Troppo potere fa perdere la testa e il controllo ai governi globalisti Occidentali.

 

Troppo potere fa perdere la testa e il controllo ai governi globalisti

Occidentali.

 

 

NOVE TESI SULL’INTERNAZIONALISMO OGGI.

Euronomade.info - DAVIDE GALLO LASSERE – Redazione – (Mar. 31, 2023) – ci dice:     

 

Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie.

 È un errore.

 Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio:

 e il principio è la lotta di classe operaia.

(Mario Tronti)

Fin dal XIX secolo, l’internazionalismo è stato uno dei pilastri fondamentali dei movimenti rivoluzionari, siano essi antischiavisti, operai, anticoloniali o altro.

L’internazionalismo, come estensione del campo di lotta al di là dello Stato-nazione, è una delle tre caratteristiche principali dei movimenti comunisti, insieme all’abolizione della proprietà privata e allo smantellamento della forma-Stato.

Tuttavia, se si considera la vastità e l’importanza della storia dei movimenti inter- o transnazionali (a seconda che si snodino tra o oltre i confini nazionali), si rimane sorpresi dalla ricchezza del materiale empirico e storiografico rispetto a una certa povertà nella teorizzazione.

 In effetti, si potrebbe sostenere che l’internazionalismo, come fenomeno storico e politico, sia fondamentalmente sotto-teorizzato.

 Fino a che punto, ci si può allora chiedere, è possibile sviluppare, se non una filosofia politica, almeno una teoria sociale e politica dell’internazionalismo?

O, al contrario, possiamo andare oltre e immaginare che esistano un’ontologia e un’epistemologia specifiche dei movimenti inter e/o transnazionali?

 E poi, al di là dei vezzi nominali, quale o quali appellativi sono più adatti: inter-nazionalismo o trans-nazionalismo?

Internazionalismo subnazionale o transnazionale (Van der Linden, 2010)?

 Locale o globale (Antentas, 2015)?

Forte o debole (Antentas, 2022)?

 Materiale o simbolico?

Rivoluzionario o burocratico?

 Comunista o liberale? Operaio? Femminista? Antirazzista? Ecologista? L’internazionalismo è un mezzo o un fine in sé?

E naturalmente l’elenco potrebbe continuare…

 

Tuttavia, ciò che è altamente significativo, oggi più che mai – in un momento di grande crisi economica e sociale, in cui tornano a soffiare i venti di guerra tra le potenze mondiali, in un mondo post-pandemico e surriscaldato – è il fatto che la questione strategica dell’internazionalismo stia tornando in primo piano all’interno dei movimenti sociali e politici:

cresce la consapevolezza che non si possono sconfiggere queste forze ostili combattendo in ordine sparso, ognuno per sé, confinati nel perimetro dei nostri Stati nazionali, o rimanendo ancorati ai territori, mettendo in atto esclusivamente delle pratiche micro-politiche.

È necessario poter intervenire allo stesso livello di tali processi, i quali sono per definizione globali e planetari.

Per far ciò, dobbiamo dunque essere in grado di sviluppare ragionamenti e pratiche all’altezza delle sfide poste dalla geopolitica, dai meccanismi di governance, dal mercato globale, dal cambiamento climatico, ecc.

Ma nella storia dei movimenti radicali e rivoluzionari, tali ragionamenti e pratiche vanno sotto il nome di internazionalismo e, in misura minore, cosmopolitica.

 Ecco perché oggi sembra più importante che mai ripensare l’internazionalismo.

 La buona notizia è che non partiamo dal nulla.

 Infatti, gli anni 2010 sono stati costellati dall’esplosione di numerose rivolte e sommosse contro le conseguenze radicalmente antisociali e antidemocratiche delle varie crisi (economica, politica, sanitaria, climatica, ecc.).

 La cattiva notizia è che il decennio in corso e quelli a venire sono e saranno sempre più stravolti dall’inasprimento degli scontri geopolitici e dall’approfondimento delle tendenze alla catastrofe ecologica.

 I cicli di lotta futuri sorgeranno in un mondo sempre più sconvolto da contraddizioni e antagonismi evidenti.

 E saranno costretti a operare in questo mutato contesto.

Quelle che seguono non sono quindi che nove semplici tesi, elaborate a partire da alcune esperienze francesi ed europee, con l’obiettivo di sottolineare quelli che potrebbero essere considerati i punti di forza e le carenze dei movimenti globali degli anni 2010.

Esse vogliono essere allo stesso tempo un piccolo e parziale contributo al dibattito politico immanente a questi movimenti, ma anche un tentativo preliminare e non esaustivo di inquadrare in modo originale la questione dell’internazionalismo, in modo da rileggere in controluce i duecento anni di storia delle lotte inter- o transnazionali, dalle risonanze mondiali del 1789 al ciclo alter-globalista, passando per le date simboliche del 1848, 1917 e 1968.

 

Tesi 1. Ontologia I: Fabbrica terrestre.

Le lotte sociali e politiche sono al centro della transizione all’Antropocene.

In quanto motori dello sviluppo capitalistico, sono cruciali per comprendere i processi che definiscono le molteplici crisi ecologiche contemporanee.

 Detto altrimenti:

 l’esplosione delle emissioni di CO2 nell’aria e la progressiva distruzione della natura sono intimamente collegate alle lotte di classe e anticoloniali;

sono un “effetto collaterale” della risposta capitalista alle impasse indotte dalle pratiche di resistenza e contro soggettivazione dei subalterni.

 Il riscaldamento globale, ad esempio, è il risultato degli antagonismi tra gruppi umani e in quanto tale esso alimenta ancor più le tensioni sociali, economiche e politiche.

 Questa è l’idea di base di parte della storiografia eco-marxista, la sua diagnosi del presente e le sue prospettive di rottura futura.

Il cambiamento di temperatura sulla Terra – determinato in primo luogo dall’uso capitalistico dei combustibili fossili – è un prodotto impuro dei conflitti sociopolitici passati e presenti.

Sia che si assuma uno sguardo sincronico e globale, sia che ci si concentri sull’Inghilterra (pre)vittoriana, resta chiaro che la lotta di classe è fondamentale.

Dalla metà del XIX secolo e in tutto il mondo, l’adozione dei combustibili fossili come fonte energetica primaria dell’accumulazione del capitale è stata infatti imposta con la forza in reazione al rifiuto del lavoro e all’appropriazione della terra da parte dei lavoratori e dei colonizzati;

è la combattività degli sfruttati ad aver portato il capitale e i governi a introdurre prima il carbone e poi il petrolio e il gas.

Come mostrano mirabilmente Andreas Malm (2016) e Timothy Mitchell (2013), il passaggio dal carbone al vapore intorno al 1830 e dal carbone al petrolio intorno al 1920 sono meglio compresi come progetti politici che rispondono a interessi di classe piuttosto che come necessità economiche proprie delle dure leggi del mercato.

Ciò che forse non viene sufficientemente sottolineato da questi studiosi è il fatto che le misure messe in atto dalle classi dominanti per domare il conflitto hanno comportato non solo cambiamenti socio-energetici, mutazioni tecno-organizzative e riconfigurazioni geo-spaziali, ma anche una più consistente socializzazione delle forze produttive e una crescente integrazione della natura nelle maglie del capitale.

 In questo modo, la Terra – e non solo la società – si è trasformata sempre più in una sorta di gigantesca fabbrica.

 Oggi, infatti, una quantità crescente di relazioni sociali e naturali è direttamente o indirettamente sottomessa al capitale.

 Dall’istruzione e dalla salute della forza lavoro alla miriade di esternalità positive fornite gratuitamente dall’ambiente, dalle piante e dagli animali, oggigiorno quasi nulla sfugge più alla logica del profitto.

 (Tutto diretto dai ricchi globalisti guerrafondai ora infiltrati dalle truppe neo-marxiste! N.d.R.)

E il dominio della produzione sociale sulla riproduzione naturale sta alterando gli equilibri ecosistemici, al punto da mettere a rischio le condizioni stesse della sopravvivenza della specie.

Di conseguenza, l’internazionalismo stesso richiede una revisione radicale.

 Se, infatti, la globalizzazione del commercio e della produzione ha costituito la base materiale dell’internazionalismo abolizionista e operaio, e se la dimensione mondiale dell’imperialismo ha rappresentato l’arena geopolitica dell’internazionalismo anticoloniale, gli effetti planetari delle crisi ecologiche configurano l’intera Terra come teatro dei nuovi scontri in corso.

 Questo cambio di paradigma, tuttavia, non implica semplicemente un allargamento di scala e una complessificazione del quadro di riferimento, ma comporta una vera e propria rivoluzione nelle nostre abitudini di pensiero e di azione.

Ecco perciò la prima tesi socio-ontologica attraverso la quale si può elaborare un internazionalismo adeguato alle sfide poste dall’Antropocene:

 all’interno della fabbrica terrestre – essa stessa frutto di precedenti cicli globali di lotte – non ci sono solo gruppi contrapposti di esseri umani che lottano l’uno contro l’altro, ma anche i non-umani e i non-viventi partecipano a pieno titolo alla tragedia storica in corso.

 Infatti, la distruzione di ecosistemi, ambienti, nature, ecc. in una parte del mondo produce sempre più spesso cicli di retroazione imprevedibili con effetti catastrofici in regioni completamente diverse.

 E gli ambienti e le entità sconvolte dall’impronta umana sono sempre meno dei semplici sfondi inerti;

 la loro irruzione violenta sulla scena politica, come nel caso della pandemia di Covid-19, spesso polarizza ancor più gli antagonismi, senza necessariamente aprire scenari rosei.

Tesi 2. Epistemologia: Composizione socio-ecologica.

 

L’inclusione dell’altro-che-umano non solo nella scacchiera politica, ma come scacchiera politica ribalta le carte in tavolo, e non di poco.

Tra le varie cose, uno sconvolgimento di portata così generale è di grande importanza per l’annosa questione della classe, della sua composizione e organizzazione.

 Secondo una “corrente calda” del marxismo che va dagli scritti storico-politici di Marx all’operaismo italiano, non esiste classe senza lotta di classe.

Questo assunto attribuisce un primato ontologico alla soggettivazione politica rispetto alle determinazioni socioeconomiche.

Mario Tronti (2013) ha raccontato questa epopea antagonista, i cui protagonisti – operai e capitale – incarnano i caratteri mitici di una filosofia della storia culminante nella società senza classi.

Se la fiducia in un futuro radioso non appare più appropriata, tale approccio relazionale, dinamico e conflittuale alla realtà di classe è oggi ancora valido.

Contrari a qualsiasi visione sociologizzante e/o economicistica, gli operaisti non si sono mai accontentati di mere descrizioni empiriche volte a sviscerare la collocazione oggettiva dei soggetti all’interno delle strutture sociali.

Per loro, il passaggio dal proletariato alla classe operaia non è avvenuto automaticamente sulla base di una semplice concentrazione di massa di lavoratori all’interno delle grandi fabbriche del XIX secolo.

 Al contrario, è stato il risultato di un salto interamente politico-organizzativo e di autocoscienza.

Per riconoscere e spiegare tale cambiamento qualitativo, gli operaisti hanno forgiato il concetto di composizione di classe, il quale chiarisce le differenze materiali e soggettive che caratterizzano la forza-lavoro e che devono essere prese in considerazione nella questione dell’organizzazione.

La composizione di classe, infatti, è lo strumento analitico e politico che ha permesso prima di tutto, attraverso le inchieste operaie, di distinguere diverse soggettività all’interno della classe operaia (l’operaio di mestiere, l’operaio-massa) e poi di estendere l’appartenenza a tale categoria a soggettività che andavano oltre la forma salariale classicamente intesa (la casalinga, il lavoratore precario, ecc.).

 In questo modo, il concetto di classe ha cessato di essere una sorta di passe-partout politico e discorsivo, per trasformarsi in un vero e proprio campo di battaglia, attraversato da interessi materiali e prospettive politiche non sempre ricomponibili.

Se un aggiornamento dell’analitica della composizione di classe appare oggi più indispensabile che mai per cogliere la moltiplicazione dei rapporti di lavoro e la loro compenetrazione con le oppressioni di genere e di razza, essa non può più limitarsi ai processi di sfruttamento e resistenza interumani.

Negli anni successivi, infatti, studiosi e attivisti hanno superato le tradizionali analisi della composizione tecnica e politica (le relazioni dei lavoratori con le macchine e le tecniche, e i processi di soggettivazione politica), cominciando a parlare di composizione sociale e spaziale, al fine di integrare nella matrice composizionista le sfere della riproduzione sociale e dell’appartenenza territoriale.

Tale innovazione è risultata importante per pensare a forme di solidarietà transnazionale tra coloro che vivono e si oppongono a logiche di dominio di diverso tipo e a grande distanza gli uni dagli altro.

Oggi, però, dobbiamo fare un passo in più.

Infatti, come hanno illustrato con grande efficacia “Léna Balaud” e “Antoine Chopot” (2021) attraverso un’enorme varietà di casi, non siamo i soli a praticare la politica delle rivolte terrestri.

Di conseguenza, così come il capitale ha progressivamente imparato a valorizzare in termini monetari non solo la forza-lavoro, ma anche le relazioni sociali al di là del luogo di lavoro e una miriade di elementi della natura umana ed extraumana, allo stesso modo dobbiamo imparare a valorizzare politicamente non solo le nostre singolarità collettive, ma anche l’attivazione di poteri privi di intenzionalità e la cui mobilitazione non produce sempre delle ricadute emancipatrici.

(I neo marxisti, presenti in forze nella teoria della globalizzazione, non hanno compreso che ai ricchi globalisti interessa solo la cooperazione sociale e teorica con il marxismo. Il definitivo mondo creato dai ricchi globalisti è solo la completa cancellazione non solo della classe operaia marxista, ma la totale distruzione dell’umanità. E questo non era stato previsto da Marx. N.d.R.)

 Ciò conduce alla seconda tesi:

 d’ora in poi qualsiasi internazionalismo coerente ed efficace deve necessariamente presentarsi come una cosmopolitica, basandosi su una comprensione allargata dell’agency politica – o, per dirla con Paul Guillibert (2021), del “proletariato vivente”.

Tale rottura fondamentale non implica solo ancorare la politica all’ecologia e alla terrestrità, ma anche riconoscere il nucleo ibrido di qualsiasi coalizione, ben aldilà di ciò che l’intersezionalità delle lotte è stata in grado di concepire e praticare, con la sua articolazione e sincronizzazione delle interdipendenze di classe, genere e razza.

 Di conseguenza, la soggettività e l’identità dei collettivi coinvolti dovranno lasciarsi rimodellare alla radice, poiché qualsiasi alleanza di questo tipo implica un drastico ripensamento dell’antropocentrismo che ha caratterizzato sino ad oggi e la politica internazionalista e la visione del mondo storico-naturale di molti movimenti sociali.

Tale è l’enigma da sciogliere della composizione socio-ecologica di classe.

(Ma di quale classe stiamo parlando se i ricchi globalisti hanno ormai assaporato ciò di cui avevano bisogno per sterminate l’intera umanità:

inserire nella “nuova religione globalista la teoria marxista della nuova lotta di classe”: ossia i ricchi globalisti che sfruttano i poveri e i deprivati di tutto! N.d.R.)

Tesi 3. Geopolitica: (Critica dei) dualismi.

Nel XX secolo la lotta di classe è assurta al livello di scontro geopolitico:

prima con la trasformazione sovietica nel 1917 della guerra mondiale inter imperialista in guerra civile rivoluzionaria, poi con gli interventi occidentali e giapponesi del 1918 nella guerra civile russa e infine con la fondazione nel 1919 della Terza Internazionale, o Internazionale Comunista.

Tale situazione di guerra di classe globale, nonostante i numerosi rovesci e punti di svolta, si è cristallizzata nella Guerra Fredda, con il consolidamento delle due macro aree in competizione e il conseguente tentativo del movimento dei non-allineati di sottrarsi a tale rigida bipartizione del pianeta.

 La configurazione attuale è per molti aspetti drasticamente diversa, soprattutto per quanto riguarda i temi del dualismo e della catastrofe.

 Infatti, con la prospettiva della guerra nucleare sempre presente, la seconda metà del XX secolo ha comportato la divisione del mondo in due campi geopolitici e l’assegnazione di continenti e nazioni all’uno o all’altro.

Al contrario, il disordine globale emerso dopo l’11 settembre e la fine della cosiddetta pax americana non contrappone più un blocco a guida liberal-capitalista a uno alternativo, sotto la cui egida si suppone possano prosperare forze radical-progressiste o addirittura rivoluzionarie.

Per il momento, più ci addentriamo nell’Antropocene, meno vediamo all’orizzonte grandi spazi capaci di catalizzare processi emancipatori su larga scala.

A trentacinque anni dalla caduta della cortina di ferro, il mondo è certamente diventato meno unipolare, ma il lento declino dell’egemonia occidentale è andato di pari passo con uno scenario geopolitico sempre più instabile, caotico e pericoloso, in cui i pretendenti a una ridefinizione degli assetti di potere sono sempre più assertivi.

 L’arresto del disarmo si accompagna infatti oggi a una folle corsa all’accaparramento di risorse preziose e di sbocchi di mercato, ma anche di soft e hard power, oscurando le prospettive di transizione verso un modello socio-economico ecologicamente sostenibile in cui i rapporti di forza geopolitici siano più equilibrati.

L’esacerbazione delle tensioni inter-imperialiste in un mondo sempre più multipolare, lungi dal sostenere la formazione di movimenti di resistenza/alternativi, può non solo rafforzare le tensioni autoritarie dei capitalismi occidentali, ma accentuare ulteriormente le tendenze bellicose e militariste volte a ridisegnare le linee di faglia geopolitiche dell’inizio del XXI secolo.

In una simile congiuntura globale, è chiaro che la (ex) superpotenza statunitense e i suoi alleati non detengono più il monopolio dell’iniziativa tramite le loro mani armate militari (NATO) e finanziarie (FMI):

Cina e Russia, così come numerosi altri Paesi e attori non-statali, si sottraggono sempre più ai diktat occidentali, alimentando tendenze centrifughe che non porteranno necessariamente ad un miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne o dell’abitabilità del pianeta.

 Al contrario, gli antagonismi geopolitici in corso incitano sempre più Stati ed imprese all’appropriazione sfrenata di materie prime e combustibili fossili, all’attraversamento delle frontiere e all’invasione di spazi dentro e fuori i propri confini nazionali.

 Da questo punto di vista, non solo le frontiere del capitale e della sovranità statale si sono smarcate rispetto alla stretta relazione di cui godevano durante l’era moderna, ma le ripercussioni negative di tali operazioni estrattive non riguardano più, come nell’imperialismo tradizionale, principalmente le popolazioni locali, bensì hanno un impatto immediato su scala planetaria.

 Infatti, le guerre attuali, ancor più di quelle passate, manifestano una dimensione geo-ecologica, di cui le lotte anti-estrattiviste dei popoli indigeni costituiscono spesso il fronte più avanzato.

 Sebbene nella loro ormai secolare storia anticoloniale esse non si siano rappresentate come ecologiche in sé e per sé, esse assumono un nuovo significato proprio alla luce del riscaldamento globale.

(Il riscaldamento globale dipende solo dal sole. Finiamola di far credere ad una orrenda bufala propagandata dalla santa Greta, finanziata dalla élite globalista straricca! N.d.R.)

Terza tesi, dunque:

oggi l’internazionalismo, nella sua dimensione costitutivamente antimperialista, non può che tingersi di verde, poiché nell’Antropocene l’invasione di spazi e territori non avviene più solo manu militari, con mezzi anfibi e aerei, ma si realizza in modo molto più insidioso, ramificato e persistente attraverso l’inquinamento dei suoli, dei mari e dei cieli e attraverso la devastazione multi scalare degli equilibri ecosistemici.

Tale quadro richiede almeno due precisazioni:

 1. l’abbandono definitivo della vecchia logica campista tale per cui il nemico del mio nemico è mio amico – abbiamo infatti molteplici nemici in guerra tra loro, dentro e fuori i confini degli Stati nazionali in cui viviamo e aldilà delle rispettive sfere di influenza geopolitica;

2. la necessità di collegare le lotte territoriali contro l’estrattivismo, ovunque esse si svolgano (Nord o Sud America, Cina o Russia, Europa o Oceania, Africa o Medio Oriente), a quelle dei migranti climatici e per la giustizia ambientale e climatica.

Ma questa triangolazione virtuosa può essere realizzata solo su scala transnazionale, ben oltre i confini della cosiddetta” Nuova guerra fredda”.

 

Tesi 4. Geografia: Composizione spaziale e circolazione transnazionale.

Secondo la visione dominante, dopo il crollo del socialismo reale si sarebbe instaurato un gioco a somma zero in cui “più globalizzazione” equivale a “meno confini”.

In questa prospettiva, l’allentamento delle barriere tra gli Stati nazionali (accordi di libero scambio, trasferimenti di tecnologia, liberalizzazione degli investimenti diretti esteri, integrazione dei sistemi di produzione, costruzione di spazi istituzionali sovranazionali, ecc.) segnalerebbe in modo inconfutabile la graduale erosione di significato delle frontiere.

In realtà, dopo la caduta del Muro di Berlino, i confini si sono moltiplicati e diversificati.

Come mostrano brillantemente “Sandro Mezzadra e Brett Neilson” (2014), non solo le tendenze alla “denazionalizzazione” sono state bilanciate da controtendenze alla “rinazionalizzazione”, ma i confini si sono moltiplicati ed eterogeneità.

 Se da un lato la deregolamentazione finanziaria ed economica è andata di pari passo con il rafforzamento delle forze di polizia e di sicurezza, dall’altro il mondo ha vissuto un’esplosione di spazi intra e transnazionali:

zone economiche speciali, corridoi logistici, distretti finanziari, enclave estrattive e così via.

Negli interstizi tra questi siti e lungo le linee di demarcazione che tracciano i contorni delle geografie sociali contemporanee, la sovranità nazionale così come è stata elaborata nel corso della modernità è stata significativamente superata e i capitalismi contemporanei hanno assunto nuove costituzioni materiali.

(la sovranità nazionale è stata calpestata dai ricchi globalisti occidentali aiutati dalla aggiunta “Nuova cricca culturale marxista”. N.d.R)

Attualmente, infatti, il paesaggio globale non solo sembra traballante, ma appare anche fondamentalmente composito e in costante riconfigurazione.

Inoltre, la materialità ontologica dell’attuale capitalismo globale ha superato le distinzioni binarie tra Occidente e resto del mondo (the West and the rest), costringendoci a riconsiderare i presupposti epistemologici delle teorie del sistema-mondo e delle teorie dello “sviluppo ineguale e combinato”.

 Le descrizioni delle relazioni geoeconomiche e geopolitiche del (neo-)colonialismo e del (neo-)imperialismo proposte da questi approcci si basano infatti il più delle volte su una concezione rigida della divisione inter-nazionale del lavoro, o addirittura su dicotomie topografiche che oppongono direttamente il “centro” alle “periferie” o “semi-periferie”.

La fase più recente della globalizzazione, invece, sta generando un nuovo intreccio tra ciò che per lungo tempo è stato rigidamente gerarchizzato, vale a dire:

 una tendenza a diventare Nord di (certe parti del) Sud e una tendenza a diventare Sud di (certe parti del) Nord.

Questo sconvolgimento geografico non ha tardato a manifestarsi sul piano politico.

Dal punto di vista della composizione spaziale e della circolazione transnazionale delle lotte, i movimenti degli anni 2010 sono riusciti a rompere ogni rigida schematizzazione tra Nord e Sud globale – una distinzione che, come abbiamo detto, è parzialmente sempre più obsoleta per la stessa accumulazione del capitale.

 Le occupazioni delle piazze, ad esempio, sono partite dalla costa meridionale del Mediterraneo per circolare in gran parte del Maghreb e del Medio Oriente, passando poi per la Grecia e la Spagna, per attraversare infine l’Oceano Atlantico e arrivare negli Stati Uniti, prima di riemergere due anni dopo in Turchia e in Brasile.

 Il nuovo movimento femminista globale ha avuto una traiettoria di simile portata: nato in Polonia e Argentina nell’autunno del 2016, ha presto raggiunto gli Stati Uniti, la Spagna e l’Italia, poi la Turchia e molti altri Paesi dell’America Latina, prima di esplodere nel fenomeno globale del #metoo.

 E anche se prendiamo un caso sui generis come quello dei “Gilet Gialli”, possiamo vedere come le tradizionali geografie della politica francese siano state stravolte: la mobilitazione emersa dalle aree periurbane, dalle periferie vicine e diffuse (i margini interni della Repubblica) è stata subito accolta con grande entusiasmo nei territori d’oltremare (i “resti” dell’impero coloniale), e successivamente – soprattutto durante le manifestazioni del sabato – nei cuori dorati di tutte le più grandi città francesi.

(La nuova cultura neo-marxista è stata fatta propria dalla élite globalista inserita nella parte “dorata” delle grandi metropoli occidentali! N.d.R.)

Inoltre, è una simile lezione che si trarre da una rivolta straordinaria come quella delle proteste contro la violenza della polizia negli Stati Uniti nella primavera del 2020: all’interno del “cuore” stesso dell’Impero, le persone razzializzate devono lottare contro l’eredità tutt’ora in corso della schiavitù, cioè il carattere strutturale del razzismo e della supremazia bianca.

(La schiavitù del genere umano sarà il primo concetto pratico che la nuova cultura marxista dovrà spiegare alle masse omogeneizzate dalle truppe globaliste del nuovo regno dei ricchi! N.d.R.).

 La quarta tesi potrebbe quindi essere espressa come segue:

 la vecchia coincidenza stabilita dall’operaismo tra composizione tecnica e politica (Lenin in Inghilterra), così come il vecchio credo leninista/terzomondista, non sono più attuali;

ora non possiamo pensare di puntare tutto politicamente sul “punto più avanzato dello sviluppo capitalistico” o, al contrario, sull'”anello più debole del comando imperiale”.

La composizione spazio-temporale del capitalismo contemporaneo richiede un cambiamento di prospettiva.

 I casi citati ci mostrano che d’ora in poi non possiamo più stabilire aprioristicamente un sito (il Nord o il Sud, l’Ovest o l’Est, la metropoli o la “campagna”) come spazio privilegiato da cui nasceranno le lotte.

Il mondo di oggi è molto più complesso e interconnesso rispetto al passato e lo stesso vale per la composizione spaziale e la circolazione transnazionale delle lotte.

 

Tesi 5. Ontologia II: Sulla dialettica particolare/universale.

 

Il capitale è una forza storica che omogeneizza e differenzia;

 fin dagli albori della modernità, si sviluppa su scala globale attraverso operazioni universalizzanti, che tuttavia non riducono mai alla completa uniformità i territori e le soggettività su cui esercita il potere.

Al contrario: il capitale produce sia identità che singolarità;

è una relazione sociale generale che si esprime in modi specifici a seconda dei contesti storico-geografici e politico-economici.

In tal senso, il capitale manifesta una tendenza totalizzante senza mai dare luogo a una vera totalità, pienamente realizzata e racchiusa in sé stessa.

 È, infatti, costitutivamente caratterizzato da un legame intimo con l’esterno, con ciò che lo supera e si trova al di fuori di esso.

E sono proprio tali esternalità a sostanziare la contingenza e l’eterogeneità in cui di volta in volta si incarna.

La sua poliedricità è quindi data dalla capacità di adattarsi alla varietà delle situazioni, traendo vantaggio dalla pervicace diversità dei fattori oggettivi e soggettivi che gli si presentano dinnanzi.

 Attraverso le sue continue spinte espansive – estensive (o orizzontali) e intensive (o verticali) – esso tende costantemente ad assorbire e produrre nuovi spazi, risorse e ambienti, soggiogando al contempo, per quanto possibile, nuove forze del lavoro (Silver, 2008).

Se non incontrano resistenza, infatti, le spirali tridimensionali della valorizzazione si allungano sempre più verso l’esterno e si densificano sempre più verso l’interno.

Le frontiere mobili del “Gesamtkapital”, tuttavia, nella loro incessante necessità di assorbire nuovi elementi naturali, sociali e umani, incontrano dei limiti alla loro crescita.

 Ma tali limiti non sono sempre e solo determinati da contraddizioni oggettive e immanenti – variazioni nella composizione organica, obsolescenza tecnologica e organizzativa, esaurimento di alcuni mercati, diverse forme di concorrenza, e così via.

Essi possono anche trascendere, per quanto parzialmente, tali contraddizioni e assumere una natura soggettiva e politica.

In quanto relazione sociale, il capitale è infatti intrecciato per definizione con l'”alterità”.

La fenomenologia dei suoi “altri” è piuttosto copiosa:

una natura sempre più storicizzata, tutta una serie di campi, sfere e domini sociali che resistono alla più completa mercificazione, ma anche e soprattutto il lavoro-vivo e i comportamenti d’insubordinazione.

Ora, nel corso dell’ultimo decennio, abbiamo assistito all’emergere sulla scena globale di diversi cicli di mobilitazione che hanno ripreso a loro volta la dialettica del particolare e dell’universale che caratterizza, sia da un punto di vista logico che storico, l’accumulazione capitalistica.

 In molti casi, infatti, negli ultimi dieci anni i movimenti hanno cercato di unire delle lotte mirate a dei progetti di più ampia trasformazione sociale.

 Che si trattasse del rovesciamento di un tiranno, dell’opposizione a una ristrutturazione sociale austeritaria, della rivolta contro gli effetti della speculazione finanziaria, della protesta contro un piano di riqualificazione urbana, della contestazione dell’aumento dei costi dei trasporti pubblici, della lotta contro la violenza sessuale e di genere, della battaglia per aggirare i regimi di frontiera, o della frustrazione generalizzata per l'”alto costo della vita”, le ingiustizie fiscali, la brutalità della polizia, la corruzione del sistema politico, il negazionismo climatico e pandemico, ecc., i movimenti emersi nel corso degli anni 2010 hanno cercato di andare oltre i quadri (più o meno ristretti) delle loro lotte specifiche per sfidare la crisi del sistema capitalista nel suo complesso e le sue ricadute antisociali, antidemocratiche e anti ambientali.

 Nonostante tutti i loro limiti e le loro difficoltà, molto spesso essi sono stati in grado di mostrare il carattere strutturale delle forme di dominio contro cui lottano, rimanendo sempre capaci di elevare la generalità delle prospettive politiche a partire da rivendicazioni specifiche.

 

 Quinta tesi: questo ci mostra come nessuna singola istanza possa aspirare apriori ad occupare il centro della scena, determinando i ritmi e le poste in gioco delle rivolte e spingendo tutti a ricomporsi attorno ad essa:

i diritti sociali e politici, certo, ma anche le tanto decantate “identity politics “o, ancora di più, le molteplici sfaccettature della crisi ecologica:

ognuna di queste cause, nel vivo degli eventi, può di fatto fornire un punto di raccolta attorno al quale lanciare ampie dinamiche di mobilitazione… potenzialmente capaci di determinare una rottura storica!

Sono quindi i punti di forza e i limiti/le debolezze dei movimenti realmente esistenti che vanno considerati, esaminando nel dettaglio e da un punto di vista radicalmente immanente la particolarità di ogni situazione concreta, senza rimpiangere i bei tempi in cui i movimenti sociali e rivoluzionari osavano realmente far paura allo Stato e male al capitale.

 

Tesi 6. Pratiche I: Resistenza e prefigurazione.

Queste osservazioni ci portano a riprendere questioni che hanno a lungo assillato le forze rivoluzionarie del XIX e XX secolo:

ad esempio, l’opposizione tra riforma e rivoluzione, l’articolazione tra tattica e strategia, il rapporto tra sindacati, partiti e movimenti sociali.

 Come appaiono oggi il ruolo e la consistenza dell’idea di democrazia, di fronte all’aggravarsi delle crisi, all’ascesa dell’estrema destra e alla svolta autoritaria dello Stato?

In che modo un mondo pandemico e soggetto a riscaldamento globale accelerato ci obbliga a ripensare il rapporto tra pratiche antagoniste e istituenti?

In che misura gli scenari di guerra permanente e la nuova situazione geopolitica ci spingono a porre in modo nuovo problemi pratici e organizzativi?

Questi temi contribuiscono a delineare un panorama drammatico in cui la politica dell’antipotere e la politica della presa di potere devono essere ripensate alla luce dell’urgenza cronica – l’unico orizzonte insuperabile del nostro tempo.

Non è un caso, quindi, che i movimenti sociali contemporanei cerchino di lavorare nella direzione di una pluralizzazione delle prospettive, intrecciando, da un lato, le lotte sociali, politiche, ecologiche, transfemministe e decoloniali nel Nord globale con quelle nel Sud globale e, dall’altro, combinando diversi repertori di azione: manifestazioni, scioperi, blocchi, accampamenti, occupazioni, rivolte, sabotaggi o campagne elettorali.

E infatti, nell’ultimo decennio i movimenti antirazzisti, ad esempio, non hanno esitato a sperimentare una molteplicità di tattiche (confronto con le forze dell’ordine, sommosse, saccheggi, incendi, ma anche occupazioni di spazi pubblici, costituzione di assemblee basate sulla democrazia diretta, processi per l’ottenimento di verità e giustizia), per svelare le molteplici stratificazioni del razzismo (nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle carceri, nell’accesso all’assistenza sanitaria, alla casa, ecc.) a partire dagli omicidi di giovani uomini non-bianchi da parte della polizia.

Per quanto riguarda le rivolte popolari del 2018-19, la maggior parte delle quali è stata innescata dall’aumento dei prezzi dei beni e dei servizi di base, i picchi insurrezionali, i blocchi dell’economia e delle metropoli e l’invenzione di forme orizzontali di auto-organizzazione sono stati in grado di tenere insieme conflittualità e contropotere, chiedendo più denaro e riappropriandosi la politica. Lo stesso vale per diversi movimenti trans femministi ed ecologisti:

la volontà di opporsi al patriarcato o di lottare contro lo sfruttamento indiscriminato della natura non solo non esclude, ma anticipa l’autentica liberazione del desiderio e la sperimentazione concreta di forme di vita quotidiana alternative, in cui le interazioni interpersonali e le relazioni con l’ambiente e gli altri esseri viventi non riproducono le logiche di potere oggi prevalenti.

 Queste espressioni di resistenza e di alternativa, di offensività e autodifesa, di creazione di legami e costruzione di spazi di autonomia, costituiscono esempi molto concreti e produttivi di potere politico, i quali si concretizzano nella combinazione di due logiche largamente complementari:

 1. l’efficacia immediata dell’opposizione allo Stato, ai padroni e alle forze dell’ordine;

 2. il lavoro di costruzione, a breve/medio termine, di aree di autonomia e luoghi capaci di sperimentare contro istituzioni non-sovrane e anticapitaliste, nei quali organizzare spazi di concentrazione diffusa della forza.

Ecco allora la sesta tesi:

 nella maggior parte dei casi, per i movimenti sociali contemporanei la necessità di resistere a molteplici relazioni di dominio (in casa, al lavoro, nelle strade, nei quartieri, nei territori, ecc.) non è dissociata dalla volontà di affermare nuovi modi di vivere nel mondo e con gli altri, alludendo, anche solo implicitamente, alla dissoluzione di molte dicotomie che hanno strutturato la tradizione rivoluzionaria, come quelle tra:

centralizzazione e decentralizzazione, unità e diversità, macro politica e micro politica, partito e movimento, organizzazione e spontaneità, egemonia e autonomia, e così via.

Questa indicazione, tuttavia, rimane troppo spesso per lo più sbilanciata a favore del secondo polo delle diadi.

Infatti, nel loro stesso dispiegarsi, i movimenti recenti richiedono l’attuazione, qui e ora, di pratiche che prefigurano un futuro emancipato, rinunciando alla vecchia subordinazione dei mezzi ai fini o alla gerarchizzazione dei motivi di lotta.

 

 

Tesi 7. Pratiche II: Processi di soggettivazione e inchiesta militante.

Le ultime tesi non implicano che i movimenti sociali non possano essere criticati, né tanto meno che tutte le rivendicazioni da essi manifestate siano equivalenti.

 Si tratta piuttosto di seguire le loro dinamiche dall’interno, partecipando attivamente al loro autosviluppo attraverso, ad esempio, la chiarificazione delle ragioni e degli obiettivi e il consolidamento dei percorsi di mobilitazione.

 In tal senso, la pratica dell’inchiesta militante, il cui ruolo consiste in un processo di trasformazione reciproca della soggettività in lotta e del contesto materiale, è di grande utilità.

Praticare l’inchiesta militante significa rimanere sempre fedeli alla singolarità della contingenza o, per dirla in altro modo, sviluppare un approccio radicalmente materialista e fondamentalmente pragmatico, rifiutando qualsiasi tipo di apriorismo politico – sia esso d’avanguardia, savant o identitario.

Con l’indagine militante, l’attenzione si concentra sui processi di soggettivazione, chiedendosi:

cosa spinge i soggetti a non subire più passivamente le condizioni imposte loro, ma a reagire, a fare qualcosa insieme, ad assumere pratiche di lotta più conflittuali, a mettere in piedi forme organizzative più avanzate?

(Sono le paure reali di essere eliminata totalmente come razza umana dalla élite ricca esistente, che non si preoccupa più e non teme più il marxismo militante ante guerra fredda! N.d.R.)

 Oppure, dove il conflitto non è aperto ed esplicito, dove si possono trovare solo tracce sottili o indirette di resistenza: quali sono le dinamiche attraverso cui la norma viene interiorizzata?

Cosa porta gli individui o i gruppi ad accettare, riprodurre passivamente o addirittura promuovere attivamente relazioni o condizioni di assoggettamento?

 In entrambi i casi, la soggettività è una questione di lotta.

Da questo punto di vista, ciò che conta (di più) non è (tanto) l’affinità politica che precede il momento dell’incontro, ma il percorso che si fa assieme.

Come si co-evolve, cosa si porta gli uni agli altri, cosa si impara a vicenda e cosa si fa lungo il cammino.

 

  Non è quindi (solo) la posizione occupata all’interno delle relazioni sociali a fare di un gruppo un soggetto politico privilegiato.

Così come la classe non è un dato sociologico, il lavoro (salariato) – nonostante la sua innegabile centralità – non esaurisce il terreno del conflitto:

uno studente, un disoccupato o un lavoratore precario che si batte con determinazione può valere molto di più, in termini politici, di un operaio stacanovista e scioperante che occupa un nodo vitale nel processo di accumulazione.

 Inoltre, è l’insieme delle condizioni materiali di vita che appare decisivo, anche se il lavoro, nei suoi molteplici avatar, conserva un posto che non può essere ignorato.

Di conseguenza, è necessario non separare “sfera della produzione” e “sfera della riproduzione”, o le lotte “economiche”, “sociali”, “politiche” ed “ecologiche”, ma lavorare sull’accumulo di conoscenze critiche e sull’espansione dell’antagonismo.

E ancora una volta, recentemente la questione della combinazione tra lotte contro lo sfruttamento e lotte contro il dominio è stata affrontata in modo stimolante da numerosi movimenti sociali.

 Senza farsi illusioni sui rapporti di forza realmente in atto, le mobilitazioni contemporanee hanno dato alcuni segnali preziosi.

 A Tunisi, al Cairo, ad Atene, a Madrid o a New York, la battaglia “economica” contro la povertà assoluta, lo smantellamento dello Stato sociale, lo sgretolamento del mercato del lavoro o il cappio dell’indebitamento non è stata dissociata dalla necessità e dal desiderio “politico” di prendere in mano le decisioni riguardanti la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali della vita collettiva.

 Con lo sciopero trans femminista globale assistiamo alla trasposizione nella sfera economica della cessazione temporanea di ogni attività lavorativa – monetizzata o meno, come il lavoro domestico o il lavoro affettivo e sessuale – di questioni di genere come l’aborto, lo stupro, il femminicidio, ecc.

Lo stesso vale per le marce per il clima:

gli studenti di mezzo pianeta si sono astenuti dai loro impegni scolastici il venerdì per scuotere l’opinione pubblica mondiale e la comunità internazionale, invitandole a non nascondere la testa di fronte all’urgenza e alla gravità delle molteplici crisi ecologiche.

Da un punto di vista militante, in tutti i casi il compito principale consiste quindi nello spingere sempre più in là i processi di soggettivazione, radicalizzando i livelli di conflitto, ampliando lo spettro delle rivendicazioni, approfondendo la messa in discussione delle relazioni esistenti e collegando le diverse lotte e i rispettivi nuclei.

La pratica dell’inchiesta militante, dedicata alla co-produzione di conoscenza di parte, si rivela altamente costruttiva.

Contro ogni visione pastorale o coscientizzante della politica, il metodo dell’inchiesta militante propone un approccio processuale in cui la posta in gioco riguarda l’autotrasformazione delle soggettività attraverso la loro stessa attività di trasformazione del mondo circostante.

 Non si tratta quindi di istruire i dominati, di insegnare loro ciò che sanno già molto bene per sperimentarlo nella vita quotidiana in modo che possano cambiare le loro idee e i loro modi di pensare, ma di creare insieme le condizioni materiali e soggettive affinché ci si possa comportare in modo diverso.

 

 Settima tesi: la soggettività è e rimane un campo di battaglia.

 Di conseguenza, solo costruendo internalità alle lotte e stabilendo una presenza che possa radicarsi nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo – una presenza che possa riprodursi nel tempo – possiamo migliorare la nostra capacità di rendere i processi di (contro-)soggettivazione sempre più virtuosi, forti e duraturi.

Ma il nostro comune potere di pensare agendo e di agire pensando si nutre delle analisi, delle narrazioni e dei saperi pratici fatti da e per le lotte.

Ecco perché la produzione e la circolazione delle diverse esperienze di lotta (le loro pratiche, simboli, immaginari, parole d’ordine, ma anche le loro sconfitte, punti ciechi, ecc.) costituiscono un momento preliminare e complementare a qualsiasi tentativo di transizione verso una società post-capitalista.

Tesi 8. Organizzazione I: Contropotere – Doppio potere – Contropotere.

Da quanto detto finora si possono intraprendere diverse strade.

La più decisiva, tuttavia, riguarda l’approfondimento del livello organizzativo.

 La gravità della situazione attuale, con la sua concatenazione di crisi di portata abissale, riattiva la prospettiva politica altamente tragica del doppio potere.

 Il doppio potere, infatti, non solo costituisce una valida alternativa all’ambiguità degli approcci populisti e alla fiacca ripresa della variante riformista, ma si staglia anche in un orizzonte di critica della sovranità e della centralità dello Stato-nazione quale è emerso da queste succinte considerazioni.

 Inoltre, permette di combinare e federare l’ampia varietà di sensibilità e orientamenti che animano i movimenti contemporanei, rafforzandone i legami transnazionali.

 All’incrocio tra politica autonoma e politica istituzionale, la prospettiva del doppio potere offre una via d’uscita dalle impasse in cui sono cadute quasi tutte le esperienze radicali emerse nel corso degli anni 2010.

Nessuna di esse, per quanto dirompente o massiccia, è riuscita finora a segnare una svolta duratura:

 non le perturbazioni della classe operaia delle catene globali del valore, né le irruzioni delle insorgenze di BLM o dei Gilet Gialli;

 non il pacifismo ecologico del Nord globale, né le lotte sindacali, indigene e contadine di quello del Sud globale;

non gli scioperi femministi, né gli esodi dei migranti; non l’assemblea costituente cilena, né le ipotesi progressiste della sinistra europea, nord- e latino-americana.

 Oggi, ovviamente, gli Stati sono sempre più sotto il controllo di organismi sovra-, inter- e transnazionali e sono sempre più soggetti ai vincoli di dispositivi di governance, attori politici e processi economici che trascendono le loro frontiere.

Di conseguenza, sembra illusorio considerarli come il campo di battaglia prioritario per le dinamiche di liberazione.

Tuttavia, ciò non significa che si debba a priori disinvestire questo spazio da qualsiasi impegno politico per trincerarsi in un puro “al di fuori”, a distanza di sicurezza da questa macchina ricuperatrice di ogni spinta e percorso di emancipazione.

 Oggi più che mai non possiamo pensare di ritirarci nel perimetro dello Stato-nazione, facendo di esso l’unica linea di difesa di un anticapitalismo coerente.

Ma non possiamo nemmeno pensare di poter incidere davvero su macrofenomeni come le guerre (inter)imperialiste o il riscaldamento globale senza l’apporto delle leve statali o sovrastatale.

 Il punto è trovare un modo costituente per tenere insieme e organizzare politicamente la pluralità di istanze espresse dalla moltiplicazione soggettiva delle situazioni di lavoro e di vita, costruendo, rafforzando, sperimentando e collegando tra loro contropoteri in grado di coprire più fronti a diverse scale:

dentro e contro l’apparato statale, fuori e in alternativa ad esso, fuori e contro di esso.

 Dai quartieri popolari agli spazi di frontiera, passando per i luoghi di vita, formazione, lavoro, informazione, ecc. ogni “realismo rivoluzionario” (Rosa Luxembourg) deve cercare e praticare il consolidamento reciproco tra istanze eterogenee di liberazione all’interno di un quadro ontologico-politico che faccia saltare le posture di mero principio.

 Né verticale né orizzontale, come direbbe Rodrigo Nunes (2021).

 In effetti, da un punto di vista storico, i movimenti rivoluzionari hanno sempre concepito il doppio potere come un modo per preparare il terreno per una società post-capitalista.

 Nella prospettiva socialista, il doppio potere dà luogo a una transizione lunga e graduale;

mentre nella prospettiva comunista la transizione è accelerata e completata da una rottura insurrezionale.

Al contrario, seguendo ancora Mezzadra e Neilson (2021), sarebbe necessario ridefinire la questione del doppio potere in termini di teoria dell’organizzazione:

si tratterebbe allora di costituire un’impalcatura politica stabile capace di rafforzarsi e dispiegarsi attraverso la proliferazione di nuclei di contropotere.

 Il doppio potere, quindi, come architettura permanente per l’auto-organizzazione dei movimenti e il governo della società, che si ramifica attraverso una fitta rete di contropoteri.

Sebbene in forma embrionale, è questa eredità che consegna i successi parziali e le grandi sconfitte dei cicli di lotta degli anni 2010.

Le recenti rivolte hanno avuto la capacità di far circolare slogan, mettere in moto pratiche e accumulare esperienze soggettive, organizzative e discorsive che hanno scosso i governi di tutto il mondo, ma non hanno saputo interrompere l’approfondimento delle tendenze alle crisi – siano esse finanziarie, sociali, geopolitiche, sanitarie o climatiche.

Ad esempio, sulla scia del primo ciclo di confinamenti, abbiamo assistito a significative lotte operaie e rivolte antirazziste, accompagnate da politiche statali e istituzionali molto contraddittorie – perlomeno fino alla ricalibrazione della governance capitalistica della pandemia.

A tal proposito, Alberto Toscano (2021) e Panagiotis Sotiris (2021) hanno parlato di doppio biopotere.

Questa prospettiva, ancorata alla sfera della riproduzione (salute, istruzione, abitazione, ecc.), contiene in sé le tracce germinali di una contro-strategia antagonista alla sovranità statale e alla governance neoliberale, essendo interamente incentrata sulle lotte sociali e sul sapere democratico.

Più in generale, dall’eredità delle Pantere Nere nelle downtown all’invenzione di nuove istituzioni e forme di autogoverno in Chiapas e Rojava, passando per le pratiche di contro-conoscenza di ACT UP, la difesa della terra da parte delle comunità indigene e così via, tali esperimenti mostrano importanti punti di forza, ma rendono anche espliciti i limiti da superare.

 Da un lato, essi possono costituire il cuore pulsante di un’attività già in corso di smantellamento delle relazioni sociali capitalistiche e delle forme di vita ad esse inerenti.

Ed essi possono inoltre indurre rotture politiche di vario tipo: dalle secessioni territoriali all’autonomia di certi settori sociali attraverso opzioni elettorali solide e radicali.

D’altro canto, però, troppo spesso tali esperienze non attingono alle sfere più alte della politica e mancano di coordinamento transnazionale, non riuscendo a incidere realmente sulle forze inerziali che riproducono le disuguaglianze sistemiche.

 A questo proposito, le minacce pandemiche e climatiche, così come lo spettro dell’escalation militare e del riarmo nucleare, rendono ancora più evidenti le lacune di queste indispensabili esperienze.

 Pertanto, se vogliono continuare ad avere voce in capitolo in un mondo sull’orlo del disastro, esse non possono che andare oltre sé stesse.

Tesi numero otto:

l’elaborazione e la realizzazione della prospettiva politica del doppio potere riguarda l’aumento della potenza prodotto dalla molteplicità e dall’eterogeneità dei contropoteri;

o, per dirla in altro modo, l’espansione delle frontiere dei processi di liberazione che i diversi contropoteri – e le loro azioni reciproche – aspirano a/possono/devono determinare.

Di conseguenza: il contropotere come precondizione e orizzonte del doppio potere.

A tal proposito, una doppia precisazione.

 Per quanto riguarda i contropoteri dal basso, essi non devono limitarsi a essere fini a sé stessi nel loro potenziale di prefigurare relazioni realmente emancipate, ma devono anche svolgere un ruolo cruciale nella sfida all’ordine esistente.

 Al contrario, i contropoteri che operano a livello meso- e macro-politico devono sempre rimanere variabili dipendenti dai e funzionali ai processi di liberazione, altrimenti rischiano di sclerotizzarsi in dinamiche autoreferenziali, burocratiche e strumentali, condannandosi a perdere, prima o poi, ogni spinta trasformativa.

 

Tesi 9. Organizzazione II: Alleanze transnazionali.

Alcune delle esperienze più significative degli anni 2010 si sono svolte e coordinate su scala eminentemente transnazionale, dagli scioperi trans femministi alle marce per il clima, dagli esodi dei migranti alle reti di soccorso e accoglienza. Questo non implica, ipso facto, il loro successo.

 Tuttavia, è indiscutibile che l’eco mediatica e le (deboli) strutture organizzative attraverso le quali si sono sviluppate abbiano beneficiato di tale trascendenza dei confini nazionali.

Altri movimenti, come BLM o le occupazioni delle piazze, hanno prodotto risonanze al di là del proprio Paese, rafforzando le lotte su questioni simili altrove.

 Altri ancora, come le rivolte popolari che hanno costellato il biennio pre-pandemico, hanno imitato gli uni gli stili, le pratiche e le rivendicazioni degli altri, ispirandosi e citandosi a vicenda, ma senza incontrarsi realmente su un terreno comune.

Altri, come l’incredibile sciopero agrario in India nel 2019 (il più grande sciopero mai avvenuto nella storia dell’umanità), o più recentemente le lotte dei lavoratori cinesi contro le politiche di zero-covid, o le proteste delle donne (e delle giovani generazioni) iraniane contro il regime di Teheran, per quanto potenti e dirompenti, non sono riusciti a innescare autentici processi di solidarietà, materiale e simbolica, altrove.

Questi nodi irrisolti ci spingono a porre la questione, teorica e organizzativa, della sincronizzazione e federazione delle differenze, rinnovando la pratica politica delle alleanze.

Se, infatti, dopo i fallimenti del periodo post-2008, la questione politica primaria consiste

1. nell’intensificazione della pluralità delle lotte venute alla ribalta e

2. nel loro collegamento sulla base delle proprie autonomie rispettive, allora la prospettiva di una proliferazione dinamica, di un collegamento e di una sintonizzazione dei centri di lotta, cioè il rafforzamento, la propagazione e l’armonizzazione delle lotte provenienti da diversi focolai di mobilitazione, costituisce un orizzonte fondamentale del lavoro politico contemporaneo.

 Per dirla altrimenti, l’internazionalismo implica sempre, per definizione, la capacità politica di tradurre organizzativamente e discorsivamente lotte e rivendicazioni differenti attraverso spazi, scale e soggettività eterogenee.

Infatti, la relativa autonomia di ciascuna delle strutture di dominio, la loro reciproca irriducibilità, non richiede affatto il sacrificio di una componente a scapito delle altre.

Al contrario, rivela la loro simultaneità, aprendo a una politica dell’articolazione (Hardt, Negri, 2020).

Tale approccio si declina spazialmente in due modi diversi ma intrecciati, a seconda che si tratti di processi organizzativi su scala locale o transnazionale.

 Nel caso delle alleanze locali, ciò implica non separare le oppressioni di genere-razza-sesso dallo sfruttamento lavorativo, senza limitarsi ad una semplice sommatoria delle diverse forme di dominio:

come lavoratrice + donna + nera + lesbica, andando alla ricerca delle soggettività più sfruttate/oppresse.

Il nocciolo della questione non è immaginare alleanze esterne o semplici coalizioni tra una pluralità di soggettività disparate, ognuna delle quali sostiene le lotte delle altre senza lasciarsi trasformare intimamente da esse dall’interno.

 Si tratta di tenere presente il fatto che la classe è plasmata dalle dimensioni di razza, genere, sesso, disuguaglianze spaziali e ambientali, ecc. e che le lotte ecologiche, trans femministe, antirazziste, ecc. sono costitutive della (lotta di) classe.

Ecco ciò che Sadri Khiari ha definito prima “internazionalismo domestico” e poi “internazionalismo de coloniale” (2013), e ciò che Angela Davis, in un registro un po’ diverso, ha chiamato “intersezionalità delle lotte” (2016).

Nel caso delle alleanze transnazionali, invece, si tratta soprattutto di costruire a distanza reti di sostegno attivo alle dinamiche in atto, a partire dalle rivendicazioni ad esse inerenti.

Dalle questioni alimentari, sanitarie e umanitarie che sempre più spesso agitano vaste regioni (non solo) del Sud globale, alle rivolte basate su rivendicazioni più classiche come lavoro, reddito, giustizia, democrazia, ecc.:

le soggettività coinvolte non solo non possono rimanere intoccate, ma devono tenere il passo insieme.

Nona tesi:

 una coalizione intersezionale e un’alleanza transnazionale sono spazi di composizione per una moltitudine eterogenea di persone, la cui sintonia è vitale per il rinnovamento dell’internazionalismo oggi.

 Infatti, è proprio sulla base dell’irriducibile pluralità e diversità delle soggettività che lottano contro lo stato di cose esistente che sorge l’enigma organizzativo delle a-sincronicità da accordare:

da questo nodo dipende non solo lo sviluppo del capitale, ma anche quello dell’anticapitalismo.

 Ciò detto, un internazionalismo all’altezza delle sfide del presente deve sempre essere in grado di evitare il doppio scoglio dello storicismo e della cinica prioritizzazione degli obiettivi che hanno caratterizzato molte esperienze novecentesche (Chatterjee, 2016).

 Nonostante i loro innegabili limiti e fallimenti, non v’è dubbio, però, che gli esperimenti dell’alter-globalismo dei primi anni Duemila e la moltitudine di rivolte del 2010 abbiano offerto un’opportunità concreta per ripensare le pratiche di solidarietà e alleanza politica al di là delle specificità delle condizioni di vita e di lavoro e oltre i confini dei singoli Stati nazionali.

Come il canovaccio di una polifonia ancora in fase di scrittura, essi aiutano a prefigurare ciò che il transnazionalismo nel XXI secolo può e deve essere.

 

 

 

Il vizietto di Soros, lo “Shelob”

del Nuovo Ordine Mondiale.

Blog.ilgiornale.it – (22 agosto 2020) – Gianpaolo Rossi – ci dice:

 

LO SPECULATORE ILLUMINATO.

Ogni volta che si parla di George Soros si è quasi certi di essere accusati di “paranoie complottiste”; è il modo migliore con cui le anime belle della coscienza democratica, liquidano chiunque provi a spiegare il ruolo dell’élite tecnocratiche nella creazione e nella manipolazione delle crisi internazionali che sconvolgono il mondo.

Di tutti i “Maestri del Nuovo Ordine Mondiale” che dal Medio Oriente all’Europa, fino all’Asia, si divertono a scatenare rivoluzioni, guerre, crisi economiche e a generare quel caos necessario a dare forma ai loro progetti di dominio, George Soros è il più gettonato anche perché, a differenza di altri, non disdegna di svolgere il suo ruolo in maniera arrogante e vanitosa.

Finanziere di origine ungherese, Soros è lo speculatore “illuminato” che si è arricchito mettendo in ginocchio le economie di mezzo mondo;

 ne sappiamo qualcosa anche noi italiani che nel 1992 vedemmo bruciate le nostre riserve valutarie a causa di un attacco speculativo da lui orchestrato sulla Lira e sulla Sterlina inglese e che portò noi e la Gran Bretagna fuori dallo Sme.

Soros è il teorico della società globale dove tutti sono uguali tranne quei pochi come lui che essendo più uguali degli altri hanno il diritto di imporre le regole (e l’uguaglianza) a tutti.

IL VIZIETTO DI SOROS

Come ogni mega-miliardario che si rispetti ha anche lui il suo vizietto:

non colleziona Ferrari, castelli in Europa, trofei di golf o attrici di Hollywood (o forse sì, ma non lo sappiamo), ma di sicuro colleziona Fondazioni, Think tank, Ong con cui destabilizza governi, manipola i media, viola la sovranità degli Stati.

Per fare questo si serve ovviamente dei suoi soldi e della “Open Society Foundation”, l’associazione con la quale smista miliardi di dollari per finanziare partiti di opposizione e movimenti “democratici” in giro per il mondo, o “assoldare” militanti dei diritti umani, intellettuali, giornalisti, tecnocrati e mettere a libro paga leader politici che sono ben felici di accontentare i disegni dell’oligarca amico (ne sa qualcosa Hillary Clinton di cui Soros è uno dei principali finanziatori con 8 milioni di dollari solo nel 2015).

Insomma quella di Soros sembra una vera e propria ragnatela tesa per il mondo che negli anni ha prodotto le rivoluzioni colorate che hanno sconquassato l’Europa post-sovietica (Serbia, Georgia, Ucraina e Kirghizistan), la Primavera Araba con annessa guerra in Libia e Siria che ci ha regalato l’Isis e la crisi dei migranti (voluta e favorita dallo stesso Soros).

Non solo, ma per rendere questo lavoro il più professionale possibile, Soros ha agevolato anche la nascita di una vera e propria multinazionale per “rivoluzioni a domicilio” (ovviamente non-violente);

 si chiama CANVAS (Centre for Applied Non-Violent Action and Strategies) ed è la struttura di consulenti rivoluzionari che vengono inviati nei paesi retti da governi non graditi agli Usa e quindi a Soros (o meglio non graditi a Soros e quindi agli Usa) per accendere la miccia delle mobilitazioni democratiche che quasi sempre si trasformano in bagni di sangue e guerre civili.

Organizzazione infarcita di dollari provenienti dal governo americano e da diversi Fondazioni tra cui spicca ovviamente quella di Soros, come svelato da Wkileaks.

Shelob2 -SOROS È SHELOB.

Per capire chi è George Soros bisogna leggere Il Signore degli Anelli (o almeno, per i più pigri, vedere il film).

L’avete presente?

Bene, allora sapete di cosa sto per parlare:

George Soros è come Shelob, “il malefico essere a forma di ragno” per la quale “ogni essere vivente era il suo cibo e il suo vomito era oscurità”:

come lei, anche Soros dissemina gigantesche e vischiose ragnatele con le quali imprigiona le sue vittime per poi divorarle.

La sua rete di movimenti e associazioni che lui è in grado di mobilitare, forte di un potere economico illimitato, sono le ragnatele di Shelob.

Nessuno “può rivaleggiare con Shelob nel tormentare il mondo infelice”.

Ma come può essere sconfitta questa orribile creatura?

 innanzitutto con la luce: Shelob ama vivere nell’oscurità, la luce l’acceca.

 La fiala donata da “Galadriel” che sprigiona la luce della stella di” Earendil” acceca “Shelob” e respinge i suoi attacchi.

Fuori di metafora, la luce è la verità;

la possibilità di aprire uno squarcio di informazione libera su chi è Soros e cosa realmente fa.

 Ed è quello che in questi giorni è avvenuto con la pubblicazione dei 2.500 documenti segreti della “Open Society” ad opera del sito” DCLeaks” che gettano la luce su come opera la struttura tentacolare di Soros, come manipola e interagisce all’interno delle crisi internazionali, come condiziona le scelte dei governi e dei media.

IL FILANTROPO CHE ODIA PUTIN.

Ma tutto questo a Soros/Shelob è perdonato perché lui è anche un filantropo, letteralmente un amico dell’umanità: la sua.

 E come tutti i filantropi che amano l’umanità (astratta), lui odia gli uomini, soprattutto quelli che non la pensano come lui.

Il suo nemico numero uno è il leader russo Vladimir Putin; contro di lui Soros nutre una vera e propria ossessione: lo vuole distrutto, sconfitto.

 La colpa di Putin è di non volere sottomettere la Russia ai dettami del Nuovo Ordine Mondiale preconizzato da Soros.

 E quindi, da oltre 10 anni, Soros prova a fare a casa di Putin quello che gli è riuscito di fare in molti altri paesi;

alimentare finte opposizioni democratiche, sobillare piazze, infiltrare Ong finanziate direttamente da lui o da Washington, costruire manipolazioni mediatiche e ingaggiare pressioni internazionali.

Non dimentichiamoci che Soros/Shelob è uno dei finanziatori dell’operazione “Panama Papers”, la più fasulla inchiesta giornalistica della storia dell’informazione occidentale ed è il principale sponsor delle sanzioni a Mosca che, in realtà, stanno mettendo in ginocchio le imprese europee.

Ma spesso succede ai più convinti Illuminati, di rimanere abbagliati della loro stessa luce.

 Soros si è dimenticato di una basilare lezione di storia: mai andare a rompere le balle ai russi in casa propria; bastava chiedere a Napoleone e a Hitler.

E così, prima Putin ha espulso dalla Russia una serie di Ong occidentali di diretta emanazione di Soros, tra cui la sua” Open Society,” per attività anti-costituzionali e anti-nazionali.

Poi i russi, primi al mondo nella “cyberwar”, si sono scatenati.

 Già un anno fa un gruppo di hacker ucraini filo-Mosca ha reso pubbliche le mail segrete tra Soros e il Presidente ucraino Poroshenko.

Noi fummo tra i pochi a parlarne in Italia; è una lettura utile che vi invito a fare , perché sono notizie CLAMOROSE che invano troverete nella libera informazione democratica del nostro Paese.

Mail che dimostrano chi è il manovratore della crisi in Ucraina, il destabilizzatore di quell’area, il criminale che fomenta una guerra civile che sta causando migliaia di morti e chi sta lavorando per gettare l’Europa in una nuova Guerra Fredda con la Russia che, grazie ai maggiordomi di Washington e di Londra rischia presto di diventare assai calda.

Ora, secondo molti, ci sarebbero settori d’intelligence vicini a Mosca nel “Soros hack” che ha reso pubbliche le migliaia di documenti della Open Society.

IL BURATTINAIO DELL’IMMIGRAZIONE.

Dalle prime analisi dei documenti pubblicati emerge come Soros stia cercando di influenzare le politiche d’immigrazione su scala globale manipolando l’opinione pubblica e premendo sui governi occidentali per considerare la “crisi dei rifugiati in Europa una nuova normalità” portatrice di “nuove opportunità”.

Più volte abbiamo dimostrato come l’esodo di immigrati (frutto delle guerre e del caos generato dall’Occidente) che sta scardinando il sistema sociale e l’identità dell’Europa, non sia un accidente della storia ma un preciso disegno delle élite mondialiste di costruire un nuovo modello di società funzionale al progetto di dominio economico e finanziario.

Ora ne abbiamo ulteriori prove.

LA LUCE DI “GALADRIEL”?

Dai 2500 documenti trafugati forse c’è materiale che consentirà di scoprire veramente non solo il volto di Soros/Shelob ma anche quello dei suoi innumerevoli fiancheggiatori che risiedono nei media, nei parlamenti, nelle università, nei centri di potere di Europa e Usa.

Il materiale di “DCLeaks” non è certo la fiala di” Galadriel” ma almeno uno squarcio di luce su uno dei più oscuri e nefasti sistemi di potere del nostro tempo.

(@GiampaoloRossi)      

 

 

 

 

Lo “schema Soros” e l’immigrazione indotta.

Blog.ilgiornale.it – (2-2-2021) – Gianpaolo Rossi – ci dice:

 

1, 2, 3… TANA PER SOROS!

Per carità, sarà solo un caso, una coincidenza di quelle che servono agli scettici per dimostrare che non c’è un senso nelle cose.

 Fatto sta che ogni volta che la società civile, gli umanitaristi della domenica, le sentinelle democratiche scendono in piazza contro il cattivo di turno (che si chiami Putin, Trump o Marine Le Pen), dietro a loro fa capolino la faccia di Soros o meglio, il suo portafoglio.

Anche nell’ultimo caso, quello del Decreto esecutivo sull’immigrazione voluto da Trump, le proteste inscenate in tutta America sono state organizzate da gruppi mantenuti con i soldi del filantropo miliardario.

Come ha evidenziato “Aaron Klein” su “Breitbart”, gli avvocati che hanno messo in piedi le azioni legali contro il Decreto Trump, appartengono a tre associazioni per i diritti degli immigrati: la ACLU (American Civil Liberties Union), il National Immigration Law Center e l’Urban Justice Center.

Tutte e tre sono finanziate, per milioni di dollari, dalla “Open Society di Soros “(la ACLU addirittura ha ricevuto 50 milioni solo nel 2014).

Una delle avvocatesse in prima linea nella battaglia legale, “Taryn Higashi”, è componente dell’”Advisory Board dell’”Inziativa per l’Immigrazione Internazionale” della “Open Society”.

Dopo le manifestazioni di protesta all’indomani del voto e la Marcia delle Donne, questa è la terza iniziativa anti-Trump che vede la ragnatela di Shelob/Soros dispiegarsi contro quella parte dell’America colpevole di non aver votato la sua candidata in busta paga, Hillary Clinton.

Come direbbe Poirot:

 “una coincidenza è solo una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze sono una prova”;

 e se ci aggiungiamo anche la famosa battaglia contro le “fake-news” che inquinano la purezza dell’informazione mainstream (salvo poi scoprire che a produrre fake news è proprio il mainstream), diciamo che abbiamo la quasi certezza che a Soros non è andata molto giù l’elezione di Trump.

 

SOROS E L’IMMIGRAZIONE ILLEGALE.

Tra tutte le cause “progressiste” che Soros finanzia, quella per agevolare l’immigrazione clandestina è forse la più curiosa (ed anche la più rivelatrice).

Nel 2014 il New York Times rivelò che la decisione di Obama di modificare la legge sull’immigrazione per facilitare il riconoscimento degli irregolari, fu spinta dalla campagna delle associazioni pro-immigrati divenute una “forza nazionale” grazie all’enorme quantità di denaro versato nelle loro casse dalle ricchissime fondazioni di sinistra tra cui, appunto, la “Open Society” di Soros (oltre alla sempre presente Ford Foundation);

 “Negli ultimi dieci anni – scrive il NYT – questi donatori hanno investito più di 300 milioni di dollari nelle organizzazioni di immigrati” che lottano “per riconoscere la cittadinanza a quelli entrati illegalmente”.

Ora, Soros, che di mestiere fa lo speculatore finanziario, è uno che con i soldi non produce ricchezza ma povertà.

 Il suo lavoro è, di fatto, scommettere sulla perdita degli altri; lui vince se il mondo perde.

Soros appartiene a quella aristocrazia del denaro per la quale, crisi economiche e guerre, sono linfa vitale per il proprio portafoglio (e per il proprio potere).

E infatti i suoi miliardi li ha fatti (e continua a farli) mettendo in ginocchio le economie di mezzo mondo;

ne sappiamo qualcosa anche noi italiani che nel 1992, subimmo l’attacco speculativo orchestrato dal suo fondo “Quantum” che bruciò il corrispettivo di 48 miliardi di dollari delle nostre riserve valutarie, costringendo la Lira ad uscire dallo Sme (insieme alla sterlina inglese).

E se “destabilizzare le economie” è il suo lavoro, destabilizzare i governi è il suo hobby;

 e così Soros finanzia da anni rivoluzioni colorate (dall’est Europa alle Primavere Arabe) che altro non sono che guerre civili all’interno di Stati sovrani per sostituire governi legittimi con replicanti a lui rispondenti;

 e adotta (finanziando campagne elettorali) candidati particolarmente inclini a fare le “guerre umanitarie” con cui stravolgere intere aree del mondo.

 

LO SCHEMA SOROS: POVERI-PROFUGHI-IMMIGRATI.

Per semplificare (anche troppo) lo chiameremo “SCHEMA SOROS” anche se in realtà è un preciso disegno dell’élite tecno-finanziaria per costruire il proprio sistema di potere globale.

Lo “Schema Soros” funziona così:

l’élite prima produce i poveri, poi trasforma alcuni di loro in profughi attraverso una bella guerra umanitaria o una colorata rivoluzione (in realtà i profughi sono meno della metà degli immigrati) e poi li spinge ad entrare illegalmente in Europa e in Usa grazie alle sue associazioni umanitarie, ricattando i governi occidentali e i leader che essa stessa finanzia affinché approvino legislazioni che di fatto eliminano il reato di immigrazione clandestina.

Il tutto, ovviamente, per amore dell’Umanità.

In questo schema un ruolo centrale ce l’ha il sistema dei media e della cultura nel manipolare l’immaginario simbolico e costruire il “pericolo xenofobo e populista” contro chiunque provi ad opporsi a questo processo.

E francamente fa uno strano effetto vedere la sinistra americana di Obama e della Clinton solidarizzare con i profughi dopo aver lanciato sulla loro testa 26.000 bombe solo nel 2016 (quasi 50.000 in due anni) e venduto ai loro governi più armi di qualsiasi amministrazione americana, nel rumorosissimo silenzio di Soros e dei benpensanti che oggi scendono in piazza contro Trump.

 

A COSA SERVE L’IMMIGRAZIONE INDOTTA?

L’immigrazione in atto non è un processo naturale ma indotto per consolidare un modello incentrato non sulla ricchezza reale (produzione di beni e consumo) a vantaggio di tutti, ma su quella “irreale” del debito e dell’usura, a vantaggio di pochi.

La “globalizzazione progressista” non è altro che il processo di concentrazione della ricchezza mondiale nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone (quel famoso 1% che detiene il 50% della ricchezza globale).

Per l’Occidente il vero sconvolgimento è la dissoluzione della classe media, l’erosione ormai costante di quella che è stata il motore trainante dello sviluppo economico e civile dell’ultimo secolo e mezzo.

Non è un caso che “l’abbattimento della borghesia” (sogno di ogni ideologia totalitaria di destra e di sinistra) va di pari passo con i tentativi di smantellamento delle democrazie in atto in Occidente attraverso l’ascesa di governi tecnocratici e revisioni costituzionali scritte direttamente dai banchieri.

Per Soros e per l’élite tecno-finanziaria, “la democrazia è un lusso antiquato” (come scrisse il Financial Times, la Bibbia del gotha finanziario); e i meccanismi di sovranità popolare e rappresentanza parlamentare sono un intralcio alla gestione diretta del potere.

Il processo d’immigrazione indotta serve proprio a questo:

disarticolare l’ordine sociale e culturale, generare conflitti endemici (guerra tra poveri), imporre legislazioni più autoritarie, alterare l’equilibrio demografico e generare un appiattimento della stratificazione sociale per ridurre il peso di quella classe media, elemento da sempre in conflitto con le élite.

Per Soros e i suoi amici è molto più funzionale una società a due livelli:

 una élite con in mano grande potere economico (e decisionale) in grado di gestire anche i flussi informativi (e formativi) e una massa sempre più povera, dipendente da questa élite e dall’immaginario che essa costruisce;

e nel progetto globalista, le identità nazionali e religiose (proprio perché pericolose costruttrici di senso) devono essere annullate all’interno di una massa indistinta e perfettamente funzionale al “sistema di dominio”.

Il sogno di un mondo governato da pochi plutocrati passa per la dissoluzione dell’Occidente come lo conosciamo e l’immigrazione di massa costruita a tavolino e legittimata persino nelle dichiarazioni ufficiali dei tecnocrati sulla “Migrazione Sostitutiva”, serve a trasformare il loro sogno nel nostro incubo.

(Giampaolo Rossi).

 

 

 

 

Scandaloso: Macron vuole Decretare

 che lo Stato diventi Comproprietario

di una Parte dei Beni dei Cittadini.

Conoscenzealconfine.it – (7 Giugno 2023) – Redazione – ci dice:

 

Macron vuole decretare che lo Stato diventi comproprietario di una parte dei beni e terreni dei cittadini per poter imporre una tassa aggiuntiva per il diritto di occuparne la proprietà!

Non una parola nei media francesi!

I nostri giornalisti hanno scoperto sul sito del governo francese “France Stratégie” che Macron sta progettando di decretare unilateralmente che lo Stato diventerà comproprietario di una parte dei beni immobili e delle proprietà dei cittadini, al fine di riscuotere una tassa aggiuntiva per il diritto di occuparne la proprietà.

In un articolo intitolato “Come ridurre il debito pubblico nell’eurozona?” scopriamo il piano di Macron di saccheggiare parte dei beni immobili della popolazione francese per imporre una nuova tassa.

Introduzione di una Tassa Eccezionale sul Capitale Immobiliare Residenziale.

Ecco il testo del piano di Macron:

“Senza aiuti esterni, l’unico modo possibile per migliorare la sostenibilità del debito pubblico eccessivo è aumentare la capacità dello Stato di aumentare le tasse, senza mettere a rischio la sua futura traiettoria di crescita.

A tal fine, lo Stato potrebbe decidere di diventare comproprietario di tutti i terreni residenziali edificati, fino a una frazione limitata del loro valore.

In termini pratici, ciò significherebbe pagare una somma annuale corrispondente al compenso per il diritto di occupazione del terreno.

 Tutti i proprietari sarebbero tenuti a versare questa somma, ma potrebbero scegliere di non pagarla.

In questo caso, lo Stato recupererebbe la somma dovuta alla prima transazione che coinvolge la proprietà (vendita o trasferimento).

In pratica, quindi, una misura del genere equivarrebbe a un aumento della tassazione sui trasferimenti di proprietà e di beni.

 A titolo di esempio, se l’Italia applicasse questa misura a un quarto del valore dei terreni residenziali, risanerebbe istantaneamente il suo debito pubblico di 40 punti di PIL”.

(t.me/chaosmega)

 

 

Il blocco della Cina, Sun Tzu,

e l'arte della guerra.

It.linkedin.com - Claudio Peretti – (7 dic. 2021) – ci dice:

(Expert in electric traction and diesel electric traction)

 

Se ci fosse stato davvero un virus pericoloso a piede libero in Cina, NIENTE avrebbe potuto fermarlo.

 Avremmo dovuto assistere a un numero enorme di morti in Cina fino ad oggi. Invece, il paese è tornato completamente al lavoro, l'economia è aperta e il regime cinese guarda, con grande soddisfazione, alle nazioni occidentali, dove è stato messo in atto il suo modello iniziale di lockdown, causando il caos.

Questo si chiama indizio.

Come ho spiegato in dettaglio, nel momento in cui le agenzie sanitarie statunitensi ed europee stavano costruendo per la prima volta i loro test PCR, per rilevare il virus, non erano in grado di ottenere il virus reale.

 La fonte ovvia sarebbe stata la Cina, ma la Cina non è stata in grado di fornirla.

Il motivo?

La Cina non stava offrendo una vera pandemia al mondo.

Vendevano un falso, sotto forma di UNA STORIA SU UN VIRUS.

 Non avevano esemplari reali.

Questo è un altro indizio grande come una casa.

Va bene, c’è un lungo articolo che ho scritto mesi fa.

 Forse cambierei alcuni punti, alla luce degli sviluppi successivi, ma a parte le modifiche minori, ho lasciato il pezzo così com'è.

 Indica come, con la collaborazione di importanti attori come “Bill Gates”, il CDC, l'Organizzazione Mondiale della Sanità e il “World Economic Forum di Klaus Schwab”, il regime cinese ha potuto giocare uno dei più grandi scherzi della storia.

Chi ne ha effettivamente iniziato la trama, e chi ha seguito l'esempio... tali questioni potrebbero essere discusse.

Ma il modello di base rimane lo stesso.

Da aprile 2020: COVID: IL REGIME CINESE, SUN TZU E L'ARTE DELLA GUERRA:

Retrospettivamente, è ovvio che Bill Gates, il World Economic Forum, l'ONU e altri globalisti d'élite AVEVANO BISOGNO di un nuovo pretesto per la loro operazione tirannica, e ...

Avevano bisogno di sapere, ANNI PRIMA, che questo pretesto sarebbe entrato in gioco.

Quel pretesto era: IL BLOCCO FATTO DAL GOVERNO CINESE dei propri cittadini: 50 milioni in tre città. In rapida espansione a 100 milioni.

Senza il blocco di massa cinese, il COVID si sarebbe RISOLTO come l'influenza suina, la SARS e Zika si erano propagate: piccole onde in un lago tranquillo.

Indico il regime cinese come il principale istigatore, che ha finto di armeggiare, bordeggiare e muoversi di fronte all'Organizzazione Mondiale della Sanità e al CDC.

Aderendo, per così dire, alla vocazione di quei cacciatori di virus "superiori", chiedendo loro di aiutare a capire cosa stava succedendo a Wuhan---confidando nel fatto che i ricercatori dell'OMS / CDC avrebbero certamente affermato di trovare un nuovo virus mortale---perché lo fanno sempre ed è quello che sanno fare meglio.

Il regime cinese avrebbe poi acconsentito, rinchiudendo milioni di persone, sapendo che gli eventi della finta pandemia si sarebbero automaticamente verificati, con l'Occidente che seguiva l'esempio e rinchiudeva le proprie popolazioni e causava caos e distruzione economica, sovvertendo tutti i valori umani fondamentali.

Questo avrebbe potuto essere ciò che il regime cinese, in realtà, ha fatto.

 Sì.

Ma dietro quel fronte, è chiaro che stava funzionando un livello più elevato di pianificazione cooperativa.

 Il blocco cinese era sempre nelle carte. Nelle carte per l'Occidente, per il mondo intero. Il piano era in corso di preparazione da anni.

La maggior parte delle persone semplicemente non crede che le operazioni di intelligence possano coinvolgere questo grado di scaltrezza.

 Si tratta di un credo diffuso, che purtroppo apre la porta alla realizzazione del piano.

I miei lettori a lungo termine conoscono le mie ricerche sulla pandemia: un'affermazione non provata di aver scoperto un nuovo virus;

 test diagnostici che non hanno valore, ma aprono la porta alla falsa escalation del numero dei casi;

 il mettere insieme e il raggruppamento di persone che hanno diverse malattie tradizionali (e forse alcune nuove condizioni non virali) sotto il termine - ombrello senza senso, "COVID-19"; oltre al piano per introdurre un vaccino tossico come "soluzione".

Mi rendo perfettamente conto che il regime cinese potrebbe svolgere diversi ruoli possibili in questa crisi globale. E per crisi, intendo i blocchi e la devastazione economica.

Sto introducendo un loro possibile ruolo.

 

Per cominciare: il modello del regime cinese di controllo assoluto sulla sua popolazione è pienamente in linea con il modello di controllo dei globalisti di tipo Rockefeller per tutta la Terra.

Ma il regime di Pechino preferisce estendere il proprio formidabile Impero. Coopererà con le élite globaliste su alcune operazioni, ma solo perché i veri benefici poi finiscono alla Cina.

Nel caso di questa illusione pandemica, il governo cinese sarebbe lieto di contribuire al blocco delle popolazioni da parte delle nazioni e alla chiusura dell'attività economica.

 Perché?

 Perché il risultato sarebbe un significativo indebolimento della posizione delle altre nazioni, che il regime cinese vede come oppositori o potenziali satelliti.

Indebolire le nazioni è anche l'ambizione delle élite globaliste, a dire il vero.

 I paesi indeboliti sono più facili da acquisire.

Più facili da convertire a una nuova tecnocrazia. Un nuovo “Brave World”.

Ma la leadership cinese non è un partner di base dei Rockefeller.

 I capi della Cina sono per la Cina.

Se, nel processo di gioco con i globalisti in questa falsificazione pandemica, la nazione cinese assorbe le perdite economiche, il regime è più che disposto a cancellarle come sacrifici necessari.

Provvisori. "Ci inseguono e superano rapidamente. Dicono i Cinesi: “Altre nazioni non sono così fortunate. Non hanno il nostro livello di potere sulla loro cittadinanza. Non hanno 1,4 miliardi di persone che possiamo muovere come vogliamo da un momento all'altro.

 

L’idea del regime cinese è stata questa:

 "Supponiamo di poter lanciare l'illusione di una pandemia.

 Questo ci servirebbe molto bene. Per quanto riguarda i nostri obiettivi, sarebbe un successo: la distruzione economica certa dei nostri nemici.

 Come bonus, compriamo governi indeboliti, più aziende straniere e più terreni stranieri a prezzi stracciati.

Da cui l’idea: "Potremmo preparare un "pasto allettante" per i cacciatori di virus ossessionati presso l'Organizzazione Mondiale della Sanità e il CDC. Aiutarli a trovare quello che vogliono trovare ..."

A questo proposito, torniamo all'inizio, dove tutto è iniziato: Wuhan.

Ai cani da virus del CDC e dell'OMS, il governo cinese avrebbe potuto dire:

"Sì, abbiamo una piccola epidemia a Wuhan.

Niente di grave, niente di insolito.

Ci sono persone che vengono in ospedale con influenza e polmonite.

 Circa 300.000 persone muoiono di polmonite ogni anno in Cina, per ogni tipo di motivi.

A Wuhan, gli anziani hanno un grave problema di salute a causa del tipo di polmonite.

 Abbiamo lavorato sodo per risolvere questo problema.

A un certo punto, avremmo costruito un inceneritore per bruciare rifiuti a Wuhan, ma abbiamo scoperto che la tecnologia avrebbe creato più inquinamento, così abbiamo abbandonato l'idea.

 Vogliamo trovare una struttura migliore, e lo faremo. Siamo sensibili alle esigenze della nostra gente..."

Sì, il regime cinese avrebbe potuto dirlo, ma non l'hanno fatto.

Considerate uno scenario alternativo:

 il regime cinese HA DECISO di dire ai cani da virus CDC /OMS di tipo Globalist Rockefeller esattamente quello che volevano sentire:

"FORSE un nuovo virus è a piede libero. Ti prego, aiutaci a capire cosa sta succedendo. Ci inchiniamo davanti alla tua abilità superiore... che cosa?... hai trovato un nuovo virus pericoloso?... Mio Dio... grazie per averlo scoperto così rapidamente ..."

E poi---e questa era la chiave---il regime ha improvvisamente bloccato tre grandi città e messo in quarantena 50 milioni di persone durante la notte: BOOM!

Questo è stato l'evento che ha dato il via allo scatenamento globale della valanga. Nessuna quarantena di tali dimensioni era mai stata provata prima sulla terra.

(In breve, le proteste di Hong Kong sono scomparse, le proteste dell’area continentale contro l'inquinamento atmosferico nelle principali città cinesi sono scomparse.)

Il CDC globalista e l'OMS sbavavano di gioia, spingevano alcuni pulsanti e il loro intero apparato di pubbliche relazioni per le epidemie entrava in azione:

"QUESTO È GRANDE. GUARDA COSA HANNO APPENA FATTO I CINESI. HANNO BLOCCATO 50 MILIONI DI PERSONE. QUINDI È TUTTO. POSSIAMO FARLO ANCHE NOI. IN MOLTE NAZIONI.

Da allora, l'economia cinese ha avuto un colpo.

 Il paese è stato accusato, in alcuni ambienti, di aver diffuso un virus mortale in tutto il mondo.

A cui, ovviamente, il regime cinese risponde: "Cosa? Noi cinesi siamo stati notevolmente indeboliti per primi dall'epidemia..."

 

Avanti veloce di qualche mese.

 Chi sta riscontrando un colpo adesso? Gli Stati Uniti, l'Italia e molti altri paesi. Gli Stati Uniti hanno chiuso tutto ciò che si muove.

Il mercato azionario e i mercati commerciali degli Stati in tutto il mondo sono in crisi.

 In tutto il mondo, centinaia di milioni di persone hanno perso il lavoro e un numero incalcolabile di proprietari di piccole imprese è stato portato al fallimento.

Magia.

"Aderendo umilmente" all'autorità e al desiderio del CDC e dell'OMS---che dicono sempre di aver trovato "un nuovo virus mortale" ---il governo cinese ha aiutato a progettare, nella nazione più libera, folle e potente del mondo, gli Stati Uniti, un lock down massiccio simile a quello che ormai in Cina sta concludendo.

Chi ti ricorda tutto questo? Mi ricorda l'antico generale e filosofo cinese, Sun Tzu (VI secolo a.C.), che scrisse il trattato erudito e dannatamente popolare:

 L'arte della guerra.

Ecco una spolverata di osservazioni e consigli di Sun Tzu. Da leggere attentamente.

"Tutta la guerra si basa sull'inganno. Pertanto, quando siamo in grado di attaccare, dobbiamo sembrare incapaci; quando usiamo le nostre forze, dobbiamo apparire inattivi ..."

"Se il tuo avversario ha un forte temperamento, cerca di irritarlo. Fingi di essere debole, perché possa diventare arrogante. Se si sta rilassando, non dargli tregua. Se le sue forze sono unite, separale. Attaccalo dove è impreparato, compari dove non ti aspetta.

"Usa le esche per invogliare il nemico. Fingi disordine, e schiaccialo.

"Fingi inferiorità e incoraggia la sua arroganza."

 

"Se il tuo avversario è di temperamento collerico, cerca di irritarlo."

"Sottomettere il nemico senza combattere è l'acme dell'abilità."

"... muoversi rapidamente dove lui [il nemico] non si aspetta che voi siate.

"La velocità è l'essenza della guerra. Approfitta dell'impreparazione del nemico; viaggia su percorsi inaspettati e colpiscilo dove non ha preso precauzioni.

Capito lo scenario? Qualche campanello d’allarme inizia a suonare?

Il regime cinese: "Sì, dottor CDC e Dr. WHO, sembra, come lei dice, che qui in Cina abbiamo un nuovo virus. Siete voi gli esperti. [Giusto per dire: 'Sanno che sei sempre disposto a scoprire nuovi virus.]

Ci inchiniamo alla tua saggezza. Certamente, dobbiamo contenere il virus. Se in qualche modo abbiamo fatto un passo falso qui, ci scusiamo. Siete i leader in questo campo. Fai quello che pensi meglio. Se gli avvisi ai governi nazionali sono in ordine, emettili. Ti aiuteremo. Pensi che l’infezione aumenterà?

Nel frattempo, secondo la loro strategia, CDC e OMS non hanno attuato, e non faranno mai, le procedure necessarie per dimostrare di aver effettivamente trovato un nuovo virus (come ho descritto in altri articoli).

Il governo cinese osserva che la propaganda epidemica inizia a decollare---e improvvisamente, come ho appena detto, blocca 50 milioni di persone senza una ragione medica razionale--- dando così al CDC globalista e all'OMS lo scioccante precedente per un lavoro di super-truffa, una super-storia, un super scenario, una fiaba su una pandemia, una scusa per mettere in atto blocchi simili in tutto il pianeta.

Presto, un leader, che si dà il caso sia impegnato in una battaglia commerciale con la Cina---Trump---è messo all’angolo.

 Solitamente arrogante, di temperamento collerico, come Sun Tzu caratterizza alcuni leader, Trump deve ora sostenere il suo atteggiamento e andare avanti. Crede di non poter contrastare le autorità mediche.

 Crede di non poter dare il suo solito pugno al ventre tipo: QUESTE SONO TUTTE FAKE NEWS. Non può cambiare il mercato azionario citando vittorie economiche. Non può parlare di vincere una guerra commerciale contro il governo cinese. È soffocato. Sgonfiato, deve andare in tv, e leggere dalla sceneggiatura le misure che sta prendendo per "fermare la diffusione del virus". ---Mentre promette molti trilioni di dollari che il governo non ha.

Naturalmente, molte persone si rifiutano di credere che ci sia una cosa chiamata sottigliezza nella strategia, nella guerra sotto copertura.

"Il governo cinese non potrebbe essere così intelligente."

 Davvero? Che ne dici di un regime che ha alle spalle qualche migliaio di anni di tradizione, basato sulle arti delle operazioni sotto copertura?

L'attuale dittatura cinese, spacca e prendi, mostra una faccia sola, ma non è la loro unica faccia.

La dittatura cinese ha dato al CDC e all'OMS ciò che volevano con fervore: ha apparecchiato il tavolo per la cena e l’ha preparata: "Goditi il tuo pasto."

C'era qualcosa in più nel cibo. Non un virus. C’erano anche spezie tipo Sun Tzu.

Immagino un piccolo gruppo di professionisti d'élite del governo cinese che guardano i rapporti:

"Con questa finta operazione pandemica, potremo assoggettare MOLTI nemici che vogliamo sottomettere.

Per un momento, diamo un'occhiata a uno solo: briscola!

Non possiamo lasciare che rifiuti i blocchi. Se lo fa, anche altre nazioni potrebbero respingerli. Crede di vincere una guerra commerciale contro di noi. È efficace su alcuni fronti domestici. Sa come radunare i suoi sostenitori. Ha una grande energia. Può ispirare entusiasmo dalle sue truppe. Promuove un marchio di nazionalismo, che colpisce con una nota profonda molti americani e che potrebbe essere pericoloso per noi. I suoi critici e oppositori sono, nel complesso, inefficaci. Sono fastidiosi dilettanti. La fiducia in sé stesso, l'arroganza, la sua tendenza a irritarsi e a sferzare... questo è ciò su cui dobbiamo concentrarci. Si tratta di punti di forza che possono anche essere punti deboli. Non riuscirà a vedere attacchi provenienti da fonti e direzioni inaspettate. Pensa di vedere l'intera mappa delle minacce alla sua presidenza.

 A questo proposito, egli ha una prospettiva limitata.

 Vede i suoi potenziali nemici come aggressori smussati--- perché lui stesso è smusato.

Vede la guerra come uno scontro aperto, come una leva diretta.

È qui che abbiamo la nostra opportunità.

Abbiamo bisogno di un'operazione sottile che, all'inizio, sembri un problema o una crisi periferica.

 Ma quando la morsa si chiude rapidamente, sarà troppo tardi. Non solo Trump, ma tutta l'America sarà colta nel gioco della stretta.

Naturalmente, nel processo, infliggeremo danni economici anche a noi stessi. "Anche noi siamo vittime", diremo. Questa sarà la nostra storia di copertina ..."

"Oh", risponde ancora la gente, "è impossibile. Il regime cinese non potrebbe essere così subdolo. Voglio dire, quel piano contiene troppi passaggi. Dov'è la potenza di fuoco? Dove lampeggiano le armi laser nello spazio, come vediamo nei film? Senza questo, non c'è guerra.

Beh, quando la gente insiste sul fatto che il gioco deve sembrare a TRIS con i missili, ma l'avversario sta giocando a scacchi o a dama... Iron Man non può arrivare.

2019. Leadership cinese: "Permettiamo ai nostri "amici" globalisti di creare una falsa pandemia e seppellire le nazioni. Dovremo solo fare alcune mosse sul tabellone, e poi loro stessi faranno il resto. Suggerisco di chiamare l'operazione il “Virus Sun Tzu”.

 

Naturalmente, il regime cinese si consente il diritto di esercitare occasionalmente operazioni di “spingi e tira” per ridurre gli attriti ed aiutare gli eventi a svolgersi.

 A questo proposito, alcune domande chiave: quale paese ha un accordo finanziario enorme e sbilanciato con il regime cinese?

Quale paese ha visto i cinesi versare enormi somme di denaro nelle casse del governo e acquistare le sue imprese? Quale paese sta lavorando sotto l'indebita influenza della Cina? Quale governo del paese potrebbe quindi intraprendere un'azione enorme e terribile sotto ordini più o meno diretti da parte di Pechino?

Quale capo di governo del paese IMPROVVISAMENTE, senza avvertire tutti i suoi governatori, ha bloccato metà della nazione da un giorno all'altro?

 Quale paese ha quindi creato una nuova testa di ponte per i blocchi?

Se stai cercando un paese che risponda a OGNI domanda, il suo nome è Italia.

Un tempo il centro del più grande rinascimento dai tempi dell'antica Atene. Ora mascherato e messo in quarantena. È la nuova testa di ponte per l'Europa e l'Occidente.

Per quale motivo ho scritto questo articolo?

 Vista l'esistenza di certe strutture in questo mondo, sto imparando quanto sia facile bloccare alcuni miliardi di persone all'interno di una bolla fittizia di realtà.

LA LIBERTÀ comporta la rottura e l'uscita dall'uovo.

CODA, 27 giugno 2020. Negli ultimi mesi, abbiamo assistito alle imitazioni occidentali della Cina--- sotto forma di controllo del comportamento. Controllo dell'atteggiamento. Tra queste imitazioni:

La chiusura dei luoghi di culto.

Alle persone in Occidente viene detto di caricare app di tracciamento dei contatti, scandalose, sui loro telefoni cellulari e cooperare con lo spionaggio contro sé stessi.

 

Il famigerato sistema cinese di punteggio del credito sociale (controllo del comportamento) è rispecchiato dalla nozione tirannica di "certificati di immunità", che, se approvati, dovrebbero essere presentati dai cittadini del mondo per viaggiare, entrare in edifici per uffici, scuole, ecc.

La morte prematura forzata degli anziani, sotto la copertura della "scomparsa dal COVID", è un esercizio diretto di controllo della popolazione, un dispositivo che il governo cinese ha dispiegato sulla propria popolazione.

Non si tratta di incidenti.

Sono trasformazioni intenzionali di tipo cinese.

Alla radice c'è il piano di elevare eserciti di cittadini occidentali che sono più che felici di sacrificare ciò che rimane della loro mente a un "Ideale altruistico superiore".

Ossia: il socialismo.

Thomas Paine (uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America), dicembre 1776:

"Questi sono i tempi che provano l'anima degli uomini. Il soldato estivo e il patriota del sole, in questa crisi, si ridurranno al servizio del loro paese; ma lui che lo sostiene ora, merita l'amore e i ringraziamenti dell'uomo e della donna.

 La tirannia, come l'inferno, non è facilmente conquistata; eppure abbiamo questa consolazione con noi, che più difficile è il conflitto, più glorioso è il trionfo.

 Ciò che otteniamo troppo a buon mercato, lo smaltiamo troppo alla leggera:

 è solo la mancanza che dà a ogni cosa il suo valore. Il cielo sa come mettere un prezzo adeguato sui suoi beni; e sarebbe davvero strano se un così celestiale un articolo come “la libertà” non dovesse essere molto rivalutato.

I governi di Pechino, Washington e Londra potrebbero ridere di fronte a queste parole. Ma sono a disagio. Perché sanno che c'è un potere nell'anima umana che non riescono a capire...

Dicembre, 2020: Quindi ora, negli Stati Uniti e in Europa e in altri luoghi, siamo nella nostra seconda e terza ondata di blocchi. La strategia di distruzione umana economica e associata si è ampliata.

Quello che è iniziato in ---A STORY ABOUT A VIRUS---ha assunto una vita propria.

O così sembra.

 In realtà, la messaggistica da muro a muro di questa storia è il continuo motore della vita di questa frode. La messaggistica, la minaccia e l'uso della forza da parte dei governi.

Ma la ribellione contro gli Stati di polizia è in aumento.

Gli attori politici che fanno richieste ed emettono editti sono facili da individuare. Continuano a sostenere che stanno "seguendo la scienza".

Ho passato gli ultimi nove mesi a smontare quella scienza, pezzo per pezzo. Non c'è scienza.

Ci sono sciocchi ciechi con credenziali accademiche e criminali attivi con quelle credenziali.

E c'è la Cina, dove tutto è iniziato. Dove il regime ha un odio appassionato per la libertà.

 

 

Giorgia Meloni e il fascismo di Pulcinella.

  Valigiablu.it – (23 Agosto 2022) – Matteo Pascoletti – ci dice:  

(matteo@valigiablu.it)

La campagna elettorale ci ha consegnato, tra i vari temi, quelli del rapporto tra Fratelli d’Italia e il fascismo.

Fascismo sia sul piano storico, dato che il partito è l’erede del post-fascista Movimento Sociale Italiano, di cui mantiene la fiamma tricolore nel simbolo, sia rispetto ai movimenti neofascisti che, tra Europa e Americhe, flirtano con partiti conservatori tradizionali ed estrema destra populista.

Meloni stessa, prendendo l’iniziativa all’interno di questo dibattito e delle possibili ricadute, ha realizzato un video in tre lingue (inglese, spagnolo e francese) per spiegare che "la destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia da decenni ormai, condannando senza ambiguità la soppressione della democrazia e le infami leggi contro gli ebrei” e rassicurare in particolare la stampa e i paesi esteri.

Prima ancora, Meloni era stata intervistata da” Fox Business”. A queste sortite internazionali bisogna poi sommare la recente intervista alla testata ultraconservatrice britannica “The Spectator”.

 

Salvo pochi editoriali apertamente critici, il video è servito allo scopo, complice anche l’abitudine italiana di titolare riportando i virgolettati dei politici, a prescindere dal contenuto (e quindi sposando il loro punto di vista nel primo sguardo concesso al lettore, senza porsi troppi dubbi).

Tuttavia se anche il sito “Shalom”, della comunità ebraica di Roma, o la redazione del “Guardian parlano” di “abiura” o di una Meloni che “respinge le radici neofasciste del suo partito” sono evidenti i meriti della strategia adottata.

Certo, la retorica che impiega Meloni, così come la tradizione (o se preferite la “matrice”) in cui si inserisce, si basa sul veicolare il messaggio effettivo attraverso la dissimulazione, entro uno schema “noi vs loro”, in particolare mascherando le intenzioni effettive con i concetti chiave delle democrazie liberali:

“la libertà è per noi il bene più prezioso”, dice nel video, e così lo è di solito la volontà popolare.

Come faceva notare su “Facebook” lo storico” Carlo Greppi”:

continua il gioco delle tre carte: il cenno è impersonale e del fascismo, a suo dire, la destra italiana (?) avrebbe condannato, senza ambiguità (!), “la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche” [non razziali/razziste].

 Oltre che basata su presupposti falsi, è un po’ striminzita e assai incompleta, questa, come “condanna del fascismo”.

E, vien da sé, per gran parte del video Meloni si dilunga nel demonizzare la sinistra e auspica una gestione del potere più agevole, rapida, reazionaria.

Ovviamente non si parla di migranti, di persone omosessuali, di famiglia; di tutti i temi che svelerebbero i canini dell’estrema destra italiana.

Prima di proseguire, tuttavia è bene focalizzarsi su un aspetto: non è il caso di sottovalutare Meloni.

 Per esempio, l’uso dell’ironia contro di lei, come per l’ormai arcinoto video “Sono Giorgia: Sono una donna, sono una madre, sono cristiana” ha finito per rendere pop e orecchiabili i suoi messaggi “anti-LGBTQ+ “e la visione della donna come madre di famiglia, tanto che il libro pubblicato con Rizzoli nel 2021 si intitola per l’appunto” Io sono Giorgia”.

 Non soltanto, ma nel 2021 una certa tendenza della stampa internazionale a parlare dell’ascesa del “fenomeno” Meloni, complice il sorpasso sulla Lega nei sondaggi, menzionava quasi sistematicamente il video divenuto “virale”.

 E parliamo di un video che negli scopi degli autori voleva "sbeffeggiare" il messaggio politico di Meloni.

Più dei dibattiti attorno ai video, più dei referendum su Meloni che assecondano la polarizzazione attorno a lei, è utile analizzare i punti di forza e i punti deboli della leader di Fratelli d'Italia.

Vale anche la pena di valutare il contesto italiano, quelle criticità nei rapporti e nelle strutture di potere senza le quali gli anticorpi delle democrazie liberali resistono con più vigore all'assalto dei populismi nazionalisti.

 La carenza di questi anticorpi è tra gli aspetti più problematici del momento storico che viviamo.

I punti di forza di Giorgia Meloni:

1) Il suo progetto politico ha una dimensione internazionale.

Quello di Fratelli d’Italia è un progetto politico con una visione precisa e strutturata, con una prospettiva internazionale.

 Tutto ciò manca e mancava alla Lega di Salvini, che è sempre stato debole nei rapporti con altri paesi dell’Unione europea, evanescente - nel migliore dei casi - nel fronteggiare la stampa straniera, e troppo esplicito nei suoi elogi pro-Putin, che sono la punta dell’iceberg delle relazioni tra il suo partito e Mosca.

 Alcuni esempi di questi elementi sono:

le inchieste condotte da giornalisti come Giovanni Tizian e Stefano Vergine (dallo scoop sulla trattativa al Metropol di Mosca al Libro nero della Lega);

l’inchiesta della magistratura che, pur andando verso l’archiviazione, non dissipa nessuna ombra politica;

 la figuraccia rimediata a inizio invasione dell’Ucraina con il sindaco polacco di Przemys, che pure è membro di un partito di destra populista, Kukiz'15.

Meloni può contare inoltre sul suo ruolo di leader del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei.

Ruolo che quindi le permette una maggiore capacità di azione e di tessitura di relazioni, cui si sommano le attività di “think-thank” di area della galassia politica in cui si muove.

Il fatto che, sui palcoscenici internazionali si sforzi di parlare sempre nella lingua del paese in cui si trova è naturalmente strategico a questa dimensione.

Quando insomma si presenta al raduno di Vox in Spagna, e recita la versione spagnola del suo “Io sono Giorgia…”, c’è poco da prendere in giro.

A quella platea e al pubblico spagnolo arriva quel messaggio, non certo i tweet di scherno.

 Così come nel video diffuso nelle scorse settimane, benché si noti nel linguaggio corporeo una certa difficoltà, benché siano evidenti meriti e demeriti dell'insegnante di dizione, passa l’immagine di una leader che parla a una comunità internazionale, menzionando riferimenti e interlocutori precisi (il partito repubblicano americano, i Tory britannici e il Likud israeliano).

 Vi immaginate Salvini che fa un video del genere?

 Tra i tre partiti che compongono oggi lo schieramento di destra, Meloni è poi la meno impresentabile, e questo riguarda anche i trascorsi con la Russia.

2) Può prendere voti tanto al Nord quanto al Sud.

Sempre a differenza della Lega, in apparenza principale concorrente per un’area ideologica populista-nazionalista, Fratelli d’Italia non ha certo il problema dell’antimeridionalismo.

 Inoltre, in base al principio ben radicato su tutto lo stivale per cui il carro su cui si salta è quello del vincitore, Meloni ha da tempo iniziato a incassare nomi di peso. Ricordiamoci per esempio di Vittorio Feltri, o l’ex sindaco di Verona Federico Sboarina.

Senza contare, venendo ai giorni scorsi, il redivivo Giulio Tremonti.

3) La questione di genere.

Meloni potrebbe diventare la prima presidente del Consiglio italiana, un fattore di novità storico.

Per il gattopardesco principio del “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”, chi inquadra le questioni di genere slegate da quelle di classe, insomma, in caso di vittoria parlerà del risultato come qualcosa di positivo in sé.

 C’è poi il fatto che a sinistra, tra gli uomini, il sessismo sia un problema che si è più spesso portati ad attribuire ad altri: aspettiamoci da questo punto di vista molte “gaffe” o “figuracce” da parte di uomini del campo progressista.

 Se poi Salvini parla da "papà", proiettando lo stereotipo maschile della famiglia tradizionale, Meloni parla da "madre", e la mamma, si sa, è sempre la mamma;

c'è una componente di empatia che "l'uomo forte" non può permettersi.

Sul piano politico e delle possibili ricadute nel dibattito pubblico, le principali conseguenze possono essere due. La prima è quella di attirare il femminismo transescludente, in base al principio che “la nemica dei miei nemici è mia amica”, o rafforzare il femonazionalismo.

Questo può aiutare a diffondere maggiormente propagande e politiche anti-immigrazione o anti-islam nel secondo caso, e anti-LGBTQ+ nel primo caso.

Circa quest’ultimo aspetto, una precisazione che diventerà via via più importante negli anni a venire.

 Per chi pensa che l'obiettivo dell'”area gender critical “sia davvero di combattere il “il culto trans” e non di negare alle persone trans ("persone danneggiate" ed "enorme problema per un mondo sano" secondo Helen Joyce) l'accesso a diritti fondamentali, portiamo all’attenzione il caso del Regno Unito.

 Qui l'attivismo anti-trans, sotto la sigla “ombrello gender critical”, sta iniziando a difendere terapie di conversione, o ad attaccare il fatto che la Scozia abbia reso i prodotti mestruali gratuiti come una manovra per imporre un linguaggio “gender neutral”, fino a negare il problema della povertà mestruale.

 Lungo la direttrice “gender critical”, insomma, aspettatevi insospettabili radicalizzazioni nei prossimi anni.

4) Sa sfruttare le debolezze dell’avversario.

Al di fuori di episodi specifici, senza evidenziare contraddizioni evidenti e senza cementificare il tutto con una capacità di ragionare solida, le varie etichette appiccicabili (“razzismo”, “fascismo”) a Meloni scivolano via facilmente.

Se si resta insomma nel piano della pura retorica e dei simboli, se l’etichetta è usata perché, sotto sotto, si deve mostrare la propria superiorità morale, si compie una sottovalutazione non indifferente.

Meloni sa infatti usare elementi di compassione nella propria comunicazione, e sa poi usare quell’empatia come un’arma contro gli avversari.

Nel 2021, ad esempio, ha dedicato il “Premio Atreju alla memoria a Willy Monteiro Duarte”, il 21enne di origini capoverdiane ucciso nel 2020.

Il Premio è stato consegnato alla madre del giovane, in una toccante cerimonia.

Se andiamo ancora a leggere “Io sono Giorgia”, Meloni così parla della morte di Willy Monteiro Duarte:

Quando lessi la notizia ricordo di aver pianto, pensando a lui e, come sempre, alla sua mamma, che si vedeva strappato l’amore della sua vita solo per averlo cresciuto con valori sani, da uomo.

Racconto la storia di Willy perché lui merita di essere ricordato, e perché lui e la sua famiglia non meritavano, invece, la strumentalizzazione che è stata fatta della sua morte. [...] 

Mi sono vergognata di una classe dirigente che pensa di poter sfruttare qualsiasi cosa a suo uso e consumo, e che distorce la realtà pur di poterla piegare a suo vantaggio.

 Willy non è morto perché era di colore [sic], Willy è morto perché era un bravo ragazzo. [...] 

Quelle quattro bestie che hanno pestato a morte Willy, a differenza di ciò che qualche imbecille ha provato a sostenere, non c’entrano nulla con la cultura di destra, e infatti non avevano alcuna simpatia per noi.

Sono invece figli di tutt’altra «cultura»:

 quella di chi ha propagandato tra i giovani modelli come “Gomorra” per farci sopra i milioni, di chi non ha combattuto l’uso e lo spaccio di sostanze stupefacenti (due dei quattro avevano precedenti per spaccio, e se fossero state accolte le nostre proposte probabilmente quella sera non si sarebbero trovati a piede libero), e sono figli di quei modelli cari a certi artisti «progressisti», o «comunisti col Rolex» che dir si voglia, per i quali il successo si misura con la cilindrata delle macchine, il costo delle borse, il numero di partner che si riescono ad avere e quello delle droghe che si riescono ad assumere.

Perché Meloni riesce a fare ciò, facendo passare messaggi tra loro opposti (la strumentalizzazione di una morte dopo aver biasimato la strumentalizzazione?).

Prima di tutto perché, da politica navigata, ha imparato negli anni a far di necessità virtù, essendo cresciuta politicamente in un'area dove le donne sono facilmente considerate "il sesso debole".

 In secondo luogo, perché ha ben chiara la differenza tra definire una categoria astratta come esterna al suo gruppo di riferimento e le caratteristiche che la devono definire.

 L’elemento costante è la gerarchia tra “bravi cittadini” (noi) e “cattivi cittadini” (gli altri): l’importante è avere il potere di definire, includere ed escludere.

Il senso di appartenenza non richiede coerenza logica.

Infine, Meloni sfrutta il fatto che la sinistra (la cui classe dirigente in Italia è ad egemonia bianca) non sa affrontare le proprie contraddizioni e problematizzare le proprie forme di razzismo, o il proprio conservatorismo (come establishment).

 Pensiamo ad esempio al complesso del salvatore bianco, ossia a quella forma di razzismo in cui le persone razzializzate servono a esaltare la bontà dei bianchi, mantenendo inalterate le gerarchie sociali - l’immagine tipo è il selfie dell’operatore umanitario accanto al bambino nero, in un villaggio africano.

Pensiamo al protagonismo del ceto intellettuale di sinistra, a quanto siamo restii a “passare il microfono”.

Pensiamo al problematico “westsplaining” che domina il dibattito sull’invasione dell’Ucraina.

 Pensiamo a quanto è diffuso il classismo intellettuale nel paese, allo snobismo riservato a chi non è laureato.

C’è tutta una prateria di contraddizioni, insomma, che un abile comunicatore può sfruttare, in base al “proprio tu parli?”.

 Se, insomma, l’opposizione politica è puramente retorica e simbolica, e la prassi va da tutt’altra parte, c’è un problema di credibilità che non viene mai risolto, e che può sempre essere impugnato dagli avversari.

I Punti deboli di Giorgia Meloni: “nostalgia” del fascismo e dintorni.

1) I rapporti col neofascismo.

La classe dirigente di Fratelli d’Italia ha negli ultimi anni dato prova che” il Guardian” l’ha fatta un po’ troppo facile nel dire che Meloni respinge le radici neofasciste.

 Molti, troppi episodi ci fanno capire come il legame con il fascismo delle origini, così come con i movimenti apertamente neofascisti, sono difficilmente archiviabili con un paio di dichiarazioni.

Tanto più il giornalismo si allontana dalla fissazione di dover instaurare dibattiti pro/contro sul singolo leader (favorendone l’occupazione dell’immaginario, come accadde per il binomio berlusconismo/antiberlusconismo), tanto più si pone il problema di impresentabilità tra le fila del partito.

Pensiamo all’inchiesta di Fanpage "Lobby nera", cui Meloni ha risposto in modo ridicolo (“devo vedere il girato”).

O prendiamo anche l’elenco non esaustivo, ma assai significativo, stilato di recente da Leonardo Bianchi per Vice, che raccoglie saluti romani, foto in divisa da nazista, cene fasciste, e i rapporti con partiti e movimenti apertamente neofascisti.

 La consistenza degli episodi, il fatto che in molti casi si ricorra a giustificazioni o penose dissimulazioni (“goliardata” ecc.), o che le persone coinvolte magari non siano state allontanate definitivamente, ci fa capire che per Fratelli d’Italia una “svolta di Fiuggi” come quella che conobbe “Alleanza Nazionale” è attualmente impensabile.

Al massimo, gli esponenti del partito si possono concedere una sorta di “fascismo di Pulcinella”:

 si sa, che bisogno c’è di dirlo?

Anche perché senza quel contorno di gesti un po' fuori moda, i messaggi veicolati non dispiacciono troppo, anzi.

La stessa Meloni per "abiurare" deve ricorrere a reticenze, perifrasi o falsi sillogismi, come con lo “Spectator”:

 "Se fossi fascista, direi di essere fascista. Invece non ho mai parlato di fascismo perché non sono fascista".

Abbiamo poi anche quelli per cui “il fascismo è morto con Mussolini”. Come se Mussolini fosse stato una specie di capo-vampiro:

 una volta sconfitto la progenie è scomparsa, il castello in cui abitava è crollato.

 O la variante finto-intelletuale: “lo ha scritto De Felice”.

Anche sull’antisemitismo, presente o storico, ricordiamo le difficoltà specifiche di Meloni a difendere la propria opposizione alla commissione “Segre”: assurdo il siparietto con” Lilli Gruber”, quando si è dovuta trincerare dietro a “e allora la sinistra e Chef Rubio?”.

Pensate se dovesse difendersi da una critica simile con un giornalista della” BBC” o della” CNN”.

Ricordiamo poi un passaggio particolarmente problematico di “Io sono Giorgia”, dove la tirata contro il “politicamente corretto” finisce con il topos dell'"élite apolide" nemica della patria:

il “politicamente corretto “è un’onda d’urto, una “cancel culture” che prova a sconvolgere e a rimuovere proprio tutto quello che di bello, onorevole, umano la nostra civiltà ha elaborato.

Anche attraverso il dolore, le divisioni, i conflitti e, ovviamente, le immancabili contraddizioni.

È un vento nichilista di bruttezza inaudita che cerca di omologare tutto in nome del “One World”.

Il “politically correc”t insomma, il vangelo che un’élite apolide e sradicata vuole imporre, è la più grande minaccia al valore fondante delle identità.

Anche nella comunicazione di partito, l’aver definito nel 2019 George Soros un “usuraio” va un po’ troppo oltre il lapsus freudiano.

 

2) Rapporti di coalizione.

 

In caso di vittoria, Fratelli d’Italia si troverà a governare in una coalizione.

Tra i suoi alleati, Salvini dovrà evitare di farsi cannibalizzare sui temi analoghi, per evitare di subire quello che la Lega stessa ha inflitto al Movimento 5 Stelle durante il governo giallo-verde.

Berlusconi, invece, benché ormai molto anziano è comunque alla testa del principale impero mediatico in Italia, per cui il peso specifico che può introdurre nel dibattito pubblico non è certo eguagliabile da Fratelli d’Italia - avere giornalisti che si schierano a tuo favore è diverso dal pagare loro lo stipendio.

 Anche in caso di larga maggioranza, la coalizione è un Cerbero le cui teste potrebbe prendersi a morsi tra loro, soprattutto sulla politica estera.

 In queste condizioni stabilire un’egemonia costringe a continue contrattazioni con gli alleati politici, non solo con i gruppi di potere nel paese.

3) La congiuntura economica e politica è tutt’altro che favorevole.

Il quadro geopolitico ed economico è tutt’altro che favorevole.

 Oltre all’inflazione, alle ricadute che la guerra in Ucraina ha - tra i vari settori - nelle politiche energetiche e sui fenomeni migratori, c’è da considerare che l’emergenza sanitaria della pandemia è tutt’altro che trascorsa.

Ci sono poi gli effetti del riscaldamento globale che preoccupano la maggioranza degli italiani.

Sono tutti elementi che richiedono decisioni difficili e mostreranno quanto la capacità di vincere le elezioni sia ben diversa dalla capacità di governare - Meloni non brilla certo nel parlare di economia.

Per chi ragiona (e si schiera, parliamoci chiaro) e scrive in funzione dei sondaggi e del consenso, ricordiamo il caso del governo Johnson.

Vincitore nel 2019 con una larghissima maggioranza, “Boris Johnson” si è schiantato politicamente per l’incapacità dimostrata nel fronteggiare la pandemia e le conseguenze economiche della Brexit:

i vari scandali sono stati le tappe più imbarazzanti o vergognose di una sostanziale inettitudine.

 Persino sull’immigrazione, che sembrava un cavallo di battaglia da cui era impossibile essere disarcionata, il guanto di ferro ha iniziato a ferire la mano che lo brandisce, come nel caso delle deportazioni in Ruanda.

4) I "nostalgici" non sono l’unico problema della classe dirigente.

La dimensione locale ci consegna, con una frequenza non trascurabile, notizie di questo o quell’arresto, di indagini e scandali giudiziari vari.

 Tra gli ultimi in ordine di tempo, l’inchiesta sulle tangenti per la Fiera di Milano. Nel 2020, la trasmissione Report faceva presente un preoccupante primato:

Fratelli d'Italia non è primo solo nei sondaggi che riguardano il suo leader Giorgia Meloni, ma nell'ultimo anno e mezzo è il primo partito in Parlamento anche per numero di arrestati per 'ndrangheta.

Al di là della necessità di arrivare a sentenza definitiva prima di emettere giudizi certi, ci sono questioni di opportunità politica e di trasparenza che vanno poste circa la classe dirigente del partito e i suoi amministratori locali. Ciò non si limita al semplice problema della “nostalgia”.

Il contesto e i possibili scenari: l’Ungheria è l’Italia che saremo?

Se guardiamo a vari indicatori capaci di perimetrare il livello di democraticità dell’Italia, emerge un quadro tutt’altro che roseo.

 Per il “Democracy index stilato dall’Economist”, siamo una “democrazia difettosa”: benché vi siano elezioni regolari, ci sono aspetti problematici sul piano dei diritti, della partecipazione politica e del funzionamento del governo.

Sotto molto aspetti, siamo molto più vicini a paesi dell’Europa dell’Est come Ungheria e Polonia che a democrazie occidentali come Regno Unito e Germania.

Il Parlamento è l’istituzione che in Italia gode della minor fiducia dei cittadini.

 Per quanto riguarda i diritti LGBTQ+ per esempio siamo agli ultimi posti nell’Unione, addirittura sotto l’Ungheria di Orban.

Il nostro Indice di “Corruzione Percepita” (CPI) aggiornato al 2021, secondo “Transparency International”, ci vede al 42esimo posto, assieme alla Polonia.

Abbiamo un preoccupante deficit di mobilità sociale - peggio di noi in Europa Occidentale solo Spagna e Portogallo - e siamo tra i paesi UE con i peggiori livelli di diseguaglianza sociale, con un “poverty gap” (che misura l'intensità della povertà) da record.

Secondo il “Pew Research Center” (2019), il 55% degli italiani ha sentimenti negativi verso i musulmani, il 15% verso gli ebrei e l'83% verso rom, sinti e caminanti (la percentuale più alta in Europa).

Il “Gender Exuality Index” ci colloca sotto la media europea per quanto riguarda l'uguaglianza di genere.

 I diritti riproduttivi vedono la 194 fortemente osteggiata, senza contare quanto accade in molte Regioni per la pillola abortiva.

Sul versante laicità dello Stato, non dimentichiamo che, assieme alla Polonia, siamo uno dei 13 paesi che hanno ancora leggi contro la blasfemia.

 Tra gli aspetti che limitano la libertà di stampa, “Reporter Senza Frontiere” indica la tendenza al conformismo dei giornalisti con la linea editoriale delle testate, la paura delle querele temerarie e il declino economico del settore - cosa che naturalmente incide sulla precarietà economica dei giornalisti e sull’operare in sicurezza.

Cosa ci dice questo quadro?

A nostro avviso, che l’Italia è fortemente predisposta, tanto ai vertici quanto alla base della piramide sociale, per una gestione oligarchica o persino autocratica del potere (i "pieni poteri"), in un paese con profonde disuguaglianze e scarsissima mobilità sociale.

Per ampliare o rafforzare quella zona grigia in cui la prassi antidemocratica e la centralizzazione del potere rendono vuote le forme e minano gli architravi democratici.

C'è troppa voglia di un Uomo forte, o di un Uomo della provvidenza, e nel clima generale potrebbe anche andar bene una “Donna della provvidenza”.

 Anche la pregiudiziale antifascista, l’idea che il voto debba fermare derive antidemocratiche, è una motivazione che mostra segni di logoramento.

Da questo punto di vista, infatti, il peccato originale del 1994 ha segnato una generazione di persone che, in molti casi, ancora scrive sui giornali e dà lezione di “fascismo degli antifascisti”.

Abbiamo già avuto i post-fascisti al governo, prima che si compisse la “svolta di Fiuggi” finiana.

 Berlusconi sdoganò il Movimento Sociale come forza politica appetibile per i ceti medio-alti già quando disse che tra Rutelli e Fini preferiva il secondo come Sindaco di Roma.

Da allora, in poi, abbiamo assistito a tutta una serie di retoriche legate all’anti-qualcosa, che poi però sono state smentite da accordi politici post-voto. L’antiberlusconismo del Partito Democratico è stato smentito dal Governo Monti;

il Movimento 5 Stelle, quello della lotta alla "casta", è stato al Governo con Lega, Partito Democratico e Forza Italia.

 Le trincee dichiarate a parole, le guerre imposte nel dibattito pubblico come se il dibattito fosse una guerra in cui non si fanno prigionieri, hanno visto i vari generali tradire le proprie truppe di elettori, sfuggendo a qualunque corte marziale o tribunale del popolo.

C’è, in questa contraddizione, una prassi nichilista in cui in sostanza il messaggio di fondo che è passato, la pedagogia politica imposta ai cittadini, è stata “vale tutto, fesso è chi crede diversamente”.

“L’accountability”, quel processo di scrutinio e trasparenza con cui i politici e gli amministratori rendono conto del loro operato di fronte all’opinione pubblica, è qualcosa che per i cittadini italiani sembra sempre più sostituito dall’imperativo cortigiano del “non passare per fessi”, intanto che si dà una delega in bianco a questo o quel partito.

 Siamo inoltre un paese dove il centro-sinistra per anni ha rivendicato i risultati di una gestione securitaria dei fenomeni migratori, grazie a personalità come Minniti.

Uno che sulla strage di Macerata è riuscito a dire “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione” - strano che a cotanto veggente sia sfuggita la batosta alle elezioni.

Ma questo cedimento all'estrema destra ha riguardato in generale l'Unione europea, basta vedere scandali come quello di Frontex.

Il fatto che Meloni già abbia iniziato ad attaccare il Reddito di cittadinanza, andando in linea con i maggiori quotidiani e con quella retorica secondo cui bisogna evitare che i cittadini (in particolare i giovani!) diventino dei pigri disoccupati, non è casuale.

 Dal punto di vista economico, possiamo aspettarci tutto fuorché una destra “sociale”.

La classe operaia, così come le rappresentanze sindacali, sono dei fronti da conquistare o sconfiggere tanto per le élite industriali quanto per i populismi nazionalisti, che devono sostituire la coscienza di classe con l’identità nazionale, i lavoratori in sudditi.

In un mondo di “noi vs loro”, i pigri disoccupati sono dei cittadini di serie B.

Titoli come quello del Giornale “Piano della sinistra: lavorare meno ma scroccare tutto” si inseriscono in questa visione. I fannulloni sono anti-italiani, così come i giovani con "devianze".

Siccome l’Ungheria viene spesso evocata a proposito del pericolo di una deriva autoritaria (lo stesso “Guardian” lo fa nel suo editoriale), dobbiamo considerare un aspetto fondamentale di come funziona la “democrazia illiberale” di Viktor Orbán:

prenderlo come esempio di regime fascista è infatti improprio e rischia di produrre analisi superficiali.

 Da questo punto di vista, un paese degno di tale definizione è la Russia (oh, quanti “antifascisti” a sinistra faticano ad ammetterlo!) di Putin nella svolta impressa dalle leggi post-invasione dell’Ucraina.

In paesi come l’Ungheria il potere e il consenso non sono mantenuti attraverso una feroce repressione, come può essere per la già citata Russia, o per la Bielorussia.

 La repressione ha un costo sociale elevato, e naturalmente mette in allarme la comunità internazionale.

 Là dove il culto del capo conosce scroscianti applausi, non c'è bisogno di manganellare troppo.

 Nel caso dell’Ungheria, parliamo pur sempre di uno Stato membro dell’Unione europea, e che quindi deve sottostare a determinati vincoli.

Il potere esercitato da politici come Orbán è quello di “autocrati mediatici” (informational autocrat) attraverso la manipolazione delle informazioni, i cittadini sono persuasi delle qualità del leader, gli oppositori sono screditati, silenziati o co-optati.

Per fare ciò è naturalmente necessario un controllo pressoché assoluto dei media, leggi che permettono di esautorare pesi e contrappesi delle normali democrazia o di influenzarli in modo determinante, di narrazioni che, oltre a cementificare l’identità, forniscono dei nemici esterni che fungono da surrogati dei conflitti reali.

Il politologo ungherese” Péter Krekó “ha di recente esposto il funzionamento di questa macchina di potere e propaganda, distinguendo tra gli elementi strutturali (simili all’hardware di un computer) di cui è composta e le varie strategie di propaganda (i software) che implementa.

 Il 79% dei media ungheresi, riporta “Krekó”, è tra le mani di persone pro-Fidesz, il partito di Orbán.

Questo è un risultato che Orbán ha raggiunto a partire dal 2010, non nel corso di un anno o di un singolo ciclo parlamentare.

 

Finché un eventuale governo con Fratelli d’Italia primo partito dovesse durare, vedremo all’opera specifiche direttrici di propaganda e di conflitto, che in parte abbiamo già visto all’opera negli ultimi anni.

 Su tutte l’impiego di teorie della cospirazione come dispositivo di potere, andando a costruire quell’impasto di “grande bugia” che abbiamo visto per esempio all’opera nella presidenza Trump.

Centrale a questo risulterà una visione mitica del passato, in particolare attraverso miti che permettano di riscrivere la Seconda guerra mondiale (e dunque la storiografia fascista) presentando l’Italia come vittima, e gli italiani come un popolo ferito il cui destino è riscattarsi contro i suoi nemici, interni ed esterni.

 Un certo revisionismo lo vediamo già all’opera da tempo nella toponomastica, andando in giro per la penisola.

 Inoltre proposte come quella di introdurre il reato di “negazionismo delle foibe”, al pari del negazionismo sulla Shoah, obbediscono a questa strategia, permettendo per imposizione di legge di parlare di “genocidio degli italiani”.

Leggi di questo tipo, inoltre, possono agevolare l’attacco al mondo accademico o al mondo editoriale, e in generale qualunque sentimento anti-intellettuale (i "radical chic", i "comunisti col Rolex", e così via).

Se volete avere un’idea più precisa del conflitto a venire in tal senso, potete farvela ancora grazie al libro “Io sono Giorgia”, dove il nemico è indicato in modo molto chiaro.

 I nuovi “comunisti”:

Il comunismo era (ed è) un’ideologia incentrata sulla necessità di negare qualsiasi forma d’identità per conseguire il disegno di una società marxista, fatta di uomini in tutto e per tutto uguali tra loro.

Da qui il tentativo di cancellare le appartenenze nazionali attraverso le deportazioni di massa per «mischiare» le etnie all’interno dell’URSS e di imporre l’ateismo di Stato vietando e reprimendo ogni religione.

 Questa stessa visione, che nega il ruolo e il valore delle identità, la ritroviamo oggi nel pensiero “liberal e globalista progressista”.

Gli strumenti utilizzati sono ovviamente diversi, ma l’obiettivo finale è lo stesso.

Le deportazioni di massa dell’epoca sovietica sono state sostituite dalle politiche immigrazioniste;

la repressione violenta contro le religioni è stata rimpiazzata dalla demonizzazione sociale e culturale di ogni concetto di sacro;

la lotta al «modello borghese» è diventata lotta alla «sovrastruttura» rappresentata dalla famiglia naturale.

 È incredibile come la visione comunista si sia rafforzata nel mondo da quando il socialismo reale è stato sconfitto dalla storia nei primi anni Novanta.

Ecco, il confronto/scontro tra le visioni di destra e sinistra della società e del mondo, alla fine, è rimasto lo stesso.

Capirete bene che, di fronte a un simile nemico, moltissimi liberali - così come coloro che praticano la self-id ideologica per dirsi "moderati" - sono più che disposti a scendere a patti col diavolo.

 Basta ovviamente che il diavolo si ricordi di occultare bene le corna e la coda, e che non si senta in giro troppa puzza di zolfo.

Il tridente, invece, all'occorrenza può tornare utile.

Ma al di là di relazioni pericolose, o sostegni di comodo, c'è una contiguità di linguaggi e prospettive nel quotidiano panorama mediatico.

Il connubio scellerato tra estrema destra e stampa nella disumanizzazione, dove tutto è arruolabile pur di attaccare il "nemico" e stabilire chi è il "noi" e chi il "loro", pur di fare sensazionalismo, lo si è visto nel terribile video dello stupro di Piacenza.

 Tutto è pixellato ma si sente l'audio: la privacy è salva, l'engagement è comunque assicurato.

"Stupro choc" titola il Messaggero (esiste per caso uno stupro che non sia uno "choc"?), mettendo nell'articolo un tweet di Salvini che commenta la notizia pubblicata su un altro sito:

"Basta! Difendere i confini e gli Italiani per me sarà un dovere, non un diritto.

Sarò presto a Piacenza, per confermare l’impegno della Lega per restituire sicurezza al nostro Paese".

 Il sito, dopo quasi 24 ore ha rimosso l'articolo col video.

Ma nel frattempo Meloni, stavolta in una lingua sola, ha pubblicato direttamente il video sui suoi profili social senza farsi alcuno scrupolo.

Così scrive su Twitter:

Non si può rimanere in silenzio davanti a questo atroce episodio di violenza sessuale ai danni di una donna ucraina compiuto di giorno a Piacenza da un richiedente asilo.

Un abbraccio a questa donna.

Farò tutto ciò che mi sarà possibile per ridare sicurezza alle nostre città.

Verso sera è arrivata la notizia che circa la diffusione del video la Procura di Piacenza "ha avviato o approfonditi accertamenti, trattandosi di un fatto astrattamente riconducibile ad ipotesi di reato".

Il Garante per la protezione dei dati personali ha invece avviato un'istruttoria. Sempre ieri sera, i video sono spariti dalla pagina Facebook, dall'account Twitter in Instagram di Meloni.

 Molto probabilmente sono le stesse piattaforme ad aver rimosso i video, a causa delle segnalazioni in massa - su Twitter si può leggere ora la classica scritta "Questo Tweet ha violato le regole di Twitter".

Poche ore prima, Meloni aveva realizzato un video per stigmatizzare "le deliranti mistificazioni della sinistra contro di me".

Il Giornale ha invece parlato di "caccia alle streghe delle sinistra", mentre per Libero "la sinistra attacca lei anziché l'immigrato".

In questa efferatezza, nella cinica mancanza di qualunque deontologia, nella finta compassione mentre si dà in pasto una sopravvissuta all'elettorato per invocare "più sicurezza", nella corsa ad attaccare l'avversario senza mai esitare, perché tanto si è deciso che bisogna sempre e solo parlare al proprio pubblico di riferimento, possiamo già scorgere i segni di quanto la vita politica del paese sia predisposta al peggio per i tempi a venire.

(Purtroppo per noi, chi ha promesso che” saremo presto tutti eliminati dal mondo” è proprio la classe dell’élite straricca globalista a cui il “nuovo marxismo” progressista ci ha venduto! N.d.R.)

 

 

 

 

Verba Woland:

il teatrino mediatico.

Bruschi.blogautore.espresso.repubblica.it – Luigi Bruschi – (20 – 2 – 2022) – ci dice:

(Massimo Bruschi per La città invisibile)

 

Emiliano Brancaccio è un economista, accademico e saggista italiano.

Interessanti e originali i suoi contributi in economia tenendo presente che è stato definito un economista di “impostazione marxista, ma aperto a innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa”.

Brancaccio ha da poco dato alle stampe un saggio dal titolo “Democrazia sotto assedio”.

“La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico” (potete leggere come introduzione il bell'articolo di Daniele Nalbone su MicroMega)

La lettura del libro certo non aiuta a stare sereni.

La tesi, in estrema sintesi, è rappresentata dall'aforisma gattopardesco: tutto cambia perché nulla cambi.

“La spaventosa concentrazione del potere economico nelle mani di una “ristretta oligarchia” plasma a sua immagine l’intero sistema dei rapporti in cui viviamo”. Questo il suo mantra.

L'implicazione è che quale che siano i partiti (progressisti o reazionari, destra o sinistra), quali siano gli esiti elettorali, “Dal punto di vista decisivo della politica economica e sociale, l’azione di governo è in larghissima misura sempre uguale a sé stessa”.

Ce n'è abbastanza per scorarsi.

Scrivo però queste righe per mettere in risalto una sua idea che spiegherebbe un certo teatrino mediatico altrimenti forse incomprensibile.

Spesso, infatti, ci siamo chiesti come mai sui giornali, in tv, alla radio assistiamo di continuo a scontri tra populisti e tecnocrati (tra esperti e profani).

Ebbene secondo lo studioso napoletano si tratta di “una finzione scenica, uno spettacolo”.

Direi di una “distrazione di massa”.

Questo il motivo per cui in tv è meglio "generii no” green pass”, “no vax”, no qualcosa".

Noi pensiamo che queste trasmissioni siano concepite in tal modo per aumentare l'audience invece no:

 sono semplicemente funzionali al sistema:

“Nel nuovo universo concentrazionario in cui viviamo le uniche frange di dissenso tollerate rimangono soltanto quelle del più bieco irrazionalismo anti-scientifico”.

La spiegazione è semplice “Si delegittimano da sole, quindi rafforzano ulteriormente il potere costituito e tutto il resto deve uniformarsi”.

 

 

 

Il potere è niente

senza controllo.

Rita Remagnino.

Ereticamente.net - Rita Remagnino – (12-2-2022) – ci dice:

 

Per celebrare i 150 anni di attività la multinazionale Pirelli ha rilanciato il suo storico slogan “power is nothing without control”, un richiamo che solo un paio d’anni fa sarebbe finito nel mucchio delle promozioni commerciali, adesso invece no.

Dietro la consueta carrellata di faccine multietniche la voce narrante parla di power, di adrenalina, di ego, della sensazione che dà tutto questo.

Soprattutto oggi che abbiamo la fortuna di avere a disposizione molto più potere rispetto a ieri, e di averlo nelle nostre mani insieme a infinite possibilità di connetterci, di parlare a milioni di persone nello stesso istante, di decidere le sorti di una nazione o di un paio di scarpe, di fermare l’odio e diffondere il rispetto.

 È un attimo che la potenza si trasformi in caos, per questo c’è bisogno di una forza altrettanto dirompente, si chiama CONTROLLO e non puoi fingere di averlo.

 La potenza è nulla senza controllo.

Immagino il commento di molti: si vede che il 65% del capitale Pirelli è attualmente controllato da “China National Chemical Corporation”.

 In Occidente il nome «Cina» è ormai un sinonimo di «controllo sociale» esercitato attraverso perversi algoritmi e big data.

Pochi sanno tuttavia che l’automazione nel paese del dragone è ancora in alto mare, né esiste laggiù alcun “Certificato di Obbedienza” sotto forma di codice QR simile a quello uscito dal laboratorio-Italia, dove si misura la resistenza dei cittadini sottoposti a tensioni e privazioni che vanno oltre la soglia di criticità.

Siamo prevenuti?

 Ebbene sì, lo siamo. Ad oggi la Cina non potrebbe introdurre neanche volendo un regime di controllo distopico-orwelliano su scala nazionale, glielo impediscono la vastità dei suoi territori e la consistenza demografica del Paese.

 Persino la famigerata tessera di credito sociale è limitata all’ambito economico, difatti ne fanno uso in prevalenza le aziende (73,3%), marginalmente i cittadini (13,3%) e in modo residuale le organizzazioni (3,3%).

Alla base della sua istituzione si trova una considerazione elementare:

assodata l’ineluttabilità delle azioni illegali individuali e/o collettive, che a conti fatti sono le più dannose per il sistema economico e di welfare, meglio arginarle attraverso una serie d’incentivi anziché avviare la causa persa della lotta alla trasgressione.

 In questo modo le aziende che rigano dritto (pagano le tasse, corrispondono le quote di assicurazione sociale, stanno alle regole, etc.) e i cittadini onesti (fanno volontariato, evitano d’indebitarsi, si prendono cura dell’ambiente, etc.) guadagnano punti/soldi mentre i soggetti che si comportano in modo riprovevole li perdono.

Bastone e carota.

Può darsi che «dare voti» non sarà giudicata dai posteri la trovata del secolo, ma l’ultimo che può ergersi a giudice di tale scelta è l’Occidente in versione 4.0 con la sua arroganza, l’improvvisa svolta totalitaria, le restrizioni personali, i ricatti professionali, i confinamenti, le multe, i divieti, le punizioni.

 Senza dimenticare l’ingiustificabile ingratitudine verso gli «obbedienti», che al posto di essere premiati hanno il permesso di poter fare ciò che hanno sempre fatto.

In Cina invece il cittadino modello che ha più di 1.050 punti sulla tessera di credito sociale ottiene in cambio un’assicurazione pensionistica più alta, sussidi per il trasporto pubblico, un buon piazzamento dei figli nelle graduatorie scolastiche, la possibilità di richiedere prestiti senza interessi, una corsia preferenziale nella ricerca del posto di lavoro e via dicendo.

In linea generale il governo cinese non ha interesse a fomentare il malcontento dei suoi cittadini infliggendo castighi e punizioni.

Non perché sia un campione di bontà o un esempio di specchiate virtù, semplicemente vuole proiettare all’esterno l’immagine di una società affidabile e di un sistema economico solido per accattivarsi la clientela.

Sarà anche un atteggiamento ingannevole e furbesco, ma comunque meno dannoso del bullismo esercitato ultimamente da alcuni governanti europei, felici come ragazzini scemi all’idea di poter vessare le categorie di cittadini più restie a sottomettersi al CONTROLLO.

 Fino a pochi anni fa nessun autentico Capo di Stato, o rappresentante di governo, si sarebbe sognato di minacciare quanti manifestavano un pensiero divergente con frasi intimidatorie del tipo “vi renderemo la vita impossibile” o “vogliamo farvi arrabbiare”, correndo così il rischio di radicalizzare i conflitti con conseguenze imprevedibili.

Ma oggi, purtroppo, gli apparati statali occidentali sono nelle mani dei «tecnici», non più dei politici.

Molti di questi personaggi progettati a tavolino escono dalla scuola dei” Young Global Leaders gestita da Klaus Schwab a margine del World Economic Forum”, sono intrisi di “ideologia fino al midollo” e spesso hanno avuto un’adolescenza difficile, per cui una volta investiti di potere e instradati in un senso unico proseguono come panzer sulla linea stabilita.

La vita in Occidente si svolge ormai all’insegna del “politicamente corretto”, ovvero del “moralismo più sfrenato”, all’opposto della Cina del XXI secolo che apprezza sopra ogni cosa la moralità.

Moralismo e moralità.

Sopravvissuta al fallimento della rivoluzione maoista, alla tremenda austerità che ne è seguita, a un inaspettato boom economico durante il quale le aziende hanno sfruttato e inquinato a più non posso, la Cina moderna ha investito tutto sul concetto di” chéngxìn”, ovvero sulla correttezza, l’onestà, l’integrità. Rientra in questa visione anche il sistema di credito sociale: se ottieni un punteggio sufficientemente alto sei affidabile, se il punteggio è basso invece no.

Giusto o sbagliato che sia, decideranno i posteri.

Noi moralisti europei possiamo solo chinare la testa e guardare in casa nostra, cercando magari di leggere in modo meno altezzoso le altrui dinamiche sociali.

L’Occidente non è «il migliore dei mondi possibili», né la Cina esercita un opprimente governo orwelliano che vuole controllare in modo ossessivo ogni istante di vita dei propri cittadini.

Nel paese del dragone esiste piuttosto uno psico-potere (alla Byung Chul-Han) che ha spostato la conflittualità dalla società al singolo individuo.

I dirigenti chiedono al popolo auto-disciplina anziché disciplina.

Una mossa decisamente astuta.

Spinto dal desiderio di diventare sempre più performante l’individuo si scontra così in privato, tra sé e sé, lasciando al sistema centrale solo il disturbo di raccogliere il frutto maturo caduto dall’albero.

Anche qui la volontà di esercitare il controllo sociale è ben presente, cambiano però le modalità di realizzazione.

Se i “Global Leaders occidentali straricchi “pretendono obbedienza a suon di divieti e restrizioni (dalla vita non hanno imparato niente), i dirigenti cinesi creano obbedienza puntando su una società armoniosa (héxié shèhuì) capace di eliminare al suo interno i potenziali elementi di conflittualità e politicità.

 Sempre di CONTROLLO si tratta, su questo non ci piove, ma il modo in cui viene esercitato è differente, così come lo sono i risultati. L’ideale sarebbe una via di mezzo, anche perché sono meno inconciliabili di quel che sembra il moralismo liberista e la filosofia confuciana tesa a porre grande enfasi sulla moralità del singolo.

 Dopotutto stiamo parlando di posizioni concettuali uscite dalla stessa matrice culturale eurasiatica, quella indoeuropea, che per quanto battano strade diverse portano alla stessa meta: la stabilità e il consolidamento del potere centrale. Entrambi gli attori hanno ben chiaro in mente che non basta produrre ricchezza, la potenza è nulla senza controllo.

Il Regno del Terrore, realtà o leggenda?

Secondo alcuni l’Europa odierna si starebbe «cinesizzando», quando in realtà stiamo assistendo alla progressiva «israelizzazione» di tutti i sistemi.

 Con caparbia ostinazione la “UE”, una cricca lobbistica corrotta assai lontana dai popoli che dovrebbe rappresentare, le sta tentando tutte per staccarsi dal proprio continente-madre (l’Eurasia), dalla propria cultura, dalla propria Storia, quasi fosse costretta da una forza maggiore.

Banche, servizi segreti, multinazionali, traffici di armi, poteri scientifici, industria cinematografica, editoria, spettacolo, organizzazioni non governative.

La rete degli accordi sottobanco è talmente fitta da occultare ogni cosa.

S’intravede solo il nodo iniziale dell’intreccio: un puntino minuscolo, l’anno “1773”, in cui si sarebbe consumata una vicenda al limite dell’incredibile mai confermata né smentita.

Tutto sarebbe partito dall’idea di elaborare un piano per “dominare le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro di tutto il mondo”, ovvero per assumere il pieno CONTROLLO del pianeta, che “Mayer Amschel Bauer” presentò a una cerchia ristretta di 12 pari (un numero eloquente).

 L’esperienza suggeriva che sarebbe stato stupido imporre una dittatura, vista la breve durata di queste forme di governo, tuttavia un regime totalitario ottenuto lentamente, passo dopo passo, convincendo la gente con le buone e con le cattive, poteva dare i risultati sperati.

Non subito, probabilmente, ma non c’era fretta.

 Ciò che non si sarebbe realizzato in una generazione avrebbe trovato riscontri in quella successiva, a patto che i partecipanti e i loro discendenti seguissero per filo e per segno il piano, a cominciare dalla consegna tassativa della segretezza e dell’anonimato.

 Proprio per questo motivo la veridicità della storia è incerta, sebbene non faccia una grinza il discorso del ricco banchiere desideroso di trasformare la potenza del suo danaro in caos per suscitare una forza ancora più dirompente: il CONTROLLO.

Complottismo, teoria della cospirazione?

Ognuno è libero di pensarla come vuole ma per chi le sa vedere, scriveva “Arthur Machen”, le coincidenze portano abiti trasparenti.

 Certamente potrebbe trattarsi di coincidenze, agli accadimenti storici degli ultimi due secoli e mezzo però fa riscontro la scaletta del piano:

eliminazione della cultura, diffusione di violenza e terrorismo, corruzione della politica, lotta di classe, smantellamento dei regolamenti vigenti, diffusione tra i giovani di alcol e droghe, organizzazione di guerre e rivoluzioni, indebitamento degli Stati, panico finanziario, asservimento della stampa, ipnosi di massa per controllare le folle, delegittimazione di ogni voce fuori dal coro, esproprio dei beni della classe media, istituzione di grandi monopoli.

Nella stessa seduta il giovane “Amschel Bauer,” che all’epoca dei fatti aveva una trentina d’anni, avrebbe inoltre rivendicato agli avi la paternità della Rivoluzione Inglese (1640-60), ammettendo gli errori commessi.

Il periodo rivoluzionario era stato troppo lungo, l’eliminazione dei reazionari troppo morbida, la sottomissione delle masse da parte del neo-Regno del Terrore troppo indecisa.

Tuttavia i finanziatori erano riusciti a stabilire il proprio CONTROLLO sull’economia e sul debito pubblico inglese, mandando in buca la loro prima palla.

 Dunque valeva la pena di concedersi una seconda occasione: la Rivoluzione Francese.

Qualche tempo dopo “Amschel” decise di cambiare il suo cognome da Bauer (cioè «contadino») in “Rothschild” “rot” (rosso) e “schild” (scudo), diventando così “Amschel Mayer Rothschild”, detto “il pio Rothschild” dagli ebrei dell’Europa orientale fondatori del “Movimento Mondiale Rivoluzionario”, una corrente ideologica piuttosto violenta che agiva sotto la bandiera rossa (sangue).

Il medesimo vessillo diventerà di lì a poco l’emblema della “Rivoluzione Francese” (1789) e di “ogni altra rivoluzione” a partire da quel momento.

Lo stesso Lenin, finanziato dai banchieri per rovesciare il governo russo e stabilire la prima “dittatura totalitaria” (1917), adotterà una bandiera rossa aggiungendovi la falce, il martello e la stella a cinque punte.

Dire, fare, baciare, lettera, testamento.

La prossima volta che l’istinto vi spinge a invocare la rivoluzione quale rimedio a una situazione generale divenuta insostenibile, chiudete gli occhi e contate fino a cento.

 Concedetevi una pausa, due passi nel parco, un giro in bici, una fetta di torta.

A bocce ferme date poi una sbirciatina ai moti rivoluzionari che hanno costellato la Storia producendo grandi cambiamenti all’apparenza necessari.

 È impressionante il numero di «azioni popolari» che sfruttando la buonafede della gente sono riuscite a spianare la strada all’avanzata dei carri armati del CONTROLLO.

Per quanto ne sappiamo, c’è un solo modo per fare la rivoluzione:

 disobbedire.

 L’autentico rivoluzionario è un testardo non-violento capace di opporsi non solo agli ordini diretti ma soprattutto a quelli indiretti, subdoli e ingannevoli, che viaggiano sottotraccia per mettere le persone una contro l’altra e pilotare gli eventi.

 Lo dice la Storia degli ultimi decenni, non io.

Giudicata inutile nella misura in cui non riusciva a fare cassa la cultura «alta» (nel mirino delle autorità civili fin dal XIII secolo) venne ridimensionata dal nascente liberalismo che mal tollerava le corporazioni universitarie legate al Papato, troppo indipendenti e dotate di particolari diritti e libertà.

In maggioranza religiosi squattrinati gli accademici non servivano alla causa dei banchieri, né alla spregiudicata iniziativa privata.

Come pure i nobili, spesso in bancarotta e poco produttivi, dati in pasto alla plebe affamata della Rivoluzione Francese o sacrificati ai filosofi illuministi, che in barba al decantato spirito critico spingevano tutti i paradigmi precedenti al limite dell’incredulità per poi poterli screditare, ovvero rivisitare, secondo i dettami suggeriti dalla mano invisibile che prestava i soldi e pagava i conti.

La stessa manina diede fuoco alle polveri di varie guerre civili, e persino di due guerre mondiali, al fine di fermare l’ascesa della borghesia manifatturiera e rimodulare l’economia del Vecchio Continente (Seconda e Terza Rivoluzione Industriale).

Ancora lei mise un freno al benessere della classe media occidentale scombussolandola con la lotta politica armata e le «rivoluzioni giovanili» sessantottine.

Sempre lei gettò nel caos delle «rivoluzioni colorate» le legittime aspirazioni d’indipendenza delle ex-colonie.

Cosa dobbiamo aspettarci in concomitanza con la Quarta Rivoluzione Industriale, attualmente in corso d’opera?

Qualcuno sta già minando il campo?

Obbedienti contro ribelli, disoccupati contro lavoratori, giovani contro vecchi, bianchi contro neri, etero contro gay, sani contro malati, magri contro obesi, profeti del clima contro produttori di plastica, salutisti contro consumatori di cibo spazzatura.

Insegnavano i primi teorici del terrore che un governo capace di promuovere, mantenere e prolungare il disordine e la paura, ha già svolto metà del suo compito.

 Il resto può essere delegato a una narrazione pubblica ripetuta fino allo sfinimento e all’azione infallibile della «tirannia della moltitudine», da sempre deputata a mettere in riga gli animi inquieti.

A tempo debito l’organo di CONTROLLO potrà così applicare leggi liberticide che in tempi normali il popolo non avrebbe mai accettato.

 

Scherzi del destino.

Tocca rassegnarsi, il dado è tratto, non c’è più niente da fare?

 Tutto l’esistente è già stato detto, o scritto, o pensato, non ci sono alternative? Evidentemente la costruzione di una società globale aziendalizzata popolata da cretini è giunta a buon punto, non si può negare una cosa che sta sotto gli occhi di tutti.

 È in atto un” bias cognitivo” che ignora i contenuti per accogliere acriticamente la voce insulsa dell’intrattenimento mediatico ormai padrona dell’immaginario politico, sanitario, sociale, religioso, così che risulta praticamente impossibile realizzare un’idea al di fuori dello spettacolo stesso.

Manca, però, un ultimo tassello al coronamento del sogno totalitario: la realizzazione dell’uomo trans-umano.

 E il destino è beffardo, ha sempre voglia di scherzare.

 La tessera mancante potrebbe arrivare quando ormai i venti di guerra ne hanno spazzate via altre, impedendo così il completamento dell’intero quadro.

 Senza contare gli inciampi in cui è facile urtare quando si pensa di avere la vittoria a portata di mano;

ne sono un esempio la pericolosa accelerazione di tutti i processi e la creazione di milioni di Invisibili estromessi dalla società, ovvero incoraggiati a formare «comunità nella società», proprio da parte di chi ha predicato per secoli l’invisibilità come presupposto delle azioni indisturbate.

Due a zero per la moralità, perde il moralismo.

 A livello individuale però c’è ancora spazio per lavorare sull’auto-disciplina personale, come fanno i cugini cinesi.

Intanto non abbiamo niente da perdere, visto che in Occidente la disciplina non paga.

Incompresa per chissà quante generazioni rimarrà invece l’amarezza per l’assoluta ingenuità con cui ci siamo lasciati abbindolare, proprio noi Europei, i figli del dio della Bibbia.

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.

Dai loro frutti li riconoscerete.

Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?

 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;

un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.

Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.

Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.”

 (Matteo, 7, 15-20).

 

 

 

Il ricatto “LGBT “di Soros

 e Black Rock alle imprese.

Ereticamente.net – Cristina Gauri – Roberto Pecchioli – (5 giugno 2023) – ci dicono:

 

Presentiamo ai lettori, tradotto e annotato da Roberto Pecchioli, un articolo dirompente apparso su (euro-synergies.hautetfort.com), la prova che l’intero sistema Occidente è orientato e manipolato ideologicamente dai più grandi attori economici e finanziari, diventati paladini della cultura della cancellazione.

Non sei “woke”, cioè non sostieni la cultura della cancellazione? Ti stiamo eliminando

 È il sistema di classificazione “IEC”, promosso da George Soros e dal fondo Black Rock per le aziende che ricattano.

Quell’infinita parata di bandiere arcobaleno che ogni anno a giugno infesta i loghi aziendali in tutto il mondo occidentale, quelle improbabili testimonianze trans e non binarie che spuntano nelle campagne pubblicitarie delle più grandi multinazionali del mondo non sono messe lì per “sostenere la causa LGBT”, “l’ inclusione”, per “dare visibilità all’arcobaleno oppresso”:

devono essere interpretati come una sorta di tassa ideologica da versare alle lobby politiche finanziate dai “soliti noti” per mantenere un punteggio di “credito sociale”, cruciale per mantenere o distruggere l’attività di un’azienda.

 

 Il punteggio in questione è il “CEI”, “Corporate Equality Index” (Indice di Uguaglianza dell’Impresa) supervisionato dalla “Human Rights Campaign” (HRC) “Campagna per i Diritti Umani£, il più grande gruppo di pressione politica “LGBT “del mondo.

L’HRC, che ha ricevuto milioni di dollari dalla” Open Society Foundation di George Soros” e da altri, pubblica le schede di valutazione delle “virtù sociali” delle più grandi aziende americane per mezzo de sistema “CEI”.

Come?

 Assegnando o sottraendo punti in funzione al grado di adesione delle aziende ai criteri di valutazione definiti dall’”HRC”.

Le aziende che ottengono il punteggio massimo di cento guadagnano l’ambito titolo di “Miglior ambiente di lavoro per l’uguaglianza LGBT”.

Quindici delle prime venti imprese americane presenti nell’elenco della rivista Fortune hanno ottenuto l’anno scorso il punteggio massimo, secondo i dati HRC.

 In base all’ ultimo rapporto, più di ottocento quaranta società statunitensi sono state valutate positivamente dall’HRC.

 Ciò significa che la stragrande maggioranza delle aziende americane vive sotto il ricatto di questa lobby.

 L’ HRG, fondato nel 1980, ha lanciato la procedura CEI nel 2002;

 dal 2022 è guidata da “Kelley Robinson”, una delle organizzatrici della campagna presidenziale di “Barack Obama nel 2008”.

 I criteri di valutazione stabiliti dall’HRC sono cinque, ciascuno con i propri sottoinsiemi.

Le categorie principali sono: protezione della forza lavoro, benefici “inclusivi”, sostegno a una cultura inclusiva, responsabilità sociale d’impresa e cittadinanza responsabile.

 Un’azienda può facilmente perdere punti CEI se non soddisfa il requisito HRC di “integrare l’intersezionalità 1 nello sviluppo professionale, la formazione basata sulle competenze o su altra formazione” o se non utilizza un “programma di diversità dei fornitori con uno sforzo dimostrato per includere “fornitori Lgbtq certificati”.

Un vero e proprio ricatto con i colori dell’arcobaleno.

 L’attività pervasiva e capillare dell’HRC si traduce ogni anno nell’invio di ispettori per definire il tipo di migliorie da implementare all’interno dell’azienda.

 Alle singole imprese viene fornito un elenco di richieste che, se non soddisfatte, comporteranno un abbassamento del punteggio CEI.

Lo stesso schema CEI si iscrive all’interno del fiorente movimento degli “investitori etici”, “ESG” (Environmental, Social and corporate Governance– governo ambientale, sociale e d’impresa) portato avanti dai tre principali fondi d’investimento del paese, Black Rock, Vanguard e State Street Bank 2.

 I fondi legati all’ESG investono in aziende che si oppongono ai combustibili fossili e sostengono le quote razziali e di genere piuttosto che il merito anche nel reclutamento e nella selezione dei membri del consiglio d’amministrazione.

Le conseguenze sono ovvie:

 la maggior parte degli amministratori delegati americani è più preoccupata di compiacere i propri azionisti che di irritare i conservatori.

Esemplare è il caso sconcertante di Dylan Mulvaney:

 questo giovane di ventisei anni è passato dall’essere un uomo a una “donna” nel marzo 2021, guadagnando più di un milione di dollari per sostenere marchi di moda e utilizzare prodotti di bellezza come Ulta Beauty, Haus Labs e CeraVe, così come Crest e InstaCart, e più recentemente pubblicizzare marchi come Bud Lite (birra) e Nike.

“I grandi gestori di fondi come Black Rock abbracciano questa ortodossia facendo pressione sui gruppi dirigenti delle imprese e sui consigli d’amministrazione, e determinano in molti casi le remunerazioni e i premi dei  dirigenti, oltreché le persone che sono rielette o confermate nei consigli d’amministrazione, spiega l’imprenditore “Vivek Ramaswamy,” candidato repubblicano all’elezione presidenziale e autore del libro” Woke Inc : Inside America’s Social Justice Scam” (Woke Inc., Dentro la truffa della giustizia sociale americana) “Possono renderti la vita molto difficile se non ti pieghi al loro programma”.

Per capire meglio di che cosa parla “Ramaswamy”, bisogna risalire al 2018 e alla lettera del CEO di BlackRock Larry Fink 3.

 Descritto come il “volto dell’ESG”, ha scritto una lettera che, in tono ricattatorio, è passata agli annali della storia, diretta a tutti i CEO americani intitolata” A Sense of Purpose” (La sensazione di avere uno scopo) promuovendo un “nuovo modello di governance” in linea con i valori woke (“i risvegliati.”)

“La società richiede che le imprese, pubbliche o private, abbiano uno scopo sociale”, ha scritto Fink.

“Per prosperare nel tempo, ogni impresa non deve solo produrre risultati finanziari, ma anche dimostrare la propria capacità di contribuire positivamente alla società”, secondo la vulgata liberal progressista.

Fink ha anche affermato che “se un’azienda non si impegna con la comunità e non ha uno scopo, finirà con il perdere la capacità di investire”.

Le aziende che osano ribellarsi vengono subito penalizzate dal punteggio “IEC”. A volte il contraccolpo è sulle piccole cose:

se un’azienda non ottiene un punteggio IEC di cento, non sarà ammessa a una fiera del lavoro in un’università o vedrà limitata le sue possibilità di acquistare spazi pubblicitari.

 Le università tagliano i ponti con le aziende che non ottengono cento punti presentandole ai futuri laureati come luoghi in cui regna il settarismo.

Se è giudicata non conforme, una società può essere ritirata dai portafogli dei fondi indicizzati e dei fondi pensione.

 L’intero sistema d’impresa americano è così intrappolato in una gigantesca rete di estorsione di fondi.

Dalla mafia arcobaleno.

(Note1.     Intersezionalità è un termine coniato dalla femminista Kimberle Crenshaw. Teorizza la sovrapposizione (intersezione) di diverse identità sociali associate a dominazioni o oppressioni. Afferma che varie forme di oppressione, vere o presunte – razzismo, sessismo, abilismo, omofobia, transfobia, xenofobia, eccetera – non agiscono in modo indipendente, bensì sono interconnesse e creano un sistema fondato sull’intersezione delle varie forme di discriminazione.2.  Black Rock amministra beni per un valore di diecimila miliardi di dollari, due volte e mezzo il PIL della Germania. Vanguard supera i settemila miliardi e State Street Bank sfiora i 3.500 miliardi di dollari.  3. Laurence Fink detto Larry, californiano di origine ebraica nato nel 1952, è uno degli uomini più potenti del mondo. Tra l’altro, la sua Black Rock controlla gli asset e le risorse economiche più importanti dell’Ucraina.)

 

 

 

 

La sfida elettrica del 2035

  Gognablog.sherpa-ghate.com – (27 Aprile 2023) – Omar Abu Eiden – ci dice: 

(il fatto quotidiano.it)

Cosa succederà dopo la decisione del Parlamento Europeo di vietare la vendita di auto con motori endotermici a partire dal 2035?

Quali sono le prospettive dell’elettrificazione nel nostro Paese e nel vecchio continente?

Sono solo alcuni degli interrogativi a cui abbiamo provato a dare una risposta in una sorta di vademecum, che vi proponiamo, sulla mobilità di un futuro che sembra sempre più prossimo.

La sfida elettrica del 2035.

(dieci domande su scenari e prospettive dell’auto che verrà).

È difficile comprendere come stia cambiando l’industria dell’automobile e quali siano le prospettive di lungo termine che finiranno per interessare gli automobilisti, ma anche interi sistemi industriali, dopo la decisione del Parlamento Europeo di vietare la vendita di veicoli con motori endotermici a partire dal 2035.

Abbiamo provato a fare chiarezza su ciò che sta accadendo attraverso dieci domande:

 una sorta di vademecum sulla mobilità attuale e quella che vivremo nel futuro prossimo.

Ecco quindi un “botta e risposta” sullo scenario che si va configurando.

1) Cosa ha stabilito l’Unione Europea per il 2035?

A partire dal 1° gennaio di quell’anno, i grandi costruttori di auto non potranno più vendere veicoli che producono emissioni di anidride carbonica allo scarico, come i veicoli a benzina, diesel ed ibridi.

Quindi, allo stato attuale delle cose, potranno essere commercializzate e immatricolate solo le automobili elettriche.

Attenzione, però:

l’Eurocamera riconosce la natura inquinante di benzina e diesel di origine fossile ma non quella del motore a combustione in sé.

Ciò lascia virtualmente la porta aperta alla produzione e immatricolazione di auto a combustione interna purché alimentate da idrogeno verde (che assicura le agognate emissioni zero di CO2 allo scarico) o carburanti sintetici climaticamente neutri (di cui si parla più avanti), a patto che le emissioni allo scarico siano per l’appunto pari a zero.

Ciò detto, le auto termiche e ibride potranno circolare dopo il 2035?

La risposta è affermativa: ad oggi non è stato istituito alcun tipo di bando alla circolazione stradale di questo genere di vetture (immatricolate prima del 2035).

Non sarà quindi proibito guidarle o comprare auto usate a benzina o a gasolio. Oltretutto i piccoli costruttori di automobili – quelli che ne fabbricano meno di 1000 all’anno – potranno continuare a fabbricarle.

2) Da qui al 2035 come è articolato il programma “green” della UE?

Entro il 2030, uno dei target è ridurre del 55%, rispetto ai valori del 2021, le emissioni di CO2 generate dalle automobili e andare verso l’azzeramento completo nel 2035.

 Tuttavia, è prevista una tappa intermedia nel 2025:

 in quell’anno la Commissione Europea dovrà presentare una metodologia per valutare e comunicare i dati sulle emissioni di anidride carbonica generate durante l’intero ciclo di vita delle autovetture (cioè prendendo in considerazione pure l’impatto climatico generato dalla produzione e dallo smaltimento e non solo di emissioni di CO2 allo scarico) vendute sul mercato dell’UE.

Entro dicembre 2026, poi, Bruxelles dovrà monitorare il divario tra i valori limite di emissione e i dati reali sul consumo di carburante ed energia, trovando una quadra fra i target ambientali, sociali e industriali.

Sempre dal 2025, infine, la Commissione dovrà pubblicare, con cadenza biennale, una relazione per valutare i progressi compiuti verso la mobilità a zero emissioni.

3) Cosa è l’“Euro 7” e perché c’è tanta polemica su questo standard di omologazione?

Come noto, sin dall’avvento delle automobili con marmitta catalitica, le vetture sono state progressivamente categorizzate in classi inquinanti (Euro 1, Euro 2, ecc.) in base al loro impatto ambientale, tenendo conto non solo delle emissioni di anidride carbonica generate allo scarico ma anche di quelle di altre sostanze prodotte durante il loro utilizzo, come gli ossidi di azoto e il particolato.

Nel corso degli anni l’efficientamento dei motori, la loro elettrificazione (auto ibride) e il perfezionamento dei sistemi di post trattamento dei gas di scarico, ha consentito ai veicoli tradizionali di diventare sempre più puliti.

Attualmente, lo standard per l’immatricolazione di auto di nuova fabbricazione è l’Euro 6 d. Oggi, però, fanno discutere gli standard Euro 7 (in vigore dal 2025) come ulteriore step evolutivo dei motori termici e ibridi prima dell’arrivo del 2035.

I costruttori denunciano infatti alle Istituzioni che gli investimenti per adeguare le produzioni all’Euro 7 rischiano di rendere il costo delle auto ancora più elevato e distrarre fondi destinati all’elettrificazione.

 Per giunta a fronte di vantaggi ambientali, quelli che porterebbe l’Euro 7, assai limitati rispetto all’attuale Euro 6 d.

In altri termini, per i costruttori non si possono sommare agli investimenti in corso per garantire la totale elettrificazione a quelli necessari a rispettare l’Euro 7, pronto a entrare in vigore da luglio 2025.

 Ecco perché molte aziende del settore chiedono una moratoria sull’Euro 7 al fine di concentrarsi sulla elettrificazione totale dei veicoli.

 Introdurre l’Euro 7, a detta dei costruttori, significa chiedere alle case automobilistiche di realizzare motori che avranno una vita utile assai breve prima di essere resi fuorilegge dalle decisioni prese per il 2035.

4) Perché alcune multinazionali europee invitano a un approccio più equilibrato sull’elettrificazione?

Perché in ballo c’è un asset strategico europeo, quello dell’automotive, che rischia contraccolpi negativi.

Un concetto (nuovamente) esplicitato sulle colonne del Sole 24 Ore anche da Luca de Meo, numero uno del Gruppo Renault (colosso impegnato in un piano di elettrificazione su larga scala) e numero uno del’ACEA (l’associazione continentale dei costruttori), che è tornato a chiedere all’Europa un approccio strategico improntato alla neutralità tecnologica nonché una politica industriale che salvaguardi gli interessi europei.

“Ci muoviamo in un contesto di regolamenti sempre più severo”.

Oltre allo stop alla produzione di auto a motore endotermico dal 2035, “ci stanno pure chiedendo di fare un Euro 7 che tecnicamente è infattibile”.

De Meo fa riferimento al fatto che “per come è scritta la norma oggi, tutti i motori a combustione interna andranno fuori dal mercato dal 2025”.

Ma ciò apre la strada a due rischi.

Il primo è rappresentato dalle aziende “cinesi, che hanno più controllo di noi sulla catena del valore (sono i maggiori produttori di batterie e controllano la catena del litio necessario per costruirle), e possono utilizzare l’elettrico per conquistare quote”.

 Il secondo è “l’asimmetria a livello di competizione tra le ‘placche’ America, Europa e Cina che le autorità devono correggere.

Non voglio parlare di protezionismo.

Si tratta di non essere naïf e di fare rispettare un principio di reciprocità”.

“Le regolamentazioni devono rispettare il principio della neutralità tecnologica.

Noi produttori di auto intendiamo dire la verità.

E la verità è che dobbiamo guardare all’intero ciclo,” cradle to grave” (dalla culla alla tomba, ndr), e non al tank to wheel (dal serbatoio alla ruota, ndr).

 Così, se il nemico è la CO2, ci si apre ad alternative.

Che possono essere il motore a combustione con dei mix di carburanti meno impattanti come gli e-fuel o il biodiesel.

Ma nella normativa europea non è previsto”.

 E se le previsioni dell’Europa in merito alla mobilità elettrica fossero sbagliate? “Per adesso abbiamo sentito commissari dirci che se qualcosa non funzionerà si potrà correggere la rotta nel 2026 o 2027.

 Piccolo particolare: i costruttori hanno già impegnato qualcosa come 250 miliardi di euro di investimenti.

 Non possono dirci “abbiamo scherzato”.

C’è invece chi ha preso una posizione più netta e opposta.

 Come la Responsabile Sostenibilità di Polestar, brand sotto il controllo dei cinesi di Gruppo Geely, Fredricka Klaren:

 “Non possiamo continuare a utilizzare combustibili fossili”.

La manager ritiene che l’unica strada perseguibile sia quella della tecnologia elettrica a batteria:

“La nostra strategia climatica si basa sull’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change).

In Polestar vogliamo essere neutrali dal punto di vista climatico entro il 2040 e dimezzare le emissioni entro il 2030.

Non è solo quel che possiamo fare ma, soprattutto, è ciò che gli scienziati del clima ci dicono di fare.

 Abbiamo solo sette anni prima di raggiungere 1,5 gradi di riscaldamento globale. Qualsiasi cosa dopo il 2030, non ci interessa”.

5) Perché si parla di “rischi sociali” dell’elettrificazione?

Un quesito che ha più di una risposta.

Dal lato del consumatore, il problema in prospettiva è quello del costo delle auto elettriche, fino al 50% più elevato rispetto a quello delle equivalenti termiche: per alcuni costruttori si rischia di trasformare la mobilità privata in un lusso per pochi, specie se il prezzo delle batterie – che rappresentano la voce di spesa più ingente nella fabbricazione di un veicolo elettrico – non scenderà drasticamente.

Dal lato occupazionale, invece, la questione è che fabbricare auto elettriche richiede investimenti ingenti e una forza lavoro minore rispetto alla produzione di auto tradizionali.

Un mix di fattori da cui consegue che la transizione potrebbe costare il posto di lavoro a decine di migliaia di persone.

Prospettive che atterriscono il comparto automotive nostrano, che vale un indotto da oltre 700 aziende (il 33,3% di 2.202 presenti sul territorio nazionale) per un fatturato di circa 17 miliardi l’anno.

 Realtà che danno lavoro a quasi 60 mila persone.

Mentre in Europa questa industria pesa per 13 milioni di posti di lavoro, che equivale al 17% della popolazione attiva, l’8% del Pil, 80 miliardi nella bilancia commerciale continentale, 400 miliardi di tasse legate alla mobilità.

Per Adolfo De Stefani Cosentino, presidente di Federauto, l’associazione di rappresentanza dei concessionari automobilistici, la situazione è critica:

“Pur condividendo l’obiettivo di azzerare le emissioni dei veicoli, restiamo convinti che l’arco temporale previsto, e dunque un’interruzione così brusca della produzione e commercializzazione di veicoli a combustione interna, metterà a rischio non solo la competitività delle imprese italiane ed europee in un settore strategico dell’economia, ma soprattutto decine migliaia di posti di lavoro in tutta Europa, a vantaggio dei competitor internazionali, principalmente cinesi, i quali hanno anche la leadership tecnologica sulle batterie che alimentano i veicoli elettrici.

È evidente che l’abbandono del diesel e benzina in un così breve lasso di tempo non andrà a vantaggio né dell’industria, né delle imprese dell’indotto distributivo e di assistenza post-vendita dei veicoli, né dei consumatori italiani ed europei che già stanno sopportando un aumento dei prezzi consistente”.

Tuttavia, secondo uno studio sull’impatto economico del passaggio dal termico all’elettrico realizzato da Motus-E e CAMI (il Center for Automotive and Mobility Innovation del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari Venezia) le cose starebbero diversamente: “Considerando le nuove sotto filiere della mobilità elettrica i posti di lavoro del settore auto possono aumentare del 6% entro il 2030. Un incremento subordinato alla lungimiranza della politica industriale dell’immediato futuro, a cui sommare altri 7.000 nuovi occupati solo nel segmento infrastrutture ed energia al servizio della eMobility”.

Per Massimo Nordio, presidente di Motus-E, è necessario “puntare subito sulle tecnologie in espansione, perdere tempo vorrebbe dire indebolire ulteriormente il settore e cedere ad altri Paesi la nostra leadership nella componentistica”.

“La filiera italiana dell’auto ha il potenziale per rimanere protagonista nell’industria.

Ciò a patto che gli investimenti in nuove competenze e l’azione di riposizionamento siano rapidi, mirati e sostenuti da opportune azioni di policy”, sostiene Francesco Zirpoli, Direttore scientifico di CAMI: “Ci sono le condizioni affinché l’innovazione tecnologica porti benefici non solo di natura ambientale, ma anche economica e sociale”.

 

6) Cosa sono i carburanti sintetici? Possono essere un’alternativa per la decarbonizzazione?

I carburanti sintetici, anche chiamati “e-fuel”, sono benzina e diesel carbon neutral, cioè a impatto di carbonio sull’ambiente prossimo allo zero: quindi, con la loro combustione non viene immessa nell’atmosfera anidride carbonica aggiuntiva rispetto a quella già esistente.

Per sintetizzarli si parte dall’idrogeno verde, ricavato dall’acqua tramite elettrolizzatori alimentati a energia rinnovabile (eolico, fotovoltaico, ecc.).

Più nel dettaglio, gli elettrolizzatori sintetizzano idrogeno verde tramite l’elettrolisi dell’acqua, processo con cui si separa l’ossigeno dall’idrogeno mediante l’utilizzo di corrente elettrica.

Per produrre carburanti green, il suddetto idrogeno viene successivamente combinato con l’anidride carbonica catturata nell’atmosfera – la CO2 in questione può provenire pure dalle lavorazioni industriali di acciaio, cemento, fertilizzanti nonché raffinerie – per produrre metanolo da convertire in benzina, gasolio o cherosene (usato in campo aeronautico).

Questi carburanti quindi, utilizzati nei motori endotermici, rilasciano nell’ambiente la stessa quantità di anidride carbonica adoperata per sintetizzarli. Un bilancio che li rende climaticamente neutri.

Ulteriori benefici?

 Rispetto ai carburanti di origine fossile vengono rilasciate nell’ambiente quantità di ossidi di zolfo e biossido di azoto trascurabili.

 La benzina carbon neutral che sta producendo la Porsche (insieme a Enel Chile, Chilean power company AME, la compagnia di Stato cilena Enap National Oil Company e Siemens Energy) ha già un prezzo inferiore ai 2 dollari al litro.

 Per Michael Steiner, responsabile Ricerca e Sviluppo del costruttore, “il potenziale degli e-fuel è enorme. Attualmente ci sono più di 1,3 miliardi di veicoli con motori a combustione interna in tutto il mondo.

Molti di questi rimarranno sulle strade per i decenni a venire e gli e-fuel offrono ai loro proprietari un’alternativa quasi a emissioni zero”.

7) Le batterie esauste delle auto elettriche possono essere riciclate?

Dopo che hanno completato il loro primo ciclo vitale “a bordo” di un’auto elettrica (e conservano ancora una capacità utilizzabile residua attorno al 70%), le batterie possono essere recuperate per espletare funzioni di seconda vita: possono diventare serbatoi di energia per diverse applicazioni (batterie domestiche, accumulatori per reti elettriche, ecc.).

 Inoltre, è tecnicamente possibile riestrarre la quasi totalità dei materiali preziosi (litio, cobalto, nichel, manganese) che le compongono.

Quindi le batterie sono altamente riciclabili, si stima per oltre il 90%.

C’è nondimeno da considerare che il processo richiede una cospicua quantità di energia elettrica:

da qui, la necessità che quest’ultima sia green al fine di emettere meno anidride carbonica possibile durante le operazioni di recupero delle batterie esauste.

 

8) Quanto conta l’autonomia?

La batteria piccola è più eco-friendly?

Attualmente l’autonomia delle auto elettriche è limitata: con le tecnologie attualmente a disposizione l’unica maniera per ovviare al problema è far crescere la taglia della batteria.

Ne consegue che si impiegano batterie sempre più grandi, che hanno un impatto ambientale più critico rispetto agli accumulatori di taglia più piccola.

 Lo conferma una recente analisi del Transport Research Laboratory (TRL), che evidenza come soltanto il 50% degli utenti prenderebbe in considerazione l’acquisto di un veicolo a batteria con autonomia di 320 km.

Mentre tale percentuale passa al 90% se l’autonomia salisse a 480 km.

Il ricorso a batterie agli ioni di litio più grandi, però, oltre a far lievitare il costo del veicolo, comporta emissioni di CO2 globalmente superiori, derivanti dalla fabbricazione stessa dell’auto (l’assemblaggio di un’auto elettrica comporta mediamente emissioni di CO2 superiori del 75-100% rispetto a un veicolo termico: differenza da attribuirsi proprio alla fabbricazione della batteria), dal maggior dispendio energetico per l’estrazione degli elementi necessari a produrre la batteria, finanche al suo riciclo.

Sembra che alcuni costruttori, peraltro, abbiano già messo a fuoco il problema, iniziando ad adottare batterie più compatte.

Come la Mazda, che per la sua elettrica MX-30 usa un accumulatore da 35,5 kWh, che offre un’autonomia dichiarata di (appena) 200 km.

“Non crediamo che una batteria molto grande, che significa un veicolo grande e pesante, sia la giusta direzione per il futuro”, sosteneva recentemente Joachim Kunz, responsabile europeo della ricerca e sviluppo di Mazda:

“La produzione di batterie comporta emissioni di CO2 molto elevate dall’estrazione e dalla produzione del materiale.

Un fardello che è molto più piccolo se la batteria è più piccola.

Inoltre durante l’uso il consumo di energia è inferiore grazie al peso ridotto dell’automobile”.

Anche perché, mediamente, gli automobilisti percorrono chilometraggi giornalieri che oscillano fra 22 e 72 km.

Dello stesso avviso è pure Thomas Ingenlath, amministratore delegato di Polestar – come detto azienda del Gruppo Geely, di cui fa parte anche Volvo –, che in tempi recenti sosteneva che l’autonomia di un modello elettrico debba essere di circa 480 km affinché il veicolo sia realmente competitivo ma, al contempo, l’industria “non può impegnarsi in una corsa all’autonomia, perché ciò significherebbe andare in una direzione irresponsabile.

 Se parliamo di rendere un’auto più efficiente, io sono d’accordo ma se stiamo solo aggiungendo sempre più chilowattora solo per migliorare commercialmente la gamma, questo non ci aiuta certo ad avvicinarci alla sostenibilità delle auto”.

 

9) Come sta rispondendo il mercato italiano all’auto elettrica?

Secondo l’analisi qualitativa BEV – Italy Progress Index, realizzata da Quintegia, il 2022 è stato un anno difficile per le auto elettriche in Italia, con un immatricolato in calo del 26,6% rispetto al 2021 (con 49.500 BEV immatricolate nel 2022).

 Gli ultimi tre mesi dell’anno hanno segnato un leggero recupero, ma comunque non sufficiente:

“Da luglio a settembre si sono contate poco meno di 11.000 immatricolazioni di vetture elettriche, per arrivare invece a oltre 13.000 nel trimestre conclusivo. Il mese di dicembre con 4500 immatricolazioni BEV non è stato così impattante come negli anni precedenti ma in linea con gli altri mesi del 2022”.

 

Tra gli stati dell’Unione Europea il nostro Paese si piazza al 18esimo posto su 26 per quota di mercato delle BEV con 3,7%, contro il 12,1% della media dell’Unione Europea.

 “Direzione opposta per la situazione delle infrastrutture di ricarica pubblica in cui l’Italia risulta a buon punto e con un ritmo di crescita molto alto.

Nel 2022 infatti sono state installate oltre 6.000 infrastrutture, quasi la metà di tutte quelle già presenti sul territorio a fine dicembre 2021”.

Per quanto riguarda il parco circolante, nel nostro Paese il numero di vetture nel 2022 ha superato le 167.000 unità BEV, che in termini percentuali vuol dire +41,5% rispetto al 2021.

10) Quali sono le prospettive di lungo termine per le auto termiche, ibride ed elettriche?

Secondo un’elaborazione dell’Osservatorio Autopromotec, sulla base di studi del Bloomberg New Energy Finance, Goldman Sachs e del Gruppo Wood Mackenzie, tra vent’anni i due terzi delle auto in circolazione nel mondo saranno ancora alimentati da motori a combustione interna, mentre il restante sarà rappresentato da veicoli elettrici.

Per la precisione, il 67% del parco circolante mondiale sarà formato da veicoli a benzina, diesel e ibridi (full o mild), il 28% da elettriche pure e ibride plug-in, mentre il restante 5% sarà formato da alimentazioni alternative come l’idrogeno (ma anche il metano e il GPL).

Anche se la mobilità elettrica subirà un’accelerazione a partire dal 2035, anno in cui nell’Unione Europea non potranno più essere commercializzati veicoli con motori endotermici, a livello mondiale questi ultimi continueranno a risultare i più diffusi.

Tuttavia, per quanto riguarda le vendite, i veicoli 100% elettrici saranno i più richiesti entro il 2050.

In particolare la loro quota di mercato arriverà al 56%, contro il 18% delle motorizzazioni tradizionali, il 16% degli ibridi non alla spina il 5% di plug-in, ed il 5% di altre motorizzazioni tra cui l’idrogeno.

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.