Gli agricoltori non vogliono chiudere le stalle e abbandonare i campi.

 

Gli agricoltori non vogliono chiudere le stalle e

abbandonare i campi.

 

 

Gli agricoltori olandesi potrebbero

ricevere denaro per chiudere

i propri allevamenti.

Euronews.com – (5 maggio 2023) - Angela Symons – ci dice:

 

L'Ue ha approvato un piano da 1,5 miliardi di euro per rilevare l'attività degli agricoltori olandesi e ridurre così le emissioni.

(The Farmers Defense Force flag, right, and Dutch flags, fly in the wind on an intersection blocked by tractors in The Hague, Netherlands, 19 February 2020).

L'Unione europea ha approvato un piano che prevede la possibilità per il governo olandese di rilevare l'attività degli agricoltori.

Lo schema fa parte del piano dei Paesi Bassi per ridurre drasticamente le emissioni di azoto, di cui una delle principali fonti sono gli allevamenti di bestiame.

Gli agricoltori nei Paesi Bassi hanno organizzato proteste sin dall'ottobre 2019: quasi 1,5 miliardi di euro saranno utilizzati per risarcire gli agricoltori che chiuderanno volontariamente le aziende agricole situate vicino alle riserve naturali.

Il governo olandese vuole ridurre le emissioni (di ossido di azoto e ammoniaca) del 50% a livello nazionale entro il 2030.

Perché i Paesi Bassi vogliono chiudere le aziende agricole?

Nonostante le piccole dimensioni, i Paesi Bassi sono il secondo esportatore mondiale di prodotti agricoli, dietro agli Stati Uniti.

L'anno scorso, le esportazioni agricole olandesi hanno raggiunto un valore di 122,3 miliardi di euro, a detta dell'Ufficio statistico nazionale.

L'agricoltura intensiva ha lasciato la piccola Nazione con livelli di ossido di azoto più elevati di quelli consentiti dalle normative Ue:

queste emissioni peggiorano il cambiamento climatico e possono danneggiare la biodiversità.

Paesi Bassi, braccio di ferro tra il governo e gli allevatori di bestiame sulle emissioni di azoto.

Negli ultimi anni, le proposte del governo per ridurre le emissioni di azoto hanno portato alla riduzione del numero di capi di bestiame di un terzo.

"I piani miglioreranno le condizioni ambientali e promuoveranno una produzione più sostenibile ed ecologica nel settore dell'allevamento, senza distorcere indebitamente la concorrenza", ha affermato “Margrethe Vestager”, commissaria europea per la concorrenza.

Cosa pensano gli agricoltori del programma di acquisizione?

L'organizzazione agricola “LTO” ha affermato che le acquisizioni debbono essere "progettate in modo tale da offrire agli agricoltori l'opportunità di concludere correttamente la loro attività".

L'organizzazione ha anche chiesto "schemi di transizione", che consentirebbero agli agricoltori di ridurre le emissioni di azoto.

La lotta degli agricoltori olandesi contro le normative sulle emissioni.

Un partito politico pro-agricoltura ha vinto le recenti elezioni provinciali olandesi, sottolineando la profondità del malcontento tra gli agricoltori.

Il governo olandese ha incaricato i legislatori provinciali di formulare e attuare precise proposte per ridurre le emissioni di azoto.

L'anno scorso, gli agricoltori hanno tenuto diverse grandi manifestazioni, che poi si sono estese anche al vicino Belgio, dove centinaia di agricoltori hanno guidato i loro trattori nel centro di Bruxelles per protestare contro i piani per ridurre l'inquinamento da azoto.

 

 

 

IL TUO PAESAGGIO.

Non sono solo le mucche a

beneficiare dei miei prati.

Iltuocontadino.it - MATTHIAS PLONER – (10-1-2023) – ci dice:

 

 MATTHIAS PLONER, contadino di montagna a Laion.

Coltiva a prato 12 ettari di terra, producendo fieno per le sue mucche e apportando un prezioso contributo alla conservazione del paesaggio sudtirolese.

Il contadino con la bici elettrica e la filosofia dei globuli.

Ogni mattina, Matthias Ploner, contadino biologico di montagna a Laion, si reca al maso con una bicicletta elettrica, un mezzo di trasporto che appartiene al suo modo di essere e ben si concilia con la sua filosofia, radicata nella natura e nell’ambiente, che risulta ancora più evidente quando si entra nella sua stalla:

 le mucche godono di un panorama mozzafiato.

 È stato lui a volerlo e nessuno è riuscito a distoglierlo, nemmeno il suo architetto. Nella stalla di Matthias Ploner, la facciata anteriore e le porte sono aperte a ogni ora e in tutte le stagioni;

 sembra che faccia incredibilmente bene alle mucche: “A loro giova molto vivere così”, spiega Matthias pieno di entusiasmo.

 E non si fa fatica a credergli, data la passione che nutre per gli animali, il maso e l’agricoltura.

Matthias Ploner è cresciuto a Laion, un soleggiato paese all’inizio della Val Gardena, situato a 1.100 m s.l.m., dove si trovavano la casa dei genitori e il vecchio maso con la macelleria, gestiti dal padre e dal fratello.

 Questo” harleysta” tatuato è cresciuto nel maso, che ha ospitato le mucche e la macelleria fino al 2000, quando il padre e il fratello hanno deciso di cederlo per ingrandire la rivendita di carni.

 I prati sono stati dati in affitto e Matthias si dedicava solo al mestiere che aveva appreso, quello del fornaio.

Il ritorno alle origini.

All’epoca, Matthias era contento della decisione presa dalla famiglia: non era interessato al maso, guadagnava bene come fornaio ed era soddisfatto, fino a che lo stress e la pressione sul lavoro divennero per lui insostenibili e il suo amore per gli animali lo riportò al settore agricolo.

Voleva fare il contadino, con molta serietà, e per farlo ha dovuto investire parecchio, perché tutto ciò che aveva erano i prati ereditati dal padre, insieme a un paio di rastrelli e forconi, oltre che un rimorchio di 30 anni.

Doveva dunque costruire una stalla, acquistare un trattore, una mietitrice, un voltafieno e altre attrezzature.

 

Matthias voleva una stalla adeguata alle esigenze degli animali, in cui le mucche si sentissero bene e potessero produrre latte di alta qualità senza essere sotto pressione.

Ha iniziato a guardarsi attorno e a visitare stalle, incaricando un architetto di costruirne una secondo le sue proposte.

 All’inizio è stato criticato, ma è rimasto fedele alla sua filosofia:

a una mucca fa bene respirare aria fresca e muoversi, e se sta bene produce latte buono.

In questa stalla moderna, senza inquinamento elettrico, i vitelli vivono nella parte posteriore, e le 16 mucche in quella anteriore, aperta, dove possono mettere la testa al sole e uscire quando vogliono (hanno due ettari di prati tutti per loro).

La razza che alleva è quella delle vacche Pinzgauer, non molto diffuse in Sudtirolo.

Un marchio di benessere per le mucche.

Lavorare con passione.

Matthias si alza tutte le mattine alle quattro meno un quarto e si reca al maso con la bici elettrica;

non vuole stress nella sua stalla, perché le mucche lo percepiscono.

Se è di fretta e deve andare via, gli animali lo notano e si innervosiscono.

Questo contadino fa ciò che ama: adora il suo lavoro come agricoltore e con gli animali, con cui ha un legame molto stretto.

Conosce ogni vacca e le relative esigenze;

una lo segue addirittura a ogni passo.

Nella sua stalla regna la tranquillità, così come durante mungitura; gli animali si fidano di lui e non oppongono resistenza se vengono caricati su un camion.

Produzione naturale di qualità biologica.

A Laion, Matthias Ploner era il solo produttore a consegnare latte biologico per la lavorazione, ora ce ne sono cinque, tutti ben visti dalla popolazione, che è divenuta sensibile alla qualità biologica e acquista con consapevolezza questo latte perché arriva dal proprio paese.

Matthias cura personalmente i suoi animali con medicinali omeopatici, lavora con globuli e batteri per la digestione delle mucche; ha frequentato corsi, letto molto e chiama sempre esperti presso il proprio maso.

La formazione e l’aggiornamento sono la cosa più importante sul campo, afferma.

Responsabilità per il paesaggio e il futuro.

Matthias Ploner vuole lasciare una buona azienda ai suoi due bambini, che, se vorranno, potranno portarla avanti.

 Questo agricoltore non si sente però responsabile solo nei confronti dei propri figli, ma dell’intera popolazione.

 Attribuisce molta importanza allo sfruttamento sostenibile del terreno e al mantenimento del ciclo delle sostanze nutritive.

Coltivando i suoi 12 ettari a prati, crea valore aggiunto per gli abitanti della zona e i turisti.

 In questo modo, Matthias si assume la responsabilità per il futuro della sua Provincia e del suo paesaggio.

UN PAESAGGIO SENZA EGUALI.

Un agricoltore ha una grande responsabilità nei confronti del Paese in cui vive: senza di lui, i campi, i prati e i pendii non sarebbero così curati e la biodiversità ne soffrirebbe.

L’attività agricola e di conservazione del paesaggio portata avanti dai contadini crea un ambiente accogliente per gli uomini e gli animali.

Gli agricoltori falciano i prati, si occupano degli animali, degli alpeggi e dei boschi, che a loro volta offrono protezione da frane e valanghe.

L’area rurale è un luogo prezioso per il tempo libero e il relax della popolazione locale e dei turisti:

 i masi dei contadini di montagna svolgono dunque un ruolo particolarmente importante, perché attività come lo sci alpino, lo sci di fondo, il ciclismo e l’escursionismo si svolgono prevalentemente sui loro terreni.

Inoltre, le numerose aziende agricole, spesso di piccole dimensioni, si occupano anche della manutenzione di strade, muri e recinti, contribuendo alla conservazione del paesaggio tradizionale.

Numeri e fatti:

739.000 ettari di superfice con insediamenti di lunga data in Sudtirolo.

484.000 ettari di superficie utile aree coltivabili, boschi, prati e pascoli.

65.000 ettari di prati per la biodiversità e foraggi salutari.

97.000 ettari di pascoli per la gestione delle superfici alpine e la protezione

alle calamità naturali.

 

 

 

Stalle e campi abbandonati.

Italiaoggi.it – Carlo Valentini – (23 – 2 – 2022) – ci dice:

 

La guerra in Ucraina sta mettendo in grave crisi l'agricoltura e gli allevamenti italiani.

Mantenere una mucca costa troppo. I panifici senza farina.

Stalle che si svuotano, animali che rimangono ma col 10% in meno di razioni di cibo, coltivazioni abbandonate, grano tenero per il pane a rischio, olio di girasole scomparso: la crisi ucraina inciderà sulle tavole, in attesa che gli equilibri degli approvvigionamenti mondiali si riassestino su basi nuove.

Innanzi tutto, il caro-prezzi dei mangimi, a livelli ormai quasi proibitivi.

 «Da inizio anno- dice Giacomo Broch, presidente della Federazione di Trento degli allevatori- sei aziende sono state costrette a chiudere».

Quelle più grandi resistono ma si disfano delle mucche più anziane, che producono meno latte.

 Spiega Lorenzo Brugnera, presidente delle Latterie Soligo (Treviso), che ha già rinunciato a 12 mucche:

«La situazione si sta facendo disperata, il costo delle materie prime che usiamo per alimentare le vacche è raddoppiato in due anni, una vacca che prima costava 6 euro al giorno oggi ne costa 12.

 Ma a questa Italia non importa nulla dell'agricoltura».

«Il fatto è- risponde l'europarlamentare Paolo De Castro, ex presidente della commissione Agricoltura dell'Ue - che per troppo tempo l'Europa ha ritenuto la pace, così come la sicurezza alimentare, qualcosa di acquisito.

 Occorre un'inversione di rotta per supportare una maggiore autonomia strategica dell'Ue anche sui mercati agroalimentari».

 De Castro fa pure autocritica: «L'Europa dipende, per alcuni prodotti, al 90% dall'estero, per la soia addirittura al 100%.

Non possiamo più fare i naif mettendo regole per ridurre la produzione europea come in passato, dobbiamo calibrare nuove politiche per arrivare il più possibile vicini all'autosufficienza».

La crisi è grave.

L'Italia produce appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro, il 73% dell'orzo, il 63% della carne di maiale, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all'84% di autoapprovvigionamento.

Dice Ettore Prandini, presidente Coldiretti:

«È una crisi che colpisce un sistema che complessivamente, tra latte, carne e uova, genera un giro d'affari di circa 40 miliardi di euro.

 La stabilità della rete zootecnica italiana ha un'importanza che non riguarda solo l'economia nazionale ma ha una rilevanza sociale e ambientale, quando una stalla chiude si perde un intero sistema fatto di animali, di prati per il foraggio, di formaggi tipici e soprattutto di persone impegnate a combattere, spesso da intere generazioni, lo spopolamento e il degrado dei territori anche in zone svantaggiate, dall'interno alla montagna».

L'Italia consuma 8 milioni di tonnellate di grano tenero (la maggior parte, quasi l'85%, viene destinata alla trasformazione in farina, la restante parte va ad uso zootecnico o industriale).

Nonostante la domanda superi largamente l'offerta interna le superfici coltivate sono passate da 3 milioni di ettari a meno di 500.000.

Una riduzione solo parzialmente compensata dall'incremento delle rese produttive, passate da circa 25 a 60 quintali in media a ettaro grazie al miglioramento genetico varietale e a tecniche più moderne di coltivazione.

Dice Lorenzo Furini, presidente dei produttori di cereali di Confagricoltura Emilia-Romagna:

 «All'Italia mancheranno quest'anno circa il 30% delle importazioni di grano tenero ossia quelle provenienti da Russia, Ucraina e anche dall'Ungheria, che ha di recente vietato l'export di cereali ma altri Paesi potrebbero seguirne l'esempio».

Che fare?

 Le speranze sono riposte in approvvigionamenti da Francia, Germania e Austria, oppure Australia, ma con alti prezzi di trasporto.

Gli agricoltori sarebbero disposti a produrre di più.

Dice Marcello Bonvicini, presidente di Confagricoltura Emilia Romagna:

«Qualcosa si muove, ma aspettiamo i risultati.

Bisogna dare agli agricoltori europei la possibilità di utilizzare tutto il potenziale produttivo, eliminando i vincoli che frenano la produzione di derrate alimentari strategiche (grano, mais e semi oleosi) e sfruttando al massimo le potenzialità offerte dalla ricerca scientifica, soprattutto la nuova frontiera del genoma editing (miglioramento genetico delle piante) per soddisfare la domanda globale di cibo.

Poi serve un Piano strategico nazionale per l'agricoltura volto a razionalizzare le colture e ridurre la dipendenza dall'estero, spalmando gli oneri in egual modo lungo la filiera produttiva».

Che il freno all'innovazione tecnologica in agricoltura sia anacronistico, soprattutto alla luce dell'emergenza che sta avanzando, lo sottolinea anche Massimiliano Giansanti, presidente nazionale di Confagricoltura:

 «Non si tratta di Ogm, che sono superati. Le biotecnologie oggi utilizzabili sono del tutto nuove, e in Italia su questo fronte siamo leader nella ricerca.

Abbiamo il vantaggio di essere detentori dei brevetti, è assurdo non sfruttarli, si tratta di tecnologie che garantiscono la sostenibilità, in base ai risultati della scienza.

Le Ong europee debbono capire che il mondo cresce, e se cresce la popolazione deve crescere anche la produzione.

 Ma siamo ancora in tempo e l'Europa può e deve muoversi in questa direzione». Concorda Piercristiano Brazzale, presidente della Federazione internazionale del latte:

 «Basta veti ideologici: l'Italia sproni l'Europa ad autorizzare gli ultimi ritrovati della scienza biotecnologica in agricoltura».

A distanza di un mese circa dall'avvio dell'invasione, il prezzo dell'orzo è aumentato del 33%, quello de grano del 21% e quello di numerosi fertilizzanti del 40%.

Ucraina e Russia da sole gestiscono il 30% delle esportazioni mondiali di grano, il 32% di quelle di orzo e il 75 % delle esportazioni di semi di girasole.

 Luciano Cillis, (M5s) membro della Commissione agricoltura della Camera propone il piano Granaio Italia:

 «Un monitoraggio in tempi strettissimi per riuscire a gestire, monitorare e programmare gli aiuti per il comparto».

L'Italia ha 16,2 milioni di ettari di superficie agricola ma ne utilizza solo 12,3 milioni; il resto è soggetto a vincoli mentre potrebbe essere coltivata a cereali e mais, mentre le zone più marginali, in collina o montagna si riuscirebbero a coltivare a orzo, sorgo, segale, avena.

Coldiretti ritiene che si potrebbero coltivare 75 milioni di quintali in più di mais per gli allevamenti e di grano duro per la pasta e la panificazione.

 Ma occorre che la politica faccia, in fretta, la sua parte togliendo vincoli non essenziali, balzelli burocratici e assicurando il livello dei prezzi per contratti a medio e lungo termine.

 Secondo Federalimentare vi è un'autonomia di soli 30 giorni per l'industria mangimistica e di 40 per quella molitoria.

In questa situazione è a rischio il 70% del comparto alimentare.

 

 

 

Aziende agricole: i costi decollano,

ma gli incassi atterrano.

Agronotizie.imagelinenetwork.com - Mimmo Pelagalli – (7 ottobre 2022) – ci dice:

 

L'effetto della “crisi energetica” in agricoltura si innesta su un male antico: i prezzi di cessione di derrate e materie prime agricole in balia di mercati opachi e con ribassi eccessivi.

 E in ogni caso urgono provvedimenti ad effetto immediato.

I conti non tornano più e non basta aver investito in diversificazione, innovazione e mercati di nicchia.

C'è un'Italia agricola che sta soffrendo la crisi energetica e che rischia di chiudere le aziende e abbandonare i campi se non si troveranno presto soluzioni strutturali e con effetti immediati.

 La parola d'ordine al momento è resistere, ma sempre sperando che qualcosa cambi ed in fretta.

L'inverno fa paura, ma non c'è solo il freddo a spaventare.

Perché i prezzi stellari raggiunti oggi da energia elettrica, carburanti e mezzi tecnici, si sono innestati su un male antico dell'agricoltura italiana: la mancanza o l’insufficienza di strumenti per salvaguardare i redditi agrari dalle svalutazioni eccessive, e talvolta speculative, dei prodotti primari sui mercati all'origine.

Una piaga che segna ancor più l'agricoltura del Mezzogiorno, lì dove sono più deboli le strutture delle filiere e meno radicate le organizzazioni di produttori.

Abbiamo raccolto tre casi esemplari, a partire dal contenuto di una lettera inviata al giornale da Vito Sorino, 31 anni, di Foggia in Puglia, imprenditore agricolo produttore di uva da tavola, a capo di un'Azienda che è alla terza generazione, ma sotto pressione proprio per gli eccessivi ribassi sui prezzi all'origine.

Costi alle stelle, l'agricoltore: "Fino a che punto volete spremerci?"

I prezzi all'origine in balia delle aste.

"Una tradizione intrapresa da mio nonno che ad oggi porto avanti con dedizione ed orgoglio, con passione - ci scrive Sorino, in una missiva dai toni a tratti accorati, descrivendo la sua Azienda.

Un lavoro avvincente e difficile, ma che sta diventando impossibile:

"Da diversi anni il settore agricolo vive una profonda crisi strutturale che da Nord a Sud mina la stabilità dell'intera filiera.

Non è possibile vendere il prodotto a 20 centesimi al chilogrammo per poi vedere lo stesso prodotto in vendita nella grande distribuzione a 3, 4 anche 5 euro al chilogrammo".

Sorino si riferisce all'uva da tavola e cita ancora il caso delle aste della Gdo:

 "Le aste al ribasso creano guerre tra noi imprenditori che alla fonte non abbiamo più adeguati margini di guadagno per produrre un prodotto di qualità.

Quando noi agricoltori non riusciremo più ad andare avanti, chi produrrà i frutti della nostra terra?

Tutto ciò è avvilente e fa male, soprattutto perché i media e soprattutto le istituzioni non ne parlano".

Il giovane imprenditore pugliese conclude con una considerazione più generale: "La mia è una situazione comune a tanti altri amici e colleghi imprenditori: da soli e senza un aiuto sicuramente chiuderemo nel giro dei prossimi mesi o anni".

 Il pudore e il silenzio di tanti.

Abbiamo così provato in questi giorni a sondare gli animi anche di altri imprenditori:

 molti sono restii a parlare delle difficoltà, che al momento sembrano ingigantirsi sul lato dei costi, a causa della bolletta energetica aziendale, lievitata a causa della guerra in Ucraina e delle speculazioni.

Ma c'è chi rompe la cortina di pudore e di silenzio e si confida.

Produrre energia non basta.

All'Agriturismo Nonna Luisa di Ferentino in provincia di Frosinone c'è Rossana Frusone:

 conduce una piccola Azienda biologica a prevalente indirizzo ortofrutticolo.

 È una fattoria didattica, c'è qualche animale e ben tre centraline per produrre energia da fonti rinnovabili:

mulino, pannelli fotovoltaici e una mini centrale a biomasse, alimentata dal materiale di risulta delle potature, dagli scarti del ristorante e dallo sterco degli animali.

"L'impianto fotovoltaico da un qualche respira - afferma l'imprenditrice - ma la bolletta elettrica è lievitata di quasi quattro volte in un mese, passando dai 600 euro di agosto ai 2.875 euro di settembre".

 Il problema è che pur producendo energia elettrica, l'azienda deve cederla alla rete, per poi riacquistarla:

 "L'Enel compra la nostra energia a prezzi bassi, ed è sempre stato così - spiega la Frusone - ma all'atto del riacquisto siamo passati dal pagare 0,07 euro al Kwh contro gli attuali 0,45 euro: così la differenza già a nostro sfavore è notevolmente aumentata".

Intanto c'è la clientela dell'agriturismo da accogliere:

"Se vuoi offrire un certo livello di servizio, vanno mantenuti determinati standard e non ci si può rivalere sui prezzi più di tanto, sulla compressione dei consumi abbiamo già lavorato in passato per una scelta di sostenibilità ambientale, pertanto l'aumento dei costi energetici taglia direttamente il margine di guadagno dell'attività".

 E la prospettiva non è rosea:

 "Per quest'anno si lavora per tenere in piedi l'attività ed un servizio verso la collettività, ma con un reddito di mera sussistenza".

Azzerato il valore aggiunto del latte di bufala.

In provincia di Frosinone c'è l'Azienda zootecnica bufalina condotta da Valerio De Lellis, circa 250 capi da latte, inserita in un contesto - quello della cessione del latte ai caseifici per la trasformazione in mozzarella - dove i prezzi del latte generalmente sono ben più elevati e premianti di quello vaccino, ma:

"Con gli aumenti di gasolio ed elettricità è stato già difficile far fronte alle spese durante l'estate, con il prezzo del latte bufalino che è più elevato - dice De Lellis, che sottolinea: sarà un inverno duro, deve cambiare qualcosa e velocemente, altrimenti diventa difficile immaginare come arrivare alla prossima primavera".

I conti dell'azienda non tornano più, perché il gasolio agricolo, nonostante i provvedimenti del governo, è comunque passato nel giro di pochi mesi da 0,60 a 1,55 euro al litro.

 "Dobbiamo lavorare la terra per produrre foraggio, i trattori consumano molto - ricorda De Lellis - ma abbiamo anche più che raddoppiato il costo dell'irrigazione, perché per pompare acqua ricorriamo a motori diesel e la siccità, con le temperature elevate, ci ha costretti a consumare anche di più".

Un effetto tempesta perfetta che si completa con gli aumenti delle materie prime: "il fertilizzante che usiamo è passato da 30 a 120 euro al quintale - aggiunge De Lellis - le sementi per mettere foraggio sono aumentate del 40%, e nel caso durante l'inverno non dovesse bastare il fieno, il prezzo è raddoppiato".

Da queste testimonianze, sicuramente non del tutto esaustive di un universo ancora più ampio, emerge tuttavia con chiarezza che urgono interventi strutturali che al tempo stesso possano avere anche un effetto rapido:

due aspetti difficili da conciliare, proprio mentre arriva la mannaia del taglio della “Pac”.

Una patata bollente che finirà presto nelle mani del nuovo ministro delle Politiche Agricole.

 

 

 

Braccia rubate all’agricoltura.

Terraevita.edagricole.it – (28 Maggio 2022) - Simone Martarello, Laura Saggio e Giuseppe Francesco Sportelli – ci dicono:

 

Germania e Olanda più attrattive per gli stagionali dell’Est Europa. Italiani poco interessati a lavorare in campagna. Ingressi dal Nord Africa ostacolati dalle norme.

 Atteso un nuovo Decreto Flussi

Il 2022 sarà ricordato dal settore frutticolo per l’enorme difficoltà a reperire manodopera, con il rischio di non riuscire a raccogliere tutta la produzione, tornata finalmente abbondante dopo due anni, 2020 e 2021, nei quali le avversità climatiche avevano ridotto drasticamente le rese.

 Da Nord a Sud gli imprenditori agricoli lamentano la mancanza di circa il 30% della forza lavoro.

 La raccolta di fragole, ciliegie e asparagi è già iniziata.

 In questi giorni parte il diradamento di alcune specie frutticole e nel giro di poche settimane le varietà precoci saranno mature.

Ma domanda e offerta di lavoro in questo momento sembrano essere molto lontane, anche se il recente rinnovo del contratto di lavoro degli operai agricoli può aiutare a ridurre le distanze.

100.000 gli stagionali necessari per i lavori nei campi.

Secondo la Coldiretti per svolgere i lavori nelle campagne italiane servono circa centomila stagionali.

 Il Decreto flussi di dicembre 2021 che regola l’ingresso nel nostro Paese di manodopera da Paesi extra Ue, permette l’arrivo di 42.000 unità per il settore agricolo e turistico.

Ad aggravare la situazione la lentezza delle procedure d’esame delle richieste d’ingresso.

 A metà maggio aveva varcato i confini solo il 20% della quota stabilita, cioè circa 8.400 persone.

 Perciò le organizzazioni di categoria chiedono con forza di snellire l’iter burocratico e un secondo Decreto flussi.

 Nei giorni scorsi il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni ha annunciato che il governo è al lavoro per determinare il fabbisogno dei vari settori e che il provvedimento arriverà a breve per far fronte alle richieste del mondo produttivo. Sulla stessa linea anche il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli.

Due anni difficili.

Anche se nelle campagne italiane non mancano forme di sfruttamento dei lavoratori, soprattutto stranieri, quello degli stagionali è un sistema ormai consolidato e virtuoso, soprattutto al Nord, dove le aziende agricole offrono contratti regolari e hanno fatto investimenti per garantire a chi arriva dall’estero per lavorare nei mesi estivi condizioni di vita più che dignitose.

Sforzi riconosciuti anche dalla Commissione del Parlamento europeo per il controllo dei bilanci dell'Ue.

Durante una recente missione a Roma per un'indagine conoscitiva su presunti reati sui fondi agricoli, la capo delegazione “Monika Hohlmeier” ha detto che «apparentemente c'è un notevole miglioramento della legislazione per contrastare il fenomeno del caporalato».

 E allora perché si fatica così tanto a trovare manodopera?

I due anni di pandemia 2020 e 2021, oltre alle difficoltà negli spostamenti, sono stati caratterizzati da una minor richiesta di forza lavoro per le attività di raccolta per via delle avversità climatiche che hanno ridotto di molto e in alcuni areali quasi azzerato le rese.

Molti stagionali hanno quindi cercato alternative, trovandole soprattutto in Germania, Olanda e Inghilterra, Paesi tra l’altro più attrattivi perché le aziende che li assumono beneficiano di sgravi fiscali e contributivi:

a parità di costi i guadagni sono maggiori rispetto all’Italia.

Per recuperare questo gap gli imprenditori agricoli chiedono al governo di abbassare il costo del lavoro agendo sulla decontribuzione, la reintroduzione dei voucher e alcuni (ma non tutti) puntano il dito contro il reddito di cittadinanza, considerato un disincentivo alla ricerca di lavoro, soprattutto in agricoltura.

I dati Inps aggiornati a dicembre 2021 dicono che sono 1,2 milioni i nuclei familiari beneficiari di Rdc in Italia, l’86% di nazionalità italiana.

 L’importo medio dell’assegno mensile è di 587 euro.

 30% la carenza di manodopera stimata.

Grande preoccupazione.

«La preoccupazione è alle stelle lungo tutta la filiera – avverte il presidente di Apoconerpo Davide Vernocchi – non solo nelle aziende agricole ma anche in quelle di lavorazione e confezionamento.

 Il rischio che quest’anno rimanga della frutta attaccata agli alberi è molto concreto.

 Bisogna rivedere in maniera importante le politiche sul lavoro – aggiunge –.

Il reddito di cittadinanza non aiuta di certo a portare lavoratori, in questo caso italiani, in campagna.

Questo potrebbe essere un anno importante dal punto di vista produttivo e quindi commerciale, anche perché i nostri principali competitor sono in difficoltà.

Sarebbe un peccato se non riuscissimo a raccogliere tutta la frutta che c’è sugli alberi».

Secondo le stime di Confagricoltura Emilia-Romagna servono cinque milioni di giornate lavorative per soddisfare il fabbisogno di manodopera nei frutteti della regione.

 Ma si teme di non trovarla ed è già emergenza nei vivai e nei campi di fragole in raccolta.

«Forse a livello politico-istituzionale non si è ancora capita la gravità del problema – spiega il presidente di Fruit imprese Marco Salvi – abbiamo perso la manodopera di qualità che avevamo costruito negli anni scorsi, rappresentata da rumeni e polacchi.

 La Germania ha fatto politiche sul lavoro che permettono alle aziende agricole di essere molto più competitive perché pagano un lordo che quasi corrisponde al netto.

Abbiamo bisogno di una forte decontribuzione per tornare competitivi e attirare i lavoratori».

 

Salvi è molto critico anche nei confronti del reddito di cittadinanza. «Difendo il principio – sottolinea – ma il sistema andrebbe rivisto perché è diventato un disincentivo al lavoro, soprattutto per le aree produttive del Sud: Puglia, Campania e Sicilia. Non si trova più personale».

Ma nel frattempo come gestire l’emergenza?

 «Si potrebbe attingere alle donne ucraine fuggite dalla guerra. Le aziende sono disposte ad assumerle e anche ad accoglierle nelle loro case. Ma serve un’accelerazione e una semplificazione dell’iter burocratico per la concessione del permesso di soggiorno. In questo modo si trasformerebbero da un costo a una risorsa per il Paese».

Il presidente di Fruit imprese allarga l’orizzonte temporale oltre la stagione in corso e lancia un allarme di medio-lungo periodo:

«Se continua così rischiamo di perdere quote di mercato perché gli imprenditori mi dicono che vorrebbero investire, ad esempio per ampliare le serre, ma il timore di non trovare la manodopera necessaria a eseguire tutte le lavorazioni li fa desistere».

29% le giornate lavorate da stranieri.

Semplificare, anche con i voucher.

«Già da un lustro abbiamo difficoltà nel reperire manodopera stagionale durante il periodo più intenso di raccolta. Poi covid e reddito di cittadinanza hanno peggiorato la situazione, magari sarà stato un caso, ma oggi si fa ancora più fatica di prima a reperirla. Braccianti italiani? Poco o niente».

Questo il quadro dipinto da Luca Zanarella che a Latina coltiva sei ettari a kiwi giallo, vigneto e oliveto.

«Il problema sono i flussi – spiega –. Il kiwi deve essere raccolto molto velocemente da quando si ha il via libera della propria cooperativa, invece con la carenza di manodopera siamo costretti a prolungare la raccolta con tutte le difficoltà nel mantenimento della frutta.

 Chiediamo una maggiore apertura dei flussi migratori – conclude – e la reintroduzione dei voucher.

Servono strumenti che semplificano».

42.000 stagionali ammessi dal Decreto Flussi.

Si rinuncia a raccogliere le fragole.

In Puglia e Basilicata c’è carenza di manodopera agricola.

 «Già lo scorso anno quella disponibile non era sufficiente, ma quest’anno il problema si è accentuato ulteriormente – afferma Giacomo Mastrosimini, agronomo tecnico di campo attivo nelle aree frutticole pugliesi –.

Adesso se ne avverte la carenza soprattutto per la raccolta delle ciliegie e le operazioni colturali sull’uva da tavola.

 Nelle province di Foggia e Barletta-Andria-Trani, grazie alle gelate, il diradamento sulle varietà precoci di pesche e nettarine non si è rivelato necessario o lo è stato in minima parte, ma è in corso per le varietà tardive e le difficoltà di reperimento di operai agricoli non mancano».

Difficoltà già pienamente emerse negli ultimi mesi in Basilicata, per la raccolta delle fragole e il diradamento delle drupacee.

 Vincenzo Padula, produttore di fragole a Tursi (Mt), ha potuto impiegare circa 50 braccianti, «ma me ne sarebbero serviti almeno il doppio. I migranti stagionali sono pochi, glil operai italiani disponibili scarsi».

 Alcuni produttori hanno rinunciato a raccogliere parte delle fragole.

 Come Ermal Gjuzi, sei ettari a fragola a Scanzano Jonico, che ha dovuto «abbandonare alcuni campi perché con la manodopera disponibile non sono riuscito a tenere la raccolta al passo con la rapida maturazione favorita dalle alte temperature».

Mentre Fabiola D’Affuso dell’azienda agricola Sei Camini di Montalbano Jonico (Mt), ha avuto «serie difficoltà a reperire operai per il diradamento di 18 ettari ad albicocche e pesche.

E i problemi si ripresenteranno per la loro raccolta».

Sono proprio le grandi campagne di raccolta a preoccupare il presidente di Confagricoltura Puglia Luca Lazzàro.

 «Dalle ciliegie all’uva da tavola, dalle drupacee alle tante colture orticole, il problema è lo stesso: anche quest’anno manca manodopera, specializzata e generica.

 L’assenza di braccianti nei campi è un problema che si riflette su tutta la filiera perché ci sono prodotti che vanno raccolti in determinati periodi e per forza a mano».

20% la quota di stagionali utilizzata finora.

Chi rispetta le regole non ha problemi a trovare lavoratori.

 

Enrico Di Girolamo.

«A noi gli operai non mancano.

Abbiamo sempre adottato la politica della giusta retribuzione per i nostri dipendenti.

 E il reddito di cittadinanza non ha cambiato nulla: gli italiani non volevano fare questi lavori anche prima».

Sono due voci fuori dal coro quelle di Enrico Di Girolamo e Vincenzo Di Maria, imprenditori agricoli dell’Agro Pontino.

 «Lavoriamo 12 mesi l’anno, non è agricoltura stagionale perché produciamo in serra e in pieno campo, quindi ho sempre bisogno di manodopera – specifica Di Girolamo –.

Con me lavorano 30 operai, sia italiani sia stranieri:

arrivano da Bangladesh, Marocco, India, Sri Lanka.

Il reperimento non è un problema, semmai lo è la gestione con tutti i documenti che servono per assunzioni, licenziamenti, ecc.».

Di Girolamo ha 20 ettari di serre.

Produce ortaggi: zucchine, fiori di zucca e pomodori.

Vincenzo Di Maria.

Sempre in provincia di Latina, coltiva cinque ettari a pomodori, lattuga, sedano e cetrioli Vincenzo Di Maria.

 Conferisce al mercato ortofrutticolo di Fondi ma ha anche contatti diretti con ditte a Milano, Torino e Genova.

«Mi servo di 14 dipendenti stagionali – racconta –.

Il periodo più intenso va da fine aprile a ottobre.

Anche in questo momento molto particolare non ho avuto difficoltà a reperire la manodopera.

Paghiamo gli operai regolarmente ogni fine mese, anche questo è importante.

 Ci sono aziende che non li pagano.

Sono tutti stranieri, italiani che vogliano fare questo lavoro non si trovano. Nonostante la raccolta oggi sia automatizzata e richieda un minor sforzo fisico, gli italiani non si trovano».

Per Di Maria il vero nodo da sciogliere è un altro: il prezzo riconosciuto ai produttori per i loro raccolti:

 «Paghiamo gli operai in euro, ma vendiamo i nostri ortaggi in centesimi».

 

Gallinella: «Serve piattaforma digitale per domanda e offerta».

I produttori ritengono che una delle cause principali della mancanza di manodopera sia il reddito di cittadinanza.

«Per lo più servono operai specializzati che sappiano usare gli attrezzi, che abbiano dimestichezza con le attività da effettuare.

Il reddito di cittadinanza, fermo restando i dovuti controlli per stanare i furbetti, è un aiuto alle famiglie e, tra l’altro, se le imprese vogliono assumere un percettore del reddito di cittadinanza possono godere di sostanziosi sgravi fiscali e decontribuzioni.

 Inoltre, durante il periodo pandemico abbiamo permesso l’assunzione dei percettori in agricoltura permettendo loro di non perdere i benefici.

Ritengo che il problema principale, invece, sia il dove reperire la manodopera.

Una problematica atavica in Italia, esistente ben prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza.

Grazie alla legge sul caporalato e ai maggiori controlli, in alcune realtà è sparita la manodopera illegale a basso costo.

Trovare un lavoratore con modalità legali, ora che finalmente la figura del caporale tende a scomparire, è divenuto più complesso».

Cosa si potrebbe fare per sbloccare la situazione?

«Servirebbe una piattaforma digitale istituzionale per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. La struttura è già stata realizzata da Anpal.

 Va solo adeguata alle esigenze e alle peculiarità del comparto primario e riempita con le informazioni presenti nei database di Agea e dell’Inps.

 Basta dare uno sguardo agli elenchi Inps per comprendere come forse non sia vero che manchino lavoratori disponibili.

 Un primo potenziale bacino di manodopera sono i circa 350mila lavoratori (di cui 164mila stranieri) che non riescono a raggiungere le 50 giornate annue.

Persone che hanno già lavorato in agricoltura e che, magari, non sono riuscite a trovare nuove occasioni di lavoro ma che sarebbe molto propense all’impiego, in quanto la 51esima giornata permetterebbe loro di ottenere l’assegno di disoccupazione».

 

 

 

Olanda, una” legge green” richiede

l’abbattimento di 30 milioni di capi

di bestiame “entro il 2030”.

Le proteste degli allevatori.

Alimentando.info – (8 Agosto 2022) – Angelo Frigerio – ci dice:

 

Amsterdam (Olanda) –

 Letame e covoni incendiati per le strade.

Da giorni, in Olanda, gli allevatori protestano.

 Perché?

A causa della proposta di legge, avanzata dal governo, per dimezzare, entro il 2030, l’inquinamento da azoto e ammoniaca.

Per farlo, secondo le stime, gli allevamenti dovranno ridurre di un terzo (dal -12% al -70% a seconda della zona) i 100 milioni di capi fra mucche, maiali e galline.

Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, si parla di decine di migliaia di animali da abbattere in almeno 17.600 aziende agricole, 11.200 delle quali sono destinate alla chiusura se non si riconvertiranno o sposteranno.

 L’Olanda è infatti in Ue il Paese membro con la più alta densità di bestiame.

Il governo di “Mark Rutte” stanzierebbe, a sostegno delle aziende, 25 miliardi di euro da qui al 2030.

Ma le singole province, che avrebbero dovuto presentare i rispettivi piani per la riduzione dell’azoto entro luglio, si sono astenute:

 il governo mostra i primi cenni di difficoltà.

 

 

 

Cos’è questa storia che in Olanda

vogliono abbattere 30 milioni di bovini

per ridurre gli allevamenti intensivi?

Greenme.it - Sabrina Del Fico – (9 Agosto 2022) - ci dice:

 

L'Olanda sarà la prima Nazione a ridurre gli allevamenti intensivi, prevedendo un progressivo abbattimento dei capi già condannati al macello, che non verranno però reintegrati con animali capi.

Gli allevamenti intensivi sono tra le cause più impattanti della crisi climatica, senza contare i risvolti etici e del benessere animale.

 Ma a questo punto è possibile davvero ridurli?

L’Olanda ci prova e lo fa, è vero, disponendo l’abbattimento del bestiame in eccesso.

Gli allevamenti intensivi sono diventati uno dei paradossi del nostro tempo:

da una parte ci sono la sofferenza degli animali, gli standard igienici troppo spesso violati, la macchia viscida della deforestazione per far posto ai pascoli, l’enorme impatto ambientale di queste aziende;

dall’altra gli enormi guadagni che questo settore garantisce ogni anno ad allevatori di tutto il mondo oltre che miliardi di persone da sfamare.

In mezzo, un Pianeta sempre più distrutto e una crisi climatica che galoppa e che minaccia di travolgere ogni cosa con foga inaudita.

In questo marasma, ci sono Paesi che stanno iniziando a ripensare al loro modo di produrre il cibo e di impattare sull’ambiente.

L’Olanda, Paese europeo dove si allevano più animali destinati al macello e all’alimentazione umana, ha deciso di tornare sui propri passi e dare inizio a una politica di riduzione dei capi di bestiame e delle aziende che si occupano dell’allevamento degli animali.

Il prezzo di questa scelta, sicuramente encomiabile, è però molto alto.

Per ridurre l’impatto sull’ambiente degli allevamenti intensivi 30 milioni di animali, il cui destino era comunque quello della macellazione, verranno uccisi da qui al 2030.

Questi animali, già condannati a morte, verranno quindi via via macellati ma non reintegrati con nuovi capi.

Quindi, se è vero che il prezzo da pagare è alto, è vero anche che è un prezzo che gli animali avrebbe comunque pagato – con il vantaggio che la stessa sorte non toccherà ad altri bovini, ovini e suini.

Il Governo olandese ha stabilito una drastica riduzione degli allevamenti intensivi di bovini, ovini e pollame per dimezzare i livelli di inquinamento da azoto e ammoniaca entro il 2030, stanziando per questo un fondo di ben 25 miliardi di euro per “convincere” gli allevatori a rinunciare a parte del loro bestiame o a chiudere la propria azienda per dedicarsi a un’altra attività produttiva.

Secondo le stime contenute nel documento “Memorandum per le aree rurali”, per raggiungere l’ambizioso obiettivo del Governo circa 11.200 allevatori dovrebbero chiudere bottega e altri 17.600 dovrebbero ridurre il numero di animali che ospitano nelle loro aziende.

Ma cosa prevede questo programma?

La strategia governativa si sviluppa su due piani:

da una parte, come abbiamo detto, sedurre gli allevatori con finanziamenti che li orientino verso altri settori produttivi;

dall’altra, convertire gli allevamenti intensivi in allevamenti estensivi, il che porterebbe un numero minore di animali su una superficie più vasta, diminuendo così i livelli dell’inquinamento.

 Anche in questo caso, si tratterebbe di ridurre l’affollamento negli allevamenti uccidendo decine di migliaia di animali.

Entro lo scorso mese, le diverse province avrebbero dovuto presentare il loro piano con i provvedimenti per ridurre la produzione di azoto e ammoniaca, ma molte non lo hanno ancora fatto. Intanto, le proteste degli allevatori non si sono fatte attendere e vanno avanti già da alcune settimane – talvolta traducendosi in violenti scontri con le forze di polizia.

La partecipazione al programma di riduzione di capi negli allevamenti è su base volontaria, almeno per ora.

Agli allevatori che scelgono di cambiare mestiere e abbattere i loro animali il Governo accorderà un “premio” in denaro, ma non tutti sono disposti a rinunciare alla propria attività (che spesso si tramanda da generazioni) in nome dell’ambiente – neanche dietro lauto compenso.

Un’iniziativa, questa, che trova proprio negli allevatori l’ostacolo maggiore ma che dovrebbe essere presa come esempio da tutte le altre nazioni che vogliono davvero contribuire a ridurre le emissioni inquinanti.

 

 

 

«L’ambiente non si potrà salvare senza il bestiame».

Edagricole.it - Carlotta Iarrapino - Nadia El-Hage Scialabba - (27 Gennaio 2022) – ci dicono:

 

Abbiamo intervistato Nadia El-Hage Scialabba ricercatrice ed esperta ambientale (ex Fao) ambientale secondo la quale i bovini rappresentano un punto focale nella sostenibilità di un sistema.

Si sente sempre dire che l'allevamento contribuisce in maniera consistente al cambiamento climatico ma Nadia El-Hage Scialabba, esperta sistemi alimentari sostenibili, afferma in una sua recente pubblicazione che “l’ambiente non si potrà salvare senza il bestiame”.

 Di questa rivoluzione copernicana ne abbiamo parlato direttamente con lei.

Come è giunta a questa conclusione?

Quando lavoravo alla” Fao” avevo osservato come l'elemento animale produceva o disastri o benefici per l'ambiente.

 Si andava da un estremo all'altro ma, comunque, era sempre l’elemento determinante della sostenibilità di un sistema.

 I grandi erbivori importanti per il ciclo dei nutrienti e la fertilità del suolo ci sono sempre stati, in tutte le ere geologiche e il problema non è l'animale ma come lo gestiamo.

Ridurre gli animali soltanto a merce oppure affermare che il cambiamento climatico sia causato dalle loro emissioni è riduttivo.

Eliminare il bestiame perché non siamo in grado di gestirlo sarebbe un errore molto grave.

Dal punto di vista ambientale, poi, mangiare pollame o suini è molto peggio che mangiare una buona bistecca di bovino.

Gli animali mono gastrici allevati oggi sono nutriti essenzialmente con mangime: ad esempio il 68% del mais prodotto nel mondo è utilizzato come mangime per il pollame.

 Questi allevamenti, prevalentemente intensivi, sono anche dannosi per la nostra salute, visto la loro capacità di essere potenziali ospiti intermediari per la generazione di virus dell’influenza pandemica aviaria e suina.

 Approfondendo sono giunta alla conclusione che l’allevamento al pascolo a livello mondiale porterebbe a incredibili benefici per il nostro ecosistema.

Lei mette in evidenza come contabilizzazioni unilaterali delle emissioni di gas serra portino a conclusioni errate.

Ci può spiegare meglio?

Quando si parla di emissioni si contabilizza il carbonio che il bestiame emette direttamente (numero di carbonio per chilogrammo di animale).

 Non vengono conteggiate le emissioni che si producono per produrre il mangime coltivato con pesticidi, le emissioni prodotte dalla deforestazione per lasciare spazio all’allevamento o le colture di cereali destinati a mangime.

 Non vengono conteggiati neppure l'assorbimento di carbonio delle praterie, né l’effetto cumulativo sul ciclo globale di azoto.

Parlo di 3,4 miliardi di ettari di praterie permanenti che occupano il 70% della superfice agricola mondiale.

In queste terre bisogna lasciare gli animali brucare l'erba.

 Infatti i ruminanti creano un circolo virtuoso nelle praterie per l'assorbimento di carbonio nel suolo.

Recenti studi dimostrano che l’allevamento in pascoli del bestiame aiuta a confiscare più carbonio di quanto ne venga emesso.

 Questo ribalta la credenza relativa all’impatto negativo sull’ambiente del bestiame.

Lei afferma che biodiversità, desertificazione e cambiamenti climatici sono strettamente interconnessi e che fino ad oggi sono state portate avanti soluzioni inefficienti come, per esempio, il riposo del terreno o l’uso del fuoco, pratiche ampiamente utilizzate in tutto il mondo.

Anche questo è un elemento che sorprende…

Bisogna tornare all'ecologia dell'erba.

La materia organica nel suolo è quella che supporta le colture e la stabilità dell’ecosistema ed è importante per la ritenzione idrica, il ciclo dei nutrienti, la trasformazione del carbonio e la biodiversità del suolo.

L’utilizzo del letame dell'animale per avere più materia organica nel suolo è una tecnica porta i suoi benefici.

Invece tecniche come mettere a riposo il suolo possono funzionare in aree che ricevono oltre 600 mm di acqua all’anno ma nelle terre che ricevono meno di 400 mm di acqua come nell’area mediterranea o nelle zone aridi, il riposo del suolo porta invariabilmente alla desertificazione.

Un’altra pratica utilizzata per incrementare velocemente nutrienti nella terra è quella di usare il fuoco.

 In Africa vengono bruciati ogni anno un miliardo di ettari, eppure la desertificazione di quelle terre avanza con una grande velocità.

La piantumazione di specie vegetali potrebbe arrestare la desertificazione solo se associata all’introduzione di greggi.

Infatti la riforestazione per fermare la desertificazione sta mostrando insuccessi perché non riesce a fermare l'ossidazione e il decadimento biologico della copertura vegetale.

 L'unica soluzione è riportare il gregge nelle praterie se vogliamo veramente avere un equilibrio a livello di sistema terrestre.

E dunque è il bestiame la soluzione? Ci può spiegare come funziona un Pascolo olistico pianificato?

Nei pascoli permanenti, i ruminanti sono fondamentali per convertire la luce solare catturata nella biomassa in cibo.

 Vari esperimenti in America, Africa e Australia hanno dimostrato come la re-introduzione di mandrie rigenera la terra:

rompono il suolo indurito migliorando la penetrazione dell'acqua, la ritenzione idrica e la capacità delle nuove piante di stabilirsi e crescere.

 

L'unica opzione disponibile per affrontare seriamente la desertificazione e il cambiamento climatico è il bestiame.

Il problema è proprio l’assenza di animali nelle aziende agricole.

Il Pascolo olistico pianificato è una forma sviluppata di permacultura per le praterie, nato negli anni ‘60 da Allan Savory in Sud Africa.

Questa gestione olistica individua la frequenza, il tempo e l'intensità del brucare della mandria.

Il bestiame viene spostato regolarmente da una zona recintata all'altra.

 La loro attività è quella di brucare, pestare il terreno e, producendo liquami, rigenerare la flora, attraverso la mineralizzazione nel suolo delle sostanze nutritive.

Parliamo ora del consumo di carne.

 Lei dichiara che la “carne finta” costruita in laboratorio risulta più inefficiente e inquinante di quella naturale.

Una soluzione che propone l'industria che peggiorerebbe la situazione invece di migliorarla.

La prima carne sintetica è iniziata a circolare nel 2015.

 Oggi le grandi potenze investono milioni in questo settore.

Nel 2019 "Impossibile Food" ha ricevuto il premio alle Nazioni Unite come Burger positivo per il clima.

Mi sono iniziata a informare sulla questione e ho scoperto che questi sostituti di prodotti animali (carne, latte, uova) chiamati” plant-based proteins” hanno bisogno di materia prima, come la soia e il mais, della quale si estraggono le proteine vegetali, prodotti con uso massiccio di glifosate, e altri fitofarmaci.

Inoltre, devono essere aggiunti numerosi ingredienti come vitamine e minerali e hanno un alto contenuto di sale.

La carne in vitro viene prodotta con un’ alta intensità energetica e la coltura tissutale della carne bovina prevede l'uso di fungicidi, antibiotici e fattori di crescita, come gli ormoni sessuali, vietati in zootecnia in Europa perché possono provocare rischi per la salute.

Inoltre la carne da laboratorio ha impatti ambientali più elevati rispetto al pollo, latticini e sostituti a base di glutine, e impatti molto più elevati rispetto a sostituti a base di soia.

Per quanto riguarda gli impatti sulla salute, invece, ci vorrà tempo per avere i primi risultati in merito.

I disciplinari “Demeter” per le aziende biodinamiche prescrivono l'inserimento del bestiame in azienda e, attraverso i corsi promossi dall'”Associazione per l'Agricoltura biodinamica”, si diffondono buone pratiche di gestione delle greggi che si avvicinano molto al Pascolo olistico pianificato.

 Vista la sua esperienza in ambito internazionale nel campo della agricoltura biologica e sostenibile, quale ruolo attribuisce all’agricoltura biodinamica in questa fase di transizione ecologica che il nostro Paese dovrà affrontare?

Esistono realtà certificate biologiche solo perché nutrono con mangimi biologici le loro vacche chiuse in stalla.

Da oltre cent’anni gli agricoltori hanno separato gli animali dai campi ma questa separazione, che crea un ciclo aperto, si è rilevata molto inefficiente.

Per fortuna esistono anche realtà, come per esempio quelle biodinamiche, dove abbiamo ottimi risultati dal punto di vista ambientale, sociale e economico.

Nell’attuale contesto la biodinamica ha molto da offrire, visto la sua performance superiore al biologico in termini di integrazione degli animali nell’azienda e di sequestro di carbonio nel suolo.

 L’agricoltura biodinamica è il modello per eccellenza per la salvaguardia dell’ambiente proprio perché si basa sul ciclo chiuso.

Credo che l'inserimento del bestiame nel sistema azienda sia un obiettivo da perseguire.

 Non è facile, dopo tanti anni di segregazione e di specializzazione.

 Servono quindi molti investimenti in formazione e ricerca a supporto dell’economia circolare.

 

Il peso della colpa: la biomassa del

bestiame supera quella dei

mammiferi selvatici.

Greenreport.it – Redazione – (21 marzo 2023) – ci dice:

 

I mammiferi selvatici terrestri pesano complessivamente meno del 10% degli esseri umani e i bovini e altri mammiferi domestici sono 30 volte più pesanti dei mammiferi selvatici.

Guardando i documentari in televisione, ci viene da credere che la Terra sia un regno infinito di grandi pianure, giungle e oceani popolato da innumerevoli  animali selvatici, Secondo lo studio “The global biomass of wild mammals”, il primo censimento globale della biomassa dei mammiferi selvatici pubblicato recentemente su “PNAS” da un team di ricercatori israeliani,  in realtà quel mondo popolato da animali iconici sta scomparendo rapidamente, sostituito dai nostri animali di allevamento e da noi stessi.

Infatti, lo studio dimostra che «La biomassa dei mammiferi selvatici sulla terraferma e in mare è molto meno del peso combinato di bovini, maiali, pecore e altri mammiferi domestici».

Il team di ricercatori guidato da “Ron Milo” del “Weizmann Institute of Science” ha scoperto che «La biomassa del bestiame ha raggiunto circa 630 milioni di tonnellate, 30 volte il peso di tutti i mammiferi terrestri selvatici (circa 20 milioni di tonnellate) e 15 volte quello dei mammiferi marini selvatici (40 milioni di tonnellate)».

 

Il precedente studio “Global human-made mass exceeds all living biomass”, pubblicato dallo stesso “Team di Milo” su “Nature” nel dicembre 2020, aveva dimostrato che nel 2020 la massa di oggetti creati dall’uomo – qualsiasi cosa, dai grattacieli ai giornali – aveva superato l’intera biomassa del pianeta, dalle sequoie alle api.

Nel nuovo studio i ricercatori israeliani forniscono una nuova prospettiva dell’impatto in rapido aumento dell’umanità sul nostro pianeta, mostrando il rapporto tra esseri umani e mammiferi domestici e mammiferi selvatici.

Milo spiega che «Questo studio è un tentativo di vedere il quadro più ampio. L’abbagliante diversità delle varie specie di mammiferi può oscurare i drammatici cambiamenti che interessano il nostro pianeta.

 Ma la distribuzione globale della biomassa rivela prove quantificabili di una realtà che può essere difficile da cogliere altrimenti:

mette a nudo il dominio dell’umanità e del suo bestiame sulle popolazioni molto più piccole dei mammiferi selvatici rimasti».

Per calcolare la biomassa dei mammiferi, la classe alla quale apparteniamo, i ricercatori hanno messo insieme i censimenti esistenti delle specie di mammiferi selvatici e le caratteristiche distintive di altre centinaia. 

“Lior Greenspoon” e “Eyal Krieger” del “Department of plant and environmental Sciences” del “Weizmann” – diretto da Milo – hanno guidato la trasformazione delle informazioni accumulate in stime della biomassa animale e umana.

 I censimenti raccolti hanno prodotto dati su circa la metà della biomassa globale dei mammiferi.

 Il team ha calcolato la metà rimanente utilizzando un modello computazionale di apprendimento automatico addestrato sulla metà iniziale e che incorporava più parametri, tra cui il peso corporeo degli individui, la distribuzione dell’area, la nutrizione e la classificazione zoologica.

L’analisi ha mostrato che «L’influenza umana influenza fortemente anche la presenza relativamente limitata di mammiferi rimanenti in natura.

Molti dei mammiferi selvatici in cima alla tabella della biomassa, come le specie di cervo dalla coda bianca e il cinghiale, sono arrivati che sono ​​lì in parte a causa dell’attività antropica e che ora in alcune aree sono visti come parassiti».

I ricercatori sono convinti che le stime del nuovo studio sui rapporti tra la biomassa selvatica e umani/bestiame «Possono aiutare a monitorare le popolazioni di mammiferi selvatici a livello globale e aiutare a valutare il rischio rappresentato dalle malattie che si diffondono dagli animali all’uomo, una dinamica che molti epidemiologi avvertono continuerà a generare epidemie».

Al “Weizmann Institute of Science” ricordano che «Per l’umanità, i mammiferi selvatici sono un’ispirazione e spesso fungono da icone che incoraggiano gli sforzi di conservazione della natura».

 Per comprendere meglio l’impatto umano sull’ambiente, gli scienziati del laboratorio di Milo stanno attualmente analizzando come è cambiata la biomassa dei mammiferi nel secolo scorso.

“Greenspoon “spiega a sua volta:

«Trovo importante capire, ad esempio, quando esattamente il peso combinato dei mammiferi domestici ha superato quello di quelli selvatici.

Una migliore comprensione dei cambiamenti indotti dall’uomo può aiutare a stabilire obiettivi di conservazione e offrirci una prospettiva sui processi globali a lungo termine».

“Milo”  conclude:

 «Più siamo esposti al pieno splendore della natura, sia attraverso i film, i musei o l’ecoturismo, più potremmo essere tentati di immaginare che la natura sia una risorsa infinita e inesauribile.

In realtà, il peso di tutti i mammiferi terrestri selvatici rimasti è inferiore al 10% del peso combinato dell’umanità, il che equivale a circa 2, 7 Kg di mammiferi terrestri selvatici per persona.

In altre parole, la nostra ricerca mostra, in termini quantificabili, l’entità della nostra influenza e come le nostre decisioni e scelte nei prossimi anni determineranno ciò che resterà della natura per le generazioni future».

 

 

 

"Obbligare gli allevatori a

 vendere le loro attività", il

 consiglio Ue all'Olanda.

Agrifoodtoday.it – (23 giugno 2023) – Alessia Capasso – ci dice:

 

SCELTE DIFFICILI.

Secondo l'emittente olandese Nos, un alto funzionario della Commissione europea avrebbe proposto questa soluzione al governo dei Paesi Bassi per risolvere la "crisi dell'azoto".

Bruxelles all'Olanda: "Dovete obbligare gli allevatori a vendere le loro attività".

Insistere e obbligare alcuni agricoltori a vedere le loro attività.

Lo avrebbe consigliato al governo dei Paesi Bassi “Diederik Samsom” a nome della Commissione europea, secondo quanto sostiene il quotidiano olandese Nos, dopo aver visualizzato alcuni documenti riservati, insieme con la piattaforma di ricerca “Follow the Money”.

La notizia arriva dopo la clamorosa vittoria alle ultime elezioni provinciali del “BoerBurgerBeweging” (Bbb – Movimento dei Contadini e dei cittadini), che in questo modo ha ottenuto un alto numero di seggi al Senato, sorprendendo gli stessi vertici del partito.

“Samson” non è un funzionario qualunque.

 Già amministratore delegato di aziende di energie rinnovabili, eletto alla Camera con il Partito del Lavoro, attualmente è capo dello staff del commissario europeo “Frans Timmermans”, responsabile del “Green Deal”.

 In tale veste, spiega Nos, ha avuto un colloquio con alti funzionari del ministero dell'Agricoltura, della natura e della qualità degli alimenti.

Assenza di cooperazione.

In questo momento quella agricola è la questione più calda e delicata in Olanda, come ha dimostrato la vittoria del “Bbb”, creato solo pochi anni fa proprio per tutelare gli interessi di agricoltori e allevatori.

 Questi ultimi sono sotto pressione a causa del "piano azoto", formulato dal governo guidato da “Mark Rutte” per abbattere le emissioni che stanno inquinando in maniera drammatica acqua e suoli.

Un contributo importante a questo avvelenamento diffuso proviene proprio dal settore agricolo, centrato sull'iper produttività, l'uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi, nonché su un trattamento intensivo del bestiame.

Per questa ragione la ministra” Christianne Van der Wal”, per la quale è stato creato un apposito “dicastero all'azoto”, ha elaborato un vasto piano per l'abbattimento delle emissioni, che prevede anche la possibilità per lo Stato di acquistare le attività più inquinanti, pur di farle cessare.

“Il Movimento dei contadini” non vuole cooperare con l'esecutivo.

 Anche gran parte della “Camera dei Rappresentanti” non vede di buon occhio queste misure.

 Vista la scarsa collaborazione dei contadini, che non intendono rinunciare a metodi produttivi intensivi, neppure quelli situati in prossimità delle aree naturali più vulnerabili, il governo ha messo in conto, come opzione estrema, quella dell'acquisizione forzata delle proprietà.

Contro il guardrail.

Secondo la Commissione europea, riferisce Nos, il buy-out obbligatorio è la ricetta per uscire sia dalla crisi ambientale che dall'impasse politico in cui si trova Rutte.

La posizione dell'esecutivo europeo, secondo quanto rivela il quotidiano olandese, sarebbe stata espressa da “Samson” lo scorso novembre in una conversazione con alti funzionari olandesi.

Riferendosi ai problemi dell'azoto, l'alto funzionario avrebbe detto che "l'Olanda è andata a sbattere contro il guardrail con l'auto piena", sostenendo poi che apportare modifiche al piano non risultava più utile. “Samson” avrebbe affermato inoltre che "poiché la natura soffre troppo per la precipitazione dell'azoto, difficilmente si possono costruire nuove strade".

A livello formale Bruxelles non è responsabile del modo in cui i Paesi Bassi raggiungono i propri obiettivi di azoto.

 Alla Commissione spetterebbe solo controllare se gli Stati membri rispettano tutte le norme europee, e fornire semplici consulenze sul "come" perseguire gli obiettivi prefissati, ma l'ultima parola sulle modalità spetta ai governi nazionali.

Da tempo Bruxelles valuta la possibilità di programmi di acquisto volontario, ma risulta molto severa al riguardo.

L'ipotesi dell'acquisto obbligatorio verrebbe letta con minore severità.

 In questo caso, secondo quanto avrebbe affermato “Samson”, si consentirebbe anche di pagare importi più elevati agli agricoltori o di farli firmare a condizioni più favorevoli.

A proposito di queste rivelazioni il giornale olandese ha chiesto una risposta a “Samson”, il quale dice di aver segnalato al ministero dell'Agricoltura solo le varie regole europee in materia di espropriazione e buy-out.

"La scelta tra i due strumenti sulla base di altre considerazioni è ovviamente lasciata agli Stati membri", avrebbe sottolineato il funzionario.

 

 

La cospirazione del “Grande Zero Carbone

e il Grande Reset del Wef.

Globalresearch.ca – F. William Engdahl – 14 giugno  2023 – ci dice:  

(…)

È la copertura per un diabolico secondo piano.

Origini del "riscaldamento globale."

Molti hanno dimenticato la tesi scientifica originale avanzata per giustificare un cambiamento radicale nelle nostre fonti energetiche.

 Non era "cambiamento climatico".

Il clima terrestre è in continua evoluzione, correlato ai cambiamenti nell'emissione di brillamenti solari o cicli di macchie solari che influenzano il clima terrestre.

Intorno al volgere del millennio, quando il precedente ciclo di riscaldamento guidato dal sole non era più evidente, Al Gore e altri hanno spostato la narrazione in un gioco di prestigio linguistico a "Cambiamento climatico", dal riscaldamento globale.

 Ora la narrativa della paura è diventata così assurda che ogni strano evento meteorologico viene trattato come "crisi climatica".

 Ogni uragano o tempesta invernale è rivendicato come prova che gli “Dei del Clima” stanno punendo gli esseri umani peccaminosi che emettono CO2.

Ma aspetta.

 L'intera ragione della transizione verso fonti energetiche alternative come il solare o l'eolico, e l'abbandono delle fonti di energia del carbonio, è la loro affermazione che la CO2 è un gas serra che in qualche modo arriva fino all'atmosfera dove forma una coperta che presumibilmente riscalda la Terra sottostante - Global Warming.

Le emissioni di gas serra secondo l'Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti provengono principalmente dalla CO2.

 Da qui l'attenzione alle "impronte di carbonio".

Ciò che non viene quasi mai detto è che la” CO2” non può librarsi nell'atmosfera dagli scarichi delle automobili o dalle centrali a carbone o da altre origini artificiali.

 L'anidride carbonica non è carbonio o fuliggine.

È un gas invisibile e inodore essenziale per la fotosintesi delle piante e tutte le forme di vita sulla terra, compresi noi.

“La CO2 ha un peso molecolare di poco superiore a 44 mentre l'aria (principalmente ossigeno e azoto) ha un peso molecolare di soli 29”.

Il peso specifico della CO2 è circa 1,5 volte maggiore dell'aria. Ciò suggerirebbe che i gas di scarico di CO2 provenienti da veicoli o centrali elettriche non salgono nell'atmosfera a circa 12 miglia o più sopra la Terra per formare il temuto effetto serra.

Maurizio Forte.

Per apprezzare quale “azione criminale” si sta svolgendo oggi intorno a Gates, Schwab e ai sostenitori di una presunta economia mondiale "sostenibile", dobbiamo tornare al 1968, quando David Rockefeller e amici crearono un movimento attorno all'idea che il consumo umano e la crescita della popolazione fossero il principale problema mondiale.

Rockefeller, la cui ricchezza era basata sul petrolio, creò il neo-malthusiano Club di Roma nella villa Rockefeller di Bellagio, in Italia.

Il loro primo progetto fu quello di finanziare uno studio spazzatura al MIT chiamato “Limits to Growth” nel 1972.

Un organizzatore chiave dell'agenda di "crescita zero" di Rockefeller nei primi anni 1970 era il suo amico di lunga data, un petroliere canadese di nome” Maurice Strong”, anche lui membro del Club di Roma.

 Nel 1971 Strong (pur essendo un criminale) fu nominato Sottosegretario delle Nazioni Unite e Segretario Generale della conferenza della Giornata della Terra di Stoccolma del giugno 1972. Fu anche amministratore fiduciario della Fondazione Rockefeller.

Maurice Strong è stato uno dei primi propagatori chiave della teoria scientificamente infondata secondo cui le emissioni prodotte dall'uomo dai veicoli di trasporto, dalle centrali a carbone e dall'agricoltura hanno causato un drammatico e accelerato aumento della temperatura globale che minaccia la civiltà, il cosiddetto riscaldamento globale.

Ha inventato il termine elastico "sviluppo sostenibile".

Come presidente della “Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite per la Giornata della Terra del 1972”, Strong ha promosso “la riduzione della popolazione e l'abbassamento degli standard di vita in tutto il mondo” per "salvare l'ambiente".

Alcuni anni dopo lo stesso Strong dichiarò:

"L'unica speranza per il pianeta non è che le civiltà industrializzate collassano? Non è nostra responsabilità realizzarlo?"

Questa è l'agenda oggi conosciuta come Great Reset o Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

 Strong (noto criminale del clima) ha continuato a creare il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), un organismo politico che avanza l'affermazione non provata “ e quindi falsa” che le emissioni di CO2 prodotte dall'uomo stavano per far precipitare il nostro mondo in una catastrofe ecologica irreversibile.

Il co-fondatore del Club di Roma, il dottor “Alexander King”, ammise la frode criminale essenziale della” loro agenda ambientale” alcuni anni dopo nel suo libro, “The First Global Revolution”.

Egli ha dichiarato:

Alla ricerca di un nuovo nemico che ci unisse, ci è venuta l'idea che l'inquinamento, la minaccia del riscaldamento globale, la scarsità d'acqua, la carestia e simili sarebbero stati all'altezza ...

Tutti questi pericoli sono causati dall'intervento umano ed è solo attraverso atteggiamenti e comportamenti modificati che possono essere superati.

 Il vero nemico, quindi, è l'umanità stessa.

King ha ammesso che la "minaccia del riscaldamento globale" era semplicemente uno stratagemma per giustificare un attacco all'"umanità stessa".

 Questo è ora in fase di implementazione come il “Grande Reset” e lo stratagemma “Net Zero Carbon” proposto da autentici “criminali”.

(…)

 

 

 

La Polonia Vuole diventare l’Esercito

Nato più Potente sul Fianco Orientale.

 

Conoscenzealconfine.it – (23 Giugno 2023) – Redazione – ci dice:

 

La Polonia aumenta le spese militari al 4% del Pil

La Polonia, che negli ultimi due anni ha investito molto nell’industria della difesa e firmato accordi di fornitura di armi con paesi come la Corea del Sud e gli Stati Uniti, punta a diventare uno degli eserciti più forti d’Europa.

Considerando le minacce alla sicurezza con l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, le spese militari del governo polacco dovrebbero raggiungere i 130 miliardi di zloty (27,7 miliardi di euro) entro la fine di quest’anno.

Questa cifra, la più alta tra i membri della NATO, corrisponde al 4% del prodotto interno lordo (PIL) del paese.

Si prevede che il paese spenderà un totale di 524 miliardi di zloty (117,6 miliardi di euro) in spese militari entro il 2035.

Il 5 aprile 2022, poche settimane dopo l’inizio della guerra, l’amministrazione di Varsavia ha firmato un accordo del valore di circa 5 miliardi di euro per l’acquisto di 250 carri armati Abrams americani.

Le autorità polacche hanno poi firmato un altro accordo nel luglio 2022 per acquistare 1000 carri armati K2 Black Panther e 672 obici K9 Thunder dalla Corea del Sud.

La Polonia, che ha firmato un accordo con gli Stati Uniti per 96 elicotteri Apache nel settembre 2022, ne ha presi in consegna 8 il mese scorso.

 Ha anche raggiunto un accordo con la Corea del Sud per l’acquisto di 218 lanciarazzi K239 Chunmoo nel novembre 2022.

Il ministro “Blaszczak “ha annunciato l’8 febbraio che gli Stati Uniti hanno approvato la vendita di circa 500 lanciarazzi multipli HIMARS a Varsavia.

Infine, il 28 febbraio, il ministro “Blaszczak” ha riferito che è stato firmato un contratto per la produzione di oltre mille veicoli corazzati da combattimento “Borsuk” per sostituire i vecchi veicoli da combattimento di fanteria di tipo sovietico utilizzati dal suo paese.

 

Il 4 marzo 2022, pochi giorni dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, la Polonia ha firmato un accordo da 1,4 miliardi di sterline (1,65 miliardi di euro) con il produttore di armi britannico “Babcock” per 3 nuove fregate.

Le navi da guerra che saranno costruite in Polonia e chiamate classe “Miecznik” saranno versioni simili delle fregate” Type 31” della “Royal Navy”.

Anche l’esercito polacco mira ad aumentare il reclutamento.

 Si punta ad aumentare il numero dei soldati, che lo scorso anno erano 150mila, ad almeno 300mila entro il 2035.

(trthaber.com/haber/dunya/polonya-natonun-dogu-kanadindaki-en-guclu-ordu-olmak-icin-harcamalarini-hizlandirdi-776429.html)

 

 

 

Per il clima bisogna agire subito.

Almanacco.cnr.it - Patrizia Ruscio – (27-10-2021) – ci dice:

PAURA.

I campanelli di allarme sono sotto i nostri occhi: temperature in aumento, eventi estremi sempre più frequenti.

 Dobbiamo cambiare in fretta gli stili di vita per ridurre le emissioni di CO2, come invita a fare “Annalisa Cherchi” dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr e “lead author” dell'ultimo rapporto “Ipcc”.

 

Tutti ne siamo consapevoli ma non se ne parla mai abbastanza e si fa ancora meno.

Il clima è cambiato e se non facciamo qualcosa, tutti insieme e al più presto, andremo incontro a eventi climatici sempre più critici per le sorti del Pianeta.

Non serve Greta Thunberg a ricordarci che c'è un disallineamento nelle stagioni, con estati sempre più calde e inverni sempre meno rigidi, e precipitazioni burrascose che si abbattono ovunque.

Sono questi i chiari segnali che c'è qualcosa nell'aria: sono i gas serra.

Le emissioni di CO2 nell'atmosfera stanno innalzando la temperatura del Pianeta, non c'è più tempo, bisogna agire immediatamente, lo dicono i fatti.

Nell'ultima edizione del rapporto sul clima dell'”Intergovernmental Panel on Climate Change” (Ipcc), sono stati esplorati cinque possibili scenari futuri, che descrivono diversi contesti a seconda della mitigazione delle emissioni.

“In particolare, se nei prossimi decenni non si verificheranno profonde riduzioni delle emissioni di gas serra, la temperatura superficiale media globale continuerà ad aumentare.

Nell'ipotesi migliore, che prevede emissioni di CO2 più basse, il riscaldamento globale durante il XXI secolo potrebbe restare al di sotto dei due gradi.

 Se, invece, prendiamo in considerazione uno scenario con elevate emissioni, la capacità di assorbimento del carbonio da parte degli oceani e degli ecosistemi risulterebbe tanto compromessa da perdere efficacia nel rallentare il tasso di crescita della CO2 atmosferica”, spiega “Annalisa Cherchi” dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (Isac) del Cnr, tra i “lead author” del rapporto.

 

Secondo la scienza, l'inversione di alcune delle conseguenze dei cambiamenti climatici in atto richiederebbe centinaia di anni per avere effetti positivi sulla salute degli oceani, sullo scioglimento dei ghiacci marini artici e sull'abbassamento del livello del mare.

“Il primo lockdown ha proiettato il Pianeta sul banco di un esperimento climatico che, diversamente, non sarebbe stato possibile fare.

 Per circa due mesi le attività si sono fermate in tutto il mondo e i dati hanno dimostrato che c'è stata una diminuzione delle emissioni in atmosfera, anche di CO2, ma le concentrazioni non sono diminuite di tanto e le temperature globali quasi non se ne sono accorte”, commenta l'esperta.

“Questo è un chiaro segnale che servono misure protratte nel tempo, perché i processi in corso sono soggetti a una forma di inerzia che solo gli anni possono riattivare”.

Una riduzione delle emissioni di gas serra, in sintesi, potrebbe provocare effetti positivi sulla qualità dell'aria, osservabili in pochi anni, anche se l'impatto sulla temperatura della Terra saranno visibili dopo molti decenni.

 Nel Mediterraneo, sostengono i ricercatori dell'Ipcc, gli eventi estremi di elevata temperatura sono aumentati nettamente dagli anni cinquanta, proprio a causa delle attività dell'uomo.

 In base alle proiezioni climatiche disponibili, la situazione potrebbe migliorare in futuro se ci si orienterà verso comportamenti consapevoli.

 “Quello che possono fare i cittadini per andare incontro a questo processo è ridurre l'inquinamento il più possibile.

Ben vengano, quindi, tutte le pratiche di buon senso, che se attuate nel quotidiano sicuramente aiutano”, conclude “Cherchi”.

 “L'impegno collettivo, però, è necessario che sia supportato dalla classe politica. Per questo è importante che i governatori agiscano sulla base di ciò che sta succedendo e che potrebbe succedere.

Si tratta di aspetti che esulano dalla ricerca scientifica ma è di fondamentale importanza considerarle, se si desidera invertire il clima di un futuro alle porte”.

In questa ottica, differenziare i rifiuti non sarà più un vezzo e consumare energia da fonti rinnovabili, compatibilmente con lo stato dell'arte della transizione ecologica, consentirebbe di raggiungere obiettivi importanti per le sorti della Terra.

Greta Thunberg ha ragione quando dice che “Non c'è un pianeta B e non c'è un piano B”.

 Almeno non ancora e verosimilmente non nel breve periodo.

(Annalisa Cherchi, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima, email a.cherchi@isac.cnr.it -)

 

 

 

CAMBIAMENTI CLIMATICI.

Wwf.it – Redazione – ( 10 -6-2023) – ci dice:

 

Cosa fa il WWF.

Cosa puoi fare tu.

Ormai da decenni la comunità scientifica, anche avvalendosi di modelli matematici sempre più accurati, ha descritto come il clima del Pianeta stia cambiando in modo preoccupante e come le responsabilità di questi cambiamenti sia delle attività umane, a cominciare dall’uso massiccio dei combustibili fossili.

Oggi siamo di fronte a fenomeni climatici sempre più estremi, frequenti e devastanti.

Molte specie stanno tentando di reagire al cambiamento:

 alcuni uccelli migratori stanno cambiando periodi di arrivo e di partenza anno dopo anno, le fioriture stanno anticipando, le specie montane si spingono, finché possono, in alta quota.

Ma tutto questo ha un prezzo.

Ormai nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima del Pianeta e sulla nostra responsabilità.

1.5°C.

limite massimo al riscaldamento del Pianeta per contenere i danni più devastanti provocati da un innalzamento delle temperature.

55%

Obiettivo minimo dell’UE di riduzione netta di gas serra entro il 2030, per non superare la soglia di 1,5°C.

12.85%

è il tasso del calo del ghiaccio artico per decennio.

OVERVIEW.

L’estate del 2022 è stata la più calda della storia in Europa.

 Il mese di luglio ha fatto registrare 2,26 gradi centigradi in più rispetto alla media italiana dal 1800, anno da cui si registrano i dati.

Le misurazioni strumentali, la frequenza e la violenza di eventi climatici che stiamo osservando, i cambiamenti nei comportamenti, nelle abitudini migratorie e riproduttive di molte specie animali e vegetali lasciano poco spazio a interpretazioni: la crisi climatica è ormai un dato di fatto.

La comunità scientifica è ormai unanime nell’indicare le attività umane quali responsabili della crisi climatica, in particolare a causa dell’aumento dei gas serra immessi nell’atmosfera.

La concentrazione di gas serra nell’atmosfera ha raggiunto livelli record:

 l’anidride carbonica è aumentata di quasi il 150% rispetto ai livelli preindustriali, il metano del 262% e il protossido di azoto del 123% rispetto ai livelli preindustriali.

 (public.wmo.int/en/our-mandate/climate/wmo-statement-state-of-global-climate).

La concentrazione della CO2 in atmosfera viene misurata dal “Mauna Loa Center del NOAA americano”:

nel maggio 2022 la media era stata di 420,99 parti per milione, una concentrazione che non si registra da almeno 650 mila anni, ma probabilmente da molto prima.

La concentrazione di CO2 provoca l’innalzamento globale della temperatura che a sua volta rende sempre più frequenti fenomeni di inondazioni, siccità, dissesto idrogeologico, diffusione di malattie, crisi dei sistemi agricoli, crisi idrica e estinzione di specie animali e vegetali.

Non possiamo più attendere, dobbiamo invertire la rotta.

COSA FA IL WWF.

Per combattere il cambiamento climatico e assicurare un futuro al Pianeta e alle persone bisogna raggiungere una nuova impostazione dell’economia, sostenibile, equa e non fondata sul carbonio di origine fossile entro il 2050, in grado di resistere a quel livello di cambiamento climatico che non siamo più in grado di evitare.

Per questo siamo impegnati per raggiungere un nuovo accordo globale a livello internazionale, efficace, giusto e legalmente vincolante.

Proponiamo al governo nazionale la promozione di strategie e percorsi con obiettivi e tappe precise per arrivare all’azzeramento delle emissioni prima della metà del secolo, costruendo una transizione all’economia del futuro.

Promuoviamo l’efficienza energetica per ridurre le emissioni di CO2 e la conversione della produzione energetica verso le fonti energetiche rinnovabili, come l’energia solare ed eolica.

 Proponiamo lo sviluppo di strategie di adattamento al cambiamento climatico per salvaguardare le persone e gli ecosistemi a rischio.

COSA PUOI FARE TU.

Ognuno di noi si deve sentire coinvolto nella lotta al cambiamento climatico.

 Il risparmio dell’energia è uno dei primi passi, non basta infatti che i governi e le nazioni attuino programmi di riconversione della produzione energetica, abbandonando progressivamente i combustibili fossili verso le fonti energetiche rinnovabili.

Puntare sull’efficienza e il risparmio energetico è fondamentale e su questi punti il ruolo di ognuno di noi è cruciale.

Sostieni le nostre battaglie per la difesa del clima, quelle in piazza e quelle istituzionali, se riusciremo a far sentire la nostra voce, insieme ce la possiamo fare.

Cambia stile di vita.

 

CAMBIAMENTI CLIMATICI E DIRITTI UMANI.

 Amnesty.it - Richard Burton – (10-6-2023) – ci dice:

 

È facile dare per scontato il nostro pianeta finché non vediamo il costo umano del suo deterioramento: fame, persone sfollate, disoccupazione, malattie e morte.

Milioni di persone stanno già soffrendo per gli effetti catastrofici di disastri meteorologici estremi esacerbati dai cambiamenti climatici:

dalla prolungata siccità nell’Africa subsahariana alle devastanti tempeste tropicali che si abbattono sul sud-est asiatico, sui Caraibi e sul Pacifico.

Le temperature torride hanno causato ondate di caldo mortali in Europa e incendi in Corea del Sud, Algeria e Croazia.

 Si sono verificate gravi inondazioni in Pakistan, mentre una prolungata e intensa siccità in Madagascar ha lasciato un milione di persone con un accesso molto limitato al cibo.

La devastazione che il cambiamento climatico sta causando e continuerà a causare indica un “codice rosso” per l’umanità.

Il principale organismo scientifico mondiale per la valutazione dei cambiamenti climatici – il “Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico” (IPCC) – avverte che le emissioni globali di gas serra “raggiungeranno il picco entro il 2025 al più tardi e dovranno essere ridotte del 43% entro il 2030 se vogliamo limitare il cambiamento climatico a 1,5°C ed evitare la catastrofe completa.”

Per fermare tutto questo è necessaria un’azione immediata su larga scala, ma l’urgenza non deve essere una scusa per violare i diritti umani.

Le cause dei cambiamenti climatici.

Climate.ec.europa.eu – Redazione – (10-6-2023) – ci dice:

 

Riscaldamento globale -Gas serra - Cause dell’aumento delle emissioni -

Contrastare i cambiamenti climatici.

L'uso di combustibili fossili, l'abbattimento delle foreste e l'allevamento del bestiame hanno un impatto sempre più forte sul clima e sulla temperatura del pianeta.

Queste attività aggiungono enormi quantità di gas serra a quelle naturalmente presenti nell’atmosfera, alimentando l’effetto serra e il riscaldamento globale.

Riscaldamento globale.

Il periodo 2011-2020 è stato il decennio più caldo mai registrato, con una temperatura media globale di 1,1ºC al di sopra dei livelli preindustriali nel 2019.

Il riscaldamento globale indotto dalle attività umane è attualmente in aumento a un ritmo di 0,2ºC per decennio.

Un aumento di 2ºC rispetto alla temperatura dell'epoca preindustriale è associato a gravi impatti negativi sull'ambiente naturale e sulla salute e il benessere umani, compreso un rischio molto più elevato di cambiamenti pericolosi e potenzialmente catastrofici nell'ambiente globale.

Per questo motivo la comunità internazionale ha riconosciuto la necessità di mantenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2ºC e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5ºC.

Gas serra.

La causa principale dei cambiamenti climatici è l'effetto serra.

Alcuni gas presenti nell’atmosfera terrestre agiscono un po’ come il vetro di una serra:

catturano il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio e provocando il riscaldamento globale.

Molti di questi gas sono presenti in natura, ma le attività umane fanno aumentare le concentrazioni di alcuni di essi nell’atmosfera, in particolare:

l'anidride carbonica (CO2).

il metano.

l'ossido di azoto.

i gas fluorurati.

La CO2 prodotta dalle attività umane è il principale fattore del riscaldamento globale.

Nel 2020 la concentrazione nell'atmosfera superava del 48% il livello preindustriale (prima del 1750).

Altri gas a effetto serra vengono emessi dalle attività umane in quantità inferiori. Il metano è un gas con un effetto serra più potente della CO2, ma ha una vita atmosferica più breve.

 L'ossido di azoto, come la CO2, è un gas a effetto serra longevo che si accumula nell'atmosfera per decenni e anche secoli.

 Gli inquinanti diversi dai gas a effetto serra, compresi gli aerosol come la fuliggine, hanno effetti diversi in termini di riscaldamento e raffreddamento e sono associati anche ad altri problemi quali la scarsa qualità dell'aria.

Si stima che le cause naturali, come i cambiamenti della radiazione solare o dell'attività vulcanica, abbiano contribuito al riscaldamento totale in misura minore di 0,1ºC tra il 1890 e il 2010.

Cause dell’aumento delle emissioni.

La combustione di carbone, petrolio e gas produce anidride carbonica e ossido di azoto.

L'abbattimento delle foreste (deforestazione).

Gli alberi aiutano a regolare il clima assorbendo CO2 dall'atmosfera.

Abbattendoli, quest'azione viene a mancare e la CO2 immagazzinata negli alberi viene rilasciata nell'atmosfera, alimentando in tal modo l'effetto serra.

Lo sviluppo dell’allevamento di bestiame.

I bovini e gli ovini producono grandi quantità di metano durante il processo di digestione.

I fertilizzanti azotati producono emissioni di ossido di azoto.

I gas fluorurati sono emessi da apparecchiature e prodotti che utilizzano tali gas. Queste emissioni causano un potente effetto serra, fino a 23 000 volte più forte dei quello provocato dalla CO2.

Contrastare i cambiamenti climatici.

Poiché ogni tonnellata di CO2 emessa contribuisce al riscaldamento globale, tutte le riduzioni di emissioni contribuiscono a rallentarlo.

Per arrestarlo completamente, occorre raggiungere l'azzeramento delle emissioni nette di CO2 in tutto il mondo.

Inoltre, anche la riduzione delle emissioni di altri gas a effetto serra, come il metano, può avere un forte effetto sul rallentamento del riscaldamento globale, soprattutto a breve termine.

Le conseguenze dei cambiamenti climatici sono estremamente gravi e incidono su molti aspetti della nostra vita.

Sia la lotta ai cambiamenti climatici che l'adattamento a un mondo che si riscalda sono priorità assolute per l'UE.

L'azione per il clima è un'esigenza immediata.

 

 

 

 

Lo sciopero per il clima non

serve a niente, ma ci salverà.

Esquire.com – Massimo Sandal – (24-9-2019) – ci dice:

 

Greta Thunberg e il “climate strike” forse non cambieranno il clima, ma stanno cambiando noi.

Greta Thunberg è calata come una marziana a risvegliare una specie sonnambula.

Ha conquistato il mondo sedendosi sola, in impermeabile giallo davanti al parlamento svedese con un cartello dipinto a mano e dei volantini in cui dichiarava, brutale, “Lo faccio perché voi adulti state cagando sul mio futuro”.

Poco più di un anno dopo, il 20 settembre 2019, quattro milioni di persone in 163 paesi hanno partecipato a oltre 2500 tra manifestazioni e altri eventi per protestare contro la crisi climatica in corso.

 Principalmente studenti, anche se hanno il supporto di migliaia di scienziati.

Eppure, a che serve uno sciopero per il clima?

È facile dire: a nulla.

 Lo 0,04% di anidride carbonica nell’aria continua a intrappolare il calore del Sole; macchine semoventi grandi come navi continuano a scavare miniere di carbone a cielo aperto;

 gli aerei attraversano il cielo bruciando tonnellate di benzina ogni secondo.

Mentre l’intera infrastruttura del mondo stringe il nodo della crisi climatica con la silenziosa violenza di un anaconda, a che serve che dei ragazzini scendano in piazza agitando cartelli?

Saltando la scuola, in cui dovrebbero andare per capire qualcosa della protesta a cui partecipano?

Un anno fa ho argomentato su queste pagine che in realtà ormai è troppo tardi per fermare il cambiamento climatico.

Come specie, semplicemente, non siamo abbastanza lungimiranti per il tipo di azioni pratiche - altro che scioperi! - di cui avremmo bisogno per arrestare la crisi climatica a livelli gestibili;

di più, se agissimo probabilmente gli sconvolgimenti sociali ed economici necessari incontrerebbero una giustificata e inevitabile resistenza.

 Poco tempo fa sul New Yorker lo scrittore “Jonathan Franzen” ha espresso una posizione singolarmente simile (sia pure commettendo vari errori scientifici).

E allora?

La realtà è che le nostre generazioni hanno letteralmente ammazzato il futuro alle prossime.

Noi siamo vecchi e disillusi e saggi, dei ragazzini non ci fidiamo.

 Ci ricordiamo bene quando eravamo adolescenti noi, e attaccavamo un foglio con scritto sciopero al portone della scuola: una debole scusa per saltare una interrogazione.

O lanciavamo un’occupazione in cui pregustavamo già di limonare e fumare le prime canne in ebbrezza e libertà.

Questi giovinastri vorranno la stessa cosa.

 Una scusa per fare bordello. I problemi, le soluzioni, sono ben altre.

Siamo furbi noi, neh?

Non ci facciamo manipolare da queste manifestazioni da fighetti, che non risolvono nulla. Siamo realisti, noi!

O forse questo cinismo è solo un modo di proteggerci.

Messi di fronte alla realtà, ovvero che le nostre generazioni hanno letteralmente ammazzato il futuro alle prossime, molti di noi hanno reagito come calabroni storditi.

Increduli che una teenager dal cervello come una katana ci dica la verità in faccia.

Ma Thunberg (a proposito, possiamo smettere di chiamarla "Greta" per nome, come se fosse la nostra nipotina?

Forse sembra più piccola della sua età ma è una giovane donna, merita rispetto come tale) è un catalizzatore, e uno di quelli forti, quello che ha risvegliato si muove ormai anche senza di lei.

Non è che il simbolo del fatto che possiamo smettere di far finta di niente, che protestare e incazzarsi è lecito, doveroso, e che possiamo unirci e prenderlo in mano, il futuro di questo pianeta.

Che possiamo urlare davanti ai potenti della Terra “non vi perdoneremo mai”, come ha fatto ieri alle Nazioni Unite.

E questo è il punto e il merito del movimento per il clima, degli scioperi e delle manifestazioni.

Thunberg sì, fa “stunt” come venire in America in barca a vela invece che in aereo – cosa che è stata ridicolizzata perché chiaramente implausibile per quasi tutti noi.

Mica detto che le faccia tutte giuste, anche se è stato un buon modo per farci riflettere sui trasporti.

Ma se bastasse discutere dell’andare in vacanza in aereo o in treno, di quale pellicola sia più sostenibile per impacchettare i broccoli, o se usare borracce invece di bottiglie di plastica, non servirebbe a nulla una manifestazione per il clima, né servirebbe andare al Congresso americano o alle Nazioni Unite a sputare in faccia la realtà ai leader del globo.

La questione è sistemica.

Come ha detto Thunberg al Congresso degli Stati Uniti, pensare che la risolveremo così, con piccoli ritocchi qua e là, è “una storia per la buonanotte che ci rilassa e ci fa tornare a nanna”.

 L’ambiente non si salva accumulando stimmate di santità individuale.

Come ha scritto “Yessenia Funes,” “mi rifiuto di credere che la gente debba vergognarsi di vivere nel mondo che abbiamo costruito”.

 Abbiamo costruito un mondo in cui il nostro impatto ecologico, e non solo climatico, è inevitabile;

il nostro modello economico si basa sull’assurdo di una crescita infinita su di un pianeta a risorse finite.

Perfino i capitalisti dicono che il capitalismo non funziona più, oramai.

Quello a cui serve lo sciopero per il clima quindi non sarà ridurre le parti per milione di anidride carbonica, direttamente - anche se aumentare la consapevolezza di certo male non fa.

Non ci aiuterà neanche immediatamente ad arrivare sotto i 2, o neanche i 3 gradi di riscaldamento globale medio, anche se magari, influenzando l’opinione pubblica, potremo tirare il freno un poco, e ricordare sempre che ogni decimo di grado farà moltissima differenza.

Quello a cui servono gli scioperi come il clima è l’essere nucleo di cambiamento sociale, culturale, politico.

Servono a creare un movimento consapevole di come noi, come specie, abbiamo alterato il nostro destino:

 e se l’abbiamo fatto sbattendo come sonnambuli verso il precipizio, ora potremo farlo consapevolmente.

Dovremo adattarci al mondo che abbiamo creato, a questo perverso” terraforming” che ci porta verso un pianeta più caldo e quindi, se tutto va come va, più pericoloso, precario, ingiusto, violento.

E per adattarci servirà, prima di cambiamenti tecnologici, una consapevolezza sociale e politica diversa, servirà la comprensione che ci servono modelli altri rispetto alla ruota del mulino capitalistico su cui giriamo.

Servirà creare una società solidale, compassionevole, ma anche forte e capace di guardare in faccia alla realtà.

E i cambiamenti sociali nascono anche così:

 scendendo insieme da ragazzi in una piazza, guardandosi negli occhi, e con la sensazione di poter fare qualcosa.

A diventare vecchi e disillusi c’è tempo.

Per decenni il movimento ambientalista è stato deriso come una sorta di vezzo da ricchi hippy, da abbracciatori professionisti di alberi.

È stato addirittura osteggiato dalle persone "serie" come anti-scientifico.

 In queste critiche ingenerose c’è un nucleo di verità, ci sono state battaglie scellerate in nome dell’ambiente, ma altrettanto scellerato è stato l’atteggiamento di chi pensava che fosse scientifico e razionale fregarsene o perdersi in distinguo – come tuttora fanno molti “surciliosi” commentatori – invece di prendere sul serio la questione.

Mi ci metto anche io, ho commesso anche io questo errore.

 Ora le cose sono cambiate.

 Ora c’è una generazione che, se non può riprendersi il futuro che le abbiamo letteralmente bruciato, può perlomeno riprendere sé stessa.

Unirsi per affrontare il mondo che l’aspetta.

La rabbia di Thunberg che urla alle Nazioni Unite “non ve la faremo passare liscia”, sostenuta da milioni di persone in tutto il mondo, è una delle poche speranze che mi rimangono.

 

 

 

Teorie del complotto

sul riscaldamento globale.

 It.wikipedia.org – (3-1-2023) – Redazione – ci dice:

 

Le teorie del complotto sul riscaldamento globale] sono ipotesi eterogenee più o meno credibili, che ritengono vi siano secondi fini di carattere finanziario o politico dietro il surriscaldamento terrestre.

Alcune di queste ipotesi citano altre costanti complottiste come “il nuovo ordine mondiale”.

Si discute se alla base vi siano altre motivazioni di carattere finanziario per ottenere più fondi e denaro possibile con la scusa di fermare il processo climatico] oppure l'effettiva inesistenza di questo fenomeno, ovvero un falso montato ad arte con il solo scopo di accumulare finanze per enti governativi e non sull'argomento.

I presunti complici.

Secondo i vari complottisti le organizzazioni complici della cospirazione sarebbero le Nazioni Unite, il Gruppo Bilderberg, il Club di Roma, il Green Cross International, la General Electric e importanti personalità sulla scena politica ed economica mondiale come Kofi Annan, Jacques Chirac, Maurice Strong, George Soros, Al Gore e Michail Gorbačëv.

Contesto.

Come affermato dall'”Intergovernmental Panel on Climate Change” (IPCC), il maggior contributo al riscaldamento globale è l'aumento del biossido di carbonio atmosferico (CO2) dal 1750, in particolare dalla combustione di combustibili fossili, dalla produzione di cemento e dai cambiamenti nell'uso del suolo come la deforestazione.

Il quinto rapporto di valutazione (AR5) dell'IPCC afferma:

L'influenza umana è stata rilevata nel riscaldamento dell'atmosfera e dell'oceano, nei cambiamenti nel ciclo globale dell'acqua, nella riduzione di neve e ghiaccio , nell'innalzamento medio globale del livello del mare e nei cambiamenti in alcuni estremi climatici.

Questa prova dell'influenza umana è cresciuta dall'AR4.

È estremamente probabile (95-100%) che l'influenza umana sia stata la causa principale del riscaldamento osservato dalla metà del XX secolo.

 IPCC AR5 WG1 Riepilogo per i responsabili politici.

Le prove del riscaldamento globale dovuto all'influenza umana sono state riconosciute dalle accademie scientifiche nazionali di tutti i principali paesi industrializzati.

Nessun organismo scientifico di rilievo nazionale o internazionale mantiene un'opinione formale dissenziente dalle sommarie conclusioni dell'IPCC.

Disinformazione e accuse a scienziati e attivisti.

Teorie del complotto contro il riscaldamento globale.

Nonostante questo consenso scientifico sul cambiamento climatico, sono state avanzate accuse secondo cui scienziati e istituzioni coinvolti nella ricerca sul riscaldamento globale fanno parte di una cospirazione scientifica globale o sono coinvolti in una bufala manipolativa.

Ci sono state accuse di negligenza, in particolare nella controversia via e-mail dell'unità di ricerca climatica ("ClimateGate").

Otto comitati hanno indagato su queste accuse e pubblicato rapporti, senza trovare prove di frode o cattiva condotta scientifica.

 Il rapporto Muir Russell affermava che "il rigore e l'onestà degli scienziati non sono in dubbio", che gli investigatori "non hanno trovato alcuna prova di comportamento che potrebbe minare le conclusioni delle valutazioni dell'IPCC", ma che c'era stato "un modello coerente di non riuscire a mostrare il giusto grado di apertura".

 Il consenso scientifico sul fatto che il riscaldamento globale si sta verificando a causa dell'attività umana è rimasto invariato alla fine delle indagini.

In Italia il “quotidiano Libero” ha negato in più occasioni il problema del riscaldamento globale asserendo invece che la temperatura della Terra si stia alzando per cause quasi esclusivamente naturali.

 Nel 2019 uscì con una prima pagina provocatoria dal titolo “Riscaldamento globale? Ma se fa freddo”.

 Il 18 aprile 2019, in occasione della visita di Greta Thunberg a Papa Francesco, “Libero” esce con una prima pagina provocatoria dedicata all'attivista contro il cambiamento climatico.

 In un'intervista al quotidiano, “Nicola Scafetta”, ricercatore presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, conferma la tesi del giornale sul cambiamento climatico e afferma che Greta Thunberg sia pilotata per interessi economici.

Anche Nicola Porro ha sostenuto che essa porti avanti questa battaglia a fini economici.

Anche il quotidiano “La Verità” ha messo in dubbio l'attività umana come causa del cambiamento climatico.

Sul web si diffuse la falsa notizia che il premio Nobel Carlo Rubbia avesse negato il cambiamento climatico.

Divenne molto virale sul web una presunta mappa dell'Italia nell'anno 2100 con molte zone sommerse (soprattutto Lombardia e Veneto) a causa del cambiamento climatico[36], tanto da essere ripresa da diverse testate italiane che la descrivevano come veritiera.

L'ambientalista “Michael Shellenberger “affermò:

 "Il cambiamento climatico è reale. Solo che non è la fine del mondo. Non è nemmeno il più grave tra i problemi ambientali".

In realtà il cambiamento climatico è considerato dalla comunità scientifica il maggiore dei problemi ambientali.

Sul web circolò la teoria che le limitazioni alle attività umane imposte dalla pandemia di COVID-19 potessero rallentare il cambiamento climatico ma fu poi smentita.

Il senatore “James Inhofe” ha affermato nel 2003:

 "Con tutta l'isteria, tutta la paura, tutta la scienza fasulla, potrebbe essere che il riscaldamento globale provocato dall'uomo sia la più grande bufala mai perpetrata contro il popolo americano?"

Nel 2010 Donald Trump ha affermato che

 "Con l'inverno più freddo mai registrato, con la neve che ha stabilito livelli record su e giù per la costa, il Comitato Nobel dovrebbe ritirare il Premio Nobel da Al Gore...vuole che ripuliamo le nostre fabbriche e gli impianti per proteggerci dal riscaldamento globale, quando alla Cina e ad altri paesi non potrebbe importare di meno.

 Ci renderebbe totalmente non competitivi nel mondo manifatturiero, e Cina, Giappone e India stanno ridendo della stupidità dell'America".

 Poi, nel 2012, ha fatto un tweet:

"Il concetto di riscaldamento globale è stato creato da e per i cinesi al fine di rendere la produzione statunitense non competitiva".

 Più tardi, nel 2016, durante la sua campagna presidenziale, ha affermato che il suo tweet del 2012 fosse uno scherzo dicendo che "Ovviamente, scherzo. Ma questo viene fatto a beneficio della Cina, perché la Cina non fa nulla per aiutare il cambiamento climatico.

Bruciano tutto ciò che potresti bruciare; non gli potrebbe importare di meno (...).

Un gruppo di 500 scienziati, imprenditori e lobbisti dell’industria energetica australiana ha inviato una lettera al Segretario dell’ONU, Antonio Guterres, sostenendo che non esista alcuna emergenza climatica, che gli investimenti nelle fonti rinnovabili mettano a rischio l'economia di intere nazioni e che l’aumento di CO2 nell’atmosfera faccia bene all’ambiente.

Il fisico “Frederick Seitz” scrisse un articolo sul “Wall Street Journal” nel 1996 criticando il secondo rapporto di valutazione dell'IPCC.

Sospettava la corruzione nel processo di revisione tra pari.

 Insieme al biochimico “Arthur Robinson”, “Seitz” ha promosso successivamente la cosiddetta” petizione Oregon” sostenendo la carenza di consenso scientifico sul riscaldamento globale.

Nel 2006 il professore di Scienze Atmosferiche “William M. Gray” ha detto che il riscaldamento globale è diventato una causa politica per la mancanza di qualsiasi altro nemico dopo la fine della Guerra Fredda.

Nel 2007 il meteorologo “John Coleman” ha scritto un post sul blog sostenendo che il riscaldamento globale è la più grande truffa della storia.

Nel 2014 il fisico “William Happer”, in seguito nominato dal presidente Donald Trump membro del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha affermato che "la demonizzazione del biossido di carbonio è come la demonizzazione dei poveri ebrei sotto Hitler".

Il documentario televisivo “The Great Global Warming Swindle” è stato realizzato da “Martin Durkin”, che ha definito il riscaldamento globale "un'industria mondiale da molti miliardi di dollari, creata da ambientalisti fanaticamente antiindustriali".

Nel 2007 sul “Washington Times” disse che il suo film avrebbe cambiato la storia e predisse che "tra cinque anni l'idea che l'effetto serra sia la ragione principale del riscaldamento globale sarà vista come una sciocchezza totale".

(A queste notizie mi permetto di aggiungere alcune considerazioni espresse in suo articolo da F.Wlliam Engdahl del 21 giugno 2023 sul Global Research.ca”:

(…)

(L'intera ragione della transizione verso fonti energetiche alternative come il solare o l'eolico, e l'abbandono delle fonti di energia del carbonio, è la loro affermazione che la CO2 è un gas serra che in qualche modo arriva fino all'atmosfera dove forma una coperta che presumibilmente riscalda la Terra sottostante - Global Warming.

Le emissioni di gas serra secondo l'Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti provengono principalmente dalla CO2.

 Da qui l'attenzione alle "impronte di carbonio".

Ciò che non viene quasi mai detto è che la” CO2” non può librarsi nell'atmosfera dagli scarichi delle automobili o dalle centrali a carbone o da altre origini artificiali.

 L'anidride carbonica non è carbonio o fuliggine.

È un gas invisibile e inodore essenziale per la fotosintesi delle piante e tutte le forme di vita sulla terra, compresi noi.

“La CO2 ha un peso molecolare di poco superiore a 44 mentre l'aria (principalmente ossigeno e azoto) ha un peso molecolare di soli 29”.

Il peso specifico della CO2 è circa 1,5 volte maggiore dell'aria. Ciò suggerirebbe che i gas di scarico di CO2 provenienti da veicoli o centrali elettriche non salgono nell'atmosfera a circa 12 miglia o più sopra la Terra per formare il temuto effetto serra.

Per apprezzare quale “azione criminale” si sta svolgendo oggi intorno a Gates, Schwab e ai sostenitori di una presunta economia mondiale "sostenibile", dobbiamo tornare al 1968, quando David Rockefeller e amici crearono un movimento attorno all'idea che il consumo umano e la crescita della popolazione fossero il principale problema mondiale.”)

(…)

 

Gli slogan dei politici che “rallentano”

la transizione ecologica.

 Pagellapolitica.it – (07 MARZO 2022) - LAURA LOGUERCIO – ci dice:

 

Il negazionismo climatico è quasi scomparso, ma partiti e governo rischiano di rimandare gli interventi contro l’aumento delle temperature con argomentazioni più sottili.

Oggi chi sostiene che il riscaldamento globale non esiste o non è causato dagli esseri umani è ormai quasi sparito dal dibattito politico italiano.

 In compenso, sulla politica pesano sempre di più argomentazioni che, prestandosi a facili slogan, rischiano di ridimensionare le conseguenze dell’emergenza climatica in corso e di rallentare la transizione ecologica.

È la retorica del” climate delay”, come l’hanno chiamata alcuni ricercatori: sebbene sia più sottile rispetto al negazionismo climatico, questa è altrettanto pericolosa e fuorviante.

 Ed è sempre più rintracciabile nelle affermazioni di alcuni membri del governo e del Parlamento.

Il nuovo negazionismo?

La “teoria del climate delay” è stata presentata a giugno 2020 in uno studio, intitolato” Discourses of climate delay” e pubblicato sulla rivista scientifica “Global Sustainability”, edita dall’Università di Cambridge, nel Regno Unito.

 Lo studio è stato condotto da un gruppo di dieci esperti, tra cui c’è anche l’italiano “Giulio Mattioli”, ricercatore nel dipartimento per la pianificazione dei trasporti dell’”Università tecnica di Dortmund”, in Germania.

«Il rapporto è nato dalla sensazione di alcuni di noi che fosse in atto uno spostamento dal negazionismo classico verso un altro tipo di discorso, che riconosce l’emergenza ma trova scuse per non agire», ha detto “Mattioli” a “Pagella Politica”.

Sulla base di alcune dichiarazioni di politici europei, i ricercatori hanno individuato – in modo «non sistematico», ha specificato” Mattioli” – quattro tipi di argomentazioni che ricorrono spesso nel “dibattito sull’emergenza climatica” e che sono utilizzate per giustificare la necessità di posticipare le decisioni più difficili: reindirizzare le responsabilità, spingere per soluzioni non trasformative, enfatizzare gli svantaggi delle misure proposte, e, infine, arrendersi a una disfatta ormai inevitabile.

L’attenzione si è così spostata dal piano scientifico a quello normativo:

 «Il “climate delay” non attacca la scienza del cambiamento climatico, ma le leggi che si tenta di fare per contrastarlo, ha spiegato a Pagella Politica “William Lamb”, ricercatore al” Mercator Research Institute on Global Commons and Climate Change” di Berlino e co-autore dello studio.

Secondo “Massimo Tavoni”, direttore dell’”Istituto europeo per l’economia e l’ambiente” (Eiee) e docente di “Economia ambientale” al Politecnico di Milano, i discorsi di “climate delay” non sono comunque una novità nel panorama italiano.

«Sono argomenti standard che ci sono sempre stati – ha sottolineato Tavoni a Pagella Politica – ma oggi diventano più vigorosi perché l’impatto umano sul clima è ormai dato per scontato», e quindi «è più difficile negare tutto».

Con il “climate delay “si cerca di ritardare l’azione, ma «per riuscire a recuperare il tempo perso bisogna poi accelerare, e questo a sua volta viene usato come ulteriore scusa per non fare nulla», ha spiegato “Tavoni “a Pagella Politica.

 «È un argomento fastidioso e fazioso, ma è la strategia che stiamo vedendo in Italia in questo momento».

D’altra parte, secondo “Stella Levantesi”, giornalista e autrice del libro “I bugiardi del clima” (Laterza 2021), la discussione sul clima si è evoluta nel tempo, ma il negazionismo non è mai scomparso del tutto.

 «Nel periodo della “Cop 26”, la “conferenza sul clima” di Glasgow tenuta a novembre scorso, in Italia sono riaffiorati tantissimi interventi negazionisti», ha detto Levantesi, aggiungendo che «non è un caso, ma si tratta di un pattern storico: quando l’azione climatica è al centro del dibattito la macchina negazionista si riattiva».

Non sono io, sei tu.

La prima categoria di affermazioni tipiche del “climate delay” punta il dito altrove, addossando le responsabilità del cambiamento climatico su attori distanti da noi. Qui i responsabili chiamati in causa sono le nazioni che inquinano di più, i singoli consumatori, oppure i cosiddetti “free rider”, ossia i Paesi che si approfitterebbero di chi sta agendo più velocemente per contrastare l’aumento delle temperature.

Un classico esempio di questa prima categoria del” climate delay” consiste nell’indicare altri Paesi, per esempio la “Cina o l’India,” come i reali responsabili dell’emergenza climatica e quindi coloro che per primi dovrebbero cambiare rotta.

L’argomentazione è stata più volte ripetuta dal leader della Lega “Matteo Salvini”, che a maggio 2020 twittava:

 «​​Si chiede agli imprenditori italiani di rispettare norme sul tema dell’ambiente e della sostenibilità. In Cina non viene rispettato nulla di tutto ciò», e che già nel 2014 aveva affermato:

«​​In Italia regole per imprese su lavoro, qualità e ambiente, in Cina e India no: per competere occorre mettere dazi!».

Anche la leader di Fratelli d’Italia “Giorgia Meloni” ha utilizzato spesso questa argomentazione.

Lo scorso anno, nell’ambito della discussione sulla “plastic tax” – un’imposta sugli imballaggi in plastica approvata dal governo Conte II nel 2019 ma la cui applicazione è per ora stata rinviata al 2023 – “Meloni ha” affermato che la Cina e l’India contribuiscono per «l’80 per cento» allo sversamento di plastica in mare, percentuale nettamente superiore rispetto ai Paesi europei (un’affermazione comunque fattualmente corretta).

Un altro esempio sono gli slogan che provano a spostare la responsabilità del riscaldamento globale dalle decisioni dei governi o delle autorità sovranazionali alle azioni dei singoli individui.

 Ne ha dato esempio l’attuale “ministro per la Transizione ecologica”, il tecnico “Roberto Cingolani”, che lo scorso dicembre ha sostenuto che il «comparto digitale» produce il «4 per cento» delle emissioni di anidride carbonica a livello globale, di cui «una buona metà» deriva «dall’utilizzo smodato dei social».

L’affermazione tende quindi a sottolineare come i cittadini comuni, utilizzando i social network, contribuiscano in maniera non indifferente a inquinare l’ambiente in cui vivono.

 In realtà, questa stima si basa su uno studio non particolarmente solido dal punto di vista scientifico, che per di più considera tutte le tecnologie digitali e non menziona l’impatto dei social network presi singolarmente.

In un’intervista con La Stampa dell’ottobre 2021 “Cingolani “ha anche citato il ruolo delle auto con tecnologie ormai obsolete, evidenziando l’impatto dei singoli automobilisti sull’inquinamento complessivo:

«Abbiamo 13 milioni di automobili euro zero e euro 1, la gente se le tiene perché non ha i soldi, se noi li portassimo sugli euro 6 l’impatto sarebbe enorme»,

ha detto il “ministro della Transizione ecologica”.

Il dato citato da Cingolani, tra l’altro, è sbagliato:

nel 2020 in Italia le auto euro 0 ed euro 1 erano 4,5 milioni, un numero quasi tre volte più piccolo di quello indicato dal ministro.

Come ha spiegato “Levantesi” a Pagella Politica, «questa narrazione è nata negli anni Settanta attraverso delle strategie di comunicazione ben precise, per esempio tramite campagne pubblicitarie che veicolano questo messaggio:

 il responsabile del riscaldamento globale è l’individuo, e sarà lui a dover trovare le soluzioni».

 Ancora oggi questa tesi rimane una delle narrazioni portanti nella lotta al cambiamento climatico, ma è fondamentale ricordare che «il problema è sistemico, non individuale».

Qualcosa ci salverà.

La seconda classe di affermazioni tipiche del” climate delay” propone soluzioni alternative per mitigare il cambiamento climatico.

Visti da questa prospettiva le misure restrittive dettate dai governi o dalle autorità vengono sostituite da più miti incoraggiamenti ad agire su base volontaria, utilizzando se necessario anche i combustibili fossili e sperando che, un giorno, una nuova tecnologia ancora da inventare possa liberarci dai problemi.

 Il tutto accompagnato da discorsi ricchi di forma ma poveri di sostanza.

L’«ottimismo tecnologico», come definito dallo studio, è particolarmente popolare nella politica italiana.

Nel novembre 2021, per esempio, il presidente del Consiglio “Mario Draghi” ha sostenuto che, quando si parla di transizione ecologica, dobbiamo essere «aperti a tutto, immaginare che quel che è oggi impossibile diventi possibile domani: il panorama delle innovazioni mondiali che vanno a compimento in ogni momento nel mondo è straordinaria, non ci sono confini alle nostre capacità di affrontare questa sfida».

Fiducioso nell’arrivo di qualche salvifica innovazione tecnologica è anche il “ministro Cingolani”, che lo scorso dicembre ha affermato:

 «Sono assolutamente certo, ci metterei la firma, che la fusione nucleare sarà la soluzione di tutto.

 Il concetto è: nel 2050-2070, non so quando riusciremo, avere una piccola stella in miniatura […] che in una grande città produce energia per tutti e non fa scorie radioattive».

 Come sottolineato anche dall’”Agenzia internazionale per l’energia atomica”, la fusione nucleare è un processo estremamente complesso, che gli scienziati non sono ancora in grado di gestire.

L’attenzione per l’energia nucleare ha interessato anche altri esponenti politici, tra cui” Matteo Salvini” e il vicepresidente di Forza Italia “Antonio Tajani”, secondo cui «bisogna credere nell’idrogeno e riprendere la ricerca sul nucleare di ultima generazione, che è sicuro e pulito».

 Il nucleare di “quarta generazione”, quindi estremamente avanzato a livello tecnologico, è ancora in fase di studio e ci vorranno anni prima che sia brevettato un reattore pienamente funzionante.

 

Tra gli altri, ha puntato sull’ottimismo tecnologico anche l’ex presidente del Consiglio” Romano Prodi”, che in un articolo pubblicato sul “Messaggero a settembre 2021” ha affermato che la transizione energetica «non può fondarsi solo sulle energie alternative oggi conosciute, ma anche su radicali innovazioni nella scienza, nella tecnologia e nelle collaborazioni internazionali».

Altro elemento classico che ricade nell’insieme delle soluzioni non trasformative è la tendenza a fare grandi discorsi per sottolineare l’importanza della transizione ecologica ed elogiare gli impegni presi in questo senso, senza però portare risultati concreti.

Molte forze politiche italiane sono cadute in questa trappola, a partire dal Partito democratico.

Il 21 gennaio, per esempio, il segretario “Enrico Letta” ha scritto su Facebook:

 «La riqualificazione energetica delle case abbatte sprechi e consumi eccessivi e riduce le bollette delle famiglie. Bisogna continuare a incentivarla. Le industrie inquinanti devono cedere il passo alle nuove attività ecosostenibili. I lavoratori vanno protetti e accompagnati nella transizione verso un’economia a zero emissioni».

Nel post non sono però presenti riferimenti a decisioni effettive che permettano di andare in questa direzione.

Diversi partiti, dal Movimento 5 stelle a Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno inoltre festeggiato la decisione, approvata l’8 febbraio scorso, di inserire in Costituzione la «tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi».

Un passo importante che però, se non accompagnato da azioni reali, rischia di rimanere sulla carta.

Una terza argomentazione ricorrente è quella che punta sui combustibili fossili, affermando che le modalità di utilizzo stanno diventando sempre più efficienti e rappresentano quindi una buona soluzione in attesa che le fonti rinnovabili vengano perfezionate (o eventualmente inventate).

Negli ultimi mesi diversi esponenti politici hanno infatti sostenuto la necessità di rafforzare le attività di estrazione di gas naturale in Italia.

Per esempio, il 18 gennaio scorso il ministro Cingolani, durante un’audizione davanti a due Commissioni di Camera e Senato, ha indicato (min. 21:00) la

«valorizzazione della produzione di gas da giacimenti nazionali esistenti» come una misura che potrebbe «contribuire alla mitigazione del costo» dell’energia.

Nei programmi del Ministero questo non porterebbe ad aumentare la quota totale di gas utilizzato in Italia, ma valorizzerebbe la produzione sul territorio nazionale in modo da ridurre le importazioni.

Anche il Partito democratico il 9 febbraio ha pubblicato sui propri account social un post con quattro proposte per ridurre il corso delle bollette, tra cui anche «aumentare la produzione nazionale di gas», mentre a inizio gennaio il vicepresidente di Forza Italia” Antonio Tajani” ha affermato che serve far ricorso a «gas e nucleare pulito», unendo così due tesi di “climate delay” – quelle sull’utilità dei combustibili fossili e sull’ottimismo tecnologico – in poche parole.

Il gas naturale, lo ricordiamo, rilascia meno anidride carbonica rispetto ad altri combustibili fossili come il carbone o il petrolio, ma emette nell’atmosfera importanti quantità di gas metano, che trattiene il calore ed è considerato uno dei principali responsabili dell’effetto serra.

 L’11 febbraio il governo Draghi ha approvato il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai), che tra le altre cose stabilisce le aree in cui sarà possibile richiedere nuovi permessi esplorativi volti alla produzione di idrocarburi sul territorio nazionale.

 Nel 2020 sono stati prodotti in Italia 4 miliardi di metri cubi di gas naturale, a fronte di un consumo complessivo da quasi 70 miliardi di metri cubi.

Il gioco (non) vale la candela.

La terza categoria di argomentazioni tipiche del “climate delay “tende a enfatizzare i lati negativi della lotta al cambiamento climatico:

 politiche troppo stringenti abbasserebbero eccessivamente la nostra qualità della vita, le loro conseguenze ricadrebbero sulle fasce della popolazione già oggi svantaggiate, e infine piuttosto che approvare leggi imperfette è meglio lasciare tutto com’è ora e non cambiare nulla.

Spesso nella politica italiana queste tre argomentazioni vengono usate per criticare le decisioni imposte da partiti avversari o enti sovranazionali, come l’Unione europea.

 A lungo infatti Salvini ha criticato la “plastic tax” sostenendo per esempio che questa «non aiuta davvero l’ambiente, non è decisiva per l’erario e danneggia un settore strategico in cui l’Italia è leader» (febbraio 2021), che mette a rischio «almeno 20mila posti di lavoro» (giugno 2021), o che raddoppierà il prezzo dell’acqua minerale (ottobre 2019).

Salvini ha spesso criticato l’imposizione di imposte che porterebbero beneficio all’ambiente, ricadendo però sui lavoratori.

 Nel 2019, per esempio, ha twittato: «Se penso che qualcuno vorrebbe sostenere l’ambiente aumentando le accise su carburanti per agricoltori e pescatori… è una cosa da Tso, ricovero immediato».

Di idee simili anche la leader di Fratelli d’Italia “Giorgia Meloni”, che sempre nel 2019 ha criticato il decreto “Clima” approvato dal secondo governo Conte, sostenendo che questo strumentalizzi la «tutela dell’ambiente per massacrare di tasse [gli] italiani!».

In un’intervista a” La Stampa” del luglio 2021, il ministro Cingolani aveva dichiarato che la transizione ecologica potrebbe essere «un bagno di sangue», perché «per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo». Insomma, a meno che una decisione a favore dell’ambiente non porti beneficio anche a tutte le altre parti in causa, non può essere approvata perché sarebbe controproducente.

Arrendersi, o forse no.

Infine, l’ultima categoria di affermazioni identificate come tipiche del “climate delay” sta nella tendenza ad arrendersi a un declino ormai irreversibile, in cui nulla rimane da fare per cercare di salvare la situazione.

 Questa tesi sembra non essersi ancora diffusa particolarmente nel discorso politico italiano, dove prevale un atteggiamento di speranza verso il futuro (o una tendenza a far finta di non vedere i problemi).

«Si tratta di un’esagerazione: se non c’è più niente da fare, allora tanto vale non fare nulla», ha detto a Pagella Politica “Stefano Caserini”, docente in Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.

«Questo discorso sta iniziando a emergere anche in Italia, ed è pericoloso».

Secondo” Caserini”, infatti, siamo ancora in tempo per cambiare le cose:

 «Non potremo evitare tutti i danni dei cambiamenti climatici, ma un mondo in cui la temperatura sale di 2° centigradi è diverso da un mondo in cui sale di 4° centigradi».

 

 

 

Cambiamento climatico:

gas a effetto serra che

causano il riscaldamento globale.

Europa.eu – (23-03-2023) – Redazione – ci dice:

      

I gas fluorurati a effetto serra (gas fluorurati) sono prodotti dall'uomo e hanno un elevato potenziale di riscaldamento globale, spesso migliaia di volte più forte della CO2.

Gli idro fluorocarburi (HFC) rappresentano circa il 90% delle emissioni di gas fluorurati e sono utilizzati principalmente nei refrigeranti di frigoriferi, congelatori, condizionatori d'aria e pompe di calore.  

I gas fluorurati a effetto serra sono prodotti dall'attività umana e contribuiscono notevolmente al riscaldamento globale.

L'anidride carbonica (CO2) è fra i tanti gas ad effetto serra.

Scoprite come influisce sul riscaldamento globale, la sua origine e il suo contributo alle emissioni dell'UE.

L'UE vuole ridurre drasticamente i gas serra, che contribuiscono al cambiamento climatico.

 La più nota è l'anidride carbonica (CO2), ma altre, presenti nell'atmosfera in misura minore, possono contribuire ancora di più al riscaldamento globale.

Cosa causa i gas ad effetto serra?

I gas nell'atmosfera agiscono in modo simile al vetro di una serra:

intrappolano il calore del sole e gli impediscono di disperdersi nello spazio, provocando così il riscaldamento globale.

L'effetto serra fa sì che la temperatura della superficie terrestre sia più alta di quanto sarebbe se non ci fossero gas serra nell'atmosfera, permettendo la vita sul pianeta.

Molti gas serra sono presenti naturalmente nell'atmosfera.

 Tuttavia, l'attività umana contribuisce al suo accumulo e aumenta il riscaldamento globale.

Di conseguenza, i modelli di neve e precipitazioni cambiano, le temperature medie aumentano e gli eventi meteorologici estremi, come ondate di calore e inondazioni, si verificano con maggiore frequenza.

Altri fattori e cifre sul cambiamento climatico.

Quali sono i principali gas serra?

Esistono diversi tipi di gas serra e il loro contributo al riscaldamento globale varia.

L'anidride carbonica, il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O), tra gli altri, sono naturalmente presenti nell'atmosfera, ma sono anche generati dalle attività umane.

I gas fluorurati a effetto serra sono il tipo più potente e persistente di gas a effetto serra emessi dalle attività umane.

 Possono produrre un effetto serra migliaia di volte maggiore della CO2.

Inclusi in questo tipo sono idro fluorocarburi (HFC), (per fluorocarburi), esafluoruro di zolfo (SF6) e tri fluoruro di azoto (NF3).

Questi gas sono spesso usati come sostituti delle sostanze che riducono lo strato di ozono, che sono sostanze chimiche artificiali che, una volta emesse, raggiungono l'atmosfera superiore e distruggono lo strato protettivo di ozono.

 A differenza delle sostanze che riducono lo strato di ozono, i gas fluorurati non danneggiano lo strato di ozono.

Il “Protocollo di Kyoto” e l'”Accordo di Parigi”, il cui obiettivo è coordinare la risposta globale ai cambiamenti climatici, includono i seguenti sette gas serra:

Biossido di carbonio.

 La CO2 è prodotta naturalmente dagli animali durante la respirazione e attraverso la scomposizione della biomassa.

 Inoltre, può entrare nell'atmosfera attraverso la combustione di combustibili fossili e reazioni chimiche.

Durante la fotosintesi, il processo che converte la luce solare in energia, le piante la sottraggono all'atmosfera.

Pertanto, le foreste svolgono un ruolo importante nel sequestro del carbonio.

Metano.

Il metano è un gas incolore che è il componente principale del gas naturale.

Le sue emissioni provengono dalla produzione e dal trasporto di carbone, gas naturale e petrolio, nonché dal bestiame e da altre pratiche agricole, dall'uso del suolo e dalla decomposizione dei rifiuti organici nelle discariche municipali.

 Nel 2021, la maggior parte delle emissioni di metano proveniva da agricoltura, silvicoltura e pesca.

Ossido nitroso.

 Questo gas viene prodotto a seguito dell'azione microbica nel suolo, dell'uso di fertilizzanti contenenti azoto, della combustione del legno e della produzione chimica.

 Viene emesso nelle attività agricole e industriali, nonché nell'uso del suolo;

 la combustione di combustibili fossili e rifiuti solidi;

 e trattamento delle acque reflue.

Nell'UE, l'agricoltura, la silvicoltura e la pesca hanno prodotto la maggior parte delle emissioni di metano nel 2021.

Idro fluorocarburi.

Gli idro fluorocarburi rappresentano circa il 90% delle emissioni di gas fluorurati e l'UE sta lavorando per eliminarli gradualmente entro il 2050.

Sono utilizzati principalmente per assorbire il calore in frigoriferi, congelatori, condizionatori d'aria e pompe di calore, nonché spray per l'asma e aerosol tecnici, agenti schiumogeni e negli estintori.

 Nel 2021 hanno prevalso nei settori del commercio all'ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli.

Per fluorocarburi.

I per fluorocarburi sono composti artificiali comunemente usati nei processi di produzione industriale.

Esafluoruro di zolfo.

L'esafluoruro di zolfo è spesso utilizzato nell'isolamento delle linee elettriche.

Tri fluoruro di azoto.

Il tri fluoruro di azoto viene utilizzato come "gas di pulizia della camera" nei processi di produzione per pulire l'accumulo indesiderato dalle parti e dai circuiti del microprocessore mentre vengono costruiti.

Impatto dei gas serra sul riscaldamento globale.

I gas serra hanno un diverso potenziale di riscaldamento globale.

Per poterli confrontare, i loro impatti vengono solitamente convertiti in CO2 equivalente.

Nel 2021, le emissioni di gas a effetto serra generate dalle attività economiche nell'UE hanno raggiunto i 3,6 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, il 22% in meno rispetto al 2008.

 La CO2 ha rappresentato quasi l'80% del volume di tutte le emissioni di gas a effetto serra e. a metano con oltre il 12%. Il metano dura meno della CO2 nell'atmosfera, ma assorbe molta più energia solare.

 È un pericoloso inquinante atmosferico e le sue perdite possono causare esplosioni.

Nel complesso, tutti i gas fluorurati rappresentano solo il 2,5% circa delle emissioni di gas a effetto serra dell'UE.

Tuttavia, anche se vengono emesse in quantità minori, intrappolano il calore in modo molto più efficace della CO2.

Altri fatti e cifre sulle emissioni di gas a effetto serra per paese e settore dell'UE.

In che modo l'UE intende ridurre i gas serra?

La legge sul clima dell'UE fissa obiettivi giuridicamente vincolanti per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra:

entro il 2030 devono essere diminuite del 55% rispetto ai livelli del 1990 e l'UE deve raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050.

Per raggiungere questi obiettivi, l'UE ha implementato diverse misure:

- ridurre le emissioni nei trasporti;

- fissare standard per risparmiare energia e investire nelle energie rinnovabili;

- impedire il trasferimento delle industrie che emettono gas a effetto serra al di fuori dell'UE per evitare normative più severe;

- promuovere il primo grande mercato mondiale del carbonio, il sistema europeo di scambio di quote di emissione;

- stabilire obiettivi di riduzione per ciascun paese dell'UE;

- promozione delle foreste e di altre aree di sequestro del carbonio.

 

 

 

CO2, il principale gas serra.

   Ancler.org - Redazione – Massimo – (20/07/2019) – ci dice:

 

Anidride carbonica (CO2):

si presenta a temperatura ambiente come un gas incolore, più pesante dell’aria, di odore leggermente pungente allo stato puro e di sapore acidulo.

(Se il gas CO2 è più pesante dell’aria non può salire nella stratosfera e creare una calotta impermeabile micidiale per l’ambiente! N.d.R)

Alla temperatura di 20ºC, sottoposto a una pressione di 56,5 atm, liquefa trasformandosi in un liquido incolore;

alla pressione atmosferica e alla temperatura di –79 ºC passa invece direttamente dallo stato gassoso a quello solido, costituendo il cosiddetto ghiaccio secco o neve carbonica.

Il biossido di carbonio è assai solubile in acqua, ma la sua solubilità diminuisce fortemente al crescere della temperatura: la solubilità aumenta invece con la pressione.

L’atmosfera contiene in media una quantità di biossido di carbonio pari al 2-4×10–2% circa in volume, che varia però notevolmente da una zona all’altra;

è per esempio minore nelle zone boschive, assai più elevata nell’atmosfera dei grandi centri urbani e industriali.

Le fonti di emissione di CO2.

Le fonti naturali di CO2 atmosferica includono la de-gassificazione da vulcani, la combustione, il decadimento naturale della materia organica, la respirazione da parte di organismi aerobici che utilizzano ossigeno.

Queste sorgenti sono bilanciate, in media, da una serie di processi fisici, chimici o biologici, chiamati “pozzi”, che tendono a rimuovere la CO2 dall’atmosfera.

Le fonti antropiche principali di CO2 atmosferica includono l’uso dei combustibili fossili, la gestione forestale, la deforestazione, la produzione di cemento, la gestione dei suoli.

Nel complesso la presenza dell’anidride carbonica nell’atmosfera è dovuta al ciclo del carbonio e la CO2 non distrutta nel corso del tempo si accumula nel sistema oceano-atmosfera-terra, spostandosi da un comparto all’altro di tale sistema: parte di essa può essere assorbita dagli oceani o dalla biosfera terrestre, mentre la parte in eccesso si accumula in atmosfera.

I gas ad effetto serra.

L’anidride carbonica (CO2) è tra i gas ad effetto serra (Greenhouse gas o GHG) che maggiormente contribuiscono al riscaldamento del pianeta.

Tali gas presenti nell’atmosfera terrestre catturano il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio.

 Molti di essi sono presenti in natura, ma l’attività dell’uomo ne aumenta le concentrazioni nell’atmosfera.

 Attualmente si calcola che la concentrazione in atmosfera dell’anidride carbonica supera del 40% il livello registrato agli inizi dell’era industriale e che la CO2 è responsabile del 63% del riscaldamento globale causato dall’uomo mentre il metano è responsabile del 19% del riscaldamento globale di origine antropica, l’ossido di azoto del 6%.

Cause dell’aumento delle emissioni di CO2 e dei gas ad effetto serra sono la combustione di carbone, petrolio e gas che produce anidride carbonica e ossido di azoto (si calcola che le centrali elettriche e gli altri impianti industriali siano le principali fonti di CO2), la deforestazione (gli alberi aiutano a regolare il clima assorbendo CO2 dall’atmosfera, ma con il loro abbattimento questa funzione viene a mancare e l’anidride carbonica contenuta nel legno viene rilasciata nell’atmosfera), lo sviluppo dell’allevamento di bestiame (in quanto bovini ed ovini durante il processo di digestione producono grandi quantità di metano), l’utilizzo di fertilizzanti azotati in agricoltura (che producono emissioni di ossido di azoto), l’utilizzo di gas fluorurati (regolamentato dalla legislazione dell’UE che ne ha previsto la graduale eliminazione, causa un effetto serra molto importate, fino a 23000 volte più forte dei quello provocato dalla CO2).

 

Il riscaldamento globale.

L’attuale temperatura media mondiale è più alta di 0,85ºC rispetto ai livelli della fine del 19° secolo. Ciascuno degli ultimi tre decenni è stato più caldo dei precedenti decenni, da quando sono iniziate le prime rilevazioni nel 1850.

I più grandi esperti di clima a livello mondiale ritengono che le attività dell’uomo siano quasi certamente la causa principale dell’aumento delle temperature osservato dalla metà del 20° secolo.

Un aumento di 2ºC rispetto alla temperatura dell’era preindustriale viene considerato dagli scienziati come la soglia oltre la quale vi è un rischio di gran lunga maggiore che si verifichino mutamenti ambientali pericolosi e potenzialmente catastrofici a livello mondiale.

 Per questo motivo, la comunità internazionale ha riconosciuto la necessità di mantenere il riscaldamento sotto i 2ºC.

Le conseguenze dei cambiamenti climatici.

I cambiamenti climatici interessano tutte le regioni del mondo.

Le calotte polari si sciolgono e cresce il livello dei mari.

In alcune regioni i fenomeni meteorologici estremi e le precipitazioni sono sempre più diffusi, mentre altre sono colpite da siccità e ondate di calore senza precedenti.

Le forti precipitazioni e altri eventi climatici estremi stanno diventando sempre più frequenti.

Ciò può causare inondazioni e un deterioramento della qualità dell’acqua, e in alcune regioni anche la progressiva carenza di risorse idriche.

I cambiamenti climatici stanno già avendo un impatto sulla salute:

in alcune regioni si registra un aumento nel numero di decessi dovuti al calore e in altre si assiste a un aumento delle morti causate dal freddo;

 si osservano già alcuni cambiamenti nella distribuzione di determinate malattie trasmesse dall’acqua e dai vettori di malattie.

I danni alle case, alle infrastrutture e alla salute umana impongono elevati costi alla società e all’economia.

Tra il 1980 e il 2011 le alluvioni hanno colpito più di 5,5 milioni di persone e provocato perdite economiche dirette per oltre 90 miliardi di euro.

I settori che dipendono fortemente da determinate temperature e livelli di precipitazioni come l’agricoltura, la silvicoltura, l’energia e il turismo, sono particolarmente colpiti.

Se non si instaura una inversione di tendenza volta ad una importante riduzione delle emissioni di CO2 questi fenomeni dovrebbero intensificarsi nei prossimi decenni.

 

 

 

“Ridurre la popolazione mondiale

Contribuirebbe a mitigare

 il riscaldamento globale,”

Titola “Le Monde”.

Presskit.it – Redazione – (23 novembre 2022) – ci dice:

 

Non è una fake news.

 Le Monde il 9 novembre 2022 titola: “Ridurre la popolazione contribuirebbe a mitigare il riscaldamento globale”, citando la mission di” Démographie responsable”, una associazione che predica la denatalità.

E’ tempo di immaginare nuove soluzioni per ridurre la fertilità umana, assicura, in una tribuna « Monde », (Mondo), l’associazione “Démographie responsable” (Demografia responsabile)”, fondata alla fine del 2008, sul cui sito compare un contatore sempre in aumento della popolazione mondiale.

“Incoraggiando l’autolimitazione della natalità, la nostra associazione mira a lavorare per la stabilizzazione della popolazione umana e la sua riduzione a lungo termine”, scrivono tra i loro obbiettivi.

 “Il nostro approccio prevede informazioni sulle conseguenze della pressione demografica per le generazioni future, le altre specie e l’ambiente.

Parallelamente a questa informazione, ci diamo la missione, tra l’altro, di sostenere tutte le iniziative a favore dell’educazione, condizione necessaria affinché tutti gli esseri umani comprendano i pericoli ecologici legati alla sovrappopolazione”.

Si chiedono tra le altre cose su Le Monde: “Dovremmo avere meno bambini per salvare il pianeta?”

“L’anno 2022 è l’anno della consapevolezza. La questione delle risorse si pone in modo brutale”.

Il problema? Secondo quanto riporta l’articolo, sempre il riscaldamento globale e le risorse di cibo per la popolazione mondiale.

“La questione delle risorse alimentari era al centro dell’opera di “Thomas R. Malthus”, che nel 1798 sottolineava l’impossibilità della produzione alimentare di aumentare in proporzione alla popolazione, e quindi invocava una limitazione della crescita di quest’ultima.

Tuttavia, l’esplosione demografica globale (moltiplicata per 8 da Malthus) non ha prodotto il previsto impoverimento di massa;

 ma l’aumento della produttività agricola, che spiega questo divario, sta ormai raggiungendo i suoi limiti”, secondo quanto sostengono su Le Monde.

Nessuno parla di Ogm o altre tecniche per aumentare la produttività della singola pianta.

La guerra in Ucraina è un altro dei problemi che pongono urgenza a queste misure. “la questione dell’adeguatezza delle risorse ai bisogni è lungi dall’essere scomparsa, all’inizio del XXI secolo.

Oggi si concentra soprattutto sui bisogni energetici, la cui soddisfazione richiede quella dei bisogni di beni e servizi:

il conflitto innescato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia evidenzia quanto le filiere produttive globali siano sensibili alla disponibilità di risorse fossili e abbiano poco margine di manovra”, concludono.

Lasciamo ogni commento ai nostri lettori, la notizia parla da sola.

(lemonde.fr/idees/article/2022/11/09/reduire-la-population-contribuerait-a-l-attenuation-du-rechauffement-climatique_6149100_3232.html)

 

 

 

 

La catastrofica idea di ridurre

la popolazione per difendere l’ambiente.

Tempi.it - Aldo Vitale – (16/11/2022) ci dice:

 

Le Monde ripropone la vecchia idea dell'uomo "cancro del Pianeta".

Contro-osservazioni su un'ideologia dura a morire.

«Per ridurre l’uomo in schiavitù non c’è pretesto migliore de “la dignità dell’uomo”»:

così “Nicolas Gomez Davila” aveva giustamente chiosato per evidenziare uno dei più tragici e grotteschi, ma non per questo meno veri, insegnamenti della storia:

gli atti più atroci contro l’umanità sono spesso compiuti e giustificati perché messi in essere proprio per difendere l’umanità medesima.

Analogamente si può pensare della proposta avanzata da Le Monde lo scorso 9 novembre in un articolo dal seguente significativo titolo

“La riduzione della popolazione contribuirebbe alla mitigazione del riscaldamento globale”.

Secondo questa idea, vi sarebbero esseri umani in sovrannumero che occorre ridurre diminuendo la fecondità della popolazione del pianeta al fine di preservare l’ambiente planetario e consentire una riduzione del riscaldamento climatico di cui le attività umane sarebbero scaturigine.

Su una simile proposta, in considerazione della sua potenziale incisività sulla dignità umana, sui diritti umani fondamentali e sulla vita di milioni, forse miliardi perfino, di esseri umani, non si possono che effettuare alcune osservazioni critiche.

In primo luogo:

l’idea non è certamente nuova, essendo stata prospettata in termini simili già nel lontano 2009 da “Sir David Attenborough,” celebre naturalista e divulgatore britannico, esponente dell’OPT, cioè l’”Optimum Population Trust,” dalle colonne del “The Telegraph”, e poi nuovamente nel 2013 allorquando ebbe a definire l’umanità come una «piaga per il pianeta Terra» esortando alla necessità dell’adozione di una politica di controllo planetario della popolazione.

Nell’ottica di “Sir Attenborough”, così come sostanzialmente secondo l’attuale pensiero espresso da “Le Monde”, il controllo della riproduzione umana – in senso limitativo ovviamente – costituisce l’unica modalità per garantire un futuro alla Terra e all’ecosistema planetario, sebbene si dimentichi che, storicamente, tutte le politiche di ingegneria sociale, specialmente quelle su grande scala, sono sempre state destinate non soltanto al fallimento, quanto soprattutto a divenire l’anticamera o il risultato inevitabile dell’instaurazione di regimi liberticidi e antiumani.

In questa direzione sia sufficiente ricordare le politiche di sterilizzazione forzata adottate in Svezia ben prima dell’avvento del nazionalsocialismo tedesco o quelle cinesi sul figlio unico con aborti forzati e detenzioni per maternità non autorizzate.

Insomma, il passaggio dall’utopia del controllo sociale della riproduzione alla distopia di leggi contrarie alla dignità umana è sempre molto breve e dovrebbe consigliare, dunque, di rigettare simili predette idee per evitare di trasformare l’intero pianeta in un grande campo di concentramento a cielo aperto.

Rovesciamento etico.

In secondo luogo:

la proposizione di simili soluzioni, del resto, è l’espressione più diretta di un rovesciamento dei canoni etici in almeno due sensi.

In un senso “orizzontale”,

poiché al criterio etico della dignità umana fondata sul principio personalistico viene sostituito quello dell’utilitarismo ambientalistico pur senza dimostrare le ragioni per cui tale sostituzione è legittima e doverosa e soprattutto senza rendere le motivazioni per cui il secondo sarebbe un paradigma eticamente superiore al primo.

In senso “verticale”,

poiché si ribalta l’orizzonte di senso del paradigma creaturale secondo il quale non è l’uomo per l’ambiente, ma l’ambiente per l’uomo.

Senza dubbio sull’essere umano grava la responsabilità etica – specialmente per le generazioni future (richiamandosi così il pensiero di “Hans Jonas”) – della custodia dell’ecosistema planetario e dell’uso ragionevole delle sue risorse senza che tale utilizzo sia causa di morte globale e devastazione totale, ma tale responsabilità può essere davvero autentica soltanto se e nella misura in cui l’uomo è realmente libero e quindi soltanto se è davvero se stesso e non subordinato all’importanza di tutto il resto del creato o, peggio, a leggi o sistemi socio-politici che possano violarne lo statuto etico e antropologico con la limitazione forzata della fecondità e della riproduzione.

Qualche domanda.

In terzo luogo:

se già dal punto di vista etico e teoretico una tale dottrina scricchiola e traballa, dal punto di vista strettamente giuridico non si regge in piedi poiché bisognerebbe rispondere ai numerosi seguenti interrogativi.

Chi dovrebbe decidere la riduzione della popolazione?

 Secondo quali criteri?

Sarebbe in modo proporzionale a tutte le nazioni del pianeta?

 O forse dovrebbero sopportare un maggior sacrificio le popolazioni delle nazioni più industrializzate che maggiormente inquinano?

O forse, al contrario, le popolazioni dei Paesi meno industrializzati che potrebbero essere visti come un peso in ragione della loro minore produttività?

Ancora:

la riduzione delle capacità fecondative sarebbe una opzione facoltativa con adesione volontaria o un obbligo imposto a tutta la popolazione?

Si tratterebbe di metodiche irreversibili o reversibili?

Come verrebbero rimodulati i cosiddetti “diritti riproduttivi” che oramai da decenni si sono affermati negli ordinamenti di tutto il pianeta tanto per via legislativa quanto per via giudiziaria?

 Sarebbe possibile – e se sì, come e quando – esercitare un diritto di ripensamento? Si tratterebbe di misure eterne o temporanee?

 Ci sarebbe la certezza inequivocabile dell’efficacia di simili misure?

 E se non dovessero funzionare come nelle eventuali previsioni, cosa si dovrebbe fare?

Un paradosso.

Insomma, si comprende quanto fosco sia lo scenario all’orizzonte delineato da simili inquietanti proposte e si evidenzia con maggior pregnanza quanto ideologiche e anti-umane – e come tali anti-giuridiche – siano alcune delle soluzioni prospettate dagli ideologi dell’attuale ambientalismo.

Si palesa, in conclusione, tutto l’intrinseco paradosso dell’attuale ideologia ambientalista la quale si determina a lottare per l’ambiente in nome e difesa dell’uomo e finisce per lottare contro l’uomo in nome e difesa dell’ambiente.

 

 

 

«Così nel 2050 la civiltà umana

collasserà per il climate change»

ilsole24ore.com - Enrico Marro – (27 giugno 2019) - ci dice:

 

Un’allarmante analisi dei ricercatori del “National Center for Climate Restoration” australiano delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni fatali dell'ecosistema globale e colossali migrazioni da almeno un miliardo di persone.

 Ecco cosa potrebbe avvenire anno dopo anno.

Climate change”, cosa succede se non fermiamo il riscaldamento globale.

Un decennio perduto.

Tra il 2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi del” climate change”, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo:

costruire un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi.

 L’ultima occasione viene clamorosamente bruciata.

Il risultato è che nel 2030, come avevano ammonito tredici anni prima gli scienziati “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanthan” in una pubblicazione scientifica che aveva fatto discutere, le emissioni di anidride carbonica raggiungono livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni.

Nel ventennio successivo si tenta di porre rimedio alla situazione, ma è troppo tardi:

nel 2050 il riscaldamento globale raggiunge tre gradi, di cui 2,4 legati alle emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del pianeta al riscaldamento globale.

 

L’anno 2050 rappresenta l’inizio della fine.

Buona parte degli ecosistemi terrestri collassano, dall’Artico all’Amazzonia alla Barriera corallina.

 Il 35% della superficie terrestre, dove vive il 55% della popolazione mondiale, viene investita per almeno 20 giorni l’anno da ondate di calore letali.

Il 30% della superficie terrestre diventa arida:

Mediterraneo, Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interna e sud-ovest degli Stati Uniti diventano inabitabili.

 Una crisi idrica colossale investe circa due miliardi di persone, mentre l’agricoltura globale implode, con raccolti crollati del 20% e prezzi alle stelle, portando ad almeno un miliardo di “profughi climatici”.

 Guerre e carestie portano a una probabile fine della civiltà umana così come la intendiamo oggi.

 

Se si tiene conto anche del “carbon feedback”, secondo diverse fonti tra le quali scienziati del calibro di “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanathan”, esiste un concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che salirebbero a cinque gradi entro il 2100.

 La civiltà umana non farebbe in tempo a vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della civiltà come la conosciamo oggi.

Una china pericolosa in cui, come nota “Hans Joachim Schellnhuber “del Potsdam Institute, probabilmente «la specie umana in qualche modo sopravviverà, ma distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».

Il vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune “soglie di non ritorno” climatiche come la distruzione delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello del mare.

 “Soglie di non ritorno” molto pericolose che, una volta oltrepassate, trasformerebbero il “climate change” in un evento non lineare e difficilmente prevedibile con gli strumenti oggi a disposizione della scienza.

 Dopo il superamento di quei “punti di non ritorno” il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l'azione dell'uomo, rendendo inutile ogni tardivo tentativo di eliminare le emissioni.

Quello della fine della civiltà umana è un rischio minimo ma non assente, sottolinea “Ramanathan”, che lo stima al 5% («e chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di possibilità di schiantarsi?», nota lo scienziato).

 È oggi che dobbiamo agire, conclude lo studio:

domani potrebbe essere troppo tardi.

 

 

 

LA DISUGUAGLIANZA DA CO2

CHE SOFFOCA IL PIANETA.

Oxfamitalia.org – (21 settembre 2020) – Redazione – ci dice:

 

Disuguaglianza emissioni di CO2: l’1% più ricco del pianeta inquina il doppio della

metà più povera.

63 milioni di super-ricchi hanno emesso il 15% di CO2 mentre 3,1 miliardi di persone solo il 7%.

 

Questo è uno dei dati che fotografano un mondo in cui la metà più povera è costretta a subire l’impatto dello stile di vita insostenibile di pochi milioni di persone.

Lo denunciamo alla vigilia dell’Assemblea generale della Nazioni Unite che vedrà i leader mondiali impegnati a discutere di sfide globali, compresa la crisi climatica, nel rapporto” Disuguaglianza da CO2”, pubblicato in collaborazione con lo “Stockholm Environment Institute”.

Dalla ricerca, che analizza la quantità di emissioni per fasce di reddito tra il 1990 e il 2015, periodo in cui le emissioni di CO2 in atmosfera sono più che raddoppiate, risulta che:

il 10% più ricco è stato responsabile di oltre la metà (52%) delle emissioni di CO2 in atmosfera;

 di questo, l’1% più ricco è responsabile del 15%: più di quanto non abbiano contribuito tutti i cittadini dell’Ue e il doppio della quantità prodotta dalla metà più povera del pianeta;

il 10% più ricco ha consumato un terzo del nostro “budget globale di carbonio” (global 1.5C carbon budget) mentre la metà più povera della popolazione solo il 4%.

 In altre parole, l’ammontare massimo di anidride carbonica che può essere rilasciata in atmosfera senza far aumentare la temperatura globale sopra 1,5 gradi centigradi – considerato dagli scienziati il punto limite oltre il quale si verificherebbero catastrofi climatiche – è stato già consumato per più del 30% dal 10% della popolazione più ricca del pianeta;

le emissioni annuali sono aumentate del 60%: il 5% della popolazione più ricca ha determinato oltre un terzo (37%) di questo aumento; l’1% più ricco ha aumentato la propria quota di emissioni 3 volte di più rispetto al 50% più povero della popolazione.

Lo stile di vita, di produzione e di consumo di una piccola e privilegiata fascia di abitanti del pianeta sta alimentando la crisi climatica e a pagarne il prezzo sono i più poveri del mondo e saranno, oggi e in futuro, le giovani generazioni.

Gli effetti della disuguaglianza da emissioni di CO2

Cicloni violentissimi in India e Bangladesh, sciami di locuste in Africa, incendi e ondate di calore senza precedenti negli Stati Uniti e in Australia.

Con l’allentamento delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, le emissioni di CO2 torneranno a crescere:

è essenziale perciò ridurre del 30% la disuguaglianza da emissioni di CO2 globali entro il 2030 per non far aumentare la temperatura globale oltre 1,5 gradi centigradi.

Questo implica una modifica netta delle abitudini della fascia più ricca del pianeta: oggi la disuguaglianza da CO2 è talmente profonda che, anche se il resto del mondo adottasse un modello a emissioni zero entro il 2050, il 10% più ricco potrebbe esaurire le sue riserve entro il 2033.

Il rapporto stima infatti che il 10% più ricco dovrebbe ridurre di dieci volte le proprie emissioni pro-capite di CO2 entro il 2030, per fare in modo che l’aumento delle temperature globali non oltrepassi 1,5 gradi centigradi.

I governi devono cogliere l’opportunità di ridisegnare le nostre economie e costruire un futuro possibile e migliore.

Occorre porre un freno alle emissioni dei più abbienti e investire in settori a basso consumo di CO2.

Allo stesso tempo è sempre più determinante che i leader mondiali raccolgano l’appello lanciato dal movimento “Fridays for Future”.

Milioni di persone in tutto mondo il 25 settembre, in occasione della “Giornata Mondiale di Azione per il clima”, fanno sentire la propria voce e chiedono un cambio di rotta alle Istituzioni globali e ai Governi.

A supporto di questo, anche quest’anno stiamo lavorando per organizzare, in collaborazione con la “Regione Toscana, la “Marcia per i Diritti Umani 2020”.

 Un evento, in programma il prossimo 8 ottobre, che coinvolgerà migliaia di studenti, collegati virtualmente insieme al climatologo “Luca Mercalli” per discutere di vivibilità e sostenibilità ambientale.

 

 

 

Al clima! al clima! E poi?

 Apocalottimismo.it - Jacopo Simonetta – (Aug 15, 2021) – ci dice:

 

Disastro clima.

Clima: mentre alluvioni ed uragani devastano mezzo mondo e gli incendi l’altro mezzo, è uscito il sesto rapporto dell’IPCC e prontamente si sono formati i consueti due “partiti”. 

Da un lato una maggioranza che lo ha ignorato o quasi;

dall’altra una minoranza di soggetti che hanno gridato che “bisogna agire subito per evitare il disastro”. 

E poi?

Un poco di storia.

Per prima cosa, chiediamoci quanto ci sia di nuovo in questo rapporto.

Tanto per farsi un’idea, questa è una carrellata non esaustiva di punti nodali nell’evoluzione della scienza del clima e del suo molto graduale sfociare in “grida di allarme” sempre più acute e, ciò nondimeno, inutili. 

Almeno finora, il futuro rimane “in grembo a Zeus”.

1824: “Jean Baptiste Joseph Fourier” scopre lo “Effetto Serra”.

1896: “Svante Arrhenius” calcola che la combustione industriale del carbone provocherà un’alterazione della composizione dell’atmosfera ed un conseguente riscaldamento del clima, ma non si accorge che il fenomeno è già iniziato.

1938: “Guy Stewart Callendar” dimostra che la temperatura terrestre ha cominciato ad aumentare fin dal 1850 e che questo incremento è strettamente correlato al parallelo incremento della CO2 in atmosfera.

1957: Roger Revelle dimostra che gli oceani assorbono una parte consistente di CO2 acidificandosi. 

Non sta quindi cambiando solo la chimica dell’atmosfera, ma anche quella dell’idrosfera.

1958: Charles David Keeling avvia un monitoraggio della CO2 molto più preciso di quelli precedenti e nel 1961 pubblica dati che dimostrano un incremento costante di CO2, anno per anno.

 

1967: Il primo modello climatico computerizzato prevede un drammatico incremento di 2,3 C° a fronte del raddoppio della concentrazione di CO2 equivalente rispetto al 1850 (cioè passando da 280 a 560 ppm, nel frattempo siamo arrivati a quasi 450). 

Le proiezioni attuali sono molto più accurate, ma non sostanzialmente diverse.

1988: “James Hansen” spiega al senato americano che il riscaldamento della Terra è una realtà, che è quasi interamente dovuto alle attività umane e che le conseguenze sono catastrofiche.

1990: “Primo rapporto dell’IPCC “che conferma quanto sostenuto da “Hansen”, sia pure in termini molto più edulcorati e “politicamente corretti”.

1992: Avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo. 

1700 scienziati di fama mondiale, fra cui la maggioranza dei nobel per materie scientifiche, sottoscrivono e pubblicano un documento che indica nel cambiamento del clima, nell’estinzione di massa e nella sovrappopolazione i principali pericoli che minacciano la civiltà e finanche la sopravvivenza specie umana.

1995: Secondo rapporto dell’IPCC che conferma e precisa i risultati precedenti.

1998: “Michael Mann”, “Raymond Bradley” and “Malcolm Hughes” pubblicano il cosiddetto ‘hockey stick’ graph, che mostra che l’incremento delle temperature ha assunto un andamento esponenziale dall’inizio del XX secolo.

2001, 2007, 2013: Tutti i successivi rapporti dell’IPCC confermano la sostanza delle cose, chiariscono i dubbi residui, precisano osservazioni e scenari futuri, aggravando ed abbreviando via via le prospettive.

2017: Secondo avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo.

 Sottoscritto inizialmente da circa 15.000 scienziati (poi saliti a 25.000) ribadisce quanto detto nel primo, ma con toni assai più drammatici ed urgenti.

2021 Sesto rapporto dell’IPCC.

Per chi volesse leggersi tutte le 4.000 pagine:

(ipcc.ch/assessment-report/ar6/; mentre per chi si accontenta di un buon riassunto: https://qz.com/…/what-does-the-ipcc-say-about-climate…/).

Alla fin fine, il tutto si può però condensare in poche righe:

1 – Il clima cambia in peggio ed è colpa nostra.

2 – Gli strumenti, le analisi, i modelli, ecc. migliorano di anno in anno, cosicché sappiamo che va sempre peggio sempre più in fretta.

 Ad ogni rapporto gli effetti delle retroazioni che contrastano il fenomeno vengono rivisti al ribasso, mentre quelli delle retroazioni che riscaldano il clima appaiono sempre più potenti; le previsioni sono quindi sempre più fosche e il riscontro dei dati conferma spesso le ipotesi peggiori.

3 – Niente di ciò che è stato fatto e proposto finora sfiora minimamente il livello necessario non già per evitare, ma anche solo per mitigare la catastrofe.

4 – Oramai la resa dei conti è cominciata e peggiorerà comunque, anche in caso di provvedimenti seri. Ciò non toglie che questi siano ugualmente necessari e urgenti perché “un po’ peggio” è comunque da preferirsi a “molto peggio”.

In buona sostanza, sono almeno 30 anni che sappiamo quello che succede e, indicativamente, quello che succederà, ma che si è fatto in proposito?

30 anni di fiaschi.

I primi, blandi, tentativi di affrontare il problema risalgono agli anni ’90, con il famigerato “protocollo di Kyoto”.

 Senza scendere in dettagli, possiamo distinguere una serie di fasi successive nell’approccio politico al problema.

La prima fu improntata all’idea che i meccanismi di mercato avrebbero potuto risolvere la situazione.

 In sintesi, parte dei profitti realizzati emettendo CO2 potevano essere investiti per rimuoverla e per favorire la cosa furono introdotti complicati sistemi di compravendita di diritti ad inquinare e doveri a compensare.

Il risultato fu molta attività di lobby e di business, ma zero risultati pratici.

Preso atto del fiasco, si puntò sull’efficientamento delle filiere, la parziale sostituzione del carbone con il metano, ecc. nella speranza che una maggiore efficienza d’uso avrebbe comportato una sostanziale riduzione dei consumi.

Purtroppo, il risultato fu esattamente quello opposto, come si sarebbe potuto prevedere sia sulla base di dati empirici risalenti fino a “James Jevons”, sia dall’analisi termodinamica di “Ilya Prigogine”.

La terza fase puntò soprattutto sulla diffusione di energie rinnovabili, molte delle quali risultarono però ancora peggio di quelle fossili. 

In particolare, sovvenzionare l’uso del legname ha sortito effetti disastrosi sulle foreste, mentre le possibilità di sviluppo dell’idroelettrico sono risultate assai limitate in quando la maggior parte dei siti più idonei erano già sfruttati da decenni, mentre la capillare diffusione di questi impianti ha avuto un impatto devastante sui residui corsi d’acqua.

Solare ed eolico hanno dato risultati assai migliori, ma anche loro non privi di impatti e con limiti consistenti nelle potenzialità di sviluppo. 

Ad ogni modo, oggi coprono una frazione del tutto marginale dei consumi globali e non è realistico che questa salga in misura e rapidità sufficienti ad avere un impatto sul clima dei prossimi decenni (mentre saranno probabilmente molto utili per ammortizzare le prevedibili crisi energetiche).

Intanto, il differenziale da recuperare cresceva e per far tornare i conti si cominciarono a considerare tecnologie sempre più estreme come l’estrazione diretta di CO2 dall’atmosfera per iniettarla negli ex-giacimenti di petrolio e gas, fino a fantascientifiche “geoingegnerie” di fattibilità ed efficacia sempre più dubbia.

Al meglio, per ora, abbiamo degli impianti sperimentali; più spesso abbiamo solo delle ipotesi più o meno stravaganti e, comunque, niente di tutto ciò appare realmente fattibile; perlomeno non entro i tempi necessari.

All’atto pratico, la relativa riduzione dei consumi di USA, EU e Giappone è avvenuta assai più in conseguenza della pertinace crisi economica che di tutto il circo di chiacchiere e progetti che si sono messi in ponte.

 Riduzione peraltro trascurabile rispetto all’aumento che nel frattempo si è registrato nel resto del mondo ed in particolare in Cina, che risulta oggi il maggior produttore mondiale di gas climalteranti.

Dunque un fallimento totale che necessita di una spiegazione perché ad esso hanno comunque collaborato non solo politici ed imprenditori, ma anche migliaia di tecnici molto competenti nei rispettivi campi.

I motivi sono in realtà molti e non sempre gli stessi per tutto il periodo e per tutti i paesi, ma in ultima analisi, il fallimento era inevitabile perché, fin dall’inizio, il problema è stato affrontato dando priorità al sistema economico, piuttosto che alla Biosfera.

In pratica, quello che finora si è cercato e si continua a cercare è un modo per salvare la civiltà industriale ed il capitalismo, non la Biosfera. 

Un approccio suicida, visto che è la biosfera che consente all’industria, al capitalismo ed all’umanità stessa di esistere. 

Ma questo è un concetto che ancora non è penetrato nelle menti dei più e con buone ragioni perché ammettere che per salvare noi stessi bisogna salvare tutto il resto, significherebbe accettare di sacrificare noi stessi in misura molto consistente.

 Cioè rinunciare non solo al benessere, ma anche a molte delle cose che in occidente diamo per scontate (a cominciare da un’aspettativa di vita media ultra-ottuagenaria) e che nel resto del mondo agognano da generazioni.

L’unico modo realistico di contenere le emissioni abbastanza in fretta da incidere sul clima prossimo venturo sarebbe, infatti, ridurre drasticamente i consumi finali di tutte le forme di energia in tutti i paesi industrializzati del mondo.

 Dunque razionare elettricità e combustibili, nonché l’acqua, la carne e parecchi altri generi di prima necessità.

 Bisognerebbe inoltre militarizzare molti settori della società e prendere parecchi altri parimenti molto impopolari perché deprimerebbero in modo sostanziale e definitivo gli standard di vita di tutti coloro che non sono già decisamente poveri. 

Insomma una decrescita precipitosa e tutt’altro che “felice”, ancorché necessaria per evitare ben di peggio. 

Altre opzioni forse erano praticabili 50 o 40 anni fa, ma non più oggi.

E allora?

Sul piano scientifico, credo che sarebbe interessante cominciare ad indagare le retroazioni fra le conseguenze socio-economiche del peggioramento climatico (siccità, alluvioni, ecc.) e forzanti climatiche principali (emissioni, ecc.).

Se c’è una speranza di cavarsela, secondo me, è nella progressiva disgregazione del tessuto economico mondiale e non nei piani dei governi che si fanno sempre più fantastici man mano che la situazione degenera.

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.