Gli uomini poveri contro il potere dei ricchi.
Gli
uomini poveri contro il potere dei ricchi.
Poche
tasse e tanto potere. I filantropi
miliardari
sono davvero ‘ricchi e buoni’?
aics.gov.it
- Emanuele Bompan – (10 Novembre 2020) – ci dice:
Il
libro di “Nicoletta Dentico” accende un dibattito critico sul ruolo dei super
filantropi.
Sgravi
fiscali, eccesso di potere, mancanza di controlli.
Eppure
gli impatti positivi ci sono. Sono davvero da riformare queste istituzioni?
Per
quali scopi i superricchi fanno sempre più filantropia?
L’ultimo lavoro di Nicoletta Dentico, esperta in
cooperazione internazionale, dal titolo interrogativo “Ricchi e buoni?”, pubblicato dall’”Editrice Missionaria
Italia”, fa una disamina originale di quello che l’autrice definisce filantrocapitalismo, aprendo un’importante tema di
discussione sul ruolo delle fondazioni dei multimiliardari.
Che
ruolo hanno le grandi Fondazioni come la” Bill & Melinda Gates”, le operazioni
come “Giving Pledge”, sostenuta generosamente dai “Zuckerberg”, le donazioni
sostanziose di filantropi più tradizionali come “Ted Turner” e “Bill Clinton”?
Come ne beneficiano personalmente? Come caratterizzano
il discorso della cooperazione allo sviluppo?
Il
libro, di forte
ispirazione antiliberista, mette i grandi filantropi sotto la lente d’ingrandimento
per analizzare gli impatti di questo nuovo potere economico e culturale.
«Oggi si sta vivendo una seconda età
dell’oro della filantropia», spiega Nicoletta Dentico, «che nasce esattamente nel momento in
cui è fallita la richiesta di globalizzazione dei diritti richiesta dai
movimenti altermondialisti, dove attori arricchitisi grazie alla deregolamentazione dei
mercati hanno iniziato a giocare un ruolo centrale nelle grandi sfide globali
per i diritti, per l’ambiente, per la salute».
Una
classe di tycoon, vincitori sulla scena della globalizzazione economica, che
colgono l’occasione per dipingersi come salvatori globali – quasi tutti uomini,
bianchi, americani – e scoprono di poter esercitare un’influenza crescente
sulla governance mondiale.
«Arrivando
a poter modificarne le regole, proponendo alleanze con il settore privato, e
divenendo di fatto attori multilaterali.
Non a
caso oggi fondazioni come la Gates siedono al tavolo come pari con istituzioni
come l’Oms o la Banca Mondiale, dove possono godere di un potere che nessuna
organizzazione non governativa ha mai avuto».
Uno
dei tanti progetti che il libro critica è “Agra” (“Alliance for Green Revolution in
Africa”, emanazione della Fondazione Bill & Melinda Gates) dove è evidente – scrive la Dentico
– l’eccessivo
ruolo del settore privato nello sviluppo delle tecnologie agricole e dei
relativi mercati, destinati a piccole e medie imprese agricole locali. «Si dà
aiuto ai poveri, ma si sviluppano nel contempo mercati privati».
Il
libro critica anche i benefici economici per i super filantropi, a partire
dagli sgravi fiscali, che sono sostenuti dai contribuenti per detassare profitti
miliardari e
quindi diretti ad un beneficio economico diretto.
«Ma è
il potere la cosa che più interessa, il poter avere un ruolo al pari di
organizzazioni internazionali governativa», accusa la Dentico nel testo
«Con i ministri che accolgono queste persone a
braccia aperte per poter lavorare insieme” (… a rubare. N.D.R.).
Il
libro, molto ben documentato, tende però ad ignorare anche gli importanti
risultati raggiunti da alcune di queste fondazioni filantropiche sovvenzionate
da ricchi paperoni che hanno contributo, ad esempio, alla lotta per
l’eradicazione delle malattie in molti Paesi.
Ma il
problema sta alla base.
«C’è una questione di filantropo colonialismo che va
posta: vogliamo davvero che questi attori detengano tutto questo potere?
O
possiamo regolamentare il loro ruolo, e allo stesso tempo aprire una
discussione su come ripensare lo sviluppo?».
Forse più che le fondazioni, c’è da sanare lo
squilibrio che permette ad un numero ristretto di super ricchi di accumulare
fortune faraoniche, dove l’1% più ricco detiene il doppio della ricchezza netta
dei 6,9 miliardi più poveri.
In
questo modo, forse anche la filantropia potrebbe essere più diffusa e
decentrata.
(Emanuele
Bompan).
(Giornalista
ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici,
green-economy, politica americana.)
La
protezione diseguale dei ricchi
contro
i poveri. L’istruzione e la scienza come
beni
comuni da proteggere contro il potere.
Wolfgang
Streeck.
Articolotrentatre.it
-Pino Salerno – (17 ottobre 2022) – ci dice:
Wolfgang
Streeck è tra i sociologi più affermati della tradizione che proviene dalla
Scuola di Francoforte.
La sua analisi del capitalismo contemporaneo e
della sua probabile fine, in virtù di cinque tendenze ormai in atto che ne
segnano il declino, resta una pietra miliare nel dibattito intellettuale e
filosofico a sinistra.
Lo
abbiamo incontrato a Modena, nel corso del Festival Filosofia.
Ecco cosa ci ha detto, partendo dalla ricostruzione della cosiddetta
industria della protezione dei ricchi.
Professor
Streeck,
la sua ricerca sul declino del capitalismo si arricchisce sempre di nuovo di
analisi e di riflessioni assai utili nel dibattito pubblico, soprattutto a
sinistra.
Lei ha introdotto il tema della ricchezza e
delle disuguaglianze vecchie e nuove.
E oggi
queste ultime vengono approfondite con il sistema della protezione sociale.
La
protezione sociale è un’invenzione dello Stato moderno.
E se guardiamo da vicino il fenomeno, ci
rendiamo conto che la protezione non è per i poveri ma per i ricchi.
Quando
parliamo di disuguaglianza, di solito parliamo di reddito ma forse è
preferibile o addirittura più importante considerare la disuguaglianza di
ricchezza.
E la maggior parte della ricchezza non deriva
da un reddito ma viene ereditata.
Se
vogliamo capire com’è fatta la nostra società basta guardare alla distribuzione
della ricchezza.
Essa è
distribuita in modo iniquo perché nella gran parte viene ereditata e non è
frutto di un lavoro.
Per capire la struttura sociale diseguale,
faccio distinzione tra due categorie di persone: i poveri che lavorano e i ricchi che
non lavorano.
I
poveri non possono vivere senza lavorare o senza esser pronti a lavorare, non
possono scegliere di non lavorare perché per loro il lavoro è obbligatorio.
Invece, per i veri ricchi il reddito deriva
dalla stessa ricchezza, e possono vivere anche senza lavorare, e possono
decidere di lavorare, ma si tratta di una scelta, non di un obbligo sociale.
È una
vita diversa dalla maggior parte di noi, che non abbiamo altra scelta. Dobbiamo trovare qualcuno che ci paga
per quel che facciamo.
Possiamo
dunque approfondire il tema della disuguaglianza sociale come portato storico
della distribuzione diseguale della ricchezza?
Ora,
cerchiamo di capire la struttura delle disuguaglianze nella nostra società.
Più si
diventa ricchi e maggiore è la porzione di reddito che deriva dalla ricchezza. Se ci si trova nella classe sociale
più elevata, si scopre che oltre il 90% deriva da investimenti, magari, ma non
dal lavoro.
Nella maggior parte delle nostre società il 10 per
cento possiede circa il 70 per cento della ricchezza.
Se
però guardiamo all’1 per cento, esso detiene il 32 per cento della ricchezza.
La struttura sociale che deriva da questa
distribuzione diseguale della ricchezza ci mostra che la ricchezza è affare di
famiglie.
Molti
dei ricchi che non lavorano provengono da famiglie che sono state ricche per
generazioni e generazioni e hanno utilizzato i matrimoni tra simili.
Inoltre,
i genitori ricchi si preoccupano che i loro figli socializzino coi figli di
altre famiglie ricche, soprattutto quando scelgono la scuola o l’università,
dove i loro rampolli possono incontrare partner attraenti di cui innamorarsi.
Nelle
università americane e nei college britannici queste istituzioni portano alla
crescita globale dei più ricchi, poiché i figli diventano amici di altri
ricchi.
È importante dire che conosciamo poco della
vita dei ricchissimi, poiché svolgono un’esistenza separata.
Ed è
in questo contesto che si genera il fenomeno della protezione sociale della
ricchezza.
La
vita dei facoltosi, dei ricchi che non lavorano, non è priva di preoccupazioni.
Se si
è davvero ricchi, ci si trova nella condizione di richiedere una protezione
illimitata, nel tempo e nello spazio.
I ricchi sembrano avere una costante paura che
i loro figli o i loro famigliari vengano sequestrati, per il riscatto.
Inoltre, i ricchi assumono guardie del corpo,
di solito ex agenti di polizia, che lavorano per istituti privati.
E
temono separazioni e divorzi perché potrebbero intaccare la solidità della loro
ricchezza.
Per
questa ragione essi assumono manager che sanno come distribuire queste
ricchezze, come nasconderle in fondi segreti dislocati in tutto il mondo.
Le ricchezze vengono così depositate in luoghi
segreti e inaccessibili.
Qualsiasi
cosa facciano, le persone ricche sono costrette a farlo con prudenza e con
attenzione, e spesso si basano su disposizioni dettagliate contro un mondo che
considerano ostile e potenzialmente rapace nei loro confronti.
D’altra
parte, però, i ricchi che non lavorano, a differenza dei lavoratori poveri, non
hanno mai la possibilità di spostarsi da soli.
Ed è
questo uno degli aspetti della disuguaglianza economica, perché quando devono
amministrare i propri affari, i ricchi, i facoltosi, possono contare su
assistenti che conoscono le loro esigenze e quindi sono disposti ad aiutarli a
sopravvivere in un mondo pieno di rischi, reali ma spesso immaginari.
Questo
“necessario isolamento” ci conduce alla creazione di istituti scolastici
separati…
Nelle
scuole migliori i figli dei ricchi possono incontrare persone che possono farli
sentire in colpa proprio per il fatto di essere ricchi, facendo nascere in loro
il desiderio di abbandonare la loro classe sociale di appartenenza, e se questo
accade ci sono miriadi di psicologi di professione che si offrono per parlare
ai figli del senso di appartenenza alla loro classe sociale, dei doveri e delle
responsabilità.
E sono in grado di convincerli che
l’accentramento della ricchezza è positiva per la produttività.
Così
viene loro insegnato a sostenere il fardello di una società di capitali, in
modo che questa ricchezza non venga dilapidata con investimenti sbagliati.
Ciò si
basa su una società delle disuguaglianze.
La
maggior parte delle cose che noi facciamo da soli, viene eseguita da dipendenti
selezionati attentamente, da società di sicurezza, da professionisti
dell’immagine pubblica positiva, anche della vita privata, da amministratori in
grado di nascondere il patrimonio e per garantire il flusso di rendite che
consentono di guadagnare senza lavorare.
Il
fatto è che i rampolli delle famiglie ricche provengono dalle migliori
università e potrebbero lavorare con molto profitto.
Da qui
nasce l’industria della difesa della “ricchezza degli oligarchi”, come li
chiama “Winters”.
Da qui
emerge una deriva ideologica:
il sistema politico e sociale che assicura la loro
ricchezza deve essere difeso.
E
qualora i legislatori dovessero mettere in discussione la loro ricchezza, ecco
che essi mobilitano, come una lobby feroce ma coesa, tutti coloro che possano
difendere i privilegi acquisiti.
Ed è
così che si introduce nell’opinione pubblica, e viene insegnato nelle loro
scuole, il concetto che una dose di ricchezza nelle mani di pochissimi è utile
per tutti.
Ma
così essi fanno in modo che il governo di un Paese faccia parte della loro
industria di protezione.
Cosa
succede se quella ricchezza non fosse più al sicuro per effetto di una
decisione politica o di una legge?
Nel
2017, quando Trump si insediò alla Casa Bianca, la prestigiosa rivista “The New
Yorker “pubblicò un articolo dal titolo “Preparativi per il giorno del
giudizio per i super ricchi”.
L’articolo
sosteneva che alcune delle persone più ricche d’America si stavano preparando
per il crollo della civiltà, per una catastrofe incombente che minacciava non
solo i patrimoni ma le loro stesse vite.
L’ascesa
di Trump venne assunta dai super ricchi come la “sovrabbondanza del potere”
nelle mani dei sottoproletari bianchi.
Cinque
anni dopo, alla luce di quanto accaduto, compreso l’attacco del 6 gennaio a
Capitol Hill, si può presumere che il tema della sopravvivenza tra i super
ricchi americani continui a prosperare e con esso anche l’industria che
soddisfa i bisogni di queste persone.
Come
fare a sopravvivere quando si è nella parte più bassa della scala sociale?
Se la
vita dei super ricchi è paradossalmente diventata precaria, quella dei
lavoratori poveri lo è sempre stata.
Per i lavoratori poveri la precarietà è una
condizione esistenziale che risulta innanzitutto dal fatto di non avere
ricchezza, di non avere un patrimonio.
Un
numero crescente di persone nelle economie capitaliste, nelle democrazie
occidentali, non ha alcun risparmio di sorta per far fronte all’improvviso
declino del loro potere d'acquisto, se consideriamo l'aumento del costo della
vita e dell'inflazione.
Parecchi
lavoratori poveri si trovano in difficoltà a ridosso del giorno della paga
perfino per acquistare cibo per le loro famiglie.
Negli
Stati Uniti, ma anche in Europa, ci sono persone il cui normale salario non è
sufficiente a sfamare la famiglia fino alla fine del mese.
E cosa fanno?
Usano
carte di credito, accumulando debiti, in quote sempre crescenti.
Negli
Usa ci sono famiglie con dieci o quindici carte di credito utilizzate a questo
scopo.
Ma ci
sono famiglie che fanno ricorso a società usuraie.
E in
quest’ultima situazione sono sempre più le persone in difficoltà.
Nel
modello” Welfare State” assicurare i lavoratori contro la distruzione del
capitalismo è considerata un’azione delle politiche pubbliche incaricate di
salvaguardare l’ordine pubblico.
E a
tal proposito, c’è un nuovo problema, costituito dall’aumento del costo della
vita con un’inflazione non determinata dai sindacati ma dalla carenza degli
approvvigionamenti delle materie prime.
Questo
tipo di assistenza ad hoc è aumentato di recente, non solo negli Usa ma anche
in Europa.
Riflettiamo
sul fatto che il numero di famiglie senza risparmi è cresciuto nel ceto
medio-basso, ad esempio tra i nuclei con madri single che non hanno tempo
sufficiente per fare un secondo o un triplo lavoro.
In
genere, gli Stati coprono le spese aggiuntive per mantenere i poveri al lavoro,
sottoscrivendo debiti che si aggiungono al già elevato debito pubblico.
Proteggere
i lavoratori dalla fame si aggiunge ai costi del capitalismo, che non è solo
infrastrutture adeguate?
Ci
sono costi necessari che servono ai capitalisti per mantenere la pace sociale.
Più
pace sociale è necessaria e più alti sono i costi sociali.
Creare le condizioni ottimali per il profitto
capitalistico, considerato come obiettivo primario per ogni governo, provoca la
crisi fiscale dello Stato, ovvero, il divario crescente tra la spesa pubblica
necessaria per il profitto del capitalismo e l’entrata pubblica prevista per
questo, tra ciò che il capitalismo pretende dal governo e ciò che è disposto a
versare nelle casse pubbliche come contropartita.
Beh,
questo divario sta crescendo, ecco perché la gran parte degli Stati accumula
livelli crescenti di debito pubblico.
Il
debito pubblico nei Paesi Ocse è aumentato a livelli mai toccati in passato. Pagare per mantenere la pace sociale.
Per
tagliare deficit e debito gli Stati possono operare tagli al bilancio, o
possono praticare l’austerità, tagliare la spesa sociale ritenuta
sacrificabile.
Ciò che è spesa pubblica essenziale o
inessenziale non viene definito apriori.
Se ad
esempio c’è un rischio serio di rivolta tra i lavoratori poveri, mantenerli a
galla e offrire loro la speranza di un futuro migliore è una politica pubblica
legittima agli occhi dei capitalisti che non lavorano.
I ricchi che non lavorano traggono vantaggio dalla
pacificazione finanziata con il debito pubblico in due modi:
i
lavoratori poveri sono tenuti buoni e i ricchi possono considerare proposte allettanti
per investire il loro capitale in eccesso.
Il
debito pubblico non è esattamente biasimevole agli occhi dei ricchi, specie se
consente di fare profitti privati.
E in questo modo la diseguaglianza sociale
continua.
E dato che gli Stati hanno bisogno di fare
debito, i titoli acquisiti dai ricchi si trasformano in rendita finanziaria,
così la parte sociale che lavora paga i profitti e le rendite dei ricchi che
non lavorano.
Ed è perfino paradossale che si chieda ai
lavoratori poveri di aumentare la produttività, ovviamente a tutto vantaggio
del profitto finanziario.
In questo modo si crea una classe feudale di
alto rango, che è un’altra caratteristica della protezione delle disuguaglianze
nel capitalismo contemporaneo.
E dato
che gli Stati continuano ad aver bisogno di fare debito, i cui oneri continuano
a crescere, i crediti che i ricchi detengono crescono allo stesso modo.
Il
debito si accumula e una parte crescente del prodotto complessivo di una
società deve trasformarsi in rendita per coloro che possono fare credito
pubblico.
Qualcuno
deve pagare per questo.
Chi? I lavoratori poveri.
E gli investimenti che vanno a vantaggio dei
lavoratori poveri, ad esempio la salute e l’istruzione pubblica sono destinati
a rimanere fermi o addirittura a diminuire, a meno che non si faccia altro
debito, rendendo ancora più acute le disuguaglianze nel lungo periodo.
Il
debito pubblico può crescere indefinitamente?
Si
tratta di ciò che alcuni chiamano le contraddizioni del capitalismo.
I creditori che investono i propri capitali
negli Stati corrono un rischio notevole, ovvero che gli Stati possano cancellare
unilateralmente il debito.
Gli investitori pertanto analizzano con cura i
debiti pubblici degli Stati per vedere se il loro livello di debito potrebbe
farli fallire.
Ai
primissimi segnali di un comportamento scorretto i creditori chiederanno
interessi più alti, attraverso lo spread.
Ma
cosa abbiamo dimenticato nel corso di questo secolo?
Non
esiste solo proprietà privata che i ricchi tendono a salvaguardare, ma esistono
beni comuni e pubblici che occorre conservare a beneficio dell’intera società.
L’istruzione
pubblica è uno di questi beni comuni e pubblici che evita ai ricchi di
separarsi dai poveri, evitando che essi si costruiscano istituti solo per loro,
in maniera esclusiva.
La domanda giusta oggi non è se ci sarà o meno
proprietà privata.
La
domanda è quanti beni comuni possono essere accessibili ad ogni cittadino sulla
base dei diritti e non sulla base del denaro.
I
ricchi cercano di isolarsi e questo deve essere combattuto, andando proprio
contro queste tendenze.
Il sistema dell’istruzione non può concedere
disuguaglianze.
L’introduzione
della “school
choice “contraddice
questo principio.
Nello
stesso modo la scienza in una democrazia è qualcosa che deve esser protetta
attivamente e non può essere detenuta dal capitale delle aziende, e non deve
esser solo tecnologia.
Abbiamo
perso la capacità di proteggere questi beni comuni e vediamo che coloro che
detengono il potere possono fare quello che vogliono, mentre noi stiamo
semplicemente a guardare che lo facciano.
Anche
i ricchi rubano.
Dirittopenaleuomo.org
– Elisa Pazé – (9-12-2020) – ci dice:
Pubblichiamo
qui, per gentile concessione editoriale, il presente estratto dal volume di
Elisa Pazé, “Anche i ricchi rubano”, pubblicato da “Edizioni Gruppo Abele”,
Torino 2020.
Premessa.
Il mondo dei ricchi.
Fai
soldi e l’intero mondo cospirerà per chiamarti gentiluomo.
( Mark
Twain)
Anche
i ricchi rubano. E imbrogliano, e giungono a uccidere.
Lo fanno nelle forme più disparate:
inquinando
le acque e il suolo, imbottendo gli animali di antibiotici, sfruttando gli
operai, non rispettando le regole di sicurezza sul lavoro dei dipendenti,
vendendo ai risparmiatori prodotti finanziari farlocchi, approfittando delle
condizioni di difficoltà economica dei piccoli imprenditori per farli entrare
in una spirale di debiti senza fine, portando i capitali all’estero.
I loro
reati producono mediamente più danni patrimoniali e sofferenze sociali di
quelli commessi dai poveri, non solo in termini di ritardo nello sviluppo del
Paese e per gli effetti diretti sulla salute dei cittadini, ma per la
disperazione cui inducono le vittime, talora spinte sino al suicidio.
Ancora
più devastanti sono i crimini commessi dai potenti appellandosi al diritto internazionale
(guerre e
occupazioni travestite da missioni di pace, torture, vendita e uso di armi
proibite), giustificati
in nome della difesa preventiva dal terrorismo o presentati come esportazione
di democrazia, ma il cui vero motore sta “negli interessi dei grandi gruppi
industriali”.
Eppure
ai ricchi si perdona qualsiasi cosa.
I loro delitti godono, se non di vero e
proprio consenso sociale, di un certo grado di acquiescenza.
Lo rilevava già a metà del XVIII secolo
l’economista “Adam Smith”:
«Vediamo frequentemente i vizi e le
follie dei potenti molto meno disprezzati di quanto non lo siano la povertà e
la debolezza degli innocenti».
Da qui
deriva una scala distorta di valori:
le
rapine sono considerate più gravi delle morti sul lavoro e l’immigrazione
irregolare di stranieri più dannosa del pagamento di tangenti.
In certi casi passa addirittura il messaggio
che non vi è stata violazione delle leggi, ma ribellione a regole autoritarie.
C’è un
pudore anche nel linguaggio:
come
diceva Trilussa, «la serva è ladra, la padrona è cleptomane».
Così
il pubblico amministratore che ruba è accusato di peculato, vocabolo che
affonda le radici nel latino “gregge” e di cui si è smarrita l’etimologia;
l’imprenditore che fa sparire soldi e beni dell’azienda è responsabile di
bancarotta, termine che evoca un intoppo (si è rotta la banca);
il contribuente che non paga le tasse
sottraendo soldi alla collettività risponde di evasione fiscale, come se si
trattasse di fuggire dall’erario.
La
considerazione sociale non viene meno nonostante il ricco che delinque la
faccia deliberatamente, avendo di fronte un ventaglio di scelte legali che il
povero non ha.
Come è
possibile?
Se
Gramsci fosse vivo direbbe che le classi dominanti sono riuscite nel capolavoro
di imporre la loro egemonia culturale sulle altre, coinvolgendo nelle politiche
neoliberiste strati della popolazione che naturalmente si collocherebbero sul
fronte opposto.
Decenni
di propaganda hanno consolidato l’idea che la contrapposizione sociale è
nociva, che il profitto da un lato e la moderazione salariale dall’altro
rispondono all’interesse, prima ancora che dei proprietari e dirigenti
d’azienda, degli operai che altrimenti perderebbero il posto di lavoro.
Che le
voragini nei conti pubblici non sono colpa di chi li ha gestiti inseguendo
logiche clientelari, ma dei pensionati.
Che ai
risparmiatori non deve importare come le società finanziarie e le banche
investono i loro soldi – per scuole e ospedali o per una imprenditoria sana,
oppure per costruire armi da vendere nel terzo mondo o per corrompere i
politici di turno –, ciò che conta è il rendimento.
Si sono perfino coinvolti i poveri dei Paesi
occidentali nel meccanismo di sfruttamento dei lavoratori del Sud del mondo,
mettendo in vendita prodotti a basso costo realizzati grazie ai salari da fame
pagati oltreoceano.
Alla
base di questa omologazione non c’è solo una convergenza, vera o presunta, di
interessi economici.
C’è la
vittoria dell’ideologia meritocratica, l’illusione che l’ascensore sociale
possa portare ai piani alti chi è nato in basso, nonostante le statistiche
rivelino che le classi sono sempre più pietrificate.
«Signori
si nasce», come diceva Totò, ma ricchi si diventa.
È il
mito del self-made-man, la cui fortunata condizione appare alla portata di
chiunque decida di tentare la scalata e, allo stesso tempo, consente di
tacciare di invidia sociale chi ancora si arrischia a mettere in discussione
l’iniqua distribuzione delle risorse e la crescita delle diseguaglianze.
Nell’immaginario
collettivo gli appartenenti alle alte sfere del denaro e del potere sono
considerati non già membri di una élite inaccessibile, ma esponenti rampanti
delle classi inferiori, cui è gonfalone non il privilegio della nascita ma il
merito di chi si è fatto strada da solo.
Le fasce sociali del malessere, quelle a basso reddito
o che un reddito non hanno, diventano invece l’emblema del fallimento
individuale.
La
povertà non è, come nel medioevo, un dono divino, ma la conseguenza della
pigrizia, del rifiuto del lavoro.
Chi è privo di mezzi e di risorse paga non
l’egoismo altrui, ma la propria incapacità di farsi strada.
Come è
possibile? […]
Decenni
di propaganda hanno consolidato l’idea che la contrapposizione sociale è
nociva, che il profitto da un lato e la moderazione salariale dall’altro
rispondono all’interesse, prima ancora che dei proprietari e dirigenti
d’azienda, degli operai che altrimenti perderebbero il posto di lavoro.
Che le
voragini nei conti pubblici non sono colpa di chi li ha gestiti inseguendo
logiche clientelari, ma dei pensionati.
In
questo quadro gli unici potenti oggetto di rancore sono i politici, ormai da
molti anni diventati bersaglio dell’indignazione popolare accompagnata
dall’invocazione di un uomo forte al comando.
I politici sono screditati non solo perché la qualità
della loro progettualità di conduzione dello Stato e di crescita della società
è peggiorata o assente (sicché all’aristocrazia, il governo dei migliori, è
venuta a sostituirsi una cachistocrazia, il governo dei peggiori), ma perché molti di loro, oltre a
essere cattivi amministratori, quando possono, rubano o cercano comunque di
trarre profitto dalla loro posizione.
Purtroppo
gli elettori non sono meglio degli eletti e la corruzione alberga a tutti i livelli.
Ma per
un meccanismo paradossale, insieme di omologazione e di estraneazione, le
élites al potere, che sono sempre più simili nei vizi alle masse che dovrebbero
rappresentare, costituiscono un mondo a sé stante.
A
essere esecrati non sono tanto i comportamenti illeciti, le tangenti prese e
distribuite anche a livello internazionale, ma gli stipendi, le prebende e
tutti i privilegi connessi alla carica.
I politici sono “la casta” per eccellenza e, per
quanto periodicamente vi siano campagne mediatiche volte ad additare altre
categorie (in prima fila, i magistrati), verso nessuna si scatena tanta
animosità.
A ben
guardare, l’ostilità non ricade su tutti.
A
essere stigmatizzati sono i politici che diventano ricchi, non i ricchi che
entrano in politica, perché – si ragiona – chi è ricco non ha bisogno di rubare
e si dedicherà al bene comune.
Che dietro la vocazione per il governo del
Paese si nasconda l’intento di difendere e coltivare i propri interessi non
viene neanche preso in considerazione.
In questo
quadro gli unici potenti oggetto di rancore sono i politici, ormai da molti
anni diventati bersaglio dell’indignazione popolare […]
Ancora meno percepite sono le pressioni esercitate dai
potentati finanziari (Black Rok,”docet”! N.d.R.)
sulle decisioni pubbliche.
Oggi
la politica economica dei Paesi occidentali è scandita dalle ricorrenti stime
delle “agenzie di rating”, cioè di valutazione, enti privati strettamente
legati alle multinazionali che lanciano allarmi largamente pubblicizzati ogni
volta che l’esecutivo allarga i cordoni della borsa per le spese sociali e
plaudono ogni volta che si svendono i beni comuni.
Poi ci sono i grandi gruppi industriali che
finanziano direttamente o indirettamente questo o quel partito (e spesso più d’uno)
e il cui sostegno, siccome nessuno dà niente per niente, è finalizzato alla
successiva promulgazione di leggi a proprio favore (o al blocco di politiche
sottrattive di alcuni loro privilegi).
In tal
modo i potenti sono essi stessi “la legge” e la violenza strutturale che si
nasconde dietro i loro comportamenti è messa in ombra; mentre viene enfatizzata
la violenza diretta che caratterizza abitualmente i reati dei poveri.
Questo
libro, in una prospettiva diversa da quella consueta, propone la lettura
giuridica di taluni settori dell’ordinamento evidenziando alcune imposture
normative e applicative e mostrando che, nel sistema, “il re è nudo”.
I
potenti sono essi stessi “la legge” e la violenza strutturale che si nasconde
dietro i loro comportamenti è messa in ombra; mentre viene enfatizzata la
violenza diretta che caratterizza abitualmente i reati dei poveri.
Un
grazie particolare va a “Ciro Santoriello,” per avermi dato utili suggerimenti.
Siccome legge ed economia vanno a braccetto, sono poi ampiamente debitrice, ben
al di là delle citazioni in nota, del magistero di “Luciano Gallino”, che ha
avuto la grande capacità di contaminare la sociologia con le discipline
finanziarie e con il diritto del lavoro.
Colletti
sporchi.
La
legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di
dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare il pane.
(“ Anatole France,” Il giglio rosso”).
1.
Delinquenti in giacca e cravatta.
La
legge è uguale per tutti, ma il diritto penale ha sempre avuto un occhio di
riguardo per i ricchi.
In passato per alcuni reati la differenza di
trattamento era macroscopica:
i poveri che regolavano i conti fra di loro
rispondevano di rissa, i nobili di duello, punito più blandamente e
sopravvissuto fino al 1999.
Per altri la parità di regime era solo di
facciata:
nel codice fascista del 1930, a tutela
dell’economia pubblica, erano egualmente incriminati serrata e sciopero, con
pene anzi più severe per i datori di lavoro, ma l’esperienza storica ha
mostrato che il vero bersaglio della repressione erano i lavoratori.
Poi
c’era – e c’è tuttora – l’enfatizzazione dei reati di strada, puniti con
sanzioni assai elevate, mentre i classici reati degli imprenditori
(fallimentari, societari e fiscali) nel codice non trovarono spazio e ancora
adesso sono disciplinati in leggi a parte.
Con un
po’ di malizia, si potrebbe sostenere che anche la procedibilità a querela per
alcuni delitti che, per loro natura, vengono commessi indifferentemente dalle
classi “pericolose” e da quelle “non pericolose”, come la violenza sessuale, è
stata pensata per consentire a chi ha soldi di rimediare evitando il processo.
Da
questo impianto ideologico del sistema penale deriva il pregiudizio che i
delinquenti siano in linea di massima i poveri e gli emarginati.
Perfino
il socialista Filippo Turati, nel denunciare alla fine del 1800 le misere
condizioni di vita dei ceti popolari – additando, quale causa prima dei
delitti, le sperequazioni sociali e lo sfruttamento dei lavoratori –, aveva in
testa i classici reati contro il patrimonio.
Ci
volle lo scandalo della Banca Romana, nel 1893, perché alcuni giuristi iniziassero
a riflettere sulla delinquenza della «aristocrazia del denaro».
E solo
molti anni dopo venne coniata l’espressione «colletti bianchi», usata per la
prima volta nel 1939 da “Edwin Sutherland”:
«i
crimini dei colletti bianchi sono crimini commessi da persone rispettabili e di
elevato status sociale nello svolgimento della loro professione».
Benché
da allora la criminalità dei colletti bianchi sia stata oggetto di attenzione
da parte degli studiosi, nel senso comune prevale l’idea che i delinquenti
siano gli appartenenti alle classi sociali disagiate.
L’associazione mentale biunivoca fra miseria e
criminalità è favorita da diversi fattori.
Il
primo fattore è la semplicità dei comportamenti che caratterizzano i reati dei
poveri elementari, sempre uguali e di immediata percezione mentre le condotte
delittuose di ricchi e potenti sono meno convenzionali, più originali e sfumate
e molte norme che le sanzionano sono scritte appositamente in modo contorto,
per consentire smagliature che le rendono di fatto inapplicabili. In questo
modo, facendo leva anche su un sistema processuale inefficiente, si
moltiplicano le vie di fuga.
Una
seconda ragione della difficoltà di comprendere appieno i reati dei colletti
bianchi risiede nella distanza di tempo che intercorre fra la condotta e
l’evento.
Paradigmatico
è il caso delle malattie professionali, che si manifestano anni dopo l’inizio
dell’attività lavorativa, quando ormai si pensa alla pensione, con tutte le
conseguenti difficoltà non solo di accertare le cause della patologia, ma anche
di dare un volto ai responsabili.
Accade
così che per morti atroci, dall’origine ben precisa, si maledica il destino.
Ma lo
stesso vale per altre categorie di reati:
come
ricollegare i tumori sempre più diffusi alla produzione su scala industriale di
carne piena di ormoni e fitofarmaci?
E i suicidi dei risparmiatori che hanno perso
tutto al falso in bilancio?
Per non parlare dell’evasione fiscale e della
corruzione:
difficile cogliere il nesso fra il mancato
pagamento delle tasse o il versamento di tangenti e le buche nelle strade, le
file d’attesa negli ospedali e il peggioramento della qualità della vita.
Poi ci
sono i fattori di carattere culturale.
Nelle
società di capitalismo avanzato c’è una tolleranza ideologica per certi reati,
giustificati con la necessità di non inceppare l’economia.
Su un piatto della bilancia si mettono gli
effetti negativi delle condotte illecite, sull’altro – ben più pesante – i
benefici che i comportamenti delittuosi apporterebbero alla collettività:
non investire in sicurezza sul lavoro o in
misure antinquinamento consente di assumere un maggior numero di persone;
non
pagare le tasse aumenta il denaro in circolazione e favorisce la crescita.
È la
stessa logica dell’impresa che tende, indirettamente, a normalizzare la
devianza.
L’economia di mercato, improntata, perlomeno
in apparenza, a princìpi anti oligopolio e alla tutela della concorrenza,
induce a una competizione sfrenata, spinge a oltrepassare i margini della
legalità.
Si
celebra chi vince, non chi vince secondo le regole.
Questo
fenomeno si è oggi accentuato, tant’è che fra gli studiosi è entrata in voga
l’espressione «capitalismo estrattivo»,
per
indicare l’accaparramento di ricchezze naturali da parte dei potentati
economici senza pensare alle compatibilità ambientali e alle generazioni
future, ma anche la “spremitura” dei lavoratori, cui vengono imposti ritmi
sempre più alienanti.
Infine
una ragione che determina una visione deformata dei fenomeni delinquenziali è l’enorme divario di
risorse materiali e immateriali fra datori di lavoro e lavoratori, fra grandi
gruppi finanziari e piccoli investitori.
Ciò fa sì che alle persone offese da alcune
tipologie di illeciti sia riservata sui mezzi di informazione un’attenzione
minima, rendendole praticamente invisibili.
Giornali e televisioni enfatizzano omicidi e
violenze, spesso presentati come prima notizia, mentre dedicano spazi marginali
a morti e infortuni sul lavoro, distorcendo in tal modo la percezione della
criminalità.
I
delitti dei potenti sono a tutti gli effetti reati “predatori”, come quelli di
strada, ma si fa credere che siano meritevoli di considerazione solo quelli
commessi dai poveri e dagli emarginati, nei confronti dei quali la stretta
repressiva è sempre più accentuata.
È per
l’insieme di questi fattori che le vittime della delinquenza dei colletti
bianchi, la larga maggioranza della popolazione, non si rendono conto di essere
tali. Mentre chi subisce uno scippo si sente defraudato di un bene, chi si
ammala perché ha respirato per anni aria inquinata non si accorge dei danni
subiti.
E pensa che “criminali” siano solo zingari,
extracomunitari e sbandati di ogni sorta.
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Il
Mostruoso Esperimento
sull’”Epatite”
di Willowbrook.
Conoscenzealconfine.it
– (24 Luglio 2023) - Nassim Langrudi – ci dice:
Sessant’anni
fa, presso la “Willowbrook State School”, è stato condotto un mostruoso
esperimento sull’epatite, su bambini con disabilità mentali che ha sollevato
seri interrogativi etici sulla scienza e sulla sperimentazione di farmaci e
vaccini.
“Nina
Galen” aveva dieci anni quando entrò a far parte di uno degli esperimenti umani
più controversi della storia americana.
Sua
madre, “Diana McCourt”, era alla ricerca di un istituto che potesse occuparsi
della figlia gravemente autistica e poco prima di perdere le speranze, trovò la
“Willowbrook State School”, un istituto per bambini e adulti con gravi problemi
di sviluppo a “Staten Island”, New York.
Per
ottenere un posto per “Nina” in questa struttura sovraffollata, però, ha dovuto
fare un patto con il diavolo e cedere ad un tremendo ricatto:
accettare
che sua figlia Nina partecipasse a una ricerca scientifica volta a trovare un
vaccino contro l’epatite.
“Nina”
divenne uno dei tanti bambini con disabilità mentali, di età compresa tra i 5 e
i 10 anni, affidati alle cure del “Dott. Saul Krugman”, uno stimato pediatra di
New York che voleva determinare se esistessero più ceppi di epatite e se fosse
possibile creare un vaccino.
“
Krugman” e il suo partner, il Dott. “Joan Giles”, utilizzarono i residenti di “Willowbrook”
per testare un vaccino preliminare contro questa malattia e dal 1955 al 1970 ai bambini di “Willowbrook” fu
iniettato il virus stesso per studiare la loro immunità.
La
ricerca di un vaccino divenne particolarmente importante per gli Stati Uniti
durante la Seconda Guerra Mondiale, quando le epidemie di epatite colpirono più
di 50.000 soldati americani.
Per combattere questa ed altre malattie,
l’ufficio del “Surgeon General” istituì l’”Armed Forces Epidemiological Board”
e all’inizio degli anni Cinquanta, il dottor “Krugman”, ex chirurgo di volo
dell’aeronautica militare statunitense, si presentò al “Consiglio
epidemiologico” con una proposta:
voleva
creare un vaccino contro l’epatite e conosceva il luogo perfetto in cui svolgere le sue
ricerche, il “Willowbrook”.
“Saul
Krugman” arrivò al campus di “Willowbrook” nel “1955”, otto anni dopo la sua
costruzione, e si ritrovò in una scuola ideata per ospitare 4.000 residenti ma
perennemente sovraffollata, con oltre 6.000 ospiti.
Malattie
e incuria erano ovunque e molti residenti morivano a causa delle mancate cure e
dell’abbandono, oltre che per i continui abusi fisici che Krugman si guardava
bene dal denunciare.
Nel
1965, Robert F. Kennedy, allora senatore di New York, visitò” Willowbrook”
senza preavviso e ne uscì sconvolto.
“Non ci sono libertà civili per chi viene
messo nelle celle di “Willowbrook”, testimoniò in seguito davanti al Congresso,
definendo l’istituto una “fossa di serpenti”.
Quando
il Dott.” Krugman” e il Dott. “Giles” iniziarono gli esperimenti sull’epatite a
“Willowbrook”, usarono proprio le condizioni disumane di questa struttura a
loro vantaggio per reclutare nuove famiglie.
Nonostante
gli orrori ben documentati,” Willowbrook” era ancora una delle uniche opzioni
per i bambini con gravi disabilità e la lista d’attesa era lunga, così “Krugman”
poteva usare come leva il ricatto, offrendo a diversi genitori, tra cui quelli di “Nina
Galen”, la scelta di saltare la fila e di sistemare i loro figli nei reparti di
ricerca più nuovi, più puliti e con più personale, se si fossero però uniti ai
suoi esperimenti.
“Mi
sono sentita costretta”, disse “McCourt”, “mi sono sentita come se mi fosse
stato negato l’aiuto se non avessi colto questa opportunità”.
“Krugman”
usò anche la leva della sicurezza percepita dicendo ai genitori che, poiché
l’epatite era già diffusa a” Willowbrook”, i loro figli avrebbero potuto avere
la possibilità di ricevere il vaccino ed essere protetti.
“McCourt” ricorda che le fu detto che sua
figlia avrebbe potuto ottenere un “antidoto” contro l’epatite se si fosse unita
all’esperimento e quando chiese perché gli studi sull’epatite non potessero
essere condotti sui primati, le fu risposto che usare gli animali sarebbe stato
“troppo costoso”.
Il
protocollo di sperimentazione di “Willowbrook”, come dicevamo, prevedeva di
infettare bambini sani con il virus anche attraverso il latte al cioccolato
mescolato con le feci di soggetti malati, al fine di osservare i sintomi dell’epatite.
Una
volta infettati, li lasciavano guarire per poi somministrare loro nuovamente il
virus e al termine di ogni sperimentazione il “Dott. Krugman” pubblicava i
risultati su importanti riviste mediche, tra cui il “New England Journal of
Medicine”, il “Lancet” e il “Journal of the American Medical Association”.
Nel
1966, il medico “Henry K. Beecher” pubblicò un articolo intitolato “Etica e
ricerca clinica” in cui si elencava “Willowbrook” come esempio di esperimento
clinico non etico e concludeva che “non esiste il diritto di rischiare un danno
a una persona per il beneficio di altre”.
Cinque
anni dopo, il comitato editoriale di “Lancet” si scusò per aver pubblicato gli
studi del dottor “Krugman” senza maggiore scetticismo.
“Gli
esperimenti di “Willowbrook” hanno sempre portato con sé la speranza che
l’epatite possa un giorno essere prevenuta”, scrissero i redattori, “ma questo
non poteva giustificare la somministrazione di materiale infetto a bambini che
non ne avrebbero beneficiato direttamente”.
Nel
1972, “Geraldo Rivera”, allora reporter della televisione locale di New York,
si intrufolò nel parco della scuola e trasmise le condizioni disumane di”
Willowbrook”.
Aveva
ricevuto una soffiata sulle condizioni di vita dei residenti da “Michael
Wilkins”, un medico della scuola che non era coinvolto negli esperimenti
sull’epatite.
“Sono passati quasi 50 anni e parlarne mi fa
ancora piangere”, dichiarò” Rivera”, “Le condizioni erano così orribili”.
Rivera
ricorda di aver visto bambini nudi, imbrattati delle loro stesse feci e che
sbattevano la testa contro il muro.
“Immagino che la situazione in cui mi trovavo
fosse simile a quella degli ebrei nei campi di concentramento”.
Il
documentario di denuncia del reporter investigativo “Geraldo Rivera” sulla “Willowbrook
State School di New York”, gli fece vincere il “Peabody Award” e destò così
tanto clamore da portare ad uno storico accordo nel 1975 tra il tribunale
federale e lo Stato di New York, dove quest’ultimo accettava di trasferire i residenti
di “Willowbrook” in piccole case famiglia.
Oltre
agli enormi problemi etici legati all’esperimento di “Willowbrook”, vogliamo
portare l’attenzione su qualcosa che secondo noi è forse ancora più grave in
tutta questa storia:
il
premiatissimo “Dott. Krugman”, stimato pediatra di New York e pupillo di una
certa scienza, accelerò gli studi su un vaccino contro l’epatite e lo fece
senza alcuno scrupolo sulla pelle dei bambini.
Quel pediatra non si occupò mai veramente della salute
dei piccoli pazienti della scuola.
“Un
lager nazista” lo aveva definito “Rivera”, denunciato sin dal 1965 dal Senatore
Kennedy, dove soggetti indifesi e con gravi disabilità morivano o per le
mancate cure o per i brutali abusi e violenze.
La “scienza
di Krugman” fu osteggiata da molti, ma comunque premiata da “quelli che contano
veramente”.
La “comunità scientifica”, si direbbe oggi.
(forbes.com/sites/leahrosenbaum/2020/06/12/willowbrook-scandal-hepatitis-experiments-hideous-truths-of-testing-vaccines-on-humans)
Manipolazione
Climatica del Pianeta.
Conoscenzealconfine.it
– (23 Luglio 2023) - Gabriele Sannino – ci dice:
George
Carlin: “Il Pianeta sta bene, è la gente che è fottuta”.
Sono
ANNI che assistiamo a eventi climatici sempre più forti e “anomali”.
L’altro
giorno, in alcune zone del Veneto e del Trentino, sono cadute palle di grandine
grandi quanto palline di tennis, che hanno distrutto raccolti, auto, vetri di
case e uffici.
Io
stesso, a Padova, ho potuto notare come ogni dieci macchine circa ce ne fosse
una con il parabrezza o il lunotto danneggiati.
Nel
mondo assistiamo a eventi sempre più estremi come tornado in zone dove non
accadevano mai, perfino neve nel deserto, sì perché il 28 gennaio del 2023 ha
nevicato addirittura nel Sahara.
Insomma,
nel periodo del “riscaldamento globale”, i deserti anziché aumentare… vengono
inondati di neve!
Noi –
spero davvero che lo abbiate compreso – non stiamo assistendo a un
“riscaldamento globale” come dicono i media mainstream… in mano all’ èlite, ma
– piuttosto – a una sempre più feroce “MANIPOLAZIONE CLIMATICA” del Pianeta, e
vi assicuro che gli strumenti li hanno tutti, basta solo andare oltre la
superficialità dell’informazione televisiva e fare un pochino di ricerca per
conto proprio.
Le
cosiddette scie chimiche sono sotto gli occhi di tutti, “HAARP” esiste ed è una
realtà:
già
nel 2012, per esempio, la rivista “New Scientist” riportava che “il cambiamento climatico era alle
porte, dunque la speranza era che la manipolazione consapevole del meccanismo
climatico potesse essere un rimedio al fine di evitare le conseguenze più
gravi”.
Insomma,
gli eccessi climatici di questi giorni nel nord Italia ma in generale in tutto
il pianeta hanno
una precisa STRATEGIA:
SPAVENTARE i popoli al fine di costringerli ad
accettare la dittatura del clima e tutte le leggi DRACONIANE che l’élite
vorrebbe applicare, dalle “città 15 minuti” fino ai “crediti di carbonio”, le
“valute digitali” e via dicendo (tutta roba di cui il teledipendente medio non sa
assolutamente nulla, cose che al massimo giudicherebbe come “complottiste”
proprio per via della sua ignoranza in merito).
Il
tutto è davvero troppo SIMILE alla psico pandemia che abbiamo già visto, ai
sieri magici, alle mascherine, ai tamponi e via dicendo:
insomma
hanno fregato l’umanità sulla salute – la cosa più delicata in assoluto – vuoi
che non lo facciano per il clima?
Ricordate
il loro mantra: è sempre per il nostro bene.
Se
pensate che questo Pianeta sia gestito nel migliore dei modi e che agiscano
davvero per noi, siete voi il problema, ancor prima di loro.
Come
ha detto il magistrale “George Carlin” già in tempi non sospetti “Il Pianeta sta bene, è la gente che è
fottuta”.
(Gabriele
Sannino)
(t.me/gabrielesannino)
I
ricchi scommettono
per vincere
e i
poveri per perdere.
Corrierepl.it
- Antonio Peragine – Franco Luceri – (27 Maggio 2023) – ci dicono:
Se a
memoria d’uomo i ricchi e i potenti sono stati sempre schiavisti con i poveri;
perché
da tre quarti di secolo si dissanguano per esportare democrazia a cannonate,
strappare il potere politico ai tiranni e consegnarlo ai popoli anche se sono
già ridotti alla fame?
Perché
la minoranza dei ricchi e potenti è così generosa da difendere una democrazia
dall’invasione di un tiranno, e dal rischio che i cittadini sovrani finiscano
ritrasformati in sudditi sfruttabili:
ma poi ai poveri continua a negare persino
l’elemosina e agli immigrati il salvataggio in mare?
Europa
e America stanno rischiando la terza guerra mondiale atomica per difendere ad
oltranza la democrazia Ucraina dall’aggressione del tiranno Putin.
Banchieri
e industriali si tengono stretto il potere economico, e insieme al potere
culturale gettano in pasto ai poveri anche il potere politico, perché questo
per loro è un investimento che rende oro, non a “palate”, ma a “miniere”.
Infatti
nelle democrazie la produttività schizza alle stelle, e finisce puntualmente
razziata dai ricchi, mai perequata per salvare poveri.
Grazie
alla democrazia, la condizione dei poveri passa dalla schiavitù, alla libertà
suicida.
E
rischiano costantemente la vita, come gli immigrati nel Mediterraneo o gli
allagati in Romagna.
Dov’è l’inghippo?
Le
ricche lobby globaliste finanziarie sono sempre in agguato per condizionare e
muovere i governi democratici finti, a proprio vantaggio.
Se i
popoli sovrani che dovrebbero fornire ai loro governanti sufficienti risorse
finanziarie per governare, evadono le tasse o li contestano, fanno l’interesse
di speculatori, sfruttatori, strozzini e lobbysti che commossi ringraziano.
Chi ha
definito la democrazia autogoverno del popolo ci ha azzeccato in pieno.
Se il popolo si rifiuta di aiutare il Premier e i suoi
ministri nella titanica fatica del governare:
per
produrre e perequare, ci pensano le ricche lobby globaliste degli USA e
dell’Europa a fornire “sostegno finanziario interessato”, per manovrarli poi a loro esclusivo
interesse come burattini.
Per
quale recondita ragione i ricchi hanno consegnato il potere culturale e
politico nelle mani dei poveri che da sempre sono e saranno una schiacciante e
immodificabile maggioranza:
per renderli più forti, liberi e autonomi, o
perché esercitando quei “poteri senza portafoglio” li avrebbe resi ancora più
deboli, dipendenti e sfruttabili?
I
ricchi non hanno mai scommesso per perdere.
E a
quanto sembra continuano a vincere anche nel terzo millennio “pseudo
Democratico occidentale”.
La
cultura e la politica in mano alla maggioranza dei cittadini non aumenta la
loro libertà e autonomia ma la loro dipendenza dal denaro dei Banchieri e dal
salario degli industriali e quindi li rende deboli, condizionabili e
sfruttabili:
privi o quasi di potere contrattuale.
Sta
tutto qua il miracolo delle democrazie dell’occidente progredito.
Hanno una forma diversa dalle dittature ma la
sostanza è uguale o peggiore.
I
popoli poveri non arricchiscono economicamente se non dopo essere arricchiti di
cultura e politica libera.
Ma nel
mondo, cultura e politica continuano ad essere a passo di gambero.
Invece di aiutare i poveri a sbarcare il
lunario li costringono a contribuire a l’arricchimento criminale dei ricchi,
subendo devastazioni ambientali ed economiche assassine.
La
democrazia, dopo 25 secoli, ancora continua a mancare il bersaglio della
Giustizia sociale. E altrettanto inutile in difesa dei poveri si è dimostrato
il cattolicesimo per altri 20 secoli.
Lo
insegnano anche a scuola come alleggerire del potere politico i regnanti
francesi, ma
come togliere ai ricchi del mondo quel minimo essenziale per conservare
dignitosamente in vita i poveri ancora non l’ha capito nessuno.
(Franco
Luceri)
Disuguaglianze,
in 26 posseggono
le
ricchezze di 3,8 miliardi di persone.
Ilsole24ore.com
- Angelo Mincuzzi – (21 gennaio 2019) – ci dice:
Disuguaglianze
sociali, report shock di Oxfam: soltanto 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8
miliardi di persone (Epa).
A
dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria i miliardari sono più ricchi che
mai e la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani.
L’anno scorso soltanto 26 individui
possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della
popolazione mondiale.
Nel 2017 queste fortune erano concentrate
nelle mani di 46 individui e nel 2016 nelle tasche di 61 miliardari.
Il
trend è netto e sembra inarrestabile.
Una situazione che tocca soltanto i paesi in
via di sviluppo?
No,
perché anche in Italia la tendenza all’aumento della concentrazione delle
ricchezze è chiara.
A metà
2018 il 20% più ricco tra gli italiani possedeva circa il 72% dell’intera
ricchezza nazionale.
Salendo più in alto nella scala, il 5% più
ricco era titolare da solo della stessa quota di ricchezza posseduta dal 90%
più povero.
È Oxfam International, organizzazione non
governativa molto attiva nella lotta alla povertà e alle diseguaglianze, a
scattare la fotografia nell'ultimo rapporto «Bene pubblico o ricchezza
privata?»,
diffuso alla vigilia del meeting annuale del “World
Economic Forum di Davos”.
Nei
dieci anni successivi alla crisi finanziaria - afferma il rapporto - il numero
di miliardari è quasi raddoppiato.
Solo
nell'ultimo anno la ricchezza dei Paperoni nel mondo è aumentata di 900
miliardi di dollari (pari a 2,5 miliardi di dollari al giorno) mentre quella
della metà più povera dell'umanità, composta da 3,8 miliardi di persone, si è
ridotta dell’11,23.
La
situazione in Italia.
Alla
fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale
netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760
miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il
20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il
successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più
povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale.
Il
top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi
oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.
I dati specifici sulla Penisola sono stati
raccolti da Oxfam Italia in occasione della diffusione del report
internazionale a Davos.
Confrontando
il vertice della piramide della ricchezza con i decili più poveri della
popolazione italiana, il risultato è ancora più netto.
La
ricchezza del 5% più facoltoso degli italiani (titolare del 43,7% della
ricchezza nazionale netta) è pari a quasi tutta la ricchezza detenuta dal 90%
più povero degli italiani.
La posizione patrimoniale netta dell’1% più
ricco (che detiene il 24,3% della ricchezza nazionale) vale 20 volte la
ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana.
La
ricchezza dei primi 21 miliardari italiani dell’elenco stilato annualmente dal
giornale statunitense Forbes (fotografata a marzo 2018) equivaleva alla
ricchezza netta detenuta (a fine giugno 2018) dal 20% più povero della
popolazione (ovvero 107,1 miliardi di euro).
L’evoluzione
della quota di ricchezza detenuta dall'1% più ricco italiano mostra un trend di
crescita a partire dal 2009, ad eccezione del calo verificatosi nel 2016 e
2017.
La
quota di ricchezza detenuta a metà 2018 (24,33%) supera di circa 1,5% quella
detenuta dal top-1% a inizio del nuovo millennio.
Nei 19
anni intercorsi tra l’inizio del nuovo millennio e il primo semestre del 2018,
le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco tra gli
italiani e dalla metà più povera della popolazione hanno mostrato un andamento
divergente.
La quota di ricchezza detenuta dal top 10%, in
risalita dal 2009, si è attestata a fine giugno 2018 al 56,13% (contro il
50,57% del 2000), mentre la quota della metà più povera degli italiani è
lentamente e costantemente scesa, passando dal 13,1% di inizio millennio ad
appena il 7,85% a metà 2018.
Lo
scenario mondiale.
Tra il
2017 e il 2018 i miliardari sono aumentati al ritmo di uno ogni due giorni ma
il dato che preoccupa è che la ricchezza si concentra sempre più in pochissime
mani.
Il patrimonio dell’uomo più ricco del mondo,
Jeff Bezos (proprietario di Amazon) è salito a 112 miliardi di dollari.
Appena
l’1% di questa cifra - sottolinea il rapporto di Oxfam - equivale quasi all'intero
budget sanitario dell’Etiopia, un Paese con 105 milioni di abitanti.
E
mentre le loro fortune continuano ad aumentare, gli individui più ricchi del
mondo e le società di cui sono proprietari godono anche di livelli di
imposizione fiscale tra i più bassi degli ultimi decenni:
la
ricchezza - affermano gli esperti di Oxfam – è particolarmente sotto tassata. Solo 4 centesimi per ogni dollaro di
gettito fiscale provengono da imposte patrimoniali.
Nei
Paesi ricchi, in media, la più alta aliquota di imposta sul reddito delle
persone fisiche è passata dal 62% nel 1970 al 38% nel 2013, mentre nei Paesi in
via di sviluppo è pari al 28,32.
Tenendo
conto delle imposte dirette e indirette, in alcuni Paesi, come il Brasile e il
Regno Unito, il 10% più povero della popolazione paga più imposte in
proporzione al proprio reddito del 10% più ricco.
La
questione fiscale.
Secondo
Oxfam, i Governi dovrebbero sforzarsi di raccogliere maggior gettito dai più
ricchi, contribuendo in questo modo alla riduzione della disuguaglianza:
ad esempio, se facessero pagare all’1% più
ricco soltanto lo 0,5% in più di imposte sul proprio patrimonio, otterrebbero
un gettito superiore alla somma necessaria per mandare a scuola tutti i 262
milioni di bambini che ancora non vi hanno accesso e fornire assistenza
sanitaria in grado di salvare la vita a 3,3 milioni di persone.
I
super-ricchi, inoltre, hanno concentrato 7.600 miliardi di dollari nei paradisi
fiscali:
nell’insieme, ciò sottrae ai Paesi in via di
sviluppo 170 miliardi di dollari all'anno. Solo per quanto riguarda l'Africa,
si ritiene che il 30% della ricchezza privata sia stata trasferita offshore,
sottraendo ai governi africani un gettito fiscale stimato in 15 miliardi di dollari.
Il
rapporto Oxfam sottolinea come i governi abbiano ridotto nel lungo periodo sia
le aliquote massimali delle imposte sui redditi delle persone fisiche, sia
quelle delle imposte sui redditi d'impresa.
Solo
nel 1980 negli Stati Uniti l'aliquota più alta dell’imposta sui redditi delle
persone fisiche era del 70% mentre oggi è del 37%, cioè quasi la metà.
Inoltre,
grazie a svariate esenzioni e scappatoie, le aliquote a carico dei più ricchi e
delle imprese sono di fatto ancora più basse.
Di
conseguenza, in alcuni Paesi i più ricchi pagano le imposte più basse
dell'ultimo secolo.
In
America Latina, per esempio, l’aliquota effettiva per il 10% di percettori di
redditi più elevati è solo del 4,8 per cento.
La
responsabilità dei governi.
«Le
persone in tutto il mondo sono arrabbiate e frustrate – sottolinea Elisa
Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia –.
Ma i
governi possono apportare cambiamenti reali per la vita delle persone
assicurandosi che le grandi aziende e le persone più ricche paghino la loro
giusta quota di tasse, e che il ricavato venga investito in sistemi sanitari e
di istruzione a cui tutti i cittadini possano accedere gratuitamente.
A cominciare dai milioni di donne e ragazze
che ne sono tagliate fuori.
I governi possono ancora costruire un futuro
migliore per tutti, non solo per pochi privilegiati.
È una
loro responsabilità».
Per “Winnie
Byanyima”, direttore esecutivo di “Oxfam International”, «il crescente divario
tra ricchi e poveri ostacola la lotta contro la povertà, danneggia l'economia e
alimenta la rabbia globale.
I governi devono assicurare che le
multinazionali e i ricchi paghino la loro quota di tasse».
Quanto
ci costano i ricchi?
Collettiva.it - EMILIANO SBARAGLIA – (13/03/2023)
ci dice:
In libreria
“Se la
classe inferiore sapesse. Ricchi e ricchezza in Italia” (People), l'ultimo lavoro di “Giulio Marcon”.
(La
proposta di Sbilanciamoci).
Un
recente articolo apparso su la Repubblica (5 marzo 2023), ci racconta come stia
crescendo il numero delle donne miliardarie nel mondo compresa l'Italia, al
punto da ritrovarci in quarta posizione, avendo “16 donne imprenditrici con una
fortuna superiore al miliardo di dollari”: ancora lontane dalle ricche signore
di Germania, Cina e Stati Uniti, ma in netta ascesa.
In
maniera approfondita e analitica di questo e molto altro si occupa il nuovo
saggio di “Giulio Marcon”, portavoce di “Sbilanciamoci”, dal titolo “Se la
classe inferiore sapesse. Ricchi e ricchezza in Italia, appena pubblicato
dall'editore People (pp.250).
Un
libro che cerca di fare luce, riuscendovi, su una materia di non facile
indagine, come lo stesso autore rileva da subito.
Non è facile perché i ricchi, soprattutto i
ricchi italiani, tendono a non parlare “per timidezza, ritrosia, omertà”.
In
più, i dati disponibili ci dicono quasi tutto sulla povertà, molto poco sulla
ricchezza.
Lo
studio di Marcon si concentra sulle ricerche di vari istituti, dalla Banca
d’Italia all’Istat, dall’Agenzia delle Entrate all’Inps, interpellando anche
realtà internazionali quali Eurostat, Ocse, Credit Suisse, Forbes, World
Inequality, Database, ma non solo.
L’autore
spazia nel mondo della cultura, della letteratura in particolare, della
sociologia (numerosi i riferimenti alle pubblicazioni di Luciano Gallino),
oltre naturalmente a testi di carattere economico, costruendo nel suo insieme
una bibliografia essenziale utilissima al lettore.
Ciò che ne emerge è un quadro per molti versi
sconcertante, in virtù dei dati e dei numeri contenuti.
Un
esempio: “Il 67,6% della ricchezza in Italia è nelle mani del 20% più ricco, a
fronte dello 0,4% di quello più povero.
All’interno del 20% più ricco, esiste una
crescente concentrazione della ricchezza:
il 10%
più ricco detiene il 53,6% della ricchezza, il 5% più ricco il 41%, l’1% più
ricco il 22% della ricchezza totale”.
Insomma,
i ricchi stanno diventando sempre più ricchi, soprattutto dopo l’effetto
pandemico, fenomeno ben evidenziato nel secondo degli undici capitoli.
Ma
come vivono, come si comportano i cosiddetti super-ricchi? :
“I
super-ricchi vivono ormai in modo crescente in un territorio senza Stato.
Vivono a Londra e New York.
Hanno
il conto bancario a Ginevra.
Fanno
shopping a Milano e a Parigi.
E mettono i loro asset nelle compagnie
offshore delle Isole Vergini.
“I
manager di Hsbc” potrebbero vedere in ciò i segni di una nuova epoca di
diseguaglianza, ma non se ne accorgono.
I
ricchi “senza Stato” evitano di pagare le tasse nel loro Paese, verso il quale
provano ben poca fedeltà.
Per cui trovano molto più sensato fare le loro
operazioni nei paradisi fiscali e nelle banche svizzere.
I super-ricchi stateless (‘senza stato’) ormai sono
degli apolidi cosmopoliti”.
In
Italia c’è poi un ulteriore elemento che acuisce le diseguaglianze, ed è quello
dell’evasione fiscale, di cui abbiamo il poco lodevole primato:
“Anche gli italiani fanno la loro parte.
Per
pagare meno tasse hanno fatto ricorso all’apertura di conti correnti anonimi o
criptati per trasferire fondi, spesso soldi guadagnati in nero, non tracciati
dal fisco.
Altre
volte si sono serviti di società anonime, magari fintamente finalizzate ad
acquisti immobiliari o ad altre attività economiche.
Altre volte ancora i ricchi hanno stabilito
fasulle residenze in questi paradisi.
Lo hanno fatto molti imprenditori, artisti e
sportivi acquistando un’abitazione a Montecarlo o, più spesso, stabilendo la
residenza (spesso fantasma) nella città monegasca.
Su
37mila abitanti, ben 7mila italiani hanno lì la residenza (il 20%)”.
Analizzando
nel cuore del libro anche la differenza tra gli imprenditori di un tempo e
quelli di oggi, le loro affinità, la “filantropia” (a cui spesso oggi si
preferisce il termine più “orizzontale” di solidarietà) più o meno limpida di
miliardari più o meno noti,” Marcon” ci indica infine quanto siano cambiate le
classi sociali rispetto alla struttura novecentesca, e come la ricchezza sia
diventata un problema in Italia e nel resto del mondo “perché è concentrata in
poche mani, perché è all’origine di grandi diseguaglianze, perché alimenta
privilegi e spesso è fondata sui favori, sull’illegalità e l’evasione”.
In
appendice, una interessante” pars costruens” promuove l’iniziativa di “Sbilanciamoci”
denominata “Tax the rich” , una proposta articolata in cinque punti:
tassazione delle ricchezze milionarie, delle
rendite finanziarie, un’imposta di successione progressiva sulle grandi
ricchezze, una tassazione progressiva sui redditi e, in ultimo, sugli
speculatori della finanza.
I
ricchi, le élite, gli uomini di potere, anche stavolta non saranno d’accordo,
perché mettere in atto tali principi vorrebbe dire tentare di combattere quello
“scandalo della Storia che dura da diecimila anni”, come scriveva “Elsa Morante”,
ricordata da “Goffredi Fofi” nella sua passionale prefazione.
La
realtà di una ricchezza crescente per i soliti, e sempre più pochi, è dunque il
grosso nodo da sciogliere nei suoi aspetti economici, sociali e politici, che
riguarda ciascuno di noi.
Questo
libro spiega bene come, e perché.
Migranti:
la guerra dei ricchi contro i poveri.
Volerelaluna.it
– (05-04-2023) - Tomaso Montanari – ci dice:
Noi
tutti che parliamo dei migranti (contro i migranti, per i migranti) siamo
remoti dai migranti.
Tra noi e loro c’è un abisso esistenziale, prima
ancora che sociale.
Abbiamo destini diversi: avuti in sorte senza
alcun merito.
Ogni
volta che provo a misurare la distanza che ci separa, vengo inghiottito dalla
vertigine di una ingiustizia infinita.
Senza
possibile rimedio.
Penso
che un Dio di giustizia e di amore debba esserci anche solo per questo:
per pareggiare i conti, almeno di là.
Lo penso con sollievo, per loro.
Con terrore per noi: per me.
La destra xenofoba, fascista e razzista che ci
governa li usa per conquistare il potere: e prima o poi qualcuno gliene
chiederà conto.
Ma nemmeno noi, noi che la pensiamo al
contrario, siamo innocenti:
come
possiamo, noi, continuare a vivere «nelle nostre tiepide case: noi che
troviamo, tornando a casa, cibo caldo e visi amici»?
L’ultimo
libro di “Maurizio Pagliassotti” (La guerra invisibile. Un viaggio sul fronte dell’odio
contro i migranti, Einaudi, 2023) ci costringe a non distogliere lo sguardo.
È il mestiere del giornalista, del reporter:
e “Pagliassotti” lo fa davvero.
Percorrendo,
in buona parte a piedi, i seimila chilometri che vanno da Ventimiglia al
confine tra Turchia e Iran:
la
rotta balcanica, l’altro Mediterraneo in cui spariscono i migranti.
Guardando, e raccontando.
È un
fronte bellico, dice “Pagliassotti”:
i suoi occhi vedono una guerra, la sua
scrittura la fa vedere anche a noi.
Una
guerra «sconosciuta a molti attori del dibattito pubblico e politico, che
parlano e twittano sulla base di slogan e luoghi comuni».
Una
guerra contro i migranti:
per
tenerli fuori dalla fortezza Europa.
Una
guerra che non potremo tenere per sempre lontana da noi.
Perché
in realtà, scrive, «riguarda noi. Soprattutto quel vastissimo mondo di mezzo
che non sa come schierarsi e si dibatte tra un compassionevole “Poveretti” e un
preoccupato “Ma sono troppi, come facciamo a prenderli tutti.
Aiutiamoli
a casa loro”.
Questo libro vorrei che fosse letto proprio da
costoro, ma non per scatenare un senso di pena o un cedimento umanitario,
sentimenti a cui non credo più, bensì per dire loro che la ferocia che c’è al
di là di Trieste prima o poi vi raggiungerà».
È difficile, questo discorso: perché – scrive
ancora “Pagliassotti” – ormai «la parola stessa “migrante” provoca resistenza,
perché ormai segregata dentro un cliché semantico che la rende debole e
lontana.
Ho
visto la guerra che stiamo combattendo e vincendo contro i migranti, sebbene
con grande fatica e sperpero di risorse, per questo ho deciso di chiamarli
nemici in queste pagine.
Ma ora, al termine di questo racconto in cui
io stesso ho ondeggiato, qualcosa mi appare più chiaro.
L’Italia e l’Europa, mi appaiono in questo
settembre 2022 lanciate verso un futuro fatto sempre più di rancore mal represso,
perché la guerra alla povertà è stata soppiantata dalla guerra ai poveri».
È questa la guerra mondiale: quella dei ricchi
contro i poveri.
Ma
allora almeno proviamo a guardarli in faccia, questi nostri nemici.
Come
quelli che “Maurizio” incontra chiusi in una cantina di “Edirne”, città turca
subito dopo il confine con la Grecia, cioè con noi.
«Apro
la porta della cantina – scrive – e vengo assalito da un fetore che prende alla
gola e mi provoca un conato di vomito, ma resisto e riesco a vedere in una
piccola stanza larga due metri e mezzo e lunga tre, dei corpi di alcuni esseri
umani seminudi.
Ricordo
che non ho pensato subito che fossero uomini, bensí un ammasso di stracci dal
colore beige, indefinito:
c’era poca luce e una singola lampadina era
accesa in un angolo.
Non
hanno scarpe, non hanno pantaloni, alcuni indossano solo delle mutande o una
calza, altri sono rannicchiati nudi in un angolo di fianco alla stufa elettrica
che emette il calore necessario per non morire assiderati. […]
Tutte
le bocche sono sdentate, circondate da labbra secche e spaccate dal freddo.
Quello che vedo è l’uomo allo stato bestiale, che si getta sul cibo, pronto a
divorare il suo vicino pur di avere un tozzo di pane:
sono
sporchi, luridi, hanno gli occhi scavati e le barbe lunghe, le mani sono nere e
coperte di fango.
I loro
corpi stanno marcendo da vivi, sono dei morti che vivono in una catacomba, dei
morti che ostinatamente non vogliono prendere coscienza della loro condizione.
Si rifiutano di uscire da molti giorni, da
quando hanno subito la pedagogia del terrore della frontiera turco-greca.
Poi
gli uomini morti mi vedono meglio e allora si avvicinano come un plotone di
zombi mentre masticano e con le mani reggono il cibo che non riescono a
spingere in bocca.
Allora
capita una cosa che non mi era mai successa: vogliono che li fotografi».
Sull’umiliazione e sulla paura vince la dignità:
ché
almeno noi europei siamo costretti a vedere il prezzo della nostra vittoria sui
migranti.
Un
prezzo mostruoso.
La
città dei ricchi e la città dei poveri.
Fondazionesancarlo.it – Recensore, Luciano Grandi –
(10-5-2.000) -Colin Ward – ci dice:
Filosofo
anarchico, docente ospite nell”anno accademico 1995-96 della London School of
Economics, Colin Ward offre in queste “letture” uno sguardo appassionato e
convinto della parabola delle esperienze di auto assistenza nel campo della
politica del territorio e dell”urbanistica.
Egli
lamenta che la tradizione della vasta rete di iniziative sociali basate sul
mutuo soccorso, viva in Gran Bretagna nel XIX secolo, si sia progressivamente
inaridita anche perché di ostacolo al principio dell””universalismo statale”:
offrire
a tutti i cittadini servizi uguali.
In realtà, lo si vede in tutto il mondo
occidentale, ciò non si è realizzato e gli standard nella fornitura di servizi
si sono fortemente differenziati.
Ward sostiene che l”universalismo è irrealizzabile in
società enormemente divise in termini di reddito e di possibilità occupazionali.
Ne è
conseguito un rafforzamento della spinta localistica e volontaristica e una
diminuzione di senso civico a favore del potere dello Stato.
L”edificio
ufficiale del welfare è diventato semplicemente una rete di sicurezza per il
cittadino povero che non può permettersi niente di meglio e che non ha avuto
nessun concreto miglioramento nonostante decenni di politica redistributiva.
Tracciando
una breve storia degli insediamenti nelle terre comuni e dell’occupazione
abusiva di terreni liberi, l”autore deplora anche la degenerazione di quello
spirito pubblico che aveva consentito alle autorità locali di giungere ad
accordi con gli occupanti, i quali oggi sono invece criminalizzati in nome di
una presunta democrazia della proprietà.
Il
sistema di pianificazione del territorio, non la proprietà individuale,
impedisce alla gente comune di riprendersi la terra:
deve esistere un punto d”incontro, si augura “Ward”,
tra l’ideologia dell””altrove, non nel mio giardino” e le esigenze fondamentali
delle persone escluse dall”economia d”impresa.
Questa
speranza viene ostacolata dallo sviluppo di un”ideologia secondo la quale il
mercato e l”impresa privata sono i soli in grado di risolvere tutti i problemi
dell”uomo, mentre il servizio pubblico è dissipatore di risorse.
Ciò pone un freno allo sviluppo di una
coscienza responsabile nei confronti della disponibilità delle risorse e di un
atteggiamento ecologicamente valido.
Riprendendo
un”intuizione di “Martin Buber”, l”autore Ward “conclude constatando che il predominio del principio del
potere, della gerarchia e del dominio, sul principio sociale dell” “associazione
spontanea per le esigenze comuni”, provoca una diminuzione della volontà di svolgere un
ruolo attivo nella comunità.
“Uomini
contro”, Gian Maria Volonté
e la guerra secondo Francesco Rosi.
Hotcorn.com
-Jacopo Conti – (15 novembre 2022) – ci dice:
A
cento anni dalla nascita, abbiamo rivisto un classico del regista, tra eroismo
e umanità.
MILANO
– Una delle operazioni più caratterizzanti ed efficaci che la politica (nel suo
senso più ampio) è solita
fare è quella di riscrivere la Storia. Ma
attenzione: non nel senso di negarla o cancellarla (cosa che dovrebbe
riguardare solo i regimi o le eversioni totalitarie), bensì nel più nobile,
utile e democratico bisogno di reinterpretarla e ri-raccontarla da un altro
punto prospettico rispetto a quanto già fatto, in modo da portare alla luce una
nuova possibile lettura dei fatti e del mondo.
Se a questa
considerazione aggiungiamo la massima del saggio per cui «quando raccontiamo la
Storia stiamo in realtà sempre anche raccontando un po’ di noi stessi e del
nostro presente», non ci stupisce vedere il modo in cui Francesco Rosi, nel
1970, ha rilanciato il libro di “Emilio Lussu” “Un anno sull’altipiano” -una
raccolta di memorie della Prima Guerra Mondiale, scritta dal futuro azionista
sardo durante il suo esilio dovuto al fascismo- e ne ha tratto questo “Uomini
contro”: un film di guerra, politico, storico e di successo.
“Uomini
contro-Una scena del film”.
Siamo
sulle Prealpi venete, all’incirca a metà strada tra Vicenza e Trento, dove la
Divisione dell’irriducibile Generale Leone (Alain Cuny) combatte contro gli
austriaci per il controllo del Monte Fior, una postazione considerata decisiva
dagli alti comandi, seppur a giorni alterni.
Siamo tra il 1916 e il 1917, quando l’esercito
è ancora nelle mani di Cadorna, un anno prima che Armando Diaz venga nominato
Capo di Stato Maggiore dopo la disfatta di Caporetto (e un guerra che sembrava
persa si risolve favorevolmente).
L’esercito
italiano è impreparato, ridicolmente armato (grottesco-tragica la sequenza
delle “corazze Pasina”) e comandato da finti duri (come li definirebbe Kubrick)
che non solo non hanno reali competenze strategico-tattiche, ma sono anche
arroganti, autoritari e privi di qualsiasi umanità.
Sono gente del secolo precedente (Cadorna è
del 1850) che sta dietro le quinte a giocare al maschio-alfa e a dare ordini a
ragazzi di vent’anni pieni d’animo, ma destinati al macello.
“uomini
contro- un’immagine di Uomini contro”.
Protagonisti
di questi momenti storici e sciagurati, insieme alla loro Compagnia di “poveri
diavoli”, sono il tenente Ottolenghi (Gian Maria Volonté) e il sottotenente
Sassu (Mark Frechette):
il primo è un socialista duro e puro, uno di
quelli che spera che un bel giorno le armi che hanno distribuito ai soldati
vengano puntate verso i generali e, poi, giù fino ad arrivare a Roma, ove il
proletariato potrà finalmente prendere il potere;
il secondo (che sembra più ispirato a Lussu) è
invece un democratico interventista, apparentemente più timido e misurato del
compagno, arruolatosi come molti per difendere la causa liberale contro gli
imperi centrali.
Tutti
e due resteranno colpiti nel loro profondo dalla guerra e dai suoi orrori, “Ottolenghi”
vedendo confermate le sue ideologie e rinfrancando la sua contrarietà al
modello sociale che ha portato alla guerra;
“Sassu”,
più riflessivo, subirà invece un processo graduale di maturazione interna, più
sofferto e complesso (che per il momento merita un atteggiamento no-spoiler da
parte nostra).
Ad
aprire la serie dei film antimilitaristi ambientati nelle Prima Guerra Mondiale
ci aveva però già pensato nel 1957 lo “Stanley Kubrick” di “Orizzonti di gloria”,
film con cui l’opera di Rosi ha molte cose in comune, dal ruolo morale del
capitano-sul-campo contrapposto a quello delle alte dirigenze militari e
politiche, agli inefficaci ma insistiti assalti-massacro a suon di trombe e
fischietti sul fronte oltre la trincea, fino alle (in)evitabili esecuzioni e le
ingiustizie di corti marziali più o meno improvvisate e regolari.
Ma “Uomini
contro” non poteva limitarsi a questo, a più di un decennio da un predecessore
così illustre.
L’atteggiamento
politico, quindi, non si limita più alla pur presente critica alla guerra (e in
particolare quel tipo di guerra), ma si trasforma e diventa qualcosa di più
ampio, che mantiene l’opera costantemente a cavallo tra il film politico e il
film storico.
La
pellicola di Francesco Rosi è infatti un film sociale (e socialista), molto più
di quanto non sia un film di guerra.
È un film di classe che tenta di aggiustare
concetti come quelli di eroe e di martire, solitamente appannaggio di un
singolo individuo, per trasformarli in caratteristiche di un popolo e, per
estensione, di una intera umanità.
Per “Uomini
contro”, la Grande Guerra non l’hanno combattuta e vinta i generali e gli eroi
militari, ma l’hanno vissuta guerreggiando (e pagata) i popoli oppressi:
lottando e morendo come formiche, o ben che sia andata sopravvivendo per puro
caso, come inermi pedine di giochi di potere tra nazioni che li considerano solo
dei numerini, delle caselle su cui porre eventualmente una “x” nella lotteria
della battaglia navale.
Il
film è profondamente pessimista quando racconta questo tipo di realtà, ma il
regista sembra dare una speranza nell’esortarci a rivalutare quell’esperienza
in relazione all’oggi (al suo oggi, ovviamente).
Gian
Maria Volonté in una scena del film.
La
Grande Guerra, al caro prezzo della devastazione e di dieci milioni di morti,
avrebbe concesso ai contadini e proletari di tutta Europa – non solo ai sardi e
agli italiani, come dimostra la scena in cui gli austriaci smettono di sparare
sui nemici inermi – di riconoscersi nel proprio simile e di prendere coscienza
della propria situazione, non vedendola più solo come la loro vicenda umana
particolare, ma come una condizione che fa da elemento portante di una
struttura sociale oppressiva e sfruttatrice.
Ovvero: quelli che prima erano semplicemente
poveri emarginati, ora si scoprono massa, e capiscono di poter agire, perché
tutti insieme hanno fiato, braccia e dignità per essere davvero una forza
sociale in grado di cambiare il mondo facendo l’unica cosa possibile:
resistere, resistere, resistere!
Ecco
perché il potere è nelle mani degli uomini.
Lastampa.it
- DONATA COLUMBRO – (28 Dicembre 2022) – ci dice:
Da tre
mesi a capo del governo italiano c’è una donna.
Cosa è
cambiato in termini di distribuzione del potere e gender gap in Italia in
quest’ultimo anno.
Il
potere in Italia è ancora largamente maschile, sia nel pubblico che nel
privato. È quello che emerge dai dati raccolti e
rappresentati nella seconda edizione rapporto “Sesso è potere”, che si
interroga sui cambiamenti avvenuti nel nostro paese nell’ultimo anno rispetto
alla parità di genere.
Da tre
mesi a capo del governo italiano c’è una donna, Giorgia Meloni.
Cosa è
cambiato in termini di distribuzione del potere e gender gap in Italia in
quest’ultimo anno?
Se lo chiede il rapporto “Sesso è potere” a
cura delle associazioni” onData” e “info.nodes”, ricco di dati, grafici e mappe
su uno squilibrio di genere nell’esercizio del potere in Italia che è ancora
talmente profondo «da apparire quasi incolmabile».
«Abbiamo
deciso di ripetere l'indagine perché è ancora di grande importanza, e in più
oggi non è così raro sentir dire “finalmente una donna a capo del governo”,
come se questo bastasse a spazzar via uno squilibrio di genere enorme, in tanti
settori», sostiene “Paola Masuzzo”, ricercatrice indipendente e tra le autrici
del rapporto.
Dal
settore privato, in cui nelle maggiori 100 aziende italiane per
capitalizzazione quotate in borsa, troviamo solo 5 donne nel ruolo di
amministratrice delegata, a quello pubblico, come in parlamento, dove la
presenza femminile si è ridotta per la prima volta da molti anni, le donne
restano ai margini.
Nelle aziende quotate in borsa nel 95% dei
casi la poltrona più importante del “CdA” è occupata da uomini.
Nelle
società controllate o partecipate dal ministero dell’economia e delle finanze,
gli uomini che ricoprono il ruolo di amministratore delegato sono in numero
nettamente superiore: 28 su 34 (82,3%).
In
politica, a livello comunale, nei 7452 comuni censiti sul portale del ministero
dell’interno per cui è disponibile questa informazione, gli uomini eletti sindaco sono 6331,
cioè l’84,96%, contro le sole 1121 donne.
A
questi dati si aggiungono quelli raccolti da “Openpolis” in un’indagine sulla
disparità di genere in politica:
in
parlamento le donne all'interno degli uffici di presidenza di camera e senato
sono solo 1 su 4, le donne capigruppo sono il 38,9%, su 24 commissioni
permanenti solo 2 sono presiedute da donne e su 48 incarichi di vicepresidenti
20 sono ricoperti da donne.
A
proposito di «prima presidente del consiglio donna», è proprio quella di “Fratelli
d’Italia” la formazione con la più bassa rappresentanza femminile, con solo 1
donna su 10 componenti degli uffici di presidenza.
Come
ha scritto anche l’esperta di politiche di genere “Barbara Leda Kenny” su “l’Essenziale”,
«Giorgia
Meloni è diventata presidente del consiglio senza cambiare il rapporto di
potere tra i generi. Intorno a lei ci sono solo uomini».
E i
media?
Secondo il rapporto” Sesso è potere”, per quanto
riguarda il settore dell’informazione nei 27 quotidiani nazionali con una
tiratura media certificata superiore alle 30mila copie, l’81,5% dei direttori è
un uomo.
Solo 5
quotidiani sono diretti da donne, e per giunta in tre casi (Il Resto del
Carlino, La Nazione e Il Giorno, tutti appartenenti al gruppo QN) la direttrice
è la medesima “Agnese Pini”.
Raccogliere
questi dati per la realizzazione del report non è stato sempre facile, spiega “Masuzzo”.
«Alcuni
dati sono disponibili online sul sito del ministro dell'interno, come ad
esempio il dataset “Anagrafe degli amministratori locali e regionali”.
Purtroppo
il dataset contiene alcune lacune importanti, e “onData” ha pubblicato delle
note con una serie di raccomandazioni per migliorare la qualità e l'usabilità,
che speriamo vengano recepite.
Altri
dati usati nel report, invece, sono stati raccolti a mano:
ad
esempio, abbiamo cercato online i siti delle 100 maggiori aziende per
capitalizzazione quotate alla borsa di Milano, e abbiamo cercato
l'amministratore o amministratrice delegata.
Un
lavoro enorme - ma adesso ovviamente “i dataset” che abbiamo creato sono aperti
e si possono riutilizzare».
Le
donne al potere? Sono uomini.
27esimaora.corriere.it - Claudio Sabelli
Fioretti – (20 aprile 2020) – ci dice:
Un
paio di settimane fa “Michele Cucuzza”, conduttore di Radio2Days, mi ha chiesto
di intervenire nel suo programma.
Si
parlava di donne e della loro scalata verso le cime alte del potere.
Per
questo motivo sono stato costretto a pensare un po’ a cose che a volte si danno
per scontate.
Sopra
al tetto di cristallo ci arrivano solo quelle che vengono selezionate dagli
uomini, in base alla loro somiglianza agli uomini.
Le
donne sono meglio degli uomini? E se sono meglio perché ce ne sono poche ai
vertici? Sono discriminate? O forse non sono portate? Esiste una via femminile
alla pubblica amministrazione?
Argomenti
da toccare con le pinze.
In Italia vige ufficialmente il politicamente
corretto.
Quando
qualcuno ti chiede la tua opinione sulle donne, su extracomunitari, su neri, su
omosessuali, su handicappati, su ebrei è meglio rifiutarsi o al massimo
rispondere facendo riferimento al pensiero unico buonista.
Non
costa nulla, nessuno ti rimprovera di nulla e tu non rischi nulla.
Ma io
non ce la faccio.
Ho
sempre pensato che le parole sono importanti ma non quanto i fatti.
Perciò
non penso che il problema si risolva chiamando “neri” i negri o “diversamente
abili” gli handicappati.
E non
raccontando barzellette sugli ebrei (cosa che gli ebrei fanno in continuazione
ed egregiamente).
E che invece bisogna occuparsi dei loro
problemi come fossero i più importanti del mondo, magari anche mandandoli a
quel paese quando è giusto farlo.
Combattere
contro quei cretini che parcheggiano l’auto sui percorsi per i ciechi, questo è
fondamentale, non chiamarli “diversamente vedenti”.
Con le
donne la faccenda poi si fa delicata.
Perché
le donne sono spesso permalose.
Hanno
ragione ad essere permalose perché gli atteggiamenti maschilisti sono dietro
ogni angolo, ma questo non aiuta la discussione.
Quando ho parlato nella trasmissione di “Cucuzza”,
naturalmente, ho suscitato la reazione di una donna. Era inevitabile.
Se
avessi detto banalità, tipo che le donne che lavorano fanno due lavori e che le
donne debbono lavorare il doppio per dimostrare di essere brave non avrei avuto
problemi.
Ma io
partivo da un punto più a monte e dovevo dirlo.
E l’ho
scritto poi, la settimana dopo, su Io donna.
Io
faccio parte di quella generazione che sosteneva che se le donne avessero
potuto andare al potere avrebbero mostrato agli uomini che si poteva governare
con maggior senso di giustizia e di umanità.
Eravamo
fortemente convinti che le donne avrebbero spiazzato gli uomini promuovendo un
mondo migliore.
E
quindi non posso che dichiararmi deluso.
Correndo
pericolosamente sul lacerante crinale del politicamente scorretto, ho
sostenuto, con rammarico, che le donne non ci hanno mostrato nessuna nuova via.
E so anche il perché.
Perché
le donne raggiungono posti di reale potere solo quando vengono cooptate dagli
uomini.
Il livello medio, e anche quello superiore,
ormai lo raggiungono con facilità. Quando la selezione è operata dal merito non
hanno difficoltà ad occupare i posti che spettano loro mantenendosi donne e
riuscendo anche a mostrare una metodica femminile alla gestione
dell’amministrazione.
Ma
così arrivano soltanto appena sotto al famoso tetto di cristallo da dove
possono vedere il potere ma non toccarlo.
Sopra
al tetto di cristallo ci arrivano solo quelle che vengono selezionate dagli
uomini, in base alla loro somiglianza agli uomini, all’appartenenza al loro
mondo, alla condivisione dei loro valori.
E così le donne che comandano fanno le guerre
come gli uomini, evitano di promuovere la giustizia sociale come gli uomini,
tassano i poveri e difendono i capitali dei ricchi esattamente come hanno
sempre fatto gli uomini.
Sono violente, arroganti e presuntuose come
gli uomini.
Ma se
lo dici molte ti azzannano.
Sono
quelle che sostengono che dire “Fornero” invece che “la Fornero” sia una grande
conquista.
Io continuo a dire “la Fornero” ma ammetto di
sbagliare.
Dovrei
dire “il Fornero”.
È triste ammetterlo: le donne che comandano
sono uomini.
Satanismo
e culti alternativi.
Truemetal.it
- Pagina 4 di 5 – (14 Ottobre 2022) - the Fierce – ha scritto:
No,
senza offesa non mi hai dimostrato: hai preso cose effettivamente esistenti e
hai cercato di usarle come prova storica per un fenomeno che, come lo descrivi,
storico non è.
Se
permetti, cambia. Dire che esiste un satanismo originale perchè la figura di
Satana subisce un’influenza culturale di Ahriman o Seth…beh…è un po’ tirata…
Il
processo linguistico e culturale che ha portato la parola greca “daimon” a
“demone” come noi lo conosciamo è lungo.
Non è
che arriva un gruppo di persone e, dall’oggi al domani, ti dice “oh ragazzi, da
oggi questa parola serve per indicare i cattivi”.
È un
processo lungo e che per di più riguarda le questioni in maniera puramente
marginale, e per di più non nei termini che suggerisci tu.
E,
ancora, non si può considerare una prova dell’origine antica del satanismo.
Non è
una novità che in un certo periodo l’iconografia del diavolo derivasse da
immagini caprine o dei satiri: ma è iconografia, non verità di fede.
L’iconografia
nel tempo può cambiare, e infatti cambia.
Questo
però non dimostra che Satana esistesse prima di cristianesimo ed ebraismo.
Adesso
non è che puoi dire che in un periodo l’iconografia del diavolo e quella dei
satiri era la stessa, allora il satanismo è preesistente.
La
parola Halloween è la contrazione di” All hallows’ eve”, non di Samhain.
Va detto che quando il cristianesimo comincia
a incontrarsi con le tradizioni celtiche in area britannica, nel continente era
radicato e dominante da un bel pezzo…
Sì,
tra le feste c’è un nesso, ma è roba anglosassone.
Fino a poco tempo fa, da noi, di Halloween non
fregava niente a nessuno.
Immagino
che con Pio IX, in pieno XIX secolo, quella di ufficializzare l’immacolata
concezione fosse una scottante priorità per liberarsi quanto prima di questi
perniciosi culti egizi e romani.
Per
umana pietà e per evitare che agli storici e agli appassionati di storia venga
un infarto seduta stante, smettiamola con sta cazzata degli Horus, dei Mitra e
di chi dir si voglia nati il 25 dicembre:
sono
fandonie senza alcuna fonte storica propagata da” Zeitgeist”, un documentario
più volte bollato da studiosi e non come ciarpame senza alcun fondamento.
E, per
la cronaca, “Mitra” (la cui versione romana è molto diversa dall’originale
persiana) nasce da “ROCCIA vergine”, non da una donna sessualmente illibata.
Che
poi i Saturnali non c’entrano una mazza né con Mitra, né tantomeno con Gesù.
Ovviamente
la Pasqua è sgraffignata da altre feste ovviamente analoghe, e di cui
ovviamente non c’è traccia:
No, perché se nella letteratura iranica non
troviamo tracce della morte di £Mitra, non si capisce come possa risorgere.
No,
non sono affatto della tua idea:
la
Befana sopravvive in maniera puramente folkloristica, senza mai aver avuto
alcuna rilevanza, nemmeno simbolica, nel contesto religioso cristiano.
Sarebbe
innanzitutto adeguato,dare una definizione ci cosa intendi tu per storico
allora , io ti ho riportato esempi e nessi , non inventati da me , ma
consultabili in ogni dove e ogni parte del web e non solo, perché esistono tomi
,manufatti e quant’altro rielaborati ai giorni nostri , Io davvero non capisco
se ,sia io a spiegarmi male o tu che non mi comprenda bene .
Tu mi hai giustamente chiesto dove fosse
possibile trovare un esempio della figura di satana o del satanismo nel mondo
orientale e ti ho riportato una minima parte dei culti pagani pre- ebraici
presenti in mesopotamia, poi andati a scemare per le cause già elencate.
Che
esista un satanismo originale, che subisce particolari influenze da Ahriman o
Seth l ‘hai detto tu non io ,ho solamente messo in evidenza analogie fra queste
divinità che sono evidenti e ci sono ma ahimè più di dirlo non posso fare
altrimenti.
Il
satanismo originale comunque vorrei dire che esiste ed ha un suo perché come il
resto delle cose, che dopo sia venuto alla luce solamente più tardi, posso
essere concorde ma che non ci fossero state sette segrete, magari anche senza
il nome satanismo (dato che si ricerca il pelo nell’uovo) ma sostanzialmente
con tutti gli elementi rituali che oggi rientrano in esso.
Anche
solamente molti dei fatti raccontati nella storia, fanno riferimento anche
esplicito al fatto che vi siano state delle persone, un po' fuorvianti,
tendenti all’opposto tra i cristiani, ad esempio già nel secondo secolo dopo
cristo vi furono le famose “rinunzie a satana” per cui, già in quel periodo era
realtà e già in quel periodo, vi era il timore di un diffondersi tra la gente
di consensi verso questi culti pagani.
Oltretutto
è buffo notare come su Wikipedia si possa trovare l’esatta conferma alle mie
parole, visto che vogliamo parlare di culto satanico originale allora, si può
menzionare la stregoneria, come quella che può essere la prima forma di
“satanismo”.
Streghe
e stregoni erano figure strettamente col diavolo e Wikipedia ne scrive questo:
”
Sotto il profilo storico la stregoneria europea è abitualmente associata alle
grandi persecuzioni avvenute nel Cinquecento e nel Seicento.
In questi secoli la stregoneria aveva già una
sua storia, che vari studiosi hanno fatto risalire fino al culto precristiano
della dea Diana.
Alcuni
storici hanno invece preferito approfondire l'evoluzione delle divinità pagane
che ha portato all'immagine del “Diavolo cristiano”, mentre altri si sono
orientati con le proprie ricerche verso i movimenti sociali del Medioevo, a
conferma del fatto che la stregoneria è un argomento talmente complesso e
multiforme nelle sue manifestazioni da non poter essere ricondotto a un'unica
origine.
Senza
contare il fatto che già nella preistoria vi erano ,streghe e stregoni, che
avevano il compito di favorire i buoni raccolti e la prosperità del bestiame .
Quindi
con un significato totalmente diverso da oggi.
“Non è
una novità che in un certo periodo l’iconografia del diavolo derivasse da
immagini caprine o dei satiri: ma è iconografia, non verità di fede.
L’iconografia
nel tempo può cambiare, e infatti cambia.
Questo
però non dimostra che Satana esistesse prima di cristianesimo ed ebraismo.
Adesso non è che puoi dire che in un periodo
l’iconografia del diavolo e quella dei satiri era la stessa, allora il
satanismo è preesistente”
Ma
certo che lo è , non so più come dirlo :
sull’ebraismo non ne sarei sicuro o meglio
dovrei fare delle ricerche non ricordo lo specifico anno , ma sicuramente già
era preesistente al cristianesimo , e l‘accostamento
“Satana- Capra” è solo un maldestro tentativo di dargli una figura , non ne
sarei cosi convinto , ad esempio i demoni dell’”Ars Goetia” sono rimasti quelli
da sempre , l’essere caprino è solo il discorso “Baphomet” nei templari ,oppure
un’altra tesi che lessi 3 anni fa ossia quella di “La Voisin”, e che a mio
avviso è anche la più attendibile, ossia che in queste messe celebrate contro
Cristo venivano eseguite azioni di ogni tipo tra cui sacrifici paganeggianti di
tipo “panico” ossia derivanti dal dio “Pan”, che è il dio a cui si avvicinano di
più le fattezze del diavolo.
Per
quanto riguarda la questione “daemon” , semplicemente come già detto ,si doveva
ad un certo punto prediligere tra chi assorbire nei nuovi culti , cosi in
Europa e lo scenario cristiano così in grecia ,gli” Aggelòs” vennero favoriti
ai “Daemon”.
Nicola
Piovani: “Nel Paese non vedo
pericolo fascismo, temo di più
la
politica degli orecchianti”
lastampa.it
– (11 giugno 2023) - ANDREA MALAGUTI – Nicola Piovani - ci dicono:
«Mi
spaventano i dilettanti e la “Religione Unica del Profitto”: per uno 0,5% in
più si sacrificano vite e futuro.
Se
artisti come “Abbado”,” Fellini” o” Eco” hanno fatto carriera non è certo
grazie al “pensiero egemone di sinistra”»
Bisognerebbe
scegliere lo spartito. Per esempio “Quanto t’ho amato”.
Al
genio struggente di “Nicola Piovani” si sommano la poesia di “Vincenzo Cerami”
e la voce di “Roberto Benigni”.
“Mi
perdo nel tuo sguardo colossale. Nell’amore le parole non contano, conta la
musica”.
Fidandosi
dell’orchestra in sottofondo tutto sembra più facile. Persino il racconto di
questo Paese pieno di luci fioche e di ombre scure. Nulla è più democratico di sette
note, se si è capaci di ascoltare.
Soprattutto
quando a parlare è un Maestro.
Nicola
Piovani, esiste il pensiero unico in Italia?
«Ma
certo che no, le sfumature del pensiero non hanno mai tenuto banco come ai
nostri tempi. Il rischio semmai è l'opposto».
Una
scomposta torre di Babele?
«Uno
stato confusionale fatto di pensieri segmentati, di enunciati spray, di slogan,
di naufragi nei distinguo e nelle battute spiritose».
Che
cosa non le piace delle battute spiritose?
«In
verità mi piacciono molto. Amo l’umorismo, l’ironia e anche i giochi di parole.
Ma trovo cinico usare battute per semplificare, minimizzare, ridicolizzare
problemi drammatici».
C’è
qualcosa di peggio del pensiero unico?
«Sì:
la religione unica».
Il
cattolicesimo apostolico romano?
«No.
La RMP, la “Religione del Massimo profitto”. Non del profitto, attenti, ma del
massimo profitto.
Sull’altare
dello 0,5% di guadagno in più vengono sacrificate istanze sacre, le vite degli
uomini, il futuro di un pianeta, l’aria, l’acqua, il grano, l’arte.
È una fede con un’allarmante vocazione al
collasso».
Le
daranno del comunista.
«Pazienza.
Mi hanno detto di peggio».
Per
esempio?
«Mi
hanno dato del buonista, squallido aggettivo. Non so chi l’abbia inventato ma
gli auguro, quando avrà mal di denti, di incappare in un dentista cattivista».
Perdoni
se insisto con la sinistra. Orienta o no, da sempre, il pensiero culturale (il
famoso patto De Gasperi-Togliatti, a me la politica a te la cultura)?
«Se
non ricordo male, la linea di Togliatti sulla spartizione della cultura fu
suggerita da Stalin.
Ma non credo che sia merito dell’egemonia
culturale della sinistra se hanno fatto carriera artisti e intellettuali come
Abbado, Fellini, Piano, Eco o Benigni. E potrei continuare».
Continui.
«Morricone,
Dario Fo, Suso Cecchi-D’amico, Pollini, Morante».
Un
elenco di intellettuali di destra?
«Mi
riesce più faticoso. Ma il maestro Muti, artista di livello planetario, non
milita certo a sinistra».
Patria,
nazione e razza sono parole molto di moda.
«Se è
così, appartengo a un pensiero démodé».
Una
moda che non passa mai è quella del governo che occupa la Rai.
«Occupazione
militare, è stato detto. È una vecchia frase fatta. Bisognerebbe invece pesare
bene le parole prima di usarle. Dosare i superlativi, soprattutto in un tempo
come il nostro in cui il chiasso mediatico moltiplica gli equivoci. La politica
fuori dalla Rai è il refrain di una vecchia favola a cui non crede neanche chi
la racconta. Certo, c’è modo e modo».
Come
lo definirebbe questo modo?
«Totò direbbe:
qui si esagera!».
Fazio
ha lasciato la tv pubblica dopo 40 anni
«Per
me si tratterà soltanto di pigiare un altro pulsante sul telecomando».
Anche
Lucia Annunziata ha mollato.
«Non
mi intendo di logiche Rai, non ne ho competenza e non la considero una lacuna».
Le
piace il ministro Sangiuliano?
«Da un
ministro della cultura mi aspetto che metta mano al disordine sclerotizzato di
tanti istituti culturali».
Non mi
è chiaro.
«Penso
agli enti lirici, ai teatri pubblici, alle associazioni culturali. I soldi del
contribuente che vengono spesi per la cultura, anzi direi meglio per l’arte,
devono servire a diffondere gli spettacoli d’arte a tutti. Distribuzione agile,
prezzi bassi, agevolazioni per giovani e studenti, pubblicità sulla Tv di stato;
anche per formare il pubblico del futuro».
Sembra
un mondo destinato alle élite.
«Al
contrario. Mi piacerebbe, per esempio, che si sganciasse l’idea del teatro
lirico dall’idea del lusso. Una prima all’Opera, sia chiaro, può essere un
bell'evento mondano, perché anche le mondanità ingioiellate e le toilette
costose hanno i loro diritti. E se il prezzo di una poltrona di gala fosse
anche diecimila euro non mi scandalizzerei».
Intendevo
esattamente questo.
«Aspetti.
Perché dopo la prima di gala dovrebbero esserci decine e decine di repliche a
prezzi più che popolari, per dare accesso a un pubblico che ora ne è escluso:
non è accettabile che nei paesi europei i capolavori di Verdi siano più
conosciuti che in patria, tanto per usare un termine di moda. Ecco: per me,
coniugare la cultura musicale e teatrale con il lusso è un atteggiamento che
chiamerei di destra. Ma nella pratica è condiviso a molte latitudini
politiche».
Che
giudizio dà di Giorgia Meloni?
«Chi
vince democraticamente le elezioni, raccogliendo consenso personale, ha il
diritto-dovere di governare secondo il proprio programma elettorale e di
scegliere i suoi collaboratori, contando su una maggioranza parlamentare
robusta».
Non è
un giudizio, è un’analisi.
«Per
vedere i frutti di un governo bisogna aspettare, ci vuole tempo: e allora
aspettiamo. (A Roma stiamo fiduciosamente aspettando anche i frutti del lavoro
del nuovo sindaco). Io, si sa, ho idee lontanissime da quelle dichiarate dalla
presidente in carica, ma non è certo la prima volta che mi capita. Di alcuni
politici mi piacciono poco le parole, ma, ancor di più, mi inquieta la musica
del loro parlare».
Usano
spartiti bugiardi?
«Usano
quella modulazione retorica per cui si inizia un intervento a voce moderata,
cordiale, e poi, fingendo di infiammarsi, si alza il tono in un crescendo
tutt’altro che rossiniano, fino ad arrivare all’urlo sgangherato che mima
un’indignazione etica, e che a volte prevede il rigonfiamento calcolato della
giugulare».
Yo soy
Giorgia?
«Non
voglio personalizzare. La modulazione retorica a cui faccio riferimento non è
un’esclusiva degli oratori di destra. Si va diffondendo molto in televisione e
sui social. Fortunatamente c’è il tasto off per spegnere».
Piovani,
esiste il pericolo fascismo?
«Più
che i governanti fascisti, mi preoccupano i governanti orecchianti».
Che
cosa significa?
«Suonare
a orecchio va bene fra dilettanti».
Per
questo l’astensionismo è a livelli record?
«L’astensionismo
disfattista e qualunquista è un pericolo serio. Nell’animo di troppi giovani si
va diffondendo l’idea che votare è inutile, che "tutti sono uguali, tutti
rubano alla stessa maniera", come cantava ironicamente Francesco De
Gregori. Oggi un cantante idolo dei giovani può tranquillamente dirci che non
sa chi è Sergio Mattarella (Rosa Chemical, ndr) e magari poi nelle sue canzoni
lanciare una visione etica del mondo. Questo trionfo del qualunquismo
consumista mi sconcerta».
I
ragazzi tirano vernice lavabile sui muri dei Palazzi sognando un mondo
migliore. Negli Anni 70 si “sprangavano” in piazza. Alcuni di loro hanno
importanti ruoli istituzionali.
«I
ragazzi che dimostrano le loro idee sulle catastrofi ambientali lanciando
vernice solubile sui monumenti compiono un gesto illegale; un gesto forse
nobile, ma certamente illegale. E le autorità hanno il dovere far rispettare la
legge. Sull’utilità di quei gesti giovanili ho molti dubbi. Ma quelli che fanno
raduni col saluto romano, con l’effige del duce, con le svastiche, quelli
commettono un’illegalità ben più grave: e le autorità non dovrebbero restare
inerti».
La
Russa presidente del Senato lo promuove?
«Non
devo promuoverlo io, l’ha promosso il parlamento italiano che lo ha votato.
Come ci spiegò il giorno della sua elezione Liliana Segre, la Resistenza si è
fatta anche perché potesse accadere questo, il verdetto delle urne è sacro, e
va rispettato. Continuando naturalmente ognuno di noi a esprimere e proteggere
le proprie idee».
Quali
sono le sue?
«Le
mie sono radicalmente cristiano-socialiste. Può chiamarle serenamente di
sinistra».
Parliamo
del ruolo degli intellettuali?
«Intellettuale
è una di quelle tante parole che si sono logorate, sciupate con l’uso e
l’abuso. È un termine che è ormai difficile da pronunciare».
Perché?
«Molti
guai sono cominciati quando la parola “intellettuale” per qualcuno è diventata
un insulto, un dileggio. L’analfabetismo è più o meno sempre esistito ma oggi
c’è in più l’orgoglio dell’analfabeta, l’elogio dell’ignoranza, il plauso
all’incompetenza. Il ruolo di un artista è difficile da definire: ma per me
fondamentale è da sempre saper scegliere fra la convenienza e la convinzione.
Quando mi è capitato di dover scegliere e ho scelto la convinzione, ne sono
sempre stato felice».
Meloni,
in un comizio a Catania, ha detto: le tasse le devono pagare le big company, no
al pizzo di Stato sui piccoli commercianti.
«Il
pizzo lo riscuotono gli evasori e lo pagano i contribuenti, non ci piove. Chi
evade, usufruisce dei beni sociali a spese di chi paga le tasse. Mi sembra un
concetto basilare, banale: se un evasore – che qualcuno chiama furbo – si cura
in un pronto soccorso pubblico, la spesa gliela paga il cittadino virtuoso -
che qualcuno chiama fesso».
Il
governo strizza l’occhio ai furbi?
«O
forse sono i furbi che strizzano l’occhio al governo?».
La
destra in Europa può vincere ormai ovunque.
«Diciamo
che in Europa non tira un buon vento: ma proprio in questi momenti sarebbe
importante l’unità nell’opporsi alla destra, la capacità di fare fronte. Marx
diceva “unitevi”, Gramsci fondava “L’Unità”. E invece, mentre i conservatori si
compattano, i progressisti si sparpagliano, si smarcano, modulando l’arte della
scissione fino al virtuosismo farsesco».
Le
piace Elly Schlein?
«Elly
Schlein rappresenta in questo momento una speranza di rinascita del campo
progressista, avvilito dalle ultime batoste prese ma, soprattutto, dalla
perdita progressiva di identità: l’identità deve venire prima della vittoria.
Se per provare a vincere perdi di identità, fai come il tifoso che per vincere
lo scudetto cambia squadra. La segretaria ha davanti un lavoro lungo e
difficile, e merita i nostri auguri».
Dagospia
l’ha ribattezzata ZtElly.
«Sul
piano delle battute da bar sport andiamo forte».
Lei ce
l’ha l’armocromista?
«Appunto,
a proposito di battute».
La
sinistra parla troppo di diritti civili e troppo poco di diritti sociali?
«Per
me diritti civili e sociali viaggiano insieme. E devono coniugarsi con i doveri
civili e sociali. Il dovere di chi governa è garantire la dignità a chi lavora
e alle minoranze».
Giusto
mandare le armi in Ucraina?
«Il
tema è complesso, e non ho competenza sufficiente per parlarne».
Svicola?
«Ci ho
provato. Va bene. Premessa: io sono da sempre pacifista, cromosomicamente,
fisiologicamente pacifista e non violento: se vedo due in strada che litigano e
a uno gli cola il sangue dal naso, non ci dormo per due notti. Nel linguaggio
maschilista si direbbe che sono una femminella. Il mio animo ripudia la guerra,
come l’articolo undici della Costituzione. La guerra mi fa orrore come quasi a
tutti, credo e spero».
Dunque
niente aiuti a Kiev?
«E no!
Sono pacifista, ma non mi piace che di questo termine si approprino i
disarmisti, quelli che sono contrari all’invio delle armi agli Ucraini:
un’opinione rispettabile che non condivido affatto. Chi è invaso si deve
difendere. I disarmisti non hanno il copyright del pacifismo. Da ragazzo
manifestavo contro l’invasione del Vietnam e della Cecoslovacchia. Sono stato
contro l’invasione dell’Iraq, retroattivamente contro quella dell’Ungheria: e
ora come posso non essere contro l’invasione dell’Ucraina?».
Non
sarebbe solo.
«Me ne
rendo conto. Ma come posso non sapere che la propaganda putiniana in Italia è
molto attiva? Stiamo attenti, però: questa guerra è tragica ed è stolto farne
un pretesto di dibattito da derby politico».
Maestro,
qual è la cosa più bella che ha scritto?
«Quella
che sto scrivendo ora, o forse la prossima che scriverò. Ma, se proprio devo
risponderle, sono orgoglioso di una rapsodia per violoncello e orchestra che ho
scritto una decina d’anni fa, intitolata Il canto dei neutrini, che quasi
nessuno conosce».
Detesta
ancora la musica passiva?
«Anni
addietro ho scritto articoli sul fenomeno della musica passiva, cioè quella
musica che noi non scegliamo di ascoltare, ma che ci viene imposta al supermercato,
o al bar, o in un negozio di abbigliamento o addirittura al ristorante. Quella
musica che passa a un volume medio basso, spesso indecifrabile, e che si infila
come un blob negli ambienti della nostra esistenza, rispondendo forse a un
horror vacui sonoro sempre più diffuso».
Non
esagera?
«No,
anzi! Ne subisco la presenza ormai ovunque, perfino nei raduni di
ambientalisti, i quali sono giustamente attentissimi a proteggerci da cemento,
cartacce, ciminiere, inceneritori; ma sono insensibili alla protezione
dell’ambiente fonico, anzi inclini a musichette di sottofondo da insinuare fra
prati, alberi e boschetti, secondo un imperante diffuso costume – vorrei
chiamarlo malcostume ma, siccome sono in netta minoranza, desisto da questa
battaglia persa».
È
persa anche la battaglia del cinema con le piattaforme?
«Forse
questa battaglia non è mai cominciata. Da un po’ di tempo mi dedico pochissimo
al cinema e molto al teatro, ai concerti, alle opere. Nel passato ho musicato
più di duecento film, trascurando il resto. Ora voglio provare a
riequilibrare».
Tornando
in sala o restando comodamente sul divano?
«Innanzitutto
non demonizzerei il divano: sul divano ho letto libri magnifici, ascoltato
tanta bella musica e fatto altre belle cose. Detto questo, io ho lavorato nel
cinema quando ancora il cinematografo – la sala cinematografica – aveva un
potente ruolo di fruizione sociale. Oggi il grosso della fruizione si è
spostato sui video privati: Tv, tablet, telefono. Ho visto in aeroporto uno che
guardava un film sull’orologio da polso. E la visione da polso non ha la stessa
valenza del film in sala».
Sull’orologio
quel passeggero ha visto un film che probabilmente non avrebbe mai seguito al
cinema.
«Contento
lui! Ma è vero che ci sono ambiti nuovi che sicuramente ci daranno in futuro
grandi opere d’arte, in un campo percettivo ancora da sperimentare. Fare musica
in teatro in termini quantitativi, di successo, di guadagni dà meno
gratificazioni del cinema, della Tv; ma in termini di emotività artistica è
un’esperienza molto vitale, forse la più potente».
Si
emoziona ancora?
«Moltissimo.
Grazie al cielo non mi ha ancora colpito il virus del disincanto. Al “chi è di
scena” il batticuore condiviso con tutti i miei musicisti e tecnici è lo stesso
di sempre. Le assicuro che stare in un bel teatro della provincia italiana – ne
abbiamo tanti, meravigliosi - suonare dal vivo per un pubblico attento nel buio
della sala, senza telecomando, senza mouse, è un’esperienza artistica seconda a
nessun' altra. E non cambia se suoniamo a Siena o a Teheran o a Parigi o a Novi
Ligure, a Toronto o a Mola di Bari».
Esperienza
democratica.
«Se la
chiama così non mi offendo. Ricordo una notte insonne, negli anni Ottanta,
avevo la Tv accesa, e c’era una lunga trasmissione con l’onorevole “De Michelis”
il quale, nei suoi interventi, ripeteva quasi ossessivamente “bisogna pensare
in grande, bisogna pensare in grande”. La mattina dopo, al risveglio, ebbi
un’illuminazione che mi avrebbe guidato per gli anni a venire, e ancor oggi mi
guida: “Voglio pensare in piccolo!”. Ecco, la qualità viene prima della
quantità. La mia musica vive felice nella preziosa intimità di una sala
teatrale».
Che
cos’altro definirebbe prezioso nel suo lavoro?
«Beh,
quando ogni tanto mi propongono una sceneggiatura che è davvero affascinante,
non resisto alla tentazione e mi prendo il lusso di tornare in moviola (io la
chiamo ancora moviola). Per me, la magia del lavoro che coniuga musica e
immagini, partiture e sequenze, è rimasta intatta, è un vizio che non perdo».
Maestro,
se chiude gli occhi e pensa a Fellini qual è la prima immagine che vede?
«Lui
che mi aspetta al caffè Canova di piazza del Popolo, per andare insieme con la
mia macchina a Cinecittà».
Le
manca Fellini?
«Risposta
semplice: ovviamente sì. Soprattutto nella quotidianità e nello scambio di
pensieri, nelle telefonate».
Se
pensa a Benigni invece che cosa vede?
«Lo
vedo sorridente accanto a Nicoletta, davanti alla gioiosa pizza che abbiamo
condiviso pochi giorni fa».
Piovani,
la vita è ancora bella?
«Può
esserlo ancora molto. E potrebbe esserlo di più se ci concentrassimo su ciò che
davvero conta, tralasciando un po’ il superfluo. Bisognerebbe viverla di più e
consumarla di meno. E non bisognerebbe avere paura della bontà, un sentimento
purtroppo fuori moda. Il grande Eduardo De Filippo diceva: l’uomo non è
cattivo: ha solo paura di essere buono».
(Se
non avete ascoltato Il canto dei neutrini, rimediate adesso. Fa stare bene.)
Putin: problemi interni e
alleanze
tra infami…
l’opinione
di Rita Faletti.
Radiortm.it
- Rita Faletti – (Aprile 4, 2023) – ci dice:
A
Bakhmut i combattimenti sono a un punto di stallo e le perdite, da
entrambe le parti, sono ingenti, superiori tra i mercenari della Wagner.
L’esercito
russo è a corto di munizioni e artiglieria per continuare l’offensiva a sud e a
est.
Kyiv sta ricevendo carri armati batterie di
missili e droni a lungo raggio da Stati Uniti, Germania e Francia e si prepara
alla controffensiva.
Zelensky è ottimista, Putin preoccupato.
Ha
ammesso che le sanzioni peseranno e anche la situazione interna, che va ad
aggiungersi all’isolamento sul piano internazionale, desta apprensione.
Domenica 2 aprile a San Pietroburgo, in un
locale di proprietà di “Prigozhin”, uno street food bar, il noto blogger nonché
comandante militare “Vladen Tatarsky” e influencer del genocidio ucraino, è
morto in un attentato.
E’ stata fermata la donna che aveva consegnato
al blogger una statuetta contente esplosivo, la quale avrebbe legami con “Alexei
Navalny”, l’oppositore russo confinato in una colonia penale perché accusato di
terrorismo.
In
attesa di chiarimenti, Mosca ha attribuito agli ucraini la responsabilità
dell’attentato, mentre “Prigozhin” ha dichiarato che “Kyiv” non c’entra,
schierandosi apertamente contro la linea del Cremlino e avvalorando il sospetto
di una lotta di potere interna.
I servizi britannici parlano di terrorismo
come strumento politico di un gruppo di oltranzisti russi che avrebbero voluto
iniziare la guerra nel 2014 e oggi accusano quelli che ritengono essere i
colpevoli del fallimento militare.
Nella lista degli incriminati ci sono nomi di
persone molto vicine a Putin e ai sostenitori delle sue scelte, tra cui il
ministro della Difesa “Shoigu” di cui pretendono il licenziamento.
Mosca
preferisce ovviamente la versione che tiene fuori il suo capo ed enfatizza il
pericolo proveniente dall’esterno, alzando così il livello di paura, alibi
utilizzato dai regimi per spostare le cause dei problemi a fantomatici nemici
esterni.
Bisognerebbe rileggere Orwell o leggerlo per la prima
volta per capire l’essenza di un regime.
Putin,
il freddo e disumano mandante delle atrocità in Ucraina, rispecchia
perfettamente la psicologia dell’autocrate e le sue ossessioni.
Dopo
l’attentato, ha fatto immediatamente installare sistemi antimissile vicino alle
sue residenze, un po’ per fini propagandistici, un po’ cedendo agli incubi
alimentati dai video dell’uccisione di Gheddafi che pare lo zar guardi con
frequenza insolita.
Ma nonostante in Donbas i russi abbiano uno
scarso controllo delle regioni annesse, l’operazione speciale deve continuare.
Per
Mosca la strategia è accumulare uomini.
Putin ha recentemente firmato un decreto per
la campagna di coscrizione di primavera.
Saranno
chiamati 147.000 cittadini tra i 18 e i 27 anni al servizio militare che si
concluderà a metà luglio.
Mosca vorrebbe reclutare 400.000 soldati e
aggirare il dissenso spacciando la cosa come “volontariato”.
Un
conflitto che si prolunga presenta un conto altissimo:
tanti morti, la necessità di una quantità
inesauribile di armi, la sottrazione al mercato del lavoro di giovani uomini,
le ondate migratorie di persone che hanno lasciato il paese per trasferirsi
dove sperare nel futuro è possibile.
Sono
complessivamente 600mila, dall’inizio della guerra, gli uomini sottratti al
lavoro.
Un
fatto destinato a incidere sulla stabilità economica e sociale del paese.
Ma c’è
anche la questione delle armi che il Cremlino deve affrontare e con le armi
quella delle alleanze.
La più
affidabile è quella con “Lukashenka”, che ospiterà nel suo paese armi russe e
depositi per ordigni tattici nucleari, come ha pomposamente annunciato “Putin”.
Il
bielorusso non può dimenticare che se ha conservato il suo posto di dittatore a
“Minsk” non è grazie all’amore del suo popolo ma a Putin.
Tuttavia,
nel farsi magazziniere del Cremlino, non rinuncia, en passant, a farsi
messaggero di pace: “Dobbiamo fermare la guerra prima che diventi
un’escalation”.
Bravo.
Peccato
che la frase riveli lo sgomento personale nel caso il suo datore di lavoro gli
chiedesse di inviare i suoi soldati in Ucraina.
Ma è
pur vero che a cosa servono i depositi se mancano le armi?
A
questo pensano gli altri alleati di Mosca per i quali la guerra in Ucraina è
una benedizione.
Da
Pyongyang partono munizioni e altri armamenti militari alla volta di Mosca, e
da Mosca risorse alimentari e soldi alla volta di Pyongyang, dove i coreani
messi a dieta da Kim aspettano razioni di cibo per poter sopravvivere.
È noto
che i regimi illiberali preferiscono affamare i loro popoli per investire in
arsenali bellici e nella Difesa, che è soprattutto difesa del regime che teme
rivolte interne sapendo di avere la coscienza sporca.
E per rimanere in tema, c’è un altro paese che
trae vantaggi dalla guerra.
È la Repubblica islamica dell’Iran.
Con un’economia devastata e rivolte popolari a
intermittenza soffocate con brutalità, i perfidi ayatollah sono ben lieti di
fornire a Mosca droni e missili per ricevere in cambio soldi e alimenti,
augurandosi pure che l’attenzione dell’Occidente alla guerra distolga
dall’interesse al suo programma nucleare sotterrato e sparso su diversi siti, a
prova di distruzione da parte di Israele.
Anche
la teocrazia iraniana è riconoscente ai latrati della Nato, causa
dell’invasione russa a scopo autodifensivo, la fandonia che mette d’accordo i
regimi e fa da cemento alle alleanze che nascono per necessità.
Il
potere si ottiene con prepotenza
e
prevaricazione, lo dicono gli scimpanzé.
Agi.it
– (24 aprile 2023) – Redazione Agi – ci dice:
Secondo
uno studio, i maschi di scimmia con una personalità irascibile e avida
raggiungono posizioni più eleate nella scala sociale.
Ma ci sono anche animali più rilassati, gli
scienziati si interrogano sull'origine di queste differenze.
AGI -
Il comportamento brutale può essere un percorso efficace verso il potere.
E non solo negli esseri umani, ma anche nei
primati, come dimostra uno studio pubblicato il 24 aprile sulla rivista “PeerJ
Life and Environment.”
Secondo
lo studio, i maschi di scimmia che presentano una personalità irascibile, avida
e prepotente raggiungono posizioni più elevate nella scala sociale e hanno
maggior successo nell’avere prole rispetto ai loro simili più deferenti e
coscienziosi.
Tuttavia,
gli scienziati si chiedono perché non tutti gli scimpanzé abbiano un
comportamento aggressivo se questo sembra essere vantaggioso.
Per
rispondere a questa domanda, i ricercatori dell’Università di Edimburgo e della
Duke University hanno seguito per un certo periodo 28 scimpanzé maschi nel
Parco Nazionale di Gombe, in Tanzania.
In uno
studio precedente, gli stessi scienziati avevano dimostrato che alcuni
scimpanzé sono più socievoli mentre altri preferiscono la solitudine.
Inoltre, alcuni sono più rilassati, mentre
altri sono più combattivi.
In
questo nuovo studio, i ricercatori hanno scoperto che i maschi di scimmia con
determinati tratti di personalità – in questo caso, una combinazione di alta
dominanza e bassa coscienziosità – hanno maggior successo nella vita rispetto
agli altri.
“La
personalità conta”, afferma” Joseph Feldblum”, professore associato di
antropologia evolutiva alla “Duke University” e uno dei principali autori dello
studio.
Anche se non è sorprendente scoprire che il
bullismo ha i suoi vantaggi, per alcuni ricercatori risultati come questi
rappresentano un enigma:
se i maschi con certe tendenze di personalità
sono più propensi a salire in alto e riprodursi, e trasmettere i geni di quei
tratti alla loro prole, allora perché non tutti i maschi presentano quei
tratti?
Secondo una teoria a lungo sostenuta, diversi
tratti di personalità possono essere vantaggiosi in diversi momenti della vita
degli animali. Ad
esempio, anche se l’aggressività può dare un vantaggio ai giovani maschi di
scimmia, potrebbe essere controproducente quando diventano più anziani.
Tuttavia,
quando il team di ricerca ha testato questa ipotesi, utilizzando 37 anni di
dati risalenti ai primi lavori di “Jane Goodall” a Gombe negli anni ’70, ha
scoperto che gli stessi tratti di personalità erano collegati al rango elevato
e al successo riproduttivo in tutte le fasi della vita.
I
risultati suggeriscono che qualcos’altro deve spiegare la diversità di
personalità negli scimpanzé.
Potrebbe
essere che la “migliore” personalità da avere varia a seconda delle condizioni
ambientali o sociali, oppure che un tratto che è vantaggioso per i maschi è
costoso per le femmine.
In questo caso, “i geni associati a quei
tratti sarebbero mantenuti nella popolazione”, afferma “Alexander Weiss”
dell’Università di Edimburgo.
Se ciò
fosse vero, allora “i geni associati a quei tratti sarebbero mantenuti nella
popolazione”, ha detto “Weiss”.
Non
molti anni fa, il semplice suggerimento che gli animali avessero personalità
era considerato un tabù.
La
stessa “Jane Goodall” è stata accusata di antropomorfismo quando ha descritto
alcuni degli scimpanzé del Gombe come “più audaci” o “più paurosi” di altri,
alcuni come “affettuosi” e altri “freddi”.
Da
quel momento, gli scienziati che studiano creature che vanno dagli uccelli ai
calamari hanno trovato prove di personalità distintive negli animali:
stranezze e idiosincrasie e modi di
relazionarsi con il mondo che rimangono ragionevolmente stabili nel tempo e in
tutte le situazioni, affermano gli autori.
I 21
migliori cattivi Disney di sempre.
Moviplayer.it
- GIULIO ZOPPELLO – Approfondimento – (25-2-2022) – ci dice:
Una
classifica dei 21 migliori cattivi Disney di sempre, da “Crudelia DeMon” a “Ursula”,
da “Malefica” a “Scar” de “Il re leone”.
Il Re
Leone (2019)
Il Re
leone: Scar in una scena del film.
Sguardi
pungenti, sorrisi beffardi, voci suadenti, e poi quell'apparente calma pronta a
scatenarsi in bufera, quelle risate gelide e rabbiose, le menzogne, la sete di
potere e ricchezze, i piani malefici messi in pratica da sgherri tremanti di
paura.
Quante
volte guardando un classico Disney da bambini non ci siamo ritrovati
affascinati ed insieme impauriti da questi villain?
Dai
cattivi dei cartoon Disney attorno ai quali bene o male ruotava un iter
narrativo altrimenti monco, spezzato, senza senso?
Fernando
Savater a suo tempo scrisse che una storia senza cattivo, è come un hamburger
senza patatine fritte.
Ed è
vero.
Il
cattivo permette da sempre al protagonista di ergersi a simbolo di quelle virtù
che magari neppure pensava di avere, ma soprattutto permette a noi di
esorcizzare le nostre paure, i nostri incubi, quel lato oscuro della nostra
natura che la storia, la letteratura, il cinema ci hanno sempre ricordato
essere silente ma sempre presente, in agguato.
Forse
per questo i personaggi che più ricordiamo sono loro.
Perché
volenti o nolenti ci rassomigliano, e persino nel piccolo della nostra camera,
tornati dal cinema, erano “Scar”, “Ursula”, “Grimilde” o “Capitan Uncino” a cui
ripensavamo.
Non ai principi azzurri.
Perché assieme alla tenebra, con loro
viaggiava anche la forma più estrema di libertà.
Ecco
quindi quelli che secondo noi sono i 21 migliori cattivi Disney di sempre.
1.
Rattigan - Basil l'investigatopo.
Basil
Linvestigatopo.
Basil
l'Investigatopo: una scena del film.
Il ventiseiesimo
Classico Disney è considerato un piccolo cult, appartenente a un periodo
difficile per la Casa del Topo.
“Basil l'investigatopo” si ispira alle vicende
di “Sherlock Holmes” per mettere in scena un giallo in cui il protagonista del
titolo dovrà risolvere un caso di scomparsa del padre della piccola “Olivia”,
il giocattolaio” Hiram Flaversham”.
Ma è
la nemesi di Basil che si dimostra uno dei migliori cattivi Disney di sempre.
Il
professor “Rattigan “(ispirato a Moriarty, avversario di Holmes) è scaltro,
furbo, intelligente e darà filo da torcere a “Basil”.
Viene
costantemente rappresentato come un topo di prima classe, vestito
elegantemente, di forte carisma e megalomane nelle sue azioni.
Adora
essere riconosciuto e celebrato dai suoi sottoposti (un celebre pezzo musicale
del film "Oh Rattigan" è dedicato alla sua egomania) e non disdegna
il buon vino.
Ma la
sua vera natura verrà infine svelata:
“Rattigan”,
pur volendo dimostrare in ogni modo di essere un topo, è in realtà un ratto
feroce, brutale e che non disdegna lo scontro fisico.
In una
delle celebri sequenze finali, ambientata all'interno del “Big Ben”, il
cordiale e raffinato professore sveste i panni eleganti per mostrare il proprio
corpo selvaggio.
Accecato
dalla furia e dalla rabbia, “Rattigan” troverà la morte precipitando dalla
celebre torre dell'orologio londinese.
2.
Medusa - Le Avventure di Bianca e Bernie.
Madame
Medusa E Snoops.
Medusa
in “Le Avventure di Bianca e Bernie”
In Le
Avventure di Bianca e Bernie, ancora oggi tutti ci commuoviamo per la triste
storia dell'”orfanella Penny”, angariata e sfruttata dalla perfida “Madame
Medusa “nelle” Everglades della Louisiana, per recuperare un diamante
inestimabile, reliquia dell'epoca dei conquistadores spagnoli.
Sensibile,
dolce, eppure coraggiosa ed indomita, doveva sopportare ogni genere di angheria
da parte di una creatura tanto crudele quanto... mediocre.
Medusa
merita di stare in questa lista non solo perché è vile, malvagia, perché cerca di conquistare la fiducia di
una bambina con il solo scopo di guadagnarci sopra, ma anche perché (al
contrario di moltissimi altri cattivi in questa lista) non può neppure
rivendicare chissà quali abilità, doti o che altro.
Medusa
fu creata dal disegnatore “Milk Khal” dopo mesi e mesi di duro lavoro, secondo
alcuni ispirandosi all'iraconda ex-moglie che detestava intensamente, ma in
realtà adattandosi perfettamente ai lineamenti dell'attrice “Geraldine Page”,
una delle più grandi interpreti della storia americana, candidata a ben otto
premi Oscar in carriera.
Medusa comanda con piglio autoritario il suo
piccolo regno, in un battello in disfacimento nel mezzo della palude, dove ha
due perfidi alligatori (Bruto e Nerone) a fargli da fedeli guardiani, mentre lo
stupido e goffo “Snoops” gli fa da vice.
A conti fatti oltre al nome, Medusa deve molto
del carattere e del suo essere tutt'uno con un concetto di natura come feroce e
inospitale, al mitico mostro della mitologia greca.
Con la
creatura del mito ha in comune il carattere iracondo, imprevedibile, la
connessione con il mondo dei rettili più letali, il suo rappresentare una
femminilità letale, seducente (almeno nelle sue intenzioni) e di potere
assoluto.
Ma più in generale, Medusa è un cattivo davvero importante perché rappresenta la prepotenza, la
crudeltà
che da secoli gli adulti hanno rivolto verso i bambini, schiavizzandoli per gli
scopi più turpi e terribili, dalle miniere alla prostituzione, dalle fabbriche
di scarpe alla criminalità.
Ella è negazione della maternità, cupidigia, ma anche arroganza, quell'arroganza
che infine ne decreterà la caduta e ce ne mostrerà la vera natura di essere
mediocre e che si sopravvaluta.
3.
Hans - Frozen - Il regno di ghiaccio
Frozen:
un momento di romanticismo.
Frozen
- Il regno
di ghiaccio ha avuto un successo incredibile.
La storia di “Elsa” ed “Anna”, di” Olaf” e”
Kristoff” ha stregato milioni di bambini in tutto il mondo, e regalato due
protagoniste femminili complesse e sfaccettate, inserite in un iter narrativo
complesso ed in cui la dimensione psicologica dominava in modo inedito.
E tra
gli elementi più
sorprendenti e riusciti di Frozen, è impossibile non considerare lui, il
villain: “Hans Westergaard”.
Di base è un cattivo geniale nella concezione
e nella caratterizzazione, perché per buona parte del film sembra esattamente
il contrario, sia dal punto di vista fisico (non ha nulla che lasci presagire
il suo essere malvagio, è di bell'aspetto, elegante e affascinante) e anche dal
punto di vista comportamentale (sembra sinceramente preoccupato per Elsa ed
Anna).
Ad un certo punto pare quasi che ci si stia
prefigurando una sorta di triangolo amoroso in cui Anna sarà chiamata a scegliere tra l'elegante
nobile delle Isole del Sud, ed il più goffo ma solare (nonché più povero) Kristoff.
Solo nel finale, da solo con Anna, rivela la
sua natura bieca, malvagia e spietata, così come il suo piano: uccidere lei,
Elsa e reclamare il “trono di Arendelle”, dal momento che il popolo lo acclamerà come un eroe per aver spezzato
l'inverno perenne che stritola il regno.
Personaggio di una malvagità molto più realistica rispetto a tanti altri,
Hans è
davvero interessante per come sovverte la tipica "trasformazione"
disneyana, che aveva sempre tramutato dall'alba dei tempi, bestie, rospi e
poveracci in bellissimi principi dagli abiti raffinati e dal destriero veloce.
Qui invece è il contrario:
“Kristoff”
(lavoratore onesto ma poco benestante ed elegante) è il vero Principe, lui invece è solo un mostro, un uomo falso,
viscido, mentitore, sicuramente un abilissimo dissimulatore e astuto
pianificatore.
Dal
punto di vista narrativo, si collega a tanti altri cattivi Disney che sono
nella nostra lista, primo tra tutti “Gaston” di “La Bella e La Bestia”,
rispetto al quale però è sicuramente molto più seducente ed adattabile, in sostanza
è molto più pericoloso.
Ma anche “Frollo” , “Ratigan”, “Scar” e “Jafar”
hanno molto in comune con lui. Hans è il tradimento.
Quello
reale, subdolo, quello che tutti abbiamo conosciuto in vita nostra, quello di
chi si fingeva un buon amico/a, un sincero innamorato (o innamorata), un
collega affidabile ed invece pensava semplicemente a come usarci per il proprio
fine.
Allo
stesso tempo, simboleggia l'aspetto più tossico, manipolatorio e spietato di
quel mondo maschile che usa la controparte femminile, azzerandone l'esistenza.
4.
Shan Yu - Mulan
Shan
Yu0.
Shan
Yu in “Mulan”.
Mulan
è ancora oggi indicato come il classico Disney che più di tutti ci ha dato un
personaggio femminile di grande originalità, modernità ed assieme simpatia.
La sua leggenda (ancorata ad un periodo
storico drammatico per diversi Regni della Cina antica) fu portata sul grande
schermo con grande efficacia, sia per la grande dose di comicità, sia per una
parte musicale di gran caratura, sia (anzi soprattutto) per i temi che
affrontava.
Mulan era una ragazza che si fingeva uomo e si
copriva di valore contro gli “invasori Unni”, per salvare il padre ma col tempo
anche per difendere la sua gente, la sua patria e soprattutto i suoi amici,
mostrando coraggio, grande abilità nel combattimento, ardimento ed astuzia.
Tutte
qualità che le permisero di battere un cattivo tra i più realistici ed assieme
affascinanti: “Shan Yu”.
Comandante
dell'”orda Unna”, Shan Yu (in realtà Chanyu) non è altro il titolo con cui veniva
indicato presso le tribù nomadi dell'Asia Media e Centrale il capo, termine che
poi sarebbe stato soppiantato da “Khagan” nel V secolo d.C., arrivando da noi
come “Khan”.
Decine e decine di guerrieri possenti, astuti
e terribili hanno avuto quel titolo, e tutti loro avevano una cosa in comune:
erano nemici invasori dei regni cinesi, compreso quello della dinastia “Han”, che
regnò su quello che fu il terzo più grande Impero della storia antica.
“Shan
Yu” fin dall'inizio non può non affascinare.
Alto, possente, oscuro, dallo sguardo
penetrante e dal sorriso beffardo, egli però è anche incredibilmente agile,
pare un gigantesco uccello da preda, e non è un caso che sia tutt'uno con un
falco che gli fa sia da vedetta che da fedele compagno. Carismatico, ha un
enorme ascendente sui suoi uomini, ed è anche (a dispetto di tanti altri
cattivi del mondo Disney) un grande guerriero, un uomo coraggioso ma la cui
crudeltà e perfidia, il cui sadismo, sono preponderanti rispetto a tutto il
resto.
In lui è possibile ricondurre tutta quella
sterminata schiera di capi guerrieri, conquistatori e cacciatori gloria, che
con il loro feroce lavoro nel mondo, hanno seminato morte e terrore.
Da
Tamerlano a Genserico, da Gengis Khan ad Attila, il mondo è sempre stato terra di conquista per
uomini simili, di cui “Shan Yu” è il perfetto ambasciatore. Capace di ogni
crimine e nefandezza, usa il terrore come un'arma, guida uomini spietati e
letali, non si arrende mai, ha disprezzo per la sua ed altrui vita, divorato
com'è da un'ambizione che lo rende fin troppo sicuro di sé stesso. E sarà
quell'arroganza la sua fine.
5. “Maga
Magò” - La Spada nella Roccia
Maga
Magò ne La Spada nella Roccia.
La
Spada nella Roccia ci donò la villain più improbabile, goffa e simpatica della
vecchia Disney di una volta.
Di
certo quella in cui per la prima volta l'ironia più grottesca e lo humor più
demenziale si fusero per donarci un'antagonista che tanto piacque, da essere
poi recuperata nei fumetti e in una miriade di altre produzioni Disney.
Nel
romanzo originale di “T.H. White”, “Maga Magò” era un personaggio molto più
oscuro e ben poco comico, fu Walt Disney in persona a chiedere a “Bill Peet”
(lo sceneggiatore) e al gruppo di disegnatori di renderla più comica e
ridicola, una sorta di alter-ego al tanto serioso e un po' altezzoso” Merlino”.
Il risultato ancora oggi è uno dei personaggi più amati e istrionici dell'universo
Disney, che ebbe in “Martha Wentworth” non solo una grande doppiatrice, ma
anche (come in molti altri casi) un modello da cui partire per creare
visivamente il personaggio.
Da noi fu la bravissima “Lydia Simoneschi” a
doppiarla e ancora oggi non si può fare a meno di trattenere una risata
nel sentire la sua voce ad un tempo stridula e gutturale, quasi a rappresentare
una vera e propria parodia della strega.
Si perché se vi è una cosa che rende Maga Magò
così interessante, è il suo decostruire il mito medievale della strega sia come
bellissima ragazza incantatrice (lo può diventare se vuole) sia come orrenda
vecchia vestita di nero col cappello. Certo, è davvero bruttissima (e se ne vanta)
ma a conti fatti sembra più la vecchia antipatica del quartiere che la sposa
del diavolo, e a conti fatti porta con sé un messaggio di libertà, indipendenza
e fierezza non da nulla.
Il che non cambia il fatto che sia malvagia,
ingannatrice, bugiarda, falsa e che voglia distruggere “Semola”, così come che
non conosca onore alcuno neppure in quel fantastico duello di magia che è uno
dei momenti più fantasiosi ed esaltanti che la Disney abbia concepito.
Alla
fin fine però,
anche lei (come molti altri cattivi) rimane vittime del suo narcisismo, della
sua arroganza, in base alla quale la forza, le dimensioni, le apparenze sono
tutto.
Nella
sua gara al "mimetismo animale" viene infatti sconfitta infine da “Merlino”
che diventando il virus, dimostra come cultura e conoscenza valgano sempre più
della forza.
6. La
Matrigna - Cenerentola
La
Matrigna di Cenerentola.
Cenerentola,
a dispetto di decenni di diverse versioni e interpretazioni, rimane una delle
fiabe più importanti di sempre, ed il classico Disney del 1950 uno dei film
d'animazione più famosi di tutti i tempi.
Per quanto molto semplificata rispetto
all'originale di “Charles Perrault”, Cenerentola di “Wilfred Jackson”, “Hamilton
Luske” e “Clyde Geronimi” ancora oggi strega per bellezza, ritmo, eleganza e
per come seppe rendere universale la storia di riscatto di una ragazza
angariata non da mostri, potenti Re o feroci creature della notte: ma dalla sua
stessa famiglia.
Se Anastasia e Genoveffa sono due ragazze
ridicole, insicure e invidiose (ma poco più), il vero villain della storia è la
“Matrigna”, “Lady Tremaine” (doppiata dalla grande “Tina Lattanzi2),
personaggio a dir poco diabolico e mefistofelico.
Lady Tremaine odia profondamente Cenerentola
perché
più
bella delle sue insignificanti figlie, essa è ossessionata dal controllo,
dall'avere tutto ciò che può avere e soprattutto dal negarlo a lei, al simbolo
di una donna mai conosciuta che aveva avuto suo marito prima di risposarsi.
A
conti fatti, l'invidia femminile è uno dei moventi più importanti (e
poco sottolineati) del mondo Disney, ma qui si coniuga anche ad un profondo
classismo, dal momento che la Matrigna rende Cenerentola una serva di casa, con
tutte le conseguenze del caso.
Essendo vista come una ragazza di una classe
sociale inferiore, Cenerentola non ha quindi alcun diritto sulla proprietà, sul
suo futuro, non può rivendicare nulla se non gli avanzi di chi occupa una
posizione superiore nella scala sociale.
Ogni
sua speranza e richiesta viene abilmente aggirata e ostacolata dalla Matrigna
dietro false promesse e concessioni che non ha alcuna intenzione di mantenere.
Siamo quindi oltre la mera gelosia femminile,
qui si abbraccia quasi una sorta di metafora della lotta tra classi.
Alta,
elegante, austera ed ipocrita, “Lady Tremaine” è il peggio del peggio della
borghesia arrampicatrice ed amorale, disposta a tutto non solo per avere ciò
che vuole, per entrare a far parte dell'Alta Società, ma anche a distruggere la
"concorrenza" con ogni mezzo.
7. La
regina di cuori - Alice nel paese delle meraviglie.
La
Regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie.
Cominciamo
la nostra classifica partendo da una villain tra le più originali mai fatte
dalla Disney, la Regina di Cuori, antagonista principale di quel piccolo
gioiello che fu “Alice nel paese delle meraviglie”.
13esimo
lungometraggio Disney, il film fu inizialmente un flop doloroso per “Walt”, che
però ebbe maggiori riscontri quando fu trasmesso in televisione in una delle
prima puntate della serie Disneyland, per essere poi riproposto in sala alla
fine degli anni 60, riscuotendo un enorme successo, sublimato nel mercato home
video negli anni a venire.
Certo molte e profonde erano le differenze tra
i libri di “Lewis Caroll” e ciò che Walt Disney offrì al pubblico, e l'iter
produttivo fu incredibilmente lungo e complesso, basti pensare che il grande
regista e produttore era quasi ossessionato dal creare un film su Alice fin
dagli inizi della sua carriera.
Il
progetto era già in fieri negli anni '30, ma Disney era insoddisfatto degli
script e delle animazioni, poi sopraggiunse la guerra e il tutto fu accantonato
fino al 1945, quando cercò con un altro team di sceneggiatori e animatori di
portare a termine il progetto.
Alla
fine” Clyde Geronimi”, “Wilfred Jackson” e “Hamilton Luske” riuscirono a creare
qualcosa che fosse ad un tempo fedele allo spirito di “Caroll” (almeno secondo
le volontà di Disney) ma anche abbastanza accessibile per un pubblico che
(Disney ne era convinto) voleva soprattutto meraviglia, emozioni e
divertimento.
Il
risultato in generale tuttavia non fu quello che Disney si aspettava, a causa
dell'eccessivo numero di animatori (ben dieci), sceneggiatori e registi che si
alternarono senza una vera guida e una vera direzione univoca, e feroci
critiche arrivarono dai fan dello scrittore ed in generale dal Regno Unito.
Tuttavia
il film di Disney ci donò personaggi unici, incredibili, spassosi ma anche
molto inquietanti e pieni di significato, e tra questi, la” Regina di Cuori” fu
sicuramente la più riuscita.
Alice
Nel Paese Delle Meraviglie.
La
Regina di Cuori con la protagonista di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Si
trattava di una Regina vanitosa, infantile, arrogante e capace di grande
crudeltà, soprattutto con chi osava deluderla o non accontentarne i capricci
più stravaganti e sciocchi.
Nella realtà il personaggio dei romanzi era molto
più mansueto, ed in lei fu facile intuire una fusione tra la Regina di Cuori,
la Duchessa e la Regina Rossa di Attraverso lo Specchio, il secondo romanzo
della serie.
A conti fatti il suo carattere è davvero
complesso, ai limiti della doppia personalità, capace di passare dal riso alla
collera per un niente, e sempre in procinto di perdere il controllo.
La Regina di cuori è una creatura goffa,
brutta e rubiconda, il suo animo è avvolto nelle tenebre, che si manifestano
quando la sua sete di sangue si mostra in tutta la sua illogicità.
Ama il
croquet, in modo fanatico e quasi malato, e non è assolutamente in grado di
controllare le proprie pulsioni, emozioni, la propria rabbia, che sfoga contro
chiunque le arrivi a tiro;
è solo
questione di tempo prima che la povera Alice si trovi alle prese con la sua ira
e rimanga vittima dell'ennesima esecuzione programmata da questa monarca
ingestibile.
Il
processo (ottenuto grazie all'insistenza del suo piccolo consorte il Re) è uno
stralunato iter in cui la sua follia ed il suo narcisismo arrivano a livelli
mastodontici, e solo con la fuga Alice riesce a scamparla.
Verna
Felton.
L'attrice
Verna Felton
Il suo
aspetto fu solo in parte fedele a ciò che l'illustratore inglese “John Tenniel”
(autore delle immagini nei romanzi originali) aveva creato, ispirandosi alla
Regina Vittoria;
qui
invece aveva i lineamenti simili alla sua doppiatrice originale, la famosa
attrice americana “Verna Felton”, e il suo look e linguaggio corporeo, era
molto più vicino a quello di certe cantanti d'opera e certe dive della
Hollywood che fu, divenute nella loro carriera il terrore di certi hotel di
Hollywood e Las Vegas.
A darle la voce in Italia fu la grande “Tina
Lattanzi”, che le donò forse anche troppa grazia, visto che in tutto e per
tutto, questa bulla con la corona (pronta però a diventare minuscola di fronte
a qualcuno che non la tema) era l'immagine fatta e finita della volgarità che
si nasconde da secoli tra le classi agiate.
E se ci pensiamo proprio per questo è importante
e centrale questa villain, a tratti involontariamente ridicola: perché assurge
a simbolo di quei regnanti, sultani, di quei Re e Regine che nella storia sono
stati capaci di portare il loro popolo alla rovina, interessandosi solo ed
esclusivamente del proprio benessere, dei propri svaghi, agi e ricchezze.
8.
Yzma - Le follie dell'imperatore.
Yzma
nel film Disney Le follie dell'imperatore
Davvero
difficile pensare a quale sia il film più divertente mai creato dalla Disney,
ma se vi facessimo il nome de Le follie dell'imperatore, probabilmente
metteremmo d'accordo gran parte di voi.
40°
classico della Casa di Topolino, il film ebbe una genesi a dir poco burrascosa
e tormentata, pari solo a quella di Pinocchio, e passò di mano in mano,
comportando notevoli ritardi, costi aggiuntivi e cambi a livello di regia,
sceneggiatura e maestranze.
Tuttavia
alla fin fine si riuscì a mettere insieme una “buddy comedy” dai toni
dissacranti, che sovente sfondava la quarta parete, omaggiava i classici del
cinema e letteratura adventure, trasportando il pubblico ai tempi dell'”Impero
Inca”, e immergendolo in un'atmosfera festosa, anarchica e imprevedibile.
Protagonista era il viziato ed immaturo
Imperatore “Kuzko”, intento a divertirsi e a passare il tempo progettando come
divertirsi ancora di più, disinteressato delle conseguenze delle sue azioni,
lasciando tutto in mano alla” perfida Sacerdotessa “Yzma”.
Almeno
fino a quando, per capriccio, la licenzia, liberandone l'indole vendicativa ed
ambiziosa, finendo vittima di un intrigo a base di pozioni velenose;
peccato
che invece del mortale veleno, “Kuzko” trangugi un filtro che lo trasforma in
un lama.
Il tutto
sarà alla base di una divertentissima e spassosa serie di fraintendimenti e gag
da sit-com, dove più che tra bene e male, la lotta sarà tra più o meno
ridicoli.
Eartha
Kitt.
L'attrice
Eartha Kitt
E
proprio” Yzma “ed il suo palestrato e pasticcione assistente “Kronk”, furono la
carta vincente per un film che seppur non quel successo di botteghino che ci si
aspettava, fu capace di convincere tutta la critica di trovarsi di fronte ad un
punto di svolta dell'animazione Disney.
In
effetti un film come questo non si era mai visto, ed “Yzma” a tutti sembrò la
perfetta evoluzione di villain che pochi anni prima aveva portato alla
popolarità di quell'”Ade di Hercules “che rincontreremo più avanti nella nostra
classifica.
Di base, il suo personaggio fu creato prima da
“Andreas Deja” (che ne stabili movenze e linguaggio del corpo ispirandosi alle
modelle anni '80) e poi successivamente da “Dale Bare”, che decise di farne non
più una femme-fatale come “Deja” aveva pensato, quanto piuttosto una parodia
vivente che avesse le movenze ed il carattere burrascoso della grande “Eartha
Kitt”.
La
Kitt era stata chiamata a doppiare “Yzma” e faceva letteralmente impazzire
dalle risate lo studio quando si scatenava al doppiaggio, tanto che si decise
di modificare la villain dandole grossomodo i suoi lineamenti ed il look della
grande attrice e cantante afroamericana, diventata celebre nei panni di “Catwoman”
nella terza serie televisiva di “Batman” degli anni 60.
Yzma.
Le
follie dell'imperatore, Yzma in una scena del film d'animazione Disney.
Yzma
appariva lugubre, cadaverica, con una pelle color cenere, occhiaie e segni di
un impietoso invecchiamento che nessun trucco e nessuna eleganza riuscivano a
nascondere.
Magra
tanto da sembrare uno scheletro era però permeata di un'energia e una vitalità
assolutamente magnetici, in perfetto contrasto con la pigrizia e l'indolenza di
Kuzko.
La
vecchia consigliera è anche una maga e pseudo-scenziata, esperta in pozioni ed
incantesimi, che crea nel suo laboratorio segreto, sorta di studio scientifico
ante-litteram, parodia ed omaggio a quelli dei tanti “mad doctors” di nostra
conoscenza.
Sì perché il carattere distintivo di Yzma, la
sua qualità unica, frutto della sceneggiatura di “David Reynolds”, fu quella di
essere omaggio e decostruzione del concetto di villain, di collegarsi ad un
numero sterminati di cattivi e cattive dei romanzi e fumetti, dei telefilm e
via discorrendo.
In lei
rivediamo qualcosa del “Dottor Julius No” ed “Ernst Stavro Blofeld”, storici
nemici di “James Bond” (un caso che Yzma si trasformi poi nel finale in un
gatto bianco?), ma anche a personaggi come “Lex Luthor” o la “Malvagia Strega
dell'Ovest” de “Il Meraviglioso Mago di Oz”.
Il
punto però è capire che tutto è ridotto a caricatura, gag, decostruzione, al
punto che gli irresistibili siparietti comici attraverso i quali la vediamo
sempre più ridicola, goffa e pure un po' "sfigata", non fanno che
rendercela sempre più simpatica.
Crudelia
Demon, Malefica, Ursula, Grimilde... vi è un po' di tutte loro in “Yzma”, dal
colore viola imperante al nero che l'avvolge come una nuvola, il suo amare
l'oscurità, l'essere circondata da rettili e l'avere in “Kronk” una spalla per
le sue malefatte.
Ma non
fa paura neppure per un secondo, quasi a ricordarci quanto sovente il
"male" o i "cattivi" in realtà non siano poi così terribili
come li crediamo, gran parte del loro potere deriva dalla nostra paura o dalla
suggestione.
Di
certo, come per “Ade”, non si può nascondere che senza di lei questo film non
sarebbe stato lo stesso, così come senza “Kronk”, tra i personaggi più
irresistibili e simpatici creati dalla Disney negli ultimi decenni.
9. I
Carnotauri - Dinosauri
Dinosaur:
una scena del film Disney con il Carnotauro.
Dinosauri,
il 39° classico targato Disney, quando uscì nel 2000 fu un grande successo
commerciale, ma non entusiasmò in modo assoluto la critica che lo trovò poco
originale, troppo connesso a ciò che già si era visto in film come “Alla
Ricerca della Valle Incantata”. I
l film
aveva avuto una genesi particolarmente complicata, connessa ad un progetto che
aveva coinvolto a metà anni '80 nientemeno che “Phil Tippett” e “Paul Verhoven”
ai tempi del primo “Robocop”, decisi a creare un film brutale, realistico e feroce
sul mondo dei grandi rettili del passato.
Non se n'era fatto niente, e alla fine nel
1994 la Disney si era appropriata del progetto, che mirava ad essere (come in
effetti fu) un miracolo dell'animazione e della computer-grafica.
Ed infatti non fu casuale che a dirigere
Dinosaur fossero chiamati “Ralph Zondag” ed “Eric Leighton”, grandi esperti di
animazione e pionieri di quella digitale in particolare, ed esperti di effetti
speciali.
La
sceneggiatura era scritta da “John Harrison” e “Robert Nelson Jacobs”, e ci
mostrava l'odissea del giovane iguanodonte “Aladar”, orfano adottato da una
famiglia di lemuri, costretto a confrontarsi con carestie, deserti, difficoltà
ad essere accettato dai suoi simili... e soprattutto alle prese con ferocissimi
predatori. I velociraptor erano presenti, omaggio assolutamente inevitabile ai
"cugini" di Jurassic Park, ma come villains nulla furono in confronto a due
teropodi assolutamente terrificanti: i Carnotauri.
Tra i
predatori più misteriosi e inquietanti dell'era dei Dinosauri, il Carnotauro
era vissuto nel “Cretaceo Superiore” (una settantina di milioni di anni fa) era
lungo grosso modo 9 metri, ma dotato di una struttura leggera per la sua mole,
tanto che il peso di una tonnellata e mezza o poco più, per molti paleontologi
suggeriva che fosse un cacciatore specializzato nel predare animali più
piccoli.
Altri
invece pensavano che potesse cacciare anche animali molto più grandi, grazie ad
una dentatura possente e a muscoli del collo da culturista.
Comunque
sia, nel film di Zondag e Lieghton, solo alcuni tra i dinosauri parlavano, come
nel caso di Aladar o Neera, Kron e Brutus o Baylene, per non parlare dei
lemuri, e fece in effetti sensazione vedere che questa coppia di terribili
predatori non spiccicasse parola.
Inusuale. Ma anche efficace.
Perché
anche grazie a questo, i due Carnotauri divennero ancora più inquietanti,
spaventosi, bestiali e comunicarono in modo perfetto un'idea di ferocia e
mancanza di pietà assolutamente uniche.
Ancora
oggi né l'Indominus Rex, né l'Indoraptor partoriti dai seguiti dell'avventura
preistorica di Spielberg hanno saputo incutere tanto terrore e spavento come
questa coppia di predatori.
Ad
essere onesti, oltre al loro status "bestiale" in perfetta
controtendenza con gli altri personaggi, a renderli terrificanti era anche il
loro aspetto, visto che i Carnotauri erano muniti di due piccole corna
demoniache sul capo ed erano pressoché privi di arti anteriori, tanto da
assomigliare a due mostruose bocche su zampe.
Che
poi in realtà è ciò che erano come gran parte dei predatori del loro tempo.
Disney
Carnotauro.
Dinosaur,
uno dei carnotauri del film.
Dinosaur
ebbe in questi due mostri, un perfetto connubio tra il T-Rex ed i raptors del
parco giurassico immaginato di “Michael Cricthon”:
più
piccoli del celebre “Re dei Rettili Tiranni” (ma comunque enormi ai nostri
occhi) erano però più veloci, astuti, crudeli e osservatori come i raptors, dei
quali avevano il talento nel tendere agguati e il sadico piacere per uccidere,
nonché il muoversi come una coppia di gangster della preistoria.
A
pensarci bene, il tono dark, sanguinolento e realistico che Tippett e Verhoeven
volevano dare al film negli anni '80, sopravvisse proprio grazie a loro,
protagonisti di sanguinolente e truculente uccisioni che all'epoca lasciarono
atterriti i giovani spettatori e che aumentarono la perplessità della critica.
I Carnotauri, portatori di morte e sofferenza,
assurgono in realtà a ben altro significato, proprio la loro bestiale violenza
è simbolo di un'esistenza primitiva, scollegata da ogni tipo di razionalità e
senso di comunità, di evoluzione che proprio Aladar ed i suoi simili portano
avanti.
In
loro infine, rivive il timore quasi religioso del drago, del mostro, che a suo
tempo resero “Lo Squalo di Spielberg” così efficace perché connesso alla paura
primordiale dell'uomo di essere mangiati da fiere feroci.
E a
molti ricordarono anche quella coppia di leoni che aveva seminato il panico
nella “Regione di Tsavo” ai primi del 900, protagonisti del riuscitissimo “Spiriti
nelle Tenebre” di soli quattro anni prima.
Con i Carnotauri non si tratta né si discute,
non sono come gli altri cattivi Disney, sono creature in questo ben più simili
agli” Aliens di Scott”, esseri estranei, di puro istinto, ma in compenso
animati da una volontà fortissima, quasi posseduti da un moto ferale e
distruttivo.
Nel finale, sarà proprio usando il numero del
branco, che Aladar e gli altri batteranno la paura con la paura (un po' come i
protagonisti della saga di IT) facendo sentire i loro predatori privi di quel
potere generato dalla fantasia delle loro vittime.
10.
Capitan Uncino - Le avventure di Peter Pan.
Capitan
Uncino in una scena del film d'animazione Le avventure di Peter Pan ( 1953 )
Portare
sul grande schermo un capolavoro come Le avventure di Peter Pan fu sicuramente
molto rischioso da parte di Walt Disney, ma si rivelò invero un grandissimo
successo, di critica e pubblico, che non fecero caso a quanto l'opera si
distanziasse da ciò che” J. M. Barrie” aveva creato a suo tempo.
Tuttavia proprio le profonde differenze erano
frutto di una sceneggiatura assolutamente unica, frutto di un lavoro
incredibile da parte di Ted Sears, Erdman Penner, Bill Peet, Winston Hibler,
Joe Rinaldi, Milt Banta, Ralph Wright e William Cottrell, che riuscirono a
creare un iter narrativo divertente, leggero, ma che in sé celava comunque i
temi più cari a Barrie e che ancora oggi fanno de “Le Avventure di Peter Pan”
uno dei classici Disney più importanti.
La
figura di Capitan Uncino fu ampiamente rimaneggiata, visto che nell'originale
era un personaggio gentile e disponibile, ma poco funzionale ad un racconto che
voleva un costante contrasto tra infanzia ed età adulta.
Il suo
aspetto fu curato da Frank Thomas che si ispirò ai lineamenti dell'attore “Hans
George Conried Jr.”, chiamato a donare la sua voce nell'originale cartoon del
1953, e tra gli attori teatrali e radiofonici più apprezzati di sempre.
Uncino
diventò invece un pirata crudele, rabbioso, altezzoso, elegantemente connesso
alla tradizione corsara di uomini come Calico Jack, Charles Vane o Pedro
Gilbert, con la sua zimarra scarlatta, il cappello piumato ed armato di una
striscia (o spada all'italiana), arma molto più connessa alla classe nobiliare
che agli uomini di mare.
Capitan
Uncino inseguito dal coccodrillo in una scena del film Le avventure di Peter
Pan (1953 ).
Pallido,
dai lunghi capelli neri, con occhiaie vistose e baffi sottili, aveva in tutto e
per tutto un aspetto cadaverico, che suggeriva disfacimento, putrefazione,
rovina. In tutto e per tutto egli infatti più che un Capitano, appariva come un
decaduto Lord del mare, un altezzoso nobile che trattava tutti con spocchia e
superiorità, non compensate dal valore o dal coraggio in battaglia, ma anzi
accompagnate da una codardia e una spregevole mancanza di lealtà.
Non affronta Peter in modo leale, ma si affida
a sotterfugi, trappole, tranelli, attacchi a tradimento, lo provoca con un
trashtalk sensazionale... insomma fa tutto tranne che comportarsi come un vero
guerriero.
In
tutto questo, il suo personaggio è importante per ricordarci che al di là dei
romanzi di appendice o delle leggende, i pirati (quelli veri) sono stati
sovente tutto e un po' il contrario di tutto, e Capitan Uncino in sé racchiude
la loro eredità.
Egli infatti è teatrale in modo pacchiano,
innamorato della sua stessa fama, viziato, ma è anche capace di grande crudeltà
così come di scadere nel ridicolo, nel grottesco, e i vari Barbanera, Dampier,
Henry Morgan e Edward Low erano sovente proprio come Uncino:
tagliagole che cercavano di darsi un tono,
attori di un dramma scritto da loro stessi, nobili falliti o arrampicatori
sociali.
Capitan
Uncino fu tutto questo, ma fu anche la realistica immagine di una malvagità che
sovente abitava uomini deboli, infantili, i grandi massacratori, assassini o
predoni anche dei nostri giorni, hanno sovente abbracciato una dimensione molto
banale, molto ridicola, nascosto nelle loro gesta insicurezze e paura.
Una
paura che per Uncino si materializzava con l'apparire di quel coccodrillo che
gli aveva strappato una mano (la sinistra, non la destra come nell'originale) e
che suscitava in lui un terrore talmente grande appena sentiva il ticchettio
della sveglia nascosta nello stomaco del mostruoso rettile.
E proprio l'animale ci diceva davvero tanto di
Uncino, delle sue paure, paura della natura, paura del giudizio divino per i
suoi misfatti, del tempo che passava, del fatto che gli ricordasse
l'inferiorità dell'uomo, il naufragio del razionale contro le forze della
natura mai doma, della ferocia e dell'ineluttabilità della morte per gli
uomini.
In questo, il dinoccolato e presuntuoso
pirata, fu il perfetto simbolo dell'arroganza mal posta dell'uomo razionale del
XX secolo, battuto dalla natura e dalla parte più fantasiosa e libera
dell'animo umano
11.
Jafar - Aladdin
Una
scena del film d'animazione Aladdin del 1992.
All'undicesima
posizione della nostra classifica, ecco che troviamo il malvagio Visir di Aladdin, il lugubre, elegante e mellifluo
nobile dai modi alteri, che alle spalle del Sultano, ordisce tremendi piani per
impossessarsi del potere.
E nel
suo caso non si parla tanto del potere sul regno della Principessa Jasmine, ma
del potere in generale, un potere che non deve conoscere confini, che non deve
mai fermarsi, che si espande verso l'infinito, che assurge a simbolo della
cecità dell'uomo verso i propri limiti.
Fin
dalle prime scene, la sua parlata arrogante e serpentina, i suoi modi
accondiscendenti e falsi, ce lo proponevano come un maestro dell'intrigo e
dell'inganno, un uomo dalla doppia faccia, perfetta personificazione del
tradimento e della slealtà.
Jafar
tuttavia non è solo un abile cortigiano gelido e falso, è anche esperto in arti
magiche ed in trucchi che gli permettono (quando necessario) di avere ragione
delle resistenze del bonario “sultano di Agrabah” quando questi è reticente nel
seguire i suoi consigli.
Se però si pensa che questo in lui indichi una
volontà di rimanere dietro le quinte, un “deus ex dachina” a cui interessa
comandare senza essere percepito o visto, si cade in un grosso errore.
Ciò che rende Jafar infatti così terrificante,
è il fatto di nascondere una doppiezza davvero incredibile, di essere rozzo,
violento, volgare ma di nasconderlo dietro una maschera di eleganza e gelide
minacce.
Jafar
Aladdin.
Jafar,
uno dei personaggi di Aladdin, in una scena del film Disney.
Il
personaggio è molto complesso come profilo psicologico, visto che anela al
potere assoluto, universale, ed è disposto a fare di tutto per raggiungerlo, ma
indossa una maschera di ragionevolezza, è capace di mentire, dissimulare, al
punto che spesso non si sa più come sia realmente il vero Jafar.
Per
realizzarlo, Ron Clements e John Musker (registi e principali sceneggiatori)
attinsero ad un numero a dir poco incredibile di modelli, fonti e personaggi della
letteratura, del cinema e tanto altro ancora.
Sicuramente
il contributo più grosso arrivò da un personaggio storico già rievocato nel
celeberrimo “Le Mille e Una Notte”:
Ja'far ibn Yahya al-Barmaki, politico
persiano, tra i grandi protagonisti dell'VIII secolo della Battriana.
Egli
operò come Visir del Califfo al-Mahdi e poi del suo successore e figlio Harun
al-Rashid, ed era considerato un uomo molto colto, raffinato, sapiente ma anche
un maestro dell'intrigo, un uomo molto spregiudicato ed ambizioso.
O
almeno così fu dipinto spesso dai suoi oppositori, che gioirono quando Harun lo
fece improvvisamente giustiziare il 9 gennaio 803, dopo averlo accusato di
avere una relazione con sua sorella al-Abbasa.
In realtà Harun temeva Jafar e la sua famiglia,
la popolarità di cui godeva presso i suoi sudditi e il prestigio che si era
guadagnato presso sapienti ed i regnanti stranieri.
La sua
figura in effetti ne “Le Mille e Una Notte” fu descritta in modo molto
positivo.
Non
altrettanto positiva era invece la figura dello “stregone Abanazar”, il
principale antagonista in “Aladino e la Lampada Meravigliosa”.
Personaggio malvagio, crudele e
doppiogiochista, ingannerà il giovane protagonista, facendosi aiutare nel
recuperare la lampada magica, per poi cercare di ucciderlo a tradimento.
Tuttavia egli (e successivamente anche
l'altrettanto pericoloso fratello) troverà la morte per mano di Aladino e della
Principessa nel finale, in cui la sua arroganza, narcisismo ed il sottovalutare
i due giovani protagonisti, si riveleranno fatali.
Conrad
Veidt Il Ladro Di Bagdad.
Conrad
Veidt ne Il Ladro di Bagdad.
A
livello di personalità, finalità e natura, sicuramente il personaggio che più
ispirò Clements e Musker per il pericoloso ed infido Visir.
Jafar
alto, maestoso, viscido e armato di un sorriso felino, deve però molto anche al
leggendario attore Conrad Veidt, che interpretò il villain nel famoso “Il Ladro
di Bagdad del 1940”, grande successo di pubblico e critica (ben 3 premi Oscar).
In
effetti a vedere Veidt nei panni di Jafar, che inganna il giovane ed ingenuo Re
Ahmad e cerca con la forza e l'intrigo di sposare una bella Principessa, il
pensiero non può che correre a quello che avremmo conosciuto decenni più tardi
nel nostro amato classico Disney.
Come quello del cartone infatti, questo Jafar
somiglia ad un serpente infido e carismatico, caratterizzato da due occhi di
ghiaccio e della smorfia demoniaca di un Veidt che 12 anni prima ne “L'uomo che
Ride” aveva posto le basi per il celeberrimo Joker.
Veidt fu perfetto nel donare un malvagio a
tutto tondo, uno di quelli veri, orgogliosi di esserlo, incapaci di provare
pena o sentimento per alcuno, accecati dai propri desideri e dalla fame di una
sapienza vista come arma per soggiogare gli uomini.
Pochi
anni prima inoltre, era uscito anche “The Thief and the Cobbler”, film
d'animazione diretto, co-sceneggiato e co-prodotto dall'animatore canadese
Richard Williams, dalla genesi e dai costi così complessi e corposi, che il
progetto originale era nato ben trent'anni prima.
Anch'esso
connesso in parte al racconto di Aladino, aveva nel Visir ZigZag, il cattivo
del film, che molto doveva nell'aspetto e nei modi al suo doppiatore, il grande
attore americano Vincent Price, di cui il disegnatore Disney Andreas Deja usò
le fattezze per modellare l'inquietante ed elegante volto del perfido Jafar.
Come
Jafar, anche ZigZag aveva un volatile come amico:
il
perfido Phido (Iago nella versione Disney) e cercava in tutti i modi di sposare
la figlia del Sultano.
Un matrimonio che doveva portarlo verso il
potere, unico suo desiderio, al quale anteponeva persino la bellezza ed il
fascino della Principessa, poiché per certi uomini, ambiziosissimi ed oscuri,
il potere è molto più desiderabile anche dell'amore di una bella donna.
12.
Shere Khan - Il libro della giungla.
Sicuramente
tra i dieci merita un posto uno dei felini più famosi di sempre, quel “Shere
Khan” che il grande” Rudyard Kipling” creò come antagonista principale di “Mowgli”
ne “Il libro della giungla”.
Predatore
affetto da una zoppia che nel classico Disney del 1967 non appariva, si tratta
di un personaggio pregno di significati, oscuro, malvagio, che a suo tempo il
direttore artistico della Disney creò ispirandosi agli eleganti lineamenti del
grande attore britannico Basil Rathbone, che per gran parte della sua
straordinaria carriera era stato sovente utilizzato per interpretare villain
eleganti e letali in vari film di diverso genere.
Doppiato
da George Sanders nella versione originale (e dal talentuoso Carlo D'Angelo in
quella italiana), Shere Khan nel film animato appariva come il simbolo della
prepotenza e della tracotanza, un predatore potente, letale, permeato da
un'arroganza e una supponenza enormi.
Shere
Khan nell'originale Disney del 1967 andava a caccia del piccolo Mowgli spinto
da un odio quasi naturale per l'uomo, dal volerlo spazzare via, come se la sua
presenza fosse un vero e proprio insulto allo stato naturale di quella giungla
di cui lui si sentiva il dominatore per diritto di nascita e forza.
Shere
Kahan.
Carismatico,
sprezzante, solitario, secondo alcuni biografi del grande autore inglese era
ispirato alla tirannica madre di Kipling, ma quasi tutti vi vedono maggior
attinenza a quel “Bahdur Shah II” che cercò in modo abbastanza confuso e
incerto di scacciare con la violenza gli inglesi dall'India nel 19esimo secolo.
Shere
Khan tuttavia aveva un punto debole: temeva il fuoco e le armi dell'uomo e
proprio per questo cercava di uccidere Mowgli ad ogni occasione, convinto che
una volta cresciuto si sarebbe comportato come quei simili che ancora oggi
fanno sì che le tigri siano sull'orlo dell'estinzione.
L'importanza
di “Shere Khan”, infatti, è legata al suo essere sicuramente un personaggio
negativo, ambizioso, che ama uccidere per piacere e non per necessità, ma che,
sostanzialmente, ha ragione sull'uomo:
l'essere
umano è un pericolo per la giungla, non la rispetta, non le appartiene e cerca
continuamente di distruggerla.
Peccato
che “Shere Khan” rappresenti in modo perfetto lo sterminato numero di
conquistatori e Re che si sono crogiolati in stragi e violenze per accrescere
il proprio potere, pronti a distrugger chiunque non gli piacesse o gli si
opponesse... e la cui superbia è stata sovente pari a quella di questa tigre
mangiatrice di uomini.
13.
Gaston - La bella e la bestia.
La
Bestia e Belle in una romantica scena del film d'animazione La bella e la
bestia ('91)
A
molti sembrerà strano trovare nella lista il fusto di uno dei classici Disney
più amati e conosciuti di sempre, ed invece Gaston, apparentemente un arrogante
bellimbusto senza troppo cervello, è forse uno dei cattivi dei cartoon Disney
più importanti di tutti.
Ne La bella e la bestia del 1991, Gaston
appare sostanzialmente come un ragazzone palestrato e pieno di sé, ignorante e
assolutamente incapace di provare qualsiasi tipo di sentimento per chiunque se
non per sé stesso.
Innamorato
della propria bellezza, convinto di essere il massimo a cui si può aspirare,
Gaston desidera “Belle” come sua compagna solo perché è la più bella del paese
e quindi "la migliore" dal suo punto di vista;
naturalmente
non si cura di sapere se Belle lo vuole, la tratta da sciocca ragazzina
superficiale e immatura, e si dimostra più e più volte scortese, volgare e
insensibile.
Gaston deve la sua genesi a quel Avenant che,
interpretato dallo statuario Jean Marais, era la nemesi nel bellissimo” La
Bella e la Bestia” di Jean Cocteau e René Clément del 1946.
Alto,
ricco, arrogante e bello, fu il perfetto modello a cui ispirarsi, per quanto
molto nella fisionomia e nella possanza fisica fosse connesso in modo evidente
al bullo Brom Bones di “Le avventure di Ichabod e Mr. Toad”.
La
Bella e la Bestia: un classico senza tempo compie 25 anni.
Gaston
de La bella e la bestia.
Ma da
questa unione, nacque un villain che stupisce ancora oggi per modernità ed
attualità nel suo rispecchiare alcuni dei lati oscuri più terribili e purtroppo
comuni del sesso maschile nel terzo millennio.
Gaston
infatti non è semplicemente un forzuto vanitoso e cafone, egli si dimostra
infatti un uomo assolutamente crudele, un maniaco del controllo, maschilista e
violento oltre che codardo.
Pur di
avere “Belle” arriva a mettere in pericolo la vita del padre e a mentire ai
suoi ingenui e paurosi paesani circa la Bestia.
Narcisista
patologico, vede le donne come trofei non dissimili da quelli che adornano la
sua taverna e che l'hanno reso il cacciatore più famoso della regione, per lui
tutto ciò che conta è potersi rimirare in uno specchio fatto di altre persone
che ad ogni momento gli sussurrano quanto è magnifico.
Una
delle scene iniziali del cartoon “La bella e la bestia.
Alla
prova dei fatti però, tutta la sua arroganza scompare nella battaglia finale
quando, dopo la passività iniziale, la Bestia reagisce ed ingaggia con lui un
tremendo duello finale nel castello incantato.
Messo
di fronte a qualcuno che non ha paura di lui o non ne subisce il fascino superficiale,
Gaston si rivela un vile capace solo di colpire alle spalle.
Geloso,
possessivo, manipolatore e senza alcun tipo di empatia verso gli altri, egli
altro non è che il “totem della crudeltà tutta maschile” che ancora oggi rende
molte donne vittime del volere e del capriccio di uomini crudeli, violenti ed
egoisti.
In più
Gaston è il monumento vivente al culto dell'immagine, morbo di quegli anni
Ottanta che si erano appena conclusi, tornato ferocemente in auge in questo
nuovo millennio, a forza di “like e social”, in cui conta solo ciò che
sembriamo e non ciò che siamo e in cui i peggiori mostri, sovente sono coperti
di meravigliosi sorrisi e corpi perfetti.
14.
Crudelia De Mon - La carica dei 101
Crudelia
De Mon
Con
Crudelia De Mon il mondo dei cattivi Disney fece un assoluto passo in avanti
verso il mondo dell'irrazionale.
Se
fino a quel momento i villain erano tutti concepiti come esseri malvagi ma
sostanzialmente razionali, permeati di cupidigia certo, brama di potere,
bellezza o ricchezze, con lei per la prima volta si fece strada un cattivo,
anzi una cattiva, che di razionale aveva veramente poco.
Alta,
magra, dal colorito così livido da farla sembrare una non-morta, nel classico
Disney La carica dei 101 fu abbastanza simile a ciò che la scrittrice Dodie
Smith aveva concepito nel suo romanzo” I Cento e un Dalmata”, per quanto il
classico Disney la mostrasse non sposata.
Crudelia
De Mon appare fortemente caratterizzata dal punto di vista visivo, con una
gigantesca pelliccia bianca fatta di pelle di castoro, scarpe rosse molto
eleganti ed uno abito da cocktail che in tutto e per tutto la fa sembrare
reduce da una sorta di party infernale.
Creatura
demoniaca infatti lo sembra davvero, con quei capelli metà neri e metà bianchi,
gli occhi spiritati, il volto che si deforma di collera per un nonnulla, i
denti che sembrano quelli di una belva feroce e l'autovettura che nelle sue
mani pareva quasi un destriero infernale.
101
Dalmatians Glenn Close
Glenn
Close ne La carica dei 101.
La “Smith”
si ispirò alle tante viziate, irascibili ed insoddisfatte ricche signore della
classista società inglese e della frivola società americana con cui aveva avuto
la sfortuna di avere a che fare nella sua vita, ed infatti pure nel film del
1961, Crudelia esibiva la sua immane ricchezza con la stessa naturalezza con
cui fumava sigarette dal suo aristocratico bocchino.
Crudelia
De Mon (Crudelia De Vil nell'originale) si aggira con fare folle,
incontrollato, accecata da una cupidigia non per il dalmata ma per quel manto
maculato con il quale vuole farsi una serie di pellicce.
Non
prova alcun sentimento per nessuno, vive all'interno di un mondo fatto di puro
materialismo riflesso, armata di una spregiudicatezza e un'insensibilità
disumane.
L'unico
modo che ha per rapportarsi agli altri è quasi sempre insultarli, in una sorta
di delirio per il quale ogni altro essere vivente o senziente è un nemico, un
essere che l'ha privata di qualcosa.
Crudelia
De Mon, spirito demoniaco sotto sembianze umane, altro non rappresenta che il
lato più terrificante del consumismo, che ci fa stimare le cose, gli abiti, le
auto, i vestiti, più delle persone, degli animali, della nostra salute ed
esistenza.
Ed è
qualcosa che ancora al giorno d'oggi conosciamo molto bene...
15.
Ade – Hercules.
Ade di
Hercules
Con
Hercules il concetto di cattivo dei carton Disney fu ampiamente rimaneggiato e
rivoluzionato, all'interno di un film che stravolgeva anche graficamente i
personaggi in chiave grottesca e sovente comica.
Fin dall'inizio
si pensò a semplificare il racconto, modificando pesantemente il mito greco
originale, allo scopo di rendere il tutto meno "tragico" e complicato
per il giovane pubblico a cui si rivolgeva il 35esimo classico Disney.
Maggiormente concentrato sulla lotta contro i
Giganti dell'eroe per eccellenza del mondo greco più che sulle sue famose
Fatiche, Hercules ebbe in Ade un villain come non se ne era mai visti prima nel
mondo Disney.
Originariamente
si era optato per un individuo massiccio, minaccioso, freddo ed inquietante
(come nel mito greco) ma quando dopo vari casting non soddisfacenti e dopo aver
rotto con John Lithgow la produzione decise di provare con” James Woods”, il
risultato fu imprevedibile.
L'istrionico
e spumeggiante attore americano convinse tanto con la sua parlata veloce,
irregolare, quasi schizofrenica, che si decise di rivedere il personaggio
dandogli i suoi lineamenti e soprattutto una natura molto più sopra le righe.
Alto,
dalla pelle color cenere, con fiamme blu al posto dei capelli, una bocca
sdegnosa e orlata di zanne, una corporeità gassosa più che solida, risaltava
tra tutti gli Dei dell'Olimpo come la pecora nera della famiglia.
Deciso
a scalzare il fratello dal trono degli Dei usando i Titani, Ade nel film Disney
decideva di eliminare un Ercole ancora in fasce in quanto unico ostacolo, da lì
a 18 anni, tra lui e la vittoria su Zeus.
Hercules
Ade.
Ade di
Hercules.
Il
risultato finale è ancora oggi indicato da tutti come il villain più
divertente, dissacrante, la più simpatica canaglia partorita da un film Disney
fino ad oggi.
“James
Woods” (doppiato magistralmente dal Massimo Venturiello in Italia) fu il caso
più conclamato di cattivo Disney capace di "rubare" letteralmente la
scena all'eroe ed ogni altro personaggio.
Ancora
oggi Ade è visto come il vero protagonista del film Disney, rispetto ad un
Ercole che a molti parve davvero troppo banale e ingenuo per appassionare il
pubblico.
In fin dei conti Ade, con le sue fanfaronate,
i suoi diabolici piani destinati a fallire per l'abilità di Ercole o molto più
frequentemente per l'incapacità dei suoi due servi “Pena” e “Panico”,
completamente cattivo non sembrò mai del tutto.
Questo
grazie ai disegni del vignettista Gerald Scarfe e all'opera del supervisor
Andreas Deja che con i suoi 700 animatori, artisti e tecnici, in un certo senso
fece qualcosa di molto simile per tono ed atmosfere a quanto per decenni era
stato appannaggio dei “Looney Tunes” e della loro comicità demenziale e
grottesca.
Più
stand-up comedian che tiranno dei morti, mattatore, logorroico, pasticcione ed
al tempo stesso ambizioso, Ade ci ricorda in modo spassoso quanto sovente
dietro i cosiddetti malvagi si nascondano insoddisfazioni puerili, goffaggine,
insicurezza e solitudine.
Questo
villain Disney, in fin dei conti, è cattivo perché disgraziato, perché esiliato
ed emarginato da tutti gli altri Dei, condannato a vivere tra oscurità e
sofferenza in primis dallo splendente fratellone Zeus.
16. Ursula
- La sirenetta.
Ursula
de La sirenetta.
In
vita tutti abbiamo avuto purtroppo a che fare con persone che si fingevano
nostre amiche, pronte a darci consigli, ad ascoltarci e comprenderci, salvo poi
scoprire che tramavano alle nostre spalle per il proprio egoistico interesse
fin dall'inizio.
Non è
una sensazione molto piacevole anzi, ad ogni età essere usati e poi traditi è
qualcosa di assolutamente devastante.
Ursula
tra tutti i villain della Disney è sicuramente quella che più si fa portatrice
di questo modus operandi, in cui brama di potere e ricchezza, invidia e
malignità possano avere effetti devastanti sulle vite degli altri, soprattutto
se è una persona astuta e manipolatrice ad agire.
La
sirenetta rimane ancora oggi uno dei classici Disney più amati di tutti i
tempi, e non è un caso che vi sia grande attesa e curiosità (ed anche
polemiche) per come verrà ricreato nel “live action” della Disney, ma una cosa
è certa, Ursula dovrà essere all'altezza di ciò che il film di Ron Clements e
John Musker offrirono al pubblico nel 1989.
La
terribile strega del mare “Ursula” in una scena de “La sirenetta”.
Come
per molti altri elementi, anche la Strega del Mare venne pesantemente
modificata rispetto all'originale concepito da Andersen nel romanzo del 1837,
tuttavia conservò diverse caratteristiche peculiari del personaggio cartaceo.
Ursula
come il personaggio del romanzo vive in un reame oscuro, dove il mare è quasi
nero.
Ella è
una potentissima maga, dall'animo crudele e malvagio, che porta un immenso rancore
al padre di Ariel, Re Tritone, per averla scacciata a suo tempo. Esperta nel
creare pozioni ed incantesimi, decide di usare l'ingenua e innamorata sirenetta
per covare una vendetta personale verso il re suo padre e rovesciarlo dal
trono.
Dal
momento che il suo aspetto era alquanto indefinito, il disegnatore Ruben A.
Aquino sperimentò per lei diverse forme e caratteristiche proprie delle
creature marine quali mante o razze, fino a quella definitiva, che la vedeva
come una sorta di incrocio tra una piovra e la “drag queen Divine”, deceduta
nel 1988.
Una
scena del film d'animazione La sirenetta.
Con la
pelle dal colore indaco, i capelli bianchi, la metà del corpo composta da sei
inquietanti tentacoli nero-violacei, apparve immediatamente come l'essenza
della malvagità, della perfidia e di una certa lussuria e bramosia infinite;
in tutto e per tutto faceva pensare a certe
dame decadenti dell'Europa vittoriana. La voce di Pat Carroll (Sonia Scotti
nella versione italiana) si intrecciò perfettamente nel dipingere un
personaggio angosciante, machiavellico, abile nel nascondere le proprie vere
intenzioni e nel manipolare la dolce Ariel.
La sua
mostruosità finale, il suo diventare una sorta di “gigantesco kraken”, di
flagello dei mari altro non è che l'esteriorizzare il suo nero cuore demoniaco,
un'anima che in diversi momenti, nel suo mercanteggiare con i destini e
desideri altrui, inneggiava al Mefistofele che il grande Goethe descrisse nel
Faust.
Allo
stesso tempo è palese il suo collegarsi a ciò che per noi simboleggia il mare
nei nostri incubi da ben prima de “Lo squalo di Steven Spielberg”:
l'abisso,
il mistero orrendo di ciò che non possiamo vedere, la culla dalla quale dai
tempi dei Fenici, venivano partoriti mostri allucinanti in grado di divorare
intere navi ed equipaggi.
E
quell'abisso, quel mare nero, quella profondità inesplorata, è quella del pozzo
senza fondo della nostra anima, di quanto in basso possiamo spingerci se
egoismo e mancanza di empatia prendono il dominio su di noi.
17.
Claude Frollo - Il gobbo di Notre Dame.
Il
gobbo di Notre Dame, una scena del film d'animazione.
Chissà
se Victor Hugo immaginava come sarebbe stato modificato Il gobbo di Notre Dame
dalla Disney.
Chissà
se poi avrebbe gradito di vedere il suo “Claude Frollo” come antagonista
principale di un film d'animazione che all'epoca stupì per la cupezza delle
atmosfere e tematiche trattate.
Molte
cose furono cambiate ma nessuna stupì chi aveva letto il romanzo e aveva visto
altre trasposizioni cinematografiche, più della metamorfosi a cui fu sottoposto
quello che era stato definito a suo tempo un anti-eroe tragico.
Eppure, nonostante questo, il personaggio di “Frollo”
funzionò in modo egregio, anzi di più, divenne un nemico a parte nel mondo
Disney, sostanzialmente un caso più unico che raro per la sua natura e le sue
caratteristiche.
Frollo
infatti è da certi punti di vista il cattivo più realistico, maturo e
inquietante che la casa di Topolino abbia mai partorito, ed è uno di quei
personaggi che si è portati a rivalutare nella loro maestosa crudeltà da
adulti.
“Claude
Frollo” nel film del 1996 è un uomo di potere quasi assoluto, un giudice che
ama, insegue, usa la legge a proprio piacimento, che ha risparmiato il povero “Quasimodo”
per un fastidioso senso di colpa derivato dall'averne ucciso la madre di fronte
alle mura di Notre Dame.
Egli vede in tutti gli altri uomini difetti e
magagne, peccati inconfessabili tranne che in sé stesso, che usa il potere, la
fede religiosa, come scusa per essere peggiore di ogni altra persona.
Frollo, de Il gobbo di Notre Dame.
Gli
attori Cedric Hardwicke e Hans Conried vennero presi a modello per i
lineamenti, mentre la sua indole imprevedibile, sadica, violenta e narcisistica
fu modellata su ciò che il grande Ralph Fiennes aveva portato al cinema con il
ritratto del famigerato gerarca nazista “Amon Goth” in “Schindler's List”.
Ed in
effetti al feroce gerarca nazista, massacratore di ebrei, Frollo assomigliava
per lo zelo con cui perseguitava gli zingari, ma anche per l'ossessione malata
e carnale per la bella Esmeralda, per una ragazza cioè, appartenente a quella
"razza inferiore" che lui combatteva da una vita.
Ma ciò
che lo rende davvero unico, davvero terrificante, è il fatto che lui, Frollo,
senta nel profondo di operare nel giusto, di essere una brava persona, di non
avere nulla da rimproverarsi.
Le sue azioni sono dettate (nella sua mente)
da un disegno superiore, servono a purificare il mondo, così come lo pensavano
e pensano tutti i carnefici, i boia che in nome di un Dio o di un ordine
superiore hanno seminato e continuano a seminare di morte e terrore il nostro
mondo.
Da
Torquemada a Mengele, da Eichmann a Maria d'Inghilterra, il terrore ha sovente
serpeggiato per mano di uomini e donne che, come Frollo, hanno giustificato le
proprie inclinazioni, il proprio sadismo, in nome di qualcosa di alto e
purificatore.
Ed in
questo, Frollo assurge a simbolo unico e alto di una malvagità molto storica,
attuale e ben poco astratta.
18.
Chernobog – Fantasia.
Ebbene
sì, dal 1989 facciamo un salto indietro di quasi 50 anni, a quel “Fantasia” che
cambiò la storia dell'animazione per sempre, dimostrando che i cartoni animati
potevano fare qualcosa di più di regalare qualche infantile risata.
Nel celebre lungometraggio Disney, i vari
episodi coadiuvati da melodie tra le più raffinate mai scritte da geni del
calibro di Beethoven, Bach e Schubert, crearono qualcosa di mai visto prima che
lasciò letteralmente di sasso critica e pubblico.
E tra coccodrilli ed ippopotami danzanti, tra
dinosauri e fiori, comparve, sulle note di Una notte sul Monte Calvo di Modest
Petrovič Musorgskij, anche uno dei villain più terrificanti, oscuri e
affascinanti del mondo Disney: Chernabog.
Ancora oggi sulle sue origini vi è molto
mistero e più di un'ipotesi.
Di certo vi è solo che era uno Dio oscuro e
maledetto della cultura slava, che fino al XII secolo, come descritto nel
Chronica Slavorum, presso le tribù venede e polabe era colui verso il quale si
riconducevano tutte gli eventi nefasti e dolorosi accaduti.
Il suo
nome è presente anche nelle leggende islandesi, nelle saghe dei discendenti di
Canuto, dove è posto in contrapposizione alle divinità benevole.
Di certo egli ha sempre rappresentato bene o
male l'oscurità e la morte in diverse culture euroasiatiche medioevali, di cui
diversi elementi sono sopravvissuti fino ai nostri giorni, ed il suo aspetto,
creato dal disegnatore Bill Tytla, fu ottenuto grazie ai lineamenti di sua
maestà Bela Lugosi.
Il Dracula per eccellenza del cinema, con il
suo cipiglio oscuro, le ali da pipistrello, il ghigno mefistofelico, lo sguardo
fiero ed il portamento ardimentoso, fu unito agli studi anatomici specifici su
diverse creature alate, dipinti ed effigi inerenti creature demoniache.
Chernabog
di Fantasia.
Il
risultato fu una creatura terrificante, un demone che in sé racchiudeva
potenza, forza, tenebrosità, condensando molte delle caratteristiche dei
vampiri, mostri e delle creature della notte descritti nelle varie parti del
globo, demoni e diavoli di oriente e occidente, i grandi antichi immaginati da
Lovecraft...
Tuttavia
fu particolarmente chiaro a tutti quanto “La stregoneria” attraverso i secoli
di Benjamin Christensen del 1922 fosse la grande fonte d'ispirazione per quelle
creature delle tenebre, quei feticci del demonio che atterrivano le moltitudini
medioevali, le streghe e i fantasmi di eserciti maledetti, uniti in un sabba
selvaggio.
Capre,
suini, cani, pipistrelli, fauni, creature dell'orrido, simboli di paure
contadine condivise però da quei falsi sapienti che misero a fuoco la carne di
molti per esorcizzarle.
Chernobog
gioca e distrugge e crea i suoi piccoli mostri, i suoi piccoli demoni così come
fa con le paure dell'uomo, così come gioca e scherza con i loro cuori, con la
paura atavica del soprannaturale, del Dio assetato di sangue del vecchio
testamento, dei demoni che Dante Alighieri e Milton descrissero e Bouguereau,
Bruegel e Boschi dipinsero nella loro orripilante magnificenza.
Illuminato da una luce spettrale che richiama
al “Nosferatu” il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau, Chernobog viene
sconfitto di lì a poco dal religioso suono di una campana che promette l'alba e
anticipa l'Ave Maria, la luce che lo costringe a ritirarsi.
Ma la sua minaccia di morte e caos rimane viva
e presente, così come già all'epoca era viva e presente nel mondo scosso da un
conflitto che da europeo di lì a poco avrebbe dilaniato mezzo mondo e in
qualche anno rivelato l'orrore dell'Olocausto.
In questo Una Notte sul Monte Calvo funge da
anticipazione tetra e scioccante, quasi una profezia animata, e ai giorni
nostri è monito a non dimenticare che quel demone, tutti i demoni, vivono
dentro di noi, aspettano solo la notte della ragione per risvegliarsi.
19.
Malefica - La bella addormentata nel bosco.
Malefica
de La bella addormentata.
Ebbene
sì, sul terzo gradino del podio vi è proprio lei, la Maga Oscura per eccellenza, la
Signora delle Tenebre, uno dei personaggi femminili più affascinanti, carismatici,
eleganti e riusciti dell'universo Disney.
Malefica
si erge tra i villain di questa lista in virtù di un potere che ha pochissimi
pari all'interno dell'universo di Walt Disney, un potere che usa come le pare e
piace, per inseguire i propri terribili fini.
E tra
tutti, nessuno è più importante per lei della vendetta, del rendere pan per
focaccia a chi si è reso colpevole di averla offesa, di averle mancato di
rispetto, in virtù di una sorta di mania di persecuzione che è solo un alibi
che lei usa per scatenare la sua collera ed ira.
Ne La
bella addormentata nel bosco, Malefica appare immediatamente all'inizio del
film, quando si presenta senza aver ricevuto quell'invito da Re Stefano che ne
scatena la fredda e premeditata furia verso i presenti e soprattutto verso la
piccola Aurora.
Tuttavia
al contrario di molti altri cattivi, ciò che incute più timore e impressiona di
Malefica, è l'incredibile self-control, l'eleganza, il tono gelidamente cortese
e suadente che però non nasconde mai il disprezzo e la sufficienza con cui
considera chi le sta attorno.
La
terribile lotta tra il principe Filippo e la strega Malefica trasformata in
drago ne La bella addormentata nel bosco.
Del
resto è abbastanza potente da poterselo permettere.
Malefica
infatti è in grado di controllare il fuoco, di ordire terribili incantesimi, di
comandare gli agenti atmosferici, di cambiare forma e apparire e scomparire a
suo piacimento. Inoltre può controllare piante ed animali, ha capacità
divinatorie ed è immune alle armi comuni dell'uomo.
In
nessun cattivo forse il potere è così presente, così intuito, così tutt'uno col
personaggio come per questa Maga che rappresenta in tutto e per tutto il male
nella sua accezione più universale, innata.
Per quanto il “Live Action Maleficent” abbia
cercato di renderla più "normale", di descriverla come una creatura
originalmente benevola divenuta ciò che è in virtù delle malefatte dell'uomo,
lei rappresenta e rappresenterà per sempre la forma più vanitosa, autentica e
viscerale dell'oscurità.
Altissima, dalla pelle verdastra, con due
gialli occhi felini, lineamenti spigolosi e due corna nere, Malefica è però
dotata di un'innata eleganza, di un fascino che esercita e incute timore su
ogni essere vivente.
La
perfida strega Malefica del film d'animazione La bella addormentata nel bosco (
1959 )
E quel
viola che indossa, il colore della pazzia e della malvagità in quasi tutte le
culture, il colore del Joker e di Medusa per intenderci, nessuno lo indossa con
tale efficacia come lei.
A conti fatti più che una Maga è una Regina,
che con passione disprezza la plebe, quei patetici umani che non tremano e non
fanno a gara per adorarla.
Sadica, fredda e calcolatrice è però facile
alla furia e al manifestare odio verso tutto e tutti.
Il grande drago violaceo nel quale si
trasforma nel finale, non è solo la sua forma corporea più potente, ma il suo
alter-ego, il suo spirito-animale (o meglio spirito-mostro) poiché come per i
draghi della tradizione occidentale, anche lei altro non è che un essere con il
quale non si può ragionare, venire a patti o trattare.
Malefica rappresenta anche quelle donne che
rifiutano le convenzioni, la sottomissione che Aurora e la madre accettano
passivamente;
ella è
quindi, in tutto e per tutto, la libertà nella sua forma più estrema ed
eccessiva.
Di certo molto della sua popolarità fu dovuto
al suo somigliare a quelle dive eteree e predatrici che dominavano il cinema in
quegli anni, e di avere come doppiatrice “Eleanor Audley”, mentre da noi fu la
grande Tina Lattanzi a conferirle un fascino ancora oggi unico nel suo genere.
20.
Scar - Il re leone.
Una
scena de Il re Leone con Scar, il fratello di Re Mufasa.
Medaglia
d'argento di questa hit parade del male, Scar non solo è uno dei migliori
villain mai usciti dal mondo di Walt Disney, ma è uno dei cattivi meglio
concepiti e realizzati della storia del cinema.
A lui
abbiamo dedicato, visto l'uscita del “Live Action Il Re Leone”, anche un altro
approfondimento su “Scar de Il Re Leone”, ma vale la pena comunque qui
ricordare quanto il crudele leone abbia rappresentato qualcosa di assolutamente
inedito (e anche scioccante) per il pubblico disneyano.
Scar, modellato sui lineamenti di quel Jeremy
Irons che gli prestò la sua voce ed il suo carisma (come fece anche il nostro
Tullio Solenghi), è un leone atipico, dalla criniera nera, gli occhi verdi,
magro, dai modi melliflui, viscidi, mentitore, che pare quasi più una serpe
sotto vesti feline che un leone, predatore simbolo di fierezza e forza.
Astuto,
falso, cinico, assetato di potere e ossessionato dalla corona che si è
allontanata dal suo capo con la nascita di Simba, si rivela uno avversario
assolutamente letale poiché, pur se non vigoroso fisicamente, è abbondantemente
dotato di materia grigia, come lui stesso asserisce.
Abilissimo
nel nascondere le sue vere intenzioni, è uno stratega e un pianificatore
paziente e arguto, che sa come distrarre gli avversari, coglierli di sorpresa
ed è dotato di una capacità di improvvisazione e di una dialettica a dir poco
fenomenali.
Oltre
a questo, è spietato, determinatissimo, non ha mai alcun ripensamento né prova
alcuna pietà per il fratello” Mufasa” o per il nipote, e considera ogni altro
essere vivente inferiore, stupido e incapace, non all'altezza del suo genio e
della sua intelligenza.
Il Re
leone: un'immagine con Scar e le iene.
Ispirato
al personaggio di “Re Claudio nell'Amleto”, se ne distanzia per l'inettitudine
al comando, per l'essere (al contrario del monarca danese descritto da
Shakespeare) privo di ogni senso di colpa per la sua azione ed un leader
assolutamente fallimentare, capace solo di portare alla rovina il Regno di suo
fratello.
Tuttavia
tale fallimento non lo tocca, e si dimostra totalmente disinteressato alla
sorte di quel branco del quale bramava la corona e dal quale vuole una cieca
obbedienza, pure a costo della distruzione più totale, della morte.
Gli sceneggiatori Irene Mecchi, Jonathan
Roberts e Linda Woolverton lo descrissero dotato delle stesse capacità di
irretire le masse, di sedurle e renderle schiave del proprio volere che aveva
reso possibile a uomini come Adolf Hitler, Benito Mussolini e Iosif Stalin
arrivare ai vertici.
Del
dittatore nazista ha la personalità accentratrice, narcisista, l'anelare ad un
ideale di forza che fisicamente gli è stata privata da madre natura, il
crogiolarsi nella morte, nella decadenza, il collegarsi ad una dimensione
sado-maso-mortuaria.
Sicuramente
la marcia delle iene è il momento in cui più egli assomiglia al terribile
caporale boemo, in cui riviviamo la triste epoca della svastica tedesca.
Assomiglia a Stalin nell'aspetto, con il volto
attorniato da eleganti baffi e dalla criniera nera, ma anche e soprattutto
nella capacità di apparire razionale, moderato, di buon senso quasi, per poi
sfoderare gli artigli e, come il dittatore sovietico, le sue minacce spesso
sono avvolte da sorrisi, consigli, scorrono sotterranee ed allusive,
accompagnate da promesse e premi.
Del
dittatore italiano ha la grande comunicatività, l'appellarsi agli esclusi, ai
senza speranza, ai reietti, promettendo loro gloria e potere... In comune ha
anche il far precipitare (alla prova dei fatti) tutto ciò che ha sotto mano
nella rovina e nella morte, il fallire miseramente.
Il Re
Leone: uno dei suggestivi scenari del film.
Alla
fine, come successo per moltissimi dittatori, tiranni e sanguinari despoti, il
regno di Scar crollerà sul peso dei suoi errori e fallimenti, con l'arrivo di
quel Simba che, a dispetto di paure e difficoltà, sarà la scintilla che
accenderà una rivolta tanto repentina quanto inevitabile.
Scar assurge a molteplice simbolo della
tirannia, dell'oppressione, si ricollega ad alcuni dei periodi più bui e
terribili della storia, soprattutto moderna, quando individui biechi,
vanagloriosi e malvagi riuscirono a impossessarsi del potere su ogni cosa.
Di
certo il suo essere l'unico cattivo dei cartoon Disney riuscito nell'intento di
uccidere un protagonista (il fratello Mufasa), lo ha legato ad uno dei momenti
più drammatici e scioccanti della storia dell'animazione, un vero e proprio
trauma generazionale.
E per
quanto tempo passi, il suo sogghignante "lunga vita al re!", resterà
come uno dei più fulgidi esempi di malvagità e dramma.
Il
fatto che un tale villain non occupi la prima posizione nella nostra classifica,
è solo perché al primo posto vi è il simbolo per eccellenza del male del mondo
animato di Walt Disney...
21.
Grimilde - Biancaneve e i sette nani.
Grimilde,
la Regina Cattiva
Ebbene
sì, a guidare questa classifica c'è lei, il villain per eccellenza, nonché il
primo cattivo Disney di sempre, vera e propria anima nera di quel Biancaneve e
i sette nani che lanciò definitivamente la casa di Walt Disney in quel lontano
1937.
In
principio il nutrito gruppo di sceneggiatori del primo classico Disney aveva
pensato di creare una villain grassa, brutta e un pò ridicola, ma Walt Disney
scartò l'idea, ritenendo invece che fosse necessario qualcosa di diverso.
Si decise quindi di operare un radicale cambiamento,
di creare un personaggio armato di fascino, di una femminilità tanto plateale
quanto inquietante, torbida, sensuale e che unisse in sé le caratteristiche di
una Lady Macbeth e la Fata Morgana.
Per la
voce fu scelta infine Lucille La Verne, sostituita in Italia da una sempre
perfetta Tina Lattanzi.
Il
risultato, grazie ai disegni superbi di Albert Hurter, Ferdinand Hovarth e del
resto del team artistico, fu un qualcosa di assolutamente unico, una donna
alta, elegante, tenebrosa, i cui lineamenti erano modellati ispirandosi a
quelli della grande Joan Crawford - l'attrice simbolo di quegli anni - e della
nobile Uta di Ballenstedt, la cui statua fin dall'XIII secolo era simbolo di
gelida regalità.
Aggraziata,
elegantemente chiusa in un mantello nero alato che la fa sembrare un vampiro,
con il capo chiuso da una cuffia quasi sacerdotale, è anch'essa
"seguace" di quel viola che le conferisce un'aria demoniaca, folle e
instabile.
La corona è semplice, eppure proprio tale
semplicità non fa che rendere la sua chiara, notevole bellezza, qualcosa di
pericolosamente distaccato, gelido e senza vita.
In Grimilde rivivono i freddi e cupi
personaggi raccontati nelle leggende dell'Europa nordica, già partendo dal suo
nome, ispirato
a quella Crimilde che è una delle più tragiche protagoniste della saga norrena
dei Nibelunghi.
Con
lei avanza un'oscurità che in Biancaneve e i Sette Nani rimanda alle sanguinose
fole del passato, dove in foreste tenebrose e ferali, uomini e bestie
incrociavano destini e corpi.
Una
celebre scena del film Biancaneve e i sette nani ( 1937 ).
Il suo
essere non madre ma matrigna, ha dato una connotazione assolutamente negativa a
questa parola per moltissimo tempo, e l'ha resa simbolo stesso della negazione
dell'istinto materno, dell'altruismo del genitore.
Grimilde
è forse il villain più spietato, crudele ed egoista della storia Disney, tanto
ossessionata dalla propria bellezza, dalla supremazia del suo aspetto, da
chiedere ad un cacciatore di uccidere la figlioccia e portarle il suo cuore.
E
quella domanda, quel "Specchio, servo delle mie brame..." altro non è
che la ricerca ossessiva di una perfezione estetica che, come nel celebre
Dorian Gray di Wilde, si accompagna ad una putrefazione dell'animo senza
ritorno.
La sua
non è semplice vanità, ma ricerca spasmodica di una supremazia sulle altre
donne, di un elevare la propria persona oltre l'umanità, toccare un divino che
richiede sacrifici umani, gli stessi che per tanto tempo le religioni norrene
hanno avuto all'interno dei loro riti.
Più
che Maga attorniata da creature della notte quindi, Grimilde appare una
sacerdotessa, dedita al culto di sé stessa, e lo fa con una volontà adamantina,
ferale, che spinge fino al punto di trasformarsi in ciò che più odia di più ma
che in realtà è dentro (ancora una volta collegandosi a Dorian Gray): un'orribile vecchia megera ributtante
e malefica.
La
terribile regina del film Biancaneve e i sette nani ( 1937 )
Grimilde
si muove portando con sé l'eredità di quelle donne, di quelle regine e donne di
potere che per la corona, la supremazia, fosse essa della carne o dello
scettro, sono state capaci di compiere nefandezze senza nome.
In
particolare appare chiaro il riferimento alla famigerata Contessa Sanguinaria
Elizabeth Bathory, amante della Magia Nera, che nel 16esimo secolo massacrò
centinaia di donne e ragazze, convinta che bagnarsi nel loro sangue la aiutasse
a rimanere giovane.
Ma
anche Lucrezia Borgia, Ranavalona, Caterina de Medici, Isabella di Castiglia e
Anna Bolena possono essere collegate a Grimilde, nel loro ricordarci quanto le
donne sappiano anch'esse rappresentare l'abisso dell'animo umano.
La sua fine, incontrata nella sua
"vera" forma di megera, è metaforicamente perfetta nel farla
precipitare quando sta più in alto di tutti, colpita da un fulmine divino e poi
divorata dagli avvoltoi.
La
terribile strega del film Biancaneve e i sette nani ( 1937 ).
Grimilde
rappresenta i lati oscuri e terrificanti della figura femminile, nelle varie
accezioni di madre, amante, donna che porta con sé un eros torbido, malsano,
quell'essere donna che fin dai tempi di Omero fu sovente descritta come infida,
traditrice, assetata di sangue.
In un certo senso è un monito a chi nella
letteratura e nel cinema, per molto tempo ha limitato il "sesso
debole" a ruoli marginali, innocenti, quasi che al contrario dei
"maschietti" non potesse ambire ad altro.
Invece, anche grazie alla Regina Cattiva, le
donne meritano un posto di rilievo persino tra le tenebre, immaginarie e non...
(Ora
la Disney è entrata e fa parte della scuderia propagandistica dei “ricchi
globalisti progressisti” arraffa tutto.)
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