a partire dagli anni 1970, la tesi già crociana sull’importanza della ‘statalizzazione’ come portato positivo dell’età spagnola.

Al contempo si consumavano gli ultimi fasti del paradigma – “desanctisiano” e poi “gentiliano”, nelle sue massime espressioni - della decadenza; ed entrava in crisi anche quello gramsciano.

La vicenda storica e culturale italiana ha potuto e dovuto uscire dal “dorato” isolamento a cui l’ha costretta l’ipoteca risorgimentale, e confrontarsi con discorsi finora pressoché ignorati:

quello al contempo anti-asburgico e anti-imperiale dei giuristi di Salamanca (vivace fin dal XVI secolo);

o lo speciale spagnolismo forgiato al cadere del ’700 dagli oppositori della rivoluzione “giacobina”;

o il contro-mito della “Leyenda Negra”, col quale gli spagnoli di inizio ’900 hanno tentato di demolire alle radici l’ingrato anti spagnolismo italiano.

5. Il Novantanove napoletano: l’evento e il discorso tra Mezzogiorno, Italia ed Europa.

L’anti spagnolismo romantico si diffuse nella cultura liberale napoletana dopo il fallimento e la soppressione dei noni Mestre costituzionale, ma divenne incontrastato nelle sue declinazioni antiborboniche solo all’indomani del tragico 15 maggio 1848.

 Scatenando le masse popolari contro il Parlamento e dando il via alla feroce repressione nelle province, “Ferdinando II” ‘meritò’ di concentrare su di sé e sui propri discendenti il patrimonio di critiche (e ora anche di “miti”) che escludevano la conciliabilità tra l’ingresso del Mezzogiorno nella modernità e la permanenza della legittima dinastia.

Liquidata con questa anche la stagione del riformismo, si ricorreva a “Cuoco” e a “Sismondi” per postulare la necessità di una rottura completa col passato e col presente, nella nuova coscienza – estranea al ceto murattiano e allo spagnolismo romantico che aveva celebrato la “Costituzione di Cadice” – delle conseguenze particolarmente nefaste prodotte dalla ‘lunga decadenza’ sul Mezzogiorno.

 

Il 1848 segnerebbe dunque il termine a quo dell’allineamento, definitivo e incontrastato, del liberal-democratismo meridionale al “canone” del movimento unitario.

 Il 1848, d’altra parte, sarà chiamato a segnare, in tanta memoria post-unitaria, l’inizio autentico del Risorgimento come eclatante manifestazione di una unanime tensione alla libertà e all’unità.

Già accantonate le origini “giacobine”, crollato ora il “neoguelfismo”, imminente il “tramonto del repubblicanesimo mazziniano” e l’esito tragico dell’”insurrezionalismo meridionalista di Pisacane”, di lì a poco il consenso si sarebbe appuntato sul “Piemonte cavouriano”:

 su un Nord che molto faceva pesare il ritardo del Sud, i legati esiziali della ri-feudalizzazione e le ripetute prove della ingovernabilità delle sue masse.

 

Accantonate nella vulgata le più fini analisi socio-economiche, rigettate le critiche alla “piemontesizzazione”, il Mezzogiorno avrebbe pagato, come detto, lo scotto della deriva antropologizzante di certo anti spagnolismo romantico.

 E la memoria del Novantanove, con i suoi martiri della libertà, con i suoi promotori di un Risorgimento al contempo meridionale e nazionale, si sarebbe trovata esposta ad una non facile contesa contro le liquidazioni di chi guardava acriticamente al trionfo del sanfedismo, alla sollevazione del 15 maggio, alla “tragedia di Sapri” e all’indomito dilagare del brigantaggio anti-unitario.

Non pochi, a partire da “Croce”, si assunsero l’onere e la missione di reintegrare appieno il Sud nell’epopea risorgimentale;

 e la memoria “giacobina”, abbiamo visto, fu oggetto di rivendicazione da parte della classe politica meridionale, o servì a questa per legittimarsi come ceto dirigente locale.

La controrivoluzione del 1799, lungi dall’essere ricostruita e spiegata nella sua natura al contempo anti-riformista e anti-democratica, fu piegata alle più varie strumentalizzazioni che, tutte, convergevano nell’attribuire al Mezzogiorno l’ingrata qualifica di “culla dell’anti risorgimento”.

 

Su tutti questi nodi si sofferma la rilettura della “Repubblica napoletana” presentata da “De Francesco”, sicuramente uno tra i maggiori studiosi del democratismo europeo tra “Grande Révolution” e “cultura politica romantica”, già presente con propri contributi nei tre convegni.

Come a sottolineare più fortemente la continuità con gli altri titoli della collana, l’autore accoglie le esigenze critiche e analitiche emerse negli incontri del 1999-2002, e molto si sofferma a ripercorrere, contestualizzandoli, i principali discorsi storiografici che l’hanno preceduto.

L’evento-Novantanove è qui (ri)collocato nella più lunga durata dell’apogeo e crisi del riformismo borbonico;

 il Mezzogiorno è analizzato al contempo come realtà specifica e come parte di un sistema nazionale e internazionale dalle tante variabili;

 i “lazzari” e i “sanfedisti” sono considerati come componente di un fenomeno – le insorgenze antifrancesi – comune all’Europa repubblicanizzata.

Si pongono così con maggior chiarezza altri e più generali problemi, peraltro non solo meridionali e già individuati da “Cuoco” o da “Croce”: la resistenza all’affermazione dello Stato moderno, le ragioni strutturali dell’inquietudine delle masse, il sottovalutato dinamismo del” fronte controrivoluzionari”o.

 

Come messo in risalto nei contributi sulla “Repubblica Romana”, sugli esuli e su “Foscolo”, una pregiudiziale nazionale era già ben presente nel “giacobinismo” della penisola ante-Brumaio.

 Questa ispirò non solo i modi e le forme della repubblicanizzazione tra 1797 e 1799.

Determinò gli orientamenti di politica internazionale, contribuì alla dialettica tra generali e Direttorio parigino, promosse presso Bonaparte una causa indipendentista frustrata dall’evoluzione verso l’accentramento imperiale.

 

Il “giacobinismo” napoletano, lungi dall’essere sprovveduto e temerario, fin dagli anni della “Convenzione” partecipava ad una rete internazionale con importanti agganci nell’opposizione radicale francese;

e intratteneva dal 1796 intensissimi scambi con il democratismo cisalpino.

Già nel 1798 i “patrioti” napoletani erano diffidenti verso il governo della “Grande Nation” tanto quanto erano ostili alla monarchia borbonica.

 Quest’ultima, da parte sua, aveva avvertito che l’”unitarismo propugnato a Milano” poteva rivelarsi anche più pericoloso della politica tutto sommato cauta del Direttorio;

 e provvedette, entrando nella Seconda Coalizione, a garantire la propria sopravvivenza.

 “Ferdinando IV” aveva visto bene, ma azzardò troppo allorché mosse guerra alla “Repubblica Romana”, finendo, suo malgrado, per rinsaldare la tenue intesa tra democratismo italiano ed esecutivo parigino.

La “Repubblica Napoletana” fu l’esito, molto forzato dalla spregiudicatezza di “Championnet”, della esigenza di auto-difesa da parte della “Grande Nation”, opportunamente sfruttata dal “giacobinismo” meridionale per condurre in porto il proprio progetto.

Non voluta da Parigi, essa si ritrovò presto debole e isolata nel contesto internazionale, mentre nessuno si nascondeva le particolari asperità cui sarebbe incorso il processo di democratizzazione in quelle regioni.

Lo stesso radicalismo locale – impersonato da anni dal ‘mitico’ L’Aubert – cercò prima di ogni altra cosa la pacificazione e l’avvicinamento dei ceti urbani.

 Quanto alle masse popolari, spiazzate dalla fuga di Ferdinando IV al seguito degli inglesi, esse non riconobbero il nuovo governo così come non avevano riconosciuto il “provvisorio” autoproclamatosi all’arrivo dei francesi.

La distanza tra ceti dirigenti e “plebi” era resa incolmabile da decenni di riforme sorde alle rimostranze delle comunità.

 Il mirabile sforzo pedagogico dei “giacobini” muoveva appunto in questa direzione; ma, da solo, non poteva ovviamente por rimedio a certi problemi.

 

Inviso a Parigi, instabile all’interno e contrapposto ad una realtà sociale particolarmente ostica, il “giacobinismo” napoletano non aveva scelta migliore, dunque, che quella di mediare tra le opposte direttive di ordine e libertà, di consolidamento e democratizzazione.

 La Costituzione preparata da “Mario Pagano” (già ‘diffidato’ dal Direttorio parigino per il suo radicalismo) era tutto questo.

 Essa era, cioè, la traduzione della Rivoluzione in un contesto che si sapeva peculiare ma di cui non si disperava l’emancipazione.

 Si prevedeva infatti l’incentivazione della “pedagogia patriottica” fino ad esiti repressivi addirittura robespierristi;

 e, per il presente, ci si rifugiava nel suffragio censitario postulato dalla Carta dell’Anno III.

 Un nuovo istituto, l’”Eforato”, avrebbe provveduto a dirimere le controversie tra esecutivo e legislativo, facendo tesoro della lezione offerta dalla Francia post-termidoriana, ma anche arginando gli effetti dell’‘immaturità’ dell’elettorato.

 

Un lavoro alacre, quello dei legislatori napoletani, al quale si affiancò lo zelo della pubblicistica e del giornalismo educativo.

 Muovendosi (o barcamenandosi?) tra radicalismo e moderatismo, il “giacobinismo” preparava il radicamento della rivoluzione nelle province.

Queste, irrisolta ancora l’eversione della feudalità, avevano subito una dipartimentalizzazione che, abbiamo visto, non aveva se non minimamente penalizzato attori e reti feudali dalle grandi risorse.

Le basi materiali dell’anti rivoluzione, già riferite da” Cirillo”, erano pressoché intatte al di fuori delle mura napoletane;

pressoché invariato anche l’isolamento delle sparute pattuglie “patriottiche” nelle realtà urbane.

Scoppiata la guerra tra Parigi e la Coalizione, venuto meno il supporto militare francese, la sorte della Repubblica era definitivamente segnata – come quella, del resto, delle altre “repubbliche sorelle”.

Ma qui doveva porsi il problema dello straordinario successo numerico del “sanfedismo”, la cui soluzione va ricercata tanto in quelle basi materiali, quanto nella particolare abilità dispiegata dal legittimismo meridionale nell’imitare strutture e “pedagogie” massonico-latomistiche.

La vicenda della “Sebezia” indagata da “Sannino” acquista ora tutto il suo significato.

Come il “patriottismo” meridionale era componente organica di un evoluto movimento democratico-nazionale, così alla controrivoluzione dev’essere riconosciuto il ‘rango’ di formazione politica dalla notevolissima capacità di presa, naturalmente proiettato verso un progetto e verso finalità che superavano di molto la contingenza o la fedeltà alla persona di “Ferdinando IV”.

Per scongiurare il ripetersi di quel drammatico successo, avrebbe suggerito “Cuoco”, occorreva estirpare le radici dell’ingovernabilità attraverso strategie di “rigenerazione” mirate e diversificate.

 Dopo il 1821, anche la via della “democrazia autoritaria” sfociata nella monarchia amministrativa del Decennio si sarebbe prestata a molte e feroci critiche nel campo patriottico.

La storia del Mezzogiorno contemporaneo si sarebbe risolta, agli occhi del liberalismo nazionale, in una sequela di errori e improvvisazioni, il cui fallimento era determinato all’origine dal portato di tanti secoli sulla mentalità delle masse.

 Semplificazioni e banalizzazioni di un discorso patriottico già denso di miti e stereotipi all’indomani del Quarantotto, esse avrebbero posto una pesantissima ipoteca cui assai poco avrebbe giovato la ‘rivalutazione’ nazional-populista tra le due guerre.

 La reintegrazione nella storia nazionale ed europea del “secolo della libertà” è stata resa possibile – paradossalmente ma non troppo – dal tramonto del mito stesso del Risorgimento.

 Compromesso dalle appropriazioni del fascismo, ulteriormente indebolito dalla ripresa della linea antirisorgimentale del PCI, offerto dall’ortodossia gramsciana ad una critica serrata e a tutto campo, approfondito con diversi strumenti d’analisi il suo esito istituzionale, nuovi orientamenti sono emersi nella storiografia sulla penisola tra Sette e Ottocento.

Sgravata di molti stereotipi relativi all’età moderna a partire dalla lezione di “Braudel”, alla storia del Mezzogiorno è stato infine ‘restituito’ il posto dovuto anche in seno ad un “nuovo Risorgimento”, sgravato a sua volta dai più vetusti schematismi delle opposte teleologie storicistiche.

 

 

 

Una Proposta “Regale”: Lettera

 di “Julian Assange” a “Re Carlo III”

Conoscenzealconfine.it – (11 Maggio 2023) – Redazione – Julian assange-                       ci dice:

Il giornalista detenuto invita il nuovo monarca del Regno Unito, in occasione della sua incoronazione, a visitare “il suo regno all’interno di un regno”: la “Prigione” di Sua Maestà “Belmarsh”.

A Sua Maestà “Re Carlo III”,

nel giorno dell’incoronazione del mio Sovrano, ritengo dovuto alla Maestà Vostra un sincero invito a celebrare questo grande evento visitando un vero regno all’interno del Vostro regno:” la prigione di Sua Maestà Belmarsh”.

 

Vostra Maestà senza dubbio ricorderà le sagge parole di un famoso drammaturgo:

 “La qualità della misericordia non è forzata. Scende come dolce pioggia dal cielo sul luogo sottostante”.

Ah, ma cosa ne può sapere della misericordia il “Bardo”, all’alba dello storico regno di Vostra Maestà?

Dopotutto, il valore di una società si può conoscere da come tratta i propri prigionieri, e in questo, il “Vostro regno” si è certamente distinto.

La prigione di Vostra Maestà, Belmarsh, si trova al prestigioso indirizzo di “One Western Way”, Londra, a pochi passi dall’ “Old Royal Naval College” di Greenwich.

Dev’essere estremamente piacevole sapere che un’istituzione così stimata porta il Vostro nome.

È qui che “687 vostri fedeli sudditi sono incarcerati”, apportando così il proprio contributo al primato del Regno Unito come la nazione con il più alto numero di detenuti dell’Europa occidentale.

 Come ha recentemente dichiarato il Vostro nobile governo, il Vostro regno sta attualmente attraversando “la più grande espansione di posti carcerari in oltre un secolo”, con le sue ambiziose proiezioni che mostrano un aumento della popolazione carceraria da 82.000 a 106.000 unità entro i prossimi quattro anni.

 Fa davvero una certa impressione.

In qualità di “prigioniero politico”, detenuto a discrezione di Vostra Maestà, per conto di un vergognoso sovrano straniero, sono onorato di risiedere tra le mura di questa istituzione di livello mondiale.

Invero, il regno di Vostra Maestà non conosce limiti.

Durante la Vostra visita, avrete l’opportunità di banchettare con le delizie culinarie preparate per i vostri fedeli sudditi col generoso budget di due sterline al giorno.

Potrete gustare le teste di tonno macinate e le onnipresenti formelle ricostituite, presumibilmente fatte di pollo.

 E non preoccupatevi perché, a differenza di istituzioni minori come “Alcatraz” o “San Quentin”, qui non ci sono pasti comuni in mensa.

 A “Belmarsh”, i prigionieri cenano da soli nelle loro celle, godendo del proprio pasto nella massima intimità.

Ma, al di là dei piaceri del palato, posso assicurarvi che “Belmarsh” offre ai vostri sudditi anche ampie opportunità educative.

Come si legge in Proverbi, 22:6:

“Inculca al fanciullo la condotta che deve tenere; anche quando sarà vecchio non se ne discosterà”.

Osservate le lunghe code allo sportello delle medicine, dove i detenuti ritirano le proprie prescrizioni, non su base giornaliera ma bensì tutte in una volta, per assaporare un’esperienza di “libera uscita” che si espande oltre l’orizzonte.

Vostra Maestà avrà poi anche l’opportunità di rendere omaggio al mio defunto amico “Manoel Santos”, un omosessuale che rischiava la deportazione nel “Brasile di Bolsonaro”, che si è tolto la vita a soli otto metri dalla mia cella, usando una specie di corda ricavata da lenzuola annodate.

La sua squisita voce da tenore ora tace per sempre.

 

Avventurandovi ulteriormente nelle profondità di “Belmarsh” troverete il luogo più isolato all’interno delle sue mura:

 “Healthcare”, o “Hellcare” come lo chiamano amorevolmente i suoi abitanti.

 Qui resterete incantato dalle sensate regole pensate per la sicurezza di tutti, come il divieto del gioco degli scacchi, pur consentendo il gioco molto meno pericoloso della dama.

Nell’abisso di “ Hellcare” si trova il luogo più gloriosamente edificante di tutta “Belmarsh”, anzi, dell’intero Regno Unito, dal sublime nome di “Belmarsh End of Life Suite”.

 Ascoltando attentamente potrete sentire i prigionieri gridare “Fratello, morirò qui”, a testimonianza della qualità della vita e della morte all’interno della vostra prigione.

Ma non temete, perché tra queste mura troverete anche bellezza. Rifatevi gli occhi osservando i corvi curiosi che nidificano tra il filo spinato e le centinaia di topi affamati, di casa a “Belmarsh”.

E se verrete in primavera, potreste persino intravedere gli anatroccoli schiusi dalle uova di anatre selvatiche all’interno del cortile della prigione.

Ma non tardate, perché i topi famelici si accertano presto che le loro vite siano fugaci.

Vi imploro, re Carlo, di visitare la prigione di Sua Maestà “Belmarsh”, poiché è un onore che si addice a un re.

Mentre iniziate il Vostro regno, ricordate sempre le parole della “Bibbia di Re Giacomo”: “Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia” (Matteo 5:7).

E possa la misericordia essere la luce guida del Vostro regno, sia all’interno che all’esterno delle mura di “Belmarsh”.

Il Vostro devoto suddito, “Julian Assange”.

(declassifieduk.org/a-kingly-proposal-letter-from-julian-assange-to-king-charles-iii/).

 

 

Devianza da Manuale.

Conoscenzealconfine.it - (10 Maggio 2023) - Massimo Negrotti – ci dice:

 

Durante un servizio televisivo sul blocco stradale attuato dai soliti ragazzi ossessionati dal “Global Warming” si sente una giovane rivolgersi a un poliziotto, intento a spostarla di peso, dicendo:

 “Non potete trattarci così”.

 

 

Una bella pretesa, negata però agli automobilisti bloccati, trattati così da un manipolo di saputelli persuasi che sia loro diritto, e persino dovere, combinare qualcosa di eclatante per stimolare la politica ad agire per “salvare” l’umanità (cosa che tra l’altro i governi stanno già facendo… mettendo la gente in ginocchio con auto elettriche, case da ristrutturare ecc. secondo i dettami green…).

 E allora cosa chiedono?

Quello che il potere sta già facendo? …

Dopo i nazi-pandemici, i nazi-russofobici, ora abbiamo anche i nazi-climatici… Fanno i trasgressivi ma sono proprio come il sistema vuole… ma loro, forse… non lo sanno!

Ma veramente… c’è ancora qualcuno che se la beve? – (nota di conoscenze al confine).

Altrettanto, vari importanti scultori, pittori e architetti le cui opere sono state recentemente imbrattate, certamente si staranno lamentando, dall’aldilà, per il trattamento ricevuto.

È inutile negarlo:

siamo di fronte a un abuso della libertà di espressione che trova le sue radici in un atteggiamento trasgressivo che invariabilmente punta, adottando i termini del gergo sessantottino, alla contestazione dell’esistente.

 

Il tutto in nome di verità ritenute indiscutibili e tali da giustificare ogni forma di devianza con la certezza, fra l’altro, di trovare il sostegno di commentatori pronti, come al solito, a cavalcare la ribellione in nome di un interessato buonismo di maniera. (Ben pagato! N.D.R.)

 

Una situazione che può solo essere ricollegata, adottando la visione di “Émile Durkheim”, alla crescente anomia della società contemporanea, ossia alla progressiva eclissi di norme sociali stabili e condivise.

 Il fatto è che fenomeni del genere tendono a ripetersi secondo la stessa strategia da manuale:

progettare qualcosa di altamente trasgressivo per ottenere visibilità e propagandare le proprie idee sfondando il muro dell’indifferenza e del disinteresse.

I gesti da compiere non devono essere violenti verso le persone e dunque vengono accuratamente esclusi atti di aggressione fisica contro gli altri ma non contro le cose, escluse le proprie.

L’obiettivo deve essere simbolico, come, appunto, le opere d’arte o architettoniche, che non possono né reagire né protestare.

 Non si devono però escludere possibili escalation che, per esempio, coinvolgano il traffico, nella convinzione che maggiore è lo scandalo, maggiore sarà l’attenzione che si otterrà.

 

Contando, inoltre, sull’efficacia delle immagini, che senza ombra di dubbio verranno generosamente riversate sull’opinione pubblica dai vari mezzi di comunicazione, nelle quali si vedranno giovani pacifici e pensanti rimossi da biechi poliziotti al servizio del potere, sordo repressore di chi propugna la Verità.

Insomma, un quadro noioso e per certi versi malinconico dal quale traspare l’insipienza di ragazzi e ragazze che, di volta in volta, aspirano a emergere dalla massa attraverso un protagonismo in cui le pulsioni aggressive dell’ego prevalgono nettamente sulla ragione, credendo dogmaticamente di essere i soli a essere stati folgorati sulla via di Damasco.

In realtà, strategie di questo genere ottengono l’effetto immediato contrario, ma poco importa, poiché i mass media provvederanno ad assegnare al movimento ampia notorietà e i solerti “talk show” faranno il resto. (Profumo di denaro! N.D.R.)

 

Alla fine, gli obiettivi ideali non saranno raggiunti in questo modo ma, statene certi, “qualche pur modesto ma scaltro leader” finirà in Parlamento o in qualche Consiglio comunale fra “sardine” e “stelle cadenti”.

(Massimo Negrotti)

(opinione.it/societa/2023/05/08/massimo-negrotti_global-warming-giovani-blocco-stradale-poliziotti/)

 

 

 

Società multiculturale

di Göran Therborn - Enciclopedia

delle scienze sociali.

Treccani.it – Redazione - Gòran Therborn – scienze sociali - (10-1-2023) – ci dice:

 

ORIGINI E USI DEL CONCETTO.

'Multiculturalismo' e 'multiculturale' sono termini coniati di recente, ma i fenomeni che essi designano sono tutt'altro che nuovi.

In passato, le società che oggi definiamo multiculturali erano caratterizzate come 'multinazionali', 'multietniche', 'multiconfessionali', 'multirazziali', o ancora come 'segmentate', come espressioni di 'pluralismo culturale', di 'diversità culturale', oppure di “mestizaje” (termine usato in America Latina per indicare le mescolanze razziali).

Il concetto di multiculturalismo venne coniato in Canada, negli anni sessanta, in alternativa a quello di biculturalismo (anglo-francese), in quanto più adeguato a cogliere la situazione e i compiti politici del paese, e nel 1971 venne adottato ufficialmente nel linguaggio politico.

 

Dal Canada la nozione di multiculturalismo si diffuse gradualmente nel resto del mondo, a cominciare dall'Australia, dove entrò nell'uso negli anni settanta.

 Il termine, tuttavia, non risulta registrato nel VII volume dell'Australian Encyclopedia (1983), e nemmeno nella Encyclopedia Americana del 1979.

 

Nell'area europea si cominciò a parlare di multiculturalismo solo tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta.

 Il termine non compare però nella 15 edizione dell'Encyclopaedia Britannica del 1994, né nella 2 edizione della Gran Enciclopédia Catalana (1988), e nemmeno nella Swedish National Encyclopedia del 1994, dove 'multikultur' si riferisce ad una tecnica agricola.

Lo si trova menzionato invece nel “Grand Dictionnaire Encyclopédique Larousse” del 1984-1986, dove peraltro manca un articolo sull'argomento.

Il lemma è ampiamente trattato, per contro, nella 19 edizione della Brockhaus Enzyklopädie tedesca (1991).

Nei volumi del 1989 del Grande Dizionario Enciclopedico dell'UTET la locuzione non figura, ma a colmare tale lacuna ha provveduto l'Appendice del 1997.

La Grande Enciclopedia de España al momento (1997) non è ancora arrivata alla lettera M.

 Sinora l'espressione è poco usata al di fuori del Nordamerica, dell'Oceania e dell'Europa occidentale.

La nozione di multiculturalismo viene usata fondamentalmente in tre differenti accezioni o contesti: politico, descrittivo e teorico.

In primo luogo, si designa con tale termine una politica volta a riconoscere e a tutelare l'identità culturale e linguistica delle varie componenti etniche presenti in un dato paese.

 È questo il contesto in cui il termine è apparso originariamente, in Canada, negli anni sessanta.

 

In secondo luogo il concetto viene usato con funzioni descrittive o analitiche, nel pubblico dibattito o nella discussione accademica, in riferimento alla complessità culturale di una data società nei suoi vari aspetti.

 È questo il contesto che ci interessa qui più direttamente.

Il terzo contesto è rappresentato infine dalla teoria politica e sociale, in cui il multiculturalismo viene discusso in rapporto ai problemi concernenti l'ordine sociale e politico e i diritti che nascono dalla complessità culturale della società.

Il crescente interesse che viene manifestato oggi nei confronti del multiculturalismo, sia come fenomeno empirico che come costrutto teorico, deriva dalla constatazione che le differenze culturali all'interno della società di uno Stato o di una nazione tendono ad aumentare anziché a diminuire o a scomparire.

 All'origine di questa tendenza si possono individuare due ordini di fenomeni e le loro nuove dinamiche.

Il primo è rappresentato dalle nuove ondate migratorie.

L'immigrazione non britannica ha minato il biculturalismo anglo-francese in Canada e il mono culturalismo britannico-europeo in Australia.

Negli Stati Uniti l'immigrazione europea ha lasciato il posto a flussi extraeuropei provenienti dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia.

 A partire dagli anni sessanta l'Europa è diventata un continente di immigrazione, e tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta anche l'Italia, la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l'Irlanda, tradizionali paesi di emigrazione, sono diventati approdo di consistenti comunità di immigrati, in prevalenza non europei.

 In un paese tradizionalmente assai omogeneo dal punto di vista etnico come la Svezia i cittadini nati all'estero costituiscono il 10% della popolazione - una percentuale superiore a quella che si registra negli Stati Uniti.

Ma le nuove dinamiche del fenomeno migratorio hanno contribuito anche in un altro senso, forse ancora più rilevante, all'emergere del multiculturalismo come realtà e come problema.

Ci riferiamo al mancato verificarsi della prevista integrazione/assimilazione delle comunità di immigrati nei paesi di destinazione.

 Nel Nuovo Mondo si sono affermate tendenze che fanno dubitare della validità dell'ipotesi di un “melting pot” - dell'idea, cioè, che dopo un certo tempo, o dopo una o due generazioni, le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle dei paesi di destinazione.

In Francia e nei paesi dell'Europa centrosettentrionale gli stessi dubbi investono l'idea analoga di assimilazione.

 Nell'Europa centrale gli immigrati a tempo determinato (i cosiddetti Gastarbeitern) tendono a diventare residenti permanenti.

Il secondo fenomeno che ha contribuito all'affermarsi del multiculturalismo è costituito dalla nuova politica culturale dell'identità.

Affermatasi principalmente negli Stati Uniti, essa può essere considerata una filiazione dei movimenti giovanili della seconda metà degli anni sessanta, con le loro sfide all'autorità costituita, alle istituzioni e alla mentalità dominante.

 Negli Stati Uniti il movimento giovanile ebbe sin dall'inizio una forte valenza antirazzista, legata al movimento per i diritti civili dei neri.

Tuttavia la politica dell'identità, o della diversità come è stata anche chiamata, non si ricollegava direttamente al movimento per i diritti civili, incentrato sull'integrazione e sull'eguaglianza dei diritti individuali senza distinzioni di razza.

Piuttosto, essa era l'erede delle mobilitazioni in favore dell'eguaglianza istituzionale, sotto forma di un'affermazione dell'identità specifica di determinati gruppi, espressa ad esempio dai movimenti Black Power e Black is beautiful.

Analoghi movimenti improntati all'orgoglio culturale di gruppi etnici in passato discriminati, marginalizzati e spesso disprezzati si sono sviluppati tra le popolazioni indigene dei paesi fondati dai coloni bianchi, in particolare in Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Dalla protesta giovanile radicale ha avuto origine anche un forte movimento femminista.

 

Mentre la gioventù di sinistra europea negli anni sessanta si andava orientando verso la classe operaia e il movimento operaio tradizionale, negli Stati Uniti la protesta giovanile dava vita ad un movimento culturale ampio ed eterogeneo, in cui una varietà di gruppi di nuova formazione cercava di affermare i propri diritti.

 Ciò segnò l'inizio, negli anni settanta, di una 'politica dell'identità' perseguita da gruppi che reclamavano riconoscimento e rispetto:

 dalle femministe, agli Afroamericani e agli Ispanici, seguiti da altri gruppi etnici, ai gay e alle lesbiche.

Ciò che univa queste differenti correnti era la sfida all'America dominante e ai suoi valori - il maschilismo, la discendenza europea, l'eterosessualità - nonché l'assenza di rivendicazioni territoriali e politiche.

 Ciò che veniva messo in discussione era un certo tipo di mono culturalismo o di egemonia culturale entro un dato territorio, ma non in nome di una secessione, e nemmeno di una forma alternativa di governo.

 Fu questa la sfida del multiculturalismo.

 

QUATTRO TIPI DI SOCIETÀ MULTICULTURALI.

A seconda delle origini e delle dinamiche sociali dominanti, si possono distinguere quattro tipi fondamentali di società multiculturale.

Gli imperi premoderni.

Frutto di conquiste armate - talvolta di matrimoni dinastici o di trasmissione ereditaria - gli imperi premoderni perseguirono solo sporadicamente e in modo parziale, se mai lo fecero, l'integrazione culturale delle popolazioni assoggettate.

 Ciò che l'impero richiedeva ai sudditi era la completa sottomissione e il riconoscimento della sua autorità suprema, nonché la corresponsione di tributi e/o tasse.

 Di norma tali imperi erano caratterizzati da un notevole pluralismo religioso, linguistico e normativo (leggi e consuetudini).

 

Se la discriminazione e l'occasionale persecuzione delle religioni diverse da quella ufficiale dell'impero costituivano la regola, raramente veniva attuata una politica coerente e sistematica di uniformazione religiosa.

Una significativa eccezione a questo riguardo è costituita dall'Impero spagnolo dopo il 1499.

 Importanza ancora minore veniva data all'uniformità linguistica e giuridica.

 Mentre le corti, gli eserciti e le amministrazioni imperiali avevano i propri codici linguistici, sebbene raramente monolingui, le popolazioni assoggettate erano libere di usare la lingua che volevano.

Raramente venivano emanate leggi; ci si limitava a interpretare e ad applicare quelle vigenti, e i conquistatori di solito rispettavano le norme e le consuetudini dei paesi assoggettati, perlomeno de facto, e spesso de jure, in dichiarazioni solenni.

Tali leggi e consuetudini riguardavano prevalentemente la sfera della famiglia (matrimonio, eredità), le questioni religiose, i diritti alla terra, i privilegi aristocratici e i diritti corporati delle città, ma comprendevano anche il diritto penale vigente presso la popolazione locale.

 La dinamica culturale interna a questi sistemi sociali scarsamente omogenei era fornita in larga misura dall'attrazione esercitata da una carriera nell'amministrazione centrale o dalla possibilità di spartire il bottino imperiale.

Ciò incoraggiava le conversioni alla religione dei conquistatori e l'adozione della lingua (o delle lingue) della corte, dell'esercito e dell'amministrazione.

 A partire dal XIX secolo, per far fronte alle sfide del moderno nazionalismo popolare, gli imperi cercarono attivamente di inculcare nelle popolazioni assoggettate la lingua e la religione dei dominatori, con risultati peraltro assai modesti.

 

È questo il tipo di società che emerse in Oriente e nell'Europa mediorientale con il “Commonwealth polacco-lituano”, gli “imperi degli Asburgo e dei Romanov”, l' “Impero ottomano”, che comprendeva gran parte del mondo arabo, gli “imperi persiani”, quello “moghūl” nelle regioni dell'India settentrionale, e infine l' “Impero cinese”, il più vasto e uniforme di tutti.

Qui infatti esisteva un gruppo etnico dominante, quello “Han” o cinese, con una scrittura comune che coesisteva peraltro con una pluralità di dialetti reciprocamente incomprensibili.

L'ultima dinastia regnante, i “Ch'ing”, e una parte consistente della sua “nobiltà di corte”, non era cinese bensì “mancese”, e aveva tre differenti lingue ufficiali – “cinese”,” manciù” e “mongolo”.

 

L' “Impero inca” nelle Americhe e quelli di “Ghana”, “Mali” e “Soghay” della savana dell'Africa occidentale nel X-XVII secolo avevano caratteristiche simili.

 I “regni del Giappone” e della “penisola coreana”, per contro, presentavano un'eccezionale uniformità culturale.

All'epoca delle “guerre di religione europee”, l'imperatore moghūl Akbar (fine del XVI secolo) che governava l'India settentrionale - inclusi l'Afghanistan e il Bengala - abolì l'islamismo quale religione di Stato e proclamò l'eguaglianza religiosa.

Alla sua corte vennero invitati rappresentanti del “cristianesimo”, dello “zoroastrismo”, dell “'induismo” e del” jainismo”, nonché della “tradizionale religione islamica”.

 

I sovrani illuminati delle aree scarsamente popolate e relativamente meno sviluppate dal punto di vista economico dell'Europa centrale ed orientale incoraggiarono l'immigrazione di popoli di altre culture:

 “Ebrei” in Polonia e in Lituania nel XIII e nel XIV secolo, “Tedeschi” in Transilvania nel Medioevo e nella “Russia di Caterina la Grande” nel XVIII secolo, “calvinisti francesi” nella Prussia luterana di Federico il Grande sempre nel XVIII secolo.

Analogamente, gli “Ebrei sefarditi” espulsi dalla Spagna della reconquista dopo il 1493 trovarono accoglienza presso i sovrani musulmani dell'Impero ottomano.

 Le città e i villaggi della fascia centrorientale d'Europa, da Istanbul a San Pietroburgo, erano di solito multietnici o dominati da un gruppo etnico diverso da quello prevalente nei territori circostanti.

“Greci”,” Armeni”,” Ebrei” e “Tedeschi” erano presenti soprattutto tra la popolazione urbana.

In contrasto con l'uniformità religiosa che dopo la Riforma si instaurò in gran parte dell'Occidente, nell'Europa orientale si affermò un modus vivendi multiconfessionale, che vedeva la coesistenza di ortodossi, cattolici, uniati, luterani, calvinisti, cristiani armeno-gregoriani e armeno-cattolici, ebrei e musulmani (Tartari, Bosniaci, Albanesi, Turchi).

Tale mosaico di religioni si doveva in buona parte agli Ottomani e alla loro politica di tolleranza religiosa, non solo nei Balcani ma anche in Ungheria, nonché alla protezione da essi concessa ai principi protestanti transilvani che erano stati espulsi dall'Ungheria.

La Controriforma cattolica, che tanto successo ebbe in Polonia, perlomeno per quanto riguarda l'affermazione del cristianesimo quale unica religione, non riuscì mai a riconquistare pienamente i territori ungheresi.

I tardi imperi premoderni degli “Asburgo” e dei “Romanov” erano caratterizzati da un multiculturalismo di proporzioni imponenti.

 Il censimento russo del 1897, ad esempio, attestava l'esistenza di oltre 130 lingue madri, che si sovrapponevano o si incrociavano con tutte le principali denominazioni religiose cristiane o musulmane, cui si affiancavano ebrei di varie congregazioni, buddisti e seguaci delle cosiddette 'religioni della natura'.

Alle soglie della prima guerra mondiale, nell'Impero asburgico vi erano tredici grandi gruppi etnici, che coesistevano con piccole minoranze: Tedeschi, Ungheresi, Cechi, Polacchi, Ucraini, Rumeni, Croati, Serbi, Ebrei (i quali peraltro non erano riconosciuti come gruppo etnico), Slovacchi, Sloveni, Bosniaci e Italiani.

Sul piano religioso, ciò implicava la compresenza di quattro principali versioni del cristianesimo - cattolica, ortodossa, luterana, calvinista - cui si aggiungevano l'ebraismo e l'islamismo sunnita.

Gli ultimi imperi premoderni cessarono di esistere alla fine della prima guerra mondiale, ma l'eredità degli imperi multiculturali rimase sino alla seconda guerra mondiale nella pluralità dei diritti di famiglia della Polonia, dell'Ungheria e della Romania.

 

L'Unione Sovietica e, dopo la seconda guerra mondiale, la Iugoslavia comunista formarono Stati multinazionali e monoculturali.

Da un lato venne instaurata l'uniformità politica e ideologica e un rigido controllo culturale, dall'altro si cercò di garantire istituzioni nazionali, sistemi politici territoriali, sistemi di scrittura - là dove questi mancavano, come avveniva in molti casi tra i popoli sovietici - nonché apparati simbolici (bandiere, insegne, ecc.).

Dopo il crollo dei regimi comunisti, nel 1991-1992, l'Unione Sovietica e la Iugoslavia vennero divise in base ai precedenti confini territoriali ufficiali, con o senza violenza etnica.

 

Le eccezioni dell'Europa occidentale.

L'Europa occidentale nel suo complesso costituisce una significativa eccezione ai sistemi politici multiculturali premoderni.

A differenza degli imperi dell'Europa centrorientale, internamente differenziati, scarsamente coesi e spesso dichiaratamente pluralistici, nell'Europa occidentale a partire dall'alto Medioevo si affermarono sistemi politici complessi relativamente compatti e uniformi, in cui la Chiesa cattolica e la lingua latina costituivano i principali elementi di unificazione.

Se è vero che il Sacro Romano Impero della Germania di fatto non era un'unità territoriale uniforme, esso peraltro non costituiva un vero e proprio impero, né sul piano militare né sul piano fiscale.

 

L'espulsione degli Ebrei nell'Europa occidentale iniziò in Francia nel 1182, sebbene con scarsa efficacia, e venne ripresa con maggiore sistematicità in Inghilterra nel 1290, ancora in Francia nel 1306 e nel 1394, in altre parti dell'Europa occidentale nel corso del XV secolo, in Spagna e in Sicilia nel 1492.

In Germania l'espulsione degli Ebrei non fu frutto di una politica ufficiale e generalizzata, ma di ripetuti pogrom e persecuzioni, mentre in Italia le persecuzioni papali vennero eseguite solo parzialmente.

Le metropoli commerciali indipendenti, come Venezia e in misura ancora maggiore Amsterdam, rimasero aperte agli Ebrei.

 

Mentre gli Ottomani nell'Europa sudorientale tolleravano la presenza di ebrei e cristiani, considerandoli seguaci di religioni legittime sebbene di status inferiore rispetto all'islamismo, e nel caso degli ebrei ne incoraggiarono addirittura l'immigrazione, la riconquista cristiana nella penisola iberica determinò l'espulsione sia dei musulmani che degli ebrei.

 L'Inquisizione della Chiesa cattolica non ebbe equivalenti in nessun'altra religione mondiale.

Le guerre religiose all'epoca della Riforma, che possono essere considerate anche espressione di un'aspirazione all'uniformità religiosa, terminarono con l'affermazione del principio “cuius regio, eius religio”, secondo il quale spettava al sovrano decidere la religione del paese.

Alle soglie dell'epoca moderna, dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, l'Europa occidentale spiccava nel resto del mondo come un'area di chiusura mono religiosa e mono culturale.

La situazione, tuttavia, era differente per quanto riguarda i diritti individuali - campo in cui l'Europa occidentale aveva una lunga e unica tradizione di autonomia giuridica dal potere - e la partecipazione politica (elezione del papa e dell'imperatore, rappresentanza dei ceti e autogoverno delle città).

 

L'illuminismo e la Rivoluzione francese portarono la tolleranza religiosa e nuovi sviluppi dei diritti civili nell'Europa occidentale.

Questi ultimi però furono anche accompagnati e seguiti da una riuscita politica di uniformazione giudiziale-amministrativa, giuridica ed etnolinguistica.

 Fu la Svezia del XVII secolo a dare l'avvio a tale processo, che raggiunse il culmine con la Rivoluzione francese.

A quest'ultima si deve anche il modello internazionale di codificazione giuridica uniforme, il Codice napoleonico.

 Il XIX secolo e la prima metà del XX videro l'affermarsi dell'uniformità etnolinguistica, creata e imposta dapprima nei paesi occidentali e, successivamente, nell'Europa orientale e centrale post-imperiale.

A seguito di questo processo, i "contadini [vennero trasformati] in Francesi" (Eugene Weber), e si 'crearono gli Italiani', per riprendere la famosa frase di Massimo d'Azeglio, in un paese in cui peraltro solo il 2-3% della popolazione, secondo le stime, era in grado di comprendere la lingua italiana.

 

La Svizzera costituisce un caso unico di società multiculturale nel continente europeo, e in particolare nell'Europa occidentale, con quattro lingue ufficiali - tedesco, francese e italiano, cui si aggiunse nel 1938 il retoromanzo - e due gruppi confessionali cristiani di eguale peso - i cattolici e i protestanti.

Originariamente la nazione svizzera era costituita da una confederazione di cantoni autonomi e culturalmente omogenei, che occupava una regione montuosa di dimensioni relativamente ridotte, e per lungo tempo minacciata da potenze esterne, come gli Asburgo e i Savoia.

 La Svizzera cattolica non ha mai costituito un'unità ecclesiastica.

 Nel corso del XIX secolo, a seguito di una serie di guerre interne su piccola scala, il paese fu trasformato da una confederazione di cantoni in uno Stato federale con ampi margini di autonomia degli Stati membri.

 

Tra le due guerre mondiali emersero altre eccezioni all'eccezione rappresentata dall'Europa occidentale, un altro multiculturalismo europeo di fatto, se non di nome, che contrastava con l'uniformità politica dominante in quest'area.

 Si trattava di una sorta di multiculturalismo politico-religioso, basato su una mescolanza storica di mobilitazione di massa, di fedeltà gerarchiche e di Stato debole.

 I Paesi Bassi costituivano l'esempio più complesso, meno conflittuale e più longevo di queste società occidentali multiculturali, che comprendevano anche il Belgio e la Repubblica austriaca dopo la disgregazione dell'impero e sino all'instaurazione dell''austro fascismo' al principio degli anni trenta.

 

La difficile ma stabile coesistenza di un insieme di gruppi o 'pilastri' (zuilen) culturali - cattolici, calvinisti, socialdemocratici e una componente liberale minoritaria - caratterizzò la società olandese dagli anni venti, allorché tali gruppi vennero ufficialmente istituiti, sino alla metà degli anni sessanta, quando iniziò il loro rapido processo di disgregazione.

 Ognuno di essi aveva le proprie scuole, finanziati attraverso l'imposizione fiscale, i propri ospedali, i propri operatori sociali, i propri sindacati e le proprie organizzazioni di imprenditori (tranne i socialdemocratici), i propri partiti politici, i propri giornali, le proprie stazioni radio: in sintesi, un'organizzazione autonoma in pressoché tutti i campi di attività, fatta eccezione per le corti di giustizia e le forze armate.

Ad esempio, esistevano organizzazioni di allevatori cattolici e di giardinieri protestanti.

Il collegamento tra i vari gruppi era assicurato da coalizioni politiche al vertice.

Sulle questioni costituzionali i partiti 'confessionali' (religiosi) si dimostravano uniti, e negli anni precedenti la seconda guerra mondiale i confessionali (cattolici e calvinisti) e i liberali furono accomunati dall'ostilità nei confronti dei socialdemocratici.

 Nel secondo dopoguerra, un'analoga base socioeconomica costituì il terreno per coalizioni sociopolitiche tra laburisti e cattolici.

 

Una situazione simile si riscontrava in Belgio, dove alle divisioni confessionali tra cattolici e calvinisti (assenti, questi ultimi, dal paese) si sostituivano quelle tra la comunità francofona e la fiamminga.

Nella Repubblica austriaca, uscita impoverita e delegittimata dalla prima guerra mondiale, si fronteggiavano tre schieramenti (Lager) dotati anche di formazioni armate.

 I cristiano-sociali rappresentavano lo schieramento più forte, seguiti dai socialisti e in ultimo da una minoranza di nazionalisti tedeschi anticlericali.

Le ostilità tra tali schieramenti sfociarono in una guerra civile e in un colpo di Stato poco prima dell’“Anschluss nazista”.

 

Con alcune eccezioni storiche relativamente marginali, la situazione dell'Europa occidentale fornisce un importante punto di riferimento empirico per una discussione sul multiculturalismo.

Gli esempi sopra illustrati mettono in evidenza tutta una gamma di possibilità alternative:

di conflittualità e di violenza oppure di coesistenza pacifica e di sviluppo comune, di adattabilità oppure di rigidità nei confronti dei mutamenti socioeconomici e culturali, di longevità e di stabilità nel tempo oppure di durata effimera.

 

Gli insediamenti del Nuovo Mondo.

Le Americhe e l'Australia furono conquistate e non 'scoperte'.

Le popolazioni autoctone vennero decimate in larga misura dai germi e dalle malattie infettive portati dagli Europei, ma furono anche vittime di un deliberato genocidio.

 Il territorio dei due continenti venne ripopolato da insediamenti europei su larga scala.

 Fatta eccezione per il Guatemala e la Bolivia nelle Americhe, la maggioranza della popolazione nel Nuovo Mondo attualmente è costituita da gruppi di origine (più o meno) europea.

Solo nei paesi andini dell'Ecuador e del Perù e in Nuova Zelanda la popolazione autoctona rappresenta più del 10%.

In alcune aree, come ad esempio in Messico, una percentuale ancora più alta è costituita da meticci (mestizos).

In ogni caso, come hanno dimostrato i movimenti etnici degli anni ottanta, i gruppi indigeni e la loro cultura non sono mai scomparsi del tutto;

 costretti alla latenza per un lungo periodo, attualmente lottano per l'autoaffermazione.

 

Alla mescolanza etnica hanno contribuito anche tre secoli di importazione di schiavi africani per il lavoro nelle piantagioni, nonché il reclutamento di manodopera coatta indiana nel XIX secolo, in particolare negli Stati Uniti, nei Caraibi, in Brasile, Guiana e Trinidad. Tuttavia i flussi più importanti furono quelli degli immigrati europei di differenti etnie, lingue e religioni.

Gli Europei arrivarono per libera scelta, e svilupparono l'idea di un “melting pot”, ossia di una fusione delle differenti identità etniche in una comune identità americana, canadese, argentina, ecc.

Tale idea, le cui origini possono essere fatte risalire, verso la fine del XVIII secolo, allo scrittore francese naturalizzato americano” Michel-Guillaume-Jean de Crèvecoeur”, divenne popolare ai primi del Novecento grazie ad una commedia di Broadway.

 Essa rispecchiava di fatto una importante tendenza del mutamento sociale.

Verso gli anni quaranta le organizzazioni e le pubblicazioni nella lingua degli immigrati tendevano a scomparire o a trasformarsi in associazioni e pubblicazioni di lingua americana (inglese o spagnolo).

 

Gli Stati Uniti inoltre divennero uno dei principali approdi delle correnti religiose dissidenti ed eterodosse del mondo, in particolare di dissidenti cristiani e di minoranze ebraiche, assumendo i caratteri di un paese multiconfessionale.

Gradualmente, questa tendenza all'apertura religiosa si diffuse in altri paesi del Nuovo Mondo.

Ma soprattutto nel Nordamerica e in Australia l'identità religiosa si intrecciava all'identità etnica, dando luogo a blocchi etnico-religiosi.

I flussi migratori costituirono la principale dinamica culturale della costruzione dello Stato nazionale nel Nuovo Mondo, in cui una pluralità di culture diverse si insediarono, si adattarono e cercarono di sviluppare le proprie istituzioni come basi di potere e ricchezza.

 Ciò contrastò l'assimilazione del “melting pot”, (ri)producendo interessi etnici o etnico-religiosi, gruppi di interesse e movimenti politici.

Alla base della costruzione della nazione nel Nuovo Mondo vi fu una politica di 'popolamento' del territorio, e nel XIX secolo politici e intellettuali - in particolare in Argentina, Cile e Brasile - discutevano animatamente su quali gruppi avrebbero dovuto essere incoraggiati ad immigrare nel paese e a prendere parte alla formazione della nazione.

Durante la prima guerra mondiale i movimenti migratori intercontinentali subirono un rallentamento riducendosi vistosamente negli anni trenta e quaranta; una piccola ripresa si ebbe nel secondo dopoguerra.

All'inizio degli anni sessanta anche agli occhi di osservatori esperti sembrava che l'emigrazione di massa nel Nuovo Mondo fosse un fenomeno del passato.

 Ma nel caso del Nordamerica e dell'Australia i fatti avrebbero smentito questa convinzione.

L'area (ex) coloniale.

Una vasta area del mondo, che si estende dall'Africa occidentale al subcontinente indiano all'arcipelago del Sudest asiatico e alla Nuova Guinea (l'attuale Papua), fu conquistata e sottomessa dalle potenze europee, ma diversamente da quanto era accaduto nel Nuovo Mondo, la popolazione indigena non venne decimata e sostituita da insediamenti bianchi.

A seguito del processo di decolonizzazione, tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta, in quest'area nacquero nuovi Stati indipendenti, che ospitano le società culturalmente più eterogenee del mondo.

Le potenze coloniali unificarono artificialmente popolazioni in precedenza separate o segmentate, oppure separarono altrettanto artificialmente popoli e società in precedenza uniti, istituendo confini politici con altri domini coloniali.

Scarsamente sviluppate sul piano economico e politico, tali regioni erano abitate da un'enorme varietà di popoli e di culture tra loro isolati, e in parte per questa ragione soccombettero facilmente ai paesi colonizzatori.

Nella Nuova Guinea, ad esempio, conquistata dagli Olandesi e dai Tedeschi, esistono circa 750 lingue diverse (secondo altre stime il loro numero arriva a mille), e in Africa si registrano 1.200 popoli o gruppi etnici diversi.

Dopo la divisione o l'unificazione artificiale dei territori e dei popoli conquistati, il secondo momento della politica coloniale consistette nella creazione di una barriera efficacemente istituzionalizzata e ben visibile tra i colonizzatori e la popolazione indigena.

A tempo debito, in reazione a tale barriera nacquero i movimenti anticoloniali e nazionalisti.

 

Il programma e i simboli dei movimenti nazionalisti erano mutuati dalla storia recente delle stesse potenze coloniali, e i nuovi Stati indipendenti sorti dopo il processo di decolonizzazione definirono i propri confini seguendo le divisioni arbitrarie stabilite dalle potenze coloniali, ereditando quindi la realtà multiculturale degli ex imperi.

 

All'inizio degli anni sessanta un gruppo di studiosi sovietici compì il tentativo più ambizioso e sistematico sino ad allora mai realizzato di registrare e di comparare il pluralismo etnolinguistico delle società di diverse nazioni.

Quindici risultarono essere le società più multiculturali, di cui quattordici nell'Africa subsahariana e l'altra in India (la Nuova Guinea non era incluso nei paesi considerati).

Secondo le stime degli studiosi sovietici, vi era al massimo una probabilità su dieci di incontrare due Tanzaniani, Congolesi o Ugandesi appartenenti alla stessa comunità etnolinguistica.

In Giappone o in Portogallo, per contro, vi era una probabilità su cento di incontrare due individui appartenenti a gruppi etnolinguistici diversi, e in Germania e in Italia le probabilità erano rispettivamente tre e quattro su cento.

 

Attualmente, le circa 1.200 etnie africane sono distribuite tra 55 Stati, e uno dei più vasti fra questi, la Nigeria, conta ben 400 lingue differenti.

 In India secondo gli antropologi esistono 5.000 'comunità' culturali, definite in base alla lingua, alla religione, alla casta o ad altri criteri etnici.

In questo paese vi sono diciotto lingue ufficiali, più l'inglese quale lingua franca dell'élite, cui si affiancano circa cento lingue parlate da 100.000 o più individui, e una dozzina di alfabeti differenti.

Tutte le stazioni radio indiane trasmettono in 190 lingue.

I governi postcoloniali sinora sono riusciti a gestire la complessa realtà di questa enorme differenziazione culturale.

Gli episodi di rottura dell'ordine sociale e della convivenza pacifica sono stati relativamente rari.

Nella maggioranza dei casi, le violenze intercomunitarie sono derivate da specifici conflitti biculturali - ne sono esempi gli scontri tra induisti e musulmani in India all'epoca della divisione nel 1947, la guerra tra Yoruba e Ibo in Nigeria per la secessione del Biafra nel 1967 e le ricorrenti guerre genocide tra gli Hutu e i Tutsi in Burundi e Ruanda. Tuttavia, sembra che i perduranti particolarismi etnoculturali siano stati d'ostacolo allo sviluppo economico e sociale.

 I paesi dell'Est asiatico che hanno intrapreso con successo la strada della modernizzazione risultano assai più omogenei.

 

Il multiculturalismo post-nazionale.

Il multiculturalismo odierno è il prodotto di una dinamica culturale che non è né pre-nazionale, come negli imperi premoderni, né nazionale, come nel Nuovo Mondo e nell'area ex coloniale.

Si tratta piuttosto di un fenomeno che potremmo definire post-nazionale, che si è affermato dopo la costituzione di Stati nazionali ed entro i confini di questi ultimi, e al cui sviluppo ha contribuito la diffusione dell'istruzione superiore di massa a partire dagli anni sessanta e delle nuove culture musicali e audiovisive di massa.

 

Questo multiculturalismo post-nazionale ha avuto sinora come principali centri il Nuovo Mondo, in particolare il Nordamerica e l'Australia, e l'Europa occidentale, in particolare i paesi nordoccidentali.

In entrambe queste aree si sono sviluppati processi e movimenti sociali che hanno messo in discussione la precedente uniformità della nazione.

 

Nel “Nuovo Mondo” la principale sfida alla 'nazione bianca', ovvero all'identità europea della nazione fondata dai colonizzatori bianchi, è venuta dalle nuove ondate migratorie.

Un mercato del lavoro caratterizzato da una crescente domanda di manodopera straniera, le notevoli pressioni interne ed esterne per l'abolizione delle clausole di esclusione etnica nella regolamentazione dell'immigrazione, e infine i nuovi sviluppi geoeconomici mondiali hanno aperto la strada a nuovi flussi migratori multiculturali dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia in direzione del Nordamerica e dell'Oceania.

D'altro canto, l'America Latina è diventata a sua volta un subcontinente di immigrazione.

Oltre alle nuove dinamiche dell'emigrazione, altri due fattori contribuiscono oggi a mettere in discussione con forza crescente l'identità bianca della nazione dei colonizzatori, ponendo in primo piano la questione della razza e del razzismo:

il primo riguarda la posizione delle popolazioni indigene, vittime della conquista violenta;

il secondo è rappresentato dai perduranti effetti dello schiavismo.

 

Dopo un lungo periodo di oppressione e di marginalizzazione, i discendenti degli schiavi e delle popolazioni indigene hanno acquistato sufficienti forze, nonché numerosi sostenitori tra i colonizzatori stessi, per lottare contro la loro esclusione.

Iniziato negli Stati Uniti negli anni sessanta, tale processo si è poi diffuso negli altri paesi del Nuovo Mondo.

 I principali progressi sono stati realizzati dagli Afroamericani negli Stati Uniti, dai Maori in Nuova Zelanda e dagli Aborigeni in Australia.

 I cambiamenti sono stati, per contro, relativamente meno significativi nell'America Latina, sebbene nel 1992 il quinto centenario della conquista europea delle Americhe abbia fornito un importante punto di riferimento simbolico per la protesta degli Indiani d'America.

 

Questa sfida alla supremazia bianca è stata condotta in misura crescente non tanto o non solo in termini di rivendicazione dell'eguaglianza, ma anche e soprattutto come affermazione del diritto alla differenza - il diritto ad essere diversi senza essere per questo marginalizzati o discriminati.

Su questo punto si sono trovati uniti i movimenti delle popolazioni indigene - guidati da una nuova élite colta - che chiedono riconoscimento e la restituzione o il risarcimento delle terre espropriate dai colonizzatori, gli Afroamericani, che riaffermano con orgoglio la propria identità etnica, e alcune correnti sviluppatesi tra gli immigrati di origine non europea dopo l'allentarsi delle leggi fortemente discriminatorie che regolavano l'immigrazione.

Parallelamente a questi nuovi movimenti etnici si sono sviluppati, con un lieve scarto temporale, movimenti in difesa di nuovi soggetti con un'identità specifica, come le donne o gli omosessuali (movimento femminista, movimento dei gay e delle lesbiche).

Sulla scia di questi ultimi, anche gruppi o comunità contraddistinti da stili di vita particolari chiedono di essere riconosciuti come 'culture' all'interno di una società multiculturale.

Anche nell'Europa occidentale il fenomeno migratorio e le dinamiche culturali hanno assunto caratteristiche nuove intorno agli anni sessanta-settanta.

Sin dal principio delle conquiste e dell'espansione oltremare l'Europa fu un continente di emigrazione.

 La costruzione dello Stato nazionale nell'Europa moderna era concepita in termini di uniformazione etnolinguistica, considerata all'epoca assai più importante di quella religiosa.

 La Francia, che rappresentò anche la prima eccezione al modello migratorio europeo, fu il precursore sul piano ideologico e istituzionale del principio dell'uniformità nazionale, sintetizzato nella definizione della nazione francese come “une et indivisible”.

 

Negli anni sessanta, con il processo di decolonizzazione e con la nuova prosperità del dopoguerra, l'Europa divenne un continente di immigrazione.

 Il processo ha conosciuto un'accelerazione negli anni ottanta e all'inizio degli anni novanta, e attualmente anche paesi come l'Irlanda, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l'Italia, in cui il fenomeno dell'emigrazione aveva persistito tenacemente, si caratterizzano per la presenza di consistenti minoranze di immigrati.

In un tempo straordinariamente breve, le società dell'Europa occidentale sono diventate multietniche come quelle del Nuovo Mondo.

Nel 1975 quasi l'11% della popolazione francese risultava nato in terra straniera (inclusi i cittadini nati in Algeria e nelle altre ex colonie);

nel 1990 la percentuale di immigrati legalmente registrati ammontava al 10% (una percentuale ancora più alta di quella calcolata per gli Stati Uniti, che raggiungeva l'8% nel 1990 salendo al 9% nel 1996, dopo la massiccia legalizzazione degli immigrati clandestini tra il 1989 e il 1991).

Nella Germania occidentale tra gli anni sessanta e ottanta l'afflusso di immigrati è stato eguale se non superiore, in proporzione, a quello sperimentato dagli Stati Uniti alle soglie della prima guerra mondiale.

Alla metà degli anni novanta in un paese tradizionalmente assai omogeneo dal punto di vista etnico come la Svezia il 10% della popolazione è di origine straniera.

 Data la tendenza alla concentrazione urbana delle nuove popolazioni di immigrati, il multiculturalismo è diventato una caratteristica distintiva soprattutto delle grandi città.

All'inizio degli anni novanta un quinto della popolazione londinese risultava di razza non bianca, e un quarto della popolazione di Bruxelles e di Francoforte era costituito da 'stranieri'.

Il multiculturalismo europeo, frutto delle nuove ondate di immigrazione, è prevalentemente a base etnica, ma vi è anche una politica dell'identità in particolari regioni storiche (soprattutto in Spagna) e la tendenza a riaffermare i diritti di lingue minoritarie in passato marginalizzate (ad esempio lo scozzese).

Le culture legate all'identità sessuale, per contro, in Europa sono meno definite e assertive rispetto a quelle statunitensi.

 

Il multiculturalismo post-nazionale è fluido ed è in larga misura una questione di scelta e di autoaffermazione consapevole, distinguendosi in questo dal multiculturalismo di altre società, in specie da quello degli imperi premoderni, assai più statico e in gran parte ereditato.

 I moderni mezzi di comunicazione di massa e le accresciute opportunità di spostamento e di contatto creano i presupposti per nuove combinazioni di culture o per un processo di 'ibridazione culturale'.

Sinora queste tendenze si sono manifestate in modo particolarmente evidente nelle nuove culture musicali e nelle mescolanze di tradizioni culinarie etniche.

 L'omologazione nazionale delle culture, che ebbe il suo culmine in Europa intorno agli anni cinquanta, dopo le 'pulizie etniche' associate ai due conflitti mondiali e il genocidio degli Ebrei europei, comincia a mostrare segni di cedimento ovunque, nonostante l'occasionale verificarsi di nuove azioni di pulizia etnica, ad esempio in Bosnia e in Croazia.

ASPETTI POLITICI E ISTITUZIONALI.

Il multiculturalismo è diventato negli anni settanta una politica ufficialmente riconosciuta in Australia e in Canada, che attualmente possono essere considerati anche i due paesi di immigrazione più aperti del mondo.

 All'epoca circa il 16% della popolazione canadese e il 20% di quella australiana erano di origine straniera.

Sia in Australia che in Canada la svolta verso il multiculturalismo rientrava nel quadro di un significativo mutamento nei modelli di immigrazione.

 Per lungo tempo alla base della politica dell'immigrazione in Australia vi fu l'esplicito imperativo di preservare il carattere di 'nazione bianca' del paese, e sino al secondo dopoguerra gli immigrati furono in prevalenza britannici.

 Successivamente vi fu un consistente afflusso di Italiani e di Greci.

 Negli anni sessanta la scarsità di manodopera indusse a mitigare le restrizioni nei confronti dell'immigrazione europea, ed ebbe inizio anche una consistente immigrazione asiatica.

Negli stessi anni sia in Canada che in Australia cominciò la mobilitazione delle minoranze indigene discriminate e marginalizzate.

 

La politica multiculturalista iniziò in Canada, come reazione all'istituzione di una Commissione sul bilinguismo e sul biculturalismo (1963) che si proponeva di raggiungere un nuovo compromesso anglofrancese per fronteggiare il crescente nazionalismo francofono nel Québec.

Si cominciò allora a sostenere che il Canada non era costituito da due nazioni bensì da tre, che quella degli Aborigeni era la prima nazione e di conseguenza non poteva restare esclusa.

 Il biculturalismo, si disse inoltre, era del tutto inadeguato a cogliere la complessa realtà multietnica del Canada.

Queste istanze vennero recepite dal governo internazionalista liberale di Pierre Trudeau, che fu anche uno strenuo oppositore del nazionalismo del Québec.

Nell'ottobre del 1971 il governo federale dichiarò ufficialmente il multiculturalismo quale obiettivo della politica del paese.

Venne sottolineata l'esigenza di preservare l'eredità culturale delle minoranze, nonché di migliorare e di rendere più eguali i rapporti tra le diverse componenti della nazione attraverso misure contro il razzismo o altre forme di discriminazione e in favore delle pari opportunità, all'insegna del motto: "una nazione, due lingue, una pluralità di popoli e di culture".

Nel 1972 venne istituito un Ufficio per il multiculturalismo all'interno del Ministero degli Esteri, e sino alla metà degli anni novanta vi fu un Ministero federale per gli affari multiculturali.

 L'orientamento multiculturale è stato sancito in una Carta dei diritti e delle libertà (1982) e in un” Multiculturalism act” (1988), diventando un elemento centrale dell'autodefinizione della nazione canadese.

 

Gli Aborigeni australiani si videro riconosciuta la cittadinanza a pieno titolo solo nel 1967 - atto che può essere considerato la fine, sia pure tardiva, della politica dell''Australia bianca'.

Il movimento anticolonialista internazionale e la peculiare posizione geopolitica dell'Australia portarono gradualmente all'abbandono dei criteri esplicitamente razziali che avevano improntato la politica dell'immigrazione.

L'ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea, negoziato negli anni sessanta e sancito infine nel 1973, segnò una nuova apertura verso l'Asia della politica estera e commerciale australiana.

Una politica orientata in senso multiculturale venne avviata sotto il governo laburista in carica tra il 1972 e il 1975, e fu proseguita dal successivo governo liberale.

Essa prevedeva, tra l'altro, l'adozione di una serie di misure contro la discriminazione, il riconoscimento dei diritti alla terra degli Aborigeni, il sostegno dello Stato alle etnie svantaggiate, la realizzazione di programmi scolastici e radiotelevisivi diretti a comunità culturali speciali.

 Negli anni ottanta, sotto un nuovo governo laburista, venne istituito un Ufficio per gli affari multiculturali all'interno della Presidenza del Consiglio, e nel 1989 fu annunciata una 'Agenda nazionale per un'Australia multiculturale'.

 

Se da un lato ha trovato sostenitori in tutti gli schieramenti politici, dall'altro il multiculturalismo è stato sempre anche oggetto di critiche, derivate in parte dal timore di un ulteriore aumento dell'immigrazione in periodi di crisi economica.

Secondo alcuni, inoltre, il multiculturalismo rappresenterebbe una potenziale minaccia per l'unità nazionale o per i valori tradizionali della nazione.

Mettendo in primo piano i diritti e gli interessi collettivi, il multiculturalismo entra in conflitto con la concezione individualista che privilegia i diritti dei singoli.

 In Australia, ad esempio, si è creato un conflitto tra i diritti alla terra degli Aborigeni e gli interessi delle corporazioni dell'industria mineraria e dei pastori non aborigeni.

Negli anni novanta sia in Australia che in Canada si osserva un certo declino del multiculturalismo.

 

In Canada, inoltre, il multiculturalismo tende a passare in secondo piano rispetto ai conflitti biculturali che oppongono il Québec francofono alla comunità anglo canadese.

 Anche in Nuova Zelanda vi è un conflitto biculturale di fronte al quale il multiculturalismo diventa un fenomeno secondario.

 Sebbene la società neozelandese si avvii a diventare una società multietnica, a dominare la scena sono i conflitti e i tentativi di conciliazione tra la maggioranza bianca, “i Pakeham”, e una consistente minoranza indigena relativamente ricca di risorse, i” Maori”.

 

Negli Stati Uniti il multiculturalismo non è stato adottato come politica ufficiale, ma l'immigrazione in questo paese ha sempre avuto un carattere assai più multiculturale di quella australiana, canadese e neozelandese.

 In Australia, nel 1990-1991 oltre il 70% degli immigrati era di origine europea, neozelandese o nordamericana;

in Canada gli immigrati provenienti dagli Stati Uniti e dall'Europa costituivano oltre il 60%.

Negli Stati Uniti, per contro, Europei e Canadesi rappresentavano solo il 20% degli immigrati regolarmente registrati.

 Le politiche etniche e la formazione di coalizioni multietniche sono una prassi consolidata nella politica americana.

 

Il multiculturalismo è emerso negli Stati Uniti negli anni settanta, ma in un contesto differente e con connotati diversi rispetto al Canada e all'Australia.

 La mobilitazione in difesa dei diritti delle minoranze culturali nella società statunitense è stata strettamente legata al movimento delle donne (in particolare al femminismo culturale ed etnico), a quello dei neri o Afroamericani, ai movimenti dei gay e delle lesbiche.

 Le università e i colleges sono stati i principali centri della mobilitazione: l'istituzione di quote di reclutamento etniche, l'elaborazione di programmi di studio multiculturali e l'approvazione di norme contro la discriminazione verbale e contro le molestie sessuali sono stati temi di acceso dibattito.

 

Tuttavia anche l'immigrazione, soprattutto dal Messico e dagli altri paesi dell'America Latina, nonostante la legalizzazione di un consistente numero di immigrati attuata tra il 1989 e il 1991, comincia ad essere sentita nuovamente come un grave problema.

Sono state adottate numerose misure per rafforzare i controlli alle frontiere con il Messico, e da molte parti è stata avanzata la richiesta di istituire formalmente l'inglese quale unica lingua ufficiale del paese, nel timore che lo spagnolo, diffuso soprattutto negli Stati sudoccidentali, finisca per acquistare la preminenza.

 

Alla metà degli anni novanta lo studioso americano “Michael Lind” ha descritto i mutamenti storici del ruolo dell'etnicità nell'autodefinizione dell'identità americana, proponendo altresì un programma nazionalista liberale per il futuro.

Sino alla guerra di Secessione, afferma “Lind”, nel paese sarebbe risultata dominante un'identità originaria angloamericana, cui avrebbero fatto seguito sino agli inizi dello smantellamento del razzismo, alla fine degli anni cinquanta, un'identità euroamericana e infine l'attuale America multiculturale.

 Ad essa si dovrà sostituire, secondo “Lind”, una 'trans-America' in cui le differenze razziali e di genere non avranno più alcuna rilevanza e l'immigrazione sarà ridotta a zero.

 

Il multiculturalismo è entrato nella discussione politica e accademica europea verso la metà degli anni ottanta, ma non costituisce una esplicita politica dello Stato.

Tuttavia alcune iniziative del governo svedese, come la sovvenzione di programmi educativi speciali nelle lingue madri degli immigrati, la promozione di varie associazioni degli immigrati e di manifestazioni folkloristiche pubbliche, ecc., possono essere legittimamente considerate esempi di una politica multiculturale.

 

La 'politica delle minoranze' attuata in Olanda, che prevede forme di sostegno a favore dei principali gruppi di immigrati, può essere anch'essa considerata un'attiva politica multiculturale, sebbene non venga designata esplicitamente con questo nome.

Le generose sovvenzioni che lo Stato garantisce da tempo alle scuole confessionali sono state concesse ora anche alle scuole musulmane e induiste.

Di fatto, l'Europa occidentale è diventata un'area multiculturale, che ospita significative minoranze di extracomunitari provenienti dal Sud asia (in Gran Bretagna), dalle Indie occidentali e dall'Africa subsahariana (principalmente nel Regno Unito e in Francia), nonché dal Nordafrica e dal Medio Oriente - soprattutto dalla Turchia e dall'Iran - diffuse queste ultime in tutto il continente ma concentrate soprattutto in Francia e in Germania.

 Sono state costruite numerose moschee, la maggioranza delle quali in Francia, e in Gran Bretagna esistono anche templi induisti.

 Nuove e diverse subculture si affermano tra la gioventù urbana.

Questi recenti sviluppi hanno originato anche tensioni culturali, che talvolta hanno trovato espressione in episodi di violenza etnica.

Si osserva altresì un revival di simboli nazionali quali bandiere e inni, intesi come riaffermazione dei valori del mono culturalismo contro il nuovo pluralismo.

In Austria, Belgio e Francia, e in misura minore in altri paesi, il nazionalismo monoculturale è diventato una significativa forza politica nelle elezioni degli anni ottanta e novanta.

Se è vero che il multiculturalismo si va affermando in misura crescente in tutto il mondo, è vero anche che quasi ovunque ciò ha provocato le reazioni di un mono culturalismo militante o 'fondamentalista'.

Negli ultimi venti trent’anni si è assistito ad una rinascita del fondamentalismo religioso - cristiano (prevalentemente protestante) negli Stati Uniti, musulmano nel mondo arabo, in Iran, in Afghanistan e in Pakistan, ebraico in Israele, induista in India, buddista nello Sri Lanka.

Un significativo impulso allo sviluppo di” un nazionalismo sciovinista ed esclusivista” è stato dato dal crollo dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia;

le cause del collasso dei regimi comunisti peraltro sono da ricercarsi più nelle manovre di élites politiche in competizione che non nell'azione di movimenti nazionalisti di massa.

Nel complesso, non è stata ancora sviluppata una politica adeguata alla nuova situazione culturale.

 Le forti tradizioni nazionaliste spesso entrano in conflitto con le nuove realtà.

Così, la concezione laica della scuola fortemente radicata in Francia ha portato a violente reazioni contro l'uso del chador da parte di alcune scolare musulmane.

 Di fatto il multilinguismo è inconciliabile con l'idea della nazione come comunità linguistica unitaria propria della cultura francese, ed europea in generale.

 In Germania, nonostante la presenza di una vasta comunità di immigrati che risiedono nel paese da una generazione, vi è una forte volontà di preservare l'identità tedesca della nazione.

 La vecchia definizione in termini etnici della cittadinanza crea molti 'stranieri' nati in Germania e di madrelingua tedesca.

 

Solo con grande lentezza i governi cercano di adeguare le loro politiche alle mutate circostanze.

 Alcuni passi in questa direzione, tuttavia, sono già stati compiuti.

Nel 1989, ad esempio, Francoforte sul Meno, una delle città più multiculturali d'Europa, ha istituito un Ufficio per gli affari multiculturali.

 In alcuni paesi anche ai musulmani è stato riconosciuto il diritto di istituire le proprie scuole, seppure tra molte esitazioni e sotto un più stretto controllo.

 I diritti culturali e di altro tipo delle minoranze sono attualmente al centro dell'attenzione del Consiglio europeo.

 

IL DIBATTITO NELL'AMBITO DELLA TEORIA POLITICA E SOCIALE.

Negli anni novanta il multiculturalismo è diventato non solo un tema di controversie politiche e ideologiche, ma anche un importante motivo di discussione e di riflessione nell'ambito della teoria politica e sociale.

Esso ha dato spunto ad una nuova e più approfondita indagine sulle motivazioni umane e sui problemi dell'ordine sociale e politico della cittadinanza.

Confrontarsi con la tematica del multiculturalismo significa interrogarsi sui concetti di cultura, identità, diritti, comunità, classe, nazione, repubblica, cittadinanza, globalizzazione.

Sinora il centro di questi dibattiti è stato il Nordamerica, ma si tratta di problemi che riguardano tutte le aree multiculturali del mondo e destano ovunque un interesse crescente.

 

Culture e identità.

La nascita di movimenti che affermano il diritto alla diversità rispetto alle norme e ai valori dominanti, e che reclamano riconoscimento e rispetto per la propria specificità segnala una riaffermazione di culture e comunità culturali che sono per certi versi controcorrente rispetto alle tendenze dominanti nell'Europa occidentale, nel Nordamerica e nell'Oceania del dopoguerra.

Esse sembrano smentire altresì gran parte delle teorizzazioni elaborate nell'ambito delle scienze sociali a partire dagli anni cinquanta in merito alla secolarizzazione, al post-nazionalismo e al post-materialismo, al prevalere della prestazione sull'ascrizione e della comunicazione di massa sulle culture profonde.

Inoltre, sebbene queste comunità culturali che oggi vanno riaffermando la propria identità siano costruzioni sociali, e non di rado siano presentate come tali, alla loro base vi sono caratteristiche cosiddette 'primordiali' quali la razza, l'appartenenza etnica e il genere, e non già valori post-materialisti quali la libertà d'espressione, la tutela dell'ambiente, la qualità della vita.

 

Il multiculturalismo pone in primo piano la cultura come identità.

Il concetto di identità, sviluppato nel secondo dopoguerra da “Erik H. Erikson” nella sua “teoria dello sviluppo della personalità”, sino ad anni recenti è stato prevalentemente un concetto della psicologia individuale, e nonostante la sua rilevanza non ha trovato spazio nelle concezioni classiche del nazionalismo.

 Negli anni novanta si è avuta una rinascita dell'interesse per il problema dell'identità, ma sino ad ora tale problema è stato affrontato prevalentemente sotto angolazioni specifiche.

 Ben poco si è detto e compreso sui processi generali di formazione e di mutamento dell'identità sia collettiva che individuale -ad esempio sui meccanismi attraverso cui il soggetto differenzia (o de-differenzia) se stesso dagli altri, sullo sviluppo e sul mutamento dell'autoriferimento, sull'importanza del riconoscimento da parte degli altri e sui modi in cui lo si ottiene.

Una distinzione tipologica importante per comprendere i problemi posti dal multiculturalismo è quella tra “culture fluide e culture statiche”.

Le società multiculturali degli imperi premoderni erano prevalentemente statiche:

 le loro diverse lingue, leggi, usanze e religioni si evolvevano con grande lentezza.

 Per contro, le società multiculturali post-nazionali del Nordamerica e dell'Europa occidentale sono assai più fluide.

 Tuttavia, il diritto di esistere e di sopravvivere rivendicato dai nuovi movimenti culturali si richiama anch'esso a un punto di riferimento fisso.

Entriamo qui nel terreno della contrapposizione tra l'interpretazione “essenzialista” e quella “costruttivista” della cultura.

 

Alla distinzione tra società fluide e società statiche si ricollega quella tra l'autenticità di una cultura e la sua adattabilità.

 In riferimento a quest'ultima si parla oggi spesso di 'ibridizzazione' o 'creolizzazione' globale.

 Tali distinzioni sono di grande rilievo per i possibili orientamenti della politica multiculturale, che può considerare prioritaria la sopravvivenza e l'autenticità di determinate culture, ad esempio quelle dei gruppi etnici indigeni all'interno di un territorio, oppure può avere come obiettivo primario quello di garantire il pluralismo culturale, senza porsi il problema della sopravvivenza e dell'autenticità.

 

Cittadinanza, ordinamento politico e diritti.

Sino ad oggi il multiculturalismo è stato oggetto di un dibattito assai più vivace nell'ambito della teoria politica e sociale che non in quello della teoria culturale.

Il multiculturalismo pone problemi di grande rilievo per le principali teorie odierne in materia di diritti e di ordinamento politico.

Con le sue rivendicazioni collettive e sostanziali, ossia non esclusivamente procedurali, il multiculturalismo è in irriducibile contrasto con il liberalismo che ha improntato la tradizione politica statunitense, fondata sullo smantellamento delle autorità del Vecchio Mondo, su diritti individuali costituzionali, e su un esteso controllo giudiziale delle politiche democratiche.

Senza dubbio, negli ultimi decenni negli Stati Uniti si è affermato anche un orientamento multiculturalista, che ha trovato espressione in una serie di misure di 'azione positiva' (ossia di discriminazione favorevole) a tutela dei diritti collettivi delle donne e delle minoranze etniche - sebbene ultimamente i provvedimenti in questo senso abbiano segnato una battuta d'arresto.

Tuttavia, nella misura in cui la realtà multiculturale è il risultato di nuovi modelli migratori, la conservazione di una 'repubblica procedurale' di tipo liberale richiederà una più rigida regolamentazione in materia di cittadinanza e di immigrazione.

 Ma come sarà possibile attuare tali restrizioni senza far ricorso a politiche non liberali?

Nell'area statunitense, i sostenitori del multiculturalismo si richiamano in genere ad una concezione collettivista della vita sociale come radicata in comunità di lingua e di valori.

 Ma la concezione collettivista, a sua volta, deve fare i conti con l'eterogeneità delle comunità, che pone il dilemma tra il rispetto del relativismo culturale e l'intervento di un'istanza sovraordinata in nome dei diritti universali dell'uomo e del cittadino.

Problemi di questo tipo sono posti, ad esempio, dalla struttura patriarcale e dalla misoginia che contraddistinguono determinate comunità culturali, o dalla loro generale chiusura alla libertà di scelta individuale.

Il multiculturalismo rappresenta un problema anche per altre importanti tradizioni politiche.

 Il repubblicanesimo, di cui la Francia costituisce una delle principali approssimazioni empiriche, con la sua esaltazione della virtù civica e della partecipazione attiva dei cittadini alla realizzazione del bene comune, è a rigore incompatibile con il riconoscimento della divisione della cittadinanza in differenti comunità culturali.

 Ma dal momento che l'appartenenza alla repubblica non è considerata preclusa a priori ai membri di particolari culture, anzi al contrario, sembra esservi un'apertura per forme di appartenenza di transizione che ammettono il multiculturalismo.

E in ogni caso, una volta che la società abbia perso la sua uniformità culturale - qualunque ne siano state le cause, anche le errate politiche del passato - in che modo dovrà cambiare la concezione repubblicana della cittadinanza per far fronte alla nuova realtà multiculturale, posto che venga escluso il ricorso all'assimilazione forzata o all'espulsione?

 

Il nazionalismo etnoculturale, teorizzato nella tradizione culturale tedesca e slava a partire da “Herder”, è incentrato sull'idea dell'autoespressione e dell'autodeterminazione della nazione, tradizionalmente concepita come una specifica comunità etnoculturale definita nella maggior parte dei casi dalla lingua.

 Il multiculturalismo può conciliarsi con il nazionalismo solo nella misura in cui esso è subordinato al principio e alle esigenze dell'unità nazionale a fronte dei compiti della nazione nel mondo.

 Ma non si è riflettuto a sufficienza sul fatto che le trasformazioni intervenute nel mondo contemporaneo impongono una riconsiderazione e una ridefinizione del ruolo della nazione e del concetto di unità nazionale.

Il nazionalismo etnoculturale riconosce l'opportunità che alcune nazioni decidano di unirsi ad altre nazioni in uno stesso Stato, senza per questo rinunciare al proprio diritto ad un nuovo tipo di autodeterminazione in futuro.

Ciò significa che in qualsiasi momento una nazione potrebbe esprimere la volontà di separarsi da uno Stato multinazionale o multiculturale.

 Ma resta da stabilire, e su questo punto regna una grande disparità di opinioni, quando e in che modo una comunità culturale che aspira a diventare una nazione abbia il diritto di separarsi, e quale porzione di territorio le debba essere riconosciuta.

 È questo un problema di grande rilievo per il futuro del Québec in un Canada multiculturale, della nazione catalana in Spagna, ecc., ed è diventato di drammatica attualità dopo il crollo dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia.

Il multiculturalismo sembra dunque inconciliabile con le principali ideologie politiche moderne, e la sua effettiva esistenza pone ad esse importanti sfide.

 Per l'ideologia conservatrice di destra il multiculturalismo costituisce un problema nella misura in cui non si tratta di una tradizione - come nel caso degli imperi premoderni da tempo scomparsi - ma di un fenomeno nuovo, prodotto dalle nuove ondate migratorie e dal crollo delle autorità e delle gerarchie tradizionali.

D'altro canto, il conservatorismo non è ostile al pluralismo culturale in sé stesso.

Per l'ideologia liberale, tradizionale paladina del pluralismo e della tolleranza, il multiculturalismo rappresenta un problema in quanto con le sue rivendicazioni di diritti collettivi mette in discussione l'universalismo liberale e il valore supremo dei diritti individuali.

Se il multiculturalismo e la politica dell'identità possono essere considerati a buon diritto un prodotto dell'ideologia di sinistra e delle sue lotte contro le discriminazioni, l'ineguaglianza e l'oppressione, tuttavia ciò non significa che essi non rappresentino una sfida anche per il socialismo e per l'egualitarismo di sinistra.

Il particolarismo del multiculturalismo è inconciliabile con l'ideologia di sinistra non meno di quanto lo sia con l'universalismo liberale.

Soprattutto, esso mette in questione l'idea di un attore specifico quale motore determinante del mutamento sociale - la classe nella tradizione socialista, il popolo oppresso nel nazionalismo rivoluzionario dell'ex area coloniale, dell'America Latina e dei Caraibi - senza peraltro indicarne uno alternativo.

 

Comunque si configureranno gli sviluppi futuri, è certo che le nuove dinamiche culturali delle società multiculturali post-nazionali richiedono analisi e riflessioni più approfondite.

 

 

 

IDENTITÀ (identità culturale).

 

Interculturatorino.it – Antonio Perotti – Selim Abou – (2-5-2013) – ci dicono:

 

Questo termine riveste due significati molto importanti.

Il primo riguarda il “concetto d’identità “, che ha soprattutto un significato di ordine psicologico.

L’identità si riferisce alla percezione che ogni individuo ha di sé stesso, cioè della propria coscienza di esistere come persona in relazione con altri individui, con i quali forma un gruppo sociale (per esempio: famiglia, associazioni, nazione, ecc.).

 

Questa percezione di identità non è solo individuale.

 È il riconoscimento reciproco fra l’individuo e la società.

Essa comporta un aspetto soggettivo (la percezione del fatto che gli altri riconoscono l’individuo la sua identificazione e la sua continuità).

 

Il termine “culturale” ha, invece, un significato più tipicamente sociologico.

 Esso deriva dal termine “cultura “, concepito come patrimonio globale evolutivo dell’individuo e dei gruppi sociali ai quali questi appartiene.

Questo patrimonio culturale è dunque formato dalle norme di condotta, dai valori, dagli usi e dal linguaggio che uniscono o diversificano i gruppi umani.

Quando parliamo di identità culturale di una persona indichiamo la sua identità globale, cioè una costellazione di svariate identificazioni particolari riferite ad altrettante appartenenze culturali distinte, in processo dinamico costante.

Quando si parla di diritto alla propria identità culturale (il primo dei diritti culturali) l’identità culturale viene definita sulla base di una triplice dialettica:

la prima dialettica è quella della diversificazione/coesione.

L’identità culturale è luogo di formazione del legame sociale e politico; essa, lo ripetiamo, si costituisce per un processo interattivo di assimilazione e di differenziazione in rapporto con l’altro.

 Una identificazione è una creazione di legami.

L’identità indica un “io” che si costituisce a partire da un plurale, attraverso un movimento di andata-ritorno, d’integrazione ma anche di rigetto.

 In questo senso implica una dialettica continua di diversificazione / coesione.

 

La seconda dialettica che fa parte dell’identità culturale è la dialettica particolare / universale.

 L’identità è il rapporto tra il recto e il verso o il “faccia a faccia” tra il carattere personale e comunitario, tra individuo e società.

 La persona individuale non è isolata, la sua individualità più originale si esprime quando essa si situa “in faccia” all’altro (sia individuo o comunità).

Se si afferma l’identità come un diritto alla differenza senza indicare l’altra faccia, la somiglianza, il diritto alla mia identità si trasforma in pseudo-diritto.

“L’esperienza democratica, consiste meno a giocare la carta dell’universale contro quella del singolare – e inversamente – che a vivere sulla tensione storica, quella cioè che ormai si arrischia tra il singolare e l’universale senza rinunciare all’uno o all’altro”.

La terza dialettica che costituisce la dinamica di ogni diritto culturale (primo tra i quali il diritto alla propria identità culturale) è la dialettica del risultato/processo.

 L’identità culturale non è un dato fossilizzato ma essa implica un atto permanente di identificazione che suppone nello stesso tempo la tradizione (quel patrimonio identitario che ci è stato trasmesso per nascita o per i cicli vitali dell’uomo) e la libertà che esprime le diversità volontarie, le scelte etiche dell’uomo.

Qualsiasi identificazione di una soggettività (sia esso il soggetto personale o comunitario) si fa su quanto abbiamo definito il faccia a faccia tra tradizione e libertà.

Senza questa interfaccia non si può concepire il diritto all’identità.

La definizione di identità culturale concepita sulla base della triplice dialettica (particolare / universale; risultato / processo; diversificazione / coesione) che abbiamo presentato, corrisponde alla definizione di identità culturale ritenuta dal progetto relativo a una “dichiarazione dei diritti culturali”, formulata dal Consiglio d’Europa e dall’UNESCO.

 

Ai fini di questa dichiarazione per l’espressione “identità culturale” si intende “l’insieme dei riferimenti culturali per il quale una persona o un gruppo si definisce, si manifesta e desidera di essere riconosciuto;

l’identità culturale implica le libertà inerenti alla dignità della persona e integra in un processo permanente la diversità culturale, il particolare e l’universale, la memoria e il progetto”.

(SELIM, Abou)

(Antonio Perotti)

 

 

 

 

Identità digitale: un valore

fragile dall’etica alla roboetica?

Ilruoloterapeuticodigenova.it – Prof. Rodolfo Zunino – Varchi – (10-3-2023) - ci dice:

 

Esperto e uomo della strada concordano sul fatto che il progresso tecnologico dei decenni scorsi pone sfide evolutive del tutto nuove a tutti i livelli generazionali.

 La massiva e pervasiva diffusione delle nuove tecnologie, smartphone in primis, costituisce un fattore critico di cambiamento;

 ciascuno ha in tasca una connessione verso tutto il mondo circostante, e questo è un fatto potenzialmente dirompente.

Il concetto di “Identità Digitale” si è, all’inizio, associato semplicemente ad un insieme di diritti di accesso a servizi o informazioni;

non a caso il reato di “furto di identità”, che è uno dei crimini più frequenti sul mezzo telematico, consegue spesso all’accesso abusivo a sistemi informatici da parte di utenti non autorizzati.

Ma la realtà sociale e soprattutto il mondo giovanile stanno affermando, nei fatti prima che nei princìpi, che il concetto non può essere ridotto al possesso e utilizzo di una password o di qualche credenziale di accesso.

 L’analisi in questo articolo cercherà di proporre una nuova interpretazione dell’”Identità Digitale” secondo una luce multidisciplinare, sforzandosi di ricondurre allo stesso fenomeno componenti tecnologiche con altre, in certo qual modo, antropologiche.

 

La compresenza di aspetti tecnici e socio/psicologici spesso offusca una lettura efficace dello scenario contemporaneo, anche perché le rispettive comunità di esperti hanno difficoltà nel trovare un linguaggio comune.

 L’analisi cercherà quindi di bilanciare considerazioni di tipo tecnologico con l’impatto sulla vita dei nostri giovani, identificando qualche aspetto o condizione che rendono il periodo attuale peculiare e per certi versi senza precedenti.

Lo scenario.

Una prima considerazione deriva da un fatto nuovo nella storia della scienza:

 forse per la prima volta una generazione acquisisce e padroneggia una tecnologia dirompente prima (e meglio) delle generazioni che la hanno preceduta.

Di fatto era sempre accaduto che una generazione sviluppasse una nuova tecnologia e la trasmettesse alle successive con un processo di training;

 oggi con smartphone & Co le cose vanno diversamente. Non è infrequente sentire un adulto - anche non anziano - rivolgersi ad un giovane - di ogni età - affinché lo aiuti nella gestione del mezzo tecnologico.

 Dobbiamo pur tuttavia tenere ben presente che le generazioni fruitrici di fatto non conoscono gli strumenti che invece meglio padroneggiano.

 In un ardito paragone, si potrebbe immaginare di trovarci all’inizio del XX secolo durante la diffusione dei mezzi automobilistici, in cui però ragazzi (bambini?) siano i migliori piloti.

 E saremmo ancora senza un codice della strada …

Non si può peraltro ridurre un simile fenomeno sociale a una mera conseguenza del progresso ingegneristico.

Si assiste infatti ad un certo mutamento antropologico, perché la diversità nella competenza digitale amplifica il già presente (e fisiologico) gap generazionale.

 Ad esempio, un tale meccanismo può costituire alibi per quella forma di “abdicazione dal ruolo parentale” che si riscontra in giovani genitori, che concedono ai figli piena autonomia nel controllo del mezzo tecnologico perché “mio figlio/a è esperto/a e ho fiducia in lui/lei”.

La frattura generazionale basata sulle competenze digitali costituisce un vulnus molto critico le cui conseguenze saranno ben evidenziate più oltre.

Un ulteriore punto di singolarità consiste nella associazione delle tecnologie informatiche con altre legate alle telecomunicazioni.

Si era già osservato alla fine del secolo scorso, con la diffusione esplosiva dei “Personal Computer”, quanto le nuove generazioni potessero rivelarsi plastiche e ricettive nei confronti degli strumenti informatici.

 Quella fase, del resto, si manifestò in ambiti e con ricadute a livello individuale (pensiamo al mondo dei video games), esponendo i soggetti più deboli a pericolose devianze o patologie nel comportamento o nella personalità.

Ma un punto di svolta si è avuto quando a tale disponibilità di potenza di calcolo si è associata - sullo stesso dispositivo - una pervasiva tecnologia di comunicazione.

Il possessore di uno smartphone o tablet oggi ha in mano una capacità informatica superiore a quella usata per le missioni lunari, ma detiene anche la possibilità pratica di vedere luoghi e parlare con persone in ogni parte del pianeta.

Spicca in questa prospettiva il ruolo visionario e lungimirante di figure quali “Steve Jobs” che, con tutti i limiti personali e storici della figura, di fatto diedero impulso a questa rivoluzione digitale.

Il concetto.

La combinazione informatica-telecomunicazioni stabilisce quindi un nuovo paradigma di relazione interpersonale.

Le nuove generazioni parlano e comunicano in modo diverso da quelle che le hanno precedute, e anche se queste ultime alla fine usano gli stessi strumenti (ad esempio Social Networks), il modello di interazione è totalmente differente fra i due mondi.

Spesso le generazioni mature faticano a riconoscere che, de facto, il fatto di “stare continuamente connessi sui Social” rappresenta un nuovo modello di relazione sociale, con cui bisogna pur sempre fare i conti.

La conseguenza di tutti questi aspetti singolari è che dobbiamo gestire una nuova dimensione digitale, su cui molti giovani contemporanei fondano, talvolta inconsciamente, il concetto di “Identità Digitale”.

Alla tradizionale percezione della propria identità basata su coordinate di tipo ‘fisico’ (un soggetto si riconosce secondo la propria realtà esteriore, il comportamento e le relazioni), la dimensione digitale aggiunge una coordinata che è esclusivamente immateriale e relazionale: l’identità personale deriverà dalle domande “chi sono io?” ma anche “con chi sono connesso?”.

 

Il riconoscimento e la costruzione della propria identità nascono quindi da un equilibrio di queste due componenti; per contro, molte problematiche di tipo personale, giudiziario e infine patologico possono nascere dalla perdita di questo equilibrio stesso. Nello scenario discusso in precedenza si ritrovano parecchi fattori di rischio che possono compromettere questo delicato processo.

In primis, la frattura generazionale sulle competenze digitali indebolisce la già flebile possibilità di una guida parentale;

 la disponibilità di tecnologia non accompagnata da una adeguata conoscenza culturale (da parte dei genitori) ostacola la formazione di un’etica nell’uso del mezzo tecnologico;

 non da ultimo, la connettività ubiqua e pervasiva può incidere sulla esigenza di privacy dell’individuo.

 

Possiamo constatare che spesso gli adulti non hanno strumenti culturali e pedagogici per indirizzare i propri successori.

Di fatto esiste una nuova dimensione digitale, ma nessuno sa bene come questo sarà gestito dalla generazione entrante e ci si basa su canoni interpretativi non adeguati perché obsoleti. Proveremo almeno a basare l’analisi su una iniziale prospettiva tecnologica.

Identità fragile a livello individuale.

Un significativo pericolo a livello individuale consiste nella (inesistente) dicotomia fra mondo reale, che sarebbe meglio definire ‘fisico’, e mondo ‘virtuale’, che sarebbe meglio definire ‘digitale’.

Non siamo predisposti (diremmo antropologicamente) a gestire una nuova dimensione della nostra identità, il che in molti casi porta a gestire quest’ultima come un fenomeno separato o separabile dal mondo fisico.

Quando questo meccanismo non è accompagnato da una adeguata consapevolezza anche a livello tecnico, può nascere una distorta percezione della propria identità, con possibili sdoppiamenti fra la personalità e i comportamenti nel mondo fisico e quelli nel mondo digitale.

Cronache e vita comune testimoniano frequentemente casi di persone che conducono un certo stile di vita nel mondo quotidiano e uno stile del tutto antitetico e insospettabile in rete.

 Diversi fattori tecnologici sono alla base della tentazione di disaccoppiare la coordinata fisica da quella ‘virtuale’.

 

In primo luogo troviamo, paradossalmente, la comodità di uso dei dispositivi: esperti e forze dell’ordine concordano sul fatto che spesso si agisce in modo improprio o illecito solo perché “è facile farlo”; in altre parole la tecnologia sembra allentare un freno inibitore, naturalmente ancora una volta a causa della mancanza di un’etica nell’uso del dispositivo.

 

Un secondo fattore incentivante di comportamenti scorretti è la falsa percezione di anonimato offerto dal mezzo tecnologico e in particolare dalla rete.

La mancanza di conoscenze illude sul fatto che quanto fatto su Internet, solo perché si sta usando magari un profilo alternativo, non sia rintracciabile:

questa è una falsa percezione della verità perché ogni azione nel mondo digitale lascia tracce al pari di ogni atto commesso nel mondo fisico.

Su questo aspetto si sovrappone frequentemente una presunzione di non identificabilità mediante una esposizione personale ‘selettiva’: in altre parole, uno si convince di non poter essere identificato perché non espone informazioni che possano ricondurre alla sua identità anagrafica.

 L’esperienza insegna che in verità questa è una percezione illusoria; ben poche persone (e solo quelle addestrate) riescono a 'compartimentare' le informazioni esposte secondo profili precostruiti.

 La chiave di lettura sta nella cronologia delle informazioni ‘postate’ in rete: l’utente di solito opera secondo una finestra temporale di consapevolezza molto ristretta, e non ricorda le informazioni esposte in precedenza.

Il problema è aggravato dall’ uso intensivo del mezzo tecnologico che tende a spostare il focus di attenzione sul “qui e ora”.

È interessante osservare che questo meccanismo non interessa solo la platea di utenti “non informati” ma si rileva trasversale in tutto il cyberspace: esistono casi ‘eccellenti’ di tecnici esperti o persino hacker che cadono nella trappola della sovraesposizione o presunzione di non identificabilità. Questo a riprova della dimensione antropologica e non solo tecnica del fenomeno.

Un'ultima ma non meno importante componente di rischio derivante dalla tecnologia consiste nella assunzione di irraggiungibilità, con cui ci illudiamo che gli interlocutori telematici non possano entrare in contatto fisico con noi. In sostanza, se anche la mia identità anagrafica fosse disponibile, percepisco il mondo 'virtuale' come distante e quindi mi sento inviolabile dal momento che non vedo un punto di contatto con il mondo reale.

Naturalmente un tale punto di contatto esiste ed è la persona stessa, che integra in sé sia la dimensione fisica sia quella digitale.

Questa è una potente leva su cui agiscono gli esperti malintenzionati per raggiungere obiettivi criminosi, di cui l'adescamento online rappresenta un esempio indiscusso.

 

Identità fragile a livello sociale.

Ad aspetti che riferiscono alla sfera individuale si associano diverse componenti legate alla dimensione sociale del mondo digitale.

 In una realtà iperconnessa l'identità personale si concretizza anche nell’universo tecnologico e lì, ovviamente, il primo problema consiste nella vastità del contesto con cui ci si confronta.

Ancora una volta la semplicità, potremmo dire talora la brutalità, del mezzo digitale si fa complice contro una corretta maturazione della propria identità.

Aver ridotto l’interazione digitale ad una categoria manichea del tipo “mi piace/non mi piace” azzera le sfumature e trasforma un processo qualitativo di relazione ricco di sfumature in un mero conteggio quantitativo, esasperando spesso aspetti competitivi che portano a devianze comportamentali quali il sexting o la esibizione incontrollata in rete.

Se questa ultima componente riguarda soprattutto il mondo giovanile/adolescenziale, il problema della scarsa attenzione alla visibilità dei contenuti permea invece la popolazione digitale in modo trasversale.

Solo di recente si sta affermando la consapevolezza che è opportuno porre un filtro non solo ai contenuti esposti, ma anche a chi potrà accedervi.

Questo è reso ancor più importante dalla natura persistente dei dati in rete: foto o video, seppure rimossi dalla fonte primaria, possono restare accessibili tramite fonti alternative anche molto tempo dopo la loro cancellazione.

 In questo senso ogni volta che si posta qualcosa sul web, si costruisce un pezzo della propria identità digitale ma al tempo stesso se ne perde il controllo esclusivo.

Gli impatti sociali di queste realtà sull'idea di Identità Digitale sono molteplici.

Dedichiamo volutamente appena un cenno al problema assai diffuso e critico del cyber-bullismo, solamente perché è oggetto di approfondite analisi e azioni correttive a diversi livelli.

Sottolineiamo solo come questo fenomeno possa essere ricondotto alla gestione di una identità personale, in cui la dimensione digitale agisce come rafforzativo di spinte o percezioni verso comportamenti deviati.

Interessante dal punto di vista sociale è il fatto che molte agenzie di placement e scouting hanno iniziato a servirsi di tecnologie di profiling, che aggregano tutte le informazioni riferibili ad una certa identità e ricostruiscono un quadro complessivo, su cui basare interviste e processi di selezione.

Più in profondità, attraverso la ricostruzione dell'identità digitale mediante un'analisi accurata dei contatti in rete e dell'attività relazionale su Social Network e blogs, è possibile di norma delineare i tratti della persona nella sua interezza.

Prospettive.

Un tratto comune che si riscontra spesso nelle interazioni in materia digitale fra il mondo giovanile e le generazioni adulte è l'atteggiamento sconcertato e spesso nostalgico di queste ultime: da un lato si constata la distanza dalla controparte, ma dall'altro si auspica un imprecisato ritorno al passato in cui le interazioni si attuavano in modo diverso o 'tradizionale' ["ai miei tempi alla tua età mi vedevo con gli amici in giro invece di stare sempre attaccato al cellulare"].

Escludendo ovviamente fenomeni patologici o eccessi che pur sussistono, si deve prendere atto che il modello tradizionale non tornerà perché il cambiamento è irreversibile.

Tocca quindi alle generazioni mature evolvere verso le nuove e avvicinarsi al loro modello relazionale.

Una semplice constatazione statistica ne fornisce una prova indiretta: se si chiede ad un professionista di diffusione culturale quale sia la parte più difficile nell'avviare i giovani ad un corretto approccio alle tecnologie, la risposta invariante sarà "educare i genitori".

Se tutti concordiamo sul ruolo imprescindibile della formazione, potrebbe invece giovare uno spostamento di focus nella presentazione dei contenuti:

 troppo spesso oggi la formazione digitale si riduce a insegnare "come si usa qualcosa", mentre alla luce di tutto quanto sopra sarebbe meglio che si educassero i giovani a chiedersi "come divento io quando uso qualcosa".

La variazione di prospettiva educativa o didattica deve tendere quindi verso una maturazione di consapevolezza piuttosto che verso un arricchimento di competenze.

Troppo spesso si assiste nella scuola moderna ad un modello didattico in cui l'insegnamento digitale consiste in lezioni di informatica o, anche peggio, nell'uso di strumenti informatici.

Non sembra velleitario auspicare che, grazie alla crescente attenzione al problema da parte di vari attori istituzionali, si costruisca progressivamente la generazione digitale di cui tanto si parla.

Un punto utile di formazione può essere costituito dalla integrazione dei valori e dell'etica nel nuovo contesto digitale.

Da un lato il futuro non appare del tutto chiaro proprio per la mancanza di precedenti storici o sociologici, ma piace pensare che le nuove generazioni sapranno costruire in sé i valori e gli anticorpi per maturare, dietro una guida mirata, una corretta costruzione della propria identità a tutto tondo.

La tecnologia ha una identità?

Finora abbiamo considerato l'evoluzione delle interazioni uomo-tecnologia dal punto di vista del primo.

Il progresso scientifico apre però una seconda prospettiva, anch'essa del tutto inedita e ugualmente sfidante: anche le macchine digitali (in senso lato, comprendendo anche strumenti software) possono maturare una propria identità.

Escludiamo qui scenari più o meno avveniristici di macchine che acquisiscano una auto-coscienza;

oggi questo non sembra ancora attuale, sebbene potrebbe essere utile iniziare a dotarsi di serie categorie concettuali per gestire una tale situazione nel momento in cui si presentasse.

È invece assolutamente realistico e concreto lo scenario in cui una macchina dispone di

1) una propria "personalità" e

2) la capacità di apprendere.

 Profetico in tal senso il ruolo dell'inglese “Alan Turing”, altro gigante del secolo scorso, il quale preconizzò che presto si sarebbero realizzati automi il cui comportamento sarebbe stato indistinguibile da quello di un essere umano.

Oggi esistono diversi esempi di realizzazioni digitali che superano il test di Turing, basti pensare ad alcuni risponditori digitali evoluti o ad assistenti virtuali.

Riguardo al requisito di una personalità digitale, le macchine moderne hanno tanti gradi di libertà e possibili parametri che due prototipi, di fronte ad una decisione, quasi inevitabilmente seguiranno scelte individuali.

Turing introdusse nelle macchine persino comportamenti irrazionali, facendo sì che seguissero ogni tanto scelte casuali invece che deterministico-algoritmiche.

 In altre parole, oggi due software evoluti si comportano con noi in modi diversi e individuali.

La capacità di apprendere caratterizza le macchine digitali ormai da diversi decenni.

Chi scrive si occupa di “machine learning” o “apprendimento empirico” dagli anni '90 e il progresso su quel fronte è stato davvero notevole.

Oggi è possibile costruire un sistema digitale che parte "vuoto", osserva progressivamente il mondo (cioè gli stimoli cui è sottoposto) e si adatta di conseguenza per ottimizzare un certo risultato.

Esistono oggi macchine che, osservando il comportamento umano, imparano a pilotare aerei, guidare automobili, riconoscere volti e persone, controllare impianti industriali, leggere testi in linguaggio naturale, riprodurre le preferenze percettive di un umano, prevedere andamenti di borsa, supportare diagnosi cliniche (entro certi limiti).

Se uniamo la possibilità di scelte individuali con la capacità di adattarsi al contesto, otteniamo che oggi non esistono due macchine (evolute) che si comportano in modo uguale;

 questa è una importante premessa verso la formazione di una identità digitale delle macchine.

Indispensabile qui astenersi da ogni contaminazione 'mediatica': troppo spesso la divulgazione in materia si piega a esigenze cinematografiche con macchine antropomorfe;

 oggi le macchine 'intelligenti' che ci circondano hanno ogni forma ma non umanoide.

 Basti pensare ai robot che già puliscono molte case e imparano da soli la mappa dell'appartamento nonché le nostre preferenze di orario.

Non pare oggi imminente uno scenario in cui le macchine acquisiscano un potere cognitivo superiore a quello umano (incidentalmente, lo stesso Turing are convinto che prima o poi sarebbe accaduto).

 È invece realistica l'esigenza di costruire un'etica digitale delle macchine:

dal momento che possono avere una personalità autonoma e compiere scelte individuali diventa necessario dotare i sistemi di meta-regole che ne governino i comportamenti.

Molto critico (e attualissimo) il caso dei droni militari, vere macchine autonome dotate della capacità di apprendere, perseguire obiettivi, e compiere scelte di evidente delicatezza.

 Il contesto della” RoboEtica “per ora non ha incontrato un vero riscontro di consapevolezza né nei media né, spesso, nella comunità degli esperti.

Questo probabilmente è anche dovuto alla associazione "intelligenza artificiale" - "robot", anch'essa figlia di un mondo cinematografico ma invece estremamente parziale e limitativa.

La personalizzazione, l'apprendimento induttivo, l'esigenza di meta-regole etiche travalicano il mondo della robotica e devono invece estendersi a tutto il mondo delle macchine digitali evolute.

Un tentativo di conclusione. Una conclusione importante di questa analisi, pur nella sua incompletezza, consiste nell'aver definito l'Identità Digitale di ogni individuo come un processo dinamico e non come un fatto statico.

Nel momento in cui abbiamo maturato una nostra etica digitale, le informazioni che acquisiamo e le interazioni che attuiamo sul mezzo telematico possono arricchirci e migliorarci non meno di quanto apprendiamo dalle persone che incontriamo e con cui colloquiamo.

Sembra opportuno chiudere con alcune pillole di esperienza che possono aiutare a definire e gestire la propria dimensione digitale;

 consistono in considerazioni o domande (meno che mai esaustive) che può essere utile tenere presenti quando ci si muove nel mondo digitale.

Il mondo virtuale non esiste; esiste solo quello reale.

Il tuo mondo digitale è parte di te.

Lo specchio riflette la tua immagine, il tuo mondo digitale rispecchia i tuoi valori.

Quando dici qualcosa a qualcuno in rete, chiediti se glielo diresti se lui/lei fosse davanti a te.

Quando fai qualcosa in rete, chiediti se lo faresti di fronte a tutti quelli che ti conoscono.

Quando posti qualcosa, chiediti se ti andrà bene che ciò che esponi si possa ancora vedere fra dieci anni.

Ogni tanto prova a chattare con i tuoi familiari.

(Rodolfo Zunino è Professore Associato presso il Dipartimento DITEN)

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