Quando una nazione pretende di governare il mondo in esclusiva.
Quando
una nazione pretende di governare il mondo in esclusiva.
IL
MULTILATERALISMO
E LA POLITICA ESTERA DELL’UNIONE
EUROPEA.
Thefederalist.eu
– (3 aprile 2022) - SERGIO PISTONE – ci dice:
Sviluppo quattro schematiche considerazioni.
1.) Il sistema internazionale fondato
sugli Stati sovrani si trova in una situazione contradditoria che Kant aveva già
chiarito nei suoi aspetti essenziali.
Da una
parte si trova strutturalmente in uno stato di anarchia internazionale, dal
momento che non esiste una statualità a livello internazionale, cioè l’unica
struttura che può imporre la stabile convivenza pacifica, come è avvenuto
all’interno degli Stati nella misura in cui si sono costituiti in modo
efficace, realizzando cioè il monopolio pubblico della forza che impedisce la
tendenza a farsi giustizia individualmente.
Le
controversie fra gli Stati sono per contro risolte in ultima analisi con il
ricorso alla forza.
Da qui
la perenne corsa agli armamenti, le varie forme di imperialismo e le guerre.
Occorre precisare che l’anarchia
internazionale non significa una situazione del tutto caotica, dominata dallo
scontro continuo, irrazionale e imprevedibile fra gli Stati e quindi una
situazione priva di qualsiasi ordine.
Il
disordine internazionale è in effetti attenuato dal ruolo delle grandi potenze
che, anche se non eliminano la corsa agli armamenti e le guerre, rendono il
sistema internazionale meno caotico e imprevedibile.
Se il
sistema internazionale è caratterizzato dalla anarchia con le conseguenze
indicate, dall’altra parte esiste una spinta strutturale alla cooperazione
pacifica, alimentata dall’interdipendenza internazionale.
Con
ciò si intende che l’umanità deve affrontare delle sfide comuni di enorme
portata (dallo
sviluppo economico e tecnologico, allo sviluppo della distruttività degli
armamenti, alla salvaguardia dell’ambiente) che richiedono una cooperazione
pacifica.
Questa
spinta è alla base del multilateralismo, cioè del tentativo di creare sistemi
di cooperazione pacifica internazionale.
Questi
sono inadeguati perché non danno vita ad una statualità internazionale (a causa
della resistenza strutturale alla limitazione della sovranità nazionale), ma rappresentano i primi embrionali
passi in direzione dell’unificazione mondiale, cioè della statualità mondiale (che non potrà che essere, in
definitiva, una federazione democratica multilivello).
Esempi fondamentali del multilateralismo sono
oggi l’ONU, l’OMC, l’OMS e gli organismi tecnocratici come “l’Unione Postale
Universale”.
2.) Oggi è all’ordine del giorno la necessità
di un grandioso avanzamento del multilateralismo.
In effetti è evidente che l’umanità si è
venuta a trovare di fronte ad un intreccio inaudito di sfide esistenziali che stanno in sostanza producendo la
globalizzazione dell’alternativa “unirsi o perire” che è stata alla base dell’avvio
dell’unificazione europea dopo la seconda guerra mondiale e che è la spinta strutturale che ha
portato avanti il processo (ancora incompiuto) in direzione della federazione
europea.
Queste sfide esistenziali pongono il mondo di
fronte ad una drammatica alternativa: senza un urgente e sostanzioso
avanzamento del multilateralismo si apre la prospettiva di un imbarbarimento
dell’umanità che tende a comprometterne la sopravvivenza.
Le
sfide esistenziali con cui l’umanità si confronta sono chiaramente la questione
ecologica (con il riscaldamento climatico in primo piano), le pandemie, la
digitalizzazione e il disordine internazionale.
In questa sede mi soffermo su quest’ultimo che
rappresenta la sfida più pressante.
È
chiaro che nel quadro dell’anarchia internazionale l’ordine è sempre precario,
ma emergono situazioni di accentuato disordine.
In una visione schematica vanno sottolineati
due punti.
—
L’interdipendenza economica crescente, che con la globalizzazione ha
prodotto un grandioso sviluppo economico, è d’altra parte caratterizzata da
enormi squilibri economico-sociali e territoriali.
Le conseguenze sono:
le sempre più gravi crisi
economico-finanziarie, l’instabilità cronica di intere regioni del mondo, il
fenomeno degli Stati falliti, le guerre locali dilaganti, il terrorismo
internazionale, le migrazioni bibliche, l’enorme sviluppo della criminalità
internazionale.
— A livello delle grandi potenze e
degli Stati più avanzati si è affermato, in mancanza (dopo la fine del
bipolarismo) di potenze in grado di esercitare una leadership stabilizzatrice,
un pluripolarismo fortemente conflittuale.
Esso è
caratterizzato (dopo l’attenuazione in coincidenza con la fine della guerra
fredda) da una grandiosa ripresa della corsa agli armamenti (accompagnata dalla
proliferazione delle “ADM”, che si sta estendendo alle armi cibernetiche) e dal
diffondersi di sistematico di politiche imperialistiche.
In questo contesto di pluripolarismo
fortemente competitivo, il fenomeno più preoccupante è rappresentato
dall’imperialismo russo, che con la guerra in Ucraina rischia di far scoppiare
una guerra mondiale.
A
questo proposito va sottolineato che la Russia è una “potenza povera”, cioè
strutturalmente arretrata dal punto di vista economico-sociale e
politico-democratico, ma molto forte sul piano militare. Il che spinge gli
autocrati russi (dagli Zar a Putin) a trovare nell’imperialismo uno strumento
fondamentale per mantenere il consenso e quindi il potere.
È
chiaro che la risposta ai pericoli fatali provenienti dall’attuale disordine
internazionale è un netto avanzamento del multilateralismo.
3.) L’UE è chiamata a svolgere un ruolo determinante
rispetto a questa prospettiva.
Per rendersene conto occorre sottolineare che
essa ha una vocazione strutturale ad operare in direzione di un mondo più
giusto, più pacifico ed ecologicamente sostenibile.
In sostanza ha una radicata tendenza ad
ispirare la sua azione internazionale al modello della “potenza civile”, una
potenza cioè che persegue il superamento della politica di potenza, in altre
parole, una strutturale cooperazione pacifica sul piano internazionale.
In
effetti tutti gli Stati del mondo sono di fronte alla sfida del superamento del
sistema di Vestfalia (che alla fine della guerra dei Trent’anni nel 1648 ha
formalizzato il sistema internazionale fondato sulla sovranità statale
assoluta) perché è in gioco la stessa sopravvivenza dell’umanità, e la crisi
storica di questo sistema (dovuta alla sempre più profonda interdipendenza al
di là degli Stati ed alla crescente distruttività delle guerre) è il filo
conduttore per comprendere gli sviluppi contraddittori della nostra epoca, che
vede convivere in un equilibrio complesso e precario la politica di potenza e
gli egoismi statali con le spinte al loro superamento.
Ma in questo contesto l’UE ha un’esigenza
particolarmente radicata ad operare in direzione del superamento della politica
di potenza e, quindi, della sovranità assoluta.
Da una
parte, infatti, l’unificazione europea — un grandioso processo di unificazione
tra Stati sovrani avviatosi dopo la catastrofe delle guerre mondiali — è la
prima rilevante risposta alla crisi storica del sistema di Vestfalia.
Dall’altra parte, l’UE deve esportare la sua
esperienza perché, se non si procede verso un mondo più giusto e più pacifico,
è destinato ad essere compromessa l’”European Way of Life” (democrazia liberale,
stato sociale, diritti umani, sensibilità ecologica, bassa spesa militare) e,
quindi, lo stesso processo di unificazione europea.
Va anche ricordato che il fatto di essere la
più grande potenza commerciale del mondo implica inoltre una particolarmente
profonda interdipendenza con il resto del mondo e perciò un interesse vitale a
un sistema economico mondiale meglio governato e più equilibrato ed anche
socialmente ed ecologicamente più sostenibile.
E’ un dato di fatto che, nell’indicazione
programmatica del proprio ruolo internazionale (nei trattati relativi
all’unificazione europea e nella Dichiarazione del 2009 dell’Alto
rappresentante per la PESC, Xavier Solana Un’Europa sicura in un mondo
migliore, poi ripresa nelle successive dichiarazioni sulla strategia europea),
l’UE non faccia riferimento solo agli interessi e alla sicurezza europei, ma
anche alla pace nel mondo da realizzare attraverso la solidarietà, lo Stato di
diritto, il sistema liberaldemocratico, la globalizzazione dei diritti umani,
le integrazioni regionali, il multilateralismo contrapposto all’unilateralismo.
L’orientamento
programmatico ha un risvolto concreto nel primato che ha l’UE, nonostante
l’incompleta unificazione, per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo ed
alimentare, le missioni di pace e il perseguimento dei diritti umani, il ruolo
fondamentale rispetto a iniziative quali il Tribunale Penale Internazionale e
l’impegno a contrastare il riscaldamento climatico.
Ciò
sottolineato, vediamo sinteticamente le politiche che l’UE è chiamata a portare
avanti per l’avanzamento del multilateralismo:
—
contribuire in modo determinante a bloccare l’imperialismo russo lavorando per
la pace nella guerra in Ucraina che deve comprendere: il ritiro delle forze
armate russe dall’Ucraina, l’impegno ucraino a non entrare nella NATO,
l’attuazione degli accordi di Minsk (che nella sostanza implicano una
trasformazione dell’Ucraina in uno Stato federale implicante una reale
autonomia per le zone con una forte presenza russa), l’apertura all’ingresso
dell’Ucraina nell’UE (che sarebbe decisivo per la ricostruzione del paese a cui
dovrà ovviamente contribuire la Russia).
Dopo
la fine della guerra in Ucraina dovrà prender avvio il processo di costruzione
della “Casa comune europea”, cioè dell’integrazione fra Europa, Stati Uniti e
una Russia che si avvii verso il sistema democratico, anche sulla base di un
Piano Marshall dell’UE e degli SUE;
—
l’impegno per bloccare la guerra fredda fra USA e Cina partendo da una
conferenza per la sicurezza e la cooperazione globale;
— la spinta alla creazione di una “CECA
mondiale” impegnata sulla sfida ecologica e quella energetica;
— una
seria politica mondiale per lo sviluppo (in particolare dell’Africa) come
strumento decisivo di pacificazione e di progresso democratico;
— il quadro generale in cui devono
inserirsi queste politiche è il processo di riforma e di democratizzazione
dell’ONU che deve comprendere la regionalizzazione del Consiglio di Sicurezza e
una assemblea parlamentare mondiale.
4.) È
evidente che una politica europea efficace per il decisivo avanzamento del
multilateralismo richiede un salto qualitativo della capacità di agire dell’UE
sul piano internazionale, che implica a sua volta un salto qualitativo nel
processo di federalizzazione europea.
Ciò che mi sembra importane sottolineare in
questa sede è che questo salto è oggi effettivamente possibile.
In
effetti l’alternativa “unirsi o perire” che comincia a manifestarsi a livello
mondiale è giunta al momento culminante in Europa, dove o c’è il salto federale
in tempi rapidi, o il processo di unificazione europea si bloccherebbe e ciò
favorirebbe una evoluzione catastrofica nel mondo.
Alle
sfide globali ricordate (comprendente quella dell’imperialismo russo) che impongono
di agire tempestivamente si aggiunge la “Conferenza sul Futuro dell’Europa” che
apre la concreta prospettiva di dare il via ad un processo costituente degli “Stati
Uniti d’Europa” (come ha affermato il documento che è alla base del nuovo
governo tedesco).
Tutta
l’azione federalista è diretta a favorire questo sviluppo che aprirebbe la
strada ad un sostanzioso avanzamento del multilateralismo.
Concludo
sottolineando che la parola d’ordine “unire l’Europa per unire il mondo” è non
solo valida, ma particolarmente attuale.
(Sergio
Pistone)
La
corsa dell’”Unione europea” contro il tempo.
Le
responsabilità dell’Italia.
Thefederalist.eu
– (7 agosto 2022) – il Federalista – ci dice:
Il 20
luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere
ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la
direzione dei processi politici.
La crisi del governo italiano ha infatti una valenza
non solo nazionale, ma investe anche l’Unione europea e tutto il fronte delle
democrazie occidentali.
L’Italia
è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul
piano internazionale.
L’esperienza
appena conclusa del governo guidato da Mario Draghi lo ha dimostrato.
Grazie
al sussulto di responsabilità di tutte le forze politiche italiane che hanno
accettato — con l’eccezione della estrema sinistra e di Fratelli di Italia — il
patto di unità nazionale proposto dal Presidente della Repubblica e grazie
all’autorevolezza e alla competenza di Mario Draghi, l’Italia non ha solo
raggiunto risultati importantissimi sul fronte interno (campagna di
vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica con una delle crescite
più alte in Europa e a livello internazionale, politiche di sostegno sociale,
avvio della diversificazione energetica, solo per citarne alcuni esempi che si
aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un ruolo di leadership
sul piano europeo e internazionale.
Draghi
è stato l’interlocutore privilegiato degli USA in Europa per fissare la linea a
sostegno dell’Ucraina, come reso evidente anche dal ruolo determinante che ha
avuto nella decisione sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea;
e nell’UE, insieme a Macron, ha guidato il
fronte dei Paesi impegnati a costruire un’Europa forte e coesa, dotata di una
sua indipendenza strategica.
In questa ottica ha lavorato su una serie di
proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza
pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla Conferenza sul futuro
dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento europeo di aprire una
Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte dichiarato di modificare
in senso federale il sistema politico-istituzionale europeo.
Aver
provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in
acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva
l’Europa, fermando
quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo nel confronto (accelerato e reso drammaticamente
inevitabile da Putin con l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.
La
guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la
frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili
facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di
un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e
della mancanza di strumenti di difesa adeguati.
Se
oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione
dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno innanzitutto
americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente investito in tempi
brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.
In
questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la
loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da
una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili;
ma la
differenza, rispetto al passato dopo il crollo dell’URSS, è che questa volta la
guerra è in Europa, e il fatto che il ritardo europeo (sul piano politico,
oltre che militare) sia così profondo da non potere essere colmato in tempi
politicamente utili rispetto alla guerra in corso, mette a nudo chiaramente
quella realtà dell’Europa “ventre molle” del fronte occidentale tante volte
richiamato da analisti e politici americani.
Si
aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal
nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa
dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.
In
più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di
classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre l’opposizione democratica in
Russia o in Cina è ridotta facilmente al silenzio).
A questo va aggiunto che, di fronte alle
conseguenze economiche della guerra — che ricadono su economie già gravemente
colpite dalla pandemia e che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei
hanno una moneta unica forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari
strumenti concomitanti fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di
una parte degli Stati che vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle
loro carenze rispetto alle quali mancano strumenti strutturali di supporto;
mentre
l’inflazione rende complesso anche l’utilizzo della leva della politica
monetaria della Banca centrale, in passato determinante per salvare l’euro.
Infine,
quando devono agire uniti, gli europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura
decisionale che riflette la loro frammentazione e l’assenza di una sovranità
comune democratica e legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in
base non ad una visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di
tante visioni nazionali deboli;
in più per agire sono anche privi di vere
risorse e strumenti adeguati.
Questo
quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta
anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo
nell’illusione che il “Mercato unico” fosse la risposta politica adeguata alle
sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e
scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di
garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle
nostre democrazie.
La realtà, invece ha visto crescere le minacce
attorno a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.
Basta
confrontare le indicazioni contenute nello “Strategic Concept” della NATO e
nello “Strategic Compass dell’UE”.
Di fronte ad un’analisi molto simile delle
minacce che dobbiamo fronteggiare e degli attacchi che rischiamo (altamente) di
dover subire, l’uno propone le soluzioni che derivano dalla forza della potenza
tecnologica e militare (grazie al ruolo degli USA);
l’altro
un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche
gli strumenti per avviare i lavori.
Parole
da una parte, quindi, rispetto al potere reale dall’altra.
La
descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché
rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida
del cambiamento.
La
riforma per costruire l’unione politica federale dell’UE è fondamentale per
rafforzare la presenza internazionale dell’UE, la sua capacità di agire con
autorevolezza internamente ed esternamente e anche per offrire ai cittadini e
alle opinioni pubbliche (spesso sfiduciate e deluse dalle debolezze delle
istituzioni e delle politiche nazionali) un progetto lungimirante e profondo di
rifondazione della politica e del modello democratici.
In un confronto tra sistemi alternativi, in
cui l’autocrazia sfida con la sua apparente efficacia la complessità e la
inclusività dei meccanismi decisionali democratici, il rafforzamento del
sistema democratico diventa il fattore dirimente;
e,
vista la debolezza strutturale a livello nazionale, è evidente che la
democrazia può rilanciarsi solo se si realizza pienamente a livello europeo.
L’evoluzione del sistema istituzionale europeo
necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un
paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande
Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e
politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino
all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad
un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa
orientale.
Il tandem franco-italiano era il motore
indispensabile per costruire la nuova Europa, ed è stato fermato.
Tenendo conto di come la guerra contro
l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida contro i nostri sistemi
democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto determinante, questa
brusca frenata è particolarmente pericolosa.
A
questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo
svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.
Perché
ciò accada, il 25 settembre dovrà vincere la continuità politica e
istituzionale, fondata su un grande patto che si apra nuovamente in ottica
nazionale, rispetto all’esperienza del governo uscente.
Tutto
in teoria è possibile, benché difficile, e potrebbe anche prevalere — chiunque
vinca — il senso di responsabilità verso l’interesse nazionale e la coerenza
verso i valori democratici e di libertà, che sono perduti al di fuori del
quadro europeo.
A
sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto
ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo
lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli
impegni comuni;
così
come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a livello nazionale delle
scelte e dei comportamenti irresponsabili che priveranno l’Italia delle
protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé un unico destino:
la crisi irreversibile e fallimento.
Anche
solo se il prossimo governo vorrà schierarsi a favore di un indebolimento
dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee,
non solo si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE,
ma si rafforzeranno parallelamente le tentazioni all’immobilismo e le regole
rigide di controllo che sono così dannose per la nostra tenuta a livello di sistema
paese.
L’Italia quindi ha in mano una parte importante del
destino europeo e ha, al tempo stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte
e coesa. Chiunque vada al governo dopo il 25 settembre non può prescindere dal
misurarsi con questo fatto.
D’altro
canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il
20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando
una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio
compito.
Le forze che hanno mantenuto la fiducia a
Draghi, e che hanno mostrato di essere coscienti delle esigenze vere del Paese
e della necessità di porle al di sopra degli interessi di parte, sono al
momento in minoranza e non sembrano riuscire ad esprimere una strategia
elettorale all’altezza del grave momento storico, complice anche le
incongruenze di una pessima legge elettorale.
Gli
altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono
tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima
populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi
di portare l’Italia su posizioni anti-NATO per quanto riguarda il sostegno
italiano all’Ucraina;
la Lega di Salvini, che ha, come il M5S,
contestato Draghi sull’Ucraina e su alcune riforme essenziali del PNRR;
Forza
Italia che predica il suo ancoraggio alla famiglia europea del PPE e al tempo
stesso, sotto la guida di Berlusconi, mantiene l’ambiguità verso Putin e
rievoca vecchi cavalli di battaglia populisti;
infine Fratelli di Italia — cresciuto
nell’opposizione al governo, alle sue riforme e alle sue scelte europee, con
posizioni tradizionalmente e coerentemente anti-europee e sovraniste, aperto
sostenitore dei movimenti illiberali in Europa — che in vista di una probabile
vittoria elettorale e di una conseguente responsabilità di governo recupera in
pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al sistema costituzionale (salvo
mantenere le posizioni presidenzialiste), la continuità con l’agenda del governo
precedente e si accredita presso l’Amministrazione americana come garante della
posizione atlantista del suo futuro governo.
Sarà,
questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del
prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel
momento in cui sale al potere?
Oppure
è già in nuce la presa d’atto che Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto
fargli l’opposizione è stato politicamente sbagliato, anche se elettoralmente
redditizio?
Potrà
l’eventuale prossimo esecutivo a trazione Fratelli di Italia superare le
contraddizioni che ne hanno reso probabile la nascita?
O in
alternativa potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA
apertamente si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri
sufficienti per poter far riguadagnare immediatamente la credibilità
all’Italia?
La
risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche.
In una campagna esposta agli attacchi ibridi
della disinformazione e dell’ambiguità delle posizioni di molti contendenti
l’Italia gioca una partita cruciale per il futuro delle democrazie occidentali.
Un’Italia europea per un’Europa federale, sovrana e
democratica è appena stata messa al tappeto dal populismo e dagli interessi di
parte. Riusciranno comunque a prevalere responsabilità, buon senso e coerenza
rispetto al modello liberal-democratico, insieme alla coscienza del valore
dirimente dell’Europa per il nostro futuro? Sarebbe bello che questo dibattito
avvenisse realmente per permettere ai cittadini italiani di prendere coscienza
della vera posta in gioco il 25 settembre.
(Il
Federalista)
IL
RITORNO DEL LATO TRAGICO DELLA STORIA.
Thefederalist.eu
– (8 -aprile -2022) – Andrea Apollonio – ci dice:
“À ce
retour brutal du tragique dans l’Histoire,
nous
devons de répondre
par
des décisions historiques.”
L’invasione
russa dell’Ucraina impone al mondo un brusco ritorno a una precisa logica delle
relazioni internazionali, la politica di potenza, per la quale l’interesse
nazionale non solo è prioritario, ma così strabordante che la sua tutela può e
deve prevedere la minaccia e la reazione, se non bellica almeno economica.
Ciò traspare in primo luogo e nella forma più tremenda
nelle recenti dichiarazioni del Presidente della Federazione Russa.
L’invasione
dell’Ucraina ha senza dubbio portato a un’esacerbazione di questa logica, ma
dobbiamo riconoscere che essa, pur con forme diverse, si estende ora all’intero
spettro dei protagonisti politici della vicenda.
Prendiamo
anche in considerazione alcune parole pronunciate dal Presidente Biden, in
reazione ai fatti bellici.
La
tesi è confermata anche dal discorso della Presidente von der Leyen alla
plenaria del Parlamento europeo del 1° marzo 2022.
Le
dichiarazioni dei leader citati e anche i provvedimenti concreti di reazione
all’aggressione russa si pongono ovviamente su un piano politico, ma anche
morale, diverso, non paragonabile alle affermazioni ideologiche e alle
decisioni belliche del Cremlino.
Tuttavia, non possono sottrarsi alla logica
della politica di potenza che, una volta innescata, impone a tutti gli attori
coinvolti di reagire mettendo in atto misure aggressive e avanzando minacce in
risposta a quelle ricevute.
Questa
riemersione della politica di potenza è strettamente legata a una forte
riabilitazione della retorica nazionalista.
Ciò si manifesta soprattutto nelle motivazioni
ideologiche che guidano l’aggressione russa, connotate da una violenta
manipolazione politica dei fatti storici e della memoria, ma anche in questo
caso dobbiamo aspettarci che le influenze travalichino spontaneamente i confini
e contaminino sia i diretti aggrediti, che gli alleati e gli osservatori
attoniti.
L’ordine neo-liberale post Guerra Fredda
sembra saltare per aria e con esso il principio di deterrenza, che oggi pare
non sia più la temibile spada di Damocle paradossalmente utile per moderare i
conflitti internazionali, ma una leva per fare la guerra con la discreta
sicurezza che non ci sarà un intervento esterno, almeno sul piano militare.
A “onor
del vero”, non è il ritorno della storia tout court; è il ritorno del lato
tragico della storia nel continente europeo.
Se si
distoglie lo sguardo dai fatti bellici che, mentre scrivo, continuano a
sconvolgere il mondo e se si sceglie di adottare una prospettiva ampia e di
lungo periodo, ci si rende conto che il mondo è attraversato da un pernicioso
processo di ridefinizione degli equilibri e di riassestamento della
distribuzione del potere tra i diversi attori politici.
La comprensione
precisa delle cause di questo processo e dei possibili esiti meriterebbe non
solo un’analisi approfondita, ma ricerche dispendiose, interdisciplinari e
anche un maggiore dispiegamento temporale del fenomeno stesso.
Tuttavia,
ritengo che si possano distinguere almeno tre aspetti evidenti: i) la
progressiva erosione della capacità degli USA di essere i guardiani dell’ordine
internazionale, sia per fattori di crisi endogeni, sia esogeni;
ii) la
progressiva crescita dell’influenza politica e/o economica esercitata da attori
de facto non-allineati (e.g. Cina e Russia);
iii) lo stallo che impedisce al processo di
integrazione europea di maturare in un esito pienamente politico e di colmare
un vuoto di potere sempre più evidente.
Di
fronte al disordine, a vuoti di potere, alla ridefinizione degli equilibri
internazionali, quindi a nuove minacce e opportunità (a seconda della
prospettiva adottata), emergono ambizioni divergenti e la logica delle
divisioni e della politica di potenza trova terreno fertile.
È
importante comprendere i fatti bellici che sconvolgono il mondo oggi alla luce
di questo processo profondo:
Putin
osa così tanto non semplicemente per adempiere al dovere della riunificazione
nazionale;
né per
l’assurda e deprecabile motivazione di denazificare il governo ucraino;
né solamente per contrastare la tendenza
filoccidentale manifestatasi negli ultimi anni in una regione che
tradizionalmente rientrava nella sfera d’influenza russa;
ma perché il leader del Cremlino percepisce la
precarietà del vecchio ordine a guida NATO e coglie — giustamente — un’enorme
debolezza politica in seno all’Europa.
Il
fenomeno è in corso di svolgimento e non è possibile prevedere con esattezza
gli esiti di queste turbolenze, che oggi si manifestano in una forma tragica in
Ucraina ma che potrebbero indurre tremendi riverberi altrove.
Tuttavia,
ritengo che la nostra comprensione, seppur parziale e transeunte, possa
comunque poggiare su due consapevolezze.
La
prima è che dobbiamo accettare l’erosione del mondo unipolare a guida
statunitense.
La
seconda si concreta nel fatto che la maggiore o minore capacità incisiva
occidentale sulla definizione di un nuovo equilibrio mondiale stabile — che
sarà in ogni caso multipolare — e di relazioni internazionali pacifiche dipenderà anche dalla
volontà europea di compiere un passo in senso federale, di imporsi come potenza
di pace, esercitando il proprio peso politico e diplomatico — che
inevitabilmente è direttamente proporzionale anche alla capacità militare — per
ristabilire con gli altri protagonisti un nuovo equilibrio e riprendere assieme
a loro quel lungo e non lineare cammino per la costruzione di un mondo che, di
fronte alla sempre maggiore interdipendenza materiale, saprà riconoscere
l’esigenza di imporsi regole più stringenti per evitare di capitolare
nuovamente nel caos.
La “Conferenza
sul futuro dell’Europa” anticipa provvidenzialmente l’esigenza appena espressa.
L’esito
di questo esperimento di “democrazia partecipativa sovranazionale” è chiaro e
ulteriormente legittimato dai drammatici sviluppi di queste settimane:
più
democrazia europea, meccanismi democratici per definire la politica dell’UE,
maggiore efficacia e capacità di azione delle istituzioni europee.
In una
fase così tragica e cruciale, queste aspettative non possono essere tradite, ma
anzi devono essere accolte e realizzate attraverso riforme concrete che portino
alla nascita di una vera sovranità europea democratica;
per il futuro d’Europa, per il futuro del
mondo!
(Andrea
Apollonio)
ZTL,
“CITTA’ IN 15 MINUTI” E RICONOSCIMENTO
FACCIALE:
PROVE TECNICHE D’ESCLUSIONE SOCIALE.
lapekoranera.it
– (11 Maggio 2023) – Redazione – ci dice:
Si
respira aria di lotta, quasi da guerra civile, nelle periferie di Milano e
Roma.
La
gente meno accorsata economicamente non ci sta al piano d’esclusione sociale
tristemente noto come “acquartieramento”, anche detto “città da quindici minuti.”
In Gran Bretagna la giunta municipale di
Oxford ha già approvato la divisione in quattro quartieri della città, ai
residenti comuni non è permesso sortire dal proprio rione per più di cento
volte l’anno:
pena una sanzione di oltre ottanta sterline,
nei casi di reiterazione sospensione di patente e misure detentive, soprattutto
per disoccupati e pensionati sprovvisti di un valido motivo per sortire dalla
propria zona.
Il capitalismo fiscale di sorveglianza ha
bisogno d’irreggimentare tutti gli umani, di controllarli continuamente:
il compito di governi ed organizzazioni
sovrannazionali, come vi abbiamo già spiegato, è introdurre l’obbligo alla
tracciatura costante del cittadino.
Chi eluderà gli obblighi, soprattutto non rispetterà i
limiti a spostamenti e movimenti, o per diverse ore al giorno non risulterà
tracciabile, assurgerà a criminale cibernetico, a nemico del sistema.
Ecco
che governi locali e nazionali approcciano la nuova teoria urbanistica promossa
a Davos circa quindici anni fa:
acquartieramento o città in quindici minuti.
Una
teoria che influenza leggi e delibere, dominando buona parte dei progetti
infrastrutturali riguardanti il modo in cui si potranno spostare i cittadini
dell’Unione Europea:
La
“Città dei 15 minuti” ha origine in Francia ma subito trova applicazione in
Gran Bretagna, ed oggi affascina i sindaci di Roma e Milano.
“Le
persone e il loro benessere come primo obiettivo dell’organizzazione urbana”:
sostiene
ipocritamente Carlos Moreno (urbanista della Sorbona di Parigi che nel 2016 ha
inventato la “Città dei 15 minuti” su spinta della giunta parigina).
Il progetto in sostanza prevede che il cittadino debba
raggiungere tutto l’essenziale a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici
entro un quarto d’ora, soprattutto evitare di girovagare per altri quartieri
della città.
Nel
2020 il sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, complice la pandemia che aveva
bloccato ogni spostamento cittadino, ha inserito la “Ville du quart d’heure” al
centro della propria campagna di rielezione:
promettendo
l’acquartieramento ed il blocco dei cittadini nei rispettivi perimetri rionali,
e perché il movimento ed il lavoro umano sarebbero le prime cause
d’inquinamento.
“Il
concetto di ‘Città dei 15 minuti’ dovrebbe essere visto come una serie di
principi guida – ha spiegato in un’intervista l’urbanista “Zaheer Allam”
dell’Università di Deakin in Australia – che le città possono adattare ed
applicare ai propri bisogni e sfide”.
Oltreoceano
a Portland, in Oregon, è stato fissato l’obiettivo entro il 2030 di rendere ai
residenti raggiungibili i punti necessari alle rispettive esigenze quotidiane,
in modo che i cittadini abbiano tutto nel quartiere e vengano privati dei
motivi per valicare i confini della propria zona.
Trasformare
le città in luoghi in cui si può far tutto in meno di quindici minuti è per
certi il modo per combattere l’inquinamento ed il consumo del Pianeta.
Ma non
tutti la pensano così.
Dietro quest’obiettivo ambientalista si
nasconde il progetto di ghettizzare le comunità escluse dalle scelte di
politica finanziaria ed industriale: le classi basse e medie.
Insomma isolare per sempre, e nei rispettivi
quartieri, i cittadini esclusi dalle scelte politiche locali, nazionali e
globali.
Al
momento esiste già in Italia il progetto di una “città dei 15 minuti”:
a Roma nel 2021, il Sindaco Roberto Gualtieri
l’aveva inserita nei propri piani di governo locale, e come lui altri sindaci
del Partito democratico in accordo con esponenti del Centro-destra e dei 5 Stelle.
A
Milano e Torino la “città dei 15 minuti” potrebbe decollare prima che a Roma,
ma questo richiede senza dubbio la collaborazione del Ministero dell’Interno,
che scongiurerebbe la periferia possa sfogare l’ira da esclusione sociale.
A
favore dell’acquartieramento dei cittadini c’è l’“Osservatorio nazionale sulla Sharing
Mobility”,
che ha scritto nel suo report che sessantadue città italiane avrebbero già
servizi di condivisione sufficienti a chiudere i cittadini nei rioni di
residenza.
A
conti fatti l’operazione acquartieramento è partita:
le
forze di polizia, grazie all’ausilio di telecamere per il riconoscimento
facciale, dovrebbero ridurre i cittadini all’idea che sortire dal proprio rione
costa caro, multe ed arresti.
Non è dato sapere chi possa spuntarla, ma già
si parla di probabile guerriglia urbana, perché i primi a non poter sortire
dalla propria zona dovrebbero essere i disoccupati e quelli in perenne ricerca
di lavoro.
Insomma
l’Europa ha imboccato la via della società ecologica ed esclusiva: se hai soldi
ed incarichi ti puoi muovere, diversamente resti in gabbia.
MULTINAZIONALI
INFORMATICHE
E
“FAKE NEWS”: I ROBOT SONO
PRONTI
A CONTROLLARE E CENSURARE GLI UMANI.
Lapekoranera.it
– (10 Maggio 2023) – Redazione – ci dice:
Google
e YouTube spingono per la lotta alla disinformazione, investendo 13,2 milioni
di dollari per sostenere l’international Fact-Checking Network (Ifcn) a cui
s’aggancia il finanziamento di un fondo (il Global Fact Check Fund):
vi
attingono 135 organizzazioni da 65 Paesi che combattono la disinformazione in
circa cento lingue diverse.
Parimenti il sistema investe anche nell’”AI”
(intelligenza artificiale) che sta producendo “fake news” comode alla grande
speculazione finanziaria.
L’investimento
prevede che, l’intelligenza artificiale possa nel breve periodo controllare e
sanzionare ogni movimento o pensiero umano.
Così i
“media istituzionali” esclamano farisaicamente “È la sovvenzione più grande mai
effettuata da Google e YouTube per il fact checking”, e i “complottisti”
rispondono dimostrando carte alla mano le tante” fake news “messe in giro dai
motori di ricerca gestiti dai robot, intelligenza artificiale a servizio delle
multinazionali.
Il “Global Fact Check Fund” sovvenzionato da Google è
operativo da inizi 2023, e sta già portando novità per l’utenza mondiale del
colosso americano.
Tra i risultati già evidenti c’è
l’indirizzamento della ricerca dell’utente: l’intelligenza artificiale
individua il contesto sociale in cui opera l’utenza e la guida sino a
censurarne alcune ricerche.
Lo stesso sta facendo YouTube che, in nome del
“fact checking”, mostrerà solo i video ricercati coerenti con le politiche
delle multinazionali.
“Oltre ai titoli, si vedrà un estratto originale del
testo insieme alla valutazione verificata da organizzazioni indipendenti”,
dicono Google e YouTube.
Tutto
monitorato dall’intelligenza artificiale “Fact Checker Explorer”, che attinge
da un database di 150 mila fonti definite “attendibili a livello globale” dagli
esperti di comunicazione delle multinazionali.
Dal 2018 ad oggi “Google News Initiative” ha investito quasi 75 milioni di
dollari in progetti e partnership, tutti votati a rafforzare l’alfabetizzazione
mediatica indirizzata a combattere l’informazione “non istituzionale” in tutto
il Pianeta.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia, negato dai
servizi d’informazione di stati e multinazionali, ovvero le fake news generate
dall’intelligenza artificiale.
Le
grandi società informatiche hanno costruito circa un centinaio di testate
giornalistiche interamente gestite e realizzate dai robot della famiglia “ChatGPT & co”, strutture che fanno soldi da
disinformazione e raccolgono pubblicità dalle multinazionali:
in gergo vengono appellate “newsbot”, hanno il compito di deviare e
sedare la dissidenza verso il sistema globale.
Si
tratta di sistemi automatizzati, come quelli che abbiamo imparato a conoscere
negli ultimi tempi, e rispondono al nome “umanoide” di ChatGPT o Bing Chat, e
sono graditi a “Google Bard”.
Si
tratta di siti pieni zeppi di annunci pubblicitari, con il preciso obiettivo di
far ingoiare all’utenza la “filosofia green”, ovvero che il fattore antropico è
il primo imputato per l’inquinamento globale, che il lavoro umano è nemico
dell’ecologia, che i robot non inquinano, che la “povertà sostenibile” salverà
il pianeta.
Questi
siti fanno cassa con la pubblicità delle multinazionali che, come se non
bastasse, li piazzano tra i più visitati ed ascoltati grazie all’aiuto degli
algoritmi di nuova generazione, tutti gestiti dai colossi della tecnologia:
a
questi siti non vengono richieste fonti della notizia, ci sono sottotitoli o
sommari, foto false e grottesche, vi regna un caos assoluto, e la
responsabilità della diffusione non è tracciabile;
ma
scalano le vette della diffusione perché strumenti del sistema di manipolazione.
Gli
articoli generati dall’intelligenza artificiale riassumono o riscrivono
contenuti prodotti da altre fonti:
servono
soprattutto per contrastare l’informazione libera ed indipendente, ovvero i
nemici degli uffici comunicazione delle multinazionali.
L’invasività
dell’intelligenza artificiale pilotata dalle multinazionali sta manifestandosi
anche sui social:
concentrando
migliaia di “follower favorevoli” ai soggetti graditi al sistema, oppure
boicottando le pagine critiche verso grandi industrie energetiche e finanziarie.
Di
fatto i contenuti prodotti da “ChatGPT & co” sono graditi a pochi, e servono per
persuadere tutti gli umani.
Il
capitalismo fiscale di sorveglianza ha bisogno d’irreggimentare tutti gli
umani, di controllarli continuamente, di scongiurare il confronto d’idee:
“ChatGPT” è oggi lo strumento prescelto dalle
élite per persuadere ed ammansire gli umani, il resto del lavoro sarà compito
di governi ed organizzazioni sovrannazionali che, ben presto, introdurranno
l’obbligo alla tracciatura costante del cittadino.
Chi
eluderà, per diverse ore al giorno non risulterà tracciabile, assurgerà a
criminale cibernetico, a nemico del sistema.
Negli
Stati Uniti da almeno un centinaio d’anni esistono società private che
gestiscono carceri e sistemi di controllo dei detenuti, e da qualche tempo si
parla di multinazionali della sicurezza pronte a gestire la detenzione in
Occidente.
Al carcere per chi eluderà la tracciabilità
continua e costante pare ci stia pensando Bruxelles, e con buona pace di certi
paladini della liberà votati ed eletti per difenderci:
probabilmente si giustificheranno con il
solito motto “lo ha chiesto l’Europa”.
LA
INUTILE CONTROFFENSIVA UCRAINA.
Lapekoranerfa.it
– (26 Aprile 2023) - Redazione - Manlio Lo Presti – ci dice:
Come
si fa ad affermare che la controffensiva ucraina-Nato sarà efficace contro un
potenziale militare russo venti volte superiore? (fanpage.it/esteri/cosa-succedera-se-la-controffensiva-ucraina-a-kherson-avra-successo-secondo-il-generale-chiapperini/).
Nonostante
i venti tumori attribuiti a Putin, dalla grande e “indipendente” stampa
occidentale, rimale letale la potenza di reazione russa, ad un livello
distruttivo tale da costringere la “Nato” alla prudenza sulla mancata consegna
di aerei all’Ucraina.
Ben
poco possono fare gli specialisti angloamericani, francesi, polacchi e
soprattutto della Nato presenti in Ucraina sotto copertura assieme alle
divisioni di mercenari pagati dai colossi multinazionali privati anglo franco
tedeschi USA.
La
Russia risponderà con un lento abbraccio mortale su un territorio che conosce
bene e da più tempo delle truppe speciali occidentali.
La
lentezza è la sua arma assoluta.
Potrebbe
usare anche il gas per uccidere migliaia di “fantasmi” – specialisti e
mercenari – che l’asse Nato non potrà denunciare per non scoprire le carte.
Nel
frattempo, il dissanguamento militare e demografico dell’Ucraina continua fino
a diventare irreversibile, rendendo impossibile la sua integrazione nella Nato
e nell’Unione europea.
La
strategia russa è la lenta demolizione e la trasformazione dell’Ucraina in
terra desolata che i soccorritori abbandoneranno al suo destino, perché i costi
di ripristino non saranno mai coperti.
L’Occidente
è responsabile di aver ridotto questo territorio come la Siria, Iraq,
Filippine, Vietnam, Indonesia Libia e altri.
Ma
nessuno ne risponderà personalmente e direttamente di fronte al tribunale della
Storia.
Gli
sterminatori continuano ad autoassolversi…
Nuove
alleanze per
uscire
dell’interregno.
Legrandcontinent.eu
– (27-5- 2022) – Mario Pezzini – ci dice:
Prospettiva
Politica.
La
guerra in Ucraina non ha ricomposto un mondo in blocchi. Ma perché gli
occidentali si sono sorpresi di trovarsi "soli al mondo"?
Secondo
Mario Pezzini, la via d'uscita dall'interregno in Europa consiste
nell'affrontare i problemi repressi e nel costruire alleanze strategiche.
Le
scene di un’incomprensione.
Molti
paesi del Sud si sono astenuti o non si sono presentati alla votazione
sull’”Aggressione contro l’Ucraina” all’Assemblea Generale dell’ONU il 24 Marzo
scorso.
Perché?
E
questo tanto più che l’aggressione russa va contro una serie di capisaldi
difesi con insistenza da molti paesi del Sud, come il rispetto della sovranità’
nazionale.
Per
esempio, si noti che i paesi africani, una volta liberatisi del giogo
coloniale, invece di modificare i confini che avevano loro imposto le potenze
mondiali e di aprire conflitti incontrollabili, decisero di accettare quei
confini e di cercare piuttosto forme di cooperazione tra stati e di
integrazione regionale che usassero mezzi economici e politici per far fronte
ad una delle deprecabili eredità coloniali.
Sarebbe
dunque auspicabile che si indaghi al più presto ed in profondità le ragioni e
le cause delle posizioni del cosiddetto “Sud”.
Tanto
più che non sono posizioni episodiche, sono state confermate ed hanno anzi
riguardato un numero ben più’ vasto di paesi all’occasione del voto della
risoluzione per sospendere la Russia dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni
Unite il 7 di Aprile.
Ma vi
è un’altra domanda che sorge in parallelo: perché i paesi “occidentali”
sembrano essere stati presi di sorpresa dalle posizioni del “Sud”?
Perché
molti di loro avevano dato per scontato un esito diverso, salvo poi
moltiplicare in extremis gli sforzi diplomatici per contenere il fatto che il
“Sud” non si stava mettendo ordinatamente in fila dietro l’”occidente”?
Che
equivoci si celavano nelle aspettative?
E perché lo stato reale e non fantasmatico
delle relazioni “occidente” e “Sud” era rimasto a molti invisibile?
Lo stupore in questione, in alcuni casi si è
parlato addirittura di “sbalordimento”, testimonia forse di una serie di
dinieghi con cui sarebbe bene fare i conti.
Tanto
più che nel corso del tempo diversi segnali hanno avvisato dei limiti delle
narrative prevalenti in tema di relazioni tra “occidente” e “Sud”.
Uno di
questi segnali è persino apparso di recente, poco prima del voto alle Nazioni
Unite.
Nel
corso del tempo diversi segnali hanno avvisato dei limiti delle narrative
prevalenti in tema di relazioni tra “Occidente” e “Sud”.
(MARIO
PEZZINI)
Infatti,
il summit Unione Europea/Unione Africana tenutosi a Bruselles in febbraio è stato
il teatro di un dibattito per certi versi illuminante.
Molti
osservatori hanno riportato di un clima generale molto più’ favorevole al
dialogo che nel passato e senz’altro più che ad Abidjan, dove si tenne il
summit precedente nel 2017.
Tra le
varie ragioni di questo clima vi sarebbero non tanto ben note considerazioni di
prossimità geografica e storica, che in verità’ sono ripetutamente ormai da
decenni.
Quanto dell’altro: interessi urgenti e
convergenti, come per esempio il tentativo di ridisegnare le catene globali di
valore a favore di una loro maggiore presenza e coordinazione in Africa ed in
Europa, o la necessità condivisa di rispondere alle domande dei giovani
africani che si affacciano in massa alla società, o ancora il ritardo
insostenibile nell’affrontare le campagne vaccinali, che sono un bene pubblico
globale.
Va da sé
che l’invasione russa, cronologicamente successiva al summit di Bruselles, ha
moltiplicato la lista degli interessi convergenti.
Ora,
un tale clima favorevole al dialogo ha permesso una discussione più’ franca del
solito.
Per
esempio, sullo sviluppo dell’industria farmaceutica in Africa, sul modo di
intraprendere la transizione ecologica o sulla valutazione del rischio che i
paesi occidentali continuano a sovrastimare quando si tratta di investimenti in
Africa e nei paesi del “Sud”.
Gli
esempi potrebbero continuare, ma vorrei sottolinearne in particolare uno, che
mi pare cruciale per le questioni geopolitiche trattate qui: quello sulle
“alleanze”.
In
chiusura del summit, la parte europea avrebbe voluto annunciare una “nuova
alleanza” tra Europa e Africa, mentre la parte africana ha preferito parlare
solo di “un partenariato rinnovato”.
“SEM
Macky Sall”, Presidente in esercizio dell’Unione Africana, è stato esplicito in
proposito.
Anche
in questo caso, la reazione africana ha prodotto una sorpresa europea, tanto
più’ significativa per il clima generale di dialogo.
Infatti, non la si può’ liquidare di un
rovescio della mano, pretendendo sia stata un espediente retorico o negoziale e
tanto meno polemico e passeggero.
Ma
allora, perché’ i negoziatori europei hanno pensato che l’atto stesso di
proporre “un’alleanza” avrebbe incontrato una facile adesione?
Come è
possibile che non abbiano visto arrivare una divergenza esplicita?
In
questo caso, come in quello dei voti alle Nazioni Unite, la sorpresa è ad un
tempo sorprendente ed utile, insomma da non sprecare.
È un indizio che ci invita ad aprire un
cantiere per rivedere la narrativa sul cosiddetto “Sud” e sulla sua posizione
che gli assegniamo nelle carte geopolitiche.
Si
tratta di mettere in questione modi di pensare sedimentatisi nel tempo in
credenze, opinioni, atteggiamenti e valori che pretendono descrivere, spiegare
e giustificare i giudizi occidentali sui paesi della “periferia”.
Un
tale cantiere è molto impegnativo e complicato:
richiede
più’ voci che interagiscano in uno spazio pubblico confortevole, come può’
essere per esempio “Le Grand Continent”.
Ma è un cantiere indispensabile ed urgente, se
l’intento di perseguire un’”autonomia strategica” europea va preso sul serio.
Ad ogni
modo va ben al di là’ di ciò che è possibile fare in un solo articolo come
questo dove mi limiterò’ ad alcuni spunti per continuare il dibattito lanciato
dal “Grand Continent” sulle” Politiche dell’Interregno.”
Dove “interregno” richiama evidentemente ciò
che Antonio Gramsci aveva descritto in carcere:
“La crisi consiste appunto nel fatto che il
vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i
fenomeni morbosi più svariati”.
Una
delle reazioni immediate nell’attuale interregno è stata quella di pronosticare
un ritorno al bipolarismo, sotto forma di un mondo ad una dimensione dove si
celebrerebbe un duello tra due “blocchi” che si pretendono esaustivi e
contrapposti:
il
“mondo libero” che si presume condivida valori tradizionali e sia sempre più’
unito;
contro
l’altro blocco, sempre più’ autocrate e totalitario.
Nel mezzo?
Nulla o poco più di un residuo, perché’ nel
mondo ad una dimensione non vi sono alternative ai blocchi.
(MARIO
PEZZINI)
Figure
di stile nelle “politiche dell’Interregno”
Il
ritorno al bipolarismo?
Una
delle reazioni immediate nell’attuale interregno è stata quella di pronosticare
un ritorno al bipolarismo, sotto forma di un mondo ad una dimensione dove si
celebrerebbe un duello tra due “blocchi” che si pretendono esaustivi e
contrapposti:
il
“mondo libero” che si presume condivida valori tradizionali e sia sempre più’
unito;
contro l’altro blocco, sempre più’ autocrate e
totalitario.
Nel mezzo?
Nulla
o poco più di un residuo, perché’ nel mondo ad una dimensione non vi sono
alternative ai blocchi.
Si tratta di un’allusione a modi di pensare
degli anni ‘30 che si era già’ manifestata prima della guerra in Ucraina, per
esempio con l’idea di un “Concerto delle Democrazie” o di un “Summit per la
Democrazia”, ma che l’invasione Russa ha rinvigorito.
La
chiamata a raccolta del “mondo libero” evoca diverse questioni, alcune in
principio condivisibili come quelle connesse alla lotta all’autoritarismo, alla
domanda endogena e dal basso di partecipazione, alla condanna delle “Fake News”,
alla sicurezza elettorale e soprattutto nazionale.
Ma allo stesso tempo, in questa fase di
interregno e di caos delle visioni, è un richiamo nostalgico ed ideologico ai
rapporti di forza internazionali della guerra fredda, una narrazione memoriale
molto ispirata dai conflitti domestici negli Stati Uniti e poco comprensibile
in un quadro internazionale sempre più’ complesso, irriducibile a
semplificazioni manichee ed all’essenzialismo morale.
Insomma, sembra si voglia sempre più’
accelerare la storia, ma in realtà’ il movimento storico sembra avanzi sempre
meno.
Ad
ogni modo, sebbene l’aggressione russa sembri riportarci alla guerra fredda e
ad un mondo Westphalliano con giochi a somma zero tra potenze che cercano di
sottomettere gli altri paesi al loro volere e di perseguire i loro interessi
senza ostacoli, essa ha prodotto reazioni diverse dal bipolarismo ed”
unexpected results”.
In
primo luogo, come si è detto in apertura di questo articolo, i paesi del “Sud”
non sono confluiti in massa in uno dei presunti due blocchi, benché’ stiano già
pagando duramente le conseguenze indirette della guerra.
L’appello al bipolarismo può difficilmente
convincerli, se non altro a causa delle incongruenze che lo caratterizzano.
Oggi più di ieri, è difficile disegnare a
colpo d’occhio il bordo di ogni “blocco” ed escludere dalla comunità’ chi non
vi appartenga o chi minaccerebbe gli interessi di uno dei suoi membri.
Infatti,
i paesi democratici intrattengono relazioni frequenti, ripetute ed anche dense
con paesi ben meno democratici di loro.
Gli
uni e gli altri possono intendersi su alcune questioni, ma divergere su altre.
Inoltre, le caratteristiche che prevalgono
all’interno dei presunti blocchi sono meno omogenee e più’ sfumate di quanto a
volte si voglia far credere.
In particolare, vi è una certa erosione dei
principi democratici, con alcuni paesi che adottano criteri di chiusura,
offuscamento della trasparenza e limiti al pluralismo lontani dai cosiddetti
valori condivisi.
Infine,
l’appello ideologico presume il ritorno immediato ad una missione egemonica per
gli Stati Uniti, con responsabilità’ ed impegni internazionali che sono messi
in dubbio dalle tensioni profonde nella società e politica statunitense: si
pensi all’insofferenza crescente negli USA sulle costrizioni esterne alla
potenza americana e alle tendenze domestiche di tipo antidemocratico ed anche
autoritario, incluso l’epilogo violento dell’amministrazione Trump.
In
secondo luogo, gli stessi paesi che costituiscano il preteso nocciolo duro dei
due campi sono meno allineati di quanto si pretenda.
Non vi è dubbio che la NATO sia stata
rinforzata dalla guerra in corso rispetto alle critiche di cui era stata
oggetto negli ultimi anni, ma anche lo spazio per un’autonomia strategica
europea si è riaperto con straordinario ed inatteso vigore; si veda, per
esempio la nuova posizione tedesca sulla difesa.
È una
tappa supplementare che, sommata al famoso “whatever it takes” del 2012 ed al
piano “Next Generation EU”, rinforza l’autonomia e sovranità europea.
Si
ricordi che questi termini furono rifiutati seccamente non più tardi di due
anni fa nonostante le crepe dell’incanto atlantista fossero aumentate sotto
Donald Trump.
Vi
sono almeno due condizioni a che l’autonomia strategica si rafforzi
ulteriormente.
La
prima è che gli europei se ne approprino con determinazione e che ognuno non
solo spenda di più’, ma che spenda di più’ insieme, come ha sottolineato Josep
Borrell:
la
capacità’ dei singoli stati membri di far faccia all’agenda attuale è
insufficiente e ci si deve rendere conto che i costi di una soluzione europea
sono molto più’ bassi dei costi di non averla.
La
seconda condizione è che l’Europa riconosca che non incarna spontaneamente la
solidarietà del resto del mondo e deve investire nel partenariato (e non la carità)
con i paesi del Sud ed in priorità’ con l’Africa e l’America Latina.
Si tratta di coltivare nel tempo una vera
alleanza che, contrariamente alle convinzioni arroganti, non è già acquisita,
ma è piuttosto da costruire.
Mi accingo a tornare su questo punto.
Ad
ogni modo, sebbene l’aggressione russa sembri riportarci alla guerra fredda e
ad un mondo Westphalliano con giochi a somma zero tra potenze che cercano di
sottomettere gli altri paesi al loro volere e di perseguire i loro interessi
senza ostacoli, essa ha prodotto reazioni diverse dal bipolarismo ed “unexpected
results”.
(MARIO
PEZZINI)
Quanto
alla Cina, sembra sia più’ una variabile che un dato del problema.
La Cina non è ad oggi identificabile in un
blocco.
Si trova piuttosto in una situazione complessa
il cui esito è meno scontato di quanto diversi attori vorrebbero far credere.
Da un lato, per esempio, la Cina si confronta
con la sua tradizionale e forte avversione all’incertezza e alla mancanza di
stabilità’ nelle relazioni internazionali;
non ha
interessi diretti in gioco;
tende
a dare priorità’ in generale alla sovranità’ e integrità territoriale nelle
relazioni tra stati;
tende
a difendere la” Carta delle Nazioni Unite” quando sono minacciati i confini tra
stati;
si è
astenuta ai recenti voti alle Nazione Unite.
Dall’altro lato, per esempio, la Cina ha
stretto un rapporto di partenariato con la Russia, con cui condivide confini
lunghissimi;
diffida
degli Stati Uniti che l’hanno designata da tempo come l’avversario strategico;
teme
che il risultato finale del conflitto sia l’istaurazione di un nuovo ordine
mondiale che le sia ostile e che miri alla sua destabilizzazione.
I pesi e le interazioni di questi diversi
fattori – e di altri visto che qui si sono fatti solo pochi esempi – sono
ancora incerti e l’equazione non ha dunque ancora una soluzione.
Non
pare quindi ragionevole cercare di intimidire la Cina per presunti suoi
cedimenti alle richieste russe e di spingerla ad un matrimonio prematuro e su
procurazione con la Russia i cui esiti potrebbero essere tanto incontrollati
che disastrosi.
Sembra piuttosto auspicabile di lasciare al
massimo aperte le possibilità di dialogo con la Cina e di non cedere ai più o
meno lusinghieri ritorni ad un mondo diviso in due blocchi contrapposti.
Il
ritorno all’egemonia economica occidentale?
In
questa fase di interregno, un altro” Dinieghi “appare nei modi prevalenti di
vedere l’economia del Sud e nella presunta egemonia su quell’area geografica
delle visioni occidentali.
Non si
prende atto fino in fondo che, a partire dalla fine del secolo scorso, potenti
trasformazioni sono apparse nel Sud e si tende a considerarle come fenomeni
passeggeri, incapaci di trasformare in modo durevole il paesaggio globale.
La
realtà è un’altra: unita alle conseguenze della decolonizzazione e della caduta
della cortina di ferro, lo sviluppo del Sud ha modificato la geografia e
disegnato un mondo diverso da quello del secondo dopoguerra.
Per
molti anni, circa 80 paesi non-OCSE hanno registrato una crescita spettacolare,
più del doppio di quella del cosiddetto occidente.
Attorno al 2010, il PIL prodotto dai paesi
non-OCSE ha sorpassato quello dei paesi OCSE, in parità di potere d’acquisto.
Per
chi avesse voluto analizzare questa trasformazione più in dettaglio, sarebbe
apparso già allora chiaro che i cambiamenti andavano ben al di là’ della
crescita del PIL e riguardavano molteplici aspetti della struttura economica
globale tra cui gli scambi commerciali, la produzione, la struttura sociale, la
finanza internazionale.
Inoltre, si poteva già intuire che questa
trasformazione avrebbe finito per modificare le relazioni internazionali e gli
equilibri di potere, se non i nostri modi di pensare, vittime di ideologie
straordinariamente conservatrici, convenzionali ed inerziali.
Attorno
al 2010, il PIL prodotto dai paesi non-OCSE ha sorpassato quello dei paesi
OCSE, in parità di potere d’acquisto.
(MARIO
PEZZINI)
La
Cina divenne attorno a quegli anni il primo paese partner commerciale dell’Africa, dell’Asia
emergente e di diversi paesi latino americani.
E non fu solo questione di Cina.
Benché’ quest’ultima fosse la principale
locomotiva del cambiamento, si sommarono ad essa paesi come l’India, il
Brasile, il Sud Africa, la Turchia, la stessa Russia, i dragoni asiatici ed
altri ancora.
Questi paesi influenzarono in modo profondo le
catene globali di valore.
La
manifattura si rilocalizzò nel Sud in proporzioni più che significative e la
domanda di risorse naturali crebbe considerevolmente in volume e prezzi,
offrendo una finestra di opportunità’ a molte economie in sviluppo.
Sul piano sociale vi fu una straordinaria
riduzione della povertà estrema (da 1.9 miliardi nel 1990 a 735 milioni nel
2015);
una
redistribuzione radicale delle ineguaglianze tra paesi, regioni ed individui;
la
formazione di una cospicua cosiddetta “nuova classe media”;
lo slittamento delle riserve monetarie e degli
assets finanziari verso l’Est ed in parte il Sud.
Queste
potenti trasformazioni si mossero nel tempo ad un passo relativamente lento, ma
inesorabile: produssero cambiamenti epocali, come giganteschi movimenti
geologici e contraddicono profondamente le narrative prevalenti, a cominciare
da quella della “fine della storia”.
Tuttavia,
tali cambiamenti rimasero a lungo invisibili.
Per il
loro stesso carattere geologico e di tendenza, tardarono ad essere registrati
dalle nuvole di “tweets”, spesso governate dall’ansietà evenemenziale
dell’oggi, o dalle pagine dei giornali, anch’esse scolpite sul quotidiano.
Ma anche i più’ allenati “occhiali” degli
osservatori e dei “policy makers” occidentali li percepirono a fatica.
In
conseguenza, le narrative geoeconomiche occidentali continuarono ad essere
quasi esclusivamente costruite sui modelli tradizionali di modernizzazione.
Ancora
oggi in molte riflessioni in occidente lo sviluppo è concepito come
l’evoluzione di paesi in “ritardo” lungo un sentiero unico, tracciato
all’origine dai paesi occidentali.
I “ritardatari”, i paesi del Sud, continuano
ad essere visti come “impacciati” da “ostacoli” interni, da istituzioni
arcaiche ed inadatte allo sviluppo, di cui sarebbero i soli responsabili e di
cui dovrebbero sbarazzarsi al più presto.
Fatto ciò,
ripulite le scorie del passato, i meccanismi di mercato porterebbero
stabilmente la popolazione fuori dalla povertà’ estrema e produrrebbero una
convergenza economica quasi automatica nel medio-lungo termine.
La
congettura circa un unico sentiero di sviluppo avrebbe dovuto apparire già’
all’origine come assai discutibile e riduzionista.
Pur tuttavia si è mantenuta con vigore ed è
tutt’oggi un ostacolo alla percezione del cambiamento.
Pertanto, non mancano casi di paesi emergenti
cresciuti in modo spettacolare, ma non “ortodosso”.
Questi
paesi possono aver considerato alcune delle “lessons learned” dell’occidente,
non necessariamente sempre le stesse;
ma le hanno in genere adattate al loro
contesto.
Hanno
spesso preso in conto l’asimmetria delle proprie strutture produttive rispetto
a quelle dei paesi già sviluppati, la difficoltà’ che quell’asimmetria induce
per la loro trasformazione produttiva ulteriore, ed hanno elaborato delle
politiche industriali conseguenti, benché’ il pensiero ortodosso le bandisse.
Ne’ mancano casi di paesi “diligenti” che non
hanno tratto un beneficio significativo dalle raccomandazioni “ortodosse”.
Per esempio, che hanno seguito la
raccomandazione di integrarsi nelle reti del commercio internazionale e
tuttavia rimangono poveri, o addirittura si sono impoveriti.
Senza
contare che in molti casi gli stessi paesi occidentali hanno seguito pratiche
diverse nel passato da ciò che predicano come prerequisiti indispensabili allo
sviluppo nel presente.
Quindi,
perché pensare che l’offerta di un’alleanza economica esclusiva con i paesi
occidentali debba essere salutata dai paesi del Sud come il più invidiabile dei
tesori, al punto da aderirvi di slancio?
La risposta non è evidente, eppure spesso i
paesi occidentali, in quanto “first comers” dello sviluppo, continuano a
pretendere di essere i più’ legittimi a prescrivere raccomandazioni e
disseminare” standards e Best Practices” ai paesi del Sud.
In
tema di politiche economiche o in tema di democrazia, visto che pretendono vi
sia una relazione biunivoca tra successo in economia e democrazia, non meglio
definita.
E visto che insistono sui loro standards come
una condizione necessaria e sufficiente allo sviluppo e non, per esempio, come
un suo effetto o la traduzione dei loro interessi.
Questa
narrativa si è tradotta in varie forme che vanno dalla propaganda, alla condizionalità’,
all’applicazione di consensi come quello di Washington, a programmi per la
diffusione di standards nei paesi del Sud ed ha avuto un forte carattere
normativo.
Ai
paesi del Sud è stato spesso chiesto di modificare in modo accelerato la loro
legislazione, le loro politiche e i loro calendari.
Ma per quanto questi ultimi possano aver acconsentito,
vivono un’insofferenza crescente, almeno della loro opinione pubblica, verso
l’eterodeterminazione.
Perché
pensare che l’offerta di un’alleanza economica esclusiva con i paesi
occidentali debba essere salutata dai paesi del Sud come il più invidiabile dei
tesori, al punto da aderirvi di slancio?
(MARIO
PEZZINI)
In
alcuni casi, tuttavia, si è’ provato ad andar oltre la logica normativa ed a tentare
esperimenti multilaterali innovatori che inizino con una logica interpretativa.
Per esempio, reti di paesi che si riuniscono
regolarmente per condividere informazioni ed esperienze e, se possibile, per
costruire comprensioni condivise delle tendenze economiche e delle politiche.
Questi
tavoli, in teoria, potrebbero elaborare un “setting”, la cornice strutturata di
un dialogo tra “pari” con i paesi del Sud ed ingaggiare una revisione delle
narrative tradizionali, del Nord come del Sud.
Purtroppo, oggi attorno ad essi i paesi del
Sud sono invitati con parsimonia o, ancora più’ spesso, continuano ad essere
esclusi;
su
questi tavoli asimmetrici prevale una logica normativa;
ed i
contenuti della cooperazione continuano, salvo poche eccezioni, a concentrarsi
sulle “riforme di mercato”, sull’apertura al commercio, sull’adozione di
standards in tema di istituzioni, corruzione, privatizzazioni, tasse ed aiuti
finanziari.
Molto
poco sui temi dell’inclusione sociale, dei diritti dei lavoratori e dello
sviluppo territoriale, degli investimenti pubblici che pure sono stati
cruciali, per esempio, nella costruzione europea.
Ancor meno delle caratteristiche sui generis
dello sviluppo nei paesi del Sud.
Così, parole come “sviluppo” e “cooperazione”
si sono trasformate in sinonimi di “crescita economica” ed “assistenza” o
“aiuti”.
Nell’interregno.
Il
caos pandemico non ha una vita ultraterrena.
Eppure,
dietro le immagini mostruose che sfilano sui nostri schermi, oltre le polemiche
che agitano i nostri dibattiti, nella vertigine delle crisi del 2020, un nuovo
mondo sta per emergere.
Siamo
ancora nell’interregno.
Stiamo vivendo sconvolgimenti difficili da
descrivere, trasformare o fermare. Stiamo camminando sull’acqua o siamo
sull’orlo di un punto di svolta?
La
solitudine della potenza senza egemonia?
In
questa fase di interregno, si incontra spesso un terzo diniego.
Questa volta legato alle “alleanze” e, più’ in
generale, a questioni che hanno a che fare direttamente con la solidarietà’ e
la cooperazione con i paesi del Sud.
Limitiamo
l’osservazione su questo punto allo scenario europeo, per ragioni di semplicità.
Di
questi tempi, si sottolineano spesso i rischi che l’Europa perda lo statuto di
attore pertinente nello scenario internazionale.
A questo riguardo si cita Angela Merkel nel
ribadire che “dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”.
Si
discute allora in particolare del fatto che l’Europa dovrebbe accettarsi come
“potenza” e si argomenta sul linguaggio del potere, sulla sovranità’ europea e
sulla necessità’ di costruire ed usare un hard power;
sulla
difesa che soffre di un divario tra aspettative e risultati e che rischia di
essere orientata dagli eventi, invece che di scolpirli;
sulle risorse, gli impegni e l’implementazione
di una politica di difesa.
Allo
stesso tempo, si sottolinea anche come sia necessario costruire una nuova
narrativa che accompagni la metamorfosi europea e legittimi le non facili
scelte politiche dei mesi a venire che saranno connesse alle conseguenze della
guerra, della pandemia e dei nuovi assetti mondiali.
Ma che
includere in una tale narrativa?
Non vi è dubbio che si tratti di modellare
strategie di sviluppo europeo costruite su di una geografia ed una storia
comuni che possano orientare il futuro di un “noi”, per sé.
Certo,
non si tratta di un compito semplice, dati i buchi da coprire e i cambi da
approvare per il declino auspicabile di una serie di ideologie purtroppo
dominanti nel continente – come quella della fine della storia o dell’ortodossia
economica.
Ma forse su questo fronte siamo un po’ più
allenati.
L’Europa
nel tempo ha discusso la sua integrazione economica e sociale, occupandosi sì
di mercati, ma anche di coesione sociale e territoriale che ha ispirato une
delle principali politiche attive dell’Unione, benche’ non appieno compresa.
A lungo ha poi discusso della propria integrazione
politica, e della costruzione delle proprie istituzioni e di chi dovesse fare
parte dell’Unione, del noi.
Si
pensi alla questione del rapporto con i paesi dell’est ed alla loro adesione.
Infine,
i conflitti tra gli stati partecipanti e fra alcuni attori sociali, il noi,
sono stati veicolati da varie forme di dialogo, istituzioni e procedure legali
ed amministrative che hanno permesso di evitare il ricorso alla forza ed alla
potenza tra stati membri con l’intento di produrre forme, più o meno riuscite,
di fiducia ed apprendimento reciproco.
Il
fronte menzionato più volte in questi giorni per la costruzione della narrativa
è invece quello della relazione con l’”altro” e delle strategie che ne
conseguono.
Certo, le relazioni tra potenze mondiali, che
sono particolarmente complesse e conflittuali, e ovviamente la guerra in corso,
concorrono a spiegare perché’ la relazione con l’altro sia convocata con
insistenza.
Non
sorprende dunque che il potere e la potenza siano termini spesso evocati e che
si invitino i paesi dell’Unione a costruire un’Europa della difesa, modificando
convinzioni che ristagnavano da tempo.
Tuttavia, vi è una questione che mi pare
fondamentale e che invece è ancora purtroppo poco presente nel dibattito, salvo
quando ci si sorprende dinnanzi all’altro, come segnalato all’inizio di questo
articolo:
Di chi
l’altro è il nome?
È solo
il “nemico” o il “suddito”?
È solo colui o colei che vorrebbe imporre con
la potenza e la forza la sua “differenza” alla nostra “identità” o che è
disposto a chinare il capo alla nostra pre-potenza?
Siamo cioè
destinati a costruire la nostra narrativa come quella di un’isola sempre più’
assediata e priva di interazioni e legami, che non siano la dipendenza altrui o
nostra o il puro interesse di mercato?
Di chi
l’altro è il nome?
È solo il “nemico” o il “suddito”?
(MARIO
PEZZINI)
Al di
là’ della retorica, é’ evidente che gli altri hanno profili differenti che la
narrativa non può’ eludere;
così come non può’ sottovalutare la natura
delle relazioni che tessiamo con loro.
A
fianco dei nemici o dei clienti vi sono i potenziali alleati con cui dovremmo
costruire e poi coltivare, a diversi gradi e con diverse modalità’, strategie
di solidarietà/lealtà’/reciprocità e non solo di legge/mercato/potere.
L’affermazione
di sé e della propria potenza è probabilmente una componente della costruzione
comunitaria nell’attuale fase di interregno, ma non può’ costituirne l’essenza.
Vi
sono giochi a somma positiva e non solo negativa che sono indispensabili per le
future strategie di sviluppo.
Non è
ragionevole pensare che la solidarietà’ abiti solo all’interno dei confini
dell’Europa o della NATO, per quanto riaggiustati, e sia sinonimo di
fusionalita’.
Insomma, sono persuaso che si debba riflettere
in profondità’ alle interazioni con gli altri, pensando anche al policentrismo,
al pluralismo ed allo sviluppo.
Mi
conforta in questo il fatto che un importante pensiero politico come quello di
Antonio Gramsci considera che l’egemonia richieda sia la forza per imporsi che
le alleanze per durare.
A ben
riflettere, l’autonomia strategica europea pone il problema di come concepire
autonomamente i conflitti e la solidarietà’ con gli altri e richiede un’accorta
e trasparente politica di alleanze.
Principalmente con l’Africa e l’America
Latina.
Va da sé,
per esempio, che l’Europa ha ed avrà bisogno di mantenere il dialogo e la
cooperazione anche con paesi che non hanno votato le dichiarazioni delle
Nazioni Unite, ma con cui è necessario affrontare le sfide dei cosiddetti “beni
pubblici globali”.
È ugualmente chiaro che la maggior parte di
noi ha sottovalutato la profondità’ della nuova geografia globale e
l’importanza di una rinnovata ed anche forse rivoluzionata natura delle
relazioni Europee con i paesi e le regioni del Sud, che sia orientata allo
sviluppo invece che alla carità o alla preservazione dell’influenza del passato
coloniale;
che
sappia ascoltare la voce del Sud;
che usi l’intera gamma degli strumenti
disponibili per consolidare un partenariato che si è rivelato più debole di
quanto si pensasse e soprattutto non esclusivo.
L’affermazione
di sé e della propria potenza è probabilmente una componente della costruzione
comunitaria nell’attuale fase di interregno, ma non può’ costituirne l’essenza.
Vi
sono giochi a somma positiva e non solo negativa.
(MARIO
PEZZINI)
In
conclusione.
Dobbiamo
costruire uno spazio pubblico rinnovato per dialogare da pari con i paesi del
Sud se, come si è cercato di argomentare, il richiamo al vecchio bipolarismo
non pare convincente, se i nostri antichi pregiudizi circa la situazione
geopolitica globale sono desueti, se l’Europa potenza è forse indispensabile,
ma non sufficiente a definire le nostre posizioni nel mondo e come desueti sono
gli strumenti di cooperazione a disposizione.
Dovremo
in futuro ripensare con più calma anche ai nostri strumenti concettuali.
Sant’Agostino,
come è noto, condannò le passioni dell’uomo con la sola attenuante della “libido
dominandi” se congiunta ad un forte desiderio di encomio e gloria, ugualmente
esaltati in seguito dall’ethos cavalleresco.
Ma le conseguenze distruttive della “libido
dominandi”, evidenti tra l’altro nelle guerre, spinsero a cercare nuove
soluzioni al di là’ della morale filosofica e dei precetti religiosi.
Per esempio nella coercizione del sovrano,
tuttavia a rischio di eccesso di crudeltà o di clemenza (meno).
Oppure
nell’imbrigliare le passioni, piuttosto che limitarsi a reprimerle, e
trasformarle in pubbliche virtù’.
Così
Adam Smith, filosofo morale, tentò di promuovere una categoria di passioni –
gli interessi – relativamente innocue, a suo avviso, per neutralizzare le altre
più pericolose e distruttive.
L’interesse
economico e la cupidigia furono presto assurti al rango di passione
privilegiata col compito di domare le altre e dare un contributo all’arte di
governo.
Alcuni
secoli più tardi, abbiamo sperimentato qualche decennio di “ideologia
neo-liberista” e di un paradigma dominante che ha preteso esaltare
l’interpretazione di tutte le azioni umane in termini di interesse personale.
È
debito riconoscere oggi che l’idea che l’interesse governi il mondo – dato che
l’amore per il denaro assicurerebbe costanza, pertinacia ed immutabilità – ha
perso molto della sua primitiva suggestione.
Così come l’idea che l’espansione dei traffici
si accompagnerebbe alla diffusione dell’ingentilimento e condurrebbe alla pace
(la douceur di Montesquieu).
Insomma, l’economia non può’ estromettere la politica. Ma è quindi inevitabile rassegnarsi
ai disastri della potenza, della rapacità e della crudeltà dei sovrani e dei
loro “grands coups d’autorite’?
La risposta di Montesquieu è nota e rimanda
alla separazione dei poteri e ad un governo pluralista alla ricerca di un
potere equilibrante, per quanto riguarda la politica interna.
Dato
il discontento crescente, bisognerebbe tornare a pensare alla partecipazione.
Oltre
ai meccanismi del mercato e del potere varrebbe la pena di riconsiderare le
logiche dell’azione collettiva, i processi sociali, gli spazi collettivi per la
comunicazione come fattori ineludibili delle interazioni internazionali.
(MARIO
PEZZINI)
E
nelle relazioni internazionali?
Se si
considera la logica geopolitica tradizionale dove il “primum movens” e’ la “libido
dominandi” e in cui i giochi sono a somma zero, è probabile che non solo le
relazioni tra potenze, ma anche quelle con i paesi in via di sviluppo sfocino
nel conflitto, nel dominio o nella carità.
Viceversa,
se si pensa che, assicurata una certa soglia di stabilità’ e sicurezza, si
possa contenere la l”ibido dominandi”, allora altre piste divengono
praticabili, e questo anche se i paesi del “Sud” mantengono sistemi politici ed
economici almeno in parte differenti da quelli occidentali.
Insomma, oltre ai meccanismi del mercato e del
potere varrebbe la pena di riconsiderare le logiche dell’azione collettiva, i
processi sociali, gli spazi collettivi per la comunicazione come fattori
ineludibili delle interazioni internazionali.
In
questa seconda logica, sarebbe indispensabile rilanciare, a fianco di un “hard
power”, un vero” soft power”, e non il vago simulacro a cui ci si riferisce
usualmente.
Uno
spazio pubblico inclusivo per evitare i rischi di incomprensioni crescenti e
circoli viziosi, dove discutere in dettaglio i singoli sentieri di sviluppo e
le forme di cooperazione internazionale per accompagnarli.
Si tratterebbe di rinvigorire una logica
interpretativa rispetto alla sola logica normativa;
di dialogare con e considerare la specificità
dei paesi in via di sviluppo, invece di pretendere di conoscerli e considerarli
destinatari di standards alla cui definizione non hanno partecipato.
Ma il
dibattito in proposito è ancora in corso e per ora la logica degli standards
appare purtroppo dominante.
Resta
il fatto che oggi vi sono diverse narrazioni che interpretano lo sviluppo ed il
panorama geopolitico che ne risulta.
L’Europa
deve ripensare la sua e vedere come dialogare con le altre.
Il rapporto tra queste narrazioni può essere
conflittuale, ma spesso si tratta del risultato di memorie differenti che
riposano sue storie differenti, traumi differenti, sentieri di sviluppo e
culture differenti, con i rispettivi silenzi e le rispettive rimozioni, ma
anche con le rispettive visioni ed aspettative.
Come
dice giustamente “Charles Michel “sul “Grand Continent” :
“[…]il nostro discorso sui diritti umani è
spesso percepito nei paesi terzi come uno strumento della dominazione
occidentale.
Nel
mezzo di una guerra di aggressione, Putin è il primo a sfruttare abilmente
questo fenomeno attraverso la propaganda.
Cercare
di capire la storia e le storie, di misurare i traumi collettivi dei popoli del
mondo, porta a una migliore comprensione delle posture politiche contemporanee.
Ogni popolo, ogni paese si confronta con le
proprie ferite.
A
volte vengono guarite, ma non sempre.
I nostri discorsi che sostengono una nuova
narrazione europea non devono quindi ignorare questa parte del nostro passato
che spesso è ancora rimossa.”
Per
avere successo una nazione
deve
far collaborare popolo ed élite.
Linkiesta.it
– (3 febbraio 2022) - Ugo Arrigo – ci dice:
L’esito
delle elezioni del 2018 è in parte il risultato di un clima di sfiducia nei
confronti della classe dirigente, segno di un distacco malsano e pericoloso.
Nella
storia delle democrazie è proprio l’equilibrio tra guidatore e passeggeri il
segreto di una società prospera e stabile.
(Mitchell
Luo, da Unsplash)
La
storia d’Italia degli ultimi tre decenni, durante quella che è chiamata
“Seconda Repubblica”, è stata costellata da ripetute crisi e da un unico grande
successo, l’ingresso nella moneta unica europea, che ha permesso, fungendo da
rete di protezione del debito pubblico e dell’economia nazionale, di evitare le
conseguenze più gravi di ognuna di quelle.
In
questo periodo è tuttavia completamente scomparsa la crescita economica:
quella poca crescita che vi è stata negli anni
favorevoli è stata più che interamente consumata dalle due ondate recessive del
2008-09 e del 2011-13 e alla fine del 2019, vigilia della tempesta economica
generata dal Covid in parallelo a quella sanitaria, il Pil reale dell’Italia
era ancora 3 punti percentuali al di sotto di quello del 1998, anno in cui
l’Italia fu ammessa all’euro.
In
questi decenni la politica non è riuscita a guidare adeguatamente il Paese.
Non ha
avuto governi e primi ministri che fossero in grado di guidare la nave in mezzo
a continue tempeste, consapevoli ogni volta dell’esatta posizione del vascello,
delle dinamiche dei venti, di un porto sicuro in cui ripararla, della rotta per
raggiungerlo e soprattutto che fossero in grado di coordinare adeguatamente le
azioni dei passeggeri e dei marinai della nave.
A
causa delle tempeste e dell’incerta conduzione della nave il Paese non è
affondato ma è indubbiamente declinato dal punto di vista sia economico, che
sociale e politico.
Quattro
anni or sono, alle elezioni del 2018, gli italiani, esercitando il loro diritto
di bocciare le forze politiche che determinano i governi, hanno deciso di
accantonare le due forze che avevano dominato, in alternanza, il precedente
quarto di secolo, promuovendone invece due come il M5S e la Lega che o non
esistevano prima o comunque non avevano svolto ruoli centrali di governo.
Hanno
in questo modo preferito le incertezze del nuovo alle non più gradite certezze
del passato, affidandosi a forze che, per i contenuti dei programmi politici
con cui si sono presentate al voto, sono state correttamente definite come “populiste”.
Ma qui
occorre porre una domanda chiave:
si è
trattato di un abbaglio degli elettori, come molti commentatori sembrano aver
creduto in questi anni, oppure molti cittadini comuni avevano motivi validi per
essere scontenti dell’esistente e per ritenere meno svantaggiosi i rischi di un
salto nel buio rispetto alle certezze del mantenimento dello status quo?
Se
nell’ultimo decennio l’economia italiana, evitando la doppia recessione, fosse
cresciuta agli stessi tassi, ancorché non esaltanti dei periodi precedenti,
alla vigilia della pandemia il nostro Pil sarebbe stato maggiore di quello
effettivo di almeno un quarto, forse persino di un terzo.
È
dunque evidente lo scarto tra dove avremmo potuto e dovuto essere in termini di
ricchezza nazionale e dove ci siamo ritrovati effettivamente.
Le
forze politiche bocciate alle elezioni del 2018 sono state dunque considerate
responsabili sia di non aver saputo evitare, o persino di aver permesso, questo
impoverimento generalizzato, che della conseguente scomparsa di adeguate
prospettive per le giovani generazioni, le più propense in conseguenza a votare
per forze politiche non convenzionali così come a ricercare opportunità
lavorative all’estero.
Sono,
a ben vedere, due forme alternative di “exit” nel senso illustrato
dall’economista e sociologo Albert Hirschman:
nel primo caso si vota nelle urne mandando via
chi ha sino a questo momento governato, nel secondo caso si vota coi piedi,
cioè andando via.
In altri tempi si sarebbe usata l’altra
modalità per criticare l’esistente, la “voice”, la protesta, ma essa non sembra
più così attraente né efficace.
Non vi
è dubbio che molti tra le masse popolari addebitino alle élite nazionali questa
situazione, accusandole di aver pensato solo a sé stesse, di aver promosso
esclusivamente la salvaguardia del loro benessere, isolandosi nelle posizioni
privilegiate conseguite e togliendo corrente all’ascensore sociale, trascurando
di dare una mano ai numerosi che sono in difficoltà e teorizzando che la loro
condizione disagiata sia conseguenza esclusiva della loro responsabilità.
Come si può dunque pensare che le masse
popolari si fidino ancora delle élite quando si sono invece convinte che si
siano sottratte alla loro responsabilità, abbiano perso utilità sociale e si
siano trasformate in oligarchie autoreferenziali?
In
questo senso il voto del 2018 è stato una cartina al tornasole e il populismo
che ne è scaturito non è altro che il duale del rigetto critico del ruolo delle
élite.
Questa
analisi consiglia di rivolgere uno sguardo al passato e di riflettere
brevemente sul rapporto élite/masse nel corso della storia e sui differenti suoi
esiti.
Le
diverse società che si sono succedute e affiancate nel corso del tempo sono
state condotte da élite e il successo che hanno conseguito, così come il suo
venir meno, è dipeso da un lato dalla condotta di queste e dall’altro dal grado
di cooperazione che sono riuscite a organizzare con le rispettive masse
popolari.
Le
prime non sono infatti autosufficienti nel realizzare alcun tipo di obiettivo
né lo possono essere le seconde.
Se una
società conseguirà risultati adeguati, se sarà in grado di generare adeguate
risorse per i suoi membri e di distribuire con sufficiente equità, il che non
vuol dire in maniera egualitaria, i vantaggi dello schema di cooperazione
sociale, allora quella società sarà in equilibrio nel senso di John Nash, il
matematico che ha fatto fare nel dopoguerra un notevole salto in avanti alla
teoria dei giochi.
Nessuna
classe o gruppo sociale avrà in tal caso vantaggio atteso nel mutare la sua
strategia comportamentale e l’equilibrio potrà conservarsi, senza rischio di
rivolte, rivoluzioni e restaurazioni.
Le
società nelle quali la cooperazione tra élite e masse ha prodotto i risultati
migliori sono quelle democratiche, tanto quelle dell’antichità classica quanto
quelle contemporanee.
La
democrazia ateniese fu l’esito di un compromesso tra le classi, di un patto di
reciproca utilità e cooperazione che superò i preesistenti sistemi oligarchici
nei quali le classi inferiori erano senza reciprocità al servizio “dei ceti
alti e dominanti”.
Nell’antica Atene «la grandezza di quel ceto
consistette nel fatto di aver accettato la sfida della democrazia, cioè la
convivenza conflittuale con il controllo … del potere popolare» (L. Canfora, “Il mondo di Atene”).
Ad
Atene erano esponenti dell’élite ad assicurare i principali ruoli di governo ma
essi erano eletti annualmente dai partecipanti all’assemblea, dai cittadini
ateniesi, perché, come ricordato dal Pericle di Tucidide, «anche se pochi sono in grado di
elaborare politiche, tutti i cittadini sono in grado di valutarle».
Atene
sperimentò per prima una élite aperta che scelse di «accettare la democrazia
per governarla».
«Il miracolo che quella straordinaria élite ha saputo
compiere … è stato di aver fatto funzionare e prosperare la comunità politica
più rilevante del mondo delle città greche, e, ciò facendo, aver modificato
almeno in parte, nel vivo del conflitto, sé stessa e l’antagonista».
Se,
adottando l’interpretazione di Luciano Canfora del mondo di Atene, chiamiamo
democrazia in senso sostanziale il governo esercitato da un’élite ma in nome,
per conto e sotto la vigilanza delle masse popolari, non possiamo tralasciare
come Winston Churchill abbia efficacemente etichettato questa stessa condizione
sotto il nome di “civiltà”.
Come
disse il salvatore del mondo occidentale e delle nostre libertà il 2 luglio
1938 in un famoso discorso agli studenti dell’Università di Bristol, di cui era
Cancelliere,
«ci sono poche parole usate in modo più vago del termine “civiltà”.
Cosa
significa realmente?
Significa
una società fondata sull’opinione dei suoi cittadini.
Significa
che la violenza, il dominio di guerrieri e despoti, lo stato di guerra
permanente, la ribellione e la tirannia lasciano il posto ai Parlamenti, dove
si fanno le leggi, e alle corti indipendenti di giustizia, dove queste leggi
sono fatte rispettare.
È questa la civiltà, e nel suo suolo crescono
continuamente la libertà, il benessere e la cultura.
Quando
in un paese regna la civiltà, alla massa dei suoi cittadini è concessa una vita
più piena e meno tormentata. … Il principio fondamentale della civiltà è la subordinazione
della classe dirigente ai costumi del popolo e alla sua volontà, quale espressa
attraverso la Costituzione».
Ecco,
il punto chiave è la “subordinazione della classe dirigente ai costumi del
popolo e alla sua volontà, quale espressa attraverso la Costituzione”.
Lo dice quasi allo stesso modo il primo
articolo della Costituzione italiana, entrata in vigore dieci anni dopo il
discorso di Churchill: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle
forme e nei limiti della Costituzione”.
È il
popolo che sorveglia e indirizza il governo attraverso i suoi rappresentanti in
Parlamento, «La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico» (K. Popper), ed è nel suo interesse che il
governo sia formato da persone di adeguata competenza, un requisito che come
già nell’antica Atene rende molto elevata la probabilità che siano esponenti
delle élite a svolgere le relative funzioni.
Dunque
la democrazia funziona se le differenti classi sociali cooperano, se le élite
sono in grado di fornire adeguate competenze per il governo e lo esercitano
nell’interesse generale e non nel loro esclusivo, e se le masse sono in grado
di esercitare il controllo sul governo garantendo che ciò si verifichi davvero.
Vi
sono pertanto tre requisiti per il buon funzionamento di una democrazia:
l’attitudine
alla cooperazione tra classi, l’attitudine al governo da parte delle élite e
l’attitudine al controllo da parte delle masse.
Delle
tre attitudini la prima è quella di maggior rilievo ma criticità rilevanti
sulle altre due sono in grado di farla cadere.
Una
democrazia in funzione è paragonabile a una comitiva di gitanti:
è il gruppo che deve scegliere dove andare,
avvalendosi di un capocomitiva che interagirà con l’autista del pullman fornendogli
indicazioni sulla meta scelta.
Ma
l’autista non può che essere una figura competente per guidarlo, dunque deve
essere dotato di una patente che certifichi che è in grado di condurre
adeguatamente il mezzo.
A
questo punto si manifestano tre possibilità di cui solo la prima rappresenta un
esito adeguato:
1) i
passeggeri sono in grado di indirizzare la guida verso la meta scelta e
l’autista è in grado di guidare il mezzo;
2) l’autista è un ottimo guidatore ma i
passeggeri non sono in grado di esprimere un indirizzo;
3) i
passeggeri sono in grado ma il conducente è incapace.
Il
primo caso è
quello di una democrazia funzionante.
Il
secondo caso è quello di una democrazia inceppata in cui il popolo non è in grado
di esercitare il controllo e in conseguenza le élite saranno libere di
governare nel loro esclusivo interesse.
Se il capocomitiva dorme e i gitanti sono distratti,
l’autista alla guida avrà la libertà di portare il mezzo dove preferisce.
Nel terzo caso, infine, se il popolo dei gitanti si
allarga sino a pretendere di far guidare chi preferisce – anche se non dotato
di patente – è evidente il rischio che l’autobus finisca fuori strada e in ogni caso
esso non sarà in grado di giungere alla meta auspicata.
Questo
schema di analisi può ovviamente essere applicato per interpretare la recente
storia italiana ma richiede inevitabilmente un certo impegno e in ogni caso un
numero elevato di parole per le quali non vi è spazio in questo scritto.
Conviene
dunque metterlo in agenda per un secondo momento.
Chi
comanda nel mondo? (2)
Gognablog.sherpa-gate.com
– (4 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:
(ereticamente.net)
Nella
prima parte di questo elaborato abbiamo cercato di fornire una risposta al quesito
su chi esercita davvero il potere nel mondo, attraverso due livelli di
indagine:
comandano coloro di cui non si può “dir male”
e, concretamente, i signori del denaro, in particolare la cupola finanziaria
che si è impadronita dell’emissione monetaria.
Abbiamo riconosciuto tristemente il ruolo
secondario, se non servile, della dimensione pubblica – Stato e politica – ma
la domanda restava in parte inevasa.
Occorreva una serie di approfondimenti.
La
globalizzazione – economica, culturale, politica, produttiva, finanziaria –
perseguita da molto tempo, vincitrice unica dopo il crollo del comunismo reale,
ha portato alla crescita di un nuovo attore planetario dotato di un immenso
potere.
Si tratta del grumo di persone, imprese, visioni
dell’economia e del mondo che detengono e possiedono la tecnologia informatica
e digitale, motore e carburante della quarta rivoluzione industriale.
Sono i
giganti di Silicon Valley (e non solo), riuniti nell’acronimo “GAFAM” (Google,
Amazon, Facebook/Meta, Apple, Microsoft), insieme con il conglomerato di
aziende, conoscenze e tecnologie che hanno rivoluzionato il mondo attraverso la
scoperta delle applicazioni tecnologiche legate all’informatica,
all’automazione e in generale al mondo di Internet, una rivoluzione
paragonabile alla scoperta delle tecnologie del ferro e alla macchina a vapore.
All’universo
“GAFAM” molti aggiungono i “NATU”, l’acronimo che riunisce “Netflix”
(intrattenimento e spettacolo), “Tesla” (capofila della robotica e della
cibernetica, la creazione di Elon Musk) e due piattaforme online – “Airbnb” e “Uber”,
che hanno rivoluzionato l’una il mondo immobiliare, l’altra i trasporti e la
mobilità.
Questo
gruppo di colossi – ampiamente integrato e con sede negli Usa, benché orientato
alla deterritorializzazione – ha reso possibile il “Nuovo Ordine Mondiale”
basato sul “capitalismo della sorveglianza”, la felice espressione coniata da “Shoshana
Zuboff”.
Ovvero,
ha costituito una forma nuova di potere:
la raccolta, accumulo, incrocio, uso,
compravendita di dati e metadati, ossia informazioni su tutto e tutti. I
n
parole chiare: lo spionaggio universale mascherato da “trasparenza”.
Un
altro nome collettivo di tale sistema è “Big Data”.
Il potere si è fatto “biopotere” – ossia comando,
controllo e sorveglianza sull’esistenza quotidiana di persone e istituzioni – e
addirittura “biocrazia”, dispositivo organizzato di controllo sulla vita, a
partire dal corpo fisico degli individui.
Il
programma del biopotere prevede il superamento della creatura umana attraverso
l’ibridazione con la macchina – impianto di microchip, intelligenza
artificiale, robotica, cibernetica – facilitato dalle straordinarie possibilità
di alcune nuove conoscenze, riunite nell’acronimo “NBIC”, nanotecnologia,
biotecnologia, tecnologia informatica e scienze cognitive o neuroscienze.
Dall’interazione
di questi strumenti tecnologici, posseduti in regime di oligopolio, protetti dall’intangibilità della
(grande) proprietà privata con il sistema dei brevetti e delle privative
industriali, discende la nuova, insidiosissima ideologia delle élite, il
transumanesimo.
La
punta di lancia di questo progetto è il “Forum Economico Mondiale” diretto da “Klaus
Schwab”, il cui teorico di riferimento è “Yuval Harari”, scrittore futurologo,
strumento privilegiato dell’agenda dei vertici tecnologici e dei signori del
denaro.
Comanda
un singolare ircocervo, la Mammona postmoderna:
l’alleanza tra le grandi imprese tecnologiche post-industriali
– che hanno rivoluzionato il commercio (Amazon), la comunicazione (Facebook,
Twitter), dominano Internet (Google) e possiedono le competenze, le strutture
di ricerca e i presidi industriali che hanno cambiato la mappa non solo
economica del mondo (Apple, Microsoft, IBM).
In
pochi anni l’oligopolio
tecno-scientifico è diventato il centro nevralgico della globalizzazione,
dotato di una ideologia e di una governance globale ed è entrato a vele
spiegate nel salotto buono dell’alta finanza.
Quel
mondo assolutamente nuovo non avrebbe potuto assurgere a braccio secolare e
avanguardia del “Dominio” se non in sinergia ed alleanza con i “signori del
denaro”, primi mentori e generosi finanziatori.
Se oggi uomini come Bill Gates, Mark
Zuckerberg, Jeff Bezos, Elon Musk, Ray Kurzweil – guru di Google e
transumanista convinto – Ray Dalio, Vinton Cerf e pochi altri sono ai vertici
della ricchezza e del potere è perché il loro indiscutibile genio è stato
utilizzato dalle cupole del denaro, dapprima al loro servizio, poi cooptato in
un’alleanza strategica.
È la
tenaglia che stringe gli Stati, l’economia, i popoli e i singoli individui in
un progetto totalitario fintamente morbido, il “soft power” che non usa la forza bruta ma
l’immensa superiorità di risorse finanziare, moltiplicate dal controllo delle
tecnologie di uso quotidiano e dal sapiente utilizzo delle neuroscienze.
Mezzi
che diventano fini;
di qui
una delle convinzioni popolari più difficili da smontare:
l’obiettivo
di costoro non è (più) il denaro, ma il dominio sull’umanità, sino alla
modifica della condizione umana nel transumanesimo.
I
l
denaro è uno strumento, non l’obiettivo: sarebbe riduttivo per chi si è
appropriato dell’emissione monetaria e crea il denaro dal nulla, prestandolo agli Stati.
Siamo
al nocciolo:
il mondo – o almeno l’Occidente collettivo di
cui siamo una propaggine – è in mano ad un’alleanza strategica tra il Denaro –
rappresentato dal sistema finanziario (banche centrali, fondi di investimento,
corporazioni multi e transnazionali – “TNC”, un altro maledetto acronimo che
non fa capire come stanno le cose) e le imprese di tecnologia avanzata.
Poiché
è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende, la “Mammona
postmoderna” ha una serie di strumenti operativi:
gli
eserciti occidentali, soprattutto quello americano, con le numerose agenzie
riservate e organizzazioni di copertura (molte ONG lo sono) che integrano e
rendono planetario il suo potere.
Nel passato, misero in guardia da tale grumo
onnipotente non paranoici complottisti ma almeno tre presidenti americani, Woodrow Wilson (che pure ne favorì
l’ascesa e fu protagonista della nascita della banca centrale, la Federal
Reserve), Franklin Delano Roosevelt e Dwight Eisenhower, che nel 1961, nel
discorso di congedo dalla Casa Bianca, così disse:
“L’America
deve vigilare contro l’acquisto di un’ingiustificata influenza da parte del
complesso militare-industriale e il pericolo di diventare prigioniera di
un’élite scientifico – tecnologica”.
Parole
al vento, purtroppo.
Ma se
siamo in grado di individuare nomi e volti del “biopotere tecnologico”, ci è
più difficile identificare i signori del denaro.
Innanzitutto
perché hanno a lungo coperto se stessi, evitando di apparire e comparire,
burattinai dietro le quinte, come rilevò Benjamin Disraeli, primo ministro
dell’Inghilterra imperiale, già nel secolo XIX.
Si tratta prevalentemente di dinastie senza
corona che si passano il testimone da generazioni;
se ne
fa parte per diritto di sangue e attraverso matrimoni tra rampolli delle grandi
famiglie, come nelle casate nobiliari del passato.
Il nome più conosciuto è quello dei
Rothschild, israeliti di origine tedesca stanziati strategicamente da secoli
nelle capitali politiche e finanziarie del mondo.
La loro potenza e ricchezza non è calcolabile;
hanno
attraversato guerre e rivoluzioni finanziando spesso entrambe le parti in
lotta;
installato
e rovesciato governi e regimi con l’arma del denaro e del debito, foraggiando
fazioni o capi politici;
dominano
il mercato dell’oro, il cui prezzo è fissato presso di loro a Londra.
Mesi
fa, un “Rothschild” ha infranto il tradizionale riserbo della dinastia
schierandosi in termini violenti a favore della guerra contro la Russia.
Quelli
dello Scudo Rosso (rot schild) non sono gli unici e con le altre dinastie e
famiglie, Morgan, Sachs, Rockefeller, Warburg e poche altre costituiscono un formidabile cartello che ha in
mano il mondo finanziario ma anche la filiera dei traffici industriali,
energetici e alimentari del pianeta.
Un
esempio di riservatezza sono i Mc Kinley, proprietari della Cargill, gigante
del grano:
non figurano in Borsa, possiedono immensi
territori coltivati nel mondo, navi, silos e porti. Da loro dipende se popoli
interi possono sfamarsi e a quale prezzo. In molti gangli del sistema è
rilevante la componente di ascendenza ebraica.
Enorme
è il potere dei fondi di investimento, conglomerati finanziari più potenti di
gran parte degli Stati nazionali, che dominano e indirizzano i mercati;
in
larga misura essi “sono” il mercato.
Il più grande, Black Rock, amministra attivi
per diecimila miliardi di dollari (due volte e mezzo il Prodotto Interno Lordo
della Germania, cinque volte quello dell’Italia).
Il suo massimo dirigente – Larry Fink – è uno
degli uomini più potenti del mondo e” Black Rock” si è ora impossessata di
fatto dell’economia e delle risorse della sfortunata Ucraina.
Nondimeno,
i grandi fondi, di cui solo Allianz Group – galassia Rothschild – ha sede in
Europa – Vanguard Group, Fidelity Investments, State Street Global, Capital
Group, Goldman Sachs Group, restano strumenti, sia pure di primaria importanza.
Il potere è nelle mani della cupola delle
grandi famiglie del denaro e dei giganti tecnologici, all’ombra del “Deep State”,
l’apparato militare e riservato dell’anglosfera.
Un complicato, fittissimo intreccio di
partecipazioni azionarie incrociate fa sì che “Mammona” – il nucleo dominante
di finanza, imprese tecnologiche e corporazioni multinazionali (TNC) – sia
costituita da un numero di soggetti incredibilmente basso.
L’oligarchia
è reticolare, assai ben strutturata, ma il livello apicale è formato da
pochissime persone fisiche dal potere pressoché illimitato.
Un
capitolo essenziale riguarda, nel mondo contemporaneo, il potere di chi
gestisce e controlla le reti di comunicazione e la struttura Internet,
l’autostrada digitale su cui viaggiano tutti i dati, le transazioni, le idee,
gli atti, le decisioni:
il sistema nervoso centrale di un mondo
dominato dalle informazioni e dalla velocità, il tempo reale.
In
quest’ambito, la cupola occidentale – nella solita sinergia tra grandi soggetti
privati e strutture degli Stati guida, Usa, Israele, Gran Bretagna, mantiene un
primato rilevante, insidiata dal più grande Stato nazionale, la Cina, all’avanguardia
nella tecnologia delle comunicazioni su fibra 5G, semi monopolista nel possesso e
nella lavorazione delle Terre Rare, i diciassette elementi della tavola
periodica di Mendeleev da cui dipende lo sviluppo e la funzionalità del Moloch
tecnologico, scientifico, elettronico e informatico.
Chi
controlla tutto ciò e le fonti energetiche che sostengono i modelli di
sviluppo, di produzione e di riproduzione del dominio, comanda il mondo ed è
destinato a improntarlo nelle idee, nei modi di vita, nella scelta di gusti,
valori e principi.
Le
dinastie del denaro fanno la parte del leone, ma l’egemonia è oggi in
discussione per l’emergere di nuovi soggetti radicati nell’est del mondo.
L’osservazione empirica, prima ancora della ferrea logica geopolitica, mostra
che le crisi odierne – anche il conflitto tra la Russia e la Nato per interposta
Ucraina – sono mosse di scacchi nel “grande gioco” per il controllo delle
risorse del mondo, dei flussi finanziari che le movimentano, delle rotte chiave
del commercio.
La
nostra cartografia non può dimenticare che il potere del denaro è in sé inerte
e deve essere alimentato costantemente da un sistema di relazioni, credenze e
valori capace di mantenere e estendere, con la collaborazione di settori
specializzati della popolazione –scienziati, economisti, intellettuali,
militari, operatori della comunicazione –
un consenso che permetta la perpetuazione delle scelte, l’obbedienza
delle masse, l’influenza sui governi, l’orientamento, il controllo.
A tale
fine agisce una serie complessa di strumenti operativi, organizzazioni,
associazioni, gruppi d’ influenza e poteri derivati che rispondono alla cupola,
una sorta di pool di ministeri e assessorati di servizio divisi per settori e
territori.
Il
sistema opera da alcuni secoli, si è rafforzato dopo le due guerre mondiale e
con moto accelerato dopo la sconfitta del modello comunista sovietico.
Il “Dominio” ha progressivamente raffinato e
diversificato i suoi bracci operativi in tutti gli ambiti, sino a costruire una
salda rete globale in cui pubblico e privato si confondono ed intersecano sotto la
direzione dei “padroni universali”.
Ne
parleremo nell’ultima parte della nostra ricognizione.
Chi
comanda nel mondo? – (3)
Gognablog.sherpa-gate.com
– (6 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:
Nelle
precedenti parti di questo elaborato abbiamo cercato di delineare una mappa dei
detentori del potere nel mondo, o meglio in Occidente e nella parte del pianeta
ad esso legato.
Detto
dell’alleanza strategica tra i signori del denaro (finanza) e i padroni delle
tecnologie relative alle nuove scienze, abbiamo affrontato il tema degli
strumenti di cui si servono per affermare e perpetuare il loro potere.
L’orizzonte
è quello della privatizzazione di tutto, l’estromissione della dimensione
pubblica e comunitaria e i governi ridotti a gendarmi di servizio.
Il finanzcapitalismo (Luciano Gallino) è
diventato ”biocrazia” senza alternativa (l’acronimo “TINA”, there is no
alternative) in sinergia con la tecnocrazia informatica ed elettronica.
Lo
strumento più antico di perpetuazione del potere – attraverso la cooptazione
degli elementi ritenuti più affidabili – è la massoneria.
Fondata
nel 1717, circondata da un alone di segretezza, ha avuto nel tempo tra i suoi
membri e dirigenti larga parte delle élite europee e occidentali.
Al di
là del giudizio sulle idee che propugna e della banalizzazione complottista che
ritiene il Grande Oriente la sentina di ogni male, le logge massoniche – con la
loro struttura sovranazionale il cui centro è l’anglosfera – esercitano un
forte potere di influenza, ma innanzitutto sono un luogo privilegiato di
incontro e decisione.
Restano
una delle sedi privilegiate per dibattere, disegnare scenari, assumere
decisioni, il bacino in cui selezionare personalità destinate a ricoprire ruoli
dirigenti in campo politico, culturale, economico, finanziario, istituzionale,
militare.
Tuttavia,
anche la massoneria è un potere derivato, che non potrebbe esercitare il ruolo
che ha se non entro la cornice del sistema che abbiamo descritto.
In termini marxisti, essa è un elemento della “sovrastruttura” (Ueberbau), l’insieme dei fenomeni
ideologici, culturali e spirituali che corrispondono alla base materiale ed
economica della vita sociale.
Di
questa base o struttura, la sovrastruttura è un riflesso, ma non semplicemente
un prodotto.
La struttura (struktur) è l’economia, cioè le
forze produttive (uomini, mezzi, modi) e, insieme, i rapporti giuridici di
proprietà.
Marx
non seppe però analizzare compiutamente il ruolo sovraordinato della finanza,
che rivestì poi un ruolo centrale nella rivoluzione bolscevica e controllò a
lungo la banca centrale sovietica.
Abbiamo
rammentato che i signori del mondo poco potrebbero se non avessero al loro
servizio l’apparato militare, di sorveglianza e di informazioni degli Stati in
cui esercitano il “dominio”.
Ciò è
ancora più vero da quando la privatizzazione generale ha investito le grandi
organizzazioni internazionali.
La
piovra finanziaria, infatti, non è solo “dominus e dante causa di soggetti come
la “Banca Mondiale” e il “Fondo Monetario Internazionale” (prodotti del sistema
di potere uscito dalla seconda guerra mondiale) ma si è impadronita, di fatto,
delle “organizzazioni transnazionali”.
Tocca
ribadirlo: la mano che dà è superiore a quella che riceve.
Perfino l’ONU – ossia il luogo di incontro
degli Stati teoricamente sovrani – è infiltrata, attraverso i finanziamenti e
la burocrazia dirigente, da potentati privati.
Un
soggetto come l’”Unesco”, il ramo delle “Nazioni Unite” che si occupa di
educazione, scienza e cultura, è controllato da uomini dell’oligarchia.
Primo
presidente e ideologo dell’Unesco fu “Julian Huxley”, eugenetista, nipote di
Thomas, detto il “mastino di Darwin”, e fratello di Aldous, autore di” romanzi distopici”
come “Il Mondo Nuovo”, tutti membri di un’influentissima famiglia aristocratica
britannica.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della
Sanità) conta su cospicui finanziamenti privati, tra i quali spiccano la
Fondazione di Bill Gates e GAVI.
Quest’ultima
è un’organizzazione di cui “fanno parte paesi e settore privato, come la
Fondazione Bill & Melinda Gates, produttori di vaccini sia dei paesi
sviluppati che in via di sviluppo, istituti specializzati di ricerca, società
civile e organizzazioni internazionali come OMS, UNICEF e Banca Mondiale
(fonte: Rappresentanza permanente d’Italia all’ONU)”.
Un
circolo vizioso:
le filiali del “Dominio” si appartengono e si
incrociano, come i loro dirigenti.
Il triennio che si sta (forse) chiudendo,
quello della pandemia, ha dimostrato l’immenso potere dell’OMS e degli
“istituti specializzati di ricerca”, definizione pudibonda di “Big Pharma”, le multinazionali che hanno in mano,
attraverso i farmaci e i vaccini, salute e vita di miliardi di persone.
La gestione
pandemica ha rivelato altresì l’esistenza di laboratori scientifici riservati
in cui si trattano virus e batteri, rafforzandoli (“guadagno di funzione”) allo
scopo – dicono – di combatterli.
Il
potere dispone di un fiorente settore chimico che ha trasformato l’intera
filiera agricola in un protettorato dipendente da prodotti industriali:
pesticidi, diserbanti e sementi geneticamente modificati (OGM) senza i quali
crollerebbe la produzione.
È il regno di Bayer-Monsanto, Dreyfus, Basf,
Corteva, Syngenta, protetto da ferrei brevetti.
La
proprietà di questi colossi è in capo al solito grumo di giganti
multinazionali.
Un
altro tassello del potere è le grandi ONG (organizzazioni non governative, cioè
private), una sorta di pronto intervento con maschera filantropica al servizio
del “Dominio”.
Tra
esse,” Médecin Sans Frontières”, “Oxfam”, “Amnesty International” e varie
altre, un vero e proprio parterre des rois del Nuovo Ordine Mondiale.
La
caratteristica comune di queste associazioni – di cui vanno riconosciuti
comunque i meriti umanitari – è di condividere l’ideologia liberal progressista
delle élite occidentali e di essere finanziate da un altro architrave del
sistema transnazionale, le Fondazioni private.
Favorite
da un regime fiscale che le rende quasi immuni da imposte, sono il salvadanaio
di grandi famiglie e di miliardari, specie americani.
Le più note sono l’”OSF” (Open Society Foundation) di
George Soros, il finanziere ungaro americano di origine ebraica (che nella
prima giovinezza lavorò per chi confiscava beni ai suoi correligionari!) e la
Fondazione Bill e Melinda Gates.
Non
meno ricche sono le fondazioni legate alle famiglie Ford, Rockefeller, Carnegie
e altre più appartate.
Movimentano
miliardi di dollari ogni anno a favore di varie cause, e vengono considerate
dalla narrativa ufficiale bastioni della filantropia.
La
sola “OSF” – a cui Soros ha conferito nel tempo almeno trenta miliardi di
dollari – distribuisce ogni anno più di un miliardo a “ONG”, associazioni,
partiti, gruppi, individui, università che condividono l’ideologia oligarchica
dominante, il coacervo di liberismo economico, libertarismo sociale,
materialismo e consumismo.
In Italia spiccano tra i beneficiari il
vecchio partito radicale, “Più Europa” e le associazioni collegate, con al
centro Emma Bonino”, dirigente dell’”OSF”.
Il “Dominio”, per riprodurre il consenso, ha
bisogno di controllare – cioè possedere e finanziare – un immenso apparato di
informazione, propaganda, comunicazione, intrattenimento, spettacolo e cultura.
Guy
Debord spiegò che la nostra è una “società dello spettacolo”, inteso come
“rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini, una visione del mondo
che si è oggettivata.
Lo
spettacolo è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente”.
La
stragrande maggioranza di noi non è che un soggetto passivo davanti allo
schermo della TV, del cinema, degli smartphone e dei computer, diventati parte
integrante della nostra personalità e persino fisicità.
Le
grandi agenzie di stampa che diffondono – o celano – le notizie che ci
raggiungono in tempo reale sono quattro o cinque in tutto, possedute dai
padroni universali.
L’oligopolio
degli onnipotenti.
Crediamo ancora al mito del libero cittadino
che si forma delle opinioni?
Il
sistema dello spettacolo e dell’intrattenimento è nella disponibilità di pochi
soggetti – anch’essi in gran parte con sede in America o nell’anglosfera – che
fabbricano e impongono la visione del mondo, i valori di riferimento, i miti,
le opinioni.
Proponiamo
un gioco:
osserviamo per qualche minuto un film di trenta
quarant’anni fa e uno di produzione recente.
La differenza di contenuti, principi, linguaggi,
iconografia, idee e condotte mostrate in negativo o positivo, è abissale.
Uguale è l’esito di una ricognizione
diacronica della pubblicità.
Eppure
i padroni sono gli stessi: tutti conosciamo Walt Disney, Warner, le “majors”
dell’industria musicale.
Vinta
la guerra con le altre ideologie della modernità, adesso possono dispiegare a
beneficio del “neocapitalismo globalista “tutto il potenziale di costruzione
del cittadino unisex a taglia unica, nomade, schiavo del consumo e dei
desideri, l’individuo vuoto cui sono sottratte tutte le radici morali,
spirituali, comunitarie, familiari.
Da un
secolo le scienze cognitive – psicologia, neurologia, psicanalisi – sono
utilizzate per orientare gusti, determinare scelte, veicolare idee, ossia per
“persuadere”.
Uno
dei precursori fu “Edward Bernays”, nipote di Freud, teorico della propaganda,
inventore delle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica.
Dobbiamo
a “Bernays” l’affermazione secondo cui “la consapevole e intelligente
manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse è un aspetto importante
della società democratica. Tale manipolazione rappresenta un efficace strumento
attraverso il quale uomini intelligenti possono combattere per finalità
produttive e contribuire a metter ordine in mezzo al caos”.
Ossia
controllare le coscienze sotto la copertura della “finzione democratica”.
Vance
Packard parlò di “persuasori occulti”: altri tempi.
Oggi
il potere non ha più bisogno di nascondersi e mostra, ostenta sé stesso, come
nelle riunioni del “Forum Economico Mondiale”. Naturalmente, la vetrina non è
il negozio:
l’officina
delle decisioni resta nel retroscena, la regia in cima alla piramide –
l’apparato finanziario-tecnologico – e, un piano più sotto, gli organismi
riservati, i “pensatoi” delle élite (think tank), sodalizi come il “Bilderberg”,
la “Round Table”, i” vertici della massoneria “e di “associazioni elitiste” il
cui modello sono le britanniche “Royal Society”, “Chatham House”, “Fabian
Society”.
L’importanza
assunta dalle reti sociali con miliardi di utenti è il perfetto successo di un
sistema che ha convinto i più di essere libero e aperto, ma che al contrario –
oltre a compravendere i dati di tutti e di ciascuno – ha organizzato un’inedita
censura privatizzata.
Nel
passato, la censura era prerogativa dei sovrani e degli Stati, oggi è appaltata
ai social media.
E diventa autocensura, per paura e
conformismo.
Il
successo di tale azione di riconfigurazione cognitiva, linguistica e
comportamentale è essenziale.
A tale
scopo, è stata organizzata una delle più gigantesche operazioni di lavaggio del
cervello della storia, un’autentica guerra il cui obiettivo è la nostra mente.
Si sta modificando la mappa cognitiva di centinaia di
milioni di persone, attraverso la creazione, diffusione e imposizione di una
neolingua “politicamente corretta”, che obbedisce cioè a canoni indotti
dall’alto, “corretti” in quanto modificati per corrispondere al criterio di
bene e di male, di giusto o sbagliato, voluto dal potere.
Chi
determina non solo che cosa è giusto pensare, ma perfino con quali parole
esprimerlo, proibendo termini e concetti e imponendone altri, è padrone del
nostro foro interiore.
Bertrand Russell, intellettuale e
aristocratico britannico, pronosticò che l’uso appropriato (dal punto di vista
dell’élite) delle discipline psicologiche avrebbe convinto la gente che “la
neve è nera”.
L’università
americana di Stanford ha elaborato un glossario del linguaggio “dannoso” e dei
corretti termini da usare, contravvenire i quali diventa “discorso di odio”, lo
sconcertante psico reato postmoderno.
La
guerra delle parole, cioè dei significati, è stata vinta anche con l’ausilio di
sistemi giuridici che rendono legali o illegali parole, concetti e pensieri e
negano l’esistenza di una legge naturale.
Noi stessi, mentre scriviamo, ci stiamo
sottomettendo alla neolingua.
Le tappe
successive del progetto sono il rovesciamento delle abitudini alimentari umane
(un capovolgimento antropologico e biologico) e l’abolizione della proprietà
privata diffusa.
L’attacco
neofeudale alla casa e all’automobile rappresenta l’insidioso annullamento di
oltre due millenni di civiltà giuridica romanistica.
Tutto
deve essere di loro proprietà, compresi gli esseri umani.
Cancellazione:
della civiltà, dei diritti, delle parole, della libertà, dell’umanità.
L’esito è un “neo schiavismo” in cui i diritti
della persona – vanto della nostra civiltà – vengono obliterati a vantaggio di
un’oligarchia che atterrisce per metodi, scopi, malvagità, odio per la creatura
umana.
Di loro non si può dire male:
“Madamina”,
il catalogo è questo, disse il servo Leporello alla povera Donna Elvira,
elencando le “conquiste” di Don Giovanni.
Chi
comanda al Cremlino
(oltre Putin).
It.insideover.com
- Lorenzo Vita – (10 MAGGIO 2022) – ci dice:
La
guerra in Ucraina ha scatenato diverse analisi sul cerchio di potere che
gravita intorno al presidente della Russia, Vladimir Putin.
Molti si sono chiesti quale fosse la
percezione del capo del Cremlino rispetto all’intricato sistema di oligarchi e
burocrati che ha preso parte al consolidamento del suo “regno”.
Altri
invece si sono posti il problema di capire quale potesse essere il successore
di un leader sicuramente deciso a incarnare la cosiddetta “anima russa” e la
sua Storia ma evidentemente indebolito sia per motivi anagrafici che per motivi
puramente politici.
La guerra, del resto, è un trauma che
colpirebbe qualsiasi leadership, anche quella più granitica.
E un conflitto come quello russo-ucraino, con
migliaia di morti, l’isolamento internazionale, le sanzioni economiche e le
crepe interne al sistema di potere, non potevano fare altro che scalfire quel
sistema di potere che già prima della “operazione militare speciale” denotava
le prime fratture interne.
Fino alle notizie, sempre più frequenti, di un
possibile golpe.
Lo zar
“solo” e il patriarca.
Sgombrando
il campo da letture a volte esagerate della figura di Putin, quello che
possiamo dire fino a questo momento è che il presidente russo è apparso
sensibilmente più solo rispetto a prima del conflitto.
Dall’inizio
dell’escalation, poi sfociata nell’aggressione all’Ucraina, il capo del
Cremlino ha mostrato il suo lato più oscuro e solitario:
lui e il popolo, quasi come un leader
carismatico che il presidente della Federazione Russa.
Le
similitudini col sistema zarista sono diventate sempre più frequenti.
Il
sentirsi come ultimo interprete del destino della nazione russa e del suo
popolo, la ricerca del consenso rifacendosi alla minaccia dell’assedio esterno
e la vicinanza alla figura del patriarca Kirill alimentano un’immagine da
leader sempre più concentrato sulle proprie ambizioni e su un sistema di potere
quasi moralizzante.
I
video e le foto di lui sempre più distaccato, anche fisicamente, dai sui
interlocutori, lascia trasparire l’immagine di un presidente lontano rispetto
alla sua cerchia di ministri e potenti, ma anche intimorito e solo.
Come
se nessuno potesse davvero comprenderlo se non appunto il suo popolo, a cui
invece vuole apparire vicino.
Lo dimostra l’organizzazione della
manifestazione allo stadio di Mosca ma anche la partecipazione alla veglia di
Pasqua nella capitale.
Lì dove si è ulteriormente rafforzata l’idea
di uno zar vicino alla Chiesa, in cui il patriarca, alfiere del conflitto e
degli ideali culturali e politici del Cremlino, è il simbolo di questa nuova
Russia nazional-conservatrice di stampo imperiale.
Non un consigliere, ma un alleato potente e
allo stesso tempo ancillare.
Leader
di una Chiesa che è stata anche motivo propagandistico di una guerra in cui
rientra anche la separazione della comunità ortodossa ucraina da quella russa.
Il
sistema di potere intorno a Putin.
Se
questa è l’immagine che viene lasciata trapelare dal Cremlino, va ribadito che
intorno a Putin esiste una cerchia di potere che rappresenta un sistema complesso
e articolato.
In cui tutti i personaggi hanno un ruolo
specifico, importante e fondamentalmente unico nella geografia del potere
russo.
Un sistema che viene letto, come ricordato da
un’analisi del “Journal of Democracy”, alternativamente come un sistema in cui
Putin “è un dittatore onnipotente, da temere al di sopra di tutte le altre
minacce alla democrazia” oppure come “una pallida ombra del suo passato
sovietico e zarista, che vive di idrocarburi e di una scorta nucleare dell’era
della Guerra Fredda”.
Dubbi
che devono evidentemente fare i conti con la comprensione di chi oggi è davvero
vicino al presidente della Federazione Russa.
Il
“delfino” Medvedev.
Una
delle personalità più interessanti della cerchia del potere russo è Dimitri
Medvedev.
Presidente tra il 2008 e il 2012, nel periodo
di intervallo di Putin dalla presidenza, Medvedev ricopre l’incarico di
vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, a sua volta guidato da Putin,
e come riportano alcune fonti, è stato da poco nominato responsabile del
Comitato interministeriale per le infrastrutture critiche.
L’obiettivo dell’organo, spiega “Giuseppe
Gagliano”, è la salvaguardia della sicurezza del complesso industriale e
militare russo di fronte alla minaccia cyber.
L’ex delfino di Putin, che ricordiamo essere
stato l’unico ad avere assunto il potere in Russia oltre allo “zar” durante la
lunga stagione di potere putiniano, sembra si stia ritagliando ultimamente un
ruolo più forte.
Molti osservatori hanno ritenuto la sua nomina
a vicepresidente del Consiglio di sicurezza come un declassamento nato da una
divergenza sempre più netta rispetto al suo mentore al Cremlino.
Tuttavia, in questa guerra in Ucraina,
Medvedev ha assunto posizioni sempre più dure presentandosi come uno dei più
convinti sostenitori della guerra a Kiev.
Una
svolta da “falco” che sorprende, perché la sua presidenza era considerata quasi
un’opportunità di svolta democratica e liberale, ma che confermerebbe la
volontà di riavvicinarsi in modo netto al capo dello Stato anche in ottica di
successione.
Shoigu,
il siberiano.
Insieme
a Medvedev, un ruolo di primo piano ha poi certamente “Sergej Shoigu”, il
ministro della Difesa.
L’uomo
che dalla Siberia è riuscito a scalare le vette del potere fino a raggiungere
la guida del dicastero più importante nelle logiche imperiali del Cremlino, è
stato da sempre un fedelissimo del Cremino.
Per “Shoigu” si tratta di un momento
complesso.
L’immagine
di lui che ripete a Putin quanto scritto su un foglio mentre il presidente,
dall’altro capo del tavolo, lo fissa tenendosi al tavolo è una delle rare
immagini del ministro in quest’ultima fase della guerra.
Immagine
a cui si aggiunge quella del volto quasi funereo, insieme a “Valerij Gerasimov”,
mentre Putin “attivava” le difese strategiche.
Qualcuno
pensava fosse proprio” Shoigu” uno dei possibili successori di Putin alla guida
della Federazione Russa, tuttavia, il conflitto in Ucraina ha minato alcune
certezze.
Probabilmente
Putin riteneva probabile una vittoria schiacciante o con un impatto certamente
meno duro sulle forze armate.
E questo sarebbe dimostrato anche da alcuni
indizi delineati a metà aprile da “Marco Marisio” sul Corriere della Sera.
“Negli
ultimi due numeri della rivista del Ministero della Difesa russo” raccontava Marisio
“il nome del ministro della Difesa russo è stato citato zero volte.
Neppure
una menzione di sfuggita”.
Dunque
nella rivista che è il simbolo della propaganda militare russa non compariva
proprio la guida della Difesa di Mosca.
E in
piena guerra.
Anche la sua conduzione della “operazione
militare speciale” è apparsa particolarmente strana.
In balia di Putin ma anche di scelte
sbagliate.
Ha improvvisamente nominato a guida delle
operazioni “Aleksander Dvornikov”, quasi contraddicendo i piani precedenti che
sicuramente erano stati preparati da tempo.
E la
sua vicinanza a Putin è apparsa in bilico, al punto che si può ritenere che la “caduta
di Mariupo”l fosse l’ultimo treno per rimanere in sella al ministero.
Qualche dissidente aveva ipotizzato che fosse stato
vittima di un “potente infarto”.
Notizie mai confermate né verificate ma tanto
è bastato per porre in dubbio la sua permanenza al governo.
Gerasimov,
dalla dottrina al silenzio.
Fondamentale
in questo senso anche il ruolo del capo di Stato maggiore, “Valerij Gerasimov”,
che anche lui, come “Shoigu”, sconta il fatto di non avere condotto la Russia
alla vittoria smontando i sogni di gloria di Putin.
Considerato la grande mente dietro la nuova
strategia russa, e del resto ideatore di una dottrina che porta anche il suo
nome e che definisce in particolare il concetto di guerra ibrida, “Gerasimov”
appare sempre più lontano dal cerchio magico di Putin.
Tanto
che anche lui, come altri papaveri di Mosca, sembra costretto a scelte anche di
facciata.
L’ultima,
in tal senso, è la visita al fronte del Donbass.
Un
tour confermato anche dal Pentagono che, al contrario, non ha certificato le
notizie su un suo presunto ferimento riportate dagli ucraini.
Secondo
alcuni osservatori, lui, al pari di “Shoigu”, paga la pessima figura fatta
dalle forze russe in questi mesi di “operazione militare speciale”.
Ma c’è
da dire che non tutti concordano riguardano un suo allontanamento dalle stanze
del potere, dal momento che “Gerasimov” ha certamente una fitta rete di alti
ufficiali suoi amici e che conosce alla perfezione un campo di battaglia che
non può essere letto soltanto dal presidente.
La
triade dei servizi di Leningrado.
Nella
cerchia dei consiglieri e dei potenti del Cremlino, vi sono poi tutti gli uomini
che fanno parte della burocrazia dell’intelligence.
Per un uomo che proviene dal Kgb come Putin,
il ruolo dei servizi segreti è chiaramente preponderante, e non è un caso che
gli uomini a capo delle diverse agenzie abbiano un peso specifico non indifferente
nei corridoi di Mosca.
Non
solo a livello di sicurezza interna ed esterna, ma anche nelle stesse logiche
politiche e strategiche.
Un potere come quello putiniano non può fare a
meno dell’intelligence e degli eredi del Kgb.
E per lo “zar”, è sempre importante prestare
attenzione a quello che viene riferito dai suoi agenti.
Uno
dei nomi più importanti è quello di “Aleksandr Bortnikov”, funzionario e
generale russo, veterano del Kgb di Leningrado, lì dove è nato Putin, e capo
del Servizio federale per la sicurezza, il famigerato “Fsb”.
Il suo ruolo è fondamentale, controlla
migliaia di agenti, ha in mano i dossier più importanti della sicurezza interna
russa.
Qualcuno
aveva addirittura ipotizzato che lui sarebbe stato scelto dall’élite russa
contraria a Putin in caso di fallimento della guerra e golpe per fermare il
presidente.
Ipotesi che ovviamente non può trovare
conferme ma che sottolinea l’importanza di “Bortnikov” nelle gerarchie russe.
Altrettanto
potente è il predecessore di Bortnikov” alla guida dell’”Fsb”: “Nikolai
Patrushev”.
Considerato
il vero leader del gruppo dei “falchi” intorno Putin, il “segretario del
Consiglio di sicurezza della Federazione Russa” e consigliere dello stesso
presidente ha rilasciato un’intervista al giornale “Rossijskaja Gazeta”, in cui
ha detto senza mezzi termini che il piano della Russia consiste nel “distruggere la piazza d’armi del
neonazismo creato dall’Occidente ai nostri confini. La necessità della
smilitarizzazione è dovuta al fatto che l’Ucraina, satura di armi, rappresenta
una minaccia anche dal punto di vista dello sviluppo e dell’uso di armi
nucleari, chimiche e biologiche”.
Parole
che sembrano delineare una minaccia esistenziale per la Russia tale da
addirittura autorizzate, per motivi di dottrina strategica, anche l’utilizzo di
armi nucleari.
Negli
anni passati aveva già identificato il problema principale per la sicurezza
russa nelle politiche degli Stati Uniti in Ucraina, e in tempi non sospetti,
come riportato dal “Guardian”, definì le rivoluzioni colorate come una “forma di
destabilizzazione che rappresenta una minaccia altrettanto grave”, e che la destabilizzazione
dell’Ucraina era “uno strumento con cui indebolire drammaticamente la Russia”
perché, a suo dire, per Washington la Russia “non dovrebbe esistere come
Paese”.
Tesi ripetuta costantemente anche di recente,
all’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”.
E c’è
chi ritiene che in caso di temporanea assenza di Putin, potrebbe essere proprio
lui,” Patrushev”, ad assumere il controllo di Mosca.
Sempre
sul fronte dei servizi, non va dimenticato poi un uomo potente diventato noto
nel mondo per il modo in cui Putin lo ha rimbrottato praticamente in
mondovisione.
Parliamo di “Sergei Naryshkin”, uno di quelli che la “Bbc”
chiama “i vecchi fantasmi di Leningrado”.
La risposta
denigratoria del presidente russo nei suoi confronti, e davanti a tutti i più
alti funzionari della Federazione e a favore di telecamere, ha fortemente
indebolito la leadership del capo dello “Svr”, l’intelligence esterna.
Ma non
bisogna sottovalutare l’influenza che può avere proprio questa forma di
condanna pubblica da parte di Putin nelle gerarchie militari, politiche ed
economiche che non sembrano favorevoli alla guerra in Ucraina e al modo in cui
è stata condotta fino a questo momento.
Qualche
osservatore ritiene che in realtà Putin abbia semplicemente voluto lanciare un
messaggio a tutti, compresa l’opinione pubblica, e abbia sfruttato il momento e
le risposte esitanti di” Naryshkin”.
Tuttavia,
quel siparietto fornito dallo “zar” ha sorpreso tutti, confermando
l’imprevedibilità di un leader che fino a quel momento sembrava talmente
fiducioso del lavoro e dei consigli del capo dello “Svr” che si ipotizzava
potesse essere uno dei potenziali eredi del capo del Cremlino.
Anche
lui negli ultimi tempi sembra avere l’esigenza di mostrarsi di nuovo molto
legato al presidente.
C’è lui dietro la presunta informazione dei servizi
russi sul desiderio della Polonia di riprendersi i “possedimenti storici” in
Ucraina con un intervento militare di Varsavia nella parte occidentale del
Paese per prevenire eventuali aggressioni russe.
Ma c’è
anche chi crede che sia proprio lui a essere uno dei possibili leader in caso
di golpe dei “Siloviki “contro Putin.
Lavrov
è davvero al tramonto?
Sul
fronte esterno, una menzione va poi fatta per “Sergej Lavrov”, il ministro più
noto del governo russo e capo della diplomazia di Mosca.
Lavrov,
71 anni, è considerato da tempo sempre più lontano da Putin.
L’intervista
rilasciata a “Mediaset” ha confermato che anche il ministro degli Esteri
aderisce alla visione putiniana di una guerra fatta per denazificare l’Ucraina
colpendo chi minaccia Mosca.
Ma molti analisti ritengono che ormai il
lavoro di “Lavrov”, se non secondario, sia considerato meno decisivo rispetto
agli anni in cui il ministro era ritenuto uno dei più fidati uomini del
presidente.
La guerra in Ucraina, probabilmente, non era
nei desideri del titolare degli Esteri, intenzionato a costruire una rete di
partnership e alleanze che non doveva essere traumatizzata da un conflitto nel
cuore d’Europa.
Era
lui il ponte tra l’Occidente e la Federazione Russa, e sembrava essere l’unico
fine diplomatico a poter gestire la politica espansionista sognata da Putin e
perorata dai falchi.
Il
conflitto lo ha allontanato dalla cerchia dei fedelissimi.
Ma
anche in questo caso, non deve sorprendere né il riavvicinamento pubblico né il
fatto che sia considerato uno dei più apprezzati ministri da parte degli
oppositori dell’attuale “zar”.
Una
duplice interpretazione che conferma anche la volontà di” Lavrov” di svestire
da subito i possibili panni di capo di un’opposizione interna che nelle stanze
del Cremino può risultare molto pericolosa.
I meno
noti ma influenti.
A
questi nomi noti, si devono poi aggiungere altri che ai molti appaiono meno
rilevanti ma che potrebbero avere un peso decisivo nelle sorti della stagione
di potere putiniana.
C’è “Valentina Matvienko”, lealista di Putin e
anch’essa proveniente da San Pietroburgo.
C’è” Victor Zolotov” capo della guardia
nazionale russa, la” Rosgvardia”, considerato una sorta di comandante dei
pretoriani di Putin e guida di un esercito di circa 400mila unità nonché
comandante di quel generale “Roman Gavrilov” licenziato in una delle prime
“purghe” dall’inizio della guerra.
Non va dimenticato poi il ruolo del primo
ministro “Mikhail Mishustin”, che oltre a essere un economista impegnato nel
difficile compito di evitare il tracollo a causa della guerra e delle sanzioni,
potrebbe anche essere l’uomo che avrà il potere in caso di impossibilità di Putin
per la ormai nota presunta operazione chirurgica.
Motivo
per cui molti parlano di un possibile tandem o addirittura uno scavalcamento da
parte di “Patrushev”.
Infine,
sempre sul lato finanziario, menzione particolare va fatta alla governatrice
della Banca centrale russa,” Elvira Nabiullina”.
Salita agli onori della cronaca per avere dato
una visione diametralmente opposto sulla situazione finanziaria russa rispetto
a quella data dal Cremlino, qualcun ipotizzava le sue dimissioni.
Che
però non sono avvenute. Il tracollo finanziario ancora non c’è stato, così come
il default.
Molti
ritengono che sia stata proprio la leadership di “Nabiullina” a frenare un
pericoloso abisso economico.
Ed è per questo che la “zarina” delle finanze
di Mosca può essere considerata a tutti gli effetti un personaggio potente in
grado di sopravvivere anche in caso di fine del potere di Putin.
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