La libertà individuale dopo la creazione della dittatura o tirannide
prevista
dagli “uomini di Davos”.
Il
liberalismo sconfitto e il marxismo
culturale
trionfante: commento
alla
tesi di Yoram Hazony.
Contromachiavelli.com - Marco Malaguti – (28
ottobre 2020) – ci dice:
In un
recente articolo su “Quillette”, “Yoram Hazony” si dedica al tema del ritorno
in auge del marxismo negli Stati Uniti e della sua pericolosità in ambito
politico.
Lungi
dall’essere sconfitto, secondo “Hazony” il marxismo sarebbe ritornato tra noi
sotto forma diversa da quella classica:
non più una dottrina rigida, basata su canoni
presuntamente scientifici, economici e materialistici, bensì sotto la forma indefinita di
una nube di diverse istanze, non necessariamente coerenti tra loro dal punto di
vista logico, il
cui filo conduttore sarebbe però l’avversione radicale allo Stato liberale e
nazionale così come concepito in Occidente dall’Ottocento ad oggi.
“Hazony”
espone la tesi secondo la quale le attuali società liberali sarebbero
intrinsecamente incapaci a resistere a questo tipo di approccio aggressivo da
parte delle sinistre, ma imputa tale incapacità al disorientamento ed all’inabilità
di riconoscere il nucleo marxista originario all’interno della nuova veste
progressista e libertaria (nel senso progressista del termine);
successivamente vengono illustrate
argomentazioni diverse, come la cecità dei liberali nel comprendere le ragioni
della frustrazione sociale ed il considerare già risolto ogni contenzioso sulle
disuguaglianze attraverso la concessione di pari diritti a tutti.
Le
ragioni, tuttavia, possono essere più profonde rispetto al semplice
disorientamento denunciato dall’autore ed alla cecità sulle dinamiche delle
disuguaglianze interne al sistema economico capitalistico.
“Hazony”
descrive anche la cosiddetta “danza del liberalismo e del marxismo”, ovvero il circolo vizioso per cui
una volta decentrata la religione come valore unificante trascendente
all’interno di una società, il liberalismo illuminista incoraggerebbe
ipso-facto l’emersione di gruppi di pressione di classe (i marxisti) che
richiamerebbero ad una maggiore coerenza con le premesse stesse del
liberalismo, che i liberali, secondo i marxisti, non porterebbero a termine
fino in fondo per ragioni di interesse di classe.
L’intima connessione tra marxismo e
liberalismo è peraltro evidenziata chiaramente negli articoli dello stesso Marx
per la “Rheinische Zeitung” (il giornale borghese e liberale per cui scriveva
il giovane Marx) del 1842, dove le libertà borghesi (al plurale), considerate
soltanto come “esenzioni dalla schiavitù”, sono presentate come insufficienti
nei confronti della Libertà (al singolare), verso la quale costituiscono
comunque un’irrinunciabile fase dialettica.
La
diagnosi è qui corretta, ma non prosegue nell’analisi delle criticità
intrinseche al liberalismo.
Considerare
liberalismo e marxismo come entrambi figli della stagione illuministica è corretto,
ma è errato imputare a ciò la debolezza del primo nei confronti del secondo,
specie alla luce del fatto che anche i fascismi affondano le loro origini
nell’Illuminismo, in particolare nel populismo radicale di Rousseau;
tuttavia,
sostenere che” il fascismo degradi naturaliter nel marxismo” apparirebbe giustamente tesi
fantasiosa, oltre a dar ragione alla medesima teleologia marxista che inquadra il
comunismo come stadio finale necessario della dialettica storica.
Sussiste
quindi una ragione più intimamente connessa al liberalismo stesso, e ciò è
probabilmente legato alla vocazione minimalistica dello stesso quando,
limitandosi soltanto a “conservare i beni civili” quali “la vita, la libertà,
l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose
esterne come terra, denaro, suppellettili” (John Locke, Lettera sulla
tolleranza), tralascia completamente le sfere irrazionali della religione,
dell’estetica e del mito.
Duramente
sconfitto dal liberalismo sul piano economico, il marxismo si è riqualificato
come grande piano di ridefinizione estetica, abbandonando l’originaria matrice
economicistica e “scientifica” per dedicarsi alla colonizzazione di queste
praterie che il liberalismo lasciava sguarnite.
Si tratta di una tendenza già notata anche dal
dibattito interno al marxismo stesso, e denominato sprezzantemente dai marxisti
ortodossi come “filosofia del ritiro”, mentre sembra svilupparsi al contrario
come una sorta di Eneide politologica entro la quale gli sconfitti, fuggendo,
gettano altrove le basi per un nuovo impero universale.
La
concezione totalmente de-umanizzata del potere teorizzata da “Montesquieu”, “Hume”
e “Kelsen”, fatta di procedure che si autoregolano, non tiene infatti in alcun
modo conto dell’irrealizzabilità di questa condizione artificiale in un mondo
popolato invece da persone.
L’inversione
postmoderna delle polarità marxiste di struttura e sovrastruttura costituisce lo scacco matto del marxismo
culturale nei confronti del liberalismo classico, che non può reagire né per
l’incapacità di riconoscere il nemico né per una troppo stretta parentela col
marxismo stesso, quanto piuttosto per la tara ontologica originaria di rinunciare a priori
a qualificarsi come alternativa totale alle diverse teorie politiche che gli si
contrappongono.
La
stessa vittoria liberale sul piano economico in un quadro di generale
abbondanza non aiuta a mettere da parte le istanze materialiste, ma anzi sposta
le attenzioni degli occidentali satolli verso questioni più astratte come il
mito e l’estetica, e l’utopia della società egualitaria e finalmente libera
dalla scarsità, per quanto fumosa, si rivela in ogni caso più interessante e meno
mediocre di una concezione della politica che si limiti esclusivamente a
tutelare il benessere come quella proposta dal liberalismo anglosassone.
La
relegazione della sfera religiosa ed estetica all’intimità dell’individuo
smantella dunque il sistema immunitario del liberalismo stesso, rendendolo
incapace di appellarsi ad una ragione trascendente (Dio) così come ad una
prospettiva estetica sul piano immanente e metapolitico, e ciò spiega la contemporanea
disaffezione verso di esso sia delle frange religiose sia di quelle
identitarie, nonché l’avanzata indisturbata del marxismo culturale stesso.
(Marco
Malaguti - Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia).
Ucraina,
Droni su Mosca:
la
Nuova Escalation dettata
dalla Frustrazione.
Conoscenzealconfine.it
– (4 Giugno 2023) - Davide Malacaria –
ci dice:
Altra
svolta nella guerra ucraina: il 29 maggio otto droni hanno attaccato Mosca.
Era
già accaduto che Kiev inviasse un drone sulla capitale russa, ma allora, era il
3 maggio, aveva un obiettivo specifico, cioè il Cremlino.
Stavolta,
invece, l’attacco era diretto contro edifici residenziali, un bombardamento
indiscriminato.
I
Droni su Mosca.
Pochi,
stavolta, i droni attaccanti, ma a stare alle dinamiche di questa guerra,
caratterizzata da escalation graduali, potrebbe essere solo l’inizio di una
nuova fase del conflitto, nella quale Kiev prenderà di mira le città russe.
Di per
sé si tratterebbe di legittima difesa:
essendo
bombardate le sue città, Kiev ha diritto di fare altrettanto con le città
russe.
Sul punto, però, appare ineludibile quanto
scrive” Anatol Lieven” su “Responsible Statecraft” a proposito degli attacchi
in territorio russo:
“Dato il ruolo fondamentale degli Stati Uniti
nell’armare e sostenere l’Ucraina, l’amministrazione statunitense ha anche il
diritto di dire la sua su come vengono utilizzati gli aiuti.
Anzi,
non ha solo tale diritto, ha anche il dovere nei confronti del popolo americano
di esercitare questa influenza”.
Tale
diritto-dovere di influenza, spiega “Lieven”, pone dei limiti alle iniziative
ucraine, esplicitamente segnalati dalla Casa Bianca:
non
devono dar vita a uno scontro Russia-Nato.
Bombardare
le città russe va esattamente in questa direzione, dal momento che rischia una
reazione di Mosca a più ampio raggio (si pensi se fosse accaduto negli Stati
Uniti).
Lo
stesso diritto-dovere dovrebbe essere proprio anche degli altri Paesi che sostengono
l’Ucraina, ma la totale subordinazione all’autoritarismo di Washington non
offre spazi in tal senso.
Date
le considerazioni di” Lieven”, appare inquietante che l’amministrazione Usa non
abbia sconsigliato le azioni di Kiev, ma abbia addirittura raddoppiato.
Ieri,
infatti, interpellato sulla possibilità di inviare a Kiev i missili a lungo
raggio ATACMS, il presidente Biden, che finora si è opposto a tale fornitura,
ha dichiarato che la questione “è ancora in gioco “.
Tenendo
ancora una volta presenti le dinamiche di questa guerra, quando
l’amministrazione Usa inizia a ventilare l’ipotesi di consegnare a Kiev un più
avanzato tipo di arma, prima o poi l’ipotesi si concretizza (è accaduto per i
carri armati, per i Patriot, per gli F-16).
Gli”
ATACMS” non hanno una gittata tale da arrivare a Mosca, ma si tratta di
un’ulteriore escalation, che ne prelude altre.
Sempre tenendo presenti le dinamiche della
guerra, in genere, quando Kiev si esibisce in operazioni che irritano
particolarmente Mosca, l’amministrazione Usa si premura di far pubblicare sui
media, in forma anonima, note che segnalano la propria contrarietà all’azione.
Una
presa di distanza che però non incide affatto sul conflitto, come denotano le
ripetute escalation, il che denota quanto sia spuntata, se non falsa, la
contrarietà in questione.
Da
vedere se usciranno indiscrezioni similari anche per il bombardamento della
capitale russa.
Al di
là, resta appunto la nuova escalation, che avvicina sempre più la guerra verso
uno scontro diretto Est-Ovest.
Non
per nulla il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov alcuni giorni fa ha
dichiarato che l’America sta “giocando col fuoco “.
Perché
l’Escalation.
Resta
da capire la ragione di questa escalation ad alto rischio.
Tre i
motivi.
Anzitutto si tratta di silenziare la notizia
della caduta di “Bakhmut”, offrendo in pasto ai media notizie altre e che
segnalino che è ancora Kiev ad avere l’iniziativa, così che la disfatta di cui
sopra possa essere derubricata a incidente di percorso.
Inoltre,
si tratta di coprire il vuoto prodotto dal continuo rinvio della controffensiva
ucraina.
Un
rinvio che inizia a porre domande, che il diuturno susseguirsi di
rassicurazioni da parte ucraina, che tutto è pronto e sta per iniziare, non fa
che moltiplicare.
Evidentemente
c’è un problema.
Nonostante
tutti i preparativi, gli ucraini, presumibilmente gli alti gradi militari, non
si sentono affatto sicuri. Temono di mandare allo sbaraglio il loro esercito,
cosa che potrebbe peraltro aprire la strada a più incisive iniziative russe.
La
visita del falco “Lindsey Graham” a Kiev, sembra che abbia avuto come scopo
proprio quello di vincere tali resistenze.
Peraltro,
anche il video girato sul web del suo incontro con Zelensky appare istruttivo
sul tema.
Nel
filmato, il senatore repubblicano afferma: “La morte dei russi è il miglior
denaro che abbiamo mai speso”.
Frasi
raccapriccianti per le quali la Russia ha emesso un mandato di cattura contro
il guerrafondaio (qui un video nel quale Graham, insieme all’altro falco repubblicano,
oramai defunto, John McCain, offre il sostegno dell’America agli ucraini per la
loro guerra contro la Russia… era il 2016, ma era già tutto pronto, come disse
Graham: “il 2017 sarà l’anno dell’attacco”, vedi fotogramma in apertura).
Quella
di Graham non è solo un’epifania del cinismo che alberga nei circoli neocon, ma
è anche il punto della questione.
La
controffensiva ucraina, anche se non raggiungesse gli scopi prefissati, avrà
comunque l’esito di uccidere altri russi, nella speranza di fiaccare le forze
di Mosca e indebolire il morale del suo popolo.
Da cui
la vanità delle resistenze di Kiev e l’ineluttabilità della controffensiva.
Ultimo
motivo dell’attuale escalation, la frustrazione di Kiev e dei suoi sponsor per
gli sviluppi della situazione.
Avevano appena incassato una grande vittoria, stavano
festeggiando l’arrivo degli agognati F-16, che i russi hanno iniziato a bombardare
con più determinazione gli aeroporti ucraini (nell’ultimo mese si erano
concentrati sui depositi di munizioni e sulla logistica, per spuntare le ali
alla controffensiva).
Colpire
gli aeroporti non ha solo una valenza nel breve, cioè quella di precludere alla
controffensiva la residua copertura aerea, ma serve anche a riportare gli
antagonisti alla dura realtà.
Gli
F-16 avranno bisogno di aeroporti da cui decollare e i russi hanno fatto capire
che, quando arriveranno, prenderanno di mira tali aeroporti con una certa
efficacia, relativizzando ancor più l’impatto delle nuove “armi magiche” sul
conflitto (peraltro,
la mossa russa era di facile intuizione, ne avevamo scritto in tempi non
sospetti).
Tale
la situazione… la macelleria continua.
(Davide
Malacaria) – (t.me/PiccoleNoteTelegram)
(piccolenote.it/mondo/ucraina-droni-su-mosca-la-nuova-escalation-dettata-dalla-frustrazione)
(lantidiplomatico.it/dettnews-droni_indiscriminati_su_mosca_le_ragioni_dietro_lescalation/45289_49821/)
Rivoluzione,
ovvero certezza di tirannia.
Ilsole24ore.com - Michael Walzer – (24
settembre 2017) – ci dice:
Tirannia
e oppressione: il gulag di Vorkuta (1932-1962), nella Siberia del nord, è uno
dei simboli del terrore staliniano.
Il
filosofo e politologo statunitense “Michael Walzer”, autore del testo qui
pubblicato, sarà uno degli ospiti di «900 fest», il Festival organizzato a
Forlì dal 4 al 7 ottobre e dedicato a «Libertà e uguaglianza. La rivoluzione
russa e il Novecento».
Libertà
e uguaglianza.
Questi
sono due tra i concetti più dibattuti del pensiero politico. Ma la relazione
tra i due non viene, a mio modo di vedere, sufficientemente discussa.
È
opinione abbastanza comune che libertà e uguaglianza siano in conflitto o che,
perlomeno, vi sia tra i due una tensione tale che ogni società umana deve
essere o più libera o più egualitaria.
La
spiegazione che sta dietro un conflitto di tale natura ha due varianti, una di
sinistra e una di destra, e ciascuna è in parte corretta ma principalmente
sbagliata.
Voglio
cominciare dalla versione di sinistra, che è stata enunciata molto, troppo
spesso, nella storia delle politiche rivoluzionarie.
È particolarmente importante, per il progetto
politico che sostengo, convincervi che la versione di sinistra secondo cui
libertà ed eguaglianza sono incompatibili è davvero sbagliata.
Prendo
spunto da una frase di “Albert Camus”, che credo sia tratta da “L’uomo in
rivolta”:
«Il grande avvenimento del Ventesimo secolo è stato
l’abbandono da parte dei movimenti rivoluzionari dei valori della libertà».
Una
frase potente.
Aggiungerei:
non
soltanto del Ventesimo secolo, poiché i Giacobini del Diciottesimo secolo sono
stati il
primo movimento rivoluzionario ad abbandonare i valori della libertà.
I movimenti rivoluzionari hanno prodotto, e l’hanno
fatto in continuazione, regimi tirannici, e li hanno sostenuti con la brutalità
e il terrore.
Com’è possibile questo, dato il significato
che noi (a sinistra) diamo alla parola “rivoluzione”?
Ci aspetteremmo una rinascita della libertà,
così come la creazione di una società di eguali.
Ma la difesa della tirannia da parte dei
rivoluzionari inizia con la convinzione che queste due aspettative non vadano
assieme.
Conosciamo
tutti quest’argomentazione; alcuni di noi, ne sono certo, l’hanno espressa una
volta o l’altra, perché ci sono sempre stati molti difensori, o apologeti, di
varianti di sinistra della tirannia e del terrore.
Il
potere costituito, che si è trincerato, la forza delle strutture gerarchiche,
la lunga storia di deferenza da un lato e arroganza dall’altro;
tutto ciò può essere sfidato solamente -così
vuole questa argomentazione- schierando l’ariete di uno stato forte, in pratica
di uno stato tirannico.
Parliamo
di uno stato che travolge tutti i vincoli legali e costituzionali del vecchio
regime, che rimanda l’adempimento alle promesse della rivoluzione, che ritira
la chiamata alle urne o consente a un solo partito di esprimere candidati, e
che poi incarcera i compagni che denunciano quanto sta accadendo -tutto questo
sulla strada per raggiungere l’uguaglianza.
Al contrario -così prosegue il ragionamento-
gli uomini e le donne preoccupati per la tirannia, i progressisti che non
alzano la voce e i timidi socialdemocratici non riusciranno mai a creare una
società di uguali.
Manca loro quella rozza energia e la
necessaria brutalità.
Non
faranno che scendere a compromessi, all’infinito, e non riusciranno mai a
raggiungere la trasformazione radicale che fingono di auspicare.
Servirà
un'avanguardia determinata, un Leader Maximo, per distruggere il vecchio ordine
sociale.
Lenin
ha parlato alla folla a Mosca nella Piazza Rossa.
In
questa accezione, l’eguaglianza richiede la sospensione (che sempre si vorrebbe
temporanea) delle “libertà borghesi” quali la libertà di parola, di assemblea e
il diritto di opposizione.
Una
volta che la rivoluzione ha inizio, la regola diventa: ogni opposizione è
controrivoluzionaria.
Un
visitatore di Cuba nel 1960, poco dopo la rivoluzione, illustrò così questa
regola:
«Le
carceri sono state riempite di prigionieri politici, e il governo insiste che
il popolo dev’essere “limpido”, e cioè, al 100% favorevole a tutto ciò che esso
fa».
L’insistenza
su questo tipo di “limpidezza” è un luogo comune rivoluzionario.
Un
altro argomento si collega a questo, e forse ne è il fondamento.
Il
raggiungimento dell’uguaglianza non può essere il risultato di una campagna
politica che rispetti la libertà democratica perché il demos, il popolo, non
capisce ancora il valore dell’uguaglianza;
molti
non riescono a immaginarsi come uguali ai propri padroni;
non parteciperebbero alla campagna per
l’uguaglianza.
A dire
il vero, sono capaci di occasionali rivolte, come nelle jacqueries medievali,
guidati da un lampo di consapevolezza:
«Quando
Adamo zappava la terra ed Eva filava, chi era allora il padrone?».
Ma più spesso, è fin troppo chiaro chi siano i
padroni.
La
classe lavoratrice è cresciuta in un mondo gerarchico;
è
abituata alla routine e conosce il linguaggio della gerarchia;
le è
stato insegnato che la disuguaglianza è naturale, risponde all’ordine divino;
è
divenuta un aspetto della sua vita quotidiana.
I
lavoratori sono vittime della “falsa coscienza”.
La
teoria della falsa coscienza sta alla radice dell’argomento a favore del
governo dell’avanguardia, perché ciò che la distingue e le dà la capacità di prendere il potere e
governare senza opposizione è appunto l’essere in possesso di una vera coscienza.
È la
fiducia prodotta dal conoscere la verità sulla storia e sulla società a dare
all’avanguardia la determinazione necessaria per scardinare l’ordine esistente,
utilizzando tutta la forza utile a tale scopo.
Non vi descriverò come le avanguardie vengono
incorporate o rimpiazzate dai Leader Massimi;
di
fatto, sono entrambe versioni molto simili al governo della tirannia.
Piuttosto, voglio domandarvi: ma governanti di
questo tipo sono davvero necessari, o quantomeno utili, al raggiungimento
dell'uguaglianza?
“Volontari
bolscevichi, già allora , erano al lavoro in un centralino telefonico di Mosca.”
Come
probabilmente vi aspettate, sosterrò che in effetti non sono né l’una né
l’altra cosa.
Ma per argomentare ciò non mi concentrerò sul
fatto che le avanguardie e i Leader Massimi, nel lungo periodo, non ci
conducono all’uguaglianza (anche se è vero).
Intendo piuttosto affermare che ci portano
all’immediata realizzazione della disuguaglianza.
Ammetto che “immediata” potrebbe essere un termine
troppo forte.
Spesso
c’è un momento di gioia rivoluzionaria in cui ciascuno è cittadino o compagno.
«Era
una benedizione esser vivi in quell’alba», scrisse “William Wordsworth” nel
1789, «ma esser giovani era un paradiso».
Ad
ogni modo, la benedizione di “Wordsworth” non è durata a lungo, e il momento
del cameratismo è breve.
Rapidamente
sono subentrate nuove strutture gerarchiche e burocrazie rivoluzionarie.
Voglio
sostenere che queste sono conseguenze naturali e inevitabili della sospensione
della libertà politica.
La
prima disuguaglianza di un regime rivoluzionario è quella della conoscenza;
i nuovi governanti sono depositari delle
“posizioni ideologiche corrette”, e ai governati dev’essere insegnato cosa
pensare.
Pertanto
tutti i mezzi di comunicazione e di istruzione devono essere confiscati e
affidati a coloro che sono “limpidi” rispetto alla linea ufficiale.
Ma la più grande disuguaglianza è quella del
potere politico: i governanti hanno un potere soverchiante e i governati sono
impotenti.
Ugualmente
impotenti: qui devo riconoscere l’effetto livellante della tirannia
rivoluzionaria.
Il tiranno, o l’avanguardia, insieme ai nuovi
apparatchik, dominano una massa di donne e uomini spogliati di ogni potere.
Posso
anche concedere che il regime rivoluzionario poiché è, dopo tutto, un regime di
sinistra, migliori le condizioni dei membri più poveri della società.
I
governanti populisti dell’America Latina hanno promosso opere pubbliche,
innalzato i salari minimi e investito denaro nei sussidi alimentari e per la
casa finché i soldi non sono finiti;
dopodiché, i poveri tornano poveri ancora una
volta, e i Leader Massimi rimpiazzano la generosità con la repressione.
Le
dittature comuniste dell’Est Europa avevano istituito un welfare state di base,
pur prevedendo privilegi per i membri del partito;
avevano
garantito la sicurezza del posto di lavoro, in fabbriche comunemente dirette da
militanti di partito incompetenti.
In
nessun caso agli operai veniva permesso di costituirsi in sindacati
indipendenti o in partiti politici per difendere i loro interessi così come li
intendevano.
Vi
furono dimostrazioni di piazza anche a Vladivostok nel 1917.
L’immediata
istituzione della disuguaglianza politica è evidente a occhio nudo (per chi sia
disposto a osservare), ma di rado se ne discute nella letteratura
rivoluzionaria, che si concentra sulla disuguaglianza economica e sociale.
Potrebbe
essere vero che solo i governanti con poteri assoluti possono abolire i
privilegi aristocratici e confiscare e ridistribuire la ricchezza
capitalistica.
Con una serie di decreti imposti brutalmente,
possono cancellare il feudalesimo; possono socializzare l’economia capitalista
e destinare fondi ai più poveri dei poveri.
A quel
punto -Marx ci insegna- dovremo per forza trovarci sulla strada giusta verso
una società di uguali, perché la disuguaglianza politica non è che il riflesso
di quella economica;
se si
abolisce l’una, l’altra cadrà.
Se impieghiamo il potere statale per creare
l’uguaglianza economica, ciò nel tempo porterà all’estinzione dello stato.
Ma se
è questo ciò in cui Marx davvero credeva, si sbagliava terribilmente, come
abbiamo già avuto modo di scoprire molte volte.
La
disuguaglianza politica è, per così dire, indipendente, autonoma, e creerà
sempre e immancabilmente nuove disuguaglianze in tutto l’ordine sociale.
Queste
nuove disuguaglianze saranno sempre più difficili da superare a causa della
pretesa del regime rivoluzionario di avere quella peculiare legittimazione che
viene dal vero sapere –e anche dal suo supposto impegno a usare quel sapere per
creare una società di uguali.
«Il compito dell’intellighenzia –ha scritto
Lenin- è rendere non necessari i leader dell’intellighenzia stessa».
Ma una volta che gli onniscienti intellettuali
si sono dichiarati necessari al “compito” di rendere sé stessi non necessari, è
molto difficile persuaderli che il loro compito è stato svolto, e che non c’è
più bisogno di loro.
Si aggrappano al potere esattamente come
avevano fatto i loro predecessori.
E a
coloro tra noi che si sono opposti al regime, che si sono rifiutati di essere
“limpidi”, non verrà riconosciuta alcuna credibilità.
Presto
diventeremo dei “dissidenti”, costretti a nascondersi dalla polizia segreta. E
questa è una condizione di disuguaglianza molto pericolosa.
È
abbastanza vero che i governanti progressisti e socialdemocratici, legittimati
dal consenso, piuttosto che dal vero sapere, non riusciranno a soverchiare le
gerarchie consolidate con altrettanta velocità o in modo altrettanto definitivo
quanto possono fare le avanguardie rivoluzionarie e il Leader Maximo.
Saranno
costretti a muoversi più lentamente, perché dipendono dal consenso della gente,
che non è mai completamente aderente alle posizioni ideologicamente corrette.
Nondimeno,
gli attivisti politici di quella tradizione che potremmo definire dei
girondini/menscevichi, piuttosto che dei giacobini/bolscevichi, sono talvolta
riusciti a ridurre le disuguaglianze nella sfera economica, senza creare
discriminazioni in quella politica.
Questo
è un risultato cui dovremmo riconoscere il giusto valore, anche se richiede
tempo, anche se è soggetto a rovesciamenti e anche se non condurrà mai a nulla
che assomigli all’uguaglianza assoluta.
I
progressisti e i socialdemocratici, quando controllano la macchina statale,
usano il potere regolativo dello stato democratico, contro i privilegi di
nascita e di censo; parimenti importante, aiutano a creare e sostenere una
società civile vitale e aperta, le cui associazioni, indipendenti dallo stato,
possono contrastare la forza dei poteri costituiti.
L’esempio
chiave, nella storia della socialdemocrazia, è il potere di bilanciamento dei
sindacati.
Il
risultato di una regolazione statale e di tale bilanciamento è una società più
egualitaria di quella precedente e allo stesso tempo più libera.
Questa
è una versione, senza dubbio modesta, di ciò che noi (a sinistra) ci aspettiamo
da una rivoluzione e che otteniamo solamente da rivoluzionari di un tipo molto
particolare, del genere girondini-menscevichi, che adottano una carta di valori
cui intendono attenersi, o che combattono la controrivoluzione con lo stato di
diritto, piuttosto che col terrore;
e che
si dedicano al lento lavoro della politica democratica.
Preso nel suo insieme, questo programma è
spesso chiamato “riformista”, ma quella parola, nel nostro vocabolario,
sottovaluta il significato politico e il valore morale delle alternative
davvero possibili (anche se spesso fallaci) alla tirannia rivoluzionaria.
Lasciate
che vi esponga questo argomento con più forza: se ci concentriamo sul potere e
sull’assenza di potere, le politiche della democrazia progressista e della
socialdemocrazia sono capaci di molte più trasformazioni, rispetto a quelle di
qualunque regime tirannico.
La
tirannia, anche quando i tiranni si autodefiniscono “di sinistra”, quasi sempre
conduce a un risultato ben descritto in alcuni versi del poeta irlandese “William
Butler Yeats”.
[Urrà
per la rivoluzione e viva il colpo di cannone!
un
pezzente a cavallo frusta un pezzente a piedi.
Urrà
per la rivoluzione e ritorno del cannone!
I
pezzenti hanno cambiato posto, la frusta prosegue il suo corso.]
Non è
che la libertà politica garantisca una società di uguali;
non la assicura, ma rende possibile lottare
per essa e questa lotta è, passo dopo passo, la realizzazione di
quell’uguaglianza.
Invece,
il governo rivoluzionario, la “dittatura del proletariato”, o qualsiasi altra
dittatura, produce immediatamente disuguaglianza.
Effettivamente,
la storia delle rivoluzioni ci insegna (e la storia universale ci conferma
questo insegnamento) che c’è una precisa tendenza in tutte le società umane a
produrre e riprodurre la gerarchia.
Come
scrisse “Thomas Hobbes” molto tempo fa, ovunque le persone, anche quelle di
sinistra e i rivoluzionari, inseguono «potere su potere, ricchezze, onori [e]
comando», benessere, fama, e potere politico.
Un
certo numero di persone ottiene ciò che vuole creando tutte le disuguaglianze
che conosciamo e con cui viviamo.
Ciò
che è più importante, queste stesse persone fanno del loro meglio per
tramandare qualunque forma di potere abbiano ottenuto, ai propri figli, alcuni
dei quali perdono quel potere mentre altri lo accrescono e lo tramandano a loro
volta.
E così
le famiglie salgono e scendono, ma le relazioni gerarchiche vengono perpetrate
nel tempo;
in un
modo o nell’altro, sono una caratteristica costante della vita umana.
Le rivoluzioni destituiscono un sistema di
relazioni gerarchiche e lo rimpiazzano con uno nuovo.
Se ciò
è corretto, allora ciò che è necessario (da una prospettiva di sinistra) è una
resistenza ferma o costantemente rinnovata.
Storicamente,
il classico agente di resistenza alla disuguaglianza non è il partito
rivoluzionario, ma i movimenti di protesta: il movimento laburista, il
movimento per i diritti civili, il movimento femminista, e via dicendo.
Le
ribellioni che hanno successo –o, più probabile, che hanno parzialmente
successo- rendono la società più egualitaria, almeno per un po’.
Ma questo tipo di risultati e, per la verità,
gli stessi movimenti politici in generale, sono possibili solo in una società
libera.
(I Rivoluzionari
sono armati di fucile nell’ ottobre 2017).
Ecco
qui spiegato il legame cruciale tra libertà e uguaglianza.
Certamente, la libertà è essa stessa un
piacere: è una cosa buona sentirsi liberi, disporre della propria vita, fare
scelte personali liberi da coercizioni esterne.
Ma nel campo della politica, il valore della
libertà è collettivo e moltiplica le opportunità: rende possibile mettersi
assieme per combattere contro l’oppressione, per difendere la nostra dignità
umana, per rivendicare uguale considerazione.
Togliete
la libertà politica, e l’uguaglianza diventa un progetto fallito.
Le due
cose vanno insieme.
Penso
che, nel profondo, tutti noi comprendiamo questo, eppure ogni nuovo Leader
Maximo che si definisce di sinistra può contare sul sostegno e sulla simpatia
di una parte della sinistra.
E una
volta che è passato del tempo, e i ricordi delle brutalità dei regimi
rivoluzionari si sono sbiaditi, ci vengono regolarmente presentate delle
versioni revisioniste del loro lodevole egualitarismo.
Credo
che questo sia comprensibile, dal momento che la storia delle politiche
alternative che sto descrivendo e difendendo è fatta di vittorie e di
sconfitte.
La libertà consente soltanto un approccio
graduale all’uguaglianza, e questo approccio viene frequentemente interrotto:
due passi avanti, uno indietro o, talvolta, come in anni recenti, due passi
indietro.
Una
politica libera è spesso, per gli attivisti egualitari, un’esperienza
frustrante e la frustrazione fomenta le fantasie di una spallata che possa far
vincere mettendo fine alla lotta.
In
realtà, la battaglia non ha fine.
L’egualitarismo è un lavoro costante, e la
libertà politica è la condizione necessaria per la sua (sempre incompleta)
conquista.
Gli
opinionisti di destra probabilmente concordano con la mia critica
sull’abolizione della libertà politica, ma non è a questo che sono veramente
interessati.
Costoro
credono che qualunque uso del potere statale volto a scopi egualitari, anche se
motivati democraticamente, sia un attacco alla libertà, che per loro è
principalmente, se non interamente, libertà economica.
La
libertà di produrre beni e scambiarli, di comprare e vendere, di prestare e
dare in prestito, di tramandare beni materiali ai propri figli o di donarli,
queste sono le libertà fondamentali.
Nell’enfasi
posta sulla sfera economica, i pensatori di destra si avvicinano a una
concezione marxista della società, per quanto per loro sia lo scambio, e non il
lavoro o la produzione, la forma centrale e più preziosa dell’attività umana.
(In una
foto senza data, lo zar Nicholas II, a sinistra, e suo figlio, il Principe
Alexei, sono ritratti mentre tagliano la legna per riscaldare la loro
abitazione in Siberia, dove erano prigionieri durante la Rivoluzione.)
Solo
gli ideologi credono esista una singola attività che definisce chi o cosa noi
siamo.
Produrre
e scambiare sono ovviamente attività importanti, ma lo sono anche il pensare e
l’amare.
Anche
in queste ultime due si manifesta la tensione tra libertà e uguaglianza, e
questo può aiutarci a capire come funziona tale rapporto.
La libertà di pensiero e la libertà in amore,
chiaramente, possono condurre a disuguaglianze.
C’è
chi prenderà un voto alto a scuola, e chi non lo prenderà.
Alcuni sono in grado di comprendere la teoria
delle stringhe, o la filosofia sociale, o la teoria “queer”, e altri no; e
questi sono solo piccoli esempi delle disuguaglianze prodotte dal pensiero.
Allo
stesso modo, alcune persone raggiungono l'oggetto del desiderio o l’amore di
cui hanno bisogno, e altre no.
Quella bella donna, quel bell’uomo mi può
ignorare mentre non vede l’ora di fuggire con qualcun altro, e questo è solo un
piccolo esempio della disuguaglianza che l’amore può produrre.
Eppure,
la maggior parte di noi non è a favore di una regolamentazione del pensiero o
dell’amore in nome dell’uguaglianza.
Ci sono persone che sono a favore di una
regolamentazione in nome della correttezza ideologica, o della morale puritana,
ma quando si tratta del pensiero e dell’amore, quasi tutti scelgono la libertà
rispetto all’uguaglianza.
Gli
intellettuali di destra ribadiscono questa preferenza riguardo lo scambio, e
quando metto in discussione questa loro preferenza, forse sto sostenendo che lo
scambio non ha un ruolo così centrale nella nostra attività di esseri umani, se
confrontato al pensiero e all’amore (ma questo è un argomento filosofico
più profondo che non svolgerò in questa sede).
In ogni caso, in nome del libero scambio, i
teorici di destra sono sostenitori più accaniti dell’estinzione dello Stato di
quanto non lo siano quelli di sinistra.
In effetti, vogliono la “quasi estinzione”
dello Stato, perché hanno bisogno di ciò che definiscono uno “Stato minimo”,
per garantire i contratti, dirimere le frodi, prevenire il furto e reprimere le
insurrezioni di sinistra.
A parte questo, sono sostenitori del
laissez-faire;
si
oppongono ad ogni interferenza dello Stato nella vita economica.
Naturalmente,
la libertà politica come l’ho descritta porterebbe a un’interferenza statale,
qualora vincesse la sinistra.
Nell’ipotesi
di questa eventualità, la destra preferisce uno Stato così minimo da non poter
essere utilizzato a scopi regolatori.
Almeno
in teoria, non ambiscono a limitare la libertà politica -anche se spesso
finiscono per farlo; quel che davvero vogliono è rendere la politica
irrilevante.
L’affermazione
che la libertà economica è incompatibile con l’uguaglianza è vera. La tendenza
generale e universale a formare gerarchie è molto evidente in ambito economico,
dove ampi processi di scambio, anche se volontari (in un certo qual senso),
finiscono per produrre grandi accumulazioni di ricchezza da una parte e
disperata povertà dall’altra, con tutto quello che sta tra i due estremi.
(Vi
erano sSoldati sotto lo slogan rivoluzionario “Lunga vita al popolo, terra,
libertà e pace!”, febbraio 1917, Nikolayevsk-on-Amur, Far East russo).
Dunque,
per questa stessa ragione, col passare del tempo, la libertà economica si
trasforma nel suo opposto.
Gli
scambi tra ricco e povero non sono mai veramente volontari;
in effetti, si potrebbe dire che non sono mai
liberi, e che la libertà economica di chi ha successo produce regolarmente la
non-libertà economica di chi non ha raggiunto tale successo; una condizione che a sinistra si
definisce “schiavitù salariale”.
I teorici
del liberismo, come “Robert Nozick”, hanno riconosciuto l’esistenza di
non-libertà nell’economia fondata sulla “libera impresa”.
In un
corso che abbiamo tenuto insieme molti anni fa, “Nozick” ha sostenuto che
poiché il capitalismo, inteso come sistema di libero scambio, è un sistema
economico giusto, una rivoluzione per instaurare il capitalismo negli Stati
Uniti sarebbe altrettanto giusta.
(Rivoluzione
globalista degli uomini di Davos! N.d.R.)
Ma una
tale rivoluzione (questo lui non l’ha detto) potrebbe portare a qualcosa che è
più di uno Stato minimo.
E
anche se conducesse a un sistema di libero scambio, si dovrebbe ben presto
procedere ad un’altra rivoluzione, poiché il libero scambio porta sempre a
scambi non volontari, per esempio quando chi possiede il capitale si trova a
trattare con uomini e donne che non possiedono nulla.
Parafrasando “Thomas Jefferson”, l’albero
della libertà dev’essere di tanto in tanto rinvigorito con il sangue dei
capitalisti, che ne rappresenta il concime naturale.
Si
potrebbe dire che lo scopo della regolamentazione socialdemocratica, è quello
di evitare il bisogno di spargimento di sangue.
(Thomas
Jefferson (1743-1826),fu il terzo presidente degli Stati Uniti)
La mia
posizione richiede un ulteriore ragionamento:
proprio come la non libertà politica dà luogo
a nuove gerarchie sociali ed economiche, così le gerarchie prodotte dal
liberismo danno luogo a nuove forme di non-libertà:
non
tanto il governo di un’avanguardia o di un Leader Maximo, ma quello di
oligarchi, o per meglio dire, di plutocrati.
La
ricchezza ha molti usi nella sfera della politica:
serve
a corrompere funzionari statali, a controllare i media attraverso i quali viene
trasmessa la conoscenza politica, a pagare le campagne elettorali di politici
amici, e a creare organizzazioni della società civile ben foraggiate, che
assumono un ruolo opposto a quello di bilanciamento dei poteri, chiamiamolo di
sbilanciamento, perché rafforzano il potere costituito.
Tutto questo determina una grave limitazione
della politica democratica.
La
sinistra risponde con la mobilitazione di massa, per schierare i molti contro
le ricchezze, nella speranza che, in un ambito politico aperto, i numeri conteranno.
I plutocrati, invece, mirano a ridurre la
partecipazione, e ad escludere quante più persone possibile dall’elettorato.
Se saranno i molti a prevalere, la sinistra al
governo regolerà l’economia e cercherà di ridurre le disuguaglianze economiche.
Ora,
torniamo all’affermazione di alcuni di sinistra, per i quali solo uno Stato
molto forte è in grado di portare a termine un progetto del genere.
Gli
opinionisti di destra usano lo spauracchio dello Stato forte, autoritario o
totalitario, per difendere la propria visione liberista.
Sostengono
che l’unica alternativa alle differenze che il mercato produce è il tipo di
livellamento creato da uno Stato tirannico.
Ma si
sbagliano, nello stesso modo in cui si sbaglia chi, da sinistra, difende la
tirannia.
Lo
Stato può regolare l’economia in molti modi differenti: dalle otto ore di
lavoro al giorno ai piani quinquennali.
La
libertà economica può essere limitata in modi che lasciano molto spazio
all’attività imprenditoriale e a scambi veramente liberi.
In sé
le limitazioni non sono tutte uguali: non è sempre necessario che lo Stato
impieghi tutta la forza disponibile per limitare i singoli.
(I contadini
russi continuavano nel lavoro dei campi nel periodo della Rivoluzione.)
Prendiamo
in esame un argomento tipico dei pensatori di destra ultraliberali, che la
tassazione costringe il popolo a lavorare per lo Stato per un certo numero di
giorni all’anno.
È come la corvée dell’ancien regime francese,
che era, letteralmente, un sistema di lavori forzati.
Ma
attenzione alla metafora:
inviare
un assegno all’ufficio delle imposte non ha nulla a che vedere con i lavori
forzati nelle proprietà del Re.
La
differenza è verificabile in pratica ed è grande.
Inoltre il lavoro forzato, a differenza della
tassazione, non è mai istituito né imposto mediante un processo democratico.
La leva militare, quella sì, potrebbe essere
più plausibilmente paragonata alla corvée, anche se pure questa può (e
dovrebbe) essere sottoposta al controllo democratico.
Dal
punto di vista della libertà economica, il vantaggio della tassazione
redistributiva è che presume che la libertà produca disuguaglianza, e la
ammette, dopodiché interviene a correggere quella stessa disuguaglianza che ha
reso possibile.
È una
specie di regolazione a posteriori.
Possiamo facilmente immaginare
regolamentazioni preventive che la maggior parte di noi non considererebbe
lesive della libertà economica:
leggi
contro il lavoro minorile, leggi sulla sicurezza nelle fabbriche,
regolamentazioni antimonopoliste -nessuna delle quali richiede un livello
spaventoso di potere statale.
Di
questi tempi sono al centro dell’interesse e spesso contestati gli statuti del
lavoro che rendono difficile licenziare i dipendenti, in realtà sono più un
antidoto alla non-libertà economica (evidente nel potere arbitrario di padroni
e manager) che una restrizione della libertà.
Sarebbe
forse preferibile se le regole del licenziamento fossero oggetto di trattative
tra le aziende e i rappresentanti sindacali.
Tuttavia contrattazioni come queste
presuppongono sindacati forti, che hanno sempre richiesto il sostegno di
governi progressisti o socialdemocratici -basti pensare al ruolo centrale della
“Legge Wagner” nel contribuire alla crescita dei sindacati nelle fabbriche
degli Stati Uniti.
Certamente
la “Legge Wagner “pone limiti al potere -e pertanto alla libertà- dei manager
delle grandi società, ma ha rafforzato la libertà degli operai, per esempio in
settori quali le acciaierie e l’industria automobilistica, rendendo gli Stati
Uniti una società leggermente più egualitaria (forse più che leggermente).
Nella
sfera economica uno Stato improntato al laissez-faire produrrà certamente una
società gerarchica (anche se la gerarchia potrebbe essere un po’ traballante,
dato che le dinastie sono in costante ascesa e declino).
Eppure, non c’è incompatibilità tra libertà
economica ed uguaglianza finché nessuna delle due viene presa in termini
assoluti.
Un’economia regolamentata può produrre non già
una società di eguali, ma una società più egualitaria.
Non penso, però, che valga un’affermazione
simmetrica riguardo la sfera della politica.
I limiti alla libertà politica non sono, o
almeno non sono mai a lungo, compatibili con alcun tipo di uguaglianza. (Così forse l’attività politica è
più simile al pensare e all’amare che non allo scambio economico…).
(La
famiglia imperiale russa fu fotografata in una foto del 1917.
In primo piano la principessa Olga, lo zar
Nicola II, la principessa Anastasia, zarevitc Alexeï e la principessa Tatiana.
In secondo piano la principessa Maria e la zarina Alexandra Fedorovna”.
Si
possono sviluppare ragionamenti plausibili per limitare la libertà politica
allo scopo di preservarla, come quando gli Stati democratici mettono fuorilegge
alcuni partiti politici che vogliono instaurare una dittatura, o mettono al
bando i discorsi di incitamento all’odio che negano i diritti politici (nonché tutti
gli altri) alle minoranze.
Non mi soffermerò su questi argomenti.
Voglio
solo insistere sul fatto che, a differenza della libertà economica, la libertà
politica non può essere oggetto di compromessi nel nome dell’uguaglianza.
Data
la lunga storia di campagne politiche contro i feudatari, la monarchia
assoluta, e la plutocrazia capitalista, potremmo dire che la libertà politica è
l’arma della sinistra;
ma
poiché queste campagne sono talvolta state sconfitte, e spesso non si sono
concluse positivamente, a sinistra c’è sempre la tentazione di cercare altre
vie.
Ma l’altra strada, la dittatura
rivoluzionaria, finisce per essere grottescamente familiare: come ha scritto
Yeats, «la frusta prosegue il suo corso».
Una
versione limitata della libertà economica è compatibile con l’uguaglianza, ma
una libertà politica che ci permette di lottare per le necessarie limitazioni
non può, essa stessa, essere limitata.
Il diritto all’opposizione mette tutti i
regimi politici, compresi quelli di sinistra, a rischio.
La mia
tesi, oggi, è molto semplice: questo è un rischio che va sempre corso.
La pretesa di qualunque regime di sinistra che
ogni opposizione sia controrivoluzionaria e vada repressa è un rifiuto di
questo rischio.
Dobbiamo riconoscere che si tratta di un rifiuto volto
alla dominazione e non all’uguaglianza.
La salute
non può trasformarsi
in un “diritto
tiranno”.
Studiolonoce.it
– (16 ottobre 2022) – Alfredo Lonoce – ci dice:
L’interesse
alla salute ha determinato gli Stati a costituire in data 22 luglio 1946
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, lo” OMS”.
Nel
preambolo della citata costituzione è scritto:
“La sanità è uno stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale, e non consiste solo in un assenza di malattia o
d’infermità.”
Una
enunciazione questa molto ampia, ma lontana dal riconoscimento vero e proprio
di un diritto alla salute.
Solo
con la “Dichiarazione Universale Dei Diritti Dell’Uomo” del 10 dicembre 1948,
comincia a delinearsi la sussistenza di un diritto individuale alla salute, dal
momento che viene solennemente sancito all’art. 25:
“…Ogni individuo ha diritto ad un tenore di
vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua
famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario,
all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari…”.
La
“Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”
adottata il 16 dicembre 1966 ed entrata in vigore il 3 gennaio 1976 all’art. 12
prevede:
“Gli
Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a
godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di
conseguire”.
Il
diritto alla salute compare altresì in numerosi altri accordi internazionali in
cui però è sempre carente una definizione chiara ed univoca del “diritto alla
salute”.
Diritto
che talvolta appare come diritto dell’individuo nei confronti dello Stato a
ricevere determinate garanzie di cura, ma il più delle volte è soltanto un
generico diritto al godimento del più elevato standard di salute possibile.
A poco
alla volta negli accordi internazionali la tutela del “diritto universale alla
salute” viene esteso al rispetto del” principio di non discriminazione di
nessun genere”, diretto a garantire sempre tutti indistintamente.
Nella
nostra Costituzione viene fatto un passo avanti sulla definizione della salute
come vero e proprio diritto individuale in quanto viene stabilito che è compito
della Repubblica creare quelle condizioni affinché le persone possano
esercitare il diritto ad ottenere la tutela della propria salute, che si concretizza
nell’accesso all’assistenza sanitaria generale e specialistica, diritto
riconosciuto dalla Costituzione e qualificato come fondamentale.
Infatti
l’art. 32 della Costituzione prevede:
“La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti
dal rispetto della persona umana.”
La
Consulta, in materia di salute, ha ripetutamente affermato la necessità di
effettuare il bilanciamento tra valori costituzionali sostenendo che
“il diritto ai trattamenti sanitari necessari alla
tutela della salute è garantito ad ogni persona come diritto costituzionalmente
condizionato all’attuazione che il legislatore ne dà attraverso il
bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti”.
La
Corte Costituzionale ha inoltre affermato che in materia di salute occorre una
attenta ponderazione circa la rilevanza costituzionale dei valori in campo e
che non è ammissibile che l’esito del bilanciamento sfoci in un pregiudizio
delle prerogative fondamentali derivanti da diritti di cui siamo titolari.
Esiste
infatti nel diritto alla salute un limite che non può essere varcato senza
privare l’individuo di altri diritti, con conseguente violazione del dettato
costituzionale.
In
dottrina e giurisprudenza di recente si dibatte sulla questione se il diritto
individuale alla salute, come previsto nell’articolo 32 della Costituzione,
debba cedere all’interesse della collettività.
È
incontrovertibile che l’interesse collettivo non può spingersi oltre certi
limiti nell’interferire con il diritto del singolo alla salute e con altri
diritti fondamentali, quali ad esempio il diritto alla libertà tutelato
dall’art.13 cost. di cui il singolo è titolare.
La
tesi dei fautori della vaccinazione obbligatoria, secondo cui nel caso di
contagio dal CoVid-19 il vaccino costituisce un freno alla diffusione, non può
prescindere dalla considerazione che l’obbligatorietà di un determinato
trattamento sanitario, come è l’inoculazione di un farmaco autorizzato in via
provvisoria ed ancora sperimentale, che provoca innumerevoli e gravi reazioni avverse,
non può essere disposto senza interferire con il diritto primario fondamentale
ed umano alla libertà.
Ad
esempio ogni decisione di sottoporsi o meno a un determinato trattamento
sanitario spetta sempre e soltanto al singolo individuo che, dopo aver ricevuto
tutte le informazioni necessarie e veritiere circa il proprio stato e i
trattamenti possibili, esprimerà, o negherà il proprio consenso informato alle
cure che dovranno sempre essere rispettose dell’individuo.
Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 2092, del 1992 hanno
affermato che
“il diritto alla salute è sovrastante
all’amministrazione di guisa che questa non ha alcun potere, neppure per motivi
di interesse pubblico specialmente rilevante, non solo di affievolirlo, ma
neanche di pregiudicarlo nel fatto indirettamente”.
A
seguito della pandemia dichiarata dall’OMS in data 11 marzo 2020, cui ha fatto
seguito Il 23 luglio 2022 su iniziativa del Direttore Generale (“DG”)
dell’Organizzazione mondiale della Sanità (“OMS”), ai sensi dell’art. 12 del
Regolamento sanitario internazionale (“RSI”) la dichiarazione che lo scoppio
dell’epidemia di Vaiolo delle scimmie, costituisce un’Emergenza di sanità
pubblica di rilievo internazionale (“ESPRI”), sono state utilizzate e continuano
ad esserlo, callide e non veritiere argomentazioni per sancire la sussistenza di una
emergenza epidemiologica per giustificare un intervento emergenziale ed è stata imposta d’autorità
l’unicità di vedute della “Comunità Scientifica”.
In
data 08/07/2016 la FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici
Chirurghi e Odontoiatri), ha pubblicato il “Documento dei Vaccini” in cui non
viene fatta alcuna distinzione tra vaccini obbligatori e quelli facoltativi, né
tra malattie che possono prevenire, ma si è limitata a dichiarare che
ogni medico che sconsiglia un vaccino, commette un illecito disciplinare.
Per
rafforzare gli strumenti di repressione contro i sanitari che si fossero
dissociati dal pensiero unico, su iniziativa della ministra Lorenzin, veniva
varata la legge 3/2018, che riformava gli ordini professionali sanitari e li
trasformava in “enti pubblici non economici”, i quali “agiscono quali organi
sussidiari dello Stato al fine di tutelare gli interessi pubblici, garantiti
dall’ordinamento, connessi all’esercizio professionale” e quindi in buona
sostanza sono subordinati al governo.
All’art.
4 co.1 lett. l), della legge n.3/2018, con riferimento ai criteri in base ai
quali gli ordini giudicano le infrazioni deontologiche, si dispone addirittura che l’ordine
professionale deve tenere conto, oltre che del codice deontologico, anche delle
norme, nazionali o regionali, e persino di quelle contenute nei contratti
collettivi nazionali di lavoro che impongono determinati comportamenti ai
sanitari.
Sostanzialmente,
per effetto delle riforme sopra citate, si è verificato che la politica ha
delegato alla Scienza e quindi alla Medicina, che per la Sanità si sono
trasformate in un vero e proprio potere legislativo “sussidiario e derivato”.
Il
risultato dell’operazione è quello di aver creato un quarto potere, collocato
al vertice della gerarchia delle tradizionali fonti del diritto, quello della
“Scienza” che si muove con un ampio margine di discrezionalità.
La
sentenza n. 184/1986 della Corte Costituzionale, in tema di risarcimento del
danno alla salute per fatto illecito, ha chiarito:
“La
lettura del primo comma dell’art. 32 Cost., che non a caso fa precedere il
fondamentale diritto della persona umana alla salute, all’interesse della collettività
alla medesima ed i precedenti giurisprudenziali, inducono a ritenere
sicuramente superata l’originaria lettura in chiave esclusivamente
pubblicistica del dettato costituzionale in materia.”
Non è
un caso, quindi, che il diritto fondamentale sia stato premesso all’interesse
della collettività, ma tale collocazione voluta dai costituenti aveva il
significato di voler rimarcare una precisa e ben delineata gerarchia di valori,
nel senso che vengono prima i diritti e poi gli interessi.
Il
problema del bilanciamento tra salute individuale e quella collettiva in tema
vaccinale viene affrontato dalla sentenza della Corte Costituzionale n.118/96,
secondo la quale a casi del genere il
legislatore si trova di fronte alla “scelta tragica del diritto”, perché sa che, imponendo un
trattamento obbligatorio in soggetti sani, può accadere che qualcuno subisca un
danno, per effetto del sacrificio della sua salute al bene della collettività,
ragion per cui merita, quindi, che quest’ultima gli riconosca un equo indennizzo
(da ciò la
ragione e la legittimazione della Legge 210/92).
La
libertà personale che per la nostra Costituzione è inviolabile, rappresenta il
diritto fondamentale più importante e consiste essenzialmente nel diritto della
persona a non subire coercizioni, restrizioni fisiche ed arresti e si traduce
in una tutela avverso gli abusi dell’Autorità e, specularmente, costituisce
l’indispensabile condizione per poter godere dell’autonomia ed indipendenza
necessarie per esercitare gli altri diritti fondamentali.
Il
diritto alla libertà è inoltre uno dei trenta diritti umani previsti dalla “Dichiarazione
Universale dei diritti umani” approvata e proclamata il 10 dicembre 1948
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui non è invece compreso il
diritto alla salute, né, tanto meno, l’interesse della collettività alla
salute.
Una
esasperata preoccupazione di tutelare il diritto alla salute non giustifica la
privazione della libertà, in quanto non sembra che l’art.13 Cost. possa cedere
all’art. 32 Cost.;
pertanto,
tutte le restrizioni coattive per motivi di sanità devono necessariamente
seguire la via giurisdizionale prevista dall’art. 13.
In
altri termini mai potrebbe, dall’autorità pubblica, essere invocato l’art.32
Cost. per derogare, per motivi di salute, le garanzie dell’art.13.
Lo
stesso trattamento sanitario che, oltre che obbligatorio, divenga coattivo –
prevedendo cioè l’imposizione del trattamento attraverso l’uso della
coercizione da parte della pubblica autorità – deve ritenersi ricadere sotto
l’applicazione e le garanzie dell’art. 13, Cost., essendo escluso che si possa
considerare l’art. 32, Cost. quale norma speciale di rango superiore, essendo
la stessa inidonea a prevalere su quella generale di cui all’art. 13, Cost. (C. Cost. 74/1968; C. Cost.
29/1973; 223/1976; 54/1986; 471/1990; 238/1996; 257/1996).
Se è
vero che la limitazione della libertà personale ex art. 13 Cost., può essere
ammessa per il perseguimento di fini ulteriori di rango costituzionale, secondo
un giudizio di ragionevolezza e proporzionalità (cfr. C. Cost. 39/1970), è
pacifico che ciò non elide la necessità di rispettare le garanzie imposte
dall’art. 13 Cost., in punto di riserva di legge assoluta e di riserva di
giurisdizione.
In
altri termini, il legislatore può limitare la libertà personale perseguendo
finalità ulteriori, di pari rango costituzionale, onde controbilanciarli con la
prima, ma lo deve fare rispettando sia il principio della riserva di legge
assoluta, attraverso l’individuazione tassativa delle misure, dei casi e dei
modi, sia la riserva di giurisdizione.
Per
superare questo scoglio si è quindi fatto ricorso all’escamotage concettuale di
identificare l’intera popolazione con una minoranza fragile e bisognosa di
protezione.
In questo modo l’intera collettività diviene
portatrice di un “diritto fondamentale alla protezione”, a fronte del quale il
singolo dovrebbe cedere il passo, quasi fosse quest’ultimo ad essere il
titolare di un mero “interesse” alla salute.
È
inammissibile ed inaccettabile tale costruzione giuridica per aggirare le
previsioni costituzionali e norme di rango sovraordinato.
Non vi
può, né vi deve essere alcuna soggezione del diritto ad interpretazioni forzate
di norme costituzionali, per servire da supporto a scelte imposte da altri e
che spesso nulla hanno a che vedere con la salute, ma dipendono da interessi di
altra natura.
La
caparbietà con cui si insiste nel voler piegare la Costituzione, attraverso una
sua lettura adattata agli interessi del momento, spesso in conflitto tra loro,
significa inferire ogni volta un pericoloso colpo alla nostra Carta
fondamentale, dove sono scritti tutti i nostri doveri ed i nostri diritti,
provocando così una inevitabile incertezza del diritto.
“Il
rispetto della persona umana, di cui i diritti di libertà sono l’espressione
giuridica, è condizione indivisibile per il mantenimento della pace tra i
popoli” – scriveva il giurista Piero Calamandrei
nel 1946 -.
L’inclusione
dei diritti di libertà nella costituzione, in conseguenza della quale essi
assumono il carattere di diritti costituzionali, importa un impegno dello Stato
a non servirsi del potere legislativo o di quello esecutivo per sopprimerli o
per restringerli.
È
infatti nella Costituzione che deve rinvenirsi il potere delle leggi, è la
Costituzione che costituisce il perimetro entro il quale le leggi devono
muoversi, obbedendo ai vincoli loro imposti dai principi fondativi della
società, enunciati proprio nella Costituzione.
L’auspicio
è quindi quello di rientrare nel perimetro delineato dalla Costituzione ed
astenersi da grotteschi tentativi di riformarne il contenuto con strumenti,
come la sua distorta interpretazione, che sono completamente diversi da quelli
previsti dall’art.138 per la sua revisione.
IL
POTERE PIEGA I POPOLI
“ABOLENDO
LA PROPRIETÀ PRIVATA”.
Opinione.it
- Ruggiero Capone – (08 gennaio 2021) – ci dice:
Il
rapporto tra popolo e potere (o poteri) non è mai stato idilliaco, e
storicamente le conflittualità sono sempre state mediate da quelli che oggi definiremmo
corpi intermedi, ovvero religioni, tribuni del popolo, mafie, sacerdoti, maghi,
sindacalisti…partiti politici.
Va detto che il potere ha sempre cercato di comprare i
rappresentanti dei corpi intermedi, quanto meno d’addomesticarli.
Inutile ribadire che la storia dei popoli è
diversa, ma presenta comunque similitudini.
Negli ultimi duecento anni le aristocrazie
storiche hanno pian pianino ceduto lo scettro a quelle tecnologico-finanziarie.
Il rapporto tra popolo e “nuovi padroni del
potere nel mondo” è stato comunque calmierato da corpi intermedi come chiesa,
sindacati e partiti politici (negli ultimi settant’anni si sono aggiunte le organizzazioni
internazionali).
Ma oggi siamo ad una svolta epocale, ad una
resa di conti, tra popolo e potere.
Questo
perché il potere della ricca élite globalista non ha più bisogno del popolo,
degli esseri umani.
Il potere non ha più bisogno di braccia che lavorino
nei campi o nelle fabbriche, e nemmeno di tanti addetti alle manutenzioni edili
ed urbane, troppi sono anche insegnanti ed impiegati, pericolosi gli autonomi
dediti ad artigianato e commercio. Questi ultimi rappresentano per il potere
l’insidiosa classe che potrebbe azionare l’ascensore sociale, tentando la
prevaricazione economica nei riguardi del potere consolidato.
Per
bloccare ogni tumulto, quindi evitare che vengano insidiati i poteri, è stato
siglato un patto di stabilità tra i gruppi mondiali che detengono il potere.
Il
patto tra poteri (amministratori di gruppi finanziari, multinazionali
tecnologiche ed industria della sicurezza) prende il nome di “Great Reset”, ed
è stato siglato al Forum di Davos di Klaus Schwab circa vent’anni fa, nel 2001:
durante
quell’appuntamento, dal titolo “Global information technology report”, si
definirono a Davos le basi del “Great Reset”.
Il 2
gennaio 2021, Maurizio Blondet ha pubblicato un estratto dell’”Economist”
(settimanale di Sir Evelyn de Rothschild) in cui si acclarano i postulati di
quello storico accordo di Davos:
ovvero
soppressione della proprietà privata, limitazione della mobilità dei popoli,
limiti al lavoro creativo ed individuale, introduzione della moneta elettronica
per scongiurare risparmio individuale ed accumulo di danaro fuori dal controllo
dei sistemi bancari, rafforzamento delle norme di sicurezza al fine di
controllare l’agire degli individui.
Norme
e metodiche che, i potenti di Davos hanno fatto digerire alle politiche
nazionali come antidoto alla distruzione del pianeta.
In
pratica la salvaguardia del Pianeta verrebbe garantita con la schiavitù dei
popoli.
Nicoletta
Forcieri ha già documentato la mitica riunione di Davos sulla web-tv ByoBlu,
determinando l’ira del conformismo mediatico italiano:
non dimentichiamo che gran parte dei giornalisti
italioti gradivano essere ospiti negli alberghi di Davos.
Nel
2016 il piano del Forum di Davos viene illustrato dall’Istituto Mises:
ovvero diviene di dominio pubblico la volontà
del potere di abolire la proprietà privata.
Il titolo di quel rapporto (e programma) è “No privacy, no property: the world in
2030 according to the Wef”.
Quindi
entro il 2030 i potenti della terra contano d’aver convinto tutti gli stati del
pianeta ad abolite per legge la proprietà di alloggi e strumenti di produzione.
In
questo progetto del potere si rivela provvidenziale la pandemia da Covid, che
sta di fatto agevolando la criminalizzazione del lavoro umano (valutato come
primo fattore d’inquinamento), del turismo di massa e della socializzazione
umana in genere.
La pandemia sta anche favorendo il
depauperamento del risparmio individuale di coloro che non sono parte del
sistema:
ovvero tutti gli individui che non lavorano
per entità statali e multinazionali. Perché il Great Reset prevede che
debbano essere chiuse tutte le attività individuali artigianali e commerciali,
e per favorire l’accordo unico tra grande distribuzione e commercio
elettronico.
Obiettivo
dei signori di Davos è far decollare il reddito universale (la “povertà
sostenibile”) entro il secondo trimestre 2021:
sarebbero
proprio artigiani e commercianti a dover per primi abbandonare le rispettive
attività per piegarsi ad un programma di “povertà sostenibile”.
La
pandemia s’è rivelata fondamentale per l’opera di convincimento al non lavoro.
“Oltre
la privacy e la proprietà” è una pubblicazione, per il World economic forum,
dell’ecoattivista danese Ida Auken (dal 2011 al 2014 ministro dell’Ambiente
della Danimarca, ancora membro del Parlamento danese) e parla d’un mondo “senza
privacy o proprietà”: immagina un mondo in cui “non possiedo nulla, non ho
privacy e la vita non è mai stata migliore”.
L’obiettivo è entro il 2030 (scenario di Ida
Auken) che “lo shopping e il possesso sono diventati obsoleti, perché tutto ciò
che una volta era un prodotto ora è un servizio.
In questo suo nuovo mondo idilliaco, le
persone hanno libero accesso a mezzi di trasporto, alloggio, cibo e tutte le
cose di cui abbiamo bisogno nella nostra vita quotidiana”.
I
poteri si sono inseriti in questi disegni utopici e, per fare propri tutti i
beni dei popoli, hanno elaborato la trappola della “povertà sostenibile”, il
reddito di base garantito.
Antony
Peter Mueller (professore tedesco di Economia) sottolinea che questo progetto
va oltre il comunismo più estremo.
“L’imminente esproprio andrebbe oltre anche la
richiesta comunista – nota Mueller – questa vuole abolire la proprietà privata
dei mezzi di produzione, ma lascia spazio ai beni privati.
La
proiezione del Wef afferma che anche i beni di consumo non sarebbero più
proprietà privata (…) secondo le proiezioni dei “Global future Councils” del
Wef, la proprietà privata e la privacy saranno abolite nel prossimo decennio.
Le persone non possederanno nulla. Le merci sono gratuite o devono essere
prestate dallo Stato”.
“La
proprietà privata è di ostacolo al capitalismo”, afferma l’”Economist” nel suo
elogio alle politiche del Forum di Davos.
L’Fmi
(Fondo monetario internazionale) ha sposato il programma del Forum di Davos,
infatti è partito il programma mondiale di reset del debito:
in
cambio gli stati con maggiore debito pubblico sarebbero i primi a dover
garantire ai poteri che i cittadini perdano per sempre la proprietà privata di
qualsiasi bene.
E chi gestirebbe i beni confiscati?
Le
ricche élite, che pensano di risolvere il problema abolendo mondialmente la
proprietà privata, hanno già predisposto un unico fondo planetario che
controlli i diritti sui beni e terreni.
L’idea,
davvero utopica, veniva per la prima volta paventata da George Soros nel 1970,
due anni dopo la sua invenzione degli “hedge fund”:
il
cosiddetto “sistema finanziario buono” che convinse moltissimi hippie
sessantottini a trasformarsi in yuppies finanziari di successo.
Ora
che il pianeta è ancor più bruciato dai debiti, gli stessi tentano di
reinterpretare Karl Marx e Friedrich Engels, e questa volta lo fanno
raccontandoci che c’è in “dispotismo asiatico buono” e che poggia sull’“assenza
della proprietà privata…chiave della pace per i popoli”.
Un
particolare, non secondario per noi italiani, è che ai passati Forum di Davos
era ospite fisso Gianroberto Casaleggio (fondatore dell’omonima azienda che
controlla i 5 Stelle):
ne deriva che, su noi italiani potrebbe
abbattersi la sperimentazione d’abolizione della proprietà privata.
Un programma che partirebbe certamente con una
modifica costituzionale: del resto l’Unione europea chiede da almeno un
decennio che lo stato ponga limiti alla libertà privata in Italia (circa l’80
per cento dei cittadini italiani vivono in case di proprietà).
Ecco
che i pignoramenti europei, che dovrebbero colpire i proprietari anche per
minimi importi, agevolerebbero la transizione delle proprietà italiane verso “un fondo immobiliare europeo”.
(I ladri pubblici si stanno organizzando per la loro festa ai danni dei
popoli europei! N.d.R.)
Poi la carestia e la mancanza di danaro che
decollerebbero entro luglio 2021 (interruzione programmata delle catene di
rifornimento) darebbero alla società la grande instabilità economica utile alla
svendita dei beni ai grandi gruppi finanziari:
i
“compro casa” (collegati alle grandi finanziarie) stanno affacciandosi al
mercato insieme ai “compro oro”.
Di
fatto, i potenti della terra stanno riportando l’orologio della storia al tempo
di sumeri, babilonesi ed egiziani pre-ellenistici:
quindi
a prima che il diritto romano desse certezza alla proprietà privata.
Quest’ultima garantiva la libertà dei cittadini, la loro non sudditanza verso
un unico padrone, era meritocratica perché costruita da colui che lavorava e risparmiava.
Ecco
perché lo scrivente condivide le parole (e l’appello) di Maurizio Blondet:
“Ciò che viene venduto al pubblico come
promessa di uguaglianza e sostenibilità ecologica è in realtà un brutale
assalto alla dignità umana e alla libertà”.
Del resto,
il discorso di buon anno di Angela Merkel non lascia spazio a fraintendimenti:
la potente tedesca ha detto che necessita
colpire giudiziariamente i pensatori complottisti, istituendo un reato europeo
di negazionismo che permetta di punire chi critica verità processuali,
giudiziarie, finanziarie e scientifiche.
La proprietà privata, ed il lavoro libero ed
individuale, danno all’uomo libertà e lo sottraggono all’omologazione ordinata
dai potenti.
L’Occidente
sta accettando supinamente una dittatura da cui è difficile sortire, perché
sicurezza informatica, forze di polizia (eserciti e security di
multinazionali), magistratura e governi sono illuminati dai potenti di Davos.
Ed i
potenti gestiscono il potere come la propria fattoria, parafrasando il dittatore
paraguaiano Alfredo Stroessner:
in
Paraguay le forze dell’ordine giuravano fedeltà al potere.
Quest’ultima
è consuetudine in tutte le multinazionali, le stesse che oggi stanno
subentrando al controllo degli stati democratici.
Neo
marxismo italiano: soggettività di classe,
autovalorizzazione,
bisogno di comunismo
“molto
utile alla ricca élite globalista”.
Infoaut.org
– Alberto Sgalla – (6 marzo 2023) – ci dice:
(Alberto Sgalla, docente di Diritto e
scrittore)
Esplorare
le infinite possibilità della voce per raggiungere gli estremi confini del
canto … è l’universo dei valori d’uso che si scontra con la fabbrica e la
produzione (N.
Balestrini)
La
ricerca neo-marxista.
I “Grundrisse”,
pubblicati in Occidente nel 1953, sono stati indispensabili come fonte di
riferimento per la ricostruzione complessiva del grande laboratorio di pensiero
marxiano e, in particolare, per quel movimento di ricerca, che si è sviluppato
in Italia lungo gli anni ’60 e ‘70 (Panzieri, Tronti, Asor Rosa, Negri,
Alquati, Bologna, Ferrari Bravo, Daghini, Luperini, Berti, Marazzi, Meriggi,
Virno, Castellano, Màdera … “Quaderni Rossi”, “Quaderni piacentini”, “Classe
Operaia”, “Contropiano”, “Aut aut”, “Primo Maggio”, “Sapere”, “Ombre Rosse”,
“Controinformazione”, “Rosso” …), movimento di riflessione teorica, di analisi
concreta, di critica della scolastica rigida in cui certo marxismo era
rinchiuso, di recupero dei temi marxisti della prorompente soggettività di classe,
della libertà, della ricerca della felicità.
Quel
neo-marxismo ha assunto in pieno il metodo dialettico critico e rivoluzionario,
che “nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include
simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso”.
Ha
rinnovato il marxismo come teoria scientifica dello sviluppo capitalistico e
della classe operaia come soggetto collettivo, sintesi di corpi, intelletti,
volontà, come agente del cambiamento, ora “guidato dagli uomini di Davos”.
Ha
analizzato la fenomenologia dei rapporti di forza fra i soggetti sociali, la
nuova autonoma soggettività di classe nel nuovo assetto concreto dei rapporti
che s’andavano instaurando nel processo di produzione in cui era protagonista
la grande impresa fordista verticalmente integrata, poi avviata verso una forma
“flessibile”, delocalizzata, specializzata per fasi, condizionata dal capitale
finanziario, sovrano nell’orientare l’allocazione delle risorse.
Ha
analizzato la società competitiva di massa, che ha reso l’individuo
“uomo-massa”, la società “opulenta”, tecnicamente parcellizzata, dove
progredivano urbanizzazione, scolarizzazione di massa, produttività e i luoghi
di vita e i luoghi di lavoro, prima separati, s’andavano via via confondendo,
all’insegna della pervasività del mercato come luogo ultimo di verità.
Ha
inoltre analizzato la ristrutturazione del capitalismo postbellico, in atto
dalla metà degli anni ’70, indicata col termine “postfordismo”, un sistema
basato su forme flessibili di accumulazione, sulla scomposizione dell’impresa
fordista in molte sottounità e sottoprocessi eseguiti da numerose imprese
sparse territorialmente, ma concentrando proprietà e controllo delle risorse
nelle grandi imprese, sulla messa in rete di diversi modi, tempi e luoghi di produzione
del plusvalore; sulla rimozione degli ostacoli alla libera mobilità dei
capitali; sulla massimizzazione dell’estensione e della velocità di movimento
del capitale; sulla fabbrica robotizzata e diffusa, sulla messa in discussione
delle barriere spazio-temporali costituite da istituzioni pubbliche e comunità,
sulla fluidificazione del mercato del lavoro e la dispersione della
forza-lavoro, ridotta a “folla atomizzata”, caos di sradicati nomadi, fluidi,
protagonisti del lavoro precario, saltuario, mobile, in una società
dell’incertezza, in cui l’esistenza del lavoratore è orientata alla mera
sopravvivenza.
Mentre
Saigon veniva conquistata dai patrioti vietnamiti, vincenti sugli orrori
dell’imperialismo USA, in Italia si veniva consolidando un’area teorico-militante
denominata “Autonomia Operaia”, che intendeva comprendere ed esprimere una
soggettività proletaria antagonistica, che stava elevando e arricchendo la
propria forza produttiva prima nella società-fabbrica fordista e poi dentro la
società “postindustriale”, in cui, con la sussunzione reale della società al
capitale, il potere economico non si limita più allo sfruttamento della
forza-lavoro nell’immediato processo produttivo, ma estende il proprio comando
all’intero ciclo di riproduzione della forza-lavoro (formazione, comunicazione,
sanità, scuola, trasporti, servizi assistenziali …).
La
cosa-capitale investe e sfrutta l’intelligenza scientifico-tecnica e
comunicativa del lavoro vivo, le sue qualità “sociali”, proletarizza settori
che prima fungevano solo da intermediari nella contraddizione lavoro-capitale.
Si
trattava di dare espressione compiuta alla soggettività di classe interna alla
società-mercato plasmata dalla colonizzazione capitalistica di tempo, corpi e
menti, interna al nuovo assetto del tardo-capitalismo, in cui la classe del
lavoro era ridotta a nuda vita, intesa come pura esistenza biologica, parte del
capitale, quindi esposta all’arbitrio altrui, al crudo rapporto di forza.
Autonomia
voleva dire che la classe non si percepisce come puro sostrato biologico, vuole
la vita autentica, la vita politicamente qualificata, una vita dotata di una
forma, che esprima lo sviluppo di forza e bellezza.
Quella
soggettività di classe, nel suo processo di auto costituzione, si poneva fuori
dal capitale, dalla crudele giostra del mercato, dalla lotta di tutti contro
tutti, con una identità autonoma, che non necessariamente si determinava come
programma di potere, ma era volta a costruire civiltà, cioè la forma che
esprime il moto creatore della vita.
Si riteneva che la produttività sociale della
classe operaia fosse in grado di realizzare opere che non erano valori di
scambio, ma materia formata, belle in quanto opere riuscite, intensificazione
della vita.
La
vicenda di questa autonoma soggettività di classe è fatta di un insieme di
esperienze articolate (Assemblee operaie autonome, Comitati unitari di base,
Circoli del proletariato giovanile, Collettivi politici, Ronde contro il lavoro
nero e l’eroina…), che si sono svolte lungo l’arco degli anni 70 intorno
all’idea-forza del “rifiuto del lavoro”.
Di fronte alla miseria capitalistica che
depotenzia le qualità esistenziali-culturali dell’umanità e fa entrare la merce
dentro i corpi e le anime, di fronte alla contrazione difensiva dell’io, alla
sua riduzione percettiva, esistenziale, il rifiuto del lavoro salariato è stata
la risposta al processo di proletarizzazione di tutti gli aspetti della vita
umana, ha significato la rivolta dell’uomo meccanizzato, dell’operaio-massa e
poi del c.d. “operaio sociale”;
una
strategia di resistenza operaia, un comportamento sociale di difesa da parte
dei lavoratori della propria integrità psico-fisica, della propria libertà,
contro i tentativi di dominio capitalistico totale.
Rifiuto
del lavoro voleva dire
“che
dentro la struttura… dei rapporti sociali comandati dal lavoro salariato vive…
un tessuto di comunicazione e organizzazione, che detiene informazioni, saperi”
(Castellano), a essa contrapposti, nati dalle lotte per una migliore qualità di
vita;
sottrarre
risorse (sostanza dello sviluppo del capitale) e disponibilità al comando del
capitale, quindi esercitare autovalorizzazione, cioè liberazione della
soggettività (intelligenza, percezione, memoria, immaginazione…)
dall’abbrutimento, dall’asservimento disumano e socialmente inutile, attraverso
la lotta per il salario sociale; capacità di autorealizzarsi qui e ora, di
partecipare ad un “io collettivo” liberato, che era la comunità implicata nel
processo massificato di produzione.
Il
principio di riferimento era chiaro:
il
tempo liberato dal lavoro detiene conoscenza, è forza produttiva; la strategia
di liberazione consiste nell’arricchire le risorse che si presentano come “non
capitale”, dato che nel tempo del non-lavoro (tempo qualitativo, ricco di
differenze) gravita una quantità di risorse produttive, di cooperazione
sociale, di scambio ed elaborazione di informazioni e conoscenze.
Il “potere operaio” non era quello legato al
governo dello Stato, ma quello sociale, legato alla struttura delle forze
produttive, faceva perno su “un individuo sociale ricco di capacità, di
informazioni, conoscenze, bisogni, desideri” (Castellano).
La lotta non voleva la presa del potere,
voleva contrattare spazi autonomi di gestione delle risorse sociali, della
propria differenza, era secessione, pratica locale del contropotere.
La
lotta mise in evidenza lo sviluppo di relazioni sociali troppo ricche per
essere ricondotte al rapporto di capitale, all’equivalenza generale del mondo
delle merci (un “uomo di un’ora” vale un altro “uomo d’un’ora”);
mostrò
l’incapacità dell’interesse parziale capitalista a essere sintesi di tutta
l’organizzazione e comunicazione sociale;
l’incapacità
di organizzare dentro il tempo di lavoro tutte le risorse sociali.
Dagli
anni ‘60 agli anni’ 70.
Gli
anni ’60 sono iniziati a luglio con la sanguinosa rivolta che ha avuto come
protagonisti i nuovi strati del proletariato formatisi nei processi di
ristrutturazione degli anni ’50, che fecero parlare di “avanguardie di massa”.
Iniziava anche la grande avventura
teorico-pratica di una generazione di intellettuali rivoluzionari di “punta”,
che intendevano ricostruire una strategia del movimento operaio reale e rendere
la nuova composizione di classe, costruita dallo sviluppo capitalistico,
coscienza e volontà soggettiva.
C’era interesse per le nuove tecnologie, per
la ristrutturazione capitalistica della società e per la possibilità di
ricostituire un movimento di massa rivoluzionario:
le nuove possibilità della rivoluzione
nascevano dall’anticipazione/rovesciamento operaio degli elementi decisivi
della “pianificazione capitalistica”.
Tornava un programma: socializzazione dei
mezzi di produzione, organizzazione soviettista del proletariato, azione
strategica d’avanguardia del partito, liberazione del tempo di vita per lo
svolgimento di “attività superiori”.
Poi
nel 1962 la rivolta operaia di Torino, lo scontro di Piazza Statuto.
Il
rifiuto di massa della contrattazione istituzionale e dell’ideologia del
“progresso” neo-capitalistico, il ritrovare una ragione d’identità collettiva,
fecero capire che l’avanguardia operaia era in grado di riunire nella metropoli
i vari settori proletari sbandati, umiliati dalla dittatura padronale e
dall’essere sul posto di lavoro appendice stupida del macchinario.
“Il lavoro non è un modo di vivere ma
l’obbligo di vendersi per vivere”, si leggeva in volantini operai che
invitavano alla lotta per non morire più avvelenati dal lavoro.
1963,
tentativo di colpo di Stato.
Nell’ottobre presso Palermo scrittori,
critici, intellettuali, operatori artistici, si riunirono in un primo incontro,
da cui nacque il “Gruppo 63” (Balestrini, Sanguineti, Pagliarani, Leonetti,
Arbasino, Giuliani, Porta, Manganelli, Celati, Anceschi, Guglielmi, Barilli …
Riviste: “Il Verri”, “Quindici”) in un fervido clima di sperimentazione
letteraria, in cui emergeva una nuova generazione di poeti, narratori, critici,
che intendevano superare l’ambito specialistico del loro ruolo, fautori di una
nuova letteratura in presa diretta sulla complessità delle figure della
modernità, sul mito tecnocratico, sull’astrattezza funzionale e alienante della
contemporanea società industriale di massa.
La neo-avanguardia si levava contro la
mercificazione estetica, “l’arte cerca di sottrarsi al suo destino di sterilità
giullaresca” (Sanguineti). Nel ‘67e ‘68 diversi intellettuali del “Gruppo 63”
(ad es. la rivista “Quindici”) entrarono attivamente nel movimento di lotta.
1964,
il gigantesco funerale di Togliatti fu l’espressione di un proletariato che,
mentre il boom economico stava declinando sul piano psicologico e anche
materiale, coltivava la speranza del comunismo e sapeva trasformare ogni lotta
di fabbrica per il salario, contro il cottimo, la nocività, in uno scontro.
Luglio
1967, ebbero notevole risonanza in Italia gli atti del congresso “Dialettica
della liberazione”, che si tenne a Londra, per iniziativa di un gruppo di
psichiatri (Laing, Cooper …), per analizzare la sistematica manipolazione
psicologica e la disumanizzazione della “società opulenta” e per creare un
linguaggio comune fra istanze politiche rivoluzionarie e strumenti di critica
culturale.
Agosto
1967, prima grande lotta di massa dei comitati autonomi operai al Petrolchimico
di Marghera.
Inizio del movimento studentesco che si
opponeva alla formazione dei giovani come “capitale umano” disponibile alla
dipendenza dai padroni e dai mass-media come “fabbrica del consenso”.
Capodanno
del 1968, segnali di lotta rivoluzionaria venivano dai popoli che si
ribellavano all’imperialismo e dai popoli europei, circolavano generosa
irrequietezza di massa, intelligenza critica, volontà progettuale,
responsabilità, la certezza che solo il collettivo sostiene la vita
individuale.
Febbraio
‘68, alla Siemens di Milano primo sciopero di tecnici e impiegati, mentre nella
società le culture del “desiderio dissidente” confluivano nel ’68, che fu la
corposa gioia del movimento, il cumularsi di tanti pezzi di soggettività, di
tante istanze di liberazione, di tante parziali radicali trasformazioni, Marx,
Lenin, Mao, Marcuse, Guevara e Basaglia, la vitalità di una potenza storica, di
milioni di sfruttati e oppressi nel mondo che sentivano la grande forza
collettiva che dava loro libertà e dignità, segnati dalla necessità e dalla
possibilità.
Vivi il futuro che sei! era il sentire comune.
Il rifiuto della esibizionistica volgarità
consumistica e la liberazione di sé si saldavano con il progetto comunitario,
la “contestazione globale” si unificava a livello internazionale.
Seguì
la repressione armata dello Stato, morti ad Avola, alla Bussola in Versilia,
iniziava la mobilitazione reazionaria delle forze dell’ordine e degli apparati
mediatici.
Febbraio
1969 a Milano ci fu la prima manifestazione nazionale di tecnici e impiegati
delle grandi industrie;
una sequela di episodi di insubordinazione
operaia fuori dalla tradizione sindacale, dentro lo sviluppo capitalistico.
Gli
operai, costruttori della ricchezza, volevano vedere soddisfatti i propri
bisogni, sulla “nuova frontiera” capitalistica.
S’aprì
una miriade di vertenze aziendali, l’anno si avviò alla conclusione con
significative conquiste contrattuali, ogni azienda concesse soldi, allentamento
dei ritmi, revisione del cottimo
. Le
lotte, espressione di contropotere sociale, riunificarono i vari strati
proletari, si era creato un movimento in cui forza-lavoro operaia, forza-lavoro
tecnico-scientifica e forza-lavoro in formazione si andavano muovendo in un
unico progetto.
Novembre
’69, sciopero generale per la casa, in uno sconto morì un agente di polizia.
12
dicembre strage di Piazza Fontana a Milano, mentre a Roma esplodevano altre
bombe provocando sedici feriti, Iniziava, lasciando dietro a sé migliaia di
vittime, la cruenta “strategia della tensione”, con l’uso dei “corpi separati”
dello Stato e dei gruppi neo-fascisti, contro l’insubordinazione operaia e
studentesca, che rifiutava la logica della prestazione di vita contro denaro. I
mass-media e gli apparati dello Stato, con in testa il Presidente Saragat,
soffiarono sul fuoco della violenza.
Il
biennio ‘68, ’69 comunque rappresentò il trionfo della irriducibilità della
vita all’economia, lasciando aperto il problema di quale sbocco dare al
movimento di lotta.
1970,
grandi cortei contro il lavoro precario, per la casa come servizio sociale,
furono erette barricate, emergeva la forza-lavoro terziaria e intellettuale.
Agosto
’71, Nixon sganciava il dollaro dall’oro, ogni parametro di certezza dei valori
era dissolto, si predeterminava la nuova fase di accumulazione selvaggia a
livello globale. Il capitale aveva fatto proprio l’insegnamento delle lotte,
era finito ogni ordinato sviluppo dello sfruttamento, finito ogni equilibrio
dei rapporti di classe nello sviluppo.
Il capitale era consapevole di avere di fronte
un movimento con obiettivi irriducibili ai valori esposti nelle vetrine
capitalistiche, una voglia di cose non monetizzabili, la gratuità della
soddisfazione del desiderio, la gratuità della bellezza.
Il
capitale multinazionale non accettava più costi di mediazione, già correva
ovunque ci fossero opportunità da sfruttare, stava ricostruendo il mondo
imponendo il codice e lo spettacolo della Merce, un imbroglio di poteri, di
bisogni veri e fittizi.
1973,
intorno ad una lotta dura alla Fiat si coagula solidarietà sociale,
cooperazione di classe; l’esercito industriale di riserva, in cui il padrone
poteva rigettare il lavoratore come strumento inutile, esercitava sempre meno
la sua funzione, i lavoratori in sciopero potevano arrangiarsi nell’economia
underground. Visto che il capitale non pagava, pur assoggettandola, la
riproduzione della forza-lavoro, tempo e forma della riproduzione sociale della
forza-lavoro cominciarono a riguardare una concezione della vita, che i
proletari intendevano cambiare; coscienti che la società intera funzionava come
sede complessiva di produzione, di estrazione di plusvalore, sentivano che
tutta la loro vita era in gioco. La lotta era lo sforzo di vivere un livello di
dignità e di qualità esistenziale, che il loro essere operai gli negava, vivere
intellettualmente e civilmente, avere tempo e mezzi per la possibile felicità.
Lungo pochi anni maturò la convinzione che la
vita poteva e doveva ricomporsi nella comunità sociale contro l’alienazione
della fabbrica.
La
lotta era una restaurazione di umanità, un happening creativo.
Luglio
76, al Parco Lambro di Milano si svolse un gigantesco festival della gioventù,
s’incontrarono migliaia di giovani, che avevano perduto un’identità sociale,
studenti, disoccupati, lavoratori irregolari, precari, sottopagati, con
un’umiliante penuria di mezzi per gestire la propria vita in modo autonomo,
alla ricerca disperata di evasione nel tempo libero.
Giovani
che praticavano l’autocoscienza per conoscersi meglio, avevano bisogno di feste
come momenti di comunicazione. In quel luogo volevano trascorrere il tempo nel
ritrovarsi, nel sentirsi uniti, sentire musica, fare all’amore, fare festa;
l’emozione collettiva era uno stile, c’erano una rivolta del corpo, emozioni
giovani, potenti e angosciate, un carnevale di proletari, che si voleva
liberazione (ricordava forse i misterici riti ellenici?).
Misero insieme però miseria, solitudini,
violenza, l’aggressività dell’impotenza, tutte le tensioni si scaricarono nel
ghetto.
Una
seria riflessione su quell’esperienza traumatica rilanciò poi il movimento, si
voleva evitare che dopo il carnevale rimanesse solo la quaresima dei sacrifici,
mentre veniva ostentato il lusso della ricca borghesia.
I giovani proletari organizzati nei Circoli
affermarono i loro bisogni in un programma di lavoro politico, che impedisse
alla loro vita di diventare cosa e al loro corpo d’essere colonizzato.
La frase d’ordine era “Non vogliamo marcire
nella crisi”, però mancava un per… c’era l’impeto di giocare, non la certezza
di vincere.
L’iniziativa era in mano al capitale, che, con
la “riconversione industriale” iniziata nel’74 (crisi del petrolio), ristrutturò
i processi lavorativi, la giornata lavorativa sociale, liquidò l’omogeneità
materiale e politica da cui l’operaio-massa aveva tratto il suo potere in
fabbrica e nella società.
Si mosse il nuovo proletariato diffuso: ronde
proletarie contro i padroncini del lavoro nero e il traffico d’eroina,
appropriazioni in negozi di lusso e supermercati, autoriduzioni di bollette
telefoniche e di luce, di biglietti di spettacoli, trasporti.
Le comunità di quartiere parteciparono ai
coordinamenti operai.
Poi, con il ciclo di lotte del ‘77, prese,
anche violentemente, la scena sociale il proletariato autonomo, non garantito,
che rifiutava un mondo organizzato come una fabbrica o un gregge di urli, la
miseria del ruolo imposto dal capitale, l’essere docile forza-lavoro, il cui
tempo libero era ridotto a squallido ghetto, obbligo coatto all’alienazione, al
vuoto giulivo del divertimento-merce.
Per il
movimento del ’77 il lavoro era solo necessità (“decidiamo noi quanto, come,
cosa lavorare”), prioritario era organizzare spazi di autonomia, per liberare
ed esprimere i bisogni radicali, far emergere e consolidare gli elementi
d’estraneità al sistema totalitario del mercato, e portare la liberazione a
tutti i livelli, famiglia, condizione femminile e giovanile, sessualità,
emarginazione delle “diversità”, rendendo comune il patrimonio delle
avanguardie artistiche e politiche.
Ad es. centrale in molte esperienze è stata la
lotta contro l’eroina come arma del capitalismo (mafia, CIA, fascisti) per
distruggere combattive schiere di giovani pieni d’inquietudine, in una società
in cui proliferano i drogati di psicofarmaci per dormire dopo 8-10 ore di
lavoro, per caricarsi d’energia per lavorare, per calmare la tensione nervosa e
“non avere pensieri”.
Centrale
era il riconoscimento del valore strategico delle esperienze artistiche
d’avanguardia del 900, a partire dall’azzeramento radicale dell’opera d’arte
operata da Duchamp (orinatoio 1917).
Fondamentale
per il movimento (con riviste come A/traverso) era costruire esperienze di
animazione estetica, era interrogarsi sul perché dell’arte, le cui opere
d’avanguardia non richiedono particolare abilità tecnica, ma contenuti
concettuali, chiedono alla società che cosa pensa dell’arte, della bellezza,
del godimento estetico.
Venivano
rimesse in moto e amplificate azioni concettuali come fu molti anni prima la
presentazione da parte di Manzoni (1934-1963) della merda d’artista in una
confezione da supermercato, dove il prezzo delle feci equivaleva al peso in
oro, si presentava il problema del valore di scambio delle opere d’arte,
certificate dall’autore (es. uova sode con l’impronta d’artista), o il valore
di merce della forza plastica di sculture viventi, che diventano arte in quanto
l’artista firma il corpo della/del modella/o, per cui il sigillo è l’opera
stessa.
La
“pratica dell’obiettivo”, tipica delle lotte del 77, consisteva nel volere “il
pane e le rose”, nella riappropriazione della vita, con un’autonoma educazione
del corpo, dei sensi, della mente, accettando anche la mobilità, ma una volta
ottenuto un reddito garantito.
Il
movimento del ’77, contro il lavoro nero e per nuovi spazi di socialità, colse
la drammaticità del passaggio alla società postmoderna, con le sue profonde
trasformazioni del lavoro. Era chiaro a tutti che la prestazione lavorativa non
era più fondamento costitutivo dell’esistenza.
“È
ora, è ora miseria a chi lavora” era uno slogan ironico.
Lo
scontro fu durissimo, migliaia e migliaia di arresti e condanne, centinaia di
morti e feriti, oltre a quelli delle stragi compiute dai “corpi separati” dello
Stato.
Gli
scontri in piazza (ad es. Roma 2 febbraio’ 77) divennero armati, divennero
punto di riferimento per il proletariato giovanile le università occupate, dove
nelle assemblee si discuteva di temi diversi, disoccupazione, bisogni materiali
(reddito, casa), omosessualità, ecologia.
Poi gli studenti del movimento con la forza
cacciarono Lama e il suo numeroso servizio d’ordine dall’università e alla fine
di febbraio il movimento era ramificato su tutto il territorio nazionale; agli
spari dei neofascisti si rispondeva con l’incendio delle sedi neofasciste.
5
marzo, enorme manifestazione non autorizzata a Roma, con Radio città futura che
funzionava da tam-tam.
11
marzo, a Bologna i carabinieri spararono sui giovani del movimento, fu ucciso
un militante di Lotta Continua, il movimento si concentrò nella zona
universitaria, che venne protetta da barricate, poi partì un imponente corteo,
con numerosi scontri per la città, mentre Radio Alice faceva la cronaca in
diretta della manifestazione violenta.
Gli echi degli scontri di Bologna si
propagarono in tutta Italia.
12
marzo, a Roma manifestazione nazionale di lotta contro l’attacco al reddito
proletario e all’occupazione, contro il regime del lavoro salariato, per
l’organizzazione autonoma dei bisogni proletari.
Affluirono migliaia di giovani da varie parti
d’Italia, in corteo forse più di 100.000 persone, scontri violenti e sparatorie
con feriti da entrambe le parti proseguirono per ore in tutto il centro
storico.
Mentre
Bologna intanto veniva occupata militarmente dalle forze dell’ordine, con i
blindati, in varie città si susseguirono azioni armate, anche uccisioni di
esponenti delle forze dell’ordine.
12
marzo, a Milano corteo con slogan pieni di rabbia e di rancore, assalto con
bottiglie molotov all’Assolombarda.
Poi
stillicidio di piccoli e grandi attentati.
21 aprile a Roma scontro armato con la
polizia, tre allievi di PS vennero colpiti, uno morì.
Escalation
di azione-reazione nell’uso delle armi in piazza.
La repressione si scatenò con arresti di decine
di militanti.
Il movimento era preso nella morsa di
repressione e militarizzazione della lotta. 12 maggio, a Roma il movimento
tentò una manifestazione di celebrazione della vittoria del referendum sul
divorzio del ’74, si scatenarono le cariche della polizia, agenti in borghese
spararono ad altezza d’uomo, morì mentre fuggiva una ventenne simpatizzante del
partito radicale, scontri durissimi con sparatorie si svolsero in vari
quartieri della città. Il 14 maggio a Milano durante un corteo che sfilava per
le strade del centro da un gruppo, che s’era staccato, si aprì il fuoco contro
la polizia, provocando la morte di un brigadiere.
Da
Parigi un gruppo di intellettuali francesi redisse un appello contro la
repressione in Italia.
Dal 22
al 24 settembre del ‘77 si svolse a Bologna un convegno nazionale contro la
repressione in Italia, a cui parteciparono numerosi intellettuali europei e
americani, per discutere sulla nuova concezione comunitaria del processo di
liberazione umana, sulla necessità di rifondare la vita umana su nuove basi di
convivenza produttiva.
Uno
dei temi del convegno riguardava la natura creativa del movimento, che aveva
praticato una riappropriazione pubblica dell’informazione (es. con l’esperienza
delle radio libere) e rappresentato la realizzazione dell’intenzione
avanguardista di fondere l’arte con la vita, attraverso una concatenazione di
creatività di massa e tecnologie comunicative.
La città fu invasa da più di centomila
giovani, fu una festa mobile di animazione, con il più grande dibattito messo
in opera dal movimento, in cui però fallì il tentativo di definire programma e
strategia, grandi attese andarono frustrate.
Un
punto comunque era ovvio: l
a
sussunzione del lavoro tecnico- scentifico entro il processo produttivo rendeva
possibile la sostituzione del lavoro umano, l’automazione era la migliore
alleata dei lavoratori, quindi la vita umana andava rifondata sulla base di una
materiale reciprocità di progetti di vita.
Con
l’apporto del movimento femminista s’affermò la convinzione che della persona
va liberata la forza creativa, piena di desideri e civiltà, responsabilmente
collettiva, là dove è possibile il godimento, che è produttivo.
Era senso comune che la creazione non può che
essere piacere di sé stessa, festa, godimento dell’essere come potenza,
immediatezza del godimento personale nel collettivo.
Sembrava
fosse stata appresa la lezione che proveniva da quel corto circuito che fu il
Parco Lambro:
l’essenza
progettuale del nuovo soggetto metropolitano esigeva il gaudio intellettuale e
produttivo, impossibile da trovare nella realtà presente, il cammino del
desiderio doveva essere collettivo, altrimenti sarebbe comparsa l’eroina, l’arma
mortale del capitale, nel vuoto del problema irrisolto e sarebbero finite
produzione di sé e antagonismo.
Anche
se si percepiva che l’angoscia sta nello sfruttamento, nel lavoro che succhia
via la vita, che il destino può essere modificato dalla forza dell’intelligenza
collettiva per un nuovo progetto comunitario, molti furono annientati dall’arma
dell’eroina.
Con il
settembre ‘77 il movimento ebbe una crisi interna, dovuta all’intensificarsi
dell’azione della variabile militarista, del furore di un’ideologia sradicata,
che credeva di vedere della crisi costituzionale e nella “dittatura” del
compromesso storico, col suo appello alla “virtù” e ai sacrifici, il momento
per sferrare l’attacco al “cuore dello Stato”.
Era in
atto un’alienazione del movimento.
I cortei erano pieni di militarismo, in un
gioco tragico, come una catarsi di massa recitata in un teatro che era insieme
della grande ricostruzione dell’umano e della morte vera di tanti. Si scoprì
che il mondo è una totalità senza fondamento, non ha un cuore che possa essere
attaccato, ci fu un’incontenibile emorragia di soggettività, fine della
felicità del divenire, nonostante continuasse l’espressione della vitalità del
lavoro sociale in uno scenario di scomposizione, disgregazione. Dinanzi
all’inaccessibile vertice del potere un popolo di singolarità si esprimevano
attraverso simboli di libertà, il corpo, il sabato sera, il jogging, la
convivialità e producevano di più di quanto il capitale riuscisse ad
organizzare e alienare.
Era sempre in atto la civiltà umana del lavoro
vivo separato dal capitale, materia di un’altra cultura, quella della comunità
corporea, della cooperazione sociale.
Ma il
potere economico era divenuto predatorio, la sua forza era moltiplicata dalla
tecnologia e dalla finanza, era esaurita la logica lineare dello sfruttamento,
i lavoratori dispersi dovevano fronteggiare incertezza, mobilità, rischio. Il
capitale, vista l’impossibilità di ridurre la complessità dei rapporti di forza
fra le classi, passò alla repressione poliziesca generalizzata, propaganda
vendicativa, stato d’eccezione, black-out dell’informazione, repressione
economica con più lavoro e meno salario, penetrazione degli idoli della
mercificazione integrale.
Perduta ogni possibile misura, con identità
inafferrabili, in cui convivevano gli opposti, dilagò il nichilismo delle
istituzioni vuote di valore e della lotta armata, la vocazione di morte delle
due parti.
Era
esaurito un periodo rivoluzionario, che era stato interpretato da un nuovo
soggetto collettivo, capace di una nuova forza produttiva, aperto felicemente
alla speranza, costruttivo di forme, che erano senso e ragione.
Concluso.
Il 7
aprile 1979 venne arrestata una generazione di intellettuali neo-marxisti
militanti, Fine del “caso Italia”.
S’era inaridito il fecondo humus sociale e
storico che aveva prodotto un’etica, una logica, un’estetica per la
trasformazione.
Sono
rimasti fecondi strumenti d’analisi.
Nel lavoro teorico e nella pratica militante
del movimento neo-marxista i contributi dei francesi (Foucault, Sollers,
Deleuze, Guattari …) furono svolti con intensità d’analisi materialistica,
furono rielaborate un’economia e una politica del desiderio, fu analizzato il
nuovo paesaggio produttivo, etico, culturale, chiamato “postmoderno”.
Fu colto quanto, da un lato ci fosse il
rifiuto dei proletari di ridurre la propria esistenza a merci-salario, quanto,
dall’altro, fosse valorizzata la potenza positiva del desiderio come energia
rivoluzionaria.
Il desiderio che anima i flussi economici,
consolida la sua potenza in sistemi di potere, alimenta le forze che
l’opprimono.
Ma è
anche capace di rompere le interne cristallizzazioni e liberare forze personali
o collettive, incrinando blocchi di potere. La lotta rivoluzionaria sul fronte
del desiderio richiedeva l’esistenza di macchine da guerra, funzionanti secondo
un certo centralismo coordinante e una lotta contro il nemico autoritario
microscopico, che s’insinua nella soggettività desiderante operando
un’interiorizzazione della repressione.
Senza
quegli strumenti d’analisi oggi capiremmo poco del capitalismo liberista
postfordista, che ha fatto propria quella volontà di liberare i flussi di
circolazione, ha decostruito i sistemi di valore non riconducibili al mercato,
perché tutto si presentasse come oggetto di desiderio, il cibo, l’automobile,
il conto in banca, la vacanza esotica… in uno sfavillio scintillante.
Il
potere economico-mediatico si è dedicato a indurre la sensazione della
necessità del consumo della libido, nuova forma di valore aggiunto.
Dato che è la bellezza che attrae e feconda il
desiderio, la bellezza e la conseguente felicità devono essere la forma delle
merci, con una produzione di massa d’immagini che modellano la percezione umana
del mondo e rendono sempre più indistinguibili fiction e realtà, a cui
s’aggiunge uno sconvolgimento della percezione per effetto della velocità.
È il
regno di ciò che in psicanalisi si chiama “fantasma”, produzione immaginaria
mediante la quale il bambino cerca di raffigurarsi un oggetto di desiderio
rimpianto e di ricrearlo in forma fantastica.
Al
centro del mercato è la messa in scena immaginaria della realizzazione d’un
desiderio. L’imprigionamento del desiderio in un universo fantasmatico è
proprio della nevrosi. Lo scopo è d’indebolire i “forti”, renderli malati, dei
codardi perbene.
Il
capitalismo postmoderno ha catturato il desiderio, che “si articola in dispositivi
che sono investimenti energetici sul corpo, il linguaggio, la terra e la città,
la differenza tra i sessi…” (Lyotard); attua il principio di piacere, che
presiede alla continuità dell’ordine sociale, assicurando i limiti entro cui
ciascuno possa essere felice, nel senso di ubriaco di sazietà (mondo del
“mulino bianco”).
Capiremmo
poco della società del mercato e dello spettacolo, che attinge ai flussi di
desiderio deviati, fa degli esseri umani degli avidi consumatori dei flussi di
libido che circolano sugli schermi e nei circuiti on-line, affollando e
avvolgendo il mondo; dei frustrati, a cui è sottratto il godimento del consumo,
che dipende dalla disponibilità di reddito.
Capiremmo
poco del capitalismo postmoderno, che:
ha
creato un mondo instabile, insicuro, competitivo, di sradicati senza fiducia
nel futuro, un mondo spazialmente saturo, dove non ci sono più frontiere da
esplorare, ma c’è compressione spaziale delle forme di vita, dittatura
dell’élite finanziaria, non c’è incontro vitale di corpi e piaceri e ognuno,
per sopravvivere, è chiuso nel frammento cristallizzato d’una piccola tribù.
Vuole
ridurre i lavoratori a strumenti umili, docili, mera sopravvivenza, nuda vita,
per la quale non conta l’identità personale (storia personale, appartenenza a
un luogo e a una comunità, ricerca di sé…), ma il “profilo” che il mercato
richiede secondo le proprie oscillazioni.
Induce
la mentalità dell’assedio, il senso d’impotenza con le conseguenti strategie di
sopravvivenza psichica.
“In
uno stato d’assedio l’io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo” (Lasch).
Di fronte alle crescenti pressioni esterne, per ripristinare un minimo
d’equilibrio emotivo, il lavoratore abbandona la propria consistenza di io
sovrano, riducendosi a un io minimo, un io incerto dei propri confini, con la
conseguente confusione fra io e ambiente circostante.
Al di
là, comunque, di questa eredità teorica il movimento in Italia, la sua frenesia
del nuovo, hanno prodotto alcuni risultati concreti, d’innovazione e
liberazione. Sotto la spinta del movimento, ad es. è stata aperta una nuova
fase legislativa, con servizi sociali offerti su base egualitaria e tentativi
di operare sulle cause a monte delle situazioni di bisogno e disagio sociale.
Vediamo alcune leggi: Pensione sociale per
anziani privi di redditi sufficienti (153/1969), Statuto dei lavoratori
(300/1970), Asili nido come servizi di pubblico interesse (1044/1971), Riforma
del diritto di famiglia (151/1975), Riforma penitenziaria (354/1975),
Consultori familiari (403/1975), Parità di trattamento tra uomini e donne in
materia di lavoro (903/1977), Riforma psichiatrica (180/1978), Diritto
all’interruzione volontaria della gravidanza (194/1978), Servizio sanitario
nazionale (833/1978).
La
scienza come forza produttiva, la classe politecnica del lavoro motore mobile
del capitale.
La
pratica teorica neo-marxista s’è proposta di reiventare strumenti scientifici,
adeguati alla nuova fase, per analizzare il capitale come rapporto, la cui parte
attiva è costituita dalla forza produttiva innovativa, formatrice della
ricchezza sociale, degli sfruttati nel loro complesso.
La
ricerca ha operato sullo “stato delle cose presente” e sul “movimento reale”
che potenzialmente tende a distruggerlo, cioè il lavoro vivo, interno al
capitale, ma orientato al suo superamento, la razionalità operaia, che è
potenza collettiva dell’espansione, aumento della produttività del lavoro a
favore di tutti.
Il lavoro vivo che tiene costantemente aperto
l’orizzonte, rifiuta d’essere ridotto a “nuda vita”, a mera sopravvivenza,
rifiuta la propria astrazione nel processo di produzione di capitale e mette in
campo, dicevamo, l’autovalorizzazione del lavoro (dare valore alla propria
vita, al proprio corpo, alla propria intelligenza), in cui cresce la
soggettività produttiva per un superiore ordine sociale, per la costruzione dei
“prerequisiti del comunismo”.
Si
legge nei Grundrisse:
“Il
lavoro è il fuoco che dà vita e forma”, è attività creatrice di valore e di
socialità. Per il neo-marxismo italiano la storia della classe operaia andava
analizzata non come storia della sua miseria, ma come storia della potenza del
lavoro vivo contemporaneo, della gioia che tale potenza può procurare al
soggetto sociale che la detiene; storia del suo potere d’imporre, attraverso la
propria resistenza, continue trasformazioni allo stesso sviluppo capitalistico,
a partire da quel “mondo-della-vita”, che è il mondo dell’esperienza
quotidiana, della sua verità, nella prospettiva del soggetto, che è al tempo
stesso individuo (unità indivisibile e autonoma) cosciente di sé, nodo di
relazioni e autore del proprio pensiero, guida della prassi.
Per
Marx il lavoro salariato (fatica e noia) è una prigione che, portando via tempo
di vita ai lavoratori, rende schiava la potenza del lavoro vivo, che è insieme
fattore costituivo della formazione sociale capitalistica e sua negazione, in
quanto affermazione di una volontà cooperativa-comunitaria.
La ricerca degli intellettuali militanti,
partendo dal principio che la definizione delle pratiche riconosciute come
lavoro è determinata storicamente, ha evidenziato che ogni pratica creatrice di
valore vada considerata come lavoro (ad es. una certa lotta femminista ha
condotto a definire lavoro le pratiche familiari di cura, funzionali alla
ricreazione del valore della forza-lavoro, tradizionalmente ritenute semplici
“compiti femminili”).
L’analisi
neo-marxista ha riguardato il ciclo del neo-capitalismo, nel quale è avvenuta
la sussunzione reale della società al capitale, per cui ogni parte della
società è dialettizzata funzionalmente al sistema del capitale e l’intera
società, investita dai processi lavorativi, si configura come ambito di
produzione e di realizzazione del valore, di riproduzione di capitale.
Il
lavoro vivo si andava presentando come forza vitale attiva nelle reti dinamiche
della cooperazione sociale, andava scorrendo dentro e fuori il tempo imposto
dal capitale, che cercava di sottomettere e sfruttare tale potenza.
La
teoria veniva adeguata alla concreta materialità della classe operaia vera
(nella sua composizione e nei suoi bisogni), che doveva guardare al capitale
per capire sé stessa, seguire la tendenza, per poter individuare il luogo della
rottura e della liberazione.
Il
neo-marxismo si è mosso come nuova scienza critica e storica, ha indagato
– la
logica oggettiva delle forme della produzione di plusvalore e il loro auto svolgimento
(merce-denaro-capitale), fondato sui meccanismi di autoriproduzione del
capitale nella società plasmata dall’ideologia dell’homo economico e
dell’impresa legittimata come istituzione di potere, che impone modi di
comportamento in accordo con i propri obiettivi;
– le
dinamiche della soggettività operaia nei luoghi di produzione e nella società
borghese, a cui partecipa con i propri bisogni sociali e politici, con la
consapevolezza d’essere portatrice di possibilità di sviluppo umano che
sopravanzano il terreno del capitale, con lotte espressive del rifiuto di
prestare tempo all’attività espropriata e comandata dal capitale.
La
ricerca ha afferrato il processo dialettico del rapporto di capitale,
costituito dal continuo approfondimento della sua contraddizione e si è mossa,
in parte, verso quell’orizzonte umanistico-materialistico, in cui andavano
confluendo il marxismo rinnovato criticamente e la sensibilità esistenzialista
impegnata storicamente, attenti alle dinamiche del proletariato volto a
divenire classe per sé, cosciente della propria missione storica
rivoluzionaria, del proprio interesse all’eliminazione di una condizione
d’alienazione (perdita di sé) e sfruttamento.
Il
sistema neo-capitalistico è stato chiamato anche “società programmata”, in cui
l’individuo, integrato in una partecipazione dipendente, è sedotto, manipolato
dagli apparati ideologici della “società di massa”, sia nel tempo di lavoro che
nel tempo libero.
Nella
“società programmata” il dominio totalizzante capitalistico si articola come
appropriazione della forza produttiva sociale (conoscenze, capacità, relazioni
…) e come assunzione dispotica delle reali esistenze dentro il proprio
funzionamento, dando evidenza all’affermazione marxiana:
“Con
la messa in valore del mondo delle cose cresce in proporzione la svalutazione
del mondo degli uomini”.
La
lettura dei “Grundrisse”, in cui le categorie dialettiche hanno sempre una
sostanza storica concreta, ha reso possibile la descrizione del poderoso
individuo sociale produttivo, animato, sulla base del soddisfacimento dei
bisogni di sicurezza fisica ed economica, da obiettivi correlati al soddisfacimento
intellettuale ed estetico, dai bisogni di autorealizzazione, bisogni
qualitativi, la cui soddisfazione non dipende dalla quantità del consumo di
merci, bisogni chiamati radicali, bisogno di esprimere creatività, di
meditazione, di introspezione, gioco, amicizia,
la
comprensione di una nuova nozione di totalità, risultando indubbio, alla loro
luce, il processo di totalizzazione in base al quale il capitale si presenta
come organizzatore di ogni attività umana e il suo dominio sul lavoro si presenta
come il regno del lavoro astratto (lavoro non pensabile in una forma
particolare), condizione dell’identità vuota del tempo degli esseri umani.
A
partire dai “Grundrisse” quel movimento
di ricerca ha posto al centro il soggetto esistenziale e il rapporto con l’intero, la formazione economico-sociale che è un tutto
unitario caratterizzato dall’uniformità del valore di scambio che s’adatta a
tutto, totalità in cui soltanto si dà per Hegel la verità della storia; ha
inoltre espresso un neo-materialismo (pensiero della “composizione di classe”),
il cui ambito teorico era situato nel campo problematico definito da Lukacs
come “ontogenesi della coscienza sociale” (dinamiche interne ed esterne,
individuali e collettive, che determinano le fasi dello sviluppo
capitalistico), in un quadro d’indebolimento di una filosofia della storia che
identificava il socialismo con la ragione storica.
L’ambito
di ricerca era aperto sulla necessità di agire una trasformazione del sé
collettivo come elemento determinante per rivoluzionare la realtà, perché la
storia non è un processo senza soggetto, “solo il progetto… può rendere conto
della storia, ossia della creatività umana” (Sartre). L’interesse era
concentrato sulla concreta soggettività di classe nel neo-capitalismo, in cui
la sussunzione reale della società al capitale ha comportato la costruzione di
soggettività destinate all’alienazione e allo sfruttamento, ma anche capaci di
costituirsi come indice di potenza dell’essere. Tornava in primo piano la
soggettività definita simultaneamente dalla sua produttività e dalla sua
“producibilità”, con un bisogno, talora latente, talora manifesto, di
realizzare la “naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura”,
l’”emancipazione dei sensi umani”, lo scambio tra individui associati come
scambio di “incommensurabili”, senza mercanteggiamenti.
Contro
il neopositivismo (che aveva compenetrato anche alcuni settori del marxismo),
come ideologia dell’espansione capitalistica e dei modelli di business, della
tecnologia e della “lotta per l’esistenza” come veicoli di progresso regolati
da inesorabili leggi “necessarie”, oggettive, s’affermava un’idea di storia
come sintesi dialettica di libertà e necessità, con al centro la soggettività
come vita che si progetta, come volontà, azione, illuminate dalla scienza, la
forza-invenzione della classe politecnica del lavoro, disciplinata e
organizzata, consapevole che lo sviluppo delle forze produttive dell’uomo, come
scriveva Marx, è sviluppo della ricchezza umana come fine in sé.
S’affermava
l’idea che non c’è scientificità “senza soggetto”, che la scienza (quella di
base e quella applicata) ha una fondazione soggettiva e di classe. Il neo-marxismo ha individuato nella c. d.
“società programmata” il ruolo centrale acquisito dalla produzione scientifica,
nella fase in cui venivano accumulate moltissime informazioni e il problema non
era più quello di scoprire, ma di inventare; la centralità della produzione
avanzata di scienza e tecnologia, relative ad automazione, problemi della
comunicazione, cibernetica, informatica, telematica, linguaggi degli
elaboratori, intelligenza artificiale. Già allora la ricerca aveva messo in
luce che, con la ricerca e la trasmissione delle conoscenze, il sapere è
divenuto la principale forza produttiva, ha cessato di essere fine a sé stesso,
è divenuto una merce, usata per produrre nuovo valore. Il capitale ha esteso il
suo dominio totalizzante sulla merce-informazione e sulla scienza capaci
d’incrementare la natura data con la “natura creata”. Nel neo-capitalismo il
rapporto di dominazione andava prendendo la forma di “colonizzazione” (occupare
per sfruttare): il capitale oligarchico, usando la “fabbrica del consenso” dei
mass media, intendeva penetrare nel sistema emozionale per catturare il
desiderio e trasformarlo in bisogni alienati, quantitativi, programmava
l’avvenire e tendeva ad imporlo ai lavoratori e ai consumatori. Si presentava
come religione con i propri culti, insuperabile orizzonte del presente. Poi ha
usato la crisi per ristrutturare la classe politecnica del lavoro, scomporla,
disperderla (con la separazione temporale e spaziale tra le fasi, tra i luoghi
di ideazione, di produzione e di consumo), per rinchiudere gli operai nelle
disseminate unità produttive, come naufraghi assillati dall’angoscia, che
andava divenendo la tonalità emotiva dominante. Ha modificato il sistema
produttivo e la struttura di classe per perpetuare la condanna di gran parte
della popolazione ad una lotta quotidiana per soddisfare i puri e semplici
bisogni di autoconservazione, i bisogni della “nuda vita”, la vita-zoè.
La
ricerca però ha anche messo in luce che la classe sociale dei produttori,
cosciente di poter rompere le regole del gioco, non si è limitata a
proteggersi, ha messo in primo piano i bisogni propriamente umani, i cui
oggetti sono superiori a quelli necessari per la riproduzione della
forza-lavoro, attività culturali, cura degli affetti, meditazione,
realizzazione di sé nell’oggettivazione, ecc., ha elaborato un proprio modello
di sviluppo umano, non rassegnata a ciò che di disumano la circondava, a
oscillare, anime alla deriva, tra inerzia ripetitiva e sbattimento competitivo.
Cosciente che “Il sistema consiste nell’abbracciare strettamente un cadavere
incollando le labbra alle sue per vivificarlo”, scriveva N. Balestrini. Il
lavoratore sentiva di perdere la propria personalità, di divenire debole,
esposto all’arbitrio di chi può disporre di lui, di un “cervello” estraneo, che
gli impone di trafficare il proprio ingegno, dentro un rapporto di potere.
Sentiva di dover liberare desideri e piaceri, cercare la felicità che è potenza
d’esistere. Era pubblicamente in scena l’operaio-massa, non specializzato,
sradicato, intercambiabile, senza un preciso mestiere, mobile, sul cui lavoro
s’era fondata l’espansione industriale italiana ed europea. Protagonista della
grande ondata di lotte operaie dentro lo sviluppo l’operaio-massa voleva
difendere l’integrità del proprio corpo e della propria mente, cercava
l’autodeterminazione esistenziale e politica, una nuova, comune, affermazione
dell’io, lieta, vogliosa, forte.
Circolava
l’idea che solo associandosi, fondandosi sui propri bisogni e rivendicando il
controllo del processo produttivo nel suo insieme, gli operai possono diventare
soggetti politici. Il neo-marxismo ha colto in questo strato centrale della
classe la percezione diffusa che “il lavoro salariato non rende liberi”, ma
anche che il lavoro vivo è il vero soggetto del processo produttivo, il “motore
mobile del capitale” e che l’oggettività del capitale è ridotta alla
soggettività fondante del lavoro vivo. L’operaio-massa incarnava il concetto
marxiano di lavoro astratto, il mero dispendio di energia psicofisica,
misurabile in base al tempo e la sua tipica istanza era l’egualitarismo,
simbolo politico di partecipazione. Una nuvola d’ira (dal romanzo di G. Arpino
del 1962) arrivava a far ombra sul ’68 e sugli anni 70, s’andava esprimendo un
contropotere, ad es. con la de-mercificazione di bisogni e ambiti di vita.
Il
lavoro tecnico-scientifico
Il
neo-marxismo ha analizzato nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico e
nella composizione sociale del lavoro le figure di punta dell’antagonismo,
l’operaio professionale, l’operaio-massa, l’operaio sociale (terziarizzazione),
il lavoratore cognitivo, l’intelligenza tecnico-scientifica. Forte del
principio che le dinamiche sociali sono assicurate dal conflitto di classe, ha
analizzato criticamente le trasformazioni in atto della società capitalistica,
i cui tratti la letteratura scientifica ha cercato, con disagio, di delineare,
tanto da dover usare, non avendo altro, il termine “post” (postindustriale,
postfordista, postmoderno, postumano, post-verità, ecc.). Il neocapitalismo,
definito nella letteratura sociologica con il termine post-industriale, è stato
analizzato come processo che, a partire dalla seconda metà del ‘900 (es. 1953
scoperta della struttura del DNA; 1971 tempesta valutaria connessa
all’inconvertibilità del dollaro; 1973 crisi petrolifera; sviluppo di nuovi
settori, come telecomunicazioni, informatica, biogenetica, biotecnologie,
cyborg, ecc.), ha impiegato come risorse principali le informazioni, la scienza
e la tecnica, i laboratori di ricerca, i saperi sociali, i linguaggi. Nelle
imprese il ruolo della dirigenza, capace di pianificare l’innovazione, s’era
scisso da quello della proprietà, la produzione industriale era decentrata in
opifici disseminati in diversi territori, s’era fortemente sviluppata la
produzione di servizi (logistica e trasporti, finanza, assicurazioni,
commercio, servizi alle imprese e alla persona); si andavano mettendo in rete
modi, tempi e luoghi di produzione del plusvalore molto diversi, fabbrica
robotizzata, electronic cottage, distretti industriali, centri della finanza
globale. Attori sociali erano i tecnici, i gestori ed elaboratori delle
informazioni, i produttori di modelli, simulazioni, analisi e gestione dei
sistemi, i tecnici della comunicazione, i programmatori.
Della
società post-industriale erano stati colti gli elementi fondamentali: è messa a
lavoro tutta la persona; le differenze di classe sono sempre più determinate
dalle differenze di potere; tempo di vita e tempo di lavoro rispondono alla
stessa logica; diviene dominante l’ideologia della deregulation (molti aspetti
del rapporto capitale-lavoro sono lasciati all’arbitrio del contraente più
forte) e dell’individualizzazione delle chances di vita e del tempo, in una
prospettiva in cui il lavoratore, immesso in reti plurime di comunicazione, è
spinto ad essere imprenditore di se stesso, mera forza di mercato, la cui unica
protezione deriva dalla proprietà privata.
Era
già chiaro che nel capitalismo post-industriale la programmazione del futuro
agisce attraverso un nuovo modo di fare scienza, che si avvale della
merce-informazione e cerca di catturare tutta la potenza
cooperativa-conoscitiva-creativa del lavoro sociale. S’andava delineando la
società del rischio, e della performance, ove ciascuno deve stare sul mercato
con un brand e fare marketing di sé, una società caratterizzata da logica
speculativa, fluidità, transitorietà, incertezza, crescita della personalità
narcisista, della fatica psichica, del ruolo manipolativo dei mass media,
dell’eterodirezione, della comune paura di essere soli. Mentre la nuova strumentazione, socialmente
prodotta, avrebbe potuto liberare loisir per le gioie della vita, la vita
stessa era messa al lavoro. Mentre le forze produttive diventavano sempre più
potenze comuni, i rapporti di produzione e di potere erano sempre più
individualistici e irrazionali, fonti private di singole verità. Di fronte a
questo nella classe politecnica del lavoro andava divenendo senso comune che la
“religione del lavoro” non salva l’anima, che il potere del capitale è una
relazione, che sopravvive soltanto grazie alla volontà proletaria di parteciparvi.
Emergeva la necessità di separarsi, per concentrarsi sulla creazione di
reciproca sicurezza in una situazione di vulnerabilità e instabilità estreme;
per costruire sé stessi, costruire il “comune”, che è ciò che deve provvedere
alle necessità di un’esistenza sicura, degna, in buona salute. L’espressione
“autodeterminazione” prese a significare che
l’esistenza
proletaria e la sua comunità possono organizzare condizioni sociali di
comunicazione, collaborazione, convivenza, autogestione dei saperi, separate
dalla legalità borghese;
la
socialità proletaria può definire proprie leggi (reddito garantito, meno orario
di lavoro, niente nocività, priorità alla qualità della vita, casa come
servizio sociale …) e ricercare valori d’uso contro il valore di scambio,
concretizzare i bisogni dell’“individuo sociale ricco”, contrapposto al regno
seriale dell’alienazione, un modo comunitario-cooperativo di produrre e un
ordine sociale omogeneo e solidale retto da un codice di vita fraterno.
Il
neo-marxismo ha colto nei mutamenti dei processi lavorativi il ruolo
determinante del lavoro intellettuale, tecnico-scientifico, il lavoro del
cyborg, le nuove forme del lavoro immediatamente sociali, per il fatto di
determinare le reti della cooperazione produttiva che creano la società, quei
mutamenti che Marx aveva già colto tramite il concetto di General Intellect. Il
lavoro vivo era diventato la sostanza comune delle pratiche umane.
Il
neo-marxismo si è messo a lavorare (es. S. Bologna) sui tecnici, quello strato
di forza-lavoro nuova, adibita a ricerca, progettazione, coordinamento, che si
era sviluppato nelle industrie high tech (elettronica e automazione, telefonia,
chimica fine, engineering, aerospaziale, …) e che, anche nel periodo formativo
nelle università, si poneva il tema della salute, della qualità della vita, del
ruolo sociale dei “professionisti” (es. i medici), dell’espropriazione dei
saperi da parte del capitale, di una diversa forma di organizzazione del lavoro
e della società. In Italia con le lotte dal ‘68 al ‘72 (CNEN, SNAM-progetti,
Ibm, Siemens, CNR, ENI, Ansaldo, Italsider, Italcementi …) i “camici bianchi”,
ricercatori e tecnici, alleati con le “tute blu”, formarono assemblee e gruppi
di studio, scioperarono, occuparono aziende e laboratori, invasero le strade,
contestarono l’“oggettività” dello sfruttamento, la neutralità della scienza,
lo spostamento della promozione sociale dalla lotta di fabbrica alla
competizione individuale. I tecnici prendevano coscienza d’essere gli attori
della base scientifica della produzione, che la qualità del prodotto era
retribuita in base al maggiore o minore profitto che portava all’ente o
all’impresa e che anche la loro forma di lavoro era subalterna, produttrice di
plusvalore, di ricchezza astratta, merce alienata, che il lavoro era legato non
al quid del prodotto ma al quantum e alle esigenze di chi questo quantum
controlla. Erano consapevoli d’incarnare il carattere cooperativo del lavoro
scientifico, nella fase del capitalismo in cui la produzione della ricchezza
non dipende più dal tempo di lavoro, ma dalla scienza e dall’organizzazione
tecnica. Infatti con l’automazione il lavoro non è più concretamente
misurabile, non c’è più nesso tra lo svolgersi del lavoro tecnico-scientifico
(che avrebbe bisogno di un codice comunitario di produzione) e il costo della
forza-lavoro necessaria a produrlo. Consapevoli che il capitale assume la
razionalità tecnico-scientifica a strumento del proprio dispotismo, la usa per
creare le condizioni “tecniche” di sottomissione del capitale variabile al
capitale costante. Si calcolava che era sufficiente una media di due ore di
lavoro per riprodurre il valore della forza lavoro, il saggio del plusvalore
era del 400%.
Gli
studi e le inchieste dimostravano che dentro la società neo-capitalistica, dove
la forma-merce è strumento di mediazione sociale tra gli individui, l’attività
umana diviene effettiva solo in quanto vendibile; l’uomo per relazionarsi agli
altri deve spogliarsi della propria soggettività concreta e divenire predicato
del lavoro astratto, la merce di cui è portatore. Dimostravano l’estensione dei
caratteri del lavoro operaio all’intera società, in cui la vita dei cittadini
era organizzata in funzione delle esigenze della grande impresa, che
monopolizzava i fini sociali. Saltata la
distinzione fra lavoro produttivo di plusvalore e lavoro improduttivo, gli
intellettuali erano integrati nel mondo produttivo, portavano il know how come
forma di costruzione (ad es. di un crescente magazzino di informazioni). I
tecnici, ai tempi del “miracolo economico” protagonisti della programmazione
come asse dell’economia, dell’ingegneria sociale, della tecnologia che risolve
tutti i mali, della scuola come veicolo di promozione sociale, rifiutavano il
mito tecnocratico dello sviluppo equilibrato, di essere un “capitale umano”
disponibile, di concepire la forza-lavoro solo come una componente interna del
capitale, di trasformare le contraddizioni del sistema capitalistico in
problemi individuali e di limitare l’esaltazione delle nuove potenzialità economiche
derivanti dalla scienza entro la gabbia dei rapporti di classe
neocapitalistici. Tecnici e ricercatori
si schierarono contro l’alienazione, la lacerazione della loro personalità
prodotta dai bisogni indotti dalla struttura competitiva e individualistica
della società, ponendo il problema del rapporto lavoro/destinazione sociale del
prodotto, della liberazione della ricerca dalla subordinazione ai modelli di
business, rivendicando la possibilità d’indirizzare il loro lavoro verso un
fine di utilità sociale e di creare un
legame reale con i bisogni delle masse, di cui sentivano di dover essere al
servizio. Uno dei principi della lotta dei tecnici era: “I lavoratori devono
porsi l’obiettivo del recupero totale del loro lavoro e della loro condizione umana”,
“non fare i lavoratori su misura per l’azienda, ma l’azienda su misura dei
lavoratori”, affermando che il prodotto della loro ricerca non poteva essere
una merce, nata dalle esigenze del capitale di potenziare la propria logica di
sfruttamento e di accumulazione di potere. Quelle lotte hanno posto in primo
piano la contraddizione tra lavoro scientifico e modo di produzione
capitalistico, come scontro tra l’ampiezza e la creatività del lavoro
scientifico generale e la struttura capitalistica di lavoro astratto in cui è
costretto a rimanere. Ad esempio la lotta contro gli appalti di lavoro a
piccole aziende esterne poneva l’obiettivo della ricomposizione tecnica e
politica del fronte del lavoro, della riarticolazione del lavoro a misura delle
esigenze materiali e “spirituali” (ascoltare lo stereo, leggere, andare al
cinema, a ballare, affinare la sensibilità…) dei lavoratori. Con quel ciclo di
lotte i tecnici hanno mostrato che la forza-lavoro tecnico-scientifica, la
forza produttiva del sapere, anche quella in formazione, intendeva rifiutare il
ruolo predeterminato che il sistema loro assegnava (ad es. critica del medico
come “tecnico del capitale”) e che la classe operaia stava diventando centro
scientifico reale, produttore di cultura alternativa (ad es. con gli studi
autonomi sulla nocività degli ambienti di lavoro). Dentro quel ciclo di lotte
di operai-tecnici-studenti s’è sviluppato un laboratorio teorico che ha
evidenziato quanto il capitale s’appropriasse del tempo vissuto fuori
dell’ambito lavorativo, invadendo la sfera delle scelte individuali, attuando
il progetto “di convertire il tempo socialmente disponibile in tempo
produttivo”, di appropriazione gratuita della formazione finanziata dalla spesa
pubblica e delle capacità individuali che si costituiscono nel tempo libero.
Anche
in Germania l’ondata di lotte del ’73, con cui l’operaio multinazionale rompeva
il suo ghetto di fabbrica, ha mostrato che nella classe operaia era
tendenzialmente rappresentata la totalità della forza produttiva sociale, che,
a fronte della serie sviluppo-crisi-repressione la classe svolgeva la propria
serie organizzazione-lotta-innovazione, in opposizione alla ristrutturazione,
mirando alla ricomposizione del lavoro sociale, alla fondazione della sua
soggettività complessiva. In quelle lotte c’era il rifiuto di subordinarsi ai
movimenti di capitale, interiorizzati come necessità economica. Emergeva,
dentro lo sviluppo del capitale, la volontà di autovalorizzazione dei
lavoratori, che dialetticamente definivano processi fisiologici di
arricchimento, di sviluppo umano, di crescita di attribuzioni qualitative,
corrispondenti al sentimento della propria espansione vitale. L’idea e la
pratica dell’autovalorizzazione di classe si determinava
sull’approfondimento-intensificazione dei valori materiali di riproduzione e
innovazione, cumulo e socializzazione autonoma di tutti gli elementi
irriducibili alla mediazione capitalistica, che permettono l’estensione
dell’orizzonte scientifico.
Irrazionalità
capitalistica, esaurimento della “legge del valore-lavoro”
Per il
neo-marxismo il capitalismo ha pienamente svelato la propria essenza
irrazionale, ha terminato la propria influenza “civilizzatrice”, non si
presenta più come sviluppo (pur entro i limiti della sua lotta per superare i propri
ostacoli); il suo modo di produzione si muove tra contraddizioni superate e
altrettante continuamente poste, fino a che il capitale stesso sarà
riconosciuto come il massimo ostacolo allo sviluppo. Il capitale infatti ricrea
arbitrariamente lusso e miseria nella separazione totale dei lavoratori dalle
condizioni in cui si realizza il loro lavoro, fonte di quel valore che servirà
a comandare il loro lavoro e a creare nuovi valori, in un’infinita catena
d’accumulazione di potere.
Il
capitale è irrazionale in quanto tendenzialmente limita “la forza produttiva
per eccellenza, l’uomo stesso”, il lavoro vivo, che è il motore reale dello
sviluppo, la soggettività attiva che, nell’antagonismo, ha lacerato la parvenza
della società borghese presentata come eterna necessità di natura. Marx è
illuminante., si legge nei Grundrisse: “Lo sviluppo del capitale fisso mostra
fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è divenuto forza
produttiva immediata e quindi le condizioni del processo vitale stesso della
società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in
conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono
prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati … del
processo di vita reale”.
Di
fronte all’accumulazione di capitale fisso, incarnazione del general intellect,
è palese l’alienazione del soggetto operaio, ridotto ad accessorio vivente,
“organo cosciente” di un sistema automatico di macchine, che incarna la
“scienza del padrone”. Il lavoro complessivo è una totalità, una combinazione
di lavori, “opera collettiva dei diversi operai solo in quanto sono combinati,
non in quanto si comportano, l’uno rispetto all’altro, come operatori della
combinazione. Nella sua combinazione questo lavoro si presenta al servizio di
una volontà estranea e di un’intelligenza estranea, di quel “capitale fisso,
che come mostro inanimato oggettivizza il pensiero scientifico e ne è di fatto
la sintesi”.
“Non
appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della
ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esistere la sua misura e
quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso”.
Nel neo- o tardo-capitalismo il capitale s’è appropriato della produttività
generale del corpo sociale, ma ha continuato ad imporre la “legge del
valore-lavoro”. L’irrazionalità del sistema, caratterizzato
dall’informatizzazione della società, dalla crescente automazione (e oggi
robotizzazione con l’apporto dell’intelligenza artificiale) del processo
produttivo, dalla completa massificazione del lavoro sociale astratto, sta nel
fatto che il tempo di lavoro cessa di essere la misura della ricchezza, ma
viene sempre applicata la “legge del valore”, la legge capitalistica
dell’estrazione del plus-lavoro dagli operai, in termini assoluti (cioè di
tempo di lavoro) e relativi (cioè di organizzazione del lavoro), concepita come
legge di movimento della struttura, forma di un rapporto inconcluso che sempre
ripete la contraddizione che lo costituisce. La “legge del valore” è stata
ridotta a espressione della pura volontà capitalistica di comando sul lavoro. È
caduto ogni parametro oggettivo di valore. Il neo-marxismo ha studiato il
collasso del sistema monetario internazionale riconosciuto a Bretton Woods nel
1944 e la svolta storica segnata dall’inconvertibilità del dollaro in oro
fissata da Nixon nel 1971, per cui l’incremento dei mezzi di pagamento poteva
estendersi oltre le riserve che dovevano garantirli. Con la crisi monetaria del
1971 il denaro non è portatore di alcun valore che gli sia proprio, non è più
incarnazione del valore, può essere creato artificialmente in valori
inesistenti fondati da una decisione politica. Il tempo di lavoro socialmente
necessario non è più la base su cui poggia la ricchezza reale. Il capitale ha
mostrato la sua capacità di sottrarsi alla vigenza della “legge del valore”, il
funzionamento del meccanismo economico capitalistico non è più rappresentabile
nei termini della “legge del valore”, in quanto la forma stessa del valore non
vive più come “sostanza” dei rapporti economici, ma come “apparenza”. Però la
“legge del valore” continua ad operare, anche se gli apparati del capitale sono
diventati consapevoli che nel suo funzionamento è rappresentata la forza di una
potenza autonoma, la forza-lavoro, coi suoi bisogni “non compatibili”,
portatrice dei germi della distruzione del rapporto di capitale. Il capitale,
quindi, da una parte è spinto ad imporre la “legge del valore” come regola di
tutti i rapporti sociali, a trasformare ogni momento della vita sociale in
momento di valorizzazione e di realizzazione del valore, dall’altra, in quanto
il poderoso incremento delle forze produttive sociali si pone come limite allo
stesso processo di valorizzazione, è costretto a sottrarsi alle sanzioni della
“legge del valore”. Irrazionalità conclamata: diminuisce il lavoro necessario a
produrre ricchezza, però l’essere umano vien fatto funzionare come “capitale
umano”. Una volta che la “legge del valore” non è più il nesso fondamentale che
“spiega” e governa i movimenti della società partendo da quel luogo
privilegiato della legittimazione del potere che era la fabbrica, emerge un
turbinio di soggetti nella società del capitale, potenzialmente in grado di elevarsi
ad un superiore livello di civiltà, con l’uso della tecnologia per potenziare
la creatività e costruire il benessere comune, in grado di riunire intorno a
un’idea positiva del Bene.
Società
del capitale e questione del soggetto rivoluzionario
Nei” Grundrisse”
è costante il riferimento al lavoro astratto come lavoro alienato, espressione
della “miseria” operaia, lavoro astratto, di cui il feticismo del denaro
rappresenta la manifestazione fenomenica. Il denaro ha un potere di comando
sulle condizioni della produzione di plusvalore, dato che il capitale è denaro
impiegato per accrescere sé stesso attraverso l’impossessamento e lo
sfruttamento dei mezzi di produzione e della forza-lavoro. Il denaro diviene
capitale quando viene impiegato per la propria accumulazione, ubbidendo alla
formula di movimento denaro-merce-denaro, in cui la seconda quantità di denaro
è maggiore della prima perché il capitale ha inglobato in sé il plusvalore
creato dal lavoro nel processo di produzione. Ma il capitale è soprattutto un
rapporto sociale, che nel neo- o tardo-capitalismo s’è esteso, con la
socializzazione della fabbrica, la de-socializzazione e dispersione del lavoro,
la “messa in scena” commerciale delle merci, e ha fatto del capitale la
soggettività vivente, rappresentativa sia del lavoro, sia del suo prodotto,
contrapposta al lavoro ridotto ad “accessorio vivente” o a “imprenditore di sé
stesso”, con soggettività fluttuanti sottoposte agli andamenti di mercato e
alla necessità di prestazioni potenziate.
L’esaurimento
della “legge del valore” ha proiettato la formazione del soggetto antagonista
in tutti i punti della struttura sociale in cui s’articola la gerarchia del
dominio, rappresentato dal capitale come portatore dell’interesse generale, che
scompone e ricompone la formazione sociale in funzione del proprio sistema di
potere, in grado di selezionare i bisogni, i comportamenti, le aspettative,
“compatibili”. Lo sviluppo tecnologico ha reso possibile una massiccia
riduzione della forza-lavoro necessaria alla produzione e del tempo di lavoro
socialmente necessario, ha reso possibile spingere l’essere umano ad affermare
la propria totalità, ma il capitale non solo non ha liberato e non libera
forza-lavoro, non ha ridotto il tempo di lavoro (pagato e non pagato), ma ha
accresciuto il tempo di plus-lavoro, la quota di lavoro non pagato, in tutte le
sue fasi.
Con lo
smantellamento neoliberale del Welfare State e la forte contrazione delle
prestazioni sociali pubbliche, il processo di proletarizzazione ha investito
tutti gli aspetti della vita, non più solo il lavoro di fabbrica. L’analisi
neo-marxista ha evidenziato che
–
esiste la base materiale per la liberazione della soggettività da tutte le fasi
dello sfruttamento capitalistico, cominciando là dove i proletari vivono le
proprie contraddizioni, per partecipare ad un “io collettivo” liberato, oltre
il lavoro salariato, non in un ritorno arcaico alla bottega artigiana o
all’arcadia agricola, ma ponendo la seconda natura, enormemente sviluppata, al
servizio della comunità umana, a favore dei piaceri non mercificabili, che
umanizzano;
– la
composizione di classe è duplice, è insieme oggetto di sfruttamento e soggetto
di autovalorizzazione, vi agiscono, eguali e contrarie, due forze, in antitesi,
il lavoro e lo sviluppo di una “individualità ricca”, che è creazione e
godimento, intrecciati con la materia del mondo, per cui negarsi come oggetto
di sfruttamento e affermarsi come potenza d’esistere nel “qui e ora”, è negare la relazione stessa.
Il
capitale è la contraddizione vivente, per valorizzarsi deve costringere i
lavoratori a superare il limite del lavoro necessario per effettuare un
plus-lavoro; è incapace d’autoregolazione, “stimola senza limiti plus-lavoro,
super-produttività, super-consumo, ecc.”, va necessariamente oltre la
proporzione, ha una vocazione alla crisi. Le forze produttive appaiono come
forze del capitale, interne ai rapporti di produzione, non ci sono correttivi
allo sfruttamento, limiti etici al suo sviluppo. L’analisi neo-marxista ha messo
in luce che il lavoro vivo, nel rilevare la sproporzione fra lavoro necessario
e plus-lavoro, è soggetto della tendenza alla crisi. La resistenza operaia
contro l’estensione dello sfruttamento, contro i modi di estorsione del
plusvalore relativo, ha consentito di scoprire la lotta di classe come
irruzione del reale nella normatività del capitale e del suo Stato e il lavoro
astratto come soggetto politico della tendenza, consapevole che liberazione non
può darsi senza coscienza di servitù, anche solo nei processi di pensiero, nel
fantasma infantile di un “ordine” competitivo. Dunque lotta di classe significa
liberazione del concreto, della soggettività, del “vissuto”, dal dominio del
“normativo” e della forma astratta; coscienza di classe significa consapevolezza
della forza produttiva del lavoro e resistenza alla riduzione dell’esistenza a
merci-salario, per ritrovare i flussi vitali, l’autorealizzazione umana,
l’autonomia come presa di distanza per conoscere meglio.
Moneta-capitale
Per
Marx attraverso l’interesse (il prezzo pagato per disporre di una data quantità
di moneta) si coglie la natura del processo capitalistico come denaro che si
valorizza, capitalizzazione di plusvalore, il capitale, infatti, per realizzare
il plusvalore deve continuamente ritrasformarsi in denaro.
Marx
vede il credito come un potente motore dello sviluppo capitalistico perché
mette il plusvalore accumulato a disposizione degli imprenditori, è il
principale strumento di socializzazione del capitale. Il denaro se deve essere
l’equivalente generale di tutte le merci, dev’essere prodotto come le altre
merci, ma allo stesso tempo non essere un valore d’uso, deve garantire che
tutte le nazioni siano soggette alla stessa disciplina delle leggi
capitalistiche nel mercato mondiale. L’operaismo neo-marxista ha prodotto vari
studi sul ruolo dominante del capitale finanziario, il denaro-capitale
produttivo di interesse, che opera come credito che comanda lavoro altrui,
capitale che manovra la moneta per trasferire valore da un ruolo improduttivo
ad un uso produttivo di capitale, forza produttiva al di là del valore
incorporato nelle riserve auree.
L’ondata
internazionale di lotte, a partire dagli anni ’60, ha significato il collasso
del sistema di stratificazione internazionale del comando sul lavoro vivo, sul
quale era basato il sistema di scambio oro-dollaro. La decisione
dell’inconvertibilità del dollaro in oro (1971) fu un modo per sfuggire alla
“legge del valore”, al rischio della ripetizione della crisi tipo 1929, che
avrebbe determinato uno scontro di classe esplosivo, un mezzo per liberare il
campo delle scelte strategiche del capitale attraverso la manipolazione della
moneta. Gli USA ridefinirono il loro ruolo di guida imponendo al resto del
mondo una sorta di autodisciplina forzata, nella quale l’ultima sanzione è la
moneta liberata da ogni limite “materiale”, determinata politicamente. Il
dollaro è stato posto come moneta di tutte le monete, potere internazionale di
definizione del valore di tutte le valute. La de-monetizzazione dell’oro e la
natura arbitraria delle condizioni legate ai prestiti internazionali hanno
rimosso la residua autonomia che gli Stati nazionali potevano mantenere tramite
le loro riserve auree a fronte dei deficit con l’estero. L’oro è stato privato
delle sue prerogative di mezzo di pagamento e di strumento di riserva in
seguito alle decisioni del FMI del 1978, con l’abolizione della nozione di
prezzo ufficiale dell’oro e la liberalizzazione della compravendita di oro da
parte delle banche centrali. Perduto il fattore stabilizzante che era il prezzo
dell’oro, si è determinato un clima d’incertezza, di cronica instabilità, in
cui prosperano i flussi di capitale speculativo, la fuga dalle monete deboli
per rafforzare quelle forti e divenire una fonte di finanziamento per le
multinazionali e per i titoli del tesoro USA.
Si
legge nei “Grundrisse”: “Per il nuovo valore creato non esiste nessun
equivalente, la sua possibilità sta soltanto in un nuovo lavoro”. La moneta non
è più rappresentazione del valore, ma comando politico sulla classe operaia.
Quando lo scambio moneta-capitale/lavoro non regge più deve soccorrere
un’istanza che lo ripristini politicamente.
L’analisi
della forma-denaro, nella sua genesi dal valore di scambio fino al suo
dispiegamento di moneta mondiale, è il filo conduttore che segue Marx per
penetrare la tendenza storica. Marx attacca la separazione ideologica del
denaro dal valore, dei fenomeni monetari (immagine formale della ricchezza
borghese) dai sostanziali rapporti di classe. Attacca l’intento apologetico
dell’economia borghese che, nello sforzo di ridurre il denaro entro una
funzione mediatrice svolta nella circolazione, occultando il suo porsi
violentemente come potere, come capitale, vuole sopprimere la comprensione
delle contraddizioni reali del capitalismo, l’intelligenza del fenomeno della
crisi. Il denaro è valore di scambio scisso dalle merci, “esistente come una
merce accanto ad esse”, merce particolare nel mercato finanziario, è divenuto
da mezzo, scopo. Nel capitale finanziario e nelle s.p.a. il rapporto di denaro
diventa scopo per sé.
Scrive
Marx “lo stesso rapporto di denaro è un rapporto di produzione”, denaro che
produce denaro, il capitale che frutta interesse è la forma puramente astratta
del capitale che produce profitto, esprime il fatto che gli individui sono
ormai dominati da astrazioni, che “la laboriosità dell’individuo…assume
qualsiasi forma che serva allo scopo”. La moneta in quanto rappresentazione
universale e misura della ricchezza accompagna tutte le fasi nella metamorfosi
del capitale. Nella fase del mercato mondiale tutti i rapporti si presentano
come rapporti monetari, interni ai rapporti di produzione; il denaro (nelle sue
forme creditizie e finanziarie) è prima di tutto capitale circolante alla
ricerca dello scambio con le merci (materie prime, mezzi di produzione, lavoro
vivo) che costituiscono le condizioni della propria riproduzione. I movimenti
monetari sul mercato mondiale, gli investimenti esteri, i meccanismi
internazionali del credito, costituiscono la struttura attraverso cui il
capitale complessivo esercita il proprio comando sul lavoro, condizionando la
composizione della classe operaia su scala mondiale. La resistenza operaia agli
incrementi di sfruttamento e la continua pressione sul rialzo dei salari ha
costretto il capitale industriale a una ristrutturazione con crescenti
investimenti finanziati, crescenti debiti e un massiccio attacco
all’occupazione per tentare di deprimere, con la disoccupazione, il livello
generale dei salari, ma le lotte degli anni ’60 e ’70 sul reddito della classe
operaia occupata e disoccupata hanno fatto sì che la moneta rimanesse per più
tempo nella circolazione come mezzo di scambio, funny money, invece di
diventare capitale.
L’operaismo
neo-marxista si proponeva di penetrare nei più perfezionati meccanismi del
disordine monetario come nei laboratori ingegneristici dove si progettano gli
androidi, perché il potere reale si cela dietro lo schermo delle leggi
“oggettive” della moneta, là dove “l’uomo è niente”. Il lavoro sociale
massificato si trovava e si trova di fronte il denaro, che non svolge più una
funzione di garante dello scambio di equivalenti, ma si pone come misura
arbitraria di una forza socializzata non più sussumibile direttamente sotto le
leggi dello scambio, ha di fronte il denaro-capitale, soggetto della produzione,
denaro come pura incarnazione della volontà capitalistica di comando, come
arbitrio e violenza. Gli Stati nazionali appaiono inseriti entro un sistema
globale, politicamente centrale, controllato dalle imprese multinazionali e
globali; il loro ruolo è residuale in un quadro internazionale stretto tra
l’ingovernabilità del sistema monetario internazionale e la crisi di
legittimazione all’interno degli Stati, la crisi storica del sistema keynesiano
di sviluppo pianificato, basato su un certo equilibrio dinamico e una certa
stratificazione interna delle forze di classe. Lo Stato è passato da erogatore
di spesa pubblica ad amministratore “regionale” dentro un quadro comandato a
livello sovranazionale, in cui viene esercitato il comando politico connesso ad
un dollaro inconvertibile. La politica nazionale è subordinata agli imperativi
della moneta-capitale, gli Stati sono sottoposti alle imposizioni del sistema
monetario internazionale. Gran parte dei prestiti agli Stati proviene dal
sistema bancario privato multinazionale con una conseguente proliferazione
dell’economia dell’indebitamento a livello globale, per cui i paesi debitori
possono ripagare i loro debiti solo attraverso la svalutazione, che comporta
diminuzione dei prezzi delle esportazioni di materie prime e aumento dei prezzi
delle importazioni.
Autovalorizzazione
e comunismo
Nei”
Grundrisse” la lotta di classe è lotta di liberazione, l’aumento del tempo
liberato va di pari passo con la trasformazione del lavoro e l’instaurazione
tendenziale di rapporti comunisti, in cui si compie “la libera individualità
fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della
loro produttività collettiva sociale quale patrimonio sociale”. Si fa
riferimento alla “comunità dei produttori associati”, in cui si creano le
condizioni di reciproca sicurezza per un lavoro non più separato dalle
condizioni della sua realizzazione, lavoro più ricco e glamour, avvincente, che
diviene un bisogno vitale per l’individuo e la società, per un tempo libero dedicato
al pieno sviluppo della personalità di ciascuno, sia tempo di ozio
contemplativo, sia tempo per attività superiori, che trasformano gli individui
in soggetti diversi, che entrano nel processo di produzione con “il sapere
accumulato della società”, capaci di scienza sperimentale, “materialmente
creativa”.
I
bisogni non sono più visti soltanto come mancanza, dipendenza dell’uomo dal
proprio ricambio organico con la natura, ma anche come bisogni storici di una
“individualità ricca e dotata di aspirazioni universali”, bisogni “ricchi”. La
massificazione del lavoro astratto è la base materiale per una forma superiore
di appropriazione della ricchezza sociale tendenzialmente comunista.
Lo
sviluppo-crisi capitalistico è un costante tentativo di svalutazione della
forza-lavoro, che la lotta operaia ha cercato di bloccare, opponendosi
all’ulteriore intensificazione dello sfruttamento e della svalorizzazione. Per
l’operaismo neo-marxista la lotta di classe degli anni ’60 e ’70 si è andata
configurando come possibilità proletaria, dentro e fuori il capitale, di cura e
governo di sé, di non lavorare duramente, di garantirsi un salario non di
sopravvivenza, di soddisfacimento dei bisogni sociali tramite la conservazione
e l’uso dei beni comuni, l’incremento di servizi extra-mercato, ecc.
Possibilità di contrasto ai circuiti di valorizzazione del capitale, rendendo
il rapporto di capitale incapace di chiudersi, contrasto allo sfrenato sviluppo
della concorrenza in ogni campo, alla privatizzazione di tutti gli ambiti di
vita, con il pieno funzionamento della “legge del valore”, divenuta legge del
comando.
Scriveva
Negri “ciò che la classe operaia non cede al capitale, essa lo sviluppa come
autovalorizzazione, come liberazione di sé stessa”, arricchimento della propria
forza-invenzione, per condurre una vita buona. Era percezione comune che il
valore corposo, costruttivo, del lavoro, fosse in grado d’arricchire i processi
d’intensificazione della forza produttiva operaia e di riproduzione di classe.
Autovalorizzazione indicava che ciò che l’avanguardia di classe conquista al
capitale è accumulato come ricchezza antagonistica, in un neo-illuminismo fatto
di liberazione da una perversa macchina economica, di razionalità costruttiva,
che coniuga amore di sé e ricerca della felicità comune, mira ad una civiltà
comunitaria, in cui si può dare valore a donne e uomini, nella prossimità
fisica, che facilita il comune affinamento degli affetti, dei sensi, dei
saperi. L’autovalorizzazione operaia non era concepita come immediato godimento,
ma come tensione inappagata al pieno godimento vitale, “la coscienza enorme”
che il lavoro salariato vegeta come esistenza artificiosa e tendenzialmente non
può continuare ad essere la base della produzione; che la crescita delle forze
produttive non può più essere vincolata all’appropriazione di plusvalore
altrui. L’autovalorizzazione era concepita come esercizio di contropotere, “qui
e ora”, in aree d’interesse ambientale (es. azioni contro le corporations che
inquinano) e sociale (salute, alloggio, istruzione, contro la privatizzazione
di risorse comuni …) particolarmente esposte a pericolo; un bisogno di
condividere la ricchezza in modo equo così che tutti possano provvedere alle
necessità di base. Esercizio di un contropotere che deve prendere forza da una
soggettività potente, fautrice di una scienza indipendente, di una scelta
autonoma di riproduzione, capace di difesa dalla sussunzione capitalistica
della capacità produttiva sociale, della vivacità inventiva del lavoro, una
soggettività che chiede di sviluppare un’adeguata forma politica idonea alla
costruzione, sulla prima natura del mondo, contro la seconda natura del
capitale, di una terza natura comunista.
Il
tema, affrontato dai “Grundrisse”, era: come si forma il passaggio a quella
“forma superiore del modo di produrre”, che chiamiamo comunismo? Il comunismo
che spunta sull’intensità delle contraddizioni che il concetto del mercato
mondiale rappresenta e che si pone come trascendenza rispetto allo sviluppo
capitalistico. Scrive Marx: “nella sua incessante tensione verso la forma
generale della ricchezza il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi
bisogni naturali, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di
una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non
meno che nel consumo”. Salta ogni generico “umanismo”, occorre seguire il
proletariato motore dello sviluppo, della transizione, il processo di
costituzione materiale della soggettività antagonistica, che vive “lo stato di
cose presente” come storia, come fase da superare, presupposto che rende fine a
sé stessa la totalità dello sviluppo delle forze umane non misurate su di un
metro già dato (quello dell’attività alienata, che svuota l’essere-umani). Il
pensiero di Marx si personifica nei soggetti in lotta: la trama del
rovesciamento sta nella liberazione delle forze produttive, quando, ad un certo
livello dello sviluppo, non è più necessario, anzi è un freno, il dominio del
capitale. Il capitale nella sua forza espansiva dilata il lavoro astratto a
livello sociale, spingendo la cooperazione e la divisione del lavoro verso
estremi limiti.
L’analisi
neo-marxista ha evidenziato quanto fosse percepibile la duplicità (dentro e
fuori il capitale) di ogni categoria di questo passaggio (bisogni, cooperazione
produttiva, ecc.). Era sensibilità largamente estesa nella classe che lo
sviluppo e la libertà si spengono su quella base limitata, che è il dominio del
capitale “nella sua illimitata brama di arricchimento”; che lo sviluppo del
capitale racchiude la propria antitesi potente e sintetica. radicale, la
possibilità del comunismo.
Marx
ha recuperato una concezione positiva del Bene, chiamato hegelianamente
“appropriazione dell’essenza umana”. Il comunismo, superata la divisione
classista della società. è la riappropriazione che l’uomo fa di sé come essere
maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico, è la piena
realizzazione di sé, della sua natura sociale, del proprio rigoglio che
consiste nella sua “profonda sensibilità a tutto”, il suo Bene. I produttori
associati nella società senza classi scelgono cosa è il Bene, in quanto esseri
umani che esistono progettandosi.
Il
comunismo possibile è motore alternativo, ricchezza, universalità ed
espansività delle capacità, dei bisogni, dei godimenti, delle forze produttive
degli individui, create nello scambio universale, nel pieno sviluppo del
dominio dell’essere umano sulla natura propria e su quella esterna. La società
senza classi può fondarsi solo sull’affermazione di un nuovo soggetto
collettivo, ricco e gioioso, capace di autodeterminazione, di trasformazione
qualitativa della vita associata attraverso il riappropriarsi del lavoro
oggettivato da parte del lavoro vivo, che riconquista il valore d’uso di sé
stesso. Soggetto fuoriuscito dalla figura antitetica per diventare egemone, in
grado di liberare le condizioni materiali e scientifiche, occultate nella
società del mercato assoluto, per far crescere un “corpo organico sociale in
cui gli individui si riproducono come … singoli sociali” e porre nuove regole
della produzione e dello sviluppo umano. Negli anni ’70 c’era coscienza che la
soggettività di classe fosse divenuta così ricca da poter compiere il salto
qualitativo sulla questione del potere e della transizione.
A
questa tendenza all’autonomia, dinanzi alla qualità della soggettività di
classe, la controffensiva padronale, non riuscendo più ad usare l’arma
quantitativa del contenimento attraverso l’ideologia “partecipativa”, ha
risposto con l’attacco all’occupazione e al reddito, l’introduzione di
tecnologie labour-saving, lo scorporo delle grandi unità produttive e la
dispersione geografica delle fasi della produzione, la scomposizione della
classe, la finanziarizzazione dell’economia, facendo un uso distruttivo della
crisi, della mobilità, della precarietà, dell’individualizzazione competitiva
nel mercato del lavoro, ha criminalizzato i bisogni e i desideri di una
generazione, ha creato senso d’impotenza, di smarrimento, d’oscurità della
coscienza e dell’azione. Ha risposto anche con la strategia delle bombe e delle
stragi, ha scelto, dicevamo, con oscure “trame di Stato”, di porre il conflitto
sul piano militare.
I
bisogni radicali e la forza-invenzione.
Il
problema è: quale è il fondamento concreto che consente di trasformare
l’indigenza in ricchezza di bisogni, la miseria operaia in bisogno politico di
comunismo? La risposta neo-marxista è: la soggettività operaia, nella quale il
feticismo trova un limite insuperabile. La riproduzione del capitale come
rapporto si gioca nella lotta del capitale per ridurre il lavoro vivo a
funzione della propria valorizzazione, impadronendosi della soggettività del
lavoro, mentre la resistenza operaia al processo di reificazione è il parametro
su cui la soggettività, che non può essere ridotta del tutto a cosa, misura la
propria forza, consapevole che non basta il desiderio antagonista e che
l’autonomia non può elidere la realtà del potere. Senza le lotte il lavoro vivo
astratto, schiacciato nella necessità, rappresenta i propri bisogni economici
in quanto capitale variabile, ma, in quanto soggettività di classe
“resistente”, può tendere a far valere la propria socialità oltre il valore di
scambio e il denaro. Attraverso il proprio antagonismo sa conoscere il capitale
dal punto di vista dei bisogni esistenziali, i bisogni veri, qualitativi,
emancipativi (es. bisogno di un codice di vita fraterno, bisogno di piaceri non
più “rozzi” e “brutali”), in grado di contrastare la struttura del sistema. Lo
sviluppo capitalistico ha creato un terreno di scontro avanzato tra la società
del capitale unificata dal mercato mondiale e il lavoro sociale astratto, un
terreno dove si manifestano i “bisogni radicali”, che nascono dalla coscienza
dell’estraniazione, i bisogni di sviluppo umano, di autorealizzazione della
personalità, compressi in un contesto di dominio delle cose sull’uomo, di
rapporti interumani che appaiono come rapporti di cose; un terreno dove, al
massimo dell’estraniazione capitalistica, è possibile il passaggio dalla
società del capitale alla società del lavoro. Nei “Grundrisse” ogni qualità del
futuro comunista da costruire sta nella potenza del progetto, della sua
fondazione; è prevista una “lunga marcia” del proletariato rivoluzionario
dentro la società del capitale e la tendenziale
presenza di un bisogno di comunismo. Bisogno della separazione degli
elementi che compongono l’unità contraddittoria del capitale, così che il
lavoro astratto sprigioni il dinamismo di una fecondità liberata, la forza
costituente di un nuovo ordine, un rigoglio pronto a dare frutti.
Dunque,
dietro la reificazione capitalistica è emersa la possibilità dei lavoratori di
riappropriarsi della propria piena soggettività, di riattivare il significato
concreto della propria attività, sulla cui negazione si costituisce l’astratto;
si sono espressi i bisogni emancipativi, bisogni e interessi irriducibili alla
forma-merce, non quantificabili in termini di valori di scambio (qual è il
prezzo della salute, della qualità dell’ambiente, del patrimonio artistico e
paesaggistico, ecc.?). La ricerca degli anni ‘60 e ‘70 ha messo in luce la
rivendicazione operaia del valore d’uso della propria forza-lavoro, che non è
completamente sussumibile nella sua realtà di capitale variabile, ma vive
tendenzialmente come non-capitale (temi sviluppati nei testi di Tronti, Negri,
Bologna e altri). Nella società del capitale non c’è un solo attore, non c’è
solo sfruttamento, c’è anche autonomia da esso, potere operaio sui propri
bisogni, volontà di liberare tempo dal lavoro salariato per sviluppare
conoscenza, forza produttiva sociale, arricchimento delle risorse che si
presentano come “non capitale”. Anche se alienato il lavoro rimane la sorgente
viva e potenziale di ogni produzione. Il lavoro come oggetto è “miseria”, come
soggetto è la “possibilità concreta” della ricchezza, ente singolare e
collettivo, che sa natura e storia come sua propria realtà, come attività. Il
proletariato detiene informazioni, conoscenze, abilità, desideri, ha una
potenza generosa, ma “la forza creativa del suo lavoro gli si stabilisce di fronte
come forza del capitale, come potere estraneo”.
Marx
distingue fra lavoro astratto (produttivo di mero valore di scambio) come
funzione valorizzante del capitale, che suppone l’esclusione della concreta
soggettività operaia nell’astratto della produzione e lavoro vivo come valore
d’uso, generale forza creativa del soggetto lavoratore. Il lavoro astratto è la
soggettività ridotta dal capitale nei limiti della necessità naturale, che però
non intende rinunciare del tutto a quella gioia che “è il passaggio dell’uomo
da una minore a una maggiore perfezione” (Spinoza), al desiderio come motore
della ragione. Il neo-marxismo italiano ha posto il tema del lavoro vivo nel
suo aspetto concreto di forza-invenzione, che si oppone alla sua riduzione
entro l’astratto valore di scambio, riduzione a “fermento che, gettato nel
capitale, lo porta a fermentazione”. La classe operaia nel divenire classe
politica ha espresso il rifiuto di sé come valore che si realizza nel processo
di sfruttamento e l’affermazione d’essere lavoro vivo, che non coincide (se non
in situazione capitalistica) col lavoro astratto, d’essere del capitale
l’antitesi vivente, che può condurre ad un’antropologia evoluta, nella misura
in cui il valore d’uso di cui il capitale s’appropria per la sua valorizzazione
non è più la singola forza-lavoro, ma il sapere sociale generale (general
intellect).
Il “General
Intellect” indica un affluire di forze capace di attivare l’incontro di tutti i
gradi dell’essere, la cui tensione generosa è in grado di spezzare il rapporto
di capitale, oltrepassando la logica grama del mercato, dello scambio privato.
La stessa particolarità tecnica del lavoro nel capitalismo determina il suo
carattere collettivo, presuppone la cooperazione, l’impiego di una forza
sociale combinata, che però, nel capitalismo, implica l’esclusione operaia dal
concreto significato della cooperazione stessa, “lo spirito sociale del lavoro
acquista una esistenza oggettiva al di fuori dei singoli operai”.
Nei “Grundrisse”
la tendenza del capitale è alla massificazione delle forze della produzione
sociale come base di valorizzazione del capitale, all’incremento della
socialità del lavoro e della sua appropriazione privata, escludendo il lavoro
vivo dal riconoscimento del carattere sociale dell’attività: “le forze
produttive e le relazioni sociali – entrambi lati diversi dello sviluppo
dell’individuo sociale – figurano per il capitale solo come mezzi … per
produrre sulla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far
saltare in aria questa base”. La classe operaia, dunque, si configura come
forza rivoluzionaria in quanto la propria liberazione dal dominio del capitale
è negazione del rapporto di capitale, che innerva la società intera. Il
capitale sa che la forza-lavoro associata può costituirsi in socialità
indipendente e deve rispondere con la continua riorganizzazione del proprio
potere, deve imporre come necessaria la propria legge all’intera società, deve
far vivere la cooperazione sociale dentro la propria ragione di accumulazione e
di sviluppo.
Per il
neo-marxismo niente è assolutamente necessario nella storia, il mondo può
imputridire nella barbarie, se non interviene l’azione soggettiva. La classe
può divenire rivoluzionaria solo come classe per sé, attraverso la presa di
coscienza
di
avere bisogni e interessi inconciliabili, che non possono essere pensati e
perseguiti entro un compromesso col capitale;
della
propria forza materiale, idonea a realizzare un’iniziativa, che non trova
garanzie fuori di sé, per la costruzione del socialismo;
di
poter godere di un’autorealizzazione dell’individualità solo entro relazioni
solidali.
Solo
il recupero del ruolo della soggettività nel “corso delle cose” apre lo sguardo
e la mente sulla duplice possibilità della completa realizzazione umana o dell’imbarbarimento
e del caos. La contraddizione è interna al lavoratore collettivo, che deve
negarsi come valore d’uso valorizzante il capitale, per ritrovarsi come
“individuo sociale ricco”, contrapposto all’universo seriale, portatore di
bisogni che la stessa socializzazione capitalistica induce, ma non può
soddisfare.
Trasformando
la sottomissione, di cui è oggetto, in antagonismo, il lavoro vivo scopre la
propria forza creativa come potere e recupera su un piano liberato dal
naturalismo-economicismo della misera o fantasmagorica merce, il valore d’uso
concreto della propria attività. La riappropriazione della propria concreta
soggettività, della propria forza-invenzione, sviluppa nel lavoro vivo la
capacità di determinare concrete finalità e la “capacità di godere”, le
capacità del corpo ampliato nella “carne del mondo” (Merleau-Ponty). Il primo
passo è liberare il tempo per attività di arricchimento e dispiegamento di una
soggettività estesa.
Ineguaglianza
come regola fondativa della Costituzione materiale dello Stato.
Il
neo-marxismo ha studiato a fondo le trasformazioni dello Stato. Sotto la spinta
delle lotte del ’68–‘69 e oltre, che hanno espresso la ricchezza di senso di
una realtà soggettiva irriducibile in termini quantitativi, è andato in crisi
lo Stato-piano tentato negli anni ‘60 a partire dalla Costituzione del ‘48.
Crisi fiscale, crisi di legittimazione, ingovernabilità del sistema, crisi
della programmazione amministrativa e del controllo politico sulla riproduzione
sociale della forza lavoro. Saltava ogni forma di compromesso tra le classi
sociali, lo Stato non si limitava più a redistribuire il plusvalore socialmente
prodotto, diveniva incarnazione del “capitalista collettivo”, riproduceva
direttamente il rapporto capitalistico di potere, che “ha abbracciato e regola
il funzionamento dell’intero sistema dei rapporti sociali” (Berti). Il sistema
produttivo si era trasformato in generale sistema di potere.
Con la
crisi dello Stato-piano si è formata una costituzione materiale fondata sulla
crisi della “legge del valore”e sulla regola dell’ineguaglianza: il capitale,
raggiunto il livello dell’espansione sociale, ha distrutto “la parvenza del
contratto fra persone libere” (Marx), la parvenza dell’eguaglianza dello
scambio, di una società civile basata sulla forma dello scambio,
dell’equivalenza, della libertà borghese. Nella figura borghese del contratto,
infatti, è definito un rapporto stretto tra persone libere e indipendenti, tale
che la loro libertà e indipendenza resti riconfermata e mai diminuita; è
necessario che i contraenti possano basare la propria esistenza materiale su
mezzi di vita sufficienti a restare individui separati, senza essere obbligati
a contrattare dalla volontà altrui o dal bisogno.
Quando
non c’è scambio di merci non c’è contratto. “Le persone esistono qui l’una per
l’altra soltanto come rappresentanti di merci, quindi come possessori di merci”
(Marx). La figura borghese del contratto è entrata in crisi con il capitalismo
monopolistico e il deperimento della “società civile” coi suoi corpi intermedi
e le mediazioni fra gli interessi di classe. Due esempi della crisi sono:
il
“contratto per adesione”, in cui il contraente più forte impone unilateralmente
le sue clausole, che il contraente più debole non può discutere, per cui la
grande maggioranza degli individui, priva d’indipendenza, viene governata
unilateralmente dal capitale monopolistico;
la
pletora di contratti di lavoro, in cui la figura del contratto è una ridicola
finzione, essendo un “libero” accordo per costituire la subordinazione della
persona del lavoratore, una situazione in cui c’è scambio di non equivalenti
(salario contro pluslavoro), dato che la merce forza-lavoro ha la qualità di
produrre col suo uso più valore di quanto ne costi.
La
finzione del libero accordo tra volontà eguali è lo strumento del dominio
sostanziale del contraente più forte.
La
filosofia politica della modernità ha riconosciuto l’originaria eguaglianza
degli uomini e determinato nello Stato il luogo di fondazione dell’eguaglianza
formale degli individui, un’urgenza del regime economico borghese, che
richiedeva la libera circolazione delle merci e la formazione del mercato della
forza-lavoro. L’eguaglianza formale, espressa dalla moneta (equivalente
generale) e dal diritto, è la mediazione fondamentale della società, è
l’equivalenza, che tende a trasformare tutto in valore di scambio.
Marx ha mostrato che il formalismo
dell’eguaglianza moltiplica l’ineguaglianza, attraverso la circolazione
dell’equivalente generale, che è mezzo per l’accumulazione della ricchezza e la
riproduzione dei rapporti sociali del capitale. “Quanto più l’eguaglianza
formale, nella forma del mercato, del denaro, del diritto, si afferma, tanto
più diviene generale lo sfruttamento, quindi la diseguaglianza reale” (Negri).
Nel
sistema del capitale il sentimento dell’eguaglianza (giustizia nel rapporto fra
differenti), attraverso la lotta di classe, ha rotto l’astrattezza del suo
concetto e si è fatto forza pratica, materialità, uscendo dal regno del mito
per entrare in quello della storia.
Il
potere capitalistico ha da sempre natura dispotica, in quanto deve assoggettare
l’esistenza umana alla propria necessità d’incessante accumulazione e liquidare
coattivamente le contraddizioni irrisolte Con il passaggio dallo Stato sociale
allo Stato che persegue l’uso capitalistico della crisi, il capitale ha
abbandonato la forma che aveva assunto a partire dagli anni ’20 del ‘900, il
ciclo di accumulazione taylorista-fordista con i suoi mercati a scala
prevalentemente nazionale e le politiche keynesiane, il suo potere è
tendenzialmente tanto più forte quanto più la scala della cooperazione si
allarga e “la forza produttiva sociale del lavoro” appare “come forza
produttiva posseduta dal capitale per natura”. Lo Stato-crisi, articolando
squilibrio e repressione, ha ristabilito una diseguaglianza effettiva delle
parti, organizzata dai meccanismi di gestione e di comando sul mercato
mondiale. Con la crisi dello Stato sociale, costretto a tagliare la spesa
sociale per tenere il bilancio in linea con i requisiti di affidabilità
richiesti dai mercati finanziari, è finito il rapporto di intermediazione fra
Stato e proletariato, c’è solo l’affermazione imperativa che è il mercato il
canale naturale e infallibile di soddisfacimento dei bisogni e che devono
essere cancellate le istituzioni pubbliche di benessere sociale. Finisce così
ogni diritto alla sicurezza di vita, a risorse non misurate sul valore di
mercato. Lo Stato vede svuotato il suo ruolo di controllo dovendo subordinare
la sua politica alle esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e ai
vincoli della competizione internazionale. Sovrane sono l’oligarchia
finanziaria e la regola della riproduzione capitalistica, che è regola di
ineguaglianza e istilla il veleno della rivalità endemica. Sovrani del mondo
sono il FMI, la Banca Mondiale, il G7, le centinaia di vertici di imprese e
banche transnazionali che controllano le risorse e sottraggono agli Stati
nazionali le redini delle politiche fiscali e monetarie e impongono ai paesi
indebitati i piani di “aggiustamento strutturale”, in favore dei poteri
economici privati.
In
Lenin è chiaro il rapporto tra esaurimento dello sviluppo capitalistico e base
per il passaggio rivoluzionario. Per l’operaismo neomarxista quel rapporto
stava divenendo attuale dentro la società del capitale, in cui la soggettività
di classe era in grado di stimolare e di attrarre energie razionali, di
affermazione vitale, per il passaggio rivoluzionario; c’era, in relazione ad
una struttura materialmente determinata, una soggettività per la quale tornava
prioritaria la parola “felicità”, che ha la stessa radice di “fecondità”,
quella gioia che sembra intimamente connessa col fondo del nostro d’essere, la
felicità personale che concorre alla felicità comune. Era matura la possibilità
di conciliare amore di sé e partecipazione alla totalità sociale, la ricerca
moderna di perfezionamento attraverso il lavoro su di sé in un contesto di
partecipazione alla produzione e al godimento dei beni comuni. La creatività e
la libertà erano possibili tramite l’appropriazione collettiva delle forze
materiali da parte dei cittadini-lavoratori organicamente uniti e disposti a
far convenire, in una messa in comune inventiva, interessi, attitudini,
talenti. Il processo di autovalorizzazione di classe, negli anni 70, è stato la
forma di esistenza potenziale della classe, nella misura in cui potevano essere
alte la riappropriazione operaia delle forze dell’estesa produttività sociale e
la coscienza di dover distruggere il sistema del salario, in cui non c’era più
speranza. L’eguaglianza reale doveva essere frutto del nuovo modo cooperativo
di produrre, eguaglianza materiale nella riappropriazione collettiva del sapere
sociale, nell’uso della ricchezza sociale, eguaglianza comunista, come
ricchezza di cantieri comunitari, di differenze, costruita sulla capacità di
volgere in positivo ogni diseguaglianza naturale, di infrangere ciò che si
oppone all’umana espansione vitale.
Il
neo-marxismo si è sviluppato dopo aver colto nella soggettività di classe il
necessario passaggio ad un più alto livello teorico, nel cuore stesso delle
contraddizioni aperte nel rapporto di capitale. Un passaggio stimolato dalla
complessità e qualità dei comportamenti di autodifesa dei proletari, che, a
partire dalla seconda metà degli anni ‘60 si riconobbero in una nuova identità
di massa, in una forza di lotta capace di rompere ogni equilibrio capitalistico
pianificato e in una volontà di determinare nuovi spazi per esprimere i bisogni
esistenziali, conoscitivi, cooperativi, di classe, che investono tutti i
rapporti di potere che operano sulla riproduzione sociale del capitale. I
proletari sentivano che l’egoismo affaristico s’irradiava nella società come un
rizoma, conduttore di un’energia perversa, cercavano nuove dinamiche per dare
valore alla propria esistenza, dentro e contro la valorizzazione del capitale,
che tende a trasformarli in enti “programmabili”; resistevano alla riduzione
della propria esistenza a merci-salario, sentivano su di sé la violenza del
dominio capitalistico, tendenzialmente globalizzato, che imponeva alla società
intera la forma d’impresa, “a favore di un cantiere omni avvolgente esteso a
tutto il pianeta, all’interno del quale vengono ricavate oasi esclusive per la
classe dominante e per le vacanze premio dei subalterni necessari. Per gli
altri cresce il deserto artificiale” (Màdera).
Sentivano la violenza dell’ineguaglianza
determinata dal capitale, predisposta per la disarticolazione e la dispersione
di classe, l’estensione sociale della base produttiva multinazionale e
automatizzata del capitale, l’intensificazione dello sfruttamento prescrivendo
l’”auto attivazione” dei lavoratori, cioè l’autogestione dei processi di sfruttamento.
La violenza del dominio di un automatismo delle cose, che si muovono da sé,
violenza dell’astratta socialità del denaro, che ha per legge la sua
auto-accumulazione nel feticcio-capitale.
Dalla
“società programmata” al post-fordismo.
Il
neo-marxismo si è posto, dicevamo, come scienza antagonista rispetto al
progetto neocapitalistico di società “opulenta” fordiana, in cui il regime di
fabbrica s’è esteso alla “vita in comune degli uomini” intesa come totalità
valorifica, costituita dalla reale articolazione della complessità sociale, ha
subordinato a sé l’intelletto sociale e la scienza, ha sviluppato l’ideologia
del carattere naturale, necessario, della divisione in classi.
Nella
“società opulenta” ogni aspetto della vita sociale era iscritto in una logica
funzionale alla società-fabbrica. Era “la combinazione dell’attività sociale ad
assumere la veste di produttore” (Marx). L’impresa neocapitalistica, che
espropria l’operaio del suo prodotto e delle capacità di controllo sul processo
produttivo, era presentata come centro decisionale nell’ambiente
economico-sociale e culturale, organismo con una funzione istituzionale di
“incivilimento”, di “sviluppo della personalità” di coloro che vi operano,
fondamento della società, soggetto che deve attivamente partecipare alla
programmazione pubblica.
Il
neo-marxismo ha dimostrato scientificamente che il capitale
stava
estendendo, nella sussunzione sotto il suo comando del lavoro sociale
complessivo, la condizione proletaria; dissimulando la soggettività del suo
dominio nell’oggettività dello sviluppo economico, che però doveva
incessantemente confrontarsi con la soggettività antagonistica della classe
operaia (es. rifiuto del cottimo, sciopero a scacchiera, autoriduzione dei
ritmi di lavoro …);
faceva
crescere la disoccupazione tecnologica, cercando di compensarla moltiplicando
lavori parassitari, servili, socialmente improduttivi; occupando con l’uso
sistematico, pervasivo, su larga scala, dei mass-media l’”anima”, intesa come
ciò che infonde, sorregge e realizza la vita di ognuno.
La
ricerca neo-marxista intendeva conoscere la soggettività del piano del
capitale, non più identificabile con la tradizionale cultura borghese, ma, con
la proclamazione della “morte delle ideologie”, implicata nel potere della
tecnologia, della finanza, della comunicazione. Nella società subordinata al
regime di fabbrica ogni sua parte era dialettizzata funzionalmente al sistema
complessivo d’accumulazione capitalistica, che si basa, prima sullo
sfruttamento di lavoro vivo (fissato nella struttura generale della
produzione), poi sull’attivazione del lavoro accumulato attraverso lo
sfruttamento del lavoro, divenuto lavoro vivo sociale, nella misura in cui il
dominio capitalistico ha fatto della società la figura dello sfruttamento. Alle
mitiche forme di armonia contrattuale basate sull’eguaglianza delle parti era
unita la necessità di porre l’impresa come produttrice di valori comuni ai
datori e ai prestatori d’opera; centro di legittimazione sociale
dell’imprenditore come eroe dell’innovazione (occultando i costi esterni,
sociali, a carico della collettività); l’uso degli apparati ideologici della
società di massa ha consentito di dare una vernice positiva alla prioritaria
ricerca capitalistica del massimo profitto e di celebrare la funzione sociale
dell’impresa.
Preso
atto che il mercato è un meccanismo incapace di creare un equilibrio di
sviluppo, nella “società programmata” l’area di decisione del capitale tendeva
a sfuggire alle forme tipiche del mercato per investire l’intero campo
dell’autorità pubblica. Il capitale aveva necessità di pianificare,
oltrepassando il campo dei rapporti di produzione e di scambio per investire
l’intera società. Era divenuto fondamentale un concetto tipico di un’economia
socialista, il piano, che in senso marxista è espressione della creatività
associata del lavoro, che cancella la reificazione del comando e impiega una
razionalità economica di tipo comunitario-cooperativo. Il piano si configura
come superamento dell’anarchia del mercato, corpo organico di strumenti
d’intervento pubblico per utilizzare a fini sociali l’insieme della ricchezza,
evitando sprechi e squilibri, imponendo una razionale distribuzione delle
risorse. Il principio della pianificazione economica, sorto nell’800
all’interno dell’attacco socialista al sistema anarchico del libero mercato e
alle terribili conseguenze sociali che comportava, è stato poi assunto dalla
rivoluzione bolscevica, che ha fondato il primo Stato-piano sulla base della
nazionalizzazione-socializzazione dei mezzi di produzione e della liberazione
della multilateralità degli individui produttori. Poi, in seguito alla grande
crisi del ’29, e, nel secondo dopoguerra, all’esperienza del sottosviluppo, il
principio della pianificazione è stato introdotto nei paesi capitalistici per
assicurare l’equilibrio sociale, razionalizzare e consolidare la struttura del
potere capitalistico;
nei
paesi del sottosviluppo, usciti dal colonialismo, per promuovere e governare il
progresso economico e sociale.
Il
piano è divenuto necessario al capitale per programmare a tutti i livelli il
profitto, in relazione alla capacità dello Stato di comporre in un quadro
stabile e in una prospettiva d’espansione l’insieme dei rapporti di produzione.
Il problema della politica di piano sta nel rapporto tra elementi di
coercizione ed elementi di consenso e partecipazione, di qui la necessità di
una permanente negoziazione, della manipolazione psicologica e
dell’informazione, di riferire i poteri di rappresentanza ai corpi intermedi
(imprese, sindacati, enti locali). Lo Stato-piano del neocapitalismo prevedeva
una tecnocrazia programmatrice con un metodo dinamico di regolazione dei fatti
economici, un potere dei tecnici entro il processo che avvalorava e avvalora la
scienza e la tecnica come fattori principali dello sviluppo civile. Il
tecnocrate, da Saint-Simon in poi, è apparso come sacerdote di una nuova felice
età umana, ma poi scienza e tecnica, rese organiche allo sviluppo
capitalistico, hanno perso la loro autonomia e neutralità. Con l’espulsione dell’ideologia
dall’ambito della politica è stato riconosciuto il carattere politico
dell’intenzionalità complessiva del sapere scientifico-tecnico. Spettava
infatti al tecnocrate la cura del funzionamento societario. La tecnocrazia,
identificata con la pianificazione, ha assunto in modo non problematico la
realtà dell’organizzazione capitalistica della produzione con il suo contenuto
contraddittorio.
Lo
Stato è così passato ad una nuova concezione di sé, come controllore delle
sperequazioni intrinseche allo sviluppo capitalistico, mediatore dei conflitti
tra classi sociali, settori d’imprese, gruppi di pressione, soggetto di
contrattazione per la definizione della linea di gestione dello sviluppo
economico. Il governo, in cui sempre più si concentrava la potenzialità di
intervento politico, era l’attore del processo di negoziazione, garante
dell’attuazione del piano. Sono stati creati organi statali (in Italia, ad es.
la Cassa per il Mezzogiorno) per la gestione generale degli squilibri
strutturalmente connessi all’espansione capitalistica. Il piano nazionale ha
agito come quadro globale, schema di utilizzazione delle risorse del paese,
entro cui si connettevano le decisioni dei singoli centri. I sindacati si
ponevano come agenti contrattuali, fornitori di servizi di utilità diretta e
indiretta per i lavoratori e di utilità pubblica per lo sviluppo economico e il
“progresso democratico”; operavano per far identificare la classe operaia col
progresso civile e sociale del paese, proponendo una funzione egemone della
classe operaia nella politica di piano. Nella società degli anni ‘60, in una
situazione di estesa occupazione, modificati i rapporti di forza nel mercato
del lavoro, i sindacati ottennero aumenti salariali.
Lo
Stato-piano, secondo il modello keynesiano, doveva razionalizzare il meccanismo
d’accumulazione capitalistica, regolarizzando il ciclo economico di
riproduzione allargata del capitale; manovrare la domanda globale, facendo
diventare la moneta, generata ex nihilo dall’autorità centrale, domanda addizionale,
creata dallo Stato, per stimolare un livello superiore di produzione
complessiva. Lo Stato-piano, posto come mediatore del rapporto capitale-lavoro
per assicurare la continuità della valorizzazione del capitale complessivo (la
somma dei singoli capitali), era diviso tra il compito di razionalizzazione
dell’anarchia sociale; quello autoritativo d’imporre un ordine stabilendo quali
soggetti sono integrabili sistemicamente e quali no; quello di ricreare
costantemente l’infrastruttura, cioè le “condizioni materiali generali della
produzione” e quelle tecnico-scientifiche; quello di intervenire verso le
condizioni materiali e ideologiche (flessibilità, adattamento all’insicurezza
…) di riproduzione della forza-lavoro e di mantenere un costante “esercito
industriale di riserva”.
La
politica del deficit spending dipendeva dal controllo sul lasso di tempo,
soggettivamente determinato, in cui la moneta diviene capitale, un lasso di
tempo dipendente dalla collaborazione di capitalisti e lavoratori, ritenuti
portatori di interessi comuni come partners nella crescita; dipendeva dalla
collaborazione continuamente riaggiustata verso nuovi punti d’equilibrio. Lo
Stato keynesiano usava il piano come strumento di organizzazione del consenso,
si presentava come rappresentante di quegli interessi della comunità politica
che non possono essere mediati e insieme, con specifici apparati amministrativi
(agencies), rivolti al soddisfacimento d’interessi settoriali, parziali,
funzionali alle esigenze proprietarie e di potere delle grandi corporations e
di precisi gruppi economici. Inoltre erogava quote crescenti di spesa pubblica
a vantaggio del capitale privato (servizi diretti e trasferimenti finanziari
alle imprese, sgravi fiscali, acquisto di merci) con uno spostamento di denaro,
tramite le imposte, dai redditi della classe lavoratrice al sostegno dei
profitti privati. Lo Stato-piano si presentava come una figura “pastorale”,
quella di chi raduna individui dispersi, li guida verso una terra promessa
(piena occupazione, benessere generale), ha una costante “benevolenza”, con cui
regola i conflitti, assicura il nutrimento e la salute del suo “gregge”.
Ma
l’integrazione delle “parti sociali” nel meccanismo pianificatorio lo rendeva
fragile, se un elemento sociale non risultava manipolabile rischiava di
provocare una rottura. Infatti le lotte di massa a partire dalla metà degli
anni ’60, hanno messo in crisi la pianificazione come progetto di perpetuo
riequilibrio dei movimenti sociali. Era emersa una soggettività di classe estranea
all’accumulazione capitalistica, determinata ad appropriarsi di tempo e
reddito. Inoltre la società civile aveva acquistato una complessità che la
rendeva meno conoscibile, non programmabile, tale da non poter essere più
identificabile con la società borghese di massa. Lo Stato-piano è entrato in
crisi quando, a partire dalla metà degli anni ’70, hanno preso il sopravvento
il “postindustriale” e la società-casinò, del rischio e dell’incertezza, una
Las Vegas dell’esperienza “globale”, in cui tutti devono “collaborare” nel
martellamento pubblicitario, società del “divertimento”! come affare economico,
in cui gli esseri umani agiscono come se stessero lavorando. Quel
“postindustriale” che, dicevamo, ha le seguenti caratteristiche:
flessibilità
nell’organizzazione del lavoro (sistemi modulari, a “rete”, per “isole”,
lavoratori multifunzionali …), rispetto al mercato (l’impresa asseconda la
mutevole domanda di mercato con il metodo just in time), rispetto al mercato
del lavoro (forme di acquisto della forza-lavoro in grado di ottenere più
lavoro e meno occupazione);
decentramento
della produzione, che aumenta il potere del capitale nei confronti dello Stato
e consente alle imprese l’uso di un approvvigionamento globale cercando i fattori
produttivi ai costi più bassi su una base mondiale e dove il lavoro organizzato
è più debole;
concentrazione
del controllo, per cui i centri finanziari globali orchestrano e controllano le
attività di produzione, ricerca e sviluppo, continuando a godere dei benefici
delle infrastrutture (tecniche, sociali, politiche, legali) fornite dallo
Stato;
compressione
spazio-temporale multilaterale del capitalismo, che facilita l’estensione e la
velocità dei processi economici nella rete globale delle transazioni, retta da
una trama flessibile di collegamenti informatici e finanziari, che richiedono
nuove forme di comunicazione, trasporto, credito, con tecnologie di
velocizzazione tendenti a rivestire un ruolo strategico;
rottura
dell’unità spazio-temporale di politica ed economia, caratteristica delle fasi
precedenti dello sviluppo capitalistico, per cui le istituzioni nazionali e le
comunità vedono eroso il loro controllo sull’ambiente economico ed
extraeconomico;
cambiamento
della qualità del lavoro, sempre più precario, part-time, comunque mutevole a
seconda dei cambiamenti delle condizioni del mercato, con la giornata
lavorativa riconfigurata per ottenere massima flessibilità (ad es. turni
mobili. disponibilità in orario extralavorativo) ed intensificazione delle
prestazioni;
nuova
forma di capitalismo globale, per cui l’identità di aziende e prodotti non può
essere collegata chiaramente a un particolare paese;
una
cultura di frammentazione, che accompagna le trasformazioni socio-economiche,
segnata da idee e sensibilità “postmoderne” (spettacolo, simulazione, identità
disgiuntive al posto di personalità coerenti, fine della totalità e della
storia, perdita di visione d’insieme, confusione spaziotemporale e delle
lingue, delle credenze, puro gioco di differenze, celebrazione
dell’instabilità, dell’infondato, dell’atomismo commerciale, etica del successo
individuale …);
divisioni
di classe più acute, dure, visibili, con la fine dell’unità spazio-temporale
dell’impresa fordista che favoriva l’associazione e la comunicazione tra
lavoratori;
robotizzazione
della vita e immersione totale nell’ossessiva ripetizione di messaggi
pubblicitari, mascherata da “trastullo”.
L’analisi
neo-marxista ha delineato lo scenario postfordista di un ordine decomposto in
significati casuali, un mondo ridotto ad una superficie unidimensionale di
incontri contingenti tra individui de-socializzati, con ruoli aleatori, dove
non ci sono significati veri, profondi, sotto la superficie e non si riesce a
distinguere tra illusioni e realtà. Uno scenario marcato da strategie (spingere
al massimo la flessibilità, gli sforzi per esternalizzare i costi …) che hanno
eroso (ad es. col taglio del carico fiscale) infrastrutture (come l’istruzione
e la sanità) indispensabili alla dignità umana. Alla complessità del corpo
sociale, quindi, era impossibile fornire un piano. Flessibilità,
frammentazione, instabilità, mancanza di significati sociali capaci di
stabilire solidarietà, minavano e minano le capacità di pianificare il futuro.
Lo Stato è divenuto incapace di mediare tra mercato e società, diluire il
conflitto di classe, governare risorse, integrare la classe non-proprietaria,
fornire orientamenti direttivi, preso nell’impossibilità di un orizzonte
politico organico, nel dilagare della contraddizione insolubile fra la pochezza
del tempo individuale e l’infinità del desiderio indotta dallo spettacolo della
Merce.
La
“società programmata” neocapitalistica, che la politica di piano tendeva a
perseguire non fu realizzata. Alla politica di piano, del resto, s’opponevano
le strategie dei singoli capitali che pretendevano di cercare senza restrizioni
nuove convenienze di mercato, scaricando buona parte dei propri costi sulla
spesa pubblica. La complessità dei fenomeni s’andava scomponendo in una
pluralità di poli decisionali privi di un centro unificante in grado di
cogliere insieme quella complessità. Lo Stato non riusciva più a usare la spesa
pubblica per la doppia riproduzione del capitale e della merce forza-lavoro. Si
delineava all’orizzonte quella forma di anarco-capitalismo in cui regna il
mercato assoluto, in cui ciascuno può creare individualmente o in gruppo i
propri valori nel quadro di un sistema di concorrenza libera e contrattuale, in
cui i diversi valori s’affrontano liberamente sul mercato. L’anarco-capitalismo
in cui la società e la verità risultano dalla libera competizione tra stili di
vita e sistemi valoriali concorrenti. Era gettata nella crisi la struttura di
consenso alla base del Welfare State, come Stato che si pone il problema del
bene comune, giocata sulle contrattazioni politiche, la distribuzione del
reddito, l’alleanza con i sindacati per lo sviluppo pianificato. Lo Stato
nazionale, inoltre, aveva di fronte il settore trainante del capitalismo che
operava in una dimensione multinazionale, il cui principio regolatore è la
mobilità internazionale delle risorse finanziarie, che sfuggono alle
possibilità d’intervento pubblico. Lo Stato era sempre più dipendente dalle
decisioni dei centri di potere multinazionali, che, ad es., impongono
l’autoriduzione della spesa pubblica alle autorità nazionali. Nasceva lo
Stato-crisi, che, da un lato si limita ad assecondare la riproduzione delle
classi operata dai rapporti di forza nell’economia, dall’altro aumenta il
flusso di denaro-capitale alle imprese, incapace di governare, di
razionalizzare le variabili in gioco nella società civile.
Con la
crisi dello Stato-piano il potere politico doveva comunque creare un ambiente
favorevole agli affari (infrastrutture, forza-lavoro docile e disorganizzata,
deregolamentazione dei rapporti di lavoro, finanziamento pubblico della ricerca
a fini privati), doveva ridurre la complessità dell’ambiente definendone alcune
possibilità, escludendone altre, capace non di fronteggiare il disordine provocato
dalle “leggi” di mercato, ma di sostenere la disarticolazione della rigidità
della forza-lavoro (ad es. sostituzione della manodopera con tecnologia)
prodotta dall’avvento post-fordista dell’impresa a rete, modulare, snella,
flessibile, con la proliferazione di modelli produttivi e bricolage
organizzativi, conviventi l’uno accanto all’altro, con una frammentazione della
produzione in varie unità lavorative, in cui la catena di comando dell’impresa
madre si snoda, lungo un insieme di gerarchie formali e informali, tra
committenti, fornitori e subfornitori, collaboratori coordinati e continuativi,
appalti transnazionali, ecc. Per il capitale la posta in gioco era la ripresa
di controllo sulla forza-lavoro e la sua capacità di sviluppare cooperazione
produttiva e sociale.
Non
serviva più lo Stato-piano. Infatti potenti reti centralizzate permettono al
capitale di monopolizzare le banche dati secondo i propri criteri selettivi, di
gestire centralmente i flussi finanziari, i flussi di dati internazionali nella
rete produttiva, nella logistica, nella ricerca e sviluppo, di sfruttare nel
processo lavorativo il “capitale intellettuale”; reti che vedono al lavoro una
varietà di figure, laboratori artigianali, professionisti, cooperative sociali,
nuove forme di self-employment, di lavoro autonomo di seconda generazione
(Bologna). Nella società, dove crescono l’informatizzazione e la robotizzazione
del lavoro e si attivano reti d’informazioni autogestite, la sincronizzazione
del processo lavorativo è delegata alla cooperazione sociale attraverso
l’esercizio dell’agire comunicativo. Inoltre, mentre il rapporto tra lavoratore
e management diviene servile, assoggettamento personale diretto, dipendente
dalle oscillazioni del mercato, l’impresa si autorappresenta come fucina di
valori da condividere per divenire un corpo unico animato da un “io comune”.
Negli
anni ’70, con l’avvento del postfordismo, però, s’è andata manifestando una
soggettività non integrabile nel codice postfordista della Merce, del Denaro
posto come mondo in cui ogni cosa è riducibile al suo “quanto”. Una
soggettività, portatrice, dicevamo, di “bisogni radicali” e significati non
esprimibili in termini capitalistici, che voleva autodeterminarsi, voleva
maggiore tempo libero da impiegare in forme di loisirs diffusi, Le condizioni
postfordiste hanno disgregato le comunità familiari, sempre più schiacciate dal
trasferimento ad esse dei costi sociali, dall’estensione e intensificazione del
lavoro, dalla riduzione degli standard di vita, rese incapaci, per il sovraccarico
di compiti, a svolgere coerenti forme di socializzazione, ma il fenomenologico
“mondo della vita” (lebenswelt), gli ambiti di vita relazionale dove si svolge
l’esperire vivente, mantenevano un certa vitalità, non erano saturati
dalfeticismo, dall’intrattenimento anoetico, che cioè non comporta riflessione,
vi maturavano altre finalità rispetto alle condizioni di scambiabilità sul
mercato. La funzione simbolico-ideologica dell’assicurazione della lealtà di
massa al sistema liberal-capitalistico era andata in crisi e a livello statuale
s’affermava la tendenza autoritativa a regolare amministrativamente la
riproduzione sociale della forza-lavoro attraverso lo sviluppo di uno Stato di
sorveglianza, garante della persistenza di un’ideologia secondo cui il mondo
partorisce denaro da denaro, si accumula, rende funzione della sua
accumulazione gli esseri umani che sono la condizione della creazione del
denaro-capitale dal lavoro
A
fronte di questa trasformazione postfordista della società e delle istituzioni
pubbliche la pratica teorica neo-marxista,
ha
interpretato la lotta di classe degli anni 70 come auto-identità autonoma
operaia (identità collettiva forte del proprio antagonismo), come direzione
verso il superamento della cosa-capitale e delle classi sociali in una
mutazione di civiltà;
ha
conservato il primato della dialettica nella teoria, non reificando la tendenza
in un processo senza soggetto, dando cuore storico concreto all’analisi
logico-dialettica, mediante un’indagine dei bisogni e dei comportamenti
proletari;
ha
elaborato una concezione della rivoluzione e del partito che vede nelle
trasformazioni strutturali del capitale l’occasione per far coincidere crisi
del capitale e organizzazione politica, bisogno di comunismo e di liberazione
del sapere scientifico;
ha
letto la lotta per l’appropriazione come trasformazione collettiva del modo di
produrre, che passa attraverso l’eclisse della “legge del valore” e
l’affermazione dei bisogni concreti della classe contro la loro arbitraria
riduzione entro l’astratto della produzione.
La
storia del capitale, con la sua spirale sviluppo-crisi, è stata analizzata come
storia dei modi di appropriazione del lavoro vivo, della generalizzazione a
tutti i rapporti sociali del valore di scambio e della svalorizzazione delle
forze produttive, ma anche storia della sua antitesi vivente, del proletariato
nel suo processo di costruzione d’una coscienza strategica di classe, di
ricomposizione politica per una lotta che non si limiti a reagire alle
contraddizioni del capitale, ma ne produca consapevolmente la crisi politica,
critica del feticismo, dello sfruttamento, dell’alienazione, in un progetto di
potere. La storicità dei bisogni nella società dipende dalla storicità dei modi
in cui è organizzata la produzione.
Tronti,
sin dal 1961, ha colto nella storia delle lotte operaie il lato attivo di ogni
dinamica dell’appropriazione capitalistica, il lavoro vivo, che si è sempre
contrapposto al capitale non in quanto semplice merce, ma come non-capitale. Il
lavoro, come “motore mobile del capitale”, “suo fondamento dinamico”, è misura
del valore perché la classe operaia è condizione del capitale, in quanto è ciò
che precede il rapporto capitalistico. Il capitale vuole impedire alla
forza-lavoro di contrapporgli un valore autonomo, di cui il capitale non sia la
misura. Le lotte operaie hanno risposto vivendo il tempo di lavoro come
espropriazione di vita e il tempo libero non più come tempo subalterno della
riproduzione della forza-lavoro salariata, ma come ricchezza di relazioni e
forza creativa. Il capitale inizialmente s’appropria dello specifico valore
d’uso della singola forza-lavoro, sussunta come lavoro astratto, poi con la
sussunzione reale del lavoro concreto al lavoro astratto il capitale
s’appropria del valore d’uso della combinazione del lavoro sociale complessivo,
dell’intelletto sociale collettivo. Il capitalista esercita potere in quanto
controlla il lavoro morto (denaro, macchine…) sul lavoro vivo; sa che la
condizione per conservare il suo dominio politico è chiudere l’antagonismo di
classe entro il gioco competitivo dell’economia, entro i limiti contrattati del
rapporto capitalistico e rendere i bisogni funzionali alle esigenze di
razionalizzazione dello sviluppo. Il capitale tenta costantemente di organizzare
dentro il tempo di lavoro tutte le risorse sociali. Con il postfordismo il
capitale, sotto l’incalzare della lotta di classe, ha spinto verso
l’universalizzazione ideologica dei propri interessi esclusivi, ma ha dovuto
abbandonare la maschera “progressista” e indossare la maschera Wall Street
della mondializzazione finanziaria, la maschera euforica dell’ideologia
“edonistica”, che ha invaso l’immaginario sociale, un’ideologia per cui il
valore essenziale della merce è una promessa di felicità. La maschera di un
sistema economico che fonda la sua dinamica sulla produzione di segni che
modellano percezione e conoscenza, in cui le relazioni fra umani sono
definibili solo come business e l’energia desiderante è trasferita nella gara
incessante per essere vincenti, serve per correre sempre più veloci per tenere
il ritmo.
Il
tema del bio-potere.
Il
neo-marxismo, proiettandosi verso il nostro presente, ha affrontato il tema del
potere nelle sue vaste ramificazioni, il potere come orizzonte del vivere
economico, sociale e politico, di cui conta l’effettività, l’essere un rapporto
asimmetrico, forzoso, fra esseri umani, un rapporto “a somma zero”, in cui alla
positività del dominio dell’uno corrisponde la negatività della subordinazione
dell’altro, indotto a comportarsi nel modo desiderato dal soggetto dominante,
che è tale se possiede le risorse (ricchezza, forza, saperi) per determinare il
comportamento altrui.
Il
potere fa funzionare come veri determinati tipi di discorsi, intende penetrare
nella dimensione interiore, si rappresenta come necessità obiettiva, come
espressione di un ordinamento insuperabile, con un rapporto di forza che agisce
come rapporto di organizzazione e che vuole giustificarsi stabilendo i fini
dell’organizzazione. Nella formazione storica del neocapitalismo il capitale,
dicevamo, pur mantenendo la mostruosità di una popolazione proletaria
disponibile per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, si è
rappresentato come attore di civilizzazione. Attore dotato di un potere al cui
servizio devono agire le istituzioni pubbliche e i soggetti della società
civile, in cui il capitale si muove secondo un ritmo dialettico che fa delle
antinomie, che continuamente si presentano, motivo di avanzamento del suo
controllo complessivo.
Nell’analisi
della dinamica dei rapporti di potere il neo-marxismo ha incontrato il pensiero
di “Foucault”, secondo cui il potere non è sopra, ma dentro la società, in cui
opera in modo “microfisico”, s’infiltra, permea ogni sua piega. Il potere non è
solo repressione, proibizione, produce verità, saperi, si diffonde attraverso
varie pratiche che coinvolgono il corpo, la mente, lo spazio, il tempo, la
sessualità. Il potere è effettivo nella pluralità dei rapporti asimmetrici, di
forza, disseminati nella società.
Per il
neo-marxismo la molteplicità dei rapporti dominati è presa in un’unica fonte di
dominio: la società è posseduta dal capitale.
L’economia
del corpo sociale nel capitalismo deve essere organizzata secondo le “leggi”
del mercato, il fine è di contrattualizzare la vita comune, privatizzare ogni
ambito di vita, “fare del mercato, della concorrenza e dunque dell’impresa,
quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società”
(Foucault). Il neo-marxismo ha fatto proprio il concetto di Foucault della
biopolitica, il cui successo è anche dovuto al ruolo di disciplina egemone
svolto dalle “scienze del vivente” (biologia, ingegneria genetica …), basti
pensare alla pervasività della metafora del virus. Scrive Foucault “le
discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due
poli intorno ai quali si è sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita”.
La biopolitica prende coscienza della situazione vitale d’insieme dei cittadini
(reddito, tempo di lavoro, condizioni di salute, sentimento di collaborazione
sociale …). La vita (igiene, alimentazione, natalità …) è entrata nel campo
dell’esercizio del potere, volto a potenziarne l’operatività e la
manipolabilità.
La
biopolitica è iniziata con la volontà politica di correggere le inclinazioni
umane pericolose, disciplinare gli affetti e i corpi, per aumentarne
l’efficienza, fino ad arrivare alla
società capitalistica di massa dove è avvenuta l’omologazione attraverso il
consumo, lo spettacolo e il codice della merce, con il dispiegarsi di una
“informatica del dominio” in cui le tecnologie hanno assunto carattere
strategico (manipolazione del codice genetico, giunzione di umano e
cibernetico, di finzione ed esperienza …). Sono entrati in gioco la regolazione
genetica (Dna ricombinante), il controllo di sistemi informazionali, i brevetti
sulla materia vivente e la “creazione della realtà”. I dati informativi, i
nuovi organismi genetici, i cyborg, esito della ricerca scientifica, sono sotto
brevetto, proprietà privata. Con la biopolitica il “potere sulla vita” ha
trattato i corpi e le menti come materiale duttile da mettere al lavoro, li ha
resi sempre più flessibili, docili, malleabili, capaci di rendimenti crescenti.
Il corpo come esperienza vivente, principio di verità, potenza dei sensi e la
mente come l’insieme delle proprietà umane (intelligenza, coscienza,
affettività, credenze …).
Le
soggettività sono disarticolate e riarticolate secondo le esigenze del comando
capitalistico. Il biopotere gestisce la vita e la complementarità del corpo
proprio e del corpo altrui nell’esperienza percettiva, controlla il nesso
inscindibile fra coscienza e corpo, che è avvolto nelle “spirali perpetue del
potere e del piacere”, visto come corpo produttivo, pensato come merce,
strumento di performance, sottoponibile a tecniche che ne modificano i
caratteri, L’economia dei corpi, nel tardo-capitalismo o postfordismo, richiede
corpi mutanti a elevato grado di plasticità e adattabilità. Le moderne tecniche
di governo dei corpi hanno fatto proprio lo statuto dell’estetica, il corpo è
accelerato, messo in scena, spettacolarizzato (e dematerializzato, es.
telelavoro), esprime una soggettività polimorfa, debole, cangiante,
non-consistente, con identità fluttuanti.
Rispetto
alle istituzioni pubbliche è il mercato che governa, guida la condotta degli
esseri umani al fine di “dare forma alla società secondo il modello
dell’impresa fin nella sua trama più minuta”, di far sì che la vita stessa
dell’individuo (i bisogni, le aspirazioni, il rapporto con il tempo, con il suo
ambiente …) sia resa “una sorta di impresa permanente e multipla” (Foucault)
secondo il modello investimento-costi-profitto. L’estensione della
forma-mercato all’intera società funziona come principio d’intellegibilità dei
rapporti sociali e dei comportamenti individuali, come “analisi economicista
del non-economico”. Ad es. per un neoliberale la cura e l’educazione di un
bambino nella sua crescita costituiscono un investimento destinato a costituire
un “capitale umano”, che produrrà un reddito.
Occorre
ripartire dal ciclo di lotte operaie e studentesche che dal ’68 hanno
attraversato gli anni ’70 affermando un’egemonia operaia, manifestata nella
forma politica dell’autonomia (es. i consigli di fabbrica, i collettivi
politici) in cui la cooperazione sociale appariva più larga e ricca di quella
che anima il lavoro produttivo di capitale, in cui forte era la convinzione che
l’individuo sociale “normalmente dotato”, liberato dal dominio reificante e
alienante del capitale, può sviluppare in sé capacità cognitive e critiche,
sensibilità estetica, energia morale, decisione razionale.
Anche
la resistenza (ad es. quella dei lavoratori della conoscenza), con la sua
voglia di giustizia, si è espressa e si
esprime in forma biopolitica (lotta per la qualità della vita, il diritto alla
salute e alla tutela dell’ambiente, la riappropriazione del corpo, la socializzazione
dei saperi scientifici, lo sviluppo non proprietario dell’informazione …)
avanzando la pretesa di godere di una “vita autentica”, una vita buona,
politicamente qualificata e orientata sull’idea di felicità, derivante
dall’arricchire sé stessi, opponendosi alla propria riduzione a “nuda vita”,
puro sostrato biologico finalizzato alla sopravvivenza. Voler essere
“individui” (da in-dividuus, “che non si può dividere”) significa difendere la
propria integrità indivisibile, quindi opporsi all’essere scomposti come il
capitale vuole.
Dentro
l’analisi dei rapporti di potere e della biopolitica il neo-marxismo ha posto,
dicevamo, il problema, da un lato, del lavoro vivo come luogo creativo di vita,
di valori, potere costituente della società e, dall’altro, dello Stato, che
dopo aver assunto, nel secondo dopoguerra, la forma di “sistema dei
partiti” s’è profondamente trasformato
nella fase del tardo-capitalismo, in uno Stato snello, in cui è il capitale,
l’astrazione, che fa la storia e lo Stato assume come propria legittimazione
quella di garantire le condizioni
funzionali del capitalismo, che non può riprodursi di per sé; garantire la
propria congruenza con le leggi dell’accumulazione e della antropologia economica
capitalistica. Lo Stato ha subito l’ideologia neoliberale, che ha riportato
tutto sotto le ferree leggi del capitale, che si muove come un automa che si
autogoverna, fuori dal controllo sociale, in un infinito movimento circolare ed
ha imposto ai concreti rapporti di classe la maschera “tecnica” di relazioni
reificate.
Lo Stato snello non si fonda su concetti
sostanziali del Bene, ma si limita a far funzionare il pluralismo come libero
mercato delle ideologie; ha delegato il primato agli “interessi economici”
celebrati dai sacerdoti del mercato assoluto, dove tutto è assolutamente
contingente; ha subito il potere del capitale di interdire i provvedimenti
contrari ai propri modelli di business, al processo di concentrazione e di
ristrutturazione del capitale (aumento del capitale costante rispetto a quello
variabile), di sussunzione reale del lavoro sociale al capitale. Lo Stato ha
perso non solo la funzione di mediazione del conflitto sociale, ma, incapace di
formare una comunità coerente, anche il proprio fondamento, la
rappresentatività di un popolo, inteso come insieme socialmente omogeneo e
politicamente organizzato di abitanti dotati di coscienza civica. Il sistema è
senza politica, la macchina statale stabilisce simulacri d’equilibrio e di
ordine, astratta dal valore del bene sociale. I luoghi dell’autentica decisione
politica non sono quelli in cui si svolge l’esistenza dei cittadini. Le scelte
di politica economica non sono il frutto di pattuizioni, ma sono determinate
dai dettami dei centri del potere economico-finanziario mondiale. Il ruolo
educativo viene svolto dagli apparati ideologici della cosa-capitale, che
cercano d’imporre l’identificazione con il comportamento del vendere le proprie
forze e capacità come merci, per comprare altre merci e di gioirne, immersi nel
mercato come immane stanza dei balocchi, ponendo gli esseri umani in
contraddizione con sé stessi e quindi creando “mostri”.
A
fronte delle trasformazioni dello Stato e del consolidarsi del biopotere, il
neo-marxismo ha sottolineato l’entrata in gioco, negli anni ’70, di una ragione
e di una passione di classe forti di una concezione della fraternità in cui era
implicita una nozione di bene comune. Era in campo una soggettività concreta
che ricercava un’identità comunitaria, perché sentiva di vivere d’interessi e
bisogni qualitativamente non riconducibili alla razionalità del capitale,
irriducibili all’universo seriale dove contano solo le determinazioni
quantitative; interessi e bisogni aperti al tempo della vita come tempo dello
sviluppo della personalità e della lealtà civile, dell’incontro di corpi,
parole, immagini, senz’altra finalità oltre quella gratuita della conoscenza,
quando la libertà era esercizio essenzialmente antieconomico e il desiderio non
era investito ossessivamente nell’impresa economica.
Nell’analizzare
la complessità dell’articolazione di classe (intreccio fra vecchia e nuova
composizione di classe) il neo-marxismo ha messo in luce la continuità tra le
lotte e i comportamenti dell’operaio-massa e dei tecnici nel ciclo ’68 -’73 e
quelli dell’“operaio disseminato”, del proletariato giovanile, del movimento
delle donne, nel sistema postfordista, legati al movimento del ‘77.
Lavoratori-studenti, lavoratori del terziario (ospedalieri, ferrovieri,
autotrasportatori …), quelli nella catena di appalti e subappalti, lavoratori
precari e “in nero”, ecc. rifiutavano la retorica dei sacrifici, di pagare il
prezzo della crisi e miravano alla gestione della propria struttura
desiderante, alla riappropriazione del corpo come libero godimento dei sensi,
delle potenzialità percettive e cognitive espropriate dal capitale. Quelle
lotte avevano le loro radici nel “vogliamo tutto” degli operai di Mirafiori del
’69, che intendevano difendere la propria dignità, la propria integrità
psico-fisica, opporsi all’incorporazione del lavoro come forza propria della
cosa-capitale, lavoro che ha preso la forma di potenza produttiva del capitale
ed è scomparso come vera fonte produttiva della ricchezza e della società.
Lungo
gli anni ’70 i proletari s’erano battuti, in fasi diverse, per opporsi al
deprezzamento del valore di scambio della propria forza-lavoro, contrastare il
potere onnipervasivo del capitale, l’onnipotenza della macchina carnivora dei
mass-media, l’arroganza competitiva, affinché le varie figure della classe
politecnica del lavoro potessero divenire veri soggetti, padroni di sé, capaci
di cura di sé, di organizzare la propria esistenza e di darle significato.
Sentivano
di dover ridisegnare le identità personali e collettive
su una
nuova attesa di futuro, o meglio su un’immanenza senza residui, perché il
futuro appariva arido e deserto;
sullo
scenario della concorrenza spietata e del crollo dei miti sociali della
modernità.
Nel
movimento del ’77, nell’affermare i bisogni radicali e nell’esercitare
contropotere, erano protagonisti i lavoratori postfordisti, che operano in
rete, in una complessità organizzativa basata sulla collaborazione, quelli che
producono e scambiano informazioni, lavoratori “cognitivi”, che conoscono,
immaginano, comunicano, in un sistema in cui produrre ricchezza vuol dire saper
gestire sistemi biotecnici, che integrano esseri umani e macchine, saper
interagire cooperativamente con il corpo collettivo. Lavoratori capaci di
contrattare spazi di gestione delle risorse e di rendere contraddittoria la
ristrutturazione capitalistica. Nonostante le discontinuità, le disomogeneità
del tessuto di classe, le pratiche locali di un contropotere non sintetico,
disperso (autoriduzione delle tariffe sociali, del tempo di lavoro…),
l’enfatizzazione minoritaria, la deriva “spettacolare” della militarizzazione
della lotta, era comunque palese la possibilità che s’aprisse la prospettiva
del socialismo, costruito sul massimo sviluppo della soggettività. Erano in
campo soggetti in ascesa, diventati biografia, che cercavano la gioia, ch’è
sostanza di vita liberata e quindi storia.
L’anomalia
italiana del lungo ’68 aveva dato i suoi frutti.
Il
programma della transizione.
Negli
studi dei neomarxisti e nelle varie e sparse pubblicazioni dei diversi soggetti
attivi nel movimento degli anni ’60 e ’70 è stata posta l’esigenza della
transizione alla società dei “produttori associati”, in cui gli esseri umani
controllano la loro vita e non sono più in un rapporto casuale tra loro;
un’esigenza non garantita da alcuna “legge di natura”, ma dai bisogni radicali,
non soddisfacibili entro il capitalismo.
Nella
formazione sociale tardo-capitalistica, retta dal feticismo della merce, dai
principi disgreganti della massimizzazione dei profitti e del potere e del
sopravvivere nella concorrenza generale (qualcuno guadagna a spese di qualcun
altro), si riteneva che il ciclo di lotte dal ’68 al ’77 avesse fatto emergere
ciò che I “Grundrisse” descrivono come il processo dialettico di costituzione
del possente individuo sociale produttivo, il cui destino è di “creare il
proprio destino”, capace di definire sempre nuovi passaggi tecnici, che possono
essere riassunti in ricchezza interna di attribuzioni qualitative.
Dietro
l’angolo non c’era la certezza della rivoluzione, ma si riteneva fosse divenuto
attuale il bisogno di comunismo, di un sistema in cui gli individui sono
partecipi del carattere sociale dell’attività e della forma sociale del
prodotto, pronti ad arricchire insieme il proprio comune essere-umani, sistema
in cui la vita umana non è uno strumento funzionale a qualcos’altro dalla vita
stessa, in cui insieme i cittadini-lavoratori vivono le verità concrete (verità
della scienza, dell’arte, della politica, dell’amore) e, fedeli alle verità
vissute, decidono cosa è il Bene dell’uomo, il potenziamento delle qualità
vitali, l’universalità concreta che riconduce alla ricchezza della vita.
Un
bisogno di comunismo interno all’autovalorizzazione della classe politecnica
del lavoro, che rifiutava d’essere la personalità-merce forza lavoro, cellula
elementare della formazione economico-sociale del capitale, rifiutava la
riduzione di sé ad astrazione, l’unilateralità della società-mercato che
mortifica la ricchezza umana della persona.
L’autovalorizzazione
era propedeutica alla transizione, come
estensione-intensificazione
della forza produttiva operaia, secondo una dialettica che il rapporto di forza
può rendere positiva per la classe e negativa per il capitale;
cumulo
e socializzazione autonoma di tutti gli elementi e i valori irriducibili alla
mediazione capitalistica, attività finalizzate alla “vita buona”.
L’autovalorizzazione
proletaria degli anni ’70 stava ad indicare che nessuno può reprimere fino in
fondo la propria umanità, quella parte preziosa della natura umana che consiste
nell’esplorare il possibile, ragionare ed elaborare progetti per un’esistenza
migliore, quella libertà che noi siamo e in cui si manifesta il nostro essere.
I
nuovi bisogni che si sviluppavano sul terreno del mercato mondiale
presupponevano una profonda trasformazione dei modi dell’appropriazione
sociale.
Era un
comune sentire che
– non
conta la moltiplicazione quantitativa dei bisogni, ma la creazione di nuovi
rapporti, di modi cooperativi-comunitari di produzione e consumo, fuori
dell’astratto valore di scambio;
–
conta uno scambio non di mercato, non basato su un “contratto”, uno scambio di
abilità, di saperi, di potenzialità, basato sull’essere (io so ballare il
tango, tu sei esperto d’informatica) con cui ciascuno accresce le proprie
conoscenze, il proprio essere, approfondisce la propria personalità, così che i
soggetti dello scambio divengano più ricchi, dopo aver messo qualcosa in comune
(aver comunicato).
A
differenza del liberalismo che vede gli esseri umani come concorrenti in un
gioco a somma zero, si pensava ad un sistema razionale di produzione e di
scambi in cui ognuno vince se vincono anche gli altri.
Si
delineava la necessità di un cambiamento di paradigma, di una ridefinizione del
rapporto privato – pubblico, rapporto fra singolarità e solidarietà sociale, in
cui privato è l’ambito delle scelte a iniziativa e rilevanza individuale (prese
direttamente da un soggetto, le cui conseguenze, in termini di costi e benefici
riguardano il soggetto che opera tali scelte), pubblico è l’ambito delle scelte
a rilevanza collettiva (le cui conseguenze, in termini di costi e benefici, si
verificano nei confronti della collettività) e che devono essere a iniziativa
collettiva. Viene ridefinito il soggetto, non più nozione astratta, ma entità
concreta, corposa, storica, in una società che ha una struttura, dove si svolge
il modo d’essere umano, che ha nella socialità una caratteristica essenziale,
non accidentale. Si delineava la necessità di un’antropologia “dialogica” in
termini di sviluppo di conoscenze, abilità, piaceri, in una possibile
transizione al socialismo, in cui non si devono moltiplicare all’infinito i
bisogni per spegnere il dolore della mancanza; in cui l’essere umano possa
trovare nell’attività la sua gioia, l’eudemonia, l’esercizio armonioso di tutte
le facoltà come bene supremo e nella collaborazione la prova che lo sviluppo
umano è nell’interesse di tutti, che “ogni opportunità che ciascuno ha
sviluppato è una voce disponibile per ampliare il repertorio comune”
(Bencivenga).
Secondo
il liberal-capitalismo
l’essere
umano corrisponde al tipo dell’homo oeconomicus (competitività incessante,
tirannia del bisogno, della dipendenza dall’accumulazione di merci e denaro …),
un player nel mercato, che vede gli altri esseri umani come strumenti o come
ostacoli per la soddisfazione dei propri interessi e bisogni.
Lo
Stato deve rimuovere ogni impedimento affinché i giocatori possano affrontarsi
nella gara; per costituzione non deve educare e quindi in realtà deve educare
al vuoto, costruendo l’inconsistenza dell’io, la sua esistenza puntiforme,
priva di struttura, il cui benessere si riduce al vendere sul mercato le
proprie competenze e all’acquistare merci.
Il
soggetto è costretto a consegnare parte della sua vita a un’istanza aliena, per
riceverne un compenso, cercando di consolarsi negli intervalli (festività, fine
settimana) dentro il processo di espropriazione cui è sottoposto; la propria
finalità gli è esterna.
Le
imprese, per sopravvivere nel mercato, sono costrette a generare nei potenziali
clienti uno stato psicologico analogo alle tossico-dipendenze: far loro credere
che devono cercare il loro destino nell’acquisto compulsivo di merci, devono
avere un suv, la coca-cola, un deodorante o un soggiorno alle Maldive, tanto
quanto l’alcolista deve avere la sua dose di alcol. Gli esseri umani devono
sentire un vuoto da riempire con l’acquisto di merci-biberon, dentro un circolo
vizioso.
Il
socialismo parte invece dal principio che la natura degli umani ha in sé il
potenziale di attività e di gioia conseguente a tale attività, potenzialità
umane che si formano nel corso dell’auto costituzione umana. Il socialismo
vuole creare le condizioni di base che permettano la realizzazione piena del
potenziale che gli esseri umani sono, la loro polifonia di interessi, lo slancio
psichico e biologico verso l’affermazione vitale. Che la natura umana realizzi
il suo potenziale è un compito, non una certezza.
Per il
neo-marxismo la transizione si apre quando entra in crisi la capacità di
sintesi capitalistica della dualità di poteri che vivono nel modo di
produzione, quando il potere della classe politecnica del lavoro fa valere il
proprio principio ordinatore, fa valere il proprio circuito di organizzazione,
comunicazione, conoscenza sociale, le proprie risorse sociali non comandate dal
capitale, la forza produttiva che è oltre il lavoro salariato. Quando la
comunità reale (liberamente determinata), l’essere sociale, possono divenire la
forma vivente della “coscienza universale”.
Un
programma di transizione deve prevedere l’inveramento della distinzione che la
Arendt operava tra
1) lavoro come regno della necessità e
2) la vita attiva come regno della libertà,
della facoltà di cogliere, creare e godere la bellezza.
Nella
transizione, superata l’estraniazione capitalistica, è fondante il regno della
necessità, il regno della produzione (il ricambio organico della società con la
natura), controllato però dalla collettività dei “produttori associati”, per
cui la necessità è subordinata alla teleologia sociale incarnata dall’intelligenza
associata dei produttori. Il lavoro, non più dominato da una “forza cieca”
predatoria, rimane lavoro determinato dalla necessità esterna, rimane una forma
di “costrizione”, in quanto gli esseri umani, per poter vivere, devono
lavorare.
Necessità e dovere sociale vengono a
coincidere.
Però
il lavoro non è più solo un peso, in quanto è portato sotto il comune controllo
dei produttori associati, non è una semplice appendice della vita che vale, ma
non è neanche il fondamento del valore della vita umana, è costituito delle
prestazioni d’opera basate su quanto è comune considerare necessario, per
soddisfare i bisogni funzionali alla realizzazione di una vita degna (bisogno
di cibo e acqua potabile, casa, abiti, gestione della salute e degli handicap,
istruzione, cura del corpo, non il bisogno di una villa al mare per le
vacanze).
Estinto
il rapporto di capitale, nel regno della necessità esiste un dovere sociale di
partecipare al labour, che si basa su una divisione del lavoro solo tecnica. Le
azioni di carattere strumentale, che costituiscono il lavoro necessario, vanno
equamente distribuite così che ognuno possa e debba fare la sua parte.
Tali
azioni costituiscono le condizioni necessarie perché l’essenza umana possa
realizzarsi, dato che lo sviluppo umano inizia quando i bisogni di base sonno
appagati.
Nel
regno della necessità opera il principio dell’uguaglianza dello scambio, viene
scambiato lavoro uguale per lavoro uguale, il lavoro viene misurato in base al
tempo di lavoro, ma con una ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi
rami della produzione.
Continua a sussistere il plus lavoro (che non
si trasforma più in capitale), di cui i lavoratori si appropriano, cioè il
lavoro eccedente la misura dei bisogni dati, l’eccedenza dei valori che hanno
creato rispetto ai valori che hanno consumato; quel valore in più disponibile
per lo sviluppo dei mezzi di produzione, della produttività generale del corpo
sociale, che è fonte della ricchezza. Mentre non si possono quantificare i
bisogni qualitativi, il qualitativamente diverso, (anche se il genere traspare
in ogni individuo), si assume che i bisogni di base siano quantificabili,
pressoché uguali, facilmente rilevabili. “Al di là del regno della necessità
comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno
della libertà” (Marx)
Il
concetto di “tempo di lavoro socialmente necessario”, impiegato nel regno della
necessità, tempo misurabile, che si manifesta nella sua rappresentazione
oggettiva, è inapplicabile nelle attività “libere”, come “oggettivazioni per
sé” (creazione e godimento artistici, ricerca scientifica, cura del corpo e
dell’ambiente, assistenza sanitaria, ecc.). Le attività proprie di quel regno
della libertà (basato sul regno della necessità), in cui si compie lo “sviluppo
dell’individuo sociale”, delle abilità e delle inclinazioni umane come fine in
sé, il regno della “emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità
umane”. La vita attiva comprende le attività relative alla complessa totalità
umana, all’essere “ricco di relazioni umane”, che costituisce la vera ricchezza
umana. attività che, liberate dall’essere mezzi per fini alienati, assumono
pienezza di significato. Parliamo di attività che danno agli oggetti, naturali
o prodotti, significati umani, dato che le caratteristiche di un oggetto (ad
es. un minerale) diventano reali per l’individuo se egli le può comprendere e
valutare criticamente, se possiede la sensibilità per afferrarle, se possiede,
ad es., il senso della bellezza. “Il senso costretto al rozzo bisogno pratico ha
soltanto una sensibilità limitata” (Marx). I sensi divengono raffinati (es.
“orecchio musicale”) via via che la realtà non è più colta come sfera della
semplice utilità (valore commerciale), ma come realtà segnata dall’attività
creativa, dall’energia vitale degli esseri umani. Nella vita attiva si
producono beni secondo le “leggi” della bellezza, opere con una sostanza
estetica ricreata nell’attività di godimento. L’essere umano è attivo per
soddisfare i propri bisogni non solo in senso economico, ma anche in senso
estetico. L’arte, il mondo delle forme, rappresenta un valore in quanto c’è un
bisogno che viene soddisfatto nella creazione e nel godimento di opere d’arte.
“La musica stimola…il senso musicale dell’uomo”, scrive Marx. L’educazione
estetica incrementa la ricchezza e l’intensità del piacere, nel socialista
regno della libertà l’essere umano, “convertito alla sua esistenza umana, cioè
sociale”, non ha una sfera di attività esclusiva, può perfezionarsi in
qualunque ramo.
Con il
socialismo si creano le condizioni per lo sviluppo dell’individuo sociale
ricco, tendono ad essere superati i bisogni impoveriti della personalità-merce,
dell’uomo alienato, la vita umana non è più condannata alla fatica (labor =
pena), ma è volta alla piena autorealizzazione dell’uomo (saperi, piacere e
partecipazione), che, nel corso del suo confronto storico con la natura e con
sé stesso, ha un fondamento naturale, è sia bisogno che valore dell’uomo.
Il
valore del tempo del lavoro necessario, quello misurabile, sta nel liberare
tempo disponibile, un tempo autentico, che esprime il senso soggettivo della
durata, significativo per seguire, ciascuno, le proprie vocazioni e anche per
svolgere le “attività superiori”, che non sono più produrre qualcosa di
vendibile, valutabile a listino prezzi, ma sono attività autogratificanti, fini
in sé, ad es. curare i beni comuni (consolidare colline per evitare frane,
piantare alberi, creare giardini…).
La
ricchezza materiale nella società dei produttori associati è dinamica; con la
crescita del capitale fisso la produzione materiale richiede sempre meno lavoro
vivo, per cui nel regno della vita attiva, si possono sperimentare nuove
possibilità formali, comunicative, cognitive, rimanendo essenziale il contatto
vivo con la materia, interrogare la materia, cercare nuovi materiali e
linguaggi da sperimentare.
Marx
scriveva: “Il tempo libero, che è sia tempo di ozio che tempo per attività
superiori, ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto
diverso…”. Il cambiamento di paradigma permette di spostare prestazioni
lavorative dal rango di lavoro necessario a quello di attività di
autorealizzazione umana. Un’idea di attività autogratificanti è già ora
fornita, pur nella loro ambiguità, dalle attività di “volontariato”, attività
non di mercato, che riguardano forme di assistenza, di protezione civile, di
sicurezza pubblica, di educazione, ecc.
Nel
liberal-capitalismo tutto è reso funzionale alla produzione di capitale, anche
il tempo libero è colonizzato dal capitale con l’industria del divertimento,
dell’intrattenimento. Invece, fermo restando che la società socialista continua
ad essere attraversata da diverse contraddizioni, nella transizione, svolto il
lavoro necessario, l’attenzione va rivolta all’uso umano del tempo, alla sfera
di quanto nella vita non è dominato dallo stato di bisogno, all’elaborazione di
quanto in essa è aperto alla libertà, alla cultura, che non si può vendere e
comprare, si può solo vivere.
L’abbondanza
di talenti e saperi, liberati dalla gabbia dei rapporti di classe
capitalistici, produce vigore, vitalità, disponibilità di risorse materiali e
cognitive, che vanno aggregate in progetti d’interesse comune, per far sì che
la comunità politica generale si adoperi affinché tutti i suoi membri vivano
una vita degna, per far fiorire al meglio nei cittadini gli aspetti a cui è
assegnato valore (ad es. al fatto che ciascuno svolga con dedizione l’attività
cui è incline). Il regno della vita attiva è retto da un principio-base: il
nostro tempo è la nostra vita, il lavoro è solo un’attività strumentale, mentre
l’attività umana “superiore” è sperimentazione, implementazione di abilità e
saperi in concreti progetti, mediante la messa in comune dei saperi, delle
informazioni e delle esperienze, la condivisione di mezzi di produzione fra
lavoratori, l’imparare gli uni dagli altri.
Nella
transizione rimane un punto fermo: la natura umana ha tratti diversi, benignità
e malignità, generosità e avidità, potenziali elementi che vanno gestiti, non
pensando di eliminare invidia, perversità, egoismo, ma ascoltandone le voci,
sempre controllandole e soprattutto incoraggiando benevolenza, generosità, un
clima di razionalità e collaborazione, con scelte comunitarie tali da
coinvolgere le comunità che eseguono i progetti, sostenuti dalle attività dei
partecipanti.
I
principi di una transizione al socialismo sul piano economico e sociale possono
essere così riassunti:
fonte
della produzione materiale è l’attività del General Intellect, che ha alla base
il lavoro scientifico;
la
proprietà collettiva dei principali mezzi di produzione, può avere una forma
pubblica e una forma comunitaria;
la
pianificazione economica, per la mobilitazione generale e l’uso razionale delle
risorse (forza-lavoro, materie prime, tecnologie, fonti energetiche …) per fini
comuni, può avere una forma accentrata per alcune risorse e comunitaria per
altre;
la
società produce in proporzione ai bisogni eliminando la casualità del mercato,
che deve operare entro limiti funzionali a più ampi e generosi obiettivi;
i
produttori associati fissano il tempo di lavoro necessario per ogni attività di
lavoro, ripartendo le forze produttive fra i diversi settori della produzione e
in vista degli investimenti pubblici;
il
credito è nazionalizzato-socializzato per lo sviluppo delle forze produttive,
della capacità accumulativa del sistema volta a produrre più risorse e ottenere
la piena occupazione;
nella
società va tenuto sempre aperto lo spazio di libertà, in cui la comunità
persegue le risorse del possibile, il processo di ricerca e di interrogazione,
l’esplorazione intellettuale del mondo, un laboratorio d’idee, da cui possono
emergere progetti aggreganti, idee di cui nessuno è “padrone”, perché ciascuno
può contribuire alla ricchezza dell’invenzione collettiva e disporre delle sue
risorse;
va
incoraggiato lo scambio di abilità e conoscenze diverse, l’aggregazione intorno
a progetti comuni (che non hanno un prezzo) di gruppi d’interesse (tra affini
che sviluppano particolari capacità e conoscenze) fra loro compatibili; progetti
da realizzare con beni strumentali, nei limiti del possibile, autoprodotti dai
partecipanti ai progetti, sufficientemente motivati dal piacere che l’attività
comporta;
va
sostenuta la cooperazione per la produzione di beni e servizi d’utilità sociale,
il lavoro concreto produttivo di valori d’uso, come sono i beni funzionali ai
progetti dei gruppi d’interesse (es. abiti teatrali, strumenti di laboratori
scientifici …), produzione limitata a ciò che serve a questi progetti;
vanno
coordinate le scelte economiche degli operatori per farle corrispondere ai
bisogni reali della società;
vanno
potenziate le capacità individuali per mezzo della partecipazione, attraverso
cui ci si sente responsabili del raggiungimento di obiettivi comuni.
La transizione
apre ad un ambiente vitale non più ristretto a merci e denaro, in cui abbiano
valore i beni inalienabili (virtù, amicizia, onore …) e sia possibile il
soddisfacimento delle esigenze sociali che non trovano espressione nel mercato
capitalistico; in cui il diritto alla felicità sia strettamente legato ai
doveri di fratellanza, un diritto complesso aperto alla problematicità della
condizione umana.
Il
socialismo riguarda una forma di vita in cui la felicità è irriducibile al
calcolo utilitaristico e consiste in processi acquisitivi di ricchezza
esistenziale, derivanti dall’attuazione di potenzialità e da nuove capacità
raggiunte mediante l’incremento bio-psichico. Una felicità, collegata alla
natura espansiva dell’uomo, che non si spegne nella sazietà, ma tende verso
beni esistenziali, relazionali, espressivi, beni di civiltà. Una forma di vita
in cui felice è colui che avverte che il suo essere si compie, che raggiunge i
fini che la natura gli indica, potendo affrontare la problematicità dell’esistere
e del convivere, che si risolve in ricerca su sé stessi e sul mondo. Scrive
Cerroni “il comune patrimonio della civiltà prolunga i nostri sensi e
intensifica e affina la nostra capacità di godere”.
Nel
socialismo, dunque, è necessario liberare la pienezza del possibile per il
ben-essere della comunità, irriducibile ad un ben-avere; avviare un percorso
per portare a sintesi giustizia e verità, bellezza e sapienza, utile e ludico,
perenne ed effimero, in un superiore equilibrio dinamico, in cui il soggetto
concreto esperimenta come totalità indivisibile, coscienza e corpo, tutto il
modo di sentire, di vivere, d’impegnarsi nel mondo.
Rimane
aperto il problema se la transizione vada subito organizzata su un piano
mondiale o se sia possibile temporaneamente avviarla dentro i confini
nazionali. Va ricordato che esistono storicamente esempi di Stati realmente
sovrani e indipendenti, che hanno potuto contare su una notevole
autosufficienza, riuscendo a sopravvivere per molte generazioni, senza cadere
nella barbarie, con scambi economici con l’estero ridotti al minimo,
rivalutando le priorità della comunità politica.
Che
fare?
Dalla
storia non ci sono vie d’uscita. Il problema che si pone oggi è come rianimare
la scena teorico-pratica e una soggettività dotata di pensiero forte e capacità
di stare dentro una nuova era?
La
fervida vena teorica neo-marxista, al di là dei differenti itinerari personali
dei tanti intellettuali e militanti, ha depositato una efficace strumentazione
per capire i tratti dell’attuale capitalismo post-moderno globalizzato e degli
attori che nel suo contesto agiscono, per capire le nuove forme del dominio e
dello sfruttamento da un lato e della soggettività di classe dall’altro.
Il
postmoderno è “lo stato delle cose presente”. Il capitale sembra non avere
nulla fuori di sé, appare l’unico soggetto sul terreno della produzione e della
comunicazione sociale, sembra aver realizzato il suo progetto, che Tronti negli
anni ‘60 aveva così descritto: “La storia politica del capitale è una sequenza
di tentativi di sottrarsi al rapporto di classe … tentativi della classe
capitalistica di emancipare sé stessa dalla classe operaia, per mezzo delle
varie forme di dominio politico del capitale sulla classe operaia”.
Il
capitalismo postmoderno, porta il segno della sconfitta operaia, di un’umanità
frammentata, dispersa. Il proletariato che cercava “una nuova affermazione
dell’io … possibile e forte e lieto e voglioso, ma negato dalle molte coazioni
senza senso che gli presentavano scuola e/o fabbrica, paese e /o città…”
(Rossanda), quel soggetto che voleva realizzarsi nella jouissance di sé nel
corpo collettivo, è occultato, stanco d’insicurezza, senza volto. Gli spazi del
desiderio di quel soggetto sono stati inglobati nell’angusto teatrino di un
privato asfittico, dedito al culto e ai lustrini della superficie di gara.
Il
capitale detiene il biopotere “di maggiorazione e di organizzazione delle forze
che sottomette: un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e
ad ordinarle … un potere che gestisce la vita” (Foucault), un potere di
gestione calcolatrice della vita, da cui prendere valore, potere d’estrarre
pluslavoro dai corpi e dalle menti, d’appropriazione di tempo e di capacità
umane. Potere d’estorsione del vigore biologico, delle forze umane potenziate,
rese utili dentro le diverse forme di business.
Le
classi non proprietarie sono sottoposte al potere del capitale, che conosce
solo la propria legge e s’avvale dell’estensione e dell’intensificazione dei
micro-poteri. La società civile, informatizzata, accelerata da una velocità che
sconvolge la percezione, automatizzata, rinchiusa in una omologazione
conformista e anestetizzante, non è più terreno d’iniziativa operaia. La
forza-invenzione, la creatività dei movimenti è stata ingoiata e messa a valore
dalle imprese dell’informatica, della società dello spettacolo, oscillante tra
sovreccitazione e depressione. I bisogni sono diventati comprimibili, ognuno,
abbandonato a sé stesso, per sopravvivere deve fare marketing di sé, darsi un
brand sul mercato, nella mescolanza di pezzi d’identità, senza armonia, in uno
scenario di “naufraghi” che stanno sulla difensiva nella società del rischio,
dominata dal “principato multimediale” e dal mercato come luogo ultimo di
verità, ossessionata dal furore dell’accrescimento e dalla coazione al consumo.
Se la
ricerca del senso rivela la direzione razionale della vita e della storia è
evidente che nel capitalismo postmoderno l’essere umano va perdendo il
controllo critico della propria esperienza, fluttuante nell’assolutismo del
mercato mondiale, che vuole entrare in ogni anima. L’essere umano è affetto da
spaesamento in una situazione atopica in cui può solo perdersi, dentro una
complessità ingovernabile che pretende d’essere ritenuta “naturale”.
Il
neo-marxismo ha rappresentato, come scienza della liberazione, l’alternativa
radicale rispetto ad una cultura ridotta a intrattenimento e conformismo
mortuario con intellettuali trasformati in funzionari del consenso; ha
insegnato che occorre una riappropriazione pubblica della comunicazione
sociale, una nuova dislocazione del potere nella società resa trasparente dai
flussi della comunicazione in rete, attraverso cui il sapere collettivo è messo
a disposizione della produzione;
uno
spostamento di poteri che faccia leva sull’intelligenza sociale, sulla
ricchezza di risorse estranee al capitale, affinché il possibile, futuro “Stato
del popolo” sia hegelianamente il livello più avanzato della cooperazione
sociale, per guidare il rivoluzionamento dei rapporti sociali, governare la
transizione dal punto di massima concentrazione del potere popolare, della
partecipazione democratica;
conquistare
la disponibilità del tempo sociale e far sì che si costituiscano concrete
comunità solidali, contro l’astrazione inumana del diritto borghese, del
denaro-capitale, degli esseri umani come merci, intercambiabili nella
prestazione di lavoro (“un uomo di un’ora” vale un altro uomo di un’ora);
comunità ove la comunicazione sociale si struttura attorno al tempo
qualitativo, ricco di differenze concrete di gusti, vocazioni, necessità e
desideri.
Nella
seconda metà degli anni’70 erano evidenti i mutamenti nella composizione della
classe sociale dei produttori: proletarizzazione del lavoro
tecnico-scientifico-informativo, presenza di una nuova forza-lavoro
(dipendente, parasubordinata, autonoma), di una nuova soggettività, inventiva,
creativa, intellettuale, totalmente astratta, portatrice di una nuova
razionalità, potenzialmente in grado di produrre entro nuove condizioni
socio-economiche. Un soggetto sociale capace di controllo critico della propria
esperienza, capace di transizione, di comprendere il comunismo possibile, di
definire un programma per rovesciare l’uso capitalistico della tecnologia e
della scienza.
Di
fronte alla Rivoluzione possibile s’è svolta la Controrivoluzione capitalistica
degli anni ’80, che ha assunto il postmoderno come veste ideologica (pluralismo
come pullulare di maschere per uno stesso spettacolo, quello della Merce), ha
innovato modi di produrre, forme di vita, immaginario collettivo, ha forgiato
gusti, attitudini, mentalità, per rilanciare il dominio assoluto del capitale.
Una controrivoluzione che ha determinato un lungo stato d’eccezione, ha
riconsiderato la società come un ordine “naturale” retto da leggi oggettive, ha
diffuso cinismo, opportunismo, paura.
Una
controrivoluzione orchestrata nelle riunioni a Davos o della Trilateral, sorta
di camere del capitalismo mondiale, delle sue imprese multinazionali e globali,
che si radunano attorno a precise tematiche,
s’interessano ai flussi economici complessivi che attraversano le
nazioni, esprimono una coscienza capitalistica della globalizzazione, dirigono
la finanziarizzazione dei rapporti sociali capitalistici (trasformare il
risparmio sociale in investimento finanziario) e presentano il capitale non
solo come comando, ma come stile di vita.
Oggi
il General Intellect è divenuto egemone nella produzione capitalistica. Il
lavoro cognitivo (immaginazione + libertà e cooperazione) è protagonista del
nesso tra informazione, saperi, comunicazione e produzione, è all’opera nella
produzione diretta, nell’industria della comunicazione, nei centri del comando
sull’intero processo di circolazione delle merci, nelle filiere della
logistica, ecc.; è forza-lavoro che si forma al di fuori del tempo misurabile
dal padrone, forza-lavoro precaria, in formazione ininterrotta, creativa, mobile
fra lavoro e non lavoro in un mercato del lavoro fluido, che ha in gran parte
perduto i momenti di sodalizio comunitario sperimentati fuori dagli spazi della
produzione diretta. Questa soggettività di classe è sparsa e ambigua, figlia
della cultura postmoderna del métissage, del rabberciare pezzi di identità e
valori, dell’opportunismo, di un mondo ridotto a mantello d’Arlecchino, ma è
depositaria di una costruttività radicale, su cui è possibile innescare il
progetto rivoluzionario, promuovendo e sostenendo le forme di antagonismo di
classe in grado di liberare le energie materiali, intellettuali, cognitive,
etiche, estetiche, per la costruzione del “comune”, capaci di porre, nella
maturità e crisi del capitalismo, il problema della fine del suo dominio,
capaci di costruire la transizione. Il Rinascimento ha scoperto la libertà del
lavoro, la vis viva, il materialismo l’ha interpretata, il capitalismo l’ha
soggiogata, oggi la vis viva dell’intellettualità di massa del lavoro
produttivo può costituire la forza affermativa, l’alternativa materialista alla
miseria del mondo postmoderno, alla “follia del capitale”. È possibile un
modello di società in cui non sia dominante la nuda vita del corpo-oggetto
sempre in scena, costretto ad adeguarsi allo stress competitivo del mercato. Ma
come si mettono insieme i “braccianti”, i “mezzadri”, gli “autonomi” del
capitale cognitivo, del capitale informatico, senza un modello organico di
misurazione del lavoro, di cooperazione produttiva e sociale, senza la messa in
comune di una forza capace di coltivare il bene comune in uno spazio vitale
unitario?
Abbiamo
un compito enorme, lasciamoci prendere dal suo fascino. La cupidità che nasce
da ragione non può avere eccesso. Ottimismo e piacere della ragione.
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