Il pensiero dominante contro il globalismo.

 

Il pensiero dominante contro il globalismo.

 

La “decivilizzazione”.

 Maurizioblondet.it – (12 Giugno 2023) - Roberto PECCHIOLI – ci dice:

Piaccia o non piaccia alle anime belle, agli ingenui e agli ottimisti, la nostra società- che da tempo ha smesso di essere una civiltà- è in fase di avanzata decivilizzazione.

Sintomi, prove e indizi sono sotto gli occhi di tutti, ma pochissimi osano dire la verità:

 il re è nudo, manca il bimbo innocente della fiaba che osa pronunciare la verità perché dice quel che vede.

Manca la diagnosi e ancor più la terapia:

i medici sono in gran parte al servizio di chi ha reso invivibile questo pezzetto di mondo.

La barbarie avanza e la corsa verso il basso resta inarrestabile innanzitutto perché indicibile: ordini superiori.

Negli ultimi mesi in Francia il concetto di “decivilizzazione” ha fatto irruzione nel dibattito sociale.

 È stato Emmanuel Macron a portarlo all’attenzione affermando, con riferimento al clima di violenza in cui è immerso il paese, che “nessuna violenza è legittima, né verbale né contro le persone. Dobbiamo lavorare sodo per contrastare questo processo di decivilizzazione”.

Le critiche sono piovute immediatamente dal mondo progressista.

Macron è stato accusato di utilizzare lo stesso linguaggio dell’ “estrema destra “. La “gauche caviar” a corto di argomenti ripete ovunque le stesse ossessioni.

 Il presidente caro ai Rothschild ha utilizzato un termine utilizzato da “Renaud Camus”, autore di un saggio dal titolo fatale: Décivilisation.

“Camus” è bersaglio dei progressisti in quanto inventore dell’espressione “ grande sostituzione” per definire l’immigrazione in Francia e in Europa.

Come sempre, non si risponde nel merito: è in atto o no la sostituzione etnica delle popolazioni europee?

È vero o falso che stiamo subendo un degrado civile?

La reazione è sempre la stessa:

 urla scomposte, demonizzazione del reprobo perfino se è un presidente della repubblica costruito nei laboratori del potere finanziario, rifiuto della discussione per manifesta indegnità della tesi sgradita.

In realtà il “termine decivilizzazione” fu coniato da un sociologo ebreo tedesco, “Norbert Elias”, che cercava di comprendere perché il nazismo avesse conquistato i tedeschi.

“Elias” definiva il processo di civilizzazione la via attraverso la quale le società europee occidentali si sono progressivamente pacificate.

 La civiltà è innanzitutto norma sociale interiorizzata, qualcosa di simile a ciò che “Freud” definì” Super Io”, l’insieme dei codici e delle regole che rispettiamo, il controllo delle nostre pulsioni, l’inibizione volontaria come materia della civiltà, concetto ripreso da “Camus”.

 

La decivilizzazione è la fine della memoria, l’indifferenza, la liberazione del risentimento, lo sgretolamento delle strutture sociali.

 Per l’etnologo “Robert Jaudin” è la modifica totale apportata e imposta all’ordine quotidiano e, nel caso occidentale, vettore della perdita della (e delle) civiltà è la mondializzazione.

 L’interpretazione di “Camus” è simile: subcultura di massa, crisi della scuola e della famiglia, livellamento verso il basso.

La concettualizzazione è utile per descrivere fenomeni che non possono più essere negati.

 Etichettare qualcosa come “estrema destra” per espellerlo dal dibattito pubblico funziona sempre meno: “contra factum non valet argumentum”.

“Elias”, ne Il processo di civilizzazione prendeva atto che il nazismo aveva occupato l’immaginario collettivo spazzando via idee, processi e modi di pensare sedimentati nel tempo.

Una tesi vicina a una delle convinzioni più radicate della mentalità conservatrice, da “Edmund Burke” in avanti:

 la civiltà è una conquista faticosa, fragile, provvisoria, frutto di secoli, a rischio costante di essere smantellata in pochissimo tempo.

 Di qui la cura paziente di custodire, preservare e trasmettere il lascito prezioso delle migliori personalità del passato.

 

La realtà è che il clima civile declina– altro che semplice “percezione”- la criminalità spadroneggia, l’uso di droghe è in aumento, la pornografia è consumata sin da ragazzini, gli spazi comuni sono degradati, l’istruzione cede il passo a un’ignoranza arrogante e soddisfatta.

Le mode trascinano in basso una massa priva di valori orfana del pensiero.

 Anche i gesti più normali, come usare mezzi pubblici o passeggiare in quartieri periferici diventano rischiosi per certe categorie, giovani donne, anziani, deboli. Discuterne è diventato impossibile.

Tempo fa, su un treno suburbano ci siamo trovati tra una torma di ragazzi di quindici-sedici anni diretti verso le discoteche.

 Ricoperti di trucco pesante e di tatuaggi, indossavano, se maschi, abiti stazzonati che sembravano due taglie più grandi del necessario e, se ragazze, due taglie più piccole.

Scomposti, tra urla e turpiloquio, hanno cominciato a tracannare birra e alcoolici, le marche a poco prezzo dei discount.

Chiedevano l’un l’altro chi avesse portato le “polveri magiche” e le “pillole”.  Parlavano di sesso, risse e rap, sghignazzavano di una risata un po’ finta che cercava di mostrare che ognuno si stesse “divertendo” più di chi aveva accanto. Vittime inconsapevoli: nessuno ha insegnato nulla, nessuno ha proposto loro modelli di vita.

Gli esempi riguardano ogni fascia di età e censo.

Ma c‘è qualcos’altro nei fenomeni che stanno accadendo davanti ai nostri occhi. “Elias”, “Camus” e altri avvertivano di quanto sia costoso costruire una civiltà.

Uno sguardo al cambiamento dei costumi mostra il lungo, tortuoso cammino attraverso il quale una civiltà plasmata dal cristianesimo, dal diritto e dal rispetto per la persona, ammorbidì i costumi, dalla lotta per sradicare la schiavitù agli sforzi per limitare la violenza anche in guerra (distinzione tra belligeranti e civili, leggi belliche).

Il punto centrale resta l’interiorizzazione delle norme e delle limitazioni sociali. “Dunoso Cortés, nel XIX secolo, usò la metafora dei due termometri.

 Uno misura l’autolimitazione, l’altro le norme esterne. A maggiore capacità di autocontrollo, minore repressione esterna, collettiva e politica, e viceversa.

Abbiamo passato oltre mezzo secolo ad abbattere i freni interiori, in corrispondenza del crollo delle punizioni, della riprovazione sociale, della capacità e volontà del potere pubblico di intervenire.

 Né il permissivismo, né le periodiche invocazioni alla “ mano dura” riescono a garantire il funzionamento sociale.

 Di fronte alla volgare brutalità che ci attanaglia, i governi sono impotenti, timorosi, prigionieri della cultura dominante, figlia dell’idea di tolleranza come impotenza, indifferenza, rifiuto di esprimere giudizi morali.

“Aristotele” scrisse che apatia e tolleranza sono le ultime virtù di una società morente.

 Ovvero, de-civilizzata in base all’ esplosiva combinazione dell’allentamento di tutte le limitazioni sociali in conseguenza dell’individualismo esacerbato, della liberazione o scatenamento incontrollato) di tutti gli impulsi in nome della sacralizzazione delle libertà soggettive.

Senza più idee e principi comuni, invochiamo regole.

Il mercato e la legge prendono il posto degli usi e costumi di ieri, che fornivano l’orientamento civile, il quadro di riferimento per la convivenza.

 La società malata che ha lavorato alla decostruzione di sé stessa, contempla ora stupita la sua disgregazione.

In Francia ha cercato di farsi sentire la voce della residua presenza cristiana: il vescovo “Matthieu Rougé” ha rammentato l’incoerenza di combattere il processo di decivilizzazione mentre si autorizza il suicidio assistito.

 Vero: la fine dell’intangibilità della vita umana è la vera causa efficiente della decivilizzazione.

La sua origine è la volontà prometeica che non riconosce limite ai desideri, che non si sente legata a nulla, non ammette alcuna restrizione alle pulsioni.

 Una “gigantesca ingegneria sociale” ha cambiato radicalmente le nostre vite, innescando il processo di decivilizzazione.

 L’esperienza mostra che la presunta regolazione/legalizzazione di una trasgressione è il cavallo di Troia della sua normalizzazione.

I cavalli di Troia entrati nella città dell’uomo sono innumerevoli, troppi.

 Nessuno ha creduto agli allarmi, come nel caso dell’inascoltato “Laocoonte”.

Interessante è una riflessione di “Chantal Delsol”:

ci sono due tipi di barbarie, la barbarie dei sensi e quella riflessiva.

La prima è tipica dei selvaggi come il ciclope degli antichi greci, un essere rozzo dai gesti violenti e dai sentimenti elementari, un essere non ancora “civilizzato”. 

La barbarie riflessiva riguarda chi è (stato) civilizzato ma distorce il senso delle cose, decostruisce i significati, nega la realtà del mondo.

 Entrambe agiscono simultaneamente nel processo di decivilizzazione.

È una barbarie del primo tipo-avverte- che gli insegnanti non possano più parlare di determinati temi o quando in certi quartieri francesi le donne non possono entrare nelle mense.

 “Manteniamo tra noi, per mancanza del coraggio di integrarli davvero, popolazioni selvagge, cioè incivili, nelle quali i giovani non sono istruiti ma allevati come piccoli Ciclopi, pronti alla violenza perché ignorano parole e riti sociali”.

Ma siamo di fronte a un’avanzata della barbarie, aggiunge, “anche quando le maestre possono proporre ai bambini di cambiare sesso come se cambiassero ristorante, e quando l’odio e la violenza impediscono di parlare a chi pensa che quelle siano menzogne che rovinano la vita.

 Se i difensori di queste pratiche fossero persone civili, accetterebbero il dibattito, che è ciò che caratterizza la civiltà.

” Parole indigeribili, inascoltabili da chi promuove la barbarie chiamandola liberazione.

Eppure constatare l’ascesa dell’inciviltà, impossibile da nascondere per quanti sforzi faccia il potere, è “fare il gioco della destra” .

 Nessuna volontà andare a fondo nell’analisi, individuare l’origine del processo e agire di conseguenza.

Ancora Dunoso: si innalzano troni alle cause e forche alle conseguenze, ossia ci si lamenta dei frutti avvelenati senza riconoscere che velenoso è l’albero che li produce.

La causa scatenante del dibattito sulla decivilizzazione è stato un evento tragico, esito di un vuoto partito dall’alto, propagatosi come un virus a tutta la società.

Il 22 maggio un individuo armato di coltello ha aggredito due persone in un ospedale, uccidendo un’infermiera.

L’identità dell’assassino non è stata resa nota (perché ?)  ma si sa che è un malato di mente processato per atti simili nel 2017.

L’istruttoria di quel caso si era conclusa da poco (sei anni di attesa!) con la dichiarazione di non punibilità del soggetto per il suo disturbo.

Ma in Occidente la pazzia non esiste e la decivilizzazione un’invenzione di retrogradi.

Fino a quando parla Macron, apostolo del globalismo.

 Dopo Reims, Annecy: un siriano a cui è stato rifiutato lo status di profugo ha accoltellato gravemente cinque bambini.

De-civiltà, barbarie cui non opponiamo che parole, retorica melensa, lo sbigottito stupore di chi vede azzannata la mano che aveva teso.

La civiltà è un processo che, tra le altre cose, implica il riconoscimento dell’esistenza degli altri, uno sforzo di reciproca empatia.

Da questo punto di vista, la decivilizzazione non è solo una regressione, ma anche una crescente incapacità di convivenza comunitaria.

 Le conseguenze immediate sono il mal vivere e una sorta di barbarie quotidiana, ancora più insidiosa in quanto si alimenta ogni giorno di nuovi episodi, ordinarie inciviltà.

Macron, cresciuto nel giardino concettuale del progressismo, aveva probabilmente in mente questo, ma chi lo ha attaccato ha un’altra chiave di lettura, ideologica e settaria.

Il contesto determina il testo:

vogliono troncare il dibattito con il cartellino rosso dell’espulsione per non “fare il gioco della destra”.

Ma la verità è la verità, la dica “Agamennone” o il suo porcaro.

 “Renaud Camus”, a proposito di “grande sostituzione” aggiunge che essa non sarebbe stata possibile senza la decisiva sostituzione della civiltà costruita nei secoli con la sottocultura di massa, le sue mescolanze, le sue parole d’ordine, la sua pervasiva capacità di far perdere ogni identità collettiva, ogni principio condiviso.

Quali sono i valori di riferimento dei giovani del treno suburbano, oltre allo sballo, al divertimento ossessivo, le mode, il soddisfacimento immediato di desideri e pulsioni?

 Abbiamo allevato generazioni neo-primitive, selvagge, de-civilizzate.

Che sarà di loro quando avranno nelle mani quel che resta della società? 

Circolano parole rassicuranti come “dialogo”.

Ma quale dialogo è possibile se manca il codice comune, il vocabolario minimo per comunicare?

 Interrotte le vie di trasmissione, non resta che il silenzio ostile, l’istinto senza freni, il branco, la violenza.

Il silenzio della civiltà finisce nella guerra di tutti contro tutti: vince il più forte. Ieri il più violento, oggi il più ricco.

De-civilizzazione.

 

         

 

Sono contro il “pensiero unico

 Globalista”, un vero e proprio

impazzimento generale”:

Adriano Scianca parla con Matteo Fais de “La nazione fatidica”.

 

Pangea.news – (12 novembre 2018) – Matteo Fanis e Adriano Scianca – ci dicono: 

 

È noto che, di questi tempi, dichiarare il proprio amore per la Patria comporta l’essere condotti immediatamente di fronte al tribunale della Santa Inquisizione Radical.

Per bene che ti possa andare, sei costretto a portare addosso l’etichetta di “fascista” a vita – certo non sarà come finire al rogo, se non in senso figurato e sociale, ma non è comunque piacevole.

 Non che la cosa turbi più di tanto Adriano Scianca.

Come Direttore di “Il Primato Nazionale” è già abbastanza rotto a insulti e contumelie varie.

Qui a Pangea, delle facili categorizzazioni e delle scempiaggini stile fascistometro, non ce ne frega niente.

Piuttosto, ci ha deliziati la sfrontatezza di questa sua virilissima dichiarazione d’amore e quello spirito così politicamente scorretto che anima” La nazione fatidica”.

Elogio politico e metafisico dell’Italia, “Altaforte Edizioni 2018”.

 Il testo spazia, come si intuisce facilmente dal sottotitolo, secondo un percorso che non disdegna neppure il rovesciamento di ogni accademica assunzione già data rispetto alla nostra letteratura, riportando però sempre tutto alla dimensione politica – e come potrebbe essere altrimenti, visto che tutto è politico.

 Scianca si adopera per costruire una contro narrazione della realtà nazionale antitetica a quella dominante, sfidando tutti i luoghi comuni, e lo fa con una prosa epica e bellicosa, trascinante.

Tra i vari testi dei soliti “Murgia” e “Saviano”, sempre così contro da non costituire mai un reale pericolo per il potere, “La nazione fatidica” spicca come la sola arma veramente affilata, abbandonata in un angolo nell’attesa di trovare il guerriero più adatto a raccoglierla.

 

Scianca Andriano, tu hai scritto niente meno che La nazione fatidica”. Insomma, di questi tempi, come ti viene in mente di esprimere amore per il tuo Paese?

Proprio di questi tempi, in realtà, vi sarebbe un gran bisogno di dimostrarlo. Invece, anche la ricorrenza del centenario della vittoria nella Grande Guerra, che in tutti gli altri paesi hanno salutato come un momento di unità nazionale, qui da noi è stata vista quasi con fastidio.

Celebrarla come si deve avrebbe voluto dire magnificare la Nazione, l’unità, il sacrificio, la guerra, la morte, tutte cose che oramai abbiamo rimosso dal nostro orizzonte culturale.

Perché bisogna amare la propria Nazione?

Nel libro, a un certo punto, dico che bisogna amarla ma con distanza, cioè senza essere accondiscendenti nei suoi confronti.

La questione quindi è ben più complessa di come potrebbe sembrare di primo acchito: non si tratta semplicemente di identificarsi con essa.

Dopodiché ognuno è libero di odiarla, se lo ritiene. Non c’è un imperativo categorico a riguardo.

Ciò non di meno, ne risultiamo segnati e da essa non ci possiamo astrarre totalmente. L’utopia del cittadino del mondo non funziona, è irrealistica.

Tutti noi siamo caratterizzati da una storia che è anche nazionale.

Possiamo poi decidere se strutturare a partire da questa eredità una serie di complessi e rimozioni, come viene fatto attualmente, oppure valorizzare ciò che in essa merita.

Scusa, da Direttore di “Il Primato Nazionale”, hai fatto il test propugnato da “Michela Murgia”, il noto fascistometro?

Che risultato hai ottenuto? Il sito di “L’Espresso” è andato in tilt per caso?

 Credo di essere uno dei pochi italiani a non averlo neppure preso in considerazione, anche perché sinceramente pensavo si trattasse di una boutade.

Ero certo che la gente ne avesse, per così dire, frainteso il senso sarcastico.

Leggendo poi la” Murgia”, su Facebook, è risultato chiaro che ero il solo a non aver compreso la serietà attribuita alla faccenda.

La cosa simpatica è che, anche ottenendo zero nel test, si risulta comunque fascisti in potenza.

 Insomma, tutti saremmo fascisti in qualche modo.

 Curioso come la scrittrice non si renda conto che, se tutti sono tali, nessuno lo è in realtà.

Stanno creando una sorta di saturazione, gridando continuamente “al lupo, al lupo”, danneggiando in primis sé stessi e la loro battaglia. Non so se ti ricordi la copertina di “L’Espresso” di qualche tempo fa, con un’Italia fatta a forma di svastica e il titolo Nazitalia.

Ora, io mi domando: se, per ipotesi, domani il governo impazzisse e decidesse di riproporre veramente – che so – le leggi naziste di Norimberga, “L’Espresso” che copertina farebbe?

Che titolo userebbe: “Questa volta il fascismo arriva per davvero”?

Nella prefazione, Giordano sottolinea come uno dei passi salienti del tuo testo sia quello in cui si dice che “al populismo, per paradosso, oggi manca il popolo”. Ci potresti chiarire questo concetto?

In questo caso è facile cadere nell’equivoco. Non intendo dire che manchi il consenso popolare, che chiaramente l’attuale Governo possiede.

Il punto è che il populismo tende a fare affidamento sulla gente, un concetto molto diverso da quello di popolo.

Quest’ultimo è una comunità con un’origine, una storia, un destino.

Il populismo dovrebbe insomma capire che non basta intercettare il disagio – che è reale e che fa bene a interpretare –, quello di chi non arriva alla fine del mese, di chi ha la microcriminalità sotto casa, di chi è oberato dalle tasse.

 Per arrivare al popolo è, invece, necessario volare un po’ più alto.

Per esempio, a me sarebbe piaciuto che questo Governo, per essere davvero del cambiamento, avesse dato un segnale simbolico di sentita adesione all’anniversario della Grande Guerra, cosa che non ha fatto.

Evidentemente, c’è ancora da lavorare su questo versante. Bisogna portare il popolo, nel senso forte del termine, culturale direi, dentro il populismo.

Una provocazione, partendo dall’introduzione al tuo testo: gli italiani non esistono, come sostiene qualcuno, oppure non devono esistere?

Che non esistano viene spacciato come un fatto. In verità, a mio avviso, chi dice questo pensa che gli italiani non debbano esistere e, anziché un dato, esprime un programma, il proprio programma metapolitico, quello di farci scomparire.

Pensiamo solo a “Mimmo Lucano” che in un’intervista ha dichiarato “sogno un’Italia senza più autoctoni”, aderendo di fatto al “sogno del fronte globalista”, ovvero fare tabula rasa degli italiani.

 

La Nazione, mi pare di capire, tu auspichi, dovrebbe essere fatidica eppure, come sottolinei, ogni volta che ha provato a dimostrare il suo valore, qualcuno l’ha per così dire rimessa al suo posto.

 Perché? È davvero tutto dovuto a quella che chiami “l’innata inclinazione al tradimento della nostra classe dirigente”?

No. Esiste certamente un’inclinazione al tradimento della nostra classe dirigente, ma questa necessita di un concorso esterno – lì dove esiste la corruzione c’è sempre, oltre a chi è corrotto, chi corrompe.

 L’Italia è fatidica non solo per la sua storia, ma anche più prosaicamente per la sua posizione geopolitica nel Mediterraneo, fungendo da cerniera tra il mondo arabo e il mondo europeo, ed è sempre stata vista come tale da tutte le potenze che si sono affacciate sul Mare Nostrum per dettare legge.

È evidente che serva prona, assoggettata. Vi è la volontà di mantenerla al rango di nazione di secondo ordine e c’è chi accoglie questi “imput esterni” per tutta una serie di ragioni…

 

Uno dei passi che mi ha maggiormente colpito, del tuo libro, è questo:

 “Bisogna altresì riconoscere che una certa ipocrisia cattolica, se pure può ripugnare a chi abbia il senso di una vigorosa franchezza pagana, rappresenta pur sempre un tentativo di instaurare un ordine etico che concili la Bibbia con il mondo e con la realtà in senso nettamente diverso da quanto proposto dal puritanesimo protestante”.

E proseguendo scrivi:

“Non stupisce, al contrario, che l’opinione pubblica antitaliana di ogni epoca abbia deplorato la mancata protestantizzazione dell’Italia”.

Non posso che concordare: c’è qualcosa di profondamente inquietante nell’impostazione tetragona dei popoli del nord.

Ma non stiamo diventando anche noi, per una stolta pulsione esterofila, dei puritani all’americana, o nello stile dei paesi settentrionali?

Il momento di maggiore pressione di questo tipo di cultura protestante, non in senso religioso, ma a livello di mentalità, lo abbiamo avuto qualche anno fa con il Governo Monti.

 Non parlo unicamente del suo presentarsi con i caratteri del leader nordeuropeo, ma del discorso ideologico, l’idea che ci sia un difetto nella storia italiana che risiede nella mancata riforma protestante.

 Io sarei più orientato spiritualmente e culturalmente verso quella che definisco la vigorosa franchezza pagana, mentre non sono particolarmente entusiasta dell’ipocrisia cattolica, però trovo che sia un modo per fare spazio alla realtà, un compromesso dignitoso.

 Infine, la trasgressione, coperta da una patina di rispettabilità, è comunque meglio del mondo a cui ci stiamo avviando attualmente, a questa trasparenza moralistica a tutti i costi.

Per esempio, non ha senso accusare un Presidente del Consiglio di doppiezza, perché è un puttaniere e difende la famiglia tradizionale.

Lui si batte per un certo ordine sociale e non per un ordine morale.

I protestanti vogliono invece quest’ultimo, perché nella loro visione non c’è distinzione tra pubblico e privato.

 

Ma veniamo ai personaggi letterari che, nel libro, costituiscono dei fari disseminati sul cammino da te tracciato.

 Prendiamo Leopardi.

 Tu dici che la scuola l’ha da sempre neutralizzato e depoliticizzato, restituendocene un’immagine distorta.

Spiegaci come si è arrivati a questo?

Distorta nel senso che il Leopardi scolastico risulta unicamente uno sfigato gobbo, innamorato e rifiutato, che scrive versi struggenti.

Si dipinge così quello che forse è stato il maggiore genio della storia della letteratura italiana ed europea, dopo Dante.

In lui c’è molto di più: uno sguardo sulla civiltà e sulla storia che è originalissimo e che quasi mai viene spiegato.

 Ciò anche perché la scuola italiana è una fabbrica di semicolti, persone che si lamentano degli analfabeti funzionali e poi si limitano a replicare sempre le stesse letture, gli stessi concetti.

 Se gli parli di Leopardi, il massimo che possono fare è associarlo a Schopenhauer. Il paragone, intendiamoci, sussiste, ma loro credono che la questione sia particolarmente pregnante, quando invece si tratta di una semplice banalità.

Perché, per l’autore dei Canti, “la patria è quindi l’unica illusione virtuosa, una finzione che eleva l’uomo anziché abbrutirlo”?

Cominciamo col dire che lo sfondo filosofico da cui muove Leopardi è molto simile a quello di Nietzsche, una sorta di nichilismo profondo per cui tutto è illusione.

 Il suo pensiero vorrebbe appunto fare strage delle illusioni, come Nietzsche con la teoria della morte di Dio vorrebbe indurre in noi la presa di coscienza che tutto ciò in cui crediamo è finzione.

Nonostante ciò, per il pensatore italiano non si tratta di raggiungere una situazione in cui ci si lascia alle spalle le illusioni per arrivare infine a una visione più realistica.

Benché riconosca come fallaci questi inganni, sa bene che sono necessari alla vita umana:

esiste un tipo di illusione che è fautrice di virtù ed è quella della Patria. Lui in qualche modo sente che, a partire da essa, noi possiamo accedere alla grandezza, per cui questa si profila come un’illusione benedetta.

Cosa succederebbe, a tuo avviso, se gli studenti di sinistra dovessero scoprire che Leopardi non è un cosmopolita, ma anzi sostiene che “la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo a una nazione, e tutte le nazioni a una sola persona”?

Fino al ’45, in realtà, tutti i pensatori, i poeti, i filosofi hanno un elemento irriducibile a quello che oggi chiamiamo “politicamente corretto”.

 Questo peraltro si è evoluto sino al punto che certe cose che erano corrette vent’anni fa ora non lo sono più.

Basti pensare ai Simpson.

 Non si finisce mai di censurare, insomma.

 Ma ciò è tanto più vero se vediamo i grandi nomi della letteratura e della filosofia, tutti così distanti da una simile visione (pensiamo anche solo a Platone e Aristotele), tutti orientati in modo così radicalmente diverso rispetto alla follia ideologica della contemporaneità.

 Ci sarebbe grande stupore quindi se dovessero conoscere il vero Leopardi.

Qualche giorno fa è uscita la notizia che, in un libro di testo, si usava Manzoni per propagandare l’euro, dicendo che la folla impazzita descritta dall’autore di “I Promessi Sposi” sarebbe la stessa che oggi anima i populisti e i sovranisti antieuro.

Parliamo della stessa persona per cui l’Italia è “una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”.

 Era chiarissimo per Manzoni, così come per Mazzini, che esiste anche una dimensione biologica, che non è razziale nel senso in cui la intendiamo noi oggi dopo il Nazionalsocialismo.

Infatti, anche Manzoni e altri, non sono mica l’ideale per un progressista medio. Gente che parla di vincoli biologici.

 Ma, insomma, la letteratura italiana, prima dei nostri giorni, è costituzionalmente antiprogressista?

 

Sì, o meglio, anche il progressismo era qualcosa di diverso a suo tempo. Nel nostro Risorgimento ci sono delle correnti illuministe e liberali, quindi meglio non parlarne come se fosse stato una scuola di mistica fascista.

 Però, quel tipo di progressismo teneva in debita considerazione tutta una serie di fattori che oggi vengono contestati e processati come la cultura nazionale, la tradizione, il legame che c’è all’interno di un popolo, che venivano dati per scontati.

Adriano, lascia un messaggio al lettore di sinistra – per quanto temo che, al momento, ci abbia già abbandonati.

 Spiegagli perché dovrebbe leggere il tuo La Nazione Fatidica”?

Da autore, dire che qualcuno dovrebbe leggere il tuo libro è sempre un esercizio di narcisismo che non mi piace.

Ciascuno legga quello che preferisce. Io posso solo far presente che non ho niente contro la Sinistra.

 Leggo costantemente autori ascrivibili a quella parte politica – che, peraltro, ha una tradizione assolutamente rispettabile.

Vi sono anche una serie di pensatori come “Proudhon”, per esempio, che possono essere non dico riabilitati, perché nessuno li ha squalificati, ma assunti in un pantheon sovranista.

Ho tutto invece contro il pensiero unico globalista e politicamente corretto, che io considero alla stregua di una malattia mentale, un impazzimento generale.

Costoro non credo possano trarre giovamento dalla lettura del mio libro, perché sono costituzionalmente incapaci di rivedere le loro posizioni.

 Le persone di sinistra, se ancora ne esistono al di fuori di questa follia generalizzata, sono i benvenuti.

Anzi mi farebbe piacere se leggessero e mi facessero sapere cosa vi hanno scorto.

(Matteo Fais)

 

 

 

Distruggere il senso comune è

la missione del globalismo.

Serve una nuova lotta di classe.

 Ilprimatonazionale.it - Diego Fusaro – (10 Agosto 2021) – ci dice:

Roma, 10 ago – È sempre utile rileggere 1984 di Orwell, poiché non smette mai di insegnarci qualcosa.

 Certo, la realtà ha superato già da tempo le più fosche profezie distopiche di Orwell, va pacatamente riconosciuto.

Durante il lockdown, perfino le surreali scene dei droni che ci sorvegliavano dall’alto sono divenute di ordinaria quotidianità.

 V’è un passaggio del romanzo di Orwell che, tra gli altri, ha fatto scuola: “Il senso comune era l’eresia delle eresie”.

Sì, perché il senso comune, il sentire popolare, l’evidenza tangibile delle cose devono essere a tutti i costi estirpate.

 In loro luogo, deve prevalere la narrazione granitica e a reti unificate del Partito.

Se esso dice che due più due dà cinque, non v’è senso comune che possa smentirlo. Non vi è logos che valga a contestarlo.

La narrazione del Partito trionfa sempre sulla realtà e sui suoi sostenitori residuali, ai quali fa quotidianamente violenza.

La neolingua della repressione.

La sola realtà ammessa è quella brutale e spietata dei rapporti di forza, del mondo del potere così come è.

 E rispetto al quale ogni pur vago tentativo di pensare altrimenti è già pronto a essere squalificato mediante una categoria ad hoc della neolingua.

La cui funzione, si sa, è di impedire ogni pensiero divergente da quello dominante, che è appunto il pensiero unico.

 Larga parte della catechesi cosmo mercatista si sta in effetti già da tempo dirigendo contro il senso comune dei popoli e delle classi che lavorano, con le loro sacrosante richieste di stabilità e di diritti, di protezioni e di tutele lavorative ed esistenziali.

 Il senso comune è esso stesso ostracizzato en bloc.

Difendi i diritti del lavoro?

“Sei un patetico assistenzialista”.

Difendi la possibilità di avere una famiglia e mantenerla?

 “Sei un lurido omofobo”.

Difendi il tuo territorio e la tua comunità?

 “Sei un vigliacco xenofobo”.

E così via, di delegittimazione in delegittimazione del senso comune.

“La nuova lotta di classe”.

Non v’è dubbio, almeno a mio giudizio.

La lotta di classe deve anche essere lotta del senso comune contro le aberrazioni della classe dominante, che solo difende ciò che potenzia il suo dominio e la valorizzazione del valore.

E poco conterà se diranno che siamo reazionari e non progressisti, vintage e non à la page.

Aveva ragione Gramsci, il senso comune è una cosa serissima, che deve essere considerata e riformata, non certo negata in nome di una folle idea di globalizzazione dis- identificante.

 Sì, è così: la lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori, di cui diceva Marx, è anche una lotta – come diceva Heidegger – tra un’umanità non ancora franata e una già franata.

(Diego Fusaro)

 

 

 

 

Globalizzazione, globalità

e globalismo.

Amedeolomonaco.it – (25-1-2023) – Amedeo Lomonaco – ci dice:

 

Globalizzazione, globalità e globalismo sono i principali termini che compongono il nuovo paradigma globale.

 Con il termine globalizzazione si definisce un processo di colonizzazione esteso all’intero globo.

 La parola globalizzazione sottolinea il carattere dinamico del processo transnazionale.

Si riferisce all’intensificarsi degli spazi, degli eventi.

Ma anche dei problemi, dei conflitti, delle esistenze transnazionali.

 

 

Globalizzazione.

Il fenomeno della globalizzazione si riferisce a particolari diffuse strategie economiche tese a ricavare il massimo profitto immediato.

Tramite tale processo, gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali.

Vengono influenzati dalle loro chance di potere, dai loro orientamenti, da identità e reti.

La globalizzazione può essere definita come una situazione di forte interdipendenza tra le attività economiche e finanziarie.

E coinvolge diverse regioni del mondo.

Sistema interdipendente.

La globalizzazione implica processi non solo economici.

Sono coinvolti in questo fenomeno anche ambiti politici, sociali e culturali.

In questo contesto economia, cultura, politica e società sono interdipendenti.

L’evoluzione di uno tra questi fattori comporta necessariamente un cambiamento negli altri.

 Il sistema militare, essendo invece espressione di questi ambiti, può avere un’influenza a livello globale attraverso lo sviluppo tecnologico.

Globalità.

Il concetto di globalità implica è legato al tessuto della società mondiale.

 La rappresentazione di spazi chiusi diviene fittizia.

Nessun Paese, nessun gruppo si può isolare dall’altro.

In tal modo, si scontrano e si confrontano diverse forme economiche, culturali e politiche.

 In questo contesto l’autopercezione gioca un ruolo cruciale nella formazione di identità nuove.

La globalità è irreversibile. E si possono individuare almeno queste fondamentali ragioni:

L’estensione geografica e la crescente interazione del commercio internazionale, la connessione globale dei mercati finanziari;

la crescita dei gruppi industriali transnazionali;

la rivoluzione permanente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione;

le rivendicazioni dei diritti umani che si impongono universalmente;

la pervasività dell’industria culturale globale;

la politica mondiale post internazionale, policentrica;

le questioni della povertà globale;

il problema delle distruzioni globali dell’ambiente;

la questione dei conflitti transculturali locali.

Globalismo.

Con il termine globalismo si definisce qualcosa di simile ad una visione del mondo in cui tutto è profondamente interconnesso.

Si indica il punto di vista dell’ideologia del neoliberismo.

 Il nucleo ideologico consiste tutto nel fatto che in esso viene liquidata una differenza fondamentale della prima modernità:

quella tra politica ed economia.

Ideologia neoliberista.

Il globalismo può rappresentare l’impegno per una buona ecologia.

 Ma anche gli sforzi per uno sviluppo economico ampiamente sostenibile dalla natura.

Tra le priorità di tale visione ci sono l’armonizzazione della distribuzione della popolazione, una migliore ripartizione di compiti, opportunità e profitti, e la libera espressione di ognuno.

 Ma non c’è solo un globalismo affermativo.

 C’è anche un globalismo che dice di no.

Un globalismo che si schiera contro il dominio del mercato mondiale e si rifugia nelle diverse forme di protezionismo.

 

Aspetti positivi e Aspetti negativi della

Globalizzazione economica.

Grandi possibilità di sviluppo per il mercato che diviene globale.     

Il mercato globale crea disuguaglianze e sfugge ad ogni tipo di controllo.

Cresce la prosperità globale grazie all’aumento degli scambi commerciali.

Divisioni sempre più accentuate tra paesi ricchi e paesi poveri.

Aumentano le dimensioni e le prospettive del capitalismo.    

All’aumento del capitalismo fa riscontro la perdita di posti di lavoro.

Globalizzazione politica.

Forme di tutela politica sovranazionali che inseguono scopi globali.

Fine dello Stato-nazione e dello Stato assistenziale.

Policentrismo e interdipendenza a livello globale.         

Rischio del pensiero unico e di un solo modello dominante.

Le problematiche politiche acquisiscono una valenza globale.          

Le responsabilità sono sempre più collettive e sempre meno individuali.

Globalizzazione tecnologica.

Il progresso tecnico e scientifico migliora la qualità della vita.          

Le nuove tecnologie generano discriminazioni in base alle possibilità.

Le nuove tecnologie diffondono ovunque informazioni e sapere.     

I media acquisiscono sempre più potere e capacità di influenzare il pubblico.

Globalizzazione culturale.

Ogni cultura ha il proprio spazio nel contesto globale. 

Le culture forti tendono a dominare su quelle meno forti.

Sprovincializzazione e ampliamento dei “modus vivendi”.      

Tendenze alla omologazione e omogeneizzazione culturale.

Riscoperta del valore delle culture.  

Evaporazione del territorio, i confini divengono solo un concetto astratto.

 

 

 

In parlamento è stata cancellata

la libertà di ribellarsi al globalismo.

 

Ariannaeditrice.it - Gianluigi Paragone – (02/08/2020) – ci dice:

(Fonte: Gianluigi Paragone)

Ridurre l’autorizzazione a procedere verso Salvini a un fatto tecnico giuridico è un grave errore.

 La questione è essenzialmente politica e rimarca ancora una volta un ordine ben preciso: anestetizzare la politica, omologarla, standardizzarla.

 Non ci devono essere spazi diversi da quelli voluti da un unico pensiero globalista: demolire gli Stati, puntare l’indice contro chi pensa e agisce diversamente.

 Chi dunque svia va punito prima attraverso la demonizzazione mediatica, poi attraverso manovre politiche e infine attraverso la giustizia che quando non è politicizzata (e le intercettazioni di Palamara dimostrano quando lo è), è comunque già stata convertita – magari in buona fede, per carità, ma cambia poco – al pensiero dominante.

 Il risultato tuttavia è il medesimo, cioè mettere fuori gioco gli altri.

 Il tema dunque non è Matteo Salvini, ma la possibilità di applicare politiche diverse da quelle che il mainstream impone.

 E il mainstream impone subdolamente ciò che è Bene e ciò che è Male, ciò che è Buono e ciò che è Cattivo.

Così il Potere dei più buoni diventa la grammatica politica cui devi sottostare se non vuoi finire nella Caienna dei brutti, sporchi e cattivi.

La domanda sottintesa che il dibattito dell’altro giorno al Senato proponeva è: si possono applicare politiche rigide nel controllo dell’immigrazione clandestina?

 Si possono applicare politiche dure, radicali, finanche di chiusura?

Per me sì, perché è una scelta politica.

 Per chi ha votato a favore dell’autorizzazione a procedere no.

Ma l’aspetto giuridico non c’entra: tant’è che nel caso Salvini/Diciotti i Cinquestelle negarono ai giudici il processo (un processo che è politico nel senso largo del termine) a meno che non vogliamo davvero credere alle glosse da Azzeccagarbugli che permettono a Conte di lavarsene le mani.

Se Salvini fosse stato ancora ministro di quel governo, la decisione sarebbe stata di difesa del proprio ministro all’insegna del “Processateci tutti”.

Ma si sa, i tempi cambiano e i punti di vista si adeguano.

 Aprire un processo contro Salvini significa processare l’opzione dei porti chiusi. È giusto?

Sì, se si pensa che governo e parlamento non possano godere di una immunità strettamente limitata alle scelte politiche.

 Io invece penso il contrario, penso che il potere dell’esecutivo si materializzi anche in queste scelte.

Se la giustizia vuole politicizzarsi allora si vada alle elezioni popolari dei magistrati d’accusa.

Altrimenti il gioco è sbilanciato: Salvini ha ragione, ammette Palamara, ma va fermato.

Giovedì scorso M5S, Pd e Leu hanno obbedito a Palamara.

Essere rigorosi e rigidi sul controllo delle frontiere significa (a maggior ragione nella mia visione di uscita dalla Ue) proteggere i cittadini italiani o chi, straniero, risiede in Italia regolarmente.

Consentire gli sbarchi non è accogliere e men che meno non è integrare:

 consentire gli sbarchi significa per i politici cosiddetti buoni sistemare la propria visibilità nella zona vip dove ormai pescano e significa per il sistema globalista proseguire nell’intento di smontare gli Stati, di indebolirli attraverso le migrazioni dopo averli sottoposti alle peggiori condizioni di indebitamento finanziario.

A tal proposito l’ingannevole step a favore del Mes è la dimostrazione:

 il Mes è passato attraverso un subdolo emendamento del Pd;

insomma, tanto hanno fatto che alla fine è scattato il semaforo verde al Mes.

Eccola dunque la gabbia europea:

 dall’alto la morsa finanziaria che ti imprigiona col debito, dal basso le migrazioni incontrollate che diventano invasione.

Una invasione che alla fine infoltirà l’esercito di lavoratori in nero, sfruttati e sottopagati;

infoltirà le organizzazioni criminali che fanno soldi nel business dell’accoglienza (parola che a tal proposito s’impregna di ipocrisia);

 addenserà un disagio che si scarica per lo più nelle periferie, già in affanno.

Impedire di fermare in maniera decisa questo traffico di approdi significa negare alla politica di agire diversamente.

 Ecco perché ieri a processo non è finito Salvini ma la libertà di fare una politica diversa da quel che vuole il Pensiero unico.

 

 

 

 

 

La Polizia si Affida a “Giove”

per Spiare i Cittadini in Piazza.

 

Conoscenzealconfine.it – (15 Giugno 2023) – Redazione – La pekoranera.it – ci dice:

La polizia italiana è in sperimentazione avanzata con “Giove”, equivalente del software statunitense di “polizia predittiva.

La prima sperimentazione sulla cittadinanza è coincisa con la parentesi della “pandemia”:

 durante il lockdown del 2020 il software” KeyCrime” americano è stato migliorato dagli italiani per controllare istantaneamente il movimento di sessanta milioni di cittadini.

Ovviamente si tratta d’un controllo massivo che, nei casi a rischio crimine, si trasforma in spionaggio davvero invasivo, capace di monitorare anche gli aspetti più intimi e reconditi.

 Proprio questi ultimi aspetti stanno facendo tentennare il “Garante della privacy”, che non avrebbe ancora dato il via libera al “Minority Report” italiano.

Il ministro dell’Interno vorrebbe dotare con “Giove” tutte le questure italiane.

Il software, oltre ad indicare dove e quando si verificheranno i reati, è in grado di monitorare tutti gli scambi telefonici, attuando un programma di prevenzione di omicidi e rapine, anche carpendo l’umore e lo stato d’animo dei cittadini.

Spiando pensieri e confessioni, promette d’estinguere sia i reati di maggior impatto sociale che l’indole criminale delle fasce più a rischio della popolazione.

Di fatto il programma crea corrispondenze con la realtà anche in base a pregiudizi, come ad esempio, che una persona disperata possa rubare o uccidere:

 infatti nella banca dati sarebbero già state testate le vite di lavorativamente inattivi, disoccupati, artigiani con pregressi giudiziari, esercenti di attività in periferie con forte presenza d’organizzazioni criminali.

Il “Sole 24 ore” spiega che Giove è “un sistema di elaborazione e analisi automatizzata per l’ausilio delle attività di polizia”:

 è un software basato su un algoritmo che alimenta l’intelligenza artificiale, quest’ultima fa uso delle banche dati delle forze dell’ordine, dell’Agenzia delle Entrate, della Camera di Commercio, del Catasto (Agenzia del Territorio), del Pra (pubblico registro automobilistico) e degli istituti di credito (GIANOS, acronimo di Generatore Indici di Anomalia per Operazioni Sospette).

Il sistema Giove si sviluppa nel “Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno” nel 2020:

le prime sperimentazioni sono state portate avanti dalla Questura di Milano nel 2008 (il software “KeyCrime”, anche detto “Minority Report” italiano, è stato ideato dall’ex assistente capo Mario Venturi).

Le startup lavorano alla «polizia predittiva» di Minority Report.

Nei fatti sarebbe utile se si limitasse a mettere in correlazione i diversi crimini, determinando se sono stati compiuti dallo stesso soggetto.

 Ma un simile sistema rischia di monitorare la vita di tutti, e questo potrebbe comportare il non rispetto della privacy, attentando alle libertà personali.

Il “Dipartimento di pubblica sicurezza” dice che certe banche dati vengono usate solo per addestrare l’algoritmo, ma che nei fatti conteranno solo quelle che censiscono soggetti dediti a rapine, spaccio e probabili violenze.

È certo che Giove dialogherà con il sistema di riconoscimento facciale “Sari”, e questo scambio di dati sembra possa servire ad arresti preventivi ed opere di dissuasione verso soggetti a rischio criminale ed eversivo.

 Attualmente pare che “Giove” e “Sari” dialoghino soprattutto su dimostranti in protesta e tifoserie:

in parole povere stanno indagando su tutti i cittadini che scendono in piazza per protestare contro guerra, ZTL, acquartieramenti, divieti e sbandieramenti allo stadio.

Non avevamo dubbi: i criminali continueranno a fare i loro affari, a mantenere la popolazione, soprattutto nelle grandi città, in un clima perenne di paura, e i cittadini per bene, ridotti a sudditi, saranno spiati se protestano contro nefandezze varie del sistema e smantellamento dei loro diritti. (nota di conoscenzealconfine.it)

(lapekoranera.it/2023/06/08/la-polizia-si-affida-a-giove-per-spiare-i-cittadini-in-piazza/)

 

 

 

 

L’”Egemone” scatenerà una

guerra ibrida totale contro i BRICS+.

Ariannaeditrice.it - Pepe Escobar - Come Don Chisciotte – (14/06/2023) – ci dice:

 

I pensatori dei “Think Tank statunitensi “non conoscono bene “Montaigne”: “Anche sul trono più alto del mondo, siamo comunque seduti solo sulle nostre chiappe”.

L’arroganza porta questi esemplari a presumere che i loro flaccidi culi siano al di sopra di quelli degli altri.

Il risultato è che un mix caratteristico di arroganza e ignoranza finisce sempre per smascherare la prevedibilità delle loro previsioni.

Il Paese dei “Think Tank statunitensi” – inebriato dalla sua stessa aura di potere auto-creata – telegrafa sempre in anticipo ciò che ha in mente.

Era stato il caso del “Progetto 11 settembre” (“Abbiamo bisogno di una nuova Pearl Harbor”).

 Era stato il caso del rapporto RAND sull’iperestensione e lo sbilanciamento della Russia.

E ora è il caso dell’”imminente guerra americana ai BRICS”, come descritto dal presidente dell’”Eurasia Group” di New York.

È sempre doloroso doversi sciroppare i sogni erotici e intellettualmente superficiali mascherati da “analisi” del “Paese dei Think Thank”, ma, in questo caso particolare, i principali attori del “Sud Globale” devono essere fermamente consapevoli di ciò che li attende.

Prevedibilmente, l’intera “analisi” ruota attorno all’imminente, devastante umiliazione per l’”Egemone e i suoi vassalli”: quello che sta per succedere nel “Paese 404”, noto – per ora – come “Ucraina”.

Quando si tratta della guerra per procura tra Stati Uniti e NATO contro la Russia, il Brasile, l’India, l’Indonesia e l’Arabia Saudita vengono liquidati come i “quattro grandi indecisi”.

È il solito vecchio tropo del “siete con noi o contro di noi”.

Poi ci vengono presentati i sei principali colpevoli del Sud Globale: Brasile, India, Indonesia, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia.

In un altro rozzo e campanilistico remix di una frase ad effetto riferita alle elezioni americane, questi vengono definiti come gli “Stati Chiave” [Swing States] che l’Egemone dovrà sedurre, convincere, intimidire e minacciare per assicurarsi il dominio dell'”ordine internazionale basato sulle regole”.

L’Arabia Saudita e il Sudafrica erano stati aggiunti in un precedente rapporto incentrato sui “quattro principali stati indecisi”.

Il manifesto sugli “swing states” sottolinea che sono tutti membri del “G-20” e che sono “attivi sia in geopolitica che in geoeconomia” (davvero? Questa sì che è una notizia bomba).

 Quello che non dice è che tre di loro sono membri dei BRICS (Brasile, India, Sudafrica) e che gli altri tre si sono seriamente candidati a far parte dei BRICS+:

 le delibere partiranno col turbo nel prossimo vertice dei BRICS in Sudafrica, ad agosto.

È quindi chiaro il senso del manifesto sugli “swing states”: una chiamata alle armi per la guerra americana contro i BRICS.

Quindi i BRICS non sarebbero forti.

Il sogno erotico del manifesto sugli “swing state”s è che il “near-shoring” [il trasferimento della produzione o di alcune attività aziendali in un Paese vicino a quello di origine, N.D.T.] e il “friend-shoring” [la ricollocazione di alcune fasi della produzione in Paesi amici che condividono il sistema di valori – o di interessi – e l’allineamento geopolitico del Paese di riferimento, N.D.T.] si allontanino dalla Cina.

 Sciocchezze: il potenziamento del commercio intra-BRICS+ d’ora in poi sarà all’ordine del giorno, soprattutto con l’estensione della pratica del commercio in valute nazionali (vedi Brasile-Cina o all’interno dell’”ASEAN”), il primo passo verso una diffusa de-dollarizzazione.

[Secondo il manifesto], gli swing states non sarebbero “una nuova incarnazione” del Movimento dei Non Allineati (NAM), o di “altri raggruppamenti dominati dal Sud globale, come il G-77 e i BRICS”.

Si tratta di un’assurdità all’ennesima potenza.

 Stiamo parlando dei BRICS+, che ora hanno gli strumenti (tra cui la NDB, la banca dei BRICS) per fare ciò che il NAM non aveva mai potuto realizzare durante la Guerra Fredda: stabilire il quadro di un nuovo sistema che aggiri Bretton Woods e i meccanismi di coercizione interconnessi dell’”Egemone”.

 

Quanto all’affermazione che i BRICS non avrebbero “molta forza”, essa rivela solo l’ignoranza cosmica del “Think Tank Land” statunitense riguardo alla vera essenza dei BRICS +.

La posizione dell’India è considerata solo in termini di” membro del “Quad” [Quadrilateral Security Dialogue – un’alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, N.D.T.], definito come uno “sforzo guidato dagli Stati Uniti per bilanciare la Cina”.

 Correzione: contenere la Cina.

Per quanto riguarda la “scelta” degli swing states tra Stati Uniti e Cina su semiconduttori, IA, tecnologia quantistica, 5G e biotecnologie, non si tratta di una “scelta”, ma di quanto saranno in grado di sostenere la pressione dell’Egemone per demonizzare la tecnologia cinese.

La pressione sul Brasile, ad esempio, è molto più forte di quella sull’Arabia Saudita o sull’Indonesia.

Alla fine, però, tutto torna all’ossessione “neocon straussiana”: l’Ucraina.

Gli swing states, in varia misura, sono colpevoli di opporsi e/o minare la demenza delle sanzioni.

 La Turchia, ad esempio, è accusata di aver consentito il transito verso la Russia di prodotti “a doppio uso”.

Non una parola sul sistema finanziario statunitense che ha costretto le banche turche a non accettare più le carte di pagamento russe MIR.

Sul fronte dei pii desideri, tra le tante, spicca questa perla:

“Il Cremlino sembra credere di poter guadagnarsi da vivere spostando il suo commercio verso sud e verso est”.

Ebbene, la Russia si sta già guadagnando da vivere in modo eccellente in tutta l’Eurasia e in una vasta area del Sud globale.

L’economia è ripartita (i motori sono il turismo interno, l’ingegneria meccanica e l’industria dei metalli); l’inflazione è solo al 2,5% (più bassa che in tutta l’UE); la disoccupazione è solo al 3,5%; e la presidentessa della Banca Centrale,” Elvira Nabiullina”, ha detto che, entro il 2024, la crescita tornerà ai livelli” pre-SMO”.

Il “Think Tankland statunitense” (l’EGEMONE) è congenitamente incapace di comprendere che, anche se le nazioni BRICS+ possono ancora avere alcuni seri problemi di credito commerciale da appianare, Mosca ha già dimostrato come anche un implicito e forte sostegno di una valuta possa rivelarsi un immediato cambio di gioco.

 La Russia sta sostenendo non solo il rublo ma anche lo yuan.

Nel frattempo, per quanto le iene della guerra per procura possano continuare a ululare nel buio, la carovana della de-dollarizzazione del Sud Globale avanza inesorabilmente.

 Quando si scoprirà la completa e incredibile vastità dell’umiliazione della NATO in Ucraina, probabilmente entro la metà dell’estate, il treno ad alta velocità della de-dollarizzazione sarà al completo e non farà fermate.

Ritorna in ballo l'”offerta che non si può rifiutare”

Se tutto ciò non fosse già abbastanza sciocco, il manifesto sugli swing states raddoppia la posta sul fronte del nucleare, accusandoli di “futuri rischi di proliferazione (nucleare)”: in particolare – chi altro – l’Iran.

A proposito, la Russia viene definita una “media potenza, ma in declino”.

E per giunta “iper-revisionista”.

Oh cielo: con “esperti” come questi, gli americani non hanno nemmeno bisogno di nemici.

E sì, a questo punto siete autorizzati a ridere a crepapelle:

la Cina è accusata di voler dirigere e cooptare i BRICS. Il “suggerimento” – o “l’offerta che non si può rifiutare”, in stile mafioso – agli “swing states” è che non potete unirvi ad un “organismo diretto dalla Cina e assistito dalla Russia che si oppone attivamente agli Stati Uniti”.

Il messaggio è inequivocabile: “La minaccia di una cooptazione sino-russa di un BRICS allargato e, attraverso di esso, del Sud Globale, è reale e deve essere affrontata”.

Ed ecco le ricette per affrontarla.

 Invitare la maggior parte degli swing states al G-7 (che è stato un misero fallimento).

 “Più visite ad alto livello da parte dei principali diplomatici statunitensi” (un benvenuto alla distributrice di biscotti Vicky Nuland).

E, infine, ma non per questo meno importante, tattiche mafiose, come una “strategia commerciale più agile che inizi a rompere il ghiaccio dell’accesso al mercato statunitense”.

Il manifesto sugli “swing states” non poteva non rivelare il punto più importante, prevedendo, anzi pregando, che

“le tensioni tra Stati Uniti e Cina aumentino drammaticamente e si trasformino in un confronto in stile Guerra Fredda”. Questo sta già accadendo, scatenato dall’Egemone.

Quale sarebbe il seguito?

Il tanto ricercato e strombazzato “disaccoppiamento”, che costringerebbe gli Stati in bilico ad “allinearsi più strettamente con una parte o con l’altra”.

 È di nuovo “sei con noi o contro di noi”.

Quindi, eccolo qui.

Crudo, nero su bianco – comprese le velate minacce.

La guerra ibrida 2.0 contro il Sud Globale non è neanche ancora iniziata.

Gli “swing states” sono stati avvertiti.

(strategic-culture.org/news/2023/06/10/the-hegemon-will-go-full-hybrid-war-against-brics/)

 

 

 

 

Non c’è civiltà senza confine.

 Centromachiavelli.com - José Papparelli – (27-5-2021) – ci dice:

 

Nell’eterno presente globalizzato che caratterizza la nostra attualità, i confini sembrano aver perso la loro ragion d’essere.

 I confini del buon senso di un’intera civiltà stanno silenziosamente cadendo davanti agli occhi accecati dei suoi cittadini.

 Il discorso del “politicamente corretto sull’abolizione delle frontiere”, l’abbattimento dei muri e dei confini, non solo nazionali ma di ogni tipo – come se fosse un mantra inviolabile – si è affermato e assolutamente normalizzato nella cultura dell’Occidente.

Dall’altra parte del confine c’è però la barbarie.

La civiltà si fonda sulla frontiera, la frontiera del territorio che delimita ciò che è proprio da ciò che è straniero.

 Pensiamo alla fondazione di Roma con il solco scavato da Romolo, che non esitò a difenderlo dalla sfida di Remo, suo fratello.

Il confine, il limite non è solo territoriale ma anche culturale, naturale e mantenuto continuamente dalla tradizione fondata nell’origine di un popolo.

Ecco perché “la cultura della cancellazione” e i “globalisti no-border “devono eliminare le frontiere.

Eliminandole, con esse si perdono le regole, le leggi che governano la convivenza, la libertà e la sicurezza.

 Tutto è perduto quando si aboliscono gli Stati sovrani.

 Quando regna il caos, i confini tra il bene e il male scompaiono, e senza regole non ci sono differenze;

 e senza di esse non c’è identità, né dignità, né sovranità, né libertà, né civiltà.

 La caduta delle frontiere significa la perdita della libertà;

esse fanno posto all’anarchia, alla tirannia o al dispotismo.

Senza confini, non c’è civiltà.

I media e lo spettacolo, così come l’educazione in tutte le sue sfere, hanno trasmesso il pensiero globale unificato come nuova ideologia dell’abolizione delle identità, delle sovranità, delle patrie e delle nazioni, che sono state sostituite dalle cosiddette società aperte.

 Questo pensiero è il “nuovo catechismo tollerante” proclamato in tutto il mondo da intellettuali, artisti, personaggi dei media e persino dallo stesso Papa di Roma.

In breve, è l’emergere redentore del mondo di Imagine di John Lennon come il modello globale del buonismo realizzato.

 La pubblicità della Croce Rossa con l’immagine “mariana” della volontaria bianca che tiene il “Cristo” migrante nero è un esempio della perversione manipolativa dell’uso delle immagini per dubbi scopi filantropici.

Vediamo nei telegiornali le immagini dell’inarrestabile attacco di massa alla frontiera spagnola di Ceuta e la costante violazione del confine di Stato.

 La cosa preoccupante è che ciò non sia stato percepito come un pericolo, come una minaccia alla libertà, come una vera e propria invasione con tutto ciò che comporta, ma come una crisi migratoria, umanitaria o diplomatica cui si deve rispondere con l’accoglienza di chi entra senza permesso e non con la forza come Romolo.

Questa narrazione è quella dell’ideologia globalista senza confini, eredità del cosmopolitismo illuminista e massonico, dell’internazionalismo marxista, del cattolicesimo post-conciliare derivante da quello che in Italia si chiama catto-comunismo, e del capitalismo di mercato finanziario ultra-liberale nelle mani di élite apolidi.

 Il mondo senza frontiere è l’utopia verde, sostenibile, resiliente ed ecopacifista dei nipoti del Sessantotto, al comando della rete tecno-finanziaria dell’élite globale.

Un crudele paradosso della storia, in cui la controcultura è diventata la cultura dominante.

Senza frontiere, non c’è senso religioso e metafisico della vita, nessuna geografia ancestrale, nessun legame familiare.

Senza frontiere, muri protettivi, confini, non c’è trascendenza, né legge, né casa, né ordine, né cultura, né famiglia, né tradizione, né identità, né libertà, né sovranità, né dignità. Se non c’è niente di tutto ciò, non c’è umanità, maschile o femminile, passata o presente o futura, e senza di essa c’è solo la distopia transumana che ci viene offerta in cambio dello smettere di essere ciò che siamo.

Le frontiere proteggono, nutrono e salvano le civiltà.

Sono il baluardo e il sostegno sovrano dei popoli e sono serviti a riconoscere l’altro, a dialogare o a confrontarsi, ad affermare l’identità.

Quando le frontiere vengono violate, vengono invase.

 Quando questo accade, si vince o si perde, non c’è altra opzione.

 La sopravvivenza o la scomparsa della civiltà, della sovranità, della libertà e della vita sono in gioco nella difesa delle frontiere e dei confini culturali.

Niente di più, niente di meno.

(Josè Papparelli)

(El Correo de España)

 

 

 

 

Intervista al filosofo sloveno Žižek.

Perché il pacifismo stavolta

non è un’opzione.

Repubblica.it – Enrico Franceschini – (22-4-2022) – ci dice:

ll grande filosofo sloveno non si arruola nelle file dei “né, né”, offrendo un sostegno incondizionato a Kiev davanti all’invasione russa.

Ma su ogni altro tema rimane provocatorio.

 

Londra. «Il pacifismo non è un’opzione nella guerra in Ucraina» dice Slavoj Žižek al telefono da Lubiana.

 «Per fermare Putin serve una cosa sola: la forza».

 Il grande filosofo sloveno dunque non si arruola nelle file dei “né, né”, offrendo un sostegno incondizionato a Kiev davanti all’invasione russa.

Ma su ogni altro tema, dalla globalizzazione al cambiamento climatico, l’illustre docente di marxismo con cattedre a Londra, New York e Seul rimane provocatorio come la sua fama racconta.

 E come il suo nuovo saggio, “Guida perversa alla politica globale” (Ponte alle Grazie):

 un manuale del mondo contemporaneo che a colpi di paradossi offre una visione della realtà originale rispetto al pensiero dominante.

Per cominciare, professor Žižek, cosa pensa della guerra in Ucraina?

«Ha presente quello scandalo scoppiato in Italia quando l’università di Milano Bicocca ha cancellato il corso di uno scrittore su Dostoevskij?

Ebbene, ci sono state tante giuste proteste, era assurdo censurare l’autore di Delitto e castigo perché Putin ha invaso l’Ucraina.

 Ma Dostoevskij ha rappresentato a lungo la visione di una Russia spirituale, superiore, da contrapporre al materialista Occidente:

il mito di una Russia panasiatica che deve sempre intervenire a salvare l’Europa, una volta da Napoleone, un’altra da Hitler, senza ottenere dall’Europa la gratitudine che merita».

E cosa c’entra Putin?

«C’entra perché ha stessa visione rabbiosa e frustrata dell’Occidente».

Il presidente ucraino Zelensky invece le piace?

«Sì, ma al suo posto avrei usato un altro slogan.

“Noi siamo i difensori dell’Europa”, dice Zelensky.

Io avrei detto: “Noi ucraini lottiamo per la libertà della Russia”.

Perché se l’Ucraina vince, forse potremo liberarci di Putin, altrimenti la sua dittatura ne uscirà rafforzata».

In Italia, in nome del pacifismo, c’è chi dice: né con Putin né con Zelensky.

«Il pacifismo non è un’opzione in questo conflitto.

 L’unico modo per resistere a Putin è con la forza.

Gli invasori dicono sempre di volere la pace, perché è il modo per sovrastare le vittime.

Anche Hitler diceva di volere la pace nella Francia occupata dai nazisti».

Qualche anno fa Putin disse che il modello della democrazia liberale è in declino. Concorda?

«In un certo senso aveva ragione.

Naturalmente Putin lo diceva per rivendicare la sua autocrazia come modello vincente.

Tuttavia lo scontento che si avverte in gran parte del mondo industrializzato è reale, indica che nelle democrazie liberali bisogna cambiare qualcosa».

Cambiare cosa, esattamente?

«Esagerando direi che bisogna fare come nel comunismo di guerra, i provvedimenti economici e sociali presi da Lenin dopo la rivoluzione bolscevica.

Non per realizzare il comunismo, beninteso, ma per ristrutturare la democrazia, che ha bisogno di più socializzazione, più pianificazione, più cooperazione internazionale, più sforzi globali per affrontare problemi come sanità, cambiamento climatico e immigrazione».

Un vasto programma…

«Per questo esiste la politica.

Prendiamo l’Italia. Io non sono contro Mario Draghi.

Ma Draghi rappresenta una sorta di tecno-populismo che dovrebbe mettere tutti d’accordo: infatti è alla testa di una coalizione che comprende praticamente tutti i partiti.

Come se oggi l’unica risposta possibile fosse mettersi al di sopra della politica. Mentre io credo che debba essere ancora la politica a fornire risposte ai problemi della società».

Qualche politologo sostiene che il vecchio conflitto ideologico tra destra e sinistra è superato, sostituito dalla sfida tra nazionalismo e globalismo.

«Non sono d’accordo. Beninteso, non sono contrario alla globalizzazione in quanto tale, ma i mega miliardari come Jeff Bezos sono dei monopolisti che controllano tutto, troppo.

 C’è qualcosa di poco democratico in questo.

Perciò la gente si ribella. Solo che il populismo alla Donald Trump è una falsa ribellione».

Teme il ritorno alla Casa Bianca di Trump?

«Trump è il frutto di un elettorato deluso.

Bisogna parlare a quel tipo di persone.

Chi lo fa talvolta coglie risultati inaspettati, come il candidato della sinistra francese Mélenchon, che ha preso il 20 per cento alle presidenziali.

 La penso come il senatore americano Bernie Sanders: non bisogna temere di spostarsi troppo a sinistra per paura di perdere gli elettori di centro, bisogna conquistare gli elettori di destra, gli elettori di Trump, i populisti delusi».

Che lezioni ci ha dato la pandemia?

«Davanti a un problema che minacciava tutto il Pianeta, la gente ha riscoperto l’importanza dello stato e delle strutture internazionali.

L’iniziativa privata è bella, ma senza lo Stato non porta vantaggi per tutti.

 La pandemia ce lo ha rammentato. Lo stesso dovrebbe valere per la lotta al cambiamento climatico».

Considera quest’ultimo il maggiore problema mondiale?

«Nel lungo termine, sì».

E nel breve termine?

«Ne abbiamo uno all’anno. La crisi economica globale. La pandemia. La guerra in Ucraina. Domani magari la guerra tra Cina e Taiwan. Il mondo sembra infestato dai quattro cavalieri dell’Apocalisse: peste, guerra, fame, morte».

E tra questi cupi cavalieri è ottimista o pessimista?

«Il pessimismo è il modo migliore per mantenere un pizzico di ottimismo.

Se sei ottimista e le cose vanno male, perdi ogni fiducia nel futuro.

Se sei pessimista e qualcosa va bene, ti resta un barlume di speranza».

("Guida perversa alla politica globale" di Slavoj Žižek).

 

 

 

“Gabbia de matti è il mondo”.

Rivistalagazettaonline.info – Redazione - G&G. Arnò – (10-3-2023) – ci dice:

Rivista marzo 2023.

Siamo alla frutta?

Macché! Ormai siamo all’amaro: il gusto più italiano che ci sia!

D’altronde è il gusto che meglio caratterizza la cucina italiana, anche se non è di culinaria che desideriamo parlare: l’antifona si riferisce, ahinoi, a come ci siamo ridotti!

Un nostro anziano professore di filosofia, quasi novantenne ma tuttora lucido e attivo, afferma che oggi il mondo va alla rovescia, così come decritto da “Ovidio” nelle “Metamorfosi”.

Il poeta sulmonese, infatti, in pochi versi descrive mirabilia della natura, cose le più impossibili: gli uccelli deambulano;

 i fiumi scorrono verso il cielo perdendosi tra le nuvole;

i pesci volteggiano; e un marcato obnubilamento della coscienza si diffonde nell’atmosfera.

 La malvagità umana ha provocato il furore di Giove ed ecco le conseguenze!

Oggi, però, a causare lo scompaginamento del consesso dei popoli, aggiunge il professore, è la corruzione:

 la patologia più antica che conosca la società. 

Conseguenza della corruzione è la degenerazione delle ambizioni degli esseri umani, condizionata da bramosie e dissolutezze varie.

O tempora, o mores!

Francamente noi, cresciuti negli anni del boom economico italiano, non ci riconosciamo più in questo mondo!

 La bimillenaria civiltà giudaico-cristiana ansima, sta morendo mentre una nuova 'cultura’, quella dell’indifferenza, dell’inverecondia, del globalismo vorace, della deriva della politica, del disprezzo dei valori e delle tradizioni, dell’appiattimento sociale e del qualunquismo dilagante avanza frantumando le vestigia di ciò che di più caro abbiamo ereditato: cultura, tradizioni, senso del pudore e bon ton.

Papa Francesco in occasione del suo recente viaggio in Africa,  a Giuba, nel corso della messa celebrata al Mausoleo "John Garang", ha detto a migliaia e migliaia di fedeli presenti:

"Noi cristiani, pur essendo fragili e piccoli, anche quando le nostre forze ci paiono poca cosa di fronte alla grandezza dei problemi e alla furia cieca della violenza, possiamo offrire un contributo decisivo per cambiare la storia".

 Ha di seguito precisato:

"Gesù desidera che lo facciamo come il sale: ne basta un pizzico che si scioglie per dare un sapore diverso all'insieme".

Magari fosse possibile contribuire a cambiare la storia! Forse… in un mondo fantastico, ma non nel mondo bislacco in cui ci siamo cacciati. 

Questo pazzo mondo!

«Gabbia de’ matti è il mondo» così diceva “Tommaso Campanella”, che, per scappare al rogo, dopo trent’anni tra processi, fughe, torture e carcere, si è fatto passare per pazzo.

 Il filosofo stilese, che pazzo non era, semplicemente dissentiva dal pensiero unico dominante dell’epoca, quello dei matti (a suo dire e… non solo), così come accadeva col filosofo e frate domenicano “Giordano Bruno”, che, purtroppo per lui, finiva al rogo per le sue teorie, giudicate eretiche dal tribunale dell'Inquisizione dello Stato Pontificio.

In sostanza, i due illustri disallineati di allora, e certamente non furono i soli, finirono male per il semplice fatto di non aver condiviso la linea di opinione e l’orientamento ideologico, politico o religioso, all’epoca prevalenti.

I matti s’inciviliscono.

Naturalmente, negli anni a venire continuò parimenti la supremazia del pensiero dominante (chiaro, nessun riferimento alla poesia del recanatese Leopardi!), come anche il proliferare dei disallineati di turno, ma la contrarietà all’ortodossia cattolica non venne più perseguita dagli inquisitori e le forme di dissenso politico vennero definite semplicemente 'opposizione': beh, col tempo, i matti quantomeno s’inciviliscono!

Tant’è e il mondo cambia:

 l’opposizione, infatti, rappresenterà per gli opposti il «bastian contrario»; i disallineati non rischieranno più il rogo (la transizione ecologica e Bruxelles oggi non lo permetterebbero!);

 e la globalizzazione ci trasformerà in massa omologata e impecorita.

E non solo, quest’ultima metamorfizza il pensiero dominante in pensiero unico, che, secondo “Ignacio Ramonet”, coniatore del termine, altro non è che

«la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale».

In altre parole il pensiero unico è l’astrazione della superiorità del potere economico su quello politico, ovvero il requiem della politica o, se preferite, l’apoteosi della follia.

Sulla correttezza politica.

Ma non è finita: c’è di più; la pazzia continua!

 Al pensiero unico si aggiunge una nuova linea di opinione, che noi definiremmo un 'meme', ovvero la correttezza politica (political correctness).

 Detto termine, di antica data, è variamente inteso nelle diverse epoche e, secondo la definizione corrente, designa

 'una linea di opinione, un orientamento ideologico, nonché un atteggiamento sociale con lo scopo inteso soprattutto nel rifuggire l'offesa o lo svantaggio verso determinate categorie di persone all'interno di una data società'.

Bene, per alcuni si tratta di un conformismo linguistico e di una dittatura ideologica che circoscrive il diritto alla libertà d’espressione e, per altri, di preferenze linguistiche che costituiscono sovente una presentazione rannobilita della circonlocuzione (eufemismo) che maschera i contenuti importuni.

 Questa è la dicotomia che si è aperta tra i glottologi e i sociologi che s’interessano alla questione.

In realtà, dispute a parte, va evidenziato che del “politicamente corretto” si è fatto cattivo uso e abuso in quanto strumentalizzato per propri fini da determinate correnti di pensiero politico.

 In sostanza, riassumendo il già detto: tanta prosopopea e pochi fatti!

 Oltre a ciò, a noi, all’antica, legati a tradizioni e a schemi passati, fatti salvi e impregiudicati i diritti degli odierni interessati, l’abuso del politicamente corretto provoca sconforto e talvolta ci fa pure scappare, tanto per rimanere in tema, un bel «roba da matti!».

In sostanza, il pensiero unico e il politicamente corretto, imposti da quei signori temuti e obbediti, che reggono le sorti della «Gabbia de’ matti», ci infilano in una doppia dittatura:

la prima ideologica e la seconda limitatrice della libertà d’espressione.

 E vi pare poco?

Ma, che fare! Il popolo massificato, come narcotizzato, con rassegnata sottomissione sa solo annuire e obbedire!

Il capolinea dell’insensatezza.

Morale della favola, il mondo, a fasi alterne, è stato sempre mezzo o tutto matto, ma ora, bisogna convenire, si è giunti al capolinea dell’insensatezza e il guaio è che nella 'gabbia' ci stanno, ancor peggio di prima, più matti che savi.

Guerre, degenerazioni dei costumi, crisi varie (economiche, climatiche, politiche, religiose, morali) e per finire minacce nucleari altro non sono che le conseguenze della follia umana.

I giovani ormai vivono senza ideali in un mondo alienato e perituro; gli adulti, d’accordo con “Giovanni Verga”, sono ridotti a materia, la cui unica brama è l'accumulo e il possesso di beni e piaceri materiali;

e gli anziani, moralmente stomacati, se ne strafregano di tutto, tanto loro il futuro non lo vivranno!

Insomma, peggio di così…!

Ciononostante, il mondo alla rovescia, per “Ovidio”, non durerà per sempre: dopo il Diluvio nascerà un’umanità migliore!

Beh, questa è dura da credere:

pensate che oggi come oggi ci sia davvero qualcosa in cui sperare?

Nel diluvio, col clima «matto» che ci ritroviamo, probabilmente sì, ma nel mondo migliore, con così tanti svitati in giro…!

«Il dubbio è scomodo, ma solo gli imbecilli non ne hanno», asseriva “Voltaire”.

Siamo dunque scettici, è pur vero, ma l’incredibile istinto di sopravvivenza e la sua imprescindibile forza ci spingono, in certi casi, a pensare positivo:

 stavolta ci lasciamo trasportare sull’onda di un noto aforisma del filosofo” Seneca”: «Il timore avrà sempre più argomenti, scegli la speranza».

(G.&G.Arnò)

 

 

 

 

«Dobbiamo promuovere la famiglia

 in ogni modo».

L'intervista a Lorenzo Fontana.

Provitaefamiglia.it – Giuliano Guzzo – (20-11-2020) – ci dice:

 

Da pochi giorni l’on. Lorenzo Fontana ha ricevuto da Matteo Salvini un nuovo significativo incarico: quello di capo dipartimento Famiglia e valori identitari.

Un ruolo che il politico veronese, classe 1980, notoriamente vicino a posizioni pro life e pro family, promette di svolgere al meglio e al servizio, appunto, di una cultura controcorrente e libera da ideologie.

 Per saperne di più in proposito, Pro Vita & Famiglia ha avvicinato l’ex Ministro della Famiglia.

Onorevole Fontana, in che cosa consiste questo suo nuovo incarico?

 

«Con questo dipartimento assegnatomi da Salvini, intendo di occuparmi di formazione continua e – anche se per il momento, per ovvie ragioni, solo con eventi on line – non appena possibile con incontri in tutta Italia.

Preciso che ho chiesto a Salvini di occuparmi sì di famiglia, ma anche di valori identitari, essendo le due cose strettamente legate.

 Sottolineo inoltre che sono molto contento di questo incarico perché, inutile negarlo, vincere le elezioni è fondamentale, però non è tutto.

Servono anche, nelle istituzioni, persone in grado di spendersi per dei valori e che, quando c’è da combattere per essi, abbiano gli strumenti per farlo».

In che senso?

«Nel senso che quella sui valori è una battaglia culturale, prima che politica.

 I nostri giovani devono essere istruiti, capire come va il mondo.

 Serve insomma un nucleo di gente preparata, capace di incidere sia all’interno sia all’esterno del partito, facendo rete».

Tutto questo con riferimento ai valori della famiglia e ai temi identitari?

«Esatto. La famiglia in primis, in quanto primo tassello di una società – come si dice spesso - ma anche come tassello più importante della battaglia identitaria.

 La battaglia fatta sull’identità, infatti, non può prescindere dalla battaglia fatta sulla famiglia, perché quest’ultima è il primo luogo della trasmissione della tradizione e dell’identità, appunto.

Del resto, che cosa sono società, un Paese, una comunità e un comune se non, pensiamoci bene, un insieme di famiglie?

La famiglia è insomma l’entità principale che noi dobbiamo cercare di favorire in ogni modo, anche attraverso una certa visione dell’economia e della società nel suo insieme».

Per esempio?

«In questi giorni si vedono in televisione pubblicità che in sostanza incentivano, anche in vista del Natale, gli acquisti on line.

Ecco, io chiaramente non contesto la possibilità degli acquisti on line, per carità.

Tuttavia non posso neppure tacere come far riferimento ad un negozio di quartiere o presente nei nostri centri storici significa non soltanto - e non è poco - dare del lavoro a qualcuno, ma anche favorire spesso piccoli artigiani, creare identità e sicurezza spesso sostenendo realtà a conduzione familiare.

Quello che voglio insomma dire è che l’economia stessa ha una funzione sociale, e ciò non va dimenticato».

Certi valori possono quindi essere promossi anche dal punto di vista economico.

«Precisamente. Ma per farlo non bisogna aiutare le grandi corporation bensì il piccolo, che come dicevo è spesso espressione di una realtà familiare che va aiutata.

 Dobbiamo cioè essere in grado di pensare un’economia che non aiuti solo le grandi multinazionali ma che possa essere ispirata, per così dire, ad un modello di raggiungimento possibile per tutti (anche minimale) alla ricchezza del paese.

Ricordo in proposito quanto diceva “Chesterton”:

 “Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti”».

Quindi, come dipartimento, avverserete, se non ho capito male, anche una certa visione globalista.

«Sì, perché, per come la vedo io, oggi la vera contrapposizione non è più tra destra e sinistra, bensì tra omologazione e identità, tra globalismo appunto e identità.

Con il globalismo che ha due facce – una ultra capitalista ed una socialista -, distinte ma che sovente convergono, dato che per esempio mi sembrano entrambe affascinate dal modello cinese.

 Ecco, noi dobbiamo contrapporci a questo con una visione identitaria che non è una visione di chiusura, come spesso viene detto, bensì di valorizzazione delle differenze.

Tutte quelle differenze - tra culture, Paesi e sessi – che il pensiero dominante sta facendo di tutto per appiattire.

Proprio perché sono preziose ed espressione di libertà».

(Infatti al globalismo delle grandi finanziarie non interessa la libertà per tutti, ma solo la libertà dei ricchi finanzieri al comando del mondo unico! N.d.R.)

 

 

 

 

La Sinistra contro la Destra o

il Globalismo contro il Sovranismo?

Leganelmondo.org - José Papparelli – (20-1-2023) – ci dice:

 

All’inizio del 1964 Bob Dylan scrisse una canzone intitolata “The Times They Are a-Changin” – in italiano “I tempi stanno cambiando” – che apparve sull’omonimo album.

Il cantautore americano, riferimento alla musica folk e a quella che allora veniva definita la “canzone di protesta”, riuscí a diventare il riferimento culturale del XX secolo, e la sua canzone un simbolo del tempo.

Una delle sue strofe diceva:

 “Forza, scrittori e critici, che profetizzate con le vostre penne, tenete gli occhi aperti, l’occasione non si ripeterà. E non parlate troppo presto, perché la ruota gira, gira sempre. Nessuno può dire chi sia l’eletto. Perché il perdente di oggi, sarà quello che vincerà domani. Perché i tempi stanno cambiando “.

Sicuro che i tempi stavano cambiando.

Cambiarono e da allora non hanno smesso di farlo.

Quel complesso processo politico, economico, sociale e culturale che ha annunciato la sua musica ha preso una velocità insolita, perniciosa e dannosa, soprattutto dopo il 68, dando inizio al cambio ideologico della sinistra classista ad una piccola frangia della borghesia, antiautoritaria e dirompente.

Con la caduta dell’URSS e delle tirannie comuniste, poco più di vent’anni dopo il maggio francese, e la schiacciante dimostrazione del potere delle élite oligarchiche del capitalismo finanziario internazionale, la sinistra, in un atto di travestimento ideologico, nacque il cosiddetto progressismo, che adotta il peggiore dei sistemi e delle visioni del mondo.

 Oggi, tutto questo, si è fuso nel pensiero unico del globalismo insieme ai suoi ex nemici di classe e al capitale finanziario senza paese e senza confini.

Dall’internazionalismo proletario all’internazionalismo finanziario di minoranze multicolori per integrare il complesso sostegno ideologico per il nuovo ordine mondiale in divenire:

una società di soggetti vittime volontarie del consumo inutile, del comfort permanente e dal piacere individualistico immediato;

 soggetti che tranquillizzano la loro cattiva coscienza con la morale promossa dalle ONG.

 Persone che esercitano il cosiddetto impegno sociale e la solidarietà con Tweeter, predicando bontà e tolleranza con sufficiente connessione e distanza di sicurezza verso coloro che soffrono nella propria carne miseria, schiavitù, dolore e morte pero’ dall’altra parte dello schermo dello smartphone.

 Insomma, si è instaurata una “ipocrizia” (ipocrisia+democrazia) d’élite gestita da persone mediocri, promosse, accettate e approvate dalle organizzazioni internazionali per il bene di tutta l’umanità.

Dopo più di mezzo secolo dal successo musicale di quel giovane ribelle e contestatore che oggi è un anziano premio Nobel per la Letteratura, i tempi continuano a cambiare e nonostante il vantaggio di chi cerca un mondo sottomesso, obbediente e in uniforme, “la roulette ancora sta girando” secondo la poesia di Bob Dylan.

È ancora utile cercare di interpretare la realtà con le classiche categorie di destra e sinistra nate nella Rivoluzione francese?

Secondo la cultura dominante, i principi ei valori sociali accettati a livello globale sono l’eredità dello slogan rivoluzionario francese di Libertà, Uguaglianza e Fraternità del 1789.

Pertanto, la sinistra ha il compito di promuovere l’uguaglianza intesa come socialismo, la destra la libertà intesa come liberismo e la fraternità come cattolicesimo inteso come solidarietà senza trascendenza e selettiva con l’immigrazione anomica e incontrollata.

Oggi il rifiuto di questo schema promosso dalle più alte sfere politiche internazionali e dai suoi terminali mediatici, trasforma immediatamente chi lo denuncia in un dissidente ai margini della legge, un outsider, un emarginato, una sorta di pericoloso fuorilegge per l’utopica società multiculturale, tollerante e progressista della nuova” governance” mondiale.

 Nel nuovo schema di potere, la sinistra e la destra sono categorie obsolete ma servono ancora in parte a interpretare il mondo attuale attraverso le sue braci e il patrimonio culturale della sua morente cultura politica.

Oggi, quella che potremmo considerare come la destra conservatrice legata alla tradizione, ai principi della legge naturale, legata ai valori, sacri, metafisici, spirituali e non finanziari, materiali e capitalisti, manca dei valori politici del confronto a causa del potere meschino del sistema.

Questa” destra” è più vicino all’apolitia, o alla metapolitica, che alla lotta elettorale e la poltrona.

Una posizione naturalmente inerente a sé stessa e fedele ai suoi principi.

 

Ma questo settore potrebbe ancora svolgere un ruolo importante in quella che potremmo chiamare una battaglia culturale.

In realtà, stiamo parlando di una cultura di destra, con le lettere maiuscole, che ha un certo legame naturale con quella che oggi è stata chiamata sovranismo, legata all’identità e al patriottismo, o quel populismo di destra che ha diverse manifestazioni in Europa e il resto del mondo.

 Ci sono, oggi, quelle cosiddette maggioranze silenziose che spesso ci hanno sorpreso quando si manifestano, quando nessuno se lo aspetta, e le cui motivazioni sono albergano nei cuori e nelle menti di milioni di persone che tacciono e lavorano e che silenziosamente condividono un pensiero comune, che è una visione diversa del mondo, che non è quella ufficializzata dai Mass Media.

Quel sostentamento diventa buon senso e quando prende forma, esce allo scoperto, e rivela la manipolazione e le bugie dei potenti.

Anche la sinistra ha il suo universo e le sue categorie politiche sono diverse e contrastanti.

 La sinistra rifiuta il merito, la gerarchia e il sacro.

A questa filosofia si oppone l’egualitarismo, la setta democratica globale, il materiale e il profano.

 Non concepisce la trascendenza e la religione, l’uomo e la tecnologia occupa il posto del divino e del sacro con diritto a ogni desiderio, senza limiti, nazione, confine e ora nemmeno sesso o specie.

La sinistra, oggi il miglior alleato dell’élite tecno-finanziaria liberista-capitalista, ha bisogno di sradicare le radici che uniscono l’uomo alla sua comunità e la comunità al suo popolo, o nazione o stato per la costruzione di una nuova civiltà transumana, egualitaria e collettivista con la tecnologia più avanzata per il controllo della finanza globalista.

Esistono anche incroci eterogenei, trasversali e persino eretici tra queste due concezioni del mondo e della società e che anche in una certa misura e momento potrebbero arricchire lo sviluppo di movimenti alternativi contro i poteri plutocratici.

Oggi il mondo sta attraversando un percorso tortuoso che ha già infranto lo schema sinistra-destra.

La visione del mondo, dell’uomo nella società, e la lotta per il prevalere dei modelli, passa da chi punta tutto sulla globalizzazione e da chi lo fa per la comunità sovrana dei popoli.

La disputa è tra chi aspira a vivere un presente infinito e materialista a chi scommette su un mondo in relazione alle sue radici e al suo passato per andare verso il futuro.

 Oggi il conflitto si genera tra coloro che cercano nell’origine, nel mito e nell’eternità di fare comunità e civiltà, e quelli che lottano nel presente per costruire un paradiso utopico sulla terra, un universo temporale tecnocratico.

 In breve, particolarismo e identità contro un universalismo uniforme.

È ancora possibile cambiare il corso di ciò che sembra inevitabile.

Sì, è possibile, ma non è facile.

Sarebbe necessaria una nuova classe dirigente per poter fare il primo passo nella direzione opposta al baratro, e un’autentica volontà comunitaria che non accetti il servilismo del comodo benessere della semplice sopravvivenza.

Un consenso comunitario dovrebbe essere raggiunto dai villaggi e dalle cittadine più remote alle megalopoli più sviluppate al fine di recuperare una natura, tradizioni, culture e identità perdute per sentirsi di nuovo autenticamente umani nella famiglia e nella comunità, con fede nelle nostre discendenze, tradizioni e trascendenze.

Come è scritto nella nostra genetica.

Non dimentichiamo che “I tempi stanno cambiando “:

“Venite senatori, membri del congresso, rispondete alla chiamata. Non rimanete sulla porta, non bloccate l’atrio. Perché quello che si farà male, sarà colui che ha cercato di impedirci l’ingresso.

 C’è una battaglia fuori e sta infuriando.

 Presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri perché i tempi stanno cambiando.”

E non smetteranno di farlo, però’ sì, speriamo sia nella direzione corretta.

 E soprattutto dobbiamo ricordare che la gran parte di tutto questo dipende soprattutto da noi.

(José Papparelli)

(elcorreodeespana.com/politica/817049901/Izquierda-vs-Derecha-o-Globalismo-vs-Soberanismo-Por-Jose-Papparelli.html)

 

 

 

 

 

Globalismo: un

“mondo in catene”.

 Appelloalpopolo.it - LUCA MANCINI -  (1° LUGLIO 2019) – ci dice:

La peggior paura dei globalisti non è lo Stato – è il popolo.

Questo è il primo saggio di una serie in due parti di” Phil Mullan” che esplora il credo politico ed economico del globalismo.

Siamo entrati in uno di quei periodi della storia in cui l’ordine mondiale può essere definito solo come instabile.

 Alcuni prevedono che ci sarà un ‘momento di Tucidide’, in riferimento alla natura di questa storia della guerra del Peloponneso di 2500 anni fa.

 In quest’opera, Tucidide scrisse:

‘Ciò che rese inevitabile la guerra fu la crescita della potenza ateniese e la paura che ciò causò a Sparta.’

Oggi potremmo esserci incamminati sulla stessa strada, dal momento che vecchi e nuovi poteri si stanno scontrando: una Cina in crescita sta alimentando le ansie nel declino dell’America e dell’Europa e nel frattempo si stanno aggiungendo, a un quadro di per sé caratterizzato da un alto indice di discontinuità, crescenti tensioni all’interno del ‘vecchio’ mondo occidentale.

Un approccio razionale a un mondo in cambiamento sarebbe quello di elaborare collettivamente un nuovo ordine appropriato per la nostra era, da parte di nazioni libere e indipendenti.

 Tuttavia, la prospettiva dominante globalista è stata invece quella di insistere sull’adesione a un preesistente ‘ordine internazionale basato su un codice predeterminato di regole’, istituito dopo la seconda guerra mondiale.

Ma perpetuare gli attuali accordi giuridici internazionali rischia di ravvivare il fuoco sotto una pentola a pressione già in procinto di esplodere.

Quando le vecchie potenze si affidano al mero preservare le regole esistenti, ciò è per il mondo altrettanto pericoloso, delle azioni di coloro che rifuggono tali regole o che cercano di riscriverle, se non di più.

Questo è il motivo per cui i globalisti contemporanei rappresentano una minaccia per la pace mondiale tanto quanto coloro che essi condannano come nazionalisti, caratterizzati da una visione antiquata della politica economica.

Quando coloro che si trovano in una posizione dominante usano le loro posizioni privilegiate per cercare di preservare lo status quo a costo di frustrare le aspirazioni dei loro sfidanti si crea un ambiente internazionale potenzialmente esplosivo.

Questa posizione poco saggia appare così popolare tra le élite perché riflette il loro profondo attaccamento allo status quo.

Le élite politiche non promuovono più visioni alternative per il futuro.

Ciò non rappresenta solo una perdita di immaginazione, ma rivela anche un’esiziale perdita di fiducia nella capacità delle persone e delle libere nazioni democratiche, di agire responsabilmente.

 Avendo rinunciato alla deliberazione politica, il seguire delle regole è diventato un sostituto della prudenza e di nuove elaborazioni di pensiero.

Questo è molto lontano dal profilo che “Immanuel Kant” delinea della strada per l’”ordine mondiale” nel suo influente saggio sulla pace perpetua.

Scrivendo alla fine del XVIII secolo, Kant spiega il suo rifiuto di fare affidamento sul diritto internazionale osservando che la legge non è altro che un’apologia del potere.

 Invece, sostiene che la causa della pace mondiale potrà basarsi esclusivamente sulla libertà e la ragione.

 Kant era infatti convinto che l’umanità non solo possieda la ragione, ma anche che in ultima analisi sia guidata da essa.

I globalisti di oggi hanno perso la fiducia nella capacità della ragione di guidare le azioni delle persone.

Il loro disprezzo per la democrazia è stato svelato nel 2016, quando hanno apertamente screditato i cittadini britannici che hanno votato per lasciare l’Unione europea e i cittadini americani che hanno eletto Donald Trump.

L’indifferenza globalista nel rispettare il processo decisionale democratico si basa sul disconoscimento dell’efficacia della volontà espressa dal popolo.

Questo denuncia anche il fatalismo dietro la prospettiva moderna sulla globalizzazione.

Ci viene detto che abitiamo in un mondo determinato dalle forze del mercato globale, forze su cui possiamo avere poca influenza.

Ciò significa vedere la globalizzazione come una forza oggettiva che sembra quasi impermeabile alla volontà e all’azione umana, e questo a sua volta mostra quale sia il principio globalista più importante e di più ampia portata:

che il processo decisionale nazionale sia diventato molto meno efficace e tendente a essere ridondante, mentre da noi si sia sempre più soggetti al capriccio di forze globali impersonali e indipendenti.

Il fatalismo del globalismo si auto-riproduce:

 proprio nel momento in cui afferma, su basi apparentemente solo descrittive, che la democrazia non sia in grado di operare, fa sì che le persone, normativamente, non abbiano modo di esercitare il controllo sulla globalizzazione.

Prendiamo ad esempio la dichiarazione del 2007 fatta da “Alan Greenspan”, l’allora presidente della” Federal Reserve”, recentemente in pensione, quando un giornale svizzero gli chiese chi avrebbe potuto essere il prossimo presidente degli Stati Uniti.

Questi rispose:

‘siamo fortunati che, grazie alla globalizzazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti sono state in gran parte rimpiazzate dalle forze del mercato globale … non fa alcuna differenza chi sarà il prossimo presidente.

Il mondo è governato dalle forze del mercato.’

Questo riassume il più importante corollario politico della credenza nella globalizzazione ascendente:

che la teoria e la pratica della sovranità nazionale e dello Stato nazione siano indebolite da un mondo immerso in un processo di rapido cambiamento.

Ma senza lo Stato nazione, non abbiamo lo strumento principale della sovranità popolare.

 Il fatalismo del globalismo si auto-riproduce:

proprio nel momento in cui afferma, su basi apparentemente solo descrittive, che la democrazia non sia in grado di operare, fa sì che le persone, normativamente, non abbiano modo di esercitare il controllo sulla globalizzazione.

Che un globalista come “Greenspan “sminuisca la democrazia non è un caso.

L’antipatia per la politica, e in particolare per la politica di massa, è stata una caratteristica presente nel globalismo sin dalle origini, vale a dire negli anni ’20 e ’30, quando tale concetto venne per la prima volta elaborato.

È quasi emozionante rendersi conto che invece questo periodo storico, fino a questo momento, offre molti esempi del semplice fatto che la globalizzazione non sia un processo naturale.

 Il mondo interconnesso di oggi è stato costruito lungo decenni, specialmente dal secondo dopoguerra, da un’alleanza di politici, di altre élite e di esperti, tra cui personaggi come lo stesso” Greenspan”.

La globalizzazione non può essere legittimamente presentata come un fenomeno auto-guidato, separato dalla politica.

La regola delle regole.

La globalizzazione, in breve, si riferisce alla convinzione che il mondo – economicamente, politicamente ed ecologicamente – si sta riducendo rapidamente nelle sue dimensioni sociali e fisiche.

 Ma cosa intendiamo per ‘globalismo’ e ‘globalisti’? Chi sono?

Alcuni descrivono i globalisti come la ‘folla di Davos’, le persone che si riuniscono in Svizzera ogni anno in occasione degli incontri annuali del World Economic Forum.

Molti volano con un jet privato o con un elicottero per indicare che sono la crème dell’élite globalista.

Ma i globalisti sono molto più numerosi di coloro presenti a Davos.

Includono coloro che guidano grandi società e gestiscono istituzioni internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), il Fondo monetario internazionale (FMI) o l’UE.

Ma, a ragione, includono anche la maggior parte delle persone che gestiscono le organizzazioni ufficiali e le istituzioni statali dell’Occidente.

 Particolarmente importanti, negli ultimi due decenni e ancor più dopo la crisi finanziaria, sono i leader delle banche centrali presumibilmente ‘indipendenti’.

Pensiamo allo stesso “Greenspan”, che pur credendo che il mondo sia governato da impersonali forze di mercato, ha ben pensato di dedicare più di due decenni della sua vita a guidare la” banca centrale degli Stati Uniti”.

 

Il globalismo, a sua volta, descrive la prospettiva dominante dell’establishment politico e imprenditoriale occidentale del dopoguerra.

 Abbiamo già parlato del suo attaccamento a un codice predeterminato di regole.

 Di fatto, una definizione dell’ethos globalista può essere questa: ‘devozione a un mondo di regole’.

Molti globalisti illustrano le loro credenziali ‘liberali’ molto più attraverso la loro devozione a tali regole che attraverso il perseguimento attivo dell’autonomia e della libertà.

“John Ikenberry”, uno scienziato politico globalista e apologista del dominio degli Stati Uniti, ha riassunto questo con la sua affermazione che gli americani sono meno interessati a governare il mondo che a ‘creare un mondo di regole’.

Allo stesso modo, nella sua acclamata analisi della crisi finanziaria, lo storico “Adam Tooze” ha scritto che la crisi aveva esposto chiaramente come la globalizzazione sia basata su delle regole.

Tematizzando la visione convenzionale della globalizzazione come un ‘processo quasi naturale’, “Tooze” ha sottolineato che in realtà ci deve essere un notevole accordo tra volontà diverse per far funzionare un regime basato su delle regole.

 La globalizzazione è in realtà ‘un’istituzione, un manufatto di costruzione politica e legale deliberata’.

Certo, la devozione alle regole non significa che i politici globalisti vi si attengano sempre:

 i Governi globalisti, specialmente nei Paesi più potenti, sono noti per rompere tali regole con relativa tranquillità quando il loro interesse nazionale lo richiede.

 Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno violato regolarmente le regole che dichiarano di sostenere, conducendo interventi militari non autorizzati e operazioni segrete all’estero.

E la Commissione europea, dal canto suo, tratta gli Stati più grandi che infrangono le regole del budget molto più indulgentemente di altri più piccoli.

 Ad esempio, Germania e Francia, tra molti altri Paesi dell’UE, hanno spesso infranto la regola di stabilità e il patto di crescita dell’UE per limitare i deficit pubblici al tre per cento del PIL senza essere significativamente sanzionati.

Sebbene il Governo formale delle regole sia stato la norma globalista dalla Seconda guerra mondiale, non è iniziato da allora.

 Il desiderio tra le due guerre da parte di Gran Bretagna, Francia, Germania e altri Paesi sviluppati di tornare al “gold standard prebellico” esprimeva il desiderio dei politici di essere in grado di seguire determinate regole.

 Sebbene il ricongiungimento del “gold standard” fosse successivamente considerato un grosso errore, in sintonia con la famosa critica di” Keynes”, negli immediati anni del dopoguerra il ritorno era un obiettivo per lo più incontestato.

Alla fine del 1925, 35 valute in tutto il mondo erano ufficialmente convertibili in oro o erano state stabilizzate da almeno un anno.

Il ritorno al “gold standard “era visto come una regola che, in effetti, era stata ‘sospesa’ solo a causa delle circostanze emergenziali dovute alla guerra.

Si pensò che la ri-adozione dello standard imponesse una certa ‘disciplina’ politica attraverso azioni vincolanti di politica fiscale e monetaria.

 In questo spirito,” Montagu Norman”, il governatore della Banca d’Inghilterra, vide il ritorno all’oro come un ‘cavalcavia’.

Una comune adesione al” gold standard” da parte dei Paesi sviluppati creò una regola internazionale de facto.

È pertinente per un apprezzamento del significato di regole oggi vincolanti per ogni Stato sottolineare che l’essenza della regola dello standard dell’oro era un meccanismo di impegno interno:

dal momento che mantenere l’allineamento limitava fortemente lo spazio di manovra per le politiche domestiche, farlo legava le mani del Governo, proteggendo così la classe politica dalle pressioni democratiche per abbandonare le politiche deflazionistiche basate su una moneta forte.

 In effetti, la rottura del “gold standard” nel 1914 è stata in parte attribuita al sorgere della democrazia, perché erano le masse a subire il maggior numero di misure di austerità interne adottate per mantenere l’adesione alla regola, masse che però avevano appena guadagnato il diritto di voto.

In retrospettiva, è facile vedere come il ritorno alla sopravvalutata “regola del gold standard” causò moltissimi danni economici e sociali durante il periodo tra le due guerre in Gran Bretagna e altrove.

E una tenace adesione alle regole conseguenti al “gold standard” contribuì infine alle tensioni che hanno portato alla ripresa del conflitto globale nel 1939.

Tuttavia, questa lezione non venne appresa:

 all’indomani del bagno di sangue della Seconda guerra mondiale, furono raddoppiati gli sforzi per cercare di governare attraverso delle regole valide per tutti gli attori in gioco.

Ora passiamo a descrivere una caratteristica sempre più evidente della scuola globalista:

la sua promozione dello Stato di diritto.

 

Il malleabile ‘Stato di diritto’.

I globalisti spesso definiscono il liberalismo come sostegno allo ‘Stato di diritto’.

Tuttavia, il significato di questo termine è probabilmente ‘meno chiaro oggi di quanto sia mai stato’ .

Inoltre, un leader del movimento dei “critical legal studies” ha suggerito che, alzando il livello della giustizia procedurale, fare appello allo ‘‘Stato di diritto’ consente ai potenti di ‘manipolare le sue forme a proprio vantaggio.”

Dovremmo essere consapevoli di questa flessibilità quando sentiamo la formula ‘Stato di diritto’, soprattutto dal momento che viene usata così spesso nelle affermazioni globaliste ed è di conseguenza importante valutare tale formula nel contesto in cui viene utilizzata.

Storicamente, non vi è dubbio che lo Stato di diritto sia stato un elemento cruciale nella diffusione della libertà e della sovranità popolare.

 Questa visione giuridica della libertà è stata ben catturata da un eminente esponente della “Corte Suprema” del periodo interbellico, di nome “Louis Brandeis”, quando questi osservò che ‘la storia della libertà è in larga misura la storia delle osservanze procedurali’.

La caratteristica chiave del tradizionale principio dello ‘Stato di diritto’ è che tutti sono uguali davanti alla legge, sia i funzionari della legge stessa sia i comuni cittadini che dovrebbero essere soggetti ai suoi dettami.

Nessuno – nemmeno il più ricco uomo d’affari o il politico più in vista – dovrebbe essere ‘al di sopra della legge’.

In questo modo, lo Stato di diritto diventa una sentinella di importanza vitale nei confronti dell’”esercizio arbitrario del potere”.

 In passato ha sicuramente contribuito a promuovere un sano scetticismo nei confronti dei governanti da parte dei governati.

L’idea dello Stato di diritto ha avuto origine nell’Antica Atene quando il nomos (il primato della legge) prese il posto della physis (la natura) come modo migliore di ordinare la società.

Sotto la democrazia ateniese, ogni cittadino, indipendentemente dalla ricchezza e dal potere, era uguale secondo la legge.

 Rappresentando i poveri del loro tempo, i marinai ateniesi nell’agorà sostenevano la legge per proteggere le masse contro i capricci dei ricchi e dei potenti.

Con la diffusione del suffragio di massa nel 20° secolo, l’idea di porre dei vincoli su ciò che i governanti potevano fare si è trasformata in vincoli su ciò che potevano fare i “Governi eletti dal popolo”.

Il concetto di “Stato di diritto” fu adottato anche durante la “Repubblica Romana”.

Nei primi anni della repubblica, solo l’élite di Roma sapeva quali erano le leggi, che ovviamente favorivano l’aristocrazia.

Nel 450 a.C., dopo circa 50 anni di repubblica, questo particolare difetto fu corretto.

Le leggi romane furono scritte per la prima volta come le ‘dodici tavole’, in modo che tutti potessero conoscere la legge.

 Rendere pubbliche le leggi diede la parità a tutti, consentendo alla legge di trattare tutte le persone allo stesso modo.

Il principio dello “Stato di diritto” fu reintrodotto in tempi moderni attraverso la gloriosa rivoluzione britannica del 1688, quando si rimosse i diritti ‘divini’ dei re e i privilegi politici degli aristocratici per fare in modo che il potere politico potesse essere esercitato solo in base a procedure e vincoli prescritti da leggi pubblicamente note.

Questo “Stato di diritto” fece sì che tutte le persone, compresi i funzionari governativi, dovessero obbedire alle leggi e venissero giudicate nei tribunali se non lo facevano.

 Inoltre, le leggi potevano essere cambiate solo attraverso le procedure costituzionali e non potevano essere annullate o scavalcate da singoli decreti.

Questo approccio fornisce ancora una protezione importante contro oligarchie e dispotismi, e consente la difesa dei diritti delle minoranze.

Tuttavia, l’”essenza liberale dello Stato di diritto” è stata progressivamente erosa lungo il secolo scorso, e in particolare dagli anni ’70.

 Invece lo ‘Stato di diritto’ e il “sistema giudiziario” sono stati trasformati in un veicolo per alcune azioni molto illiberali e antidemocratiche nel loro calpestare i desideri della gente.

Senza dubbio molti “globalisti” non saranno d’accordo con questo punto di vista. Tuttavia, è probabilmente meno controverso se visto nel contesto delle colonie o neo-colonie.

“John Sydenham Furnivall” – amministratore coloniale britannico in Birmania per 30 anni, fino ai primi anni ’30, quando tornò in patria per diventare uno studioso critico delle politiche imperiali occidentali – venne soprannominato ‘l’imperialista riluttante’ quando sfidò l’opinione allora convenzionale secondo cui lo sviluppo economico era la condizione preliminare per l’autogoverno e la democrazia nei territori colonizzati sostenendo l’esatto contrario:

soltanto “concedendo l’autonomia” si darà il via allo sviluppo sociale ed economico.

Riflettendo la sua prospettiva pro-democratica, “Furnivall” sosteneva che lo ‘Stato di diritto’ imposto dalle potenze occidentali alle loro colonie era principalmente concepito al solo scopo di promuovere il commercio e che questa versione dello ‘Stato di diritto’, lungi dal potenziare e unire le persone, ampliava sì il commercio, ma a scapito dell’integrità sociale e politica della società coloniale.

All’indomani della Seconda guerra mondiale, quando un’autentica autonomia del Terzo Mondo era chiaramente assente, l’affermazione di “Furnivall” era difficile da contestare.

Quindi l’appello allo ‘Stato di diritto’ non dovrebbe essere considerato un bene universale, deve bensì essere valutato all’interno di specifiche circostanze sociali e politiche.

 Si consideri una definizione di liberalismo suggerita dallo scienziato politico “Francis Fukuyama”:

il liberalismo significa avere ‘regole generalmente accettate che pongono chiari limiti al modo in cui lo Stato [nazionale] può esercitare il potere’.

 Questo non sembrerebbe di primo acchito discutibile, tuttavia l’enfasi sui ‘chiari limiti’ contiene il potenziale per contrapporre lo ‘Stato di diritto’ alla volontà democratica popolare.

 È quello che è successo con la diffusione del suffragio di massa nel 20° secolo, quando l’idea di porre vincoli e limiti su ciò che i governanti potevano fare si è trasformata in vincoli e limiti su ciò che potevano fare i Governi eletti dal popolo.

 Il significato dello Stato di diritto si è spostato, dandogli la precedenza sul Governo – Governo la cui attività legislativa è frutto da una decisione politica attuata dalla gente comune.

Negli anni ’30, il presidente americano” Franklin D. Roosevelt” si scontrò con questo potenziale blocco giudiziario per la democrazia liberale.

 Questi e il suo “Partito Democratico” erano stati eletti nel 1932 con il mandato di attuare misure per combattere gli effetti della “Grande Depressione”.

 La Corte Suprema, tuttavia, si pronunciò contro alcune delle misure del “New Deal” come ‘incostituzionali’ e appoggiò solo in modo restrittivo le altre con una decisione non unanime: cinque giudici contro quattro.

Dopo essere stato rieletto nel 1936 con una maggioranza ancora più ampia, “Roosevelt” accusò la” Corte Suprema” di ‘agire non come un organo giudiziario, ma come uno politico.’

La sua proposta di rimediare a ciò sostituendo i giudici della Corte Suprema non poté ottenere l’approvazione legislativa – un’altra conseguenza dei ‘pesi e contrappesi’ americani – ma attraverso il suo mandato elettorale venne visto come vincitore di principio: la Corte Suprema si sentì in dovere di arrendersi e approvare le sue precedenti politiche del New Deal.

La responsabilità dei Governi di agire in base ai loro mandati elettorali è svalutata insistendo sulla loro responsabilità primaria verso lo Stato di diritto.

Lo scontro di Roosevelt con i tribunali negli anni ’30 ha anticipato le tendenze antidemocratiche nell’evoluzione dello Stato di diritto dopo il 1945.

 Facendo appello alla santità dello ‘Stato di diritto’, le istituzioni giuridiche possono considerarsi giustificate nel respingere i desideri del popolo espressi attraverso i voti popolari e le elezioni.

 La responsabilità dei Governi di agire secondo i loro mandati elettorali è svalutata insistendo sulla responsabilità primaria dei Governi verso lo Stato di diritto.

Una formulazione tipica di tutto ciò ci viene da “Kofi Annan” quando era segretario generale delle Nazioni Unite, all’inizio di questo millennio, il quale difese

 ‘un principio di governance in cui tutte le persone, le istituzioni e le entità, pubbliche e private, incluso lo Stato stesso, sono tenute a fare in modo che le leggi siano pubblicamente promulgate, applicate imparzialmente e passibili di essere giudicate in modo indipendente nella loro coerenza con le norme internazionali sui diritti umani ‘.

 Di nuovo, in superficie, questo non sembra apertamente antidemocratico:

le istituzioni di Governo dovrebbero essere vincolate dallo Stato di diritto e non dovrebbero essere libere di ignorare le leggi che essi stessi applicano.

Ma un altro principio democratico essenziale è che i Governi dovrebbero essere responsabili nei confronti del loro elettorato.

 Le leggi da seguire dovrebbero essere quelle con cui le persone sono d’accordo.

 Se un Governo non ha un numero abbastanza alto di elettori non può entrare in carica;

 oppure, se gli elettori successivamente alle elezioni non sono d’accordo con l’azione del Governo, questi possono sostituirlo e cambiarne le leggi alle prossime elezioni.

Questa relazione è, nel migliore dei casi, offuscata, o persino sovvertita, quando i funzionari non eletti delle Nazioni Unite affermano che la legge che vogliono essere osservata dai Governi debba essere in accordo con certi standard ‘internazionali’.

Quando a tali ‘norme’, spesso vaghe e imprecise, a livello internazionale viene dato un veto effettivo sulla legislazione nazionale, le capacità decisionali delle persone vengono in linea di principio ignorate, anche se non sempre nella pratica.

Inoltre, questa prospettiva sullo Stato di diritto, in cui le azioni del Governo devono soddisfare determinati criteri stabiliti a livello internazionale, ha già legittimato l’intervento internazionale negli affari di Stati sovrani.

 Molte nazioni sono state invase a causa dell’accusa che stavano infrangendo la legge, inclusi negli ultimi tempi Somalia, Serbia, Iraq, Libia e Siria.

Come ha osservato lo storico “Mark Mazower”, l’appello alla legge è diventato un ‘vocabolario di permessi, un mezzo per affermare un potere, e un controllo, che “normalizza il discutibile e giustifica l’eccezione”.

Il crescente uso dello Stato di diritto per convalidare l’erosione della sovranità nazionale fa parte della più ampia reinvenzione dell’ordine internazionale postbellico, nella misura in cui alle istituzioni internazionali postbelliche viene sempre più attribuita un’autorità superiore a quella dei Governi nazionali.

 La loro preminenza rispetto alla sovranità popolare le dota di un potere sacro e quasi incantato.

Le risposte pubbliche di molti globalisti al ben noto disprezzo e ostilità di Trump verso queste organizzazioni hanno reso tali opinioni più esplicite.

Una raccolta di studiosi di relazioni internazionali ha sostenuto di preservare l’ordine internazionale esistente contro alcune delle esplosioni anti-globaliste di Trump in una dichiarazione pubblicata sul New York Times (27 luglio 2018) in cui si sosteneva che l’ONU, la NATO, l’OMC, l’UE e le altre istituzioni postbelliche hanno fornito ‘stabilità economica’ e ‘sicurezza internazionale’, essendo la sorgente di ‘livelli senza precedenti di prosperità’ e del ‘periodo più lungo nella storia moderna senza guerra tra grandi poteri ‘.

Dare così tanta influenza alle istituzioni internazionali trasforma un desiderio in una falsa realtà.

Non potremo mai sapere se avremmo avuto un lungo periodo di ‘pace’ – ossia un periodo in cui le nazioni più importanti a partire dal 1945 hanno evitato di guerreggiare tra loro – anche senza queste istituzioni perché esiste una sola storia.

Tuttavia, queste istituzioni alla fine esprimono solo le forze e le pressioni delle nazioni che le inventano.

Di per sé, le istituzioni non possono fare nulla quando i più potenti fra gli Stati membri le ignorano.

 La Società delle Nazioni, ad esempio, ‘fallì’ nell’impedire la Seconda Guerra Mondiale non a causa di qualche difetto istituzionale, ma perché le nazioni capitaliste erano in rotta di collisione a causa dei conflitti economici e geopolitici del tempo.

La Società delle Nazioni era impotente a impedirlo.

Un altro esperto di relazioni internazionali, “Stephen Walt” di Harvard, non solo ha rifiutato di firmare la dichiarazione del “New York Times”, ma ha anche messo in dubbio le sue ipotesi.

 Ha spiegato che queste istituzioni sono state istituite in un’epoca diversa dal presente e che la maggior parte di esse non sono più appropriate per il mondo di oggi.

“Walt” ha ammonito che la nostalgia di un passato che non è mai esistito non avrebbe aiutato a risolvere i problemi contemporanei.

 Il cosiddetto ‘ordine liberale’ non era proprio il nirvana che la gente ora immagina fosse.

 

“Walt” ha dimostrato che questo non è mai stato un ordine completamente globale.

 C’era anche un ‘terribile comportamento illiberale’ in corso, anche da parte di Paesi e leader che proclamavano costantemente ‘valori liberali’.

Gli Stati Uniti, ha ricordato ai suoi colleghi, hanno appoggiato molti governanti illiberali autoritari durante tutta la Guerra Fredda (e hanno continuato a farlo da allora).

Un più recente disprezzo per le regole internazionali si è palesato quando gli Stati Uniti hanno guidato l’invasione dell’Iraq nel 2003 senza l’approvazione dell’ONU.

Le amministrazioni della Casa Bianca non hanno esitato a infrangere le regole dell’ordine liberale per seguire i loro interessi nazionali.

Questo è ciò che accadde quando gli Stati Uniti” smantellarono unilateralmente il sistema di cambio di valuta di Bretton Woods nel 1971”, perché non potevano più seguire le regole che avevano approvato in precedenza.

 Gli interessi nazionali assunsero semplicemente maggiore importanza per gli Stati Uniti rispetto all’onorare il loro impegno nei confronti del sistema monetario internazionale.

Tornando a “Walt”, nel prosieguo del suo ragionamento questi ha sottolineato che alcune delle istituzioni difese oggi sono in realtà una fonte del problema che stiamo analizzando, fornendo l’esempio della” NATO”, organismo creato in un diverso momento storico per coordinare il potere militare occidentale durante la Guerra Fredda e che dalla fine di questa si è trasformato in una fonte di disordine.

Infatti, il suo obiettivo di una ‘espansione verso est tanto assidua quanto mal concepita’ ha riacceso, e non alleviato, delle tensioni internazionali.

Dotare queste istituzioni di un potere supremo non è solo traviante, ma è anche corrosivo per la democrazia.

 La promozione dell’autorità istituzionale internazionale non eletta va a minare l’autorità nazionale regolarmente eletta e il depauperamento del ruolo dei cittadini nel processo decisionale è ulteriormente intensificato quando ci viene detto che le organizzazioni internazionali sono i veri costruttori di pace e i veri ingegneri della prosperità.

La presunta onnipotenza di questi corpi conferisce loro uno status quasi sacro. Questo è il motivo per cui alcuni globalisti considerano sacrilego anche soltanto criticare tali istituzioni.

Stato anti-nazione, ma non anti-statalista.

Il globalismo è spesso percepito come il corollario naturale di un’economia sempre più unificata a livello mondiale.

 Sembra probabile che la crescente interdipendenza delle economie nazionali dalla fine del XIX secolo sia stata una base necessaria per l’emergere del globalismo.

 Ma non era abbastanza. In che modo le idee globaliste sono diventate così potenti?

Tornando alla dichiarazione di “Greenspan” del 2007, è bene mettere in risalto tre punti.

In primo luogo, coglie l’ethos fatalista del globalismo: ‘

Difficilmente fa differenza chi sarà il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato.’

L’implicazione è che, poiché gli Stati nazionali non controllano nulla, c’è poco che possiamo fare per influenzare le cose con il voto.

 È il mercato che determina le nostre condizioni di vita.

In secondo luogo, è lo stesso autore che rende tale dichiarazione particolarmente significativa.

Fino al suo ritiro, pochi mesi prima,” Greenspan” era stato regolarmente festeggiato come ‘l’uomo più potente del mondo ’, ed è bene mettere in rilievo che la sua esternazione è avvenuta prima della crisi finanziaria, quando la sua reputazione, e quella dei banchieri centrali in generale, ha perso parecchio smalto.

Possiamo comunque apprezzare l’ironia insita nel fatto che l’ex leader della banca centrale più potente del mondo metta in luce l’impotenza di tale istituzione una volta posta di fronte alla globalizzazione.

 La contrapposizione tra il potere reale che persone come” Greenspan” hanno e le loro asserzioni di impotenza non è un paradosso incidentale del globalismo, ma è intrinseco a esso.

E in terzo luogo, il fatto che “Greenspan” abbia origini rintracciabili nell’Europa centrale non è privo di importanza per la storia del globalismo, anche se nel suo caso si tratta di un esponente di seconda generazione.

“Greenspan” è nato a New York negli anni ’20, vivendo prima nel distretto di “Washington Heights”.

 All’epoca era conosciuto come ‘Francoforte sull’Hudson’, a causa del gran numero di immigrati ebrei dalla Germania.

I suoi genitori erano in realtà di origine centroeuropea: suo padre rumeno, sua madre ungherese.

 La discendenza di “Greenspan” è rilevante a causa dell’importante influenza del neoliberalismo classico sullo sviluppo del pensiero globalista.

Due diverse narrazioni sul globalismo possono essere lette nella dichiarazione di Greenspan.

 La narrazione standard e più popolare è quella del globalismo come gemello del ‘neoliberalismo’, che esprime la visione del ‘fondamentalista del mercato ’ secondo cui l’intervento statale è negativo per l’economia e quando un Governo interferisce troppo con il potere autoregolamentato dei mercati liberi va a minare la prosperità del sistema.

Questa prospettiva spiega perché Greenspan considerava come una circostanza ‘fortunata’ quella in cui la globalizzazione stava rendendo superfluo il Governo nazionale.

Potremmo chiamarla la narrativa ‘anti- Stato’.

Ciò a cui i globalisti sono realmente ostili non è lo Stato, ma la politica.

Una narrazione alternativa è in realtà molto più pertinente: stiamo parlando di una narrazione ‘contraria alla politica’, in particolare ‘contraria alla politica di massa’.

La dichiarazione di “Greenspan” incorpora la presunzione, piuttosto diffusa, che l’Occidente abbia raggiunto la ‘fine della politica’.

Ciò presume che la politica abbia perso la sua efficacia di fronte alle forze globali.

Di conseguenza, anche semplicemente realizzare delle politiche, in particolare delle politiche economiche, è ora irrilevante se non dannoso, perché tutto è guidato e determinato dalla forza impersonale della globalizzazione.

Lo storico americano “Quinn Slobodian” ha spiegato questa narrazione ‘contraria alla politica’ nel suo eccellente libro, “Globalists: The End of Empire and Birth of Neoliberalism”(2018).

“”Slobodian” ha caratterizzato il globalismo come la convinzione che ‘alla politica non rimanga altro che un ruolo passivo’, dal momento che l’unico attore in gioco rimasto è l’economia globale’.

 Questa seconda narrazione mette in luce la centralità e il dominio della negazione della libera volontà umana.

La narrazione standard anti-Stato è in realtà fuorviante.

I globalisti non sono realmente contro lo Stato.

I globalisti, all’interno delle loro varie istituzioni nazionali e internazionali non vanno al lavoro al mattino per mettere i piedi sulla scrivania e rimanersene lì a non fare nulla tutto il giorno nella loro presunta avversione all’attività statale.

Ciò a cui sono veramente ostili non è lo Stato, ma la politica.

I globalisti si preoccupano dei politici ribelli, rissosi e magari persino irrazionali che si impegnano in attività che deragliano dal loro modello liberale.

 Ciò significa anche che sono sospettosi della democrazia stessa, perché presumono che le masse non siano così razionali e lucide come loro, anzi, le persone comuni sono suscettibili di essere influenzate, illuse o ingannate a tal punto da eleggere ‘politici ribelli, rissosi e magari persino irrazionali’.

 

Persino i neoliberali apertamente dichiarati tra i globalisti non sono contrari all’attivismo statale in quanto tale.

Certamente, spesso denunceranno la pianificazione e il controllo dello Stato sugli affari ma, di base, sono ancora più preoccupati di ciò che considerano l’impatto destabilizzante della politica.

In particolare, criticano ciò che chiamano ‘politica discrezionale’, ovvero quegli atti di Governo eseguiti sotto l’egida di decisioni politiche, che pensano interferiscano con il libero funzionamento delle spontanee forze di mercato.

 Tuttavia, sono abbastanza favorevoli allo Stato che aiuta a realizzare il loro ideale di un ordine di mercato libero dalla politica.

Per esempio, “Lionel Robbins”, uno dei principali economisti neoliberali della Gran Bretagna del 20° secolo, simpatizzava con la concezione liberale classica di ordine nazionale basato su uno Stato forte e deciso e sempre più spesso, a partire dagli anni ’30, suggeriva che lo stesso principio di uno Stato forte e deciso dovrebbe applicarsi anche su scala internazionale, in qualche forma di autorità federale.

Allo stesso modo, l’ardente neoliberale “Friedrich Hayek”, nel suo libro del 1979 “Legge, legislazione e libertà” ha respinto esplicitamente l’idea, a suo dire appunto inesatta, che egli fosse un sostenitore di uno ‘Stato minimo ’.

 Egli ha sostenuto che fosse

‘indubbio che un Governo di una società avanzata dovesse utilizzare il suo potere di raccogliere fondi per la tassazione per fornire una serie di servizi che per vari motivi non possono essere forniti, o non possono essere forniti in modo adeguato, dal mercato’.

Questo non è certo un manifesto per il globalismo dei piccoli Stati.

Per coincidenza, “Hayek” ha negato di essere un purista anti-Stato proprio quando un nuovo primo ministro britannico, “Margaret Thatcher2, stava dicendo ai suoi colleghi di gabinetto che il “libro del 1944 di Hayek” La via della schiavitù” dovrebbe essere una lettura obbligatoria.

Nonostante il fatto che la Thatcher abbia la reputazione di paladina del libero mercato, l’espansione, piuttosto che la contrazione, dello Stato durante il suo mandato fa sì che il necrologio apparso sulle colonne dell’Economist dell’8 aprile 2013 fosse appropriato:

questo portavoce del globalismo e del libero mercato affermò che l’essenza del thatcherismo fosse ‘uno Stato forte’ aggiunto al più pieno impegno per una ‘economia libera.”

In un’intervista rilasciata dal quotidiano cileno durante la dittatura militare del generale” Pinochet”,” Hayek” ha rafforzato tale prospettiva:

quando un Governo si trova in una situazione di totale discontinuità nei confronti del passato e non ci sono regole riconosciute, è necessario creare regole per dire cosa si può fare e cosa no.

 In tali circostanze è praticamente inevitabile che qualcuno abbia poteri quasi assoluti … Può sembrare una contraddizione che sia io fra tutte le persone a dirlo: in genere io chiedo di limitare i poteri del Governo nella vita delle persone e sostengo che molti dei nostri problemi siano dovuti, appunto, a un potere eccessivo attribuito al Governo.

 Tuttavia, quando mi riferisco a un potere di tipo dittatoriale, sto parlando solo di un periodo di transizione dove tale potere sia visto come mezzo per ristabilire democrazia e libertà nella loro pienezza.

Questo è l’unico caso in cui io possa giustificare e raccomandare una dittatura.’

Che sia temporaneo o meno, “Hayek” sostiene esplicitamente uno Stato forte e persino autoritario per stabilire delle regole, da cui si può concludere che la figura più famosa del neoliberalismo non era uno ‘statista minimo’.

Quando i globalisti alludono all’essere anti- Stato, in realtà esprimono la loro opposizione allo Stato nazione, piuttosto che all’intervento statale di per sé.

 Inoltre, quando sono critici dello Stato nazione, non sono nemmeno realmente contro la ‘nazione’ come entità politica esistente.

Piuttosto, sono per lo più contrari all’idea di una nazione in grado di esprimere una “politica nazionale”.

La maggior parte dei globalisti all’interno delle élite occidentali odierne si sente estranea politicamente e culturalmente alle proprie istituzioni nazionali.

Questo può portarli a essere in contraddizione rispetto all’interesse nazionale, oppure, persino, a dubitare che sia giusto perseguire tali interessi.

 Le élite trovano più facile fare le cose attraverso le reti internazionali perché sono già sempre più distaccate dalle vite e dalla visione del mondo dei cittadini comuni a casa.

Soprattutto, i globalisti sono uniti da un desiderio per un mondo separato dalla “democrazia popolare” e dalla necessità di ottenere il mandato da parte del popolo stesso.

Di più, considerano sospette le nazioni che realizzano delle politiche a causa della loro intrinseca associazione con la gente comune di quella nazione.

 La loro preoccupazione di fondo è come le persone comuni, molte delle quali non condividono il loro pensiero a loro dire avanzato, possano influenzare ciò che lo Stato fa attraverso il processo democratico.

E poiché la democrazia esiste solo nella forma nazionale, questa preoccupazione è alla base del loro svalutare lo ‘Stato nazione’.

È quindi una caricatura ingannevole sostenere che i globalisti cercano un mondo ‘senza confini’ o una società a ‘Stato zero’.

Alcuni lo fanno, ma ciò che li unisce davvero è la brama di un mondo separato dalla democrazia popolare e dalla necessità di ottenere il mandato da parte del popolo.

 Gli Stati rimangono importanti ma si ritiene che operino al meglio attraverso azioni delegate a burocrati e regolatori esperti, non a legislatori e politici sottoposti al mandato popolare.

Questo è ciò che guida l’impulso costituzionalista e legalista all’interno del globalismo – cercare di limitare le politiche economiche nazionali attraverso “discipline basate su regole”.

 La regolamentazione legale del commercio non viene più affidata a dei controlli democratici nazionali, ma a delle regole che limitano l’autonomia legislativa.

 Il legalismo è un modo per i politici di provare ad assolversi dalle proprie responsabilità quando le cose vanno male: ‘Stavamo solo seguendo le regole’.

Seguire delle regole è un modo per evitare di dover esercitare un giudizio.

 In questo modo, le regole completano le implicazioni di depoliticizzazione delle teorie della globalizzazione.

Se le forze globali denudano lo Stato nazione, l’adesione alle regole fornisce una, per quanto modesta, foglia di fico per chi sta governando in quel momento.

In una relazione speciale sull’evoluzione del ruolo dello Stato nel 1997, la “Banca Mondiale “si è affidata a un modo di pensare molto diffuso quando ha chiesto restrizioni sia nazionali che internazionali ai Governi.

Il rapporto ha affermato che ora è ‘generalmente accettato’ che alcune aree del processo decisionale pubblico richiedano ‘l’isolamento dalla pressione politica’.

Non era chiaro da chi fosse ‘generalmente accettato’.

Senza dubbio tra i globalisti, piuttosto che tra le persone che si trovano sul lato di chi non ha più possibilità di dire la propria.

In questo spirito, la “Banca Mondiale” ha suggerito ai Paesi di rafforzare ‘strumenti formali di moderazione’ attraverso un’efficace separazione dei poteri e ‘un’indipendenza giudiziaria’.

 Ha precisato che ‘nell’area tecnica e spesso delicata della gestione economica’, una certa protezione del processo decisionale dalla pressione delle lobby politiche era ‘desiderabile’.

Questa proposta di proteggere la politica economica dalle influenze democratiche non ha espresso il ‘ritiro dello Stato’, ma l’aspirazione a uno Stato più ‘efficace’ attraverso una ‘ridefinizione della governance globale’.

Per la” Banca Mondiale” ‘per miglioramento delle istituzioni pubbliche’ si intende mettere tali istituzioni in grado di definire regole e restrizioni capaci di controllare azioni statali ‘arbitrarie’.

‘Miglioramento’ suona come un concetto positivo, ma in questo caso implica il “controllo del pubblico”.

La “Banca Mondiale” ha posto in pratica questa interpretazione, ad esempio, nei primi anni ’80, quando ha applaudito il regime militare di Pinochet in Cile per le sue riforme normative dell’industria delle telecomunicazioni.

Il globalismo quindi, come prospettiva, non è affatto contro i confini, né è intriso di anti-statalismo, piuttosto vi è al suo nucleo – un nucleo legato alle regole – un’avversione per la democrazia e la forma nazionale tramite cui questa è esercitata.

(Phil Mullan, “Creative Destruction: How to Start an Economic Renaissance”, è pubblicato da Policy Press”.)

 

 

 

 

 

L’Intellettuale Collettivo

funziona a pieno regime.

 Marcelloveneziani.com - Marcello Veneziani – (01 Maggio 2022) – ci dice:

 

Dopo due anni e più di gestazione in tempi di emergenza sanitaria, bellica, economica e politica, è nato o è rinato l’”Intellettuale Collettivo”.

Vagheggiato da “Gramsci” e poi parzialmente realizzato da “Togliatti”, rilanciato dalla nuova sinistra dopo il ’68, l‘”Intellettuale Collettivo” è oggi diventato” la Voce del Padrone”.

 Non si identifica più con un “Partito-Princip”e, come pensava “Gramsci”, ma aderisce perfettamente al “Potere Vigente”, rispecchia il “Mainstream” e riflette i voleri dell’Establishment interno e internazionale.

 Gramsci riteneva che l’Intellettuale Collettivo avrebbe dovuto conquistare il potere, era proiettato nel futuro rovesciando la dominazione borghese e capitalista.

L’Intellettuale Collettivo odierno invece è l’emanazione del Potere istituzionale e capitalistico, è ripiegato sul presente, celebra lo status quo e il fatto compiuto.

Così da rivoluzionario l’Intellettuale Collettivo si fa cortigiano e neo-borghese, funzionario del potere, precettore e ripetitore della sua ideologia.

Ieri combatteva il sistema, invece oggi ne è la guardia giurata, l’emanazione diretta ed esclusiva.

Dell’”Intellettuale Collettivo” conserva però tre caratteri salienti:

 è organico al Potere-Sistema come il prototipo originario era organico al Partito-Principe;

pensa, parla e agisce come se avesse una testa sola, un solo pensiero e un solo organismo, benchè tentacolare.

Ed esercita come l’originale l’egemonia culturale e civile, non riconosce l’altrui opinione, ma reputa ogni dissenso come insolenza, infrazione, eversione e patologia regressiva.

È pensiero dominante, e non nel senso leopardiano ma in senso marxiano:

 le idee dominanti sono le idee della classe dominante, scrive Marx ne “L’Ideologia tedesca”.

Dov’è l’Intellettuale Collettivo?

 È nei grandi giornali, nei mass media, nelle reti principali della Tv e della Radio, nell’Editoria, nel cinema, nel teatro, nel potere culturale, accademico e intellettuale e ovunque si diriga, si fabbrichi e si veicoli l’opinione pubblica.

Se leggete gli editoriali, i corsivi, i commenti, i reportage, le rubriche di lettere, se ascoltate e vedete i principali organi d’informazione televisiva, vi accorgerete che siamo davvero in presenza di un” Intellettuale Collettivo”, perché non c’è dissonanza e varietà di opinioni, ma ripetizione, coro, conformità.

 A volte sono intercambiabili ed è ormai difficile risalire da un’opinione a una testata anziché un’altra, perché si sono conformati come mai era accaduto prima.

L’”Intellettuale Collettivo” dispensa la “vulgata dominante” in forma di narrazione.

Solitamente ai singoli componenti dell’”Intellettuale Collettivo” si dà l’appellativo di “radical chic”, definizione coniata più di mezzo secolo fa da “Tom Wolfe”.

Ma” chic” sta per elegante, raffinato, di classe (e non nel senso marxista).

Invece è più appropriata la definizione che ne dette ancor prima di “Wolfe”, il conservatore liberale “Panfilo Gentile”, che li definiva “snob “spiegando che l’etimologia, pur discutibile, fosse la contrazione di “sine nobilitate”, senza nobiltà;

dunque una finta nobiltà, altro che eleganza.

“Snob” deriva dal verbo snobbare e si riferisce a chi tratta gli altri con altezzoso disprezzo, esercitando “razzismo etico”, ostentazione di superiorità o trascurando intenzionalmente chi esprime altre idee, altri gusti, altri punti di vista.

In secondo luogo contesto la diffusa espressione di “pensiero unico”:

è un ossimoro, una contraddizione in termini:

dov’è il pensiero non ci può essere reductio ad unum;

 il pensiero non è mai unico o uniforme, è sempre libero, inquieto, controverso, plurale, polimorfico.

Allo stesso modo è tempo di dismettere l’espressione “politicamente corretto”.

Anziché pensiero corretto dovremmo parlare di pensiero corrotto, perché si tratta in effetti di una corruzione della realtà e della sua varietà, una distorsione e un’alterazione del vero.

È un moralismo che altera il senso morale, un bigottismo che altera il senso religioso, uno schematismo prefabbricato che altera, anche a livello lessicale, il senso comune della realtà, della natura, della storia.

Pure” cancel culture” non va tradotto come solitamente si fa con cultura della cancellazione ma all’inverso come “cancellazione della cultura,” che è molto più rispondente alla barbarie di chi vuole abolire autori, eventi, protagonisti del passato ritenuti non conformi.

Non ci può essere nessuna cultura nel voler cancellare la storia e le idee difformi allo standard del presente.

Alla “Psicopatologia del radical chic” dedica un pamphlet affilato lo psicanalista e naturopata “Roberto Giacomelli”, in cui analizza il narcisismo, il livore e la superiorità morale nella sinistra progressista (ed. Passaggio al bosco, prefazione di F. Borgonovo).

Per Giacomelli “il radical chic” non ha una ideologia ma si crede investito dal “buonsenso maturo e moderato della borghesia illuminata”;

in realtà, a mio parere, egli è portatore di un’ideologia, anzi una super ideologia implicita e dominante che presuppone la fine di tutte le altre ideologie.

È un’ideologia che non si presenta come tale, ma come il superamento delle contrapposizioni ideologiche;

presume l’epifania della storia, l’apoteosi del presente globale.

 Il “politically correct” e la” cancel culture”, il radicalismo liberal e l’antirazzismo, il progressismo e il globalismo rispondono a un” modello ideologico suprematista”.

“Giacomelli” attribuisce al radical chic vizi che in realtà sono diffusi in tutta la società di oggi:

il narcisismo, l’egoismo, il cinismo.

Ma al di là di queste precisazioni resta la questione di fondo:

l’Intellettuale collettivo va a pieno regime e non ammette divergenze.

 

 

 

 

IL NEO GLOBALISMO È

LA TRAGEDIA DELL’OCCIDENTE.

Comedonchisciotte.org – (09 Ottobre 2022) – Reazione CDC – Belisario – ci dice: 

 

Mentre la realizzazione del “Grande Reset” è un mito, rischiamo la “Terza Guerra Mondiale.

La tragedia contemporanea dell’Occidente è la crescente affermazione del “Neo Globalismo”, che alla dottrina e metodologia trotzkista dell’espansione imperiale permanente ha aggiunto la dottrina gramsciana della totale occupazione culturale e mediatica.

L’altra tragedia, o riflesso della precedente, è che l’opposizione al “Neo Globalismo” è in gran parte condotta sulla base di analisi e categorie ideologiche marxiste e post marxiste (Antonio Gramsci e Herbert Marcuse in testa).

Tale approccio ideologico genera infiniti limiti e deformazioni interpretative.

 In estrema sintesi, va semplicemente ribadito che non esistono solo le relazioni economiche tra le classi, e che i popoli non si compongono e si caratterizzano solo in termini di classe.

La visione marxista perde di vista, non comprende, male interpreta o nega fenomeni di ordine vario che non sono variabili dipendenti dai rapporti di classe, e che sono invece parzialmente o del tutto indipendenti – come peraltro “Gramsci” aveva limitatamente e strategicamente intuito.

Per fare un esempio, nessuno ha mai avuto il coraggio di presentare una analisi della guerra civile in Jugoslavia in termini marxisti leninisti, perché’ diverrebbe oggetto del più sarcastico ludibrio.

La visione marxista genera inevitabilmente una storia, anche recente, completamente distorta, perché dinamiche e fatti, per quanto giganteschi – ma non facilmente spiegabili in termini di relazioni di classe – vengono persi di vista, non compresi, male interpetrati o direttamente negati.

 

Non solo. La visione marxista genera inevitabilmente anche una mitologia marxista – o credibile per i marxisti – è la stessa cosa.

Una delle bufale più ridicole della mitologia marxista è quella del “Great Reset”, non come visione meramente “ideale”, ma come vero e proprio piano operativo.

Chiunque dovrebbe essere in grado di capire che affinché’ tale visione si realizzi, deve accadere una serie infinita di sviluppi decisivi e convergenti in campo politico, istituzionale, economico, finanziario, sociale, mediatico-culturale, ecc. , che nessuno al mondo è lontanamente in grado di programmare.

Se diamo un valore di 100 al Great Reset, a stento siamo a 5.

E allora perché’ continuare a parlarne?

Ed inoltre, perché’ interpretare anche la storia recente, specie a partire dalla nascita della globalizzazione con gli accordi di Marrakesh del 1994, come se fosse stata solo o principalmente un preparativo al Great Reset?

Se “prima” nessuno l’aveva neanche pensato, cioè non esisteva!

Ci devono essere dinamiche che attraverso la mitologia del “Great Reset” vengono oscurate, e che non possono che essere dinamiche proprie del Neo Globalismo, quale ideologia dominante – per quanto non completamente dichiarata – in Occidente.

Il dominio degli USA e del dollaro.

La realtà che viene oscurata dalla mitologia del Great Reset è il crescente, inusitato dominio degli USA nel campo occidentale, ormai comparabile se non superiore a quello degli Anni 50.

Mai i Paesi dell’Europa Occidentale, Giappone e Canada erano scesi a tale livello di passiva subordinazione agli USA.

Si tratta di un processo avviato dalle Presidenze Obama, sospeso da Trump e ripreso dalla Presidenza Biden, con enorme successo.

Sulle ragioni di tale successo del dominio USA si potrebbe aprire un lungo dibattito.

Quello che mi preme sottolineare ora è che il riflesso di tale successo americano è il perdurante dominio del dollaro, nonostante siano ormai passati ben 20 anni dalla nascita dell’Euro.

È un dominio macroscopico che a noi Europei costa miliardi, ma che ciò nonostante, grazie alle visioni marxiste e post marxiste imperanti anche nell’opposizione al Neo Globalismo, non viene compreso nella sua storia.

Una storia americana vittoriosa, che è inevitabilmente al tempo stesso la storia della sconfitta europea.

Un po’ di storia economica.

Nel “gold standard” nato alla fine della Seconda Guerra Mondiale il valore del dollaro – moneta di riserva mondiale – era ancorato a quello dell’oro.

 Ciò supponeva che:

 a) gli USA potessero stampare dollari solo nella misura in cui il controvalore era coperto da disponibilità di oro nei sotterranei di Fort Knox, Kentucky;

 b) le banche centrali degli altri Paesi avessero il diritto di scambiare i dollari per quell’ oro.

Alla fine degli anni 60, gli USA iniziarono a stampare dollari ben sopra la loro disponibilità di oro, per coprire le spese:

 a) della guerra in Vietnam;

 b) dei programmi sociali necessari a frenare le rivolte nere e studentesche (la “Great Society” del Presidente Johnson).

Non essendo in quel periodo gli Europei delle mere pedine come oggi, perfino Inglesi e Francesi protestarono, arrivando a profilare ripetutamente gli Americani la possibilità di presentarsi con camions di dollari a Fort Knox per richiederne il cambio in oro.

Purtroppo, il quadro interno politico degli USA non era ancora del tutto pacificato dalle rivolte nere e studentesche, ed i Vietcong non mollavano, e così nell’agosto 1971, da un giorno all’altro, senza neanche l’ombra di un preavviso ai partners occidentali, il Presidente Nixon pose fine alla convertibilità dollaro-oro – quella che dovrebbe essere chiamata “la madre di tutti i defaults“, ma che gli Americani, per quanto mediamente dotati di cultura economica e finanziaria, continuano ancora oggi ad ignorare più o meno allegramente.

Menzioni un fatto del genere in uno dei forum finanziari USA più noti e popolari, ed oltre il 50% reagisce attonito o non capisce: “I never thought about that”, etc.

Dall’agosto 1971 gli USA hanno iniziato a stampare tutti i dollari che volevano, scaricando inflazione sul resto del mondo, perché il dollaro era e resta ancora oggi la prima moneta di riserva mondiale (63%), nonché la moneta che quota petrolio e materie prime.

Come se ciò non bastasse, nei primi anni Ottanta Ronald Reagan e Paul Volcker, sempre senza alcun concerto con i partners occidentali, alzarono alle stelle i tassi d’interesse, richiamando negli USA ed al dollaro i capitali internazionali che prima, per diversi decenni, avevano invece in gran parte messo a disposizione dello sviluppo mondiale.

 Drenaggio dei capitali internazionali, da parte del Paese più ricco del mondo, durato fino ad oggi.

I tentativi europei di limitare lo strapotere del dollaro.

Nel tentativo di rendersi meno dipendenti e di sottrarsi almeno parzialmente alla dittatura del dollaro, negli anni 80 le élite europee misero su il “Sistema Monetario Europeo” (SME), un meccanismo con una banda di oscillazione controllata delle monete nazionali gestito dalle banche centrali dei Paesi dell’Europa Occidentale.

 In termini semplici, quando una delle monete europee componenti si svalutava oltre la banda concordata, le altre intervenivano per sostenerla comprandola, o vendendola in caso di rivalutazione oltre la banda.

Era un meccanismo che concretava un grado molto alto di concertazione economica e finanziaria, ma che mostrò i suoi limiti quando, a causa del differenziale tra i tassi d’inflazione britannico e italiano rispetto a quelli degli altri Paesi membri, non riuscì ad evitare l’assalto della speculazione internazionale e l’uscita dallo SME della sterlina e della lira, ossia di Gran Bretagna ed Italia.

Gli USA – Governo Federale e Wall Street – non c’entrarono mai meno di nulla nel percorso che portò alla nascita dello “SME”, ed anzi, come logico, trattarono l’esperimento come una potenziale minaccia.

Quando, sulle ceneri dello” SME”, le élite europee crearono l’”Euro”, la reazione sia del Governo Federale statunitense che soprattutto di Wall Street fu una fredda, gelida ostilità, per la semplice ragione che la stessa esistenza dell’Euro, a difesa di una area economica di poco inferiore agli USA, non poteva che attentare pesantemente al dominio del dollaro instaurato da un giorno all’altro dal Presidente Nixon nell’agosto 1971.

Chiunque abbia avuto a che fare con il Governo Federale degli USA e con Wall Street in quel periodo è perfettamente al corrente di tale ostilità.

È storia, non una opinione.

Così come chiunque (politici, funzionari, lobbysti, etc.) in Europa abbia avuto a che fare con il percorso che ha portato alla nascita dell’Euro sa che uno dei suoi principali obiettivi era quello di attenuare il dominio incontrastato del dollaro.

Migliaia di addetti ai lavori, da una parte e dall’altra, possono confermare quanto sopra.

Ma ciò nonostante, tra gli oppositori di indirizzo neo o post marxista al Neo Globalismo continua a girare la favoletta dell’ “Euro progetto degli USA”.

 Ma così non si vede, e conseguentemente non si capisce, la sconfitta europea.

A distanza di 20 anni dalla sua nascita, le statistiche della “BIRS” attestano che l’Euro rappresenta solo circa il 23% delle riserve valutarie mondiali, mentre il dollaro circa il 63%, una quota pari a quasi il triplo.

 

Il PIL degli USA non è il triplo del PIL dei Paesi UE o dell’area Euro, ma appena un 10%-15% (secondo i diversi calcoli) più grande.

 C’è ovviamente qualcosa che non va.

Perché abbiamo perso: la BCE.

L’Euro ha purtroppo limitato solo parzialmente lo strapotere del dollaro.

Gli USA, molto pragmaticamente, ne hanno accettato l’esistenza, per badare molto concretamente a ridurne l’autonomia, in particolare anticipando attraverso la “Federal Reserve” i trend finanziari e monetari, così obbligando la “Banca Centrale Europea” a giocare costantemente di rimessa, in una relazione di semi sudditanza.

Da tempo non c’è infatti più alcuna reale concertazione tra le politiche economiche e finanziarie dei Paesi G7, se non di mera facciata.

Eventi come il “Plaza Agreement del 1985” ed il “Louvre Agreement del 1987” appartengono al trapassato remoto.

 I comunicati del G7 in materia economica e finanziaria sono da oltre quindici anni il corrispondente concettuale delle famose “mutande” fatte dipingere sulle “nudità” della Cappella Sistina.

La relazione di semi sudditanza della BCE dalla Federal Reserve è sempre più evidente da quando nel 2019 è stata nominata la signora Christine Lagarde.

 Dal 2011 al 2019 la citata era stata “Direttore del Fondo Monetario Internazionale”, a seguito delle dimissioni presentate da” Dominique Strauss-Kahn” a causa del noto scandalo sessuale.

Ora, in poco meno di un biennio, gli USA del Presidente Biden hanno immesso 4 trilioni di dollari (poco meno del 20% del PIL annuale USA) in sussidi diretti anti Covid e altri sussidi sociali.

Per somme del genere, nella storia degli USA bisogna tornare indietro fino agli Anni 30 ed al “New Deal” del Presidente Roosevelt.

È come se in Italia negli ultimi due anni avessimo elargito aiuti anti Covid ed altri sussidi diretti per un importo di 400 miliardi di Euro (20% del PIL italiano), quando stiamo a litigare per 8 miliardi di reddito di cittadinanza, o per reperire alcune decine di miliardi per coprire le bollette energetiche.

 Nessuno nell’UE ha potuto fare approvare sussidi lontanamente comparabili a quelli USA.

Un tale, gigantesca immissione diretta di liquidità sul mercato USA non poteva che scatenare l’inflazione, come per esempio il noto economista americano (peraltro di area Democratica)” Lawrence Summers” aveva avuto il coraggio di dichiarare pubblicamente.

Ma la sviolinata di Summers è stata fatta passare come scandalosamente “paganiniana”, e l’orchestra si è rifiutata di effettuare l’accompagnamento, restando in silenzio.

La strategia della comunicazione ufficiale (Biden, Powell, Georgeva, etc.) è stata: a) prima negare o dubitare della (evidente) valenza inflazionaria di tale mostruosa immissione di liquidità;

 b) poi riconoscere l’inflazione come “transitoria”;

 c) infine ammettere la non transitorietà dell’inflazione e, attraverso la Federal Reserve, aumentare a raffica i tassi d’interesse.

 Notare il gradualismo: passo per passo il bove è stato condotto alla stalla – o il maiale al macello, secondo i punti di vista.

L’inflazione è stata intenzionalmente scatenata dalla Presidenza Biden.

A tale strategia di comunicazione ufficiale ha partecipato anche la signora Christine Lagarde.

Con una grossa differenza: insieme al Presidente della Federal Reserve, “Jerome Powell”, l’ha anche concretamente messa in atto.

 La BCE si è comportata come una pecorella al seguito della Federal Reserve.

Non ha lamentato l’evidente valenza inflazionaria della citata immissione di liquidità statunitense né – come poteva – l’ha anticipata, limitandosi ad attendere l’aumento dei tassi USA per procedere, con giudizio, a seguirne l’esempio.

Una vera, autentica dependance della Federal Reserve statunitense!

La signora Lagarde -per 8 anni Direttore del Fondo Monetario Internazionale – ha trattato l’Euro come un fratello minore che segue pedissequamente le gesta del fratello maggiore, il dollaro.

Quando mai potrà salire – uno si domanda – la quota in Euro delle riserve valutarie mondiali, con una politica del genere?

Ma la signora Lagarde, ad onore del vero, è alla testa di una BCE che assomiglia ad una scacchiera schierata in una partita che non finisce mai.

 L’area dell’ex marco tedesco e satelliti (Paesi Bassi e Scandinavi) contro l’ex area del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, qualche volta anche la Francia).

Aree che non sono quasi mai state convergenti e che spingono quasi costantemente per scelte di politica monetaria divergenti.

Il rischio della rissa è sempre dietro l’angolo.

In tali condizioni di costante conflitto interno, come si può sperare che la BCE riesca ad articolare un consenso su una posizione di relativa autonomia, o “dialettica”, nei confronti dalla Federal Reserve?

 La signora Lagarde è sicuramente troppo “simpatetica” con la Federal Reserve, ma la reale “bottom line” è in Europa siamo troppo divisi per articolare qualcosa di più del mero “wait and see” di quello che decide la Federal Reserve.

 

Grazie al dollaro, gli USA continuano a scaricare l’inflazione da loro creata sul resto del mondo.

La quota dominante (63%) delle riserve valutarie internazionali detenuta in dollari, la quotazione in dollari del petrolio e delle materie prime, l’enorme quantità di dollari detenuta e circolante al di fuori degli USA o, in estrema sintesi, il predominio finanziario del dollaro, consente solo agli USA la possibilità di scaricare inflazione sul resto del mondo.

È esattamente quello che sta accadendo, ma il processo, assolutamente intenzionale da parte degli USA, nella strategia della comunicazione pubblica degli USA di Biden viene confuso come una delle conseguenze del conflitto russo-ucraino.

In realtà il conflitto russo ucraino, per l’evidente pressione sui prezzi energetici, ha solo accelerato un trend al quale ha altresì contribuito, in modo determinante, la folle politica delle sanzioni alla Russia decisa a Washington e prontamente propagandata dalla Commissione UE ai Governi dei Paesi Membri dell’UE, che se la sono lasciata imporre.

Le sanzioni anti Russia stanno mettendo in ginocchio l’apparato industriale europeo – tedesco e italiano, il secondo e quinto apparato industriale del mondo, in primis – ed attentando seriamente al benessere ed al futuro economico di alcune centinaia di milioni di cittadini dell’UE.

Com’è possibile che la Commissione UE, che dovrebbe difendere l’Europa, sia giunta a tale assoluta mancanza di misura e prudenza nell’esecuzione delle direttive della Presidenza Biden e del Neo Globalismo?

Da quando è in corso una linea del genere?

La risposta, almeno a quest’ultima domanda, è purtroppo semplicissima: da quando l’attuale vertice delle istituzioni europee è stato eletto: il belga “Michel” come Presidente del Consiglio Europeo, la tedesca Von der Leyen come Presidente della Commissione (affiancata nel vitale settore della competizione dalla conferma della danese Vestager), lo spagnolo Solana come Presidente del Servizio Relazioni Esterne dell’UE.

Spicca su tutti la signora Von der Leyen, per l’aggressività delle dichiarazioni politiche apertamente guerrafondaie ed antirusse – dichiarazioni politiche che peraltro spetterebbero al sovraordinato Presidente del Consiglio Europeo Michel.

 I citati personaggi dureranno fino alla scadenza della Commissione nell’estate 2024, qualche mese prima delle elezioni presidenziali USA del 2024.

Il conflitto russo-ucraino.

Alcuni a questo punto opineranno che l’appiattimento europeo alle sanzioni decise dagli USA, più che del vassallaggio dei leaders delle istituzioni comunitarie, sarebbe in realtà una conseguenza obbligata dell’aggressione russa all’Ucraina.

Ma la narrazione della guerra russo-ucraina dei nostri “liberi” media occidentali è deficitaria e falsa.

L’Ucraina, con il colpo di stato del 2014 e la persecuzione sistematica della minoranza russofona, pari al 30% della popolazione, non è solo una vittima, ma è corresponsabile del conflitto.

E perché mai, comunque, un conflitto locale tra Russia e Ucraina è stato trasformato in uno scontro globale tra Russia e Occidente, scontro che le opinioni pubbliche di Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Austria e Portogallo, nonostante i mass media, non vogliono?

 

Perché i mass media europei sono quasi unanimemente schierati nel sostegno alla linea guerrafondaia, in completo contrasto con le opinioni pubbliche nazionali?

Ancora: come possono essere autenticamente “liberi” mass media che non riflettono, neanche parzialmente, le opinioni pubbliche dominanti nei Paesi Occidentali, quali ormai cristallizzate in decine di sondaggi?

La guerra russo-ucraina è solo uno dei classici conflitti etnico-nazionalisti tipici e frequenti nel corso degli ultimi tre secoli nell’Europa dell’Est.

 È sempre difficile dar ragione al 100% ad una delle due parti in questi conflitti, e comunque aizzare una parte (l’Ucraina) a scapito dell’altra (la Russia) è sempre un errore esponenziale – ma è esattamente quello che USA e Commissione UE hanno fatto almeno dal 2013, salva la parentesi rappresentata dalla Presidenza di Donald Trump.

Questi conflitti nascono nelle ampie aree miste, dovute alla mancanza di confini naturali e definiti, e possono terminare senza il massacro e la sconfitta di una delle due parti solo quando vengono fissati nuovi confini che separino le due parti (che si odiano a morte), ed eliminino o riducano al minimo le minoranze da una e dall’altra parte:

vedasi il caso lampante e recente della ex Jugoslavia, di cui – guarda che caso – nessuno parla.

La ex Jugoslavia insegna:

fino a quando le aree e le popolazioni miste non saranno state fisicamente separate, Russi ed Ucraini continueranno ad uccidersi.

O vedasi, ancora, la storia del “Pale of Settlement”, la vasta area, comprensiva delle attuali Ucraina e Bielorussia, nella quale la Russia zarista concentrò le comunità ebraiche per quasi 126 anni, dal 1791 al 1917, allo scopo di porre fine ai continui scontri armati tra di esse e le diverse popolazioni della Russia.

Perché abbiamo perso e stiamo perdendo: la Commissione UE.

Gli oppositori al Neo Globalismo (Presidenze Obama/Clinton e Biden/Blinken) dei Dem USA che provengono dal fronte neo e post marxista, e che continuano ad utilizzare le relative categorie ideologiche, non si rendono conto della sconfitta europea, e conseguentemente nemmeno della evidente sottomissione della Commissione UE alla leadership statunitense.

Mai con Prodi, Barroso e Juncker si era arrivati a tale imbarazzante livello.

L’agenda del nuovo “Drang nach Osten”, l’espansione orizzontale ad Est in aperto conflitto con la Russia, è pienamente condivisa dalla Commissione UE, in parallelo alla costante espansione verticale delle sue competenze, a diretto scapito di quelle dei “Governi dei Paesi Membri”, sempre più sottomessi ad un regime autorizzativo preventivo.

E’ paradossale che i Paesi che, attraverso i contributi attivi al bilancio UE, da decenni finanziano gli immensi i costi di funzionamento delle istituzioni e del personale UE, nonché’ gli esponenziali contributi che dal 2004 vengono ogni anno versati ai Paesi dell’Est Europa, ossia principalmente, nell’ordine, Germania, Francia, Italia e Olanda, abbiano di fatto rinunciato a far pesare politicamente il loro ruolo di finanziatori dell’UE, per lasciare il campo libero ad una “Commissione UE” praticamente sottomessa all’”agenda dei Dem USA”.

Da quando in qua chi paga e finanzia obbedisce al finanziato e mantenuto (la Commissione UE)?

Perché non si parla del “secondo Piano Marshall” con il quale i Paesi dell’Europa Occidentale finanziano dal 2004 i Paesi dell’Europa dell’Est?

Inclusi quelli, come Polonia e Baltici, che appaiono intenzionati a regolare i conti del 1948 (Polonia) e del 1940 (Baltici) con l’imperialismo comunista sovietico, nel frattempo però sparito?

Cosa aspettano, almeno qualcuno di questi grandi finanziatori dell’UE, ai quali vanno aggiunti anche Svezia, Danimarca ed Austria, a cominciare ad introdurre elementi di chiara riflessione in merito a tale corso?

 Perché’ gli orientamenti di una autorità amministrativa eletta da nessuno, la Commissione UE, e posta alle dipendenze delle decisioni dei 27 Governi dei Paesi Membri riuniti nel Consiglio Europeo, vengono aggressivamente contrapposti a quelli parzialmente divergenti di alcuni Governi dei Paesi Membri (esempio, l’Ungheria), prontamente attaccati come “anti democratici”?

Quale “lezione di democrazia” può mai provenire da una autorità amministrativa eletta da nessuno – la Commissione UE – quando si contrappone frontalmente agli indirizzi di un Governo sovrano europeo democraticamente eletto?

Il mito del “Great Reset”

Tutte domande che gli oppositori del Neo Globalismo provenienti dal fronte neo o post marxista non si pongono.

Paradossalmente, la difesa aggressiva dello “Stato Nazione Ucraina” contro la Russia – in un evidente conflitto di carattere nazionalista che investe la sicurezza di entrambi– passa per il ridimensionamento esponenziale degli Stati Nazione europei rispetto all’agenda comune dei Dem USA, della Nato e della Commissione UE:

l’espansione ad Est, in aperto conflitto con la Russia.

 Eppure la candidata alla Presidenza USA Hillary Clinton l’aveva annunciata e scandita molto chiaramente (destabilizzazione attiva di Bielorussia e Ucraina), prima di perdere le elezioni a favore di Donald Trump, poi criminalizzato per 4 anni come presunto “amico e complice” di Putin.

Si preferisce proiettare il mito dell’ “imminente”, per quanto irrealizzabile, “Great Reset”, per nascondere la preminenza assoluta dell’”agenda Neo Global degli USA “sul fronte occidentale.

Si straparla di una imminente nuova moneta o sistema di pagamento internazionale alternativo al dollaro, come se Russia, Cina, India, Saud Arabia, Brasile etc. fossero in grado e pronti a rinunciare alle loro monete nazionali, in un’impresa che richiederebbe una concertazione profonda tra le politiche economiche e finanziarie dei relativi Governi, riuscita fino ad oggi solo ai Paesi Europei, prima attraverso lo SME e dopo con l’Euro, peraltro con risultati ben inferiori alle aspettative.

A destra e a manca spuntano gli orfanelli di “Aldous Huxley” e” George Orwell”, ad evocare scie chimiche, chip sottopelle, digitalizzazione delle monete occidentali, credito sociale, etc., mentre molto concretamente e da più parti, varie correnti del movimento “Neo Global” incoraggiano sempre più apertamente la censura mediatica, diretta a scoraggiare perfino il libero dibattito sul reale impatto delle attivita’ umane sul “Global Warming”.

La rilevante componente del mondo scientifico contemporaneo che nega o dubita di tale impatto ha ormai ricevuto il marchio d’infamia dell’accusa di “negazionismo”, mutuato dallo standard applicato alle interpretazioni negative o estremamente riduttive dell’Olocausto.

Eppure solo il 5% del CO2 è immesso nell’atmosfera dalle attività umane, il restante 95% è naturalmente rilasciato dal pianeta nella sua interazione con il Sole.

Quanto manca affinché la censura mediatica venga invocata anche contro le argomentazioni alla base delle famigerate “Critical Race Theory” e “Gender Theory”?

Ed infine, si rammenta e si discetta con la massima leggerezza dell’utilizzo di armi nucleari, magari “limitato”, come se decine di milioni di essere umani arrostiti vivi (come a Hiroshima, e Nagasaki, ma anche a Dresda, Amburgo, Tokyo, etc.) fossero una prospettiva sostenibile.

Non c’è vita su Marte!

Una famosa, splendida canzone di “David Bowie” del giugno 1973 si domandava se “Is there life on Mars?”, per sfuggire alla follia violenta ed irrazionale del mondo contemporaneo.

Nel frattempo, le sonde della Nasa hanno attestato che no, non c’è traccia di vita su Marte: bisogna rassegnarsi, non si può scappare, si deve guardare in faccia alla realtà.

E la realtà è che o in Europa qualcuno si decide a cambiare corso, o il continente sprofonderà in una esponenziale crisi politica, economica e sociale, se non nuovamente nell’ecatombe, questa volta definitiva, della Terza Guerra Mondiale. Un “Big Click, altro che “Great Reset.”

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