BlackRock e i ricchi uomini di Davos finanziano il marxismo liberale progressista negli Usa e nella UE.
BlackRock e i ricchi uomini di Davos finanziano il marxismo liberale
progressista negli
Usa e nella UE.
Storia
della sinistra americana
e
delle radici della “cancel culture”.
Linkiesta.it - Paul Berman – (20 agosto 2020)
– ci dice:
Paul
Berman ha firmato la lettera appello di Harper’s che tanto ha fatto discutere
il mondo intellettuale di qua e di là dell’Atlantico.
Su
Linkiesta, ripercorre la nascita delle pulsioni coercitive dell’ala radicale
della sinistra, fin dai tempi dell’Unione Sovietica impegnata ad annientare
liberalsocialisti e socialdemocratici.
E con
questo mini saggio invita alla resistenza in difesa del pensiero indipendente e
creativo.
La
questione più ampia che si annida dietro al dibattito sulla “Cancel culture”
riguarda l’essere “liberal” – cioè: cosa vuol dire davvero essere liberal?
E perché dovremmo occuparcene?
Un
manifesto pubblicato sul sito del “magazine Harper’s “il mese scorso dà
un’ottima descrizione della “Cancel culture” nella sua versione di sinistra.
È uno
spirito censorio, «un’intolleranza delle visioni opposte, la moda
dell’umiliazione pubblica, dell’ostracismo e la tendenza a semplificare
questioni politiche complesse in una certezza morale cieca».
È
l’appello, fatto su basi ideologiche, di “cancellare” alcune persone – nel
senso di distruggerle dal punto di vista professionale.
Il
manifesto pubblicato su “Harper’s “è intitolato
“Una
lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto” ed è molto contrario a questo
fenomeno.
Ben
152 scrittori, studiosi e artisti hanno apposto la loro firma per indicare questa
contrarietà, io ero tra loro.
Ma nel
mio caso ho firmato anche perché qualcosa, nel tono vecchio stampo e pieno di
sfumature del testo, mi ha riportato in mente i vari “manifesti liberal” e i
dibattiti di tanto tempo fa – alcuni, al contrario, potrebbero considerarli un
motivo in più per respingere il manifesto, i suoi firmatari e le sue pretese.
Ma
credo che sia un bene, invece, tornare con la mente proprio a quei dibattiti di
tanto tempo fa ed è un bene ricordare cosa significava, una volta, essere “liberal”.
A
pensarci bene, le sopraffazioni inflitte da una sinistra infervorata non sono
un problema nuovo.
Negli Stati Uniti hanno una storia e perfino
un’origine: risale agli anni ’20.
Il Partito Comunista Americano fu fondato in quel
periodo, nella convinzione (da ubriachi) che il marxismo, nella sua nuova
versione russa, costituisse l’ultima e irrefutabile parola in fatto di scienze
sociali.
Il
partito non riuscì mai ad avere successo negli Stati Uniti, ma per un certo
periodo crebbe a New York, in California e a Chicago.
Luoghi
in cui i comunisti si autoassegnarono il diritto non solo di fare prediche ai
rivali e agli oppositori (che è diritto di tutti), ma anche quello di
distruggerli – soprattutto i rivali di sinistra – nel nome della razza umana.
Cominciarono
a provare a imporre la loro dottrina ai sindacati socialisti o
social-democratici, e poi a tutte le altre organizzazioni della sinistra
americana, con la minaccia di repressioni continue.
Più di
ogni cosa, cancellavano tutto ciò che venisse detto o stampato di sfavorevole
sull’Unione Sovierica.
Si
arrivò a crociate molto sgradevoli, ai limiti (o oltre) della violenza, con
squadre di picchiatori e boicottaggi, che durarono per tutti gli anni ’20 e
’30.
Ebbe molta influenza a Manhattan, il centro nazionale dell’editoria,
e da alcune altre parti – influenza maggiore di quanto chiunque sembri
ricordare oggi (ma se ne può leggere qualcosa nei diari di alcuni grandi
scrittori: Max Eastman, Sidney Hook, Irving Howe e altri).
D’altra
parte, anche chi si opponeva a queste azioni del Partito Comunista ha una
storia.
In
quegli stessi anni nacquero in America i movimenti moderni per le libertà
civili e i diritti umani.
I
militanti e i loro amici tra gli intellettuali e, soprattutto, nei sindacati,
organizzarono una resistenza, a volte tardiva, a volte segnata da episodi di
ingenua illusione nei confronti dell’Unione Sovietica (cosa che rappresentava
una peculiarità intermittente dell’ACLU, il sindacato americano dei diritti
civili).
E, va detto, a volte con una certa brutalità, cosa
comune nei sindacati.
Ma
dopo un po’ anche questa resistenza ha trovato una sua forma. Era decisa, ma
anche piena di sfumature: condannava come principio le azioni dei comunisti, ma allo
stesso tempo era capace di riconoscere che, nonostante tutto, anche loro erano
utili su alcune questioni.
Non
chiedeva certo che il governo intervenisse a soffocare e reprimere la sinistra
americana, né voleva cedere di un millimetro nella antica battaglia contro le
canaglie e i demagoghi e le violenze della destra.
Lucidità, equilibrio e persuasione
costituivano l’idea dominante.
A New
York questa resistenza contro il Partito Comunista e le sue prepotenze
all’inizio fu chiamata “socialismo” o “socialdemocrazia” o con altre etichette
della sinistra radicale e del movimento dei lavoratori, anche se al suo interno
avevano un ruolo anche alcuni dichiarati progressisti, non sempre in modo
continuato come i socialisti.
Alla
fine degli anni ’30 perfino gli intellettuali socialisti o alcuni di loro
(addirittura “Sidney Hook”, il più grande dei filosofi marxisti americani, una
figura dominante in questi scontri, sempre spada in mano) cominciarono ad
accettare con una certa riluttanza, forse, che “liberalismo” fosse il termine
appropriato.
La
parola e il concetto cominciarono a dominare il dibattito.
E
dimostrarono di essere persuasivi.
Questi
impulsi coercitivi della sinistra sono, tutto sommato, impulsi umani. Erano
presenti anche nell’antica Grecia, come annotava Tucidide nella sua descrizione
dei rivoluzionari democratici di Corcira. Prima o poi tornano a circolare.
Accadde
con la “New Left” degli anni ’60 e ’70, per esempio, che cominciò come
movimento liberal – discendeva in gran parte dalle organizzazioni liberal e
social-democratiche che avevano sconfitto i comunisti americani – e dove poi,
chissà come, prese forza qua e là un orientamento maoista, accompagnato da
alcune ispirazioni provenienti da Fidel Castro e dalla Rivoluzione algerina.
Da qui
alla fine degli anni Sessanta, una piccola e rumorosa percentuale dei giovani
della New Left, accesi dalle isterie del periodo, fece germogliare di nuovo un
ramo violento.
Si
posero a cercare vendetta sui nemici dell’umanità, definiti stavolta come gli
agenti dell’imperialismo – espressione con cui si indicavano, ovviamente, i “liberal”.
“Putschisti”
era la parola coniata (da sinistra) da “Irving Howe”, usata per descrivere
questo lato insopportabile della sinistra.
La “New
Left” lanciò persecuzioni contro i loro stessi eretici, che dopo un po’ erano
diventati praticamente tutti.
Insomma:
era la
solita vecchia robaccia stalinista in una versione rinnovata, stavolta
disorganizzata e non istituzionale – cosa che la rendeva più difficile da
respingere.
Alla fine, questa robaccia si è autoeliminata da sola.
Perfino
i maoisti erano esseri umani e riuscirono a sopportare le loro stesse assurdità
solo fino a un certo punto.
Intanto,
però, la sfida lanciata contro coloro che volevano considerarsi “liberal” era
ardua, a dir poco.
Dovevano
essere decisi, o almeno non troppo malfermi, rispetto alla “follia della New
Left”.
E però
a volte erano anche riluttanti a sottrarsi in modo completo, viste le sue
origini liberalsocialiste.
Dovevano
riconoscere che, sebbene avesse preso una piega sbagliata, il movimento
radicale si era nel frattempo dimostrato meravigliosamente efficace nel rafforzare,
rivitalizzare o perfino far germogliare un insieme di cause – quelle che sono a
volte derise come “politiche identitarie” – ma che, in ogni caso,
rappresentavano delle splendide nuove possibilità per una società moderna.
Era
possibile essere anti-putsch e pro-innovazione allo stesso tempo? Essere decisi
e anche sfumati? Non facile.
La “New
Left” fece la grazia di sparire, mentre il meglio di ciò che aveva contribuito
a creare continuò a esistere.
Anche
dopo tutto questo, però, qualcosa dell’antico impulso coercitivo ancora
rimaneva nell’aria, anche se in una versione così strana da essere comica.
Lo si
vide in un piccolo numero di persone che, formate da alcuni filoni delle “identity-politics
della New Left”, cercarono carriere convenzionali nel mondo umanistico, a volte
come professori di letteratura nelle università, o nelle gallerie d’arte.
Non
erano politici, in senso proprio. E nemmeno si consideravano comunisti secondo
qualche nuova versione aggiornata – a parte alcuni – anche se amavano leggere riviste di
arte con nomi bolscevichi come “October”.
Erano
vittime, invece, dell’influenza di una serie di nuove teorie filosofiche
d’avanguardia provenienti dalla Francia, che offrivano una nuova combinazione
di meditazioni poetiche sul linguaggio e osservazioni antropologiche sulla
società. Teorie
straordinarie, progettate per rendere luminoso qualsiasi argomento venisse in
mente con la polvere luccicante della novità.
Nella
sua applicazione americana, però, queste straordinarie teorie furono considerate
estensioni radicali del marxismo perché avevano il merito di rendere evidente
la causa ultima dell’oppressione, che sarebbe la struttura del linguaggio e la
scelta delle parole, combinate con una universale volontà di potenza in tutte
le gerarchie sociali.
Alcuni
trovarono in quelle idee molto insolite una sorta di permesso, concesso da
sinistra, per sfuggire alle rigidità del marxismo vecchio stile: un permesso per esplorare, per
esempio, gli accenti culturali di un moderno femminismo.
Altre,
dopo averle inalate, si sono invece perse nella supposizione inespressa che
l’oppressione, essendo in origine un fatto linguistico, debba essere nei
risultati un fatto psicologico.
Si
sono baloccati con l’idea che, se si vuole capire se si è in presenza o no
della tirannia della struttura del linguaggio e della volontà di potenza,
occorre consultare i propri sentimenti feriti.
Con il
risultato di far partire mini-campagne contro chiunque vagasse per i corridoi
delle facoltà di lettere e usasse, il malcapitato, un vocabolario in grado
scatenare sensazioni sgradevoli – o al quale poteva essere attribuita una
interpretazione pericolosamente reazionaria.
Queste
campagne erano pensate per umiliare gli individui accusati o, in casi estremi,
danneggiare le loro carriere.
Non
furono molte ma furono comunque insopportabili in massimo grado per chi le
subiva.
“Philip
Roth” ne catturò l’atmosfera nel suo romanzo ambientato in un college “La macchia umana”, che parla di un professore che
utilizza una parola sbagliata.
Alla
fine anche queste campagne cessarono.
In
parte fu perché Roth non era solo, tra i liberal vecchio stampo, a dire: «Ma
state scherzando?».
Cessarono
anche perché gli stessi avanguardisti, o alcuni di loro, cominciarono a
riconoscere quanto fossero eccessive queste formule su linguaggio e potere.
O anche perché cominciarono a notare quanto fossero
crudeli e inutili queste forme di umiliazione, e quanto ricordassero quelle del
passato stalinista, ancora non del tutto dimenticato.
L’espressione
«politicamente
corretto»,
che ora è diventata un insulto di destra, nacque, dopo tutto, come un insulto
di sinistra.
Era
un’espressione dolorosa, ironica e auto-critica, ripresa dalla retorica del
passato marxista da persone di sinistra intelligenti, che volevano
ridicolizzare i fanatici il cui attivismo era eccessivo anche per chi ne
condivideva l’area politica.
E
però, anche di quelle campagne, nonostante fossero molto strane, qualcosa
riuscì a rimanere nell’aria.
Una mutazione virale.
I ragionamenti dell’avanguardia filosofica
degli anni ’70 e ’80 furono abbandonati in favore di un vocabolario, in lingua
inglese, più convenzionale (anche se con una insistenza continuata, nello
spirito del determinismo linguistico, sul neologismo come segno del progresso
sociale) che rese lo zelo dei riformatori più interessante per il preside di
facoltà.
Intervenne
anche la tecnologia.
Il
romanzo di Roth è ambientato nell’epoca dell’email, quando un “Rispondi a
tutti”, pigiato per errore, conduce al disastro.
L’epoca
dei social media è ancora più selvaggia.
Una
massa sui social media può funzionare anche senza le benedizioni della teoria
avanguardista.
Tuttavia,
anche solo un minimo di citazioni teoriche può trasformare un’orda confusa in
una squadra di agenti rispettabilmente impegnati nella lodevole attività di
tenere sotto controllo le infrazioni linguistiche.
Quegli
studenti, dopo aver passato i loro anni immersi nell’atmosfera delle nuove
idee, avevano considerato ovvio informare a quelle ispirazioni la loro carriera
nelle università, o nei giornali e sulle riviste, assoggettandosi alla pulsione
di denunciare e umiliare i nemici linguistici (percepiti) della causa
antirazzista e anti sessista.
Un
impulso che crebbe.
Tanto che, come spiega “Russell Jacoby” con un
certo nervosismo, nella prima pagina del suo nuovo libro, “Sulla diversità”, «criticare la
diversità è un invito all’ostracismo, è come salire in cattedra e gridare “Sono
un razzista fanatico!”».
Il
tutto ha portato alla moda, da parte di individui che si considerano i più
rispettabili campioni della diversità, di rovinare le carriere di altre
persone, le quali possono essere anche campioni di diversità, ma che non
mostrano lo zelo necessario.
La
loro colpa diventa quella di aver scelto l’espressione sbagliata, quella di
aver pubblicato anche un solo articolo vietato, o aver messo insieme il titolo
sbagliato. Il risultato non è le “Grandi Purghe di Stalin” in una nuova
edizione. Ma il romanzo di “Roth, ingrandito.
O
anzi, è qualcosa di simile a quello che descrive “Hawthorne”, che si rifaceva
al calvinismo impazzito del 17esimo secolo, o a “Il crogiuolo” di “Arthur Mille”r,
che fingendo di rifarsi a quello cui si rifaceva “Hawthorne”, evocava le
isterie del maccartismo.
Nei
luoghi in cui avvengono questi atti di persecuzione, tutti possono vederli.
Tutti notano come espressione nuove e vuote
(ad esempio “asservitori” anziché “proprietari di schiavi”) vengano assunte in
forma losca e uniforme nelle riviste e in alcuni giornali, accompagnate da una
certa devozione nelle fondazioni filantropiche e umanistiche e da una cautela
malcelata su alcune specifiche tematiche, come le dottrine dei movimenti
islamisti.
Tutti
coloro che hanno conoscenze nel mondo universitario hanno sentito storie di
persone, in una facoltà o nell’altra, preoccupate per la loro carriera,
professori bravi ma riluttanti a discutere idee e concetti con gli studenti,
riluttanti ad assegnare letture di classici della letteratura, riluttanti ad
affrontare certe controversie politiche o addirittura a esibire simboli, per la
paura di incontrare militanti della correttezza arrabbiati, con il rischio di
venire portati a giudizio.
Queste
storie possono sembrare esagerate se sono adoperate per dire che tutte le
scuole degli Stati Uniti sono precipitate nell’oscurità e che ogni professore
vive nella paura, cosa che non è vera.
Però alcuni episodi sono tutt’altro che
esagerazioni.
Qui,
per esempio, ci sono circa 350 professori di Princeton che da poco hanno
sottoscritto una lettera indirizzata al presidente e agli amministratori di una
università molto importante in cui chiedono, tra le altre cose, di istituire
una commissione speciale per «sovrintendere alle indagini e alla disciplina di
comportamenti, episodi, ricerche e pubblicazioni di stampo razzista da parte
della facoltà».
Cosa
incredibile:
ma alcuni professori hanno riferito all’”Atlantic” che, pur firmando la
lettera, non intendevano sostenere le sue disposizioni più salienti, cioè la
richiesta di una commissione speciale.
In
ogni caso, hanno firmato. È difficile da credere.
Ma d’altra parte è anche facile da credere.
“Irving
Howe”, nelle sue memorie, descriveva così i professori universitari degli anni
’30 che erano caduti sotto l’incantesimo di Stalin:
«Inquietante allo stesso modo era il bisogno
avvertito da persone serie di un abbandono rituale della propria indipendenza
intellettuale. Anzi, di un abbassamento rituale di fronte alle brutalità del
potere».
Il
piccolo cerchio di scrittori che ha scritto la lettera per” Harper’s “del mese
scorso (Thomas Chatterton Williams, Mark Lilla, David Greenberg, George Packer
e Robert Worth) è soltanto un gruppo di amici, composto di accademici e
giornalisti. Non dirigono un giornale e non gestiscono budget.
Non
provengono nemmeno da retroterra filosofici simili, cioè non hanno nemmeno quel
vago potere che emana dall’essere una cricca.
Ma,
dopo aver scritto la loro dichiarazione, non hanno avuto nessun problema a
ottenere altre firme, alcune di loro abbastanza note (la più grande autrice di
libri per bambini, il trombettista più famoso del mondo, per non parlare di “Noam
Chomsky”!), senza nemmeno essersi presi la briga di contattare, per di più,
alcuni degli scrittori che prima di loro avevano suonato l’allarme su questi
argomenti.
La
lettera consiste soltanto di tre paragrafi.
Ma è
comunque diventata un argomento di conversazione di portata globale, non solo
per il mondo anglofono.
“Mario
Vargas Llosa” (il maggior romanziere al mondo non per bambini) e un centinaio
di figure della cultura e della scienza del mondo ispanofono hanno prodotto la
loro lettera di sostegno a quella di “Harper’s”, come condanna della “cancelacion
ed el linchamiento”, due contributi americani (triste da dire) al vocabolario
globale dei comportamenti tirannici.
Eppure,
quando dico che tutti vedono il problema, quello che intendo dire è che tutti
lo dovrebbero vedere.
Per
citare l’esempio più famoso, tutti dovrebbero vedere qualcosa di inquietante
nel licenziamento di “James Bennet”, il capo della pagina degli editoriali del “New
York Times”.
Il suo
errore è stato fare ciò che i direttori della pagina degli editoriali del “Times”
hanno sempre fatto:
pubblicare
editoriali, ogni tanto, scritti da “Attila”, cioè – in questo caso – il
senatore “Tom Cotton dell’Arkansas.” Il suo contributo era stato titolato,
ovviamente: «Mandate l’esercito».
Così ha scritto Attila: «Questi criminali nichilisti sono in
giro solo per fare devastazioni».
Il
valore di pubblicare cose del genere è sempre stato, almeno in passato, quello
di permettere ai lettori di cogliere, senza mediazioni, le parole reali.
Cosa utile oltremodo, e che si inchina (in
modo simbolico) nella direzione di un dibattito pubblico, senza però
necessariamente suggerire che “Attila” sia un avversario degno.
Il
valore è stato anche quello di mostrare al mondo che perfino “Attila” riconosce
lo status universale del “New York Times”. E pubblicare “Attila” è sempre stato
una dimostrazione di potere, del “Times”.
Invece,
nel clima attuale, un gran numero di colleghi indignati ha creduto che il
direttore non solo avesse commesso un errore, ma addirittura un crimine che
meritava la fine della sua carriera.
Cosa
che, visto che il Times è il giornale globale, può significare soltanto che i
dirigenti delle “istituzioni liberal nel mondo” debbano trovare modi per non
offendere i militanti inferociti.
Eccolo
qui, “el linchamiento”.
Un
linciaggio inteso come un messaggio al mondo.
È
ovviamente un oltraggio alla tradizionale anima liberal dello stesso Times.
Eppure,
tante persone semplicemente non ci vedono nessun affronto. E neppure un curioso
rituale di auto-flagellazione da parte del New York Times, anzi, proprio nessun
problema.
Ci vedono del progresso sociale.
Questa
è stata una delle rivelazioni provocate dalla lettera di “Harper”.
La
risposta indignata di persone che, nel non vedere nessuno di questi
preoccupanti sviluppi, crede con sincerità che queste accuse, che indicano
delle prepotenze ideologiche da parte della sinistra, siano solo una calunnia
di destra.
Un
manifesto corposo, con le firme di più di 160 giornalisti e accademici “Una
lettera più specifica sulla giustizia e il dibattito pubblico” sostiene che
quella di “Harper” fosse ipocrisia sistematica, pensata per nascondere il
soffocamento delle voci oppresse.
D’altra
parte, come hanno notato già altri commentatori, un’altra virtù della lettera
di Harper è stato provocare una risposta per confermare la diagnosi.
Vedo un editoriale di “Pankaj Mishra”, su “Bloomberg
New”s, con il titolo «No, la Cancel culture non è una minaccia per la civiltà» (ma nemmeno lo “straw man argument”,
l’argomento fantoccio, è una figura retorica dignitosa), che associa i firmatari a Donald
Trump (il
quale invece viene contestato in modo esplicito).
Un
editoriale che si conclude con il rimpianto – accompagnato da un sinistro
sguardo a una lama luccicante – per il fatto che molti di questi, me compreso,
non abbiano ancora pagato per i loro crimini ideologici con la decapitazione
della loro carriera (ma non appena il rimpianto di “Mishra” è stato stampato
ecco che” Bari Weiss”, una dei firmatari, ha sentito la necessità di rinunciare
alla sua carriera di editorialista e di redattrice di quella sezione del “New
York Times – Bari Weiss”, il cui commento al massacro della sinagoga di
Pittsburgh del 2018 costituisce una delle condanne più potente della violenza
figlia dell’intolleranza di destra mai apparse sul Times o in qualsiasi altro
giornale negli ultimi anni.
Per
cui la “lettera di Harper “si è dimostrata un ottimo esempio di un manifesto
che si auto-verifica. Indica un problema e, provocando una risposta, dimostra
la veridicità del suo allarme.
Tuttavia,
la virtù più profonda di quel testo è di spargere alcune illuminanti verità
sull’idea liberal.
Una di
questa, in particolare, contribuisce a chiarire un mistero fondamentale di
queste controversie.
Cioè
dove si debba tracciare una linea di demarcazione tra socialismo liberale e le
varie altre dottrine e pulsioni più di sinistra.
È una questione complessa, varie concezioni
molto diffuse insistono nel tracciarla ovunque tranne che nel posto giusto.
Si
crede, per esempio, che ogni linea di demarcazione tra il “socialismo liberale”
e la “sinistra radicale” debba essere piuttosto indistinta, senza definizioni
nette.
Essere liberal e appartenere a una sinistra
più radicale sarebbe più o meno la stessa cosa, tranne che la prima posizione è
più pragmatica, o meno immaginifica. O più educata, o più upper-class, o più
vigliacca.
In linea di massima conta poco perché le due visioni concordano
sugli obiettivi di progresso sociale.
Oppure
no, si pensa che il liberalsocialismo non sia la stessa cosa della sinistra
radicale, ma al contrario un nemico del progresso sociale, che si nasconde
dietro a una nube di parole dal suono rispettabile ma senza significato.
In questo senso sarebbe una nuova emanazione
della destra, camuffata come salto in avanti di sinistra.
Il
socialismo liberale è un complotto imperialista.
O
ancora, si pensa che l”’idealismo liberal sia un inganno” e che qualcosa del
genere sia la lettera di Harper, che finge di fare un appello onesto per avere
un dibattito aperto e invece è soltanto una trappola pensata per proteggere i
privilegi elitari dei firmatari, che sono visti come – ovviamente – bianchi
ricchi (Ralph W. Ellison, autore immortale de “L’Uomo invisibile”, guarda dalla
sua scrivania, incantato) determinati a mettere in ginocchio la democrazia che
si esprime con le azioni.
Ma
sono tutti errori.
Il
liberal socialismo non è uguale a una sinistra più radicale, con alcune
divergenze tattiche. Né è un mantello per coprire la reazione destrorsa. Non è
nemmeno centrismo.
Se
propriamente inteso, ha un suo particolare approccio di pensiero.
Mantiene
istanze proprie, e la prima di queste non è nemmeno politica.
È, bensì, un impegno a mantenere un
particolare stato mentale, quella disposizione che si concede al pensiero
razionale e a una immaginazione giocosa.
È anche l’impegno ad assicurare le condizioni
politiche e sociali che rendono possibile una disposizione mentale di quel
tipo.
Sono
impegni che si assumono nella convinzione che il pensiero razionale e
l’immaginazione giocosa siano una cosa desiderabile in sé.
E nella convinzione che gran parte di ciò che
è desiderabile nella società dipenda dal fatto che queste due condizioni siano
in salute.
La
lettera di Harper non si presenta come liberal – e senza dubbio, alcuni dei
firmatari preferirebbero altre classificazioni, o nessuna in particolare, di
sicuro non una attaccata da un commentatore a caso come me.
Ma io attacco comunque l’etichetta di
“liberal” a questa lettera perché la sua preoccupazione principale è quella di
avere un “dibattito aperto”, che sottintende quel tipo di libertà intellettuale
che sto descrivendo.
Tuttavia,
questo liberalismo americano possiede delle idiosincrasie tutte sue. Quello di Harper è, senza questione,
un documento americano, anche se reca le firme di persone provenienti da altri
Paesi.
L’ostilità
verso le prevaricazioni del “Partito Comunista americano” dagli anni ’20 agli
anni ’30 era un affare interno alla sinistra.
E la tradizione liberal americana nei ’90 anni
successivi è stata tendenzialmente dominata da persone che, in qualche modo
(aperto o meno) appartenevano alla sinistra politica.
Gente il cui istinto è stato di prendere
posizione, almeno in modo generale, a favore delle varie (e a volte
contraddittorie) grandi cause che negli ultimi cento anni hanno implicato
un’idea di progresso democratico.
La
tradizione liberale sociale americana, vista in questo modo, è sempre stata una
tradizione che favoriva una duplice battaglia:
quella per una mente libera e, al tempo
stesso, quella per il progresso democratico. Il filosofo “John Dewey” era il
pensatore di riferimento degli intellettuali liberal americani.
La sua
grande ispirazione fu di connettere questa duplice idea in un sistema
filosofico, dove la lotta per l’approfondimento intellettuale e quella per
l’emancipazione democratica sono viste come fasi di un unico sviluppo. Una nozione stupendamente ottocentesca,
che proveniva da “Whitman” e da “Hegel”.
Il
testo di Harper «sulla giustizia e su un dibattito aperto» accenna a queste
battaglie fin nel titolo.
Riconosce,
e approva, le «vigorose proteste per la giustizia razziale e sociale». Approva
«le ampie richieste per una maggiore uguaglianza e inclusione nella nostra
società, non solo nell’istruzione superiore, nel giornalismo, nella filantropia
e nel mondo umanistico in generale», cioè approva le istanze di una riforma
sociale in tutti gli angoli della società abitati dai firmatari stessi.
La
lettera insiste nel condannare quello che definisce «illiberalismo», a dire che
è al fianco delle proteste sociali, non contro.
«L’inclusione
democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se alziamo la voce contro il
pesante clima di intolleranza che si è installato ovunque». E ancora:
«Rifiutiamo la scelta, falsa, tra giustizia e libertà, nessuna delle due può
esistere senza l’altra».
Soltanto,
c’è un punto di differenza tra le persone che si considerano principalmente
liberal e quelli che si individuano più a sinistra.
Il marchio caratteristico di questi ultimi non
consiste in un programma particolare per la politica o per l’economia.
Invece, è un certo tipo di indignazione, a
volte magnifico, a volte problematico, ma che in entrambi i casi poggia su una
idea di giustizia e di ingiustizia.
È la
credenza che l’ingiustizia sia, in sostanza, una cosa singola. Ciò implica che
anche la giustizia, lo sia. Ed è la convinzione che il più eccitante risultato ottenuto
dalla sinistra radicale sia quello di avere identificato quale sia questa
terribile cosa singola che è l’ingiustizia.
Il
nome di questa singola ingiustizia è cambiato nel tempo. Per i comunisti degli anni ’20 era il
capitalismo, la cui ingiustizia fondamentale era essere ostile all’Unione
Sovietica.
Per la
New Left, che verso la fine degli anni ’60 e ’70 era caduta sotto l’incantesimo
dell’influenza maoista o terzomondista, il nome era «imperialismo».
Per
gli avanguardisti delle facoltà umanistiche degli anni ’80 e ’90 questa singola
ingiustizia era (secondo varie versioni) la struttura del linguaggio al
servizio delle gerarchie razziali e di genere, come ricorda una lettura
americanizzata delle varie filosofie dell’avanguardia francese.
E per
gli eccitati progressisti di questo nostro momento storico, il nome di questa
cosa terribile è «razzismo», o piuttosto, quell’intolleranza universale
espressa dalla parola «intersezionalità», cioè quell’intolleranza che assume
migliaia di forme, ognuna delle quali si interseca con tutte le altre, dando
forma a un intero matematico.
Ma
alla fine, tutti questi nomi sono la stessa cosa. Sono i nomi
dell’omni-oppressione, la quale, con ogni nome, schiaccia le sue vittime.
Il
liberalismo americano, che ha nel suo DNA non solo «il dibattito aperto» ma
anche la «giustizia», non condivide questa idea della singola cosa terribile.
Si
preoccupa, certo, dello sfruttamento economico, dell’imperialismo, delle
gerarchie razziali e di genere, e delle oppressioni di ogni tipo.
Ma non
presume che tutte queste oppressioni contino all’interno di una
omni-oppressione.
Il liberalismo americano è anti-intersezionalista. Non
crede che ogni oppressione sia comparabile, secondo un qualche modello
matematico, a tutte le altre.
Crede,
al contrario, nei molti e non nell’uno – per prendere in prestito una
espressione di “Michael Walzer”, la cui firma appare nella lettera di Harper.
E
quindi è questa la “Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto”. Si schiera
contro l’illiberalismo di Donald Trump e, senza nominarli, contro tutti gli
altri demagoghi populisti del momento.
Si schiera contro le ingiustizie che hanno
portato milioni di persone nelle strade in questi ultimi mesi, che sono le
ingiustizie del razzismo americano.
Ma si
schiera anche contro quell’oppressione, molto diversa – che proprio il
liberalismo è pronto a segnalare per sua vocazione – che è la pressione
censoria contro scrittori e pensatori e artisti, chiamati a conformarsi.
E sceglie di parlare di questa censura anche
se, citando casi detestabili sia da destra che da sinistra, offre lo spettacolo
(forse goffo) di una analisi sociale che punta il dito in più di una direzione.
La
lettera a Harper, per come la vedo, getta un’altra luce sul concetto di liberalsocialismo.
E, visto che è un po’ che mi dilungo sugli
anni ’20 e ’30, lo descriverò citando un altro precedente, che proviene sempre
da quel periodo.
Si
tratta di un episodio della grande storia americana dei manifesti intellettuali
pieni di firme, che iniziò nella primavera del 1939 e si concluse nell’estate
di quell’anno – mesi terribili, forse non diversi da quelli che stiamo vivendo.
“John
Dewey”, in quell’anno, aveva 80 anni.” Sidney Hook”, più giovane di oltre 40
anni, era il suo discepolo più attivo.
I due, insieme a un piccolo circolo di amici,
diedero vita a una commissione – presieduta dallo stesso “Dewey”, con “Hook “nel
ruolo di organizzatore e il giornalista “Eugene Lyons” nel compito di
correttore stilistico – per comporre una “Dichiarazione di principi” e
raccogliere firme.
Nel
maggio 1939 la pubblicarono su “The Nation”. Il racconto migliore di questo
episodio di trova nell’autobiografia di Hook, “Out of Step”, del 1987.Questa
dichiarazione affrontava una questione che, in generale, non otteneva molta
attenzione negli Stati Uniti. Era la propensione a pensare in maniera indipendente e
creativa.
La
dichiarazione, inoltre, affrontava anche lo stato della libertà nel resto del
mondo, con cui è permesso questo tipo di pensiero, e con cui è permesso alle
persone che pensano in maniera indipendente e creativa di esprimere il frutto
delle proprie riflessioni.
Diceva,
in modo più che azzeccato: «Mai prima d’ora, nell’epoca moderna, è stata minacciata in
maniera così pesante l’integrità dello scrittore, dell’artista, dello
scienziato e dello studioso».
La
minaccia all’integrità di scrittori, artisti, scienziati e studiosi proveniva
da ciò che “Dewey e Hook” descrivevano come «l’idea totalitaria» e il suo «odio
immutabile per la mente libera».
Questo
odio immutabile produceva «sterilità artistica, una vita intellettuale
sottomessa, una caricatura tragica della cultura».
Dewey
e Hook e la loro commissione vedevano in America un pericolo simile. «Anche negli Stati Uniti sono fin
troppo evidenti i suoi germogli. Lo si vede nell’insorgere di dittatori locali,
nella violazione dei diritti civili, nella diffusione allarmante di fobia e di
odio contro le minoranze razziali, religiose e politiche».
Non
sono sicuro di sapere quali dittatori locali avessero in mente.
Erano
spaventati dal sindaco di “Jersey City”, un famoso despota chiamato “Hague”,
dal potere doppio perché era alleato di” Franklin D. Roosevelt”?
Erano
preoccupati dall’eredità populista di “Huey Long in Louisiana?
Padre Coughlin, il prete radiofonico fascista – il
primo di una serie di gradassi di destra a parlare in radio – doveva averli
spaventati.
Ma è
ovvio ciò a cui pensavano quando si riferivano alle fobie e all’odio.
Negli
anni 30 l’antisemitismo negli Stati Uniti era al suo picco, mentre il Ku Klux
Klan era un movimento nazionale rispettato.
Tuttavia,
la minaccia riguardava di più altre parti del mondo: «Germania, Italia, Russia,
Giappone e Spagna». In quei Paesi «l’indipendenza intellettuale e creativa era
soffocata e punita come una forma di tradimento».
Le
vittime, a migliaia, erano state «ridotte al silenzio, imprigionate, torturate
od obbligate all’esilio».
Questa
minaccia, diffondendosi da lì in altre parti del mondo, stava provocando il
panico tra scrittori, autori e pensatori in tutto il mondo, che per paura e
disperazione, «accorrono a dare lustro a un dimostrazioni sempre più alte di
servitù intellettuale», cercando di trovare «sottili distinzioni tra i vari
metodi con cui umiliare lo spirito umano».
Questa
dichiarazione fu un manifesto che fece storia. Era la prima volta che un gruppo di
intellettuali americani si era levato in difesa della libertà intellettuale su
scala globale, per ogni continente.
Attirò
il numero, impressionante, di 142 firmatari.
Tra i filosofi, cosa più importante: non solo
Dewey e Hook ma anche Rudolf Carnap, i positivisti del circolo di Vienna nel
loro esilio americano, Arthur O. Lovejoy e altri. Una serie di romanzieri: John
Dos Passos, Sherwood Anderson, Edna Ferber, George S. Schuyler e altri. Poeti:
Babette Deutsch, Countee Cullen. Max Ernst, il principale avvocato della ACLU,
era tra i firmatari.
Economisti:
Abram Harris, Norman Thomas – anche i socialisti firmarono, e così fece Carlo
Tresca, l’anarco-sindacalista.
Il pittore John Sloan. Gli storici Carl
Becker, Arthur M. Schlesinger Sr., Merle Curti.
Giudicato
secondo gli standard del tempo, ma descritti con il linguaggio di oggi, i
firmatari costituivano un gruppo molto “diverso”, come alcuni lettori potranno
notare dai nomi che ho menzionato.
Tuttavia,
fu anche un manifesto controverso.
Tutti
lo potevano vedere: nel suo appello per la libertà intellettuale, era un
manifesto anti-nazista e anti-fascista.
Ma tra
i Paesi che erano caduti sotto il giogo totalitario veniva inclusa anche la
Russia.
E
chiariva che, mettendo in guardia sui diversi tipi di servitù intellettuali, o
sui metodi per umiliare lo spirito umano, aveva in mente le dottrine al potere,
per quanto diverse, della Germania nazista, dell’Italia fascista, della Spagna
fascista, del Giappone imperiale – e anche della Russia, cioè il marxismo
sovietico.
Un
secondo gruppo di persone, allora, mise insieme un contro-manifesto.
Era la “Commissione dei 400”.
Il loro scritto era rivolto «A tutti i
sostenitori attivi della democrazia e della pace». Attaccava la dichiarazione
di Dewey perché aveva incluso anche la Russia nella lista dei Paesi totalitari.
La Commissione dei 400 attaccò i firmatari
della “Dichiarazione” perché «fascisti e amici di fascisti».
Anche
il contro-manifesto fu pubblicato su” The Nation”, con la firma di poco meno di
400 persone.
Ma comunque, con nomi notevoli: Dashiell
Hammett, James Thurber, I. F. Stone, il giovane Richard Wright.
Ma, poco
dopo che fu pubblicato, Hitler e Stalin annunciarono la loro alleanza militare
– fatto che fece sprofondare nel ridicolo la Commissione dei 400.
La Germania nazista e la Russia stalinista
erano, in realtà, fratelli.
O, almeno, cugini.
Non certo identici, ma con la stessa fossetta
nel mento.
La
persecuzione di scrittori e pensatori e artisti in un Paese somigliava, nei
fatti, alla persecuzione che avveniva nell’altro – somigliava, cioè, nel suo
essere totale. L’alleanza della Germania nazista e dell’Unione Sovietica non era nemmeno
una sorpresa – almeno, non nel circolo di Dewey.
Io
però racconto questa storia per dire un’altra cosa. Dal punto di vista
analitico, la differenza tra il primo manifesto e l’altro ruota intorno al
concetto di ingiustizia. La dichiarazione di Dewey e Hook arrischiava l’idea che
l’ingiustizia potesse provenire da più direzioni: dalla destra estrema ma anche
dalla sinistra estrema.
La
Commissione dei 400 non contemplava questa possibilità.
L’ingiustizia,
secondo loro, veniva solo da destra.
E se
insistevi nel dire che potesse venire anche da sinistra, ecco, eri un «fascista
o amico di fascisti».
Che
significa: data l’opportunità, dovrai essere «cancellato».
Qui,
io penso, sta la differenza tra il liberalismo sociale e la sinistra radicale.
Il
liberalismo in espansione di quel tempo aveva spazio per socialisti e
anarco-sindacalisti, e anche altre istanze.
Ma
era, in ogni caso, liberalismo, con la sua convinzione che l’ingiustizia fosse
multiforme. Mentre la sinistra radicale non poteva sopportare, al contrario, l’idea
di più fonti di ingiustizia.
Qui
c’è anche una cosa in più. Nella dichiarazione di Dewey e Hook c’era anche una
mobilitazione liberal che tentava di tracciare una linea tra il liberalismo e
il non-liberalismo della sinistra.
Insomma,
che cosa è il liberalismo, allora?
Non è
un partito politico, non è una fazione.
È un atteggiamento della mente, un insieme di
idee, forse anche il senso di una tradizione.
E però, a volte, si ricompone per diventare
una forza anche solo nella forma di piccole commissioni informali che creano
mobilitazioni per riconoscere, in primo luogo, che un principio fondamentale
esiste.
Ed è
il principio del pensiero indipendente e creativo, che dovrebbe essere la
vocazione di scrittori, studiosi e artisti, e in un certo verso dovrebbe essere
alla portata di tutti in una società democratica.
È un
principio che può prosperare solo nelle aree in salute della libertà politica e
sociale, un principio che, nei nostri giorni, non è certo in punto di morte,
come era nel 1939, ma che è, comunque, sotto pressione, per quanto modesta
possa sembrare. E ogni pressione richiede una resistenza.
Gita
al Lago Maggiore.
Conoscenzealconfine.it
– (2 Giugno 2023) - Claudio Martinotti Doria – ci dice:
Prima
che i “complottisti” si scatenino sull’evento del naufragio dell’imbarcazione
sul lago Maggiore, intervengo esponendovi informazioni riservate di cui sono
venuto in possesso per pura coincidenza.
Una
ventina di amici italo-israeliani, che si erano conosciuti tramite un social
network per cuori solitari, hanno deciso di incontrarsi in un albergo nell’hinterland
milanese e superati brillantemente i preliminari e primi approcci, hanno poi
scelto di recarsi tutti quanti al Lago Maggiore per una gita nautica,
noleggiando un’imbarcazione di 16 metri vecchia di 40 anni con navigatore umano
incorporato.
Annoiandosi,
non essendo pescatori e neppure sportivi, a un certo punto a bordo si sono
divisi in due gruppi.
Uno ha
iniziato a fare esperimenti magico-esoterici pronunciano formule per evocare
gli spiriti elementali dell’acqua, e il secondo ha avviato un gioco di società a
distanza con un gruppo d’imprenditori e oligarchi russi che erano presenti in
una villa sulla costa presso cui stavano navigando, mettendosi in collegamento
con loro tramite cellulari.
Si
conoscevano tra loro perché in molti erano iscritti a un gioco di società on line
nel quale i partecipanti assumono ruoli da protagonisti in una complessa
spy-story a più livelli di difficoltà, molto realistica, divisi per nazione e
agenzia, competenze e gerarchie.
Mentre
il primo gruppo stava evocando con successo “le Ondine del Lago Maggiore”, che
vegliano sulle sue acque da tempo immemore, il secondo gruppo al contrario stava
perdendo al gioco di società intrapreso coi russi sulla costa.
Le” Ondine del Lago Maggiore” sentendo l’esito finale
del gioco di società e prendendolo troppo sul serio come fosse reale, sono intervenute provocando una
tromba d’aria limitatamente al luogo esatto dove era posizionata
l’imbarcazione, questo spiegherebbe come mai il fenomeno meteo non ha colpito la costa e
non è stato visto da nessuno.
Dimenticavo
di segnalarvi che il gioco di società era la “battaglia navale” e al momento
del pronunciamento finale di “affondata”, le” Ondine” hanno preso sul serio
l’affermazione udita ed hanno provveduto all’affondamento dell’imbarcazione.
I
russi dalla costa non si sono neppure accorti della tragedia, pur essendo
inquieti per l’improvvisa interruzione delle comunicazioni.
Se
tale versione dei fatti vi sembra inverosimile provate a leggere nei prossimi
giorni sui media quello che verrà scritto o fatto intendere sulla tragedia.
(Cav.
Dottor Claudio Martinotti Doria – cavalieredimonferrato.it/)
Più
Elettrosmog nella Bozza del
Decreto
“Telco”: un Passaggio
Illogico
e Inquietante.
Conoscenzealconfine.it
– (1 Giugno 2023) - Maurizio Martucci- ci dice:
Siamo
alle solite.
Le
compagnie telefoniche sono tornate all’attacco (onestamente non hanno mai
mollato la presa) e, spalle al muro, per l’ennesima volta il governo di turno
tenta di innalzare i limiti soglia d’irradiazione elettromagnetica.
Provano
a farlo da anni, da oltre un decennio.
Parzialmente
c’era riuscito Mario Monti nel 2012, adesso ci prova Giorgia Meloni in favore
del 5G (che, sia chiaro, c’entra poco o nulla con la telefonia mobile ma molto
più con l’Internet delle cose e Big Data):
più
elettrosmog per tutti, più antenne, più irraggiamento wireless, più pericoli
ambientali e rischi sanitari, col fondo naturale terrestre stravolto già un
miliardo di miliardi di volte da non sicure irradiazioni artificiali pulsate.
Il
tentativo d’abrogazione e superamento di una delle norme più cautelative al
mondo in tema d’inquinamento invisibile da radiofrequenze non ionizzanti
(possibili agenti cancerogeni secondo l’Agenzia Internazionale per la Ricerca
sul Cancro) è nella bozza del decreto legge Telecomunicazioni, proposto dal
ministro Urso (imprese e made in Italy) di concerto con Pichetto Fratin
(ambiente e sicurezza energetica) e Schillaci (salute).
“Un innalzamento degli attuali limiti fissati
a 6V/m, ad esempio a 30V/m, garantirebbe il miglioramento della qualità del
servizio (…) rassicurando i cittadini più timorosi e venendo incontro alle loro
giuste preoccupazioni”.
Oltre
che illogico, ci troviamo davanti ad un passaggio a dir poco inquietante,
l’apoteosi antiscientifica.
Perché?
Perché
il testo conferma preoccupazione e allarme della popolazione, visti gli
aggiornamenti in letteratura biomedica e le sentenze di tribunale in favore di
danneggiati, ma siccome in un modo o nell’altro bisogna assecondare i
desiderata della” lobby delle Telco”, altrimenti costretta a sborsare 4
miliardi per costruire circa 30.000 nuove stazioni radio base, in un modo o
nell’altro bisogna innalzare il limite soglia elettromagnetica.
Il
ragionamento, più o meno, è questo.
Ma
innalzare l’elettrosmog di quanto?
Dalla
media nelle 24 ore di 6 V/m fino a 20 V/m? Oppure 30 V/m? O fino a 60 V/m? Chi
la spara più grossa?
In
fondo, risaputi i timori del ministro Giorgetti (suoi i dubbi già negli
esecutivi Conte e Draghi), l’esecutivo è alla ricerca di una via di mezzo
cerchiobottista, all’italiana, dicendoci che l’Europa si attesta nella media
dei 61 V/m (allora 30 V/m sarebbe un buon compromesso), dimenticando però di
chiarire che:
1) i
limiti indicati dalla Commissione sono valori da non superare e non certo da
raggiungere;
2) i
limiti si basano essenzialmente sui soli effetti biologici termici acuti e non
sugli effetti biologici e ambientali cronici e fortemente emergenti, dovuti
alle esposizioni (il cancro è solo la punta dell’iceberg di una serie di
effetti avversi anche molto gravi);
3) gli
invocati 61 V/m (altro che limiti europei!) in realtà sono solo in Francia,
Germania, Gran Bretagna e Spagna;
a differenza di Svizzera, Italia, Austria,
Belgio, Turchia e i Paesi dell’est europeo – Bulgaria, Polonia, Croazia,
Slovenia – nei quali vigono limiti molto più stringenti e protettivi;
4)
l’ente a garanzia della nostra salute non è pubblico, né medico ma privato e
composto per lo più da fisici e ingegneri, si chiama” ICRNIP”, cioè”
Commissione Internazionale per la Protezione delle Radiazioni non ionizzanti”,
in passato già al centro di numerosi scandali per conflitti d’interessi e
legami con l’industria, a detta degli esperti auditi a Bruxelles “non adeguato”
alla protezione pubblica, fonte di una documentazione parziale e non
complessiva della letteratura biomedica disponibile.
“Le
nuove linee guida” ICNIRP” sono state fortemente influenzate dalle grandi
società di telecomunicazioni e persino dai militari degli Stati Uniti”
chiarisce poi un dossier dei Verdi nell’europarlamento.
La
manovra del governo Meloni, quindi, ci offre la possibilità di attualizzare
l’appello dello scorso anno lanciato da alcuni scienziati indipendenti di mezzo
mondo a Mario Draghi.
Anche in quella occasione si provò a
stralciare la norma cautelativa, innalzando l’elettrosmog, ma il tentativo
fallì miseramente:
“Sarebbe
una mossa retrograda e poco saggia raggiungere i limiti di esposizione
inadeguati raccomandati dall’ICNIRP.”
E
ancora:
“L’Italia
ha guidato il mondo negli ultimi 20 anni nel dimostrare che i loro limiti di
esposizione per la protezione della salute più bassi e protettivi per le
radiofrequenze possono essere raggiunti dall’industria italiana delle
telecomunicazioni senza ostacoli economici o tecnici significativi alla loro
espansione nei sistemi 4 e 5G”.
Certo,
pare che oggi Meloni non punti ad aumentare per un valore pari a 100, ma a
circa 50 volte l’elettrosmog nell’aria pubblica.
E il
pericolo c’è lo stesso, serio, grave, avendo capito peraltro che dimezzandolo,
nello scientismo all’amatriciana, si pensa addirittura di salvare capre e
cavoli. Mischiando le carte in tavola.
La
strada da percorrere è però una sola:
mantenere
i valori di attenzione cautelativi per i valori di campo elettrico di 6 V/m è
il primo passo per tutelare popolazione e ambiente (non certo interessi
privati) attraverso una riforma indirizzata alla minimizzazione dell’impatto,
proprio come indicato nei “Report” del” Bioinitiative Group”, dal Parlamento
Europeo nella Risoluzione del 2009 e dall’Assemblea del Consiglio d’Europa con
la Risoluzione n° 1815 del 2011, volta ad un abbassamento dei limiti di legge a
0,6 V/m nell’immediato, e a 0,2 V/m sul lungo termine.
Nelle
Raccomandazioni dell’Unione Europea si legge:
“Gli
Stati membri hanno facoltà, ai sensi del Trattato, di fornire un livello di
protezione più elevato di quello di cui alla presente Raccomandazione”.
Ma la presidente Giorgia Meloni, il
sottosegretario all’innovazione tecnologica Alessio Butti, i ministri Adolfo
Urso, Gilberto Pichetto Frattin e Orazio Schillaci lo sanno?
(Maurizio
Martucci - Giornalista e scrittore)
(d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2023/05/23091801/DL-TLC-Bozza-22.05.pdf)
(ilfattoquotidiano.it/2023/06/01/piu-elettrosmog-nella-bozza-del-decreto-telco-un-passaggio-illogico-e-inquietante/7174173/)
Von
der Leyen leader a Davos,
attacco
ai sussidi Usa.
Ansa.it
– (17-1-2023) - Domenico Conti – ci dice:
(Redazione
ANSA DAVOS)
“NetZero
Act” e” Fondo sovrano”, ma Giorgetti evoca l'autogol.
Un
Piano industriale per il “Green Deal” europeo basato su due pilastri:
il”
NetZero Industry Act”, con cui riscrivere le regole sugli aiuti di Stato in
risposta ai sussidi americani, e più in avanti il “Fondo Sovrano Europeo”.
Dopo mesi di accuse per una mancanza di
politica industriale, di narrazione di un'Europa che si mette nelle mani della
Cina prima ancora di sfilarsi dal cappio del gas russo, Ursula von der Leyen a
Davos prova a rilanciare la leadership europea:
attaccando
i sussidi protezionistici degli Usa e le pratiche commerciali aggressive della
Cina.
Ma
deve fare i conti con i mal di pancia dei Paesi che hanno troppo debito per gli
aiuti di Stato e vorrebbero subito fondi europei:
"Attenzione
a non fare autogol", è il commento che arriva dal ministro dell'Economia
Giancarlo Giorgetti da Roma.
L'occasione
è un Forum economico mondiale con penuria di leader europei (salvo lo spagnolo
Sanchez e il cancelliere tedesco Scholz) e che, in uno 'special address', dà
all'ex ministra della Difesa tedesca il vantaggio di una platea pro-Ue e di
un'audience molto attenta alla parità di genere:
tutt'altra
atmosfera rispetto agli sgambetti concessi da Ankara al “presidente del
Consiglio Ue” Charles Michel.
E von der Leyen la coglie al volo.
"Nessuna
impunità per i crimini russi" e un "saremo sempre al vostro
fianco" rivolto agli ucraini in guerra era il minimo atteso da Davos.
Ma il
discorso prende presto una piega economica, anzi commerciale, visto che al Wef
ci sono anche i due rappresentanti del Commercio estero di Cina e Usa.
Alcuni elementi dell'”Inflation Reduction
Act”, 369 miliardi di sussidi voluti da Biden per aiutare le imprese nella
transizione green, "sollevano varie preoccupazioni per gli incentivi mirati
alle aziende: stiamo lavorando con gli Usa per trovare una soluzione", spiega la presidente dell'esecutivo
Ue invocando "reciprocità".
A stretto giro, sempre a Davos, arriva la
risposta del segretario Usa per il Lavoro, Martin J. Walsh:
"Riferirò
alla Casa Bianca", l'intenzione di Washington "non era rubare posti
di lavoro".
Toni poi insolitamente alti, da von der Leyen,
verso la Cina, che "ha apertamente incoraggiato" le aziende
energivore europee a delocalizzare nel suo territorio" e da cui "vediamo
tentativi aggressivi di attrarre la nostra capacità industriale".
Liu He, vicepremier cinese, a Davos glissa sul
tema della ripresa e tranquillizza sul Covid.
A Davos la” presidente della Commissione Ue”
porta il suo "Piano Industriale" - tema ambizioso visto che Paesi
come l'Italia lamentano da decenni una sclerosi che impedisce una politica
industriale nazionale - per fare dell'Europa "la casa"
dell'innovazione targata emissioni-zero.
Un pilastro sarà uno sforzo di semplificazione
e velocizzazione dei progetti strategici che von der Leyen chiama 'NetZero Act'
sulla falsariga del “Chips Act” e accompagnato da un 'Critical Raw Material
Act' sugli approvvigionamenti di terre rare come il litio per le batterie, su
cui finora l'Ue dipende dalla Cina.
Servirà un atteggiamento commerciale più
assertivo, specie verso la Cina: significa
"usare tutti gli strumenti contro
pratiche scorrette", tuona von der Leyen.
Il
nodo, come sempre, sono i soldi.
Nell'attesa
del “Fondo Sovrano Europeo” che "prepareremo nella revisione di medio
termine del bilancio quest'anno", la Commissione propone "di adattare
temporaneamente le nostre regole sugli aiuti di Stato per velocizzare e
semplificare":
aiuti
"mirati per le strutture produttive su catene del valore strategiche,
contro i rischi di delocalizzazione creati dai sussidi stranieri".
Uno schema che ambisce al 'sì' di Berlino,
ma che - appunto - rischia di lasciare scontenti i Paesi costretti a
risparmiare per l'alto debito.
Come l'Italia: "Il semplice allentamento
delle regole degli aiuti di Stato - dice Giorgetti in una nota sull'Ecofin a
Bruxelles - non è una soluzione perché sarebbe sproporzionato avvantaggiare gli
Stati membri che godono di un margine di bilancio più ampio, aggravando così le
divergenze economiche all'interno dell'Unione e conseguente frammentazione del
mercato interno".
Il
“Commissario agli Affari economici” “Paolo Gentiloni” guarda al compromesso:
"Dobbiamo snellire" gli aiuti di Stato ma "abbiamo bisogno anche
di finanziamenti comuni".
Decisiva potrebbe essere la posizione
che assumerà la Francia: tre anni fa si schierò con l'Italia e ne scaturirono
gli aiuti del Recovery, oggi chissà. (ANSA).
Amazon,
BlackRock e non solo:
tutti
i Ceo presenti a Davos.
Starmag.it - Marco Dell'Aguzzo – (16 Gennaio
2023) – ci dice:
Al
Forum economico mondiale di Davos ci saranno gli amministratori delegati di
Amazon, Moderna, BlackRock e non solo.
Sarà
scarsa, invece, la partecipazione dei principali leader politici:
presente Scholz, mentre l’Italia manda il
ministro Valditara.
È iniziata
oggi, lunedì 16 gennaio, la 53° edizione del Forum economico mondiale (World
Economic Forum) di Davos, in Svizzera.
L’evento
conta oltra diecimila partecipanti tra politici, imprenditori, intellettuali e
giornalisti.
LE
NAZIONI PIÙ PRESENTI A DAVOS 2023.
Stando
al conteggio di “Quartz,” quest’anno a Davos saranno rappresentati oltre cento
paesi e regioni del mondo.
Ma i
due terzi dei partecipanti provengono da sole dieci nazioni:
Stati
Uniti, Svizzera, Regno Unito, Germania, India, Giappone, Emirati Arabi Uniti,
Francia, Paesi Bassi e Sudafrica, nell’ordine.
La
partecipazione più numerosa è quella statunitense, con 703 persone, il 27,2 per
cento del totale.
Seguono
gli svizzeri con il 9,6 per cento e i britannici con il 9,1.
POCHI
“PAPERONI”.
Benché
il “Forum economico mondiale” raccolga molti dei maggiori esponenti
dell’economia internazionale, nove delle dieci persone più ricche del pianeta
non saranno presenti quest’anno a Davos, con la sola eccezione di” Gautam Adani”:
è il
presidente del conglomerato logistico-energetico indiano “Adani Group”, nonché
terzo uomo più ricco al mondo.
I
LEADER POLITICI.
Anche
la partecipazione dei principali capi di stato e di governo è scarsa: ci sarà
infatti un solo leader di un paese membro del G7, il cancelliere tedesco Olaf
Scholz.
Al di
fuori del Gruppo dei Sette, però – che comprende Canada, Francia, Germania,
Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti -, è prevista la partecipazione dei
leader di almeno quaranta nazioni, tra cui la Spagna, il Belgio, la Grecia, la
Finlandia, la Corea del sud, il Sudafrica, l’Iraq, il Pakistan e il Mozambico.
Saranno
inoltre presenti la “presidente della Commissione europea” “Ursula von der
Leyen”, il sindaco di “Kiev” “ Vitali Klitschko, l’inviato per il Clima degli
Stati Uniti “John Kerry” e – per il governo italiano – il “ministro
dell’Istruzione” “Giuseppe Valditara”.
AMAZON,
BLACKROCK, MODERNA E NON SOLO
Più
lunga, invece, è la lista degli amministratori delegati.
Ci saranno almeno 634 CEO all’edizione 2023 di
Davos, come “Andy Jassy” di Amazon, “Wael Sawan” della “compagnia petrolifera
britannica Shell”, “Jane Fraser” della banca statunitense “Citigroup”, “Stéphane
Bancel” della società farmaceutica americana “Moderna” e “Larry Fink di “BlackRock”,
la più grande società di investimento al mondo, con sede a New York.
Parteciperà
anche “Jared Kushner”, genero dell’ex-presidente statunitense Donald Trump e
fondatore della società di private equity “Affinity Partners”.
LE
AZIENDE PIÙ PRESENTI.
L’azienda
che ha mandato più persone al “Forum economico mondiale” è l’emittente
televisiva statunitense “CNBC,” specializzata in “business news”. Seguono la
società di consulenza “Accenture” e quella di” cloud computing” “Salesforce.”
Seguono,
in parità, la già citata “BlackRock”, “Google”, la società di consulenza “McKinsey”,
la multinazionale di beni di consumo “Unilever” e la compagnia aerea “Emirates”.
BlackRock,
come il capitale finanziario
controlla
la politica in USA e UE.
Contropiano.org
– (10-2-2021) - Werner Rügemer - Giacomo Marchetti – ci dicono:
Quando
guardiamo alla realtà materiale che sta alla base del sistema economico
finanziario in Occidente, e la sua sempre maggiore pervasività nella capacità
di orientare complessivamente la politica, ci accorgiamo di come la parola
democrazia sia un vecchio arnese inservibile per le élites che governano il
mondo occidentale.
Inutile,
quindi, fare un “test di democraticità” come criterio di interpretazione delle
dinamiche politiche del mondo in cui viviamo.
Certo
il suo valore evocativo è utile nella costruzione di “narrazioni” da vendere al
popolino, soprattutto quando la comunicazione politica costringe a spacciare un
ipotetico “nuovo prodotto” da piazzare sul mercato, rappresentandolo nella
veste di “migliore soluzione” per una crisi di governance che porta le forme
della democrazia ad un’impasse.
Questo
blocco è in realtà solo l’espressione fenomenica delle convulsioni di una più
profonda crisi sistemica. cui le classi davvero “dirigenti” vorrebbero dare un
output preciso, diverso dalla loro radicale rimozione da parte dei subalterni
ed alla costruzione di un sistema sociale alternativo.
“Hanno
fallito, che se ne vadano!”.
Od in
termini più caustici: “Andiamo a bruciargli la casa!”,
come
ci ha suggerito la rivolta dei Ciompi a Firenze diversi secoli fa.
Il
marketing politico pro-Draghi, come quello pro-Biden per gli Stati Uniti – al
netto del disgustoso servilismo del giornalismo nostrano e dell’altrettanto
deprecabile opportunismo della classe politica tutta, da Fratelli d’Italia a
Leu – nel nostro ridotto nazionale è l’esempio più lampante di questa tendenza
ad incensare “la democrazia” proprio quando smette di esistere.
Negli
Usa, certo, tutto è in un ordine di grandezza più grande, anche nelle tecniche
di storytelling per narrare la pretesa “rottura” con il recente passato.
Parole
appunto come “rappresentanza”, “sovranità”, “democrazia”, “sviluppo”, in bocca
agli esponenti delle élite, hanno la stessa credibilità delle promesse d’amore
di un marinaio, tanto è distante il significato concreto da quello che dovrebbero
rappresentare e che hanno storicamente – in parte – incarnato sotto pressione
di un movimento operaio organizzato, dotato di una prospettiva strategica
concreta.
Chiacchiere
sulla democrazia a parte, chi tiene in mano le redini del sistema è un numero
sempre più ridotto di imprese economico-finanziarie che – in termini un po’
vetusti nella forma, ma attualissimi nel contenuto – potremmo chiamare senza
orpelli: dittatura
del capitale monopolistico.
Gli
Stati imperialisti, o i poli imperialisti in formazione, in diverso grado, ne
diventano conseguentemente un’espressione piegando il pubblico agli interessi
del privato (e non il contrario. E non importa se le fragilità di tale modello
impediscono strutturalmente di affrontare i nodi inaggirabili che pone la fase
storica, iperbolizzati dall’acuirsi della crisi pandemica.
Gli
uomini e le donne di queste corporations vengono chiamati come consulenti dagli
stessi attori statali – dalla Federal Reserve negli USA alla Commissione
Europea nella UE, per non citarne che due – per orientare scelte strategiche.
Larry
Fink, ceo di BlackRock, con Janet Yellen, ex presidente della Federal Reserve e
nuovo ministro dell’economia Usa.
I loro
dirigenti siedono nei board sia delle imprese di dimensioni mondialmente
rilevanti, sia in quello di chi le finanzia.
Alcune
di queste hanno in mano gli hub della tecnologica che di fatto orientano i
mercati stessi e conferiscono un profilo un po’ vintage a quello che erano le
“piazze borsistiche”, che dovrebbero determinare il valore fluttuante delle
azioni quotate secondo “il principio della domanda e dell’offerta”, come centro
pulsante dei mercati finanziari.
È il
caso della piattaforma privata “Aladdin”, che controlla un flusso mostruoso di
informazioni e di dati economici sensibili, che orientano le scelte di
investimento di chi se ne serve, cioè i maggiori investitori internazionali –
più di 900 clienti in una sessantina di Paesi -, divenuta insieme alle altre,
di fatto, una sorta di sistema nervoso centrale dell’economia finanziaria
mondiale.
Una
“scatola nera” in grado di monitorare in tempo reale la finanza che viaggia sui
bit. Un vantaggio strategico per chi la usa, a discapito degli altri…
I
membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte integrante di
quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che
nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che
fa inanellare senza sosta incarichi
passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con
contemporanee presenze nei” think tank” e nelle “lobby” che determinano i
quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.
Un
“novum”, per certi versi, nella storia politico-economica del capitalismo, che
dà la cifra di ciò di cui stiamo parlando è certamente “BlackRock”, di cui si
occupa l’articolo tradotto e pubblicato qui di seguito, in particolare per ciò
che concerne la sua rilevanza nella politica nord-americana.
Si
tratta del più grande gestore di fondi di investimento mondiale – anche per
conto di fondi pensionistici privati, a cominciare da quello giapponese, è il
più imponente – che possiede tra l’altro la maggiore o la seconda quota di
proprietà in 13 delle 15 prime banche europee (Santander, HSBC, Credit Suisse,
ecc), in grado dunque di determinare le scelte di indirizzo degli istituti
bancari.
“BlackRock”
detiene un portafoglio di centinaia di miliardi di dollari, investiti dalle tre
big della tecnologia statunitense (Apple, Google, Microsoft), che controllano
tra l’altro il tessuto connettivo ed i big data della “nostra comunicazione”
digitale e, come stanno dimostrando fatti recenti, la possibilità o meno di
comunicare (anche se sei il Presidente Usa!).
Per
non citare che un aneddoto, “BlackRock” – in un palese conflitto di interessi –
ha ricevuto da parte della “Commissione Europea” l’incarico di “consulente per
le scelte finanziarie” rispetto alla “sostenibilità ecologica” degli
investimenti.
Il più
acceso sostenitore di questa scelta, di fronte ai suoi critici, è stato il
“Capo” della “Commissione Finanziaria della UE”,” Valdis Dombrovskis”, per
intenderci…
Ecco il
“CEO of BlackRock”, “Larry Fink” con “Emmanuel Macron”.
Ripetiamo:
BlackRock orienta il processo di finanziamento della “transizione ecologica”
dell’economia della UE, che ha assunto un ruolo chiave nel rilancio economico
continentale in toto e nell’articolazione dei Paesi Membri, attraverso quelli
che saranno i singoli “recovery plan” nazionali, vincolati alle decisioni UE su
due aspetti in particolare: economia green e sviluppo digitale.
Ricordate:
gestisce gli investimenti delle tre big della tecnologia, e per esempio è il
terzo azionista di “Apple”, nel cui board siede “Sue Wagner”, di “BlackRock”…
Questo
gigante è uno degli attori economici cresciuto di più nella pandemia: valeva
7,8 mila miliardi di dollari, nel terzo trimestre dell’anno scorso, 8,68
nell’ultimo trimestre, e le sue azioni sono aumentate del più del 20% durante
l’ultimo anno.
Mentre milioni di persone morivano a causa
delle politiche disastrose prese dall’Occidente per affrontare la pandemia,
aumentava la povertà e la vulnerabilità sociale,” BlackRock” cresceva e ha
continuato a crescere.
Insieme
ai rivali “ETF” e “Vanguard”, controllava già un quinto del totale delle azioni
quotate a WALL Street nel 2017 – erano poco più del 5% nel 1998.
In questi tre anni sono aumentate, e uno
studio di “Harvard” citato dal “Financial Times” mostra questa stupefacente
progressione prevedendo che potrebbero controllare il 40% tra nel 2040!
Tre
corporations divenute un Leviatano finanziario!
In
questo tripudio di miliardi di dollari guadagnati e fatti guadagnare ai propri
clienti, Lawrence Fink, Wally Adeyemo, Michael Pyle, tre uomini di BlackRock,
sono stati scelti per ruoli chiavi nella nuova amministrazione Biden, che con
la la sua famiglia è parte integrante del più grande “paradiso fiscale
mondiale”, cioè il piccolo Stato del “Delaware”.
“Il
Delaware è un piccolo stato con meno di 1 milione di abitanti, ma il più grande
paradiso fiscale e finanziario delle imprese nell’Occidente guidato dagli Stati
Uniti.
Il
numero di società di comodo è almeno il doppio del numero di elettori idonei”,
scrive” Rügeme”r, scrittore prolifico ed autore tra l’altro di un studio
fondamentale per comprendere il “capitalismo del XXI secolo” e l’ascesa dei
nuovi attori finanziari tra cui “BlackRock”.
Come
sempre è meglio affidarsi al vecchio adagio” follow the money”, piuttosto che
ingurgitare le “auto.narrazioni” edificanti del nemico di classe.
(Buona
lettura).
Larry
Fink con Donald Trump
Non
appena è stato chiaro che” Joe Biden” avrebbe vinto le elezioni presidenziali
americane, si è portato a bordo” Brian Deese”, capo del dipartimento per gli
investimenti sostenibili globali della società d’investimento americana “BlackRock”,
e che ricoprirà il ruolo di capo economista del presidente neo eletto.
Il CEO
di BlackRock – Lawrence Fink – è sostanzialmente il portavoce del capitale
mondiale occidentale per la “sostenibilità”.
E la
“sostenibilità” sarà il segno distintivo della nuova amministrazione.
“BlackRock”
è la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York e
gestisce un patrimonio totale di quasi 8.000 miliardi di dollari, di cui un
terzo in Europa.
Segue
la seconda nomina per “Wally Adeyemo”, consigliere principale del presidente
Obama per le relazioni economiche internazionali e successivamente passato a “BlackRock”
come capo dell’ufficio legale di “Fink “e dal 2014 è stato presidente della “Fondazione
Obama”.
Ora, sotto Biden, diventerà vice segretario
del Tesoro.
Poi è
arrivata la terza nomina per “Michael Pyle”, responsabile delle relazioni
finanziarie internazionali al “Dipartimento del Tesoro” sotto Obama, diventato
poi capo della strategia di investimento globale presso la” BlackRock” e a
breve ricoprirà il ruolo di “capo economista della vicepresidentessa Kamala
Harris”.
Ecco
come funziona la porta girevole della “democrazia capitalista statunitense”: da
“BlackRock al governo”, dal “governo a BlackRock” e così a ripetere.
Biden:
lobbista per il più grande paradiso fiscale sulla terra.
Biden
è stato senatore dello stato del Delaware per ben 35 anni, dal 1973 al 2009,
dove iniziò una fitta campagna politica quando era ancora un giovane avvocato d’affari
di 29 anni.
Il
Delaware è un piccolo stato con meno di 1 milione di abitanti ma il più grande
paradiso fiscale e finanziario delle imprese nell’Occidente guidato dagli Stati
Uniti. Il numero di società di comodo è almeno il doppio del numero di elettori
idonei. E quasi tutte le maggiori compagnie e banche degli Stati Uniti – o le
loro filiali – hanno qui la loro sede legale e fiscale.
Decine
di migliaia di società e banche di tutto il mondo, dall’Ucraina al Messico,
passando per la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, hanno il loro
domicilio legale nel Delaware [uno stato che fu del resto creato dalla Dupont
Chemical Company!].
La
lista delle partecipazioni della sola “Deutsche Bank” mostra diverse decine di
società di comodo a “Wilmington”, la piccola capitale del piccolo “Lussemburgo
degli Stati Uniti”, come viene spesso chiamato il “Delaware”.
Nel
mini-stato del Lussemburgo – così centrale per l’Unione europea – regna “Sua
Altezza Reale il Granduca Henri”, della dinastia Lussemburgo-Nassau.
Nel “Delaware
il clan Biden” governa con a capo il senatore [ora presidente] Biden.
Il
figlio “Beau Biden” è diventato procuratore generale dello Stato senza fare una
minima gavetta politica ed il “figlio Hunter Biden” è un attivo speculatore
finanziario in Ucraina.
Joe
Biden ha recentemente ricevuto donazioni per le sue campagne elettorali da
grandi aziende digitali come Alphabet/Google, Microsoft, Amazon, Apple,
Facebook e Netflix, così come JPMorgan Chase, Blackstone e Walmart.
Ma anche le aziende del “Delaware” hanno
promosso il loro influente senatore, tra cui la società di carte di credito “MBNA”
e “John Hynansky,” un businessman statunitense di origini ucraine che domina
l’esportazione di SUV premium in Ucraina.
Biden,
come senatore a Washington, ha sempre votato con i repubblicani sulle
principali deregolamentazioni del settore finanziario e, con lui, il “Delaware”
membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte integrante di
quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che
nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che
fa inanellare senza sosta incarichi
passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee
presenze nei “think tank” e nelle” lobby” che determinano i quadri concettuali
della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.
E si è
espanso fino a diventare il più grande paradiso finanziario del mondo. Ciò
implica che abbia anche una propria costituzione aziendale volta al “libero
mercato” ed un sistema giudiziario che va nella stessa direzione politica.
E
naturalmente anche la “BlackRock” – che co-governa a Washington – ha la sua
sede legale a “Wilmington”, in “Delaware”.
“(America)
BlackRock First”
La
BlackRock è un importante società azionista in circa 18.000 aziende, banche e
società di servizi finanziari negli Stati Uniti, UE, Gran Bretagna, Asia e
America Latina. In tre decenni la BlackRock è cresciuta fino a diventare il più
grande organizzatore di capitali nell’Occidente guidato dagli Stati Uniti,
principalmente raccogliendo e investendo il capitale dei super-ricchi.
Possono
diventarne clienti solo le più grandi famiglie d’affari o i top manager con un
capitale di almeno 50 milioni di dollari
. Un
investitore come BlackRock promette profitti più alti di quelli che possono
essere guadagnati nelle normali operazioni finanziarie, diversificando le
proprie pratiche capitalistiche.
BlackRock
non impiega cassieri agli sportelli, né offre un servizio clienti pubblico.
I super-ricchi trasferiscono il loro denaro
direttamente.
Ecco perché l’apparato di gestione di
BlackRock ha solo 16.000 impiegati per gli 8.000 miliardi di dollari di
capitale che gestisce – mentre “Deutsche Bank” deve mantenere 87.000 impiegati
per meno di un centesimo del capitale totale.
“BlackRock”
è anche il più grande organizzatore di “società di comodo”.
Il
capitale dei super-ricchi viene investito per ognuno di loro in una speciale
società di comodo in un paradiso finanziario tra Delaware, Isole Cayman e
Lussemburgo.
Allo
stesso tempo, questi investitori sono resi anonimi e invisibili al pubblico,
alle autorità fiscali e ai regolatori finanziari.
Così,
il 5% circa delle azioni della società di lignite “RWE” sono distribuite tra
154 società “letterbox” in una dozzina di paradisi finanziari, sotto nomi come
BlackRock Holdco 4 LLC, BlackRock Holdco 6 LLC, e simili.
Naturalmente,
“BlackRock” non commette essa stessa evasione fiscale, ma offre l’opportunità
di farlo (detto in altre parole: Favoreggiamento).
Inoltre
BlackRock gestisce “ALADDIN”, la più grande struttura robotica per la raccolta
e lo sfruttamento di dati finanziari ed economici.
Nell’arco
di nanosecondi i valori e le performance di tutte le azioni e altri titoli
delle borse del mondo vengono catturati e utilizzati speculativamente per la
compravendita.
I
membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte integrante di
quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che
nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che
fa inanellare senza sosta incarichi
passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con
contemporanee presenze nei “think tank” e nelle” lobby “che determinano i
quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.
BlackRock
è co-proprietario di 18.000 aziende – in Germania ad es. di “Wirecard” –
comprese tutte le corporazioni digitali come Amazon, Google, Apple, Microsoft e
Facebook, ed è anche co-proprietario delle due maggiori agenzie di rating, “Standard
& Poor’s” e” Moody’s”.
In quanto più grande insider del globo, “BlackRock”
può accedere ad importanti dati in modo velocissimo e prima di altri
co-speculatori.
Inoltre,
è principale gestore finanziario dei super-ricchi occidentali e dunque ignora
completamente i possibili danni alle economie nazionali e l’impoverimento degli
Stati attraverso la continua evasione fiscale organizzata, tanto che persino
l’Unione Europea rimane impotente contro questo colosso e il suo meccanismo,
oppure ne diventa complice.
Inoltre,
le aziende che “BlackRock” acquista e di cui diventa co-proprietario – come,
per esempio in Germania, tutte le maggiori società tedesche che negoziano alla
Borsa di Francoforte – sono proficuamente “ristrutturate”, rimpicciolite,
parzialmente vendute (come è attualmente il caso della ThyssenKrupp), fuse
(come nel caso di Bayer-Monsanto), accompagnate da tagli di posti di lavoro,
outsourcing, delocalizzazioni e simili.
Come
principale azionista di Amazon, per esempio, il predicatore della sostenibilità
Fink non ha mai detto nulla contro gli attacchi antisindacali (compresi di
minacce e licenziamenti) all’interno dei magazzini del colosso della logistica,
o dei bassi salari sui quali si arricchisce Jeff Bezos.
Viene
spesso sostenuto, non solo dai lobbisti di “BlackRock” come “Friedrich Merz”,
ma anche dalla sinistra, che con le quote del 5% BlackRock, come in “RWE” –
sicuramente non può far passare nessuna decisione!
E invece sì, è possibile, perché con “BlackRock”
di solito ci sono sempre, in composizione variabile, una dozzina di
organizzatori di capitale a lei simili, che allo stesso tempo sono anche
azionisti, per esempio “Vanguard”, “State Street”, “Amundi”, “Norges”, “Wellington”,
“Fidelity”, “Capital Group” – e si accordano tra loro.
Il
governo degli Stati Uniti sotto Biden sta dimostrando di essere il governo che
persegue gli interessi sia dei vecchi che dei nuovi super-ricchi.
Si tratta di una minoranza capitalista ed
egoista che rappresenta forse l’1,5% della popolazione di tutti gli Stati
Uniti.
Tuttavia
“BlackRock” rappresenta anche gli interessi di minoranze ricchissime in altri
importanti paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Svezia, la
Spagna, il Messico:
tutti
con il loro capitale discrezionale investito in “BlackRock & Co.”
Obama,
Trump, Biden: tutti con BlackRock.
Nel
2008, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama incaricò “BlackRock” di
gestire la crisi finanziaria e decidere quali banche, quali compagnie di
assicurazioni, quali società sarebbero state salvate.
“BlackRock”
intascò un compenso di 3 milioni di dollari per questo – ma ancora più
importante fu la benedizione ufficiale dello Stato.
Questa
includeva la nomina come consigliere della più grande banca centrale del mondo
occidentale, la “Federal Reserve Bank”.
Quello fu il colpo di partenza per la salita
finale nell’aumento annuale del 10% del capitale raccolto e distribuito fino
agli ormai 8.000 miliardi di dollari.
Oltre
ad aver conferito a “BlackRock” la nomina come consigliere della Banca Centrale
Europea (BCE) e, più recentemente, nel 2020, come “consigliere della
Commissione Europea a Bruxelles” per la nuova formula di rinnovamento
capitalista “ESG”: Environment, Social, Government.
Anche
sotto Trump,” BlackRock” non è affatto scomparsa dalla scena
economico-politica.
Dal
marzo 2020, e come consulente della” Federal Reserve”, “BlackRock” ha gestito
il “programma di salvataggio Covid19”, molto simile al “Corona Recovery
Program” dell’UE da 750 miliardi (qui noto come Recovery Fund, ndt).
Il CEO
di” BlackRock” – “Fink” – era in corsa per diventare il segretario al Tesoro di
Hillary Clinton.
Ma
quando il vincitore delle elezioni Trump ha tagliato le tasse sulle società,
l’agile Fink lo ha lodato, dicendo: “Trump è un bene per l’America “.
BlackRock
è parte attiva di “America First “, indipendentemente da quale dei due partiti
monopolistici statunitensi sia al potere.
(workers.org/2021/01/54092/)
Se
Pechino “piange”,
l’Occidente
non ride
ispionline.it
– Lorenzo Borga – (2 Giu. 2023) – ci dice:
Il
governo cinese ha puntato tutto sul recupero economico dopo la riapertura
post-Covid, ma le speranze per ora non si sono confermate.
La
crescita si sta infatti dimostrando minore rispetto alle attese, e la fase di
riapertura in Cina non sta ripercorrendo quanto accaduto in Occidente dove,
dopo l’arrivo dei vaccini, l’economia ha accelerato fino a surriscaldarsi e
provocare un’ondata di inflazione.
La
giravolta di Pechino su lockdown e quarantene del dicembre scorso rispondeva sì
alle proteste avvenute nelle principali città, ma aspirava soprattutto a
rimettere la Cina su quel cammino di crescita economica che tutto il mondo
invidiava da oltre vent’anni.
Il 2022 si stava concludendo con una misera
variazione del Pil del 3%, rispetto al target del governo del 5,5% e della
media dal 2010 al 2019 (7,7%).
Ma la
riapertura non ha ottenuto per ora i risultati previsti.
Ad
aprile, secondo gli ultimi dati rilasciati, produzione industriale, vendite al
dettaglio e investimenti sono cresciuti a un ritmo minore delle aspettative
degli economisti.
A maggio l’attività manifatturiera cinese si è
contratta per il secondo mese consecutivo a maggio (indice PMI ufficiale a 48,8
punti), appesantita dalla debolezza della produzione e della domanda.
Allo
stesso tempo la disoccupazione giovanile ha raggiunto il record del 20,4%,
livello più alto perfino rispetto ai lockdown.
Sulla base degli ultimi numeri, Nomura ha
rivisto al ribasso le stime di crescita del Pil per l’anno in corso, dal 5,9%
al 5,5.
Jp Morgan ha fatto lo stesso, dal 6,4 al 5,9%.
Il
target del governo di “circa il 5% di crescita” è salvo per ora, ma potrebbe
essere nuovamente smentito in caso di un nuovo peggioramento dei dati.
Gap di
fiducia per consumatori e imprese.
Gli
uffici studi delle diverse banche d’affari hanno identificato la causa del
rallentamento in un gap di fiducia da parte di consumatori e imprese, che
potrebbe infilare la Cina in una vera e propria trappola.
L’indice
di fiducia delle imprese non è ancora tornato ai massimi precedenti alle
chiusure dell’anno scorso, mentre per i consumatori il gap con il pre-Covid è
ancora ampio.
Gli economisti di” Citi” ritengono che la
discrezionalità dimostrata dal governo centrale sulle restrizioni dovute alla
pandemia, i durissimi lockdown prima e la caotica fine della politica “zero-Covid
poi, ha messo a dura prova la fiducia degli attori economici.
Per di più, in un contesto di forte
interventismo dei regolatori nel settore tecnologico (ricordate la fine di Jack
Ma?), dell’istruzione privata e di quello immobiliare, che nel nome della
“prosperità comune” hanno calpestato business fino ad allora fiorenti.
E come
in ogni crisi di fiducia, a mancare sono gli investimenti.
La crescita annuale ad aprile si è fermata al
3,9%, rispetto al 4,8% di marzo e alle attese del 6,9% degli economisti.
Con un
netto contrasto tra quanto accade agli investimenti pubblici (+9,4% nei primi
quattro mesi dell’anno) e quelli privati, che crescono di uno zero virgola.
E se a
soffrire sono gli investimenti, il settore più colpito resta l’immobiliare,
nonostante i bassi tassi di interesse della banca centrale.
Dopo
la bolla implosa di” Evergrande”, gli acquisti di abitazioni ad aprile sono
stati inferiori rispetto al pre-Covid di ben un quarto.
Campanello
d’allarme per l’Occidente?
La
mancata accelerazione cinese non impensierisce solo Pechino.
Secondo il” Fondo Monetario Internazionale” la
crescita globale del 2023 – una delle più lente degli ultimi decenni, Covid
escluso – basa le sue fragili fondamenta sull’Asia.
Proprio la Cina dovrebbe contribuire, secondo
le previsioni, per più di un terzo (l’India, al secondo posto, varrebbe il
15,4%).
Una performance cinese meno positiva del
previsto potrebbe ridimensionare il moderato entusiasmo che è tornato a spirare
in Occidente.
La recessione tecnica in Germania potrebbe
essere un primo segnale d’allarme, vista il contemporaneo crollo a doppia cifra
dell’export tedesco verso la Cina nella prima parte dell’anno.
L’unica notizia paradossalmente positiva è il
contenimento dei prezzi delle materie prime, che dal gas fino al petrolio e al
rame, non stanno vivendo il rimbalzo di valore che molti temevano con la
riapertura cinese.
Se
davvero la Cina si trovasse in una “trappola della fiducia”, come sostengono
gli analisti di “Citi”, il Politburo avrebbe di che preoccuparsi.
Per evitare che la discrezionalità e
l’interventismo del governo blocchino gli investimenti di imprese e famiglie,
secondo gli economisti – per esempio quelli di “HSBC” – sono necessari
interventi di sostegno all’economia, come quelli proposti ultimamente dal
premier “Li Qiang”.
Per evitare che l’impronta dei lockdown si
faccia sentire ancora per anni, a differenza di quanto accaduto in Occidente
dove i vaccini l’hanno fatta presto cadere nel dimenticatoio.
OMS:
potere
speciale
cercasi.
Ispionline.it
– Simone Urbani Grecchi – (2 Giu. 2023) – ci dice:
Nuovo
budget per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che però ancor oggi si
dibatte tra interessi dei privati in gioco e veti incrociati dei Paesi membri.
Nei
giorni scorsi l’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha
approvato il budget per il biennio 2024-25, portando la dotazione a 6,83
miliardi di dollari con un aumento dell’11% rispetto ai 6,12 miliardi del
precedente bilancio.
Al di
là della maggiore disponibilità di risorse finanziarie, l’elemento più importante
di questa decisione sta nel fatto che i 710 milioni addizionali dovrebbero
rafforzare il plafond delle risorse utilizzabili liberamente dall’ente
(assessed contributions, o contributi obbligatori).
Ciò
dovrebbe permettere di bilanciare le” voluntary contributions”, vale a dire
quei fondi (pubblici o privati) la cui destinazione è stabilita unilateralmente
dai singoli finanziatori e che oggi rappresentano circa l’84% del budget
dell’OMS.
L’innalzamento
della quota di contributi obbligatori appare quindi un passaggio importante per
l’agenzia ginevrina, considerata
(i) la scarsa trasparenza con cui i
contributi volontari vengono tradizionalmente utilizzati e
(ii) la presenza tra i suoi principali membri
di soggetti privati che si trovano a utilizzare una piattaforma pubblica per
promuovere un’agenda privata.
Un problema talmente sentito che gli stessi
Stati membri hanno dichiarato che, in assenza di una maggior collegialità sulla
definizione delle priorità e sull’allocazione delle risorse dell’ente,
respingeranno ulteriori richieste di aumento dei contributi obbligatori.
Pubblico
e privato: interessi divergenti.
E che
ci sia un significativo disallineamento tra i finanziatori privati e gli
obiettivi degli Stati membri è reso ancora più evidente dal tema delle malattie
non trasmissibili (Non Communicable Diseases, “NCD”).
Causa
di oltre 41 milioni di morti all’anno (circa il 74% dei decessi mondiali), le
“NCD” sono state indicate dalla vasta maggioranza degli Stati membri come
priorità per i rispettivi servizi sanitari nazionali.
Tuttavia, la vastità del problema non sembra
avere ancora avuto adeguato riscontro nelle scelte dell’agenzia.
Innanzitutto, dal punto di vista politico.
Da un lato infatti l’OMS ha esteso la lista
dei cosiddetti ‘best buys’, cioè di quelle misure “cost-effective “da implementare per prevenire la
diffusione delle NCD.
Dall’altro, la sua operatività sul tema è
stata fino ad oggi oltremodo influenzata dagli interessi commerciali dei
finanziatori privati.
Inoltre, perché anche un tema come il “self
care” appare affrontato prevalentemente in termini di accesso a strumentazione
e digitalizzazione dei servizi sanitari e non, invece, di promozione della
prevenzione a livello individuale tramite una corretta alimentazione,
l’adozione di corretti stili di vita e l’abbandono di abitudini nocive.
Dal
punto di vista finanziario, poi, andrebbe notato che alle richieste di sostegno
per la lotta alle malattie non trasmissibili fa invece da contraltare la scelta
dell’OMS di allocare risorse aggiuntive a malattie ormai circoscritte come la
poliomielite.
Nonostante ce ne siano stati solo venticinque
casi nel 2021 (secondo la stessa OMS) e sia considerata endemica dalla “Global
Polio Eradication Initiative” (GPEI) soltanto in due nazioni, per il prossimo
biennio la poliomielite ha ricevuto da Ginevra uno stanziamento di 0,69
miliardi di dollari, 23% in più rispetto al budget precedente.
Un’apparente
incongruenza quindi, indirettamente rilevata dallo stesso direttore generale
“Tedros Ghebreyesus”, che da un lato sottolinea come le” NCD” rappresentino
oggi il 70% dei decessi a livello globale e, dall’altro, ammette quanto sia
complesso dare le giuste priorità all’azione dell’OMS:
“l’”Organizzazione Mondiale della Sanità” è
cresciuta enormemente – nonostante la continua sfida di provare a essere
un’organizzazione tecnico-scientifica in un contesto altamente politico e
sempre più politicizzato”.
Sembra
dunque esserci una marcata divergenza non solo su quali siano le reali priorità
sanitarie, ma anche su come allocare le risorse per la gestione della salute
globale.
A
testimonianza di ciò, durante l’ultima assemblea è stata presentata una
proposta per trovare nuove fonti di finanziamento – ad esempio attraverso
l’organizzazione di un “investment round” da tenersi entro la fine del 2024.
Ma se da un lato questa iniziativa amplierebbe
le risorse finanziarie dell’ente, dall’altro permetterebbe agli Stati membri di
considerare queste risorse addizionali come contributi volontari, in aperto
contrasto con
(a) l’obiettivo fissato per il 2030 di portare
in equilibrio contributi obbligatori e volontari e
(b)
con le stesse raccomandazioni formulate in materia dal “Working Group on
Sustainable Financing” della OMS .
Un
sistema bloccato dai veti.
Come
già discusso in precedenti analisi, sembra dunque che l’OMS continui a rimanere
bloccata nella sua azione dall’eccessiva indipendenza riconosciuta ai
finanziatori privati e dai veti posti dagli stessi Stati membri.
Secondo
quanto previsto dalla normativa internazionale, infatti, gli Stati possono ad
esempio
(a)
bloccare la pubblicazione da parte dell’organizzazione di informazioni sui
potenziali rischi sanitari presenti sul loro territorio e
(b)
negare l’accesso a esperti del settore, de facto impedendo la creazione di un
effettivo coordinamento sanitario a livello internazionale.
E l’impatto di queste “sensibilità nazionali”
si vede, ad esempio, sulle indagini sulle origini della recente pandemia,
esercizio che ancora fatica a fornire i risultati attesi.
Che si sia trattato di una fortuita
conseguenza delle ricerche “gain-of-function” (aspetto apparentemente
confermato da svariate fonti), o che invece sia dipeso dalla crescente
promiscuità tra ambienti umani e animali (favorita da deforestazione e
urbanizzazione), il tema meriterebbe di essere trattato da un soggetto super
partes.
Come
hanno avuto modo di scrivere “J. Stephen Morrison” e “Carolyn Reynolds” del “Center
for Strategic and International Studies”,
“per evitare un'altra grave crisi in cui un
pericoloso agente patogeno appare sul suolo di un paese potente che poi sceglie
di ritardare, negare e offuscare durante i primi giorni critici, gli Stati
membri dell'OMS devono essere persuasi a cedere una certa misura di sovranità a
un nuovo stabilito il potere di ispezione dell'OMS e una maggiore capacità di
sorveglianza.
Non sarà un'impresa da poco date le
sensibilità sovrane, l'iper-nazionalismo e l'enorme dolore e la dislocazione
economica che i potenti stati membri stanno vivendo oggi.
Ma è fondamentale per prevenire un altro
insabbiamento in stile Wuhan.
I paesi hanno concesso tale autorità all'”Agenzia
internazionale per l'energia atomica “per le ispezioni sulle armi nucleari per
verificare il rispetto del” Trattato di non proliferazione nucleare”,
riconoscendo questo come un problema di sicurezza globale.
Le minacce pandemiche dovrebbero essere
trattate allo stesso modo”.
Colpo
di Stato globale e il "Grande Reset".
Debito
globale e "trattamento shock" neoliberista.
Globalresearch.ca
– Prof. Michael Chossudovsky – (2 giugno 2023) – ci dice:
(Capitolo
XII dell'eBook, The Worldwide Corona Crisis:
Global
Coup d'Etat Against Humanity)
Il
testo che segue è il capitolo XII del libro di Michel Chossudovsky intitolato
“La
crisi mondiale del coronavirus, colpo di stato globale contro l'umanità”
"Il FMI, la Banca Mondiale e i leader
globali sapevano benissimo quale sarebbe stato l'impatto sui poveri del mondo
della chiusura dell'economia mondiale attraverso i blocchi legati al COVID.
Eppure
lo hanno sanzionato e ora c'è la prospettiva che oltre un quarto di miliardo di
persone in più in tutto il mondo cadranno in livelli estremi di povertà solo
nel 2022".
(Colin Todhunter, luglio 2022).
Storia
del "trattamento d'urto" economico. Dal Programma di Adeguamento
Strutturale (PSA) all'"Aggiustamento Globale (AG)."
La
chiusura (simultanea) dell'11 marzo 2020 delle economie nazionali di circa 193
Stati membri delle Nazioni Unite è diabolica e senza precedenti.
Milioni
di persone hanno perso il lavoro e i risparmi di una vita.
Nei paesi in via di sviluppo prevalgono povertà,
carestia e disperazione.
La
chiusura delle economie nazionali ha portato a una spirale del debito globale. Sempre più spesso, i governi
nazionali sono controllati dai creditori, che attualmente finanziano le reti di
sicurezza sociale, i salvataggi aziendali e le elemosine.
Mentre
questo modello di "intervento globale" è senza precedenti, ha alcune
caratteristiche che ricordano le riforme macroeconomiche a livello nazionale,
tra cui l'imposizione di una forte "medicina economica" da parte del
FMI.
Per
affrontare questo problema, esaminiamo la storia del cosiddetto "trattamento shock
economico" (un termine usato per la prima volta nel 1970).
Flashback
in Cile, 11 settembre 1973.
Come”
visiting professor all'Università Cattolica “del Cile, ho vissuto il colpo di
stato militare diretto contro il governo democraticamente eletto di Salvador
Allende.
Fu
un'operazione della CIA guidata dal Segretario di Stato Henry Kissinger
accoppiata con devastanti riforme macroeconomiche.
Nel
mese successivo al colpo di Stato, il prezzo del pane aumentò da 11 a 40
escudos durante la notte.
Questo collasso progettato sia dei salari
reali che dell'occupazione sotto la dittatura di Pinochet ha favorito un
processo nazionale di impoverimento.
(Il
leader cileno Augusto Pinochet stringe la mano al Segretario di Stato americano
Henry Kissinger nel 1976 (By Ministerio de Relaciones Exteriores de Chile. –
Archivo General Histórico del Ministerio de Relaciones Exteriores, licensed
under CC BY 2.0 cl)
Mentre
i prezzi dei prodotti alimentari erano saliti alle stelle, i salari erano stati
congelati per garantire "stabilità economica e allontanare le pressioni
inflazionistiche".
Da un
giorno all'altro, un intero paese era precipitato in una povertà abissale;
in meno di un anno, il prezzo del pane in Cile
è aumentato di 36 volte e l'85% della popolazione cilena è stata spinta sotto
la soglia di povertà.
Questo è stato il "Reset" del Cile
del 1973.
Due
anni e mezzo dopo, nel 1976, sono tornato in America Latina come” visiting
professor presso l'Università Nazionale di Cordoba”, nel cuore industriale
settentrionale dell'Argentina.
Il mio soggiorno coincise con un altro colpo
di stato militare nel marzo 1976.
Dietro
i massacri e le violazioni dei diritti umani, erano state prescritte anche
riforme macroeconomiche del "libero mercato", questa volta sotto la
supervisione dei creditori argentini di New York, tra cui “David Rockefeller”
che era amico del “ministro dell'economia della giunta” “José Alfredo Martinez
de Hoz”.
(David Rockefeller incontra il
dittatore Jorge Videla (a destra) e il ministro delle finanze Martinez de Hoz,
1978? Fonte: Plaza de Mayo)
Cile e
Argentina erano "prove generali" per le cose a venire. L'imposizione del “Programma di Aggiustamento
Strutturale FMI-Banca Mondiale” (SAP) è stata imposta a più di 100 paesi a
partire dai primi anni 1980.
(Michel Chossudovsky, The Globalization of Poverty and
the New World Order, Global Research, 2003).
Un
noto esempio di "libero mercato":
il
Perù nell'agosto 1990 è stato punito per non essersi conformato ai diktat del
FMI;
Il prezzo del carburante è aumentato di 31
volte e il prezzo del pane è aumentato di oltre 12 volte in un solo giorno.
Queste riforme – portate avanti in nome della
"democrazia" – sono state molto più devastanti di quelle applicate in
Cile e Argentina sotto il pugno del governo militare.
Il
blocco di marzo 2020. "Guerra economica"
E ora,
l'11 marzo 2020, entriamo in una nuova fase di destabilizzazione
macroeconomica, che è più devastante e distruttiva di 40 anni di
"trattamento shock" e misure di austerità imposte dal FMI per conto
degli interessi finanziari dominanti.
C'è
rottura, rottura storica e continuità.
È "neoliberismo all'ennesima
potenza".
Chiusura
dell'economia globale: impatti economici e sociali a livello dell'intero
pianeta.
Confronta
ciò che sta accadendo oggi all'economia globale con le misure macroeconomiche
"negoziate" paese per paese imposte dai creditori nell'ambito del
Programma di adeguamento strutturale (SAP).
L'"Aggiustamento globale" dell'11
marzo 2020 non è stato negoziato con i governi nazionali.
È stato imposto da un "partenariato
pubblico-privato", sostenuto dalla falsa scienza, sostenuto dalla
propaganda dei media e accettato da politici cooptati e corrotti.
(Disuguaglianza
sociale e impoverimento "ingegnerizzati". La globalizzazione della
povertà.
Confronta
le "linee guida" dell'"Aggiustamento globale" dell'11 marzo
2020 che interessano l'intero pianeta con il Cile l'11 settembre 1973.)
(In
un'amara ironia, gli stessi interessi Big Money dietro l'"Aggiustamento
globale" del 2020 sono stati attivamente coinvolti in Cile (1973) e
Argentina (1976). (Ricordate l'"Operazione Condor" e la "Guerra
Sporca" -Guerra Sucia).
C'è
continuità.
Gli
stessi potenti interessi finanziari, tra cui il FMI e le burocrazie della Banca
Mondiale in collegamento con la Federal Reserve, WALL Street, la Banca dei
Regolamenti Internazionali (BRI) e il World Economic Forum (WEF) sono
attualmente coinvolti nella preparazione e nella gestione delle operazioni di
debito post-pandemia "new normal" (per conto dei creditori)
nell'ambito del Grande Reset.
(Henry
Kissinger fu coinvolto nel coordinamento del "Reset" cileno dell'9/11
del 1973.)
(L'anno
successivo (1974), fu incaricato della stesura del "National Strategic
Security Memorandum 200 (NSSM 200) che identificava lo spopolamento come
"la massima priorità nella politica estera degli Stati Uniti verso il
Terzo Mondo").
La
spinta dello "spopolamento" sotto il grande reset?
Oggi,
Henry Kissinger è un fermo sostenitore insieme alla “Fondazione Gates” (che è
anche fermamente impegnata nello spopolamento) del Grande Reset sotto gli
auspici del “World Economic Forum” (WEF).
Non
c'è bisogno di negoziare con i governi nazionali né di effettuare un
"cambio di regime".
Il
progetto di lockdown dell'11 marzo 2020 costituisce un "Aggiustamento
Globale" che innesca fallimenti, disoccupazione e privatizzazioni su scala
molto più ampia colpendo in un colpo solo le economie nazionali di oltre 150
paesi.
E
tutto questo processo viene presentato all'opinione pubblica come un mezzo per
combattere il "virus killer" che, secondo il CDC e l'OMS è simile
all'influenza stagionale.
La
struttura egemonica del potere del capitalismo globale.
I
grandi soldi, comprese le fondazioni miliardarie, sono la forza trainante.
È una complessa alleanza tra WALL Street e
l'establishment bancario, i grandi conglomerati petroliferi ed energetici, i
cosiddetti "appaltatori della difesa", Big Pharma, i conglomerati
biotecnologici, i media aziendali, i giganti delle telecomunicazioni, delle
comunicazioni e della tecnologia digitale, insieme a una rete di think tank,
gruppi di pressione, laboratori di ricerca, ecc.
Anche
la proprietà intellettuale svolge un ruolo centrale.
Questa
potente rete decisionale digitale-finanziaria coinvolge anche importanti
istituzioni creditorie e bancarie:
la
Federal Reserve, la Banca centrale europea (BCE), il FMI, la Banca mondiale, le
banche di sviluppo regionali e la Banca dei regolamenti internazionali (BRI)
con sede a Basilea, che svolge un ruolo strategico chiave.
Di
gran lunga le entità finanziarie più potenti sono i giganteschi conglomerati di
portafoglio di investimenti tra cui “Black Rock”, “Vanguard”, “State Stree”t e “Fidelity”.
Controllano:
"...
un totale di 20 trilioni di dollari in asset gestiti.... Contando
prudentemente, un potere di leva da quattro a cinque volte (cioè circa 80-100
trilioni di dollari)". Questi potenti conglomerati finanziari hanno una
leva superiore al PIL mondiale che è dell'ordine di circa 82 trilioni di
dollari.
A loro
volta, le alte sfere dell'apparato statale degli Stati Uniti (e gli alleati
occidentali di Washington) sono direttamente o indirettamente coinvolti, tra
cui il Pentagono, l'intelligence degli Stati Uniti (e i suoi laboratori di
ricerca), le autorità sanitarie, la sicurezza interna e il Dipartimento di
Stato degli Stati Uniti (comprese le ambasciate statunitensi in oltre 150
paesi).
"Economia
reale" e "Big Money"
Perché
queste politiche di blocco COVID stanno guidando la bancarotta, la povertà e la
disoccupazione?
Il
capitalismo globale non è monolitico.
C'è infatti "un conflitto di classe"
"tra i super ricchi e la stragrande maggioranza della popolazione
mondiale".
Ma c'è
anche un'intensa rivalità all'interno del sistema capitalista; vale a dire un
conflitto tra il "Grande Capitale Monetario" e quello che potrebbe
essere descritto come "Capitalismo Reale" che consiste in società in
diverse aree di attività produttiva a livello nazionale e regionale.
Comprende anche le piccole e medie imprese.
Ciò
che è in corso è un processo di concentrazione della ricchezza (e controllo
delle tecnologie avanzate) senza precedenti nella storia del mondo, in base al
quale l'establishment finanziario (cioè i creditori multimiliardari) è
destinato ad appropriarsi dei beni reali sia delle società in bancarotta che
dei beni statali.
L'"economia
reale" costituisce "il paesaggio economico" dell'attività
economica reale:
attività produttive, agricoltura, industria, servizi, infrastrutture economiche
e sociali, investimenti, occupazione, ecc.
L'economia
reale a livello globale e nazionale è presa di mira dal blocco e dalla chiusura
delle attività economiche.
Le istituzioni finanziarie” Global Money” sono
i "creditori" dell'economia reale.
Governance
globale: verso uno Stato totalitario.
Gli
individui e le organizzazioni coinvolti nella simulazione 18 del 2019 ottobre
201 sono ora coinvolti nella gestione effettiva della crisi una volta che è
entrata in funzione il 30 gennaio 2020 nell'ambito dell'emergenza sanitaria
pubblica di interesse internazionale dell'OMS (PHEIC), che a sua volta ha posto
le basi per la crisi finanziaria di febbraio 2020 e il blocco di marzo.
Il
blocco e la chiusura delle economie nazionali hanno innescato diverse ondate di
disoccupazione di massa insieme al fallimento progettato (applicato in tutto il
mondo) delle piccole e medie imprese.
Tutto
ciò è guidato dall'installazione di uno stato totalitario globale marxista
illuminato, ideato dagli uomini di Davos, che è intento a rompere ogni forma di
protesta e resistenza.
Il
programma di vaccinazione COVID (compreso il passaporto digitale incorporato e
il codice QR) è parte integrante di un regime totalitario globale.
Qual’
è il famigerato ID2020?
Si
tratta di un'alleanza di partner pubblico-privati, tra cui le agenzie delle
Nazioni Unite e la società civile.
È un programma di identificazione elettronica
che utilizza la vaccinazione generalizzata come piattaforma per l'identità
digitale.
Il programma sfrutta le operazioni di
registrazione delle nascite e di vaccinazione esistenti per fornire ai neonati
un'identità digitale portatile e persistente collegata biometricamente: zone
rosse, maschere per il viso, distanziamento sociale, blocco.
(Peter Koenig, 12 marzo 2020).
"Il
grande reset"
Gli
stessi potenti creditori che hanno innescato la crisi del debito globale COVID
stanno ora stabilendo una "nuova normalità" che consiste
essenzialmente nell'imporre ciò che il “World Economic Forum” di Klaus Schwab
descrive come il "Grande Reset".
Utilizzando
i blocchi e le restrizioni COVID-19 per spingere attraverso questa
trasformazione, il Grande Reset viene implementato sotto le spoglie di una
"Quarta
rivoluzione industriale" in cui le imprese più vecchie devono essere portate
alla bancarotta o assorbite nei monopoli, chiudendo efficacemente enormi
sezioni dell'economia pre-COVID.
Le economie vengono "ristrutturate"
e molti lavori saranno svolti da macchine guidate dall'intelligenza
artificiale.
I
disoccupati (e ce ne saranno molti) sarebbero collocati su una sorta di reddito
di base universale e vedrebbero i loro debiti (indebitamento e bancarotta su
larga scala è il risultato deliberato di blocchi e restrizioni) cancellati in
cambio della consegna dei loro beni allo stato o più precisamente alle
istituzioni finanziarie che aiutano a guidare questo Grande Reset.
Il WEF afferma che il pubblico
"affitterà" tutto ciò di cui ha bisogno:
spogliando
il diritto di proprietà con il pretesto di "consumo sostenibile" e
"salvare il pianeta".
Naturalmente, la piccola élite di miliardari che
ha lanciato questo grande reset sarà proprietaria di tutto.
(Colin Todhunter, Dystopian Great
Reset, 9 novembre 2020)
Premere il pulsante di ripristino.
Il
Grande Reset del World Economic Forum è stato a lungo in divenire.
"Premere
il pulsante di reset" al fine di salvare l'economia mondiale è stato
annunciato dal presidente del WEF Klaus Schwab nel gennaio 2014, sei anni prima
dell'assalto della pandemia di COVID-19.
"Quello
che vogliamo fare a Davos quest'anno [2014] è premere il pulsante di reset, il
mondo è troppo preso in una modalità di crisi".
Due
anni dopo, in un'intervista del 2016 con la rete televisiva svizzera in lingua
francese (RTS), Klaus Schwab ha parlato dell'impianto di microchip nel corpo
umano, che in sostanza è la base del vaccino "sperimentale" contro
l'mRNA COVID.
"Quello
che vediamo è una sorta di fusione del mondo fisico, digitale e
biologico", ha detto Klaus Schwab.
Schwab
ha spiegato che gli esseri umani riceveranno presto un chip che verrà
impiantato nei loro corpi per fondersi con il mondo digitale.
RTS:
"Quando accadrà?
Klaus Schwab:
"Sicuramente nei prossimi dieci anni.
"Potremmo
immaginare che li impianteremo nel nostro cervello o nella nostra pelle".
"E
poi possiamo immaginare che ci sia una comunicazione diretta tra il cervello e
il mondo digitale".
Global
Research Weekender: Cos'è "The Great Reset" del WEF e perché dovremmo
preoccuparci?
Giugno
2020. Il WEF annuncia ufficialmente il grande reset.
"La
pandemia rappresenta una rara ma stretta finestra di opportunità per
riflettere, re-immaginare e resettare il nostro mondo per creare un futuro più
sano, più equo e più prospero." -Klaus Schwab, WEF (giugno 2020)
Ciò
che è previsto nell'ambito del "Grande Reset" è uno scenario in cui i
creditori globali si saranno appropriati entro il 2030 della ricchezza
mondiale, impoverendo ampi settori della popolazione mondiale.
Nel
2030, "non possiedi nulla e sarai felice".
Le
Nazioni Unite: uno strumento di governance globale per conto di un partenariato
pubblico-privato non eletto.
Anche
il sistema delle Nazioni Unite è complice.
Ha
approvato la "Governance Globale" e il Grande Reset.
E così
ha fatto il Vaticano.
(Tutti
in galera dovrebbero andare i ladri alto locati! N.D.R.)
Mentre
il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres riconosce
giustamente che la pandemia è "più di una crisi sanitaria", non è
stata intrapresa alcuna analisi o dibattito significativo sotto l'egida delle
Nazioni Unite sulle vere cause di questa crisi.
Secondo
un rapporto delle Nazioni Unite del settembre 2020:
"Centinaia
di migliaia di vite sono state perse.
La vita di miliardi di persone è stata
sconvolta.
Oltre agli impatti sulla salute, COVID-19 ha
esposto e esacerbato profonde disuguaglianze ... Ci ha colpito come individui,
come famiglie, comunità e società.
Ha
avuto un impatto su ogni generazione, anche su quelle non ancora nate.
La crisi ha evidenziato fragilità all'interno
e tra le nazioni, nonché nei nostri sistemi per montare una risposta globale
coordinata alle minacce condivise”. (Rapporto ONU).
Le
decisioni di vasta portata che hanno innescato la distruzione sociale ed economica
in tutto il mondo non sono menzionate.
Nessun
dibattito in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Consenso
tra tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite.
Il
Virus è casualmente ritenuto responsabile del processo di distruzione economica.
Il
progetto di "partenariato pubblico-privato" del World Economic Forum
intitolato "Reimagine and Reset Our World" è stato approvato dalle
Nazioni Unite.
Flashback
a George Kennan e alla dottrina Truman alla fine del 1940.
Kennan credeva che le Nazioni Unite fornissero
un modo utile per "collegare il potere con la moralità", usando la
moralità come mezzo per approvare le "guerre umanitarie" americane.
La
crisi COVID, le misure di lockdown e il vaccino mRNA sono il culmine di un
processo storico.
Il
lockdown e la chiusura dell'economia globale sono "armi di distruzione di
massa" che nel vero senso della parola "distruggono la vita delle
persone". Ampiamente documentato, il vaccino mRNA COVID-19 è meglio
descritto come un "vaccino killer".
Abbiamo
a che fare con vasti "crimini contro l'umanità".
Il
presidente Joe Biden e il "Grande Reset".
Joe
Biden è un politico curato, un rappresentante fidato, che serve gli interessi
dell'establishment finanziario.
Non
dimentichiamo che Joe Biden era un fermo sostenitore dell'invasione dell'Iraq
sulla base del fatto che Saddam Hussein "aveva armi di distruzione di
massa".
"Il
popolo americano è stato ingannato in questa guerra", ha detto il senatore
Dick Durbin. Non lasciatevi ingannare di nuovo da Joe Biden.
Acronimi
in evoluzione: 9/11, GWOT, WMD e ora COVID.
Biden
è stato premiato per aver sostenuto l'invasione dell'Iraq.
Durante
la campagna elettorale, Fox News ha descritto Biden come un "socialista
marxista” che minaccia il capitalismo;
"L'inquietante
connessione di Joe Biden con il movimento socialista marxista 'Great
Reset'".
Mentre
questa è una sciocchezza assoluta, molti "progressisti" e attivisti
contro la guerra hanno appoggiato Joe Biden senza analizzare le conseguenze più
ampie della presidenza Biden.
"The
Great Reset" è socialmente divisivo, è razzista.
È un progetto diabolico del capitalismo
globale.
Costituisce
una minaccia per la grande maggioranza dei lavoratori americani e per le
piccole e medie imprese.
Inoltre mina diversi settori importanti
dell'economia capitalista.
La
presidenza Biden e il lockdown.
Per
quanto riguarda il COVID, Biden è fermamente impegnato a mantenere la chiusura
parziale sia dell'economia statunitense che dell'economia globale come mezzo
per "combattere il virus killer".
Il
presidente Biden è un fermo sostenitore del blocco della corona. Non solo
approva l'adozione di politiche di blocco COVID-19 ferme, ma la sua
amministrazione è impegnata nel "Great Reset" del “World Economic
Forum” e nel "passaporto dei vaccini" come parte integrante della
politica estera degli Stati Uniti, da attuare o più correttamente
"imporre" in tutto il mondo.
A sua
volta, l'amministrazione Biden-Harris tenterà di scavalcare tutte le forme di
resistenza popolare al blocco del coronavirus.
Ciò
che si sta svolgendo è una nuova e distruttiva fase dell'imperialismo
statunitense.
È un progetto totalitario di ingegneria economica e
sociale, che alla fine distrugge la vita delle persone in tutto il mondo.
Questa
"nuova" agenda neoliberista marxista che utilizza il blocco della
corona come strumento di oppressione sociale è stata approvata dal presidente
Biden e dalla leadership del Partito Democratico.
La
Casa Bianca di Biden è impegnata nell'instaurazione di ciò che “David
Rockefeller” ha definito "Global Governance" da parte del “liberal
marxismo Usa”.
Il
movimento di protesta.
Va
notato che il movimento di protesta negli Stati Uniti contro il lockdown è
debole.
In realtà non esiste un movimento di protesta
nazionale di base coerente.
Perché?
Perché
le "forze progressiste" tra cui intellettuali di sinistra liberal
marxista, leader di ONG, leader sindacali e sindacali – la maggior parte dei
quali sono allineati con il Partito Democratico – hanno fin dall'inizio
sostenuto il blocco.
E sostengono anche Joe Biden.
In
un'amara ironia, gli attivisti contro la guerra e i critici del neoliberismo
hanno appoggiato Joe Biden.
A meno
che non ci siano proteste significative e resistenza organizzata, a livello
nazionale e internazionale, il Grande Reset sarà incorporato nelle agende di
politica estera interna e statunitense dell'amministrazione Joe Biden-Kamala
Harris.
È
quello che voi chiamate “imperialismo liberal marxista” dal "volto
umano".
Dov'è
il movimento di protesta contro questo "partenariato
pubblico-privato" non eletto della corona?
Le
stesse fondazioni filantropiche (Rockefeller, Ford, Soros, et al.) che sono gli
architetti inespressi del "Grande Reset" e della "Governance
Globale" sono anche coinvolte nel finanziamento (generoso) dell'attivismo
sul” cambiamento climatico”, della Ribellione dell'Estinzione, del Forum
Sociale Mondiale, di Black Lives Matter, LGBT, et al.
Ciò
significa che la base di questi movimenti sociali è spesso ingannata e tradita
dai loro leader che sono regolarmente cooptati e generosamente ricompensati da
una manciata di fondazioni aziendali.
Il
Forum Sociale Mondiale (FSM), che commemora il suo 21° anniversario, riunisce
attivisti anti-globalizzazione impegnati provenienti da tutto il mondo.
Ma chi controlla il FSM?
Fin dall'inizio, nel gennaio 2001, è stato
(inizialmente) finanziato dalla “Fondazione Ford”.
È
quello che tu chiami "dissenso fabbricato" (molto più insidioso del
"consenso fabbricato" di Herman-Chomsky).
L'obiettivo
delle élite finanziarie "è stato quello di frammentare il movimento
popolare in un vasto mosaico "fai da te".
L'attivismo tende ad essere frammentario.
Non
esiste un movimento anti-globalizzazione integrato contro la guerra". (Michel Chossudovsky,
Manufacturing Dissent, Global Research, 2010)
Nelle
parole di McGeorge Bundy, presidente della “Fondazione Ford” (1966-1979):
Tutto
ciò che la Fondazione [Ford] ha fatto potrebbe essere considerato come
"rendere il mondo sicuro per il capitalismo", ridurre le tensioni
sociali aiutando a confortare gli afflitti, fornire valvole di sicurezza per
gli arrabbiati e migliorare il funzionamento del governo.
Il
movimento di protesta contro il Grande Reset che costituisce un "colpo di
stato globale" richiede un processo di mobilitazione mondiale:
"Non
ci può essere alcun movimento di massa significativo quando il dissenso è
generosamente finanziato da quegli stessi interessi corporativi [WEF, Gates,
Ford, et al.] che sono l'obiettivo del movimento di protesta".
La follia
che governa l'Occidente.
Globalresearch.ca
– (02 giugno 2023) - Eric Zuesse – ci dice:
Il 30
maggio, Newsweek ha titolato "La Russia 'in rotta' per il conflitto della
NATO, dice il comandante", e ha riferito che “Karel Rehka”, il comandante delle
forze armate della Cechia, ha detto che,
"Consideriamo
la guerra tra la Russia e l'Alleanza del Nord Atlantico come lo scenario
peggiore, ma non è impossibile", ha detto “Rehka”.
"È
possibile."
La Russia, ha aggiunto il comandante, "è
attualmente in rotta verso un conflitto con l'Alleanza".
La
deterrenza della NATO, ha aggiunto, è la soluzione per mostrare a Mosca che
"non ne vale la pena perché non può riuscire" a sconfiggere i suoi
rivali occidentali con mezzi militari.
L'assunto
indiscusso dell'Occidente è che la Russia sia attualmente impegnata in
un'invasione dell'Ucraina allo scopo di "sconfiggere i suoi rivali
occidentali con mezzi militari".
Ma
questa affermazione è palesemente falsa, come sarà qui documentato tramite i link.
Il 17
dicembre 2021, la Russia ha formalmente presentato alla” NATO” una proposta di
negoziato:
"Tutti gli Stati membri
dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico si impegnano ad astenersi
da qualsiasi ulteriore allargamento della NATO, compresa l'adesione
dell'Ucraina e di altri Stati".
Questo
è stato proposto in un contesto che si è aperto con:
"Le
Parti guidano nelle loro relazioni i principi di cooperazione, di sicurezza
equa e indivisibile.
Essi non rafforzeranno la loro sicurezza
individualmente, nell'ambito di organizzazioni internazionali, alleanze
militari o coalizioni a spese della sicurezza delle altre Parti."
In
altre parole: implicava che ogni nazione della NATO avrebbe accettato di non
partecipare mai a un'invasione di qualsiasi nazione che non l'avesse invasa e
che avesse concordato con essa di non invaderla a meno che quella nazione della
NATO, o qualsiasi altra nazione membro della NATO, non avesse PRIMA invaso essa
o un'altra nazione membro della NATO.
In
altre parole: era un patto reciproco di non aggressione, che la Russia stava
proponendo alla NATO; e, IN QUEL CONTESTO, comportava che l'Ucraina non sarebbe
stata ammessa nella NATO.
L'enorme
errore di Putin.
Il
motivo per cui l'Ucraina è stata specificamente menzionata nella proposta – e
nessun'altra nazione lo era – è che l'Ucraina è molto più vicina al centro di
comando della Russia di qualsiasi altra nazione membro della NATO esistente;
sono solo 317 miglia o 5 minuti di volo missilistico dalla capacità della Russia
di decapitare il blitz di, in primo luogo, riconoscere che un missile nucleare
era stato lanciato contro il Cremlino, e, poi, premere il pulsante per lanciare
le armi di rappresaglia della Russia in risposta a quell'invasione da parte
della NATO.
La
proposta della Russia del 17 dicembre 2021 è stata l'ultima e ultima richiesta
di Mosca che riflette la necessità di sicurezza nazionale della "Linea
Rossa" più volte ripetuta da Mosca che se l'Ucraina diventerà un membro
della NATO, allora la Russia non lo accetterà e che questa accettazione
dell'Ucraina nella NATO darà inizio alla terza guerra mondiale: guerra nucleare
tra superpotenze.
Il 24
febbraio 1990, il governo degli Stati Uniti iniziò segretamente a istruire i
suoi alleati della NATO che, sebbene tutti (sotto istruzione della Casa Bianca)
avessero detto a Mikhail Gorbaciov che la NATO non si espanderà nemmeno
"di un pollice verso est" (cioè verso il confine russo) quella era
solo una bugia, e che l'obiettivo della NATO di catturare la Russia continuerà
anche dopo che Gorbaciov smantellerà l'Unione Sovietica e porrà fine alla sua
immagine speculare militare del Patto di Varsavia. alleanza e pone fine al suo
comunismo – tutte cose che Gorbaciov ha fatto nel 1991.
L'unica
spiegazione registrata del presidente Bush di quell'istruzione segreta ai suoi
tirapiedi fu:
"Al diavolo questo [onorare la promessa]!
Abbiamo prevalso; Non l'hanno fatto". In altre parole, stava dicendo loro:
la forza rende giusto, e noi possederemo la
forza allora anche più di quanto non facciamo oggi – così: 'Avanti soldati
cristiani!', fino alla 'vittoria!'
Se la
Russia dovesse accettarlo, allora permetterebbe alla versione occidentale del
"cristianesimo" (che anche Hitler credeva appassionatamente) di
emergere vittoriosa sulla Russia – che rifiuta quel punto di vista (il punto di
vista suprematista – la richiesta di essere suprema invece di possedere uguali
diritti con tutti gli altri).
Inoltre:
mentre per l'Occidente si tratta di governare il mondo intero – si tratta di
diventare l'America il dittatore globale – si tratta invece di qualcosa di
completamente opposto a quello della Russia:
Come diceva il documento proposto alla sua
apertura:
"Le
Parti guidano nelle loro relazioni i principi di cooperazione, di sicurezza
equa e indivisibile."
Era un
impegno per l'esatto opposto di ciò che, ad esempio, il presidente degli Stati
Uniti Barack Obama aveva dichiarato il 28 maggio 2014, ai futuri generali
americani:
"Gli
Stati Uniti sono e rimangono l'unica nazione indispensabile".
La
Russia chiedeva il rifiuto di questo, il rifiuto dell'idea che solo gli Stati
Uniti sono indispensabili e tutte le altre nazioni sono superflue. La Russia
stava ripudiando la posizione dell'Occidente – la sua posizione ideologica: il suprematismo.
L'articolo
di “Newsweek” continuava dicendo:
"Mosca ha inquadrato la sua disastrosa
invasione dell'Ucraina come un attacco preventivo contro la NATO, che ha a
lungo accusato di fomentare la 'russofobia' nel paese, anche se il Cremlino si
è intromesso nella politica interna ucraina, ha annesso la Crimea e si è
impadronito di aree della regione orientale del Donbas".
Ecco
la vera storia – non quel mito – su quell'accusa.
Quando
l'America aveva vinto la sua guerra rivoluzionaria, anch'essa aveva conquistato
la sua libertà e indipendenza dal suo padrone, la dittatura britannica al di là
dell'oceano.
La Russia, anche ora, si rifiuta di accettare
meno di questo, per sé stessa.
Questo
è ciò che i documenti proposti dalla Russia del 17 dicembre 2021 offrivano, ora
alla NATO americana.
L'America
di oggi (e le sue colonie) lo hanno respinto.
Tale
offerta è stata, il 7 gennaio 2022, sprezzantemente respinta dagli Stati Uniti
e dalla sua NATO.
Non
avrebbero nemmeno negoziato su nulla in esso.
La Russia aveva solo un'opzione rimasta:
invadere e conquistare l'Ucraina.
Questa è, per la Russia, una guerra difensiva
necessaria contro le incessanti aggressioni degli Stati Uniti.
La Russia chiede: le vostre aggressioni per
catturarci finiranno qui: "Dateci la libertà, o dateci la morte!"
La
Russia si rifiuta di permettere agli Stati Uniti di possedere la capacità di
posizionare i suoi missili nucleari a sole 317 miglia di distanza dal Cremlino.
Questa
è la verità storica della questione.
(Il
nuovo libro dello storico investigativo Eric Zuesse, “AMERICA'S EMPIRE OF EVIL:
Hitler's Posthumous Victory, and Why the Social Sciences Need to Change”, parla
di come l'America ha conquistato il mondo dopo la seconda guerra mondiale per
renderlo schiavo dei miliardari statunitensi e alleati. I loro cartelli
estraggono la ricchezza del mondo controllando non solo i loro media di
"notizie", ma anche le "scienze" sociali, ingannando il
pubblico.)
Una
Davos a stelle e strisce:
dall’intelligence
alle imprese,
il
peso determinante degli Usa
it.insideover.com
– Andrea Muratore – (16 GENNAIO 2023) – ci dice:
Accanto
alla bandiera crociata della Svizzera, Paese ospitante, sarà quella a stelle e
strisce degli Stati Uniti a campeggiare con forza al World Economic Forum di
Davos in programma dal 16 al 20 gennaio 2023.
L’edizione contemporanea del Forum è la più
connotata in senso americano degli ultimi anni.
Mancando il tradizionale filotto di grandi
leader, con quattro leader del G20 (Spagna, Sudafrica, Corea del Sud e
Germania) confermati, Olaf Scholz unico capo di Stato del G7 atteso con
certezza e in forse il britannico “Rishi Sunak”, il peso delle delegazioni al
summit internazionale è ancora più importante come indicatore.
Con
703 persone registrate, gli americani costituiscono il 27% di tutti i
partecipanti accreditati al World Economic Forum 2023.
E la
presenza attenta di così tanti esponenti della nazione-guida dell’Occidente
mostra la volontà di diversi settori di potere a Washington di capire la
complessità di una globalizzazione plasmata attorno al consensus mercatista,
finanziario e geopolitico americano e oggi sempre più frammentata.
Puntando al contempo a dettare l’agenda nei
confronti dei rivali accusati di essere i guastatori della globalizzazione:
Cina e Russia, colpite rispettivamente con i dialoghi sul fronte ambientale e
geostrategico.
La
delegazione statunitense inviata dall’amministrazione Biden è indicativa nella
sua composizione: si fonda sull’inedito trittico diplomazia
economica-ambiente-sicurezza nazionale e comprende la direttrice dell’organismo
di coordinamento della Casa Bianca che gestisce l’intelligence nazionale,
“Avril Haines”, il direttore del “Federal Bureau of Investigation”,
“Christopher Wray”, l’inviato speciale della presidenza Usa per il clima, “John
Kerry”, diplomatico di punta di Joe Biden ed ex segretario di Stato, e la
rappresentante per la politica commerciale “Katherine Tai.”
Quattro figure per una complessa visione del
mondo e di approccio degli Usa alla transizione dell’ordine globale, nella cui
ristrutturazione vogliono essere protagonisti.
Il
Forum di Davos sarà anche l’occasione per smussare problematiche e costruire
strategice.
“Haines”
avrà dei confronti diretti con il segretario della Nato “Jens Stoltenberg” per
ragionare sul futuro del sostegno all’Ucraina invasa dalla Russia, e sarà
interessante valutare anche la presenza di tre figure-chiave di Paesi dall’alta
valenza strategica per Washington.
Sarà
presente” Andrzej Duda”, presidente della Polonia bastione Usa in Europa
orientale, assieme a” Kyriakos Mitsotakis”, leader della Grecia vicinissima a
Washington sul piano militare, diplomatico ed energetico nel Mediterraneo
orientale, e a “Sanna Marin”, premier finlandese che cercherà rassicurazioni
sulla prossima adesione al Patto atlantico.
“Kerry” con” Tai” è atteso per discussioni con
“Ursula von der Leyen”, che da “presidente della Commissione Ue” prepara la
risposta all’”Inflation Reduction Act” di Biden che ha generato tensioni
economiche e politiche a Bruxelles.
Washington
vuole ribadire la compattezza dell’élite occidentale attorno alle sue priorità
e utilizzare anche il tema dello sviluppo sostenibile, soprattutto in campo
ambientale, come asset geopolitico contro la rivale Cina.
Top
manager e intellettuali: tutti i big Usa presenti a Davos.
Sostanziale
in tal senso l’imponente presenza di top manager e amministratori delegati di
settori strategici.
634
top manager parteciperanno al vertice (25% del totale dei presenti) tra cui
molti grandi nomi americani:
“Quartz”
ricorda Stephane Bancel di “Moderna”, assieme a “Julie Sweet “del colosso di
consulenza “Accenture”, “Andy Jassy “di “Amazon”, moderna “Compagnia delle
Indie“, e all’attesissimo “Larry Fink,” fondatore e Ceo di BlackRock che da
anni detta l’agenda su finanza green e transizione energetica.
Saranno
di matrice americana le aziende che manderanno il maggior numero di ospiti:
“Accenture”
ne manderà ben 9,” Salesforce” 8, mentre sette a testa arriveranno da “Google”,
“McKinsey” e la stessa “BlackRock”.
Anche le due delegazioni mediatiche più
numerose saranno a stelle e strisce: la “Cnbc” con tredici tra giornalisti e
tecnici è seguita dal “WALL Street Journal” con sette dipendenti inviati.
“Last
but not least”, i pensatori e gli intellettuali.
A partire da coloro che hanno una navigata
esperienza politica alle spalle: l’immancabile “Al Gore”, già vicepresidente di
Bill Clinton, sarà a fianco di “Henry Kissinger”, prossimo ai cento anni ma
ancora acuto commentatore di geopolitica e sfide globali, che dialogherà col
politologo “Graham Allison “della “Harvard Kennedy School of Government”,
teorico della “trappola di Tucidide” e dell’ammonimento sui rischi dello
scontro diretto Usa-Cina.
Presente
anche il mondo della scienza:
“David
G. Victo”r, docente esperto di tematiche tecnologiche e di innovazione
dell’Università di San Diego, avrà modo di confrontarsi sulla fusione con”
Kimberly Budil”, direttrice dei laboratori federali “Livermore” in cui è stata
messa la prima pietra miliare sul nucleare di nuova frontiera.
Una
presenza in forze, dunque, che mostra come la globalizzazione possa continuare
a parlare il linguaggio degli Usa anche in una fase in cui l’idea del mondo
unipolare è tramontata.
Washington
sa sfruttare al meglio questi consessi e vuole, soprattutto a livello
d’immagine, segnare un punto a Davos, mostrando la sua volontà di giocare da
protagonista alla ristrutturazione delle regole della globalizzazione.
Nella quale tra tutela delle nazioni e di
grandi temi come l’ambiente e la tecnologia vuole far rientrare la proiezione
geopolitica ostile a qualsiasi rivale sistemico.
E occasioni come Davos sono perfette per
tessere la trama.
Usando
tutto il potenziale degli apparati pubblici e privati che la superpotenza a
stelle e strisce mette in scena sulle Alpi svizzere.
La
requisitoria di “Sahra Wagenknecht”
e i
suoi limiti.
Sinistrainrete.info
– (19 settembre 2022) - Marx XXI – ci dice:
Il
titolo del libro di Sahra Wagenknecht – dirigente storica della Linke, partito
di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare
aspettative eccessive:
“Contro
la sinistra neoliberale” (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa
di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la
tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano.
Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una
condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di “Hans
Modrow” alla” Linke” che abbiamo rilanciato su questa pagina:
(socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html)
Viceversa
il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio.
Non che manchino accenti durissimi nei
confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”:
come
vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così
come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in
oggetto.
A
lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra
neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court;
un
approccio che legittima l’idea secondo cui il “liberalismo di sinistra
tradizionale”, o “liberal socialismo”, non è il grembo che ha partorito
l’attuale “sinistra neoliberale”, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui
si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra.
Ma procediamo con ordine.
Il
bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della
propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche
relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui
comportamenti.
Per queste persone, le tradizioni e i legami
comunitari passano in secondo piano, quando non sono oggetto di rifiuto e
disprezzo, rispetto all’autonomia e all’autorealizzazione individuali (l’identità individuale è concepita
come qualcosa che esiste indipendentemente dalla vita sociale).
Trovare
riconoscimento e conferma di sé viene prima di qualsiasi velleità di cambiare
il mondo e la società, e in ogni caso si ritiene che il mondo e la società
possano e debbano essere cambiati cambiando le parole con cui li si nomina e
descrive (questa moda del “politically correct”, scrive Wagenknecht, è nata
nelle università di élite angloamericane, imbevute delle idee dei maestri dello
“strutturalismo” come Foucault e Derrida).
Alle
lotte per l’uguaglianza subentra la santificazione della disuguaglianza, una
mistica della differenza che fa sì che non ci si impegni più per ottenere
l’equiparazione legale delle minoranze, bensì per rivendicare privilegi da
concedere alle minoranze stesse.
Di qui
una svalutazione degli interessi della maggioranza che diventa un alibi per le
classi benestanti, le quali che possono così astenersi dal finanziare la
collettività, in quanto ai loro occhi non rappresenta più l’incarnazione di un
interesse comune e condiviso.
A
fornire un altro alibi al liberismo economico e al suo progetto di
smantellamento dello stato sociale è poi il concetto di società aperta e di
cittadinanza globale, una dimensione astratta cui tutti possono accedere senza
che ciò comporti coesione e aiuto reciproco.
i valori e i dogmi della “cultura Lgbt” (a partire dalla negazione di ogni
fondamento biologico delle differenze sessuali) non è fatto solo oggetto di
disprezzo, ma di vero e proprio odio, sentimento che viene riservato a priori
ai maschi bianchi della classe media.
Infine, dietro le maschere dell’apertura e
della tolleranza che questa gente indossa, si cela uno spirito intollerante
degno della peggiore destra reazionaria: per esempio chi non condivide.
Sinistra
alla moda è definizione azzeccata:
come
le mode postmoderne cercano di illudere il consumatore di godere di prodotti e
servizi “unici”, ritagliati su misura per le sue esigenze, che viceversa
differiscono solo per qualche elemento marginale, allo stesso modo, dietro
l’esaltazione delle differenze e delle singolarità individuali che sostanzia
l’ideologia delle nuove sinistre, si nasconde una disarmante uniformità di
gusti, idee e valori.
Questo
conformismo di massa, chiarisce Wagenknecht, non è un prodotto puramente
culturale ma rispecchia precisi interessi di classe.
Al posto di concetti come classe creativa o
lavoratori della conoscenza, l’autrice usa la definizione di “nuovo ceto medio dei laureati”, ma la sostanza è la stessa:
si
tratta di quel 25/30% di lavoratori – dipendenti, autonomi e liberi
professionisti – che svolgono attività legate prevalentemente ai settori della
finanza, dell’economia digitale e della comunicazione (media, pubblicità,
marketing, ecc.).
A
marcare la distanza fra questo strato sociale da una parte e la classe operaia
e le “vecchie” classi medie dall’altra, non sono solo le forti differenze
salariali, sono anche differenze antropologiche (atteggiamenti, valori e stili
di vita) che rispecchiano precise condizioni materiali di vita:
gli
uni vivono nei quartieri centrali delle metropoli, che qualcuno ha definito
vetrine della globalizzazione felice, o nelle città universitarie, gli altri
nelle periferie e/o nei piccoli centri di provincia.
L’economia
della conoscenza non conosce sindacati, stipendi – né tanto meno posti – fissi,
percorsi di carriera predefiniti.
I
contratti di lavoro sono frutto di trattative individuali, mentre il rischio
individuale associato a tale condizione viene esaltato come una virtù, in
quanto, secondo la vulgata mainstream, questa spietata competizione di tutti
contro tutti premierebbe i “giocatori” più meritevoli e coraggiosi.
Nel
concetto di “nuovo ceto medio dei laureati”, più del termine laureati pesa
l’attributo “nuovo”.
La semplice laurea, infatti, non garantisce
più di poter salire sull’ascensore sociale, in quanto le professioni meglio
pagate richiedono ormai capacità che i percorsi formativi pubblici non sono in
grado di trasmettere.
Di conseguenza, l’istruzione superiore torna a
essere quel privilegio che la massificazione degli accessi all’università
sembrava avere cancellato nella seconda metà del secolo scorso, dal momento che
sono solo le famiglie benestanti a poter offrire ai figli la possibilità di
frequentare università di élite.
Ma la selezione comincia prima, su base socio
territoriale, dal momento che, come ricordato sopra, il nuovo ceto medio vive
nei centri gentrificati delle metropoli, cioè in quartieri dove le scuole,
dalle elementari ai licei, offrono chance ben superiori di quelle degli
istituti periferici.
In
poche parole, il privilegio sociale è una spirale che si autoalimenta e si
rafforza continuamente, aumentando costantemente la distanza fra alto e basso.
Queste
distanze si rispecchiano nelle scelte elettorali:
come
tutte le ricerche sulla composizione sociale dei flussi elettorali confermano,
oggi a votare a sinistra sono gli individui benestanti di cultura elevata,
tutti gli altri votano a destra o – in misura crescente – si astengono.
Wagenknecht cita il caso dei “Verdi tedeschi”, che
hanno superato da tempo i Liberali come partito più votato dai ricchi, ma
ammette che anche il suo partito,” la Linke”, un tempo sostenuto da un
elettorato di cultura medio-bassa prevalentemente operaio, è diventato un
“partito dei laureati”.
Ma
soprattutto si rispecchiano negli stili di vita, nei linguaggi e nelle posture
ideologico-culturali.
Le
élite della nuova sinistra guardano dall’alto in basso “quelli che non hanno
frequentato l’università, vivono in provincia e comprano da “LIDL” i prodotti
per la grigliata per risparmiare”.
Questi
“sdentati” usano parole che l’”etichetta politicamente corretta” considera intollerabili, per cui,
nelle redazioni dei media, nelle istituzioni pubbliche e nelle aziende sono
sottoposte a dure sanzioni sociali, al punto che “più della metà dei cittadini
tedeschi non osano esprimere liberamente le proprie opinioni “.
Quando
questa “marmaglia”, ribellandosi contro le politiche neoliberali e le
condizioni di vita che impongono alle classi subalterne, scende in piazza dando
vita a spettacoli “indecorosi”, come le manifestazioni dei gilet gialli in
Francia, degli elettori di Trump negli Stati Uniti e dei “No Vax” in tutto il
mondo, viene bollata con accuse di “neofascismo”.
Le
sole manifestazioni accettabili sono quelle per i “diritti delle minoranze Lgbt”,
dei migranti o per la “tutela dell’ambiente”, e devono essere pacifiche,
allegre e variopinte come quelle di movimenti come “MeTo” e “Friday for Future”.
Per inciso, nota “Wagenknecht”, a queste
ultime non hanno partecipato più dell’80% dei giovani, mentre i due terzi dei
partecipanti hanno annesso di appartenere a un ceto sociale elevato.
Passiamo
all’altra faccia dello specchio.
I proletari votano a destra perché si sono convertiti in massa al
fascismo, o solo perché l’assoluta assenza di empatia del nuovo ceto medio nei
confronti delle loro esigenze e dei loro timori non lascia a queste persone
altre alternative per esprimere la propria rabbia?
Questa
per “Wagenknecht” è ovviamente una domanda retorica che ammette solo la seconda
risposta.
Le radici della rabbia affondano nel venir
meno di ogni senso di sicurezza e continuità.
La mistica del cambiamento e del rischio che
esalta il nuovo ceto medio, per i membri delle classi subalterne, che hanno
bisogno di sapere che cosa accadrà domani, è viceversa associato a un
angosciante senso di precarietà e insicurezza esistenziali.
Nel
trentennio postbellico lo Stato aveva imposto limitazioni alla corsa al
profitto privato, alla cui logica aveva sottratto la sanità, l’educazione, il
diritto alla casa, le comunicazioni e alcuni servizi fondamentali come
elettricità, acqua e trasporti pubblici.
La
rivoluzione neoliberale ha spazzato via in tempi brevissimi questi presidi che
garantivano sicurezza e protezione.
Nei
primi cinque anni del “governo Tatcher” è andato in fumo un terzo dei posti di
lavoro industriali.
Globalizzazione,
decentramento produttivo nei Paesi a basso costo del lavoro, outsourcing dei
servizi interni alle imprese hanno fatto il resto.
Il nocciolo duro del proletariato industriale,
caratterizzato da una cultura del lavoro fondata anche sull’orgoglio
professionale (non si lavorava “solo per denaro ma per fare qualcosa di utile di andare
fieri, non si voleva solo fare un lavoro ma farlo bene”), è stato rimpiazzato
da un coacervo di mestieri dislocati nella logistica, nella grande
distribuzione, nei servizi di cura e assistenza, tutti lavori precari, mal
retribuiti e lontani dal garantire una qualche forma di soddisfazione
professionale.
Un capitalismo finanziarizzato, in cui il reddito proviene dalle
rendite patrimoniali più che dal lavoro, ha alimentato disuguaglianze, aumento
dei debiti pubblici e privati e immiserimento di massa, al punto che le
aspettative di vita della classe media di un Paese ricco come gli Stati Uniti
si sono drasticamente ridotte a causa del diffondersi dell’alcolismo, dei
suicidi e dell’abuso di psicofarmaci.
La
divaricazione alto/basso si evidenzia con particolare nettezza a proposito di
temi come l’ambiente e l’immigrazione.
In
entrambi i casi il nuovo ceto medio e le forze politiche che lo rappresentano
propongono un’analisi irrealistica del problema e soluzioni che non tengono in
alcun conto gli interessi delle classi subalterne.
Partiamo dall’ambiente.
Le analisi dei Verdi non vanno alla radice
delle cause del degrado ambientale – la logica del profitto capitalistico – ma
puntano il dito contro i comportamenti individuali, alimentando l’illusione
secondo cui basterebbe cambiare stile di vita per salvare il pianeta.
Ovviamente a cambiare stile di vita dovrebbero essere
soprattutto i poveri le cui pratiche anti ecologiche vengono addebitate a
ignoranza e incuria e non alla necessità di risparmiare, per cui si propone di
penalizzare determinati consumi di massa (per esempio il carburante diesel) con
rincari che “renderebbero nuovamente beni di lusso molti oggetti di consumo e
servizi comuni cui grandi fette di popolazione non avrebbero più accesso”.
Veniamo
all’immigrazione.
L’ideologia
delle sinistre cosmopolite che predicano l’accoglienza indiscriminata e senza
limiti non fa distinzione fra chi è costretto a emigrare dai disastri provocati
dall’imperialismo occidentale e chi lo fa per scelta, rimuovendo il fatto che
questi ultimi non sono affatto i più poveri, che non hanno i mezzi per farlo
per farlo, bensì i corrispettivi dei ceti medi emergenti dei Paesi occidentali.
Così
aumentano ovunque i medici del terzo mondo e i paesi poveri finanziano la
formazione di specialisti che verranno sfruttati dai paesi ricchi, assistiamo
cioè a un sovvenzionamento del Nord da parte del Sud che viene depauperato di
forza lavoro qualificata (venti milioni di lavoratori dell’Est sono venuti in
Germania dopo l’ingresso dei loro Paesi nella Ue).
I
padroni ottengono così il duplice obiettivo di usufruire di forza lavoro a
basso costo e di dividere i lavoratori, ma anche il ceto medio dei laureati ha
il suo tornaconto:
la disponibilità di servizi di cura alla
persona garantisce infatti un aumento del loro potere d’acquisto.
A pagare per tutti questi vantaggi sono i
quartieri poveri in termini di concorrenza per le abitazioni, degrado delle scuole
e dei servizi locali.
Il fatto poi che le nuove ondate migratorie
giunte in Germania negli ultimi anni dalla Siria e altri Paesi del Medio
oriente abbiano faticato a trovare lavoro e vivano di sussidi, alimenta nei
ceti subalterni l’idea che questi soldi vanno a persone che non c’entrano nulla
con noi né hanno lavorato per meritarsele.
Fin
qui il discorso fila e, pur non apportando sostanziali novità a quanto già
argomentato da altri autori, ha il merito di approfondire la situazione tedesca
evidenziandone la sostanziale convergenza con quella degli altri Paesi
dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti.
Le perplessità nascono laddove, come
anticipato in sede introduttiva, la “Wagenknech”t si sforza di riscattare il
concetto di sinistra, sia riagganciandolo – acriticamente – alla tradizione
della socialdemocrazia tedesca, sia temperando il giudizio sulla sinistra
neoliberale nel tentativo di distinguerla dal neoliberismo economico, il che la
induce a imboccare una strada che conduce a un pasticcio ideologico che ha
scarse chance di contribuire alla costruzione di un’alternativa al “dominio
neoliberale”.
Sulla
conversione delle sinistre al neoliberalismo disponiamo già del contributo, fra
gli altri, di autori come “Nancy Fraser” che ha coniato la formula “neoliberismo
progressista” per denotare l’alleanza fra liberalismo di sinistra e liberismo economico
, o di “Wolfgang Streeck”, che nei suoi lavori parla della fine della liberal
democrazia dovuta al definitivo divorzio fra liberalismo e democrazia, ma l’approccio di “Wagenknecht”,
forse perché è più lontana dalla cultura marxista degli autori appena citati, è
decisamente meno radicale.
Pur
riconoscendo che fra liberalismo di sinistra e neoliberismo economico esistono
molte convergenze, in quanto riflettono entrambi la visione di strati sociali
che sono stati premiati dai grandi mutamenti socioeconomici degli ultimi
decenni, continua a coltivare l’illusione che esista un liberalismo di sinistra
non ispirato al liberismo economico.
È vero che questa differenza si riduce alla
disponibilità a tenere in vita un welfare “riformato”, fondato su provvedimenti
come l’istituzione di un reddito di base incondizionato che, invece di
promuovere politiche finalizzate al conseguimento di uno stato di piena e buona
occupazione, si limitano a offrire ai poveri un’assistenza di tipo umanitario,
ciò non toglie, secondo “Wagenknecht”, che queste differenze conservino traccia
della sinistra liberale “classica”, che nulla avrebbe a che fare con l’attuale
neoliberismo “progressista”.
Per
sinistra liberale “classica”, “Wagenknecht” intende movimenti come la “sinistra
laburista di Corbyn “e quella “democratica di Sanders” o, per restare in
Germania, le “ali di sinistra di SPD e Linke.
Il che implica che, secondo lei, per rianimare una
sinistra degna di questo nome, basterebbe restituire centralità al ruolo dello
Stato (di questo Stato) in economia, senza che ciò debba essere necessariamente
associato a un progetto di trasformazione sistemica;
progetto
che del resto, a partire dalla svolta di “Bad Godesberg”, non fa più parte
della cultura socialdemocratica tedesca.
La
“sua” sinistra dovrebbe essere “liberale e tollerante” e collocarsi nella “tradizione
dell’illuminismo occidentale” che l’autrice assume come un complesso di valori
universali privi di connotazioni storiche e politiche.
Insomma”
Wagenknecht" è una liberale (“classica”) senza se e senza ma, al punto che
si compiace nello scrivere che “oggi la maggioranza dei cittadini pensa in maniera
molto più liberale rispetto a pochi decenni fa, lo spirito dei tempi è
solidamente liberale” e che “il nostro sistema politico è ancora liberale e bisogna
sperare che continui ad esserlo”.
Di
più: da buona tedesca, “Wagenknecht “non si rifà semplicemente alla tradizione
liberale bensì
a quella dell’ordoliberalismo, un pensiero che esalta in quanto impegnato a limitare il
potere dei monopoli e garantire le condizioni di una “sana” concorrenza e che,
a suo avviso, fino agli anni Novanta, avrebbe premiato “il merito, gli sforzi
per migliorarsi e l’operosità individuale”.
Non
una parola sul fatto che la “libera” concorrenza (Marx docet) genera monopolio,
che il merito e la competizione individuale per migliorarsi sono stati la base
ideologica su cui è venuta crescendo quella sinistra alla moda che giustamente
le sta sui nervi.
Non
una parola sul fatto che la potenza e il benessere del suo Paese si fonda su un
modello di sviluppo mercantilista che ha potuto sfruttare, grazie all’egemonia
tedesca sulla Ue, il lavoro a basso costo degli operai del Sud e dell’Est
Europa.
Infine
rammarico per un’industria tedesca che sarebbe in crisi non a causa delle
contraddizioni interne al suo modello di sviluppo bensì delle “importazioni
cinesi basate sul dumping”, puntando il dito contro quella Cina “che
intrattiene con la democrazia e con i diritti civili un rapporto quale non ci
augureremmo mai in Europa”.
In conclusione mi scappa da dire:
cara” Sahra” non capisci che quella sinistra
alla moda che giustamente ti irrita è l’erede della tradizione liberal
socialista del tuo Paese che oggi ti ispira tanta nostalgia?
Guerra,
divisione del mondo
o fine
di un impero?
di
Thierry Meyssan.
Sinistrainrete.info
– (18 aprile 2023) – Thierry Meyssan – ci dice:
In
molti pronosticano una guerra mondiale.
Infatti
alcuni gruppi vi si preparano.
Ma gli Stati sono ragionevoli e, nei fatti,
pensano piuttosto a una separazione consensuale, a una divisione del mondo in
due mondi diversi, il primo unipolare, l’altro multipolare.
Ma
forse si delinea un terzo scenario:
l’“Impero
americano” non si dibatte nella trappola di Tucidide, sta collassando come l’ex
rivale, l’Unione Sovietica.
Gli
straussiani statunitensi, i nazionalisti integralisti ucraini, i sionisti
revisionisti israeliani, nonché i militaristi giapponesi si augurano una guerra
generalizzata.
Sono
isolati, sicuramente non sono movimenti di massa. Al momento nessuno Stato
sembra volersi avviare su questa strada.
La
Germania con cento miliardi di euro e la Polonia con molta meno disponibilità
finanziaria si stanno riarmando pesantemente.
Entrambe però non sembrano impazienti di
misurarsi con la Russia.
Anche
l’Australia e il Giappone investono negli armamenti, ma entrambi non hanno
forze armate autonome.
Gli
Stati Uniti non riescono a rinnovare gli effettivi delle loro forze armate e
non sono più in grado di inventare nuove armi.
Si accontentano di produrre in serie quelle
degli anni Ottanta.
Tuttavia salvaguardano la loro potenza
militare nucleare.
La
Russia ha già modernizzato le forze armate e si sta organizzando per sostituire
le munizioni usate in Ucraina e per produrre in serie nuove armi per le quali
non ha concorrenza.
Quanto alla Cina, si sta riarmando per
controllare l’Estremo Oriente e per proteggere in prospettiva le sue vie
commerciali.
L’India ambisce a diventare potenza marittima.
Non si
capisce quindi chi potrebbe desiderare e quindi scatenare una guerra mondiale.
Al
contrario di quanto affermano, i dirigenti francesi non stano affatto
preparandosi a una guerra ad alta intensità.
La legge di programmazione della spesa militare,
ripartita su un decennio, prevede la costruzione di una portaerei nucleare, ma
ridimensiona l’esercito.
Il piano è dotarsi di mezzi di proiezione, ma
non di difesa del territorio.
Parigi
insiste a ragionare come potenza coloniale, mentre il mondo diventa
multipolare.
È un
classico caso: i generali si preparano ad affrontare guerre come quelle di
ieri, non sanno vedere la realtà di quelle di domani.
L’Unione
Europea sta realizzando la “Bussola Strategica”.
Con cui la Commissione coordina gli investimenti
militari degli Stati membri:
tutti stanno alle regole, ma ciascuno persegue
il proprio scopo.
La Commissione tenta di assumere il controllo
delle decisioni di spesa militare, finora di competenza dei parlamenti
nazionali.
Un
modo per costruire un impero, ma non per dichiarare una guerra generalizzata.
Ognuno
ovviamente fa il proprio gioco, ma, all’infuori di Russia e Cina, nessuno si
sta preparando a una guerra ad alta intensità.
Assistiamo
piuttosto a una redistribuzione delle carte.
Questo
mese Washington manda in Europa “Liz Rosenberg” e “Brian Nelson”, specialisti
delle misure coercitive unilaterali.
Hanno
l’incarico di costringere gli Alleati a obbedire, in ottemperanza alla famosa
formula dell’ex presidente George Bush Jr. durante la guerra «contro il
terrorismo»:
«Chi non è con noi è contro di noi!».
“Liz
Rosenberg” è efficiente e senza scrupoli: è lei che ha messo in ginocchio
l’economia siriana, condannando milioni di persone alla miseria solo perché
hanno osato resistere e sconfiggere gli ausiliari dell’Impero.
Il
discorso da western hollywoodiano alla George Bush Jr, quello dei buoni e dei
cattivi, non ha avuto successo con la Turchia, che già ha dovuto fare i conti
con il colpo di Stato del 2016 e il terremoto del 2023.
Ankara sa che non può aspettarsi niente di
buono da Washington e già guarda all’”Organizzazione per la Cooperazione” di
Shanghai.
Ma il
discorso dovrebbe avere successo con gli europei, tutt’ora affascinati dalla
potenza degli Stati Uniti.
Che naturalmente è potenza in declino, ma
anche gli europei lo sono.
Nessuno, quindi, ha tratto lezione dal
sabotaggio dei gasdotti Nord Stream di Russia-Germania-Francia-Paesi Bassi.
Non
soltanto le vittime hanno incassato il colpo senza reagire, ma si preparano a
ricevere altre punizioni per crimini che non hanno commesso.
Il
mondo dovrebbe perciò dividersi in due blocchi; da una parte l’iperpotenza
statunitense e i suoi vassalli, dall’altra il mondo multipolare.
Come numero, gli Stati dovrebbero dividersi a
metà, ma come popolazione solo il 13% rientra nel blocco occidentale, a
cospetto dell’87% nel mondo multipolare.
Già
ora le istituzioni internazionali funzionano con difficoltà.
Dovrebbero
o andare in letargo o venire sciolte.
I
primi esempi cui pensiamo sono l’uscita effettiva della Russia dal “Consiglio
d’Europa” e i seggi vuoti dell’Europa occidentale al “Consiglio dell’Artico”
durante l’anno di presidenza russa.
Anche altre istituzioni hanno poca ragione di
esistere; per esempio l’”Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa” (OSCE), che avrebbe dovuto organizzare il dialogo est-ovest.
Solo
il permanere di Russia e Cina dovrebbe preservare a breve termine le Nazioni
Unite:
gli
Stati Uniti stanno già coltivando l’idea di trasformare” l’Organizzazione in
struttura riservata alle nazioni alleate”.
Il
blocco occidentale dovrebbe riorganizzarsi.
Finora il continente europeo è stato dominato
economicamente dalla Germania. Per assicurarsi che questa non si avvicini mai
alla Russia, gli Stati Uniti vogliono che Berlino si accontenti della parte
occidentale del continente, lasciando la parte centrale nelle mani di Varsavia.
La
Germania e la Polonia ora si armano per imporsi nelle rispettive zone
d’influenza, ma quando l’astro statunitense impallidirà si combatteranno.
Al
momento della caduta l’Unione Sovietica ha abbandonato gli alleati e i
vassalli.
Avendo
preso atto di essere incapace di risolvere i problemi, l’URSS ha innanzitutto
privato Cuba del sostegno economico, poi abbandonato a loro stessi i vassalli
del Patto di Varsavia, infine è crollata su sé stessa.
Oggi comincia un processo analogo.
La
prima guerra del Golfo degli Stati Uniti, poi gli attentati dell’11 Settembre
con il corollario di guerre nel Medio Oriente Allargato, indi l’allargamento
della Nato e il conflitto ucraino avranno concesso solo tre decenni di
sopravvivenza all’impero americano:
si
appoggiava all’ex rivale sovietico e con la sua dissoluzione ha perso la
propria ragione di essere.
È
tempo che sparisca.
Salvataggio
da Matrix.
Unz.com
– (23-5-2023) - MIKE WHITNEY – ci dice:
Una
recensione del nuovo libro di “Paul Craig Roberts”, "Empire Of Lies"
"Di
tutte le specie in via di estinzione, la Verità è la più minacciata. La sto
guardando uscire".
(Paul
Craig Roberts, 4 settembre 2019)
Ciò
che rende la scrittura di “Paul Craig Roberts” così potente, è la sua capacità
di tagliare le false narrazioni e identificare le agende dell'élite che stanno
plasmando gli eventi.
Questo è il lavoro di un narratore di verità
che è la designazione che viene tipicamente applicata a Roberts.
Il termine si riferisce a una persona di
profonde convinzioni morali che dedica la sua vita a esporre le bugie e le
invenzioni dello stato e dei suoi alleati corrotti.
Questo
è ciò che Roberts ha fatto per più di 40 anni, ed è per questo che migliaia di
persone in tutto il mondo affollano il suo sito web ogni giorno.
Sanno
che i suoi post saranno incisivi, ben studiati e coinvolgenti.
Ancora
più importante, sanno che farà ogni sforzo per portare loro la verità nuda e
cruda proprio come ha fatto per più di quattro decenni.
L'ultima
raccolta di saggi di Roberts, intitolata” Empire Of Lies”, è un assortimento di
articoli che mostrano la notevole portata e profondità della conoscenza
dell'autore.
I
visitatori frequenti del suo sito web noteranno alcuni temi familiari qui,
mentre altri argomenti potrebbero non essere stati esplorati così a fondo.
Ad
esempio, ci sono molti saggi sulla fragile economia statunitense, il vaccino
"sperimentale" contro il Covid-19, la guerra in Ucraina, le elezioni
presidenziali rubate e la frode del 6 gennaio.
Allo stesso tempo, ci sono una serie di altri
articoli che in genere non si associano a Roberts.
Questi
includono un breve ma avvincente post sul 9-11, riflessioni minacciose
sull'anno 2022, la manipolazione dei mercati dei lingotti e un pezzo
sorprendente intitolato "La Germania non ha iniziato la seconda guerra
mondiale".
Ecco un breve estratto dall'articolo:
"Gli
obiettivi del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori... (era) per
correggere la disoccupazione causata da ingiuste riparazioni imposte alla
Germania... dopo la 1° guerra mondiale e per mettere la Germania... di nuovo
insieme. ...
La 2°
guerra mondiale iniziò quando il governo Churchill e i francesi... dichiarò
guerra alla Germania. ...
Il
leader tedesco, “Adolf Hitler”, aveva riacquistato i territori tedeschi dati a
Danimarca, Francia e Cecoslovacchia dall'umiliante Trattato di Versailles e si
era unito all'Austria tedesca senza guerra.
La garanzia britannica incoraggiò la dittatura
militare polacca a rifiutarsi di negoziare la restituzione del territorio
tedesco.
Tutto
ciò che “Hitler” contribuì fu quello di costringere i paesi a cui era stato
dato il territorio tedesco dal Trattato di Versailles a liberare le terre e i
tedeschi, che erano pesantemente perseguitati in Cecoslovacchia e Polonia.
Il ripristino da parte di “HitlerW dei confini
nazionali della Germania fu travisato dalla stampa britannica e statunitense
come "aggressione tedesca".
Questa
falsa notizia dell'aggressione tedesca è stata utilizzata per costruire il caso
che la Germania, che stava semplicemente recuperando il suo territorio
nazionale e salvando il popolo tedesco dalle persecuzioni in Cecoslovacchia e
Polonia, era un aggressore con la conquista del mondo come obiettivo ...
“Hitler”
dichiarò molte volte che non voleva, o intendeva, la guerra con la Gran Bretagna
e la Francia e intendeva solo recuperare le popolazioni tedesche perdute rubate
alla Germania dall'ingiusto Trattato di Versailles.”
(Impero Di Bugie, Paul Craig Roberts, Korsgaard
Publishing, pagina 280, 2023)
In
questi pochi paragrafi, Roberts cancella le fondamenta su cui poggia la nostra
comprensione della 2° Guerra Mondiale. L'autore contesta le idee che:
Che
Hitler ha iniziato la guerra.
E che
la Polonia rappresentava il primo passo nel più ampio piano di Hitler per
conquistare il mondo.
Se nessuna
di queste due cose è vera, allora dobbiamo chiederci perché l'invasione della
Polonia da parte di Hitler è stata usata come pretesto per una guerra mondiale
in piena regola invece di essere trattata come una "disputa di
confine" regionale come ci si aspetterebbe?
Chiaramente, non c'era bisogno che la Francia
e l'Inghilterra dichiarassero guerra alla Germania quando la Germania stava
semplicemente recuperando i territori che aveva perso dopo Versailles.
Se le teste più fredde avessero prevalso, la 2°
guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata.
Ecco
di più dal testo:
“Durante
la sua ascesa politica, Hitler aveva appena nascosto il suo tentativo di
sloggiare la piccola popolazione ebraica tedesca dalla morsa che avevano
guadagnato sui media e sulla finanza tedesca, e invece di governare il paese
nel migliore interesse della maggioranza tedesca al 99%, una proposta che
provocò l'aspra ostilità degli ebrei ovunque.
Infatti, subito dopo il suo insediamento, un
importante giornale londinese aveva pubblicato un memorabile titolo del 1933
che annunciava che gli ebrei del mondo avevano dichiarato guerra alla Germania
e stavano organizzando un boicottaggio internazionale per affamare i tedeschi e
sottometterli.”
(Empire Of Lies, Paul Craig Roberts, Korsgaard
Publishing, pagina 286, 2023)
Questo
è un altro estratto sorprendente che è in conflitto con le narrazioni storiche
propagate in Occidente.
Negli Stati Uniti, agli studenti viene detto
che il trattamento degli ebrei da parte di Hitler era alimentato dal suo
insaziabile antisemitismo, ma qui l'autore suggerisce che c'erano anche ragioni
sociali ed economiche per le sue politiche.
Ciò non diminuisce la gravità delle
depredazioni di Hitler, ma crea una spiegazione più plausibile del perché gli
eventi si sono svolti in quel modo.
Per lo
meno, Roberts fornisce un'analisi stimolante che si allontana dalla narrativa
troppo semplificata "Hitler era un maniaco omicida" che viene
utilizzata per rispondere a ogni domanda e per smussare efficacemente il
pensiero critico.
Al contrario, il trattamento di Roberts
dell'argomento genera curiosità che indirizza il lettore verso una maggiore
ricerca che è l'intenzione dell'autore.
Il
trattamento di Roberts della guerra civile è altrettanto provocatorio. In un
capitolo intitolato “How We Know The So-Called "Civil War" Was Not
About Slavery,” Roberts contesta l'opinione ampiamente diffusa che la guerra
tra gli stati sia stata lanciata per liberare gli schiavi.
Ecco
un estratto dal pezzo che aiuta a spiegare:
“Due giorni prima dell'insediamento di
Lincoln come 16° presidente, il Congresso, composto solo dagli stati del nord,
approvò in modo schiacciante il 2 marzo 1861, l'”emendamento Corwin” che dava
protezione costituzionale alla schiavitù.
Lincoln approvò l'emendamento nel suo discorso
inaugurale dicendo: "Non ho obiezioni a che sia reso esplicito e
irrevocabile".
Abbastanza
chiaramente, il Nord non era pronto ad andare in guerra per porre fine alla
schiavitù quando proprio alla vigilia della guerra il Congresso degli Stati Uniti e il
presidente entrante erano in procinto di rendere incostituzionale l'abolizione
della schiavitù.
Qui
abbiamo la prova assoluta che il Nord voleva che il Sud rimanesse nell'Unione
molto più di quanto il Nord volesse abolire la schiavitù.
La
vera questione tra Nord e Sud non poteva essere conciliata sulla base della
schiavitù accomodante.
Il
vero problema era l'economia, come hanno documentato “Di Lorenzo”, “Charles
Beard” e altri storici.
Il Nord si offrì di preservare la schiavitù in
modo irrevocabile, ma il Nord non offrì di rinunciare alle alte tariffe e alle
politiche economiche che il Sud considerava ostili ai suoi interessi.”
(Empire Of Lies, pagina 221)
Più
avanti nel testo, Roberts solleva una citazione dal discorso inaugurale di
Lincoln che supporta ulteriormente il suo punto di vista.
Lincoln ha detto:
"Non
ho alcun scopo, direttamente o indirettamente, di interferire con l'istituzione
della schiavitù negli stati in cui esiste.
Credo di non avere alcun diritto legale di
farlo, e non ho alcuna inclinazione a farlo".
Roberts
presenta il suo caso in modo razionale e persuasivo, ma Lincoln ha fatto altri
commenti che sembrano essere in conflitto con quelli sopra.
Ha
anche detto:
"Il governo non può sopportare
permanentemente metà schiavo, mezzo libero" e che la mente pubblica deve
riposare nella convinzione che la schiavitù sia in via di estinzione finale.
Anche così, l'approvazione dell'”emendamento
Corwin nel 1861” suggerisce fortemente che il Congresso non aveva intenzione di
andare in guerra per porre fine alla schiavitù, altrimenti non avrebbero
sostenuto il disegno di legge.
Quindi, com'è possibile che così tanti
americani si aggrappino all'idea che la guerra civile sia stata una lotta per
porre fine alla schiavitù?
Proprio
come gli storici hanno cercato di descrivere la seconda guerra mondiale come un
intervento "moralmente inequivocabile", così anche gli storici hanno
trasformato la guerra civile da una sanguinosa disputa sulle tariffe in una
giusta lotta contro la schiavitù umana.
Sfortunatamente, la propaganda non si allinea
con i fatti, il che suggerisce che erano coinvolti fattori più banali.
Le
azioni di Lincoln non erano guidate da qualche principio superiore più di
quanto gli sforzi di “FDR” per trascinare il paese nella seconda guerra
mondiale mirassero a "sconfiggere il fascismo".
In
entrambi i casi, i presidenti hanno perseguito politiche volte a schiacciare i
loro nemici aumentando il potere dello stato.
È
compito dello storico di corte far apparire questi ricorrenti bagni di sangue
come nobili crociate morali, ma non lo sono, motivo per cui siamo fortunati ad
avere ricercatori come Roberts per spogliare la falsità e smascherare le
macchinazioni egoistiche della cruda ambizione politica.
In un
altro capitolo intitolato “The Proof is In: The Election Was Stolen”, Roberts
contesta l'esito delle elezioni presidenziali del 2020 non sulla base di “snafus”
della macchina elettorale o del fiasco del voto per posta o di uno qualsiasi
degli altri problemi tecnici che affliggono le elezioni.
Invece,
presenta una serie di osservazioni di "buon senso" che rivelano
l'assoluta implausibilità di una vittoria di Biden.
Dai
un'occhiata:
Considera
che l'account Twitter di Joe Biden ha 20 milioni di follower.
L'account
Twitter di Trump ha 88,8 milioni di follower.
Si
consideri che Facebook di Joe Biden ha 7,8 milioni di follower.
L'account Facebook di Trump ha 34,72 milioni
di follower.
Quanto è probabile che una persona con 4 o 5
volte il seguito del suo rivale abbia perso le elezioni?
Considera
che le apparizioni elettorali di Trump sono state molto frequentate, ma che
quelle di Biden sono state evitate ...
Si
consideri che, nonostante il totale fallimento di Biden nell'animare gli
elettori durante la campagna presidenziale, ha ottenuto 15 milioni di voti in
più rispetto a Barack Obama nella sua rielezione del 2012.
Si
consideri che Biden ha vinto nonostante il voto di Hillary Clinton del 2016 in ogni
paese urbano degli Stati Uniti, ma ha superato Clinton a Detroit, Milwaukee,
Atlanta e Philadelphia controllate dai democratici, le città precise in cui è
stata commessa la frode elettorale più evidente e palese.
Si
consideri che Biden ha vinto nonostante Trump abbia migliorato il suo voto del
2016 di dieci milioni di voti e il sostegno record di Trump da parte degli
elettori delle minoranze.
Si
consideri che Biden ha vinto nonostante abbia perso le contee” bell-weather “che
hanno sempre previsto l'esito delle elezioni e gli stati “bell-weather”
dell'Ohio e della Florida.
Si
consideri che Biden ha vinto in Georgia, uno stato completamente rosso con un
governatore rosso e una legislatura rossa sia alla Camera che al Senato. In
qualche modo uno stato rosso ha votato per un presidente blu.
Considerate
che Biden ha vinto nonostante i democratici abbiano perso rappresentanza alla
Camera".
(Empire
Of Lies, Paul Craig Roberts, Korsgaard Publishing, pagina 324, 2023)
Ci
sono molte altre di queste osservazioni illuminanti nel libro, ma tutte
sottolineano lo stesso triste fatto;
che le elezioni sono state rubate e che l'uomo
sbagliato ora siede alla Casa Bianca.
È
molto intelligente da parte di Roberts evitare astrusi problemi tecnici e far
valere le sue ragioni sulla base delle evidenti incongruenze che la gente
comune può capire.
L'idea che Joe Biden, che non è stato in grado
di attirare abbastanza sostenitori per riempire una piccola palestra, abbia
ottenuto 15 milioni di voti in più di Barack Obama è estremamente ridicola.
Roberts
dovrebbe essere applaudito per aver dedicato del tempo a creare questa
avvincente compilazione che rafforza notevolmente la sua tesi che le elezioni
sono state truccate.
Questo
è ciò che ci aspettiamo da Roberts che fa sempre il possibile per portare la
verità ai suoi lettori.
Il suo ultimo contributo,” Empire Of Lies”,
segue la stessa tradizione.
Il
libro è un riassunto variegato del recente lavoro dell'autore che copre una
vasta gamma di argomenti che includono tutto, dai neonazisti in Ucraina alla
manipolazione dei prezzi dell'oro.
È una lettura affascinante che si muove
rapidamente grazie all'unicità dell'argomento e allo stile di scrittura
schietto ma esplosivo di Roberts.
In
poche parole, c'è qualcosa qui per tutti.
Concludo con una citazione dal discorso di
accettazione del “Nobel di Harold Pinter” che, in molti modi, avrebbe potuto
essere una
descrizione di Paul Craig Roberts:
"La
vita di uno scrittore è un'attività altamente vulnerabile, quasi nuda. ... Sei
fuori da solo, su un arto. Non trovi riparo, nessuna protezione – a meno che tu
non menta...
Credo
che, nonostante le enormi difficoltà esistenti, la determinazione intellettuale
inflessibile, incrollabile e feroce, come cittadini, di definire la vera verità
delle nostre vite e delle nostre società sia un obbligo cruciale che ricade su
tutti noi. È infatti obbligatorio.
Se
tale determinazione non è incarnata nella nostra visione politica, non abbiamo
alcuna speranza di ripristinare ciò che è così quasi perduto per noi: la
dignità dell'uomo".
(Harold
Pinter, Nobel Lecture, 2005)
Ripeto:
"... Determinazione intellettuale inflessibile, incrollabile,
feroce".In effetti, questo è Roberts in poche parole.
“ARTA
MOEINI”, LA CRISI DELLA MODERNITÀ
LIBERALE
E LA RISPOSTA TOTALITARIA.
A CURA
DI ROBERTO BUFFAGNI.
Italiaeilmondo.com
– (26 Febbraio 2023) – Giuseppe Germinario – ci dice:
Questo
intelligente e ambizioso saggio si propone di indagare la “trasformazione del liberalismo in
totalitarismo morbido”, riconducendola alla logica interna del liberalismo come manifestazione della Modernità.
(L’Autore, Arta Meini, è uno dei
redattori fondatori di “AGON”.
Il dott. Meini è un teorico della politica
internazionale e direttore di ricerca presso lo” Institute for Peace &
Diplomacy”.)
È
interessante, oltre che curioso, notare che l’analisi di Meini coincide in più
punti con quella che io ho delineato in forma sintetica in questi due articoli:
GUERRA
IN UCRAINA. QUAL È LA POSTA IN GIOCO CULTURALE? del 17 marzo 2022 e REALTA’ PARALLELA E
REALTA’ DELLA GUERRA II PARTE, del 28 marzo 2022.
Interessante
e curioso perché Meini è un nietzschiano, io un cattolico conservatore. La
parziale confluenza delle nostre analisi si realizza nel realismo politico da
entrambi condiviso, a partire da diversissimi presupposti culturali.
(agonmag.com/p/the-crisis-of-liberal-modernity-and).
La
crisi della modernità liberale e la risposta totalitaria.
Il
paradosso della libertà e la fissazione messianica dell’uguaglianza
galvanizzano le tendenze dispotiche della modernità.
(Arta
Meini)
Le
democrazie industrializzate avanzate stanno vivendo tempi spaventosi e strani,
caratterizzati da crisi apparentemente senza fine, isteria di massa e una
successione di emergenze, il tutto amplificato dallo Stato e dalle istituzioni
di propaganda sociale, nominalmente indipendenti, con cui ha sviluppato un
rapporto simbiotico.
L’analisi
offerta dalla maggior parte dei critici della nostra attuale situazione –
quelli giustamente allarmati dagli eccessi del securitarismo, della
centralizzazione, del globalismo e dello statalismo – è più o meno questa:
che il
liberalismo moderno o l’ordine neoliberale rappresentano una perversione del
liberalismo classico o delle origini e che solo restaurandoli e tornando ai
loro principi originari i buoni liberali dell’Occidente potrebbero raddrizzare
la rotta e porre rimedio alla situazione.
Tali
affermazioni non sono del tutto errate, ma sono superficiali.
Il
dilagare dello Stato manageriale liberale in un “Leviatano totalitario e di
portata mondiale” è in parte il risultato degli stessi successi della visione
liberale del mondo – quello che potremmo definire il “progetto moderno” –
nonché il naturale culmine di tre antinomie fondamentali per il liberalismo.
Come
siamo arrivati qui?
L’attuale
tempesta distopica si sta rafforzando da tempo, almeno dall’inizio del XXI
secolo.
Non
solo l’attacco terroristico dell’11 settembre ha spinto la macchina bellica
statunitense a una serie di guerre senza fine in una guerra globale al
terrorismo, ma l’amministrazione di George W. Bush ha sfruttato quella tragedia
e la minaccia di Al-Qaeda per consolidare e razionalizzare ulteriormente un
regime di sorveglianza che ha drammaticamente ampliato e abusato del” Foreign
Intelligence Surveillance Act” (FISA).
Tre
presidenti democratici e repubblicani più tardi, l’intelligence statunitense –
con la complicità delle Big Tech – continua a sorvegliare in massa gli
americani sul territorio degli Stati Uniti con scarsa trasparenza e
supervisione.
Lo
spettro del Covid-19 ha solo accelerato questa tendenza allarmante e ha
allargato la portata della securitizzazione e della politica della paura alla
salute pubblica.
Da un giorno all’altro, molti governi
occidentali si sono trasformati in Stati di biosicurezza, imponendo passaporti
per il vaccino, limitando i viaggi e rinchiudendo i propri cittadini in nome
della sicurezza pubblica.
Si è sempre dubitato che tali misure
draconiane fossero necessarie o addirittura utili a “rallentare la diffusione” di un virus altamente trasmissibile
(come dimostrato dalle varianti Delta e Omicron).
Tuttavia,
la gestione bellica del virus da parte di Stati Uniti, Canada, Australia, Regno
Unito e molti Paesi europei ha creato un clima marziale in cui era
essenzialmente accettabile trattare i “non vaccinati” come cittadini di seconda
classe, persino come una pericolosa minaccia, con la minima considerazione per
la sovranità corporea o lo scetticismo scientifico.
Nel
2022, la famosa nozione di “stato di eccezione” di “Carl Schmitt” era diventata
una caratteristica ordinaria della vita in molte parti del mondo.
Una situazione
in cui il sovrano trascende la sua autorità politica e costituzionale
apparentemente per proteggere il pubblico da una qualche emergenza in una
società sempre più polarizzata sembra essere diventata la nuova normalità nel
mondo occidentale.
Un anno
fa, nel febbraio 2022, due eventi distinti, apparentemente non correlati, hanno
catturato la condizione dispotica e distopica del nostro Zeitgeist.
In primo luogo, le proteste pacifiche
organizzate dai camionisti canadesi contro gli eccessi delle norme Covid, note
come “Freedom Convoy,” sono state stroncate dalla piena mobilitazione dello
Stato canadese, con l’esplicito appoggio del governo statunitense e delle
multinazionali.
Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha
dichiarato lo stato di emergenza, permettendo al suo governo di ignorare e
calpestare le libertà civili dei canadesi in nome della sicurezza.
All’epoca,
il famoso giornalista americano “Matt Taibbi” lo paragonò alle azioni del
dittatore rumeno “Nicolae Ceauşescu”.
Un’inchiesta
ufficiale sull’episodio, pubblicata questo mese, ha tuttavia rilevato che
l’ordine di emergenza aveva raggiunto la “soglia molto alta” di un’emergenza
nazionale.
Nonostante
la sua “riluttanza” a schierarsi con il governo Trudeau, il commissario Giudice
“Paul Rouleau” ha scritto che “la libertà non può esistere senza ordine”.
L’implicazione
è che è il governo che può decidere cosa costituisce “libertà” e quali sono i
suoi limiti.
Vivere
in quello che Carl Schmitt chiamava “stato di eccezione” è diventata la nuova
normalità nelle società occidentali.
In
secondo luogo, “The Blob”, l’establishment che dirige la politica estera USA, e
i suoi alleati nei media mainstream, hanno suonato le sirene di una guerra
santa per difendere la nascente “democrazia” ucraina – e, a quanto pare, lo
stile di vita occidentale – dal cattivo e autoritario Vladimir Putin.
Galvanizzati
da molti membri dell’amministrazione Biden, i falchi del Nord Atlantico hanno
adottato un duplice approccio alla loro agenda interventista, facendo leva sul
moralismo dei loro gruppi di pari e sulle corde del cuore delle masse per
propagandare le loro dubbie – e altamente ideologiche – affermazioni sulla vitalità
geopolitica dell’Ucraina e sulla sua importanza per l’alleanza occidentale.
Con
una vittoria occidentale realisticamente impossibile, il “wishful thinking”, le
esortazioni manichee e le proclamazioni veementi dei leader occidentali hanno
avuto come unico risultato quello di prolungare la guerra, congelare il
conflitto, impedire una soluzione diplomatica e approfondire la dipendenza
dell’Europa dagli Stati Uniti e dalla NATO.
Questa
politica ha imposto un enorme tributo ai civili ucraini e ha gravato sulle
economie e sulle popolazioni occidentali con un’inflazione e una carenza di
energia senza precedenti.
Senza contare che aumenta drammaticamente il
rischio di escalation militare e lo spettro di un’apocalisse nucleare.
Ma punire la Russia, presumibilmente, vale
tutto questo e molto di più.
Questi
episodi evidenziano anche la propagazione sistemica e selettiva
dell’informazione e il securitarismo del discorso intorno alla “crisi attuale”
sempre rigenerata come crisi “di emergenza” del momento, senza la quale è
difficile mantenere e giustificare la politica della paura e dell’eccezione.
Infatti, stabilire un resoconto di base della
crisi adatto all’inflazione di minacce, plasmare e influenzare la percezione
del pubblico in modi moralistici e produrre consenso intorno alla linea
d’azione desiderata sono fondamentali per ottenere i controlli psicologici e
sociologici – e il paradigma temporaneo del consenso – necessari per invocare i
poteri di emergenza.
Nel mondo post-Covid, l’Occidente si trova di fronte
alla terribile prospettiva di poter diventare il portabandiera di un nuovo tipo
di regime:
un regime socialmente totalizzante,
sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale,
mascherato dall’involucro gradevole della democrazia liberale.
Ma
quali sono il pathos filosofico e le basi sociologiche di un sistema che ha
reagito ed esagerato in modo così inquietante ed estremo da cooptare e armare
la crisi come strumento di legittimazione politica e di massimizzazione del
potere?
Uno
Stato socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore
dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato con l’involucro di
benessere della democrazia liberale, sta diventando il regime standard
dell’Occidente.
Per
svelare questo fenomeno inquietante, è necessario fare un viaggio nella storia
delle idee ed elaborare una genealogia critica della Modernità, la visione
paradigmatica del mondo e il complesso storico nato sulla scia delle guerre di
religione europee e dell’Illuminismo.
Dobbiamo identificare i codici ideologici alla base
della nostra attuale matrice sociale ed eseguire una diagnosi o un’autopsia del
paradigma e dello “zeitgeis”t che abitiamo.
I
malcontenti intrinseci del liberalismo.
Oggi,
soprattutto in Occidente e sempre più a livello globale, siamo tutti allevati
nella” modernità liberale”.
Un
modo per cercare di cogliere e sistematizzare le basi della condizione moderna
è quello di intenderla come “forma di vita” liberale o Weltanschauung, in cui
la vita diventa inseparabilmente legata alla politica.
Sostengo
che la decadente culturale, la perdita di significato, l’angoscia esistenziale
e le dislocazioni politiche e sociali che debilitano l’Occidente sono innescate
da una crisi di legittimità al centro della visione liberale del mondo e dallo
sforzo del regime esistente di consolidare e preservare la propria autorità e
la struttura di potere esistente (in un momento in cui l’autorità dell’autorità
è sempre più messa in discussione).
Ma
cosa contraddistingue la Modernità come pathos filosofico e come si rapporta al
liberalismo?
La
modernità è certamente un concetto ambiguo e sfuggente: in un certo senso,
riflette la temporalità, intendendo semplicemente ciò che è attuale,
presenziale o nuovo.
Tuttavia,
ha anche una definizione filosofica e sostanziale:
una
particolare mentalità e un paradigma che arriva a dominare la costellazione di
valori dell’Occidente a partire dal XVI secolo con la Riforma protestante e poi
con l’Illuminismo.
Le sue caratteristiche sono riassunte
nell’espressione familiare “progetto moderno “.
Come
orientamento alla vita, la modernità rappresenta la sublimazione di ciò che il
filosofo tedesco” Friedrich Nietzsche” chiama la “pulsione apollinea”,
caratterizzata dal desiderio o dall’istinto umano di dominare e soggiogare la
materia e la natura, la volontà di creare ordine dal tragico disordine della
vita.
Alcuni
dei costrutti teorici ed epistemologici più influenti dell’era moderna sono
stati tentativi di incapsulare ed esprimere questa pulsione apollinea, dal
razionalismo e dallo scientismo all’utilitarismo e persino al marxismo.
Se la
modernità è la forma, il liberalismo è la sostanza originaria:
l’insieme
delle principali razionalizzazioni, lo schema teorico o filosofico, necessario
per portare avanti il progetto moderno e che può essere utilizzato anche per
dare un senso allo “Zeitgeist moderno” e ai suoi “baldacchini sacri” e
immaginari sociali sui generis, in gran parte secolari.
Man
mano che il paradigma liberale maturava in uno “Zeitgeist” che ha prima
plasmato l’esperienza vissuta e l’orizzonte dell’immaginazione dell’uomo occidentale
e poi ha consolidato il suo trionfo sulle visioni del mondo alternative con la
globalizzazione della Modernità, il suo stesso successo ha reso più pronunciate
ed esplicite le sue contraddizioni intrinseche.
Questo sviluppo, a sua volta, ha generato una
crisi di legittimità per il liberalismo, in cui si sono affermati
l’incredulità, il dubbio e il nichilismo, e la fede nelle premesse originali è
diventata sempre più incredibile.
Il “paradigma
liberale” ha condizionato l’esperienza vissuta dell’uomo occidentale e ha
trionfato sulle visioni del mondo alternative con la” globalizzazione della
Modernità”.
Il
liberalismo soffre di almeno tre antinomie originarie:
Dominazione
vs. Autonomia.
Il
liberalismo cattura la volontà moderna di dominio affermando il controllo
dell’uomo sulla materia e sulla natura.
L’agente umano viene considerato come la fonte
ultima dell’autorità, che si sottrae a Dio, alla Storia, alla Tradizione o alla
Natura.
Di
conseguenza, richiede una netta rottura con il passato e con le strutture
sociali tradizionali che sono viste come limitanti e costrittive per l’uomo.
La “libertà” dell’uomo, si ritiene, richiede
un progetto di liberazione sistemica dalle gerarchie e dalle norme del passato,
che sono ingombranti o oppressive, in modo da poter creare un nuovo ordine basato sull’autonomia
e sull’agenzia dell’individuo.
Questa
è la ragion d’essere del liberalismo nella sua fase iniziale.
La Rivoluzione francese, il Regno del Terrore
e le esecuzioni di massa che scatenò sotto il leader giacobino Maximilien
Robespierre illustrano al meglio il legame tra desiderio di liberazione e
desiderio di dominio.
Il fascino persistente della rivoluzione
violenta e dell’attivismo sociale nella psiche occidentale attraverso le
generazioni incarna questa disposizione paradossale.
Universalismo
vs. soggettivismo.
Il
liberalismo professa la fede in alcuni principi immutabili e universali (verità
autoevidenti) derivati da una concezione fissa della natura umana.
Essi sono fondamentali per la teoria dei
diritti (naturali).
Al
centro di questa antropologia filosofica – cioè la concezione liberale della
natura umana – c’è il possesso da parte dell’uomo della ragione e della volontà
razionale, di cui tutti, in quanto umani, sono partecipi in egual misura.
Tuttavia, se da un lato afferma l'”ethos dell’uguaglianza
“, dall’altro il liberalismo segna la svolta verso l’individualizzazione della
moralità, invitando al soggettivismo etico ed epistemologico.
Ciò porta a una forma di solipsismo in cui i valori,
la conoscenza e persino la realtà sono veri o oggettivi solo nella misura in
cui il singolo agente umano li ritiene tali.
Questa
visione è sostenuta dalla convinzione che la volontà razionale dell’uomo abbia
un’esistenza a priori, indipendente dalla società, dalla cultura, dalla storia
e dalle gerarchie di valore e di potere.
Sia
l’identitarismo moderno che la fissazione moderna per l’uguaglianza senza
riserve trovano qui le loro giustificazioni originali.
Perennialismo vs. perfettibilità dell’uomo (il mito
del progresso).
Dato
il suo impegno a favore di una natura umana fissa e universale, il liberalismo
è presenzialista e sprezzante nei confronti della storia e del divenire, che
considera una forza esterna alla natura essenziale dell’uomo come agente
autonomo (homo liber) e che quindi ritiene perturbante per la sua libertà.
Le formulazioni astratte e reificate del
liberalismo sradicano l’uomo dalla sua esistenza storica concreta e trascendono
le complessità della vita comunitaria.
Nel suo idealismo filosofico, il liberalismo
privilegia quindi la perennità dell’uomo come categoria nominale, ideativa e
immutabile rispetto all’uomo nella vita reale, come” homo cultus” saldamente
radicato in una rete estesa di relazioni familiari e sociali, inserito in
comunità storiche e cresciuto all’interno di particolari nazioni o culture.
Allo stesso tempo, forse influenzato dalla sua
discendenza e dal suo impulso protestante, il liberalismo ritiene che le
potenzialità, i poteri e la dignità dell’uomo non siano stati pienamente
realizzati – la sua apoteosi è stata interrotta – a causa dei vincoli
strutturali posti sull’uomo che lo separano dal suo” telos” universale.
Questo
astio contro l’ordine ereditato radica nel pensiero liberale un desiderio di
cambiamento che è in tensione con ciò che il liberalismo considera immutabile,
cioè la sua visione essenzialista dell’uomo come “homo liber”.
Poiché
trova sgradevole la realtà data – il mondo così com’è – il liberalismo deve
sviluppare un’apposita teoria della storia che possa accogliere il cambiamento
sociale.
L’obiettivo
della storia deve essere il progresso umano verso una società in cui tutti sono
completamente uguali e l’uomo è pienamente razionale, interamente libero e
perfettamente produttivo.
L’uomo
è un agente teleologico che attualizza la padronanza quasi sovrumana
dell’umanità sulla natura e sulla materia.
Privilegiando la linearità rispetto alla
vecchia ciclicità del tempo (principalmente pagana), il liberalismo adotta una
visione apocalittica, seppure astorica, della storia, finalizzata alla
realizzazione dell’Utopia o della Città di Dio sulla Terra: una società
“giusta” che realizza pienamente i principi egualitari universali, sradicando
ogni differenza, distinzione e legame.
Una
“nuova” società in cui l’antropologia filosofica fissa del liberalismo e la sua
nozione idealistica di libertà umana sono attuate e raggiunte attraverso il
livellamento e la massificazione delle persone (e l’appiattimento della cultura
superiore e dei suoi imperativi gerarchici).
Le
contraddizioni interne del liberalismo sono difficili da risolvere senza
ricorrere al potere sovrano dello Stato moderno.
Queste
tensioni non sono mai state facili da conciliare.
L’ascesa dell’utilitarismo, dell’hegelismo e
del marxismo nel XIX secolo può essere intesa in parte come il primo tentativo
dell’Occidente di affrontare e risolvere le suddette antinomie a favore del
progresso, dell’universalismo e del controllo, che Bentham, Hegel e Marx
vedevano come potenzialità incarnate nello Stato moderno o nella dialettica
storica che potevano essere utilizzate per avanzare e raggiungere la libertà.
Nella
sua forma più influente, il Romanticismo, con la sua glorificazione dell’uomo
comune, il sentimentalismo, il soggettivismo e il democratismo, fu un’altra
emanazione.
Il suo
esponente più importante, Jean Jacques Rousseau, reagì contro l’interpretazione
illuministica della libertà, riconcependo l’uomo come originariamente e
naturalmente perfetto e concentrando la sua interpretazione sull’autonomia e
sull’emancipazione dell’uomo dalle “catene” della società.
Secondo
Rousseau, la libertà sarebbe sinonimo e impossibile da raggiungere senza
l’uguaglianza, una mossa che ha provocato le tendenze politicamente rivoluzionarie
insite nel liberalismo – presto incarnate dai giacobini – e che da allora è
diventata un aspetto ineludibile della modernità liberale.
In
contrasto con la spinta all’omogeneità, alla convergenza storica e
all’uniformità globale del liberalismo standard, un liberalismo che
privilegiava la libertà personale e intellettuale e conservava alcune delle
sensibilità gerarchiche e aristocratiche del vecchio mondo occidentale, era
rappresentato da personaggi come Alexis de Tocqueville, Jacob Burckhardt e John
Stuart Mill.
Sottolineando l’autonomia privata rispetto al
dominio (cfr. la prima antinomia), questi pensatori ponevano maggiore enfasi
sull’individualità, sulla libertà di pensiero e su un governo limitato.
Va
notato che l’enfasi sulla libertà umana come valore culturale determinante non
è appannaggio esclusivo della modernità liberale, così come viene usata in
questa sede.
L’
Homo liber è formativo nello sviluppo dell’umanesimo rinascimentale incarnato
dal pensiero di Montaigne e Machiavelli, che hanno preceduto il liberalismo e
sono stati suggestivi di una modernità alternativa.
Forse
influenzato dai pensatori dell’Illuminismo scozzese, “Edmund Burke” fu un
proto-liberale, o un liberale esitante, che privilegiando la religione, la
virtù e gli elementi ancestrali e tradizionalisti, tentò di creare una sintesi
tra il “liberalismo Whig” e il” conservatorismo europeo del tardo XVIII secolo”,
sperando di indicare la strada per una rivitalizzazione della vecchia eredità
occidentale in via di calcificazione.
L’approccio
sincretico di Burke non trovava un conflitto tra l’apprezzamento per
l’individualità e la diversità e l’enfasi sulla comunità e sulla monarchia
ereditaria.
Difensore
dell’aristocrazia e della diversificazione sociale, era fortemente anti egalitario
e sosteneva una sorta di unità organica.
Burke attribuiva grande importanza alla cultura, alla
gerarchia e all’immaginazione come collante della società e rimase un critico
acuto dell’idealismo astratto e dell’individualismo razionalistico.
Aborriva l’incapacità di comprendere la natura
storica dell’esistenza umana, compresa la grande dipendenza dell’umanità dalle
forme ancestrali.
L’atomismo
sociale e gli astratti diritti individuali di un John Locke gli erano del tutto
estranei.
Burke
offriva un’interpretazione più gradualista del progresso che si scontrava
fondamentalmente con il ceppo dominante del liberalismo del suo tempo, che
diede origine alla “Modernità liberale”.
Nonostante
le spinte primarie della “Modernità liberale”, il pensiero liberale stesso non
è mai stato del tutto univoco.
Non ha
offerto un’unica interpretazione della libertà, né c’è stato un accordo
uniforme sullo strumento o sul meccanismo per raggiungerla.
Ciò
che unifica i diversi orientamenti che hanno dato forma alla modernità
liberale, tuttavia, è un profondo idealismo filosofico.
Al di sotto delle varie interpretazioni della
libertà si nasconde una comune antropologia filosofica, fissata
sull’universalità e l’indivisibilità dell’idea dell’uomo come agente libero, l”’homo
liber” come categoria assoluta che sovrasta tutti gli altri valori umani
contestati che conducono alla prosperità umana.
Un
profondo idealismo filosofico unifica i diversi orientamenti della modernità
liberale.
Secondo
questa visione idealistica e riduzionista dell’uomo, tutti gli esseri umani
sono innatamente liberali e lo sarebbero anche nella vita reale, a meno di
impedimenti esterni o sociali che corrompono la loro costituzione liberale
interna.
Come
osserva giustamente il filosofo “John Gray”, tale convinzione rende il
desiderio missionario di sopraffare ed eliminare continuamente le forze oscure
e disgregatrici considerate antiliberali – una nuova forma di “male” – una
parte intrinseca dell’agenda liberale.
In
modo sottile, i paradossi di cui sopra animano gli attuali conflitti nelle
società occidentali, mostrandoli come sintomi della generale malattia
filosofica – in ultima analisi, psicologica e persino fisiologica – al cuore
della modernità liberale.
Il
secondo avvento “totalitario” del liberalismo.
Poiché
tutti i sistemi tendono a resistere al loro disfacimento e alla discesa nel
disordine, il liberalismo è stato spinto a risolvere le sue contraddizioni
intrinseche in una nuova unità, cosa che ha fatto favorendo l’elemento più
totalitario o ordinatore di ogni antinomia.
Questo spiega l’evoluzione del liberalismo nel
XX secolo.
Una delle prime conseguenze della battaglia
interna del liberalismo per raggiungere una nuova forma più sostenibile è stata
l’alba dell’ordine “neoliberale” e l’ascesa del liberalismo (tardo-moderno) che
è oggi il nostro “Zeitgeist”.
Questa
trasformazione è più il destino del liberalismo, più il prodotto di un suo
desiderio di sopravvivenza, che una perversione o un tradimento dei suoi ideali
– che è la convenzionale interpretazione conservatrice/classica “liberale”
degli sviluppi contemporanei.
Data
la crisi di legittimità che la tarda modernità liberale si trova ad affrontare,
le tensioni interne allo schema liberale vengono risolte in modi sempre più
autoritari e totalitari.
Come
accennato in precedenza nella discussione della terza antinomia, la Modernità è
stata ispirata dall’impeto di una nuova forma di immaginazione che evocava una
visione del mondo trasformato.
Questo
desiderio sognante e missionario di un mondo migliore, che giustificava e
ampliava il campo di intervento attivo dell’uomo, rafforzava le potenzialità
totalitarie del meliorismo razionalistico, conferendo alla Modernità una
dimensione quasi spirituale.
La
crisi di legittimità della modernità liberale invita a reazioni autoritarie e
totalitarie.
Dopo
la Seconda guerra mondiale, il liberalismo moderno ha risolto efficacemente la
prima tensione – dominio contro autonomia – ricorrendo all'”egemonia”, in cui
il dominio culturale e intellettuale viene mascherato e presentato come
liberatorio, con l’Altro che dà un consenso spontaneo o riflessivo.
La
seconda tensione – universalità contro soggettivismo – è stata risolta
attraverso l'”ideologia”, per cui tutti sono condizionati e propagandati a
credere le stesse cose.
La riserva di universalità viene mantenuta
stabilendo l’identità dell'”uomo”, come inteso dal liberalismo, con
l'”universale”.
La
terza e ultima tensione – perennialismo vs. meliorismo – trova soluzione nella
“tecnocrazia” e nel nuovo “culto della competenza”.
Una nuova classe di mandarini viene
socializzata (soprattutto attraverso l’università moderna) e installata in
posizioni di potere e influenza nella cultura in generale.
A sua
volta, questa classe indottrina il pubblico e funge da “avanguardia” del nuovo
regime.
Questa
classe professionale-manageriale ha il compito di condurre le mandrie di uomini
verso la terra promessa, cosa che tenta di fare attraverso l’uso selettivo
della “scienza” (la fede secolare), dell'”ideologia” (le nuove scritture) e
della tecnologia (un bastone da pastore) per il controllo, l’emissione del
messaggio, il monitoraggio e la manipolazione.
Alla
base di questa risoluzione c’è la crescente fiducia che il” Controllo sia
necessario e fonte del Bene”.
Impiegato in modo appropriato, alla fine creerà
un’utopia di giustizia sociale.
(Cina docet! N.d.R.)
Il
mito del progresso si consolida nell’idea che, in teoria, tutto può essere
conosciuto e che la conoscenza umana può essere illimitata (cfr. certezza
epistemologica);
che
l’applicazione della conoscenza disponibile (scientismo/positivismo) al mondo
materiale e sociale, la definizione stessa di tecnologia, guida l’umanità verso
la perfettibilità;
e che questo processo raggiungerà il
miglioramento della condizione materiale e morale di tutta l’umanità.
Mentre
la ricerca del dominio inizialmente si maschera come liberazione dalle vecchie
strutture e gerarchie mantenute dalla tradizione, dall’aristocrazia o dalle
istituzioni patriarcali, la ricerca del dominio sulla natura e poi sulla
società richiede, col tempo, l’acquisizione e la sovversione della società stessa, un
progetto ingegneristico completo.
Questa ricerca richiede l’indottrinamento finale di
esperti che si considerano, a ragione, oracoli dell’età moderna in grado di
prevedere il corso della Storia.
Questa
tendenza è perfettamente esemplificata da “John Stuart Mill”, per il quale il
dibattito libero distrugge le credenze e le istituzioni tradizionali e pone le
basi per il dominio di esperti illuminati, animati da quella che” Mill” chiama,
con” Auguste Comte”, la “religione
dell’umanità “.
(è falso che la religione dell’umanità
sia il liberalismo. N.d.R).
Il
liberalismo moderno ha creato un triplice apparato di controllo e di conformità
attorno a “egemonia”, “ideologia” e “tecnocrazia”.
È
interessante notare che, date le sue radici quasi cristiane, l’inclinazione
altruistica e moralmente egualitaria del primo liberalismo viene innescata e
problematizzata già durante il XIX secolo, quando le condizioni di vita
ordinarie di molte persone nelle aree urbane peggiorano con l’aumento
dell’industrializzazione e la massificazione che l’accompagna.
Nel
marxismo,
figlio della ideazione e utilitaristico della modernità e del liberalismo, si
trova il riconoscimento, e forse la prima reazione sistematica, alle
complessità e ai problemi scatenati dalla continua presenza di disuguaglianze
socio-economiche e alla profonda inquietudine che questa realtà contraddiceva
il mito del progresso.
(Il marxismo può essere solo
dittatoriale, non libertario! N.d.R.)
Molti – utilitaristi, rivoluzionari marxisti
in senso estremo e (più tardi) leader del “Movimento Progressista” – giunsero
alla conclusione che il “progresso” non avrebbe potuto realizzarsi senza
l’intervento umano.
La
consapevolezza che il progresso richiederà di essere plasmato e incanalato
attivamente ha richiamato l’attenzione sull’importanza della leadership e delle
élite.
Per
guidare il popolo, un nuovo ordine di rango, presumibilmente basato su meriti e
credenziali, doveva essere giustificato e dotato di autorità.
Il
liberalismo prebellico (conservatore) cercò di resistere a queste convinzioni,
ma il liberalismo postbellico (ispirato dal New Deal di FDR) le combinò con gli
ideali di progresso sociale e di uguaglianza globale nel neoliberismo.
Lo Stato avrebbe ora acquisito un ruolo più
centrale e collaborato con le grandi imprese per fornire beni pubblici e
giustizia sociale ed economica.
Il liberalismo moderno identificava quindi la
liberazione con un progressivo egualitarismo il cui “raggiungimento comportava
un aumento dei controlli sociali e politici e l’eliminazione della libertà
individuale”.
Il liberalismo e il marxismo si sono rivelati
come espressioni diverse dello stesso Giano moderno, cioè come schemi diversi
che cercano di formalizzare e razionalizzare l'”essere-nel-mondo” o “sé”
moderno.
Questo “Giano Moderno” difende l’uguaglianza e
il progresso come segni distintivi della libertà umana e professa di abbattere
le vecchie gerarchie per realizzarli;
eppure, asservisce l’uomo a forme sempre nuove
di gerarchia innaturale e di controllo sotterraneo, sacrificando la grandezza
umana e la fioritura culturale sull’altare della mediocrità e dell’omogeneità.
La
modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non si limitano
all’Occidente.
Come una termite, divora le gerarchie radicate
delle civiltà, lasciando dietro di sé solo un guscio vuoto.
La
modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non sono limitati al
mondo occidentale.
Ovunque
venga introdotto e qualunque forma assuma alla fine, questo “Proteo” dalle
molte forme e facce dissangua e corrode la civiltà che lo ospita, lasciando
solo un guscio vuoto che vacilla sul baratro, forse più che in Occidente.
In tutto il mondo, questo dio trasmigrato
appiattisce maniacalmente la società e sfigura o distrugge le istituzioni
ereditate, mentre, allo stesso tempo, innalza nuove strutture di repressione e
subordinazione totale.
Incarna
la forza anti-vita e anti-cultura per eccellenza.
Allora,
cosa spiega il notevole successo e la resistenza dell’ordine mondiale
neoliberale e l’attrazione del suo programma di negazione della vita?
Le
fonti del potere (e del declino?) del liberalismo.
Il
successo travolgente del liberalismo contemporaneo nelle società occidentali è
dovuto all’uso efficace di quello che può essere definito il circuito di
retroazione egemonia-prestigio.
L'”egemonia” è il processo attraverso il quale
una classe dominante stabilisce il controllo socio-culturale sui gruppi
subordinati, sposando e segnalando la propria leadership morale e intellettuale
su di essi in modo tale che le classi inferiori acconsentano effettivamente
alla propria dominazione da parte delle classi dominanti.
La conformità degli inferiori è assicurata
attraverso la segnalazione delle élite, in cui le classi superiori usano il
loro capitale sociale o “prestigio” per indicare ai pubblici comportamenti
corretti da emulare, nonché facendo leva sulla loro posizione all’interno
dell’establishment socio-politico per sfruttare il potere della propaganda
moderna.
In
questo processo, la narrazione delle élite, che trasmette la loro benevolenza e
la visione di una società migliore per tutti, viene interiorizzata dalle masse
e trasformata in una narrazione “sacra”, che le condiziona ad agire come
desiderato, in modo che non ci sia bisogno di forzarle o costringerle.
Nel
loro immaginario è radicata la convinzione che con i loro governanti
partecipano, ritualmente e simbolicamente, a cause giuste e cosmopolite,
persino sacre.
La
tecnologia moderna e i social media hanno solo aumentato il raggio d’azione
delle élite e il loro monopolio sulla “verità”, mentre i resoconti che se ne
discostano vengono attivamente respinti come disinformazione.
Garantire
la conformità è un processo a più livelli che utilizza il securitarismo e
l’armamento della “crisi” come veicoli attraverso i quali le élite raggiungono
la solidarietà di classe, i dissidenti vengono ulteriormente emarginati e il
pubblico in generale subisce una “formazione di massa”.
Questo
processo di omogeneizzazione rafforza le identità di gruppo attraverso le linee
di classe e ossifica le posizioni sociali, proteggendo, riaffermando e
rafforzando lo status quo.
L’ “homo liber” genera così il suo inevitabile altro,
quello che il filosofo italiano “Giorgio Agamben” chiama acutamente “homo sacer”,
l’uomo “maledetto” o “bandito” che vive in una sorta di purgatorio tra la
cittadinanza e il controllo statale, essendo allo stesso tempo membro di una
comunità politica e vivendo al di fuori di essa a causa del suo rifiuto di
conformarsi alle nuove norme stabilite.
Questo
processo si estende oltre l’Occidente.
In
diverse società, le caste superiori – che si identificano con gli ideali
occidentali di progresso liberale – formano un blocco ideativo liberale
decentralizzato e informale che serve a promuovere, come forma di vita ideale,
l’ordine mondiale neoliberale e la sua apposita ideologia universalista.
L’ imprinting globale dell’ideologia liberale
tra le élite internazionali di diverse civiltà, che la usano come moneta di
potere e di status, globalizza l’egemonia culturale del liberalismo e dà potere
alle istituzioni e alle ONG occidentali che perpetuano l’ideologia.
Questa
dinamica rafforza il sistema mondiale neoliberale esistente e le organizzazioni
internazionali che lo difendono con il potere della semiotica e della retorica
e con le loro regole ostinate, noiose e arcane.
L’inevitabile
conseguenza della “Modernità liberale “è la proliferazione del totalitarismo
morbido o interiorizzato, dell’omogeneità e del conformismo globale, in nome
della libertà e della democrazia.
(Attualmente
quando decade la “democrazia liberale” può subentrare solo la “dittatura
marxista” o la “dittatura fascista”! N.d.R.)
Il
risultato è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato e lo
scatenamento dell’omogeneità e del conformismo in nome della libertà e della
democrazia, non solo in Occidente ma a livello globale.
Questo totalitarismo morbido è ancora più
pernicioso della tirannia coercitiva o del totalitarismo duro, che si ottengono
con la violenza, perché uccide la criticità, il dissenso e il libero pensiero,
diminuendo l’energia spirituale o intellettuale necessaria per la sopravvivenza
di una società sana.
Il
totalitarismo morbido è, in parte grazie ai suoi appelli all’immaginazione
sognante e alle ricerche utopiche, anche molto più sottile della tirannia
coercitiva esteriore.
Ed è
più difficile da individuare, per non parlare della difficoltà di resistergli.
Il
totalitarismo morbido è anche più socializzato, incoraggiando la cittadinanza a
diffamare, ostracizzare e cancellare le voci dissidenti che si ritiene abbiano
violato un implicito vincolo sacro, dando vita a una dinamica noi contro loro,
in cui l’identità collettiva è forgiata in un’opposizione manichea all’Altro.
Questa forma di guerra alla mente del
totalitarismo premia i dogmi e i luoghi comuni più che l’imparzialità e il buon
senso.
Promuove
il pensiero di gruppo come mezzo per monopolizzare il pensiero, anzi, la
percezione stessa della realtà.
L’obiettivo
è chiaro: garantire lo status quo contro qualsiasi rottura e superamento
radicale.
Un
fattore importante che rivela e contribuisce all’ascesa del “totalitarismo soft”
è che il confine originario tra Stato e società civile, tra pubblico e privato
– divisione che era stata enfatizzata nel primo liberalismo – è oggi sempre più
sfumato e inaridito.
Una
profonda crisi epistemologica su ciò che è conoscenza, esacerbata dall’accelerazione
della politicizzazione di tutti gli aspetti della vita, aggrava la dinamica
totalizzante.
La crescente disintegrazione dei confini e
delle distinzioni sociali nella tarda Modernità liberale, e la confusione e
l’assenza di significato che ne derivano, fanno presagire una crisi d’ autorità
di prim’ordine, in cui sia la classe politica (governo e burocrazia statale)
sia gli esperti e persino la conoscenza che professano (“scienza”) vengono
gradualmente ripudiati.
Tutto
ciò fa presagire un maggiore allontanamento, una polarizzazione, un conflitto
futuro e persino una rivoluzione sociopolitica.
Inoltre,
alza ulteriormente la posta in gioco per la” Modernità liberale”: esercitare il
potere diventa un problema esistenziale.
La
preoccupante traiettoria della tarda modernità liberale verso la perdita di
autorità fa presagire futuri conflitti sociali;
inoltre,
rende l’esercizio del potere un imperativo esistenziale per l’”imperium
liberale”.
La
risposta naturale dell’establishment a questa crisi definitiva di legittimità è
quella di consolidare e combinare lentamente l’apparato di controllo sociale e
di formazione della cultura (cioè i media, le grandi imprese e il mondo
accademico), storicamente appannaggio della società civile, con i meccanismi di
comando politico e di autorità legale già a sua disposizione.
In effetti, si crea una struttura massiccia e
complessa di controllo e conformità, un regime integrato che può essere
chiamato “imperium liberale”.
L’imminente
guerra contro l’”imperium”.
L’ imperium
liberale, ancora in fase di consolidamento, è una mostruosità hobbesiana.
Influenzato dalla guerra civile inglese,
Hobbes aveva in mente uno Stato con un controllo assoluto, ma con lo scopo
limitato di mantenere l’ordine.
Il nuovo Leviatano aspira a un controllo
totale.
Sembra
decentralizzato, ma è integrato attraverso le classi e le ideologie, con un
chiaro gruppo interno e un gruppo esterno e le masse apatiche (cfr. l'”ultimo uomo”) nel mezzo.
Il profondo risentimento del gruppo esterno,
unito alla generale mancanza di capacità d’azione politica della popolazione,
rende quest’epoca storica particolarmente incline al pensiero cospirativo, che
dobbiamo identificare come un altro sintomo della patologia generale del
paradigma tardo-moderno.
Il
filosofo italiano Antonio Gramsci ha osservato in modo preveggente quasi cento
anni fa:
“Quando lo Stato ha tremato, si è subito
rivelata la robusta struttura della società civile.
Lo Stato era solo un fossato esterno, dietro
il quale si trovava un potente sistema di fortezze e di sbarramenti “.
La robusta struttura di cui parla Gramsci –
forse il ventre del moderno Leviatano – è stata continuamente rivelata e usata
come arma dall’establishment nell’inquadrare le nostre numerose guerre
infinite, il COVID, l’ESG e, più recentemente, la guerra in Ucraina.
In
tutti questi casi, i meccanismi di controllo sociale e di addomesticamento sono
regolarmente impiegati per ottenere il consenso quasi spontaneo del pubblico
attraverso la “formazione delle masse” e per trasformarle, attraverso la
mobilitazione psicologica, in collaboratori inconsapevoli, se non addirittura
consenzienti, del regime e dei suoi fini desiderati.
Questi
fini sono mascherati come prerequisiti per la libertà e persino mascherati come
morali e giusti, ma equivalgono a una spaventosa sovversione della libertà
e del senso comune.
L’ascesa
del regime integrale può sembrare promettere alla classe dirigente una sorta di
stabilità, ma è più che probabile che si tratti di una fase transitoria.
È
improbabile che l’attuale stato di cose sia sostenibile per decenni e potrebbe
degenerare in un vero e proprio totalitarismo, con tutte le sue dimensioni
politiche oppressive e pericolose.
Il
Leviatano di Hobbes aveva lo scopo limitato di mantenere l’ordine civile. Il
Leviatano moderno aspira a un dominio totale, che non è sostenibile.
Resta
da vedere se il risveglio ancora incoerente, anche se vigoroso, dell’apparato
di controllo liberale genererà un desiderio radicale e tragico di “superamento”
(la décadence) tra il crescente numero di gruppi (di prestigio) emarginati in
Occidente, le persone che si sono liberate dalla caverna liberale e vedono
attraverso la sua falsa costruzione, o quelle provenienti da altre civiltà la
cui” Weltanschauung” è in conflitto con il paradigma liberale moderno.
Sembra
che sia iniziato un contraccolpo, anche se ancora per lo più embrionale, e se
si rafforzerà, ci si può aspettare che l’”imperium liberale” colga ogni
opportunità per securizzare ulteriormente e armare le crisi al fine di
eliminare questi neonati dissenzienti prima che diventino adulti.
L’uomo
era il soggetto del progetto moderno, ma sempre più spesso questo soggetto è
stato trasformato nell’oggetto preferito della modernità:
è stato trattato come una tela bianca su cui
imprimere il nuovo ordine.
Quindi,
proprio mentre il regime cerca di in-formarci, noi dobbiamo dis-formarci in una
lotta radicale contro il nostro stesso io conformato.
È in questo spirito che dobbiamo cercare di
comprendere la famosa nozione di Nietzsche di “volontà di potenza”.
Il tedesco ci esorta ad andare oltre la
politica, le sue banalità e la sua partigianeria, per smantellare e sublimare i
complessi sistemi di potere culturale e di prestigio sociale che l’egemonia
ideologica della modernità liberale ha imposto.
Questo
radicalismo spirituale e intellettuale è il primo passo per coltivare una
contro-élite “dionisiaca” che rifiuti attivamente l’idealismo moderno e le
illusioni ideologiche liberali, come il “progresso” o la “felicità”, a favore
di un realismo concreto e storicamente radicato che consacri la vita, la
natura, la società organica e la salute culturale.
In
quest’ora fatidica, abbiamo bisogno di un realismo tragico e radicale, che
gridi un duro” No” alla decadenza negatrice della vita e un duro “Sì” ai
vincoli e ai limiti rigenerativi posti all’uomo dagli imperativi dell’unità
organica e dell’evoluzione umana.
(Solo
il “nuovo conservatorismo “e le” sue tradizioni realiste” possono rendere
“liberi e lieti” gli uomini del futuro! N.d.R.)
(italiaeilmondo.com/2022/03/17/guerra-in-ucraina-qual-e-la-posta-in-gioco-culturale_di-roberto-buffagni/)
(italiaeilmondo.com/2022/03/28/realta-parallela-e-realta-della-guerra-ii-parte-di-roberto-buffagni/)
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