Gli agricoltori non vogliono chiudere le stalle e abbandonare i campi.
Gli
agricoltori non vogliono chiudere le stalle e
abbandonare
i campi.
Gli
agricoltori olandesi potrebbero
ricevere
denaro per chiudere
i
propri allevamenti.
Euronews.com
– (5 maggio 2023) - Angela Symons – ci dice:
L'Ue
ha approvato un piano da 1,5 miliardi di euro per rilevare l'attività degli
agricoltori olandesi e ridurre così le emissioni.
(The Farmers Defense Force flag,
right, and Dutch flags, fly in the wind on an intersection blocked by tractors
in The Hague, Netherlands, 19 February 2020).
L'Unione
europea ha approvato un piano che prevede la possibilità per il governo
olandese di rilevare l'attività degli agricoltori.
Lo
schema fa parte del piano dei Paesi Bassi per ridurre drasticamente le
emissioni di azoto, di cui una delle principali fonti sono gli allevamenti di
bestiame.
Gli
agricoltori nei Paesi Bassi hanno organizzato proteste sin dall'ottobre 2019:
quasi 1,5 miliardi di euro saranno utilizzati per risarcire gli agricoltori che
chiuderanno volontariamente le aziende agricole situate vicino alle riserve
naturali.
Il
governo olandese vuole ridurre le emissioni (di ossido di azoto e ammoniaca)
del 50% a livello nazionale entro il 2030.
Perché
i Paesi Bassi vogliono chiudere le aziende agricole?
Nonostante
le piccole dimensioni, i Paesi Bassi sono il secondo esportatore mondiale di
prodotti agricoli, dietro agli Stati Uniti.
L'anno
scorso, le esportazioni agricole olandesi hanno raggiunto un valore di 122,3
miliardi di euro, a detta dell'Ufficio statistico nazionale.
L'agricoltura
intensiva ha lasciato la piccola Nazione con livelli di ossido di azoto più
elevati di quelli consentiti dalle normative Ue:
queste
emissioni peggiorano il cambiamento climatico e possono danneggiare la
biodiversità.
Paesi
Bassi, braccio di ferro tra il governo e gli allevatori di bestiame sulle emissioni
di azoto.
Negli
ultimi anni, le proposte del governo per ridurre le emissioni di azoto hanno
portato alla riduzione del numero di capi di bestiame di un terzo.
"I
piani miglioreranno le condizioni ambientali e promuoveranno una produzione più
sostenibile ed ecologica nel settore dell'allevamento, senza distorcere
indebitamente la concorrenza", ha affermato “Margrethe Vestager”,
commissaria europea per la concorrenza.
Cosa
pensano gli agricoltori del programma di acquisizione?
L'organizzazione
agricola “LTO” ha affermato che le acquisizioni debbono essere "progettate
in modo tale da offrire agli agricoltori l'opportunità di concludere
correttamente la loro attività".
L'organizzazione
ha anche chiesto "schemi di transizione", che consentirebbero agli
agricoltori di ridurre le emissioni di azoto.
La
lotta degli agricoltori olandesi contro le normative sulle emissioni.
Un
partito politico pro-agricoltura ha vinto le recenti elezioni provinciali
olandesi, sottolineando la profondità del malcontento tra gli agricoltori.
Il
governo olandese ha incaricato i legislatori provinciali di formulare e attuare
precise proposte per ridurre le emissioni di azoto.
L'anno
scorso, gli agricoltori hanno tenuto diverse grandi manifestazioni, che poi si
sono estese anche al vicino Belgio, dove centinaia di agricoltori hanno guidato
i loro trattori nel centro di Bruxelles per protestare contro i piani per
ridurre l'inquinamento da azoto.
IL TUO
PAESAGGIO.
Non
sono solo le mucche a
beneficiare
dei miei prati.
Iltuocontadino.it
- MATTHIAS PLONER – (10-1-2023) – ci dice:
MATTHIAS PLONER, contadino di montagna a Laion.
Coltiva
a prato 12 ettari di terra, producendo fieno per le sue mucche e apportando un
prezioso contributo alla conservazione del paesaggio sudtirolese.
Il
contadino con la bici elettrica e la filosofia dei globuli.
Ogni
mattina, Matthias Ploner, contadino biologico di montagna a Laion, si reca al
maso con una bicicletta elettrica, un mezzo di trasporto che appartiene al suo
modo di essere e ben si concilia con la sua filosofia, radicata nella natura e
nell’ambiente, che risulta ancora più evidente quando si entra nella sua
stalla:
le mucche godono di un panorama mozzafiato.
È stato lui a volerlo e nessuno è riuscito a
distoglierlo, nemmeno il suo architetto. Nella stalla di Matthias Ploner, la
facciata anteriore e le porte sono aperte a ogni ora e in tutte le stagioni;
sembra che faccia incredibilmente bene alle
mucche: “A loro giova molto vivere così”, spiega Matthias pieno di entusiasmo.
E non si fa fatica a credergli, data la
passione che nutre per gli animali, il maso e l’agricoltura.
Matthias
Ploner è cresciuto a Laion, un soleggiato paese all’inizio della Val Gardena,
situato a 1.100 m s.l.m., dove si trovavano la casa dei genitori e il vecchio
maso con la macelleria, gestiti dal padre e dal fratello.
Questo” harleysta” tatuato è cresciuto nel
maso, che ha ospitato le mucche e la macelleria fino al 2000, quando il padre e
il fratello hanno deciso di cederlo per ingrandire la rivendita di carni.
I prati sono stati dati in affitto e Matthias
si dedicava solo al mestiere che aveva appreso, quello del fornaio.
Il
ritorno alle origini.
All’epoca,
Matthias era contento della decisione presa dalla famiglia: non era interessato
al maso, guadagnava bene come fornaio ed era soddisfatto, fino a che lo stress
e la pressione sul lavoro divennero per lui insostenibili e il suo amore per
gli animali lo riportò al settore agricolo.
Voleva
fare il contadino, con molta serietà, e per farlo ha dovuto investire
parecchio, perché tutto ciò che aveva erano i prati ereditati dal padre,
insieme a un paio di rastrelli e forconi, oltre che un rimorchio di 30 anni.
Doveva
dunque costruire una stalla, acquistare un trattore, una mietitrice, un
voltafieno e altre attrezzature.
Matthias
voleva una stalla adeguata alle esigenze degli animali, in cui le mucche si
sentissero bene e potessero produrre latte di alta qualità senza essere sotto
pressione.
Ha
iniziato a guardarsi attorno e a visitare stalle, incaricando un architetto di
costruirne una secondo le sue proposte.
All’inizio è stato criticato, ma è rimasto
fedele alla sua filosofia:
a una
mucca fa bene respirare aria fresca e muoversi, e se sta bene produce latte
buono.
In
questa stalla moderna, senza inquinamento elettrico, i vitelli vivono nella
parte posteriore, e le 16 mucche in quella anteriore, aperta, dove possono
mettere la testa al sole e uscire quando vogliono (hanno due ettari di prati
tutti per loro).
La
razza che alleva è quella delle vacche Pinzgauer, non molto diffuse in
Sudtirolo.
Un
marchio di benessere per le mucche.
Lavorare
con passione.
Matthias
si alza tutte le mattine alle quattro meno un quarto e si reca al maso con la
bici elettrica;
non
vuole stress nella sua stalla, perché le mucche lo percepiscono.
Se è
di fretta e deve andare via, gli animali lo notano e si innervosiscono.
Questo
contadino fa ciò che ama: adora il suo lavoro come agricoltore e con gli
animali, con cui ha un legame molto stretto.
Conosce
ogni vacca e le relative esigenze;
una lo
segue addirittura a ogni passo.
Nella
sua stalla regna la tranquillità, così come durante mungitura; gli animali si
fidano di lui e non oppongono resistenza se vengono caricati su un camion.
Produzione
naturale di qualità biologica.
A
Laion, Matthias Ploner era il solo produttore a consegnare latte biologico per
la lavorazione, ora ce ne sono cinque, tutti ben visti dalla popolazione, che è
divenuta sensibile alla qualità biologica e acquista con consapevolezza questo
latte perché arriva dal proprio paese.
Matthias
cura personalmente i suoi animali con medicinali omeopatici, lavora con globuli
e batteri per la digestione delle mucche; ha frequentato corsi, letto molto e
chiama sempre esperti presso il proprio maso.
La
formazione e l’aggiornamento sono la cosa più importante sul campo, afferma.
Responsabilità
per il paesaggio e il futuro.
Matthias
Ploner vuole lasciare una buona azienda ai suoi due bambini, che, se vorranno,
potranno portarla avanti.
Questo agricoltore non si sente però
responsabile solo nei confronti dei propri figli, ma dell’intera popolazione.
Attribuisce molta importanza allo sfruttamento
sostenibile del terreno e al mantenimento del ciclo delle sostanze nutritive.
Coltivando
i suoi 12 ettari a prati, crea valore aggiunto per gli abitanti della zona e i
turisti.
In questo modo, Matthias si assume la
responsabilità per il futuro della sua Provincia e del suo paesaggio.
UN
PAESAGGIO SENZA EGUALI.
Un
agricoltore ha una grande responsabilità nei confronti del Paese in cui vive:
senza di lui, i campi, i prati e i pendii non sarebbero così curati e la
biodiversità ne soffrirebbe.
L’attività
agricola e di conservazione del paesaggio portata avanti dai contadini crea un
ambiente accogliente per gli uomini e gli animali.
Gli
agricoltori falciano i prati, si occupano degli animali, degli alpeggi e dei
boschi, che a loro volta offrono protezione da frane e valanghe.
L’area
rurale è un luogo prezioso per il tempo libero e il relax della popolazione
locale e dei turisti:
i masi dei contadini di montagna svolgono
dunque un ruolo particolarmente importante, perché attività come lo sci alpino,
lo sci di fondo, il ciclismo e l’escursionismo si svolgono prevalentemente sui
loro terreni.
Inoltre,
le numerose aziende agricole, spesso di piccole dimensioni, si occupano anche
della manutenzione di strade, muri e recinti, contribuendo alla conservazione
del paesaggio tradizionale.
Numeri
e fatti:
739.000
ettari di superfice con insediamenti di lunga data in Sudtirolo.
484.000
ettari di superficie utile aree coltivabili, boschi, prati e pascoli.
65.000
ettari di prati per la biodiversità e foraggi salutari.
97.000
ettari di pascoli per la gestione delle superfici alpine e la protezione
alle
calamità naturali.
Stalle
e campi abbandonati.
Italiaoggi.it
– Carlo Valentini – (23 – 2 – 2022) – ci dice:
La
guerra in Ucraina sta mettendo in grave crisi l'agricoltura e gli allevamenti
italiani.
Mantenere
una mucca costa troppo. I panifici senza farina.
Stalle
che si svuotano, animali che rimangono ma col 10% in meno di razioni di cibo,
coltivazioni abbandonate, grano tenero per il pane a rischio, olio di girasole
scomparso: la crisi ucraina inciderà sulle tavole, in attesa che gli equilibri
degli approvvigionamenti mondiali si riassestino su basi nuove.
Innanzi
tutto, il caro-prezzi dei mangimi, a livelli ormai quasi proibitivi.
«Da inizio anno- dice Giacomo Broch,
presidente della Federazione di Trento degli allevatori- sei aziende sono state
costrette a chiudere».
Quelle
più grandi resistono ma si disfano delle mucche più anziane, che producono meno
latte.
Spiega Lorenzo Brugnera, presidente delle
Latterie Soligo (Treviso), che ha già rinunciato a 12 mucche:
«La
situazione si sta facendo disperata, il costo delle materie prime che usiamo
per alimentare le vacche è raddoppiato in due anni, una vacca che prima costava
6 euro al giorno oggi ne costa 12.
Ma a questa Italia non importa nulla
dell'agricoltura».
«Il
fatto è- risponde l'europarlamentare Paolo De Castro, ex presidente della
commissione Agricoltura dell'Ue - che per troppo tempo l'Europa ha ritenuto la
pace, così come la sicurezza alimentare, qualcosa di acquisito.
Occorre un'inversione di rotta per supportare
una maggiore autonomia strategica dell'Ue anche sui mercati agroalimentari».
De Castro fa pure autocritica: «L'Europa
dipende, per alcuni prodotti, al 90% dall'estero, per la soia addirittura al
100%.
Non possiamo
più fare i naif mettendo regole per ridurre la produzione europea come in
passato, dobbiamo calibrare nuove politiche per arrivare il più possibile
vicini all'autosufficienza».
La
crisi è grave.
L'Italia
produce appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51%
della carne bovina, il 56% del grano duro, il 73% dell'orzo, il 63% della carne
di maiale, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si
arriva all'84% di autoapprovvigionamento.
Dice
Ettore Prandini, presidente Coldiretti:
«È una
crisi che colpisce un sistema che complessivamente, tra latte, carne e uova,
genera un giro d'affari di circa 40 miliardi di euro.
La stabilità della rete zootecnica italiana ha
un'importanza che non riguarda solo l'economia nazionale ma ha una rilevanza
sociale e ambientale, quando una stalla chiude si perde un intero sistema fatto
di animali, di prati per il foraggio, di formaggi tipici e soprattutto di
persone impegnate a combattere, spesso da intere generazioni, lo spopolamento e
il degrado dei territori anche in zone svantaggiate, dall'interno alla
montagna».
L'Italia
consuma 8 milioni di tonnellate di grano tenero (la maggior parte, quasi l'85%,
viene destinata alla trasformazione in farina, la restante parte va ad uso zootecnico
o industriale).
Nonostante
la domanda superi largamente l'offerta interna le superfici coltivate sono
passate da 3 milioni di ettari a meno di 500.000.
Una
riduzione solo parzialmente compensata dall'incremento delle rese produttive,
passate da circa 25 a 60 quintali in media a ettaro grazie al miglioramento
genetico varietale e a tecniche più moderne di coltivazione.
Dice
Lorenzo Furini, presidente dei produttori di cereali di Confagricoltura
Emilia-Romagna:
«All'Italia mancheranno quest'anno circa il
30% delle importazioni di grano tenero ossia quelle provenienti da Russia,
Ucraina e anche dall'Ungheria, che ha di recente vietato l'export di cereali ma
altri Paesi potrebbero seguirne l'esempio».
Che
fare?
Le speranze sono riposte in approvvigionamenti
da Francia, Germania e Austria, oppure Australia, ma con alti prezzi di
trasporto.
Gli
agricoltori sarebbero disposti a produrre di più.
Dice
Marcello Bonvicini, presidente di Confagricoltura Emilia Romagna:
«Qualcosa
si muove, ma aspettiamo i risultati.
Bisogna
dare agli agricoltori europei la possibilità di utilizzare tutto il potenziale
produttivo, eliminando i vincoli che frenano la produzione di derrate
alimentari strategiche (grano, mais e semi oleosi) e sfruttando al massimo le
potenzialità offerte dalla ricerca scientifica, soprattutto la nuova frontiera
del genoma editing (miglioramento genetico delle piante) per soddisfare la
domanda globale di cibo.
Poi
serve un Piano strategico nazionale per l'agricoltura volto a razionalizzare le
colture e ridurre la dipendenza dall'estero, spalmando gli oneri in egual modo
lungo la filiera produttiva».
Che il
freno all'innovazione tecnologica in agricoltura sia anacronistico, soprattutto
alla luce dell'emergenza che sta avanzando, lo sottolinea anche Massimiliano
Giansanti, presidente nazionale di Confagricoltura:
«Non si tratta di Ogm, che sono superati. Le
biotecnologie oggi utilizzabili sono del tutto nuove, e in Italia su questo
fronte siamo leader nella ricerca.
Abbiamo
il vantaggio di essere detentori dei brevetti, è assurdo non sfruttarli, si
tratta di tecnologie che garantiscono la sostenibilità, in base ai risultati
della scienza.
Le Ong
europee debbono capire che il mondo cresce, e se cresce la popolazione deve
crescere anche la produzione.
Ma siamo ancora in tempo e l'Europa può e deve
muoversi in questa direzione». Concorda Piercristiano Brazzale, presidente
della Federazione internazionale del latte:
«Basta veti ideologici: l'Italia sproni
l'Europa ad autorizzare gli ultimi ritrovati della scienza biotecnologica in
agricoltura».
A
distanza di un mese circa dall'avvio dell'invasione, il prezzo dell'orzo è
aumentato del 33%, quello de grano del 21% e quello di numerosi fertilizzanti
del 40%.
Ucraina
e Russia da sole gestiscono il 30% delle esportazioni mondiali di grano, il 32%
di quelle di orzo e il 75 % delle esportazioni di semi di girasole.
Luciano Cillis, (M5s) membro della Commissione
agricoltura della Camera propone il piano Granaio Italia:
«Un monitoraggio in tempi strettissimi per
riuscire a gestire, monitorare e programmare gli aiuti per il comparto».
L'Italia
ha 16,2 milioni di ettari di superficie agricola ma ne utilizza solo 12,3
milioni; il resto è soggetto a vincoli mentre potrebbe essere coltivata a
cereali e mais, mentre le zone più marginali, in collina o montagna si
riuscirebbero a coltivare a orzo, sorgo, segale, avena.
Coldiretti
ritiene che si potrebbero coltivare 75 milioni di quintali in più di mais per
gli allevamenti e di grano duro per la pasta e la panificazione.
Ma occorre che la politica faccia, in fretta, la sua
parte togliendo vincoli non essenziali, balzelli burocratici e assicurando il
livello dei prezzi per contratti a medio e lungo termine.
Secondo Federalimentare vi è un'autonomia di
soli 30 giorni per l'industria mangimistica e di 40 per quella molitoria.
In
questa situazione è a rischio il 70% del comparto alimentare.
Aziende
agricole: i costi decollano,
ma gli
incassi atterrano.
Agronotizie.imagelinenetwork.com
- Mimmo Pelagalli – (7 ottobre 2022) – ci dice:
L'effetto
della “crisi energetica” in agricoltura si innesta su un male antico: i prezzi
di cessione di derrate e materie prime agricole in balia di mercati opachi e
con ribassi eccessivi.
E in ogni caso urgono provvedimenti ad effetto
immediato.
I
conti non tornano più e non basta aver investito in diversificazione,
innovazione e mercati di nicchia.
C'è
un'Italia agricola che sta soffrendo la crisi energetica e che rischia di
chiudere le aziende e abbandonare i campi se non si troveranno presto soluzioni
strutturali e con effetti immediati.
La parola d'ordine al momento è resistere, ma
sempre sperando che qualcosa cambi ed in fretta.
L'inverno
fa paura, ma non c'è solo il freddo a spaventare.
Perché
i prezzi stellari raggiunti oggi da energia elettrica, carburanti e mezzi
tecnici, si sono innestati su un male antico dell'agricoltura italiana: la
mancanza o l’insufficienza di strumenti per salvaguardare i redditi agrari
dalle svalutazioni eccessive, e talvolta speculative, dei prodotti primari sui
mercati all'origine.
Una
piaga che segna ancor più l'agricoltura del Mezzogiorno, lì dove sono più
deboli le strutture delle filiere e meno radicate le organizzazioni di produttori.
Abbiamo
raccolto tre casi esemplari, a partire dal contenuto di una lettera inviata al
giornale da Vito Sorino, 31 anni, di Foggia in Puglia, imprenditore agricolo
produttore di uva da tavola, a capo di un'Azienda che è alla terza generazione,
ma sotto pressione proprio per gli eccessivi ribassi sui prezzi all'origine.
Costi
alle stelle, l'agricoltore: "Fino a che punto volete spremerci?"
I
prezzi all'origine in balia delle aste.
"Una
tradizione intrapresa da mio nonno che ad oggi porto avanti con dedizione ed
orgoglio, con passione - ci scrive Sorino, in una missiva dai toni a tratti
accorati, descrivendo la sua Azienda.
Un
lavoro avvincente e difficile, ma che sta diventando impossibile:
"Da
diversi anni il settore agricolo vive una profonda crisi strutturale che da
Nord a Sud mina la stabilità dell'intera filiera.
Non è
possibile vendere il prodotto a 20 centesimi al chilogrammo per poi vedere lo
stesso prodotto in vendita nella grande distribuzione a 3, 4 anche 5 euro al
chilogrammo".
Sorino
si riferisce all'uva da tavola e cita ancora il caso delle aste della Gdo:
"Le aste al ribasso creano guerre tra noi
imprenditori che alla fonte non abbiamo più adeguati margini di guadagno per
produrre un prodotto di qualità.
Quando
noi agricoltori non riusciremo più ad andare avanti, chi produrrà i frutti
della nostra terra?
Tutto
ciò è avvilente e fa male, soprattutto perché i media e soprattutto le
istituzioni non ne parlano".
Il
giovane imprenditore pugliese conclude con una considerazione più generale:
"La mia è una situazione comune a tanti altri amici e colleghi
imprenditori: da soli e senza un aiuto sicuramente chiuderemo nel giro dei
prossimi mesi o anni".
Il pudore e il silenzio di tanti.
Abbiamo
così provato in questi giorni a sondare gli animi anche di altri imprenditori:
molti sono restii a parlare delle difficoltà,
che al momento sembrano ingigantirsi sul lato dei costi, a causa della bolletta
energetica aziendale, lievitata a causa della guerra in Ucraina e delle
speculazioni.
Ma c'è
chi rompe la cortina di pudore e di silenzio e si confida.
Produrre
energia non basta.
All'Agriturismo
Nonna Luisa di Ferentino in provincia di Frosinone c'è Rossana Frusone:
conduce una piccola Azienda biologica a
prevalente indirizzo ortofrutticolo.
È una fattoria didattica, c'è qualche animale
e ben tre centraline per produrre energia da fonti rinnovabili:
mulino,
pannelli fotovoltaici e una mini centrale a biomasse, alimentata dal materiale
di risulta delle potature, dagli scarti del ristorante e dallo sterco degli
animali.
"L'impianto
fotovoltaico da un qualche respira - afferma l'imprenditrice - ma la bolletta
elettrica è lievitata di quasi quattro volte in un mese, passando dai 600 euro
di agosto ai 2.875 euro di settembre".
Il problema è che pur producendo energia
elettrica, l'azienda deve cederla alla rete, per poi riacquistarla:
"L'Enel compra la nostra energia a prezzi
bassi, ed è sempre stato così - spiega la Frusone - ma all'atto del riacquisto
siamo passati dal pagare 0,07 euro al Kwh contro gli attuali 0,45 euro: così la
differenza già a nostro sfavore è notevolmente aumentata".
Intanto
c'è la clientela dell'agriturismo da accogliere:
"Se
vuoi offrire un certo livello di servizio, vanno mantenuti determinati standard
e non ci si può rivalere sui prezzi più di tanto, sulla compressione dei
consumi abbiamo già lavorato in passato per una scelta di sostenibilità
ambientale, pertanto l'aumento dei costi energetici taglia direttamente il
margine di guadagno dell'attività".
E la prospettiva non è rosea:
"Per quest'anno si lavora per tenere in
piedi l'attività ed un servizio verso la collettività, ma con un reddito di
mera sussistenza".
Azzerato
il valore aggiunto del latte di bufala.
In
provincia di Frosinone c'è l'Azienda zootecnica bufalina condotta da Valerio De
Lellis, circa 250 capi da latte, inserita in un contesto - quello della
cessione del latte ai caseifici per la trasformazione in mozzarella - dove i
prezzi del latte generalmente sono ben più elevati e premianti di quello
vaccino, ma:
"Con
gli aumenti di gasolio ed elettricità è stato già difficile far fronte alle
spese durante l'estate, con il prezzo del latte bufalino che è più elevato -
dice De Lellis, che sottolinea: sarà un inverno duro, deve cambiare qualcosa e
velocemente, altrimenti diventa difficile immaginare come arrivare alla
prossima primavera".
I
conti dell'azienda non tornano più, perché il gasolio agricolo, nonostante i
provvedimenti del governo, è comunque passato nel giro di pochi mesi da 0,60 a
1,55 euro al litro.
"Dobbiamo lavorare la terra per produrre
foraggio, i trattori consumano molto - ricorda De Lellis - ma abbiamo anche più
che raddoppiato il costo dell'irrigazione, perché per pompare acqua ricorriamo
a motori diesel e la siccità, con le temperature elevate, ci ha costretti a
consumare anche di più".
Un
effetto tempesta perfetta che si completa con gli aumenti delle materie prime:
"il fertilizzante che usiamo è passato da 30 a 120 euro al quintale -
aggiunge De Lellis - le sementi per mettere foraggio sono aumentate del 40%, e
nel caso durante l'inverno non dovesse bastare il fieno, il prezzo è
raddoppiato".
Da
queste testimonianze, sicuramente non del tutto esaustive di un universo ancora
più ampio, emerge tuttavia con chiarezza che urgono interventi strutturali che
al tempo stesso possano avere anche un effetto rapido:
due
aspetti difficili da conciliare, proprio mentre arriva la mannaia del taglio
della “Pac”.
Una
patata bollente che finirà presto nelle mani del nuovo ministro delle Politiche
Agricole.
Braccia
rubate all’agricoltura.
Terraevita.edagricole.it
– (28 Maggio 2022) - Simone Martarello, Laura Saggio e Giuseppe Francesco
Sportelli – ci dicono:
Germania
e Olanda più attrattive per gli stagionali dell’Est Europa. Italiani poco
interessati a lavorare in campagna. Ingressi dal Nord Africa ostacolati dalle
norme.
Atteso un nuovo Decreto Flussi
Il
2022 sarà ricordato dal settore frutticolo per l’enorme difficoltà a reperire
manodopera, con il rischio di non riuscire a raccogliere tutta la produzione,
tornata finalmente abbondante dopo due anni, 2020 e 2021, nei quali le
avversità climatiche avevano ridotto drasticamente le rese.
Da Nord a Sud gli imprenditori agricoli lamentano
la mancanza di circa il 30% della forza lavoro.
La raccolta di fragole, ciliegie e asparagi è
già iniziata.
In questi giorni parte il diradamento di
alcune specie frutticole e nel giro di poche settimane le varietà precoci
saranno mature.
Ma
domanda e offerta di lavoro in questo momento sembrano essere molto lontane,
anche se il recente rinnovo del contratto di lavoro degli operai agricoli può
aiutare a ridurre le distanze.
100.000
gli stagionali necessari per i lavori nei campi.
Secondo
la Coldiretti per svolgere i lavori nelle campagne italiane servono circa
centomila stagionali.
Il Decreto flussi di dicembre 2021 che regola
l’ingresso nel nostro Paese di manodopera da Paesi extra Ue, permette l’arrivo
di 42.000 unità per il settore agricolo e turistico.
Ad
aggravare la situazione la lentezza delle procedure d’esame delle richieste
d’ingresso.
A metà maggio aveva varcato i confini solo il
20% della quota stabilita, cioè circa 8.400 persone.
Perciò le organizzazioni di categoria chiedono
con forza di snellire l’iter burocratico e un secondo Decreto flussi.
Nei giorni scorsi il sottosegretario
all’Interno Nicola Molteni ha annunciato che il governo è al lavoro per
determinare il fabbisogno dei vari settori e che il provvedimento arriverà a
breve per far fronte alle richieste del mondo produttivo. Sulla stessa linea
anche il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli.
Due
anni difficili.
Anche
se nelle campagne italiane non mancano forme di sfruttamento dei lavoratori,
soprattutto stranieri, quello degli stagionali è un sistema ormai consolidato e
virtuoso, soprattutto al Nord, dove le aziende agricole offrono contratti
regolari e hanno fatto investimenti per garantire a chi arriva dall’estero per
lavorare nei mesi estivi condizioni di vita più che dignitose.
Sforzi
riconosciuti anche dalla Commissione del Parlamento europeo per il controllo
dei bilanci dell'Ue.
Durante
una recente missione a Roma per un'indagine conoscitiva su presunti reati sui
fondi agricoli, la capo delegazione “Monika Hohlmeier” ha detto che
«apparentemente c'è un notevole miglioramento della legislazione per
contrastare il fenomeno del caporalato».
E allora perché si fatica così tanto a trovare
manodopera?
I due
anni di pandemia 2020 e 2021, oltre alle difficoltà negli spostamenti, sono
stati caratterizzati da una minor richiesta di forza lavoro per le attività di
raccolta per via delle avversità climatiche che hanno ridotto di molto e in
alcuni areali quasi azzerato le rese.
Molti
stagionali hanno quindi cercato alternative, trovandole soprattutto in
Germania, Olanda e Inghilterra, Paesi tra l’altro più attrattivi perché le
aziende che li assumono beneficiano di sgravi fiscali e contributivi:
a parità
di costi i guadagni sono maggiori rispetto all’Italia.
Per
recuperare questo gap gli imprenditori agricoli chiedono al governo di
abbassare il costo del lavoro agendo sulla decontribuzione, la reintroduzione
dei voucher e alcuni (ma non tutti) puntano il dito contro il reddito di
cittadinanza, considerato un disincentivo alla ricerca di lavoro, soprattutto
in agricoltura.
I dati
Inps aggiornati a dicembre 2021 dicono che sono 1,2 milioni i nuclei familiari
beneficiari di Rdc in Italia, l’86% di nazionalità italiana.
L’importo medio dell’assegno mensile è di 587
euro.
30%
la carenza di manodopera stimata.
Grande
preoccupazione.
«La
preoccupazione è alle stelle lungo tutta la filiera – avverte il presidente di
Apoconerpo Davide Vernocchi – non solo nelle aziende agricole ma anche in
quelle di lavorazione e confezionamento.
Il rischio che quest’anno rimanga della frutta
attaccata agli alberi è molto concreto.
Bisogna rivedere in maniera importante le
politiche sul lavoro – aggiunge –.
Il
reddito di cittadinanza non aiuta di certo a portare lavoratori, in questo caso
italiani, in campagna.
Questo
potrebbe essere un anno importante dal punto di vista produttivo e quindi
commerciale, anche perché i nostri principali competitor sono in difficoltà.
Sarebbe
un peccato se non riuscissimo a raccogliere tutta la frutta che c’è sugli
alberi».
Secondo
le stime di Confagricoltura Emilia-Romagna servono cinque milioni di giornate
lavorative per soddisfare il fabbisogno di manodopera nei frutteti della
regione.
Ma si teme di non trovarla ed è già emergenza
nei vivai e nei campi di fragole in raccolta.
«Forse
a livello politico-istituzionale non si è ancora capita la gravità del problema
– spiega il presidente di Fruit imprese Marco Salvi – abbiamo perso la manodopera
di qualità che avevamo costruito negli anni scorsi, rappresentata da rumeni e
polacchi.
La Germania ha fatto politiche sul lavoro che
permettono alle aziende agricole di essere molto più competitive perché pagano
un lordo che quasi corrisponde al netto.
Abbiamo
bisogno di una forte decontribuzione per tornare competitivi e attirare i
lavoratori».
Salvi
è molto critico anche nei confronti del reddito di cittadinanza. «Difendo il
principio – sottolinea – ma il sistema andrebbe rivisto perché è diventato un
disincentivo al lavoro, soprattutto per le aree produttive del Sud: Puglia,
Campania e Sicilia. Non si trova più personale».
Ma nel
frattempo come gestire l’emergenza?
«Si potrebbe attingere alle donne ucraine
fuggite dalla guerra. Le aziende sono disposte ad assumerle e anche ad
accoglierle nelle loro case. Ma serve un’accelerazione e una semplificazione
dell’iter burocratico per la concessione del permesso di soggiorno. In questo
modo si trasformerebbero da un costo a una risorsa per il Paese».
Il
presidente di Fruit imprese allarga l’orizzonte temporale oltre la stagione in
corso e lancia un allarme di medio-lungo periodo:
«Se
continua così rischiamo di perdere quote di mercato perché gli imprenditori mi
dicono che vorrebbero investire, ad esempio per ampliare le serre, ma il timore
di non trovare la manodopera necessaria a eseguire tutte le lavorazioni li fa
desistere».
29% le
giornate lavorate da stranieri.
Semplificare,
anche con i voucher.
«Già
da un lustro abbiamo difficoltà nel reperire manodopera stagionale durante il
periodo più intenso di raccolta. Poi covid e reddito di cittadinanza hanno
peggiorato la situazione, magari sarà stato un caso, ma oggi si fa ancora più
fatica di prima a reperirla. Braccianti italiani? Poco o niente».
Questo
il quadro dipinto da Luca Zanarella che a Latina coltiva sei ettari a kiwi
giallo, vigneto e oliveto.
«Il
problema sono i flussi – spiega –. Il kiwi deve essere raccolto molto
velocemente da quando si ha il via libera della propria cooperativa, invece con
la carenza di manodopera siamo costretti a prolungare la raccolta con tutte le
difficoltà nel mantenimento della frutta.
Chiediamo una maggiore apertura dei flussi
migratori – conclude – e la reintroduzione dei voucher.
Servono
strumenti che semplificano».
42.000
stagionali ammessi dal Decreto Flussi.
Si
rinuncia a raccogliere le fragole.
In
Puglia e Basilicata c’è carenza di manodopera agricola.
«Già lo scorso anno quella disponibile non era
sufficiente, ma quest’anno il problema si è accentuato ulteriormente – afferma
Giacomo Mastrosimini, agronomo tecnico di campo attivo nelle aree frutticole
pugliesi –.
Adesso
se ne avverte la carenza soprattutto per la raccolta delle ciliegie e le
operazioni colturali sull’uva da tavola.
Nelle province di Foggia e
Barletta-Andria-Trani, grazie alle gelate, il diradamento sulle varietà precoci
di pesche e nettarine non si è rivelato necessario o lo è stato in minima
parte, ma è in corso per le varietà tardive e le difficoltà di reperimento di
operai agricoli non mancano».
Difficoltà
già pienamente emerse negli ultimi mesi in Basilicata, per la raccolta delle
fragole e il diradamento delle drupacee.
Vincenzo Padula, produttore di fragole a Tursi
(Mt), ha potuto impiegare circa 50 braccianti, «ma me ne sarebbero serviti
almeno il doppio. I migranti stagionali sono pochi, glil operai italiani
disponibili scarsi».
Alcuni produttori hanno rinunciato a
raccogliere parte delle fragole.
Come Ermal Gjuzi, sei ettari a fragola a
Scanzano Jonico, che ha dovuto «abbandonare alcuni campi perché con la
manodopera disponibile non sono riuscito a tenere la raccolta al passo con la
rapida maturazione favorita dalle alte temperature».
Mentre
Fabiola D’Affuso dell’azienda agricola Sei Camini di Montalbano Jonico (Mt), ha
avuto «serie difficoltà a reperire operai per il diradamento di 18 ettari ad
albicocche e pesche.
E i
problemi si ripresenteranno per la loro raccolta».
Sono
proprio le grandi campagne di raccolta a preoccupare il presidente di
Confagricoltura Puglia Luca Lazzàro.
«Dalle ciliegie all’uva da tavola, dalle
drupacee alle tante colture orticole, il problema è lo stesso: anche quest’anno
manca manodopera, specializzata e generica.
L’assenza di braccianti nei campi è un
problema che si riflette su tutta la filiera perché ci sono prodotti che vanno
raccolti in determinati periodi e per forza a mano».
20% la
quota di stagionali utilizzata finora.
Chi
rispetta le regole non ha problemi a trovare lavoratori.
Enrico
Di Girolamo.
«A noi
gli operai non mancano.
Abbiamo
sempre adottato la politica della giusta retribuzione per i nostri dipendenti.
E il reddito di cittadinanza non ha cambiato
nulla: gli italiani non volevano fare questi lavori anche prima».
Sono
due voci fuori dal coro quelle di Enrico Di Girolamo e Vincenzo Di Maria,
imprenditori agricoli dell’Agro Pontino.
«Lavoriamo 12 mesi l’anno, non è agricoltura
stagionale perché produciamo in serra e in pieno campo, quindi ho sempre
bisogno di manodopera – specifica Di Girolamo –.
Con me
lavorano 30 operai, sia italiani sia stranieri:
arrivano
da Bangladesh, Marocco, India, Sri Lanka.
Il
reperimento non è un problema, semmai lo è la gestione con tutti i documenti
che servono per assunzioni, licenziamenti, ecc.».
Di
Girolamo ha 20 ettari di serre.
Produce
ortaggi: zucchine, fiori di zucca e pomodori.
Vincenzo
Di Maria.
Sempre
in provincia di Latina, coltiva cinque ettari a pomodori, lattuga, sedano e cetrioli
Vincenzo Di Maria.
Conferisce al mercato ortofrutticolo di Fondi
ma ha anche contatti diretti con ditte a Milano, Torino e Genova.
«Mi
servo di 14 dipendenti stagionali – racconta –.
Il
periodo più intenso va da fine aprile a ottobre.
Anche
in questo momento molto particolare non ho avuto difficoltà a reperire la
manodopera.
Paghiamo
gli operai regolarmente ogni fine mese, anche questo è importante.
Ci sono aziende che non li pagano.
Sono
tutti stranieri, italiani che vogliano fare questo lavoro non si trovano.
Nonostante la raccolta oggi sia automatizzata e richieda un minor sforzo
fisico, gli italiani non si trovano».
Per Di
Maria il vero nodo da sciogliere è un altro: il prezzo riconosciuto ai
produttori per i loro raccolti:
«Paghiamo gli operai in euro, ma vendiamo i
nostri ortaggi in centesimi».
Gallinella:
«Serve piattaforma digitale per domanda e offerta».
I
produttori ritengono che una delle cause principali della mancanza di
manodopera sia il reddito di cittadinanza.
«Per
lo più servono operai specializzati che sappiano usare gli attrezzi, che
abbiano dimestichezza con le attività da effettuare.
Il
reddito di cittadinanza, fermo restando i dovuti controlli per stanare i
furbetti, è un aiuto alle famiglie e, tra l’altro, se le imprese vogliono
assumere un percettore del reddito di cittadinanza possono godere di
sostanziosi sgravi fiscali e decontribuzioni.
Inoltre, durante il periodo pandemico abbiamo
permesso l’assunzione dei percettori in agricoltura permettendo loro di non
perdere i benefici.
Ritengo
che il problema principale, invece, sia il dove reperire la manodopera.
Una
problematica atavica in Italia, esistente ben prima dell’introduzione del
reddito di cittadinanza.
Grazie
alla legge sul caporalato e ai maggiori controlli, in alcune realtà è sparita
la manodopera illegale a basso costo.
Trovare
un lavoratore con modalità legali, ora che finalmente la figura del caporale
tende a scomparire, è divenuto più complesso».
Cosa
si potrebbe fare per sbloccare la situazione?
«Servirebbe
una piattaforma digitale istituzionale per l’incontro tra domanda e offerta di
lavoro. La struttura è già stata realizzata da Anpal.
Va solo adeguata alle esigenze e alle
peculiarità del comparto primario e riempita con le informazioni presenti nei
database di Agea e dell’Inps.
Basta dare uno sguardo agli elenchi Inps per
comprendere come forse non sia vero che manchino lavoratori disponibili.
Un primo potenziale bacino di manodopera sono
i circa 350mila lavoratori (di cui 164mila stranieri) che non riescono a
raggiungere le 50 giornate annue.
Persone
che hanno già lavorato in agricoltura e che, magari, non sono riuscite a
trovare nuove occasioni di lavoro ma che sarebbe molto propense all’impiego, in
quanto la 51esima giornata permetterebbe loro di ottenere l’assegno di
disoccupazione».
Olanda,
una” legge green” richiede
l’abbattimento
di 30 milioni di capi
di
bestiame “entro il 2030”.
Le
proteste degli allevatori.
Alimentando.info
– (8 Agosto 2022) – Angelo Frigerio – ci dice:
Amsterdam
(Olanda) –
Letame e covoni incendiati per le strade.
Da
giorni, in Olanda, gli allevatori protestano.
Perché?
A
causa della proposta di legge, avanzata dal governo, per dimezzare, entro il
2030, l’inquinamento da azoto e ammoniaca.
Per
farlo, secondo le stime, gli allevamenti dovranno ridurre di un terzo (dal -12%
al -70% a seconda della zona) i 100 milioni di capi fra mucche, maiali e
galline.
Secondo
quanto riporta il Corriere della Sera, si parla di decine di migliaia di
animali da abbattere in almeno 17.600 aziende agricole, 11.200 delle quali sono
destinate alla chiusura se non si riconvertiranno o sposteranno.
L’Olanda è infatti in Ue il Paese membro con
la più alta densità di bestiame.
Il
governo di “Mark Rutte” stanzierebbe, a sostegno delle aziende, 25 miliardi di
euro da qui al 2030.
Ma le
singole province, che avrebbero dovuto presentare i rispettivi piani per la
riduzione dell’azoto entro luglio, si sono astenute:
il governo mostra i primi cenni di difficoltà.
Cos’è
questa storia che in Olanda
vogliono
abbattere 30 milioni di bovini
per
ridurre gli allevamenti intensivi?
Greenme.it
- Sabrina Del Fico – (9 Agosto 2022) - ci dice:
L'Olanda
sarà la prima Nazione a ridurre gli allevamenti intensivi, prevedendo un
progressivo abbattimento dei capi già condannati al macello, che non verranno
però reintegrati con animali capi.
Gli
allevamenti intensivi sono tra le cause più impattanti della crisi climatica,
senza contare i risvolti etici e del benessere animale.
Ma a questo punto è possibile davvero ridurli?
L’Olanda
ci prova e lo fa, è vero, disponendo l’abbattimento del bestiame in eccesso.
Gli
allevamenti intensivi sono diventati uno dei paradossi del nostro tempo:
da una
parte ci sono la sofferenza degli animali, gli standard igienici troppo spesso
violati, la macchia viscida della deforestazione per far posto ai pascoli,
l’enorme impatto ambientale di queste aziende;
dall’altra
gli enormi guadagni che questo settore garantisce ogni anno ad allevatori di
tutto il mondo oltre che miliardi di persone da sfamare.
In
mezzo, un Pianeta sempre più distrutto e una crisi climatica che galoppa e che
minaccia di travolgere ogni cosa con foga inaudita.
In
questo marasma, ci sono Paesi che stanno iniziando a ripensare al loro modo di
produrre il cibo e di impattare sull’ambiente.
L’Olanda,
Paese europeo dove si allevano più animali destinati al macello e
all’alimentazione umana, ha deciso di tornare sui propri passi e dare inizio a
una politica di riduzione dei capi di bestiame e delle aziende che si occupano
dell’allevamento degli animali.
Il
prezzo di questa scelta, sicuramente encomiabile, è però molto alto.
Per
ridurre l’impatto sull’ambiente degli allevamenti intensivi 30 milioni di
animali, il cui destino era comunque quello della macellazione, verranno uccisi
da qui al 2030.
Questi
animali, già condannati a morte, verranno quindi via via macellati ma non
reintegrati con nuovi capi.
Quindi,
se è vero che il prezzo da pagare è alto, è vero anche che è un prezzo che gli
animali avrebbe comunque pagato – con il vantaggio che la stessa sorte non
toccherà ad altri bovini, ovini e suini.
Il
Governo olandese ha stabilito una drastica riduzione degli allevamenti
intensivi di bovini, ovini e pollame per dimezzare i livelli di inquinamento da
azoto e ammoniaca entro il 2030, stanziando per questo un fondo di ben 25
miliardi di euro per “convincere” gli allevatori a rinunciare a parte del loro
bestiame o a chiudere la propria azienda per dedicarsi a un’altra attività
produttiva.
Secondo
le stime contenute nel documento “Memorandum per le aree rurali”, per raggiungere l’ambizioso
obiettivo del Governo circa 11.200 allevatori dovrebbero chiudere bottega e
altri 17.600 dovrebbero ridurre il numero di animali che ospitano nelle loro
aziende.
Ma
cosa prevede questo programma?
La
strategia governativa si sviluppa su due piani:
da una
parte, come abbiamo detto, sedurre gli allevatori con finanziamenti che li
orientino verso altri settori produttivi;
dall’altra,
convertire gli allevamenti intensivi in allevamenti estensivi, il che
porterebbe un numero minore di animali su una superficie più vasta, diminuendo
così i livelli dell’inquinamento.
Anche in questo caso, si tratterebbe di
ridurre l’affollamento negli allevamenti uccidendo decine di migliaia di
animali.
Entro
lo scorso mese, le diverse province avrebbero dovuto presentare il loro piano
con i provvedimenti per ridurre la produzione di azoto e ammoniaca, ma molte
non lo hanno ancora fatto. Intanto, le proteste degli allevatori non si sono
fatte attendere e vanno avanti già da alcune settimane – talvolta traducendosi
in violenti scontri con le forze di polizia.
La
partecipazione al programma di riduzione di capi negli allevamenti è su base
volontaria, almeno per ora.
Agli
allevatori che scelgono di cambiare mestiere e abbattere i loro animali il
Governo accorderà un “premio” in denaro, ma non tutti sono disposti a
rinunciare alla propria attività (che spesso si tramanda da generazioni) in
nome dell’ambiente – neanche dietro lauto compenso.
Un’iniziativa,
questa, che trova proprio negli allevatori l’ostacolo maggiore ma che dovrebbe
essere presa come esempio da tutte le altre nazioni che vogliono davvero
contribuire a ridurre le emissioni inquinanti.
«L’ambiente
non si potrà salvare senza il bestiame».
Edagricole.it
- Carlotta Iarrapino - Nadia El-Hage Scialabba - (27 Gennaio 2022) – ci dicono:
Abbiamo
intervistato Nadia El-Hage Scialabba ricercatrice ed esperta ambientale (ex
Fao) ambientale secondo la quale i bovini rappresentano un punto focale nella
sostenibilità di un sistema.
Si
sente sempre dire che l'allevamento contribuisce in maniera consistente al
cambiamento climatico ma Nadia El-Hage Scialabba, esperta sistemi alimentari
sostenibili, afferma in una sua recente pubblicazione che “l’ambiente non si potrà salvare senza
il bestiame”.
Di questa rivoluzione copernicana ne abbiamo
parlato direttamente con lei.
Come è
giunta a questa conclusione?
Quando
lavoravo alla” Fao” avevo osservato come l'elemento animale produceva o
disastri o benefici per l'ambiente.
Si andava da un estremo all'altro ma,
comunque, era sempre l’elemento determinante della sostenibilità di un sistema.
I grandi erbivori importanti per il ciclo dei
nutrienti e la fertilità del suolo ci sono sempre stati, in tutte le ere
geologiche e il problema non è l'animale ma come lo gestiamo.
Ridurre
gli animali soltanto a merce oppure affermare che il cambiamento climatico sia
causato dalle loro emissioni è riduttivo.
Eliminare
il bestiame perché non siamo in grado di gestirlo sarebbe un errore molto
grave.
Dal
punto di vista ambientale, poi, mangiare pollame o suini è molto peggio che
mangiare una buona bistecca di bovino.
Gli
animali mono gastrici allevati oggi sono nutriti essenzialmente con mangime: ad
esempio il 68% del mais prodotto nel mondo è utilizzato come mangime per il
pollame.
Questi allevamenti, prevalentemente intensivi,
sono anche dannosi per la nostra salute, visto la loro capacità di essere
potenziali ospiti intermediari per la generazione di virus dell’influenza
pandemica aviaria e suina.
Approfondendo sono giunta alla conclusione che
l’allevamento al pascolo a livello mondiale porterebbe a incredibili benefici
per il nostro ecosistema.
Lei
mette in evidenza come contabilizzazioni unilaterali delle emissioni di gas
serra portino a conclusioni errate.
Ci può
spiegare meglio?
Quando
si parla di emissioni si contabilizza il carbonio che il bestiame emette
direttamente (numero di carbonio per chilogrammo di animale).
Non vengono conteggiate le emissioni che si
producono per produrre il mangime coltivato con pesticidi, le emissioni
prodotte dalla deforestazione per lasciare spazio all’allevamento o le colture
di cereali destinati a mangime.
Non vengono conteggiati neppure l'assorbimento
di carbonio delle praterie, né l’effetto cumulativo sul ciclo globale di azoto.
Parlo
di 3,4 miliardi di ettari di praterie permanenti che occupano il 70% della
superfice agricola mondiale.
In
queste terre bisogna lasciare gli animali brucare l'erba.
Infatti i ruminanti creano un circolo virtuoso
nelle praterie per l'assorbimento di carbonio nel suolo.
Recenti
studi dimostrano che l’allevamento in pascoli del bestiame aiuta a confiscare
più carbonio di quanto ne venga emesso.
Questo ribalta la credenza relativa
all’impatto negativo sull’ambiente del bestiame.
Lei
afferma che biodiversità, desertificazione e cambiamenti climatici sono
strettamente interconnessi e che fino ad oggi sono state portate avanti
soluzioni inefficienti come, per esempio, il riposo del terreno o l’uso del
fuoco, pratiche ampiamente utilizzate in tutto il mondo.
Anche
questo è un elemento che sorprende…
Bisogna
tornare all'ecologia dell'erba.
La
materia organica nel suolo è quella che supporta le colture e la stabilità
dell’ecosistema ed è importante per la ritenzione idrica, il ciclo dei
nutrienti, la trasformazione del carbonio e la biodiversità del suolo.
L’utilizzo
del letame dell'animale per avere più materia organica nel suolo è una tecnica
porta i suoi benefici.
Invece
tecniche come mettere a riposo il suolo possono funzionare in aree che ricevono
oltre 600 mm di acqua all’anno ma nelle terre che ricevono meno di 400 mm di
acqua come nell’area mediterranea o nelle zone aridi, il riposo del suolo porta
invariabilmente alla desertificazione.
Un’altra
pratica utilizzata per incrementare velocemente nutrienti nella terra è quella
di usare il fuoco.
In Africa vengono bruciati ogni anno un
miliardo di ettari, eppure la desertificazione di quelle terre avanza con una
grande velocità.
La
piantumazione di specie vegetali potrebbe arrestare la desertificazione solo se
associata all’introduzione di greggi.
Infatti
la riforestazione per fermare la desertificazione sta mostrando insuccessi
perché non riesce a fermare l'ossidazione e il decadimento biologico della
copertura vegetale.
L'unica soluzione è riportare il gregge nelle praterie
se vogliamo veramente avere un equilibrio a livello di sistema terrestre.
E
dunque è il bestiame la soluzione? Ci può spiegare come funziona un Pascolo
olistico pianificato?
Nei
pascoli permanenti, i ruminanti sono fondamentali per convertire la luce solare
catturata nella biomassa in cibo.
Vari esperimenti in America, Africa e
Australia hanno dimostrato come la re-introduzione di mandrie rigenera la
terra:
rompono
il suolo indurito migliorando la penetrazione dell'acqua, la ritenzione idrica
e la capacità delle nuove piante di stabilirsi e crescere.
L'unica
opzione disponibile per affrontare seriamente la desertificazione e il
cambiamento climatico è il bestiame.
Il
problema è proprio l’assenza di animali nelle aziende agricole.
Il
Pascolo olistico pianificato è una forma sviluppata di permacultura per le
praterie, nato negli anni ‘60 da Allan Savory in Sud Africa.
Questa
gestione olistica individua la frequenza, il tempo e l'intensità del brucare
della mandria.
Il
bestiame viene spostato regolarmente da una zona recintata all'altra.
La loro attività è quella di brucare, pestare
il terreno e, producendo liquami, rigenerare la flora, attraverso la
mineralizzazione nel suolo delle sostanze nutritive.
Parliamo
ora del consumo di carne.
Lei dichiara che la “carne finta” costruita in
laboratorio risulta più inefficiente e inquinante di quella naturale.
Una
soluzione che propone l'industria che peggiorerebbe la situazione invece di
migliorarla.
La
prima carne sintetica è iniziata a circolare nel 2015.
Oggi le grandi potenze investono milioni in
questo settore.
Nel
2019 "Impossibile Food" ha ricevuto il premio alle Nazioni Unite come
Burger positivo per il clima.
Mi
sono iniziata a informare sulla questione e ho scoperto che questi sostituti di
prodotti animali (carne, latte, uova) chiamati” plant-based proteins” hanno bisogno di materia prima,
come la soia e il mais, della quale si estraggono le proteine vegetali,
prodotti con uso massiccio di glifosate, e altri fitofarmaci.
Inoltre,
devono essere aggiunti numerosi ingredienti come vitamine e minerali e hanno un
alto contenuto di sale.
La
carne in vitro viene prodotta con un’ alta intensità energetica e la coltura
tissutale della carne bovina prevede l'uso di fungicidi, antibiotici e fattori
di crescita, come gli ormoni sessuali, vietati in zootecnia in Europa perché
possono provocare rischi per la salute.
Inoltre
la carne da laboratorio ha impatti ambientali più elevati rispetto al pollo,
latticini e sostituti a base di glutine, e impatti molto più elevati rispetto a
sostituti a base di soia.
Per
quanto riguarda gli impatti sulla salute, invece, ci vorrà tempo per avere i
primi risultati in merito.
I
disciplinari “Demeter” per le aziende biodinamiche prescrivono l'inserimento
del bestiame in azienda e, attraverso i corsi promossi dall'”Associazione per
l'Agricoltura biodinamica”, si diffondono buone pratiche di gestione delle
greggi che si avvicinano molto al Pascolo olistico pianificato.
Vista la sua esperienza in ambito
internazionale nel campo della agricoltura biologica e sostenibile, quale ruolo
attribuisce all’agricoltura biodinamica in questa fase di transizione ecologica
che il nostro Paese dovrà affrontare?
Esistono
realtà certificate biologiche solo perché nutrono con mangimi biologici le loro
vacche chiuse in stalla.
Da
oltre cent’anni gli agricoltori hanno separato gli animali dai campi ma questa
separazione, che crea un ciclo aperto, si è rilevata molto inefficiente.
Per
fortuna esistono anche realtà, come per esempio quelle biodinamiche, dove
abbiamo ottimi risultati dal punto di vista ambientale, sociale e economico.
Nell’attuale
contesto la biodinamica ha molto da offrire, visto la sua performance superiore
al biologico in termini di integrazione degli animali nell’azienda e di
sequestro di carbonio nel suolo.
L’agricoltura biodinamica è il modello per
eccellenza per la salvaguardia dell’ambiente proprio perché si basa sul ciclo
chiuso.
Credo
che l'inserimento del bestiame nel sistema azienda sia un obiettivo da
perseguire.
Non è facile, dopo tanti anni di segregazione
e di specializzazione.
Servono quindi molti investimenti in
formazione e ricerca a supporto dell’economia circolare.
Il
peso della colpa: la biomassa del
bestiame
supera quella dei
mammiferi
selvatici.
Greenreport.it
– Redazione – (21 marzo 2023) – ci dice:
I
mammiferi selvatici terrestri pesano complessivamente meno del 10% degli esseri
umani e i bovini e altri mammiferi domestici sono 30 volte più pesanti dei
mammiferi selvatici.
Guardando
i documentari in televisione, ci viene da credere che la Terra sia un regno
infinito di grandi pianure, giungle e oceani popolato da innumerevoli animali selvatici, Secondo lo studio “The global biomass of wild mammals”, il primo censimento globale della
biomassa dei mammiferi selvatici pubblicato recentemente su “PNAS” da un team
di ricercatori israeliani, in realtà
quel mondo popolato da animali iconici sta scomparendo rapidamente, sostituito
dai nostri animali di allevamento e da noi stessi.
Infatti,
lo studio dimostra che «La biomassa dei mammiferi selvatici sulla terraferma e
in mare è molto meno del peso combinato di bovini, maiali, pecore e altri
mammiferi domestici».
Il
team di ricercatori guidato da “Ron Milo” del “Weizmann Institute of Science”
ha scoperto che «La biomassa del bestiame ha raggiunto circa 630 milioni di tonnellate,
30 volte il peso di tutti i mammiferi terrestri selvatici (circa 20 milioni di
tonnellate) e 15 volte quello dei mammiferi marini selvatici (40 milioni di
tonnellate)».
Il
precedente studio “Global human-made mass exceeds all living biomass”, pubblicato dallo stesso “Team di Milo”
su “Nature” nel dicembre 2020, aveva dimostrato che nel 2020 la massa di
oggetti creati dall’uomo – qualsiasi cosa, dai grattacieli ai giornali – aveva
superato l’intera biomassa del pianeta, dalle sequoie alle api.
Nel
nuovo studio i ricercatori israeliani forniscono una nuova prospettiva
dell’impatto in rapido aumento dell’umanità sul nostro pianeta, mostrando il
rapporto tra esseri umani e mammiferi domestici e mammiferi selvatici.
Milo
spiega che «Questo studio è un tentativo di vedere il quadro più ampio. L’abbagliante
diversità delle varie specie di mammiferi può oscurare i drammatici cambiamenti
che interessano il nostro pianeta.
Ma la distribuzione globale della biomassa
rivela prove quantificabili di una realtà che può essere difficile da cogliere
altrimenti:
mette
a nudo il dominio dell’umanità e del suo bestiame sulle popolazioni molto più
piccole dei mammiferi selvatici rimasti».
Per
calcolare la biomassa dei mammiferi, la classe alla quale apparteniamo, i
ricercatori hanno messo insieme i censimenti esistenti delle specie di
mammiferi selvatici e le caratteristiche distintive di altre centinaia.
“Lior
Greenspoon” e “Eyal Krieger” del “Department of plant and environmental
Sciences” del “Weizmann” – diretto da Milo – hanno guidato la trasformazione
delle informazioni accumulate in stime della biomassa animale e umana.
I censimenti raccolti hanno prodotto dati su
circa la metà della biomassa globale dei mammiferi.
Il team ha calcolato la metà rimanente
utilizzando un modello computazionale di apprendimento automatico addestrato
sulla metà iniziale e che incorporava più parametri, tra cui il peso corporeo
degli individui, la distribuzione dell’area, la nutrizione e la classificazione
zoologica.
L’analisi
ha mostrato che «L’influenza umana influenza fortemente anche la presenza
relativamente limitata di mammiferi rimanenti in natura.
Molti
dei mammiferi selvatici in cima alla tabella della biomassa, come le specie di
cervo dalla coda bianca e il cinghiale, sono arrivati che sono lì in parte a
causa dell’attività antropica e che ora in alcune aree sono visti come
parassiti».
I
ricercatori sono convinti che le stime del nuovo studio sui rapporti tra la
biomassa selvatica e umani/bestiame «Possono aiutare a monitorare le
popolazioni di mammiferi selvatici a livello globale e aiutare a valutare il
rischio rappresentato dalle malattie che si diffondono dagli animali all’uomo,
una dinamica che molti epidemiologi avvertono continuerà a generare epidemie».
Al “Weizmann
Institute of Science” ricordano che «Per l’umanità, i mammiferi selvatici
sono un’ispirazione e spesso fungono da icone che incoraggiano gli sforzi di
conservazione della natura».
Per comprendere meglio l’impatto umano
sull’ambiente, gli scienziati del laboratorio di Milo stanno attualmente
analizzando come è cambiata la biomassa dei mammiferi nel secolo scorso.
“Greenspoon
“spiega a sua volta:
«Trovo
importante capire, ad esempio, quando esattamente il peso combinato dei
mammiferi domestici ha superato quello di quelli selvatici.
Una
migliore comprensione dei cambiamenti indotti dall’uomo può aiutare a stabilire
obiettivi di conservazione e offrirci una prospettiva sui processi globali a
lungo termine».
“Milo” conclude:
«Più siamo esposti al pieno splendore della
natura, sia attraverso i film, i musei o l’ecoturismo, più potremmo essere
tentati di immaginare che la natura sia una risorsa infinita e inesauribile.
In
realtà, il peso di tutti i mammiferi terrestri selvatici rimasti è inferiore al
10% del peso combinato dell’umanità, il che equivale a circa 2, 7 Kg di
mammiferi terrestri selvatici per persona.
In
altre parole, la nostra ricerca mostra, in termini quantificabili, l’entità
della nostra influenza e come le nostre decisioni e scelte nei prossimi anni
determineranno ciò che resterà della natura per le generazioni future».
"Obbligare
gli allevatori a
vendere le loro attività", il
consiglio Ue all'Olanda.
Agrifoodtoday.it
– (23 giugno 2023) – Alessia Capasso – ci dice:
SCELTE
DIFFICILI.
Secondo
l'emittente olandese Nos, un alto funzionario della Commissione europea avrebbe
proposto questa soluzione al governo dei Paesi Bassi per risolvere la
"crisi dell'azoto".
Bruxelles
all'Olanda: "Dovete obbligare gli allevatori a vendere le loro
attività".
Insistere
e obbligare alcuni agricoltori a vedere le loro attività.
Lo
avrebbe consigliato al governo dei Paesi Bassi “Diederik Samsom” a nome della
Commissione europea, secondo quanto sostiene il quotidiano olandese Nos, dopo
aver visualizzato alcuni documenti riservati, insieme con la piattaforma di
ricerca “Follow the Money”.
La
notizia arriva dopo la clamorosa vittoria alle ultime elezioni provinciali del
“BoerBurgerBeweging” (Bbb – Movimento dei Contadini e dei cittadini), che in
questo modo ha ottenuto un alto numero di seggi al Senato, sorprendendo gli
stessi vertici del partito.
“Samson”
non è un funzionario qualunque.
Già amministratore delegato di aziende di
energie rinnovabili, eletto alla Camera con il Partito del Lavoro, attualmente
è capo dello staff del commissario europeo “Frans Timmermans”, responsabile del
“Green Deal”.
In tale veste, spiega Nos, ha avuto un
colloquio con alti funzionari del ministero dell'Agricoltura, della natura e
della qualità degli alimenti.
Assenza
di cooperazione.
In
questo momento quella agricola è la questione più calda e delicata in Olanda,
come ha dimostrato la vittoria del “Bbb”, creato solo pochi anni fa proprio per
tutelare gli interessi di agricoltori e allevatori.
Questi ultimi sono sotto pressione a causa del "piano azoto", formulato dal governo guidato
da “Mark Rutte” per abbattere le emissioni che stanno inquinando in maniera
drammatica acqua e suoli.
Un
contributo importante a questo avvelenamento diffuso proviene proprio dal
settore agricolo, centrato sull'iper produttività, l'uso massiccio di
fertilizzanti e pesticidi, nonché su un trattamento intensivo del bestiame.
Per
questa ragione la ministra” Christianne Van der Wal”, per la quale è stato
creato un apposito “dicastero all'azoto”, ha elaborato un vasto piano per
l'abbattimento delle emissioni, che prevede anche la possibilità per lo Stato
di acquistare le attività più inquinanti, pur di farle cessare.
“Il
Movimento dei contadini” non vuole cooperare con l'esecutivo.
Anche gran parte della “Camera dei
Rappresentanti” non vede di buon occhio queste misure.
Vista la scarsa collaborazione dei contadini, che non
intendono rinunciare a metodi produttivi intensivi, neppure quelli situati in
prossimità delle aree naturali più vulnerabili, il governo ha messo in conto,
come opzione estrema, quella dell'acquisizione forzata delle proprietà.
Contro
il guardrail.
Secondo
la Commissione europea, riferisce Nos, il buy-out obbligatorio è la ricetta per
uscire sia dalla crisi ambientale che dall'impasse politico in cui si trova
Rutte.
La
posizione dell'esecutivo europeo, secondo quanto rivela il quotidiano olandese,
sarebbe stata espressa da “Samson” lo scorso novembre in una conversazione con
alti funzionari olandesi.
Riferendosi
ai problemi dell'azoto, l'alto funzionario avrebbe detto che "l'Olanda è andata a sbattere
contro il guardrail con l'auto piena", sostenendo poi che apportare
modifiche al piano non risultava più utile. “Samson” avrebbe affermato inoltre
che "poiché
la natura soffre troppo per la precipitazione dell'azoto, difficilmente si
possono costruire nuove strade".
A
livello formale Bruxelles non è responsabile del modo in cui i Paesi Bassi
raggiungono i propri obiettivi di azoto.
Alla Commissione spetterebbe solo controllare
se gli Stati membri rispettano tutte le norme europee, e fornire semplici
consulenze sul "come" perseguire gli obiettivi prefissati, ma
l'ultima parola sulle modalità spetta ai governi nazionali.
Da
tempo Bruxelles valuta la possibilità di programmi di acquisto volontario, ma
risulta molto severa al riguardo.
L'ipotesi
dell'acquisto obbligatorio verrebbe letta con minore severità.
In questo caso, secondo quanto avrebbe
affermato “Samson”, si consentirebbe anche di pagare importi più elevati agli
agricoltori o di farli firmare a condizioni più favorevoli.
A
proposito di queste rivelazioni il giornale olandese ha chiesto una risposta a “Samson”,
il quale dice di aver segnalato al ministero dell'Agricoltura solo le varie
regole europee in materia di espropriazione e buy-out.
"La
scelta tra i due strumenti sulla base di altre considerazioni è ovviamente
lasciata agli Stati membri", avrebbe sottolineato il funzionario.
La
cospirazione del “Grande Zero Carbone
e il
Grande Reset del Wef.
Globalresearch.ca
– F. William Engdahl – 14 giugno 2023 –
ci dice:
(…)
È la copertura
per un diabolico secondo piano.
Origini
del "riscaldamento globale."
Molti
hanno dimenticato la tesi scientifica originale avanzata per giustificare un
cambiamento radicale nelle nostre fonti energetiche.
Non era "cambiamento climatico".
Il
clima terrestre è in continua evoluzione, correlato ai cambiamenti
nell'emissione di brillamenti solari o cicli di macchie solari che influenzano
il clima terrestre.
Intorno
al volgere del millennio, quando il precedente ciclo di riscaldamento guidato
dal sole non era più evidente, Al Gore e altri hanno spostato la narrazione in
un gioco di prestigio linguistico a "Cambiamento climatico", dal
riscaldamento globale.
Ora la narrativa della paura è diventata così
assurda che ogni strano evento meteorologico viene trattato come "crisi
climatica".
Ogni uragano o tempesta invernale è
rivendicato come prova che gli “Dei del Clima” stanno punendo gli esseri umani
peccaminosi che emettono CO2.
Ma
aspetta.
L'intera ragione della transizione verso fonti
energetiche alternative come il solare o l'eolico, e l'abbandono delle fonti di
energia del carbonio, è la loro affermazione che la CO2 è un gas serra che in
qualche modo arriva fino all'atmosfera dove forma una coperta che presumibilmente
riscalda la Terra sottostante - Global Warming.
Le
emissioni di gas serra secondo l'Agenzia per la protezione ambientale degli
Stati Uniti provengono principalmente dalla CO2.
Da qui l'attenzione alle "impronte di
carbonio".
Ciò
che non viene quasi mai detto è che la” CO2” non può librarsi nell'atmosfera
dagli scarichi delle automobili o dalle centrali a carbone o da altre origini
artificiali.
L'anidride carbonica non è carbonio o
fuliggine.
È un
gas invisibile e inodore essenziale per la fotosintesi delle piante e tutte le
forme di vita sulla terra, compresi noi.
“La
CO2 ha un peso molecolare di poco superiore a 44 mentre l'aria (principalmente
ossigeno e azoto) ha un peso molecolare di soli 29”.
Il
peso specifico della CO2 è circa 1,5 volte maggiore dell'aria. Ciò suggerirebbe
che i gas di scarico di CO2 provenienti da veicoli o centrali elettriche non
salgono nell'atmosfera a circa 12 miglia o più sopra la Terra per formare il
temuto effetto serra.
Maurizio
Forte.
Per
apprezzare quale “azione criminale” si sta svolgendo oggi intorno a Gates,
Schwab e ai sostenitori di una presunta economia mondiale
"sostenibile", dobbiamo tornare al 1968, quando David Rockefeller e
amici crearono un movimento attorno all'idea che il consumo umano e la crescita
della popolazione fossero il principale problema mondiale.
Rockefeller,
la cui ricchezza era basata sul petrolio, creò il neo-malthusiano Club di Roma
nella villa Rockefeller di Bellagio, in Italia.
Il
loro primo progetto fu quello di finanziare uno studio spazzatura al MIT
chiamato “Limits to Growth” nel 1972.
Un
organizzatore chiave dell'agenda di "crescita zero" di Rockefeller
nei primi anni 1970 era il suo amico di lunga data, un petroliere canadese di
nome” Maurice Strong”, anche lui membro del Club di Roma.
Nel 1971 Strong (pur essendo un criminale) fu
nominato Sottosegretario delle Nazioni Unite e Segretario Generale della
conferenza della Giornata della Terra di Stoccolma del giugno 1972. Fu anche
amministratore fiduciario della Fondazione Rockefeller.
Maurice
Strong è stato uno dei primi propagatori chiave della teoria scientificamente
infondata secondo cui le emissioni prodotte dall'uomo dai veicoli di trasporto,
dalle centrali a carbone e dall'agricoltura hanno causato un drammatico e
accelerato aumento della temperatura globale che minaccia la civiltà, il
cosiddetto riscaldamento globale.
Ha
inventato il termine elastico "sviluppo sostenibile".
Come
presidente della “Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite per la Giornata
della Terra del 1972”, Strong ha promosso “la riduzione della popolazione e
l'abbassamento degli standard di vita in tutto il mondo” per "salvare
l'ambiente".
Alcuni
anni dopo lo stesso Strong dichiarò:
"L'unica
speranza per il pianeta non è che le civiltà industrializzate collassano? Non è
nostra responsabilità realizzarlo?"
Questa
è l'agenda oggi conosciuta come Great Reset o Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Strong (noto criminale del clima) ha
continuato a creare il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici (IPCC), un organismo politico che avanza l'affermazione
non provata “ e quindi falsa” che le emissioni di CO2 prodotte dall'uomo
stavano per far precipitare il nostro mondo in una catastrofe ecologica
irreversibile.
Il
co-fondatore del Club di Roma, il dottor “Alexander King”, ammise la frode
criminale essenziale della” loro agenda ambientale” alcuni anni dopo nel suo
libro, “The First Global Revolution”.
Egli
ha dichiarato:
Alla
ricerca di un nuovo nemico che ci unisse, ci è venuta l'idea che
l'inquinamento, la minaccia del riscaldamento globale, la scarsità d'acqua, la
carestia e simili sarebbero stati all'altezza ...
Tutti
questi pericoli sono causati dall'intervento umano ed è solo attraverso
atteggiamenti e comportamenti modificati che possono essere superati.
Il vero nemico, quindi, è l'umanità stessa.
King
ha ammesso che la "minaccia del riscaldamento globale" era semplicemente
uno stratagemma per giustificare un attacco all'"umanità stessa".
Questo è ora in fase di implementazione come
il “Grande Reset” e lo stratagemma “Net Zero Carbon” proposto da autentici
“criminali”.
(…)
La
Polonia Vuole diventare l’Esercito
Nato
più Potente sul Fianco Orientale.
Conoscenzealconfine.it
– (23 Giugno 2023) – Redazione – ci dice:
La
Polonia aumenta le spese militari al 4% del Pil
La
Polonia, che negli ultimi due anni ha investito molto nell’industria della
difesa e firmato accordi di fornitura di armi con paesi come la Corea del Sud e
gli Stati Uniti, punta a diventare uno degli eserciti più forti d’Europa.
Considerando
le minacce alla sicurezza con l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, le
spese militari del governo polacco dovrebbero raggiungere i 130 miliardi di
zloty (27,7 miliardi di euro) entro la fine di quest’anno.
Questa
cifra, la più alta tra i membri della NATO, corrisponde al 4% del prodotto
interno lordo (PIL) del paese.
Si
prevede che il paese spenderà un totale di 524 miliardi di zloty (117,6
miliardi di euro) in spese militari entro il 2035.
Il 5
aprile 2022, poche settimane dopo l’inizio della guerra, l’amministrazione di
Varsavia ha firmato un accordo del valore di circa 5 miliardi di euro per
l’acquisto di 250 carri armati Abrams americani.
Le
autorità polacche hanno poi firmato un altro accordo nel luglio 2022 per
acquistare 1000 carri armati K2 Black Panther e 672 obici K9 Thunder dalla
Corea del Sud.
La
Polonia, che ha firmato un accordo con gli Stati Uniti per 96 elicotteri Apache
nel settembre 2022, ne ha presi in consegna 8 il mese scorso.
Ha anche raggiunto un accordo con la Corea del
Sud per l’acquisto di 218 lanciarazzi K239 Chunmoo nel novembre 2022.
Il
ministro “Blaszczak “ha annunciato l’8 febbraio che gli Stati Uniti hanno
approvato la vendita di circa 500 lanciarazzi multipli HIMARS a Varsavia.
Infine,
il 28 febbraio, il ministro “Blaszczak” ha riferito che è stato firmato un
contratto per la produzione di oltre mille veicoli corazzati da combattimento
“Borsuk” per sostituire i vecchi veicoli da combattimento di fanteria di tipo
sovietico utilizzati dal suo paese.
Il 4
marzo 2022, pochi giorni dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, la Polonia ha
firmato un accordo da 1,4 miliardi di sterline (1,65 miliardi di euro) con il
produttore di armi britannico “Babcock” per 3 nuove fregate.
Le
navi da guerra che saranno costruite in Polonia e chiamate classe “Miecznik”
saranno versioni simili delle fregate” Type 31” della “Royal Navy”.
Anche
l’esercito polacco mira ad aumentare il reclutamento.
Si punta ad aumentare il numero dei soldati,
che lo scorso anno erano 150mila, ad almeno 300mila entro il 2035.
(trthaber.com/haber/dunya/polonya-natonun-dogu-kanadindaki-en-guclu-ordu-olmak-icin-harcamalarini-hizlandirdi-776429.html)
Per il
clima bisogna agire subito.
Almanacco.cnr.it
- Patrizia Ruscio – (27-10-2021) – ci dice:
PAURA.
I
campanelli di allarme sono sotto i nostri occhi: temperature in aumento, eventi
estremi sempre più frequenti.
Dobbiamo cambiare in fretta gli stili di vita per
ridurre le emissioni di CO2, come invita a fare “Annalisa Cherchi”
dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr e “lead author”
dell'ultimo rapporto “Ipcc”.
Tutti
ne siamo consapevoli ma non se ne parla mai abbastanza e si fa ancora meno.
Il
clima è cambiato e se non facciamo qualcosa, tutti insieme e al più presto,
andremo incontro a eventi climatici sempre più critici per le sorti del
Pianeta.
Non
serve Greta Thunberg a ricordarci che c'è un disallineamento nelle stagioni,
con estati sempre più calde e inverni sempre meno rigidi, e precipitazioni
burrascose che si abbattono ovunque.
Sono
questi i chiari segnali che c'è qualcosa nell'aria: sono i gas serra.
Le
emissioni di CO2 nell'atmosfera stanno innalzando la temperatura del Pianeta, non
c'è più tempo, bisogna agire immediatamente, lo dicono i fatti.
Nell'ultima
edizione del rapporto sul clima dell'”Intergovernmental Panel on Climate Change”
(Ipcc), sono stati esplorati cinque possibili scenari futuri, che descrivono
diversi contesti a seconda della mitigazione delle emissioni.
“In
particolare, se nei prossimi decenni non si verificheranno profonde riduzioni
delle emissioni di gas serra, la temperatura superficiale media globale
continuerà ad aumentare.
Nell'ipotesi
migliore, che prevede emissioni di CO2 più basse, il riscaldamento globale
durante il XXI secolo potrebbe restare al di sotto dei due gradi.
Se, invece, prendiamo in considerazione uno
scenario con elevate emissioni, la capacità di assorbimento del carbonio da
parte degli oceani e degli ecosistemi risulterebbe tanto compromessa da perdere
efficacia nel rallentare il tasso di crescita della CO2 atmosferica”, spiega “Annalisa
Cherchi” dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (Isac) del Cnr,
tra i “lead author” del rapporto.
Secondo
la scienza,
l'inversione di alcune delle conseguenze dei cambiamenti climatici in atto
richiederebbe centinaia di anni per avere effetti positivi sulla salute degli
oceani, sullo scioglimento dei ghiacci marini artici e sull'abbassamento del
livello del mare.
“Il
primo lockdown ha proiettato il Pianeta sul banco di un esperimento climatico
che, diversamente, non sarebbe stato possibile fare.
Per circa due mesi le attività si sono fermate
in tutto il mondo e i dati hanno dimostrato che c'è stata una diminuzione delle
emissioni in atmosfera, anche di CO2, ma le concentrazioni non sono diminuite
di tanto e le temperature globali quasi non se ne sono accorte”, commenta
l'esperta.
“Questo
è un chiaro segnale che servono misure protratte nel tempo, perché i processi
in corso sono soggetti a una forma di inerzia che solo gli anni possono
riattivare”.
Una
riduzione delle emissioni di gas serra, in sintesi, potrebbe provocare effetti
positivi sulla qualità dell'aria, osservabili in pochi anni, anche se l'impatto
sulla temperatura della Terra saranno visibili dopo molti decenni.
Nel Mediterraneo, sostengono i ricercatori
dell'Ipcc, gli eventi estremi di elevata temperatura sono aumentati nettamente
dagli anni cinquanta, proprio a causa delle attività dell'uomo.
In base alle proiezioni climatiche
disponibili, la situazione potrebbe migliorare in futuro se ci si orienterà
verso comportamenti consapevoli.
“Quello che possono fare i cittadini per
andare incontro a questo processo è ridurre l'inquinamento il più possibile.
Ben
vengano, quindi, tutte le pratiche di buon senso, che se attuate nel quotidiano
sicuramente aiutano”, conclude “Cherchi”.
“L'impegno collettivo, però, è necessario che
sia supportato dalla classe politica. Per questo è importante che i governatori
agiscano sulla base di ciò che sta succedendo e che potrebbe succedere.
Si
tratta di aspetti che esulano dalla ricerca scientifica ma è di fondamentale
importanza considerarle, se si desidera invertire il clima di un futuro alle
porte”.
In
questa ottica, differenziare i rifiuti non sarà più un vezzo e consumare
energia da fonti rinnovabili, compatibilmente con lo stato dell'arte della
transizione ecologica, consentirebbe di raggiungere obiettivi importanti per le
sorti della Terra.
Greta
Thunberg ha ragione quando dice che “Non c'è un pianeta B e non c'è un piano
B”.
Almeno non ancora e verosimilmente non nel
breve periodo.
(Annalisa
Cherchi, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima, email a.cherchi@isac.cnr.it
-)
CAMBIAMENTI
CLIMATICI.
Wwf.it
– Redazione – ( 10 -6-2023) – ci dice:
Cosa
fa il WWF.
Cosa
puoi fare tu.
Ormai
da decenni la comunità scientifica, anche avvalendosi di modelli matematici
sempre più accurati, ha descritto come il clima del Pianeta stia cambiando in
modo preoccupante e come le responsabilità di questi cambiamenti sia delle
attività umane, a cominciare dall’uso massiccio dei combustibili fossili.
Oggi
siamo di fronte a fenomeni climatici sempre più estremi, frequenti e
devastanti.
Molte
specie stanno tentando di reagire al cambiamento:
alcuni uccelli migratori stanno cambiando
periodi di arrivo e di partenza anno dopo anno, le fioriture stanno
anticipando, le specie montane si spingono, finché possono, in alta quota.
Ma
tutto questo ha un prezzo.
Ormai
nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima
del Pianeta e sulla nostra responsabilità.
1.5°C.
limite
massimo al riscaldamento del Pianeta per contenere i danni più devastanti
provocati da un innalzamento delle temperature.
55%
Obiettivo
minimo dell’UE di riduzione netta di gas serra entro il 2030, per non superare
la soglia di 1,5°C.
12.85%
è il
tasso del calo del ghiaccio artico per decennio.
OVERVIEW.
L’estate
del 2022 è stata la più calda della storia in Europa.
Il mese di luglio ha fatto registrare 2,26
gradi centigradi in più rispetto alla media italiana dal 1800, anno da cui si
registrano i dati.
Le
misurazioni strumentali, la frequenza e la violenza di eventi climatici che
stiamo osservando, i cambiamenti nei comportamenti, nelle abitudini migratorie
e riproduttive di molte specie animali e vegetali lasciano poco spazio a
interpretazioni: la crisi climatica è ormai un dato di fatto.
La
comunità scientifica è ormai unanime nell’indicare le attività umane quali
responsabili della crisi climatica, in particolare a causa dell’aumento dei gas
serra immessi nell’atmosfera.
La
concentrazione di gas serra nell’atmosfera ha raggiunto livelli record:
l’anidride carbonica è aumentata di quasi il
150% rispetto ai livelli preindustriali, il metano del 262% e il protossido di
azoto del 123% rispetto ai livelli preindustriali.
(public.wmo.int/en/our-mandate/climate/wmo-statement-state-of-global-climate).
La
concentrazione della CO2 in atmosfera viene misurata dal “Mauna Loa Center del
NOAA americano”:
nel
maggio 2022 la media era stata di 420,99 parti per milione, una concentrazione che
non si registra da almeno 650 mila anni, ma probabilmente da molto prima.
La
concentrazione di CO2 provoca l’innalzamento globale della temperatura che a
sua volta rende sempre più frequenti fenomeni di inondazioni, siccità, dissesto
idrogeologico, diffusione di malattie, crisi dei sistemi agricoli, crisi idrica
e estinzione di specie animali e vegetali.
Non
possiamo più attendere, dobbiamo invertire la rotta.
COSA
FA IL WWF.
Per
combattere il cambiamento climatico e assicurare un futuro al Pianeta e alle
persone bisogna
raggiungere una nuova impostazione dell’economia, sostenibile, equa e non
fondata sul carbonio di origine fossile entro il 2050, in grado di resistere a quel
livello di cambiamento climatico che non siamo più in grado di evitare.
Per
questo siamo impegnati per raggiungere un nuovo accordo globale a livello
internazionale, efficace, giusto e legalmente vincolante.
Proponiamo
al governo nazionale la promozione di strategie e percorsi con obiettivi e
tappe precise per arrivare all’azzeramento delle emissioni prima della metà del
secolo, costruendo una transizione all’economia del futuro.
Promuoviamo
l’efficienza energetica per ridurre le emissioni di CO2 e la conversione della
produzione energetica verso le fonti energetiche rinnovabili, come l’energia
solare ed eolica.
Proponiamo lo sviluppo di strategie di
adattamento al cambiamento climatico per salvaguardare le persone e gli
ecosistemi a rischio.
COSA
PUOI FARE TU.
Ognuno
di noi si deve sentire coinvolto nella lotta al cambiamento climatico.
Il risparmio dell’energia è uno dei primi passi, non
basta infatti che i governi e le nazioni attuino programmi di riconversione
della produzione energetica, abbandonando progressivamente i combustibili
fossili verso le fonti energetiche rinnovabili.
Puntare
sull’efficienza e il risparmio energetico è fondamentale e su questi punti il
ruolo di ognuno di noi è cruciale.
Sostieni
le nostre battaglie per la difesa del clima, quelle in piazza e quelle
istituzionali, se riusciremo a far sentire la nostra voce, insieme ce la
possiamo fare.
Cambia
stile di vita.
CAMBIAMENTI
CLIMATICI E DIRITTI UMANI.
Amnesty.it - Richard Burton – (10-6-2023) – ci
dice:
È
facile dare per scontato il nostro pianeta finché non vediamo il costo umano
del suo deterioramento: fame, persone sfollate, disoccupazione, malattie e
morte.
Milioni
di persone stanno già soffrendo per gli effetti catastrofici di disastri
meteorologici estremi esacerbati dai cambiamenti climatici:
dalla
prolungata siccità nell’Africa subsahariana alle devastanti tempeste tropicali
che si abbattono sul sud-est asiatico, sui Caraibi e sul Pacifico.
Le
temperature torride hanno causato ondate di caldo mortali in Europa e incendi
in Corea del Sud, Algeria e Croazia.
Si sono verificate gravi inondazioni in
Pakistan, mentre una prolungata e intensa siccità in Madagascar ha lasciato un
milione di persone con un accesso molto limitato al cibo.
La
devastazione che il cambiamento climatico sta causando e continuerà a causare
indica un “codice rosso” per l’umanità.
Il
principale organismo scientifico mondiale per la valutazione dei cambiamenti
climatici – il “Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico” (IPCC) –
avverte che le emissioni globali di gas serra “raggiungeranno il picco entro il
2025 al più tardi e dovranno essere ridotte del 43% entro il 2030 se vogliamo
limitare il cambiamento climatico a 1,5°C ed evitare la catastrofe completa.”
Per
fermare tutto questo è necessaria un’azione immediata su larga scala, ma
l’urgenza non deve essere una scusa per violare i diritti umani.
Le
cause dei cambiamenti climatici.
Climate.ec.europa.eu
– Redazione – (10-6-2023) – ci dice:
Riscaldamento
globale -Gas serra - Cause dell’aumento delle emissioni -
Contrastare
i cambiamenti climatici.
L'uso
di combustibili fossili, l'abbattimento delle foreste e l'allevamento del
bestiame hanno un impatto sempre più forte sul clima e sulla temperatura del
pianeta.
Queste
attività aggiungono enormi quantità di gas serra a quelle naturalmente presenti
nell’atmosfera, alimentando l’effetto serra e il riscaldamento globale.
Riscaldamento
globale.
Il
periodo 2011-2020 è stato il decennio più caldo mai registrato, con una
temperatura media globale di 1,1ºC al di sopra dei livelli preindustriali nel
2019.
Il
riscaldamento globale indotto dalle attività umane è attualmente in aumento a
un ritmo di 0,2ºC per decennio.
Un
aumento di 2ºC rispetto alla temperatura dell'epoca preindustriale è associato
a gravi impatti negativi sull'ambiente naturale e sulla salute e il benessere
umani, compreso un rischio molto più elevato di cambiamenti pericolosi e potenzialmente
catastrofici nell'ambiente globale.
Per
questo motivo la comunità internazionale ha riconosciuto la necessità di
mantenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2ºC e di proseguire gli sforzi
per limitarlo a 1,5ºC.
Gas
serra.
La
causa principale dei cambiamenti climatici è l'effetto serra.
Alcuni
gas presenti nell’atmosfera terrestre agiscono un po’ come il vetro di una
serra:
catturano
il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio e provocando il
riscaldamento globale.
Molti
di questi gas sono presenti in natura, ma le attività umane fanno aumentare le
concentrazioni di alcuni di essi nell’atmosfera, in particolare:
l'anidride
carbonica (CO2).
il
metano.
l'ossido
di azoto.
i gas
fluorurati.
La CO2
prodotta dalle attività umane è il principale fattore del riscaldamento
globale.
Nel
2020 la concentrazione nell'atmosfera superava del 48% il livello
preindustriale (prima del 1750).
Altri
gas a effetto serra vengono emessi dalle attività umane in quantità inferiori.
Il metano è un gas con un effetto serra più potente della CO2, ma ha una vita
atmosferica più breve.
L'ossido di azoto, come la CO2, è un gas a
effetto serra longevo che si accumula nell'atmosfera per decenni e anche
secoli.
Gli inquinanti diversi dai gas a effetto
serra, compresi gli aerosol come la fuliggine, hanno effetti diversi in termini
di riscaldamento e raffreddamento e sono associati anche ad altri problemi
quali la scarsa qualità dell'aria.
Si
stima che le cause naturali, come i cambiamenti della radiazione solare o
dell'attività vulcanica, abbiano contribuito al riscaldamento totale in misura
minore di 0,1ºC tra il 1890 e il 2010.
Cause
dell’aumento delle emissioni.
La
combustione di carbone, petrolio e gas produce anidride carbonica e ossido di
azoto.
L'abbattimento
delle foreste (deforestazione).
Gli
alberi aiutano a regolare il clima assorbendo CO2 dall'atmosfera.
Abbattendoli,
quest'azione viene a mancare e la CO2 immagazzinata negli alberi viene
rilasciata nell'atmosfera, alimentando in tal modo l'effetto serra.
Lo
sviluppo dell’allevamento di bestiame.
I
bovini e gli ovini producono grandi quantità di metano durante il processo di
digestione.
I
fertilizzanti azotati producono emissioni di ossido di azoto.
I gas
fluorurati sono emessi da apparecchiature e prodotti che utilizzano tali gas.
Queste emissioni causano un potente effetto serra, fino a 23 000 volte più
forte dei quello provocato dalla CO2.
Contrastare
i cambiamenti climatici.
Poiché
ogni tonnellata di CO2 emessa contribuisce al riscaldamento globale, tutte le
riduzioni di emissioni contribuiscono a rallentarlo.
Per
arrestarlo completamente, occorre raggiungere l'azzeramento delle emissioni
nette di CO2 in tutto il mondo.
Inoltre,
anche la riduzione delle emissioni di altri gas a effetto serra, come il
metano, può avere un forte effetto sul rallentamento del riscaldamento globale,
soprattutto a breve termine.
Le
conseguenze dei cambiamenti climatici sono estremamente gravi e incidono su
molti aspetti della nostra vita.
Sia la
lotta ai cambiamenti climatici che l'adattamento a un mondo che si riscalda
sono priorità assolute per l'UE.
L'azione
per il clima è un'esigenza immediata.
Lo
sciopero per il clima non
serve
a niente, ma ci salverà.
Esquire.com
– Massimo Sandal – (24-9-2019) – ci dice:
Greta
Thunberg e il “climate strike” forse non cambieranno il clima, ma stanno
cambiando noi.
Greta
Thunberg è calata come una marziana a risvegliare una specie sonnambula.
Ha
conquistato il mondo sedendosi sola, in impermeabile giallo davanti al
parlamento svedese con un cartello dipinto a mano e dei volantini in cui
dichiarava, brutale, “Lo faccio perché voi adulti state cagando sul mio futuro”.
Poco
più di un anno dopo, il 20 settembre 2019, quattro milioni di persone in 163
paesi hanno partecipato a oltre 2500 tra manifestazioni e altri eventi per
protestare contro la crisi climatica in corso.
Principalmente studenti, anche se hanno il
supporto di migliaia di scienziati.
Eppure,
a che serve uno sciopero per il clima?
È
facile dire: a nulla.
Lo 0,04% di anidride carbonica nell’aria continua
a intrappolare il calore del Sole; macchine semoventi grandi come navi
continuano a scavare miniere di carbone a cielo aperto;
gli aerei attraversano il cielo bruciando
tonnellate di benzina ogni secondo.
Mentre
l’intera infrastruttura del mondo stringe il nodo della crisi climatica con la
silenziosa violenza di un anaconda, a che serve che dei ragazzini scendano in
piazza agitando cartelli?
Saltando
la scuola, in cui dovrebbero andare per capire qualcosa della protesta a cui
partecipano?
Un
anno fa ho argomentato su queste pagine che in realtà ormai è troppo tardi per
fermare il cambiamento climatico.
Come
specie, semplicemente, non siamo abbastanza lungimiranti per il tipo di azioni
pratiche - altro che scioperi! - di cui avremmo bisogno per arrestare la crisi
climatica a livelli gestibili;
di
più, se agissimo probabilmente gli sconvolgimenti sociali ed economici
necessari incontrerebbero una giustificata e inevitabile resistenza.
Poco tempo fa sul New Yorker lo scrittore
“Jonathan Franzen” ha espresso una posizione singolarmente simile (sia pure
commettendo vari errori scientifici).
E
allora?
La
realtà è che le nostre generazioni hanno letteralmente ammazzato il futuro alle
prossime.
Noi
siamo vecchi e disillusi e saggi, dei ragazzini non ci fidiamo.
Ci ricordiamo bene quando eravamo adolescenti
noi, e attaccavamo un foglio con scritto sciopero al portone della scuola: una
debole scusa per saltare una interrogazione.
O
lanciavamo un’occupazione in cui pregustavamo già di limonare e fumare le prime
canne in ebbrezza e libertà.
Questi
giovinastri vorranno la stessa cosa.
Una scusa per fare bordello. I problemi, le
soluzioni, sono ben altre.
Siamo
furbi noi, neh?
Non ci
facciamo manipolare da queste manifestazioni da fighetti, che non risolvono
nulla. Siamo realisti, noi!
O
forse questo cinismo è solo un modo di proteggerci.
Messi
di fronte alla realtà, ovvero che le nostre generazioni hanno letteralmente
ammazzato il futuro alle prossime, molti di noi hanno reagito come calabroni
storditi.
Increduli
che una teenager dal cervello come una katana ci dica la verità in faccia.
Ma
Thunberg (a proposito, possiamo smettere di chiamarla "Greta" per
nome, come se fosse la nostra nipotina?
Forse
sembra più piccola della sua età ma è una giovane donna, merita rispetto come
tale) è un catalizzatore, e uno di quelli forti, quello che ha risvegliato si
muove ormai anche senza di lei.
Non è
che il simbolo del fatto che possiamo smettere di far finta di niente, che
protestare e incazzarsi è lecito, doveroso, e che possiamo unirci e prenderlo
in mano, il futuro di questo pianeta.
Che
possiamo urlare davanti ai potenti della Terra “non vi perdoneremo mai”, come
ha fatto ieri alle Nazioni Unite.
E
questo è il punto e il merito del movimento per il clima, degli scioperi e
delle manifestazioni.
Thunberg
sì, fa “stunt” come venire in America in barca a vela invece che in aereo –
cosa che è stata ridicolizzata perché chiaramente implausibile per quasi tutti
noi.
Mica
detto che le faccia tutte giuste, anche se è stato un buon modo per farci
riflettere sui trasporti.
Ma se
bastasse discutere dell’andare in vacanza in aereo o in treno, di quale
pellicola sia più sostenibile per impacchettare i broccoli, o se usare borracce
invece di bottiglie di plastica, non servirebbe a nulla una manifestazione per
il clima, né servirebbe andare al Congresso americano o alle Nazioni Unite a
sputare in faccia la realtà ai leader del globo.
La
questione è sistemica.
Come
ha detto Thunberg al Congresso degli Stati Uniti, pensare che la risolveremo
così, con piccoli ritocchi qua e là, è “una storia per la buonanotte che ci
rilassa e ci fa tornare a nanna”.
L’ambiente non si salva accumulando stimmate
di santità individuale.
Come
ha scritto “Yessenia Funes,” “mi rifiuto di credere che la gente debba
vergognarsi di vivere nel mondo che abbiamo costruito”.
Abbiamo costruito un mondo in cui il nostro
impatto ecologico, e non solo climatico, è inevitabile;
il
nostro modello economico si basa sull’assurdo di una crescita infinita su di un
pianeta a risorse finite.
Perfino
i capitalisti dicono che il capitalismo non funziona più, oramai.
Quello
a cui serve lo sciopero per il clima quindi non sarà ridurre le parti per
milione di anidride carbonica, direttamente - anche se aumentare la
consapevolezza di certo male non fa.
Non ci
aiuterà neanche immediatamente ad arrivare sotto i 2, o neanche i 3 gradi di
riscaldamento globale medio, anche se magari, influenzando l’opinione pubblica,
potremo tirare il freno un poco, e ricordare sempre che ogni decimo di grado
farà moltissima differenza.
Quello
a cui servono gli scioperi come il clima è l’essere nucleo di cambiamento
sociale, culturale, politico.
Servono
a creare un movimento consapevole di come noi, come specie, abbiamo alterato il
nostro destino:
e se l’abbiamo fatto sbattendo come sonnambuli
verso il precipizio, ora potremo farlo consapevolmente.
Dovremo
adattarci al mondo che abbiamo creato, a questo perverso” terraforming” che ci
porta verso un pianeta più caldo e quindi, se tutto va come va, più pericoloso,
precario, ingiusto, violento.
E per
adattarci servirà, prima di cambiamenti tecnologici, una consapevolezza sociale
e politica diversa, servirà la comprensione che ci servono modelli altri
rispetto alla ruota del mulino capitalistico su cui giriamo.
Servirà
creare una società solidale, compassionevole, ma anche forte e capace di
guardare in faccia alla realtà.
E i
cambiamenti sociali nascono anche così:
scendendo insieme da ragazzi in una piazza,
guardandosi negli occhi, e con la sensazione di poter fare qualcosa.
A
diventare vecchi e disillusi c’è tempo.
Per
decenni il movimento ambientalista è stato deriso come una sorta di vezzo da
ricchi hippy, da abbracciatori professionisti di alberi.
È
stato addirittura osteggiato dalle persone "serie" come
anti-scientifico.
In queste critiche ingenerose c’è un nucleo di
verità, ci sono state battaglie scellerate in nome dell’ambiente, ma
altrettanto scellerato è stato l’atteggiamento di chi pensava che fosse
scientifico e razionale fregarsene o perdersi in distinguo – come tuttora fanno
molti “surciliosi” commentatori – invece di prendere sul serio la questione.
Mi ci
metto anche io, ho commesso anche io questo errore.
Ora le cose sono cambiate.
Ora c’è una generazione che, se non può
riprendersi il futuro che le abbiamo letteralmente bruciato, può perlomeno
riprendere sé stessa.
Unirsi
per affrontare il mondo che l’aspetta.
La
rabbia di Thunberg che urla alle Nazioni Unite “non ve la faremo passare
liscia”, sostenuta da milioni di persone in tutto il mondo, è una delle poche
speranze che mi rimangono.
Teorie
del complotto
sul
riscaldamento globale.
It.wikipedia.org – (3-1-2023) – Redazione – ci dice:
Le
teorie del complotto sul riscaldamento globale] sono ipotesi eterogenee più o
meno credibili, che ritengono vi siano secondi fini di carattere finanziario o
politico dietro il surriscaldamento terrestre.
Alcune
di queste ipotesi citano altre costanti complottiste come “il nuovo ordine
mondiale”.
Si
discute se alla base vi siano altre motivazioni di carattere finanziario per
ottenere più fondi e denaro possibile con la scusa di fermare il processo climatico]
oppure l'effettiva inesistenza di questo fenomeno, ovvero un falso montato ad
arte con il solo scopo di accumulare finanze per enti governativi e non
sull'argomento.
I
presunti complici.
Secondo
i vari complottisti le organizzazioni complici della cospirazione sarebbero le
Nazioni Unite, il Gruppo Bilderberg, il Club di Roma, il Green Cross
International, la General Electric e importanti personalità sulla scena
politica ed economica mondiale come Kofi Annan, Jacques Chirac, Maurice Strong,
George Soros, Al Gore e Michail Gorbačëv.
Contesto.
Come
affermato dall'”Intergovernmental Panel on Climate Change” (IPCC), il maggior
contributo al riscaldamento globale è l'aumento del biossido di carbonio
atmosferico (CO2) dal 1750, in particolare dalla combustione di combustibili
fossili, dalla produzione di cemento e dai cambiamenti nell'uso del suolo come
la deforestazione.
Il
quinto rapporto di valutazione (AR5) dell'IPCC afferma:
L'influenza
umana è stata rilevata nel riscaldamento dell'atmosfera e dell'oceano, nei
cambiamenti nel ciclo globale dell'acqua, nella riduzione di neve e ghiaccio ,
nell'innalzamento medio globale del livello del mare e nei cambiamenti in
alcuni estremi climatici.
Questa
prova dell'influenza umana è cresciuta dall'AR4.
È
estremamente probabile (95-100%) che l'influenza umana sia stata la causa
principale del riscaldamento osservato dalla metà del XX secolo.
IPCC AR5 WG1 Riepilogo per i responsabili
politici.
Le
prove del riscaldamento globale dovuto all'influenza umana sono state
riconosciute dalle accademie scientifiche nazionali di tutti i principali paesi
industrializzati.
Nessun
organismo scientifico di rilievo nazionale o internazionale mantiene un'opinione
formale dissenziente dalle sommarie conclusioni dell'IPCC.
Disinformazione
e accuse a scienziati e attivisti.
Teorie
del complotto contro il riscaldamento globale.
Nonostante
questo consenso scientifico sul cambiamento climatico, sono state avanzate
accuse secondo cui scienziati e istituzioni coinvolti nella ricerca sul
riscaldamento globale fanno parte di una cospirazione scientifica globale o
sono coinvolti in una bufala manipolativa.
Ci
sono state accuse di negligenza, in particolare nella controversia via e-mail
dell'unità di ricerca climatica ("ClimateGate").
Otto
comitati hanno indagato su queste accuse e pubblicato rapporti, senza trovare
prove di frode o cattiva condotta scientifica.
Il rapporto Muir Russell affermava che
"il rigore e l'onestà degli scienziati non sono in dubbio", che gli
investigatori "non hanno trovato alcuna prova di comportamento che
potrebbe minare le conclusioni delle valutazioni dell'IPCC", ma che c'era
stato "un modello coerente di non riuscire a mostrare il giusto grado di
apertura".
Il consenso scientifico sul fatto che il
riscaldamento globale si sta verificando a causa dell'attività umana è rimasto
invariato alla fine delle indagini.
In
Italia il “quotidiano Libero” ha negato in più occasioni il problema del
riscaldamento globale asserendo invece che la temperatura della Terra si stia
alzando per cause quasi esclusivamente naturali.
Nel 2019 uscì con una prima pagina
provocatoria dal titolo “Riscaldamento globale? Ma se fa freddo”.
Il 18 aprile 2019, in occasione della visita
di Greta Thunberg a Papa Francesco, “Libero” esce con una prima pagina
provocatoria dedicata all'attivista contro il cambiamento climatico.
In un'intervista al quotidiano, “Nicola
Scafetta”, ricercatore presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II,
conferma la tesi del giornale sul cambiamento climatico e afferma che Greta
Thunberg sia pilotata per interessi economici.
Anche
Nicola Porro ha sostenuto che essa porti avanti questa battaglia a fini
economici.
Anche
il quotidiano “La Verità” ha messo in dubbio l'attività umana come causa del
cambiamento climatico.
Sul
web si diffuse la falsa notizia che il premio Nobel Carlo Rubbia avesse negato
il cambiamento climatico.
Divenne
molto virale sul web una presunta mappa dell'Italia nell'anno 2100 con molte
zone sommerse (soprattutto Lombardia e Veneto) a causa del cambiamento
climatico[36], tanto da essere ripresa da diverse testate italiane che la descrivevano
come veritiera.
L'ambientalista
“Michael Shellenberger “affermò:
"Il cambiamento climatico è reale. Solo
che non è la fine del mondo. Non è nemmeno il più grave tra i problemi
ambientali".
In
realtà il cambiamento climatico è considerato dalla comunità scientifica il
maggiore dei problemi ambientali.
Sul
web circolò la teoria che le limitazioni alle attività umane imposte dalla
pandemia di COVID-19 potessero rallentare il cambiamento climatico ma fu poi
smentita.
Il
senatore “James Inhofe” ha affermato nel 2003:
"Con tutta l'isteria, tutta la paura,
tutta la scienza fasulla, potrebbe essere che il riscaldamento globale
provocato dall'uomo sia la più grande bufala mai perpetrata contro il popolo
americano?"
Nel
2010 Donald Trump ha affermato che
"Con l'inverno più freddo mai registrato,
con la neve che ha stabilito livelli record su e giù per la costa, il Comitato
Nobel dovrebbe ritirare il Premio Nobel da Al Gore...vuole che ripuliamo le
nostre fabbriche e gli impianti per proteggerci dal riscaldamento globale,
quando alla Cina e ad altri paesi non potrebbe importare di meno.
Ci renderebbe totalmente non competitivi nel
mondo manifatturiero, e Cina, Giappone e India stanno ridendo della stupidità
dell'America".
Poi, nel 2012, ha fatto un tweet:
"Il
concetto di riscaldamento globale è stato creato da e per i cinesi al fine di
rendere la produzione statunitense non competitiva".
Più tardi, nel 2016, durante la sua campagna
presidenziale, ha affermato che il suo tweet del 2012 fosse uno scherzo dicendo
che "Ovviamente, scherzo. Ma questo viene fatto a beneficio della Cina,
perché la Cina non fa nulla per aiutare il cambiamento climatico.
Bruciano
tutto ciò che potresti bruciare; non gli potrebbe importare di meno (...).
Un
gruppo di 500 scienziati, imprenditori e lobbisti dell’industria energetica
australiana ha inviato una lettera al Segretario dell’ONU, Antonio Guterres,
sostenendo che non esista alcuna emergenza climatica, che gli investimenti
nelle fonti rinnovabili mettano a rischio l'economia di intere nazioni e che
l’aumento di CO2 nell’atmosfera faccia bene all’ambiente.
Il
fisico “Frederick Seitz” scrisse un articolo sul “Wall Street Journal” nel 1996
criticando il secondo rapporto di valutazione dell'IPCC.
Sospettava
la corruzione nel processo di revisione tra pari.
Insieme al biochimico “Arthur Robinson”, “Seitz”
ha promosso successivamente la cosiddetta” petizione Oregon” sostenendo la
carenza di consenso scientifico sul riscaldamento globale.
Nel
2006 il professore di Scienze Atmosferiche “William M. Gray” ha detto che il
riscaldamento globale è diventato una causa politica per la mancanza di qualsiasi
altro nemico dopo la fine della Guerra Fredda.
Nel
2007 il meteorologo “John Coleman” ha scritto un post sul blog sostenendo che
il riscaldamento globale è la più grande truffa della storia.
Nel
2014 il fisico “William Happer”, in seguito nominato dal presidente Donald
Trump membro del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha affermato che "la demonizzazione del biossido
di carbonio è come la demonizzazione dei poveri ebrei sotto Hitler".
Il
documentario televisivo “The Great Global Warming Swindle” è stato realizzato
da “Martin Durkin”, che ha definito il riscaldamento globale "un'industria
mondiale da molti miliardi di dollari, creata da ambientalisti fanaticamente
antiindustriali".
Nel
2007 sul “Washington Times” disse che il suo film avrebbe cambiato la storia e
predisse che "tra cinque anni l'idea che l'effetto serra sia la ragione
principale del riscaldamento globale sarà vista come una sciocchezza totale".
(A
queste notizie mi permetto di aggiungere alcune considerazioni espresse in suo
articolo da F.Wlliam Engdahl del 21 giugno 2023 sul Global Research.ca”:
(…)
(L'intera
ragione della transizione verso fonti energetiche alternative come il solare o
l'eolico, e l'abbandono delle fonti di energia del carbonio, è la loro
affermazione che la CO2 è un gas serra che in qualche modo arriva fino
all'atmosfera dove forma una coperta che presumibilmente riscalda la Terra
sottostante - Global Warming.
Le
emissioni di gas serra secondo l'Agenzia per la protezione ambientale degli
Stati Uniti provengono principalmente dalla CO2.
Da qui l'attenzione alle "impronte di
carbonio".
Ciò
che non viene quasi mai detto è che la” CO2” non può librarsi nell'atmosfera
dagli scarichi delle automobili o dalle centrali a carbone o da altre origini
artificiali.
L'anidride carbonica non è carbonio o
fuliggine.
È un
gas invisibile e inodore essenziale per la fotosintesi delle piante e tutte le
forme di vita sulla terra, compresi noi.
“La
CO2 ha un peso molecolare di poco superiore a 44 mentre l'aria (principalmente
ossigeno e azoto) ha un peso molecolare di soli 29”.
Il
peso specifico della CO2 è circa 1,5 volte maggiore dell'aria. Ciò suggerirebbe
che i gas di scarico di CO2 provenienti da veicoli o centrali elettriche non
salgono nell'atmosfera a circa 12 miglia o più sopra la Terra per formare il
temuto effetto serra.
Per
apprezzare quale “azione criminale” si sta svolgendo oggi intorno a Gates,
Schwab e ai sostenitori di una presunta economia mondiale
"sostenibile", dobbiamo tornare al 1968, quando David Rockefeller e
amici crearono un movimento attorno all'idea che il consumo umano e la crescita
della popolazione fossero il principale problema mondiale.”)
(…)
Gli
slogan dei politici che “rallentano”
la
transizione ecologica.
Pagellapolitica.it – (07 MARZO 2022) - LAURA
LOGUERCIO – ci dice:
Il
negazionismo climatico è quasi scomparso, ma partiti e governo rischiano di
rimandare gli interventi contro l’aumento delle temperature con argomentazioni
più sottili.
Oggi
chi sostiene che il riscaldamento globale non esiste o non è causato dagli
esseri umani è ormai quasi sparito dal dibattito politico italiano.
In compenso, sulla politica pesano sempre di
più argomentazioni che, prestandosi a facili slogan, rischiano di
ridimensionare le conseguenze dell’emergenza climatica in corso e di rallentare
la transizione ecologica.
È la
retorica del” climate delay”, come l’hanno chiamata alcuni ricercatori: sebbene
sia più sottile rispetto al negazionismo climatico, questa è altrettanto
pericolosa e fuorviante.
Ed è sempre più rintracciabile nelle
affermazioni di alcuni membri del governo e del Parlamento.
Il
nuovo negazionismo?
La “teoria
del climate delay” è stata presentata a giugno 2020 in uno studio, intitolato”
Discourses of climate delay” e pubblicato sulla rivista scientifica “Global
Sustainability”, edita dall’Università di Cambridge, nel Regno Unito.
Lo studio è stato condotto da un gruppo di
dieci esperti, tra cui c’è anche l’italiano “Giulio Mattioli”, ricercatore nel
dipartimento per la pianificazione dei trasporti dell’”Università tecnica di
Dortmund”, in Germania.
«Il
rapporto è nato dalla sensazione di alcuni di noi che fosse in atto uno
spostamento dal negazionismo classico verso un altro tipo di discorso, che
riconosce l’emergenza ma trova scuse per non agire», ha detto “Mattioli” a “Pagella
Politica”.
Sulla
base di alcune dichiarazioni di politici europei, i ricercatori hanno
individuato – in modo «non sistematico», ha specificato” Mattioli” – quattro
tipi di argomentazioni che ricorrono spesso nel “dibattito sull’emergenza
climatica” e che sono utilizzate per giustificare la necessità di posticipare
le decisioni più difficili: reindirizzare le responsabilità, spingere per
soluzioni non trasformative, enfatizzare gli svantaggi delle misure proposte,
e, infine, arrendersi a una disfatta ormai inevitabile.
L’attenzione
si è così spostata dal piano scientifico a quello normativo:
«Il “climate delay” non attacca la scienza del
cambiamento climatico, ma le leggi che si tenta di fare per contrastarlo, ha
spiegato a Pagella Politica “William Lamb”, ricercatore al” Mercator Research
Institute on Global Commons and Climate Change” di Berlino e co-autore dello
studio.
Secondo
“Massimo Tavoni”, direttore dell’”Istituto europeo per l’economia e l’ambiente”
(Eiee) e docente di “Economia ambientale” al Politecnico di Milano, i discorsi
di “climate delay” non sono comunque una novità nel panorama italiano.
«Sono
argomenti standard che ci sono sempre stati – ha sottolineato Tavoni a Pagella
Politica – ma oggi diventano più vigorosi perché l’impatto umano sul clima è
ormai dato per scontato», e quindi «è più difficile negare tutto».
Con il
“climate delay “si cerca di ritardare l’azione, ma «per riuscire a recuperare
il tempo perso bisogna poi accelerare, e questo a sua volta viene usato come
ulteriore scusa per non fare nulla», ha spiegato “Tavoni “a Pagella Politica.
«È un argomento fastidioso e fazioso, ma è la
strategia che stiamo vedendo in Italia in questo momento».
D’altra
parte, secondo “Stella Levantesi”, giornalista e autrice del libro “I bugiardi
del clima” (Laterza 2021), la discussione sul clima si è evoluta nel tempo, ma
il negazionismo non è mai scomparso del tutto.
«Nel periodo della “Cop 26”, la “conferenza
sul clima” di Glasgow tenuta a novembre scorso, in Italia sono riaffiorati
tantissimi interventi negazionisti», ha detto Levantesi, aggiungendo che «non è un caso, ma si tratta di un
pattern storico: quando l’azione climatica è al centro del dibattito la
macchina negazionista si riattiva».
Non
sono io, sei tu.
La
prima categoria di affermazioni tipiche del “climate delay” punta il dito
altrove, addossando le responsabilità del cambiamento climatico su attori
distanti da noi. Qui i responsabili chiamati in causa sono le nazioni che
inquinano di più, i singoli consumatori, oppure i cosiddetti “free rider”,
ossia i Paesi che si approfitterebbero di chi sta agendo più velocemente per
contrastare l’aumento delle temperature.
Un
classico esempio di questa prima categoria del” climate delay” consiste
nell’indicare altri Paesi, per esempio la “Cina o l’India,” come i reali
responsabili dell’emergenza climatica e quindi coloro che per primi dovrebbero
cambiare rotta.
L’argomentazione
è stata più volte ripetuta dal leader della Lega “Matteo Salvini”, che a maggio
2020 twittava:
«Si chiede agli imprenditori italiani di rispettare
norme sul tema dell’ambiente e della sostenibilità. In Cina non viene
rispettato nulla di tutto ciò», e che già nel 2014 aveva affermato:
«In
Italia regole per imprese su lavoro, qualità e ambiente, in Cina e India no:
per competere occorre mettere dazi!».
Anche
la leader di Fratelli d’Italia “Giorgia Meloni” ha utilizzato spesso questa
argomentazione.
Lo
scorso anno, nell’ambito della discussione sulla “plastic tax” – un’imposta
sugli imballaggi in plastica approvata dal governo Conte II nel 2019 ma la cui
applicazione è per ora stata rinviata al 2023 – “Meloni ha” affermato che la Cina e
l’India contribuiscono per «l’80 per cento» allo sversamento di plastica in
mare, percentuale nettamente superiore rispetto ai Paesi europei (un’affermazione comunque
fattualmente corretta).
Un
altro esempio sono gli slogan che provano a spostare la responsabilità del
riscaldamento globale dalle decisioni dei governi o delle autorità
sovranazionali alle azioni dei singoli individui.
Ne ha dato esempio l’attuale “ministro per la
Transizione ecologica”, il tecnico “Roberto Cingolani”, che lo scorso dicembre
ha sostenuto che il «comparto digitale» produce il «4 per cento» delle emissioni di
anidride carbonica a livello globale, di cui «una buona metà» deriva
«dall’utilizzo smodato dei social».
L’affermazione
tende quindi a sottolineare come i cittadini comuni, utilizzando i social
network, contribuiscano in maniera non indifferente a inquinare l’ambiente in
cui vivono.
In realtà, questa stima si basa su uno studio
non particolarmente solido dal punto di vista scientifico, che per di più
considera tutte le tecnologie digitali e non menziona l’impatto dei social
network presi singolarmente.
In
un’intervista con La Stampa dell’ottobre 2021 “Cingolani “ha anche citato il
ruolo delle auto con tecnologie ormai obsolete, evidenziando l’impatto dei
singoli automobilisti sull’inquinamento complessivo:
«Abbiamo
13 milioni di automobili euro zero e euro 1, la gente se le tiene perché non ha
i soldi, se noi li portassimo sugli euro 6 l’impatto sarebbe enorme»,
ha
detto il “ministro della Transizione ecologica”.
Il
dato citato da Cingolani, tra l’altro, è sbagliato:
nel
2020 in Italia le auto euro 0 ed euro 1 erano 4,5 milioni, un numero quasi tre
volte più piccolo di quello indicato dal ministro.
Come
ha spiegato “Levantesi” a Pagella Politica, «questa narrazione è nata negli
anni Settanta attraverso delle strategie di comunicazione ben precise, per
esempio tramite campagne pubblicitarie che veicolano questo messaggio:
il responsabile del riscaldamento globale è
l’individuo, e sarà lui a dover trovare le soluzioni».
Ancora oggi questa tesi rimane una delle narrazioni
portanti nella lotta al cambiamento climatico, ma è fondamentale ricordare che «il
problema è sistemico, non individuale».
Qualcosa
ci salverà.
La
seconda classe di affermazioni tipiche del” climate delay” propone soluzioni
alternative per mitigare il cambiamento climatico.
Visti
da questa prospettiva le misure restrittive dettate dai governi o dalle
autorità vengono sostituite da più miti incoraggiamenti ad agire su base
volontaria, utilizzando se necessario anche i combustibili fossili e sperando
che, un giorno, una nuova tecnologia ancora da inventare possa liberarci dai
problemi.
Il tutto accompagnato da discorsi ricchi di
forma ma poveri di sostanza.
L’«ottimismo
tecnologico», come definito dallo studio, è particolarmente popolare nella
politica italiana.
Nel
novembre 2021, per esempio, il presidente del Consiglio “Mario Draghi” ha
sostenuto che, quando si parla di transizione ecologica, dobbiamo essere
«aperti a tutto, immaginare che quel che è oggi impossibile diventi possibile
domani: il panorama delle innovazioni mondiali che vanno a compimento in ogni
momento nel mondo è straordinaria, non ci sono confini alle nostre capacità di
affrontare questa sfida».
Fiducioso
nell’arrivo di qualche salvifica innovazione tecnologica è anche il “ministro
Cingolani”, che lo scorso dicembre ha affermato:
«Sono assolutamente certo, ci metterei la
firma, che la fusione nucleare sarà la soluzione di tutto.
Il concetto è: nel 2050-2070, non so quando
riusciremo, avere una piccola stella in miniatura […] che in una grande città
produce energia per tutti e non fa scorie radioattive».
Come sottolineato anche dall’”Agenzia
internazionale per l’energia atomica”, la fusione nucleare è un processo
estremamente complesso, che gli scienziati non sono ancora in grado di gestire.
L’attenzione
per l’energia nucleare ha interessato anche altri esponenti politici, tra cui”
Matteo Salvini” e il vicepresidente di Forza Italia “Antonio Tajani”, secondo
cui «bisogna
credere nell’idrogeno e riprendere la ricerca sul nucleare di ultima
generazione, che è sicuro e pulito».
Il nucleare di “quarta generazione”, quindi
estremamente avanzato a livello tecnologico, è ancora in fase di studio e ci
vorranno anni prima che sia brevettato un reattore pienamente funzionante.
Tra
gli altri, ha puntato sull’ottimismo tecnologico anche l’ex presidente del
Consiglio” Romano Prodi”, che in un articolo pubblicato sul “Messaggero a
settembre 2021” ha affermato che la transizione energetica «non può fondarsi solo sulle
energie alternative oggi conosciute, ma anche su radicali innovazioni nella
scienza, nella tecnologia e nelle collaborazioni internazionali».
Altro
elemento classico che ricade nell’insieme delle soluzioni non trasformative è
la tendenza a fare grandi discorsi per sottolineare l’importanza della
transizione ecologica ed elogiare gli impegni presi in questo senso, senza però
portare risultati concreti.
Molte
forze politiche italiane sono cadute in questa trappola, a partire dal Partito
democratico.
Il 21
gennaio, per esempio, il segretario “Enrico Letta” ha scritto su Facebook:
«La riqualificazione energetica delle case
abbatte sprechi e consumi eccessivi e riduce le bollette delle famiglie.
Bisogna continuare a incentivarla. Le industrie inquinanti devono cedere il
passo alle nuove attività ecosostenibili. I lavoratori vanno protetti e
accompagnati nella transizione verso un’economia a zero emissioni».
Nel
post non sono però presenti riferimenti a decisioni effettive che permettano di
andare in questa direzione.
Diversi
partiti, dal Movimento 5 stelle a Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno
inoltre festeggiato la decisione, approvata l’8 febbraio scorso, di inserire in Costituzione la
«tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi».
Un
passo importante che però, se non accompagnato da azioni reali, rischia di
rimanere sulla carta.
Una
terza argomentazione ricorrente è quella che punta sui combustibili fossili,
affermando che le modalità di utilizzo stanno diventando sempre più efficienti
e rappresentano quindi una buona soluzione in attesa che le fonti rinnovabili
vengano perfezionate (o eventualmente inventate).
Negli
ultimi mesi diversi esponenti politici hanno infatti sostenuto la necessità di
rafforzare le attività di estrazione di gas naturale in Italia.
Per
esempio, il 18 gennaio scorso il ministro Cingolani, durante un’audizione
davanti a due Commissioni di Camera e Senato, ha indicato (min. 21:00) la
«valorizzazione
della produzione di gas da giacimenti nazionali esistenti» come una misura che
potrebbe «contribuire alla mitigazione del costo» dell’energia.
Nei
programmi del Ministero questo non porterebbe ad aumentare la quota totale di
gas utilizzato in Italia, ma valorizzerebbe la produzione sul territorio nazionale in
modo da ridurre le importazioni.
Anche
il Partito democratico il 9 febbraio ha pubblicato sui propri account social un
post con quattro proposte per ridurre il corso delle bollette, tra cui anche
«aumentare la produzione nazionale di gas», mentre a inizio gennaio il
vicepresidente di Forza Italia” Antonio Tajani” ha affermato che serve far
ricorso a «gas e nucleare pulito», unendo così due tesi di “climate delay” –
quelle sull’utilità dei combustibili fossili e sull’ottimismo tecnologico – in
poche parole.
Il gas
naturale, lo ricordiamo, rilascia meno anidride carbonica rispetto ad altri
combustibili fossili come il carbone o il petrolio, ma emette nell’atmosfera importanti
quantità di gas metano, che trattiene il calore ed è considerato uno dei
principali responsabili dell’effetto serra.
L’11 febbraio il governo Draghi ha approvato
il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai),
che tra le altre cose stabilisce le aree in cui sarà possibile richiedere nuovi
permessi esplorativi volti alla produzione di idrocarburi sul territorio
nazionale.
Nel 2020 sono stati prodotti in Italia 4
miliardi di metri cubi di gas naturale, a fronte di un consumo complessivo da
quasi 70 miliardi di metri cubi.
Il
gioco (non) vale la candela.
La
terza categoria di argomentazioni tipiche del “climate delay “tende a
enfatizzare i lati negativi della lotta al cambiamento climatico:
politiche troppo stringenti abbasserebbero
eccessivamente la nostra qualità della vita, le loro conseguenze ricadrebbero
sulle fasce della popolazione già oggi svantaggiate, e infine piuttosto che
approvare leggi imperfette è meglio lasciare tutto com’è ora e non cambiare
nulla.
Spesso
nella politica italiana queste tre argomentazioni vengono usate per criticare
le decisioni imposte da partiti avversari o enti sovranazionali, come l’Unione
europea.
A lungo infatti Salvini ha criticato la “plastic
tax” sostenendo per esempio che questa «non aiuta davvero l’ambiente, non è
decisiva per l’erario e danneggia un settore strategico in cui l’Italia è
leader»
(febbraio 2021), che mette a rischio «almeno 20mila posti di lavoro» (giugno 2021), o che
raddoppierà il prezzo dell’acqua minerale (ottobre 2019).
Salvini
ha spesso criticato l’imposizione di imposte che porterebbero beneficio
all’ambiente, ricadendo però sui lavoratori.
Nel 2019, per esempio, ha twittato: «Se penso che qualcuno vorrebbe
sostenere l’ambiente aumentando le accise su carburanti per agricoltori e
pescatori… è una cosa da Tso, ricovero immediato».
Di
idee simili anche la leader di Fratelli d’Italia “Giorgia Meloni”, che sempre
nel 2019 ha
criticato il decreto “Clima” approvato dal secondo governo Conte, sostenendo
che questo strumentalizzi la «tutela dell’ambiente per massacrare di tasse
[gli] italiani!».
In
un’intervista a” La Stampa” del luglio 2021, il ministro Cingolani aveva
dichiarato che
la transizione ecologica potrebbe essere «un bagno di sangue», perché «per
cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare
cambiamenti radicali che hanno un prezzo». Insomma, a meno che una decisione a
favore dell’ambiente non porti beneficio anche a tutte le altre parti in causa,
non può essere approvata perché sarebbe controproducente.
Arrendersi,
o forse no.
Infine,
l’ultima categoria di affermazioni identificate come tipiche del “climate delay”
sta nella tendenza ad arrendersi a un declino ormai irreversibile, in cui nulla
rimane da fare per cercare di salvare la situazione.
Questa tesi sembra non essersi ancora diffusa
particolarmente nel discorso politico italiano, dove prevale un atteggiamento
di speranza verso il futuro (o una tendenza a far finta di non vedere i problemi).
«Si
tratta di un’esagerazione: se non c’è più niente da fare, allora tanto vale non
fare nulla», ha detto a Pagella Politica “Stefano Caserini”, docente in
Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.
«Questo
discorso sta iniziando a emergere anche in Italia, ed è pericoloso».
Secondo”
Caserini”, infatti, siamo ancora in tempo per cambiare le cose:
«Non potremo evitare tutti i danni dei
cambiamenti climatici, ma un mondo in cui la temperatura sale di 2° centigradi
è diverso da un mondo in cui sale di 4° centigradi».
Cambiamento
climatico:
gas a
effetto serra che
causano
il riscaldamento globale.
Europa.eu
– (23-03-2023) – Redazione – ci dice:
I gas
fluorurati a effetto serra (gas fluorurati) sono prodotti dall'uomo e hanno un
elevato potenziale di riscaldamento globale, spesso migliaia di volte più forte
della CO2.
Gli
idro fluorocarburi (HFC) rappresentano circa il 90% delle emissioni di gas fluorurati
e sono utilizzati principalmente nei refrigeranti di frigoriferi, congelatori,
condizionatori d'aria e pompe di calore.
I gas
fluorurati a effetto serra sono prodotti dall'attività umana e contribuiscono
notevolmente al riscaldamento globale.
L'anidride
carbonica (CO2) è fra i tanti gas ad effetto serra.
Scoprite
come influisce sul riscaldamento globale, la sua origine e il suo contributo
alle emissioni dell'UE.
L'UE
vuole ridurre drasticamente i gas serra, che contribuiscono al cambiamento climatico.
La più nota è l'anidride carbonica (CO2), ma
altre, presenti nell'atmosfera in misura minore, possono contribuire ancora di
più al riscaldamento globale.
Cosa
causa i gas ad effetto serra?
I gas
nell'atmosfera agiscono in modo simile al vetro di una serra:
intrappolano
il calore del sole e gli impediscono di disperdersi nello spazio, provocando
così il riscaldamento globale.
L'effetto
serra fa sì che la temperatura della superficie terrestre sia più alta di
quanto sarebbe se non ci fossero gas serra nell'atmosfera, permettendo la vita
sul pianeta.
Molti
gas serra sono presenti naturalmente nell'atmosfera.
Tuttavia, l'attività umana contribuisce al suo
accumulo e aumenta il riscaldamento globale.
Di
conseguenza, i modelli di neve e precipitazioni cambiano, le temperature medie
aumentano e gli eventi meteorologici estremi, come ondate di calore e
inondazioni, si verificano con maggiore frequenza.
Altri
fattori e cifre sul cambiamento climatico.
Quali
sono i principali gas serra?
Esistono
diversi tipi di gas serra e il loro contributo al riscaldamento globale varia.
L'anidride
carbonica, il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O), tra gli altri, sono
naturalmente presenti nell'atmosfera, ma sono anche generati dalle attività
umane.
I gas
fluorurati a effetto serra sono il tipo più potente e persistente di gas a
effetto serra emessi dalle attività umane.
Possono produrre un effetto serra migliaia di
volte maggiore della CO2.
Inclusi
in questo tipo sono idro fluorocarburi (HFC), (per fluorocarburi), esafluoruro
di zolfo (SF6) e tri fluoruro di azoto (NF3).
Questi
gas sono spesso usati come sostituti delle sostanze che riducono lo strato di
ozono, che sono sostanze chimiche artificiali che, una volta emesse,
raggiungono l'atmosfera superiore e distruggono lo strato protettivo di ozono.
A differenza delle sostanze che riducono lo
strato di ozono, i gas fluorurati non danneggiano lo strato di ozono.
Il “Protocollo
di Kyoto” e l'”Accordo di Parigi”, il cui obiettivo è coordinare la risposta
globale ai cambiamenti climatici, includono i seguenti sette gas serra:
Biossido
di carbonio.
La CO2 è prodotta naturalmente dagli animali
durante la respirazione e attraverso la scomposizione della biomassa.
Inoltre, può entrare nell'atmosfera attraverso
la combustione di combustibili fossili e reazioni chimiche.
Durante
la fotosintesi, il processo che converte la luce solare in energia, le piante
la sottraggono all'atmosfera.
Pertanto,
le foreste svolgono un ruolo importante nel sequestro del carbonio.
Metano.
Il
metano è un gas incolore che è il componente principale del gas naturale.
Le sue
emissioni provengono dalla produzione e dal trasporto di carbone, gas naturale
e petrolio, nonché dal bestiame e da altre pratiche agricole, dall'uso del
suolo e dalla decomposizione dei rifiuti organici nelle discariche municipali.
Nel 2021, la maggior parte delle emissioni di
metano proveniva da agricoltura, silvicoltura e pesca.
Ossido
nitroso.
Questo gas viene prodotto a seguito
dell'azione microbica nel suolo, dell'uso di fertilizzanti contenenti azoto,
della combustione del legno e della produzione chimica.
Viene emesso nelle attività agricole e
industriali, nonché nell'uso del suolo;
la combustione di combustibili fossili e
rifiuti solidi;
e trattamento delle acque reflue.
Nell'UE,
l'agricoltura, la silvicoltura e la pesca hanno prodotto la maggior parte delle
emissioni di metano nel 2021.
Idro fluorocarburi.
Gli
idro fluorocarburi rappresentano circa il 90% delle emissioni di gas fluorurati
e l'UE sta lavorando per eliminarli gradualmente entro il 2050.
Sono
utilizzati principalmente per assorbire il calore in frigoriferi, congelatori,
condizionatori d'aria e pompe di calore, nonché spray per l'asma e aerosol
tecnici, agenti schiumogeni e negli estintori.
Nel 2021 hanno prevalso nei settori del
commercio all'ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli.
Per fluorocarburi.
I per fluorocarburi
sono composti artificiali comunemente usati nei processi di produzione
industriale.
Esafluoruro
di zolfo.
L'esafluoruro
di zolfo è spesso utilizzato nell'isolamento delle linee elettriche.
Tri fluoruro
di azoto.
Il tri
fluoruro di azoto viene utilizzato come "gas di pulizia della camera"
nei processi di produzione per pulire l'accumulo indesiderato dalle parti e dai
circuiti del microprocessore mentre vengono costruiti.
Impatto
dei gas serra sul riscaldamento globale.
I gas
serra hanno un diverso potenziale di riscaldamento globale.
Per
poterli confrontare, i loro impatti vengono solitamente convertiti in CO2
equivalente.
Nel
2021, le emissioni di gas a effetto serra generate dalle attività economiche
nell'UE hanno raggiunto i 3,6 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, il 22%
in meno rispetto al 2008.
La CO2 ha rappresentato quasi l'80% del volume
di tutte le emissioni di gas a effetto serra e. a metano con oltre il 12%. Il
metano dura meno della CO2 nell'atmosfera, ma assorbe molta più energia solare.
È un pericoloso inquinante atmosferico e le
sue perdite possono causare esplosioni.
Nel
complesso, tutti i gas fluorurati rappresentano solo il 2,5% circa delle
emissioni di gas a effetto serra dell'UE.
Tuttavia,
anche se vengono emesse in quantità minori, intrappolano il calore in modo
molto più efficace della CO2.
Altri
fatti e cifre sulle emissioni di gas a effetto serra per paese e settore
dell'UE.
In che
modo l'UE intende ridurre i gas serra?
La
legge sul clima dell'UE fissa obiettivi giuridicamente vincolanti per la
riduzione delle emissioni di gas a effetto serra:
entro
il 2030 devono essere diminuite del 55% rispetto ai livelli del 1990 e l'UE
deve raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050.
Per
raggiungere questi obiettivi, l'UE ha implementato diverse misure:
-
ridurre le emissioni nei trasporti;
-
fissare standard per risparmiare energia e investire nelle energie rinnovabili;
-
impedire il trasferimento delle industrie che emettono gas a effetto serra al
di fuori dell'UE per evitare normative più severe;
-
promuovere il primo grande mercato mondiale del carbonio, il sistema europeo di
scambio di quote di emissione;
-
stabilire obiettivi di riduzione per ciascun paese dell'UE;
-
promozione delle foreste e di altre aree di sequestro del carbonio.
CO2,
il principale gas serra.
Ancler.org - Redazione – Massimo – (20/07/2019)
– ci dice:
Anidride
carbonica (CO2):
si
presenta a temperatura ambiente come un gas incolore, più pesante dell’aria, di odore leggermente pungente allo
stato puro e di sapore acidulo.
(Se il
gas CO2 è più pesante dell’aria non può salire nella stratosfera e creare una
calotta impermeabile micidiale per l’ambiente! N.d.R)
Alla
temperatura di 20ºC, sottoposto a una pressione di 56,5 atm, liquefa
trasformandosi in un liquido incolore;
alla
pressione atmosferica e alla temperatura di –79 ºC passa invece direttamente
dallo stato gassoso a quello solido, costituendo il cosiddetto ghiaccio secco o
neve carbonica.
Il
biossido di carbonio è assai solubile in acqua, ma la sua solubilità diminuisce
fortemente al crescere della temperatura: la solubilità aumenta invece con la
pressione.
L’atmosfera
contiene in media una quantità di biossido di carbonio pari al 2-4×10–2% circa
in volume, che varia però notevolmente da una zona all’altra;
è per
esempio minore nelle zone boschive, assai più elevata nell’atmosfera dei grandi
centri urbani e industriali.
Le
fonti di emissione di CO2.
Le
fonti naturali di CO2 atmosferica includono la de-gassificazione da vulcani, la
combustione, il decadimento naturale della materia organica, la respirazione da
parte di organismi aerobici che utilizzano ossigeno.
Queste
sorgenti sono bilanciate, in media, da una serie di processi fisici, chimici o
biologici, chiamati “pozzi”, che tendono a rimuovere la CO2 dall’atmosfera.
Le
fonti antropiche principali di CO2 atmosferica includono l’uso dei combustibili
fossili, la gestione forestale, la deforestazione, la produzione di cemento, la
gestione dei suoli.
Nel
complesso la presenza dell’anidride carbonica nell’atmosfera è dovuta al ciclo
del carbonio e la CO2 non distrutta nel corso del tempo si accumula nel sistema
oceano-atmosfera-terra, spostandosi da un comparto all’altro di tale sistema:
parte di essa può essere assorbita dagli oceani o dalla biosfera terrestre,
mentre la parte in eccesso si accumula in atmosfera.
I gas
ad effetto serra.
L’anidride
carbonica (CO2) è tra i gas ad effetto serra (Greenhouse gas o GHG) che
maggiormente contribuiscono al riscaldamento del pianeta.
Tali
gas presenti nell’atmosfera terrestre catturano il calore del sole impedendogli
di ritornare nello spazio.
Molti di essi sono presenti in natura, ma
l’attività dell’uomo ne aumenta le concentrazioni nell’atmosfera.
Attualmente si calcola che la concentrazione in
atmosfera dell’anidride carbonica supera del 40% il livello registrato agli
inizi dell’era industriale e che la CO2 è responsabile del 63% del
riscaldamento globale causato dall’uomo mentre il metano è responsabile del 19%
del riscaldamento globale di origine antropica, l’ossido di azoto del 6%.
Cause
dell’aumento delle emissioni di CO2 e dei gas ad effetto serra sono la
combustione di carbone, petrolio e gas che produce anidride carbonica e ossido
di azoto (si calcola che le centrali elettriche e gli altri impianti
industriali siano le principali fonti di CO2), la deforestazione (gli alberi
aiutano a regolare il clima assorbendo CO2 dall’atmosfera, ma con il loro
abbattimento questa funzione viene a mancare e l’anidride carbonica contenuta
nel legno viene rilasciata nell’atmosfera), lo sviluppo dell’allevamento di
bestiame (in quanto bovini ed ovini durante il processo di digestione producono
grandi quantità di metano), l’utilizzo di fertilizzanti azotati in agricoltura
(che producono emissioni di ossido di azoto), l’utilizzo di gas fluorurati (regolamentato dalla legislazione
dell’UE che ne ha previsto la graduale eliminazione, causa un effetto serra
molto importate, fino a 23000 volte più forte dei quello provocato dalla CO2).
Il
riscaldamento globale.
L’attuale
temperatura media mondiale è più alta di 0,85ºC rispetto ai livelli della fine
del 19° secolo. Ciascuno degli ultimi tre decenni è stato più caldo dei
precedenti decenni, da quando sono iniziate le prime rilevazioni nel 1850.
I più
grandi esperti di clima a livello mondiale ritengono che le attività dell’uomo
siano quasi certamente la causa principale dell’aumento delle temperature
osservato dalla metà del 20° secolo.
Un
aumento di 2ºC rispetto alla temperatura dell’era preindustriale viene
considerato dagli scienziati come la soglia oltre la quale vi è un rischio di
gran lunga maggiore che si verifichino mutamenti ambientali pericolosi e
potenzialmente catastrofici a livello mondiale.
Per questo motivo, la comunità internazionale
ha riconosciuto la necessità di mantenere il riscaldamento sotto i 2ºC.
Le
conseguenze dei cambiamenti climatici.
I
cambiamenti climatici interessano tutte le regioni del mondo.
Le
calotte polari si sciolgono e cresce il livello dei mari.
In
alcune regioni i fenomeni meteorologici estremi e le precipitazioni sono sempre
più diffusi, mentre altre sono colpite da siccità e ondate di calore senza
precedenti.
Le
forti precipitazioni e altri eventi climatici estremi stanno diventando sempre
più frequenti.
Ciò
può causare inondazioni e un deterioramento della qualità dell’acqua, e in
alcune regioni anche la progressiva carenza di risorse idriche.
I
cambiamenti climatici stanno già avendo un impatto sulla salute:
in
alcune regioni si registra un aumento nel numero di decessi dovuti al calore e
in altre si assiste a un aumento delle morti causate dal freddo;
si osservano già alcuni cambiamenti nella
distribuzione di determinate malattie trasmesse dall’acqua e dai vettori di
malattie.
I
danni alle case, alle infrastrutture e alla salute umana impongono elevati
costi alla società e all’economia.
Tra il
1980 e il 2011 le alluvioni hanno colpito più di 5,5 milioni di persone e
provocato perdite economiche dirette per oltre 90 miliardi di euro.
I
settori che dipendono fortemente da determinate temperature e livelli di
precipitazioni come l’agricoltura, la silvicoltura, l’energia e il turismo,
sono particolarmente colpiti.
Se non
si instaura una inversione di tendenza volta ad una importante riduzione delle
emissioni di CO2 questi fenomeni dovrebbero intensificarsi nei prossimi
decenni.
“Ridurre
la popolazione mondiale
Contribuirebbe
a mitigare
il riscaldamento globale,”
Titola
“Le Monde”.
Presskit.it
– Redazione – (23 novembre 2022) – ci dice:
Non è
una fake news.
Le Monde il 9 novembre 2022 titola: “Ridurre
la popolazione contribuirebbe a mitigare il riscaldamento globale”, citando la
mission di” Démographie responsable”, una associazione che predica la
denatalità.
“E’ tempo di immaginare nuove
soluzioni per ridurre la fertilità umana, assicura, in una tribuna « Monde »,
(Mondo), l’associazione “Démographie responsable” (Demografia responsabile)”,
fondata alla fine del 2008, sul cui sito compare un contatore sempre in aumento
della popolazione mondiale.
“Incoraggiando
l’autolimitazione della natalità, la nostra associazione mira a lavorare per la
stabilizzazione della popolazione umana e la sua riduzione a lungo termine”,
scrivono tra i loro obbiettivi.
“Il nostro approccio prevede informazioni
sulle conseguenze della pressione demografica per le generazioni future, le
altre specie e l’ambiente.
Parallelamente
a questa informazione, ci diamo la missione, tra l’altro, di sostenere tutte le
iniziative a favore dell’educazione, condizione necessaria affinché tutti gli
esseri umani comprendano i pericoli ecologici legati alla sovrappopolazione”.
Si
chiedono tra le altre cose su Le Monde: “Dovremmo avere meno bambini per
salvare il pianeta?”
“L’anno
2022 è l’anno della consapevolezza. La questione delle risorse si pone in modo
brutale”.
Il
problema? Secondo quanto riporta l’articolo, sempre il riscaldamento globale e
le risorse di cibo per la popolazione mondiale.
“La
questione delle risorse alimentari era al centro dell’opera di “Thomas R.
Malthus”, che nel 1798 sottolineava l’impossibilità della produzione alimentare
di aumentare in proporzione alla popolazione, e quindi invocava una limitazione
della crescita di quest’ultima.
Tuttavia,
l’esplosione demografica globale (moltiplicata per 8 da Malthus) non ha
prodotto il previsto impoverimento di massa;
ma l’aumento della produttività agricola, che
spiega questo divario, sta ormai raggiungendo i suoi limiti”, secondo quanto
sostengono su Le Monde.
Nessuno
parla di Ogm o altre tecniche per aumentare la produttività della singola
pianta.
La
guerra in Ucraina è un altro dei problemi che pongono urgenza a queste misure.
“la questione dell’adeguatezza delle risorse ai bisogni è lungi dall’essere
scomparsa, all’inizio del XXI secolo.
Oggi
si concentra soprattutto sui bisogni energetici, la cui soddisfazione richiede
quella dei bisogni di beni e servizi:
il
conflitto innescato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia evidenzia
quanto le filiere produttive globali siano sensibili alla disponibilità di
risorse fossili e abbiano poco margine di manovra”, concludono.
Lasciamo
ogni commento ai nostri lettori, la notizia parla da sola.
(lemonde.fr/idees/article/2022/11/09/reduire-la-population-contribuerait-a-l-attenuation-du-rechauffement-climatique_6149100_3232.html)
La
catastrofica idea di ridurre
la
popolazione per difendere l’ambiente.
Tempi.it
- Aldo Vitale – (16/11/2022) ci dice:
Le
Monde ripropone la vecchia idea dell'uomo "cancro del Pianeta".
Contro-osservazioni
su un'ideologia dura a morire.
«Per
ridurre l’uomo in schiavitù non c’è pretesto migliore de “la dignità
dell’uomo”»:
così
“Nicolas Gomez Davila” aveva giustamente chiosato per evidenziare uno dei più
tragici e grotteschi, ma non per questo meno veri, insegnamenti della storia:
gli
atti più atroci contro l’umanità sono spesso compiuti e giustificati perché
messi in essere proprio per difendere l’umanità medesima.
Analogamente
si può pensare della proposta avanzata da Le Monde lo scorso 9 novembre in un
articolo dal seguente significativo titolo
“La
riduzione della popolazione contribuirebbe alla mitigazione del riscaldamento
globale”.
Secondo
questa idea, vi sarebbero esseri umani in sovrannumero che occorre ridurre
diminuendo la fecondità della popolazione del pianeta al fine di preservare
l’ambiente planetario e consentire una riduzione del riscaldamento climatico di
cui le attività umane sarebbero scaturigine.
Su una
simile proposta, in considerazione della sua potenziale incisività sulla
dignità umana, sui diritti umani fondamentali e sulla vita di milioni, forse
miliardi perfino, di esseri umani, non si possono che effettuare alcune
osservazioni critiche.
In
primo luogo:
l’idea
non è certamente nuova, essendo stata prospettata in termini simili già nel
lontano 2009 da “Sir David Attenborough,” celebre naturalista e divulgatore
britannico, esponente dell’OPT, cioè l’”Optimum Population Trust,” dalle
colonne del “The Telegraph”, e poi nuovamente nel 2013 allorquando ebbe a
definire l’umanità come una «piaga per il pianeta Terra» esortando alla necessità
dell’adozione di una politica di controllo planetario della popolazione.
Nell’ottica
di “Sir Attenborough”, così come sostanzialmente secondo l’attuale pensiero
espresso da “Le Monde”, il controllo della riproduzione umana – in senso
limitativo ovviamente – costituisce l’unica modalità per garantire un futuro
alla Terra e all’ecosistema planetario, sebbene si dimentichi che,
storicamente, tutte le politiche di ingegneria sociale, specialmente quelle su
grande scala, sono sempre state destinate non soltanto al fallimento, quanto
soprattutto a divenire l’anticamera o il risultato inevitabile
dell’instaurazione di regimi liberticidi e antiumani.
In
questa direzione sia sufficiente ricordare le politiche di sterilizzazione
forzata adottate in Svezia ben prima dell’avvento del nazionalsocialismo
tedesco o quelle cinesi sul figlio unico con aborti forzati e detenzioni per
maternità non autorizzate.
Insomma,
il passaggio dall’utopia del controllo sociale della riproduzione alla distopia
di leggi contrarie alla dignità umana è sempre molto breve e dovrebbe
consigliare, dunque, di rigettare simili predette idee per evitare di
trasformare l’intero pianeta in un grande campo di concentramento a cielo
aperto.
Rovesciamento
etico.
In
secondo luogo:
la
proposizione di simili soluzioni, del resto, è l’espressione più diretta di un
rovesciamento dei canoni etici in almeno due sensi.
In un
senso “orizzontale”,
poiché
al criterio etico della dignità umana fondata sul principio personalistico
viene sostituito quello dell’utilitarismo ambientalistico pur senza dimostrare
le ragioni per cui tale sostituzione è legittima e doverosa e soprattutto senza
rendere le motivazioni per cui il secondo sarebbe un paradigma eticamente
superiore al primo.
In
senso “verticale”,
poiché
si ribalta l’orizzonte di senso del paradigma creaturale secondo il quale non è
l’uomo per l’ambiente, ma l’ambiente per l’uomo.
Senza
dubbio sull’essere umano grava la responsabilità etica – specialmente per le
generazioni future (richiamandosi così il pensiero di “Hans Jonas”) – della
custodia dell’ecosistema planetario e dell’uso ragionevole delle sue risorse
senza che tale utilizzo sia causa di morte globale e devastazione totale, ma
tale responsabilità può essere davvero autentica soltanto se e nella misura in
cui l’uomo è realmente libero e quindi soltanto se è davvero se stesso e non
subordinato all’importanza di tutto il resto del creato o, peggio, a leggi o
sistemi socio-politici che possano violarne lo statuto etico e antropologico
con la limitazione forzata della fecondità e della riproduzione.
Qualche
domanda.
In
terzo luogo:
se già
dal punto di vista etico e teoretico una tale dottrina scricchiola e traballa,
dal punto di vista strettamente giuridico non si regge in piedi poiché
bisognerebbe rispondere ai numerosi seguenti interrogativi.
Chi
dovrebbe decidere la riduzione della popolazione?
Secondo quali criteri?
Sarebbe
in modo proporzionale a tutte le nazioni del pianeta?
O forse dovrebbero sopportare un maggior
sacrificio le popolazioni delle nazioni più industrializzate che maggiormente
inquinano?
O
forse, al contrario, le popolazioni dei Paesi meno industrializzati che
potrebbero essere visti come un peso in ragione della loro minore produttività?
Ancora:
la
riduzione delle capacità fecondative sarebbe una opzione facoltativa con
adesione volontaria o un obbligo imposto a tutta la popolazione?
Si
tratterebbe di metodiche irreversibili o reversibili?
Come
verrebbero rimodulati i cosiddetti “diritti riproduttivi” che oramai da decenni
si sono affermati negli ordinamenti di tutto il pianeta tanto per via
legislativa quanto per via giudiziaria?
Sarebbe possibile – e se sì, come e quando –
esercitare un diritto di ripensamento? Si tratterebbe di misure eterne o
temporanee?
Ci sarebbe la certezza inequivocabile
dell’efficacia di simili misure?
E se non dovessero funzionare come nelle
eventuali previsioni, cosa si dovrebbe fare?
Un
paradosso.
Insomma,
si comprende quanto fosco sia lo scenario all’orizzonte delineato da simili
inquietanti proposte e si evidenzia con maggior pregnanza quanto ideologiche e
anti-umane – e come tali anti-giuridiche – siano alcune delle soluzioni
prospettate dagli ideologi dell’attuale ambientalismo.
Si
palesa, in conclusione, tutto l’intrinseco paradosso dell’attuale ideologia
ambientalista la quale si determina a lottare per l’ambiente in nome e difesa
dell’uomo e finisce per lottare contro l’uomo in nome e difesa dell’ambiente.
«Così
nel 2050 la civiltà umana
collasserà
per il climate change»
ilsole24ore.com
- Enrico Marro – (27 giugno 2019) - ci dice:
Un’allarmante
analisi dei ricercatori del “National Center for Climate Restoration”
australiano delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale
supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni fatali dell'ecosistema
globale e colossali migrazioni da almeno un miliardo di persone.
Ecco cosa potrebbe avvenire anno dopo anno.
“Climate change”, cosa succede se non
fermiamo il riscaldamento globale.
Un
decennio perduto.
Tra il
2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi
del” climate change”, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le
risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo:
costruire
un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere
una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di
sotto dei due gradi.
L’ultima occasione viene clamorosamente
bruciata.
Il
risultato è che nel 2030, come avevano ammonito tredici anni prima gli
scienziati “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanthan” in una pubblicazione
scientifica che aveva fatto discutere, le emissioni di anidride carbonica
raggiungono livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni.
Nel
ventennio successivo si tenta di porre rimedio alla situazione, ma è troppo
tardi:
nel
2050 il riscaldamento globale raggiunge tre gradi, di cui 2,4 legati alle
emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del
pianeta al riscaldamento globale.
L’anno
2050 rappresenta l’inizio della fine.
Buona
parte degli ecosistemi terrestri collassano, dall’Artico all’Amazzonia alla
Barriera corallina.
Il 35% della superficie terrestre, dove vive
il 55% della popolazione mondiale, viene investita per almeno 20 giorni l’anno
da ondate di calore letali.
Il 30%
della superficie terrestre diventa arida:
Mediterraneo,
Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interna e sud-ovest degli Stati
Uniti diventano inabitabili.
Una crisi idrica colossale investe circa due
miliardi di persone, mentre l’agricoltura globale implode, con raccolti
crollati del 20% e prezzi alle stelle, portando ad almeno un miliardo di
“profughi climatici”.
Guerre e carestie portano a una probabile fine
della civiltà umana così come la intendiamo oggi.
Se si
tiene conto anche del “carbon feedback”, secondo diverse fonti tra le quali
scienziati del calibro di “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanathan”, esiste un
concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che
salirebbero a cinque gradi entro il 2100.
La civiltà umana non farebbe in tempo a
vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di
quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della
civiltà come la conosciamo oggi.
Una
china pericolosa in cui, come nota “Hans Joachim Schellnhuber “del Potsdam
Institute, probabilmente «la specie umana in qualche modo sopravviverà, ma
distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».
Il
vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune
“soglie di non ritorno” climatiche come la distruzione delle calotte polari e
il conseguente innalzamento del livello del mare.
“Soglie di non ritorno” molto pericolose che,
una volta oltrepassate, trasformerebbero il “climate change” in un evento non
lineare e difficilmente prevedibile con gli strumenti oggi a disposizione della
scienza.
Dopo il superamento di quei “punti di non
ritorno” il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l'azione
dell'uomo, rendendo inutile ogni tardivo tentativo di eliminare le emissioni.
Quello
della fine della civiltà umana è un rischio minimo ma non assente, sottolinea “Ramanathan”,
che lo stima al 5% («e chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di
possibilità di schiantarsi?», nota lo scienziato).
È oggi che dobbiamo agire, conclude lo studio:
domani
potrebbe essere troppo tardi.
LA
DISUGUAGLIANZA DA CO2
CHE
SOFFOCA IL PIANETA.
Oxfamitalia.org
– (21 settembre 2020) – Redazione – ci dice:
Disuguaglianza
emissioni di CO2: l’1% più ricco del pianeta inquina il doppio della
metà
più povera.
63
milioni di super-ricchi hanno emesso il 15% di CO2 mentre 3,1 miliardi di
persone solo il 7%.
Questo
è uno dei dati che fotografano un mondo in cui la metà più povera è costretta a
subire l’impatto dello stile di vita insostenibile di pochi milioni di persone.
Lo
denunciamo alla vigilia dell’Assemblea generale della Nazioni Unite che vedrà i
leader mondiali impegnati a discutere di sfide globali, compresa la crisi
climatica, nel rapporto” Disuguaglianza da CO2”, pubblicato in collaborazione
con lo “Stockholm Environment Institute”.
Dalla
ricerca, che analizza la quantità di emissioni per fasce di reddito tra il 1990
e il 2015, periodo in cui le emissioni di CO2 in atmosfera sono più che
raddoppiate, risulta che:
il 10%
più ricco è stato responsabile di oltre la metà (52%) delle emissioni di CO2 in
atmosfera;
di questo, l’1% più ricco è responsabile del
15%: più di quanto non abbiano contribuito tutti i cittadini dell’Ue e il
doppio della quantità prodotta dalla metà più povera del pianeta;
il 10%
più ricco ha consumato un terzo del nostro “budget globale di carbonio” (global
1.5C carbon budget) mentre la metà più povera della popolazione solo il 4%.
In altre parole, l’ammontare massimo di
anidride carbonica che può essere rilasciata in atmosfera senza far aumentare
la temperatura globale sopra 1,5 gradi centigradi – considerato dagli
scienziati il punto limite oltre il quale si verificherebbero catastrofi
climatiche – è stato già consumato per più del 30% dal 10% della popolazione
più ricca del pianeta;
le
emissioni annuali sono aumentate del 60%: il 5% della popolazione più ricca ha
determinato oltre un terzo (37%) di questo aumento; l’1% più ricco ha aumentato
la propria quota di emissioni 3 volte di più rispetto al 50% più povero della
popolazione.
Lo
stile di vita, di produzione e di consumo di una piccola e privilegiata fascia
di abitanti del pianeta sta alimentando la crisi climatica e a pagarne il
prezzo sono i più poveri del mondo e saranno, oggi e in futuro, le giovani
generazioni.
Gli
effetti della disuguaglianza da emissioni di CO2
Cicloni
violentissimi in India e Bangladesh, sciami di locuste in Africa, incendi e
ondate di calore senza precedenti negli Stati Uniti e in Australia.
Con
l’allentamento delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, le
emissioni di CO2 torneranno a crescere:
è essenziale
perciò ridurre del 30% la disuguaglianza da emissioni di CO2 globali entro il
2030 per non far aumentare la temperatura globale oltre 1,5 gradi centigradi.
Questo
implica una modifica netta delle abitudini della fascia più ricca del pianeta:
oggi la disuguaglianza da CO2 è talmente profonda che, anche se il resto del
mondo adottasse un modello a emissioni zero entro il 2050, il 10% più ricco
potrebbe esaurire le sue riserve entro il 2033.
Il
rapporto stima infatti che il 10% più ricco dovrebbe ridurre di dieci volte le
proprie emissioni pro-capite di CO2 entro il 2030, per fare in modo che
l’aumento delle temperature globali non oltrepassi 1,5 gradi centigradi.
I
governi devono cogliere l’opportunità di ridisegnare le nostre economie e
costruire un futuro possibile e migliore.
Occorre
porre un freno alle emissioni dei più abbienti e investire in settori a basso
consumo di CO2.
Allo
stesso tempo è sempre più determinante che i leader mondiali raccolgano
l’appello lanciato dal movimento “Fridays for Future”.
Milioni
di persone in tutto mondo il 25 settembre, in occasione della “Giornata
Mondiale di Azione per il clima”, fanno sentire la propria voce e chiedono un
cambio di rotta alle Istituzioni globali e ai Governi.
A
supporto di questo, anche quest’anno stiamo lavorando per organizzare, in
collaborazione con la “Regione Toscana, la “Marcia per i Diritti Umani 2020”.
Un evento, in programma il prossimo 8 ottobre,
che coinvolgerà migliaia di studenti, collegati virtualmente insieme al
climatologo “Luca Mercalli” per discutere di vivibilità e sostenibilità
ambientale.
Al
clima! al clima! E poi?
Apocalottimismo.it - Jacopo Simonetta – (Aug
15, 2021) – ci dice:
Disastro
clima.
Clima:
mentre alluvioni ed uragani devastano mezzo mondo e gli incendi l’altro mezzo,
è uscito il sesto rapporto dell’IPCC e prontamente si sono formati i consueti due “partiti”.
Da un
lato una maggioranza che lo ha ignorato o quasi;
dall’altra
una minoranza di soggetti che hanno gridato che “bisogna agire subito per evitare il
disastro”.
E poi?
Un
poco di storia.
Per
prima cosa, chiediamoci quanto ci sia di nuovo in questo rapporto.
Tanto
per farsi un’idea, questa è una carrellata non esaustiva di punti nodali
nell’evoluzione della scienza del clima e del suo molto graduale sfociare in
“grida di allarme” sempre più acute e, ciò nondimeno, inutili.
Almeno
finora, il futuro rimane “in grembo a Zeus”.
1824: “Jean
Baptiste Joseph Fourier” scopre lo “Effetto Serra”.
1896: “Svante
Arrhenius” calcola che la combustione industriale del carbone provocherà
un’alterazione della composizione dell’atmosfera ed un conseguente
riscaldamento del clima, ma non si accorge che il fenomeno è già iniziato.
1938: “Guy
Stewart Callendar” dimostra che la temperatura terrestre ha cominciato ad
aumentare fin dal 1850 e che questo incremento è strettamente correlato al
parallelo incremento della CO2 in atmosfera.
1957:
Roger Revelle dimostra che gli oceani assorbono una parte consistente di CO2
acidificandosi.
Non
sta quindi cambiando solo la chimica dell’atmosfera, ma anche quella
dell’idrosfera.
1958: Charles David Keeling avvia un monitoraggio della CO2 molto
più preciso di quelli precedenti e nel 1961 pubblica dati che dimostrano un
incremento costante di CO2, anno per anno.
1967:
Il primo modello climatico computerizzato prevede un drammatico incremento di
2,3 C° a fronte del raddoppio della concentrazione di CO2 equivalente rispetto
al 1850 (cioè passando da 280 a 560 ppm, nel frattempo siamo arrivati a quasi
450).
Le
proiezioni attuali sono molto più accurate, ma non sostanzialmente diverse.
1988:
“James Hansen” spiega al senato americano che il riscaldamento della Terra è
una realtà, che è quasi interamente dovuto alle attività umane e che le
conseguenze sono catastrofiche.
1990:
“Primo rapporto dell’IPCC “che conferma quanto sostenuto da “Hansen”, sia pure
in termini molto più edulcorati e “politicamente corretti”.
1992:
Avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo.
1700
scienziati di fama mondiale, fra cui la maggioranza dei nobel per materie
scientifiche, sottoscrivono e pubblicano un documento che indica nel
cambiamento del clima, nell’estinzione di massa e nella sovrappopolazione i
principali pericoli che minacciano la civiltà e finanche la sopravvivenza
specie umana.
1995:
Secondo rapporto dell’IPCC che conferma e precisa i risultati precedenti.
1998: “Michael
Mann”, “Raymond Bradley” and “Malcolm Hughes” pubblicano il cosiddetto ‘hockey
stick’ graph, che mostra che l’incremento delle temperature ha assunto un
andamento esponenziale dall’inizio del XX secolo.
2001,
2007, 2013: Tutti i successivi rapporti dell’IPCC confermano la sostanza delle
cose, chiariscono i dubbi residui, precisano osservazioni e scenari futuri,
aggravando ed abbreviando via via le prospettive.
2017:
Secondo avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo.
Sottoscritto inizialmente da circa 15.000
scienziati (poi saliti a 25.000) ribadisce quanto detto nel primo, ma con toni
assai più drammatici ed urgenti.
2021
Sesto rapporto dell’IPCC.
Per
chi volesse leggersi tutte le 4.000 pagine:
(ipcc.ch/assessment-report/ar6/;
mentre per chi si accontenta di un buon riassunto:
https://qz.com/…/what-does-the-ipcc-say-about-climate…/).
Alla
fin fine, il tutto si può però condensare in poche righe:
1 – Il
clima cambia in peggio ed è colpa nostra.
2 –
Gli strumenti, le analisi, i modelli, ecc. migliorano di anno in anno, cosicché
sappiamo che va sempre peggio sempre più in fretta.
Ad ogni rapporto gli effetti delle retroazioni che
contrastano il fenomeno vengono rivisti al ribasso, mentre quelli delle
retroazioni che riscaldano il clima appaiono sempre più potenti; le previsioni
sono quindi sempre più fosche e il riscontro dei dati conferma spesso le
ipotesi peggiori.
3 –
Niente di ciò che è stato fatto e proposto finora sfiora minimamente il livello
necessario non già per evitare, ma anche solo per mitigare la catastrofe.
4 –
Oramai la resa dei conti è cominciata e peggiorerà comunque, anche in caso di
provvedimenti seri. Ciò non toglie che questi siano ugualmente necessari e
urgenti perché “un po’ peggio” è comunque da preferirsi a “molto peggio”.
In
buona sostanza, sono almeno 30 anni che sappiamo quello che succede e,
indicativamente, quello che succederà, ma che si è fatto in proposito?
30
anni di fiaschi.
I
primi, blandi, tentativi di affrontare il problema risalgono agli anni ’90, con
il famigerato “protocollo di Kyoto”.
Senza scendere in dettagli, possiamo
distinguere una serie di fasi successive nell’approccio politico al problema.
La
prima fu improntata all’idea che i meccanismi di mercato avrebbero potuto
risolvere la situazione.
In sintesi, parte dei profitti realizzati
emettendo CO2 potevano essere investiti per rimuoverla e per favorire la cosa
furono introdotti complicati sistemi di compravendita di diritti ad inquinare e
doveri a compensare.
Il
risultato fu molta attività di lobby e di business, ma zero risultati pratici.
Preso
atto del fiasco, si puntò sull’efficientamento delle filiere, la parziale
sostituzione del carbone con il metano, ecc. nella speranza che una maggiore
efficienza d’uso avrebbe comportato una sostanziale riduzione dei consumi.
Purtroppo,
il risultato fu esattamente quello opposto, come si sarebbe potuto prevedere
sia sulla base di dati empirici risalenti fino a “James Jevons”, sia
dall’analisi termodinamica di “Ilya Prigogine”.
La
terza fase puntò soprattutto sulla diffusione di energie rinnovabili, molte
delle quali risultarono però ancora peggio di quelle fossili.
In
particolare, sovvenzionare l’uso del legname ha sortito effetti disastrosi
sulle foreste, mentre le possibilità di sviluppo dell’idroelettrico sono
risultate assai limitate in quando la maggior parte dei siti più idonei erano
già sfruttati da decenni, mentre la capillare diffusione di questi impianti ha
avuto un impatto devastante sui residui corsi d’acqua.
Solare
ed eolico hanno dato risultati assai migliori, ma anche loro non privi di
impatti e con limiti consistenti nelle potenzialità di sviluppo.
Ad
ogni modo, oggi coprono una frazione del tutto marginale dei consumi globali e
non è realistico che questa salga in misura e rapidità sufficienti ad avere un
impatto sul clima dei prossimi decenni (mentre saranno probabilmente molto
utili per ammortizzare le prevedibili crisi energetiche).
Intanto,
il differenziale da recuperare cresceva e per far tornare i conti si
cominciarono a considerare tecnologie sempre più estreme come l’estrazione
diretta di CO2 dall’atmosfera per iniettarla negli ex-giacimenti di petrolio e
gas, fino a fantascientifiche “geoingegnerie” di fattibilità ed efficacia
sempre più dubbia.
Al
meglio, per ora, abbiamo degli impianti sperimentali; più spesso abbiamo solo
delle ipotesi più o meno stravaganti e, comunque, niente di tutto ciò appare
realmente fattibile; perlomeno non entro i tempi necessari.
All’atto
pratico, la relativa riduzione dei consumi di USA, EU e Giappone è avvenuta
assai più in conseguenza della pertinace crisi economica che di tutto il circo
di chiacchiere e progetti che si sono messi in ponte.
Riduzione peraltro trascurabile rispetto
all’aumento che nel frattempo si è registrato nel resto del mondo ed in
particolare in Cina, che risulta oggi il maggior produttore mondiale di gas
climalteranti.
Dunque
un fallimento totale che necessita di una spiegazione perché ad esso hanno
comunque collaborato non solo politici ed imprenditori, ma anche migliaia di
tecnici molto competenti nei rispettivi campi.
I
motivi sono in realtà molti e non sempre gli stessi per tutto il periodo e per
tutti i paesi, ma in ultima analisi, il fallimento era inevitabile perché, fin
dall’inizio, il problema è stato affrontato dando priorità al sistema
economico, piuttosto che alla Biosfera.
In
pratica, quello che finora si è cercato e si continua a cercare è un modo per
salvare la civiltà industriale ed il capitalismo, non la Biosfera.
Un
approccio suicida, visto che è la biosfera che consente all’industria, al
capitalismo ed all’umanità stessa di esistere.
Ma
questo è un concetto che ancora non è penetrato nelle menti dei più e con buone
ragioni perché ammettere che per salvare noi stessi bisogna salvare tutto il
resto, significherebbe accettare di sacrificare noi stessi in misura molto
consistente.
Cioè rinunciare non solo al benessere, ma anche a
molte delle cose che in occidente diamo per scontate (a cominciare da
un’aspettativa di vita media ultra-ottuagenaria) e che nel resto del mondo
agognano da generazioni.
L’unico
modo realistico di contenere le emissioni abbastanza in fretta da incidere sul
clima prossimo venturo sarebbe, infatti, ridurre drasticamente i consumi finali
di tutte le forme di energia in tutti i paesi industrializzati del mondo.
Dunque razionare elettricità e combustibili,
nonché l’acqua, la carne e parecchi altri generi di prima necessità.
Bisognerebbe inoltre militarizzare molti
settori della società e prendere parecchi altri parimenti molto impopolari
perché deprimerebbero in modo sostanziale e definitivo gli standard di vita di
tutti coloro che non sono già decisamente poveri.
Insomma
una decrescita precipitosa e tutt’altro che “felice”, ancorché necessaria per
evitare ben di peggio.
Altre
opzioni forse erano praticabili 50 o 40 anni fa, ma non più oggi.
E
allora?
Sul
piano scientifico, credo che sarebbe interessante cominciare ad indagare le
retroazioni fra le conseguenze socio-economiche del peggioramento climatico
(siccità, alluvioni, ecc.) e forzanti climatiche principali (emissioni, ecc.).
Se c’è
una speranza di cavarsela, secondo me, è nella progressiva disgregazione del
tessuto economico mondiale e non nei piani dei governi che si fanno sempre più
fantastici man mano che la situazione degenera.
Commenti
Posta un commento