I globalisti universali contro i sovranisti identitari.

 

I globalisti universali contro i sovranisti identitari.

   

 

 

Perché “Rula Jebreal” non

ci ha capito una mazza.

Nicolaporro.it – Nicola Porro -Max Del Papa – (17 -6-2023) – ci dicono:

 

La visita di Musk e le deliranti accuse a Porro. Rula vede estremisti ovunque, tranne tra i suoi ex fidanzati.

Non chiedetemi perché ma a me Rula Jebreal rimanda in modo quasi proustiano a John “the Beast” Mugabi, il pugile ugandese che negli anni ‘80 arrivò a sfidare Marvis Marvelous Hagler.

Rula non è marvelous ma non è neanche una beat, è solo una che con le stupidaggini ci fa marciare i treni e si è costruita una curiosa, assai autoreferenziale carriera di analista politica dei due mondi;

 l’ultima ha a che vedere col nostro Nicola Porro, accusato di essere più o meno, anzi né più né meno, un suprematista bianco avendo intervistato Elon Musk, uno che se fa l’auto elettrica è di sinistra, se compra Twitter è di destra, se lo intervistano Concita o Damilano, magari spacciandolo per un migrante con gli stivali, è di sinistra, se lo intervista Porro è di estrema destra e a questo punto il povero Gaber si suicida.

Cos’è la destra, cos’è la sinistra?

Due apostrofi black nella prosa di Rula, copio direttamente da Nicola perché è sabato e non ho voglia di faticare:

“La giornalista definisce il conduttore come ‘un propagandista di estrema destra‘, paragonandolo a Tucker Carlson, ovvero l’ex conduttore di Fox News.

 Ma il peggio deve ancora arrivare.

 Secondo Rula, Porro sarebbe famoso ‘per i suoi feroci attacchi contro chiunque critichi Meloni e per aver ospitato teorie del complotto anti-vax e pro-Putin’”.

Ma come si fa.

 I feroci attacchi. Il propagandista. Porro come la Leni Riefenstahl.

Ma che cazzo.

Se c’è una critica che si può fare al conduttore di “Quarta Repubblica” è di essere fin troppo ecumenico, o garantista, come vi pare:

 le sue trasmissioni a volte rasentano i parterre d’antan di Michele Santoro, pieni zeppi di comunisti di tutte le fogge, old fashoned, new style, pseudoliberali, very liberal, stalinisti, lotta continua, centri sociali, climatini, tendine, sardine, e in più qualche onusta professoressa rimasta a sinistra della rivoluzione d’ottobre.

E come sbraitano tutti, liberissimi di svalvolare.

Dove minchia abbia visto Rula tanta faziosità non si capisce, forse da Fazio.

Per approfondire.

“Propagandista di estrema destra”.

 Il delirio di Rula Jebreal su Porro e Musk.

“Trattamento di favore?”

Macché: la verità sull’incontro con Musk.

Come ho portato Elon Musk a Roma.

Rula. Simpatica ragazza.

 Col suo metro, siccome Porro intervista Meloni, dovremmo concludere che lei è una nazista di stampo rosenberghiano essendo stata fidanzata con quello svalvolato antisemita di Roger Waters, riconosciuto e bandito da mezzo mondo (dopo essersi legata al regista ebreo newyorkese Julian Schnabel).

 O di stipare chissà quali scheletroni nell’armadio fin da quando si faceva fotografare dal “dio” di Hollywood Weinstein, poi degradato a porco:

la nostra former fisioterapista è così, passa dal massaggiare il potere a sculacciarlo, così si fa, il salto con l’asta sul carrozzone che passa, dal me too al black lives matter ce n’è sempre uno.

Ma sarebbe scendere alla sua logica più bulla che intelligente e sarebbe ingeneroso, troppo facile, troppo scorretto.

 Troppo Rula.

Come quando, appena ieri, raccontava il padre di Giorgia Meloni tipo un narcos colombiano lasciando sospettare che la figlia, pericolosa ultra fascista, ci fosse in combutta, siccome dimenticava di precisare che la premier non ci aveva più avuto a che fare dall’età di dieci anni e lo aveva formalmente ripudiato.

Cresciuta senza padre, ma lo omettiamo, non è rilevante.

Questa è l’informazione dei debunker, ma più alla Max Bunker, il Gruppo TNT.

La nostra ex modella delle borsette Carpisa, promossa commentatrice globale: prodigi del secolo scorso.

Si chiede Porro vagamente sconcertato: che faccio, la querelo o le suggerisco un analista?

In tutti i modi vaste programme, mon ami:

i giudici, riforma o meno, restano, come sempre, dei poveri comunisti, gli psycho pure di più, analisti, psicologi, terapeuti sono le professioni della modernità pubblicitaria che vanno dove li tira il consumo, quelli della Lombardia hanno appena aderito alla paccottiglia genderfluid, utero leasing, etero fecondazione, come se la normalità mentale fosse quella e un uomo e una donna che si incontrano e fanno figli, invece, una aberrazione della natura.

 E c’ha ragione Renato Zero, c’ha: Freud di coscienze ne ha stranite pure lui.

Jebreal non ha niente a che fare con questi, mentalmente è incurabile non perché tarata, tutt’altro, è perfettamente in control, lucida, lei ha una sua idea di etica, di cotica, di informazione che consiste nello sformare.

Se si pensa che dà del putiniano cospirazionista a Porro il quale sul Twitter di Musk sta in fama di zelenskiano atlantista e guerrafondaio.

Porro se lo conosci lo capisci:

gli piace talmente vivere, e lavorare, e stare bene, che non ha tempo per i fondamentalismi, le militanze, non gliene frega un cazzo, è l’ultima persona di questo mondo a volersi complicare l’esistenza.

 In più crede veramente nella vecchia faccenda di dar la parola a tutti, di far circolare le opinioni, meglio se contrapposte.

Ci si diverte, ci si intriga meglio che a giocare a tennis.

 Figurati se Jebreal può capire uno fatto così.

Our sweet Rula, la suffragetta che condanna i ricchi da (ex) sposata a un banchiere, per giunta figlio di un boss del giro Goldman Sachs.

Cosa è il globalismo, cos’è il no globalismo.

You know, a destra della sinistra, a sinistra della destra, non proprio nera, non esattamente povera, ma portabandiera delle nere povere, amica di Weinstein ma a fianco delle donne molestate da Weinstein, elitaria solidale, ebrea però palestinese, però israeliana, però amerikana, però anti amerikana, però italiana, però in Italia c’è razzismo però, surprise surprise.

 Esistenzialismi fluidi, traiettorie non binarie del successo.

 Non bastavano i lunatici e i mattocchi social, ci mancava pure l’ex ragazza Rula che svalvola in inglese, così fa più global.

 Alla vigilia del match, chiesero al manager di Mugabe se non avesse paura di incontrare Holger;

rispose il manager: “He too stupid to fear”, è troppo stupido per avere paura.

Del ridicolo, eventualmente.

(Max Del Papa, 17 giugno 2023)    

 

 

 

Sovranisti e globalisti: la

“battaglia” tra due ideologie perdenti.

Osservatorioglobalizzazione.it – (27 GIUGNO 2020) - ANDREA MURATORE – ci dice: 

Oggi col professor “Marco Giaconi”, che torna ospite delle nostre colonne e che ringraziamo per la grande disponibilità, dialoghiamo delle culture politiche dell’era contemporanea.

Quanto è reale la polarizzazione tra “sovranisti” e “globalisti”?

 

Professor “Giaconi”, una forte narrazione mediatica e politica, soprattutto in Europa, immagina l’attuale dialettica politica come uno scontro tra sovranisti, fautori della sovranità nazionale, e “globalisti”, aperti alle ricadute ideologiche, politiche ed economiche dei trasferimenti di sovranità.

 Parliamo di una contrapposizione reale o strumentale?

Le contrapposizioni semplici, adatte al basso livello attuale dei mass-media, sono sempre strumentali e spesso inesatte.

L’Italia è sempre stata divisa tra una pressione strategica dal Nord Europa, che data almeno dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, alla quale l’Italia partecipa repentinamente e un anno dopo, ma alla fine in funzione anti-tedesca, e una pressione strategica mediterranea, che riguarda anche i detentori attuali dell’egemonia nel Mare Nostrum, Usa e Gran Bretagna, ancora loro.

  Certo, con qualche new entry e con la Francia che non demorde affatto.

 Fino a che l’Italia, quindi, non si doterà di una Strategia Globale all’altezza dei tempi e della “realtà effettuale della cosa”, come diceva Machiavelli, questa polarizzazione rimarrà e produrrà la morte cerebrale e strategica dell’Italia, forse ormai anche quella economica, e la polarizzazione para-politica a cui Lei, nella Sua domanda, accenna.

 Mi ricordo che in Banca d’Italia, negli anni di Antonio Fazio governatore, c’era chi diceva che bisognava deindustrializzare “di brutto” l’Italia, fare cassa, come si era fatto con la svendita determinata dall’operazione “mani pulite” e successivamente ridurla a grande area turistica.

La destrutturazione del nostro Paese è uno sport al quale, da molto tempo, si sono addestrati in molti, alcuni dei quali a livello professionistico e olimpionico.

 Ecco, i due quasi-schieramenti che Lei cita sono entrambi portatori di formule molto abborracciate e spesso contraddittorie.

 Sia il centro-destra “sovranista” (al quale non si può più  aggregare Forza Italia, partito molto legato al PPE, che lo finanzia visto che Silvio Berlusconi lo usa poco per i suoi affari, che tratta direttamente con i Capi di Stato EU) fa anche riferimento all’ultra-liberismo di matrice thatcheriana, con proposte come la flat tax o anche con la simpatia per le idee di “Steve Bannon”, già consigliere della comunicazione di Trump, quindi questo destra dovrebbe essere per conseguenza, chi ti paga comanda, filo-britannico e quindi inevitabilmente antitedesco;

ma poi il medesimo schieramento si rifà allo statalismo di marca post-bellica e, detto senza polemica, fascista.

Ricordo poi qui che la Thatcher fu disarcionata dal suo stesso partito proprio per aver proposto la” poll tax”, nel 1990, comunale a un solo scaglione.

Il vecchio testatico medievale.

 Ci fu anche un affaruccio del suo oppositore, “Heseltine”, con degli elicotteri, ma questo è un altro discorso.

Delle due l’una: o si è liberisti, o si è filo-fascisti.

Sempre detto senza polemica alcuna. Poi, la simpatia della Lega per i siloviki (“uomini della forza”) di Vladimir Putin, allora, non dovrebbe mai trovare posto in una forza confusamente liberista e filo-americana, gli Usa hanno da sempre una memoria di ferro e una vendetta inevitabile, che gustano sempre freddissima.

 O stai con l’amico o con il nemico. Con la tua faccia.

 Allora sei sempre rispettato, e da entrambi, come accade quando la “X MAS di Junio Valerio Borghese” si arrese alle forze Usa con l’onore delle armi.

Poi “Borghese”, con la divisa da colonnello della “US Army Forces”, arrivò a casa sua, a Roma, accompagnato dal futuro Capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale.

Delle vendette Usa, ne sa qualcosa anche Silvio Berlusconi.

Un ingenuo quanti mai ce ne furono a Palazzo Chigi.

Vedremo questo attuale, ma siamo sulla stessa linea dell’infanzia. Chi non sa scegliere non sa governare.

Ma lo stesso discorso vale anche per la vasta area “globalista” tra il Centro e la Sinistra.

 C’è lo statalismo pasticcione, da Totò onorevole, dei Cinque Stelle, che tornano alla sinistra dalla quale sono in gran parte nati, e sembrano, nella loro propaganda, equiparare gli imprenditori a dei distributori di mazzette, con gli effetti che è facile immaginare.

C’è poi il “Partito Democratico”, che si è attaccato all’Europa in modo irriflessivo, come i vecchi comunisti che, quando c’era la partita Italia-Urss, facevano il tifo per Mosca.

Aspettano unicamente un aiuto, propagandistico e magari anche finanziario, ma al loro Partito, dall’Europa, come peraltro le altre forze politiche della destra, che aspettano di essere sostenute dai russi, dagli americani, o da qualche altro, magari gratis.

Perché sono belli? Ma lo sanno come si ragiona, da sempre, nelle cancellerie UE o non UE?

Si può facilmente immaginare cosa accadrà.

Le altre forze del centro-sinistra sono partiti personali (Italia Viva di Matteo Renzi, le aree alla sinistra del PD, il gruppo di Carlo Calenda) ma comunque tutto l’arco parlamentare italiano si sta frazionando in gruppi personali e “cordate”, come accade anche nella fin troppo famosa, e comunque hegeliana, società civile.

 Nella somma impotenza e incompetenza di quasi tutta la nostra classe dirigente, oggi la politica è quasi ovunque, come diceva “Frank Zappa”, “il dipartimento spettacoli del complesso militare-industriale”.

La politica, ma questo vale anche per gli altri Paesi occidentali, è ormai regolata secondo i canoni della pubblicità e deve fare poco o nulla, salvo che dividersi le tifoserie e portarle, talvolta, al calor bianco.

Entrambi i modelli sembrano avere una chiara connotazione anglo-sassone e americana.

I sovranisti riprendono diversi temi tipici del neoconservatorismo americano e dell’ideologia trumpiana “America First”, mentre il cosiddetto “globalismo” appare funzionale all’interesse delle élite liberal di Oltre Atlantico.

 Parliamo di un successo ideologico statunitense?

  Come Le dicevo per rispondere alla Sua prima domanda, i due modelli hanno certo, entrambi, tratti dell’ideologia attuale e recente Usa, e probabilmente la diplomazia coperta, che è gran parte della politica estera dei due schieramenti nordamericani, opera molto in questo campo.

Certi viaggi di politici italiani della “Prima Repubblica” erano sostenuti dalla diplomazia talvolta dei Repubblicani (Piccoli, per esempio) o dagli apparati centrali (Napolitano, che poi ne farà buon uso) o dai democratici (i socialisti, soprattutto).

 

L’Italia è il Paese, ancor oggi, più filoamericano della UE, malgrado certi rigurgiti di nazionalismo che, senza militari autonomi e finanze ugualmente autonome, fanno solo ridere.

O fai la tua Force de Frappe autonoma, e ti levi dai santissimi del Comitato Politico Ristretto della NATO, al quale, comunque, Parigi si è sempre seduta, in via privata.

Oppure fai gli interessi degli altri, e allora sono cavoli tuoi.

 Gli Usa, comunque, non abbandoneranno mai l’Italia, sia per la loro profondità strategica nel Mediterraneo, che si rafforzerà ulteriormente, sia perché vogliono un contrappeso all’area tedesca e la marginalizzazione strategica della Francia.

Certo, cambiando solo un poco il discordo, la cultura anglosassone è penetrata, ma è spesso la peggiore, comunque in gran forza in Italia, anche nelle accademie e nella ormai residua università.

È semplice, è piena di slogan che passano come risultati scientifici, è oggi perfetta per la massificazione ulteriore delle università e della “mass culture”.

 C’è oggi, al Sant’Anna di Pisa, scuola molto prestigiosa, chi insegna che la filosofia è “maschilista” e bisogna “femminilizzarla”.

 Roba da ridere, certo, ma si tratta pur sempre di una vittoria del paradigma culturale americano, dove ci sono docenti ad Harvard che affermano che “bisogna farla finita con la cultura dell’uomo bianco”.

Un impero che sta cadendo, gli Usa, si riafferma all’estremo con le sue cazzate etniciste.

Sperando di sedurre l’Africa, dove ormai la Cina la fa da padrona da oltre 14 anni, e la Russia sta entrando in forze. Auguri.

 Parafrasando “Freud”, dove prima c’era “Marx” oggi c’è la cultura liberal-radical Usa.

Anche il ’68 fu sostanzialmente una operazione Usa-Cina per destabilizzare i partiti comunisti, ma l’operazione è riuscita e comunque il paziente è morto.

 Per il collante del sovranismo, c’è oggi il cattolicesimo popolare dei” Family Day”, ma per il centro-sinistra c’è l’immigrazionismo, anch’esso irriflessivo, che però lo rimette in collegamento con la Chiesa di Papa Francesco.

 Staremo freschi, tra questi due fessi matricolati, ovvero destra e sinistra.

A proposito di letture “religiose”, figure come “Steve Bannon” tentano di ammantare di spirito apocalittico la battaglia sovranista, presentata come quesitone di vita o morte per la civiltà “giudaico-cristiana” contro il nemico di turno.

Che può essere, di volta in volta, l’Islam, la Cina, il Vaticano.

Quanto influiscono in questa lettura le fondamenta calviniste ed evangeliche degli Stati Uniti?

 

“Steve Bannon”, comunque, viene dai ceti popolari di origine irlandese e cattolica, ma questo, in una America in cui la cultura, anche quella non di massa (e lo fa ormai anche qui in Italia) è solo uno strumento primario di segmentazione per gruppi della popolazione, quindi sempre una forma di controllo sociale, vuole pure dire qualcosa.

La sua biografia politica lo definisce, senza dubbio alcuno, ma per un tecnico, un vero e proprio “agente di influenza”.

Con la sua struttura in Europa, finanzia oggi tutti i movimenti di destra o di centro-destra, anche quelli più distanti tra di loro.

 Teorizza una rivolta mondiale dei popoli contro le élite, rivolta che sarebbe già in corso.

Facile capire quindi cosa vuole davvero: adeguare alla politica estera Usa, anche a quella che verrà dopo Trump, tutta l’area filo-tedesca della UE, e poi sovvenzionare, ma sempre fuori dal controllo russo, i movimenti come il “Rassemblement National della Le Pen” e la “Lega di Matteo Salvini”.

 Giocare due parti in commedia, per permettere a Washington ampia libertà di manovra.

 L’Europa crede, Dio la perdoni, di essere sfuggita alle regole, scritte e non, che sono state definite dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma la caduta del Muro di Berlino è stata appunto solo un episodio di quegli accordi, non la loro scenografica rottura.

 Il “partito americano”, in Italia, lo ricordo qui, andava da una parte del PCI fino al MSI tutto intero, passando per i cattolici, riferimento primario di Washington fin dai tempi dello “special envoy Myron Taylor” con Papa Pacelli.

Pio XII fu un costante riferimento degli Usa durante il fascismo e la guerra, ma poi Mons. Montini fu successivamente un vero “amico” per gli americani.

Il modello politico e culturale di Bannon, tornando all’oggi, ovvero il popolo contro le élite, è divenuto un refrain di tutti i populisti, ma è tecnicamente sbagliato.

Un paretiano come me risponderebbe che ogni settore della società secerne naturalmente delle élite, anche i rapinatori di banche, i gelatai o i geometri.

Sempre che non si confondano tra di loro.

Non è mai esistita una società senza classi dirigenti, debitamente separate, et pour cause, dal resto della popolazione.

Tulle le società sono gerarchiche, ma si tratta solo di vedere quanto c’è di merito personale, nell’ascesa, e quanto di eredità (non ereditarietà) tra i figli di papà.

Lo dico sempre ai mei amici comunisti, le rivoluzioni non servono, aspettate una o due generazioni che il famoso “capitalista” si distrugge da solo.

Studi drogatissimi in America, vita spericolata, e poi l’ovvio fallimento.

I venditori di utopie sono comunque come i venditori di almanacchi, e io sono un fan, come direbbero proprio gli americani, di “Giacomo Leopardi”.

Soltanto che la destra italiana crede di essere “popolo”, o il suo megafono, cosa che peraltro Mussolini non fece mai, aggregando i nazionalisti prima, nel 1923, e qui c’erano Giovanni Verga, D’Annunzio, Alfredo Rocco e molti altri.

 Dopo, Mussolini farà perfino la coda ai grandi “commessi di Stato”, tra cui Raffaele Mattioli della Banca Commerciale e poi Alberto Beneduce, 33° della massoneria scozzese antica e accettata, Primo Sorvegliante del Goi, amico e “fratello” di “Ernesto Nathan”, primo sindaco ebreo e massone di Roma e, inoltre, parlo di “Beneduce”, militante socialista riformista.

 Sua figlia, Idea Nuova Socialista Beneduce, si sposerà con Enrico Cuccia.

La classe politica è quindi una parte irrinunciabile della élite, come tutte le classi politiche, e questo vale per i populisti della destra, mentre invece il centro-sinistra crede di essere quasi automaticamente élite, ma è spesso proprio “popolo”, perché non conta niente, proprio come molti dei suoi dirimpettai del centro-destra.

Nella irrilevanza, le due tifoserie si assomigliano, ma è tutto politica-spettacolo.

Il sovranismo pare la retorica ideale per coprire posizioni politiche che non riescono a gestire appieno la sovranità, stato di fatto che è problematico ridurre a un’ideologia: molto spesso, anzi, esso si risolve in uno sciovinismo pseudo-nazionalista.

Quali sono i vulnus principali dei cosiddetti sovranisti?

 

Certo, il ritorno alle sovranità nazionali è oggi impervio e, talvolta, ridicolo, viste le dipendenze della nostra economia del Nord, e non solo, dalle Catene del Valore che arrivano in Germania e poi vanno oltre.

 Quando, lo ricordo, perfino un caro amico di Cossiga, “Helmut Kohl”, era convinto di far entrare l’Italia solo al secondo turno dell’Euro, ci fu una telefonata notturna, piuttosto dura, del capo della Confindustria tedesca, che fece fischiare le orecchie al Presidente tedesco.

Credo che una simile telefonata sia arrivata, di recente, anche ad “Angela Merkel”, e con gli stessi toni, proprio quella “allieva di Kohl” che però, quando” la vedova di Helmut “si è avvicinata per salutarla, alle esequie del marito, nel 2017, si è ritratta e le ha detto: “manteniamo le distanze”.

Gli aneddoti, di cui era ghiottissimo Churchill, erano invece odiati da Hitler, vegetariano, analcoolico, ma pieno di droghe e di farmaci omeopatici, la famosa “medicina tedesca”.

Chi ha vinto?

 Certo, c’è da ricostruire una dignità nazionale italiana, e questo è il vero problema, in politica estera e di difesa, ma questo è un altro e ben più complesso discorso.

È questo, il concetto strategico ben declinato, il vero biglietto da visita che viene valutato nei veri consessi internazionali.

È come nel “Tight Club”: prima regola,non parlate mai del “Tight Club”, quarta regola, quando qualcuno dice basta, fine del combattimento.

 La civiltà giudaico-cristiana da difendere? Mah!

È un modo per unificare le politiche estere di EU e Israele, che però ha la sua e non sente certo altre ragioni.

 Anzi, l’Ue è, per i dirigenti di Israele, compresi i Servizi, una sentina di antisemiti e filo-arabi, per i loro grassi investimenti in UE e per il loro petrolio.

 Israele ha, della politica estera UE, una opinione perfino peggiore della mia. 

È per questo che c’è ancora. L’Europa è ormai, comunque, antisemita.

A quanto ammontano, Professore, i numeri dell’antisemitismo in Italia?

In Italia, secondo l’”Osservatorio Solomon”, e sono dati del gennaio 2020, il 14% pensa che Israele sia l’autore del “genocidio palestinese”, l’11,6% pensa che gli Ebrei abbiano un potere economico eccessivo, che, per il 10,7% gli Ebrei non si occupino della società in cui vivono, ma solo della loro comunità, per l’8,4% l’italiano medio crede che si sentano superiori agli altri e, in ogni caso, il 6,3% si è dichiarato apertamente antisemita.

La vedo male, quindi, con la questione della civiltà giudeo-cristiana.

I negazionisti della Shoah sono, sempre in Italia, ancora pochi, l’1,3% ma certamente non diminuiranno in futuro.

E sul fronte del rapporto tra Europa e Islam, molto spesso visto come fumo negli occhi dai sovranisti, qual è la sua posizione?

L’Islam è in Europa da moltissimo tempo.

 Al Andalus, l’Andalusia, fu rivendicata come territorio dell’Islam nel 2002 da Osama Bin Laden.

Anzi, l’”Europa identitaria” nasce dalle sconfitte dell’Islam sui Pirenei e nel Sud dell’Italia, dopo, peraltro, lunghe convivenze pacifiche.

 Il Sultano di Istanbul, dopo la cacciata dei Mori dalla Spagna, ma anche e soprattutto degli Ebrei, dal 1609 al 1614, pochissimi anni dopo la scoperta dell’America da parte di un esploratore genovese ingaggiato da Isabella di Castiglia, affermò pubblicamente che ringraziava il Re di Spagna Filippo III per la gran quantità di studiosi, mercanti, medici, sapienti, artigiani, banchieri che erano arrivati nel suo Regno grazie alla cacciata dei “mori”.

 Insomma, la questione è più complessa, come al solito.

 Ma non bisogna nemmeno dimenticare che, tra pressione demografica interna e esterna, la radicalizzazione del” jihad della spada”, che sta all’Islam tradizionale come il post-moderno plastificato sta a “Kant”, oltre all’espansione del mondo arabo, è sempre e scientemente un atto di guerra contro gli infedeli, come ha anche detto l’”Emiro del Qatar”, Tamim, nel 2007, tramite la rete” Al Jazeera in mano alla Fratellanza Musulmana”, e operante dal Qatar, ed ecco il testo dell’Amir, il “comandante dei credenti” nel Qatar: 

“la Conquista di Roma si farà con la guerra?

Non, non è necessario.

La conquista dell’Italia e dell’Europa significa che l’Islam tornerà in Europa ancora una volta, ma c’è oggi una conquista pacifica e prevedo che l’Islam tornerà in Europa senza la spada, la conquista si farà attraverso la predicazione e le idee”. E gli affari, aggiungo.

E proprio in un albergo di proprietà dell’”Emiro di Doha”, ma non a Roma, si riunisce sempre con i suoi referenti internazionali un ex-primo ministro italiano, che proprio niente sa, lo dico per esperienza, di queste questioni.

Quindi, l’UE avrebbe certo bisogno di un Israele che le desse una mano in Medio Oriente, dove si decidono molti dei suoi destini, e parlo solo della UE, per evitare la seduzione affaristica e ideologica islamista.

Gerusalemme farà comunque da sola, ovviamente, credo che ritengano l’UE un caso di malattia mentale e strategica senza medicine possibili.

 I Paesi europei, soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, saranno per lungo tempo alla canna del gas.

Qui non c’è da parlare di una teoria un po’ fasulla del rapporto tra ebraismo e cristianesimo, c’è invece l’urgenza della strategia.

Ironia della sorte che i nemici dichiarati dei sovranisti siano, molto spesso, leader e Paesi che dell’indipendenza e dell’autonomia di scelta fanno, nel bene o nel male, la loro stella polare.

Pensiamo all’Iran, alla “Cina di Xi Jinping, ma anche allo stesso “Papa Francesco”, tra i più severi critici dell’”ideologia neoliberista” mai messa veramente in discussione dai sovranisti.

Segno di una necessaria biforcazione tra “retorica sovranista” e sovranità?

  Noi, in Italia, abbiamo realmente abdicato a una vasta quota di sovranità che era comunque necessaria.

 Non perché è arrivata la sola UE, ma perché abbiamo seduto, nei consessi della UE, parteggiando ingenuamente per quello o quell’altro, senza una chiara e applicabile visione dell’interesse nazionale che è, come diceva Benedetto Croce del liberalismo, “né statalista né liberista, ma sceglie tra le varie medicine quella che serve al momento”.

Rileggere la “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” di “Don Benedetto”, al più presto.

 E a “Casa Spaventa”, dove Croce crebbe dopo aver perso i genitori e la sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883, egli si avvicinò al “marxismo di Labriola”, che conosceva molto bene i sacri testi.

Magari li rileggessero con lo stesso criterio, oggi.

Strano a dirsi, ma un discendente diretto degli “Spaventa “fu anche il capo di Gladio-Stay Behind a Milano e in Lombardia, era il mio amico e maestro Francesco Gironda.

 La Cina ha un rapporto debito/Pil è del 25%, oggi dopo o durante il coronavirus, mentre il debito non estero delle imprese cinesi non finanziarie è sul 155%.

 Il debito pubblico russo è oggi al 15% circa del Pil.

Il sesto più basso al mondo.

 Ecco la soluzione, chiaramente affermata da Vladimir Putin al Summit di Monaco del 2017.

“Se non ho molti debiti, sono libero dai condizionamenti esteri”.

Semplice, ma è proprio così che funziona, da sempre.

Veniamo al mondo liberal/globalista ora.

Esso ha pensato, molto spesso, che accettare ogni fattispecie della globalizzazione fosse una scelta inevitabile in un contesto di crescente interconnessione politica, economica e sociale del mondo.

 Quanto ha influito l’”ascesa di leader liberal di sinistra nell’accelerazione”, forse impropriamente cavalcata, della globalizzazione e dei suoi problemi negli Anni Novanta?

 

Devo essere, almeno inizialmente, brutale.

 Con la globalizzazione inizia la applicazione dei modelli della pubblicità dei prodotti di largo consumo alla politica e, soprattutto, ai processi elettorali, che già prima la loffia “Political Theory anglosassone”, la “Rational Choice”, aveva santificato, dicendo che l’elettore fa quasi sempre una scelta ottima tra i programmi contrastanti.

 Bravi!

Bischerata somma, come tutti possono osservare, ma che è servita come tappeto rosso per la globalizzazione.

 I russi ridotti alla fame dalla folle scelta di “Yeltsin”, la “Voucher Privatization del 1992-1994”, fu una distribuzione dei sistemi produttivi post-sovietici alla mafia, già all’opera con Stalin, peraltro, e anche alla nomenklatura del Partito, che era ormai quasi la stessa cosa.

In un suo vecchio libro, Kissinger racconta che un ministro dell’URSS gli raccontò, con dovizia di particolari, che la grande raffineria di petrolio che era sulla carta del CC del PCUS non esisteva, ma i finanziamenti da Mosca venivano divisi tra tutti coloro che l’avevano “creata” dal nulla.

 15.000 aziende furono privatizzate con i voucher, la mafia e il “partito” comprarono i voucher dei poveri per il classico e spesso realistico tozzo di pane, mentre la” Federazione Russa” stata passando la maggior crisi economica del dopoguerra, comparabile solo al disastro agricolo del 1930-’31 in Crimea e Ucraina.

Putin, uomo pratico come tutti quelli che escono dai Servizi, ma dal KGB si usciva davvero solo con i piedi davanti, seleziona la parte dei nuovi ricchi che si accorda con lui e il suo gruppo degli “oligarchi”, poi manda al macero tutti gli altri.

 Quando viene assassinato “Litvinenko” a Londra, che è in rapporto con un oligarca che non si è messo d’accordo con Putin, “Boris Berezkovsky”, il” FSB” faceva addestrare al tiro i suoi operativi con sagome che erano ricalcate sull’immagine di “Litvinenko”.

 I “liberal di sinistra” sono quelli che giocano su questa nuova e immaginaria cornucopia, che farà arrivare al Welfare europeo quei soldi che nascono dalla espansione globalizzatrice.

Staremo ben freschi.

 I soldi della spoliazione russa, ed era per questo che i dirigenti cinesi del PCC ridevano quando arrivò, nelle more della “rivolta di Piazza Tien An Mien”, nel 1989, “Gorbaciov” a Pechino.

“Bravo-immagino dissero i dirigenti di Deng Xiaoping-vuoi tenere in mano il tuo Paese immaginando che arrivino i capitalisti “buoni” e che non ci saranno rivolte sociali come quella che stiamo fronteggiando?”.

 Insomma, il mondo globalista, come lo ha chiamato giustamente Lei, è una accolita di ingenui che hanno operato con tecniche economiche e finanziarie sbagliate, e spesso dannosissime, pagando quasi unicamente i loro politicanti di riferimento, scelti sempre con criteri da testimonial pubblicitario, e poi facendo operazioni economiche e finanziarie semplici e sempre più a breve.

 “Mordi e fuggi” finanziario, giocando sulle valute, sui futures artificiali per i prezzi delle materie prime, sulla ingenuità delle popolazioni che avrebbero seguito il loro pifferaio magico o leader politico fino in fondo.

Sbagliato.

 Il cosiddetto Terzo Mondo è molto più evoluto, politicamente, del contadino dello Iowa, che comunque piace molto a Xi Jinping.

Una riedizione, quindi, dello spaccio di carta commerciale spesso di serie B o C, come fecero gli Usa in Francia poco prima che De Gaulle si rompesse le palle e ordinasse il pagamento delle partite bilaterali con franchi svizzeri, oro o sterline-oro, nel 1966.

De Gaulle, l’unico statista europeo degno di questo nome, altro che i “sovranisti” tutti chiacchiere e distintivo, credeva che il progetto di alleanza franco-tedesca non fosse solo contro l’URSS, ma potesse toglierci dai santissimi anche gli Usa.

 Peccato di ingenuità?

Non credo. Comunque, il primato della politica è inevitabile, l’economia e, soprattutto, la finanza, fanno tutto con operazioni organizzate, in frazioni di secondo, con i loro computer quantici e ben dotati di algoritmi aggiornati.

 Poi, il gioco degli asset contro altri Paesi, se ne vanno a far danni altrove.

 E sul momento.

 L’unica politica che può adattarsi a questa economia, quasi del tutto finanziarizzata, è l’”olio lenitivo” che Nietzsche, già “pazzoide”, ma non troppo, che egli vede scendere sui futuri “cinesini” addetti alla produzione.

Ora, i veri cinesini sono nella “gig economy”, nella “economia dei lavoretti”, nel terziario straccione (non voglio certo offendere questi lavoratori, ovviamente) e nelle classi politiche, come per esempio in Italia, che non favoriscono l’emigrazione delle imprese, salvo che per un fisco demente, ma vogliono “buscar il levante per l’occidente”, come diceva Cristoforo Colombo.

 Ovvero vogliono adattare l’industria che è rimasta in Patria alla concorrenza sul costo del lavoro e tutto il resto messa in atto dal Terzo Mondo, che incamera ancora aziende come se piovesse.

Una scelta, a dir poco, autolesionista…

Non faremo mai concorrenza a questi Paesi, è impossibile.

Ma, certo, possiamo ridurre la nostra classe operaia al nulla salariale, e gli imprenditori non ritorneranno lo stesso, anche se c’è, per l’alto di gamma, una quota di ritorni.

Le imprese italiane delocalizzate, tra il 2009 e il 2015, sono aumentate del 12,7%, fonte Teleborsa, con un totale, ma qui le statistiche sono molto difficili, di 36.000 imprese almeno che se ne vanno stabilmente.

E qui si tratta di PMI di successo, mica di patacche piemontesi con la erre moscia, salvate almeno quattro volte (e sulla quinta ci sarebbe molto da discutere) dal contribuente italiano.

 La concorrenza globale sui costi del lavoro e sulla sua precarizzazione è andata oltre ogni limite, in Italia.

Per fare cassa nel pagamento, quando occorra, dei titoli di Stato e per sostenere la spesa pubblica, ormai incomprimibile.

 Dobbiamo quindi inventare una formula produttiva del tutto nuova, fatta di nuovi prodotti, di adattamento rapido ai mercati, di prodotti globalizzati bene, come fecero, a loro modo, i manager di Stato che, dal “Codice di Camaldoli del 1943”, poco prima che il” Gran Consiglio del Fascismo sciogliesse il fascismo”, si costruirono una loro autonomia strategica di area cattolica, spesso garantita bene dai Servizi, altro che “deviazioni” dei miei stivali, nel nostro mercato naturale.

Ovvero, il Mediterraneo.

 Moro, Fanfani, Piccoli, poi Craxi, capirono, in modo diverso ma parallelo a De Gaulle, che nella lotta tra i Due Imperi c’era molto spazio anche per noi.

 E, allora, lo sfruttammo molto bene.

Insomma, Professore, oltre la retorica sovranismo/globalismo la via è ben segnata:

serve tornare a coltivare e pensare l’interesse nazionale, mettendo l’azione davanti a ogni retorica.

 

Ecco, una politica nazionale attenta ai suoi interessi strategici ed economici, un governo che è un po’ liberale, nel senso che non rompe troppo i santissimi alle imprese, ma che le indirizza in modo sensato e talvolta protetto verso i loro “mercati naturali”.

Che sarebbero tantissimi, se solo lì si volesse studiare bene.

Oggi, la SACE-SIMEST è ancora una buona struttura, ma avrebbe bisogno di una bella rinnovata.

Gli strumenti quindi li abbiamo, la “dottrina del nostro interesse nazionale” ancora no.

Che non è sempre opposto agli altri, anzi, talvolta, accade il contrario.

È qui il luogo naturale, per dirla con Aristotele, dove dovrebbe cadere la nostra politica estera, fuori dalle chiacchiere neo-nazionaliste o anche globaliste da Inno alla Gioia di Schiller-Beethoven.

Come se i nostri concorrenti UE ci dovessero togliere tutte le castagne dal fuoco. Sarà da ridere.

E, comunque, il musicista lo modificò non poco, l’Inno.

 Penso a un ritorno delle strategie nazionali o anche di area, ma senza stupidi nazionalismi, dopo che le tensioni dell’Islam e del jihad della spada saranno regionalizzate o sedate.

Si ritornerà a pensare in grande, finalmente.

 

 

 

Sovranisti vs Globalisti…

Tutto chiaro. O no?

Libertaeguale.it - Antonio Preiti – (29 Giugno 2019) – ci dice:

 

Stranissimo: le parole sono rigide e i fatti mobili. Si potrebbe sintetizzare così, l’incredibile situazione politica di oggi.

Quali parole, quali fatti? Vediamoli.

Andiamo al cuore della questione: qual è oggi la natura e la ragione della contrapposizione politica principale?

 È tra sovranisti e globalisti.

Sembra chiara, netta, limpida, ma non lo è, almeno se guardiamo alle cose che accadono.

Facciamo un passo indietro.

 Sul piano ideologico la contrapposizione era prima tra comunismo e liberalismo: idee contrapposte, società contrapposte, antropologie contrapposte.

 Poi è arrivata la socialdemocrazia a mischiare un po’ le carte, ma anche in questo caso la chiarezza non mancava: una società liberale attenta al sociale.

La contrapposizione destra-sinistra.

Adesso un passo avanti.

Quella che conosciamo meglio, la contrapposizione destra-sinistra, perché più recente, è la figlia della prima contrapposizione, ma non è ugualmente “limpida”.

Qui al modello contrapposto di società, si è sostituito un modello contrapposto di sensibilità, con la grande ambiguità sul ruolo dello stato.

Statalisti di sinistra e statalisti di destra hanno un po’ confuso le cose.

Siccome però restava sempre il problema di come indirizzare il frutto dello statalismo (cioè le entrate della tassazione) ancora la contrapposizione destra-sinistra reggeva.

A mano a mano che l’”influenza di Berkeley “cresceva nel mondo (il nome-simbolo sintetizza una visione della sinistra non più ancorata al sociale e all’economico, ma alle differenti sensibilità, in una parola, all’antropologia) la natura della sinistra si è trasformata, e così anche quella della destra.

Sempre meno scontro sociale ed economico, sempre più scontro sui simboli, sulle definizioni (di qui il dominio del politicamente corretto), insomma sulle parole.

 La contrapposizione sovranismo-globalismo.

Teniamo a mente queste differenze per arrivare finalmente a noi.

Oggi si dice che non ci sia più la contrapposizione destra-sinistra (anche se da sinistra si tende, pavlovianamente, a riproporla comunque e dovunque), sostituita da quella sovranismo-globalismo.

L’attrazione è fatale.

 I globalisti sono (sarebbero) per una società aperta; per lo scambio di idee, merci e persone; a favore delle ideologie “liquide”.

I sovranisti sono (sarebbero) per una società più riferita alla nazione;

per un rallentamento, se non cessazione, dello scambio di idee, merci e persone; per idee tradizionaliste da difendere, perciò rigide.

Benvenuti nel nuovo secolo, si potrebbe dire. Ma è proprio così?

 

 Che cosa significa ‘sovranismo’?

Prendiamo il sovranismo.

Detto in una parola: ciascuno per sé e (si spera) Dio per tutti.

Corollario implicito:

 se tutti fossero sovranisti, i problemi sarebbero risolti.

 Prendiamo il primo di questi problemi, cioè l’immigrazione dall’Africa.

 Salvini, in quanto sovranista, dice l’Europa s’accolli il problema di queste persone che cercano rifugio da noi.

 Questo sarebbe perfetto se tutti gli altri paesi europei fossero (o diventassero) coerentemente globalisti.

 Il leader con cui ha però maggiori sentimenti di vicinanza è Orbán, il re dei sovranisti, il quale, per essere tale, non vuole accogliere nessuno.

La signora Merkel non è sovranista, naturalmente, ma non vuole gli immigrati neppure lei, e neppure quelli che arrivassero da altri paesi europei, Italia in primis.

Macron è il nemico numero uno dei sovranisti e contro di loro spende parole infiammate.

 Però non accetta che la Francia accolga le navi del Mediterraneo. Come la mettiamo?

In sostanza sono tutti sovranisti nei fatti, ma divisi nel riferimento ideologico.

 Che vuol dire ‘globalista’?

Andiamo ai globalisti.

 Intanto, il ruolo di globalista sta meglio a chi ha una taglia maggiore.

Non è necessario, ma è più “naturale”.

Fondamentalmente abbiamo tre paesi globalisti: gli Stati Uniti, la Cina e la Russia.

Poi c’è un non-paese che è (sarebbe/dovrebbe essere) globalista per sua natura, cioè l’Europa, ma è appunto un non-paese, o meglio un paese non ancora compiuto (si spera che lo diventi).

 Trump vuole rafforzare la politica globale del suo paese rafforzando la capacità di produrre reddito, mette perciò nuovi dazi e affronta una battaglia commerciale globale.

Il paese globalista quasi per mandato divino (basta rileggere la Dichiarazione di Indipendenza di quel paese e i discorsi dai padri fondatori fino a Obama) agisce oggi da sovranista.

 La Cina, che insidia fortissimamente la leadership globale degli Stati Uniti, ha un programma globalista formidabile (si veda la loro politica in Africa, l’acquisto del debito americano e gli immensi investimenti nella tecnologia), ma è totalmente sovranista nella politica interna, improntata a quello che i sovranisti di tutto il mondo fanno o sognano di fare.

 Resta la Russia, ma il discorso, in scala molto ridotta, è pressoché uguale a quello che vale per la Cina.

L’Europa di tutto si occupa tranne che di rafforzarsi come sovrana di sé stessa. Perciò discorso rinviato.

Allora anche i globalisti, in fondo, rivelano, o come politica interna o estera, programmi che possono, senza troppe forzature, essere definiti sovranisti.

Ovviamente c’è un abisso incommensurabile tra la meravigliosa apertura interna della società americana, globalista per natura e gli altri paesi autoritari per vocazione.

 Però il segno sovranista che Trump ha impresso alla politica estera americana ha il suo peso.

Tutti sovranisti, allora?

È difficile negare totalmente questa affermazione, con i mille distinguo di cui si è detto o che si potrebbero dire.

Se così fosse che fine farebbe la contrapposizione che sembra così evidente tra sovranisti e globalisti?

O, per riformulare meglio la domanda, cos’è davvero la visione globalista?

Che natura ha? Dove si esplica?

È il nuovo sinonimo per dire sinistra?

Qual è il suo nucleo di verità, di emozione, di visione politica che si possa abbracciare, sentendo che questo abbraccio ci eviterà quel sovranismo autoritario a cui non desideriamo approdare?

Conviene dire anche quello che il globalismo non può essere.

 

Quello che il globalismo non può essere.

 

Non può essere assenza di identità.

Il cittadino del mondo è una fantasia: ognuno appartiene a qualcosa di terragno (la sua città, o il suo quartiere, o la sua nazione o qualunque altra cosa).

In fondo solo (o quasi) il pensiero cristiano propone un’identità universale fondata sulla persona).

 Pensate al progetto impossibile dell’esperanto.

 L’ipotesi è di una lingua universale, che prenda le regole migliori da ciascuna e le amalgami per farne una sola lingua, che possa essere parlata in tutto il mondo.

Progetto meraviglioso, ma meravigliosamente fallito.

 Ogni lingua crea e nutre una identità: togliere la lingua significa togliere l’identità.

 E chi davvero parla bene una lingua straniera, sa che gli è impossibile, se non si immedesima (o prova a farlo) nella cultura e nella realtà del popolo da cui quella lingua trae origine.

Non può essere scambio di merci senza nessuna regola.

Il vecchio Marx sosteneva che ogni economia capitalistica tende al monopolio.

Si sbagliava.

Ma si sbaglia anche chi pensa che l’era della finanza globale sia come la situazione di perfetta concorrenza e equa distribuzione delle risorse, ipotizzata dai manuali di economia e su cui si basano le leggi di libero mercato.

Oggi il fatturato delle maggiori aziende capitalizzate americane vale molto di più del Pil di interi paesi, e non irrilevanti.

 Detto in termini meno teorici: i salari occidentali sarebbero annientati dalla concorrenza sic et simpliciter dei lavoratori che vengono pagati un decimo o un centesimo di quelli occidentali;

le risorse naturali di un paese potrebbero essere acquistate con un semplice battito di ciglia da un’impresa top mondiale;

chi controlla le tecnologie potrebbe usarle per destabilizzare (o peggio) qualunque paese.

Perciò il commercio mondiale è causa di ricchezza per tutti, ma non può essere una ideologia senza limiti per nessuno.

Non può essere l’abbattimento dei confini delle nazioni. Demografia dell’Africa ed economia dell’Europa sono asimmetriche: la prima cresce a un ritmo esponenziale, la seconda è quasi ferma.

 La conseguenza è una spinta epocale verso l’Europa.

 I confini sono necessari, ma la porosità dei confini è altrettanto necessaria.

Detto più chiaramente: nessuno può pensare di abbattere i confini, materiali, ideali o astratti che siano.

Si veda al punto precedente dell’identità.

Però nessuno ha mai pensato (salvo i regressisti) che il confine sia un muro o una barriera impermeabile.

Un confine è qualcosa che è bene sia messo in discussione, superato, spostato ogni volta di un pezzo, sia materialmente sia idealmente.

 Avere un confine ed essere permeabili: oltre è impossibile andare.

Persino gli Stati Uniti, una delle rare nazioni che si è formata unendo stati diversi, piuttosto che dividendo stati esistenti, è una federazione che mantiene e coltiva la diversità tra gli stati.

Società aperta e società chiusa.

Allora, se le cose sono così complicate, se la differenza non sta nel sovranismo e nel globalismo, la frattura politica di questi anni (soprattutto di quelli a venire) sta da un’altra parte.

 Forse sta proprio tra una società aperta, occidentale, dai valori liberali e una società chiusa, dimentica della sua nascita, statalista, autoritaria.

Questo sì che può incendiare i cuori.

Questo sì che riconnette parole e cose.

Questo sì che parla della nostra identità in divenire.

(Antonio Preiti - Economista, docente all’Università di Firenze)

 

 

 

 

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“Impronta Ecologica”

Conoscenzealconfine.it – (18 Giugno 2023) – Redazione – ci dice:

Passo dopo passo, in silenzio, sta preparando la strada all’introduzione dei crediti di carbonio.

Gli articoli 9 e 41 della Costituzione sono stati modificati nel più assoluto silenzio e senza passare al vaglio del referendum popolare, proprio in quest’ottica.

Il “Green Pass” ha aperto la strada alla digitalizzazione di tutti i nostri dati ed ha permesso di costruire la griglia digitale all’interno della quale verranno introdotti anche i crediti di carbonio.

Il silenzio, la dissimulazione, la censura e la derisione di coloro che cercano di avvisare i dormienti del pericolo in atto, sono le armi che i burattinai utilizzano per instaurare la dittatura orwelliana senza che le masse se ne accorgano.

Chi si ricorda gli “ecologisti grulli” che un decennio fa parlavano di “impronta ecologica” senza averne capito il vero significato?

I risultati ora, sono sotto i nostri occhi e l’impronta stampata sulle confezioni alimentari…

(t.me/finedeigiochi2021)

 

 

 

 

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Così “Epstein” ha Trasferito

270.000 Dollari per Conto

di “Noam Chomsky”.

Conoscenzealconfine.it – (19 Giugno 2023) - Khadeeja Safdar – ci dice:

 

L’anziano accademico ammette di avere chiesto una consulenza amichevole al finanziere trovato morto in carcere.

Jeffrey Epstein ha versato 150.000 dollari a Leon Botstein (direttore d’orchestra e storico della musica svizzero ebreo americano, presidente del Bard College) e ha trasferito 270.000 dollari tra i conti di Noam Chomsky.

 La conferma dei due accademici dà un ulteriore sguardo a come il defunto finanziere caduto in disgrazia abbia fatto favori a coloro che si sono associati a lui.

Botstein e Chomsky si sono incontrati più volte con Epstein dopo che questi era stato registrato come molestatore sessuale, come ha di recente riportato il “Wall Street Journal”.

“ Chomsky”, attivista politico e professore, ha dichiarato al “Journal” che incontrava occasionalmente “Epstein” per discutere di argomenti politici e accademici.

“Botstein”, da tempo alla guida del “Bard College” di New York, ha dichiarato di aver incontrato “Epstein” nel tentativo di raccogliere fondi per la scuola.

I due fanno parte dei molti accademici, politici e uomini d’affari che si sono incontrati con” Epstein” negli anni successivi alla sua dichiarazione di colpevolezza nel 2008, per aver adescato e procurato una minorenne con lo scopo di prostituzione.

Nel 2019 è stato accusato di traffico sessuale ed è morto in carcere in attesa del processo.

In risposta alle domande del “Journal”, Bot Stein ha dichiarato di aver ricevuto assegni da un conto collegato a” Epstein” nel 2016 per un totale di circa 150.000 dollari.

“Bot Stein” ha detto di aver donato la somma quell’anno come parte di una donazione di oltre 1 milione di dollari.

 Un portavoce del “Bard College” ha confermato che la scuola ha ricevuto la donazione da “Bot Stein”.

 

Bot Stein ha dichiarato che Epstein lo ha designato come consulente e ha effettuato i pagamenti come se fossero stati compensi per quell’attività, ma ha detto di non aver svolto alcun lavoro di consulenza per Epstein.

 Un portavoce di “Bot Stein” ha dichiarato che i fondi erano un compenso per aver fatto parte per un anno di un comitato consultivo di” Gratitude America”.

“Epstei”n ha creato la fondazione nel 2012 e ha usato l’ente di beneficenza per indirizzare fondi a varie cause, come ha riportato il “Journal”.

“Non ho idea del perché abbia architettato questo piano”, ha detto Bot Stein. “Epstein non voleva firmare un assegno alla “Bard”, ha avuto pietà di me e mi ha detto: ‘Ti darò dei soldi e tu ne farai quello che vuoi’ “.

In una precedente intervista al Journal, Bot Stein ha affermato che Epstein avrebbe dato all’università 75.000 dollari in donazioni non richieste nel 2011, e che lo avrebbe incontrato una dozzina di volte, senza alcun successo nella raccolta di altri fondi.

In seguito, ha dichiarato di non ricordare i pagamenti del 2016 fino a quando non gli sono stati menzionati dal “Journal”, poiché nei registri della scuola non comparivano come donazioni da parte di “Epstein”.

“La cosa importante da riconoscere è che non ne ho beneficiato personalmente”, ha detto.

“Ogni anno fiscale faccio più donazioni filantropiche alla “Bard” e all’”American Symphony Orchestra”: compensi per la direzione d’orchestra, per scrittura, consulenze, discorsi, eccetera.

È per proteggere me stesso e il college dal sospetto che mi stia arricchendo sfruttando la mia posizione”.

In risposta al “Journal”, “Chomsky” ha confermato di aver ricevuto un bonifico di circa 270.000 dollari nel marzo del 2018 da un conto collegato a “Epstein”.

Ha detto che si è “limitato a riorganizzare i miei fondi senza sfruttare un singolo centesimo di Epstein”.

“Chomsky” ha spiegato di aver chiesto aiuto a “Epstein” per una “questione tecnica” che, a suo dire, riguardava l’esborso di fondi comuni relativi al suo primo matrimonio.

“La mia ex moglie è morta 15 anni fa, dopo una lunga malattia.

Non abbiamo prestato alcuna attenzione alle questioni finanziarie”, ha detto in una e-mail che ha inviato alla sua attuale moglie.

“Abbiamo chiesto consiglio a “Epstein”.

Il modo più semplice sembrava essere quello di trasferire fondi da un conto a mio nome a un altro, passando per il suo ufficio”.

“Chomsky” ha detto di non aver assunto “Epstein”.

 “È stato un semplice e rapido trasferimento di fondi”, ha dichiarato.

Quando, inizialmente, gli era stato chiesto del suo rapporto con “Epstein”, Chomsky” ha risposto al “Journal”:

La prima risposta è che non sono affari vostri, o di chiunque altro. La seconda è che lo conoscevo e che ci siamo incontrati occasionalmente”.

“Chomsky”, un” Gatepeeker”? Assolutamente sì!

“Chomsky” è stato anche un intellettuale che durante la pandemenza ha avallato la narrazione ufficiale schierandosi con il “Deep State”.

Un gatepeeker? Assolutamente sì!

Del resto, chi lavora per il “MIT” – la prestigiosa università dove Draghi di recente ha ritirato un premio alla carriera – non può essere un puro.

È arrivato il momento di fare piazza pulita dei falsi miti della resistenza antimondialista.

La vicenda di Chomsky dimostra che il cambiamento deve partire solo da noi e non dai vip del dissenso.

(Federica Francesconi – t.me/fedefrancesconi)

(Khadeeja Safdar)

(milanofinanza.it/news/cosi-epstein-ha-trasferito-270-000-dollari-per-conto-di-noam-chomsky-202305181849203249?refresh_cens)

 

 

 

 

SUL SOVRANISMO DEMOCRATICO.

Sovranisti e Macroniani.

Leparoleelecose.it – Paolo Costa – (24 settembre 2021) – ci dice:

 

Osservato dal punto di vista di un filosofo della politica formatosi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento – anni dominati dal dibattito tra liberali e comunitari – il repentino cambio di tenore della discussione nella sinistra italiana causato dall’esito delle ultime elezioni politiche è un fenomeno allo stesso tempo sorprendente (per la sua velocità) e prevedibile (negli esiti).

Per andare direttamente al punto, descriverei il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani (o macrosovranisti e micromacroniani, come mi piacerebbe chiamarli, se l’ironia non avesse effetti nefasti sulla qualità del ragionamento, soprattutto oggi, nell’epoca del sadismo blasé incentivato dai social network).

 Parlando in generale, i sovranisti sono accomunati da un’insofferenza spiccata verso la rappresentazione liberale della relazione tra i diritti come fonte di empowerment individuale e l’anonimo potere coercitivo dello Stato e del Mercato – una rappresentazione che considerano allo stesso tempo sbagliata, moralista e ipocrita – mentre i macroniani vivono tale ostilità verso la teoria e la pratica di un ordinamento sociale imperniato su procedure rigorose e innovazione dall’alto come il prodotto di una critica unilaterale, preconcetta e ingenerosa e, nelle sue punte estreme, come un rigurgito di barbarie che ha reso inopinatamente verosimile la prospettiva di una catastrofe politica ed economica anche in Europa.

Per molti aspetti, il nuovo dualismo ideologico rispecchia quello tra il costruttivismo liberale e il realismo comunitario, ma l’umore che domina la conversazione attuale è molto diverso da quello passato.

 In che senso? La prima differenza – la più macroscopica – è l’inversione dell’onere della prova.

 Mentre trent’anni fa gli esponenti della koiné liberale godevano di un vantaggio di posizione che faceva apparire tutti i loro avversari, a dispetto delle differenze, come dei neotradizionalisti, oggi il senso comune liberale è sulla difensiva.

Che cosa ha minato alle radici un’egemonia che a un certo punto era apparsa inattaccabile?

Per quel che vale, quella che seguirà è la mia interpretazione, pennellata a tinte grosse, del significato storico di questa inversione del campo di influenza intellettuale a cui aggiungerò alla fine qualche riflessione sui buoni motivi per resistere alla svolta sovranista nel nome di una visione della democrazia non meno critica nei confronti dell’eredità (im)politica del liberalismo.

La parabola storica del liberalismo.

Fin dalle origini il liberalismo è stato non solo una teoria del governo imperniata sulla salvaguardia delle libertà individuali, ma soprattutto una filosofia della civilité.

 Parlando di «filosofia della civiltà» mi riferisco essenzialmente all’invenzione e diffusione di un ideale di soggettività potenziata a cui corrispondono, dal lato della teoria, il primato sistematico dell’individuo sulla comunità di appartenenza, una visione procedurale della ragione e una concezione non paternalistica (e, in ultima istanza, non dialettica) del rapporto tra desideri e conoscenza.

 In un’ottica liberale, detto altrimenti, una concezione esile e volontarista dell’identità personale è la condizione per l’insediamento dell’idea di autoaffermazione come principio di legittimazione dell’ordine sociale e, tacitamente, anche come segnaposto dell’unica destinazione immaginabile del genere umano:

 la libertà dalle interferenze esterne in un piano di vita scelto dall’individuo in piena autonomia.

 

 

Nel liberalismo delle origini, fatte le debite eccezioni (Hobbes e Mandeville, su tutti) il potenziamento della soggettività mantiene una patina di nobiltà perché la libertà autentica dell’individuo si realizza non come capriccio, ma come progetto ragionevole.

 Si manifesta cioè nella forma seducente di un’autodisciplina spontanea, quasi che esistesse un’armonia prestabilita tra il desiderio umano e la razionalità strumentale, tra il soggetto desiderante e l’individuo deliberante, tra gli impulsi e i mezzi più idonei per il loro soddisfacimento.

 Le nuove discipline del corpo (per esempio le buone maniere studiate da Norbert Elias) costituiscono infatti una forma di soggettivazione il cui orizzonte ideale è il riconoscimento istintivo del proprio interesse più autentico e una forma di cooperazione basata non sull’altruismo, ma su una forma di egoismo socialmente non distruttivo.

È questa armonia prestabilita che è andata via via erodendosi a mano a mano che la società cooperante dei produttori e lavoratori si è trasformata per gradi in una comunità di consumatori e imprenditori del sé sempre più in balia di forze impersonali deresponsabilizzate sia dal lato del soggetto (vittima di un dedalo di desideri sempre più compulsivi) sia dal lato del mondo (la gabbia di acciaio di cui parlava Max Weber).

 In un caso da manuale di eterogenesi dei fini, l’effetto generale è stato un indebolimento crescente della soggettività, anziché un suo potenziamento.

È importante notare en passant come questa diminuzione del senso di padronanza del proprio destino è proceduta parallelamente a due processi all’apparenza indipendenti:

 (1) la progressiva spoliticizzazione delle società affluenti e

(2) il declino del potere di attrazione dei moventi ideali, di cui la crisi delle utopie politiche è soltanto il sintomo più eclatante.

 Osservati dal punto di vista degli individui, questi processi storici complessi ed enigmatici sembrano avere cause sia esogene sia endogene.

Tra le cause esterne un ruolo di primo piano spetta evidentemente alle trasformazioni economiche che hanno condotto alla globalizzazione del capitalismo e del suo modello di stabilizzazione dinamica basata su una forma apparentemente inarrestabile di distruzione creatrice.

Tra le seconde spiccano, da un lato, la diffusione di una concezione strumentale della politica e di una visione aggregativa dei beni comuni e, dall’altro, la perdita di radicamento nell’esperienza dell’idea che il destino personale dipenda in modo significativo anche dalla capacità di trascendere sé stessi mediante l’accesso a un dominio immateriale di contenuti ideali (verità oggettive, norme intersoggettive, beni architettonici, valori intrinseci, ecc.).

Con l’assottigliamento di questi contrappesi la soggettività moderna si è come dissolta nell’aria lasciando dietro di sé il suo simulacro nella forma di un bizzarro edonismo stoico che, memore della lezione del “barone di Münchausen”, spinge i suoi adepti a scommettere sulla propria autorealizzazione anche in un universo saturo di contingenza e caratterizzato da una moltiplicazione esponenziale e disordinata delle opzioni di scelta.

Democrazia e sovranità.

È da questa crisi del liberalismo in quanto senso comune della civiltà occidentale moderna che trae gran parte della sua forza persuasiva il realismo politico sovranista ed è sempre essa, di converso, a spingere i “macroniani” a insistere ancora di più sulla forza civilizzatrice della forma di vita liberale, vissuta ora ansiosamente come ultimo baluardo contro la barbarie.

Questa polarizzazione, a sua volta, accentua l’impressione di trovarsi di fronte a un conflitto tra l’élite (composta da coloro che non hanno grosse difficoltà a superare lo scoglio della socializzazione alla civilité) e il popolo (identificato con quanti invece faticano ad adeguarsi con successo al nuovo modello di personalità e sociabilità).

 È da tale tensione che scaturisce, infine, quel fenomeno politico registrato dalla maggioranza degli osservatori contemporanei e descritto in genere come la disponibilità di una porzione crescente dei cittadini delle democrazie occidentali a rinunciare a una quota significativa di una libertà che viene percepita come disabilitante – «negativa» in senso assiologico – in cambio di una condizione che viene immaginata invece come più sicura o, se vogliamo, di maggiore sovranità.

 

 

Il cambiamento appena analizzato concerne quindi il senso generale di una perdita di controllo sul proprio destino che i sovranisti hanno oggi buon gioco a sfruttare proponendo una radicale ri-politicizzazione delle questioni fondamentali dell’esistenza.

Nel loro orizzonte, in effetti, il concetto di sovranità funziona retoricamente come un surrogato del senso di” empowerment” che deriva dalla certezza tacita di poter influire sul proprio destino.

A quella che le persone percepiscono come una perdita di sovranità personale i sovranisti rispondono astutamente proponendo un recupero di sovranità politica che, significativamente, situano al livello intermedio dello stato-nazione: la più tipica delle invenzioni politiche moderne.

Già questo dovrebbe però far suonare un campanello d’allarme nelle teste di coloro che non sono insensibili al fascino di un appello alla politicizzazione del disagio esistenziale contemporaneo (e chi scrive appartiene a questo gruppo di persone).

La scelta dello stato nazionale come comunità di destino, infatti, non solo non è teoricamente innocente, ma è anche il sintomo di un punto cieco nel discorso sovranista, che ha una rilevanza speciale soprattutto per chi si pone l’obiettivo di declinare tale discorso in un’ottica socialista.

Provo a spiegarmi meglio.

Il primo nodo riguarda, per così dire, la diagnosi del tempo.

Se il sovranista è infatti uno che sostiene che la soluzione alla crisi del liberalismo risiede in un sostanziale recupero di sovranità da parte degli stati nazionali, la sua preferenza per una comunità che è non meno immaginata delle comunità cosmopolitiche a cui orienta idealmente le proprie scelte il cittadino liberale, è tutt’altro che ovvia.

 Anzi, proprio questo deficit di giustificazione porta alla luce un dato di realtà troppo spesso trascurato dai critici della globalizzazione:

il fatto, cioè, che, retorica della globalizzazione a parte, gli stati non hanno mai smesso di essere i principali attori sulla scena politica internazionale.

 Sono solo gli stati deboli che hanno perso la capacità di esercitare un controllo reale sul proprio destino.

Ma questa non è una novità nella storia umana.

Forse una volta la causa principale della perdita di sovranità era la debolezza militare e oggi è la fragilità economica, ma il risultato finale non cambia.

Da questo punto di vista, non è un caso che, preso atto della tendenza geopolitica a premiare entità statuali di dimensioni «imperiali» dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fallimento del progetto di unità europea si spieghi meglio con l’incapacità dell’UE di trasformarsi in uno stato sovrano a tutti gli effetti e di entrare in una competizione paritaria con le altre grandi potenze mondiali, che non incolpando un fantomatico progetto globalista.

Riletta in quest’ottica, l’insistenza sulla perdita di sovranità finisce così per rivelarsi per quello che è: una petizione di principio.

 Si riduce, cioè, a un appello accorato a completare o emendare il processo di costruzione di una forma moderna di statualità – compito storico per il quale, notoriamente, non esistono ricette funzionanti.

Il deficit argomentativo del discorso sovranista non si limita, però, alla diagnosi del tempo.

Un secondo punto debole è la sottovalutazione della questione politica per eccellenza in età moderna:

il problema, cioè, dell’autogoverno democratico.

 Identificare democrazia e sovranità popolare non è sufficiente infatti per rendere conto del primato della forma di governo democratica in materia di affermazione dei principi di libertà e giustizia.

Per certi aspetti, lo si potrebbe persino descrivere come un errore concettuale.

 Si può infatti ragionevolmente sostenere che, da un punto di vista ideale, il fine della forma di governo democratica non è tanto implementare un’entità misteriosa come la rousseauiana” volonté générale”, quanto piuttosto svuotare dall’interno l’idea moderna di sovranità, con cui l’ideale dell’autogoverno ha soltanto un legame contingente.

 L’esercizio dell’autogoverno presuppone infatti l’esistenza di uno stato sovrano robusto solo perché non c’è altro modo di salvaguardare la propria integrità territoriale di fronte ad altri stati che privilegiano la sovranità all’autogoverno (cioè all’ideale repubblicano del non-dominio).

Su questa intuizione, d’altro canto, poggiava la singolare miscela kantiana di repubblicanesimo, cosmopolitismo e federalismo.

Compresi in quest’ottica, gli appelli al rafforzamento identitario del demos non si giustificano da sé, quasi che fossero un requisito funzionale dell’autogoverno democratico.

Lo sarebbero, se la democrazia coincidesse con l’espressione della volontà popolare.

Ma non è così.

 La vera sfida delle democrazie contemporanee sta piuttosto nell’escogitare contesti di azione comune e spazi di identità collettiva sufficientemente inclusivi da rendere il pluralismo una risorsa politica anziché un fattore di destabilizzazione nella prospettiva dell’estensione degli ambiti di autogoverno. Idealmente, dal punto di vista democratico, una comunità politica funzionante non è esemplificata da uno stato che esercita pienamente la propria sovranità, ma da un popolo che prende forma intorno a una sfera pubblica che opera come teatro della pluralità dei punti di vista dei cittadini in condizioni di sicurezza, stabilità e solidarietà.

Una volta superato il dualismo, e il conseguente stallo, tra “sovranisti” e “macroniani”, sarà forse possibile ragionare insieme sulla vera grande questione a cui ci pone di fronte la crisi attuale del liberalismo e che, detto lapidariamente, consiste nella colossale spoliticizzazione della forma di vita occidentale e negli effetti imprevisti che questo fenomeno storico di lunga durata ha avuto sulla struttura della personalità degli attuali cittadini/consumatori/risparmiatori e, conseguentemente, sulla loro possibilità di riacquistare un senso affidabile di controllo sul proprio destino.

 

 

SE LA SINISTRA PROVA A FARE LA DESTRA.

Mimesis-scenari.it - EDOARDO GREBLO – (11 DICEMBRE 2019) – ci dice:

 

La triplice crisi – bancaria, monetaria e debitoria – esplosa nel 2008 ha messo in discussione l’egemonia neoliberale e offerto nuove possibilità alla costruzione di un ordine maggiormente democratico.

 Il paradosso è che di questa situazione hanno approfittato non i partiti “progressisti”, ma tutta una serie di movimenti anti-establishment provenienti soprattutto da destra.

 Il disorientamento che ciò ha provocato nei partiti della sinistra mainstream ha spinto – e continua a spingere – una parte della sinistra, quella “sovranista”, a mutuare temi e parole d’ordine dai movimenti populisti e sovranisti.

E perciò a indirizzare le ragioni del malcontento popolare contro i soliti capri espiatori agitati dalla destra: l’immigrazione incontrollata, le Ong, l’Unione europea, le burocrazie, le tecnocrazie, le eurocrazie, la globalizzazione eccetera.

Si tratta di una reazione (almeno in parte) prevedibile.

Dopo la caduta dell’Unione sovietica, la” sinistra mainstream” aveva aderito fideisticamente alla” ideologia globale neoliberista”,

nella convinzione che la giustizia sociale fosse possibile solo a condizione che il mercato potesse svolgere liberamente la propria funzione e che la politica avesse unicamente un ruolo di accompagnamento di processi economici sostanzialmente autonomi.

Invece di rivolgere la critica alle diseguaglianze e alla subalternità del lavoro che generano precarietà e insicurezza, la sinistra ha provato a rispondere alle ansie dei cittadini mobilitandosi a favore dei diritti umani e civili, considerati come sostitutivi dei diritti sociali.

 La denuncia delle storture sociali è stata così lasciata alle sinistre “radicali” oppure ai movimenti populisti e sovranisti, e cioè alle destre di vario orientamento, rivelatesi ben più capaci di comprendere le esigenze di protezione e sicurezza reclamate a gran voce da un numero sempre crescente di cittadini.

 Così, dopo avere constatato il (prevedibile) fallimento di una politica capace (forse) di attirare la sinistra dei ceti garantiti e cosmopoliti, europeisti e mondialisti, una fascia consistente del mondo “progressista” si è impegnata nel tentativo di recuperare il tempo e lo spazio politico ormai perduti provando a sottrarre la protesta sociale alle destre mutuandone lessico e obiettivi.

 Si tratta di una prospettiva sbagliata, e per più ragioni.

Innanzitutto, la xenofobia dovrebbe essere qualcosa di moralmente inaccettabile per chiunque si riconosca nella tradizione, nell’eredità e nei valori che sono patrimonio della sinistra.

Ora, molti, probabilmente la maggior parte, degli atteggiamenti e delle norme morali si sono storicamente rivelati convincenti solo in comunità solidaristiche, dove cioè gli appartenenti ritengono che vi possa essere un rapporto di reciprocità che immediatamente colleghi le prestazioni alle ricompense – e quindi vi siano giustificate ragioni pratiche per essere “giusti”.

Questo tipo di comportamento morale richiede una chiara definizione dell’appartenenza, in modo che non vi siano esitazioni quando si tratta di capire chi è membro del gruppo e di chi non lo è.

 La solidarietà dei movimenti sindacali si è nutrita proprio di appartenenze di questo tipo.

Gli operai di un certo ramo dell’industria erano operai di quel ramo dell’industria, e non i membri di una classe lavoratrice più ampia.

 Ma la conquista storica dei partiti operai e socialdemocratici è stata proprio quella di saldare queste solidarietà particolari a quelle più ampie – non distruggendole, ma subordinandole a una morale di tipo universalistico basata sulla (ma non limitata alla) appartenenza di classe.

Di fatto, per la maggior parte del XX secolo, “universale” è stato sinonimo di “nazionale”.

 Questa sorta di equivalenza nasceva da una sintesi tra calcolo pragmatico (lo Stato-nazione era una struttura politica democratizzabile, mentre le strutture sovranazionali erano prive di autentica legittimazione) e un appello alle forme di solidarietà costruite sulla base della forza socio-integrativa garantita dall’appartenenza alla “nazione”, la sola realtà sovraindividuale di grandi dimensioni capace di creare vincoli di lealtà tra persone fino allora reciprocamente estranee.

 La moralità universalistica e ugualitaria della sinistra ha sottolineato il primo aspetto;

le tendenze esclusiviste ed escludenti della destra il secondo.

L’equilibrio tra questi due aspetti è venuto meno quando lo Stato-nazione ha perso la capacità di governare autonomamente lo spazio economico e non è più stato in grado di costruire argini politici e giuridici in grado di porre rimedio alla precarietà e alla insicurezza esistenziale di massa.

 Al bisogno di protezione e sicurezza di gran parte dei cittadini la destra ha saputo rispondere con forme di unificazione e stabilizzazione identitaria strutturate per combattere un nemico quasi sempre costruito ad hoc, e in questo modo è diventata la principale beneficiaria del disorientamento prodotto dalla globalizzazione.

Per adeguarsi a questo mutamento, e per non perdere ulteriormente terreno politico, una certa sinistra, la sinistra “sovranista”, si è sentita in dovere di gettare alle ortiche la morale universalistica ed egualitaria che ha caratterizzato tanta parte della sua storia migliore a favore di una concezione esclusivista ed escludente dell’appartenenza.

Invece di interrogare radicalmente i modelli economici vigenti e le loro contraddizioni, la sinistra che prova a fare la destra  vede il nemico nelle “parti” che non rientrano in un’idea totalizzante di popolo.

Sostenere, per esempio, che i migranti “rubano” il lavoro ai nativi, si adattano a mercati del lavoro che richiedono una manodopera irregolare e priva di tutele e determinano una corsa al ribasso dei salari è sin troppo facile, perché i migranti sono realtà ben più concrete e visibili di astrazioni come le oligarchie economiche e finanziarie, il capitale globale o i fantomatici “mercati”.

 Ma tutto ciò non solo non significa avanzare una critica di sinistra al capitalismo, ma significa anzi piegarsi al linguaggio di chi sfrutta cinicamente il malessere dei condannati all’esclusione culturale, alla marginalità, all’irrilevanza sociale, preoccupati per la loro precarietà economica e per ulteriori forme di declassamento sociale.

In questo modo, lungi dal sottrarre spazi e parole d’ordine alla destra, ciò che la sinistra ottiene sposando questi temi è legittimare il messaggio dell’estrema destra, unendosi involontariamente a essa per travolgere gli argini morali che avevano contribuito a impedire il dilagare del sovranismo populista di destra.

Non è casuale che violenze e intimidazioni contro migranti e persone di origine straniera siano cresciuti in maniera esponenziale dopo il voto per la Brexit, l’elezione di Donald Trump e l’ingresso della Lega al governo.

 La crescita dei crimini d’odio e di matrice discriminatoria è indicativa di una tendenza generalizzata, che ha favorito lo sdoganamento di linguaggi e sentimenti, fantasmi e spettri che le generazioni nate nel dopoguerra non avevano avuto modo di conoscere direttamente.

 La ferocia verbale esibita nei confronti degli “altri” è naturalmente sempre esistita, ma la sinistra “storica” (e la cultura democratica in genere) ha saputo fare da filtro agli istinti distruttivi riuscendo a immetterli nel sistema istituzionale dopo averli depurati.

All’odio che nasce dalla paura di chi si sente vulnerabile e cerca protezione e sicurezza la sinistra non può rispondere agitando gli stessi sentimenti primitivi e lo stesso linguaggio, nutrito di risentimento e rancore, adottato dalla destra, magari spuntandolo degli aculei più velenosi, ma solo sfidando la destra sulle politiche del lavoro e su un’idea diversa, non gerarchica, di Europa.

In terzo luogo, i singoli Stati nazionali non possono da soli regolamentare un’economia globale.

Ci sono tre possibili risposte in proposito.

 L’adattamento: l’economia globale funziona al meglio quando la politica lascia fare ai mercati e all’economia globale.

Questa è la posizione dell’estrema destra neoliberale, che può quindi lasciare alla destra nazionalista il compito di agitare il fantasma del nazionalismo servendosene come di un’arma di distrazione di massa.

 Il riflesso sovranista:

sigillare lo Stato-nazione dalle pressioni globali attraverso il protezionismo.

Questo è l’approccio del nazionalismo anti-globalista, sia di destra che di sinistra, che alimenta l’immagine di un mondo in cui i commerci si contraggono, le economie si riducono di scala e dove le relazioni tra Stati divengono potenzialmente ostili.

 La risposta democratica:

costruire coalizioni tra gli Stati-nazione e le organizzazioni internazionali in grado di regolare le transazioni globali.

 Questo è l’approccio dei neoliberali moderati e dei socialdemocratici.

È il più difficile, perché richiede un accordo tra i diversi Paesi, ma è l’unico modo per combinare i vantaggi del commercio globale con standard decenti di condotta economica, rivisitando la strategia fondamentale della socialdemocrazia: rendere il capitalismo socialmente responsabile.

  È ormai diventato di routine assecondare ogni manifestazione di risentimento contro tutte le élites, politiche, economiche o mediatiche, ma è invece contro le élites illiberali e anti-liberali, nelle quali traspaiono esplicite declinazioni antisistema e anche antidemocratiche, che occorrerebbe ri-costruire un progetto politico-culturale capace di riprendere e aggiornare in un’ottica socialdemocratica il rapporto tra capitale e lavoro.

Perché, anche se lo slogan della” sinistra sovranista” sembra riecheggiare quello di Marx, “proletari di tutti i paesi unitevi!”,

implica una chiosa spiacevole: sì, gli uni contro gli altri.

 

 

 

Alexander Dugin: «L’Italia è l’inizio

della grande rivoluzione populista

che cambierà il mondo»

linkiesta.it - Dario Ronzoni – (23 giugno 2019) – ci dice:

 

Il filosofo russo “Alexander Dugin”, amico del presidente “Putin” e sostenitore dei “movimenti populisti” non ha dubbi:

“La lotta contro il mondialismo atlantista passa di qui” e con questa l’Europa troverà la libertà, anche grazie all’aiuto della Russia.

 

Questo non è un momento storico come gli altri.

Questo è il momento in cui ha inizio la «grande rivoluzione anti-liberale»:

quella del popolo contro le élite, del diritto del cittadino contro il diritto dell’uomo, dell’identità nazionale contro la non-identità globale.

In altre parole, come spiega il filosofo russo Alexander Dugin, controverso ma notevole personaggio dell’estrema destra russa, è l’ennesimo scontro tra “civiltà di mare” (mercantile, dinamica) e “civiltà di terra” (statica, tradizionale).

Scontro che in questo caso cambierà le sorti dell’Europa e, si immagina, del mondo intero.

Arriva a Milano per presentare insieme al filosofo “Diego Fusaro” il suo ultimo libro, “Putin contro Putin”, edito dalla casa editrice “Aga”.

 Dugin è noto per aver elaborato una “Quarta Teoria Politica” (che supera fascismo, comunismo e liberalismo) ma soprattutto per la sua vicinanza al presidente russo Vladimir Putin («Non tanto mia – precisa – quanto delle mie idee»).

 E sono idee piuttosto chiare, in particolare in geopolitica:

«per l’Europa questo è il momento migliore» perché «oggi ha la possibilità di ritrovare la sua sovranità, il suo ruolo del mondo».

Può ancora «ritornare libera» – ma, come è intuibile, non liberale – «proprio grazie all’aiuto della Russia»

Partiamo proprio da qui:

cosa intende quando parla dell’aiuto della Russia?

Come è noto, dal punto di vista geopolitico ci sono tre poli:

gli Usa, con la loro enorme potenza, l’Europa, che in passato è stata indipendente e sovrana e ora è diventata una colonia strategica degli Stati Uniti – è questo il senso della parola “atlantismo”, nata proprio con il “dominio americano” – e infine la Russia.

Un terzo polo che non è europeo né asiatico ma eurasiatico: una novità rispetto al dualismo della Guerra Fredda.

 Ora: oggi la Russia è più debole rispetto ai tempi dell’Unione Sovietica, ma più forte rispetto ai tempi di Eltsin, in cui rischiava il crollo.

Non ha più una funzione di dualismo contro gli Stati Uniti (ruolo che tocca alla Cina) e, soprattutto, non rappresenta più un pericolo né una sfida per Europa e Stati Uniti.

È nella posizione di essere, invece, la sua salvezza.

Cioè?

Oggi, con Trump al governo negli Stati Uniti e con una Russia forte ma non minacciosa, l’Europa ha la possibilità di ristabilire il suo ruolo geopolitico.

E per questo credo che questo sia il momento ideale.

Non si tratta di abbandonare gli Usa per abbracciare la Russia, come sarebbe potuto succedere durante la Guerra Fredda.

No: la Russia non ha né le pretese né le risorse, per occuparsene.

L’Europa può, oggi, affermarsi con un suo ruolo indipendente sia dagli Stati Uniti che dalla Russia.

Ma seguendo un suo cammino di sovranità sull’esempio dato dalla Russia.

 

 

Ma come funzionerebbe questa riaffermazione di indipendenza?

 L’Europa, oltre a essere poco libera, non è nemmeno unita.

Ad esempio, attraverso la formazione “Grande Europa” immaginata da Putin, che arrivi dall’Atlantico fino a Vladivostok.

 In altre parole, con un’alleanza tra Eurasia ed Europa occidentale.

 Perché ciò avvenga, gli alleati naturali sarebbero alcuni Stati europei importanti, cioè i francesi e tedeschi, che sono il centro del continente.

 Del resto è da tempo che la Russia cerca rapporti e contatti più stretti, soprattutto con la Germania e, in via politica con la Francia.

 Stava quasi per realizzarsi un asse Berlino-Parigi-Mosca in occasione della guerra in Iraq, ma poi è fallito.

E il motivo è sempre lo stesso.

 I nemici, in particolare, sono sempre gli stessi.

I populismi distruggeranno questa Unione Europea.

Ormai è impossibile fermarli:

la Ue non è più rappresentativa e non lo può nemmeno essere perché non corrisponde ai desideri e alla volontà del popolo.

E chi sono?

Gli atlantisti, i globalisti, i mondialisti che mantengono il controllo sull’Europa. E il risultato logico è la sua decadenza, il suo declino. È per questo che i Paesi più sovrani, cioè quelli che vogliono affermarsi come europei, hanno già cominciato la loro rivolta contro questa Unione Europea.

Paesi “più europei” perché portano avanti un europeismo anti-Ue?

Esatto.

L’Unione Europea deve uscire da questa situazione indefinita, in cui è contesa dal polo atlantista e filo-americano, e un altro polo che – attenzione – non è russo, ma è europeo.

 Vive un’esitazione tra due posizioni come durante la Guerra Fredda, quando oscillava tra America e Russia, ma stavolta oscilla tra America (intesa come polo atlantico) ed Europa, intesa come l’Europa delle radici.

 Oggi l’Unione Europea non è più europea e non vuole essere europea.

E questa è la vera origine delle tensioni drammatiche tra Italia e Ue, tra Italia e Germania.

Mi faccia capire: esiste un’Europa più europea e una meno europea?

Diciamo che l’Europa ha perso la sua identità geopolitica.

 E allora l’attitudine negativa, quasi distruttiva, da parte di Italia, Austria, Ungheria (l’altra Europa) è la logica conseguenza dell’assenza di volontà e di strategia di autoaffermazione da parte delle istituzioni centrali.

E la soluzione quale sarebbe?

Semplice.

Il ritorno dell’Europa a una strategia sovrana e indipendente da Usa e da Russia.

Questi piccoli sovranismi nazionali cui assistiamo non si riconoscono nell’Europa globalista, ma chiedono un ritorno al sovranismo europeo.

 I primi passi, per fortuna, li abbiamo visti con le parole della cancelliera tedesca Angela Merkel sull’immigrazione.

 O con l’annuncio dato da Francia e Germania di voler organizzare un Consiglio di Sicurezza diverso da quello della Nato.

Sono tendenze politiche generali, ma chiare.

Ma questi “piccoli sovranismi nazionali” non promuoveranno piuttosto interessi locali?

Dipenderà da cosa faranno Francia e Germania.

Se cambieranno il loro atteggiamento nei confronti degli Usa, riaffermando la loro volontà di indipendenza e sovranità, allora cambieranno anche i sovranismi nazionali.

 Se al contrario continueranno con la linea attuale, allora i populismi distruggeranno questa Unione Europea.

 Ormai è impossibile fermarli: perché la Ue non è più rappresentativa, non lo può nemmeno essere perché non corrisponde ai desideri e alla volontà del popolo.

Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini.

Quelle fanno i colpi di stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz.

Destra o sinistra, non conta più.

È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze.

Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace.

Per i liberali l’identità una cosa da distruggere.

Ma distruggere l’identità significa distruggere il popolo: da qui nasce il populismo, che altro non è che l’accusa fatta al popolo di essere popolo.

In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro.

È il punto simbolico più grande.

 I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile.

 

Quale?

Questo: l’ideologia liberale dominante si fonde sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino.

 È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo.

Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini.

È così.

Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.

E allora il popolo ha una reazione: sarà pure viscerale, sarà organica, ma va al punto perché ha una sua origine politica, ideologica, metafisica.

 Resiste, anzi combatte questa ideologia.

E allora succede che il semplice migrante, la semplice nave che li trasporta – elementi che di per sé non avrebbero alcun interesse sociale – diventano in questo campo di battaglia qualcosa di più grande:

il segno della grande scelta di radicalità di questa civiltà.

Si spieghi meglio.

I liberali insistono in questa ideologia di forte ostilità al popolo.

 Per loro il popolo è una cosa negativa, perché è rischioso e incontrollabile e, se male indirizzato, potrebbe portare all’instaurarsi della dittatura o al governo di un leader forte.

Allora la lotta che oggi viene fatta dalle élite contro Salvini, Di Maio e Orban altro non è che la lotta contro l’idea, sì, l’idea, che l’identità sia una cosa positiva.

Per i liberal (liberal Dem Usa) difendere il valore dell’identità di un cittadino o difendere l’identità nazionale costituisce il peggior male possibile, una cosa da distruggere.

Ma distruggere l’identità significa distruggere il popolo: e da qui nasce il populismo, che altro non è che l’accusa fatta al popolo di essere popolo.

Ma gli altri reagiscono.

Eccome.

Noi stiamo vedendo, di fronte a questa repressione, la reazione dei sovranisti: ebbene, questo è l’inizio della grande rivoluzione anti-liberale.

Non è una correzione del liberalismo, no: è l’inizio della grande lotta sistematica dei popoli contro le élite liberali, contro le ideologie portate avanti dai Clinton, da Obama, da Soros, contro la promozione della globalizzazione sociale e politica.

Non – e sia chiaro – non contro il controllo dell’immigrazione.

 Quello, come ho già detto prima, è solo un aspetto tecnico che si trova a rivestire una dimensione metafisica decisiva.

Metafisica?

Sì: oggi l’Europa decide il suo “Essere o non essere”: cioè essere un’Europa con identità, o non essere Europa.

 Perché senza identità l’Europa non è Europa: è solo un territorio, come l’Africa, o l’Antartide.

Il Rinascimento è la forma culturale assoluta: e l’identità italiana è nella sua radice un’identità rinascimentale.

L’Europa decide, ha detto.

 Ma, nel concreto: a chi tocca davvero questa scelta?

Oggi decide chi governa e proprio questo è il problema: è il popolo o è l’élite a governare?

 Si può dire che ci siano, in realtà, due governi: quello del popolo, rappresentato legittimamente in Italia, in Ungheria e in Austria, e quello europeo, che decide ogni volta in senso opposto.

Questo è interessante.

 È l’inizio della lotta politica della nuova generazione, anzi della politica stessa della nuova generazione che – secondo me – dovrà portare alla creazione del populismo integrale.

In cosa consiste?

Un populismo che non sia né di destra né di sinistra, ma rappresentativo del popolo.

 Oggi in Italia assistiamo a una novità politica importante, un primo passo, cioè un’alleanza tra destra e sinistra.

Già questo è notevole: cosa sarebbe successo se Marine Le Pen si fosse alleata con Jean-Luc Mélénchon? Il caos.

O Donald Trump con Bernie Sanders? Sarebbe scoppiato tutto il sistema.

O se Syriza si fosse unita ad Alba Dorata?

Avrebbero cacciato la Grecia da tutto, sia dall’euro che dall’Unione Europea.

E invece, ecco: in Italia è successo.

Per la prima volta si supera la divisione destra-sinistra.

 Ha vinto Salvini, che con le sue felpe e le sue magliette ha contribuito a far smetter di demonizzare il populismo, e anche Di Maio.

Insieme a loro ha vinto anche il popolo, in questa nuova lotta contro le élite per ritrovare la propria identità.

Ma dove si trova l’identità di un popolo?

Nella sua cultura.

Quale cultura, però?

In Italia, ad esempio, in molti casi è espressione dal dominio americano: film, riviste, magazine.

 Come si fa a definire identitario un tratto culturale e non identitario un altro tratto culturale?

È una questione aperta.

L’Europa è, come ho già detto, una colonia strategica, economica e culturale dell’America.

Il problema è che con la politica di Donald Trump le cose sono cambiate: oggi l’Europa è una colonia che non desta più alcun interesse nella madrepatria.

Un fatto deplorevole, per usare la celebre espressione di Hillary Clinton.

E gli europei che si considerano globalisti, di conseguenza, sono i veri “deplorables”.

Che cosa occorre fare con loro?

Non lo so: non è un problema che c’è in Russia. Anche da noi esistono questi “deplorables” ma sono pochissimi e non decidono niente.

Hanno rappresentanza in Parlamento, certo. Esistono.

Ma non decidono.

Del resto noi siamo russi, siamo orgogliosi della nostra cultura.

I russi hanno recuperato un’identità culturale precedente al comunismo. Gli italiani fin dove nel passato dovrebbero andare?

Questa è una cosa che devono decidere gli italiani.

 A quale cultura dare valore? Quale aspetto percepito come “italiano” occorre promuovere?

Quale mondo di idee recuperare? Non ve lo posso dire io: sono russo.

Se lo facessi sarebbe un atteggiamento globalista, razzista, mondialista.

Certo, ma come intellettuale cosa suggerirebbe?

Per me il “Rinascimento italiano” è la forma culturale assoluta.

 Ha avuto effetti grandissimi su tutti gli altri popoli, anche su noi russi.

Io adoro il Rinascimento e credo che l’identità italiana (poi magari mi sbaglio) sia nella sua radice un’identità rinascimentale.

Non medievale.

 Credo anche che il Risorgimento sia la continuazione del Rinascimento in un altro ciclo storico.

Nel Rinascimento però l’Italia non era unita.

No, certo.

Aveva e ha ancora grande varietà al suo interno, con gruppi diversi etnicamente e culturalmente.

In questo senso è una ricchezza, ma una ricchezza organica, con i tedeschi sulle Alpi e i francesi valdostani e valdesi, o i siciliani, che sono del tutto diversi.

 Invece, la diversità data dai rifugiati che non vogliono accettare e comprendere la vostra cultura e i vostri valori è una diversità anti-organica e pericolosa.

 Se li accettassero e li studiassero non vedo allora nessuna ragione per rifiutarli, no?

Parliamoci chiaro: noi russi conosciamo bene la dittatura, sappiamo bene come è fatto l’autoritarismo, lo abbiamo vissuto.

Il regime di Putin è la cosa più democratica che abbiamo mai avuto.

E il cattolicesimo non costituisce un fattore identitario importante?

Certo.

È la forma più importante dell’identità tradizionale europea e latina.

 Ma anche qui: ci sono molte forme di cattolicesimo e di cattolicità.

Gli italiani, se vorranno, dovranno scegliere la forma più importante per loro.

Io ritengo che quella Rinascimentale fosse molto ricca e, soprattutto, non è modernizzata.

È diversa e può ancora dare molto.

Una domanda su Putin. Anzi: sul dopo-Putin.

Chi verrà, secondo lei, dopo di lui?

Putin è una figura simbolica: nessuno comprende Putin, lui è totalmente nascosto. Essendo un simbolo ha un ruolo fondamentale nel contesto internazionale: con il suo esempio mostra il cammino da seguire per far rinascere il Paese.

In che senso?

Al tempo di Eltsin la Russia versava in una situazione disperata, conseguenza diretta dell’adesione al liberalismo.

 Putin con il suo intervento ha corretto la direzione, senza però instaurare una dittatura o portare in auge il nazionalismo, o un autoritarismo vero.

Parliamoci chiaro: noi russi conosciamo bene la dittatura, sappiamo bene come è fatto l’autoritarismo, lo abbiamo vissuto.

Il regime di Putin è la cosa più democratica che abbiamo mai avuto.

Messa così, è vero.

Putin ha corretto questa democrazia attingendo a un bagaglio culturale tipicamente russo, e per questa ragione ha ricevuto grandi apprezzamenti.

Ora credo che siamo arrivati nel mezzo del cammino della restaurazione del Paese. Il cambiamento definitivo arriverà dopo di lui.

E come sarà?

Non è sicuro.

 È possibile che continui in questo modo, solo con più velocità.

Oppure ci sarà di nuovo una fase di decadenza e un ritorno al disordine dell’epoca di Eltsin.

 Putin, dal canto suo, non ha fatto nulla per garantire la continuazione del suo corso.

Questo è un pericolo sia per noi che per gli altri Paesi, perché una Russia forte e sovrana serve a tutti, anche agli Usa.

Senza un controllo organizzato sul nostro territorio sarà il caos: si pensi solo al controllo del nostro arsenale atomico.

La Russia di oggi, che esiste nelle sue forme e nei suoi limiti attuali, è un bene per tutti.

Anche perché, come dicevo all’inizio, rappresenta una via di salvezza per i Paesi che vogliono tornare a essere liberi.

Non russi, ma liberi.

 

 

 

“PUTIN” E CIÒ CHE VERAMENTE

CONTA NELLA “GRANDE SCACCHIERA”.

Comedonchisciotte.org – Markus - Pepe Escobar - strategic-culture.org – (18 Giugno 2023) – ci dice: 

È affascinante vedere come i corrispondenti di guerra russi stiano ora svolgendo un ruolo simile a quello degli ex commissari politici dell'URSS.

Tra loro c’erano giornalisti veramente indipendenti che possono essere molto critici nei confronti del modo in cui il Cremlino e il Ministero della Difesa (MoD) stanno conducendo quella che può essere definita come un’operazione militare speciale (SMO), un’operazione antiterrorismo (CTO) o una “quasi guerra” (secondo alcuni influenti ambienti economici di Mosca).

È affascinante vedere come questi giornalisti patriottici/indipendenti stiano ora svolgendo un ruolo simile a quello degli ex commissari politici dell’URSS, tutti, a loro modo, profondamente impegnati a guidare la società russa verso il prosciugamento della palude, lentamente ma inesorabilmente.

È chiaro che Putin non solo comprende il loro ruolo, ma a volte, in stile “shock al sistema”, il sistema che presiede mette effettivamente in pratica i suggerimenti dei giornalisti.

Come corrispondente estero che opera in tutto il mondo da quasi 40 anni, sono rimasto piuttosto colpito dal fatto che i giornalisti russi abbiano un grado di libertà inimmaginabile nella maggior parte delle latitudini dell’Occidente collettivo.

La trascrizione dell’incontro al Cremlino mostra che Putin non è affatto incline a menare il can per l’aia.

Ha ammesso che nell’esercito ci sono “generali da operetta”; che c’è una carenza di droni, di munizioni di precisione e di apparecchiature di comunicazione, a cui ora si sta lavorando.

Ha discusso della legalità dei gruppi di mercenari; della necessità di installare prima o poi una “zona cuscinetto” per proteggere i cittadini russi dai bombardamenti sistematici del regime di Kiev e ha sottolineato che la Russia non risponderà con il terrorismo al terrorismo ispirato da “Bandera”.

Dopo aver visto i vari botta e risposta, una conclusione è d’obbligo:

i media di guerra russi non stanno organizzando un’offensiva, anche se l’Occidente collettivo attacca la Russia 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con il suo massiccio apparato mediatico di ONG e soft power.

 Mosca non è (ancora?) pienamente impegnata nelle trincee della guerra d’informazione; allo stato attuale, i media russi giocano solo in difesa.

Fino a Kiev?

Probabilmente la citazione più importante dell’intero incontro è stata la valutazione concisa e fredda di Putin sulla posizione della Russia nello scacchiere:

“Siamo stati costretti a cercare di porre fine con la forza delle armi alla guerra che l’Occidente aveva iniziato nel 2014.

E la Russia porrà fine a questa guerra con la forza delle armi, liberando l’intero territorio dell’ex Ucraina dagli Stati Uniti e dai nazisti ucraini.

 Non ci sono altre opzioni.

 L’esercito ucraino degli Stati Uniti e della NATO sarà sconfitto, indipendentemente dai nuovi tipi di armi che riceverà dall’Occidente.

 Più armi ci saranno, meno ucraini rimarranno e [meno rimarrà di] quella che una volta era l’Ucraina.

 L’intervento diretto degli eserciti europei della NATO non cambierà il risultato.

 In questo caso, però, il fuoco della guerra inghiottirà l’intera Europa.

Sembra che gli Stati Uniti siano pronti anche a questo”.

In poche parole: tutto questo finirà solo alle condizioni della Russia, e solo quando Mosca valuterà che tutti i suoi obiettivi sono stati raggiunti.

Tutto il resto è un pio desiderio.

Tornando alle linee del fronte, come sottolineato dall’indispensabile “Andrei Martyanov”, il corrispondente di guerra di prim’ordine “Marat Kalinin” ha illustrato in modo definitivo come l’attuale controffensiva ucraina non sia stata in grado di raggiungere nemmeno la prima linea di difesa russa (lontana ben 10 km, un’autostrada per l’inferno).

Tutto ciò che finora il miglior esercito per procura della NATO mai messo insieme è stato in grado di realizzare è stato di essere massacrato senza pietà su scala industriale.

Ecco il generale Armageddon in azione.

Surovikin ha avuto otto mesi per fare a modo suo in Ucraina e, fin dall’inizio, ha capito esattamente come trasformarla in un gioco totalmente nuovo.

La strategia è probabilmente quella di distruggere completamente le forze ucraine tra la prima linea di difesa – ammesso che la superino – e la seconda linea, ben fortificata.

 La terza linea rimarrà off limits.

I media occidentali stanno prevedibilmente dando di matto e iniziano finalmente a mostrare le orrende perdite ucraine e a fornire testimonianze dell’assoluta incompetenza degli scagnozzi di Kiev e dei loro responsabili militari della NATO.

E, nel caso in cui il gioco si faccia duro – per ora un’eventualità remota – Putin stesso ha rivelato la “road map”.

Dolcemente, dolcemente. Come per dire: “Abbiamo bisogno di marciare su Kiev? Se sì, ci serve una nuova mobilitazione, se no, non ne abbiamo bisogno. Non occorre una mobilitazione in questo momento”.

Le parole chiave sono “in questo momento”.

La fine di tutti i vostri piani elaborati.

Nel frattempo, lontano dal campo di battaglia, i russi sono ben consapevoli della frenetica attività geoeconomica.

Mosca e Pechino commerciano sempre più spesso in yuan e rubli.

I 10 paesi dell’ASEAN stanno puntando tutto sulle valute regionali, aggirando il dollaro USA.

 L’Indonesia e la Corea del Sud stanno mettendo il turbo al commercio in rupie e won.

Il Pakistan paga il petrolio russo in yuan.

 Gli Emirati Arabi Uniti e l’India stanno incrementando il commercio non petrolifero in rupie.

Sempre più Paesi si stanno affrettando ad aderire ai BRICS+, costringendo un egemone disperato (USA) a dispiegare tutta una serie di tecniche di guerra ibrida.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Putin aveva analizzato la scacchiera, nei primi anni 2000, e poi aveva dato il via ad un intenso programma missilistico per armi difensive e offensive.

 

Nei 23 anni successivi la Russia ha sviluppato missili ipersonici, missili intercontinentali avanzati e i missili difensivi più avanzati del pianeta.

La Russia ha vinto la corsa missilistica. Punto.

L’egemone – ossessionato dalle sue guerre contro l’Islam – è stato completamente spiazzato e, in quasi venticinque anni, non ha compiuto alcun vero progresso in campo missilistico.

Ora la “strategia” consiste nell’inventare dal nulla una questione su Taiwan, questione che sta configurando la scacchiera come l’anticamera di una guerra ibrida senza esclusione di colpi contro l’accoppiata Russia-Cina.

L’attacco per procura – tramite le iene di Kiev – contro il Donbass russofono, promosso dagli psicopatici neoconservatori straussiani a capo della politica estera statunitense, ha causato la morte di almeno 14.000 uomini, donne e bambini tra il 2014 e il 2022.

Anche questo è stato un attacco alla Cina.

L’obiettivo finale di questo divide et impera era quello di infliggere una sconfitta all’alleato cinese nell’Heartland, in modo da isolare Pechino.

Secondo il sogno erotico dei neoconservatori, tutto ciò avrebbe permesso all’egemone, una volta ripreso il controllo della Russia come aveva fatto con Eltsin, di tagliare fuori la Cina dalle risorse naturali russe utilizzando le undici portaerei statunitensi e numerosi sottomarini.

Ovviamente, i neoconservatori, privi di scienza militare, non si rendono conto che la Russia è oggi la potenza militare più forte del pianeta.

In Ucraina,” i neoconservatori” speravano che una provocazione avrebbe indotto Mosca a schierare altre armi segrete oltre ai missili ipersonici, in modo che Washington potesse prepararsi meglio ad una guerra totale.

 

Tutti questi piani elaborati potrebbero essere miseramente falliti.

Ma resta un corollario:

i neoconservatori straussiani credono veramente di poter strumentalizzare qualche milione di europei – chi sarà il prossimo? I polacchi? Gli estoni? I lettoni? I lituani? E perché non i tedeschi? – come carne da macello, come avevano fatto gli Stati Uniti nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, combattute sui corpi degli europei (compresi i russi) sacrificati per la stessa vecchia presa di potere anglosassone auspicata da “Mackinder”.

Orde di quinte colonne europee rendono molto più facile “fidarsi” della protezione degli Stati Uniti, mentre solo pochi con un quoziente intellettivo superiore alla temperatura ambiente hanno capito chi ha realmente fatto saltare il Nord Stream 1 e 2, con la connivenza del Cancelliere tedesco/salsiccia di fegato.

Il punto è che l’egemone (USA)non può accettare un’Europa sovrana e autosufficiente, ma solo un vassallo dipendente, ostaggio dei mari controllati dagli Stati Uniti.

Putin vede chiaramente come è stata disposta la scacchiera. E vede anche che l'”Ucraina” non esiste più.

Mentre nessuno ci faceva caso, il mese scorso la banda di Kiev ha venduto l’Ucraina a BlackRock per 8,5 trilioni di dollari.

Proprio così. L’accordo è stato siglato tra il governo ucraino e il vicepresidente di BlackRock, Philipp Hildebrand.

I due stanno creando un “Fondo di Sviluppo Ucraino” (UDF) per la “ricostruzione”, incentrato su energia, infrastrutture, agricoltura, industria e IT.

Tutti gli asset di valore rimasti in quella che sarà una nuova Ucraina saranno acquisiti da “BlackRock”:

da Metinvest, DTEK (energia) e MJP (agricoltura) a Naftogaz, Ferrovie ucraine, Ukravtodor e Ukrenergo.

Che senso ha allora andare a Kiev?

Il neoliberismo tossico di qualità sta già festeggiando sul posto.

(Pepe Escobar - strategic-culture.org)

(strategic-culture.org/news/2023/06/15/putin-and-what-really-matters-in-the-chessboard/)

 

 

 

 

 

I sovranisti hanno vinto!

 Libertaepersona.org – (31 Maggio 2019) - Enrico Maria Romano – ci dice:

 

Si discuterà a iosa nei prossimi giorni e mesi, sia in Italia, che nel resto dell’Unione Europea, su chi realmente ha vinto le elezioni di questo fine maggio.

Ma in verità, e possiamo annunciarlo senza tema d’errore, sono i sovranisti, gli identitari, i patrioti e i populisti – insomma gli anti-Ue – ad aver vinto.

E gli eurocrati globalisti ad aver perso:

 il loro sogno di gloria si sta rivelando sempre più come un incubo da cui svegliarsi al più presto.

Infatti i dubbiosi e gli scettici sul fantasmagorico progetto di “Stati Uniti d’Europa”, al di là degli esiti delle urne, e contro una vulgata totale, totalizzante e tendenzialmente totalitaria, hanno resistito, e ora marciano liberi verso una più grande libertà.

Il nuovo potere europeo globalista infatti è il paradosso dei paradossi ed una inconcepibile contraddizione in termini.

In nome della libertà, vuole imporre regole uniche, universali, esigentissime e indiscutibili ai popoli che compongono il continente.

 Popoli amici e fratelli certo, ma comunque diversi per tradizioni, lingua, cultura, usi locali, economia e vocazione storica.

In nome della democrazia globalista , letta come si sa, vorrebbero sopprimere la libertà di pensiero e di parola, specie sul web.

 In nome della tolleranza, il potere osa parlare di fobie (omofobia, islamofobia, xenofobia e perfino eurofobia) a proposito di chi si oppone all’andazzo dominante.

 Su tutto questo si legga il libro di Alessandro Catto (cf. Radical chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista, La Vela, 2017).

Il piano dei globalisti-cosmopoliti però è stato svelato contemporaneamente alle recenti elezioni e ormai il re è nudo.

 

Il filosofo francese “Michel Onfray” – laico, di sinistra e progressista– ma comunque non succube al pensiero unico egemonico, simile se vogliamo al nostro “Diego Fusaro”, ha appena pubblicato un saggio, in cui è smascherato con acume il “volto criminale del potere europeista di oggi” (cf. Théorie de la dictature, Robert Laffont, 2019).

 

In un’intervista a “Famille Chretienne”, periodico cattolico assai meno ideologico dell’omonimo settimanale italiano, il filosofo spiega il senso ultimo del suo saggio.

 “In generale, osserva, si pensa alla dittatura, riguardo ai fascismi bruni o rossi, di Hitler,Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot (…). Ma Hitler e Stalin non sono la misura eterna e fuori dalla storia di ogni dittatura”.

In altre parole, essa può esistere anche sotto altre forme e apparenze, e con connotati, accenti e programmi ben diversi da quelli della prima metà del Novecento.

Tempo fa un giovane amico mi diceva più o meno così: il fascismo non vietava i libri in quanto tali, ma solo quelli dal contenuto antifascista.

 La democrazia globalista dice di voler promuovere la cultura, ma censura (a Torino e non solo…) i testi giudicati come “antidemocratici”.

La differenza dov’è?

Difficile rispondere, almeno se non si è letto l’ultimo “Onfray”.

 Il quale, dopo anni e anni passati all’estrema sinistra sembra essere l’ennesimo caso di pensatore libero che – malgrado la sua storia personale e a causa del movimento generale delle cose – si ritrova quasi senza accorgersene, all’estremo opposto della barricata.

Dichiara infatti all’intervistatore che la nuova forma della dittatura contemporanea, ha i seguenti obiettivi:

“distruggere la libertà, impoverire il linguaggio, sopprimere la storia, abolire la verità, negare la natura, propagandare l’odio e aspirare all’Impero mondiale” …

Avverto, tra le righe, odore di reazione e populismo implicito, specie quando si parla di natura e della sua manipolazione

La natura infatti non è solo l’ecologia e il clima, ma anzitutto la natura umana, aggredita in ogni modo oggi in nome del nichilismo e della depravazione.

Ma anche quando “Onfray” fa capire che si vuole impoverire il linguaggio, in primis dei giovani per manipolarli meglio e rendere innocuo il dibattito.

E l’Impero (del Bene) che cos’è se non la società mondiale senza frontiere verso cui le élite finanziarie (per il nostro bene) vorrebbero indirizzarci?

In ogni caso, il filosofo francese è chiarissimo.

Dice che per sopprimere la libertà, occorrerà una “sorveglianza perpetua”, una “uniformizzazione del pensiero” e l’istituzione di “crimini intellettuali”.

Per impoverire la lingua, il potere userà vari mezzi, tra cui, “la soppressione dei classici”, sostituiti nelle scuole di ogni ordine e grado con romanzi politicamente corretti e moralmente indecenti.

 Per abolire la verità poi, si usa “insegnare l’ideologia, strumentalizzare la stampa, produrre una nuova realtà”.

Per negare la natura, si vorrebbe “distruggere la pulsione vitale, organizzare la frustrazione sessuale, igienizzare la vita, favorire la procreazione artificiale”.

Favorendo altresì la triade del mediocre: sesso droga e alcool.

Può bastare mi sembra come lista dei fini reconditi e dei mezzi piuttosto palesi, che il sistema adotta o è in via di rapida adozione.

 Nella misura in cui, i temuti sovranisti e cattivissimi identitari, lotteranno contro le pericolose tendenze segnalate e confutate dal filosofo” Onfray”, essi diverranno i nemici più acerrimi della dittatura anonima globalista che sembra avvolgere l’Europa e l’intero Occidente.

Ma diverranno anche, specie quando sarà più nitido il quadro sopra descritto, i liberatori dei popoli e i fautori di un mondo nuovo e migliore.

 

 

Trump il sovranista: "Il futuro non

appartiene ai globalisti, è dei patrioti."

Repubblica.it – (25 settembre 2019) - ANNA LOMBARDI – ci dice:

 

È un discorso inequivocabilmente sovranista quello rivolto ieri mattina da Donald Trump alla platea globale della 74esima Assemblea Generale dell'Onu, che sembra mettere in discussione l'idea stessa di Nazioni Unite.

Per Macron il mancato incontro Trump-Rouhani sarebbe "un'occasione persa"

NEW YORK –

"Il futuro non appartiene ai globalisti. Il futuro è dei patrioti".

 È un discorso inequivocabilmente sovranista quello rivolto ieri mattina da Donald Trump alla platea globale della 74esima Assemblea Generale dell'Onu, che sembra mettere in discussione l'idea stessa di Nazioni Unite:

"Il globalismo ideologico ha esercitato un'attrazione quasi religiosa sui leader del passato spingendoli a ignorare i loro interessi nazionali. Quei giorni sono finiti".

Alla sua terza volta al Palazzo di vetro, il presidente sembra d'altronde più interessato a rivolgersi alla sua base, in vista delle elezioni 2020, che ai popoli del mondo.

 Intento a glorificare i suoi meriti - crescita economica, disoccupazione al minimo - e bastonare i rivali: la Cina, ma soprattutto l'Iran.

“Presidente Trump” parla 37 minuti, leggendo dallo schermo senza improvvisare, con uno stile definito "pacato" dagli osservatori, nonostante le bordate a paesi e istituzioni.

 Secondo speaker della giornata, sale sul podio dopo che l'amico “Jair Bolsonaro”, si è appena dipinto come il salvatore del Brasile dal pericolo socialista.

 Un tema caro anche a Trump: "Socialismo e comunismo non sono interessati all'uguaglianza ma al potere. Cuba e Venezuela lo dimostrano".

Concorrenza commerciale sleale, spese per la difesa da ripartire con gli alleati, blocco dell'immigrazione clandestina: il presidente mette sul tavolo i suoi argomenti più cari.

Attacca frontalmente la Cina:

"Per vent'anni i vostri abusi commerciali e furti di segreti industriali sono stati tollerati e incoraggiati sperando di portare cambiamento e libertà nel vostro paese.

 Una teoria ideologica sbagliata: è ora di dire basta".

La sua clava si abbatte poi sull'Iran, accusato di essere "sponsor numero uno del terrorismo, responsabile delle guerre di Siria e Yemen".

 Trump lo definisce un "regime assetato di sangue" con alle spalle "quarant'anni di fallimenti".

Minaccia nuove sanzioni e invita le altre nazioni ad agire in quel senso: "Non vi permetteremo di possedere armi atomiche".

Ma lascia aperta la porta, ben sapendo che il presidente francese Emmanuel Macron sta lavorando febbrilmente a una soluzione diplomatica e il presidente iraniano Rouhani si è appena detto disponibile a "piccole modifiche" dell'accordo sul nucleare del 2015 se le sanzioni venissero revocate:

"Tutti possono fare la guerra, solo i più coraggiosi sanno fare la pace. L'America vuole partner, non avversari" dice The Donald.

Un mancato incontro, a margine dell'Assemblea generale dell'Onu, tra i Presidenti di Usa e Iran, sarebbe "un'occasione persa che non ricapiterà nei prossimi mesi", commenta Macron, che ha invece presentato Rouhani al premier britannico Johnson.

Peccato che subito dopo si lanci in un duro attacco contro le “ong” che si occupano di migranti:

"Ammantate di giustizia sociale predicano politiche ingiuste e crudeli.

 Mettono la loro idea di bontà davanti alla difesa della dignità delle persone. Minando la sicurezza dei confini minano i diritti umani".

La cura ai problemi del mondo, per Trump, è il nazionalismo:

"Il mondo libero deve abbracciare le sue fondamenta nazionali, non cercare di sostituirle.

La strada della libertà e del benessere inizia a casa propria".

Con buona pace del clima: a cui non dedica nemmeno una parola.

 E chissà se per colpa di quel video girato lunedì e già diventato virale dove Greta gli lancia un'occhiataccia.

La giovane attivista svedese (diventata milionaria), d'altronde, ne ha combinata un'altra delle sue:

 insieme a 15 ragazzini ha denunciato alla Commissione Onu per i diritti dei bambini Argentina, Brasile, Francia, Germania e Turchia per non aver messo in atto azioni ambientali abbastanza forti, scatenando perfino l'ira di Macron:

 "Posizioni così radicali creano antagonismi nella società".

Almeno questa volta Trump l'ha scampata.

 

 

 

 

Sovranismo vs globalismo,

attenzione all'inganno,

di Antonio Dostuni.

Stidiodostuni.it – Antonio  Dostuni – (27/06/2018) – ci dice:

 

La contrapposizione tra sovranismo e globalismo costituisce, in verità, una grande mistificazione che ha il compito di superare la tradizionale contrapposizione tra destra e sinistra che rappresenta, non a caso, il nuovo cavallo di battaglia delle forze che sostengono l'establishment.

Abituare le masse a convivere con il terrore e con il pericolo incombente di un'invasione, aiuta ad abituarle ad accettare le disuguaglianze come l'esito inevitabile di una politica che si preoccupa, benevolmente, della loro sicurezza.

Quando si discute di terrorismo e di immigrazione spesso si commette l'errore di ritenere entrambi i fenomeni due variabili indipendenti del tutto avulsi dal quadro nel quale andrebbero, di contro, collocati.

Occorre prendere atto che siamo nel pieno di una crisi sistemica che vede il capitalismo essere sotto attacco da più direzioni.

In modo inaspettato, la lenta erosione della sovranità degli stati ha reso le istituzioni nazionali completamente impotenti davanti a processi planetari che richiederebbero nuove forme di governance.

 Al contrario, stiamo assistendo al fiorire di nuove forme di nazionalismo, dai contorni indefiniti e spesso contraddittori, la cui ambiguità dovrebbe preoccupare chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia.

Le numerose spinte centrifughe che si sono abbattute sulle democrazie avanzate si stanno traducendo in una singolare "rivolta delle periferie" che viene sovente interpretata ricorrendo ad uno schema la cui connotazione ideologica non convince affatto.

In effetti, risulta curioso che, dopo avere celebrato per anni la fine delle ideologie, si ricorra ad un espediente tipicamente ideologico per dirottare il dibattito nei confini angusti di una improbabile battaglia tra “sovranismo” e “globalismo” che non ha alcun motivo di esistere.

Stiamo attenti, quindi, a questa operazione culturale che nasce dall'incapacità dell'establishment di giustificare le grandi disuguaglianze che, negli ultimi decenni, si sono moltiplicate all'interno del sistema capitalistico.

 La contrapposizione tra sovranismo e globalismo costituisce, in verità, una grande mistificazione che ha il compito di superare la tradizionale contrapposizione tra destra e sinistra che rappresenta, non a caso, il nuovo cavallo di battaglia delle forze che sostengono l'establishment.

Abituare le masse a convivere con il terrore e con il pericolo incombente di un'invasione, aiuta ad abituarle ad accettare le disuguaglianze come l'esito inevitabile di una politica che si preoccupa, benevolmente, della loro sicurezza.

 Si ponga mente ad un dato che risulta illuminante.

 Dal 2011 al 2016 le imprese straniere in Italia sono aumentate del 25,8%: ammontano, esattamente a 571 mila unità, prevalentemente operanti nel commercio all'ingrosso e al dettaglio (36%), nell'edilizia (23%) e nella ristorazione (8%).

In proiezione, nel 2021 si stima che saranno 710.000.

 Di contro, le imprese italiane sono diminuite del 2,7% (fonte: Giornaledellepmi.it).

Queste cifre dovrebbero creare sconcerto tra gli epigoni del sovranismo i quali, invece, tendono astutamente a far finta di nulla perché conoscono bene i vantaggi goduti dalle imprese italiane sui mercati di quei paesi da cui provengono le imprese straniere operanti in Italia.

Ci troviamo, pertanto, sul crinale di un altro inganno ideologico non dissimile dagli altri che l'hanno preceduto nei decenni passati.

Dopo anni di sbronze ideologiche, oggi tutti sappiamo che non esisterà mai una “città del sole” in cui tutti saremo ricchi ed eguali e, parimenti, che non ci sarà mai un capitalismo in grado di regalare felicità a tutti i popoli del pianeta.

 L'unico, vero problema che i governi sono chiamati a risolvere resta quello, antico, delle disuguaglianze di cui terrorismo e immigrazione sono soltanto una conseguenza.

 Su questo, sovranismo e globalismo tacciono miserevolmente.

 Ecco perché si tratta solo di un trucco.

 

 

 

Sussidiarietà, la risposta al fallimento

di sovranismo e globalismo.

Ildomaniditalia.eu – (25- 3-2023) – Giuseppe Davicino – ci dice:

 

Alla richiesta di riconoscimento di Cina e Russia come partner della politica mondiale, l'Occidente, se vuole continuare a svolgere un ruolo di rilievo, può dare una risposta saggia:

quella improntata al “principio di sussidiarietà”.

Questo mese di marzo sia per le cose che accadono che per gli anniversari che ricorrono, ci può dire molto sulla prospettiva da seguire, e innanzitutto da discutere, per fare in modo che il 2023 non finisca per assomigliare al 1939 ma sia piuttosto simile al 1989 dell’Occidente, nel senso di un inizio incruento, al netto dei conflitti ancor in corso, del passaggio dall’unilateralismo al multilateralismo.

La Cina, ormai a tutti gli effetti superpotenza globale, si prepara a prendere le redini del “secolo cinese” senza aver dovuto sparare un solo colpo.

Il suo piano di pace sull’Ucraina, in un primo momento respinto dall’Occidente, sta ora attirando un tiepido e crescente interesse nelle cancellerie occidentali e s’infittisce l’agenda degli incontri internazionali nella capitale cinese.

Un piano che ha il sapore dei punti irrinunciabili per un nuovo ordine mondiale multipolare, presupposto indispensabile seppur se non sufficiente, anche per una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina.

Nel loro recente incontro a Mosca Xi Jinping e Putin non hanno certo usato giri di parole per dire cosa ritengono irrinunciabile:

la fine dell’unilateralismo americano.

 La rinuncia da parte dell’Occidente a ritenersi superiore al resto del mondo, e al doppiopesismo che ne deriva.

E la parola fine a ogni progetto di governo mondiale da parte di una minoranza di élite, sia essa, si potrebbe osservare, il governo degli Stati Uniti, o peggio ancora, come purtroppo in realtà accade, costituita da ristrettissimi circoli privati che si infiltrano e usurpano il potere nei Paesi occidentali, dettandone la rovinosa agenda che si è vista in questo secolo.

 In una parola Cina e Russia, all’unisono e insieme agli altri Brics e a altri importantissimi Paesi emergenti, chiedono il loro riconoscimento come co-protagonisti della politica mondiale.

Nessuno può più decidere per tutti a livello mondo, dobbiamo renderci conto che non è più accettato questo, ma a tutti deve esser riconosciuto titolo a concorrere agli accordi sulle decisioni di portata globale.

Come se non bastasse questo ulteriore avvicinamento tra Cina e Russia, si devono registrare, anche su loro impulso, rapidi riposizionamenti in Medio Oriente, dove ex nemici riprendono a parlarsi, con Arabia Saudita e Iran che riallacciano relazioni diplomatiche e con la storica vista del presidente siriano Bashar al-Assad negli Emirati Arabi.

 Così pure in Africa, in Asia meridionale e America Latina.

Alla luce di questi avvenimenti credo si possa vedere meglio come sia stata tragicamente miope e fallimentare la strategia imposta agli Stati Uniti da piccoli ma potentissimi circoli, come quelli costituito dai “neocons” Usa, di imposizione armata dell’ordine unilaterale in Europa e in Medio Oriente.

Gli anniversari che cadono in questo mese della guerra su Belgrado come quello della del tutto pretestuosa invasione dell’Iraq stanno lì a ricordarcelo.

Al delirio di questi circoli, responsabili anche nel far precipitare le cose in Ucraina, si è aggiunto il delirio dei circoli di Davos e di certi colossi tecnologici che danno l’impressione di considerare a portata di mano un governo mondiale (il regno della schiavitù perpetua), di cui si ergono in concreto a regolatori.

Ebbene, gli eventi in corso ci dicono che il mondo non sta andando né nella direzione sostenuta dai sovranisti (senza alleanze internazionali neanche gli Stati Uniti e la Cina avrebbero il peso che hanno) e neppure nella direzione sostenuta dai globalisti, di un governo mondiale in pratica nelle mani dei miliardari occidentali.

Ecco perché mai come ora la pace dipende dall’Occidente.

Il resto del mondo lo ha espresso in un modo inequivocabile cosa vuole.

Tocca all’Occidente, e in primo luogo agli Stati Uniti, indicare una posizione saggia.

Che a ben vedere deriva dall’applicazione del principio di sussidiarietà, che è uno dei principi ispiratori del popolarismo, sin dalle sue origini.

Anche la politica globale deve ispirarsi al suddetto principio, non nel senso di costituire un governo mondiale che, inevitabilmente porterebbe i gruppi più potenti a prevaricare sugli altri, bensì trovando dei criteri che consentano alle potenze di questo secolo di affrontare e di risolvere insieme, in amicizia e autonomia, e con reciproco riconoscimento, i problemi di portata globale.

Globalismo e sovranismo.

Naufraghi.ch – (11 gennaio 2022) – Christian Marazzi – ci dice:

 

Lo scoppio della pandemia, con l’immediata chiusura della Cina e la ricerca affannosa di nuove fonti di approvvigionamento di materiale protettivo sanitario, aveva sin da subito portato molti commentatori a parlare di fine della globalizzazione.

 Il necrologio della globalizzazione, d’altra parte, sembrava la logica conseguenza del nazionalismo economico di Donald Trump, della Brexit e della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

 Le catene del valore transnazionali, basate sul modello just-in-time delle consegne in tempo reale e a zero scorte, hanno sicuramente messo in evidenza la vulnerabilità di un sistema produttivo e distributivo sbilanciato sulla Cina.

Una vulnerabilità che in questi ultimi mesi si è materializzata con lo shock dei prezzi delle materie prime energetiche e l’intasamento dei porti di tutto il mondo.

Eppure, non c’è alcuna evidenza empirica che la pandemia abbia convinto la maggior parte delle aziende straniere ad abbandonare la Cina, men che meno gli agenti della finanza globale.

In settembre, il deficit commerciale statunitense ha raggiunto il suo record storico ($288.5 miliardi), mentre il surplus commerciale cinese ha superato i livelli pre-pandemici.

 D’altra parte, gli investimenti diretti stranieri in Cina stanno aumentando, come pure i flussi di capitali sui mercati finanziari cinesi.

Insomma, la metrica della globalizzazione smentisce la narrazione della deglobalizzazione, se è vero che, secondo un sondaggio della HSBC, il 97% delle imprese afferma che intende continuare ad investire in Cina.

Certamente, la costruzione di nuove catene d’approvvigionamento richiede parecchio tempo e risorse.

 Per il momento è piuttosto la strategia “China Plus One” che sembra prevalere, con le imprese straniere che, continuando ad operare in Cina, investono in paesi come il Vietnam, la Tailandia e la Malesia per approvvigionarsi.

 Probabilmente, il sistema just-in-time verrà ridefinito sulla base di una migliore combinazione tra rischio e resilienza.

Ma la globalizzazione della produzione è qui per restare, è troppo redditizia.

Anche se profondamente interdipendenti (commercio, finanza e tecnologia), i due poli del capitalismo globale sono bloccati in una competizione strategica intensa e di lunga durata.

 È la divergenza tra logica del capitale e logica dello Stato che deve preoccupare: un capitale transnazionale tutto teso a sfruttare le condizioni di profittabilità offerte da una Cina nazionalista ma alquanto aperta agli investimenti stranieri, e uno Stato (americano, ma non solo) protezionista e sovranista.

È bene ricordare che fu questa stessa divergenza a interrompere la prima globalizzazione capitalistica all’inizio del XX secolo.

E la interruppe assai malamente.

 

 

 

 

Oltre la  politica:

globalismo contro sovranismo e

la fine di destra, sinistra e centro.

Bznews.it – (Aprile 27, 2019) - Alan Conti, Marco Pugliese – ci dicono:

 

L’analisi che segue, doveroso sottolinearlo, non veicola nessun tipo di “tifo politico”, non implica nulla, se non uno stimolo alla discussione ed al confronto partendo al processo che stiamo vivendo e che inesorabilmente ci cambierà la vita.

La politica ci condiziona.

Chi prende le distanze dalla politica, chi pensa di poter vivere senza politica, vive nell’illusione di poterne fare a meno...

In realtà vive, lavora e discute all’interno di un modello sociale teorizzato sul finire degli anni ’70 del secolo scorso e che Reagan portò ai massimi livelli.

Edonismo, o consumismo se preferite, crescita continua, apparentemente infinita.

Il mondo globalizzato, creato ad immagine e somiglianza degli Usa, il sogno americano traslato.

Capitalismo “democratico”, benessere ed “impero globale”.

 Sembrava una battaglia vinta, invece il modello ha fatto acqua e alla crisi economica del 2008 (generata in Usa) ha riportato in auge un modello “sovranista”, più legato al territorio-nazione.

La vittoria di Trump ha fatto il resto.

Gli Usa globalisti d’Obama scalzati dall’ America più profonda di Trump.

Una vittoria sottovalutata ma che ha avuto ripercussioni profonde, che ora analizzeremo.

Globalismo e sovranismo: due visioni, due mondi.

Il globalismo non possiede in realtà quei risvolti altamente positivi con cui è presentato.

Si tratta d’edonismo economico estremizzato, una società creata su multinazionali devote al mercato (teorizzato dai maggiori pensatori di sinistra…).

I confini sono abbattuti per questioni di profitto, non di vera solidarietà.

Tranne gli imprenditori-filosofi o visionari, come “Musk”, “Benson” (ed in passato il nostro Gardini, che non a caso strizzava l’occhio ai socialisti riformisti) che si battono per un mondo tecnologico ed ecologico, con il benessere alla portata di tutti, un socialismo progressista che rispetti le specificità.

Gli altri spingono per far cadere le barriere create dagli stati nazionali.

Perché?

Semplice, garantiscono diritti lavorativi troppo onerosi per chi vuol guadagnare e punta agli algoritmi perfino per licenziare (Amazon) o a riportare l’orario di lavoro a 10-12 ore al giorno. 

“Alibaba”, il colosso dell’e-commerce fondato da “Jack Ma”, applica la regola aurea è “996”

: dalle 9 del mattino alle 9 di sera, 6 giorni a settimana.

 E come riporta Ansa :

 In un meeting interno, “Ma” ha detto di non volere persone che guardano alle “tipiche” 8 ore quotidiane, secondo un resoconto sull’account “Weibo “(il Twitter cinese) di “Alibaba”

. Sposa il “996”: il lavoro non è un sacrificio, non lede i diritti delle persone, ma è una “vera benedizione”.

Questo è il volto reale della globalizzazione economica:

consumismo continuo, merce in arrivo ad ogni ora, bombardamento pubblicitario e diritti dei lavoratori pari a zero.

Chiaramente l’identità nazionale è un problema, un francese od un italiano potranno mai accettare di lavorare 12 ore al giorno?

Serve un appiattimento culturale per far accettare certi paradigmi.

 Il sovranismo, viceversa, ha eccezione negativa per “traslazione”.

Lo si associa al localismo “sciocco”, al non voler accettare l’altro, o peggio ad una specie di fascismo.

 In realtà la definizione corretta è:

libertà di legiferare da parte dei singoli stati, il cui globalismo vorrebbe applicare modelli standard soprattutto nel lavoro (chiedersi perché…).

I negozi h24, ad esempio, sono un cavallo di battaglia europeo, che arriva direttamente dagli Usa, patria di questo genere d’approccio.

La battaglia in corso è tra due visioni, una globale assoluta, con trattati ad area a cui ci si lega senza possibilità d’uscirne (pensare ai vari approcci transpacifici…) e l’altra nazionale, con il commercio internazionale regolamentato da trattati da cui si possa entrare ed uscire a seconda delle reali esigenze.

Ovviamente il tessuto economico italiano, formato da piccole e medie imprese, che premia la qualità allo standard rischia moltissimo in caso di globalizzazione totale.

Italia, l’anno zero della politica e la nascita degli “oltre partiti”.

Segnatevi la data:

4 marzo 2018, fine della seconda Repubblica ed inizio del declino totale dei partiti-sistema.

 Chi non si rinnova è perduto, la Lega, il più vecchio tra i partiti, lo intuisce e con Salvini nel 2013 inizia un percorso non compreso appieno.

Diventa “nazionale”, ingloba menti come Bagnai (con ragionamenti di sinistra…) e abbandona con equilibrio lo zoccolo duro secessionista.

Si definisce “no globalista”.

L’altra forza che nasce sulle macerie del vecchio sistema è il” Movimento di Grillo”, che da subito si presenta oltre destra e sinistra e a forte connotazione anti sistema, quindi “no globalista”.

Non è il solito slogan, non sono le solite correnti, questi due partiti, pur con qualche contraddizione, rappresentano ciò che il futuro della politica sarà.

 La Lega apparentemente più tradizionale ma assai liquida su molti temi, il “Movimento” oltre le solite formalità di partito, visi da persone comuni ed esperienza sul campo.

In pochi hanno compreso, politologi di grido in primis, alle pernacchie iniziali si sono materializzati attacchi continui, segno inesorabile di vera apocalisse in arrivo verso un sistema post 1992, ormai al capolinea.

Il rischio liquefazione per tutti gli altri…

Destra.

Forza Italia e Fratelli d’ Italia, destra liberale e destra detta populista, altro termine che meriterebbe un libro per essere definito con crismi d’analisi seria.

 FI arriva da vent’anni di “berlusconismo”, ormai al tramonto, non ha proposto modelli nuovi, di fatto è al 1994 e poggia su uno zoccolo duro che garantisce forse altri 5/10 anni di percentuali sopra il 5%.

 Partito globalista, perché imprenditoriale ma legato ad una visione legata al meno stato e tasse (anni ’90) ormai non più applicabile.

Quel modello liberale (più liberista forse) si è esaurito perfino in Usa, ma in Italia ancora forse non lo si è compreso.

Finché c’è Berlusconi esisterà FI, poi sarà ardua.

FDI ha compreso la svolta epocale e con la Meloni cerca una sponda verso Salvini.

Il partito è anti globalizzazione e ricorda e assume posizioni oltranziste simili alla sinistra no global.

In futuro è possibile una sorta di federazione con la Lega, difficile per questo partito mantenere autonomia reale, l’elettore liquido sovranista per “nuovo approccio” tenderà ad andare verso il partito più corposo.

Centro.

Con la fine della DC in Italia il Centro si è spezzato in due.

 Metà a destra e metà a sinistra.

Le due correnti principali della DC hanno trovato spazio negli schieramenti.

Il centro non tornerà, l’epopea si è conclusa nel 1992.

Partiti d’area con peso sono assenti, presenti invece esponenti di centro in FI e PD. I centristi sono globalisti romantici di norma.

Credono ad un globalismo (ed europeismo) anni ’90, tramontato definitivamente nel corso degli anni 2000.

Esaurita la spinta di leaders storici sarà complesso anche solo esistere per formazioni micro.

Sinistra.

Il partito maggiore, il PD, è globalista, inteso come globalismo del “desiderio”, ovvero quell’astrazione un po’ utopica che declina il “tutti uguali”.

 Un massimalismo ereditato dal PCI, partito non europeista e non globalista che nella mutazione in PDS-DS-PD (con Margherita) ha veicolato un centrismo global tramite mezzi massimalisti.

Una fusione d’intenti che il globalismo post 4 marzo 2018 ha portato vicino a FI.

 Gli altri partiti micro della detta sinistra sono ormai globalizzati, avulsi da un discorso nazionale trattano temi lontani, spesso in contrasto con il PD stesso, il Referendum 2016 ha sancito la fine del progetto Renzi, ovvero la creazione di un Partito della Nazione su modello americano.

Da quel momento il buio totale e il rischio concreto, in assenza di leader, di liquefarsi una volta estinto lo zoccolo duro (ovvero gli elettori nati tra il 1945 ed il 1968).

 La sinistra non produce più progetti dal 1996, insegue ossessioni.

Prima il “berlusconismo”, ora il “salvinismo”.

Un po’per i cambiamenti in atto, infatti gli elettori lo hanno compreso e si rischia di non vederli alle urne.

Tripolarismo.

Tralasciando la liquidità assoluta dei nostri tempi è altamente probabile che in un futuro non tanto remoto esisteranno in Italia tre macro partiti/movimenti:

due a trazione sovranista che vanno oltre destra e sinistra, (Lega e M5S) ed uno a trazione globalista che raggruppa il sistema classico per intero (PD-FI).

 Le elezioni europee infatti rappresentano uno spartiacque che ci traghetterà alle prossime politiche (con quale legge elettorale?) tramite un cruento scontro tra sovranismo e globalismo.

 Probabilmente, tra dieci anni, i partiti come li conosciamo oggi, non esisteranno più, è proprio cambiato il modus intrinseco di far politica.

(Marco Pugliese)

 

 

 

 

Sovranismo contro globalismo.

Ilsudest.it – (1°– maggio – 2021) – Fabrizio Resta e Giuseppe Rotondo – ci dicono:

 

Un confronto tra Hegel e Kant.

Nell’infuocato dibattito politico odierno, tutto incentrato sui temi, economici e sanitari, legati all’emergenza coronavirus, l’alterco ormai duraturo tra sovranisti e globalisti è passato apparentemente in secondo piano.

Prevale piuttosto un atteggiamento “emergenziale”, nella convinzione che le ideologie ed i colori partitici vadano lasciati in secondo piano, preferendo l’unità del “fare” alla discordia della chiacchiera e delle schermaglie politiche.

SI può però ritenere che quella del “fare” sia da considerare come una, se non la più pericolosa, delle ideologie presenti sul mercato delle idee.

Essa si fonda infatti sulla neutralizzazione di una posizione a suo tempo ideologica: in base all’idea che il fare sia sempre migliore della sterile discussione si neutralizza un preciso indirizzo politico, nascondendo maldestramente il suo reale contenuto ideologico.

 In tal modo la pandemia coronavirus, pur non essendo stata architettata per questo, permette ad una classe politica di far passare come necessarie ed incontrovertibili delle misure che in una situazione normale probabilmente non sarebbero state accettate.

È il caso delle diverse restrizioni poste in atto dal governo Conte, per arginare la diffusione del contagio, che hanno causato una parziale riduzione di alcune libertà un tempo considerate inoppugnabili.

D’altra parte, in maniera più grave, il mainstream e l’opinione pubblica tendono nella maggior parte dei casi ad accettare supinamente dei provvedimenti economici insufficienti ad arginare una crisi di dimensioni epocali.

E, l’aspetto ideologico che fa passare come “buone” queste riforme, risiede sempre nella convinzione che il governo stia “facendo” comunque qualcosa e che in una situazione così grave e complessa è sempre più difficile agire che dibattere e criticare sterilmente.

Ancora una volta l’ideologia del fare domina incontrastata, mascherando dietro il velo di maya, una ben precisa convinzione politica.

Infatti, al di là delle posizioni assumibili, non si può certo negare che l’attuale governo abbia intrapreso una via di totale passività e remissività nei confronti delle regole e dei vincoli europei:

nonostante nell’ultimo periodo la Ue abbia fatto intendere un certo allentamento dei vincoli restrittivi riguardanti le regole di bilancio, palesando la possibilità di concedere fondi a sostegno delle economie più in difficoltà, va comunque precisato che da un lato persiste una corrente “nordica” ancorata all’austerità e che dall’altro la gran parte dei fondi messi a disposizione dei singoli Stati consistono in prestiti piuttosto che in liquidità a fondo perduto.

Insomma i capisaldi su cui si è fin ora retta l’unione europea non sembrano in procinto di essere cambiati.

Ma ciò nonostante vi è ancora una maggioranza europeista e globalista, non solo negli Stati più forti e quindi difensori dello “status quo”, ma anche in quelli più deboli e quindi propensi, almeno teoricamente, ad un cambiamento degli attuali equilibri europei, ma anche mondiali.

Di fatto però l’europeismo continua a farla da padrone, anche e soprattutto in Italia, dove il governo “giallo-fucsia” presieduto da Giuseppe Conte non sembra minimamente disposto, né a mettere in discussione i vincoli e i trattati europei, né tanto meno ad un ripristino della sovranità monetaria e al tempo stesso politica della nostra nazione.

 Lungi dunque dall’essere oscurata in nome dell’emergenzialismo e dell’ideologia del fare, il tema dello scontro tra sovranisti e globalisti merita di essere posto in evidenza, vista la necessità attuale e impellente di mobilitare una quantità di risorse economiche forse mai vista fino ad ora.

 Qualunque posizione si prenda, è infatti innegabile che la questione della sovranità dello Stato sia centrale per comprendere che strada intraprendere per il finanziamento degli investimenti da effettuare massivamente per affrontare l’emergenza covid-19 e le sue conseguenze socio-economiche.

Si proverà dunque a capire, tramite il confronto tra due posizioni paradigmatiche, quale sia, sul piano filosofico, l’alternativa migliore tra sovranismo e globalismo.

 A tal fine si interrogherà due filosofi per certi versi agli antipodi nella tradizione del pensiero occidentale: Kant ed Hegel;

 il primo sostenitore di un cosmopolitismo radicale che potremmo oggi chiamare anche globalismo, il secondo sostenitore della sovranità dello Stato.

La critica hegeliana al cosmopolitismo enunciato da Kant nello scritto “Per la Pace perpetua” può assumere ancora oggi una valenza significativa, nonostante il realismo del pensatore idealista possa sembrare cinico e in un certo senso pessimistico.

 Ma poiché in filosofia le categorie di pessimismo ed ottimismo hanno uno scarso valore teoretico, conterebbe piuttosto mettere in risalto la profondità di certe tesi filosofiche.

Ebbene la spietata tesi di Hegel consiste nel considerare gli Stati come individui in grande:

lo Stato è come un grande organismo;

 Hegel può infatti essere definito un organicista.

 Il corpo dello stato corrisponde al corpo o organismo dell’individuo.

Se gli Stati sono una specie di individui più grandi, essi instaurano tra loro rapporti simili a quelli che si costituiscono tra più persone di uno stesso Stato.

 E così come ogni individuo è nella società civile hegeliana portatore di interessi egoistici, allo stesso modo gli Stati difendono la loro sovranità gli uni contro gli arti, in una sorta di “secondo” stato di natura.

Qui vi è il carattere realistico e allo stesso tempo spietato della concezione hegeliana del diritto statale esterno, che si potrebbe oggi chiamare diritto internazionale.

Kant è per Hegel un utopista, avendo ideato un progetto per la pace perpetua.

 Il carattere utopico e astratto del cosmopolitismo kantiano risiede nell’idea che gli Stati possano rinunciare ai loro egoistici interessi per sottomettersi completamente ad un organismo sovranazionale più forte rispetto ad essi.

 In maniera più precisa Kant delinea una confederazione di Stati, i quali devono a loro volta costituirsi al loro interno secondo una costituzione repubblicana.

Ma per Hegel non vi può in alcun modo esserci una volontà generale che si stagli sopra quelle dei singoli Stati.

 Questo aspetto è ben visibile analizzando le modalità con cui il diritto internazionale può imporsi sulle volontà degli Stati.

Qui Hegel pone nuovamente un paragone con la situazione che contraddistingue gli individui.

 Nel rapporto tra questi ognuno è aggressivo verso l’altro, ma in seguito subentra la morale, l’eticità e il diritto e la situazione si armonizza.

 Ma tra gli Stati ciò avviene con delle difficoltà.

Per Hegel infatti il diritto è reale solo quando ad esso subentra la pena, fungendo da momento sintetico: c’è una norma giuridica, se essa viene negata il giudice interviene e manda in galera il reo.

Ma, continua Hegel, tra gli Stati non vi è un pretore: mentre infatti tra gli individui la pace si può instaurare perché c’è il diritto e se viene violato può esser fatto valere con la forza, gli Stati si ritengono autosufficienti e sovrani e non si sottomettono al diritto internazionale.

Nell’ambito di quest’ultimo vi sarebbe poi l’assenza di una forza armata adeguata a ristabilire la norma violata.

Sarebbe in altri termini necessaria la presenza di forze armate più forti dei singoli Stati.

 Ma ciò, specie nei conflitti di ampia portata, diverrebbe impossibile.

Si possono a questo punto trarre alcune conclusioni:

Anche se non vi è un forte fondamento teorico nella tesi hegeliana del diritto statale esterno (diritto internazionale), si può certamente affermare che essa sia stata validata storicamente:

l’odierna unione europea essendo stata incapace di costituire una cultura, una politica, una società comuni è diventata ben presto lo strumento per la legittimazione degli interessi delle nazioni più forti economicamente e ha addirittura acuito le differenze economiche e gli squilibri commerciali tra i diversi paesi membri.

 Ed anche in una situazione di emergenza come quella attuale non sembra disposta a garantire politiche economiche e sociali degne di nota.

La volontà di potenza dei singoli Stati europei non è stata affatto appianata dagli organismi e dalle istituzioni comunitarie.

 Anche se il mainstream continua a difendere la tesi secondo cui solo in un Europa unita (tramite le attuali istituzioni) le singole nazioni possono trovare le risposte alla crisi e che l’uscita dall’Ue comporti un isolamento politico ed economico irreversibile, si può (con Hegel) affermare il contrario:

 non solo non vi possono essere che Stati miranti esclusivamente al proprio tornaconto particolare, ma anche e soprattutto l’equilibrio e i rapporti politici ed economici tra le nazioni possono funzionare anche (o forse esclusivamente) in assenza di organismi ed istituzioni cosmopolitiche come quelli delineati da Kant.

 

 

Osce. La Russia mostra Frammenti

“Himars” usati contro i Civili in Donbass.

Conoscenzealconfine.it – (20 Giugno 2023) - Marinella Mondaini – ci dice:

 

Osce. La Russia mostra i frammenti di munizioni per missili Himars usati contro i civili in Donbass: le altre delegazioni reagiscono così.

Una notizia che i media italiani – che si vantano della loro informazione “libera e democratica” e che dicono di “lottare contro le fake news russe”, contro l’informazione “falsa” della Russia – non divulgano.

Il 14 giugno, si è tenuta la riunione plenaria del” Foro di Cooperazione per la Sicurezza dell’OSCE” (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa).

Ma il “dialogo sulla sicurezza” non è riuscito, qualcosa è andato storto, o meglio, qualcuno è scappato!

Per la prima volta nella storia di questo organismo, il rappresentante della Russia ha presentato i frammenti delle munizioni per i complessi missilistici statunitensi “HIMARS”, che vengono usati dagli ucraini contro la popolazione civile nel Donbass, come prova dei crimini di Kiev sponsorizzati dagli Stati Uniti.

“Ma quando la Russia ha mostrato questi frammenti delle munizioni degli HIMARS, le delegazioni degli Stati-membri dell’OSCE hanno abbandonato la sala” – ha dichiarato il capo della delegazione russa ai colloqui di Vienna sulla sicurezza militare e il controllo degli armamenti, “Konstantin Gavrilov”, in un’intervista a “Ria Novosti”.

Il diplomatico russo ha detto:

“Secondo il nostro parere, questo dimostra che i paesi occidentali semplicemente non possono sopportare di ascoltare e vedere fatti reali che confermano il coinvolgimento dell’Occidente nei crimini di guerra dell’Ucraina “.

Durante la dimostrazione delle prove dell’impiego dei missili Himars contro i civili del Donbass, “Gavrilov” ha posto questa domanda diretta:

“Come reagirebbero i colleghi occidentali se qualcosa di simile fosse fatto contro, diciamo, gli inglesi in Irlanda, i francesi in Belgio, gli italiani in Svizzera, gli svedesi in Finlandia?

Cosa direbbero se gli Stati Uniti armassero forze terroristiche contro questi cittadini e sostenessero slogan disumani sulla necessità di eliminarli?”

“Gavrilov” ha sottolineato che “naturalmente, loro non possono rispondere a questo.

 È più facile scappare, lasciando le nostre domande senza risposta.

Così hanno fatto.

Questa situazione conferma ancora una volta che i Paesi dell’Occidente non sono solo sponsor, ma complici dell’illegalità perpetrata da Kiev per nove anni nel Donbass “.

Il diplomatico russo ha poi aggiunto che la parte russa non si limiterà a mostrare le munizioni per l’HIMARS, ma organizzerà una dimostrazione di un carro armato Leopard tedesco catturato, se necessario, per fare ragionare gli europei che sostengono gli atti del terrorismo ucraino.

Ahimè, il buon proposito “di ridurre alla ragione gli europei” sembra sia assai difficile da raggiungere, a quanto pare gli europei preferiscono scappare, scappare dalla verità.

D’altra parte, in otto anni di lavoro nel Donbass, l’”OSCE” non si è certo distinta per efficienza, imparzialità e mancanza di condizionamenti.

Innumerevoli volte i miliziani del Donbass hanno accusato l’”OSCE” di essere dalla parte di Kiev o di aiutare gli ucraini.

Dopo l’inizio dell’Operazione Speciale russa nell’aprile del 2022 le autorità di Doneck hanno denunciato e mostrato la foto del ritrovamento nel palazzo abbandonato dell’”OSC”E a Mariupol’ di una cassa di munizioni per mortaio di produzione italiana, proveniente dall’aeroporto militare di pratica di Mare.

(Marinella Mondaini - ria.ru/20230614/oskolki-1878093390.html)

(lantidiplomatico.it/dettnews-osce_la_russia_mostra_i_frammenti_himars_usati_contro_i_civili_in_donbass_le_altre_delegazioni_reagiscono_cos/40832_50008/)

 

 

 

Il sovranismo per uscire dal Draghistan.

Ilparagone.it – (07/12/2022) – Giulia - Gandolfo Dominici (gandolfodominici.it/) – ci dicono:

 

Come nel precedente articolo: “La gabbia Globalista del Draghistan e l’attacco alla democrazia”, nell’occidente moderno le élite sono sovrane, non i popoli europei. Il liberalismo globalista ha vinto sul comunismo per perdere sé stesso!

Infatti, per quanto le attuali aristocrazie occidentali si possano opporre strenuamente, stiamo assistendo alla inesorabile caduta del neo-liberismo e del globalismo e alla fine della globalizzazione.

Le restrizioni motivate con il pretesto pandemico, prima, e il conflitto con la Russia ed i suoi alleati (tra cui Cina, India e 3/4 del mondo), ora, stanno gradualmente compromettendo il sistema economico e le catene di fornitura necessarie al funzionamento del mercato globale, per quanto alcune élite possano ancora tentare di fermare questo processo, potranno solo rallentarlo.

Occorrerà dunque ripartire dal “sovranismo” per ritrovare la giusta dimensione di libertà dei popoli e dei cittadini e la prosperità economica.

Il termine sovranismo è diffamato dai media e conosciuto da pochi nel suo reale significato e nelle sue implicazioni politiche, sociali ed economiche.

Ma, in effetti, cosa vuol dire sovranismo?

In estrema sintesi – in quanto il discorso sarebbe molto lungo e richiederebbe un saggio, non già un articolo – il sovranismo non può e non deve essere confuso con una ideologia di (estrema) destra o nazionalista, come spesso viene definita dalla propaganda mainstream.

Tale sviante sovrapposizione è solo dovuta alla altrettanto fasulla dicotomia politica odierna, in realtà la contrapposizione politica non è più caratterizzata dalle definizioni destra/sinistra ma sovranismo-globalismo.

 

Con sincero spirito critico si potrebbe affermare come il dettato dell’art. 1 della Costituzione possa, in effetti, essere la base del sovranismo.

Infatti ivi si afferma che: “La sovranità appartiene al popolo”.

Il sovranismo, semplicemente, propugna la riconquista della sovranità popolare in antitesi alle politiche globaliste e di egemonia delle élite plutocratiche sovranazionali.

Il sovranismo mette al centro dell’attenzione i veri bisogni dell’individuo, quale membro di una identità culturale.

 Il suo diritto all’appartenenza, alla socialità, al lavoro come alla sussistenza economica;

in contrapposizione alla società consumistica, mediatica e “fluida” del “villaggio globale” voluta e creata dalle multinazionali e dai mass media a loro, direttamente o indirettamente, collegate.

Diversamente da ciò che in modo diffamatorio propalino i media mainstream, il sovranismo non coincide con il “suprematismo”.

 Anzi, al contrario, è tollerante delle differenze che considera un arricchimento rispetto alla standardizzazione secondo i dettami fluidi del c.d. “politically correct” che atomizzano e privano il cittadino delle sue radici e della sua cultura, rendendo l’individuo un animale da allevamento standardizzato.

 Allo stesso modo, i mercati globali gestiti dalle élite plutocratiche globaliste hanno bisogno di un uomo che sia “standardizzato”, che consumi gli stessi beni in tutto il mondo (ed i tipici esempi di prodotti globali sono, come detto, i-phone o il cheese-burger di McDonald, etc.).

Questa narrazione ha portato a falsamente sovrapporre, nell’immaginario collettivo, i mercati internazionali con il mercato globale.

Essi, invece, rappresentano due concetti diversi, perché nei mercati internazionali i prodotti vengono adattati alle abitudini culturali dell’area, ma non ad essa limitati. 

 

Per chiarire il concetto si pensi, ad esempio, alla differenza tra un cheese-burger di McDonald e un panino con le panelle palermitano.

 Sono entrambi fast-food, ma con differenze dovute alla cultura gastronomica in questo caso. 

Ciò non comporta alcuna “superiorità” del panino con le panelle (anche se per lo scrivente è decisamente più buono), né esclude che tale panino possa essere esportato in altri paesi e divenire anche lì una buona abitudine.

Il sovranismo, dunque, si contrappone alla standardizzazione dell’uomo globalizzato ma non rifiuta l’internazionalizzazione.

 Il globalismo è unipolare (quindi implicitamente suprematista, a dispetto dei proclami) mentre il sovranismo è invece “multipolare”.

 Il globalismo è etno- centrista, poiché pretende che il modello occidentale – definito dai precetti del “politically correct” – possa e debba essere esportato per “civilizzare” e rendere “democratici” tutti i paesi del mondo, anche a suon di “bombe di pace”.

 Il sovranismo, dunque, lungi dall’essere divisivo e guerrafondaio non ha alcuna pretesa di imporre un unico modello culturale, politico, economico e sociale al mondo intero. Se lo facesse diverrebbe il suo opposto, cioè il globalismo.

Portata l’ottica sovranista agli estremi, guerre come quella tra Russia e Ucraina, in effetti, non avrebbero probabilmente avuto ragion d’essere.

Alla luce di quanto detto sin qui, per liberarci dal Draghistan, occorre dunque riconquistare la sovranità dell’Italia e del popolo italiano.

 Per farlo dobbiamo “Cavalcare la Tigre” (usando un termine coniato da “Julius Evola”), cioè avere il coraggio di salire sopra la tigre del globalismo elitario – senza mai identificarsi con essa – e aspettare che si stanchi per abbatterla.

La buona notizia è che la “tigre del globalismo unipolare” appare già stremata, e rimanendo noi stessi, e unendoci nella battaglia politica e sociale, presto potremmo uscire dal giogo globalista e riconquistare la nostra sovranità e la nostra libertà di essere italiani “brava gente”.

 

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