BlackRock e i ricchi uomini di Davos finanziano il marxismo liberale progressista negli Usa e nella UE.

 

BlackRock e i ricchi uomini di Davos finanziano il marxismo liberale 

progressista negli Usa e nella UE.

 

 

Storia della sinistra americana

e delle radici della “cancel culture”.

 Linkiesta.it - Paul Berman – (20 agosto 2020) – ci dice:

Paul Berman ha firmato la lettera appello di Harper’s che tanto ha fatto discutere il mondo intellettuale di qua e di là dell’Atlantico.

Su Linkiesta, ripercorre la nascita delle pulsioni coercitive dell’ala radicale della sinistra, fin dai tempi dell’Unione Sovietica impegnata ad annientare liberalsocialisti e socialdemocratici.

E con questo mini saggio invita alla resistenza in difesa del pensiero indipendente e creativo.

La questione più ampia che si annida dietro al dibattito sulla “Cancel culture” riguarda l’essere “liberal” – cioè: cosa vuol dire davvero essere liberal?

 E perché dovremmo occuparcene?

Un manifesto pubblicato sul sito del “magazine Harper’s “il mese scorso dà un’ottima descrizione della “Cancel culture” nella sua versione di sinistra.

È uno spirito censorio, «un’intolleranza delle visioni opposte, la moda dell’umiliazione pubblica, dell’ostracismo e la tendenza a semplificare questioni politiche complesse in una certezza morale cieca».

È l’appello, fatto su basi ideologiche, di “cancellare” alcune persone – nel senso di distruggerle dal punto di vista professionale.

Il manifesto pubblicato su “Harper’s “è intitolato

“Una lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto” ed è molto contrario a questo fenomeno.

Ben 152 scrittori, studiosi e artisti hanno apposto la loro firma per indicare questa contrarietà, io ero tra loro.

Ma nel mio caso ho firmato anche perché qualcosa, nel tono vecchio stampo e pieno di sfumature del testo, mi ha riportato in mente i vari “manifesti liberal” e i dibattiti di tanto tempo fa – alcuni, al contrario, potrebbero considerarli un motivo in più per respingere il manifesto, i suoi firmatari e le sue pretese.

Ma credo che sia un bene, invece, tornare con la mente proprio a quei dibattiti di tanto tempo fa ed è un bene ricordare cosa significava, una volta, essere “liberal”.

A pensarci bene, le sopraffazioni inflitte da una sinistra infervorata non sono un problema nuovo.

 Negli Stati Uniti hanno una storia e perfino un’origine: risale agli anni ’20.

 Il Partito Comunista Americano fu fondato in quel periodo, nella convinzione (da ubriachi) che il marxismo, nella sua nuova versione russa, costituisse l’ultima e irrefutabile parola in fatto di scienze sociali.

Il partito non riuscì mai ad avere successo negli Stati Uniti, ma per un certo periodo crebbe a New York, in California e a Chicago.

Luoghi in cui i comunisti si autoassegnarono il diritto non solo di fare prediche ai rivali e agli oppositori (che è diritto di tutti), ma anche quello di distruggerli – soprattutto i rivali di sinistra – nel nome della razza umana.

Cominciarono a provare a imporre la loro dottrina ai sindacati socialisti o social-democratici, e poi a tutte le altre organizzazioni della sinistra americana, con la minaccia di repressioni continue.

Più di ogni cosa, cancellavano tutto ciò che venisse detto o stampato di sfavorevole sull’Unione Sovierica.

Si arrivò a crociate molto sgradevoli, ai limiti (o oltre) della violenza, con squadre di picchiatori e boicottaggi, che durarono per tutti gli anni ’20 e ’30.

 Ebbe molta influenza a Manhattan, il centro nazionale dell’editoria, e da alcune altre parti – influenza maggiore di quanto chiunque sembri ricordare oggi (ma se ne può leggere qualcosa nei diari di alcuni grandi scrittori: Max Eastman, Sidney Hook, Irving Howe e altri).

D’altra parte, anche chi si opponeva a queste azioni del Partito Comunista ha una storia.

In quegli stessi anni nacquero in America i movimenti moderni per le libertà civili e i diritti umani.

I militanti e i loro amici tra gli intellettuali e, soprattutto, nei sindacati, organizzarono una resistenza, a volte tardiva, a volte segnata da episodi di ingenua illusione nei confronti dell’Unione Sovietica (cosa che rappresentava una peculiarità intermittente dell’ACLU, il sindacato americano dei diritti civili).

 E, va detto, a volte con una certa brutalità, cosa comune nei sindacati.

Ma dopo un po’ anche questa resistenza ha trovato una sua forma. Era decisa, ma anche piena di sfumature: condannava come principio le azioni dei comunisti, ma allo stesso tempo era capace di riconoscere che, nonostante tutto, anche loro erano utili su alcune questioni.

Non chiedeva certo che il governo intervenisse a soffocare e reprimere la sinistra americana, né voleva cedere di un millimetro nella antica battaglia contro le canaglie e i demagoghi e le violenze della destra.

 Lucidità, equilibrio e persuasione costituivano l’idea dominante.

A New York questa resistenza contro il Partito Comunista e le sue prepotenze all’inizio fu chiamata “socialismo” o “socialdemocrazia” o con altre etichette della sinistra radicale e del movimento dei lavoratori, anche se al suo interno avevano un ruolo anche alcuni dichiarati progressisti, non sempre in modo continuato come i socialisti.

 

Alla fine degli anni ’30 perfino gli intellettuali socialisti o alcuni di loro (addirittura “Sidney Hook”, il più grande dei filosofi marxisti americani, una figura dominante in questi scontri, sempre spada in mano) cominciarono ad accettare con una certa riluttanza, forse, che “liberalismo” fosse il termine appropriato.

La parola e il concetto cominciarono a dominare il dibattito.

E dimostrarono di essere persuasivi.

Questi impulsi coercitivi della sinistra sono, tutto sommato, impulsi umani. Erano presenti anche nell’antica Grecia, come annotava Tucidide nella sua descrizione dei rivoluzionari democratici di Corcira. Prima o poi tornano a circolare.

Accadde con la “New Left” degli anni ’60 e ’70, per esempio, che cominciò come movimento liberal – discendeva in gran parte dalle organizzazioni liberal e social-democratiche che avevano sconfitto i comunisti americani – e dove poi, chissà come, prese forza qua e là un orientamento maoista, accompagnato da alcune ispirazioni provenienti da Fidel Castro e dalla Rivoluzione algerina.

Da qui alla fine degli anni Sessanta, una piccola e rumorosa percentuale dei giovani della New Left, accesi dalle isterie del periodo, fece germogliare di nuovo un ramo violento.

Si posero a cercare vendetta sui nemici dell’umanità, definiti stavolta come gli agenti dell’imperialismo – espressione con cui si indicavano, ovviamente, i “liberal”.

“Putschisti” era la parola coniata (da sinistra) da “Irving Howe”, usata per descrivere questo lato insopportabile della sinistra.

La “New Left” lanciò persecuzioni contro i loro stessi eretici, che dopo un po’ erano diventati praticamente tutti.

Insomma: era la solita vecchia robaccia stalinista in una versione rinnovata, stavolta disorganizzata e non istituzionale – cosa che la rendeva più difficile da respingere.

 Alla fine, questa robaccia si è autoeliminata da sola.

Perfino i maoisti erano esseri umani e riuscirono a sopportare le loro stesse assurdità solo fino a un certo punto.

Intanto, però, la sfida lanciata contro coloro che volevano considerarsi “liberal” era ardua, a dir poco.

Dovevano essere decisi, o almeno non troppo malfermi, rispetto alla “follia della New Left”.

E però a volte erano anche riluttanti a sottrarsi in modo completo, viste le sue origini liberalsocialiste.

Dovevano riconoscere che, sebbene avesse preso una piega sbagliata, il movimento radicale si era nel frattempo dimostrato meravigliosamente efficace nel rafforzare, rivitalizzare o perfino far germogliare un insieme di cause – quelle che sono a volte derise come “politiche identitarie” – ma che, in ogni caso, rappresentavano delle splendide nuove possibilità per una società moderna.

Era possibile essere anti-putsch e pro-innovazione allo stesso tempo? Essere decisi e anche sfumati? Non facile.

La “New Left” fece la grazia di sparire, mentre il meglio di ciò che aveva contribuito a creare continuò a esistere.

Anche dopo tutto questo, però, qualcosa dell’antico impulso coercitivo ancora rimaneva nell’aria, anche se in una versione così strana da essere comica.

Lo si vide in un piccolo numero di persone che, formate da alcuni filoni delle “identity-politics della New Left”, cercarono carriere convenzionali nel mondo umanistico, a volte come professori di letteratura nelle università, o nelle gallerie d’arte.

Non erano politici, in senso proprio. E nemmeno si consideravano comunisti secondo qualche nuova versione aggiornata – a parte alcuni – anche se amavano leggere riviste di arte con nomi bolscevichi come “October”.

Erano vittime, invece, dell’influenza di una serie di nuove teorie filosofiche d’avanguardia provenienti dalla Francia, che offrivano una nuova combinazione di meditazioni poetiche sul linguaggio e osservazioni antropologiche sulla società. Teorie straordinarie, progettate per rendere luminoso qualsiasi argomento venisse in mente con la polvere luccicante della novità.

Nella sua applicazione americana, però, queste straordinarie teorie furono considerate estensioni radicali del marxismo perché avevano il merito di rendere evidente la causa ultima dell’oppressione, che sarebbe la struttura del linguaggio e la scelta delle parole, combinate con una universale volontà di potenza in tutte le gerarchie sociali.

Alcuni trovarono in quelle idee molto insolite una sorta di permesso, concesso da sinistra, per sfuggire alle rigidità del marxismo vecchio stile: un permesso per esplorare, per esempio, gli accenti culturali di un moderno femminismo.

Altre, dopo averle inalate, si sono invece perse nella supposizione inespressa che l’oppressione, essendo in origine un fatto linguistico, debba essere nei risultati un fatto psicologico.

Si sono baloccati con l’idea che, se si vuole capire se si è in presenza o no della tirannia della struttura del linguaggio e della volontà di potenza, occorre consultare i propri sentimenti feriti.

Con il risultato di far partire mini-campagne contro chiunque vagasse per i corridoi delle facoltà di lettere e usasse, il malcapitato, un vocabolario in grado scatenare sensazioni sgradevoli – o al quale poteva essere attribuita una interpretazione pericolosamente reazionaria.

Queste campagne erano pensate per umiliare gli individui accusati o, in casi estremi, danneggiare le loro carriere.

Non furono molte ma furono comunque insopportabili in massimo grado per chi le subiva.

“Philip Roth” ne catturò l’atmosfera nel suo romanzo ambientato in un college “La macchia umana”, che parla di un professore che utilizza una parola sbagliata.

Alla fine anche queste campagne cessarono.

In parte fu perché Roth non era solo, tra i liberal vecchio stampo, a dire: «Ma state scherzando?».

Cessarono anche perché gli stessi avanguardisti, o alcuni di loro, cominciarono a riconoscere quanto fossero eccessive queste formule su linguaggio e potere.

 O anche perché cominciarono a notare quanto fossero crudeli e inutili queste forme di umiliazione, e quanto ricordassero quelle del passato stalinista, ancora non del tutto dimenticato.

L’espressione «politicamente corretto», che ora è diventata un insulto di destra, nacque, dopo tutto, come un insulto di sinistra.

Era un’espressione dolorosa, ironica e auto-critica, ripresa dalla retorica del passato marxista da persone di sinistra intelligenti, che volevano ridicolizzare i fanatici il cui attivismo era eccessivo anche per chi ne condivideva l’area politica.

E però, anche di quelle campagne, nonostante fossero molto strane, qualcosa riuscì a rimanere nell’aria.

 Una mutazione virale.

 I ragionamenti dell’avanguardia filosofica degli anni ’70 e ’80 furono abbandonati in favore di un vocabolario, in lingua inglese, più convenzionale (anche se con una insistenza continuata, nello spirito del determinismo linguistico, sul neologismo come segno del progresso sociale) che rese lo zelo dei riformatori più interessante per il preside di facoltà.

Intervenne anche la tecnologia.

Il romanzo di Roth è ambientato nell’epoca dell’email, quando un “Rispondi a tutti”, pigiato per errore, conduce al disastro.

L’epoca dei social media è ancora più selvaggia.

Una massa sui social media può funzionare anche senza le benedizioni della teoria avanguardista.

Tuttavia, anche solo un minimo di citazioni teoriche può trasformare un’orda confusa in una squadra di agenti rispettabilmente impegnati nella lodevole attività di tenere sotto controllo le infrazioni linguistiche.

Quegli studenti, dopo aver passato i loro anni immersi nell’atmosfera delle nuove idee, avevano considerato ovvio informare a quelle ispirazioni la loro carriera nelle università, o nei giornali e sulle riviste, assoggettandosi alla pulsione di denunciare e umiliare i nemici linguistici (percepiti) della causa antirazzista e anti sessista.

Un impulso che crebbe.

 Tanto che, come spiega “Russell Jacoby” con un certo nervosismo, nella prima pagina del suo nuovo libro, “Sulla diversità”, «criticare la diversità è un invito all’ostracismo, è come salire in cattedra e gridare “Sono un razzista fanatico!”».

Il tutto ha portato alla moda, da parte di individui che si considerano i più rispettabili campioni della diversità, di rovinare le carriere di altre persone, le quali possono essere anche campioni di diversità, ma che non mostrano lo zelo necessario.

La loro colpa diventa quella di aver scelto l’espressione sbagliata, quella di aver pubblicato anche un solo articolo vietato, o aver messo insieme il titolo sbagliato. Il risultato non è le “Grandi Purghe di Stalin” in una nuova edizione. Ma il romanzo di “Roth, ingrandito.

O anzi, è qualcosa di simile a quello che descrive “Hawthorne”, che si rifaceva al calvinismo impazzito del 17esimo secolo, o a “Il crogiuolo” di “Arthur Mille”r, che fingendo di rifarsi a quello cui si rifaceva “Hawthorne”, evocava le isterie del maccartismo.

Nei luoghi in cui avvengono questi atti di persecuzione, tutti possono vederli.

 Tutti notano come espressione nuove e vuote (ad esempio “asservitori” anziché “proprietari di schiavi”) vengano assunte in forma losca e uniforme nelle riviste e in alcuni giornali, accompagnate da una certa devozione nelle fondazioni filantropiche e umanistiche e da una cautela malcelata su alcune specifiche tematiche, come le dottrine dei movimenti islamisti.

Tutti coloro che hanno conoscenze nel mondo universitario hanno sentito storie di persone, in una facoltà o nell’altra, preoccupate per la loro carriera, professori bravi ma riluttanti a discutere idee e concetti con gli studenti, riluttanti ad assegnare letture di classici della letteratura, riluttanti ad affrontare certe controversie politiche o addirittura a esibire simboli, per la paura di incontrare militanti della correttezza arrabbiati, con il rischio di venire portati a giudizio.

Queste storie possono sembrare esagerate se sono adoperate per dire che tutte le scuole degli Stati Uniti sono precipitate nell’oscurità e che ogni professore vive nella paura, cosa che non è vera.

 Però alcuni episodi sono tutt’altro che esagerazioni.

Qui, per esempio, ci sono circa 350 professori di Princeton che da poco hanno sottoscritto una lettera indirizzata al presidente e agli amministratori di una università molto importante in cui chiedono, tra le altre cose, di istituire una commissione speciale per «sovrintendere alle indagini e alla disciplina di comportamenti, episodi, ricerche e pubblicazioni di stampo razzista da parte della facoltà».

Cosa incredibile: ma alcuni professori hanno riferito all’”Atlantic” che, pur firmando la lettera, non intendevano sostenere le sue disposizioni più salienti, cioè la richiesta di una commissione speciale.

In ogni caso, hanno firmato. È difficile da credere.

 Ma d’altra parte è anche facile da credere.

“Irving Howe”, nelle sue memorie, descriveva così i professori universitari degli anni ’30 che erano caduti sotto l’incantesimo di Stalin:

 «Inquietante allo stesso modo era il bisogno avvertito da persone serie di un abbandono rituale della propria indipendenza intellettuale. Anzi, di un abbassamento rituale di fronte alle brutalità del potere».

Il piccolo cerchio di scrittori che ha scritto la lettera per” Harper’s “del mese scorso (Thomas Chatterton Williams, Mark Lilla, David Greenberg, George Packer e Robert Worth) è soltanto un gruppo di amici, composto di accademici e giornalisti. Non dirigono un giornale e non gestiscono budget.

Non provengono nemmeno da retroterra filosofici simili, cioè non hanno nemmeno quel vago potere che emana dall’essere una cricca.

Ma, dopo aver scritto la loro dichiarazione, non hanno avuto nessun problema a ottenere altre firme, alcune di loro abbastanza note (la più grande autrice di libri per bambini, il trombettista più famoso del mondo, per non parlare di “Noam Chomsky”!), senza nemmeno essersi presi la briga di contattare, per di più, alcuni degli scrittori che prima di loro avevano suonato l’allarme su questi argomenti.

La lettera consiste soltanto di tre paragrafi.

Ma è comunque diventata un argomento di conversazione di portata globale, non solo per il mondo anglofono.

“Mario Vargas Llosa” (il maggior romanziere al mondo non per bambini) e un centinaio di figure della cultura e della scienza del mondo ispanofono hanno prodotto la loro lettera di sostegno a quella di “Harper’s”, come condanna della “cancelacion ed el linchamiento”, due contributi americani (triste da dire) al vocabolario globale dei comportamenti tirannici.

Eppure, quando dico che tutti vedono il problema, quello che intendo dire è che tutti lo dovrebbero vedere.

Per citare l’esempio più famoso, tutti dovrebbero vedere qualcosa di inquietante nel licenziamento di “James Bennet”, il capo della pagina degli editoriali del “New York Times”.

Il suo errore è stato fare ciò che i direttori della pagina degli editoriali del “Times” hanno sempre fatto:

pubblicare editoriali, ogni tanto, scritti da “Attila”, cioè – in questo caso – il senatore “Tom Cotton dell’Arkansas.” Il suo contributo era stato titolato, ovviamente: «Mandate l’esercito».

 Così ha scritto Attila: «Questi criminali nichilisti sono in giro solo per fare devastazioni».

Il valore di pubblicare cose del genere è sempre stato, almeno in passato, quello di permettere ai lettori di cogliere, senza mediazioni, le parole reali.

 Cosa utile oltremodo, e che si inchina (in modo simbolico) nella direzione di un dibattito pubblico, senza però necessariamente suggerire che “Attila” sia un avversario degno.

Il valore è stato anche quello di mostrare al mondo che perfino “Attila” riconosce lo status universale del “New York Times”. E pubblicare “Attila” è sempre stato una dimostrazione di potere, del “Times”.

Invece, nel clima attuale, un gran numero di colleghi indignati ha creduto che il direttore non solo avesse commesso un errore, ma addirittura un crimine che meritava la fine della sua carriera.

Cosa che, visto che il Times è il giornale globale, può significare soltanto che i dirigenti delle “istituzioni liberal nel mondo” debbano trovare modi per non offendere i militanti inferociti.

Eccolo qui, “el linchamiento”.

Un linciaggio inteso come un messaggio al mondo.

È ovviamente un oltraggio alla tradizionale anima liberal dello stesso Times.

Eppure, tante persone semplicemente non ci vedono nessun affronto. E neppure un curioso rituale di auto-flagellazione da parte del New York Times, anzi, proprio nessun problema.

 Ci vedono del progresso sociale.

Questa è stata una delle rivelazioni provocate dalla lettera di “Harper”.

La risposta indignata di persone che, nel non vedere nessuno di questi preoccupanti sviluppi, crede con sincerità che queste accuse, che indicano delle prepotenze ideologiche da parte della sinistra, siano solo una calunnia di destra.

Un manifesto corposo, con le firme di più di 160 giornalisti e accademici “Una lettera più specifica sulla giustizia e il dibattito pubblico” sostiene che quella di “Harper” fosse ipocrisia sistematica, pensata per nascondere il soffocamento delle voci oppresse.

D’altra parte, come hanno notato già altri commentatori, un’altra virtù della lettera di Harper è stato provocare una risposta per confermare la diagnosi.

 Vedo un editoriale di “Pankaj Mishra”, su “Bloomberg New”s, con il titolo «No, la Cancel culture non è una minaccia per la civiltà» (ma nemmeno lo “straw man argument”, l’argomento fantoccio, è una figura retorica dignitosa), che associa i firmatari a Donald Trump (il quale invece viene contestato in modo esplicito).

Un editoriale che si conclude con il rimpianto – accompagnato da un sinistro sguardo a una lama luccicante – per il fatto che molti di questi, me compreso, non abbiano ancora pagato per i loro crimini ideologici con la decapitazione della loro carriera (ma non appena il rimpianto di “Mishra” è stato stampato ecco che” Bari Weiss”, una dei firmatari, ha sentito la necessità di rinunciare alla sua carriera di editorialista e di redattrice di quella sezione del “New York Times – Bari Weiss”, il cui commento al massacro della sinagoga di Pittsburgh del 2018 costituisce una delle condanne più potente della violenza figlia dell’intolleranza di destra mai apparse sul Times o in qualsiasi altro giornale negli ultimi anni.

Per cui la “lettera di Harper “si è dimostrata un ottimo esempio di un manifesto che si auto-verifica. Indica un problema e, provocando una risposta, dimostra la veridicità del suo allarme.

Tuttavia, la virtù più profonda di quel testo è di spargere alcune illuminanti verità sull’idea liberal.

Una di questa, in particolare, contribuisce a chiarire un mistero fondamentale di queste controversie.

Cioè dove si debba tracciare una linea di demarcazione tra socialismo liberale e le varie altre dottrine e pulsioni più di sinistra.

 È una questione complessa, varie concezioni molto diffuse insistono nel tracciarla ovunque tranne che nel posto giusto.

Si crede, per esempio, che ogni linea di demarcazione tra il “socialismo liberale” e la “sinistra radicale” debba essere piuttosto indistinta, senza definizioni nette.

 Essere liberal e appartenere a una sinistra più radicale sarebbe più o meno la stessa cosa, tranne che la prima posizione è più pragmatica, o meno immaginifica. O più educata, o più upper-class, o più vigliacca.

 In linea di massima conta poco perché le due visioni concordano sugli obiettivi di progresso sociale.

Oppure no, si pensa che il liberalsocialismo non sia la stessa cosa della sinistra radicale, ma al contrario un nemico del progresso sociale, che si nasconde dietro a una nube di parole dal suono rispettabile ma senza significato.

 In questo senso sarebbe una nuova emanazione della destra, camuffata come salto in avanti di sinistra.

Il socialismo liberale è un complotto imperialista.

O ancora, si pensa che l”’idealismo liberal sia un inganno” e che qualcosa del genere sia la lettera di Harper, che finge di fare un appello onesto per avere un dibattito aperto e invece è soltanto una trappola pensata per proteggere i privilegi elitari dei firmatari, che sono visti come – ovviamente – bianchi ricchi (Ralph W. Ellison, autore immortale de “L’Uomo invisibile”, guarda dalla sua scrivania, incantato) determinati a mettere in ginocchio la democrazia che si esprime con le azioni.

Ma sono tutti errori.

 

Il liberal socialismo non è uguale a una sinistra più radicale, con alcune divergenze tattiche. Né è un mantello per coprire la reazione destrorsa. Non è nemmeno centrismo.

Se propriamente inteso, ha un suo particolare approccio di pensiero.

Mantiene istanze proprie, e la prima di queste non è nemmeno politica.

 È, bensì, un impegno a mantenere un particolare stato mentale, quella disposizione che si concede al pensiero razionale e a una immaginazione giocosa.

 È anche l’impegno ad assicurare le condizioni politiche e sociali che rendono possibile una disposizione mentale di quel tipo.

Sono impegni che si assumono nella convinzione che il pensiero razionale e l’immaginazione giocosa siano una cosa desiderabile in sé.

 E nella convinzione che gran parte di ciò che è desiderabile nella società dipenda dal fatto che queste due condizioni siano in salute.

La lettera di Harper non si presenta come liberal – e senza dubbio, alcuni dei firmatari preferirebbero altre classificazioni, o nessuna in particolare, di sicuro non una attaccata da un commentatore a caso come me.

 Ma io attacco comunque l’etichetta di “liberal” a questa lettera perché la sua preoccupazione principale è quella di avere un “dibattito aperto”, che sottintende quel tipo di libertà intellettuale che sto descrivendo.

Tuttavia, questo liberalismo americano possiede delle idiosincrasie tutte sue. Quello di Harper è, senza questione, un documento americano, anche se reca le firme di persone provenienti da altri Paesi.

 

L’ostilità verso le prevaricazioni del “Partito Comunista americano” dagli anni ’20 agli anni ’30 era un affare interno alla sinistra.

 E la tradizione liberal americana nei ’90 anni successivi è stata tendenzialmente dominata da persone che, in qualche modo (aperto o meno) appartenevano alla sinistra politica.

 Gente il cui istinto è stato di prendere posizione, almeno in modo generale, a favore delle varie (e a volte contraddittorie) grandi cause che negli ultimi cento anni hanno implicato un’idea di progresso democratico.

La tradizione liberale sociale americana, vista in questo modo, è sempre stata una tradizione che favoriva una duplice battaglia:

 quella per una mente libera e, al tempo stesso, quella per il progresso democratico. Il filosofo “John Dewey” era il pensatore di riferimento degli intellettuali liberal americani.

La sua grande ispirazione fu di connettere questa duplice idea in un sistema filosofico, dove la lotta per l’approfondimento intellettuale e quella per l’emancipazione democratica sono viste come fasi di un unico sviluppo. Una nozione stupendamente ottocentesca, che proveniva da “Whitman” e da “Hegel”.

 

Il testo di Harper «sulla giustizia e su un dibattito aperto» accenna a queste battaglie fin nel titolo.

Riconosce, e approva, le «vigorose proteste per la giustizia razziale e sociale». Approva «le ampie richieste per una maggiore uguaglianza e inclusione nella nostra società, non solo nell’istruzione superiore, nel giornalismo, nella filantropia e nel mondo umanistico in generale», cioè approva le istanze di una riforma sociale in tutti gli angoli della società abitati dai firmatari stessi.

La lettera insiste nel condannare quello che definisce «illiberalismo», a dire che è al fianco delle proteste sociali, non contro.

«L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se alziamo la voce contro il pesante clima di intolleranza che si è installato ovunque». E ancora: «Rifiutiamo la scelta, falsa, tra giustizia e libertà, nessuna delle due può esistere senza l’altra».

Soltanto, c’è un punto di differenza tra le persone che si considerano principalmente liberal e quelli che si individuano più a sinistra.

 Il marchio caratteristico di questi ultimi non consiste in un programma particolare per la politica o per l’economia.

 Invece, è un certo tipo di indignazione, a volte magnifico, a volte problematico, ma che in entrambi i casi poggia su una idea di giustizia e di ingiustizia.

È la credenza che l’ingiustizia sia, in sostanza, una cosa singola. Ciò implica che anche la giustizia, lo sia. Ed è la convinzione che il più eccitante risultato ottenuto dalla sinistra radicale sia quello di avere identificato quale sia questa terribile cosa singola che è l’ingiustizia.

Il nome di questa singola ingiustizia è cambiato nel tempo. Per i comunisti degli anni ’20 era il capitalismo, la cui ingiustizia fondamentale era essere ostile all’Unione Sovietica.

Per la New Left, che verso la fine degli anni ’60 e ’70 era caduta sotto l’incantesimo dell’influenza maoista o terzomondista, il nome era «imperialismo».

Per gli avanguardisti delle facoltà umanistiche degli anni ’80 e ’90 questa singola ingiustizia era (secondo varie versioni) la struttura del linguaggio al servizio delle gerarchie razziali e di genere, come ricorda una lettura americanizzata delle varie filosofie dell’avanguardia francese.

E per gli eccitati progressisti di questo nostro momento storico, il nome di questa cosa terribile è «razzismo», o piuttosto, quell’intolleranza universale espressa dalla parola «intersezionalità», cioè quell’intolleranza che assume migliaia di forme, ognuna delle quali si interseca con tutte le altre, dando forma a un intero matematico.

Ma alla fine, tutti questi nomi sono la stessa cosa. Sono i nomi dell’omni-oppressione, la quale, con ogni nome, schiaccia le sue vittime.

Il liberalismo americano, che ha nel suo DNA non solo «il dibattito aperto» ma anche la «giustizia», non condivide questa idea della singola cosa terribile.

Si preoccupa, certo, dello sfruttamento economico, dell’imperialismo, delle gerarchie razziali e di genere, e delle oppressioni di ogni tipo.

Ma non presume che tutte queste oppressioni contino all’interno di una omni-oppressione.

 Il liberalismo americano è anti-intersezionalista. Non crede che ogni oppressione sia comparabile, secondo un qualche modello matematico, a tutte le altre.

 

Crede, al contrario, nei molti e non nell’uno – per prendere in prestito una espressione di “Michael Walzer”, la cui firma appare nella lettera di Harper.

 

E quindi è questa la “Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto”. Si schiera contro l’illiberalismo di Donald Trump e, senza nominarli, contro tutti gli altri demagoghi populisti del momento.

 Si schiera contro le ingiustizie che hanno portato milioni di persone nelle strade in questi ultimi mesi, che sono le ingiustizie del razzismo americano.

Ma si schiera anche contro quell’oppressione, molto diversa – che proprio il liberalismo è pronto a segnalare per sua vocazione – che è la pressione censoria contro scrittori e pensatori e artisti, chiamati a conformarsi.

 E sceglie di parlare di questa censura anche se, citando casi detestabili sia da destra che da sinistra, offre lo spettacolo (forse goffo) di una analisi sociale che punta il dito in più di una direzione.

La lettera a Harper, per come la vedo, getta un’altra luce sul concetto di liberalsocialismo.

 E, visto che è un po’ che mi dilungo sugli anni ’20 e ’30, lo descriverò citando un altro precedente, che proviene sempre da quel periodo.

Si tratta di un episodio della grande storia americana dei manifesti intellettuali pieni di firme, che iniziò nella primavera del 1939 e si concluse nell’estate di quell’anno – mesi terribili, forse non diversi da quelli che stiamo vivendo.

“John Dewey”, in quell’anno, aveva 80 anni.” Sidney Hook”, più giovane di oltre 40 anni, era il suo discepolo più attivo.

 I due, insieme a un piccolo circolo di amici, diedero vita a una commissione – presieduta dallo stesso “Dewey”, con “Hook “nel ruolo di organizzatore e il giornalista “Eugene Lyons” nel compito di correttore stilistico – per comporre una “Dichiarazione di principi” e raccogliere firme.

Nel maggio 1939 la pubblicarono su “The Nation”. Il racconto migliore di questo episodio di trova nell’autobiografia di Hook, “Out of Step”, del 1987.Questa dichiarazione affrontava una questione che, in generale, non otteneva molta attenzione negli Stati Uniti. Era la propensione a pensare in maniera indipendente e creativa.

La dichiarazione, inoltre, affrontava anche lo stato della libertà nel resto del mondo, con cui è permesso questo tipo di pensiero, e con cui è permesso alle persone che pensano in maniera indipendente e creativa di esprimere il frutto delle proprie riflessioni.

Diceva, in modo più che azzeccato: «Mai prima d’ora, nell’epoca moderna, è stata minacciata in maniera così pesante l’integrità dello scrittore, dell’artista, dello scienziato e dello studioso».

La minaccia all’integrità di scrittori, artisti, scienziati e studiosi proveniva da ciò che “Dewey e Hook” descrivevano come «l’idea totalitaria» e il suo «odio immutabile per la mente libera».

Questo odio immutabile produceva «sterilità artistica, una vita intellettuale sottomessa, una caricatura tragica della cultura».

Dewey e Hook e la loro commissione vedevano in America un pericolo simile. «Anche negli Stati Uniti sono fin troppo evidenti i suoi germogli. Lo si vede nell’insorgere di dittatori locali, nella violazione dei diritti civili, nella diffusione allarmante di fobia e di odio contro le minoranze razziali, religiose e politiche».

Non sono sicuro di sapere quali dittatori locali avessero in mente.

Erano spaventati dal sindaco di “Jersey City”, un famoso despota chiamato “Hague”, dal potere doppio perché era alleato di” Franklin D. Roosevelt”?

Erano preoccupati dall’eredità populista di “Huey Long in Louisiana?

 Padre Coughlin, il prete radiofonico fascista – il primo di una serie di gradassi di destra a parlare in radio – doveva averli spaventati.

Ma è ovvio ciò a cui pensavano quando si riferivano alle fobie e all’odio.

Negli anni 30 l’antisemitismo negli Stati Uniti era al suo picco, mentre il Ku Klux Klan era un movimento nazionale rispettato.

 

Tuttavia, la minaccia riguardava di più altre parti del mondo: «Germania, Italia, Russia, Giappone e Spagna». In quei Paesi «l’indipendenza intellettuale e creativa era soffocata e punita come una forma di tradimento».

Le vittime, a migliaia, erano state «ridotte al silenzio, imprigionate, torturate od obbligate all’esilio».

Questa minaccia, diffondendosi da lì in altre parti del mondo, stava provocando il panico tra scrittori, autori e pensatori in tutto il mondo, che per paura e disperazione, «accorrono a dare lustro a un dimostrazioni sempre più alte di servitù intellettuale», cercando di trovare «sottili distinzioni tra i vari metodi con cui umiliare lo spirito umano».

Questa dichiarazione fu un manifesto che fece storia. Era la prima volta che un gruppo di intellettuali americani si era levato in difesa della libertà intellettuale su scala globale, per ogni continente.

Attirò il numero, impressionante, di 142 firmatari.

 Tra i filosofi, cosa più importante: non solo Dewey e Hook ma anche Rudolf Carnap, i positivisti del circolo di Vienna nel loro esilio americano, Arthur O. Lovejoy e altri. Una serie di romanzieri: John Dos Passos, Sherwood Anderson, Edna Ferber, George S. Schuyler e altri. Poeti: Babette Deutsch, Countee Cullen. Max Ernst, il principale avvocato della ACLU, era tra i firmatari.

Economisti: Abram Harris, Norman Thomas – anche i socialisti firmarono, e così fece Carlo Tresca, l’anarco-sindacalista.

 Il pittore John Sloan. Gli storici Carl Becker, Arthur M. Schlesinger Sr., Merle Curti.

Giudicato secondo gli standard del tempo, ma descritti con il linguaggio di oggi, i firmatari costituivano un gruppo molto “diverso”, come alcuni lettori potranno notare dai nomi che ho menzionato.

Tuttavia, fu anche un manifesto controverso.

Tutti lo potevano vedere: nel suo appello per la libertà intellettuale, era un manifesto anti-nazista e anti-fascista.

 

Ma tra i Paesi che erano caduti sotto il giogo totalitario veniva inclusa anche la Russia.

E chiariva che, mettendo in guardia sui diversi tipi di servitù intellettuali, o sui metodi per umiliare lo spirito umano, aveva in mente le dottrine al potere, per quanto diverse, della Germania nazista, dell’Italia fascista, della Spagna fascista, del Giappone imperiale – e anche della Russia, cioè il marxismo sovietico.

Un secondo gruppo di persone, allora, mise insieme un contro-manifesto.

 Era la “Commissione dei 400”.

 Il loro scritto era rivolto «A tutti i sostenitori attivi della democrazia e della pace». Attaccava la dichiarazione di Dewey perché aveva incluso anche la Russia nella lista dei Paesi totalitari.

 La Commissione dei 400 attaccò i firmatari della “Dichiarazione” perché «fascisti e amici di fascisti».

Anche il contro-manifesto fu pubblicato su” The Nation”, con la firma di poco meno di 400 persone.

 Ma comunque, con nomi notevoli: Dashiell Hammett, James Thurber, I. F. Stone, il giovane Richard Wright.

Ma, poco dopo che fu pubblicato, Hitler e Stalin annunciarono la loro alleanza militare – fatto che fece sprofondare nel ridicolo la Commissione dei 400.

 La Germania nazista e la Russia stalinista erano, in realtà, fratelli.

 O, almeno, cugini.

 Non certo identici, ma con la stessa fossetta nel mento.

La persecuzione di scrittori e pensatori e artisti in un Paese somigliava, nei fatti, alla persecuzione che avveniva nell’altro – somigliava, cioè, nel suo essere totale. L’alleanza della Germania nazista e dell’Unione Sovietica non era nemmeno una sorpresa – almeno, non nel circolo di Dewey.

Io però racconto questa storia per dire un’altra cosa. Dal punto di vista analitico, la differenza tra il primo manifesto e l’altro ruota intorno al concetto di ingiustizia. La dichiarazione di Dewey e Hook arrischiava l’idea che l’ingiustizia potesse provenire da più direzioni: dalla destra estrema ma anche dalla sinistra estrema.

La Commissione dei 400 non contemplava questa possibilità.

L’ingiustizia, secondo loro, veniva solo da destra.

E se insistevi nel dire che potesse venire anche da sinistra, ecco, eri un «fascista o amico di fascisti».

Che significa: data l’opportunità, dovrai essere «cancellato».

Qui, io penso, sta la differenza tra il liberalismo sociale e la sinistra radicale.

Il liberalismo in espansione di quel tempo aveva spazio per socialisti e anarco-sindacalisti, e anche altre istanze.

Ma era, in ogni caso, liberalismo, con la sua convinzione che l’ingiustizia fosse multiforme. Mentre la sinistra radicale non poteva sopportare, al contrario, l’idea di più fonti di ingiustizia.

Qui c’è anche una cosa in più. Nella dichiarazione di Dewey e Hook c’era anche una mobilitazione liberal che tentava di tracciare una linea tra il liberalismo e il non-liberalismo della sinistra.

Insomma, che cosa è il liberalismo, allora?

Non è un partito politico, non è una fazione.

 È un atteggiamento della mente, un insieme di idee, forse anche il senso di una tradizione.

 E però, a volte, si ricompone per diventare una forza anche solo nella forma di piccole commissioni informali che creano mobilitazioni per riconoscere, in primo luogo, che un principio fondamentale esiste.

Ed è il principio del pensiero indipendente e creativo, che dovrebbe essere la vocazione di scrittori, studiosi e artisti, e in un certo verso dovrebbe essere alla portata di tutti in una società democratica.

 

È un principio che può prosperare solo nelle aree in salute della libertà politica e sociale, un principio che, nei nostri giorni, non è certo in punto di morte, come era nel 1939, ma che è, comunque, sotto pressione, per quanto modesta possa sembrare. E ogni pressione richiede una resistenza.

 

 

 

Gita al Lago Maggiore.

Conoscenzealconfine.it – (2 Giugno 2023) - Claudio Martinotti Doria – ci dice:

 

Prima che i “complottisti” si scatenino sull’evento del naufragio dell’imbarcazione sul lago Maggiore, intervengo esponendovi informazioni riservate di cui sono venuto in possesso per pura coincidenza.

Una ventina di amici italo-israeliani, che si erano conosciuti tramite un social network per cuori solitari, hanno deciso di incontrarsi in un albergo nell’hinterland milanese e superati brillantemente i preliminari e primi approcci, hanno poi scelto di recarsi tutti quanti al Lago Maggiore per una gita nautica, noleggiando un’imbarcazione di 16 metri vecchia di 40 anni con navigatore umano incorporato.

Annoiandosi, non essendo pescatori e neppure sportivi, a un certo punto a bordo si sono divisi in due gruppi.

Uno ha iniziato a fare esperimenti magico-esoterici pronunciano formule per evocare gli spiriti elementali dell’acqua, e il secondo ha avviato un gioco di società a distanza con un gruppo d’imprenditori e oligarchi russi che erano presenti in una villa sulla costa presso cui stavano navigando, mettendosi in collegamento con loro tramite cellulari.

Si conoscevano tra loro perché in molti erano iscritti a un gioco di società on line nel quale i partecipanti assumono ruoli da protagonisti in una complessa spy-story a più livelli di difficoltà, molto realistica, divisi per nazione e agenzia, competenze e gerarchie.

Mentre il primo gruppo stava evocando con successo “le Ondine del Lago Maggiore”, che vegliano sulle sue acque da tempo immemore, il secondo gruppo al contrario stava perdendo al gioco di società intrapreso coi russi sulla costa.

 Le” Ondine del Lago Maggiore” sentendo l’esito finale del gioco di società e prendendolo troppo sul serio come fosse reale, sono intervenute provocando una tromba d’aria limitatamente al luogo esatto dove era posizionata l’imbarcazione, questo spiegherebbe come mai il fenomeno meteo non ha colpito la costa e non è stato visto da nessuno.

Dimenticavo di segnalarvi che il gioco di società era la “battaglia navale” e al momento del pronunciamento finale di “affondata”, le” Ondine” hanno preso sul serio l’affermazione udita ed hanno provveduto all’affondamento dell’imbarcazione.

I russi dalla costa non si sono neppure accorti della tragedia, pur essendo inquieti per l’improvvisa interruzione delle comunicazioni.

Se tale versione dei fatti vi sembra inverosimile provate a leggere nei prossimi giorni sui media quello che verrà scritto o fatto intendere sulla tragedia.

(Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria – cavalieredimonferrato.it/)

 

 

 

 

Più Elettrosmog nella Bozza del

Decreto “Telco”: un Passaggio

Illogico e Inquietante.

Conoscenzealconfine.it – (1 Giugno 2023) - Maurizio Martucci- ci dice:

 

Siamo alle solite.

Le compagnie telefoniche sono tornate all’attacco (onestamente non hanno mai mollato la presa) e, spalle al muro, per l’ennesima volta il governo di turno tenta di innalzare i limiti soglia d’irradiazione elettromagnetica.

Provano a farlo da anni, da oltre un decennio.

Parzialmente c’era riuscito Mario Monti nel 2012, adesso ci prova Giorgia Meloni in favore del 5G (che, sia chiaro, c’entra poco o nulla con la telefonia mobile ma molto più con l’Internet delle cose e Big Data):

più elettrosmog per tutti, più antenne, più irraggiamento wireless, più pericoli ambientali e rischi sanitari, col fondo naturale terrestre stravolto già un miliardo di miliardi di volte da non sicure irradiazioni artificiali pulsate.

Il tentativo d’abrogazione e superamento di una delle norme più cautelative al mondo in tema d’inquinamento invisibile da radiofrequenze non ionizzanti (possibili agenti cancerogeni secondo l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) è nella bozza del decreto legge Telecomunicazioni, proposto dal ministro Urso (imprese e made in Italy) di concerto con Pichetto Fratin (ambiente e sicurezza energetica) e Schillaci (salute).

 “Un innalzamento degli attuali limiti fissati a 6V/m, ad esempio a 30V/m, garantirebbe il miglioramento della qualità del servizio (…) rassicurando i cittadini più timorosi e venendo incontro alle loro giuste preoccupazioni”.

Oltre che illogico, ci troviamo davanti ad un passaggio a dir poco inquietante, l’apoteosi antiscientifica.

Perché?

Perché il testo conferma preoccupazione e allarme della popolazione, visti gli aggiornamenti in letteratura biomedica e le sentenze di tribunale in favore di danneggiati, ma siccome in un modo o nell’altro bisogna assecondare i desiderata della” lobby delle Telco”, altrimenti costretta a sborsare 4 miliardi per costruire circa 30.000 nuove stazioni radio base, in un modo o nell’altro bisogna innalzare il limite soglia elettromagnetica.

Il ragionamento, più o meno, è questo.

Ma innalzare l’elettrosmog di quanto?

Dalla media nelle 24 ore di 6 V/m fino a 20 V/m? Oppure 30 V/m? O fino a 60 V/m? Chi la spara più grossa?

In fondo, risaputi i timori del ministro Giorgetti (suoi i dubbi già negli esecutivi Conte e Draghi), l’esecutivo è alla ricerca di una via di mezzo cerchiobottista, all’italiana, dicendoci che l’Europa si attesta nella media dei 61 V/m (allora 30 V/m sarebbe un buon compromesso), dimenticando però di chiarire che:

1) i limiti indicati dalla Commissione sono valori da non superare e non certo da raggiungere;

2) i limiti si basano essenzialmente sui soli effetti biologici termici acuti e non sugli effetti biologici e ambientali cronici e fortemente emergenti, dovuti alle esposizioni (il cancro è solo la punta dell’iceberg di una serie di effetti avversi anche molto gravi);

3) gli invocati 61 V/m (altro che limiti europei!) in realtà sono solo in Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna;

 a differenza di Svizzera, Italia, Austria, Belgio, Turchia e i Paesi dell’est europeo – Bulgaria, Polonia, Croazia, Slovenia – nei quali vigono limiti molto più stringenti e protettivi;

 

4) l’ente a garanzia della nostra salute non è pubblico, né medico ma privato e composto per lo più da fisici e ingegneri, si chiama” ICRNIP”, cioè” Commissione Internazionale per la Protezione delle Radiazioni non ionizzanti”, in passato già al centro di numerosi scandali per conflitti d’interessi e legami con l’industria, a detta degli esperti auditi a Bruxelles “non adeguato” alla protezione pubblica, fonte di una documentazione parziale e non complessiva della letteratura biomedica disponibile.

“Le nuove linee guida” ICNIRP” sono state fortemente influenzate dalle grandi società di telecomunicazioni e persino dai militari degli Stati Uniti” chiarisce poi un dossier dei Verdi nell’europarlamento.

La manovra del governo Meloni, quindi, ci offre la possibilità di attualizzare l’appello dello scorso anno lanciato da alcuni scienziati indipendenti di mezzo mondo a Mario Draghi.

 Anche in quella occasione si provò a stralciare la norma cautelativa, innalzando l’elettrosmog, ma il tentativo fallì miseramente:

“Sarebbe una mossa retrograda e poco saggia raggiungere i limiti di esposizione inadeguati raccomandati dall’ICNIRP.”

E ancora:

“L’Italia ha guidato il mondo negli ultimi 20 anni nel dimostrare che i loro limiti di esposizione per la protezione della salute più bassi e protettivi per le radiofrequenze possono essere raggiunti dall’industria italiana delle telecomunicazioni senza ostacoli economici o tecnici significativi alla loro espansione nei sistemi 4 e 5G”.

Certo, pare che oggi Meloni non punti ad aumentare per un valore pari a 100, ma a circa 50 volte l’elettrosmog nell’aria pubblica.

E il pericolo c’è lo stesso, serio, grave, avendo capito peraltro che dimezzandolo, nello scientismo all’amatriciana, si pensa addirittura di salvare capre e cavoli. Mischiando le carte in tavola.

La strada da percorrere è però una sola:

mantenere i valori di attenzione cautelativi per i valori di campo elettrico di 6 V/m è il primo passo per tutelare popolazione e ambiente (non certo interessi privati) attraverso una riforma indirizzata alla minimizzazione dell’impatto, proprio come indicato nei “Report” del” Bioinitiative Group”, dal Parlamento Europeo nella Risoluzione del 2009 e dall’Assemblea del Consiglio d’Europa con la Risoluzione n° 1815 del 2011, volta ad un abbassamento dei limiti di legge a 0,6 V/m nell’immediato, e a 0,2 V/m sul lungo termine.

Nelle Raccomandazioni dell’Unione Europea si legge:

“Gli Stati membri hanno facoltà, ai sensi del Trattato, di fornire un livello di protezione più elevato di quello di cui alla presente Raccomandazione”.

 Ma la presidente Giorgia Meloni, il sottosegretario all’innovazione tecnologica Alessio Butti, i ministri Adolfo Urso, Gilberto Pichetto Frattin e Orazio Schillaci lo sanno?

(Maurizio Martucci - Giornalista e scrittore)

(d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2023/05/23091801/DL-TLC-Bozza-22.05.pdf)

(ilfattoquotidiano.it/2023/06/01/piu-elettrosmog-nella-bozza-del-decreto-telco-un-passaggio-illogico-e-inquietante/7174173/)

 

 

 

 

Von der Leyen leader a Davos,

attacco ai sussidi Usa.

Ansa.it – (17-1-2023) - Domenico Conti – ci dice:

(Redazione ANSA DAVOS)

“NetZero Act” e” Fondo sovrano”, ma Giorgetti evoca l'autogol.

Un Piano industriale per il “Green Deal” europeo basato su due pilastri:

il” NetZero Industry Act”, con cui riscrivere le regole sugli aiuti di Stato in risposta ai sussidi americani, e più in avanti il “Fondo Sovrano Europeo”.

 Dopo mesi di accuse per una mancanza di politica industriale, di narrazione di un'Europa che si mette nelle mani della Cina prima ancora di sfilarsi dal cappio del gas russo, Ursula von der Leyen a Davos prova a rilanciare la leadership europea:

attaccando i sussidi protezionistici degli Usa e le pratiche commerciali aggressive della Cina.

Ma deve fare i conti con i mal di pancia dei Paesi che hanno troppo debito per gli aiuti di Stato e vorrebbero subito fondi europei:

"Attenzione a non fare autogol", è il commento che arriva dal ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti da Roma.

L'occasione è un Forum economico mondiale con penuria di leader europei (salvo lo spagnolo Sanchez e il cancelliere tedesco Scholz) e che, in uno 'special address', dà all'ex ministra della Difesa tedesca il vantaggio di una platea pro-Ue e di un'audience molto attenta alla parità di genere:

tutt'altra atmosfera rispetto agli sgambetti concessi da Ankara al “presidente del Consiglio Ue” Charles Michel.

 E von der Leyen la coglie al volo.

"Nessuna impunità per i crimini russi" e un "saremo sempre al vostro fianco" rivolto agli ucraini in guerra era il minimo atteso da Davos.

Ma il discorso prende presto una piega economica, anzi commerciale, visto che al Wef ci sono anche i due rappresentanti del Commercio estero di Cina e Usa.

   Alcuni elementi dell'”Inflation Reduction Act”, 369 miliardi di sussidi voluti da Biden per aiutare le imprese nella transizione green, "sollevano varie preoccupazioni per gli incentivi mirati alle aziende: stiamo lavorando con gli Usa per trovare una soluzione", spiega la presidente dell'esecutivo Ue invocando "reciprocità".

 A stretto giro, sempre a Davos, arriva la risposta del segretario Usa per il Lavoro, Martin J. Walsh:

"Riferirò alla Casa Bianca", l'intenzione di Washington "non era rubare posti di lavoro".

 Toni poi insolitamente alti, da von der Leyen, verso la Cina, che "ha apertamente incoraggiato" le aziende energivore europee a delocalizzare nel suo territorio" e da cui "vediamo tentativi aggressivi di attrarre la nostra capacità industriale".

 Liu He, vicepremier cinese, a Davos glissa sul tema della ripresa e tranquillizza sul Covid.

 A Davos la” presidente della Commissione Ue” porta il suo "Piano Industriale" - tema ambizioso visto che Paesi come l'Italia lamentano da decenni una sclerosi che impedisce una politica industriale nazionale - per fare dell'Europa "la casa" dell'innovazione targata emissioni-zero.

 Un pilastro sarà uno sforzo di semplificazione e velocizzazione dei progetti strategici che von der Leyen chiama 'NetZero Act' sulla falsariga del “Chips Act” e accompagnato da un 'Critical Raw Material Act' sugli approvvigionamenti di terre rare come il litio per le batterie, su cui finora l'Ue dipende dalla Cina.

   Servirà un atteggiamento commerciale più assertivo, specie verso la Cina: significa

 "usare tutti gli strumenti contro pratiche scorrette", tuona von der Leyen.

Il nodo, come sempre, sono i soldi.

Nell'attesa del “Fondo Sovrano Europeo” che "prepareremo nella revisione di medio termine del bilancio quest'anno", la Commissione propone "di adattare temporaneamente le nostre regole sugli aiuti di Stato per velocizzare e semplificare":

aiuti "mirati per le strutture produttive su catene del valore strategiche, contro i rischi di delocalizzazione creati dai sussidi stranieri".

   Uno schema che ambisce al 'sì' di Berlino, ma che - appunto - rischia di lasciare scontenti i Paesi costretti a risparmiare per l'alto debito.

 Come l'Italia: "Il semplice allentamento delle regole degli aiuti di Stato - dice Giorgetti in una nota sull'Ecofin a Bruxelles - non è una soluzione perché sarebbe sproporzionato avvantaggiare gli Stati membri che godono di un margine di bilancio più ampio, aggravando così le divergenze economiche all'interno dell'Unione e conseguente frammentazione del mercato interno".

Il “Commissario agli Affari economici” “Paolo Gentiloni” guarda al compromesso: "Dobbiamo snellire" gli aiuti di Stato ma "abbiamo bisogno anche di finanziamenti comuni".

    Decisiva potrebbe essere la posizione che assumerà la Francia: tre anni fa si schierò con l'Italia e ne scaturirono gli aiuti del Recovery, oggi chissà. (ANSA).

  

 

 

Amazon, BlackRock e non solo:

tutti i Ceo presenti a Davos.

  Starmag.it - Marco Dell'Aguzzo – (16 Gennaio 2023) – ci dice:

 

Al Forum economico mondiale di Davos ci saranno gli amministratori delegati di Amazon, Moderna, BlackRock e non solo.

Sarà scarsa, invece, la partecipazione dei principali leader politici:

 presente Scholz, mentre l’Italia manda il ministro Valditara.

È iniziata oggi, lunedì 16 gennaio, la 53° edizione del Forum economico mondiale (World Economic Forum) di Davos, in Svizzera.

L’evento conta oltra diecimila partecipanti tra politici, imprenditori, intellettuali e giornalisti.

LE NAZIONI PIÙ PRESENTI A DAVOS 2023.

Stando al conteggio di “Quartz,” quest’anno a Davos saranno rappresentati oltre cento paesi e regioni del mondo.

Ma i due terzi dei partecipanti provengono da sole dieci nazioni:

Stati Uniti, Svizzera, Regno Unito, Germania, India, Giappone, Emirati Arabi Uniti, Francia, Paesi Bassi e Sudafrica, nell’ordine.

La partecipazione più numerosa è quella statunitense, con 703 persone, il 27,2 per cento del totale.

Seguono gli svizzeri con il 9,6 per cento e i britannici con il 9,1.

POCHI “PAPERONI”.

Benché il “Forum economico mondiale” raccolga molti dei maggiori esponenti dell’economia internazionale, nove delle dieci persone più ricche del pianeta non saranno presenti quest’anno a Davos, con la sola eccezione di” Gautam Adani”:

è il presidente del conglomerato logistico-energetico indiano “Adani Group”, nonché terzo uomo più ricco al mondo.

 

I LEADER POLITICI.

Anche la partecipazione dei principali capi di stato e di governo è scarsa: ci sarà infatti un solo leader di un paese membro del G7, il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Al di fuori del Gruppo dei Sette, però – che comprende Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti -, è prevista la partecipazione dei leader di almeno quaranta nazioni, tra cui la Spagna, il Belgio, la Grecia, la Finlandia, la Corea del sud, il Sudafrica, l’Iraq, il Pakistan e il Mozambico.

Saranno inoltre presenti la “presidente della Commissione europea” “Ursula von der Leyen”, il sindaco di “Kiev” “ Vitali Klitschko, l’inviato per il Clima degli Stati Uniti “John Kerry” e – per il governo italiano – il “ministro dell’Istruzione” “Giuseppe Valditara”.

AMAZON, BLACKROCK, MODERNA E NON SOLO

Più lunga, invece, è la lista degli amministratori delegati.

 Ci saranno almeno 634 CEO all’edizione 2023 di Davos, come “Andy Jassy” di Amazon, “Wael Sawan” della “compagnia petrolifera britannica Shell”, “Jane Fraser” della banca statunitense “Citigroup”, “Stéphane Bancel” della società farmaceutica americana “Moderna” e “Larry Fink di “BlackRock”, la più grande società di investimento al mondo, con sede a New York.

Parteciperà anche “Jared Kushner”, genero dell’ex-presidente statunitense Donald Trump e fondatore della società di private equity “Affinity Partners”.

LE AZIENDE PIÙ PRESENTI.

L’azienda che ha mandato più persone al “Forum economico mondiale” è l’emittente televisiva statunitense “CNBC,” specializzata in “business news”. Seguono la società di consulenza “Accenture” e quella di” cloud computing” “Salesforce.”

Seguono, in parità, la già citata “BlackRock”, “Google”, la società di consulenza “McKinsey”, la multinazionale di beni di consumo “Unilever” e la compagnia aerea “Emirates”.

 

 

 

BlackRock, come il capitale finanziario

controlla la politica in USA e UE.

Contropiano.org – (10-2-2021) - Werner Rügemer - Giacomo Marchetti – ci dicono:

 

Quando guardiamo alla realtà materiale che sta alla base del sistema economico finanziario in Occidente, e la sua sempre maggiore pervasività nella capacità di orientare complessivamente la politica, ci accorgiamo di come la parola democrazia sia un vecchio arnese inservibile per le élites che governano il mondo occidentale.

Inutile, quindi, fare un “test di democraticità” come criterio di interpretazione delle dinamiche politiche del mondo in cui viviamo.

Certo il suo valore evocativo è utile nella costruzione di “narrazioni” da vendere al popolino, soprattutto quando la comunicazione politica costringe a spacciare un ipotetico “nuovo prodotto” da piazzare sul mercato, rappresentandolo nella veste di “migliore soluzione” per una crisi di governance che porta le forme della democrazia ad un’impasse.

Questo blocco è in realtà solo l’espressione fenomenica delle convulsioni di una più profonda crisi sistemica. cui le classi davvero “dirigenti” vorrebbero dare un output preciso, diverso dalla loro radicale rimozione da parte dei subalterni ed alla costruzione di un sistema sociale alternativo.

“Hanno fallito, che se ne vadano!”.

Od in termini più caustici: “Andiamo a bruciargli la casa!”,

come ci ha suggerito la rivolta dei Ciompi a Firenze diversi secoli fa.

Il marketing politico pro-Draghi, come quello pro-Biden per gli Stati Uniti – al netto del disgustoso servilismo del giornalismo nostrano e dell’altrettanto deprecabile opportunismo della classe politica tutta, da Fratelli d’Italia a Leu – nel nostro ridotto nazionale è l’esempio più lampante di questa tendenza ad incensare “la democrazia” proprio quando smette di esistere.

Negli Usa, certo, tutto è in un ordine di grandezza più grande, anche nelle tecniche di storytelling per narrare la pretesa “rottura” con il recente passato.

Parole appunto come “rappresentanza”, “sovranità”, “democrazia”, “sviluppo”, in bocca agli esponenti delle élite, hanno la stessa credibilità delle promesse d’amore di un marinaio, tanto è distante il significato concreto da quello che dovrebbero rappresentare e che hanno storicamente – in parte – incarnato sotto pressione di un movimento operaio organizzato, dotato di una prospettiva strategica concreta.

Chiacchiere sulla democrazia a parte, chi tiene in mano le redini del sistema è un numero sempre più ridotto di imprese economico-finanziarie che – in termini un po’ vetusti nella forma, ma attualissimi nel contenuto – potremmo chiamare senza orpelli: dittatura del capitale monopolistico.

Gli Stati imperialisti, o i poli imperialisti in formazione, in diverso grado, ne diventano conseguentemente un’espressione piegando il pubblico agli interessi del privato (e non il contrario. E non importa se le fragilità di tale modello impediscono strutturalmente di affrontare i nodi inaggirabili che pone la fase storica, iperbolizzati dall’acuirsi della crisi pandemica.

Gli uomini e le donne di queste corporations vengono chiamati come consulenti dagli stessi attori statali – dalla Federal Reserve negli USA alla Commissione Europea nella UE, per non citarne che due – per orientare scelte strategiche.

Larry Fink, ceo di BlackRock, con Janet Yellen, ex presidente della Federal Reserve e nuovo ministro dell’economia Usa.

I loro dirigenti siedono nei board sia delle imprese di dimensioni mondialmente rilevanti, sia in quello di chi le finanzia.

Alcune di queste hanno in mano gli hub della tecnologica che di fatto orientano i mercati stessi e conferiscono un profilo un po’ vintage a quello che erano le “piazze borsistiche”, che dovrebbero determinare il valore fluttuante delle azioni quotate secondo “il principio della domanda e dell’offerta”, come centro pulsante dei mercati finanziari.

 

È il caso della piattaforma privata “Aladdin”, che controlla un flusso mostruoso di informazioni e di dati economici sensibili, che orientano le scelte di investimento di chi se ne serve, cioè i maggiori investitori internazionali – più di 900 clienti in una sessantina di Paesi -, divenuta insieme alle altre, di fatto, una sorta di sistema nervoso centrale dell’economia finanziaria mondiale.

Una “scatola nera” in grado di monitorare in tempo reale la finanza che viaggia sui bit. Un vantaggio strategico per chi la usa, a discapito degli altri…

I membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte integrante di quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che fa inanellare  senza sosta incarichi passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee presenze nei” think tank” e nelle “lobby” che determinano i quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.

Un “novum”, per certi versi, nella storia politico-economica del capitalismo, che dà la cifra di ciò di cui stiamo parlando è certamente “BlackRock”, di cui si occupa l’articolo tradotto e pubblicato qui di seguito, in particolare per ciò che concerne la sua rilevanza nella politica nord-americana.

Si tratta del più grande gestore di fondi di investimento mondiale – anche per conto di fondi pensionistici privati, a cominciare da quello giapponese, è il più imponente – che possiede tra l’altro la maggiore o la seconda quota di proprietà in 13 delle 15 prime banche europee (Santander, HSBC, Credit Suisse, ecc), in grado dunque di determinare le scelte di indirizzo degli istituti bancari.

“BlackRock” detiene un portafoglio di centinaia di miliardi di dollari, investiti dalle tre big della tecnologia statunitense (Apple, Google, Microsoft), che controllano tra l’altro il tessuto connettivo ed i big data della “nostra comunicazione” digitale e, come stanno dimostrando fatti recenti, la possibilità o meno di comunicare (anche se sei il Presidente Usa!).

Per non citare che un aneddoto, “BlackRock” – in un palese conflitto di interessi – ha ricevuto da parte della “Commissione Europea” l’incarico di “consulente per le scelte finanziarie” rispetto alla “sostenibilità ecologica” degli investimenti.

Il più acceso sostenitore di questa scelta, di fronte ai suoi critici, è stato il “Capo” della “Commissione Finanziaria della UE”,” Valdis Dombrovskis”, per intenderci…

 

Ecco il “CEO of BlackRock”, “Larry Fink” con “Emmanuel Macron”.

Ripetiamo: BlackRock orienta il processo di finanziamento della “transizione ecologica” dell’economia della UE, che ha assunto un ruolo chiave nel rilancio economico continentale in toto e nell’articolazione dei Paesi Membri, attraverso quelli che saranno i singoli “recovery plan” nazionali, vincolati alle decisioni UE su due aspetti in particolare: economia green e sviluppo digitale.

Ricordate: gestisce gli investimenti delle tre big della tecnologia, e per esempio è il terzo azionista di “Apple”, nel cui board siede “Sue Wagner”, di “BlackRock”…

Questo gigante è uno degli attori economici cresciuto di più nella pandemia: valeva 7,8 mila miliardi di dollari, nel terzo trimestre dell’anno scorso, 8,68 nell’ultimo trimestre, e le sue azioni sono aumentate del più del 20% durante l’ultimo anno.

 Mentre milioni di persone morivano a causa delle politiche disastrose prese dall’Occidente per affrontare la pandemia, aumentava la povertà e la vulnerabilità sociale,” BlackRock” cresceva e ha continuato a crescere.

Insieme ai rivali “ETF” e “Vanguard”, controllava già un quinto del totale delle azioni quotate a WALL Street nel 2017 – erano poco più del 5% nel 1998.

 In questi tre anni sono aumentate, e uno studio di “Harvard” citato dal “Financial Times” mostra questa stupefacente progressione prevedendo che potrebbero controllare il 40% tra nel 2040!

Tre corporations divenute un Leviatano finanziario!

In questo tripudio di miliardi di dollari guadagnati e fatti guadagnare ai propri clienti, Lawrence Fink, Wally Adeyemo, Michael Pyle, tre uomini di BlackRock, sono stati scelti per ruoli chiavi nella nuova amministrazione Biden, che con la la sua famiglia è parte integrante del più grande “paradiso fiscale mondiale”, cioè il piccolo Stato del “Delaware”.

“Il Delaware è un piccolo stato con meno di 1 milione di abitanti, ma il più grande paradiso fiscale e finanziario delle imprese nell’Occidente guidato dagli Stati Uniti.

Il numero di società di comodo è almeno il doppio del numero di elettori idonei”, scrive” Rügeme”r, scrittore prolifico ed autore tra l’altro di un studio fondamentale per comprendere il “capitalismo del XXI secolo” e l’ascesa dei nuovi attori finanziari tra cui “BlackRock”.

 

Come sempre è meglio affidarsi al vecchio adagio” follow the money”, piuttosto che ingurgitare le “auto.narrazioni” edificanti del nemico di classe.

(Buona lettura).

Larry Fink con Donald Trump

Non appena è stato chiaro che” Joe Biden” avrebbe vinto le elezioni presidenziali americane, si è portato a bordo” Brian Deese”, capo del dipartimento per gli investimenti sostenibili globali della società d’investimento americana “BlackRock”, e che ricoprirà il ruolo di capo economista del presidente neo eletto.

Il CEO di BlackRock – Lawrence Fink – è sostanzialmente il portavoce del capitale mondiale occidentale per la “sostenibilità”.

E la “sostenibilità” sarà il segno distintivo della nuova amministrazione.

“BlackRock” è la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York e gestisce un patrimonio totale di quasi 8.000 miliardi di dollari, di cui un terzo in Europa.

Segue la seconda nomina per “Wally Adeyemo”, consigliere principale del presidente Obama per le relazioni economiche internazionali e successivamente passato a “BlackRock” come capo dell’ufficio legale di “Fink “e dal 2014 è stato presidente della “Fondazione Obama”.

 Ora, sotto Biden, diventerà vice segretario del Tesoro.

Poi è arrivata la terza nomina per “Michael Pyle”, responsabile delle relazioni finanziarie internazionali al “Dipartimento del Tesoro” sotto Obama, diventato poi capo della strategia di investimento globale presso la” BlackRock” e a breve ricoprirà il ruolo di “capo economista della vicepresidentessa Kamala Harris”.

Ecco come funziona la porta girevole della “democrazia capitalista statunitense”: da “BlackRock al governo”, dal “governo a BlackRock” e così a ripetere.

Biden: lobbista per il più grande paradiso fiscale sulla terra.

Biden è stato senatore dello stato del Delaware per ben 35 anni, dal 1973 al 2009, dove iniziò una fitta campagna politica quando era ancora un giovane avvocato d’affari di 29 anni.

 

Il Delaware è un piccolo stato con meno di 1 milione di abitanti ma il più grande paradiso fiscale e finanziario delle imprese nell’Occidente guidato dagli Stati Uniti. Il numero di società di comodo è almeno il doppio del numero di elettori idonei. E quasi tutte le maggiori compagnie e banche degli Stati Uniti – o le loro filiali – hanno qui la loro sede legale e fiscale.

Decine di migliaia di società e banche di tutto il mondo, dall’Ucraina al Messico, passando per la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, hanno il loro domicilio legale nel Delaware [uno stato che fu del resto creato dalla Dupont Chemical Company!].

La lista delle partecipazioni della sola “Deutsche Bank” mostra diverse decine di società di comodo a “Wilmington”, la piccola capitale del piccolo “Lussemburgo degli Stati Uniti”, come viene spesso chiamato il “Delaware”.

Nel mini-stato del Lussemburgo – così centrale per l’Unione europea – regna “Sua Altezza Reale il Granduca Henri”, della dinastia Lussemburgo-Nassau.

Nel “Delaware il clan Biden” governa con a capo il senatore [ora presidente] Biden.

Il figlio “Beau Biden” è diventato procuratore generale dello Stato senza fare una minima gavetta politica ed il “figlio Hunter Biden” è un attivo speculatore finanziario in Ucraina.

Joe Biden ha recentemente ricevuto donazioni per le sue campagne elettorali da grandi aziende digitali come Alphabet/Google, Microsoft, Amazon, Apple, Facebook e Netflix, così come JPMorgan Chase, Blackstone e Walmart.

 Ma anche le aziende del “Delaware” hanno promosso il loro influente senatore, tra cui la società di carte di credito “MBNA” e “John Hynansky,” un businessman statunitense di origini ucraine che domina l’esportazione di SUV premium in Ucraina.

Biden, come senatore a Washington, ha sempre votato con i repubblicani sulle principali deregolamentazioni del settore finanziario e, con lui, il “Delaware” membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte integrante di quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che fa inanellare  senza sosta incarichi passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee presenze nei “think tank” e nelle” lobby” che determinano i quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.

E si è espanso fino a diventare il più grande paradiso finanziario del mondo. Ciò implica che abbia anche una propria costituzione aziendale volta al “libero mercato” ed un sistema giudiziario che va nella stessa direzione politica.

E naturalmente anche la “BlackRock” – che co-governa a Washington – ha la sua sede legale a “Wilmington”, in “Delaware”.

“(America) BlackRock First”

La BlackRock è un importante società azionista in circa 18.000 aziende, banche e società di servizi finanziari negli Stati Uniti, UE, Gran Bretagna, Asia e America Latina. In tre decenni la BlackRock è cresciuta fino a diventare il più grande organizzatore di capitali nell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, principalmente raccogliendo e investendo il capitale dei super-ricchi.

Possono diventarne clienti solo le più grandi famiglie d’affari o i top manager con un capitale di almeno 50 milioni di dollari

. Un investitore come BlackRock promette profitti più alti di quelli che possono essere guadagnati nelle normali operazioni finanziarie, diversificando le proprie pratiche capitalistiche.

BlackRock non impiega cassieri agli sportelli, né offre un servizio clienti pubblico.

 I super-ricchi trasferiscono il loro denaro direttamente.

 Ecco perché l’apparato di gestione di BlackRock ha solo 16.000 impiegati per gli 8.000 miliardi di dollari di capitale che gestisce – mentre “Deutsche Bank” deve mantenere 87.000 impiegati per meno di un centesimo del capitale totale.

“BlackRock” è anche il più grande organizzatore di “società di comodo”.

Il capitale dei super-ricchi viene investito per ognuno di loro in una speciale società di comodo in un paradiso finanziario tra Delaware, Isole Cayman e Lussemburgo.

Allo stesso tempo, questi investitori sono resi anonimi e invisibili al pubblico, alle autorità fiscali e ai regolatori finanziari.

Così, il 5% circa delle azioni della società di lignite “RWE” sono distribuite tra 154 società “letterbox” in una dozzina di paradisi finanziari, sotto nomi come BlackRock Holdco 4 LLC, BlackRock Holdco 6 LLC, e simili.

Naturalmente, “BlackRock” non commette essa stessa evasione fiscale, ma offre l’opportunità di farlo (detto in altre parole: Favoreggiamento).

 

Inoltre BlackRock gestisce “ALADDIN”, la più grande struttura robotica per la raccolta e lo sfruttamento di dati finanziari ed economici.

Nell’arco di nanosecondi i valori e le performance di tutte le azioni e altri titoli delle borse del mondo vengono catturati e utilizzati speculativamente per la compravendita.

I membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte integrante di quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che fa inanellare  senza sosta incarichi passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee presenze nei “think tank” e nelle” lobby “che determinano i quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.

BlackRock è co-proprietario di 18.000 aziende – in Germania ad es. di “Wirecard” – comprese tutte le corporazioni digitali come Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook, ed è anche co-proprietario delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” e” Moody’s”.

 In quanto più grande insider del globo, “BlackRock” può accedere ad importanti dati in modo velocissimo e prima di altri co-speculatori.

Inoltre, è principale gestore finanziario dei super-ricchi occidentali e dunque ignora completamente i possibili danni alle economie nazionali e l’impoverimento degli Stati attraverso la continua evasione fiscale organizzata, tanto che persino l’Unione Europea rimane impotente contro questo colosso e il suo meccanismo, oppure ne diventa complice.

Inoltre, le aziende che “BlackRock” acquista e di cui diventa co-proprietario – come, per esempio in Germania, tutte le maggiori società tedesche che negoziano alla Borsa di Francoforte – sono proficuamente “ristrutturate”, rimpicciolite, parzialmente vendute (come è attualmente il caso della ThyssenKrupp), fuse (come nel caso di Bayer-Monsanto), accompagnate da tagli di posti di lavoro, outsourcing, delocalizzazioni e simili.

Come principale azionista di Amazon, per esempio, il predicatore della sostenibilità Fink non ha mai detto nulla contro gli attacchi antisindacali (compresi di minacce e licenziamenti) all’interno dei magazzini del colosso della logistica, o dei bassi salari sui quali si arricchisce Jeff Bezos.

 

Viene spesso sostenuto, non solo dai lobbisti di “BlackRock” come “Friedrich Merz”, ma anche dalla sinistra, che con le quote del 5% BlackRock, come in “RWE” – sicuramente non può far passare nessuna decisione!

 E invece sì, è possibile, perché con “BlackRock” di solito ci sono sempre, in composizione variabile, una dozzina di organizzatori di capitale a lei simili, che allo stesso tempo sono anche azionisti, per esempio “Vanguard”, “State Street”, “Amundi”, “Norges”, “Wellington”, “Fidelity”, “Capital Group” – e si accordano tra loro.

Il governo degli Stati Uniti sotto Biden sta dimostrando di essere il governo che persegue gli interessi sia dei vecchi che dei nuovi super-ricchi.

 Si tratta di una minoranza capitalista ed egoista che rappresenta forse l’1,5% della popolazione di tutti gli Stati Uniti.

Tuttavia “BlackRock” rappresenta anche gli interessi di minoranze ricchissime in altri importanti paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Svezia, la Spagna, il Messico:

tutti con il loro capitale discrezionale investito in “BlackRock & Co.”

Obama, Trump, Biden: tutti con BlackRock.

Nel 2008, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama incaricò “BlackRock” di gestire la crisi finanziaria e decidere quali banche, quali compagnie di assicurazioni, quali società sarebbero state salvate.

“BlackRock” intascò un compenso di 3 milioni di dollari per questo – ma ancora più importante fu la benedizione ufficiale dello Stato.

Questa includeva la nomina come consigliere della più grande banca centrale del mondo occidentale, la “Federal Reserve Bank”.

 Quello fu il colpo di partenza per la salita finale nell’aumento annuale del 10% del capitale raccolto e distribuito fino agli ormai 8.000 miliardi di dollari.

Oltre ad aver conferito a “BlackRock” la nomina come consigliere della Banca Centrale Europea (BCE) e, più recentemente, nel 2020, come “consigliere della Commissione Europea a Bruxelles” per la nuova formula di rinnovamento capitalista “ESG”: Environment, Social, Government.

Anche sotto Trump,” BlackRock” non è affatto scomparsa dalla scena economico-politica.

Dal marzo 2020, e come consulente della” Federal Reserve”, “BlackRock” ha gestito il “programma di salvataggio Covid19”, molto simile al “Corona Recovery Program” dell’UE da 750 miliardi (qui noto come Recovery Fund, ndt).

Il CEO di” BlackRock” – “Fink” – era in corsa per diventare il segretario al Tesoro di Hillary Clinton.

Ma quando il vincitore delle elezioni Trump ha tagliato le tasse sulle società, l’agile Fink lo ha lodato, dicendo: “Trump è un bene per l’America “.

BlackRock è parte attiva di “America First “, indipendentemente da quale dei due partiti monopolistici statunitensi sia al potere.

(workers.org/2021/01/54092/)

 

 

 

Se Pechino “piange”,

l’Occidente non ride

ispionline.it – Lorenzo Borga – (2 Giu. 2023) – ci dice:

 

Il governo cinese ha puntato tutto sul recupero economico dopo la riapertura post-Covid, ma le speranze per ora non si sono confermate.

La crescita si sta infatti dimostrando minore rispetto alle attese, e la fase di riapertura in Cina non sta ripercorrendo quanto accaduto in Occidente dove, dopo l’arrivo dei vaccini, l’economia ha accelerato fino a surriscaldarsi e provocare un’ondata di inflazione.

La giravolta di Pechino su lockdown e quarantene del dicembre scorso rispondeva sì alle proteste avvenute nelle principali città, ma aspirava soprattutto a rimettere la Cina su quel cammino di crescita economica che tutto il mondo invidiava da oltre vent’anni.

 Il 2022 si stava concludendo con una misera variazione del Pil del 3%, rispetto al target del governo del 5,5% e della media dal 2010 al 2019 (7,7%).

Ma la riapertura non ha ottenuto per ora i risultati previsti.

Ad aprile, secondo gli ultimi dati rilasciati, produzione industriale, vendite al dettaglio e investimenti sono cresciuti a un ritmo minore delle aspettative degli economisti.

 A maggio l’attività manifatturiera cinese si è contratta per il secondo mese consecutivo a maggio (indice PMI ufficiale a 48,8 punti), appesantita dalla debolezza della produzione e della domanda.

Allo stesso tempo la disoccupazione giovanile ha raggiunto il record del 20,4%, livello più alto perfino rispetto ai lockdown.

 Sulla base degli ultimi numeri, Nomura ha rivisto al ribasso le stime di crescita del Pil per l’anno in corso, dal 5,9% al 5,5.

 Jp Morgan ha fatto lo stesso, dal 6,4 al 5,9%.

Il target del governo di “circa il 5% di crescita” è salvo per ora, ma potrebbe essere nuovamente smentito in caso di un nuovo peggioramento dei dati.

Gap di fiducia per consumatori e imprese.

Gli uffici studi delle diverse banche d’affari hanno identificato la causa del rallentamento in un gap di fiducia da parte di consumatori e imprese, che potrebbe infilare la Cina in una vera e propria trappola.

L’indice di fiducia delle imprese non è ancora tornato ai massimi precedenti alle chiusure dell’anno scorso, mentre per i consumatori il gap con il pre-Covid è ancora ampio.

 Gli economisti di” Citi” ritengono che la discrezionalità dimostrata dal governo centrale sulle restrizioni dovute alla pandemia, i durissimi lockdown prima e la caotica fine della politica “zero-Covid poi, ha messo a dura prova la fiducia degli attori economici.

 Per di più, in un contesto di forte interventismo dei regolatori nel settore tecnologico (ricordate la fine di Jack Ma?), dell’istruzione privata e di quello immobiliare, che nel nome della “prosperità comune” hanno calpestato business fino ad allora fiorenti.

E come in ogni crisi di fiducia, a mancare sono gli investimenti.

 La crescita annuale ad aprile si è fermata al 3,9%, rispetto al 4,8% di marzo e alle attese del 6,9% degli economisti.

Con un netto contrasto tra quanto accade agli investimenti pubblici (+9,4% nei primi quattro mesi dell’anno) e quelli privati, che crescono di uno zero virgola.

E se a soffrire sono gli investimenti, il settore più colpito resta l’immobiliare, nonostante i bassi tassi di interesse della banca centrale.

Dopo la bolla implosa di” Evergrande”, gli acquisti di abitazioni ad aprile sono stati inferiori rispetto al pre-Covid di ben un quarto.

Campanello d’allarme per l’Occidente?

La mancata accelerazione cinese non impensierisce solo Pechino.

 Secondo il” Fondo Monetario Internazionale” la crescita globale del 2023 – una delle più lente degli ultimi decenni, Covid escluso – basa le sue fragili fondamenta sull’Asia.

 Proprio la Cina dovrebbe contribuire, secondo le previsioni, per più di un terzo (l’India, al secondo posto, varrebbe il 15,4%).

 Una performance cinese meno positiva del previsto potrebbe ridimensionare il moderato entusiasmo che è tornato a spirare in Occidente.

 La recessione tecnica in Germania potrebbe essere un primo segnale d’allarme, vista il contemporaneo crollo a doppia cifra dell’export tedesco verso la Cina nella prima parte dell’anno.

 L’unica notizia paradossalmente positiva è il contenimento dei prezzi delle materie prime, che dal gas fino al petrolio e al rame, non stanno vivendo il rimbalzo di valore che molti temevano con la riapertura cinese.

Se davvero la Cina si trovasse in una “trappola della fiducia”, come sostengono gli analisti di “Citi”, il Politburo avrebbe di che preoccuparsi.

 Per evitare che la discrezionalità e l’interventismo del governo blocchino gli investimenti di imprese e famiglie, secondo gli economisti – per esempio quelli di “HSBC” – sono necessari interventi di sostegno all’economia, come quelli proposti ultimamente dal premier “Li Qiang”.

 Per evitare che l’impronta dei lockdown si faccia sentire ancora per anni, a differenza di quanto accaduto in Occidente dove i vaccini l’hanno fatta presto cadere nel dimenticatoio.

 

 

 

OMS: potere

speciale cercasi.

Ispionline.it – Simone Urbani Grecchi – (2 Giu. 2023) – ci dice:

 

Nuovo budget per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che però ancor oggi si dibatte tra interessi dei privati in gioco e veti incrociati dei Paesi membri.

Nei giorni scorsi l’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha approvato il budget per il biennio 2024-25, portando la dotazione a 6,83 miliardi di dollari con un aumento dell’11% rispetto ai 6,12 miliardi del precedente bilancio.

Al di là della maggiore disponibilità di risorse finanziarie, l’elemento più importante di questa decisione sta nel fatto che i 710 milioni addizionali dovrebbero rafforzare il plafond delle risorse utilizzabili liberamente dall’ente (assessed contributions, o contributi obbligatori).

Ciò dovrebbe permettere di bilanciare le” voluntary contributions”, vale a dire quei fondi (pubblici o privati) la cui destinazione è stabilita unilateralmente dai singoli finanziatori e che oggi rappresentano circa l’84% del budget dell’OMS.

 

L’innalzamento della quota di contributi obbligatori appare quindi un passaggio importante per l’agenzia ginevrina, considerata

(i) la scarsa trasparenza con cui i contributi volontari vengono tradizionalmente utilizzati e

 (ii) la presenza tra i suoi principali membri di soggetti privati che si trovano a utilizzare una piattaforma pubblica per promuovere un’agenda privata.

 Un problema talmente sentito che gli stessi Stati membri hanno dichiarato che, in assenza di una maggior collegialità sulla definizione delle priorità e sull’allocazione delle risorse dell’ente, respingeranno ulteriori richieste di aumento dei contributi obbligatori.

Pubblico e privato: interessi divergenti.

E che ci sia un significativo disallineamento tra i finanziatori privati e gli obiettivi degli Stati membri è reso ancora più evidente dal tema delle malattie non trasmissibili (Non Communicable Diseases, “NCD”).

Causa di oltre 41 milioni di morti all’anno (circa il 74% dei decessi mondiali), le “NCD” sono state indicate dalla vasta maggioranza degli Stati membri come priorità per i rispettivi servizi sanitari nazionali.

 Tuttavia, la vastità del problema non sembra avere ancora avuto adeguato riscontro nelle scelte dell’agenzia.

 Innanzitutto, dal punto di vista politico.

 Da un lato infatti l’OMS ha esteso la lista dei cosiddetti ‘best buys’, cioè di quelle misure “cost-effective “da implementare per prevenire la diffusione delle NCD.

 Dall’altro, la sua operatività sul tema è stata fino ad oggi oltremodo influenzata dagli interessi commerciali dei finanziatori privati.

 Inoltre, perché anche un tema come il “self care” appare affrontato prevalentemente in termini di accesso a strumentazione e digitalizzazione dei servizi sanitari e non, invece, di promozione della prevenzione a livello individuale tramite una corretta alimentazione, l’adozione di corretti stili di vita e l’abbandono di abitudini nocive.

Dal punto di vista finanziario, poi, andrebbe notato che alle richieste di sostegno per la lotta alle malattie non trasmissibili fa invece da contraltare la scelta dell’OMS di allocare risorse aggiuntive a malattie ormai circoscritte come la poliomielite.

 Nonostante ce ne siano stati solo venticinque casi nel 2021 (secondo la stessa OMS) e sia considerata endemica dalla “Global Polio Eradication Initiative” (GPEI) soltanto in due nazioni, per il prossimo biennio la poliomielite ha ricevuto da Ginevra uno stanziamento di 0,69 miliardi di dollari, 23% in più rispetto al budget precedente.

Un’apparente incongruenza quindi, indirettamente rilevata dallo stesso direttore generale “Tedros Ghebreyesus”, che da un lato sottolinea come le” NCD” rappresentino oggi il 70% dei decessi a livello globale e, dall’altro, ammette quanto sia complesso dare le giuste priorità all’azione dell’OMS:

 “l’”Organizzazione Mondiale della Sanità” è cresciuta enormemente – nonostante la continua sfida di provare a essere un’organizzazione tecnico-scientifica in un contesto altamente politico e sempre più politicizzato”.

Sembra dunque esserci una marcata divergenza non solo su quali siano le reali priorità sanitarie, ma anche su come allocare le risorse per la gestione della salute globale.

A testimonianza di ciò, durante l’ultima assemblea è stata presentata una proposta per trovare nuove fonti di finanziamento – ad esempio attraverso l’organizzazione di un “investment round” da tenersi entro la fine del 2024.

 Ma se da un lato questa iniziativa amplierebbe le risorse finanziarie dell’ente, dall’altro permetterebbe agli Stati membri di considerare queste risorse addizionali come contributi volontari, in aperto contrasto con

 (a) l’obiettivo fissato per il 2030 di portare in equilibrio contributi obbligatori e volontari e

(b) con le stesse raccomandazioni formulate in materia dal “Working Group on Sustainable Financing” della OMS .

Un sistema bloccato dai veti.

Come già discusso in precedenti analisi, sembra dunque che l’OMS continui a rimanere bloccata nella sua azione dall’eccessiva indipendenza riconosciuta ai finanziatori privati e dai veti posti dagli stessi Stati membri.

Secondo quanto previsto dalla normativa internazionale, infatti, gli Stati possono ad esempio

(a) bloccare la pubblicazione da parte dell’organizzazione di informazioni sui potenziali rischi sanitari presenti sul loro territorio e

(b) negare l’accesso a esperti del settore, de facto impedendo la creazione di un effettivo coordinamento sanitario a livello internazionale.

 E l’impatto di queste “sensibilità nazionali” si vede, ad esempio, sulle indagini sulle origini della recente pandemia, esercizio che ancora fatica a fornire i risultati attesi.

 Che si sia trattato di una fortuita conseguenza delle ricerche “gain-of-function” (aspetto apparentemente confermato da svariate fonti), o che invece sia dipeso dalla crescente promiscuità tra ambienti umani e animali (favorita da deforestazione e urbanizzazione), il tema meriterebbe di essere trattato da un soggetto super partes.

Come hanno avuto modo di scrivere “J. Stephen Morrison” e “Carolyn Reynolds” del “Center for Strategic and International Studies”,

 “per evitare un'altra grave crisi in cui un pericoloso agente patogeno appare sul suolo di un paese potente che poi sceglie di ritardare, negare e offuscare durante i primi giorni critici, gli Stati membri dell'OMS devono essere persuasi a cedere una certa misura di sovranità a un nuovo stabilito il potere di ispezione dell'OMS e una maggiore capacità di sorveglianza.

 Non sarà un'impresa da poco date le sensibilità sovrane, l'iper-nazionalismo e l'enorme dolore e la dislocazione economica che i potenti stati membri stanno vivendo oggi.

 Ma è fondamentale per prevenire un altro insabbiamento in stile Wuhan.

 I paesi hanno concesso tale autorità all'”Agenzia internazionale per l'energia atomica “per le ispezioni sulle armi nucleari per verificare il rispetto del” Trattato di non proliferazione nucleare”, riconoscendo questo come un problema di sicurezza globale.

 Le minacce pandemiche dovrebbero essere trattate allo stesso modo”.

 

 

 

Colpo di Stato globale e il "Grande Reset".

Debito globale e "trattamento shock" neoliberista.

Globalresearch.ca – Prof. Michael Chossudovsky – (2 giugno 2023) – ci dice:

(Capitolo XII dell'eBook, The Worldwide Corona Crisis:

Global Coup d'Etat Against Humanity)

 

Il testo che segue è il capitolo XII del libro di Michel Chossudovsky intitolato

“La crisi mondiale del coronavirus, colpo di stato globale contro l'umanità”

 "Il FMI, la Banca Mondiale e i leader globali sapevano benissimo quale sarebbe stato l'impatto sui poveri del mondo della chiusura dell'economia mondiale attraverso i blocchi legati al COVID.

Eppure lo hanno sanzionato e ora c'è la prospettiva che oltre un quarto di miliardo di persone in più in tutto il mondo cadranno in livelli estremi di povertà solo nel 2022".

 (Colin Todhunter, luglio 2022).

Storia del "trattamento d'urto" economico. Dal Programma di Adeguamento Strutturale (PSA) all'"Aggiustamento Globale (AG)."

La chiusura (simultanea) dell'11 marzo 2020 delle economie nazionali di circa 193 Stati membri delle Nazioni Unite è diabolica e senza precedenti.

Milioni di persone hanno perso il lavoro e i risparmi di una vita.

 Nei paesi in via di sviluppo prevalgono povertà, carestia e disperazione.

La chiusura delle economie nazionali ha portato a una spirale del debito globale. Sempre più spesso, i governi nazionali sono controllati dai creditori, che attualmente finanziano le reti di sicurezza sociale, i salvataggi aziendali e le elemosine.

Mentre questo modello di "intervento globale" è senza precedenti, ha alcune caratteristiche che ricordano le riforme macroeconomiche a livello nazionale, tra cui l'imposizione di una forte "medicina economica" da parte del FMI.

Per affrontare questo problema, esaminiamo la storia del cosiddetto "trattamento shock economico" (un termine usato per la prima volta nel 1970).

Flashback in Cile, 11 settembre 1973.

Come” visiting professor all'Università Cattolica “del Cile, ho vissuto il colpo di stato militare diretto contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende.

Fu un'operazione della CIA guidata dal Segretario di Stato Henry Kissinger accoppiata con devastanti riforme macroeconomiche.

Nel mese successivo al colpo di Stato, il prezzo del pane aumentò da 11 a 40 escudos durante la notte.

 Questo collasso progettato sia dei salari reali che dell'occupazione sotto la dittatura di Pinochet ha favorito un processo nazionale di impoverimento.

(Il leader cileno Augusto Pinochet stringe la mano al Segretario di Stato americano Henry Kissinger nel 1976 (By Ministerio de Relaciones Exteriores de Chile. – Archivo General Histórico del Ministerio de Relaciones Exteriores, licensed under CC BY 2.0 cl)

Mentre i prezzi dei prodotti alimentari erano saliti alle stelle, i salari erano stati congelati per garantire "stabilità economica e allontanare le pressioni inflazionistiche".

Da un giorno all'altro, un intero paese era precipitato in una povertà abissale;

 in meno di un anno, il prezzo del pane in Cile è aumentato di 36 volte e l'85% della popolazione cilena è stata spinta sotto la soglia di povertà.

 Questo è stato il "Reset" del Cile del 1973.

Due anni e mezzo dopo, nel 1976, sono tornato in America Latina come” visiting professor presso l'Università Nazionale di Cordoba”, nel cuore industriale settentrionale dell'Argentina.

 Il mio soggiorno coincise con un altro colpo di stato militare nel marzo 1976.

Dietro i massacri e le violazioni dei diritti umani, erano state prescritte anche riforme macroeconomiche del "libero mercato", questa volta sotto la supervisione dei creditori argentini di New York, tra cui “David Rockefeller” che era amico del “ministro dell'economia della giunta” “José Alfredo Martinez de Hoz”.

(David Rockefeller incontra il dittatore Jorge Videla (a destra) e il ministro delle finanze Martinez de Hoz, 1978? Fonte: Plaza de Mayo)

Cile e Argentina erano "prove generali" per le cose a venire. L'imposizione del “Programma di Aggiustamento Strutturale FMI-Banca Mondiale” (SAP) è stata imposta a più di 100 paesi a partire dai primi anni 1980.

 (Michel Chossudovsky, The Globalization of Poverty and the New World Order, Global Research, 2003).

Un noto esempio di "libero mercato":

il Perù nell'agosto 1990 è stato punito per non essersi conformato ai diktat del FMI;

 Il prezzo del carburante è aumentato di 31 volte e il prezzo del pane è aumentato di oltre 12 volte in un solo giorno.

 Queste riforme – portate avanti in nome della "democrazia" – sono state molto più devastanti di quelle applicate in Cile e Argentina sotto il pugno del governo militare.

Il blocco di marzo 2020. "Guerra economica"

E ora, l'11 marzo 2020, entriamo in una nuova fase di destabilizzazione macroeconomica, che è più devastante e distruttiva di 40 anni di "trattamento shock" e misure di austerità imposte dal FMI per conto degli interessi finanziari dominanti.

C'è rottura, rottura storica e continuità.

 È "neoliberismo all'ennesima potenza".

Chiusura dell'economia globale: impatti economici e sociali a livello dell'intero pianeta.

Confronta ciò che sta accadendo oggi all'economia globale con le misure macroeconomiche "negoziate" paese per paese imposte dai creditori nell'ambito del Programma di adeguamento strutturale (SAP).

 L'"Aggiustamento globale" dell'11 marzo 2020 non è stato negoziato con i governi nazionali.

 È stato imposto da un "partenariato pubblico-privato", sostenuto dalla falsa scienza, sostenuto dalla propaganda dei media e accettato da politici cooptati e corrotti.

 

(Disuguaglianza sociale e impoverimento "ingegnerizzati". La globalizzazione della povertà.

Confronta le "linee guida" dell'"Aggiustamento globale" dell'11 marzo 2020 che interessano l'intero pianeta con il Cile l'11 settembre 1973.)

(In un'amara ironia, gli stessi interessi Big Money dietro l'"Aggiustamento globale" del 2020 sono stati attivamente coinvolti in Cile (1973) e Argentina (1976). (Ricordate l'"Operazione Condor" e la "Guerra Sporca" -Guerra Sucia).

C'è continuità.

Gli stessi potenti interessi finanziari, tra cui il FMI e le burocrazie della Banca Mondiale in collegamento con la Federal Reserve, WALL Street, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) e il World Economic Forum (WEF) sono attualmente coinvolti nella preparazione e nella gestione delle operazioni di debito post-pandemia "new normal" (per conto dei creditori) nell'ambito del Grande Reset.

(Henry Kissinger fu coinvolto nel coordinamento del "Reset" cileno dell'9/11 del 1973.)

 

(L'anno successivo (1974), fu incaricato della stesura del "National Strategic Security Memorandum 200 (NSSM 200) che identificava lo spopolamento come "la massima priorità nella politica estera degli Stati Uniti verso il Terzo Mondo").        

La spinta dello "spopolamento" sotto il grande reset?

Oggi, Henry Kissinger è un fermo sostenitore insieme alla “Fondazione Gates” (che è anche fermamente impegnata nello spopolamento) del Grande Reset sotto gli auspici del “World Economic Forum” (WEF).

Non c'è bisogno di negoziare con i governi nazionali né di effettuare un "cambio di regime".

Il progetto di lockdown dell'11 marzo 2020 costituisce un "Aggiustamento Globale" che innesca fallimenti, disoccupazione e privatizzazioni su scala molto più ampia colpendo in un colpo solo le economie nazionali di oltre 150 paesi.

E tutto questo processo viene presentato all'opinione pubblica come un mezzo per combattere il "virus killer" che, secondo il CDC e l'OMS è simile all'influenza stagionale.

La struttura egemonica del potere del capitalismo globale.

I grandi soldi, comprese le fondazioni miliardarie, sono la forza trainante.

 È una complessa alleanza tra WALL Street e l'establishment bancario, i grandi conglomerati petroliferi ed energetici, i cosiddetti "appaltatori della difesa", Big Pharma, i conglomerati biotecnologici, i media aziendali, i giganti delle telecomunicazioni, delle comunicazioni e della tecnologia digitale, insieme a una rete di think tank, gruppi di pressione, laboratori di ricerca, ecc.

Anche la proprietà intellettuale svolge un ruolo centrale.

Questa potente rete decisionale digitale-finanziaria coinvolge anche importanti istituzioni creditorie e bancarie:

la Federal Reserve, la Banca centrale europea (BCE), il FMI, la Banca mondiale, le banche di sviluppo regionali e la Banca dei regolamenti internazionali (BRI) con sede a Basilea, che svolge un ruolo strategico chiave.

Di gran lunga le entità finanziarie più potenti sono i giganteschi conglomerati di portafoglio di investimenti tra cui “Black Rock”, “Vanguard”, “State Stree”t e “Fidelity”.

 Controllano:

"... un totale di 20 trilioni di dollari in asset gestiti.... Contando prudentemente, un potere di leva da quattro a cinque volte (cioè circa 80-100 trilioni di dollari)". Questi potenti conglomerati finanziari hanno una leva superiore al PIL mondiale che è dell'ordine di circa 82 trilioni di dollari.

A loro volta, le alte sfere dell'apparato statale degli Stati Uniti (e gli alleati occidentali di Washington) sono direttamente o indirettamente coinvolti, tra cui il Pentagono, l'intelligence degli Stati Uniti (e i suoi laboratori di ricerca), le autorità sanitarie, la sicurezza interna e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti (comprese le ambasciate statunitensi in oltre 150 paesi).

"Economia reale" e "Big Money"

Perché queste politiche di blocco COVID stanno guidando la bancarotta, la povertà e la disoccupazione?

Il capitalismo globale non è monolitico.

 C'è infatti "un conflitto di classe" "tra i super ricchi e la stragrande maggioranza della popolazione mondiale".

 

Ma c'è anche un'intensa rivalità all'interno del sistema capitalista; vale a dire un conflitto tra il "Grande Capitale Monetario" e quello che potrebbe essere descritto come "Capitalismo Reale" che consiste in società in diverse aree di attività produttiva a livello nazionale e regionale.

 Comprende anche le piccole e medie imprese.

Ciò che è in corso è un processo di concentrazione della ricchezza (e controllo delle tecnologie avanzate) senza precedenti nella storia del mondo, in base al quale l'establishment finanziario (cioè i creditori multimiliardari) è destinato ad appropriarsi dei beni reali sia delle società in bancarotta che dei beni statali.

L'"economia reale" costituisce "il paesaggio economico" dell'attività economica reale: attività produttive, agricoltura, industria, servizi, infrastrutture economiche e sociali, investimenti, occupazione, ecc.

L'economia reale a livello globale e nazionale è presa di mira dal blocco e dalla chiusura delle attività economiche.

 Le istituzioni finanziarie” Global Money” sono i "creditori" dell'economia reale.

Governance globale: verso uno Stato totalitario.

Gli individui e le organizzazioni coinvolti nella simulazione 18 del 2019 ottobre 201 sono ora coinvolti nella gestione effettiva della crisi una volta che è entrata in funzione il 30 gennaio 2020 nell'ambito dell'emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale dell'OMS (PHEIC), che a sua volta ha posto le basi per la crisi finanziaria di febbraio 2020 e il blocco di marzo.

Il blocco e la chiusura delle economie nazionali hanno innescato diverse ondate di disoccupazione di massa insieme al fallimento progettato (applicato in tutto il mondo) delle piccole e medie imprese.

Tutto ciò è guidato dall'installazione di uno stato totalitario globale marxista illuminato, ideato dagli uomini di Davos, che è intento a rompere ogni forma di protesta e resistenza.

Il programma di vaccinazione COVID (compreso il passaporto digitale incorporato e il codice QR) è parte integrante di un regime totalitario globale.

Qual’ è il famigerato ID2020?

Si tratta di un'alleanza di partner pubblico-privati, tra cui le agenzie delle Nazioni Unite e la società civile.

 È un programma di identificazione elettronica che utilizza la vaccinazione generalizzata come piattaforma per l'identità digitale.

 Il programma sfrutta le operazioni di registrazione delle nascite e di vaccinazione esistenti per fornire ai neonati un'identità digitale portatile e persistente collegata biometricamente: zone rosse, maschere per il viso, distanziamento sociale, blocco.

 (Peter Koenig, 12 marzo 2020).

 

"Il grande reset"

Gli stessi potenti creditori che hanno innescato la crisi del debito globale COVID stanno ora stabilendo una "nuova normalità" che consiste essenzialmente nell'imporre ciò che il “World Economic Forum” di Klaus Schwab descrive come il "Grande Reset".

Utilizzando i blocchi e le restrizioni COVID-19 per spingere attraverso questa trasformazione, il Grande Reset viene implementato sotto le spoglie di una "Quarta rivoluzione industriale" in cui le imprese più vecchie devono essere portate alla bancarotta o assorbite nei monopoli, chiudendo efficacemente enormi sezioni dell'economia pre-COVID.

 Le economie vengono "ristrutturate" e molti lavori saranno svolti da macchine guidate dall'intelligenza artificiale.

 

I disoccupati (e ce ne saranno molti) sarebbero collocati su una sorta di reddito di base universale e vedrebbero i loro debiti (indebitamento e bancarotta su larga scala è il risultato deliberato di blocchi e restrizioni) cancellati in cambio della consegna dei loro beni allo stato o più precisamente alle istituzioni finanziarie che aiutano a guidare questo Grande Reset.

 Il WEF afferma che il pubblico "affitterà" tutto ciò di cui ha bisogno:

spogliando il diritto di proprietà con il pretesto di "consumo sostenibile" e "salvare il pianeta".

 Naturalmente, la piccola élite di miliardari che ha lanciato questo grande reset sarà proprietaria di tutto.

(Colin Todhunter, Dystopian Great Reset, 9 novembre 2020)

 

 Premere il pulsante di ripristino.

Il Grande Reset del World Economic Forum è stato a lungo in divenire.

"Premere il pulsante di reset" al fine di salvare l'economia mondiale è stato annunciato dal presidente del WEF Klaus Schwab nel gennaio 2014, sei anni prima dell'assalto della pandemia di COVID-19.

"Quello che vogliamo fare a Davos quest'anno [2014] è premere il pulsante di reset, il mondo è troppo preso in una modalità di crisi".

Due anni dopo, in un'intervista del 2016 con la rete televisiva svizzera in lingua francese (RTS), Klaus Schwab ha parlato dell'impianto di microchip nel corpo umano, che in sostanza è la base del vaccino "sperimentale" contro l'mRNA COVID.

 

"Quello che vediamo è una sorta di fusione del mondo fisico, digitale e biologico", ha detto Klaus Schwab.

Schwab ha spiegato che gli esseri umani riceveranno presto un chip che verrà impiantato nei loro corpi per fondersi con il mondo digitale.

RTS: "Quando accadrà?

Klaus Schwab: "Sicuramente nei prossimi dieci anni.

"Potremmo immaginare che li impianteremo nel nostro cervello o nella nostra pelle".

"E poi possiamo immaginare che ci sia una comunicazione diretta tra il cervello e il mondo digitale".

Global Research Weekender: Cos'è "The Great Reset" del WEF e perché dovremmo preoccuparci?

Giugno 2020. Il WEF annuncia ufficialmente il grande reset.

"La pandemia rappresenta una rara ma stretta finestra di opportunità per riflettere, re-immaginare e resettare il nostro mondo per creare un futuro più sano, più equo e più prospero." -Klaus Schwab, WEF (giugno 2020)

Ciò che è previsto nell'ambito del "Grande Reset" è uno scenario in cui i creditori globali si saranno appropriati entro il 2030 della ricchezza mondiale, impoverendo ampi settori della popolazione mondiale.

Nel 2030, "non possiedi nulla e sarai felice".

Le Nazioni Unite: uno strumento di governance globale per conto di un partenariato pubblico-privato non eletto.

Anche il sistema delle Nazioni Unite è complice.

Ha approvato la "Governance Globale" e il Grande Reset.

E così ha fatto il Vaticano.

(Tutti in galera dovrebbero andare i ladri alto locati! N.D.R.)

Mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres riconosce giustamente che la pandemia è "più di una crisi sanitaria", non è stata intrapresa alcuna analisi o dibattito significativo sotto l'egida delle Nazioni Unite sulle vere cause di questa crisi.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del settembre 2020:

"Centinaia di migliaia di vite sono state perse.

 La vita di miliardi di persone è stata sconvolta.

 Oltre agli impatti sulla salute, COVID-19 ha esposto e esacerbato profonde disuguaglianze ... Ci ha colpito come individui, come famiglie, comunità e società.

Ha avuto un impatto su ogni generazione, anche su quelle non ancora nate.

 La crisi ha evidenziato fragilità all'interno e tra le nazioni, nonché nei nostri sistemi per montare una risposta globale coordinata alle minacce condivise”. (Rapporto ONU).

Le decisioni di vasta portata che hanno innescato la distruzione sociale ed economica in tutto il mondo non sono menzionate.

Nessun dibattito in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Consenso tra tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Il Virus è casualmente ritenuto responsabile del processo di distruzione economica.

Il progetto di "partenariato pubblico-privato" del World Economic Forum intitolato "Reimagine and Reset Our World" è stato approvato dalle Nazioni Unite.

Flashback a George Kennan e alla dottrina Truman alla fine del 1940.

 Kennan credeva che le Nazioni Unite fornissero un modo utile per "collegare il potere con la moralità", usando la moralità come mezzo per approvare le "guerre umanitarie" americane.

La crisi COVID, le misure di lockdown e il vaccino mRNA sono il culmine di un processo storico.

Il lockdown e la chiusura dell'economia globale sono "armi di distruzione di massa" che nel vero senso della parola "distruggono la vita delle persone". Ampiamente documentato, il vaccino mRNA COVID-19 è meglio descritto come un "vaccino killer".

Abbiamo a che fare con vasti "crimini contro l'umanità".

Il presidente Joe Biden e il "Grande Reset".

Joe Biden è un politico curato, un rappresentante fidato, che serve gli interessi dell'establishment finanziario.

Non dimentichiamo che Joe Biden era un fermo sostenitore dell'invasione dell'Iraq sulla base del fatto che Saddam Hussein "aveva armi di distruzione di massa".

"Il popolo americano è stato ingannato in questa guerra", ha detto il senatore Dick Durbin. Non lasciatevi ingannare di nuovo da Joe Biden.

Acronimi in evoluzione: 9/11, GWOT, WMD e ora COVID.

Biden è stato premiato per aver sostenuto l'invasione dell'Iraq.

Durante la campagna elettorale, Fox News ha descritto Biden come un "socialista marxista” che minaccia il capitalismo;

"L'inquietante connessione di Joe Biden con il movimento socialista marxista 'Great Reset'".

Mentre questa è una sciocchezza assoluta, molti "progressisti" e attivisti contro la guerra hanno appoggiato Joe Biden senza analizzare le conseguenze più ampie della presidenza Biden.

"The Great Reset" è socialmente divisivo, è razzista.

 È un progetto diabolico del capitalismo globale.

Costituisce una minaccia per la grande maggioranza dei lavoratori americani e per le piccole e medie imprese.

 Inoltre mina diversi settori importanti dell'economia capitalista.

La presidenza Biden e il lockdown.

Per quanto riguarda il COVID, Biden è fermamente impegnato a mantenere la chiusura parziale sia dell'economia statunitense che dell'economia globale come mezzo per "combattere il virus killer".

Il presidente Biden è un fermo sostenitore del blocco della corona. Non solo approva l'adozione di politiche di blocco COVID-19 ferme, ma la sua amministrazione è impegnata nel "Great Reset" del “World Economic Forum” e nel "passaporto dei vaccini" come parte integrante della politica estera degli Stati Uniti, da attuare o più correttamente "imporre" in tutto il mondo.

A sua volta, l'amministrazione Biden-Harris tenterà di scavalcare tutte le forme di resistenza popolare al blocco del coronavirus.

Ciò che si sta svolgendo è una nuova e distruttiva fase dell'imperialismo statunitense.

 È un progetto totalitario di ingegneria economica e sociale, che alla fine distrugge la vita delle persone in tutto il mondo.

Questa "nuova" agenda neoliberista marxista che utilizza il blocco della corona come strumento di oppressione sociale è stata approvata dal presidente Biden e dalla leadership del Partito Democratico.

 

La Casa Bianca di Biden è impegnata nell'instaurazione di ciò che “David Rockefeller” ha definito "Global Governance" da parte del “liberal marxismo Usa”.

Il movimento di protesta.

Va notato che il movimento di protesta negli Stati Uniti contro il lockdown è debole.

 In realtà non esiste un movimento di protesta nazionale di base coerente.

Perché?

Perché le "forze progressiste" tra cui intellettuali di sinistra liberal marxista, leader di ONG, leader sindacali e sindacali – la maggior parte dei quali sono allineati con il Partito Democratico – hanno fin dall'inizio sostenuto il blocco.

 E sostengono anche Joe Biden.

In un'amara ironia, gli attivisti contro la guerra e i critici del neoliberismo hanno appoggiato Joe Biden.

A meno che non ci siano proteste significative e resistenza organizzata, a livello nazionale e internazionale, il Grande Reset sarà incorporato nelle agende di politica estera interna e statunitense dell'amministrazione Joe Biden-Kamala Harris.

È quello che voi chiamate “imperialismo liberal marxista” dal "volto umano".

Dov'è il movimento di protesta contro questo "partenariato pubblico-privato" non eletto della corona?

Le stesse fondazioni filantropiche (Rockefeller, Ford, Soros, et al.) che sono gli architetti inespressi del "Grande Reset" e della "Governance Globale" sono anche coinvolte nel finanziamento (generoso) dell'attivismo sul” cambiamento climatico”, della Ribellione dell'Estinzione, del Forum Sociale Mondiale, di Black Lives Matter, LGBT, et al.

Ciò significa che la base di questi movimenti sociali è spesso ingannata e tradita dai loro leader che sono regolarmente cooptati e generosamente ricompensati da una manciata di fondazioni aziendali.

Il Forum Sociale Mondiale (FSM), che commemora il suo 21° anniversario, riunisce attivisti anti-globalizzazione impegnati provenienti da tutto il mondo.

 Ma chi controlla il FSM?

 Fin dall'inizio, nel gennaio 2001, è stato (inizialmente) finanziato dalla “Fondazione Ford”.

È quello che tu chiami "dissenso fabbricato" (molto più insidioso del "consenso fabbricato" di Herman-Chomsky).

L'obiettivo delle élite finanziarie "è stato quello di frammentare il movimento popolare in un vasto mosaico "fai da te".

 L'attivismo tende ad essere frammentario.

Non esiste un movimento anti-globalizzazione integrato contro la guerra". (Michel Chossudovsky, Manufacturing Dissent, Global Research, 2010)

Nelle parole di McGeorge Bundy, presidente della “Fondazione Ford” (1966-1979):

Tutto ciò che la Fondazione [Ford] ha fatto potrebbe essere considerato come "rendere il mondo sicuro per il capitalismo", ridurre le tensioni sociali aiutando a confortare gli afflitti, fornire valvole di sicurezza per gli arrabbiati e migliorare il funzionamento del governo.

 

Il movimento di protesta contro il Grande Reset che costituisce un "colpo di stato globale" richiede un processo di mobilitazione mondiale:

"Non ci può essere alcun movimento di massa significativo quando il dissenso è generosamente finanziato da quegli stessi interessi corporativi [WEF, Gates, Ford, et al.] che sono l'obiettivo del movimento di protesta".

 

 

 

La follia che governa l'Occidente.

Globalresearch.ca – (02 giugno 2023) - Eric Zuesse – ci dice:

 

Il 30 maggio, Newsweek ha titolato "La Russia 'in rotta' per il conflitto della NATO, dice il comandante", e ha riferito che “Karel Rehka”, il comandante delle forze armate della Cechia, ha detto che,

"Consideriamo la guerra tra la Russia e l'Alleanza del Nord Atlantico come lo scenario peggiore, ma non è impossibile", ha detto “Rehka”.

"È possibile."

 La Russia, ha aggiunto il comandante, "è attualmente in rotta verso un conflitto con l'Alleanza".

La deterrenza della NATO, ha aggiunto, è la soluzione per mostrare a Mosca che "non ne vale la pena perché non può riuscire" a sconfiggere i suoi rivali occidentali con mezzi militari.

 

L'assunto indiscusso dell'Occidente è che la Russia sia attualmente impegnata in un'invasione dell'Ucraina allo scopo di "sconfiggere i suoi rivali occidentali con mezzi militari".

Ma questa affermazione è palesemente falsa, come sarà qui documentato tramite i link.

Il 17 dicembre 2021, la Russia ha formalmente presentato alla” NATO” una proposta di negoziato:

"Tutti gli Stati membri dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico si impegnano ad astenersi da qualsiasi ulteriore allargamento della NATO, compresa l'adesione dell'Ucraina e di altri Stati".

Questo è stato proposto in un contesto che si è aperto con:

"Le Parti guidano nelle loro relazioni i principi di cooperazione, di sicurezza equa e indivisibile.

 Essi non rafforzeranno la loro sicurezza individualmente, nell'ambito di organizzazioni internazionali, alleanze militari o coalizioni a spese della sicurezza delle altre Parti."

In altre parole: implicava che ogni nazione della NATO avrebbe accettato di non partecipare mai a un'invasione di qualsiasi nazione che non l'avesse invasa e che avesse concordato con essa di non invaderla a meno che quella nazione della NATO, o qualsiasi altra nazione membro della NATO, non avesse PRIMA invaso essa o un'altra nazione membro della NATO.

In altre parole: era un patto reciproco di non aggressione, che la Russia stava proponendo alla NATO; e, IN QUEL CONTESTO, comportava che l'Ucraina non sarebbe stata ammessa nella NATO.

L'enorme errore di Putin.

Il motivo per cui l'Ucraina è stata specificamente menzionata nella proposta – e nessun'altra nazione lo era – è che l'Ucraina è molto più vicina al centro di comando della Russia di qualsiasi altra nazione membro della NATO esistente; sono solo 317 miglia o 5 minuti di volo missilistico dalla capacità della Russia di decapitare il blitz di, in primo luogo, riconoscere che un missile nucleare era stato lanciato contro il Cremlino, e, poi, premere il pulsante per lanciare le armi di rappresaglia della Russia in risposta a quell'invasione da parte della NATO.

La proposta della Russia del 17 dicembre 2021 è stata l'ultima e ultima richiesta di Mosca che riflette la necessità di sicurezza nazionale della "Linea Rossa" più volte ripetuta da Mosca che se l'Ucraina diventerà un membro della NATO, allora la Russia non lo accetterà e che questa accettazione dell'Ucraina nella NATO darà inizio alla terza guerra mondiale: guerra nucleare tra superpotenze.

Il 24 febbraio 1990, il governo degli Stati Uniti iniziò segretamente a istruire i suoi alleati della NATO che, sebbene tutti (sotto istruzione della Casa Bianca) avessero detto a Mikhail Gorbaciov che la NATO non si espanderà nemmeno "di un pollice verso est" (cioè verso il confine russo) quella era solo una bugia, e che l'obiettivo della NATO di catturare la Russia continuerà anche dopo che Gorbaciov smantellerà l'Unione Sovietica e porrà fine alla sua immagine speculare militare del Patto di Varsavia. alleanza e pone fine al suo comunismo – tutte cose che Gorbaciov ha fatto nel 1991.

L'unica spiegazione registrata del presidente Bush di quell'istruzione segreta ai suoi tirapiedi fu:

 "Al diavolo questo [onorare la promessa]! Abbiamo prevalso; Non l'hanno fatto". In altre parole, stava dicendo loro:

 la forza rende giusto, e noi possederemo la forza allora anche più di quanto non facciamo oggi – così: 'Avanti soldati cristiani!', fino alla 'vittoria!'

Se la Russia dovesse accettarlo, allora permetterebbe alla versione occidentale del "cristianesimo" (che anche Hitler credeva appassionatamente) di emergere vittoriosa sulla Russia – che rifiuta quel punto di vista (il punto di vista suprematista – la richiesta di essere suprema invece di possedere uguali diritti con tutti gli altri).

 

Inoltre: mentre per l'Occidente si tratta di governare il mondo intero – si tratta di diventare l'America il dittatore globale – si tratta invece di qualcosa di completamente opposto a quello della Russia:

 Come diceva il documento proposto alla sua apertura:

"Le Parti guidano nelle loro relazioni i principi di cooperazione, di sicurezza equa e indivisibile."

Era un impegno per l'esatto opposto di ciò che, ad esempio, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva dichiarato il 28 maggio 2014, ai futuri generali americani:

"Gli Stati Uniti sono e rimangono l'unica nazione indispensabile".

La Russia chiedeva il rifiuto di questo, il rifiuto dell'idea che solo gli Stati Uniti sono indispensabili e tutte le altre nazioni sono superflue. La Russia stava ripudiando la posizione dell'Occidente – la sua posizione ideologica: il suprematismo.

L'articolo di “Newsweek” continuava dicendo:

"Mosca ha inquadrato la sua disastrosa invasione dell'Ucraina come un attacco preventivo contro la NATO, che ha a lungo accusato di fomentare la 'russofobia' nel paese, anche se il Cremlino si è intromesso nella politica interna ucraina, ha annesso la Crimea e si è impadronito di aree della regione orientale del Donbas".

Ecco la vera storia – non quel mito – su quell'accusa.

Quando l'America aveva vinto la sua guerra rivoluzionaria, anch'essa aveva conquistato la sua libertà e indipendenza dal suo padrone, la dittatura britannica al di là dell'oceano.

 La Russia, anche ora, si rifiuta di accettare meno di questo, per sé stessa.

Questo è ciò che i documenti proposti dalla Russia del 17 dicembre 2021 offrivano, ora alla NATO americana.

L'America di oggi (e le sue colonie) lo hanno respinto.

Tale offerta è stata, il 7 gennaio 2022, sprezzantemente respinta dagli Stati Uniti e dalla sua NATO.

Non avrebbero nemmeno negoziato su nulla in esso.

 La Russia aveva solo un'opzione rimasta: invadere e conquistare l'Ucraina.

 Questa è, per la Russia, una guerra difensiva necessaria contro le incessanti aggressioni degli Stati Uniti.

 La Russia chiede: le vostre aggressioni per catturarci finiranno qui: "Dateci la libertà, o dateci la morte!"

La Russia si rifiuta di permettere agli Stati Uniti di possedere la capacità di posizionare i suoi missili nucleari a sole 317 miglia di distanza dal Cremlino.

Questa è la verità storica della questione.

(Il nuovo libro dello storico investigativo Eric Zuesse, “AMERICA'S EMPIRE OF EVIL: Hitler's Posthumous Victory, and Why the Social Sciences Need to Change”, parla di come l'America ha conquistato il mondo dopo la seconda guerra mondiale per renderlo schiavo dei miliardari statunitensi e alleati. I loro cartelli estraggono la ricchezza del mondo controllando non solo i loro media di "notizie", ma anche le "scienze" sociali, ingannando il pubblico.)

 

 

 

Una Davos a stelle e strisce:

dall’intelligence alle imprese,

il peso determinante degli Usa

it.insideover.com – Andrea Muratore – (16 GENNAIO 2023) – ci dice:

 

Accanto alla bandiera crociata della Svizzera, Paese ospitante, sarà quella a stelle e strisce degli Stati Uniti a campeggiare con forza al World Economic Forum di Davos in programma dal 16 al 20 gennaio 2023.

 L’edizione contemporanea del Forum è la più connotata in senso americano degli ultimi anni.

 Mancando il tradizionale filotto di grandi leader, con quattro leader del G20 (Spagna, Sudafrica, Corea del Sud e Germania) confermati, Olaf Scholz unico capo di Stato del G7 atteso con certezza e in forse il britannico “Rishi Sunak”, il peso delle delegazioni al summit internazionale è ancora più importante come indicatore.

Con 703 persone registrate, gli americani costituiscono il 27% di tutti i partecipanti accreditati al World Economic Forum 2023.

E la presenza attenta di così tanti esponenti della nazione-guida dell’Occidente mostra la volontà di diversi settori di potere a Washington di capire la complessità di una globalizzazione plasmata attorno al consensus mercatista, finanziario e geopolitico americano e oggi sempre più frammentata.

 Puntando al contempo a dettare l’agenda nei confronti dei rivali accusati di essere i guastatori della globalizzazione: Cina e Russia, colpite rispettivamente con i dialoghi sul fronte ambientale e geostrategico.

La delegazione statunitense inviata dall’amministrazione Biden è indicativa nella sua composizione: si fonda sull’inedito trittico diplomazia economica-ambiente-sicurezza nazionale e comprende la direttrice dell’organismo di coordinamento della Casa Bianca che gestisce l’intelligence nazionale, “Avril Haines”, il direttore del “Federal Bureau of Investigation”, “Christopher Wray”, l’inviato speciale della presidenza Usa per il clima, “John Kerry”, diplomatico di punta di Joe Biden ed ex segretario di Stato, e la rappresentante per la politica commerciale “Katherine Tai.”

 Quattro figure per una complessa visione del mondo e di approccio degli Usa alla transizione dell’ordine globale, nella cui ristrutturazione vogliono essere protagonisti.

Il Forum di Davos sarà anche l’occasione per smussare problematiche e costruire strategice.

“Haines” avrà dei confronti diretti con il segretario della Nato “Jens Stoltenberg” per ragionare sul futuro del sostegno all’Ucraina invasa dalla Russia, e sarà interessante valutare anche la presenza di tre figure-chiave di Paesi dall’alta valenza strategica per Washington.

Sarà presente” Andrzej Duda”, presidente della Polonia bastione Usa in Europa orientale, assieme a” Kyriakos Mitsotakis”, leader della Grecia vicinissima a Washington sul piano militare, diplomatico ed energetico nel Mediterraneo orientale, e a “Sanna Marin”, premier finlandese che cercherà rassicurazioni sulla prossima adesione al Patto atlantico.

 “Kerry” con” Tai” è atteso per discussioni con “Ursula von der Leyen”, che da “presidente della Commissione Ue” prepara la risposta all’”Inflation Reduction Act” di Biden che ha generato tensioni economiche e politiche a Bruxelles.

Washington vuole ribadire la compattezza dell’élite occidentale attorno alle sue priorità e utilizzare anche il tema dello sviluppo sostenibile, soprattutto in campo ambientale, come asset geopolitico contro la rivale Cina.

Top manager e intellettuali: tutti i big Usa presenti a Davos.

Sostanziale in tal senso l’imponente presenza di top manager e amministratori delegati di settori strategici.

634 top manager parteciperanno al vertice (25% del totale dei presenti) tra cui molti grandi nomi americani:

“Quartz” ricorda Stephane Bancel di “Moderna”, assieme a “Julie Sweet “del colosso di consulenza “Accenture”, “Andy Jassy “di “Amazon”, moderna “Compagnia delle Indie“, e all’attesissimo “Larry Fink,” fondatore e Ceo di BlackRock che da anni detta l’agenda su finanza green e transizione energetica.

Saranno di matrice americana le aziende che manderanno il maggior numero di ospiti:

“Accenture” ne manderà ben 9,” Salesforce” 8, mentre sette a testa arriveranno da “Google”, “McKinsey” e la stessa “BlackRock”.

 Anche le due delegazioni mediatiche più numerose saranno a stelle e strisce: la “Cnbc” con tredici tra giornalisti e tecnici è seguita dal “WALL Street Journal” con sette dipendenti inviati.

 

 

“Last but not least”, i pensatori e gli intellettuali.

 A partire da coloro che hanno una navigata esperienza politica alle spalle: l’immancabile “Al Gore”, già vicepresidente di Bill Clinton, sarà a fianco di “Henry Kissinger”, prossimo ai cento anni ma ancora acuto commentatore di geopolitica e sfide globali, che dialogherà col politologo “Graham Allison “della “Harvard Kennedy School of Government”, teorico della “trappola di Tucidide” e dell’ammonimento sui rischi dello scontro diretto Usa-Cina.

Presente anche il mondo della scienza:

“David G. Victo”r, docente esperto di tematiche tecnologiche e di innovazione dell’Università di San Diego, avrà modo di confrontarsi sulla fusione con” Kimberly Budil”, direttrice dei laboratori federali “Livermore” in cui è stata messa la prima pietra miliare sul nucleare di nuova frontiera.

Una presenza in forze, dunque, che mostra come la globalizzazione possa continuare a parlare il linguaggio degli Usa anche in una fase in cui l’idea del mondo unipolare è tramontata.

Washington sa sfruttare al meglio questi consessi e vuole, soprattutto a livello d’immagine, segnare un punto a Davos, mostrando la sua volontà di giocare da protagonista alla ristrutturazione delle regole della globalizzazione.

 Nella quale tra tutela delle nazioni e di grandi temi come l’ambiente e la tecnologia vuole far rientrare la proiezione geopolitica ostile a qualsiasi rivale sistemico.

 E occasioni come Davos sono perfette per tessere la trama.

Usando tutto il potenziale degli apparati pubblici e privati che la superpotenza a stelle e strisce mette in scena sulle Alpi svizzere.

 

 

 

La requisitoria di “Sahra Wagenknecht”

e i suoi limiti.

Sinistrainrete.info – (19 settembre 2022) - Marx XXI – ci dice:

 

Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht – dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive:

“Contro la sinistra neoliberale” (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano.

 Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di “Hans Modrow” alla” Linke” che abbiamo rilanciato su questa pagina:

 (socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html)

Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio.

 Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”:

come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto.

A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court;

un approccio che legittima l’idea secondo cui il “liberalismo di sinistra tradizionale”, o “liberal socialismo”, non è il grembo che ha partorito l’attuale “sinistra neoliberale”, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra.

 Ma procediamo con ordine.

Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti.

 Per queste persone, le tradizioni e i legami comunitari passano in secondo piano, quando non sono oggetto di rifiuto e disprezzo, rispetto all’autonomia e all’autorealizzazione individuali (l’identità individuale è concepita come qualcosa che esiste indipendentemente dalla vita sociale).

Trovare riconoscimento e conferma di sé viene prima di qualsiasi velleità di cambiare il mondo e la società, e in ogni caso si ritiene che il mondo e la società possano e debbano essere cambiati cambiando le parole con cui li si nomina e descrive (questa moda del “politically correct”, scrive Wagenknecht, è nata nelle università di élite angloamericane, imbevute delle idee dei maestri dello “strutturalismo” come Foucault e Derrida).

 

Alle lotte per l’uguaglianza subentra la santificazione della disuguaglianza, una mistica della differenza che fa sì che non ci si impegni più per ottenere l’equiparazione legale delle minoranze, bensì per rivendicare privilegi da concedere alle minoranze stesse.

Di qui una svalutazione degli interessi della maggioranza che diventa un alibi per le classi benestanti, le quali che possono così astenersi dal finanziare la collettività, in quanto ai loro occhi non rappresenta più l’incarnazione di un interesse comune e condiviso.

A fornire un altro alibi al liberismo economico e al suo progetto di smantellamento dello stato sociale è poi il concetto di società aperta e di cittadinanza globale, una dimensione astratta cui tutti possono accedere senza che ciò comporti coesione e aiuto reciproco.

 i valori e i dogmi della “cultura Lgbt” (a partire dalla negazione di ogni fondamento biologico delle differenze sessuali) non è fatto solo oggetto di disprezzo, ma di vero e proprio odio, sentimento che viene riservato a priori ai maschi bianchi della classe media.

 Infine, dietro le maschere dell’apertura e della tolleranza che questa gente indossa, si cela uno spirito intollerante degno della peggiore destra reazionaria: per esempio chi non condivide.

Sinistra alla moda è definizione azzeccata:

come le mode postmoderne cercano di illudere il consumatore di godere di prodotti e servizi “unici”, ritagliati su misura per le sue esigenze, che viceversa differiscono solo per qualche elemento marginale, allo stesso modo, dietro l’esaltazione delle differenze e delle singolarità individuali che sostanzia l’ideologia delle nuove sinistre, si nasconde una disarmante uniformità di gusti, idee e valori.

Questo conformismo di massa, chiarisce Wagenknecht, non è un prodotto puramente culturale ma rispecchia precisi interessi di classe.

 Al posto di concetti come classe creativa o lavoratori della conoscenza, l’autrice usa la definizione di “nuovo ceto medio dei laureati”, ma la sostanza è la stessa:

si tratta di quel 25/30% di lavoratori – dipendenti, autonomi e liberi professionisti – che svolgono attività legate prevalentemente ai settori della finanza, dell’economia digitale e della comunicazione (media, pubblicità, marketing, ecc.).

A marcare la distanza fra questo strato sociale da una parte e la classe operaia e le “vecchie” classi medie dall’altra, non sono solo le forti differenze salariali, sono anche differenze antropologiche (atteggiamenti, valori e stili di vita) che rispecchiano precise condizioni materiali di vita:

gli uni vivono nei quartieri centrali delle metropoli, che qualcuno ha definito vetrine della globalizzazione felice, o nelle città universitarie, gli altri nelle periferie e/o nei piccoli centri di provincia.

L’economia della conoscenza non conosce sindacati, stipendi – né tanto meno posti – fissi, percorsi di carriera predefiniti.

I contratti di lavoro sono frutto di trattative individuali, mentre il rischio individuale associato a tale condizione viene esaltato come una virtù, in quanto, secondo la vulgata mainstream, questa spietata competizione di tutti contro tutti premierebbe i “giocatori” più meritevoli e coraggiosi.

 

Nel concetto di “nuovo ceto medio dei laureati”, più del termine laureati pesa l’attributo “nuovo”.

 La semplice laurea, infatti, non garantisce più di poter salire sull’ascensore sociale, in quanto le professioni meglio pagate richiedono ormai capacità che i percorsi formativi pubblici non sono in grado di trasmettere.

 Di conseguenza, l’istruzione superiore torna a essere quel privilegio che la massificazione degli accessi all’università sembrava avere cancellato nella seconda metà del secolo scorso, dal momento che sono solo le famiglie benestanti a poter offrire ai figli la possibilità di frequentare università di élite.

 Ma la selezione comincia prima, su base socio territoriale, dal momento che, come ricordato sopra, il nuovo ceto medio vive nei centri gentrificati delle metropoli, cioè in quartieri dove le scuole, dalle elementari ai licei, offrono chance ben superiori di quelle degli istituti periferici.

In poche parole, il privilegio sociale è una spirale che si autoalimenta e si rafforza continuamente, aumentando costantemente la distanza fra alto e basso.

Queste distanze si rispecchiano nelle scelte elettorali:

come tutte le ricerche sulla composizione sociale dei flussi elettorali confermano, oggi a votare a sinistra sono gli individui benestanti di cultura elevata, tutti gli altri votano a destra o – in misura crescente – si astengono.

 Wagenknecht cita il caso dei “Verdi tedeschi”, che hanno superato da tempo i Liberali come partito più votato dai ricchi, ma ammette che anche il suo partito,” la Linke”, un tempo sostenuto da un elettorato di cultura medio-bassa prevalentemente operaio, è diventato un “partito dei laureati”.

Ma soprattutto si rispecchiano negli stili di vita, nei linguaggi e nelle posture ideologico-culturali.

Le élite della nuova sinistra guardano dall’alto in basso “quelli che non hanno frequentato l’università, vivono in provincia e comprano da “LIDL” i prodotti per la grigliata per risparmiare”.

Questi “sdentati” usano parole che l’”etichetta politicamente corretta” considera intollerabili, per cui, nelle redazioni dei media, nelle istituzioni pubbliche e nelle aziende sono sottoposte a dure sanzioni sociali, al punto che “più della metà dei cittadini tedeschi non osano esprimere liberamente le proprie opinioni “.

Quando questa “marmaglia”, ribellandosi contro le politiche neoliberali e le condizioni di vita che impongono alle classi subalterne, scende in piazza dando vita a spettacoli “indecorosi”, come le manifestazioni dei gilet gialli in Francia, degli elettori di Trump negli Stati Uniti e dei “No Vax” in tutto il mondo, viene bollata con accuse di “neofascismo”.

Le sole manifestazioni accettabili sono quelle per i “diritti delle minoranze Lgbt”, dei migranti o per la “tutela dell’ambiente”, e devono essere pacifiche, allegre e variopinte come quelle di movimenti come “MeTo” e “Friday for Future”.

 Per inciso, nota “Wagenknecht”, a queste ultime non hanno partecipato più dell’80% dei giovani, mentre i due terzi dei partecipanti hanno annesso di appartenere a un ceto sociale elevato.

Passiamo all’altra faccia dello specchio.

 I proletari votano a destra perché si sono convertiti in massa al fascismo, o solo perché l’assoluta assenza di empatia del nuovo ceto medio nei confronti delle loro esigenze e dei loro timori non lascia a queste persone altre alternative per esprimere la propria rabbia?

Questa per “Wagenknecht” è ovviamente una domanda retorica che ammette solo la seconda risposta.

 Le radici della rabbia affondano nel venir meno di ogni senso di sicurezza e continuità.

 La mistica del cambiamento e del rischio che esalta il nuovo ceto medio, per i membri delle classi subalterne, che hanno bisogno di sapere che cosa accadrà domani, è viceversa associato a un angosciante senso di precarietà e insicurezza esistenziali.

Nel trentennio postbellico lo Stato aveva imposto limitazioni alla corsa al profitto privato, alla cui logica aveva sottratto la sanità, l’educazione, il diritto alla casa, le comunicazioni e alcuni servizi fondamentali come elettricità, acqua e trasporti pubblici.

La rivoluzione neoliberale ha spazzato via in tempi brevissimi questi presidi che garantivano sicurezza e protezione.

Nei primi cinque anni del “governo Tatcher” è andato in fumo un terzo dei posti di lavoro industriali.

Globalizzazione, decentramento produttivo nei Paesi a basso costo del lavoro, outsourcing dei servizi interni alle imprese hanno fatto il resto.

 Il nocciolo duro del proletariato industriale, caratterizzato da una cultura del lavoro fondata anche sull’orgoglio professionale (non si lavorava “solo per denaro ma per fare qualcosa di utile di andare fieri, non si voleva solo fare un lavoro ma farlo bene”), è stato rimpiazzato da un coacervo di mestieri dislocati nella logistica, nella grande distribuzione, nei servizi di cura e assistenza, tutti lavori precari, mal retribuiti e lontani dal garantire una qualche forma di soddisfazione professionale.

 Un capitalismo finanziarizzato, in cui il reddito proviene dalle rendite patrimoniali più che dal lavoro, ha alimentato disuguaglianze, aumento dei debiti pubblici e privati e immiserimento di massa, al punto che le aspettative di vita della classe media di un Paese ricco come gli Stati Uniti si sono drasticamente ridotte a causa del diffondersi dell’alcolismo, dei suicidi e dell’abuso di psicofarmaci.

La divaricazione alto/basso si evidenzia con particolare nettezza a proposito di temi come l’ambiente e l’immigrazione.

In entrambi i casi il nuovo ceto medio e le forze politiche che lo rappresentano propongono un’analisi irrealistica del problema e soluzioni che non tengono in alcun conto gli interessi delle classi subalterne.

 Partiamo dall’ambiente.

 Le analisi dei Verdi non vanno alla radice delle cause del degrado ambientale – la logica del profitto capitalistico – ma puntano il dito contro i comportamenti individuali, alimentando l’illusione secondo cui basterebbe cambiare stile di vita per salvare il pianeta.

 Ovviamente a cambiare stile di vita dovrebbero essere soprattutto i poveri le cui pratiche anti ecologiche vengono addebitate a ignoranza e incuria e non alla necessità di risparmiare, per cui si propone di penalizzare determinati consumi di massa (per esempio il carburante diesel) con rincari che “renderebbero nuovamente beni di lusso molti oggetti di consumo e servizi comuni cui grandi fette di popolazione non avrebbero più accesso”.

Veniamo all’immigrazione.

L’ideologia delle sinistre cosmopolite che predicano l’accoglienza indiscriminata e senza limiti non fa distinzione fra chi è costretto a emigrare dai disastri provocati dall’imperialismo occidentale e chi lo fa per scelta, rimuovendo il fatto che questi ultimi non sono affatto i più poveri, che non hanno i mezzi per farlo per farlo, bensì i corrispettivi dei ceti medi emergenti dei Paesi occidentali.

Così aumentano ovunque i medici del terzo mondo e i paesi poveri finanziano la formazione di specialisti che verranno sfruttati dai paesi ricchi, assistiamo cioè a un sovvenzionamento del Nord da parte del Sud che viene depauperato di forza lavoro qualificata (venti milioni di lavoratori dell’Est sono venuti in Germania dopo l’ingresso dei loro Paesi nella Ue).

I padroni ottengono così il duplice obiettivo di usufruire di forza lavoro a basso costo e di dividere i lavoratori, ma anche il ceto medio dei laureati ha il suo tornaconto:

 la disponibilità di servizi di cura alla persona garantisce infatti un aumento del loro potere d’acquisto.

 A pagare per tutti questi vantaggi sono i quartieri poveri in termini di concorrenza per le abitazioni, degrado delle scuole e dei servizi locali.

 Il fatto poi che le nuove ondate migratorie giunte in Germania negli ultimi anni dalla Siria e altri Paesi del Medio oriente abbiano faticato a trovare lavoro e vivano di sussidi, alimenta nei ceti subalterni l’idea che questi soldi vanno a persone che non c’entrano nulla con noi né hanno lavorato per meritarsele.

Fin qui il discorso fila e, pur non apportando sostanziali novità a quanto già argomentato da altri autori, ha il merito di approfondire la situazione tedesca evidenziandone la sostanziale convergenza con quella degli altri Paesi dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti.

 Le perplessità nascono laddove, come anticipato in sede introduttiva, la “Wagenknech”t si sforza di riscattare il concetto di sinistra, sia riagganciandolo – acriticamente – alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, sia temperando il giudizio sulla sinistra neoliberale nel tentativo di distinguerla dal neoliberismo economico, il che la induce a imboccare una strada che conduce a un pasticcio ideologico che ha scarse chance di contribuire alla costruzione di un’alternativa al “dominio neoliberale”.

Sulla conversione delle sinistre al neoliberalismo disponiamo già del contributo, fra gli altri, di autori come “Nancy Fraser” che ha coniato la formula “neoliberismo progressista” per denotare l’alleanza fra liberalismo di sinistra e liberismo economico , o di “Wolfgang Streeck”, che nei suoi lavori parla della fine della liberal democrazia dovuta al definitivo divorzio fra liberalismo e democrazia, ma l’approccio di “Wagenknecht”, forse perché è più lontana dalla cultura marxista degli autori appena citati, è decisamente meno radicale.

Pur riconoscendo che fra liberalismo di sinistra e neoliberismo economico esistono molte convergenze, in quanto riflettono entrambi la visione di strati sociali che sono stati premiati dai grandi mutamenti socioeconomici degli ultimi decenni, continua a coltivare l’illusione che esista un liberalismo di sinistra non ispirato al liberismo economico.

 È vero che questa differenza si riduce alla disponibilità a tenere in vita un welfare “riformato”, fondato su provvedimenti come l’istituzione di un reddito di base incondizionato che, invece di promuovere politiche finalizzate al conseguimento di uno stato di piena e buona occupazione, si limitano a offrire ai poveri un’assistenza di tipo umanitario, ciò non toglie, secondo “Wagenknecht”, che queste differenze conservino traccia della sinistra liberale “classica”, che nulla avrebbe a che fare con l’attuale neoliberismo “progressista”.

Per sinistra liberale “classica”, “Wagenknecht” intende movimenti come la “sinistra laburista di Corbyn “e quella “democratica di Sanders” o, per restare in Germania, le “ali di sinistra di SPD e Linke.

 Il che implica che, secondo lei, per rianimare una sinistra degna di questo nome, basterebbe restituire centralità al ruolo dello Stato (di questo Stato) in economia, senza che ciò debba essere necessariamente associato a un progetto di trasformazione sistemica;

progetto che del resto, a partire dalla svolta di “Bad Godesberg”, non fa più parte della cultura socialdemocratica tedesca.

La “sua” sinistra dovrebbe essere “liberale e tollerante” e collocarsi nella “tradizione dell’illuminismo occidentale” che l’autrice assume come un complesso di valori universali privi di connotazioni storiche e politiche.

Insomma” Wagenknecht" è una liberale (“classica”) senza se e senza ma, al punto che si compiace nello scrivere che “oggi la maggioranza dei cittadini pensa in maniera molto più liberale rispetto a pochi decenni fa, lo spirito dei tempi è solidamente liberale” e che “il nostro sistema politico è ancora liberale e bisogna sperare che continui ad esserlo”.

Di più: da buona tedesca, “Wagenknecht “non si rifà semplicemente alla tradizione liberale bensì a quella dell’ordoliberalismo, un pensiero che esalta in quanto impegnato a limitare il potere dei monopoli e garantire le condizioni di una “sana” concorrenza e che, a suo avviso, fino agli anni Novanta, avrebbe premiato “il merito, gli sforzi per migliorarsi e l’operosità individuale”.

Non una parola sul fatto che la “libera” concorrenza (Marx docet) genera monopolio, che il merito e la competizione individuale per migliorarsi sono stati la base ideologica su cui è venuta crescendo quella sinistra alla moda che giustamente le sta sui nervi.

Non una parola sul fatto che la potenza e il benessere del suo Paese si fonda su un modello di sviluppo mercantilista che ha potuto sfruttare, grazie all’egemonia tedesca sulla Ue, il lavoro a basso costo degli operai del Sud e dell’Est Europa.

Infine rammarico per un’industria tedesca che sarebbe in crisi non a causa delle contraddizioni interne al suo modello di sviluppo bensì delle “importazioni cinesi basate sul dumping”, puntando il dito contro quella Cina “che intrattiene con la democrazia e con i diritti civili un rapporto quale non ci augureremmo mai in Europa”.

 In conclusione mi scappa da dire:

 cara” Sahra” non capisci che quella sinistra alla moda che giustamente ti irrita è l’erede della tradizione liberal socialista del tuo Paese che oggi ti ispira tanta nostalgia?

 

 

 

Guerra, divisione del mondo

o fine di un impero?

di Thierry Meyssan.

Sinistrainrete.info – (18 aprile 2023) – Thierry Meyssan – ci dice:

In molti pronosticano una guerra mondiale.

Infatti alcuni gruppi vi si preparano.

 Ma gli Stati sono ragionevoli e, nei fatti, pensano piuttosto a una separazione consensuale, a una divisione del mondo in due mondi diversi, il primo unipolare, l’altro multipolare.

Ma forse si delinea un terzo scenario:

l’“Impero americano” non si dibatte nella trappola di Tucidide, sta collassando come l’ex rivale, l’Unione Sovietica.

Gli straussiani statunitensi, i nazionalisti integralisti ucraini, i sionisti revisionisti israeliani, nonché i militaristi giapponesi si augurano una guerra generalizzata.

Sono isolati, sicuramente non sono movimenti di massa. Al momento nessuno Stato sembra volersi avviare su questa strada.

La Germania con cento miliardi di euro e la Polonia con molta meno disponibilità finanziaria si stanno riarmando pesantemente.

 Entrambe però non sembrano impazienti di misurarsi con la Russia.

Anche l’Australia e il Giappone investono negli armamenti, ma entrambi non hanno forze armate autonome.

Gli Stati Uniti non riescono a rinnovare gli effettivi delle loro forze armate e non sono più in grado di inventare nuove armi.

 Si accontentano di produrre in serie quelle degli anni Ottanta.

 Tuttavia salvaguardano la loro potenza militare nucleare.

La Russia ha già modernizzato le forze armate e si sta organizzando per sostituire le munizioni usate in Ucraina e per produrre in serie nuove armi per le quali non ha concorrenza.

 Quanto alla Cina, si sta riarmando per controllare l’Estremo Oriente e per proteggere in prospettiva le sue vie commerciali.

 L’India ambisce a diventare potenza marittima.

Non si capisce quindi chi potrebbe desiderare e quindi scatenare una guerra mondiale.

Al contrario di quanto affermano, i dirigenti francesi non stano affatto preparandosi a una guerra ad alta intensità.

 La legge di programmazione della spesa militare, ripartita su un decennio, prevede la costruzione di una portaerei nucleare, ma ridimensiona l’esercito.

 Il piano è dotarsi di mezzi di proiezione, ma non di difesa del territorio.

Parigi insiste a ragionare come potenza coloniale, mentre il mondo diventa multipolare.

È un classico caso: i generali si preparano ad affrontare guerre come quelle di ieri, non sanno vedere la realtà di quelle di domani.

L’Unione Europea sta realizzando la “Bussola Strategica”.

 Con cui la Commissione coordina gli investimenti militari degli Stati membri:

 tutti stanno alle regole, ma ciascuno persegue il proprio scopo.

 La Commissione tenta di assumere il controllo delle decisioni di spesa militare, finora di competenza dei parlamenti nazionali.

Un modo per costruire un impero, ma non per dichiarare una guerra generalizzata.

Ognuno ovviamente fa il proprio gioco, ma, all’infuori di Russia e Cina, nessuno si sta preparando a una guerra ad alta intensità.

Assistiamo piuttosto a una redistribuzione delle carte.

Questo mese Washington manda in Europa “Liz Rosenberg” e “Brian Nelson”, specialisti delle misure coercitive unilaterali.

Hanno l’incarico di costringere gli Alleati a obbedire, in ottemperanza alla famosa formula dell’ex presidente George Bush Jr. durante la guerra «contro il terrorismo»:

 «Chi non è con noi è contro di noi!».

“Liz Rosenberg” è efficiente e senza scrupoli: è lei che ha messo in ginocchio l’economia siriana, condannando milioni di persone alla miseria solo perché hanno osato resistere e sconfiggere gli ausiliari dell’Impero.

Il discorso da western hollywoodiano alla George Bush Jr, quello dei buoni e dei cattivi, non ha avuto successo con la Turchia, che già ha dovuto fare i conti con il colpo di Stato del 2016 e il terremoto del 2023.

 Ankara sa che non può aspettarsi niente di buono da Washington e già guarda all’”Organizzazione per la Cooperazione” di Shanghai.

Ma il discorso dovrebbe avere successo con gli europei, tutt’ora affascinati dalla potenza degli Stati Uniti.

 Che naturalmente è potenza in declino, ma anche gli europei lo sono.

 Nessuno, quindi, ha tratto lezione dal sabotaggio dei gasdotti Nord Stream di Russia-Germania-Francia-Paesi Bassi.

Non soltanto le vittime hanno incassato il colpo senza reagire, ma si preparano a ricevere altre punizioni per crimini che non hanno commesso.

Il mondo dovrebbe perciò dividersi in due blocchi; da una parte l’iperpotenza statunitense e i suoi vassalli, dall’altra il mondo multipolare.

 Come numero, gli Stati dovrebbero dividersi a metà, ma come popolazione solo il 13% rientra nel blocco occidentale, a cospetto dell’87% nel mondo multipolare.

 

Già ora le istituzioni internazionali funzionano con difficoltà.

Dovrebbero o andare in letargo o venire sciolte.

I primi esempi cui pensiamo sono l’uscita effettiva della Russia dal “Consiglio d’Europa” e i seggi vuoti dell’Europa occidentale al “Consiglio dell’Artico” durante l’anno di presidenza russa.

 Anche altre istituzioni hanno poca ragione di esistere; per esempio l’”Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa” (OSCE), che avrebbe dovuto organizzare il dialogo est-ovest.

Solo il permanere di Russia e Cina dovrebbe preservare a breve termine le Nazioni Unite:

gli Stati Uniti stanno già coltivando l’idea di trasformare” l’Organizzazione in struttura riservata alle nazioni alleate”.

Il blocco occidentale dovrebbe riorganizzarsi.

 Finora il continente europeo è stato dominato economicamente dalla Germania. Per assicurarsi che questa non si avvicini mai alla Russia, gli Stati Uniti vogliono che Berlino si accontenti della parte occidentale del continente, lasciando la parte centrale nelle mani di Varsavia.

La Germania e la Polonia ora si armano per imporsi nelle rispettive zone d’influenza, ma quando l’astro statunitense impallidirà si combatteranno.

Al momento della caduta l’Unione Sovietica ha abbandonato gli alleati e i vassalli.

Avendo preso atto di essere incapace di risolvere i problemi, l’URSS ha innanzitutto privato Cuba del sostegno economico, poi abbandonato a loro stessi i vassalli del Patto di Varsavia, infine è crollata su sé stessa.

 Oggi comincia un processo analogo.

 

La prima guerra del Golfo degli Stati Uniti, poi gli attentati dell’11 Settembre con il corollario di guerre nel Medio Oriente Allargato, indi l’allargamento della Nato e il conflitto ucraino avranno concesso solo tre decenni di sopravvivenza all’impero americano:

si appoggiava all’ex rivale sovietico e con la sua dissoluzione ha perso la propria ragione di essere.

È tempo che sparisca.

 

 

 

Salvataggio da Matrix.

Unz.com – (23-5-2023) - MIKE WHITNEY – ci dice:

Una recensione del nuovo libro di “Paul Craig Roberts”, "Empire Of Lies"

"Di tutte le specie in via di estinzione, la Verità è la più minacciata. La sto guardando uscire".

(Paul Craig Roberts, 4 settembre 2019)

Ciò che rende la scrittura di “Paul Craig Roberts” così potente, è la sua capacità di tagliare le false narrazioni e identificare le agende dell'élite che stanno plasmando gli eventi.

 Questo è il lavoro di un narratore di verità che è la designazione che viene tipicamente applicata a Roberts.

 Il termine si riferisce a una persona di profonde convinzioni morali che dedica la sua vita a esporre le bugie e le invenzioni dello stato e dei suoi alleati corrotti.

Questo è ciò che Roberts ha fatto per più di 40 anni, ed è per questo che migliaia di persone in tutto il mondo affollano il suo sito web ogni giorno.

Sanno che i suoi post saranno incisivi, ben studiati e coinvolgenti.

Ancora più importante, sanno che farà ogni sforzo per portare loro la verità nuda e cruda proprio come ha fatto per più di quattro decenni.

L'ultima raccolta di saggi di Roberts, intitolata” Empire Of Lies”, è un assortimento di articoli che mostrano la notevole portata e profondità della conoscenza dell'autore.

I visitatori frequenti del suo sito web noteranno alcuni temi familiari qui, mentre altri argomenti potrebbero non essere stati esplorati così a fondo.

Ad esempio, ci sono molti saggi sulla fragile economia statunitense, il vaccino "sperimentale" contro il Covid-19, la guerra in Ucraina, le elezioni presidenziali rubate e la frode del 6 gennaio.

 Allo stesso tempo, ci sono una serie di altri articoli che in genere non si associano a Roberts.

Questi includono un breve ma avvincente post sul 9-11, riflessioni minacciose sull'anno 2022, la manipolazione dei mercati dei lingotti e un pezzo sorprendente intitolato "La Germania non ha iniziato la seconda guerra mondiale".

 Ecco un breve estratto dall'articolo:

"Gli obiettivi del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori... (era) per correggere la disoccupazione causata da ingiuste riparazioni imposte alla Germania... dopo la 1° guerra mondiale e per mettere la Germania... di nuovo insieme. ...

La 2° guerra mondiale iniziò quando il governo Churchill e i francesi... dichiarò guerra alla Germania. ...

Il leader tedesco, “Adolf Hitler”, aveva riacquistato i territori tedeschi dati a Danimarca, Francia e Cecoslovacchia dall'umiliante Trattato di Versailles e si era unito all'Austria tedesca senza guerra.

 La garanzia britannica incoraggiò la dittatura militare polacca a rifiutarsi di negoziare la restituzione del territorio tedesco.

Tutto ciò che “Hitler” contribuì fu quello di costringere i paesi a cui era stato dato il territorio tedesco dal Trattato di Versailles a liberare le terre e i tedeschi, che erano pesantemente perseguitati in Cecoslovacchia e Polonia.

 Il ripristino da parte di “HitlerW dei confini nazionali della Germania fu travisato dalla stampa britannica e statunitense come "aggressione tedesca".

Questa falsa notizia dell'aggressione tedesca è stata utilizzata per costruire il caso che la Germania, che stava semplicemente recuperando il suo territorio nazionale e salvando il popolo tedesco dalle persecuzioni in Cecoslovacchia e Polonia, era un aggressore con la conquista del mondo come obiettivo ...

“Hitler” dichiarò molte volte che non voleva, o intendeva, la guerra con la Gran Bretagna e la Francia e intendeva solo recuperare le popolazioni tedesche perdute rubate alla Germania dall'ingiusto Trattato di Versailles.”

 (Impero Di Bugie, Paul Craig Roberts, Korsgaard Publishing, pagina 280, 2023)

 

In questi pochi paragrafi, Roberts cancella le fondamenta su cui poggia la nostra comprensione della 2° Guerra Mondiale. L'autore contesta le idee che:

Che Hitler ha iniziato la guerra.

E che la Polonia rappresentava il primo passo nel più ampio piano di Hitler per conquistare il mondo.

Se nessuna di queste due cose è vera, allora dobbiamo chiederci perché l'invasione della Polonia da parte di Hitler è stata usata come pretesto per una guerra mondiale in piena regola invece di essere trattata come una "disputa di confine" regionale come ci si aspetterebbe?

 Chiaramente, non c'era bisogno che la Francia e l'Inghilterra dichiarassero guerra alla Germania quando la Germania stava semplicemente recuperando i territori che aveva perso dopo Versailles.

 Se le teste più fredde avessero prevalso, la 2° guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata.

Ecco di più dal testo:

“Durante la sua ascesa politica, Hitler aveva appena nascosto il suo tentativo di sloggiare la piccola popolazione ebraica tedesca dalla morsa che avevano guadagnato sui media e sulla finanza tedesca, e invece di governare il paese nel migliore interesse della maggioranza tedesca al 99%, una proposta che provocò l'aspra ostilità degli ebrei ovunque.

 Infatti, subito dopo il suo insediamento, un importante giornale londinese aveva pubblicato un memorabile titolo del 1933 che annunciava che gli ebrei del mondo avevano dichiarato guerra alla Germania e stavano organizzando un boicottaggio internazionale per affamare i tedeschi e sottometterli.”

 (Empire Of Lies, Paul Craig Roberts, Korsgaard Publishing, pagina 286, 2023)

Questo è un altro estratto sorprendente che è in conflitto con le narrazioni storiche propagate in Occidente.

 Negli Stati Uniti, agli studenti viene detto che il trattamento degli ebrei da parte di Hitler era alimentato dal suo insaziabile antisemitismo, ma qui l'autore suggerisce che c'erano anche ragioni sociali ed economiche per le sue politiche.

 Ciò non diminuisce la gravità delle depredazioni di Hitler, ma crea una spiegazione più plausibile del perché gli eventi si sono svolti in quel modo.

Per lo meno, Roberts fornisce un'analisi stimolante che si allontana dalla narrativa troppo semplificata "Hitler era un maniaco omicida" che viene utilizzata per rispondere a ogni domanda e per smussare efficacemente il pensiero critico.

 Al contrario, il trattamento di Roberts dell'argomento genera curiosità che indirizza il lettore verso una maggiore ricerca che è l'intenzione dell'autore.

Il trattamento di Roberts della guerra civile è altrettanto provocatorio. In un capitolo intitolato “How We Know The So-Called "Civil War" Was Not About Slavery,” Roberts contesta l'opinione ampiamente diffusa che la guerra tra gli stati sia stata lanciata per liberare gli schiavi.

Ecco un estratto dal pezzo che aiuta a spiegare:

Due giorni prima dell'insediamento di Lincoln come 16° presidente, il Congresso, composto solo dagli stati del nord, approvò in modo schiacciante il 2 marzo 1861, l'”emendamento Corwin” che dava protezione costituzionale alla schiavitù.

 Lincoln approvò l'emendamento nel suo discorso inaugurale dicendo: "Non ho obiezioni a che sia reso esplicito e irrevocabile".

Abbastanza chiaramente, il Nord non era pronto ad andare in guerra per porre fine alla schiavitù quando proprio alla vigilia della guerra il Congresso degli Stati Uniti e il presidente entrante erano in procinto di rendere incostituzionale l'abolizione della schiavitù.

Qui abbiamo la prova assoluta che il Nord voleva che il Sud rimanesse nell'Unione molto più di quanto il Nord volesse abolire la schiavitù.

La vera questione tra Nord e Sud non poteva essere conciliata sulla base della schiavitù accomodante.

Il vero problema era l'economia, come hanno documentato “Di Lorenzo”, “Charles Beard” e altri storici.

 Il Nord si offrì di preservare la schiavitù in modo irrevocabile, ma il Nord non offrì di rinunciare alle alte tariffe e alle politiche economiche che il Sud considerava ostili ai suoi interessi.”

 (Empire Of Lies, pagina 221)

Più avanti nel testo, Roberts solleva una citazione dal discorso inaugurale di Lincoln che supporta ulteriormente il suo punto di vista.

 Lincoln ha detto:

"Non ho alcun scopo, direttamente o indirettamente, di interferire con l'istituzione della schiavitù negli stati in cui esiste.

 Credo di non avere alcun diritto legale di farlo, e non ho alcuna inclinazione a farlo".

Roberts presenta il suo caso in modo razionale e persuasivo, ma Lincoln ha fatto altri commenti che sembrano essere in conflitto con quelli sopra.

Ha anche detto:

 "Il governo non può sopportare permanentemente metà schiavo, mezzo libero" e che la mente pubblica deve riposare nella convinzione che la schiavitù sia in via di estinzione finale.

 Anche così, l'approvazione dell'”emendamento Corwin nel 1861” suggerisce fortemente che il Congresso non aveva intenzione di andare in guerra per porre fine alla schiavitù, altrimenti non avrebbero sostenuto il disegno di legge.

 Quindi, com'è possibile che così tanti americani si aggrappino all'idea che la guerra civile sia stata una lotta per porre fine alla schiavitù?

Proprio come gli storici hanno cercato di descrivere la seconda guerra mondiale come un intervento "moralmente inequivocabile", così anche gli storici hanno trasformato la guerra civile da una sanguinosa disputa sulle tariffe in una giusta lotta contro la schiavitù umana.

 Sfortunatamente, la propaganda non si allinea con i fatti, il che suggerisce che erano coinvolti fattori più banali.

Le azioni di Lincoln non erano guidate da qualche principio superiore più di quanto gli sforzi di “FDR” per trascinare il paese nella seconda guerra mondiale mirassero a "sconfiggere il fascismo".

In entrambi i casi, i presidenti hanno perseguito politiche volte a schiacciare i loro nemici aumentando il potere dello stato.

È compito dello storico di corte far apparire questi ricorrenti bagni di sangue come nobili crociate morali, ma non lo sono, motivo per cui siamo fortunati ad avere ricercatori come Roberts per spogliare la falsità e smascherare le macchinazioni egoistiche della cruda ambizione politica.

In un altro capitolo intitolato “The Proof is In: The Election Was Stolen”, Roberts contesta l'esito delle elezioni presidenziali del 2020 non sulla base di “snafus” della macchina elettorale o del fiasco del voto per posta o di uno qualsiasi degli altri problemi tecnici che affliggono le elezioni.

Invece, presenta una serie di osservazioni di "buon senso" che rivelano l'assoluta implausibilità di una vittoria di Biden.

Dai un'occhiata:

Considera che l'account Twitter di Joe Biden ha 20 milioni di follower.

L'account Twitter di Trump ha 88,8 milioni di follower.

Si consideri che Facebook di Joe Biden ha 7,8 milioni di follower.

 L'account Facebook di Trump ha 34,72 milioni di follower.

 Quanto è probabile che una persona con 4 o 5 volte il seguito del suo rivale abbia perso le elezioni?

Considera che le apparizioni elettorali di Trump sono state molto frequentate, ma che quelle di Biden sono state evitate ...

Si consideri che, nonostante il totale fallimento di Biden nell'animare gli elettori durante la campagna presidenziale, ha ottenuto 15 milioni di voti in più rispetto a Barack Obama nella sua rielezione del 2012.

Si consideri che Biden ha vinto nonostante il voto di Hillary Clinton del 2016 in ogni paese urbano degli Stati Uniti, ma ha superato Clinton a Detroit, Milwaukee, Atlanta e Philadelphia controllate dai democratici, le città precise in cui è stata commessa la frode elettorale più evidente e palese.

Si consideri che Biden ha vinto nonostante Trump abbia migliorato il suo voto del 2016 di dieci milioni di voti e il sostegno record di Trump da parte degli elettori delle minoranze.

Si consideri che Biden ha vinto nonostante abbia perso le contee” bell-weather “che hanno sempre previsto l'esito delle elezioni e gli stati “bell-weather” dell'Ohio e della Florida.

Si consideri che Biden ha vinto in Georgia, uno stato completamente rosso con un governatore rosso e una legislatura rossa sia alla Camera che al Senato. In qualche modo uno stato rosso ha votato per un presidente blu.

Considerate che Biden ha vinto nonostante i democratici abbiano perso rappresentanza alla Camera".

(Empire Of Lies, Paul Craig Roberts, Korsgaard Publishing, pagina 324, 2023)

Ci sono molte altre di queste osservazioni illuminanti nel libro, ma tutte sottolineano lo stesso triste fatto;

 che le elezioni sono state rubate e che l'uomo sbagliato ora siede alla Casa Bianca.

È molto intelligente da parte di Roberts evitare astrusi problemi tecnici e far valere le sue ragioni sulla base delle evidenti incongruenze che la gente comune può capire.

 L'idea che Joe Biden, che non è stato in grado di attirare abbastanza sostenitori per riempire una piccola palestra, abbia ottenuto 15 milioni di voti in più di Barack Obama è estremamente ridicola.

Roberts dovrebbe essere applaudito per aver dedicato del tempo a creare questa avvincente compilazione che rafforza notevolmente la sua tesi che le elezioni sono state truccate.

Questo è ciò che ci aspettiamo da Roberts che fa sempre il possibile per portare la verità ai suoi lettori.

 Il suo ultimo contributo,” Empire Of Lies”, segue la stessa tradizione.

Il libro è un riassunto variegato del recente lavoro dell'autore che copre una vasta gamma di argomenti che includono tutto, dai neonazisti in Ucraina alla manipolazione dei prezzi dell'oro.

 È una lettura affascinante che si muove rapidamente grazie all'unicità dell'argomento e allo stile di scrittura schietto ma esplosivo di Roberts.

In poche parole, c'è qualcosa qui per tutti.

 Concludo con una citazione dal discorso di accettazione del “Nobel di Harold Pinter” che, in molti modi, avrebbe potuto essere una descrizione di Paul Craig Roberts:

"La vita di uno scrittore è un'attività altamente vulnerabile, quasi nuda. ... Sei fuori da solo, su un arto. Non trovi riparo, nessuna protezione – a meno che tu non menta...

Credo che, nonostante le enormi difficoltà esistenti, la determinazione intellettuale inflessibile, incrollabile e feroce, come cittadini, di definire la vera verità delle nostre vite e delle nostre società sia un obbligo cruciale che ricade su tutti noi. È infatti obbligatorio.

Se tale determinazione non è incarnata nella nostra visione politica, non abbiamo alcuna speranza di ripristinare ciò che è così quasi perduto per noi: la dignità dell'uomo".

(Harold Pinter, Nobel Lecture, 2005)

Ripeto: "... Determinazione intellettuale inflessibile, incrollabile, feroce".In effetti, questo è Roberts in poche parole.

 

 

 

“ARTA MOEINI”, LA CRISI DELLA MODERNITÀ

LIBERALE E LA RISPOSTA TOTALITARIA.

A CURA DI ROBERTO BUFFAGNI.

Italiaeilmondo.com – (26 Febbraio 2023) – Giuseppe Germinario – ci dice:

 

Questo intelligente e ambizioso saggio si propone di indagare la “trasformazione del liberalismo in totalitarismo morbido”, riconducendola alla logica interna del liberalismo come manifestazione della Modernità.

(L’Autore, Arta Meini, è uno dei redattori fondatori di “AGON”.

 Il dott. Meini è un teorico della politica internazionale e direttore di ricerca presso lo” Institute for Peace & Diplomacy”.)

È interessante, oltre che curioso, notare che l’analisi di Meini coincide in più punti con quella che io ho delineato in forma sintetica in questi due articoli:

GUERRA IN UCRAINA. QUAL È LA POSTA IN GIOCO CULTURALE?  del 17 marzo 2022 e REALTA’ PARALLELA E REALTA’ DELLA GUERRA II PARTE, del 28 marzo 2022.

Interessante e curioso perché Meini è un nietzschiano, io un cattolico conservatore. La parziale confluenza delle nostre analisi si realizza nel realismo politico da entrambi condiviso, a partire da diversissimi presupposti culturali.

(agonmag.com/p/the-crisis-of-liberal-modernity-and).

La crisi della modernità liberale e la risposta totalitaria.

 

Il paradosso della libertà e la fissazione messianica dell’uguaglianza galvanizzano le tendenze dispotiche della modernità.

(Arta Meini)

Le democrazie industrializzate avanzate stanno vivendo tempi spaventosi e strani, caratterizzati da crisi apparentemente senza fine, isteria di massa e una successione di emergenze, il tutto amplificato dallo Stato e dalle istituzioni di propaganda sociale, nominalmente indipendenti, con cui ha sviluppato un rapporto simbiotico.

L’analisi offerta dalla maggior parte dei critici della nostra attuale situazione – quelli giustamente allarmati dagli eccessi del securitarismo, della centralizzazione, del globalismo e dello statalismo – è più o meno questa:

che il liberalismo moderno o l’ordine neoliberale rappresentano una perversione del liberalismo classico o delle origini e che solo restaurandoli e tornando ai loro principi originari i buoni liberali dell’Occidente potrebbero raddrizzare la rotta e porre rimedio alla situazione.

Tali affermazioni non sono del tutto errate, ma sono superficiali.

Il dilagare dello Stato manageriale liberale in un “Leviatano totalitario e di portata mondiale” è in parte il risultato degli stessi successi della visione liberale del mondo – quello che potremmo definire il “progetto moderno” – nonché il naturale culmine di tre antinomie fondamentali per il liberalismo.

Come siamo arrivati qui?

L’attuale tempesta distopica si sta rafforzando da tempo, almeno dall’inizio del XXI secolo.

Non solo l’attacco terroristico dell’11 settembre ha spinto la macchina bellica statunitense a una serie di guerre senza fine in una guerra globale al terrorismo, ma l’amministrazione di George W. Bush ha sfruttato quella tragedia e la minaccia di Al-Qaeda per consolidare e razionalizzare ulteriormente un regime di sorveglianza che ha drammaticamente ampliato e abusato del” Foreign Intelligence Surveillance Act” (FISA).

Tre presidenti democratici e repubblicani più tardi, l’intelligence statunitense – con la complicità delle Big Tech – continua a sorvegliare in massa gli americani sul territorio degli Stati Uniti con scarsa trasparenza e supervisione.

Lo spettro del Covid-19 ha solo accelerato questa tendenza allarmante e ha allargato la portata della securitizzazione e della politica della paura alla salute pubblica.

 Da un giorno all’altro, molti governi occidentali si sono trasformati in Stati di biosicurezza, imponendo passaporti per il vaccino, limitando i viaggi e rinchiudendo i propri cittadini in nome della sicurezza pubblica.

 Si è sempre dubitato che tali misure draconiane fossero necessarie o addirittura utili a “rallentare la diffusione” di un virus altamente trasmissibile (come dimostrato dalle varianti Delta e Omicron).

Tuttavia, la gestione bellica del virus da parte di Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito e molti Paesi europei ha creato un clima marziale in cui era essenzialmente accettabile trattare i “non vaccinati” come cittadini di seconda classe, persino come una pericolosa minaccia, con la minima considerazione per la sovranità corporea o lo scetticismo scientifico.

Nel 2022, la famosa nozione di “stato di eccezione” di “Carl Schmitt” era diventata una caratteristica ordinaria della vita in molte parti del mondo.

Una situazione in cui il sovrano trascende la sua autorità politica e costituzionale apparentemente per proteggere il pubblico da una qualche emergenza in una società sempre più polarizzata sembra essere diventata la nuova normalità nel mondo occidentale.

Un anno fa, nel febbraio 2022, due eventi distinti, apparentemente non correlati, hanno catturato la condizione dispotica e distopica del nostro Zeitgeist.

 In primo luogo, le proteste pacifiche organizzate dai camionisti canadesi contro gli eccessi delle norme Covid, note come “Freedom Convoy,” sono state stroncate dalla piena mobilitazione dello Stato canadese, con l’esplicito appoggio del governo statunitense e delle multinazionali.

 Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha dichiarato lo stato di emergenza, permettendo al suo governo di ignorare e calpestare le libertà civili dei canadesi in nome della sicurezza.

All’epoca, il famoso giornalista americano “Matt Taibbi” lo paragonò alle azioni del dittatore rumeno “Nicolae Ceauşescu”.

Un’inchiesta ufficiale sull’episodio, pubblicata questo mese, ha tuttavia rilevato che l’ordine di emergenza aveva raggiunto la “soglia molto alta” di un’emergenza nazionale.

Nonostante la sua “riluttanza” a schierarsi con il governo Trudeau, il commissario Giudice “Paul Rouleau” ha scritto che “la libertà non può esistere senza ordine”.

L’implicazione è che è il governo che può decidere cosa costituisce “libertà” e quali sono i suoi limiti.

Vivere in quello che Carl Schmitt chiamava “stato di eccezione” è diventata la nuova normalità nelle società occidentali.

In secondo luogo, “The Blob”, l’establishment che dirige la politica estera USA, e i suoi alleati nei media mainstream, hanno suonato le sirene di una guerra santa per difendere la nascente “democrazia” ucraina – e, a quanto pare, lo stile di vita occidentale – dal cattivo e autoritario Vladimir Putin.

Galvanizzati da molti membri dell’amministrazione Biden, i falchi del Nord Atlantico hanno adottato un duplice approccio alla loro agenda interventista, facendo leva sul moralismo dei loro gruppi di pari e sulle corde del cuore delle masse per propagandare le loro dubbie – e altamente ideologiche – affermazioni sulla vitalità geopolitica dell’Ucraina e sulla sua importanza per l’alleanza occidentale.

Con una vittoria occidentale realisticamente impossibile, il “wishful thinking”, le esortazioni manichee e le proclamazioni veementi dei leader occidentali hanno avuto come unico risultato quello di prolungare la guerra, congelare il conflitto, impedire una soluzione diplomatica e approfondire la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti e dalla NATO.

Questa politica ha imposto un enorme tributo ai civili ucraini e ha gravato sulle economie e sulle popolazioni occidentali con un’inflazione e una carenza di energia senza precedenti.

 Senza contare che aumenta drammaticamente il rischio di escalation militare e lo spettro di un’apocalisse nucleare.

 Ma punire la Russia, presumibilmente, vale tutto questo e molto di più.

Questi episodi evidenziano anche la propagazione sistemica e selettiva dell’informazione e il securitarismo del discorso intorno alla “crisi attuale” sempre rigenerata come crisi “di emergenza” del momento, senza la quale è difficile mantenere e giustificare la politica della paura e dell’eccezione.

 Infatti, stabilire un resoconto di base della crisi adatto all’inflazione di minacce, plasmare e influenzare la percezione del pubblico in modi moralistici e produrre consenso intorno alla linea d’azione desiderata sono fondamentali per ottenere i controlli psicologici e sociologici – e il paradigma temporaneo del consenso – necessari per invocare i poteri di emergenza.

 

 Nel mondo post-Covid, l’Occidente si trova di fronte alla terribile prospettiva di poter diventare il portabandiera di un nuovo tipo di regime:

 un regime socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato dall’involucro gradevole della democrazia liberale.

Ma quali sono il pathos filosofico e le basi sociologiche di un sistema che ha reagito ed esagerato in modo così inquietante ed estremo da cooptare e armare la crisi come strumento di legittimazione politica e di massimizzazione del potere?

Uno Stato socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato con l’involucro di benessere della democrazia liberale, sta diventando il regime standard dell’Occidente.

Per svelare questo fenomeno inquietante, è necessario fare un viaggio nella storia delle idee ed elaborare una genealogia critica della Modernità, la visione paradigmatica del mondo e il complesso storico nato sulla scia delle guerre di religione europee e dell’Illuminismo.

 Dobbiamo identificare i codici ideologici alla base della nostra attuale matrice sociale ed eseguire una diagnosi o un’autopsia del paradigma e dello “zeitgeis”t che abitiamo.

I malcontenti intrinseci del liberalismo.

Oggi, soprattutto in Occidente e sempre più a livello globale, siamo tutti allevati nella” modernità liberale”.

Un modo per cercare di cogliere e sistematizzare le basi della condizione moderna è quello di intenderla come “forma di vita” liberale o Weltanschauung, in cui la vita diventa inseparabilmente legata alla politica.

Sostengo che la decadente culturale, la perdita di significato, l’angoscia esistenziale e le dislocazioni politiche e sociali che debilitano l’Occidente sono innescate da una crisi di legittimità al centro della visione liberale del mondo e dallo sforzo del regime esistente di consolidare e preservare la propria autorità e la struttura di potere esistente (in un momento in cui l’autorità dell’autorità è sempre più messa in discussione).

Ma cosa contraddistingue la Modernità come pathos filosofico e come si rapporta al liberalismo?

La modernità è certamente un concetto ambiguo e sfuggente: in un certo senso, riflette la temporalità, intendendo semplicemente ciò che è attuale, presenziale o nuovo.

Tuttavia, ha anche una definizione filosofica e sostanziale:

una particolare mentalità e un paradigma che arriva a dominare la costellazione di valori dell’Occidente a partire dal XVI secolo con la Riforma protestante e poi con l’Illuminismo.

 Le sue caratteristiche sono riassunte nell’espressione familiare “progetto moderno “.

Come orientamento alla vita, la modernità rappresenta la sublimazione di ciò che il filosofo tedesco” Friedrich Nietzsche” chiama la “pulsione apollinea”, caratterizzata dal desiderio o dall’istinto umano di dominare e soggiogare la materia e la natura, la volontà di creare ordine dal tragico disordine della vita.

Alcuni dei costrutti teorici ed epistemologici più influenti dell’era moderna sono stati tentativi di incapsulare ed esprimere questa pulsione apollinea, dal razionalismo e dallo scientismo all’utilitarismo e persino al marxismo.

Se la modernità è la forma, il liberalismo è la sostanza originaria:

l’insieme delle principali razionalizzazioni, lo schema teorico o filosofico, necessario per portare avanti il progetto moderno e che può essere utilizzato anche per dare un senso allo “Zeitgeist moderno” e ai suoi “baldacchini sacri” e immaginari sociali sui generis, in gran parte secolari.

Man mano che il paradigma liberale maturava in uno “Zeitgeist” che ha prima plasmato l’esperienza vissuta e l’orizzonte dell’immaginazione dell’uomo occidentale e poi ha consolidato il suo trionfo sulle visioni del mondo alternative con la globalizzazione della Modernità, il suo stesso successo ha reso più pronunciate ed esplicite le sue contraddizioni intrinseche.

 Questo sviluppo, a sua volta, ha generato una crisi di legittimità per il liberalismo, in cui si sono affermati l’incredulità, il dubbio e il nichilismo, e la fede nelle premesse originali è diventata sempre più incredibile.

Il “paradigma liberale” ha condizionato l’esperienza vissuta dell’uomo occidentale e ha trionfato sulle visioni del mondo alternative con la” globalizzazione della Modernità”.

Il liberalismo soffre di almeno tre antinomie originarie:

Dominazione vs. Autonomia.

Il liberalismo cattura la volontà moderna di dominio affermando il controllo dell’uomo sulla materia e sulla natura.

 L’agente umano viene considerato come la fonte ultima dell’autorità, che si sottrae a Dio, alla Storia, alla Tradizione o alla Natura.

Di conseguenza, richiede una netta rottura con il passato e con le strutture sociali tradizionali che sono viste come limitanti e costrittive per l’uomo.

 La “libertà” dell’uomo, si ritiene, richiede un progetto di liberazione sistemica dalle gerarchie e dalle norme del passato, che sono ingombranti o oppressive, in modo da poter creare un nuovo ordine basato sull’autonomia e sull’agenzia dell’individuo.

 

Questa è la ragion d’essere del liberalismo nella sua fase iniziale.

 La Rivoluzione francese, il Regno del Terrore e le esecuzioni di massa che scatenò sotto il leader giacobino Maximilien Robespierre illustrano al meglio il legame tra desiderio di liberazione e desiderio di dominio.

 Il fascino persistente della rivoluzione violenta e dell’attivismo sociale nella psiche occidentale attraverso le generazioni incarna questa disposizione paradossale.

Universalismo vs. soggettivismo.

Il liberalismo professa la fede in alcuni principi immutabili e universali (verità autoevidenti) derivati da una concezione fissa della natura umana.

 Essi sono fondamentali per la teoria dei diritti (naturali).

Al centro di questa antropologia filosofica – cioè la concezione liberale della natura umana – c’è il possesso da parte dell’uomo della ragione e della volontà razionale, di cui tutti, in quanto umani, sono partecipi in egual misura.

 Tuttavia, se da un lato afferma l'”ethos dell’uguaglianza “, dall’altro il liberalismo segna la svolta verso l’individualizzazione della moralità, invitando al soggettivismo etico ed epistemologico.

 Ciò porta a una forma di solipsismo in cui i valori, la conoscenza e persino la realtà sono veri o oggettivi solo nella misura in cui il singolo agente umano li ritiene tali.

Questa visione è sostenuta dalla convinzione che la volontà razionale dell’uomo abbia un’esistenza a priori, indipendente dalla società, dalla cultura, dalla storia e dalle gerarchie di valore e di potere.

Sia l’identitarismo moderno che la fissazione moderna per l’uguaglianza senza riserve trovano qui le loro giustificazioni originali.

 

 Perennialismo vs. perfettibilità dell’uomo (il mito del progresso).

Dato il suo impegno a favore di una natura umana fissa e universale, il liberalismo è presenzialista e sprezzante nei confronti della storia e del divenire, che considera una forza esterna alla natura essenziale dell’uomo come agente autonomo (homo liber) e che quindi ritiene perturbante per la sua libertà.

 Le formulazioni astratte e reificate del liberalismo sradicano l’uomo dalla sua esistenza storica concreta e trascendono le complessità della vita comunitaria.

 Nel suo idealismo filosofico, il liberalismo privilegia quindi la perennità dell’uomo come categoria nominale, ideativa e immutabile rispetto all’uomo nella vita reale, come” homo cultus” saldamente radicato in una rete estesa di relazioni familiari e sociali, inserito in comunità storiche e cresciuto all’interno di particolari nazioni o culture.

 Allo stesso tempo, forse influenzato dalla sua discendenza e dal suo impulso protestante, il liberalismo ritiene che le potenzialità, i poteri e la dignità dell’uomo non siano stati pienamente realizzati – la sua apoteosi è stata interrotta – a causa dei vincoli strutturali posti sull’uomo che lo separano dal suo” telos” universale.

Questo astio contro l’ordine ereditato radica nel pensiero liberale un desiderio di cambiamento che è in tensione con ciò che il liberalismo considera immutabile, cioè la sua visione essenzialista dell’uomo come “homo liber”.

Poiché trova sgradevole la realtà data – il mondo così com’è – il liberalismo deve sviluppare un’apposita teoria della storia che possa accogliere il cambiamento sociale.

 

 

L’obiettivo della storia deve essere il progresso umano verso una società in cui tutti sono completamente uguali e l’uomo è pienamente razionale, interamente libero e perfettamente produttivo.

L’uomo è un agente teleologico che attualizza la padronanza quasi sovrumana dell’umanità sulla natura e sulla materia.

 Privilegiando la linearità rispetto alla vecchia ciclicità del tempo (principalmente pagana), il liberalismo adotta una visione apocalittica, seppure astorica, della storia, finalizzata alla realizzazione dell’Utopia o della Città di Dio sulla Terra: una società “giusta” che realizza pienamente i principi egualitari universali, sradicando ogni differenza, distinzione e legame.

Una “nuova” società in cui l’antropologia filosofica fissa del liberalismo e la sua nozione idealistica di libertà umana sono attuate e raggiunte attraverso il livellamento e la massificazione delle persone (e l’appiattimento della cultura superiore e dei suoi imperativi gerarchici).

Le contraddizioni interne del liberalismo sono difficili da risolvere senza ricorrere al potere sovrano dello Stato moderno.

Queste tensioni non sono mai state facili da conciliare.

 L’ascesa dell’utilitarismo, dell’hegelismo e del marxismo nel XIX secolo può essere intesa in parte come il primo tentativo dell’Occidente di affrontare e risolvere le suddette antinomie a favore del progresso, dell’universalismo e del controllo, che Bentham, Hegel e Marx vedevano come potenzialità incarnate nello Stato moderno o nella dialettica storica che potevano essere utilizzate per avanzare e raggiungere la libertà.

Nella sua forma più influente, il Romanticismo, con la sua glorificazione dell’uomo comune, il sentimentalismo, il soggettivismo e il democratismo, fu un’altra emanazione.

Il suo esponente più importante, Jean Jacques Rousseau, reagì contro l’interpretazione illuministica della libertà, riconcependo l’uomo come originariamente e naturalmente perfetto e concentrando la sua interpretazione sull’autonomia e sull’emancipazione dell’uomo dalle “catene” della società.

Secondo Rousseau, la libertà sarebbe sinonimo e impossibile da raggiungere senza l’uguaglianza, una mossa che ha provocato le tendenze politicamente rivoluzionarie insite nel liberalismo – presto incarnate dai giacobini – e che da allora è diventata un aspetto ineludibile della modernità liberale.

In contrasto con la spinta all’omogeneità, alla convergenza storica e all’uniformità globale del liberalismo standard, un liberalismo che privilegiava la libertà personale e intellettuale e conservava alcune delle sensibilità gerarchiche e aristocratiche del vecchio mondo occidentale, era rappresentato da personaggi come Alexis de Tocqueville, Jacob Burckhardt e John Stuart Mill.

 Sottolineando l’autonomia privata rispetto al dominio (cfr. la prima antinomia), questi pensatori ponevano maggiore enfasi sull’individualità, sulla libertà di pensiero e su un governo limitato.

Va notato che l’enfasi sulla libertà umana come valore culturale determinante non è appannaggio esclusivo della modernità liberale, così come viene usata in questa sede.

L’ Homo liber è formativo nello sviluppo dell’umanesimo rinascimentale incarnato dal pensiero di Montaigne e Machiavelli, che hanno preceduto il liberalismo e sono stati suggestivi di una modernità alternativa.

Forse influenzato dai pensatori dell’Illuminismo scozzese, “Edmund Burke” fu un proto-liberale, o un liberale esitante, che privilegiando la religione, la virtù e gli elementi ancestrali e tradizionalisti, tentò di creare una sintesi tra il “liberalismo Whig” e il” conservatorismo europeo del tardo XVIII secolo”, sperando di indicare la strada per una rivitalizzazione della vecchia eredità occidentale in via di calcificazione.

L’approccio sincretico di Burke non trovava un conflitto tra l’apprezzamento per l’individualità e la diversità e l’enfasi sulla comunità e sulla monarchia ereditaria.

Difensore dell’aristocrazia e della diversificazione sociale, era fortemente anti egalitario e sosteneva una sorta di unità organica.

 Burke attribuiva grande importanza alla cultura, alla gerarchia e all’immaginazione come collante della società e rimase un critico acuto dell’idealismo astratto e dell’individualismo razionalistico.

 Aborriva l’incapacità di comprendere la natura storica dell’esistenza umana, compresa la grande dipendenza dell’umanità dalle forme ancestrali.

L’atomismo sociale e gli astratti diritti individuali di un John Locke gli erano del tutto estranei.

Burke offriva un’interpretazione più gradualista del progresso che si scontrava fondamentalmente con il ceppo dominante del liberalismo del suo tempo, che diede origine alla “Modernità liberale”.

Nonostante le spinte primarie della “Modernità liberale”, il pensiero liberale stesso non è mai stato del tutto univoco.

Non ha offerto un’unica interpretazione della libertà, né c’è stato un accordo uniforme sullo strumento o sul meccanismo per raggiungerla.

Ciò che unifica i diversi orientamenti che hanno dato forma alla modernità liberale, tuttavia, è un profondo idealismo filosofico.

 Al di sotto delle varie interpretazioni della libertà si nasconde una comune antropologia filosofica, fissata sull’universalità e l’indivisibilità dell’idea dell’uomo come agente libero, l”’homo liber” come categoria assoluta che sovrasta tutti gli altri valori umani contestati che conducono alla prosperità umana.

Un profondo idealismo filosofico unifica i diversi orientamenti della modernità liberale.

Secondo questa visione idealistica e riduzionista dell’uomo, tutti gli esseri umani sono innatamente liberali e lo sarebbero anche nella vita reale, a meno di impedimenti esterni o sociali che corrompono la loro costituzione liberale interna.

Come osserva giustamente il filosofo “John Gray”, tale convinzione rende il desiderio missionario di sopraffare ed eliminare continuamente le forze oscure e disgregatrici considerate antiliberali – una nuova forma di “male” – una parte intrinseca dell’agenda liberale.

In modo sottile, i paradossi di cui sopra animano gli attuali conflitti nelle società occidentali, mostrandoli come sintomi della generale malattia filosofica – in ultima analisi, psicologica e persino fisiologica – al cuore della modernità liberale.

Il secondo avvento “totalitario” del liberalismo.

Poiché tutti i sistemi tendono a resistere al loro disfacimento e alla discesa nel disordine, il liberalismo è stato spinto a risolvere le sue contraddizioni intrinseche in una nuova unità, cosa che ha fatto favorendo l’elemento più totalitario o ordinatore di ogni antinomia.

 Questo spiega l’evoluzione del liberalismo nel XX secolo.

 Una delle prime conseguenze della battaglia interna del liberalismo per raggiungere una nuova forma più sostenibile è stata l’alba dell’ordine “neoliberale” e l’ascesa del liberalismo (tardo-moderno) che è oggi il nostro “Zeitgeist”.

Questa trasformazione è più il destino del liberalismo, più il prodotto di un suo desiderio di sopravvivenza, che una perversione o un tradimento dei suoi ideali – che è la convenzionale interpretazione conservatrice/classica “liberale” degli sviluppi contemporanei.

Data la crisi di legittimità che la tarda modernità liberale si trova ad affrontare, le tensioni interne allo schema liberale vengono risolte in modi sempre più autoritari e totalitari.

Come accennato in precedenza nella discussione della terza antinomia, la Modernità è stata ispirata dall’impeto di una nuova forma di immaginazione che evocava una visione del mondo trasformato.

Questo desiderio sognante e missionario di un mondo migliore, che giustificava e ampliava il campo di intervento attivo dell’uomo, rafforzava le potenzialità totalitarie del meliorismo razionalistico, conferendo alla Modernità una dimensione quasi spirituale.

La crisi di legittimità della modernità liberale invita a reazioni autoritarie e totalitarie.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il liberalismo moderno ha risolto efficacemente la prima tensione – dominio contro autonomia – ricorrendo all'”egemonia”, in cui il dominio culturale e intellettuale viene mascherato e presentato come liberatorio, con l’Altro che dà un consenso spontaneo o riflessivo.

La seconda tensione – universalità contro soggettivismo – è stata risolta attraverso l'”ideologia”, per cui tutti sono condizionati e propagandati a credere le stesse cose.

 La riserva di universalità viene mantenuta stabilendo l’identità dell'”uomo”, come inteso dal liberalismo, con l'”universale”.

 

La terza e ultima tensione – perennialismo vs. meliorismo – trova soluzione nella “tecnocrazia” e nel nuovo “culto della competenza”.

 Una nuova classe di mandarini viene socializzata (soprattutto attraverso l’università moderna) e installata in posizioni di potere e influenza nella cultura in generale.

A sua volta, questa classe indottrina il pubblico e funge da “avanguardia” del nuovo regime.

Questa classe professionale-manageriale ha il compito di condurre le mandrie di uomini verso la terra promessa, cosa che tenta di fare attraverso l’uso selettivo della “scienza” (la fede secolare), dell'”ideologia” (le nuove scritture) e della tecnologia (un bastone da pastore) per il controllo, l’emissione del messaggio, il monitoraggio e la manipolazione.

Alla base di questa risoluzione c’è la crescente fiducia che il” Controllo sia necessario e fonte del Bene”.

 Impiegato in modo appropriato, alla fine creerà un’utopia di giustizia sociale.

 (Cina docet! N.d.R.)

Il mito del progresso si consolida nell’idea che, in teoria, tutto può essere conosciuto e che la conoscenza umana può essere illimitata (cfr. certezza epistemologica);

che l’applicazione della conoscenza disponibile (scientismo/positivismo) al mondo materiale e sociale, la definizione stessa di tecnologia, guida l’umanità verso la perfettibilità;

 e che questo processo raggiungerà il miglioramento della condizione materiale e morale di tutta l’umanità.

Mentre la ricerca del dominio inizialmente si maschera come liberazione dalle vecchie strutture e gerarchie mantenute dalla tradizione, dall’aristocrazia o dalle istituzioni patriarcali, la ricerca del dominio sulla natura e poi sulla società richiede, col tempo, l’acquisizione e la sovversione della società stessa, un progetto ingegneristico completo.

 Questa ricerca richiede l’indottrinamento finale di esperti che si considerano, a ragione, oracoli dell’età moderna in grado di prevedere il corso della Storia.

Questa tendenza è perfettamente esemplificata da “John Stuart Mill”, per il quale il dibattito libero distrugge le credenze e le istituzioni tradizionali e pone le basi per il dominio di esperti illuminati, animati da quella che” Mill” chiama, con” Auguste Comte”, la “religione

 dell’umanità “.

(è falso che la religione dell’umanità sia il liberalismo. N.d.R).

Il liberalismo moderno ha creato un triplice apparato di controllo e di conformità attorno a “egemonia”, “ideologia” e “tecnocrazia”.

È interessante notare che, date le sue radici quasi cristiane, l’inclinazione altruistica e moralmente egualitaria del primo liberalismo viene innescata e problematizzata già durante il XIX secolo, quando le condizioni di vita ordinarie di molte persone nelle aree urbane peggiorano con l’aumento dell’industrializzazione e la massificazione che l’accompagna.

Nel marxismo, figlio della ideazione e utilitaristico della modernità e del liberalismo, si trova il riconoscimento, e forse la prima reazione sistematica, alle complessità e ai problemi scatenati dalla continua presenza di disuguaglianze socio-economiche e alla profonda inquietudine che questa realtà contraddiceva il mito del progresso.

(Il marxismo può essere solo dittatoriale, non libertario! N.d.R.)

 Molti – utilitaristi, rivoluzionari marxisti in senso estremo e (più tardi) leader del “Movimento Progressista” – giunsero alla conclusione che il “progresso” non avrebbe potuto realizzarsi senza l’intervento umano.

La consapevolezza che il progresso richiederà di essere plasmato e incanalato attivamente ha richiamato l’attenzione sull’importanza della leadership e delle élite.

Per guidare il popolo, un nuovo ordine di rango, presumibilmente basato su meriti e credenziali, doveva essere giustificato e dotato di autorità.

Il liberalismo prebellico (conservatore) cercò di resistere a queste convinzioni, ma il liberalismo postbellico (ispirato dal New Deal di FDR) le combinò con gli ideali di progresso sociale e di uguaglianza globale nel neoliberismo.

 Lo Stato avrebbe ora acquisito un ruolo più centrale e collaborato con le grandi imprese per fornire beni pubblici e giustizia sociale ed economica.

 Il liberalismo moderno identificava quindi la liberazione con un progressivo egualitarismo il cui “raggiungimento comportava un aumento dei controlli sociali e politici e l’eliminazione della libertà individuale”.

 Il liberalismo e il marxismo si sono rivelati come espressioni diverse dello stesso Giano moderno, cioè come schemi diversi che cercano di formalizzare e razionalizzare l'”essere-nel-mondo” o “sé” moderno.

 Questo “Giano Moderno” difende l’uguaglianza e il progresso come segni distintivi della libertà umana e professa di abbattere le vecchie gerarchie per realizzarli;

 eppure, asservisce l’uomo a forme sempre nuove di gerarchia innaturale e di controllo sotterraneo, sacrificando la grandezza umana e la fioritura culturale sull’altare della mediocrità e dell’omogeneità.

La modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non si limitano all’Occidente.

 Come una termite, divora le gerarchie radicate delle civiltà, lasciando dietro di sé solo un guscio vuoto.

La modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non sono limitati al mondo occidentale.

Ovunque venga introdotto e qualunque forma assuma alla fine, questo “Proteo” dalle molte forme e facce dissangua e corrode la civiltà che lo ospita, lasciando solo un guscio vuoto che vacilla sul baratro, forse più che in Occidente.

 In tutto il mondo, questo dio trasmigrato appiattisce maniacalmente la società e sfigura o distrugge le istituzioni ereditate, mentre, allo stesso tempo, innalza nuove strutture di repressione e subordinazione totale.

Incarna la forza anti-vita e anti-cultura per eccellenza.

Allora, cosa spiega il notevole successo e la resistenza dell’ordine mondiale neoliberale e l’attrazione del suo programma di negazione della vita?

Le fonti del potere (e del declino?) del liberalismo.

Il successo travolgente del liberalismo contemporaneo nelle società occidentali è dovuto all’uso efficace di quello che può essere definito il circuito di retroazione egemonia-prestigio.

 L'”egemonia” è il processo attraverso il quale una classe dominante stabilisce il controllo socio-culturale sui gruppi subordinati, sposando e segnalando la propria leadership morale e intellettuale su di essi in modo tale che le classi inferiori acconsentano effettivamente alla propria dominazione da parte delle classi dominanti.

 La conformità degli inferiori è assicurata attraverso la segnalazione delle élite, in cui le classi superiori usano il loro capitale sociale o “prestigio” per indicare ai pubblici comportamenti corretti da emulare, nonché facendo leva sulla loro posizione all’interno dell’establishment socio-politico per sfruttare il potere della propaganda moderna.

In questo processo, la narrazione delle élite, che trasmette la loro benevolenza e la visione di una società migliore per tutti, viene interiorizzata dalle masse e trasformata in una narrazione “sacra”, che le condiziona ad agire come desiderato, in modo che non ci sia bisogno di forzarle o costringerle.

Nel loro immaginario è radicata la convinzione che con i loro governanti partecipano, ritualmente e simbolicamente, a cause giuste e cosmopolite, persino sacre.

La tecnologia moderna e i social media hanno solo aumentato il raggio d’azione delle élite e il loro monopolio sulla “verità”, mentre i resoconti che se ne discostano vengono attivamente respinti come disinformazione.

Garantire la conformità è un processo a più livelli che utilizza il securitarismo e l’armamento della “crisi” come veicoli attraverso i quali le élite raggiungono la solidarietà di classe, i dissidenti vengono ulteriormente emarginati e il pubblico in generale subisce una “formazione di massa”.

Questo processo di omogeneizzazione rafforza le identità di gruppo attraverso le linee di classe e ossifica le posizioni sociali, proteggendo, riaffermando e rafforzando lo status quo.

 L’ “homo liber” genera così il suo inevitabile altro, quello che il filosofo italiano “Giorgio Agamben” chiama acutamente “homo sacer”, l’uomo “maledetto” o “bandito” che vive in una sorta di purgatorio tra la cittadinanza e il controllo statale, essendo allo stesso tempo membro di una comunità politica e vivendo al di fuori di essa a causa del suo rifiuto di conformarsi alle nuove norme stabilite.

Questo processo si estende oltre l’Occidente.

In diverse società, le caste superiori – che si identificano con gli ideali occidentali di progresso liberale – formano un blocco ideativo liberale decentralizzato e informale che serve a promuovere, come forma di vita ideale, l’ordine mondiale neoliberale e la sua apposita ideologia universalista.

 L’ imprinting globale dell’ideologia liberale tra le élite internazionali di diverse civiltà, che la usano come moneta di potere e di status, globalizza l’egemonia culturale del liberalismo e dà potere alle istituzioni e alle ONG occidentali che perpetuano l’ideologia.

Questa dinamica rafforza il sistema mondiale neoliberale esistente e le organizzazioni internazionali che lo difendono con il potere della semiotica e della retorica e con le loro regole ostinate, noiose e arcane.

L’inevitabile conseguenza della “Modernità liberale “è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato, dell’omogeneità e del conformismo globale, in nome della libertà e della democrazia.

(Attualmente quando decade la “democrazia liberale” può subentrare solo la “dittatura marxista” o la “dittatura fascista”! N.d.R.)

Il risultato è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato e lo scatenamento dell’omogeneità e del conformismo in nome della libertà e della democrazia, non solo in Occidente ma a livello globale.

 Questo totalitarismo morbido è ancora più pernicioso della tirannia coercitiva o del totalitarismo duro, che si ottengono con la violenza, perché uccide la criticità, il dissenso e il libero pensiero, diminuendo l’energia spirituale o intellettuale necessaria per la sopravvivenza di una società sana.

Il totalitarismo morbido è, in parte grazie ai suoi appelli all’immaginazione sognante e alle ricerche utopiche, anche molto più sottile della tirannia coercitiva esteriore.

Ed è più difficile da individuare, per non parlare della difficoltà di resistergli.

Il totalitarismo morbido è anche più socializzato, incoraggiando la cittadinanza a diffamare, ostracizzare e cancellare le voci dissidenti che si ritiene abbiano violato un implicito vincolo sacro, dando vita a una dinamica noi contro loro, in cui l’identità collettiva è forgiata in un’opposizione manichea all’Altro.

 Questa forma di guerra alla mente del totalitarismo premia i dogmi e i luoghi comuni più che l’imparzialità e il buon senso.

Promuove il pensiero di gruppo come mezzo per monopolizzare il pensiero, anzi, la percezione stessa della realtà.

L’obiettivo è chiaro: garantire lo status quo contro qualsiasi rottura e superamento radicale.

Un fattore importante che rivela e contribuisce all’ascesa del “totalitarismo soft” è che il confine originario tra Stato e società civile, tra pubblico e privato – divisione che era stata enfatizzata nel primo liberalismo – è oggi sempre più sfumato e inaridito.

Una profonda crisi epistemologica su ciò che è conoscenza, esacerbata dall’accelerazione della politicizzazione di tutti gli aspetti della vita, aggrava la dinamica totalizzante.

 La crescente disintegrazione dei confini e delle distinzioni sociali nella tarda Modernità liberale, e la confusione e l’assenza di significato che ne derivano, fanno presagire una crisi d’ autorità di prim’ordine, in cui sia la classe politica (governo e burocrazia statale) sia gli esperti e persino la conoscenza che professano (“scienza”) vengono gradualmente ripudiati.

Tutto ciò fa presagire un maggiore allontanamento, una polarizzazione, un conflitto futuro e persino una rivoluzione sociopolitica.

Inoltre, alza ulteriormente la posta in gioco per la” Modernità liberale”: esercitare il potere diventa un problema esistenziale.

La preoccupante traiettoria della tarda modernità liberale verso la perdita di autorità fa presagire futuri conflitti sociali;

inoltre, rende l’esercizio del potere un imperativo esistenziale per l’”imperium liberale”.

La risposta naturale dell’establishment a questa crisi definitiva di legittimità è quella di consolidare e combinare lentamente l’apparato di controllo sociale e di formazione della cultura (cioè i media, le grandi imprese e il mondo accademico), storicamente appannaggio della società civile, con i meccanismi di comando politico e di autorità legale già a sua disposizione.

 In effetti, si crea una struttura massiccia e complessa di controllo e conformità, un regime integrato che può essere chiamato “imperium liberale”.

L’imminente guerra contro l’”imperium”.

L’ imperium liberale, ancora in fase di consolidamento, è una mostruosità hobbesiana.

 Influenzato dalla guerra civile inglese, Hobbes aveva in mente uno Stato con un controllo assoluto, ma con lo scopo limitato di mantenere l’ordine.

 Il nuovo Leviatano aspira a un controllo totale.

Sembra decentralizzato, ma è integrato attraverso le classi e le ideologie, con un chiaro gruppo interno e un gruppo esterno e le masse apatiche (cfr. l'”ultimo uomo”) nel mezzo.

 Il profondo risentimento del gruppo esterno, unito alla generale mancanza di capacità d’azione politica della popolazione, rende quest’epoca storica particolarmente incline al pensiero cospirativo, che dobbiamo identificare come un altro sintomo della patologia generale del paradigma tardo-moderno.

Il filosofo italiano Antonio Gramsci ha osservato in modo preveggente quasi cento anni fa:

 “Quando lo Stato ha tremato, si è subito rivelata la robusta struttura della società civile.

 Lo Stato era solo un fossato esterno, dietro il quale si trovava un potente sistema di fortezze e di sbarramenti “.

 La robusta struttura di cui parla Gramsci – forse il ventre del moderno Leviatano – è stata continuamente rivelata e usata come arma dall’establishment nell’inquadrare le nostre numerose guerre infinite, il COVID, l’ESG e, più recentemente, la guerra in Ucraina.

In tutti questi casi, i meccanismi di controllo sociale e di addomesticamento sono regolarmente impiegati per ottenere il consenso quasi spontaneo del pubblico attraverso la “formazione delle masse” e per trasformarle, attraverso la mobilitazione psicologica, in collaboratori inconsapevoli, se non addirittura consenzienti, del regime e dei suoi fini desiderati.

Questi fini sono mascherati come prerequisiti per la libertà e persino mascherati come morali e giusti, ma equivalgono a una spaventosa sovversione della libertà e del senso comune.

L’ascesa del regime integrale può sembrare promettere alla classe dirigente una sorta di stabilità, ma è più che probabile che si tratti di una fase transitoria.

È improbabile che l’attuale stato di cose sia sostenibile per decenni e potrebbe degenerare in un vero e proprio totalitarismo, con tutte le sue dimensioni politiche oppressive e pericolose.

Il Leviatano di Hobbes aveva lo scopo limitato di mantenere l’ordine civile. Il Leviatano moderno aspira a un dominio totale, che non è sostenibile.

Resta da vedere se il risveglio ancora incoerente, anche se vigoroso, dell’apparato di controllo liberale genererà un desiderio radicale e tragico di “superamento” (la décadence) tra il crescente numero di gruppi (di prestigio) emarginati in Occidente, le persone che si sono liberate dalla caverna liberale e vedono attraverso la sua falsa costruzione, o quelle provenienti da altre civiltà la cui” Weltanschauung” è in conflitto con il paradigma liberale moderno.

Sembra che sia iniziato un contraccolpo, anche se ancora per lo più embrionale, e se si rafforzerà, ci si può aspettare che l’”imperium liberale” colga ogni opportunità per securizzare ulteriormente e armare le crisi al fine di eliminare questi neonati dissenzienti prima che diventino adulti.

L’uomo era il soggetto del progetto moderno, ma sempre più spesso questo soggetto è stato trasformato nell’oggetto preferito della modernità:

 è stato trattato come una tela bianca su cui imprimere il nuovo ordine.

Quindi, proprio mentre il regime cerca di in-formarci, noi dobbiamo dis-formarci in una lotta radicale contro il nostro stesso io conformato.

 È in questo spirito che dobbiamo cercare di comprendere la famosa nozione di Nietzsche di “volontà di potenza”.

 Il tedesco ci esorta ad andare oltre la politica, le sue banalità e la sua partigianeria, per smantellare e sublimare i complessi sistemi di potere culturale e di prestigio sociale che l’egemonia ideologica della modernità liberale ha imposto.

Questo radicalismo spirituale e intellettuale è il primo passo per coltivare una contro-élite “dionisiaca” che rifiuti attivamente l’idealismo moderno e le illusioni ideologiche liberali, come il “progresso” o la “felicità”, a favore di un realismo concreto e storicamente radicato che consacri la vita, la natura, la società organica e la salute culturale.

In quest’ora fatidica, abbiamo bisogno di un realismo tragico e radicale, che gridi un duro” No” alla decadenza negatrice della vita e un duro “Sì” ai vincoli e ai limiti rigenerativi posti all’uomo dagli imperativi dell’unità organica e dell’evoluzione umana.

(Solo il “nuovo conservatorismo “e le” sue tradizioni realiste” possono rendere “liberi e lieti” gli uomini del futuro! N.d.R.)

(italiaeilmondo.com/2022/03/17/guerra-in-ucraina-qual-e-la-posta-in-gioco-culturale_di-roberto-buffagni/)

(italiaeilmondo.com/2022/03/28/realta-parallela-e-realta-della-guerra-ii-parte-di-roberto-buffagni/)

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