Quando una nazione pretende di governare il mondo in esclusiva.

 

Quando una nazione pretende di governare il mondo in esclusiva.

 

IL MULTILATERALISMO

E LA POLITICA ESTERA DELL’UNIONE 

EUROPEA.

 

Thefederalist.eu – (3 aprile 2022) - SERGIO PISTONE – ci dice:

 

 Sviluppo quattro schematiche considerazioni.

 1.) Il sistema internazionale fondato sugli Stati sovrani si trova in una situazione contradditoria che Kant aveva già chiarito nei suoi aspetti essenziali.

Da una parte si trova strutturalmente in uno stato di anarchia internazionale, dal momento che non esiste una statualità a livello internazionale, cioè l’unica struttura che può imporre la stabile convivenza pacifica, come è avvenuto all’interno degli Stati nella misura in cui si sono costituiti in modo efficace, realizzando cioè il monopolio pubblico della forza che impedisce la tendenza a farsi giustizia individualmente.

Le controversie fra gli Stati sono per contro risolte in ultima analisi con il ricorso alla forza.

Da qui la perenne corsa agli armamenti, le varie forme di imperialismo e le guerre.

 Occorre precisare che l’anarchia internazionale non significa una situazione del tutto caotica, dominata dallo scontro continuo, irrazionale e imprevedibile fra gli Stati e quindi una situazione priva di qualsiasi ordine.

Il disordine internazionale è in effetti attenuato dal ruolo delle grandi potenze che, anche se non eliminano la corsa agli armamenti e le guerre, rendono il sistema internazionale meno caotico e imprevedibile.

Se il sistema internazionale è caratterizzato dalla anarchia con le conseguenze indicate, dall’altra parte esiste una spinta strutturale alla cooperazione pacifica, alimentata dall’interdipendenza internazionale.

Con ciò si intende che l’umanità deve affrontare delle sfide comuni di enorme portata (dallo sviluppo economico e tecnologico, allo sviluppo della distruttività degli armamenti, alla salvaguardia dell’ambiente) che richiedono una cooperazione pacifica.

 

Questa spinta è alla base del multilateralismo, cioè del tentativo di creare sistemi di cooperazione pacifica internazionale.

Questi sono inadeguati perché non danno vita ad una statualità internazionale (a causa della resistenza strutturale alla limitazione della sovranità nazionale), ma rappresentano i primi embrionali passi in direzione dell’unificazione mondiale, cioè della statualità mondiale (che non potrà che essere, in definitiva, una federazione democratica multilivello).

 Esempi fondamentali del multilateralismo sono oggi l’ONU, l’OMC, l’OMS e gli organismi tecnocratici come “l’Unione Postale Universale”.

 2.) Oggi è all’ordine del giorno la necessità di un grandioso avanzamento del multilateralismo.

 In effetti è evidente che l’umanità si è venuta a trovare di fronte ad un intreccio inaudito di sfide esistenziali che stanno in sostanza producendo la globalizzazione dell’alternativa “unirsi o perire” che è stata alla base dell’avvio dell’unificazione europea dopo la seconda guerra mondiale e che è la spinta strutturale che ha portato avanti il processo (ancora incompiuto) in direzione della federazione europea.

 Queste sfide esistenziali pongono il mondo di fronte ad una drammatica alternativa: senza un urgente e sostanzioso avanzamento del multilateralismo si apre la prospettiva di un imbarbarimento dell’umanità che tende a comprometterne la sopravvivenza.

Le sfide esistenziali con cui l’umanità si confronta sono chiaramente la questione ecologica (con il riscaldamento climatico in primo piano), le pandemie, la digitalizzazione e il disordine internazionale.

 In questa sede mi soffermo su quest’ultimo che rappresenta la sfida più pressante.

È chiaro che nel quadro dell’anarchia internazionale l’ordine è sempre precario, ma emergono situazioni di accentuato disordine.

 In una visione schematica vanno sottolineati due punti.

— L’interdipendenza economica crescente, che con la globalizzazione ha prodotto un grandioso sviluppo economico, è d’altra parte caratterizzata da enormi squilibri economico-sociali e territoriali.

 Le conseguenze sono:

 le sempre più gravi crisi economico-finanziarie, l’instabilità cronica di intere regioni del mondo, il fenomeno degli Stati falliti, le guerre locali dilaganti, il terrorismo internazionale, le migrazioni bibliche, l’enorme sviluppo della criminalità internazionale.

A livello delle grandi potenze e degli Stati più avanzati si è affermato, in mancanza (dopo la fine del bipolarismo) di potenze in grado di esercitare una leadership stabilizzatrice, un pluripolarismo fortemente conflittuale.

Esso è caratterizzato (dopo l’attenuazione in coincidenza con la fine della guerra fredda) da una grandiosa ripresa della corsa agli armamenti (accompagnata dalla proliferazione delle “ADM”, che si sta estendendo alle armi cibernetiche) e dal diffondersi di sistematico di politiche imperialistiche.

 In questo contesto di pluripolarismo fortemente competitivo, il fenomeno più preoccupante è rappresentato dall’imperialismo russo, che con la guerra in Ucraina rischia di far scoppiare una guerra mondiale.

A questo proposito va sottolineato che la Russia è una “potenza povera”, cioè strutturalmente arretrata dal punto di vista economico-sociale e politico-democratico, ma molto forte sul piano militare. Il che spinge gli autocrati russi (dagli Zar a Putin) a trovare nell’imperialismo uno strumento fondamentale per mantenere il consenso e quindi il potere.

È chiaro che la risposta ai pericoli fatali provenienti dall’attuale disordine internazionale è un netto avanzamento del multilateralismo.

 3.) L’UE è chiamata a svolgere un ruolo determinante rispetto a questa prospettiva.

 Per rendersene conto occorre sottolineare che essa ha una vocazione strutturale ad operare in direzione di un mondo più giusto, più pacifico ed ecologicamente sostenibile.

 In sostanza ha una radicata tendenza ad ispirare la sua azione internazionale al modello della “potenza civile”, una potenza cioè che persegue il superamento della politica di potenza, in altre parole, una strutturale cooperazione pacifica sul piano internazionale.

In effetti tutti gli Stati del mondo sono di fronte alla sfida del superamento del sistema di Vestfalia (che alla fine della guerra dei Trent’anni nel 1648 ha formalizzato il sistema internazionale fondato sulla sovranità statale assoluta) perché è in gioco la stessa sopravvivenza dell’umanità, e la crisi storica di questo sistema (dovuta alla sempre più profonda interdipendenza al di là degli Stati ed alla crescente distruttività delle guerre) è il filo conduttore per comprendere gli sviluppi contraddittori della nostra epoca, che vede convivere in un equilibrio complesso e precario la politica di potenza e gli egoismi statali con le spinte al loro superamento.

 Ma in questo contesto l’UE ha un’esigenza particolarmente radicata ad operare in direzione del superamento della politica di potenza e, quindi, della sovranità assoluta.

Da una parte, infatti, l’unificazione europea — un grandioso processo di unificazione tra Stati sovrani avviatosi dopo la catastrofe delle guerre mondiali — è la prima rilevante risposta alla crisi storica del sistema di Vestfalia.

 Dall’altra parte, l’UE deve esportare la sua esperienza perché, se non si procede verso un mondo più giusto e più pacifico, è destinato ad essere compromessa l’”European Way of Life” (democrazia liberale, stato sociale, diritti umani, sensibilità ecologica, bassa spesa militare) e, quindi, lo stesso processo di unificazione europea.

 Va anche ricordato che il fatto di essere la più grande potenza commerciale del mondo implica inoltre una particolarmente profonda interdipendenza con il resto del mondo e perciò un interesse vitale a un sistema economico mondiale meglio governato e più equilibrato ed anche socialmente ed ecologicamente più sostenibile.

 E’ un dato di fatto che, nell’indicazione programmatica del proprio ruolo internazionale (nei trattati relativi all’unificazione europea e nella Dichiarazione del 2009 dell’Alto rappresentante per la PESC, Xavier Solana Un’Europa sicura in un mondo migliore, poi ripresa nelle successive dichiarazioni sulla strategia europea), l’UE non faccia riferimento solo agli interessi e alla sicurezza europei, ma anche alla pace nel mondo da realizzare attraverso la solidarietà, lo Stato di diritto, il sistema liberaldemocratico, la globalizzazione dei diritti umani, le integrazioni regionali, il multilateralismo contrapposto all’unilateralismo.

L’orientamento programmatico ha un risvolto concreto nel primato che ha l’UE, nonostante l’incompleta unificazione, per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo ed alimentare, le missioni di pace e il perseguimento dei diritti umani, il ruolo fondamentale rispetto a iniziative quali il Tribunale Penale Internazionale e l’impegno a contrastare il riscaldamento climatico.

 

Ciò sottolineato, vediamo sinteticamente le politiche che l’UE è chiamata a portare avanti per l’avanzamento del multilateralismo:

— contribuire in modo determinante a bloccare l’imperialismo russo lavorando per la pace nella guerra in Ucraina che deve comprendere: il ritiro delle forze armate russe dall’Ucraina, l’impegno ucraino a non entrare nella NATO, l’attuazione degli accordi di Minsk (che nella sostanza implicano una trasformazione dell’Ucraina in uno Stato federale implicante una reale autonomia per le zone con una forte presenza russa), l’apertura all’ingresso dell’Ucraina nell’UE (che sarebbe decisivo per la ricostruzione del paese a cui dovrà ovviamente contribuire la Russia).

Dopo la fine della guerra in Ucraina dovrà prender avvio il processo di costruzione della “Casa comune europea”, cioè dell’integrazione fra Europa, Stati Uniti e una Russia che si avvii verso il sistema democratico, anche sulla base di un Piano Marshall dell’UE e degli SUE;

— l’impegno per bloccare la guerra fredda fra USA e Cina partendo da una conferenza per la sicurezza e la cooperazione globale;

la spinta alla creazione di una “CECA mondiale” impegnata sulla sfida ecologica e quella energetica;

— una seria politica mondiale per lo sviluppo (in particolare dell’Africa) come strumento decisivo di pacificazione e di progresso democratico;

il quadro generale in cui devono inserirsi queste politiche è il processo di riforma e di democratizzazione dell’ONU che deve comprendere la regionalizzazione del Consiglio di Sicurezza e una assemblea parlamentare mondiale.

 

4.) È evidente che una politica europea efficace per il decisivo avanzamento del multilateralismo richiede un salto qualitativo della capacità di agire dell’UE sul piano internazionale, che implica a sua volta un salto qualitativo nel processo di federalizzazione europea.

 Ciò che mi sembra importane sottolineare in questa sede è che questo salto è oggi effettivamente possibile.

 

In effetti l’alternativa “unirsi o perire” che comincia a manifestarsi a livello mondiale è giunta al momento culminante in Europa, dove o c’è il salto federale in tempi rapidi, o il processo di unificazione europea si bloccherebbe e ciò favorirebbe una evoluzione catastrofica nel mondo.

Alle sfide globali ricordate (comprendente quella dell’imperialismo russo) che impongono di agire tempestivamente si aggiunge la “Conferenza sul Futuro dell’Europa” che apre la concreta prospettiva di dare il via ad un processo costituente degli “Stati Uniti d’Europa” (come ha affermato il documento che è alla base del nuovo governo tedesco).

Tutta l’azione federalista è diretta a favorire questo sviluppo che aprirebbe la strada ad un sostanzioso avanzamento del multilateralismo.

Concludo sottolineando che la parola d’ordine “unire l’Europa per unire il mondo” è non solo valida, ma particolarmente attuale.

(Sergio Pistone)

 

 

 

La corsa dell’”Unione europea” contro il tempo.

Le responsabilità dell’Italia.

Thefederalist.eu – (7 agosto 2022) – il Federalista – ci dice:

 

Il 20 luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la direzione dei processi politici.

 La crisi del governo italiano ha infatti una valenza non solo nazionale, ma investe anche l’Unione europea e tutto il fronte delle democrazie occidentali.

L’Italia è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul piano internazionale.

L’esperienza appena conclusa del governo guidato da Mario Draghi lo ha dimostrato.

Grazie al sussulto di responsabilità di tutte le forze politiche italiane che hanno accettato — con l’eccezione della estrema sinistra e di Fratelli di Italia — il patto di unità nazionale proposto dal Presidente della Repubblica e grazie all’autorevolezza e alla competenza di Mario Draghi, l’Italia non ha solo raggiunto risultati importantissimi sul fronte interno (campagna di vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica con una delle crescite più alte in Europa e a livello internazionale, politiche di sostegno sociale, avvio della diversificazione energetica, solo per citarne alcuni esempi che si aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un ruolo di leadership sul piano europeo e internazionale.

Draghi è stato l’interlocutore privilegiato degli USA in Europa per fissare la linea a sostegno dell’Ucraina, come reso evidente anche dal ruolo determinante che ha avuto nella decisione sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea;

 e nell’UE, insieme a Macron, ha guidato il fronte dei Paesi impegnati a costruire un’Europa forte e coesa, dotata di una sua indipendenza strategica.

 In questa ottica ha lavorato su una serie di proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla Conferenza sul futuro dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento europeo di aprire una Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte dichiarato di modificare in senso federale il sistema politico-istituzionale europeo.

 

Aver provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva l’Europa, fermando quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo nel confronto (accelerato e reso drammaticamente inevitabile da Putin con l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.

 

La guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e della mancanza di strumenti di difesa adeguati.

Se oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno innanzitutto americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente investito in tempi brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.

In questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili;

ma la differenza, rispetto al passato dopo il crollo dell’URSS, è che questa volta la guerra è in Europa, e il fatto che il ritardo europeo (sul piano politico, oltre che militare) sia così profondo da non potere essere colmato in tempi politicamente utili rispetto alla guerra in corso, mette a nudo chiaramente quella realtà dell’Europa “ventre molle” del fronte occidentale tante volte richiamato da analisti e politici americani.

 

Si aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.

In più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre l’opposizione democratica in Russia o in Cina è ridotta facilmente al silenzio).

 A questo va aggiunto che, di fronte alle conseguenze economiche della guerra — che ricadono su economie già gravemente colpite dalla pandemia e che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei hanno una moneta unica forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari strumenti concomitanti fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di una parte degli Stati che vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle loro carenze rispetto alle quali mancano strumenti strutturali di supporto;

mentre l’inflazione rende complesso anche l’utilizzo della leva della politica monetaria della Banca centrale, in passato determinante per salvare l’euro.

Infine, quando devono agire uniti, gli europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura decisionale che riflette la loro frammentazione e l’assenza di una sovranità comune democratica e legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in base non ad una visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di tante visioni nazionali deboli;

 in più per agire sono anche privi di vere risorse e strumenti adeguati.

 

Questo quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo nell’illusione che il “Mercato unico” fosse la risposta politica adeguata alle sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle nostre democrazie.

 La realtà, invece ha visto crescere le minacce attorno a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.

Basta confrontare le indicazioni contenute nello “Strategic Concept” della NATO e nello “Strategic Compass dell’UE”.

 Di fronte ad un’analisi molto simile delle minacce che dobbiamo fronteggiare e degli attacchi che rischiamo (altamente) di dover subire, l’uno propone le soluzioni che derivano dalla forza della potenza tecnologica e militare (grazie al ruolo degli USA);

l’altro un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche gli strumenti per avviare i lavori.

Parole da una parte, quindi, rispetto al potere reale dall’altra.

 

La descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida del cambiamento.

La riforma per costruire l’unione politica federale dell’UE è fondamentale per rafforzare la presenza internazionale dell’UE, la sua capacità di agire con autorevolezza internamente ed esternamente e anche per offrire ai cittadini e alle opinioni pubbliche (spesso sfiduciate e deluse dalle debolezze delle istituzioni e delle politiche nazionali) un progetto lungimirante e profondo di rifondazione della politica e del modello democratici.

 In un confronto tra sistemi alternativi, in cui l’autocrazia sfida con la sua apparente efficacia la complessità e la inclusività dei meccanismi decisionali democratici, il rafforzamento del sistema democratico diventa il fattore dirimente;

e, vista la debolezza strutturale a livello nazionale, è evidente che la democrazia può rilanciarsi solo se si realizza pienamente a livello europeo.

 L’evoluzione del sistema istituzionale europeo necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa orientale.

 Il tandem franco-italiano era il motore indispensabile per costruire la nuova Europa, ed è stato fermato.

 Tenendo conto di come la guerra contro l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida contro i nostri sistemi democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto determinante, questa brusca frenata è particolarmente pericolosa.

A questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.

Perché ciò accada, il 25 settembre dovrà vincere la continuità politica e istituzionale, fondata su un grande patto che si apra nuovamente in ottica nazionale, rispetto all’esperienza del governo uscente.

Tutto in teoria è possibile, benché difficile, e potrebbe anche prevalere — chiunque vinca — il senso di responsabilità verso l’interesse nazionale e la coerenza verso i valori democratici e di libertà, che sono perduti al di fuori del quadro europeo.

A sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli impegni comuni;

così come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a livello nazionale delle scelte e dei comportamenti irresponsabili che priveranno l’Italia delle protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé un unico destino:

 la crisi irreversibile e fallimento.

Anche solo se il prossimo governo vorrà schierarsi a favore di un indebolimento dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee, non solo si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE, ma si rafforzeranno parallelamente le tentazioni all’immobilismo e le regole rigide di controllo che sono così dannose per la nostra tenuta a livello di sistema paese.

 L’Italia quindi ha in mano una parte importante del destino europeo e ha, al tempo stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa. Chiunque vada al governo dopo il 25 settembre non può prescindere dal misurarsi con questo fatto.

D’altro canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il 20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio compito.

 Le forze che hanno mantenuto la fiducia a Draghi, e che hanno mostrato di essere coscienti delle esigenze vere del Paese e della necessità di porle al di sopra degli interessi di parte, sono al momento in minoranza e non sembrano riuscire ad esprimere una strategia elettorale all’altezza del grave momento storico, complice anche le incongruenze di una pessima legge elettorale.

Gli altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi di portare l’Italia su posizioni anti-NATO per quanto riguarda il sostegno italiano all’Ucraina;

 la Lega di Salvini, che ha, come il M5S, contestato Draghi sull’Ucraina e su alcune riforme essenziali del PNRR;

Forza Italia che predica il suo ancoraggio alla famiglia europea del PPE e al tempo stesso, sotto la guida di Berlusconi, mantiene l’ambiguità verso Putin e rievoca vecchi cavalli di battaglia populisti;

 infine Fratelli di Italia — cresciuto nell’opposizione al governo, alle sue riforme e alle sue scelte europee, con posizioni tradizionalmente e coerentemente anti-europee e sovraniste, aperto sostenitore dei movimenti illiberali in Europa — che in vista di una probabile vittoria elettorale e di una conseguente responsabilità di governo recupera in pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al sistema costituzionale (salvo mantenere le posizioni presidenzialiste), la continuità con l’agenda del governo precedente e si accredita presso l’Amministrazione americana come garante della posizione atlantista del suo futuro governo.

Sarà, questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel momento in cui sale al potere?

Oppure è già in nuce la presa d’atto che Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto fargli l’opposizione è stato politicamente sbagliato, anche se elettoralmente redditizio?

Potrà l’eventuale prossimo esecutivo a trazione Fratelli di Italia superare le contraddizioni che ne hanno reso probabile la nascita?

O in alternativa potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA apertamente si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri sufficienti per poter far riguadagnare immediatamente la credibilità all’Italia?

La risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche.

 In una campagna esposta agli attacchi ibridi della disinformazione e dell’ambiguità delle posizioni di molti contendenti l’Italia gioca una partita cruciale per il futuro delle democrazie occidentali.

 Un’Italia europea per un’Europa federale, sovrana e democratica è appena stata messa al tappeto dal populismo e dagli interessi di parte. Riusciranno comunque a prevalere responsabilità, buon senso e coerenza rispetto al modello liberal-democratico, insieme alla coscienza del valore dirimente dell’Europa per il nostro futuro? Sarebbe bello che questo dibattito avvenisse realmente per permettere ai cittadini italiani di prendere coscienza della vera posta in gioco il 25 settembre.

(Il Federalista)

 

 

IL RITORNO DEL LATO TRAGICO DELLA STORIA.

Thefederalist.eu – (8 -aprile -2022) – Andrea Apollonio – ci dice:

“À ce retour brutal du tragique dans l’Histoire,

nous devons de répondre

par des décisions historiques.”

 

L’invasione russa dell’Ucraina impone al mondo un brusco ritorno a una precisa logica delle relazioni internazionali, la politica di potenza, per la quale l’interesse nazionale non solo è prioritario, ma così strabordante che la sua tutela può e deve prevedere la minaccia e la reazione, se non bellica almeno economica.

 Ciò traspare in primo luogo e nella forma più tremenda nelle recenti dichiarazioni del Presidente della Federazione Russa.

L’invasione dell’Ucraina ha senza dubbio portato a un’esacerbazione di questa logica, ma dobbiamo riconoscere che essa, pur con forme diverse, si estende ora all’intero spettro dei protagonisti politici della vicenda.

Prendiamo anche in considerazione alcune parole pronunciate dal Presidente Biden, in reazione ai fatti bellici.

La tesi è confermata anche dal discorso della Presidente von der Leyen alla plenaria del Parlamento europeo del 1° marzo 2022.

 

Le dichiarazioni dei leader citati e anche i provvedimenti concreti di reazione all’aggressione russa si pongono ovviamente su un piano politico, ma anche morale, diverso, non paragonabile alle affermazioni ideologiche e alle decisioni belliche del Cremlino.

 Tuttavia, non possono sottrarsi alla logica della politica di potenza che, una volta innescata, impone a tutti gli attori coinvolti di reagire mettendo in atto misure aggressive e avanzando minacce in risposta a quelle ricevute.

Questa riemersione della politica di potenza è strettamente legata a una forte riabilitazione della retorica nazionalista.

 Ciò si manifesta soprattutto nelle motivazioni ideologiche che guidano l’aggressione russa, connotate da una violenta manipolazione politica dei fatti storici e della memoria, ma anche in questo caso dobbiamo aspettarci che le influenze travalichino spontaneamente i confini e contaminino sia i diretti aggrediti, che gli alleati e gli osservatori attoniti.

 L’ordine neo-liberale post Guerra Fredda sembra saltare per aria e con esso il principio di deterrenza, che oggi pare non sia più la temibile spada di Damocle paradossalmente utile per moderare i conflitti internazionali, ma una leva per fare la guerra con la discreta sicurezza che non ci sarà un intervento esterno, almeno sul piano militare.

A “onor del vero”, non è il ritorno della storia tout court; è il ritorno del lato tragico della storia nel continente europeo.

Se si distoglie lo sguardo dai fatti bellici che, mentre scrivo, continuano a sconvolgere il mondo e se si sceglie di adottare una prospettiva ampia e di lungo periodo, ci si rende conto che il mondo è attraversato da un pernicioso processo di ridefinizione degli equilibri e di riassestamento della distribuzione del potere tra i diversi attori politici.

La comprensione precisa delle cause di questo processo e dei possibili esiti meriterebbe non solo un’analisi approfondita, ma ricerche dispendiose, interdisciplinari e anche un maggiore dispiegamento temporale del fenomeno stesso.

Tuttavia, ritengo che si possano distinguere almeno tre aspetti evidenti: i) la progressiva erosione della capacità degli USA di essere i guardiani dell’ordine internazionale, sia per fattori di crisi endogeni, sia esogeni;

ii) la progressiva crescita dell’influenza politica e/o economica esercitata da attori de facto non-allineati (e.g. Cina e Russia);

 iii) lo stallo che impedisce al processo di integrazione europea di maturare in un esito pienamente politico e di colmare un vuoto di potere sempre più evidente.

Di fronte al disordine, a vuoti di potere, alla ridefinizione degli equilibri internazionali, quindi a nuove minacce e opportunità (a seconda della prospettiva adottata), emergono ambizioni divergenti e la logica delle divisioni e della politica di potenza trova terreno fertile.

È importante comprendere i fatti bellici che sconvolgono il mondo oggi alla luce di questo processo profondo:

Putin osa così tanto non semplicemente per adempiere al dovere della riunificazione nazionale;

né per l’assurda e deprecabile motivazione di denazificare il governo ucraino;

 né solamente per contrastare la tendenza filoccidentale manifestatasi negli ultimi anni in una regione che tradizionalmente rientrava nella sfera d’influenza russa;

 ma perché il leader del Cremlino percepisce la precarietà del vecchio ordine a guida NATO e coglie — giustamente — un’enorme debolezza politica in seno all’Europa.

 

Il fenomeno è in corso di svolgimento e non è possibile prevedere con esattezza gli esiti di queste turbolenze, che oggi si manifestano in una forma tragica in Ucraina ma che potrebbero indurre tremendi riverberi altrove.

Tuttavia, ritengo che la nostra comprensione, seppur parziale e transeunte, possa comunque poggiare su due consapevolezze.

La prima è che dobbiamo accettare l’erosione del mondo unipolare a guida statunitense.

La seconda si concreta nel fatto che la maggiore o minore capacità incisiva occidentale sulla definizione di un nuovo equilibrio mondiale stabile — che sarà in ogni caso multipolare e di relazioni internazionali pacifiche dipenderà anche dalla volontà europea di compiere un passo in senso federale, di imporsi come potenza di pace, esercitando il proprio peso politico e diplomatico — che inevitabilmente è direttamente proporzionale anche alla capacità militare — per ristabilire con gli altri protagonisti un nuovo equilibrio e riprendere assieme a loro quel lungo e non lineare cammino per la costruzione di un mondo che, di fronte alla sempre maggiore interdipendenza materiale, saprà riconoscere l’esigenza di imporsi regole più stringenti per evitare di capitolare nuovamente nel caos.

La “Conferenza sul futuro dell’Europa” anticipa provvidenzialmente l’esigenza appena espressa.

L’esito di questo esperimento di “democrazia partecipativa sovranazionale” è chiaro e ulteriormente legittimato dai drammatici sviluppi di queste settimane:

più democrazia europea, meccanismi democratici per definire la politica dell’UE, maggiore efficacia e capacità di azione delle istituzioni europee.

In una fase così tragica e cruciale, queste aspettative non possono essere tradite, ma anzi devono essere accolte e realizzate attraverso riforme concrete che portino alla nascita di una vera sovranità europea democratica;

 per il futuro d’Europa, per il futuro del mondo!

(Andrea Apollonio)

 

 

ZTL, “CITTA’ IN 15 MINUTI” E RICONOSCIMENTO

FACCIALE: PROVE TECNICHE D’ESCLUSIONE SOCIALE.

 

lapekoranera.it – (11 Maggio 2023) – Redazione – ci dice:

Si respira aria di lotta, quasi da guerra civile, nelle periferie di Milano e Roma.

La gente meno accorsata economicamente non ci sta al piano d’esclusione sociale tristemente noto come “acquartieramento”, anche detto “città da quindici minuti.”

 In Gran Bretagna la giunta municipale di Oxford ha già approvato la divisione in quattro quartieri della città, ai residenti comuni non è permesso sortire dal proprio rione per più di cento volte l’anno:

 pena una sanzione di oltre ottanta sterline, nei casi di reiterazione sospensione di patente e misure detentive, soprattutto per disoccupati e pensionati sprovvisti di un valido motivo per sortire dalla propria zona.

 Il capitalismo fiscale di sorveglianza ha bisogno d’irreggimentare tutti gli umani, di controllarli continuamente:

 il compito di governi ed organizzazioni sovrannazionali, come vi abbiamo già spiegato, è introdurre l’obbligo alla tracciatura costante del cittadino.

 Chi eluderà gli obblighi, soprattutto non rispetterà i limiti a spostamenti e movimenti, o per diverse ore al giorno non risulterà tracciabile, assurgerà a criminale cibernetico, a nemico del sistema.

Ecco che governi locali e nazionali approcciano la nuova teoria urbanistica promossa a Davos circa quindici anni fa:

 acquartieramento o città in quindici minuti.

Una teoria che influenza leggi e delibere, dominando buona parte dei progetti infrastrutturali riguardanti il modo in cui si potranno spostare i cittadini dell’Unione Europea:

La “Città dei 15 minuti” ha origine in Francia ma subito trova applicazione in Gran Bretagna, ed oggi affascina i sindaci di Roma e Milano.

“Le persone e il loro benessere come primo obiettivo dell’organizzazione urbana”:

sostiene ipocritamente Carlos Moreno (urbanista della Sorbona di Parigi che nel 2016 ha inventato la “Città dei 15 minuti” su spinta della giunta parigina).

 Il progetto in sostanza prevede che il cittadino debba raggiungere tutto l’essenziale a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici entro un quarto d’ora, soprattutto evitare di girovagare per altri quartieri della città.

Nel 2020 il sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, complice la pandemia che aveva bloccato ogni spostamento cittadino, ha inserito la “Ville du quart d’heure” al centro della propria campagna di rielezione:

promettendo l’acquartieramento ed il blocco dei cittadini nei rispettivi perimetri rionali, e perché il movimento ed il lavoro umano sarebbero le prime cause d’inquinamento.

“Il concetto di ‘Città dei 15 minuti’ dovrebbe essere visto come una serie di principi guida – ha spiegato in un’intervista l’urbanista “Zaheer Allam” dell’Università di Deakin in Australia – che le città possono adattare ed applicare ai propri bisogni e sfide”.

Oltreoceano a Portland, in Oregon, è stato fissato l’obiettivo entro il 2030 di rendere ai residenti raggiungibili i punti necessari alle rispettive esigenze quotidiane, in modo che i cittadini abbiano tutto nel quartiere e vengano privati dei motivi per valicare i confini della propria zona.

Trasformare le città in luoghi in cui si può far tutto in meno di quindici minuti è per certi il modo per combattere l’inquinamento ed il consumo del Pianeta.

Ma non tutti la pensano così.

 Dietro quest’obiettivo ambientalista si nasconde il progetto di ghettizzare le comunità escluse dalle scelte di politica finanziaria ed industriale: le classi basse e medie.

 Insomma isolare per sempre, e nei rispettivi quartieri, i cittadini esclusi dalle scelte politiche locali, nazionali e globali.

Al momento esiste già in Italia il progetto di una “città dei 15 minuti”:

 a Roma nel 2021, il Sindaco Roberto Gualtieri l’aveva inserita nei propri piani di governo locale, e come lui altri sindaci del Partito democratico in accordo con esponenti del Centro-destra e dei 5 Stelle.

A Milano e Torino la “città dei 15 minuti” potrebbe decollare prima che a Roma, ma questo richiede senza dubbio la collaborazione del Ministero dell’Interno, che scongiurerebbe la periferia possa sfogare l’ira da esclusione sociale.

A favore dell’acquartieramento dei cittadini c’è l’“Osservatorio nazionale sulla Sharing Mobility”, che ha scritto nel suo report che sessantadue città italiane avrebbero già servizi di condivisione sufficienti a chiudere i cittadini nei rioni di residenza.

A conti fatti l’operazione acquartieramento è partita:

le forze di polizia, grazie all’ausilio di telecamere per il riconoscimento facciale, dovrebbero ridurre i cittadini all’idea che sortire dal proprio rione costa caro, multe ed arresti.

 Non è dato sapere chi possa spuntarla, ma già si parla di probabile guerriglia urbana, perché i primi a non poter sortire dalla propria zona dovrebbero essere i disoccupati e quelli in perenne ricerca di lavoro.

Insomma l’Europa ha imboccato la via della società ecologica ed esclusiva: se hai soldi ed incarichi ti puoi muovere, diversamente resti in gabbia.

MULTINAZIONALI INFORMATICHE

E “FAKE NEWS”: I ROBOT SONO

PRONTI A CONTROLLARE E CENSURARE GLI UMANI.

Lapekoranera.it – (10 Maggio 2023) – Redazione – ci dice:

 

Google e YouTube spingono per la lotta alla disinformazione, investendo 13,2 milioni di dollari per sostenere l’international Fact-Checking Network (Ifcn) a cui s’aggancia il finanziamento di un fondo (il Global Fact Check Fund):

vi attingono 135 organizzazioni da 65 Paesi che combattono la disinformazione in circa cento lingue diverse.

 Parimenti il sistema investe anche nell’”AI” (intelligenza artificiale) che sta producendo “fake news” comode alla grande speculazione finanziaria.

L’investimento prevede che, l’intelligenza artificiale possa nel breve periodo controllare e sanzionare ogni movimento o pensiero umano.

Così i “media istituzionali” esclamano farisaicamente “È la sovvenzione più grande mai effettuata da Google e YouTube per il fact checking”, e i “complottisti” rispondono dimostrando carte alla mano le tante” fake news “messe in giro dai motori di ricerca gestiti dai robot, intelligenza artificiale a servizio delle multinazionali.

 Il “Global Fact Check Fund” sovvenzionato da Google è operativo da inizi 2023, e sta già portando novità per l’utenza mondiale del colosso americano.

 Tra i risultati già evidenti c’è l’indirizzamento della ricerca dell’utente: l’intelligenza artificiale individua il contesto sociale in cui opera l’utenza e la guida sino a censurarne alcune ricerche.

 Lo stesso sta facendo YouTube che, in nome del “fact checking”, mostrerà solo i video ricercati coerenti con le politiche delle multinazionali.

 “Oltre ai titoli, si vedrà un estratto originale del testo insieme alla valutazione verificata da organizzazioni indipendenti”, dicono Google e YouTube.

Tutto monitorato dall’intelligenza artificiale “Fact Checker Explorer”, che attinge da un database di 150 mila fonti definite “attendibili a livello globale” dagli esperti di comunicazione delle multinazionali.

 Dal 2018 ad oggi “Google News Initiative” ha investito quasi 75 milioni di dollari in progetti e partnership, tutti votati a rafforzare l’alfabetizzazione mediatica indirizzata a combattere l’informazione “non istituzionale” in tutto il Pianeta.

 Ma c’è anche il rovescio della medaglia, negato dai servizi d’informazione di stati e multinazionali, ovvero le fake news generate dall’intelligenza artificiale.

Le grandi società informatiche hanno costruito circa un centinaio di testate giornalistiche interamente gestite e realizzate dai robot della famiglia “ChatGPT & co”, strutture che fanno soldi da disinformazione e raccolgono pubblicità dalle multinazionali:

 in gergo vengono appellate “newsbot”, hanno il compito di deviare e sedare la dissidenza verso il sistema globale.

Si tratta di sistemi automatizzati, come quelli che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi tempi, e rispondono al nome “umanoide” di ChatGPT o Bing Chat, e sono graditi a “Google Bard”.

Si tratta di siti pieni zeppi di annunci pubblicitari, con il preciso obiettivo di far ingoiare all’utenza la “filosofia green”, ovvero che il fattore antropico è il primo imputato per l’inquinamento globale, che il lavoro umano è nemico dell’ecologia, che i robot non inquinano, che la “povertà sostenibile” salverà il pianeta.

Questi siti fanno cassa con la pubblicità delle multinazionali che, come se non bastasse, li piazzano tra i più visitati ed ascoltati grazie all’aiuto degli algoritmi di nuova generazione, tutti gestiti dai colossi della tecnologia:

a questi siti non vengono richieste fonti della notizia, ci sono sottotitoli o sommari, foto false e grottesche, vi regna un caos assoluto, e la responsabilità della diffusione non è tracciabile;

ma scalano le vette della diffusione perché strumenti del sistema di manipolazione.

Gli articoli generati dall’intelligenza artificiale riassumono o riscrivono contenuti prodotti da altre fonti:

servono soprattutto per contrastare l’informazione libera ed indipendente, ovvero i nemici degli uffici comunicazione delle multinazionali.

L’invasività dell’intelligenza artificiale pilotata dalle multinazionali sta manifestandosi anche sui social:

concentrando migliaia di “follower favorevoli” ai soggetti graditi al sistema, oppure boicottando le pagine critiche verso grandi industrie energetiche e finanziarie.

Di fatto i contenuti prodotti da “ChatGPT & co” sono graditi a pochi, e servono per persuadere tutti gli umani.

Il capitalismo fiscale di sorveglianza ha bisogno d’irreggimentare tutti gli umani, di controllarli continuamente, di scongiurare il confronto d’idee:

“ChatGPT” è oggi lo strumento prescelto dalle élite per persuadere ed ammansire gli umani, il resto del lavoro sarà compito di governi ed organizzazioni sovrannazionali che, ben presto, introdurranno l’obbligo alla tracciatura costante del cittadino.

Chi eluderà, per diverse ore al giorno non risulterà tracciabile, assurgerà a criminale cibernetico, a nemico del sistema.

Negli Stati Uniti da almeno un centinaio d’anni esistono società private che gestiscono carceri e sistemi di controllo dei detenuti, e da qualche tempo si parla di multinazionali della sicurezza pronte a gestire la detenzione in Occidente.

 Al carcere per chi eluderà la tracciabilità continua e costante pare ci stia pensando Bruxelles, e con buona pace di certi paladini della liberà votati ed eletti per difenderci:

 probabilmente si giustificheranno con il solito motto “lo ha chiesto l’Europa”.

 

 

 

 

 

LA INUTILE CONTROFFENSIVA UCRAINA.

Lapekoranerfa.it – (26 Aprile 2023) - Redazione - Manlio Lo Presti – ci dice:

 

Come si fa ad affermare che la controffensiva ucraina-Nato sarà efficace contro un potenziale militare russo venti volte superiore? (fanpage.it/esteri/cosa-succedera-se-la-controffensiva-ucraina-a-kherson-avra-successo-secondo-il-generale-chiapperini/).

Nonostante i venti tumori attribuiti a Putin, dalla grande e “indipendente” stampa occidentale, rimale letale la potenza di reazione russa, ad un livello distruttivo tale da costringere la “Nato” alla prudenza sulla mancata consegna di aerei all’Ucraina.

Ben poco possono fare gli specialisti angloamericani, francesi, polacchi e soprattutto della Nato presenti in Ucraina sotto copertura assieme alle divisioni di mercenari pagati dai colossi multinazionali privati anglo franco tedeschi USA.

La Russia risponderà con un lento abbraccio mortale su un territorio che conosce bene e da più tempo delle truppe speciali occidentali.

La lentezza è la sua arma assoluta.

Potrebbe usare anche il gas per uccidere migliaia di “fantasmi” – specialisti e mercenari – che l’asse Nato non potrà denunciare per non scoprire le carte.

Nel frattempo, il dissanguamento militare e demografico dell’Ucraina continua fino a diventare irreversibile, rendendo impossibile la sua integrazione nella Nato e nell’Unione europea.

La strategia russa è la lenta demolizione e la trasformazione dell’Ucraina in terra desolata che i soccorritori abbandoneranno al suo destino, perché i costi di ripristino non saranno mai coperti.

L’Occidente è responsabile di aver ridotto questo territorio come la Siria, Iraq, Filippine, Vietnam, Indonesia Libia e altri.

Ma nessuno ne risponderà personalmente e direttamente di fronte al tribunale della Storia.

Gli sterminatori continuano ad autoassolversi…

 

 

 

 

Nuove alleanze per

uscire dell’interregno.

Legrandcontinent.eu – (27-5- 2022) – Mario Pezzini – ci dice:

 

 

Prospettiva Politica.

La guerra in Ucraina non ha ricomposto un mondo in blocchi. Ma perché gli occidentali si sono sorpresi di trovarsi "soli al mondo"?

Secondo Mario Pezzini, la via d'uscita dall'interregno in Europa consiste nell'affrontare i problemi repressi e nel costruire alleanze strategiche.

Le scene di un’incomprensione.

Molti paesi del Sud si sono astenuti o non si sono presentati alla votazione sull’”Aggressione contro l’Ucraina” all’Assemblea Generale dell’ONU il 24 Marzo scorso.

Perché?

E questo tanto più che l’aggressione russa va contro una serie di capisaldi difesi con insistenza da molti paesi del Sud, come il rispetto della sovranità’ nazionale.

Per esempio, si noti che i paesi africani, una volta liberatisi del giogo coloniale, invece di modificare i confini che avevano loro imposto le potenze mondiali e di aprire conflitti incontrollabili, decisero di accettare quei confini e di cercare piuttosto forme di cooperazione tra stati e di integrazione regionale che usassero mezzi economici e politici per far fronte ad una delle deprecabili eredità coloniali.

Sarebbe dunque auspicabile che si indaghi al più presto ed in profondità le ragioni e le cause delle posizioni del cosiddetto “Sud”.

Tanto più che non sono posizioni episodiche, sono state confermate ed hanno anzi riguardato un numero ben più’ vasto di paesi all’occasione del voto della risoluzione per sospendere la Russia dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite il 7 di Aprile.

Ma vi è un’altra domanda che sorge in parallelo: perché i paesi “occidentali” sembrano essere stati presi di sorpresa dalle posizioni del “Sud”?

Perché molti di loro avevano dato per scontato un esito diverso, salvo poi moltiplicare in extremis gli sforzi diplomatici per contenere il fatto che il “Sud” non si stava mettendo ordinatamente in fila dietro l’”occidente”?

Che equivoci si celavano nelle aspettative?

 E perché lo stato reale e non fantasmatico delle relazioni “occidente” e “Sud” era rimasto a molti invisibile?

 Lo stupore in questione, in alcuni casi si è parlato addirittura di “sbalordimento”, testimonia forse di una serie di dinieghi con cui sarebbe bene fare i conti.

Tanto più che nel corso del tempo diversi segnali hanno avvisato dei limiti delle narrative prevalenti in tema di relazioni tra “occidente” e “Sud”.

Uno di questi segnali è persino apparso di recente, poco prima del voto alle Nazioni Unite.

Nel corso del tempo diversi segnali hanno avvisato dei limiti delle narrative prevalenti in tema di relazioni tra “Occidente” e “Sud”.

(MARIO PEZZINI)

Infatti, il summit Unione Europea/Unione Africana tenutosi a Bruselles in febbraio è stato il teatro di un dibattito per certi versi illuminante.

Molti osservatori hanno riportato di un clima generale molto più’ favorevole al dialogo che nel passato e senz’altro più che ad Abidjan, dove si tenne il summit precedente nel 2017.

Tra le varie ragioni di questo clima vi sarebbero non tanto ben note considerazioni di prossimità geografica e storica, che in verità’ sono ripetutamente ormai da decenni.

 Quanto dell’altro: interessi urgenti e convergenti, come per esempio il tentativo di ridisegnare le catene globali di valore a favore di una loro maggiore presenza e coordinazione in Africa ed in Europa, o la necessità condivisa di rispondere alle domande dei giovani africani che si affacciano in massa alla società, o ancora il ritardo insostenibile nell’affrontare le campagne vaccinali, che sono un bene pubblico globale.

Va da sé che l’invasione russa, cronologicamente successiva al summit di Bruselles, ha moltiplicato la lista degli interessi convergenti.

Ora, un tale clima favorevole al dialogo ha permesso una discussione più’ franca del solito.

Per esempio, sullo sviluppo dell’industria farmaceutica in Africa, sul modo di intraprendere la transizione ecologica o sulla valutazione del rischio che i paesi occidentali continuano a sovrastimare quando si tratta di investimenti in Africa e nei paesi del “Sud”.

Gli esempi potrebbero continuare, ma vorrei sottolinearne in particolare uno, che mi pare cruciale per le questioni geopolitiche trattate qui: quello sulle “alleanze”.

In chiusura del summit, la parte europea avrebbe voluto annunciare una “nuova alleanza” tra Europa e Africa, mentre la parte africana ha preferito parlare solo di “un partenariato rinnovato”.

“SEM Macky Sall”, Presidente in esercizio dell’Unione Africana, è stato esplicito in proposito.

 

Anche in questo caso, la reazione africana ha prodotto una sorpresa europea, tanto più’ significativa per il clima generale di dialogo.

 Infatti, non la si può’ liquidare di un rovescio della mano, pretendendo sia stata un espediente retorico o negoziale e tanto meno polemico e passeggero.

Ma allora, perché’ i negoziatori europei hanno pensato che l’atto stesso di proporre “un’alleanza” avrebbe incontrato una facile adesione?

Come è possibile che non abbiano visto arrivare una divergenza esplicita?

 

In questo caso, come in quello dei voti alle Nazioni Unite, la sorpresa è ad un tempo sorprendente ed utile, insomma da non sprecare.

 È un indizio che ci invita ad aprire un cantiere per rivedere la narrativa sul cosiddetto “Sud” e sulla sua posizione che gli assegniamo nelle carte geopolitiche.

Si tratta di mettere in questione modi di pensare sedimentatisi nel tempo in credenze, opinioni, atteggiamenti e valori che pretendono descrivere, spiegare e giustificare i giudizi occidentali sui paesi della “periferia”.

Un tale cantiere è molto impegnativo e complicato:

richiede più’ voci che interagiscano in uno spazio pubblico confortevole, come può’ essere per esempio “Le Grand Continent”.

 Ma è un cantiere indispensabile ed urgente, se l’intento di perseguire un’”autonomia strategica” europea va preso sul serio.

Ad ogni modo va ben al di là’ di ciò che è possibile fare in un solo articolo come questo dove mi limiterò’ ad alcuni spunti per continuare il dibattito lanciato dal “Grand Continent” sulle” Politiche dell’Interregno.”

 Dove “interregno” richiama evidentemente ciò che Antonio Gramsci aveva descritto in carcere:

 “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Una delle reazioni immediate nell’attuale interregno è stata quella di pronosticare un ritorno al bipolarismo, sotto forma di un mondo ad una dimensione dove si celebrerebbe un duello tra due “blocchi” che si pretendono esaustivi e contrapposti:

il “mondo libero” che si presume condivida valori tradizionali e sia sempre più’ unito;

contro l’altro blocco, sempre più’ autocrate e totalitario.

 Nel mezzo?

 Nulla o poco più di un residuo, perché’ nel mondo ad una dimensione non vi sono alternative ai blocchi.

(MARIO PEZZINI)

Figure di stile nelle “politiche dell’Interregno”

Il ritorno al bipolarismo?

Una delle reazioni immediate nell’attuale interregno è stata quella di pronosticare un ritorno al bipolarismo, sotto forma di un mondo ad una dimensione dove si celebrerebbe un duello tra due “blocchi” che si pretendono esaustivi e contrapposti:

il “mondo libero” che si presume condivida valori tradizionali e sia sempre più’ unito;

 contro l’altro blocco, sempre più’ autocrate e totalitario.

 Nel mezzo?

Nulla o poco più di un residuo, perché’ nel mondo ad una dimensione non vi sono alternative ai blocchi.

 Si tratta di un’allusione a modi di pensare degli anni ‘30 che si era già’ manifestata prima della guerra in Ucraina, per esempio con l’idea di un “Concerto delle Democrazie” o di un “Summit per la Democrazia”, ma che l’invasione Russa ha rinvigorito.

 

La chiamata a raccolta del “mondo libero” evoca diverse questioni, alcune in principio condivisibili come quelle connesse alla lotta all’autoritarismo, alla domanda endogena e dal basso di partecipazione, alla condanna delle “Fake News”, alla sicurezza elettorale e soprattutto nazionale.

 Ma allo stesso tempo, in questa fase di interregno e di caos delle visioni, è un richiamo nostalgico ed ideologico ai rapporti di forza internazionali della guerra fredda, una narrazione memoriale molto ispirata dai conflitti domestici negli Stati Uniti e poco comprensibile in un quadro internazionale sempre più’ complesso, irriducibile a semplificazioni manichee ed all’essenzialismo morale.

 Insomma, sembra si voglia sempre più’ accelerare la storia, ma in realtà’ il movimento storico sembra avanzi sempre meno.

 

Ad ogni modo, sebbene l’aggressione russa sembri riportarci alla guerra fredda e ad un mondo Westphalliano con giochi a somma zero tra potenze che cercano di sottomettere gli altri paesi al loro volere e di perseguire i loro interessi senza ostacoli, essa ha prodotto reazioni diverse dal bipolarismo ed” unexpected results”.

 

In primo luogo, come si è detto in apertura di questo articolo, i paesi del “Sud” non sono confluiti in massa in uno dei presunti due blocchi, benché’ stiano già pagando duramente le conseguenze indirette della guerra.

 L’appello al bipolarismo può difficilmente convincerli, se non altro a causa delle incongruenze che lo caratterizzano.

 Oggi più di ieri, è difficile disegnare a colpo d’occhio il bordo di ogni “blocco” ed escludere dalla comunità’ chi non vi appartenga o chi minaccerebbe gli interessi di uno dei suoi membri.

Infatti, i paesi democratici intrattengono relazioni frequenti, ripetute ed anche dense con paesi ben meno democratici di loro.

Gli uni e gli altri possono intendersi su alcune questioni, ma divergere su altre.

 Inoltre, le caratteristiche che prevalgono all’interno dei presunti blocchi sono meno omogenee e più’ sfumate di quanto a volte si voglia far credere.

 In particolare, vi è una certa erosione dei principi democratici, con alcuni paesi che adottano criteri di chiusura, offuscamento della trasparenza e limiti al pluralismo lontani dai cosiddetti valori condivisi.

Infine, l’appello ideologico presume il ritorno immediato ad una missione egemonica per gli Stati Uniti, con responsabilità’ ed impegni internazionali che sono messi in dubbio dalle tensioni profonde nella società e politica statunitense: si pensi all’insofferenza crescente negli USA sulle costrizioni esterne alla potenza americana e alle tendenze domestiche di tipo antidemocratico ed anche autoritario, incluso l’epilogo violento dell’amministrazione Trump.

 

In secondo luogo, gli stessi paesi che costituiscano il preteso nocciolo duro dei due campi sono meno allineati di quanto si pretenda.

 Non vi è dubbio che la NATO sia stata rinforzata dalla guerra in corso rispetto alle critiche di cui era stata oggetto negli ultimi anni, ma anche lo spazio per un’autonomia strategica europea si è riaperto con straordinario ed inatteso vigore; si veda, per esempio la nuova posizione tedesca sulla difesa.

È una tappa supplementare che, sommata al famoso “whatever it takes” del 2012 ed al piano “Next Generation EU”, rinforza l’autonomia e sovranità europea.

Si ricordi che questi termini furono rifiutati seccamente non più tardi di due anni fa nonostante le crepe dell’incanto atlantista fossero aumentate sotto Donald Trump.

Vi sono almeno due condizioni a che l’autonomia strategica si rafforzi ulteriormente.

La prima è che gli europei se ne approprino con determinazione e che ognuno non solo spenda di più’, ma che spenda di più’ insieme, come ha sottolineato Josep Borrell:

la capacità’ dei singoli stati membri di far faccia all’agenda attuale è insufficiente e ci si deve rendere conto che i costi di una soluzione europea sono molto più’ bassi dei costi di non averla.

La seconda condizione è che l’Europa riconosca che non incarna spontaneamente la solidarietà del resto del mondo e deve investire nel partenariato (e non la carità) con i paesi del Sud ed in priorità’ con l’Africa e l’America Latina.

 Si tratta di coltivare nel tempo una vera alleanza che, contrariamente alle convinzioni arroganti, non è già acquisita, ma è piuttosto da costruire.

 Mi accingo a tornare su questo punto.

Ad ogni modo, sebbene l’aggressione russa sembri riportarci alla guerra fredda e ad un mondo Westphalliano con giochi a somma zero tra potenze che cercano di sottomettere gli altri paesi al loro volere e di perseguire i loro interessi senza ostacoli, essa ha prodotto reazioni diverse dal bipolarismo ed “unexpected results”.

(MARIO PEZZINI)

Quanto alla Cina, sembra sia più’ una variabile che un dato del problema.

 La Cina non è ad oggi identificabile in un blocco.

 Si trova piuttosto in una situazione complessa il cui esito è meno scontato di quanto diversi attori vorrebbero far credere.

 Da un lato, per esempio, la Cina si confronta con la sua tradizionale e forte avversione all’incertezza e alla mancanza di stabilità’ nelle relazioni internazionali;

non ha interessi diretti in gioco;

tende a dare priorità’ in generale alla sovranità’ e integrità territoriale nelle relazioni tra stati;

tende a difendere la” Carta delle Nazioni Unite” quando sono minacciati i confini tra stati;

si è astenuta ai recenti voti alle Nazione Unite.

 Dall’altro lato, per esempio, la Cina ha stretto un rapporto di partenariato con la Russia, con cui condivide confini lunghissimi;

diffida degli Stati Uniti che l’hanno designata da tempo come l’avversario strategico;

teme che il risultato finale del conflitto sia l’istaurazione di un nuovo ordine mondiale che le sia ostile e che miri alla sua destabilizzazione.

 I pesi e le interazioni di questi diversi fattori – e di altri visto che qui si sono fatti solo pochi esempi – sono ancora incerti e l’equazione non ha dunque ancora una soluzione.

Non pare quindi ragionevole cercare di intimidire la Cina per presunti suoi cedimenti alle richieste russe e di spingerla ad un matrimonio prematuro e su procurazione con la Russia i cui esiti potrebbero essere tanto incontrollati che disastrosi.

 Sembra piuttosto auspicabile di lasciare al massimo aperte le possibilità di dialogo con la Cina e di non cedere ai più o meno lusinghieri ritorni ad un mondo diviso in due blocchi contrapposti.

Il ritorno all’egemonia economica occidentale?

In questa fase di interregno, un altro” Dinieghi “appare nei modi prevalenti di vedere l’economia del Sud e nella presunta egemonia su quell’area geografica delle visioni occidentali.

Non si prende atto fino in fondo che, a partire dalla fine del secolo scorso, potenti trasformazioni sono apparse nel Sud e si tende a considerarle come fenomeni passeggeri, incapaci di trasformare in modo durevole il paesaggio globale.

La realtà è un’altra: unita alle conseguenze della decolonizzazione e della caduta della cortina di ferro, lo sviluppo del Sud ha modificato la geografia e disegnato un mondo diverso da quello del secondo dopoguerra.

Per molti anni, circa 80 paesi non-OCSE hanno registrato una crescita spettacolare, più del doppio di quella del cosiddetto occidente.

 Attorno al 2010, il PIL prodotto dai paesi non-OCSE ha sorpassato quello dei paesi OCSE, in parità di potere d’acquisto.

Per chi avesse voluto analizzare questa trasformazione più in dettaglio, sarebbe apparso già allora chiaro che i cambiamenti andavano ben al di là’ della crescita del PIL e riguardavano molteplici aspetti della struttura economica globale tra cui gli scambi commerciali, la produzione, la struttura sociale, la finanza internazionale.

 Inoltre, si poteva già intuire che questa trasformazione avrebbe finito per modificare le relazioni internazionali e gli equilibri di potere, se non i nostri modi di pensare, vittime di ideologie straordinariamente conservatrici, convenzionali ed inerziali.

 

Attorno al 2010, il PIL prodotto dai paesi non-OCSE ha sorpassato quello dei paesi OCSE, in parità di potere d’acquisto.

(MARIO PEZZINI)

La Cina divenne attorno a quegli anni il primo paese partner commerciale dell’Africa, dell’Asia emergente e di diversi paesi latino americani.

 E non fu solo questione di Cina.

 Benché’ quest’ultima fosse la principale locomotiva del cambiamento, si sommarono ad essa paesi come l’India, il Brasile, il Sud Africa, la Turchia, la stessa Russia, i dragoni asiatici ed altri ancora.

 Questi paesi influenzarono in modo profondo le catene globali di valore.

La manifattura si rilocalizzò nel Sud in proporzioni più che significative e la domanda di risorse naturali crebbe considerevolmente in volume e prezzi, offrendo una finestra di opportunità’ a molte economie in sviluppo.

 Sul piano sociale vi fu una straordinaria riduzione della povertà estrema (da 1.9 miliardi nel 1990 a 735 milioni nel 2015);

una redistribuzione radicale delle ineguaglianze tra paesi, regioni ed individui;

la formazione di una cospicua cosiddetta “nuova classe media”;

 lo slittamento delle riserve monetarie e degli assets finanziari verso l’Est ed in parte il Sud.

Queste potenti trasformazioni si mossero nel tempo ad un passo relativamente lento, ma inesorabile: produssero cambiamenti epocali, come giganteschi movimenti geologici e contraddicono profondamente le narrative prevalenti, a cominciare da quella della “fine della storia”.

 

Tuttavia, tali cambiamenti rimasero a lungo invisibili.

Per il loro stesso carattere geologico e di tendenza, tardarono ad essere registrati dalle nuvole di “tweets”, spesso governate dall’ansietà evenemenziale dell’oggi, o dalle pagine dei giornali, anch’esse scolpite sul quotidiano.

 Ma anche i più’ allenati “occhiali” degli osservatori e dei “policy makers” occidentali li percepirono a fatica.

In conseguenza, le narrative geoeconomiche occidentali continuarono ad essere quasi esclusivamente costruite sui modelli tradizionali di modernizzazione.

Ancora oggi in molte riflessioni in occidente lo sviluppo è concepito come l’evoluzione di paesi in “ritardo” lungo un sentiero unico, tracciato all’origine dai paesi occidentali.

 I “ritardatari”, i paesi del Sud, continuano ad essere visti come “impacciati” da “ostacoli” interni, da istituzioni arcaiche ed inadatte allo sviluppo, di cui sarebbero i soli responsabili e di cui dovrebbero sbarazzarsi al più presto.

Fatto ciò, ripulite le scorie del passato, i meccanismi di mercato porterebbero stabilmente la popolazione fuori dalla povertà’ estrema e produrrebbero una convergenza economica quasi automatica nel medio-lungo termine.

La congettura circa un unico sentiero di sviluppo avrebbe dovuto apparire già’ all’origine come assai discutibile e riduzionista.

 Pur tuttavia si è mantenuta con vigore ed è tutt’oggi un ostacolo alla percezione del cambiamento.

 Pertanto, non mancano casi di paesi emergenti cresciuti in modo spettacolare, ma non “ortodosso”.

Questi paesi possono aver considerato alcune delle “lessons learned” dell’occidente, non necessariamente sempre le stesse;

 ma le hanno in genere adattate al loro contesto.

Hanno spesso preso in conto l’asimmetria delle proprie strutture produttive rispetto a quelle dei paesi già sviluppati, la difficoltà’ che quell’asimmetria induce per la loro trasformazione produttiva ulteriore, ed hanno elaborato delle politiche industriali conseguenti, benché’ il pensiero ortodosso le bandisse.

 Ne’ mancano casi di paesi “diligenti” che non hanno tratto un beneficio significativo dalle raccomandazioni “ortodosse”.

 Per esempio, che hanno seguito la raccomandazione di integrarsi nelle reti del commercio internazionale e tuttavia rimangono poveri, o addirittura si sono impoveriti.

Senza contare che in molti casi gli stessi paesi occidentali hanno seguito pratiche diverse nel passato da ciò che predicano come prerequisiti indispensabili allo sviluppo nel presente.

 

Quindi, perché pensare che l’offerta di un’alleanza economica esclusiva con i paesi occidentali debba essere salutata dai paesi del Sud come il più invidiabile dei tesori, al punto da aderirvi di slancio?

 La risposta non è evidente, eppure spesso i paesi occidentali, in quanto “first comers” dello sviluppo, continuano a pretendere di essere i più’ legittimi a prescrivere raccomandazioni e disseminare” standards e Best Practices” ai paesi del Sud.

In tema di politiche economiche o in tema di democrazia, visto che pretendono vi sia una relazione biunivoca tra successo in economia e democrazia, non meglio definita.

 E visto che insistono sui loro standards come una condizione necessaria e sufficiente allo sviluppo e non, per esempio, come un suo effetto o la traduzione dei loro interessi.

Questa narrativa si è tradotta in varie forme che vanno dalla propaganda, alla condizionalità’, all’applicazione di consensi come quello di Washington, a programmi per la diffusione di standards nei paesi del Sud ed ha avuto un forte carattere normativo.

Ai paesi del Sud è stato spesso chiesto di modificare in modo accelerato la loro legislazione, le loro politiche e i loro calendari.

 Ma per quanto questi ultimi possano aver acconsentito, vivono un’insofferenza crescente, almeno della loro opinione pubblica, verso l’eterodeterminazione.

Perché pensare che l’offerta di un’alleanza economica esclusiva con i paesi occidentali debba essere salutata dai paesi del Sud come il più invidiabile dei tesori, al punto da aderirvi di slancio?

(MARIO PEZZINI)

In alcuni casi, tuttavia, si è’ provato ad andar oltre la logica normativa ed a tentare esperimenti multilaterali innovatori che inizino con una logica interpretativa.

 Per esempio, reti di paesi che si riuniscono regolarmente per condividere informazioni ed esperienze e, se possibile, per costruire comprensioni condivise delle tendenze economiche e delle politiche.  

Questi tavoli, in teoria, potrebbero elaborare un “setting”, la cornice strutturata di un dialogo tra “pari” con i paesi del Sud ed ingaggiare una revisione delle narrative tradizionali, del Nord come del Sud.

 Purtroppo, oggi attorno ad essi i paesi del Sud sono invitati con parsimonia o, ancora più’ spesso, continuano ad essere esclusi;

su questi tavoli asimmetrici prevale una logica normativa;

ed i contenuti della cooperazione continuano, salvo poche eccezioni, a concentrarsi sulle “riforme di mercato”, sull’apertura al commercio, sull’adozione di standards in tema di istituzioni, corruzione, privatizzazioni, tasse ed aiuti finanziari.

Molto poco sui temi dell’inclusione sociale, dei diritti dei lavoratori e dello sviluppo territoriale, degli investimenti pubblici che pure sono stati cruciali, per esempio, nella costruzione europea.

 Ancor meno delle caratteristiche sui generis dello sviluppo nei paesi del Sud.

 Così, parole come “sviluppo” e “cooperazione” si sono trasformate in sinonimi di “crescita economica” ed “assistenza” o “aiuti”.

 

Nell’interregno.

Il caos pandemico non ha una vita ultraterrena.

Eppure, dietro le immagini mostruose che sfilano sui nostri schermi, oltre le polemiche che agitano i nostri dibattiti, nella vertigine delle crisi del 2020, un nuovo mondo sta per emergere.

Siamo ancora nell’interregno.

 Stiamo vivendo sconvolgimenti difficili da descrivere, trasformare o fermare. Stiamo camminando sull’acqua o siamo sull’orlo di un punto di svolta?

La solitudine della potenza senza egemonia?

In questa fase di interregno, si incontra spesso un terzo diniego.

 Questa volta legato alle “alleanze” e, più’ in generale, a questioni che hanno a che fare direttamente con la solidarietà’ e la cooperazione con i paesi del Sud.

Limitiamo l’osservazione su questo punto allo scenario europeo, per ragioni di semplicità.

Di questi tempi, si sottolineano spesso i rischi che l’Europa perda lo statuto di attore pertinente nello scenario internazionale.

 A questo riguardo si cita Angela Merkel nel ribadire che “dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”.

Si discute allora in particolare del fatto che l’Europa dovrebbe accettarsi come “potenza” e si argomenta sul linguaggio del potere, sulla sovranità’ europea e sulla necessità’ di costruire ed usare un hard power;

sulla difesa che soffre di un divario tra aspettative e risultati e che rischia di essere orientata dagli eventi, invece che di scolpirli;

 sulle risorse, gli impegni e l’implementazione di una politica di difesa.

Allo stesso tempo, si sottolinea anche come sia necessario costruire una nuova narrativa che accompagni la metamorfosi europea e legittimi le non facili scelte politiche dei mesi a venire che saranno connesse alle conseguenze della guerra, della pandemia e dei nuovi assetti mondiali.

Ma che includere in una tale narrativa?

 Non vi è dubbio che si tratti di modellare strategie di sviluppo europeo costruite su di una geografia ed una storia comuni che possano orientare il futuro di un “noi”, per sé.

Certo, non si tratta di un compito semplice, dati i buchi da coprire e i cambi da approvare per il declino auspicabile di una serie di ideologie purtroppo dominanti nel continente – come quella della fine della storia o dell’ortodossia economica.

 Ma forse su questo fronte siamo un po’ più allenati.

L’Europa nel tempo ha discusso la sua integrazione economica e sociale, occupandosi sì di mercati, ma anche di coesione sociale e territoriale che ha ispirato une delle principali politiche attive dell’Unione, benche’ non appieno compresa.

 A lungo ha poi discusso della propria integrazione politica, e della costruzione delle proprie istituzioni e di chi dovesse fare parte dell’Unione, del noi.

Si pensi alla questione del rapporto con i paesi dell’est ed alla loro adesione.

Infine, i conflitti tra gli stati partecipanti e fra alcuni attori sociali, il noi, sono stati veicolati da varie forme di dialogo, istituzioni e procedure legali ed amministrative che hanno permesso di evitare il ricorso alla forza ed alla potenza tra stati membri con l’intento di produrre forme, più o meno riuscite, di fiducia ed apprendimento reciproco.

 

Il fronte menzionato più volte in questi giorni per la costruzione della narrativa è invece quello della relazione con l’”altro” e delle strategie che ne conseguono.

 Certo, le relazioni tra potenze mondiali, che sono particolarmente complesse e conflittuali, e ovviamente la guerra in corso, concorrono a spiegare perché’ la relazione con l’altro sia convocata con insistenza.

Non sorprende dunque che il potere e la potenza siano termini spesso evocati e che si invitino i paesi dell’Unione a costruire un’Europa della difesa, modificando convinzioni che ristagnavano da tempo.

 Tuttavia, vi è una questione che mi pare fondamentale e che invece è ancora purtroppo poco presente nel dibattito, salvo quando ci si sorprende dinnanzi all’altro, come segnalato all’inizio di questo articolo:

Di chi l’altro è il nome?

È solo il “nemico” o il “suddito”?

 È solo colui o colei che vorrebbe imporre con la potenza e la forza la sua “differenza” alla nostra “identità” o che è disposto a chinare il capo alla nostra pre-potenza?

Siamo cioè destinati a costruire la nostra narrativa come quella di un’isola sempre più’ assediata e priva di interazioni e legami, che non siano la dipendenza altrui o nostra o il puro interesse di mercato?

Di chi l’altro è il nome?

 È solo il “nemico” o il “suddito”?

(MARIO PEZZINI)

 

Al di là’ della retorica, é’ evidente che gli altri hanno profili differenti che la narrativa non può’ eludere;

 così come non può’ sottovalutare la natura delle relazioni che tessiamo con loro.

A fianco dei nemici o dei clienti vi sono i potenziali alleati con cui dovremmo costruire e poi coltivare, a diversi gradi e con diverse modalità’, strategie di solidarietà/lealtà’/reciprocità e non solo di legge/mercato/potere.

L’affermazione di sé e della propria potenza è probabilmente una componente della costruzione comunitaria nell’attuale fase di interregno, ma non può’ costituirne l’essenza.

Vi sono giochi a somma positiva e non solo negativa che sono indispensabili per le future strategie di sviluppo.

Non è ragionevole pensare che la solidarietà’ abiti solo all’interno dei confini dell’Europa o della NATO, per quanto riaggiustati, e sia sinonimo di fusionalita’.

 Insomma, sono persuaso che si debba riflettere in profondità’ alle interazioni con gli altri, pensando anche al policentrismo, al pluralismo ed allo sviluppo.

Mi conforta in questo il fatto che un importante pensiero politico come quello di Antonio Gramsci considera che l’egemonia richieda sia la forza per imporsi che le alleanze per durare.

A ben riflettere, l’autonomia strategica europea pone il problema di come concepire autonomamente i conflitti e la solidarietà’ con gli altri e richiede un’accorta e trasparente politica di alleanze.

 Principalmente con l’Africa e l’America Latina.

Va da sé, per esempio, che l’Europa ha ed avrà bisogno di mantenere il dialogo e la cooperazione anche con paesi che non hanno votato le dichiarazioni delle Nazioni Unite, ma con cui è necessario affrontare le sfide dei cosiddetti “beni pubblici globali”.

 È ugualmente chiaro che la maggior parte di noi ha sottovalutato la profondità’ della nuova geografia globale e l’importanza di una rinnovata ed anche forse rivoluzionata natura delle relazioni Europee con i paesi e le regioni del Sud, che sia orientata allo sviluppo invece che alla carità o alla preservazione dell’influenza del passato coloniale;

che sappia ascoltare la voce del Sud;

 che usi l’intera gamma degli strumenti disponibili per consolidare un partenariato che si è rivelato più debole di quanto si pensasse e soprattutto non esclusivo.

L’affermazione di sé e della propria potenza è probabilmente una componente della costruzione comunitaria nell’attuale fase di interregno, ma non può’ costituirne l’essenza.

Vi sono giochi a somma positiva e non solo negativa.

 

(MARIO PEZZINI)

In conclusione.

Dobbiamo costruire uno spazio pubblico rinnovato per dialogare da pari con i paesi del Sud se, come si è cercato di argomentare, il richiamo al vecchio bipolarismo non pare convincente, se i nostri antichi pregiudizi circa la situazione geopolitica globale sono desueti, se l’Europa potenza è forse indispensabile, ma non sufficiente a definire le nostre posizioni nel mondo e come desueti sono gli strumenti di cooperazione a disposizione.

Dovremo in futuro ripensare con più calma anche ai nostri strumenti concettuali.

Sant’Agostino, come è noto, condannò le passioni dell’uomo con la sola attenuante della “libido dominandi” se congiunta ad un forte desiderio di encomio e gloria, ugualmente esaltati in seguito dall’ethos cavalleresco.

 Ma le conseguenze distruttive della “libido dominandi”, evidenti tra l’altro nelle guerre, spinsero a cercare nuove soluzioni al di là’ della morale filosofica e dei precetti religiosi.

 Per esempio nella coercizione del sovrano, tuttavia a rischio di eccesso di crudeltà o di clemenza (meno).

Oppure nell’imbrigliare le passioni, piuttosto che limitarsi a reprimerle, e trasformarle in pubbliche virtù’.

Così Adam Smith, filosofo morale, tentò di promuovere una categoria di passioni – gli interessi – relativamente innocue, a suo avviso, per neutralizzare le altre più pericolose e distruttive.

L’interesse economico e la cupidigia furono presto assurti al rango di passione privilegiata col compito di domare le altre e dare un contributo all’arte di governo.

 

Alcuni secoli più tardi, abbiamo sperimentato qualche decennio di “ideologia neo-liberista” e di un paradigma dominante che ha preteso esaltare l’interpretazione di tutte le azioni umane in termini di interesse personale.

È debito riconoscere oggi che l’idea che l’interesse governi il mondo – dato che l’amore per il denaro assicurerebbe costanza, pertinacia ed immutabilità – ha perso molto della sua primitiva suggestione.

 Così come l’idea che l’espansione dei traffici si accompagnerebbe alla diffusione dell’ingentilimento e condurrebbe alla pace (la douceur di Montesquieu).

 Insomma, l’economia non può’ estromettere la politica. Ma è quindi inevitabile rassegnarsi ai disastri della potenza, della rapacità e della crudeltà dei sovrani e dei loro “grands coups d’autorite’?

 La risposta di Montesquieu è nota e rimanda alla separazione dei poteri e ad un governo pluralista alla ricerca di un potere equilibrante, per quanto riguarda la politica interna.

Dato il discontento crescente, bisognerebbe tornare a pensare alla partecipazione.

Oltre ai meccanismi del mercato e del potere varrebbe la pena di riconsiderare le logiche dell’azione collettiva, i processi sociali, gli spazi collettivi per la comunicazione come fattori ineludibili delle interazioni internazionali.

(MARIO PEZZINI)

E nelle relazioni internazionali?

Se si considera la logica geopolitica tradizionale dove il “primum movens” e’ la “libido dominandi” e in cui i giochi sono a somma zero, è probabile che non solo le relazioni tra potenze, ma anche quelle con i paesi in via di sviluppo sfocino nel conflitto, nel dominio o nella carità.

Viceversa, se si pensa che, assicurata una certa soglia di stabilità’ e sicurezza, si possa contenere la l”ibido dominandi”, allora altre piste divengono praticabili, e questo anche se i paesi del “Sud” mantengono sistemi politici ed economici almeno in parte differenti da quelli occidentali.

 Insomma, oltre ai meccanismi del mercato e del potere varrebbe la pena di riconsiderare le logiche dell’azione collettiva, i processi sociali, gli spazi collettivi per la comunicazione come fattori ineludibili delle interazioni internazionali.

In questa seconda logica, sarebbe indispensabile rilanciare, a fianco di un “hard power”, un vero” soft power”, e non il vago simulacro a cui ci si riferisce usualmente.

Uno spazio pubblico inclusivo per evitare i rischi di incomprensioni crescenti e circoli viziosi, dove discutere in dettaglio i singoli sentieri di sviluppo e le forme di cooperazione internazionale per accompagnarli.

 Si tratterebbe di rinvigorire una logica interpretativa rispetto alla sola logica normativa;

 di dialogare con e considerare la specificità dei paesi in via di sviluppo, invece di pretendere di conoscerli e considerarli destinatari di standards alla cui definizione non hanno partecipato.

Ma il dibattito in proposito è ancora in corso e per ora la logica degli standards appare purtroppo dominante.

 

Resta il fatto che oggi vi sono diverse narrazioni che interpretano lo sviluppo ed il panorama geopolitico che ne risulta.

L’Europa deve ripensare la sua e vedere come dialogare con le altre.

 Il rapporto tra queste narrazioni può essere conflittuale, ma spesso si tratta del risultato di memorie differenti che riposano sue storie differenti, traumi differenti, sentieri di sviluppo e culture differenti, con i rispettivi silenzi e le rispettive rimozioni, ma anche con le rispettive visioni ed aspettative.

Come dice giustamente “Charles Michel “sul “Grand Continent” :

 

“[…]il nostro discorso sui diritti umani è spesso percepito nei paesi terzi come uno strumento della dominazione occidentale.

Nel mezzo di una guerra di aggressione, Putin è il primo a sfruttare abilmente questo fenomeno attraverso la propaganda.

Cercare di capire la storia e le storie, di misurare i traumi collettivi dei popoli del mondo, porta a una migliore comprensione delle posture politiche contemporanee.

 Ogni popolo, ogni paese si confronta con le proprie ferite.

A volte vengono guarite, ma non sempre.

 I nostri discorsi che sostengono una nuova narrazione europea non devono quindi ignorare questa parte del nostro passato che spesso è ancora rimossa.”

 

 

 

Per avere successo una nazione

deve far collaborare popolo ed élite.

Linkiesta.it – (3 febbraio 2022) - Ugo Arrigo – ci dice:

L’esito delle elezioni del 2018 è in parte il risultato di un clima di sfiducia nei confronti della classe dirigente, segno di un distacco malsano e pericoloso.

Nella storia delle democrazie è proprio l’equilibrio tra guidatore e passeggeri il segreto di una società prospera e stabile.

(Mitchell Luo, da Unsplash)

La storia d’Italia degli ultimi tre decenni, durante quella che è chiamata “Seconda Repubblica”, è stata costellata da ripetute crisi e da un unico grande successo, l’ingresso nella moneta unica europea, che ha permesso, fungendo da rete di protezione del debito pubblico e dell’economia nazionale, di evitare le conseguenze più gravi di ognuna di quelle.

In questo periodo è tuttavia completamente scomparsa la crescita economica:

 quella poca crescita che vi è stata negli anni favorevoli è stata più che interamente consumata dalle due ondate recessive del 2008-09 e del 2011-13 e alla fine del 2019, vigilia della tempesta economica generata dal Covid in parallelo a quella sanitaria, il Pil reale dell’Italia era ancora 3 punti percentuali al di sotto di quello del 1998, anno in cui l’Italia fu ammessa all’euro.

In questi decenni la politica non è riuscita a guidare adeguatamente il Paese.

Non ha avuto governi e primi ministri che fossero in grado di guidare la nave in mezzo a continue tempeste, consapevoli ogni volta dell’esatta posizione del vascello, delle dinamiche dei venti, di un porto sicuro in cui ripararla, della rotta per raggiungerlo e soprattutto che fossero in grado di coordinare adeguatamente le azioni dei passeggeri e dei marinai della nave.

A causa delle tempeste e dell’incerta conduzione della nave il Paese non è affondato ma è indubbiamente declinato dal punto di vista sia economico, che sociale e politico.

Quattro anni or sono, alle elezioni del 2018, gli italiani, esercitando il loro diritto di bocciare le forze politiche che determinano i governi, hanno deciso di accantonare le due forze che avevano dominato, in alternanza, il precedente quarto di secolo, promuovendone invece due come il M5S e la Lega che o non esistevano prima o comunque non avevano svolto ruoli centrali di governo.

Hanno in questo modo preferito le incertezze del nuovo alle non più gradite certezze del passato, affidandosi a forze che, per i contenuti dei programmi politici con cui si sono presentate al voto, sono state correttamente definite come “populiste”.

Ma qui occorre porre una domanda chiave:

si è trattato di un abbaglio degli elettori, come molti commentatori sembrano aver creduto in questi anni, oppure molti cittadini comuni avevano motivi validi per essere scontenti dell’esistente e per ritenere meno svantaggiosi i rischi di un salto nel buio rispetto alle certezze del mantenimento dello status quo?

Se nell’ultimo decennio l’economia italiana, evitando la doppia recessione, fosse cresciuta agli stessi tassi, ancorché non esaltanti dei periodi precedenti, alla vigilia della pandemia il nostro Pil sarebbe stato maggiore di quello effettivo di almeno un quarto, forse persino di un terzo.

È dunque evidente lo scarto tra dove avremmo potuto e dovuto essere in termini di ricchezza nazionale e dove ci siamo ritrovati effettivamente.

Le forze politiche bocciate alle elezioni del 2018 sono state dunque considerate responsabili sia di non aver saputo evitare, o persino di aver permesso, questo impoverimento generalizzato, che della conseguente scomparsa di adeguate prospettive per le giovani generazioni, le più propense in conseguenza a votare per forze politiche non convenzionali così come a ricercare opportunità lavorative all’estero.

Sono, a ben vedere, due forme alternative di “exit” nel senso illustrato dall’economista e sociologo Albert Hirschman:

 nel primo caso si vota nelle urne mandando via chi ha sino a questo momento governato, nel secondo caso si vota coi piedi, cioè andando via.

 In altri tempi si sarebbe usata l’altra modalità per criticare l’esistente, la “voice”, la protesta, ma essa non sembra più così attraente né efficace.

 

Non vi è dubbio che molti tra le masse popolari addebitino alle élite nazionali questa situazione, accusandole di aver pensato solo a sé stesse, di aver promosso esclusivamente la salvaguardia del loro benessere, isolandosi nelle posizioni privilegiate conseguite e togliendo corrente all’ascensore sociale, trascurando di dare una mano ai numerosi che sono in difficoltà e teorizzando che la loro condizione disagiata sia conseguenza esclusiva della loro responsabilità.

 Come si può dunque pensare che le masse popolari si fidino ancora delle élite quando si sono invece convinte che si siano sottratte alla loro responsabilità, abbiano perso utilità sociale e si siano trasformate in oligarchie autoreferenziali?

In questo senso il voto del 2018 è stato una cartina al tornasole e il populismo che ne è scaturito non è altro che il duale del rigetto critico del ruolo delle élite.

Questa analisi consiglia di rivolgere uno sguardo al passato e di riflettere brevemente sul rapporto élite/masse nel corso della storia e sui differenti suoi esiti.

Le diverse società che si sono succedute e affiancate nel corso del tempo sono state condotte da élite e il successo che hanno conseguito, così come il suo venir meno, è dipeso da un lato dalla condotta di queste e dall’altro dal grado di cooperazione che sono riuscite a organizzare con le rispettive masse popolari.

Le prime non sono infatti autosufficienti nel realizzare alcun tipo di obiettivo né lo possono essere le seconde.

Se una società conseguirà risultati adeguati, se sarà in grado di generare adeguate risorse per i suoi membri e di distribuire con sufficiente equità, il che non vuol dire in maniera egualitaria, i vantaggi dello schema di cooperazione sociale, allora quella società sarà in equilibrio nel senso di John Nash, il matematico che ha fatto fare nel dopoguerra un notevole salto in avanti alla teoria dei giochi.

 

Nessuna classe o gruppo sociale avrà in tal caso vantaggio atteso nel mutare la sua strategia comportamentale e l’equilibrio potrà conservarsi, senza rischio di rivolte, rivoluzioni e restaurazioni.

Le società nelle quali la cooperazione tra élite e masse ha prodotto i risultati migliori sono quelle democratiche, tanto quelle dell’antichità classica quanto quelle contemporanee.

La democrazia ateniese fu l’esito di un compromesso tra le classi, di un patto di reciproca utilità e cooperazione che superò i preesistenti sistemi oligarchici nei quali le classi inferiori erano senza reciprocità al servizio “dei ceti alti e dominanti”.

 Nell’antica Atene «la grandezza di quel ceto consistette nel fatto di aver accettato la sfida della democrazia, cioè la convivenza conflittuale con il controllo … del potere popolare» (L. Canfora, “Il mondo di Atene”).

Ad Atene erano esponenti dell’élite ad assicurare i principali ruoli di governo ma essi erano eletti annualmente dai partecipanti all’assemblea, dai cittadini ateniesi, perché, come ricordato dal Pericle di Tucidide, «anche se pochi sono in grado di elaborare politiche, tutti i cittadini sono in grado di valutarle».

Atene sperimentò per prima una élite aperta che scelse di «accettare la democrazia per governarla».

 «Il miracolo che quella straordinaria élite ha saputo compiere … è stato di aver fatto funzionare e prosperare la comunità politica più rilevante del mondo delle città greche, e, ciò facendo, aver modificato almeno in parte, nel vivo del conflitto, sé stessa e l’antagonista».

Se, adottando l’interpretazione di Luciano Canfora del mondo di Atene, chiamiamo democrazia in senso sostanziale il governo esercitato da un’élite ma in nome, per conto e sotto la vigilanza delle masse popolari, non possiamo tralasciare come Winston Churchill abbia efficacemente etichettato questa stessa condizione sotto il nome di “civiltà”.

Come disse il salvatore del mondo occidentale e delle nostre libertà il 2 luglio 1938 in un famoso discorso agli studenti dell’Università di Bristol, di cui era Cancelliere, «ci sono poche parole usate in modo più vago del termine “civiltà”.

Cosa significa realmente?

Significa una società fondata sull’opinione dei suoi cittadini.

Significa che la violenza, il dominio di guerrieri e despoti, lo stato di guerra permanente, la ribellione e la tirannia lasciano il posto ai Parlamenti, dove si fanno le leggi, e alle corti indipendenti di giustizia, dove queste leggi sono fatte rispettare.

 È questa la civiltà, e nel suo suolo crescono continuamente la libertà, il benessere e la cultura.

Quando in un paese regna la civiltà, alla massa dei suoi cittadini è concessa una vita più piena e meno tormentata. … Il principio fondamentale della civiltà è la subordinazione della classe dirigente ai costumi del popolo e alla sua volontà, quale espressa attraverso la Costituzione».

 

Ecco, il punto chiave è la “subordinazione della classe dirigente ai costumi del popolo e alla sua volontà, quale espressa attraverso la Costituzione”.

 Lo dice quasi allo stesso modo il primo articolo della Costituzione italiana, entrata in vigore dieci anni dopo il discorso di Churchill: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

 

È il popolo che sorveglia e indirizza il governo attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, «La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico» (K. Popper), ed è nel suo interesse che il governo sia formato da persone di adeguata competenza, un requisito che come già nell’antica Atene rende molto elevata la probabilità che siano esponenti delle élite a svolgere le relative funzioni.

Dunque la democrazia funziona se le differenti classi sociali cooperano, se le élite sono in grado di fornire adeguate competenze per il governo e lo esercitano nell’interesse generale e non nel loro esclusivo, e se le masse sono in grado di esercitare il controllo sul governo garantendo che ciò si verifichi davvero.

Vi sono pertanto tre requisiti per il buon funzionamento di una democrazia:

l’attitudine alla cooperazione tra classi, l’attitudine al governo da parte delle élite e l’attitudine al controllo da parte delle masse.

Delle tre attitudini la prima è quella di maggior rilievo ma criticità rilevanti sulle altre due sono in grado di farla cadere.

Una democrazia in funzione è paragonabile a una comitiva di gitanti:

 è il gruppo che deve scegliere dove andare, avvalendosi di un capocomitiva che interagirà con l’autista del pullman fornendogli indicazioni sulla meta scelta.

Ma l’autista non può che essere una figura competente per guidarlo, dunque deve essere dotato di una patente che certifichi che è in grado di condurre adeguatamente il mezzo.

A questo punto si manifestano tre possibilità di cui solo la prima rappresenta un esito adeguato:

1) i passeggeri sono in grado di indirizzare la guida verso la meta scelta e l’autista è in grado di guidare il mezzo;

 2) l’autista è un ottimo guidatore ma i passeggeri non sono in grado di esprimere un indirizzo;

3) i passeggeri sono in grado ma il conducente è incapace.

Il primo caso è quello di una democrazia funzionante.

Il secondo caso è quello di una democrazia inceppata in cui il popolo non è in grado di esercitare il controllo e in conseguenza le élite saranno libere di governare nel loro esclusivo interesse.

 Se il capocomitiva dorme e i gitanti sono distratti, l’autista alla guida avrà la libertà di portare il mezzo dove preferisce.

 Nel terzo caso, infine, se il popolo dei gitanti si allarga sino a pretendere di far guidare chi preferisce – anche se non dotato di patente – è evidente il rischio che l’autobus finisca fuori strada e in ogni caso esso non sarà in grado di giungere alla meta auspicata.

Questo schema di analisi può ovviamente essere applicato per interpretare la recente storia italiana ma richiede inevitabilmente un certo impegno e in ogni caso un numero elevato di parole per le quali non vi è spazio in questo scritto.

Conviene dunque metterlo in agenda per un secondo momento.

 

 

 

Chi comanda nel mondo? (2)

Gognablog.sherpa-gate.com – (4 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:

(ereticamente.net)

Nella prima parte di questo elaborato abbiamo cercato di fornire una risposta al quesito su chi esercita davvero il potere nel mondo, attraverso due livelli di indagine:

 comandano coloro di cui non si può “dir male” e, concretamente, i signori del denaro, in particolare la cupola finanziaria che si è impadronita dell’emissione monetaria.

 Abbiamo riconosciuto tristemente il ruolo secondario, se non servile, della dimensione pubblica – Stato e politica – ma la domanda restava in parte inevasa.

 Occorreva una serie di approfondimenti.

La globalizzazione – economica, culturale, politica, produttiva, finanziaria – perseguita da molto tempo, vincitrice unica dopo il crollo del comunismo reale, ha portato alla crescita di un nuovo attore planetario dotato di un immenso potere.

 Si tratta del grumo di persone, imprese, visioni dell’economia e del mondo che detengono e possiedono la tecnologia informatica e digitale, motore e carburante della quarta rivoluzione industriale.

Sono i giganti di Silicon Valley (e non solo), riuniti nell’acronimo “GAFAM” (Google, Amazon, Facebook/Meta, Apple, Microsoft), insieme con il conglomerato di aziende, conoscenze e tecnologie che hanno rivoluzionato il mondo attraverso la scoperta delle applicazioni tecnologiche legate all’informatica, all’automazione e in generale al mondo di Internet, una rivoluzione paragonabile alla scoperta delle tecnologie del ferro e alla macchina a vapore.

All’universo “GAFAM” molti aggiungono i “NATU”, l’acronimo che riunisce “Netflix” (intrattenimento e spettacolo), “Tesla” (capofila della robotica e della cibernetica, la creazione di Elon Musk) e due piattaforme online – “Airbnb” e “Uber”, che hanno rivoluzionato l’una il mondo immobiliare, l’altra i trasporti e la mobilità.

Questo gruppo di colossi – ampiamente integrato e con sede negli Usa, benché orientato alla deterritorializzazione – ha reso possibile il “Nuovo Ordine Mondiale” basato sul “capitalismo della sorveglianza”, la felice espressione coniata da “Shoshana Zuboff”.

Ovvero, ha costituito una forma nuova di potere:

 la raccolta, accumulo, incrocio, uso, compravendita di dati e metadati, ossia informazioni su tutto e tutti. I

n parole chiare: lo spionaggio universale mascherato da “trasparenza”.

Un altro nome collettivo di tale sistema è “Big Data”.

 Il potere si è fatto “biopotere” – ossia comando, controllo e sorveglianza sull’esistenza quotidiana di persone e istituzioni – e addirittura “biocrazia”, dispositivo organizzato di controllo sulla vita, a partire dal corpo fisico degli individui.

Il programma del biopotere prevede il superamento della creatura umana attraverso l’ibridazione con la macchina – impianto di microchip, intelligenza artificiale, robotica, cibernetica – facilitato dalle straordinarie possibilità di alcune nuove conoscenze, riunite nell’acronimo “NBIC”, nanotecnologia, biotecnologia, tecnologia informatica e scienze cognitive o neuroscienze.

Dall’interazione di questi strumenti tecnologici, posseduti in regime di oligopolio, protetti dall’intangibilità della (grande) proprietà privata con il sistema dei brevetti e delle privative industriali, discende la nuova, insidiosissima ideologia delle élite, il transumanesimo.

La punta di lancia di questo progetto è il “Forum Economico Mondiale” diretto da “Klaus Schwab”, il cui teorico di riferimento è “Yuval Harari”, scrittore futurologo, strumento privilegiato dell’agenda dei vertici tecnologici e dei signori del denaro.

Comanda un singolare ircocervo, la Mammona postmoderna:

 l’alleanza tra le grandi imprese tecnologiche post-industriali – che hanno rivoluzionato il commercio (Amazon), la comunicazione (Facebook, Twitter), dominano Internet (Google) e possiedono le competenze, le strutture di ricerca e i presidi industriali che hanno cambiato la mappa non solo economica del mondo (Apple, Microsoft, IBM).

In pochi anni l’oligopolio tecno-scientifico è diventato il centro nevralgico della globalizzazione, dotato di una ideologia e di una governance globale ed è entrato a vele spiegate nel salotto buono dell’alta finanza. 

Quel mondo assolutamente nuovo non avrebbe potuto assurgere a braccio secolare e avanguardia del “Dominio” se non in sinergia ed alleanza con i “signori del denaro”, primi mentori e generosi finanziatori.

 Se oggi uomini come Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Elon Musk, Ray Kurzweil – guru di Google e transumanista convinto – Ray Dalio, Vinton Cerf e pochi altri sono ai vertici della ricchezza e del potere è perché il loro indiscutibile genio è stato utilizzato dalle cupole del denaro, dapprima al loro servizio, poi cooptato in un’alleanza strategica.

È la tenaglia che stringe gli Stati, l’economia, i popoli e i singoli individui in un progetto totalitario fintamente morbido, il “soft power” che non usa la forza bruta ma l’immensa superiorità di risorse finanziare, moltiplicate dal controllo delle tecnologie di uso quotidiano e dal sapiente utilizzo delle neuroscienze.

Mezzi che diventano fini;

di qui una delle convinzioni popolari più difficili da smontare:

l’obiettivo di costoro non è (più) il denaro, ma il dominio sull’umanità, sino alla modifica della condizione umana nel transumanesimo.  I

l denaro è uno strumento, non l’obiettivo: sarebbe riduttivo per chi si è appropriato dell’emissione monetaria e crea il denaro dal nulla, prestandolo agli Stati.

 

Siamo al nocciolo:

 il mondo – o almeno l’Occidente collettivo di cui siamo una propaggine – è in mano ad un’alleanza strategica tra il Denaro – rappresentato dal sistema finanziario (banche centrali, fondi di investimento, corporazioni multi e transnazionali – “TNC”, un altro maledetto acronimo che non fa capire come stanno le cose) e le imprese di tecnologia avanzata.

 

Poiché è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende, la “Mammona postmoderna” ha una serie di strumenti operativi:

gli eserciti occidentali, soprattutto quello americano, con le numerose agenzie riservate e organizzazioni di copertura (molte ONG lo sono) che integrano e rendono planetario il suo potere.

 Nel passato, misero in guardia da tale grumo onnipotente non paranoici complottisti ma almeno tre presidenti americani, Woodrow Wilson (che pure ne favorì l’ascesa e fu protagonista della nascita della banca centrale, la Federal Reserve), Franklin Delano Roosevelt e Dwight Eisenhower, che nel 1961, nel discorso di congedo dalla Casa Bianca, così disse:

“L’America deve vigilare contro l’acquisto di un’ingiustificata influenza da parte del complesso militare-industriale e il pericolo di diventare prigioniera di un’élite scientifico – tecnologica”.

Parole al vento, purtroppo.

Ma se siamo in grado di individuare nomi e volti del “biopotere tecnologico”, ci è più difficile identificare i signori del denaro.

Innanzitutto perché hanno a lungo coperto se stessi, evitando di apparire e comparire, burattinai dietro le quinte, come rilevò Benjamin Disraeli, primo ministro dell’Inghilterra imperiale, già nel secolo XIX.

 Si tratta prevalentemente di dinastie senza corona che si passano il testimone da generazioni;

se ne fa parte per diritto di sangue e attraverso matrimoni tra rampolli delle grandi famiglie, come nelle casate nobiliari del passato.

 Il nome più conosciuto è quello dei Rothschild, israeliti di origine tedesca stanziati strategicamente da secoli nelle capitali politiche e finanziarie del mondo.

 La loro potenza e ricchezza non è calcolabile;

hanno attraversato guerre e rivoluzioni finanziando spesso entrambe le parti in lotta;

installato e rovesciato governi e regimi con l’arma del denaro e del debito, foraggiando fazioni o capi politici;

dominano il mercato dell’oro, il cui prezzo è fissato presso di loro a Londra.

Mesi fa, un “Rothschild” ha infranto il tradizionale riserbo della dinastia schierandosi in termini violenti a favore della guerra contro la Russia.

Quelli dello Scudo Rosso (rot schild) non sono gli unici e con le altre dinastie e famiglie, Morgan, Sachs, Rockefeller, Warburg e poche altre costituiscono un formidabile cartello che ha in mano il mondo finanziario ma anche la filiera dei traffici industriali, energetici e alimentari del pianeta.

Un esempio di riservatezza sono i Mc Kinley, proprietari della Cargill, gigante del grano:

 non figurano in Borsa, possiedono immensi territori coltivati nel mondo, navi, silos e porti. Da loro dipende se popoli interi possono sfamarsi e a quale prezzo. In molti gangli del sistema è rilevante la componente di ascendenza ebraica.

Enorme è il potere dei fondi di investimento, conglomerati finanziari più potenti di gran parte degli Stati nazionali, che dominano e indirizzano i mercati;

in larga misura essi “sono” il mercato.

 Il più grande, Black Rock, amministra attivi per diecimila miliardi di dollari (due volte e mezzo il Prodotto Interno Lordo della Germania, cinque volte quello dell’Italia).

 Il suo massimo dirigente – Larry Fink – è uno degli uomini più potenti del mondo e” Black Rock” si è ora impossessata di fatto dell’economia e delle risorse della sfortunata Ucraina.

Nondimeno, i grandi fondi, di cui solo Allianz Group – galassia Rothschild – ha sede in Europa – Vanguard Group, Fidelity Investments, State Street Global, Capital Group, Goldman Sachs Group, restano strumenti, sia pure di primaria importanza.

 Il potere è nelle mani della cupola delle grandi famiglie del denaro e dei giganti tecnologici, all’ombra del “Deep State”, l’apparato militare e riservato dell’anglosfera.

 Un complicato, fittissimo intreccio di partecipazioni azionarie incrociate fa sì che “Mammona” – il nucleo dominante di finanza, imprese tecnologiche e corporazioni multinazionali (TNC) – sia costituita da un numero di soggetti incredibilmente basso.

L’oligarchia è reticolare, assai ben strutturata, ma il livello apicale è formato da pochissime persone fisiche dal potere pressoché illimitato.

Un capitolo essenziale riguarda, nel mondo contemporaneo, il potere di chi gestisce e controlla le reti di comunicazione e la struttura Internet, l’autostrada digitale su cui viaggiano tutti i dati, le transazioni, le idee, gli atti, le decisioni:

 il sistema nervoso centrale di un mondo dominato dalle informazioni e dalla velocità, il tempo reale.

In quest’ambito, la cupola occidentale – nella solita sinergia tra grandi soggetti privati e strutture degli Stati guida, Usa, Israele, Gran Bretagna, mantiene un primato rilevante, insidiata dal più grande Stato nazionale, la Cina, all’avanguardia nella tecnologia delle comunicazioni su fibra 5G, semi monopolista nel possesso e nella lavorazione delle Terre Rare, i diciassette elementi della tavola periodica di Mendeleev da cui dipende lo sviluppo e la funzionalità del Moloch tecnologico, scientifico, elettronico e informatico.

Chi controlla tutto ciò e le fonti energetiche che sostengono i modelli di sviluppo, di produzione e di riproduzione del dominio, comanda il mondo ed è destinato a improntarlo nelle idee, nei modi di vita, nella scelta di gusti, valori e principi.  

Le dinastie del denaro fanno la parte del leone, ma l’egemonia è oggi in discussione per l’emergere di nuovi soggetti radicati nell’est del mondo. L’osservazione empirica, prima ancora della ferrea logica geopolitica, mostra che le crisi odierne – anche il conflitto tra la Russia e la Nato per interposta Ucraina – sono mosse di scacchi nel “grande gioco” per il controllo delle risorse del mondo, dei flussi finanziari che le movimentano, delle rotte chiave del commercio.

La nostra cartografia non può dimenticare che il potere del denaro è in sé inerte e deve essere alimentato costantemente da un sistema di relazioni, credenze e valori capace di mantenere e estendere, con la collaborazione di settori specializzati della popolazione –scienziati, economisti, intellettuali, militari, operatori della comunicazione –  un consenso che permetta la perpetuazione delle scelte, l’obbedienza delle masse, l’influenza sui governi, l’orientamento, il controllo.

A tale fine agisce una serie complessa di strumenti operativi, organizzazioni, associazioni, gruppi d’ influenza e poteri derivati che rispondono alla cupola, una sorta di pool di ministeri e assessorati di servizio divisi per settori e territori.

Il sistema opera da alcuni secoli, si è rafforzato dopo le due guerre mondiale e con moto accelerato dopo la sconfitta del modello comunista sovietico.

 Il “Dominio” ha progressivamente raffinato e diversificato i suoi bracci operativi in tutti gli ambiti, sino a costruire una salda rete globale in cui pubblico e privato si confondono ed intersecano sotto la direzione dei “padroni universali”.

Ne parleremo nell’ultima parte della nostra ricognizione.

 

 

 

 

Chi comanda nel mondo? – (3)

Gognablog.sherpa-gate.com – (6 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:

 

Nelle precedenti parti di questo elaborato abbiamo cercato di delineare una mappa dei detentori del potere nel mondo, o meglio in Occidente e nella parte del pianeta ad esso legato.

Detto dell’alleanza strategica tra i signori del denaro (finanza) e i padroni delle tecnologie relative alle nuove scienze, abbiamo affrontato il tema degli strumenti di cui si servono per affermare e perpetuare il loro potere.

L’orizzonte è quello della privatizzazione di tutto, l’estromissione della dimensione pubblica e comunitaria e i governi ridotti a gendarmi di servizio.

 Il finanzcapitalismo (Luciano Gallino) è diventato ”biocrazia” senza alternativa (l’acronimo “TINA”, there is no alternative) in sinergia con la tecnocrazia informatica ed elettronica.

 

Lo strumento più antico di perpetuazione del potere – attraverso la cooptazione degli elementi ritenuti più affidabili – è la massoneria.

Fondata nel 1717, circondata da un alone di segretezza, ha avuto nel tempo tra i suoi membri e dirigenti larga parte delle élite europee e occidentali.

Al di là del giudizio sulle idee che propugna e della banalizzazione complottista che ritiene il Grande Oriente la sentina di ogni male, le logge massoniche – con la loro struttura sovranazionale il cui centro è l’anglosfera – esercitano un forte potere di influenza, ma innanzitutto sono un luogo privilegiato di incontro e decisione.

Restano una delle sedi privilegiate per dibattere, disegnare scenari, assumere decisioni, il bacino in cui selezionare personalità destinate a ricoprire ruoli dirigenti in campo politico, culturale, economico, finanziario, istituzionale, militare.

Tuttavia, anche la massoneria è un potere derivato, che non potrebbe esercitare il ruolo che ha se non entro la cornice del sistema che abbiamo descritto.

 In termini marxisti, essa è un elemento della “sovrastruttura” (Ueberbau), l’insieme dei fenomeni ideologici, culturali e spirituali che corrispondono alla base materiale ed economica della vita sociale.

Di questa base o struttura, la sovrastruttura è un riflesso, ma non semplicemente un prodotto.

 La struttura (struktur) è l’economia, cioè le forze produttive (uomini, mezzi, modi) e, insieme, i rapporti giuridici di proprietà.

Marx non seppe però analizzare compiutamente il ruolo sovraordinato della finanza, che rivestì poi un ruolo centrale nella rivoluzione bolscevica e controllò a lungo la banca centrale sovietica.

Abbiamo rammentato che i signori del mondo poco potrebbero se non avessero al loro servizio l’apparato militare, di sorveglianza e di informazioni degli Stati in cui esercitano il “dominio”.

Ciò è ancora più vero da quando la privatizzazione generale ha investito le grandi organizzazioni internazionali.

La piovra finanziaria, infatti, non è solo “dominus e dante causa di soggetti come la “Banca Mondiale” e il “Fondo Monetario Internazionale” (prodotti del sistema di potere uscito dalla seconda guerra mondiale) ma si è impadronita, di fatto, delle “organizzazioni transnazionali”.

Tocca ribadirlo: la mano che dà è superiore a quella che riceve.

 Perfino l’ONU – ossia il luogo di incontro degli Stati teoricamente sovrani – è infiltrata, attraverso i finanziamenti e la burocrazia dirigente, da potentati privati.

Un soggetto come l’”Unesco”, il ramo delle “Nazioni Unite” che si occupa di educazione, scienza e cultura, è controllato da uomini dell’oligarchia.

Primo presidente e ideologo dell’Unesco fu “Julian Huxley”, eugenetista, nipote di Thomas, detto il “mastino di Darwin”, e fratello di Aldous, autore di” romanzi distopici” come “Il Mondo Nuovo”, tutti membri di un’influentissima famiglia aristocratica britannica.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) conta su cospicui finanziamenti privati, tra i quali spiccano la Fondazione di Bill Gates e GAVI.

Quest’ultima è un’organizzazione di cui “fanno parte paesi e settore privato, come la Fondazione Bill & Melinda Gates, produttori di vaccini sia dei paesi sviluppati che in via di sviluppo, istituti specializzati di ricerca, società civile e organizzazioni internazionali come OMS, UNICEF e Banca Mondiale (fonte: Rappresentanza permanente d’Italia all’ONU)”.

Un circolo vizioso:

 le filiali del “Dominio” si appartengono e si incrociano, come i loro dirigenti.

 Il triennio che si sta (forse) chiudendo, quello della pandemia, ha dimostrato l’immenso potere dell’OMS e degli “istituti specializzati di ricerca”, definizione pudibonda di “Big Pharma”, le multinazionali che hanno in mano, attraverso i farmaci e i vaccini, salute e vita di miliardi di persone.

La gestione pandemica ha rivelato altresì l’esistenza di laboratori scientifici riservati in cui si trattano virus e batteri, rafforzandoli (“guadagno di funzione”) allo scopo – dicono – di combatterli.

Il potere dispone di un fiorente settore chimico che ha trasformato l’intera filiera agricola in un protettorato dipendente da prodotti industriali: pesticidi, diserbanti e sementi geneticamente modificati (OGM) senza i quali crollerebbe la produzione.

 È il regno di Bayer-Monsanto, Dreyfus, Basf, Corteva, Syngenta, protetto da ferrei brevetti.

La proprietà di questi colossi è in capo al solito grumo di giganti multinazionali.

 

Un altro tassello del potere è le grandi ONG (organizzazioni non governative, cioè private), una sorta di pronto intervento con maschera filantropica al servizio del “Dominio”.

Tra esse,” Médecin Sans Frontières”, “Oxfam”, “Amnesty International” e varie altre, un vero e proprio parterre des rois del Nuovo Ordine Mondiale.

La caratteristica comune di queste associazioni – di cui vanno riconosciuti comunque i meriti umanitari – è di condividere l’ideologia liberal progressista delle élite occidentali e di essere finanziate da un altro architrave del sistema transnazionale, le Fondazioni private.

 

Favorite da un regime fiscale che le rende quasi immuni da imposte, sono il salvadanaio di grandi famiglie e di miliardari, specie americani.

 Le più note sono l’”OSF” (Open Society Foundation) di George Soros, il finanziere ungaro americano di origine ebraica (che nella prima giovinezza lavorò per chi confiscava beni ai suoi correligionari!) e la Fondazione Bill e Melinda Gates.

Non meno ricche sono le fondazioni legate alle famiglie Ford, Rockefeller, Carnegie e altre più appartate.

Movimentano miliardi di dollari ogni anno a favore di varie cause, e vengono considerate dalla narrativa ufficiale bastioni della filantropia.

La sola “OSF” – a cui Soros ha conferito nel tempo almeno trenta miliardi di dollari – distribuisce ogni anno più di un miliardo a “ONG”, associazioni, partiti, gruppi, individui, università che condividono l’ideologia oligarchica dominante, il coacervo di liberismo economico, libertarismo sociale, materialismo e consumismo.

 In Italia spiccano tra i beneficiari il vecchio partito radicale, “Più Europa” e le associazioni collegate, con al centro Emma Bonino”, dirigente dell’”OSF”.

 

Il “Dominio”, per riprodurre il consenso, ha bisogno di controllare – cioè possedere e finanziare – un immenso apparato di informazione, propaganda, comunicazione, intrattenimento, spettacolo e cultura.

Guy Debord spiegò che la nostra è una “società dello spettacolo”, inteso come “rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini, una visione del mondo che si è oggettivata.

Lo spettacolo è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente”.

La stragrande maggioranza di noi non è che un soggetto passivo davanti allo schermo della TV, del cinema, degli smartphone e dei computer, diventati parte integrante della nostra personalità e persino fisicità.

Le grandi agenzie di stampa che diffondono – o celano – le notizie che ci raggiungono in tempo reale sono quattro o cinque in tutto, possedute dai padroni universali.

L’oligopolio degli onnipotenti.

 Crediamo ancora al mito del libero cittadino che si forma delle opinioni?

Il sistema dello spettacolo e dell’intrattenimento è nella disponibilità di pochi soggetti – anch’essi in gran parte con sede in America o nell’anglosfera – che fabbricano e impongono la visione del mondo, i valori di riferimento, i miti, le opinioni.

 

Proponiamo un gioco:

 osserviamo per qualche minuto un film di trenta quarant’anni fa e uno di produzione recente.

 La differenza di contenuti, principi, linguaggi, iconografia, idee e condotte mostrate in negativo o positivo, è abissale.

 Uguale è l’esito di una ricognizione diacronica della pubblicità.

Eppure i padroni sono gli stessi: tutti conosciamo Walt Disney, Warner, le “majors” dell’industria musicale.

Vinta la guerra con le altre ideologie della modernità, adesso possono dispiegare a beneficio del “neocapitalismo globalista “tutto il potenziale di costruzione del cittadino unisex a taglia unica, nomade, schiavo del consumo e dei desideri, l’individuo vuoto cui sono sottratte tutte le radici morali, spirituali, comunitarie, familiari.

Da un secolo le scienze cognitive – psicologia, neurologia, psicanalisi – sono utilizzate per orientare gusti, determinare scelte, veicolare idee, ossia per “persuadere”.

Uno dei precursori fu “Edward Bernays”, nipote di Freud, teorico della propaganda, inventore delle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica.

Dobbiamo a “Bernays” l’affermazione secondo cui “la consapevole e intelligente manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse è un aspetto importante della società democratica. Tale manipolazione rappresenta un efficace strumento attraverso il quale uomini intelligenti possono combattere per finalità produttive e contribuire a metter ordine in mezzo al caos”.

Ossia controllare le coscienze sotto la copertura della “finzione democratica”.

 

Vance Packard parlò di “persuasori occulti”: altri tempi.

Oggi il potere non ha più bisogno di nascondersi e mostra, ostenta sé stesso, come nelle riunioni del “Forum Economico Mondiale”. Naturalmente, la vetrina non è il negozio:

l’officina delle decisioni resta nel retroscena, la regia in cima alla piramide – l’apparato finanziario-tecnologico – e, un piano più sotto, gli organismi riservati, i “pensatoi” delle élite (think tank), sodalizi come il “Bilderberg”, la “Round Table”, i” vertici della massoneria “e di “associazioni elitiste” il cui modello sono le britanniche “Royal Society”, “Chatham House”, “Fabian Society”.

 

L’importanza assunta dalle reti sociali con miliardi di utenti è il perfetto successo di un sistema che ha convinto i più di essere libero e aperto, ma che al contrario – oltre a compravendere i dati di tutti e di ciascuno – ha organizzato un’inedita censura privatizzata.

Nel passato, la censura era prerogativa dei sovrani e degli Stati, oggi è appaltata ai social media.

 E diventa autocensura, per paura e conformismo.

Il successo di tale azione di riconfigurazione cognitiva, linguistica e comportamentale è essenziale.

A tale scopo, è stata organizzata una delle più gigantesche operazioni di lavaggio del cervello della storia, un’autentica guerra il cui obiettivo è la nostra mente.

 Si sta modificando la mappa cognitiva di centinaia di milioni di persone, attraverso la creazione, diffusione e imposizione di una neolingua “politicamente corretta”, che obbedisce cioè a canoni indotti dall’alto, “corretti” in quanto modificati per corrispondere al criterio di bene e di male, di giusto o sbagliato, voluto dal potere.

Chi determina non solo che cosa è giusto pensare, ma perfino con quali parole esprimerlo, proibendo termini e concetti e imponendone altri, è padrone del nostro foro interiore.

 Bertrand Russell, intellettuale e aristocratico britannico, pronosticò che l’uso appropriato (dal punto di vista dell’élite) delle discipline psicologiche avrebbe convinto la gente che “la neve è nera”.

L’università americana di Stanford ha elaborato un glossario del linguaggio “dannoso” e dei corretti termini da usare, contravvenire i quali diventa “discorso di odio”, lo sconcertante psico reato postmoderno.

La guerra delle parole, cioè dei significati, è stata vinta anche con l’ausilio di sistemi giuridici che rendono legali o illegali parole, concetti e pensieri e negano l’esistenza di una legge naturale.

 Noi stessi, mentre scriviamo, ci stiamo sottomettendo alla neolingua.

Le tappe successive del progetto sono il rovesciamento delle abitudini alimentari umane (un capovolgimento antropologico e biologico) e l’abolizione della proprietà privata diffusa.

L’attacco neofeudale alla casa e all’automobile rappresenta l’insidioso annullamento di oltre due millenni di civiltà giuridica romanistica.

Tutto deve essere di loro proprietà, compresi gli esseri umani.

Cancellazione: della civiltà, dei diritti, delle parole, della libertà, dell’umanità.

 L’esito è un “neo schiavismo” in cui i diritti della persona – vanto della nostra civiltà – vengono obliterati a vantaggio di un’oligarchia che atterrisce per metodi, scopi, malvagità, odio per la creatura umana.

 Di loro non si può dire male:

“Madamina”, il catalogo è questo, disse il servo Leporello alla povera Donna Elvira, elencando le “conquiste” di Don Giovanni.

 

 

 

 

Chi comanda al Cremlino

 (oltre Putin).

It.insideover.com - Lorenzo Vita – (10 MAGGIO 2022) – ci dice:

 

La guerra in Ucraina ha scatenato diverse analisi sul cerchio di potere che gravita intorno al presidente della Russia, Vladimir Putin.

 Molti si sono chiesti quale fosse la percezione del capo del Cremlino rispetto all’intricato sistema di oligarchi e burocrati che ha preso parte al consolidamento del suo “regno”.

Altri invece si sono posti il problema di capire quale potesse essere il successore di un leader sicuramente deciso a incarnare la cosiddetta “anima russa” e la sua Storia ma evidentemente indebolito sia per motivi anagrafici che per motivi puramente politici.

 La guerra, del resto, è un trauma che colpirebbe qualsiasi leadership, anche quella più granitica.

 E un conflitto come quello russo-ucraino, con migliaia di morti, l’isolamento internazionale, le sanzioni economiche e le crepe interne al sistema di potere, non potevano fare altro che scalfire quel sistema di potere che già prima della “operazione militare speciale” denotava le prime fratture interne.

 Fino alle notizie, sempre più frequenti, di un possibile golpe.

Lo zar “solo” e il patriarca.

Sgombrando il campo da letture a volte esagerate della figura di Putin, quello che possiamo dire fino a questo momento è che il presidente russo è apparso sensibilmente più solo rispetto a prima del conflitto.

Dall’inizio dell’escalation, poi sfociata nell’aggressione all’Ucraina, il capo del Cremlino ha mostrato il suo lato più oscuro e solitario:

 lui e il popolo, quasi come un leader carismatico che il presidente della Federazione Russa.

Le similitudini col sistema zarista sono diventate sempre più frequenti.

Il sentirsi come ultimo interprete del destino della nazione russa e del suo popolo, la ricerca del consenso rifacendosi alla minaccia dell’assedio esterno e la vicinanza alla figura del patriarca Kirill alimentano un’immagine da leader sempre più concentrato sulle proprie ambizioni e su un sistema di potere quasi moralizzante.

I video e le foto di lui sempre più distaccato, anche fisicamente, dai sui interlocutori, lascia trasparire l’immagine di un presidente lontano rispetto alla sua cerchia di ministri e potenti, ma anche intimorito e solo.

Come se nessuno potesse davvero comprenderlo se non appunto il suo popolo, a cui invece vuole apparire vicino.

 Lo dimostra l’organizzazione della manifestazione allo stadio di Mosca ma anche la partecipazione alla veglia di Pasqua nella capitale.

 Lì dove si è ulteriormente rafforzata l’idea di uno zar vicino alla Chiesa, in cui il patriarca, alfiere del conflitto e degli ideali culturali e politici del Cremlino, è il simbolo di questa nuova Russia nazional-conservatrice di stampo imperiale.

 Non un consigliere, ma un alleato potente e allo stesso tempo ancillare.

Leader di una Chiesa che è stata anche motivo propagandistico di una guerra in cui rientra anche la separazione della comunità ortodossa ucraina da quella russa.

Il sistema di potere intorno a Putin.

Se questa è l’immagine che viene lasciata trapelare dal Cremlino, va ribadito che intorno a Putin esiste una cerchia di potere che rappresenta un sistema complesso e articolato.

 In cui tutti i personaggi hanno un ruolo specifico, importante e fondamentalmente unico nella geografia del potere russo.

 Un sistema che viene letto, come ricordato da un’analisi del “Journal of Democracy”, alternativamente come un sistema in cui Putin “è un dittatore onnipotente, da temere al di sopra di tutte le altre minacce alla democrazia” oppure come “una pallida ombra del suo passato sovietico e zarista, che vive di idrocarburi e di una scorta nucleare dell’era della Guerra Fredda”.

Dubbi che devono evidentemente fare i conti con la comprensione di chi oggi è davvero vicino al presidente della Federazione Russa.

Il “delfino” Medvedev.

Una delle personalità più interessanti della cerchia del potere russo è Dimitri Medvedev.

 Presidente tra il 2008 e il 2012, nel periodo di intervallo di Putin dalla presidenza, Medvedev ricopre l’incarico di vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, a sua volta guidato da Putin, e come riportano alcune fonti, è stato da poco nominato responsabile del Comitato interministeriale per le infrastrutture critiche.

 L’obiettivo dell’organo, spiega “Giuseppe Gagliano”, è la salvaguardia della sicurezza del complesso industriale e militare russo di fronte alla minaccia cyber.

 L’ex delfino di Putin, che ricordiamo essere stato l’unico ad avere assunto il potere in Russia oltre allo “zar” durante la lunga stagione di potere putiniano, sembra si stia ritagliando ultimamente un ruolo più forte.

 Molti osservatori hanno ritenuto la sua nomina a vicepresidente del Consiglio di sicurezza come un declassamento nato da una divergenza sempre più netta rispetto al suo mentore al Cremlino.

 Tuttavia, in questa guerra in Ucraina, Medvedev ha assunto posizioni sempre più dure presentandosi come uno dei più convinti sostenitori della guerra a Kiev.

Una svolta da “falco” che sorprende, perché la sua presidenza era considerata quasi un’opportunità di svolta democratica e liberale, ma che confermerebbe la volontà di riavvicinarsi in modo netto al capo dello Stato anche in ottica di successione.

Shoigu, il siberiano.

Insieme a Medvedev, un ruolo di primo piano ha poi certamente “Sergej Shoigu”, il ministro della Difesa.

L’uomo che dalla Siberia è riuscito a scalare le vette del potere fino a raggiungere la guida del dicastero più importante nelle logiche imperiali del Cremlino, è stato da sempre un fedelissimo del Cremino.

 Per “Shoigu” si tratta di un momento complesso.

L’immagine di lui che ripete a Putin quanto scritto su un foglio mentre il presidente, dall’altro capo del tavolo, lo fissa tenendosi al tavolo è una delle rare immagini del ministro in quest’ultima fase della guerra.

Immagine a cui si aggiunge quella del volto quasi funereo, insieme a “Valerij Gerasimov”, mentre Putin “attivava” le difese strategiche.

Qualcuno pensava fosse proprio” Shoigu” uno dei possibili successori di Putin alla guida della Federazione Russa, tuttavia, il conflitto in Ucraina ha minato alcune certezze.

Probabilmente Putin riteneva probabile una vittoria schiacciante o con un impatto certamente meno duro sulle forze armate.

 E questo sarebbe dimostrato anche da alcuni indizi delineati a metà aprile da “Marco Marisio” sul Corriere della Sera.

“Negli ultimi due numeri della rivista del Ministero della Difesa russo” raccontava Marisio “il nome del ministro della Difesa russo è stato citato zero volte.

Neppure una menzione di sfuggita”.

Dunque nella rivista che è il simbolo della propaganda militare russa non compariva proprio la guida della Difesa di Mosca.

E in piena guerra.

 Anche la sua conduzione della “operazione militare speciale” è apparsa particolarmente strana.

 In balia di Putin ma anche di scelte sbagliate.

 Ha improvvisamente nominato a guida delle operazioni “Aleksander Dvornikov”, quasi contraddicendo i piani precedenti che sicuramente erano stati preparati da tempo.

E la sua vicinanza a Putin è apparsa in bilico, al punto che si può ritenere che la “caduta di Mariupo”l fosse l’ultimo treno per rimanere in sella al ministero.

 Qualche dissidente aveva ipotizzato che fosse stato vittima di un “potente infarto”.

 Notizie mai confermate né verificate ma tanto è bastato per porre in dubbio la sua permanenza al governo.

Gerasimov, dalla dottrina al silenzio.

Fondamentale in questo senso anche il ruolo del capo di Stato maggiore, “Valerij Gerasimov”, che anche lui, come “Shoigu”, sconta il fatto di non avere condotto la Russia alla vittoria smontando i sogni di gloria di Putin.

 Considerato la grande mente dietro la nuova strategia russa, e del resto ideatore di una dottrina che porta anche il suo nome e che definisce in particolare il concetto di guerra ibrida, “Gerasimov” appare sempre più lontano dal cerchio magico di Putin.

Tanto che anche lui, come altri papaveri di Mosca, sembra costretto a scelte anche di facciata.

L’ultima, in tal senso, è la visita al fronte del Donbass.

Un tour confermato anche dal Pentagono che, al contrario, non ha certificato le notizie su un suo presunto ferimento riportate dagli ucraini.

Secondo alcuni osservatori, lui, al pari di “Shoigu”, paga la pessima figura fatta dalle forze russe in questi mesi di “operazione militare speciale”.

Ma c’è da dire che non tutti concordano riguardano un suo allontanamento dalle stanze del potere, dal momento che “Gerasimov” ha certamente una fitta rete di alti ufficiali suoi amici e che conosce alla perfezione un campo di battaglia che non può essere letto soltanto dal presidente.

La triade dei servizi di Leningrado.

Nella cerchia dei consiglieri e dei potenti del Cremlino, vi sono poi tutti gli uomini che fanno parte della burocrazia dell’intelligence.

 Per un uomo che proviene dal Kgb come Putin, il ruolo dei servizi segreti è chiaramente preponderante, e non è un caso che gli uomini a capo delle diverse agenzie abbiano un peso specifico non indifferente nei corridoi di Mosca.

Non solo a livello di sicurezza interna ed esterna, ma anche nelle stesse logiche politiche e strategiche.

 Un potere come quello putiniano non può fare a meno dell’intelligence e degli eredi del Kgb.

 E per lo “zar”, è sempre importante prestare attenzione a quello che viene riferito dai suoi agenti.

Uno dei nomi più importanti è quello di “Aleksandr Bortnikov”, funzionario e generale russo, veterano del Kgb di Leningrado, lì dove è nato Putin, e capo del Servizio federale per la sicurezza, il famigerato “Fsb”.

 Il suo ruolo è fondamentale, controlla migliaia di agenti, ha in mano i dossier più importanti della sicurezza interna russa.

Qualcuno aveva addirittura ipotizzato che lui sarebbe stato scelto dall’élite russa contraria a Putin in caso di fallimento della guerra e golpe per fermare il presidente.

 Ipotesi che ovviamente non può trovare conferme ma che sottolinea l’importanza di “Bortnikov” nelle gerarchie russe.

Altrettanto potente è il predecessore di Bortnikov” alla guida dell’”Fsb”: “Nikolai Patrushev”.

Considerato il vero leader del gruppo dei “falchi” intorno Putin, il “segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa” e consigliere dello stesso presidente ha rilasciato un’intervista al giornale “Rossijskaja Gazeta”, in cui ha detto senza mezzi termini che il piano della Russia consiste nel “distruggere la piazza d’armi del neonazismo creato dall’Occidente ai nostri confini. La necessità della smilitarizzazione è dovuta al fatto che l’Ucraina, satura di armi, rappresenta una minaccia anche dal punto di vista dello sviluppo e dell’uso di armi nucleari, chimiche e biologiche”.

Parole che sembrano delineare una minaccia esistenziale per la Russia tale da addirittura autorizzate, per motivi di dottrina strategica, anche l’utilizzo di armi nucleari.

Negli anni passati aveva già identificato il problema principale per la sicurezza russa nelle politiche degli Stati Uniti in Ucraina, e in tempi non sospetti, come riportato dal “Guardian”, definì le rivoluzioni colorate come una “forma di destabilizzazione che rappresenta una minaccia altrettanto grave”, e che la destabilizzazione dell’Ucraina era “uno strumento con cui indebolire drammaticamente la Russia” perché, a suo dire, per Washington la Russia “non dovrebbe esistere come Paese”.

 Tesi ripetuta costantemente anche di recente, all’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”.

E c’è chi ritiene che in caso di temporanea assenza di Putin, potrebbe essere proprio lui,” Patrushev”, ad assumere il controllo di Mosca.

Sempre sul fronte dei servizi, non va dimenticato poi un uomo potente diventato noto nel mondo per il modo in cui Putin lo ha rimbrottato praticamente in mondovisione.

 Parliamo di “Sergei Naryshkin”, uno di quelli che la “Bbc” chiama “i vecchi fantasmi di Leningrado”.

La risposta denigratoria del presidente russo nei suoi confronti, e davanti a tutti i più alti funzionari della Federazione e a favore di telecamere, ha fortemente indebolito la leadership del capo dello “Svr”, l’intelligence esterna.

Ma non bisogna sottovalutare l’influenza che può avere proprio questa forma di condanna pubblica da parte di Putin nelle gerarchie militari, politiche ed economiche che non sembrano favorevoli alla guerra in Ucraina e al modo in cui è stata condotta fino a questo momento.

Qualche osservatore ritiene che in realtà Putin abbia semplicemente voluto lanciare un messaggio a tutti, compresa l’opinione pubblica, e abbia sfruttato il momento e le risposte esitanti di” Naryshkin”.

Tuttavia, quel siparietto fornito dallo “zar” ha sorpreso tutti, confermando l’imprevedibilità di un leader che fino a quel momento sembrava talmente fiducioso del lavoro e dei consigli del capo dello “Svr” che si ipotizzava potesse essere uno dei potenziali eredi del capo del Cremlino.

Anche lui negli ultimi tempi sembra avere l’esigenza di mostrarsi di nuovo molto legato al presidente.

 C’è lui dietro la presunta informazione dei servizi russi sul desiderio della Polonia di riprendersi i “possedimenti storici” in Ucraina con un intervento militare di Varsavia nella parte occidentale del Paese per prevenire eventuali aggressioni russe.

Ma c’è anche chi crede che sia proprio lui a essere uno dei possibili leader in caso di golpe dei “Siloviki “contro Putin.

Lavrov è davvero al tramonto?

Sul fronte esterno, una menzione va poi fatta per “Sergej Lavrov”, il ministro più noto del governo russo e capo della diplomazia di Mosca.

Lavrov, 71 anni, è considerato da tempo sempre più lontano da Putin.

L’intervista rilasciata a “Mediaset” ha confermato che anche il ministro degli Esteri aderisce alla visione putiniana di una guerra fatta per denazificare l’Ucraina colpendo chi minaccia Mosca.

 Ma molti analisti ritengono che ormai il lavoro di “Lavrov”, se non secondario, sia considerato meno decisivo rispetto agli anni in cui il ministro era ritenuto uno dei più fidati uomini del presidente.

 La guerra in Ucraina, probabilmente, non era nei desideri del titolare degli Esteri, intenzionato a costruire una rete di partnership e alleanze che non doveva essere traumatizzata da un conflitto nel cuore d’Europa.

Era lui il ponte tra l’Occidente e la Federazione Russa, e sembrava essere l’unico fine diplomatico a poter gestire la politica espansionista sognata da Putin e perorata dai falchi.

Il conflitto lo ha allontanato dalla cerchia dei fedelissimi.

Ma anche in questo caso, non deve sorprendere né il riavvicinamento pubblico né il fatto che sia considerato uno dei più apprezzati ministri da parte degli oppositori dell’attuale “zar”.

Una duplice interpretazione che conferma anche la volontà di” Lavrov” di svestire da subito i possibili panni di capo di un’opposizione interna che nelle stanze del Cremino può risultare molto pericolosa.

I meno noti ma influenti.

A questi nomi noti, si devono poi aggiungere altri che ai molti appaiono meno rilevanti ma che potrebbero avere un peso decisivo nelle sorti della stagione di potere putiniana.

 C’è “Valentina Matvienko”, lealista di Putin e anch’essa proveniente da San Pietroburgo.

 C’è” Victor Zolotov” capo della guardia nazionale russa, la” Rosgvardia”, considerato una sorta di comandante dei pretoriani di Putin e guida di un esercito di circa 400mila unità nonché comandante di quel generale “Roman Gavrilov” licenziato in una delle prime “purghe” dall’inizio della guerra.

 Non va dimenticato poi il ruolo del primo ministro “Mikhail Mishustin”, che oltre a essere un economista impegnato nel difficile compito di evitare il tracollo a causa della guerra e delle sanzioni, potrebbe anche essere l’uomo che avrà il potere in caso di impossibilità di Putin per la ormai nota presunta operazione chirurgica.

Motivo per cui molti parlano di un possibile tandem o addirittura uno scavalcamento da parte di “Patrushev”.

Infine, sempre sul lato finanziario, menzione particolare va fatta alla governatrice della Banca centrale russa,” Elvira Nabiullina”.

 Salita agli onori della cronaca per avere dato una visione diametralmente opposto sulla situazione finanziaria russa rispetto a quella data dal Cremlino, qualcun ipotizzava le sue dimissioni.

Che però non sono avvenute. Il tracollo finanziario ancora non c’è stato, così come il default.

Molti ritengono che sia stata proprio la leadership di “Nabiullina” a frenare un pericoloso abisso economico.

 Ed è per questo che la “zarina” delle finanze di Mosca può essere considerata a tutti gli effetti un personaggio potente in grado di sopravvivere anche in caso di fine del potere di Putin.

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