Gli uomini soli non possono combattere contro la tirannide globalista.
Gli uomini soli non possono combattere contro la tirannide globalista.
Putin
ha suggerito con forza che
una
soluzione politica alla guerra
per
procura è ancora possibile.
Marx21.it
- korybko.substack.com – (30 Giugno 2023) – Redazione - ci dice:
Questo
interessante articolo è stato scritto prima degli ultimi avvenimenti, che hanno
visto coinvolto “Prigozhin” e che potrebbero in parte spiegare quello che è successo.
In
ogni caso esso dimostra come è compito degli Stati Uniti cogliere al volo o
lasciare cadere le prospettive di pace. (MP)
Le tre
ultime apparizioni di Putin.
La
scorsa settimana, in una serie di apparizioni, il Presidente Putin ha suggerito
con forza che una soluzione politica alla guerra per procura tra NATO e Russia
in Ucraina è ancora possibile.
I suoi
sostenitori nella comunità degli “Alt-Media” che si sono convinti che l’”operazione
speciale” non si fermerà fino a quando le forze russe non raggiungeranno il
confine polacco saranno sicuramente infuriati da questa valutazione, ma è
basata sulle sue stesse parole, come dimostrato dal sito ufficiale del Cremlino.
Ecco
le tre apparizioni che verranno citate in questa analisi:
13 giugno: “Incontro con i corrispondenti di
guerra”.
16 giugno: “Sessione plenaria del Forum
economico internazionale di San Pietroburgo”.
17
giugno: “Incontro con i capi delegazione degli Stati africani”.
Di
seguito sono riportati alcuni estratti di ciascuna apparizione, insieme a un
riassunto di una sola frase del punto che ha trasmesso in ogni passaggio.
Dopo
averli esaminati tutti e tre, il prossimo sotto capitolo riassumerà il gioco
finale previsto dal Presidente Putin per questa guerra per procura.
Infine, l’ultima parte di questa analisi si
concluderà con alcune riflessioni sulla fattibilità dei suoi piani, che sono
probabilmente abbastanza ragionevoli se ci si prende il tempo di rifletterci
con calma.
Incontro
con i corrispondenti di guerra.
La Russia intende ancora raggiungere gli obiettivi
originari dell’operazione speciale.
–
“[Gli obiettivi e i compiti dell’operazione militare speciale] stanno cambiando
in base alla situazione attuale, ma ovviamente nel complesso non stiamo
cambiando nulla.
“I
nostri obiettivi sono fondamentali per noi”.
La smilitarizzazione dell’Ucraina è bene
avviata.
–
L’industria della difesa ucraina cesserà presto di esistere. Cosa producono?
Si
consegnano munizioni, si consegnano attrezzature e armi – tutto viene
consegnato.
Non
vivrete a lungo così, non durerete.
Quindi,
la questione della smilitarizzazione si pone in termini molto pratici”.
La controffensiva di Kiev sta fallendo.
– Se
consideriamo le perdite irrecuperabili, è chiaro che la parte che difende
subisce meno perdite, ma questo rapporto di 1 a 10 è a nostro favore.
Le nostre perdite sono un decimo di quelle
delle forze ucraine.
La
situazione è ancora più grave per quanto riguarda gli armamenti… Secondo i miei
calcoli, queste perdite si aggirano intorno al 25 o forse al 30%
dell’equipaggiamento fornito dall’estero”.
Gli attacchi contro il territorio russo prima
del 2014 sono stati pensati per distogliere le forze dalla linea del fronte.
– “Per
quanto riguarda le zone di confine, c’è un problema, ed è legato – e credo che
anche voi lo capiate – principalmente alla volontà di dirottare le nostre forze
e le nostre risorse su questo versante, di ritirare parte delle unità da quelle
zone che sono considerate le più importanti e critiche dal punto di vista di
una possibile offensiva da parte delle forze armate dell’Ucraina”.
Si sta valutando la creazione di zone
cuscinetto per proteggere il territorio russo di prima del 2014.
– “Se
la situazione continuerà, a quanto pare dovremo prendere in considerazione la
questione – e lo dico con molta attenzione – di creare una sorta di zona
cuscinetto sul territorio dell’Ucraina a una distanza tale da cui sarebbe
impossibile raggiungere il nostro territorio.
Ma
questa è una questione a parte, non sto dicendo che inizieremo questo lavoro
domani.
Dobbiamo
vedere come si sviluppa la situazione”.
L’ormai defunto progetto di trattato con
l’Ucraina ha aiutato la Russia a consolidare le sue conquiste orientali e
meridionali.
– “Anche se l’hanno buttato via,
abbiamo comunque usato questo tempo per arrivare dove siamo ora, cioè
praticamente tutta la “Novorossia” e una porzione significativa della Repubblica Popolare di Donetsk, con accesso al Mar d’Azov e a
Mariupol. E quasi tutta la Repubblica Popolare di Lugansk, con alcune
eccezioni”.
La
Russia potrebbe mobilitarsi se decidesse di muovere di nuovo contro Kiev, ma
oggi non ce n’è bisogno.
– “Dobbiamo tornare [a Kiev] o no?
Perché faccio questa domanda retorica?
È chiaro che voi non avete una risposta, solo
io posso rispondere.
Ma a
seconda dei nostri obiettivi, dobbiamo decidere sulla mobilitazione, oggi non
ce n’è bisogno”.
Uno dei fattori fondamentali di questo
conflitto è che l’Occidente sta inondando l’Ucraina di armi.
–
“Sapete, questa è una questione fondamentale, assolutamente fondamentale.
Quando diciamo – io l’ho detto e voi l’avete ripetuto – che l’Occidente sta
inondando l’Ucraina di armi, questo è un fatto, nessuno lo nasconde, anzi, ne
sono orgogliosi”.
La produzione tecnico-militare della Russia è
aumentata nell’ultimo anno.
–
“Durante l’anno abbiamo aumentato la produzione delle nostre armi principali di
2,7 volte. Per quanto riguarda la produzione delle armi più richieste,
l’abbiamo aumentata di dieci volte. Dieci volte!”.
Non tutte le risposte della Russia sul
superamento delle sue “linee rosse” sono coperte dai media.
– “Non
tutto può essere coperto dai media, anche se non c’è nulla di cui vergognarsi.
Gli attacchi al sistema energetico ucraino non
sono forse una risposta al superamento delle linee rosse?
E la distruzione del quartier generale della
principale direzione dell’intelligence delle forze armate ucraine fuori Kiev,
quasi all’interno della città di Kiev, non è una risposta? Lo è”.
Lo Stato ucraino esiste e deve essere trattato
con rispetto, ma è inaccettabile minacciare la Russia.
– Se
vogliono vivere nei nostri territori storici, devono influenzare la loro
leadership politica in modo che stabilisca relazioni corrette con la Russia e
che nessuno rappresenti una minaccia per noi da questi territori. Questo è il
problema. Questo è il nocciolo della questione”.
È discutibile che l’Occidente continuerà a
fornire armi all’Ucraina a prescindere dalle sue perdite.
– “Questo è discutibile (detto in risposta all’affermazione
di un corrispondente di guerra secondo cui “Chiaramente, indipendentemente
dalle perdite subite dall’Ucraina, i Paesi occidentali continueranno a fornirle
armi”)”.
Non c’è alcuna garanzia che la Russia passi
all’offensiva dopo il fallimento della controffensiva di Kiev.
–
“Penso che, essendo consapevoli – lo dico a ragion veduta – delle perdite
catastrofiche, la leadership ucraina, qualunque essa sia, se ha la testa sulle
spalle, dovrebbe pensare a cosa fare dopo.
Aspetteremo di vedere com’è la situazione e
prenderemo ulteriori provvedimenti sulla base di questa situazione”.
I proiettili all’uranio impoverito vengono spediti in
Ucraina perché l’Occidente ha già esaurito tutti gli altri.
–
“Semplicemente non hanno granate, ma hanno granate all’uranio impoverito nei
magazzini. Sembra che abbiano deciso di usare questi proiettili per il momento.
Hanno ripulito i magazzini”.
I problemi economici dell’UE impediranno i
suoi piani di produrre più armi per l’Ucraina.
– I
problemi economici dell’UE si stanno aggravando… Quindi, non è così facile
produrre tutto lì, e ancora più difficile è espandere la produzione e costruire
nuovi impianti. Questo ci tornerà utile, perché la Russia ha una situazione
particolare. Dobbiamo costruire i nostri armamenti; dovremo farlo e
accumuleremo riserve strategiche nei magazzini”.
Il” mission creep” americano sta creando
rischi molto seri per la Russia.
– “Gli
Stati Uniti sono sempre più coinvolti in questo conflitto, quasi direttamente,
provocando gravi crisi di sicurezza internazionale.
Correggere
i movimenti dei droni che attaccano le nostre navi da guerra è un rischio molto
serio.
È una
cosa molto seria e loro devono sapere che noi ne siamo a conoscenza. Penseremo
a cosa fare in futuro.
In
generale le cose vanno così.
I colloqui di pace potrebbero riprendere e la
bozza di trattato di Istanbul potrebbe essere rilanciata se gli Stati Uniti
taglieranno le forniture di armi a Kiev.
– “Non abbiamo mai rifiutato – come ho
detto mille volte – di partecipare a qualsiasi colloquio che possa portare a un
accordo di pace… In definitiva si tratta degli interessi degli Stati Uniti.
Sappiamo
che sono loro a detenere la chiave per risolvere i problemi.
Se
vogliono veramente porre fine al conflitto odierno attraverso i negoziati,
devono prendere una sola decisione: smettere di fornire armi ed
equipaggiamenti. Tutto qui.
L’Ucraina non produce nulla.
Domani vorranno tenere colloqui non formali,
ma sostanziali, e non confrontarsi con noi con un ultimatum, ma tornare a
quanto concordato, ad esempio, a Istanbul”.
Molti americani hanno paura che il loro Paese
inizi la Terza Guerra Mondiale, perché sanno che non vincerebbe.
–
“[Gli Stati Uniti] fingono di non averne [paura di inasprire all’infinito la
situazione e di alzare la posta in gioco].
In
realtà, ci sono molte persone che pensano con chiarezza e non sono disposte a
condurre il mondo alla terza guerra mondiale in cui non ci saranno vincitori;
nemmeno gli Stati Uniti ne usciranno vincitori”.
Sessione
plenaria del Forum economico internazionale di San Pietroburgo.
Il Presidente Putin ha ripetuto le statistiche
tecnico-militari della Russia della sua ultima apparizione.
– “La
nostra industria della difesa sta guadagnando slancio ogni giorno. Nell’ultimo
anno abbiamo aumentato la produzione militare di 2,7 volte. La nostra
produzione delle armi più critiche è aumentata di dieci volte e continua ad aumentare”.
Basare gli F-16 forniti dalla NATO all’Ucraina
al di fuori del Paese rappresenterebbe un grave pericolo per la Russia.
–
“Anche gli F-16 bruceranno (se saranno inviati in Ucraina), non c’è dubbio. Ma
se si trovano in basi aeree fuori dall’Ucraina e vengono utilizzati nelle
ostilità, dovremo pensare a come e dove colpire le risorse che vengono
utilizzate contro di noi.
C’è il serio pericolo di un ulteriore
coinvolgimento della NATO in questo conflitto armato”.
La porta della diplomazia rimane aperta se
l’Occidente decide di riprendere i colloqui con la Russia.
– “Non
abbiamo mai chiuso [la porta alla diplomazia]. Sono stati loro a decidere di
chiuderla, eppure continuano a sbirciarci attraverso la fessura”.
Gli attacchi all’interno della Russia sono
progettati per provocare una risposta schiacciante.
–
“Sapendo che ci sono poche possibilità di successo (in prima linea), ci stanno
provocando (attraverso gli attacchi di Belgorod e del Cremlino) per ottenere una
risposta dura, sperando di puntare il dito contro di noi e dire:
‘Guardateli; sono maligni e crudeli; nessuno
dovrebbe avere a che fare con loro'”.
Vogliono
dire questo a tutti i partner con cui stiamo lavorando. Quindi, no, non c’è
bisogno di intraprendere queste azioni”.
Tuttavia, una zona cuscinetto è ancora in
programma, anche se la Russia non si lascerà distrarre.
– Per
quanto riguarda questi territori adiacenti, si tratta di un tentativo di
distrarre la nostra attenzione dalle possibili aree chiave dell’offensiva
principale che stanno considerando, un tentativo di costringerci a dislocare le
unità che abbiamo accumulato in altre aree di combattimento, e così via…
Ho già
detto che se questi attacchi ai nostri territori adiacenti continueranno, prenderemo
in considerazione la possibilità di creare una zona cuscinetto nel territorio
ucraino.
Dovrebbero sapere a cosa può portare.
Usiamo armi di alta precisione a lungo raggio
contro obiettivi militari e stiamo avendo successo in tutte queste aree”.
La Russia non sta pensando a un primo attacco
nucleare e userà queste armi solo per autodifesa.
– “Ho
già detto che l’uso del deterrente finale è possibile solo in caso di minaccia
allo Stato russo.
In questo caso, useremo certamente tutte le
forze e i mezzi a disposizione dello Stato russo.
Su
questo non ci sono dubbi”.
Incontro
con i capi delegazione degli Stati africani.
La Russia continuerà a parlare con l’Ucraina
nonostante la possibilità che si ritiri da altri accordi.
– La
Russia non ha mai rifiutato alcun colloquio…
La Turchia ha ospitato tutta una serie di
colloqui tra la Russia e l’Ucraina per elaborare misure di rafforzamento della
fiducia reciproca, che lei ha appena menzionato, e per redigere il testo del
trattato…
Ma
dopo che abbiamo ritirato le nostre forze da Kiev, come avevamo promesso, le
autorità di Kiev, proprio come fanno di solito i loro padroni, hanno gettato il
tutto nella pattumiera della storia, diciamo in modo delicato, cercherò di
evitare qualsiasi espressione scurrile.
Lo
hanno rifiutato.
Dove
sono le garanzie che non si ritireranno da altri accordi?
Ma
anche in queste circostanze, non abbiamo mai rifiutato di tenere colloqui”.
Il
gioco finale previsto da Putin.
Nei
sotto capitoli precedenti sono stati evidenziati gli estratti più rilevanti
delle ultime apparizioni del Presidente Putin sui media per quanto riguarda le
sue intenzioni finali.
Al momento, è chiaramente riluttante a
inasprire il conflitto con un secondo round di mobilitazione, che potrebbe precedere
una nuova marcia su Kiev.
Per il momento, tuttavia, non è necessario,
dal momento che ha già raggiunto lo scopo militare di consolidare le conquiste
della Russia a est e a sud, anche se lo scopo politico di raggiungere un
accordo di pace è fallito.
La
smilitarizzazione dell’Ucraina rimane uno degli obiettivi più importanti del
Presidente Putin, che ha dichiarato che sta procedendo come dimostrato dalla
distruzione del suo complesso militare-industriale.
Sebbene il nemico continui ad attaccare i
confini della Russia prima del 2014, egli ritiene che ciò sia finalizzato a
distogliere le forze del suo Paese dal fronte, motivo per cui esita a
ritagliare una zona cuscinetto in quel paese in questo momento, anche se ciò
rimane una possibilità e potrebbe essere raggiunto solo con i missili invece
che con l’invio di truppe.
La
“gara logistica” / “guerra di logoramento” tra NATO e Russia, che il Segretario
Generale “Stoltenberg” ha finalmente riconosciuto a metà febbraio, sta andando
a favore di Mosca, come dimostra la produzione militare-industriale che è
aumentata di 2,7-10 volte a seconda del prodotto.
L’Occidente
è già a corto di forniture per l’Ucraina e per questo motivo sta ricorrendo
all’invio di uranio impoverito, ha osservato il Presidente Putin, dal momento
che non ha letteralmente più altre munizioni.
Egli
ritiene che le suddette dinamiche strategico-militari potrebbero combinarsi con
i problemi economici dell’UE, che si stanno aggravando, per rendere impossibile
per la NATO sconfiggere la Russia nella “gara della logistica”/”guerra di
logoramento”.
In tal
caso, i colloqui di pace potrebbero riprendere alla fine della controffensiva
di Kiev sostenuta dalla NATO, durante la quale il progetto di trattato con
l’Ucraina, ormai defunto, potrebbe essere rilanciato come base per facilitare
una rapida risoluzione del conflitto.
Questo
scenario è possibile solo se gli Stati Uniti interromperanno la fornitura di
armi all’Ucraina, cosa che il presidente della Commissione Affari Esteri della
Camera, “Michael McCaul”, ha dichiarato essere possibile se la controffensiva
dovesse fallire, poiché il Congresso potrebbe non essere in grado di approvare
un pacchetto di spesa supplementare per sostenere questi aiuti.
Tuttavia,
il “mission creep” degli Stati Uniti potrebbe portare a un incidente con la
Russia nei cieli, in mare e/o per quanto riguarda la base degli F-16 promessi
all’Ucraina in un Paese della NATO prima che ciò accada.
Questo
potrebbe anche essere intenzionale se l’”élite liberal-globalista” diventasse
abbastanza disperata da inasprire il conflitto se pensasse che così facendo
potrebbe costringere la Russia ad abbandonare le sue regioni appena unificate,
aiutandola così a “salvare la faccia” davanti agli elettori se accettasse un accordo
di pace.
Se
dovesse emergere uno stallo nucleare simile a quello del 1962 a seguito di una
provocazione degli Stati Uniti, il Presidente Putin probabilmente lo
considererebbe un bluff, ma userebbe comunque le armi nucleari solo per
autodifesa, anziché per un primo attacco come suggerito da un autorevole
esperto.
Conclusioni.
Il
Presidente Putin ritiene che le probabilità favoriscano almeno il congelamento
della Linea di Contatto (LOC) attraverso un cessate il fuoco, se non la vera e
propria fine del conflitto, facendo rivivere l’ormai defunto progetto di
trattato con l’Ucraina dell’anno scorso, anche se con modifiche che riflettano
la nuova realtà di Kiev che ha perso altre quattro regioni.
C’è
anche la possibilità di trovare una soluzione diplomatico-giuridica creativa
per fare della “LOC” il nuovo confine internazionale senza violare il divieto
della Costituzione russa di cedere territori.
A
parte le speculazioni sui dettagli diabolici di un trattato di pace, il punto è
che queste discussioni potrebbero iniziare letteralmente il giorno dopo che gli
Stati Uniti avranno tagliato le forniture di armi a Kiev, nel caso in cui
quest’ultima dovesse tacitamente cedere la vittoria alla Russia nella “gara
logistica”/”guerra di logoramento” dopo la fine della controffensiva.
L’élite liberal-globalista al potere potrebbe
invece intensificare l’escalation per disperazione, al fine di ottenere
concessioni sensibili da parte della Russia per “salvare la faccia” di fronte
agli elettori se accettano un accordo di pace, il che potrebbe tuttavia portare
a uno stallo.
In
ogni caso, il Presidente Putin non ha attualmente in programma un’escalation
della Russia nel conflitto, come dimostra la sua esclusione di un secondo round
di mobilitazione, la sua riluttanza a ritagliare una zona cuscinetto e il suo
rifiuto di rendere pubblica ogni risposta al superamento delle “linee rosse”
del suo Paese.
In
questo momento, sta scommettendo che la fallita controffensiva di Kiev, i
problemi economici dell’UE e le scorte esaurite della NATO si combineranno per
far rivivere la bozza di trattato dell’anno scorso, ormai defunta, il che è in
realtà abbastanza ragionevole.
(Korybo - substack.com)
Non
Fate Finta di Niente e…
Leggete!
Conoscenzealconfine.it
– (3 Luglio 2023) - Stefano Moretti – ci dice:
Tanto
per non dimenticare… Per chi invece ancora oggi non sa… forse è venuto il
momento di sapere… la Verità!
Giovanni,
50 anni in perfetta salute, una sera tornando a casa si sente un po’ stanco.
Si
misura la febbre: 40.
Prende
una tachipirina e va a letto. La mattina misura di nuovo: sempre 40.
Ma sta
bene.
Continua con la Tachipirina. Dopo 2 giorni
stessa situazione, sta bene ma la febbre non scende.
Seppur
controvoglia, fa il tampone e risulta positivo.
Vista
la febbre, dicono, meglio un ricovero.
Arriva
in ospedale con le sue gambe, continuando a stare bene.
Saturimetria:
dicono che c’è poco ossigeno, lo mettono in
una stanza con altri tre con le maschere per l’ossigeno, gliene mettono una
anche a lui.
Lui
dice che respira bene e non ha bisogno, i sanitari gli mettono una flebo,
dicendogli che quello è il loro lavoro.
Gli
Tolgono il Telefono…
Dopo
la flebo si sente debole e stanco, chiede perché… e un’infermiera, l’unica con
cui avrà un rapporto “normale”, gli dice che lo hanno sedato.
Iniziano
a girargli i coglioni e appena arriva il medico di turno chiede il perché del
sedativo.
Il
medico risponde che quello è il loro lavoro, e che deve stare calmo.
Chiede
di vedere la moglie e gli dicono che non è possibile…
Chiede
il Telefono ma non glielo danno…
Settimo
giorno, sempre più debole, sempre più solo.
Nel
frattempo due suoi compagni di stanza crepano.
L’ottavo
giorno, arrivano due energumeni, lo sedano e sostituiscono la maschera ad
ossigeno con un casco.
Inizia una terribile esperienza, col facciale
si sente poco e si appanna.
Glielo
tolgono, pochi minuti e solo per mangiare.
Non
bisogna essere medici per sapere che l’ossigeno continuato brucia gli alveoli.
Rivede
l’infermiera che gli sussurra di andarsene da lì se no lo ammazzano…
Non ha
contatti col mondo da 10 giorni, la moglie ha provato a vederlo ma è stata
respinta.
Non ha i numeri telefonici degli amici, è
sola.
Giovanni
si arrabbia, si strappa il casco, lo lancia addosso ad un infermiere, si toglie
la flebo e inizia ad urlare che lo stanno ammazzando e che se ne vuole andare.
Chiamano il primario del reparto che lo
minaccia di intubarlo, Giovanni alza la voce con le ultime energie che gli
restano… è
alto e grosso, chiede i vestiti.
Li ottiene si veste, e se ne va.
Nell’androne
chiama la moglie che corre a prenderlo. Prima di uscire saluta il terzo
compagno di stanza che piange e gli chiede cosa fare: “strappati il casco e vattene, se no
ti ammazzano come gli altri”.
Quando
è entrato in ospedale era in perfette condizioni, a parte la febbre, pesava 92
kg, dopo 10 giorni non ha recuperato completamente la sua precedente situazione
fisica.
Quanti
Giovanni sono morti da soli in ospedale?
(Stefano
Moretti)
(facebook.com/StefanoMorettiVastoAbruzzo).
Noam
Chomsky e Daniel Ellsberg,
i
giganti buoni americani.
Marx21.it
– (26 Giugno 2023) – David Colatoni – ci dice:
(you-ng.it)
La
recente morte di Daniel Ellsberg (fra le altre cose grande e importante
difensore di Julian Assange) è stata una grave perdita.
Merita di essere ricordato il suo lavoro per
la verità e contro la guerra.
Lo
facciamo riproponendo questo articolo.
Noam
Chomsky e Daniel Ellsberg:
eccoli
durante una recentissima conferenza su You Tube.
Quasi 90 anni “Noam” e 87 “Dan”.
Sapete bene che razza di eroe omerico sia
stato “Dan”, che è un economista e attivista politico, ed era un geniale
esperto analista militare che viaggiava negli aerei presidenziali, finché non
decise di dare alla Stampa i “Pentagon’s Paper”,
lo studio super segreto fatto fare dall’allora
Segretario della difesa McNamara sulla storia del coinvolgimento americano in
Vietnam, uno studio di 7000 pagine che mostrava che da Truman a Nixon passando
per Eisenhower e Kennedy, i governi USA avevano sempre mentito agli elettori
rispetto al Vietnam su tutto e che l’escalation militare che costò oltre 2
milioni di vietnamiti e quasi 60.000 americani
morti ammazzati, era stata pianificata da
sempre.
La
vicenda è raccontata nel recente film “The Post”di Spielberg e in documentario
del 2009 “The most dangerous man in America”.
Questa
scelta di vita di “Ellsberg”, che aveva comportato che da “insider dell’esecutivo” che poteva
scambiare opinioni con i numeri uno del governo americano e persino con il Presidente stesso e avere
accesso a informazioni strategiche super riservate, agli occhi
dell’establishment si fosse
improvvisamente e inaspettatamente trasformato “nell’uomo più pericoloso d’America”
come lo aveva definito Kissinger, (il quale pur
non potendo mai sperare di diventare presidente degli USA, perché nato in
Germania, fu una delle eminenze grigie di diversi presidenti americani), ebbe dunque l’effetto di dare la spallata finale al
consenso sempre più basso che questa guerra aveva presso l’opinione pubblica americana e
mondiale e indirettamente procurò
l’impeachment di Nixon per i reati connessi allo scandalo Watergate e che costò a Nixon la presidenza
stessa.
L’occasione
della conferenza dei due è in parte data dalla pubblicazione dell’ultimo libro
di “Ellsberg” , “The Doomsday Machine”: “Confessions of a Nuclear War Planner”.
Ellsberg
si era laureato con una tesi sui criteri che indirizzano la scelta rispetto
alla teoria della utilità attesa, tanto che i suoi studi erano sfociati nella
concettualizzazione di un paradosso conosciuto come paradosso di
“Ellsberg”, l’applicazione di questo tipo di analisi e di questo metodi decisionali comprendiamo essere molto
indicati nella situazione del confronto tra due superpotenze nucleari, perché i meccanismi delle scelte molto simili
a quelle che si verificano in un gioco stanno anche alla base di procedure di
interpretazione di situazioni critiche in caso di allarmi nucleari i quali sono
concepiti per prevenire una intenzione di attacco nucleare nemico anticipandola
a quel punto con un first strike,
la
cosa diventa estremamente vicina a un gioco d’azzardo perché dovendo andare ad intercettare delle
intenzioni il rischio è quello di scatenare un conflitto nucleare che
distruggerebbe la civiltà storica contemporanea magari sulla base di un totale
errore di interpretazione.
Ecco
perché gli studi e la preparazione di “Ellsberg” gli avevano guadagnato lavoro
nelle alte sfere militari come pianificatore di guerra nucleare.
Il
mondo è stato almeno un paio di volte sull’orlo di un tragico incidente
nucleare militare.
Nel
1983” Stanislav Petrov” colonnello sovietico al comando del bunker
Serpukhov-15, sul confine occidentale dell’Urss, era incaricato di monitorare lo spazio aereo russo e lanciare l’allarme in caso di intenzione di
attacchi nucleari americani.
Il bunker ospitava il gioiello tecnologico sovietico:
il Krokus.
Un sistema informatico che monitorava le
attività missilistiche americane di tutto il mondo.
La
sera del 26 settembre il sistema si accese prevenendo l’arrivo di 5 missili
nucleari americani sul suolo sovietico in pochi minuti.
Il colonnello avrebbe dovuto lanciare prima
ancora che toccassero terra la rappresaglia sovietica lanciando centinaia di
missili nucleari verso gli USA.
Ragionando
che se gli USA avevano veramente deciso un first strike nucleare lo avrebbero
fatto lanciando centinaia di testate e non 5 missili, si assunse la tremenda
responsabilità di interpretare, correttamente, l’allarme come un errore del
sistema.
Altri
errori del genere in cui l’umanità ignara è stata sul punto di essere
cancellata sono accaduti molte altre volte, nel 1962 il capitano “William
Bassett” si era trovato davanti a uno scenario simile e egualmente si era
rifiutato di seguire il protocollo di rappresaglia nucleare.
Ecco
che torniamo alla teoria delle scelte di “Ellsberg” in campo di confronto
nucleare.
Cosi “Ellsberg”
quando aveva deciso di passare dalla parte della pace non aveva solo copiato i” Pentagon’ s Paper” ma anche migliaia di pagine che
riguardavano gli scenari di conflitto nucleari che i pazzi del pentagono
avevano pianificato, con scenari che prevedevano centinaia di milioni di morti.
Il suo
libro ultimo, che è a detta di “Noam Chomsky” davvero scioccante e da leggere,
e che spero che qualche grande casa editrice come” La Feltrinelli” per esempio
possa al più presto tradurre in Italia, racconta di queste cose, racconta di
come il potere di sganciare un bomba atomica sia infine anche nelle mani dei
comandanti dei bombardieri strategici.
“Ellsberg”
fu invece baciato dalla fortuna.
Trafugando
quei documenti e mettendoli a disposizione della stampa infatti aveva commesso
contro lo Stato reati per oltre 100 anni di galera.
Sì
salvò solo grazie al fatto che gli sgherri di Nixon, i famosi idraulici,
commettendo vari reati in cerca di qualsiasi elemento che potesse gettare fango sulla immagine pubblica di “Ellsberg”
inquinarono il processo alterando le prove e i viziando i procedimenti, emerse anche un tentativo di corruzione quasi
compiuto del giudice stesso che perciò si affretto a dichiarare una intenzione
della corte a non procedere contro “Ellsberg”
che comunque aveva messo in conto di andare certamente in galera e che da governativo e da ex ufficiale dei Marines
convinto “cold warrior” come tanti elementi dello Stato a quei tempi, fu
convertito a uomo di pace, e all’attivismo, folgorato a questa vocazione che
perseguirà per tutta la vita, dall’esempio di un attivista renitente e seguendo
con ciò l’esempio di molti giovani americani
che renitenti alla chiamata alle armi
si erano fatti arrestare, di cui il più celebre era stato certamente il campione
in carica dei pesi massimi Mohamed Ali, che oltre a guadagnare la galera aveva
consapevolmente rinunciato al titolo
mondiale pur di non combattere contro un popolo che non gli aveva fatto nulla.
Ed
ecco “Noam Chomsky”, gigante intellettuale, filosofo, fondatore della
grammatica generativo-trasformazionale, ritenuta tra i più importanti contributi alla linguistica del XX° secolo, e inoltre grande attivista e
politico da sempre, una vera vertigine di
sapere.
La
donna che li presenta al pubblico nella conferenza all’Università dell’Arizona
sul tema della politica nucleare e della guerra, in maniera davvero splendida,
dice, ecco abbiamo due intellettuali che sono diventati entrambi un aggettivo.
Ed è pazzesco questo spettacolo di mente e
cuore che sono questi due grandi vecchi americani.
Nel
video che il lettore potrà leggere nell’articolo, i due, nonostante un’
amicizia lunga 40 anni nata all’indomani dell’affaire “Pentagon’s Paper”, si
trovano a parlare insieme per la prima
volta a una conferenza.
Guardando
insieme” Chomsky” e “Ellsberg” in questa conferenza sono estasiato ma
contemporaneamente anche terribilmente affranto perché essi hanno vissuto una immensa e lunghissima vita,
e sono ormai come due navi sacre all’orizzonte, sul punto di sparire.
L’umanità non potrà goderne e beneficiare
della loro sapienza direttamente da loro per un tempo altrettanto lungo di come
abbiamo avuto il privilegio di fare finora.
Dovremmo
esserne consapevoli e concentrarci con loro in un rapporto ancora più
essenziale.
Ai
miei occhi sono diventati improvvisamente e urgentemente preziosi: come la luce
del sole prima del tramonto.
Quella
luce che dobbiamo sfruttare per guardare e per ricordare nella tenebra della
notte dove stanno e come sono fatte le cose, specialmente quelle pericolose che
potrebbero minacciare la nostra esistenza.
Forse
la recente perdita della mia ultima nonna vivente, “Dinka”, mio oracolo
narrante a cui domandare ogni volta della “storia della seconda guerra mondiale”,
giunta ventenne a Roma dalla Croazia a
piedi, in treno e su carri, da sola, proprio l’8 settembre 1943, e anche la scomparsa ancor più recente di mio padre, che era un pittore e che fu un
bambino testimone di quegli orrori, mi hanno reso, come dire?,
ipersensibile alla luce delle persone che vanno verso
il tramonto ed emanano quella splendida aurea.
E mi ha fatto comprendere, a mie amare spese, cosa
vuole dire restare con il sacco pieno di domande che non furono poste in tempo
e mai più potranno essere risolte da coloro a cui non chiedemmo abbastanza.
Ovviamente
essi sono immortali.
Spariranno
a un certo momento agli occhi dei contemporanei perché la prua della loro
navigazione entrerà nel futuro dove solo pochissimi avranno la ventura di
seguirli.
E
quelli che nasceranno invece andranno loro incontro come ogni generazione va
incontro a Gesù, o a Giordano Bruno, o a Ulisse o a Erasmo da Rotterdam, a
Spinoza, a Raffaello.
La
possibilità che io potrò stringere le loro mani è estremamente remota, sebbene
mi animi una indomita speranza.
Andrò infatti per la prima volta negli USA a
Maggio grazie a un concerto di mia moglie, la soprano russa Natalia Pavlova,
che si terrà alla Carnegie Hall di New
York City , il 30 maggio 2019 , con la
pianista “Cristiana Pegoraro” e il violoncellista “George Gusev,” essi
eseguiranno lì una opera contemporanea
del compositore messicano “Venus Rey Jr”. scritta sulle poesie delle Poeta
Russo-americana “Vera Pavlova”.
Dunque
sbarcherò li, approderò nella terra di “Noam” e “Dan”.
E
ovviamente invocherò divinità Apache e Sioux e divinità “Lenapi,” “Munsee” e “Unami”,
affinché mi propizino di riuscire ad incontrarli.
Farò
di tutto per incrociarli.
Vorrei
che capissimo quanto essi sono importanti per noi tutti, quanto sia determinante
avere queste figure nei nostri orizzonti intellettuali e morali, quale immensa
opportunità sia per ognuno di noi poter ancora prendere un aereo e andare a
stringere per un momento quelle loro mani di saggi ed ascoltare le loro parole,
e magari fare una domanda, chiedere.
Stringere
le mani di questi uomini così importanti, che sono riusciti a confrontare la
loro statura morale con la titanica amorale di questo tempo che annichilisce,
potrebbe semplicemente essere meraviglioso.
Il
modo con cui si danno da fare, nonostante
l’età del vigore sia lontana ormai,
nel prendersi cura della cosa pubblica in una epoca in cui la cosa
pubblica ha assunto una dimensione trascendente nel suo essersi
trasformata in un potere globale,
sovrannazionale e sovra-istituzionale quindi che sfugge ai confronti politici territoriali con le persone reali , alla
misura concreta delle vite umane negli spazi, ci rimette in grado di
riprenderci dal senso di impotenza che
proviamo davanti alle
liquefazione sociale baumaniana, ci sveglia dall’incubo ipnotico che ci inocula un senso di impotenza
che grazie alla loro indomita passione civile e politica, comprendiamo essere irreale, essi ci dicono di
muoverci, ci avvertono che possiamo ancora muoverci come persone politiche e
produrre delle differenze che invece siamo portati a credere di non poter più
produrre.
Ci dimostrano con la pacata autorevolezza con
cui parlano al potere che l’uomo può sempre parlare con “auctoritas” al proprio
tempo e contribuire a determinarne la direzione.
Essi
sono la voce attraverso cui ancora ci parlano gli antenati Socrate e Platone.
Gli
anni che sono restati loro da vivere, oggettivamente, sono pochissimi.
La loro vita è sulla linea dell’orizzonte dove
lo sguardo non distingue più le cose nella forma abituale in cui conosce gli
enti e le cose del mondo, oltre si apre il mistero che anche ci ha spinti nella
luce dell’esistenza.
Questi
due uomini sono, tra le” public figure” di questa epoca, gli uomini più straordinari e
straordinariamente umani che abbia visto in questo secolo.
Certo in altre epoche ho visto Gesù, Siddharta,
ho visto Tommaso e sant’Agostino, ma in altre epoche.
Detesto
il fanatismo ma penso che l’adorazione sia un importante sentimento umano.
Il
fanatismo è l’adorazione di un granchio, e prendere un granchio, imbarazzante patetico e nocivo, l’adorazione
motivata da una sostanza può invece
sollevare sentimenti in grado di “spostare l’asse terrestre” e far crollare
regni di tenebra. Cosi adorarono dei vecchi pastori un neonato e cosi i giovani
dovrebbero adorare dei luminosi morituri.
Passo
ore ad ascoltare queste voci monumentali, ad assorbire le loro idee e le loro
conoscenze, e a conformare la creta del mio essere al
loro modello, anche se i risultati possono essere quanto mai goffi
e comici nel mio caso, non c’è nulla che
valga di più la pena che tentare di scolpirsi guardando simili uomini.
La
voce eroica di “Dan Ellsberg” è ancora veloce, combattiva e agile, danzante come
le caviglie da peso massimo di “Mohamed Ali Cassius clay”, i suoi occhi acuti
come falchi si sono incaricati di capire le parole altrui al posto delle
orecchie diventate mezze sorde, che guardano il labiale come un raggio laser
misurando il dettaglio, appena qualche
decimo di secondo di latenza prima che la mente abbia elaborato la
lettura e già la risposta va
veloce, e portano ancora quei suoi spettacolari vividissimi occhi lo slancio immutato del coraggio di quando
decise nel 1971 che era disposto, gettando a mare il potere supremo a cui stava
vicino da analista militare ed ex
ufficiale dei marines con due anni di turno in Vietnam, di pagare con la
libertà pur di fare qualcosa per avvicinare la fine della guerra del Vietnam
dando al mondo i “Pentagon’s Paper”.
La
voce oracolare di “Noam”, platonicamente cavernosa, vibrante di una
consapevolezza che si è misurata chissà
quante volte con il mondo, ha raggiunto una autorevolezza imperturbabile e
indiscutibile con la propria conoscenza,
e che “Dan” ascolta con gli occhi e con un rispetto da antilope.
“Noam” ascolta “Dan” con altrettanta
ammirazione, anzi quasi con un
laico stupore, ovvio:
la sua azione arendtiana di svelare i
documenti segreti in piena guerra, l’agire
“inter homine hesse”, unica cosa secondo la filosofa, nella cui
libreria, conservata in un archivio, ci
sono i “pentagon’s paper “e che ad essi ha dedicato uno scritto – “La menzogna in politica” – che rivela il
“chi” si è, ha fatto compiere uno scarto
alla storia.
Il pensiero e l’azione siedono” inter pares”
in queste due poltrone.
In un
altro video,” Best Speech” di “Noam” del 2018,
Noam dice ai suoi privilegiati studenti che avrebbe potuto parlare di
molte cose ma che alle fine non c’è che da pensare sulla domanda del secolo:
sopravvivrà
l’umanità, con la sua follia autodistruttiva?
E
parla dell’ultimo libro di” Dan Ellsberg” “ la macchina del giudizio”, sul
pericolo della fine nucleare.
È notevole il nitore e l’altezza morale ed
intellettuale contenuti nella umanità con cui Noam dice ai suoi studenti:
“come
dice Dan”, consigliandoli di leggere il suo libro più volte durante la
conferenza.
E dice
ai suoi studenti che questa domanda avrà una risposta a breve, che saranno i
suoi studenti, loro stessi, questa generazione, a dover dare questa risposta, a
risolvere l’enigma di questa terribile sfinge o questa risposta sarà comunque
data nel peggiore dei modi, in forma di una sentenza capitale comminata alla
intera umanità.
A colpevoli e innocenti.
Chiunque
avrebbe timore del ridicolo a dire quello che dicono, a fare quello che hanno
fatto loro in questa epoca.
“Chomsky”
solleva il dubbio conversando con i ragazzi di una vera e propria patologia di
specie, riguardo al folle comportamento umano che persevera diabolicamente a
grandi falcate verso la autodistruzione.
Chiunque
avrebbe problemi a essere così.
La
maggior parte di noi è scivolata nelle divise e negli stivali del conformismo
sociale senza nemmeno accorgersene.
Insomma siamo sull’orlo della fine.
Della fine nucleare.
Della
fine ecologica, questo ci annunciano questi due vecchi che non hanno nulla da
temere né da guadagnare nel dirci salvatevi, perché hanno già vissuto la loro
lunga e splendida vita.
Mancano
due minuti alla mezzanotte atomica.
Esattamente
come alla fine di un film mozzafiato che sembra finire malissimo, ma gli
spettatori non hanno nemmeno un filo di adrenalina, vanno verso l’ecatombe in
fila, in stato di trance assente, dietro a un “black Friday” qualunque,
sperando di tornare a casa con un qualche apparato di intrattenimento
elettronico qualsiasi, oppure inguainati
in un qualsiasi smoking di un qualsiasi successo che era necessario alla
riproduzione del sistema di questa follia autodistruttiva.
Con
l’anima ustionata da brucianti pacche sulla schiena che si potrebbero rivelare
essere state una ultima spinta sull’orlo del baratro.
Intanto
“Chomsky” e “Ellsberg” usano, con il
caldissimo sangue freddo degli eroi, il
tempo loro rimasto a disposizione per dare istruzioni ai ragazzi che dovranno tentare un miracolo:
affidano
al loro amore e al loro entusiasmo in cui essi hanno arato e seminato il genio,
la missione di salvare la terra, di transitare la vita umana nel futuro,
tentando con acume, creatività e rigore
morale di neutralizzare le migliaia di
trappole che la follia autodistruttiva inumana ha innescato e piazzato in
agguato ovunque.
In agguato basterebbe immaginare gli
incidenti che ci sono possibili da
accadere, in questa selva di quindicimila ordigni nucleari armati esistenti
oggi, a far venire i capelli bianchi e
un’aria da spettri, a pensarci davvero.
“Noam”
il saggio, parla di mano divina intervenuta a sventare fino adesso la fine, più
che di mera fortuna.
Concludendo
questa meditazione mi viene in mente la bellezza dell’amore di “Patricia Marx”
che “Dan Ellsberg” si è sudato e guadagnato come un cavaliere medioevale,
mettendosi in discussione e ricostruendosi completamente nuovo per diventarne
degno, disarcionando e ferendo gravemente il drago che lo aveva dominato fino a
farlo diventare uno dei suoi più intimi insider.
Non so
che uomo potrei essere oggi guardandomi intorno se il mio sguardo non incrociasse
la dolcezza nobile di questi eroi quasi centenari, di questi padri che abbiamo
ancora la fortuna di sentire parlare accanto a noi e alla cui assenza dobbiamo
prepararci ad affrontare una solitudine dolorosa che può essere redenta solo
nella speranza che il loro fuoco abbia già preso ad ardere chissà dove nello
sguardo di quanti più giovani possibile che da essi lo abbiano ricevuto come
eredità.
Vorrei
passare una notte con loro, una lattina di birra ghiacciata in mano
ascoltandoli parlare, e poi restare come un nipote a dormire tra questi due
vecchi titani, a suon di scorregge, racconti, pensieri e qualche frase solenne.
Goodnight
“Dan”, sleep well “Noam”.
A domani.
(a
Natasha)
GLOBALIZZAZIONE
E GLOBAL GOVERNANCE.
Treccani.it
– enciclopedia italiana – out brain – (10-4-2023) – ci dice:
– La
globalizzazione. La governance globale. Scenari futuri.
La
globalizzazione.
– La globalizzazione può essere definita come
un fenomeno caratterizzato da tre macro elementi, tra di essi concatenati.
In primo luogo, è una dinamica che va oltre il tradizionale sistema
di Stati di tipo vestfaliano, ovverosia oltrepassa lo Stato-centrismo.
In secondo luogo, risulta animata da un’ampia serie di attori tra cui
quelli privati, siano essi dediti tanto al profitto quanto ai beni pubblici,
che occupano uno spazio politico significativo.
Infine, si struttura su una crescente
interdipendenza tra i vari attori del sistema.
Assumendo
la concettualizzazione di globalizzazione come aumento del globalismo fornita
da” Robert O. Keohane” e J”oseph S. Nye”, dove globalismo sta per «uno stato
del mondo che implica reti di interdipendenza su distanze intercontinentali» (Keohane, Nye 2000, p. 2),
la globalizzazione può essere quindi
sinteticamente intesa come un processo di integrazione multidimensionale che si
struttura attraverso la creazione di reti transnazionali e che tende a
diffondere il potere materiale e cognitivo tra una pluralità di attori anche
non governativi.
Le
letture della globalizzazione si differenziano essenzialmente per il loro
riferimento teorico di fondo.
Il
dibattito è animato dalle teorie classiche delle relazioni internazionali che
hanno formulato interpretazioni alternative del fenomeno.
L’interpretazione della globalizzazione più
accreditata da un punto di vista teorico è quella liberale secondo la quale le trasformazioni
globali andrebbero viste in relazione all’estensione della modernità guidata
dal mercato, fenomeno positivo in quanto portatore di sviluppo economico e
democrazia.
La maggiore interpretazione alternativa al liberalismo
è quella della scuola realista secondo la quale è la lotta per il potere che
spiega il verificarsi della globalizzazione.
Da
questo punto di vista, la globalizzazione non sarebbe null’altro che un progetto
di egemonia mondiale attuato dalle grandi potenze occidentali, in primis dagli
Stati Uniti.
Una
terza linea interpretativa è quella marxista secondo la quale la globalizzazione
sarebbe in ultima analisi lo stadio (finale) dell’estensione capitalistica che
non trovando più sufficienti risorse all’interno del mercato nazionale deve di
necessità allargare il proprio orizzonte su scala internazionale e mondiale.
I
processi di globalizzazione generano però anche delle resistenze.
In questo senso, la teoria neo gramsciana è stata
notevolmente sviluppata per leggere i movimenti di protesta contro la
globalizzazione che si sono sviluppati negli ultimi decenni.
Un’interpretazione
che ha infine riscosso un notevole successo negli ultimi anni è quella costruttivista
secondo la
quale la globalizzazione sarebbe soprattutto il prodotto di una trasformazione della
costruzione mentale del ‘mondo globale’.
Particolarmente
importanti sono da questo punto di vista tutte quelle azioni che
contribuiscono a diffondere una nuova lettura di ciò che è legittimo a livello
internazionale e mondiale.
La
cosiddetta politica del cambiamento delle norme diventa quindi centrale per capire
come il mondo si sta trasformando e perché.
In
termini di orientamenti politici, l’epoca della globalizzazione sta svelando una nuova
costellazione politica che può difficilmente essere spiegata con le vecchie
categorie della sinistra o della destra.
I concetti che ci hanno aiutato a dar senso
all’esperienza politica di gran parte del 20° sec. sono ora svuotati della loro
forza euristica.
I tradizionali principi associati alla
comprensione della politica di destra o di sinistra stanno lasciando il campo a
un nuovo cleavage che riguarda l’attitudine nei confronti della
globalizzazione.
È con riferimento al posizionamento politico rispetto
a questioni di policy centrali per la globalizzazione, come l’integrazione dei
mercati, la delega di sovranità, la partecipazione a organizzazioni regionali,
ma anche all’accettazione delle politiche sovranazionali ortodosse e
all’adozione di standard ‘universali’, che noi possiamo meglio capire le
divisioni di oggi, il campo sul quale si gioca la partita politica di
quest’epoca.
In
questo senso, alla tradizionale distinzione tra destra e sinistra si sovrappone
oggi il “nuovo cleavage” pro o contro la globalizzazione.
E si
deve di conseguenza distinguere tra una destra globalista e una destra
localista, così come differenziare tra una sinistra globalista e una sinistra
localista:
tale doppia distinzione aiuta infatti a capire il
perché dei governi centristi e delle “grandi coalizioni globaliste”, e delle “opposizioni
localiste”.
Il fatto poi che oggi prevalgano i governi
centristi globalisti dice molto anche circa l’egemonia politica del globalismo
sul localismo.
La
governance globale. –
La politica nell’era della globalizzazione è
divenuta molto più complessa a motivo dell’intrecciarsi di dinamiche locali a
quelle globali.
Tale
complessità è ben evidenziata dal nuovo quadro istituzionale che ha affiancato
e allo stesso tempo sfidato l’ordine delle Nazioni Unite (v. BRICS e
G7-G8-G20), creando di fatto un sistema di governance globale.
Negli
studi di relazioni internazionali, sulla scia della prospettiva tracciata da James N. Rosenau ed Ernst-Otto
Czempiel,
la governance globale è definita l’insieme di meccanismi di regolamentazione
che funzionano anche se essi non sono emanati da un’autorità ufficiale, ma sono
prodotti dalla proliferazione di reti in un mondo sempre più interdipendente.
La governance globale è vista non come un risultato,
ma come un processo continuo che, a differenza dei regimi, non è mai fisso e non ha un
singolo modello o una singola forma.
Inoltre,
puntando non esclusivamente sulle relazioni intergovernative, essa prevede la partecipazione di
attori di varia natura, sia pubblici sia privati, che ubbidiscono a razionalità
multiple:
in particolare ONG, multinazionali, movimenti
di cittadini, mass media e mercati di capitali globali.
La regolamentazione non è inquadrata in un
corpo di regole prestabilite, ma si fa in maniera congiunta con un gioco
permanente di scambi, conflitti, compromessi, negoziazioni e aggiustamenti
reciproci.
Cinque
tendenze caratterizzano le recenti forme della governance globale:
1) la
fusione dell’ambito nazionale con quello internazionale;
2) l’aumentato ruolo degli attori non statali;
3)
l’emergere della governance privata;
4) il
passaggio a un nuovo modo di ottenere il rispetto delle regole attraverso l’uso
degli standard non coercitivi; e infine
5) la crescente complessità dell’orizzonte
istituzionale.
La governance globale è stata differentemente
interpretata nel corso di questi ultimi anni.
Per
alcuni stiamo assistendo a una forma di neo medievalismo caratterizzato dal proliferare di
molteplici autorità con ambiti giurisdizionali che si sovrappongono solo
parzialmente.
Per altri, la governance globale rappresenta la forma
più avanzata di autoregolamentazione degli affari internazionali nel senso
della privatizzazione delle funzioni pubbliche.
Per
altri, infine, si sta concretizzando una costellazione postnazionale
caratterizzata dalla mancanza di un’autorità centrale, dalla presenza di attori collettivi
altamente organizzati e specializzati (invece di cittadini individuali) e da una differenziazione funzionale tra
gli attori che non sono motivati da un’identità comune e un principio politico
quanto da una “spinta alla risoluzione dei problemi”.
Scenari
futuri. –
Per
quanto riguarda gli scenari che vengono tratteggiati sul futuro della
globalizzazione e della global governance, cinque alternative risultano
particolarmente importanti nel dibattito.
Il
primo scenario, di stampo liberale, vede la globalizzazione come un contesto ormai
inaggirabile nei confronti del quale anche le potenze emergenti dovranno
adottare strategie di adattamento, basate in ultima analisi sui valori liberal-democratici
occidentali.
La globalizzazione sarebbe dunque destinata a
una continua crescita, se non addirittura a una continua accelerazione, che
avrà termine solo quando sarà raggiunta la completa integrazione.
Il
secondo scenario, anch’esso di stampo liberale, ipotizza invece che una volta
raggiunta una certa soglia fisiologica, la globalizzazione rallenterà o
addirittura si fermerà per non mettere in pericolo i risultati di integrazione
fino ad allora raggiunti.
Si
attiveranno quindi delle specie di meccanismi di autocontrollo politico-sociale
che imporranno correttivi alle spinte integrazioniste per calmierarne i costi
sociali.
Il
terzo scenario, di stampo liberale critico, si basa sull’idea che i processi di
globalizzazione non siano di fatto governati e che quindi non si possano
fermare motu proprio:
continueranno a intensificarsi fino a quando i
costi sociali non diverranno insostenibili e daranno spazio politico, secondo
una drammatica dinamica di autoconsunzione, all’emergere di forze nazionaliste,
anti sistemiche o regionaliste che imporranno il ribaltamento della logica
dell’integrazione a favore di un ritorno alla chiusura nazionalista e
isolazionista.
Un
quarto scenario, di stampo realista, sostiene che il futuro sia indirizzato
verso il ritorno alla compartimentalizzazione.
Da un
punto di vista più geopolitico, se è vero che è stata la globalizzazione transatlantica a
offrire opportunità di crescita politica ed emancipazione economica alle
potenze emergenti, è tuttavia sempre più evidente che tale spostamento di potere
dall’Occidente verso l’Oriente sembra mettere in dubbio la tenuta stessa del
sistema e suggerire invece un ritorno a una logica compartimentalizzata di
equilibrio di potenza multipolare su base macroregionale con possibili sviluppi
conflittuali, che potranno porre le basi per la costruzione del prossimo ciclo
espansivo di integrazione globalista.
Il
quinto scenario, infine, presenta un’immagine, di stampo costruttivista, dai
contorni meno definiti:
non
indica né un restringimento né una preservazione delle dinamiche globaliste, ma
una loro trasformazione.
Secondo
tale prospettiva, che è vicina all’idea delle modernità multiple, il presente grado di integrazione
sovranazionale si avvierà su cammini diversi da quelli impostati finora
dall’Occidente, i quali vedranno la formazione di nuove modalità ibride
ispirate a tradizioni politico-culturali non occidentali finora marginalizzate.
È
questo lo scenario secondo cui il consolidamento delle potenze emergenti non porterà
necessariamente a una fase di conflitto per la conquista di una nuova egemonia
globale,
ma piuttosto al formarsi di aree di sviluppo differenziate, alcune delle quali governate secondo
principi estranei al mondo occidentale.
Agenda
Covid fallita: le élite hanno
festeggiato
troppo presto,
la
resistenza passa dall’anti-globalismo.
Presskit.it
– Redazione – Brandon Smith -(9 ottobre 2022) – ci dice:
I
globalisti “hanno molto sopravvalutato l’apatia del pubblico quando si tratta
di autoritarismo”.
Le persone si stanno svegliando l’anti globalismo sta
diventando mainstream.
Questa
la tesi di fondo sostenuta in un articolo da “Brandon Smith”, pubblicato su
“Alt-Market.us. “
“I
globalisti si stavano davvero crogiolando nel bagliore della loro presunta
vittoria.
Pensavano
di tenere noi buzzurri per la collottola e che il loro piano fosse quasi
assicurato.
Ma come ho sostenuto dall’anno scorso, le
élite del denaro potrebbero aver festeggiato un po’ troppo presto.”
“Ho
notato in passato che “i criminali” tendono a vantarsi della loro criminalità
quando credono che non ci sia niente che qualcuno possa fare al riguardo.
Francamente, nel loro narcisismo molti di loro
non possono fare a meno di godersi il momento e far sapere a tutti quanto sono
“superiori” per il resto di noi.
Abbiamo
assistito a molti momenti come questo da parte di elitari all’interno delle
istituzioni globaliste negli ultimi due anni al culmine del pandemonio
pandemico.
C’erano
persone come gli accademici globalisti del “MIT” che proclamavano che “non saremmo mai tornati alla
normalità”
e che avremmo dovuto accettare la perdita di molte delle nostre libertà per il
resto della nostra vita per combattere la diffusione del covid.
C’erano
persone come Klaus Schwab (costruttore di bombe atomiche tattiche in Sud Africa. N.d.R.) che dichiaravano l’inizio del “Great Reset” e
il lancio di quella che la folla di Davos chiama la “4a rivoluzione industriale”.
Ci
sono stati anche MOLTI leader politici come “Joe Biden” che si sono
pavoneggiati sul palco dei media accusando gli oppositori ideologici (per lo
più conservatori) di essere “nemici della democrazia”.
Se la
loro visione di “democrazia” è la tirannia medica e l’espansione forzata del
marxismo culturale, o se la loro idea di democrazia è la cooperazione del
governo con il monopolio delle corporazioni e la cancellazione dei principi
fondanti del nostro paese, allora sì, suppongo di essere davvero un nemico
della “democrazia.”
I globalisti
si stavano davvero crogiolando nel bagliore della loro presunta vittoria.
Pensavano di avere noi contadini per la collottola e che il loro programma
fosse quasi assicurato.
Ma come ho sostenuto dall’anno scorso, le “élite del denaro” potrebbero aver festeggiato un po’
troppo presto.
L’agenda
covid è completamente fallita se l’obiettivo era implementare mandati e
restrizioni di lunga data in tutto il Nord America e in Europa.
Se
vuoi sapere quale sarebbe stato il successo per i globalisti, esamina la Cina
con i suoi infiniti cicli di blocco e i passaporti dei vaccini digitali.
Le
élite volevano quel risultato per l’Occidente e non l’hanno ottenuto.
Ci
sono andati vicini, ma milioni di americani, canadesi ed europei hanno
mantenuto la loro posizione e il costo per costringerci a obbedire sarebbe
stato troppo grande.
Anche “Joe
Biden” ha ammesso apertamente che la pandemia è finita.
Hanno abbandonato i mandati perché sapevano che se
fosse arrivata la guerra, avrebbero perso.
Se l’obiettivo
della fabbrica della paura della pandemia era semplicemente quello di iniettare
nella popolazione i vaccini mRNA, anche qui hanno fallito.
Con molti stati negli Stati Uniti al 40% non vaccinati
(secondo i numeri ufficiali) e molte parti del mondo con grandi popolazioni non
vaccinate, esiste un enorme gruppo di controllo per i vaccini covid.
Se ci
saranno problemi di salute in costante sviluppo associati all’mRNA vax (come la
miocardite), il pubblico saprà cosa li ha causati a causa di questo gruppo di
controllo.
I globalisti avevano bisogno di una
vaccinazione quasi al 100% e non l’hanno ottenuta.
Neanche
vicino.
Non
c’è via di scampo per loro: hanno molto sopravvalutato l’apatia del pubblico
quando si tratta di autoritarismo.
La ribellione è troppo grande e alla fine
saranno ritenuti responsabili delle loro trasgressioni.
Caso
in questione:
le ultime elezioni in Italia hanno portato a
una vittoria schiacciante per la coalizione conservatrice e il nuovo primo
ministro (e prima donna primo ministro), Georgia Meloni, questa settimana ha
pronunciato un entusiasmante discorso di vittoria che ha esposto direttamente
l’invasione dell’estrema sinistra delle nazioni occidentali, il globalismo e la
velenosa collusione con le multinazionali hanno svegliato il silenzio del
dissenso.
Ha chiesto un ritorno alla libertà e qual è
stata la risposta dei media mainstream?
La chiamano “fascista”.
Le
elezioni italiane sono solo una piccola parte di una tendenza in corso, un
risveglio del popolo alle minacce imminenti presentate dai globalisti, e i
globalisti non possono fermarlo.
La
paura tra loro è palpabile.
L’anti-globalismo sta diventando mainstream e
le persone inizieranno a cercare risposte.
Perché
le nostre condizioni economiche sono state così degradate?
Perché stiamo affrontando una crisi
stagflazionistica?
Perché i prezzi di tutto continuano a salire?
Perché
abbiamo quasi perso tutte le nostre libertà civili in nome della lotta contro
un virus con un tasso di mortalità per infezione mediano ufficiale dello 0,23%?
Perché
vengono istituiti controlli inutili sul carbonio nel mezzo di una crisi della
catena di approvvigionamento?
Perché
i politici e le banche stanno peggiorando le cose?
La
protesta pubblica per una resa dei conti sta crescendo e sono le teste dei
globalisti che finiranno sul ceppo.
Tutte le strade verso la distruzione riconducono a
loro e alle politiche che hanno imposto alla popolazione.
Naturalmente,
quando” i criminali “si sentono messi alle strette, a volte appiccano incendi e
prendono ostaggi in un ultimo disperato tentativo di sopravvivere e scivolare
attraverso la rete.
Credo che ci stiamo avvicinando a quel
palcoscenico di questo terribile dramma.
È
importante accettare le condizioni del campo di battaglia così come sono e non
sottovalutare il nemico.
La
verità è che i globalisti hanno mezzi estensivi a loro disposizione per
devastare e hanno già messo in moto alcuni di questi disastri.
Come
ho avvertito molti anni fa (nel lontano 2017 nel mio articolo “The Economic End Game
Continues”), le tensioni con le nazioni orientali vengono utilizzate per sminuire il
ruolo del dollaro USA come valuta di riserva mondiale e come valuta “petro”.
Il
conflitto sta causando anche carenza di risorse e debolezza della catena di
approvvigionamento, per non parlare di una crisi energetica in Europa che ora è
irreversibile con il sabotaggio dei gasdotti Nord.
Sulla
risposta alla crisi globale
si
gioca il futuro dell’umanità.
Editorialedomani.it
- IAN BREMMER – Redazione – (18 agosto 2022) – ci dice:
Mai
prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere
al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione
superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere.
Ma mai
come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che
potrebbero scongiurarla.
Questo
testo è un estratto dal nuovo libro di “Ian Bremmer”, “Il potere della crisi” –
“Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo”, pubblicato da
Egea.
Il
testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in
edicola e in digitale dal 12 agosto 2022.
Viviamo
in un’epoca di straordinarie opportunità.
Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno
avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla
povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone di altri
luoghi, trovare un lavoro, avviare un’impresa, guadagnarsi da vivere, inventare
qualcosa di nuovo, votare, ricevere cure mediche di qualità, attraversare i
confini e offrire ai propri figli gli stessi vantaggi.
Oggi
miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che
potevano vantare i re medievali.
L’inventiva
umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa.
Ma,
come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe.
Le conquiste storiche degli ultimi
cinquant’anni – compresa la più importante, ossia la nascita del primo ceto
medio mondiale – sono minacciate dall’incapacità dei nostri leader di
collaborare per proteggerci dalle malattie infettive, dall’innalzamento dei
mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate di disinformazione tossica, dagli
sconvolgimenti causati dalle tecnologie che sottraggono il lavoro agli esseri
umani, dalla dittatura digitalmente potenziata e dalle nuove forme di guerra.
E
tutto avviene alla velocità della luce.
Per miliardi di anni il nostro pianeta non ha
ospitato alcuna forma di vita intelligente.
Per
milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia
di esseri umani.
Per
altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la
cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire
il progresso.
Poi è
arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla
caccia e alla pesca.
Le ragioni di scambio sono diventate più
complesse, sono state scritte delle regole e create autorità indipendenti
dedite a risolvere le controversie.
Le
popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle
relazioni.
Nel I
secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra.
Nel
corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni.
Grazie alla peste bubbonica nel 1400 c’erano
ancora solo 343 milioni di esseri umani.
Ci
sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione
mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a
sette miliardi.
L’accelerazione dello sviluppo umano è ancora
più evidente nelle nostre tecnologie.
Agli
albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo; nel 1945 gli
Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi. O, ancora,
pensiamo ai progressi della comunicazione.
La
prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e
fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo.
Nel 1989 “Tim Berners-Lee “inventò il “World Wide Web”
e il primo browser.
Oggi
più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.
Pensate
alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel
1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo
per dodici secondi.
Appena
58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni
dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna.
Nel
2021 la NASA ha fatto volare sulla superficie di Marte un drone che trasportava
un pezzo dell’aereo dei fratelli Wright grande come un francobollo.
Ora
facciamo un salto di venticinque anni nel futuro.
Sono
queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci
troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.
La
nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più
velocemente di quanto riusciamo a registrare.
Abbiamo liberato forze che stanno cambiando il
pianeta e sfuggendo al nostro controllo e, se non riusciremo ad accordarci su
come gestirne in maniera saggia le conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò
che gli esseri umani hanno creato.
Siamo
davanti a un bivio.
Come
spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza
precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato: sono
qui con noi in questo preciso momento.
Il cambiamento climatico si intensificherà,
qualunque cosa facciamo, e i suoi effetti verranno avvertiti ovunque.
Gran parte del nostro pianeta sta diventando
ostile alla vita.
Le
nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi
dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le
sofferenze continueranno.
Solo una risposta globale potrà contenere i
danni.
I nostri leader nel mondo della politica,
degli affari e della filantropia devono trovare compromessi, cooperare e
coordinarsi in nuovi modi.
Man
mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più
persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza
globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate.
Alcuni useranno la violenza per manifestare
queste emozioni, e la storia ci insegna che la violenza può generare altra
violenza.
Per i
privilegiati il danno è contenuto finché gli emarginati si limitano a brandire
bastoni e pietre.
O
pistole. O bombe al nitrato d’ammonio.
Ma
quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi
in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale
– più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.
Il
ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti.
Oggi le aziende utilizzano l’intelligenza
artificiale per scoprire modi più efficaci e proficui di cambiare il comportamento
umano, senza chiedersi quale effetto possa avere realmente quella tecnologia
sulle persone che ne diventano dipendenti.
Persino
nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di
milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima
averlo testato.
Vogliamo
sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi
effetti e se causerà effetti collaterali.
Regolamentiamo
il tabacco e gli alcolici.
Vogliamo
impedire ai più giovani di fumare sigarette o di fare uso di narcotici.
Ma
quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e
immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi
o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test. Iniettiamo tutto nel flusso sanguigno
del corpo politico senza neanche pensarci.
Le
nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e
non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò.
Questi
sono problemi che nessuna nazione può risolvere da sola.
E
proprio per questo offrono agli esseri umani un’opportunità senza precedenti: quella di fondere il loro estro
pratico e morale per il bene di tutti.
Guerra
e pandemia aumentano
le
disuguaglianze e minacciano la democrazia
(NICOLA
LACETERA. Economista)
COOPERAZIONE
PRATICA.
Tutte
le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi
ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da
molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.
Vogliamo
un accesso sicuro al cibo e all’acqua.
Vogliamo che la legge ci protegga e che
protegga i nostri beni e i nostri diritti. Vogliamo buone possibilità di
guadagnarci da vivere.
Se perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che
possiamo trovarne un altro.
Tutte
queste cose le vogliamo anche per i nostri figli.
Ma tutto questo dipende sempre più da ciò che
accade molto lontano dai nostri confini.
I confini cambiano, gli imperi sorgono e
cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e
vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri
problemi.
Il
panico spaventa i mercati di tutti i continenti.
Le tempeste infuriano nonostante le barriere
marittime.
Le
malattie si diffondono.
La
criminalità scatena altra criminalità.
I
disordini politici ridisegnano intere società.
Le
guerre cambiano le vite delle persone a migliaia di chilometri di distanza dal
campo di battaglia.
Fino a
quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per
costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico
ecosistema, in senso sia metaforico che letterale.
Questo libro vuole ribadire l’importanza di
una cooperazione pratica su alcune questioni fondamentali.
Non
dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di
valori politici ed economici.
Non
c’è bisogno che tutti lavorino assieme. Non dobbiamo risolvere ogni singolo
problema.
Di
certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.
Ma non
è mai stato più chiaro di così: i cittadini di tutti i paesi del mondo devono
cooperare se vogliono raccogliere i frutti pressoché universali degli obiettivi
che non si possono raggiungere da soli.
Sono
un americano patriottico.
Sono
veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei
cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi.
Ma non
sono un nazionalista.
Non
credo che i nostri valori siano intrinsecamente superiori a quelli degli altri.
L’America
è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un
consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti.
Né
credo che i «valori americani» offrano la soluzione migliore a ogni problema.
La democrazia rappresentativa è, a mio avviso, la
migliore forma di governo, ma nessuna nazione governata da un dittatore se la
passerebbe meglio se tenesse libere elezioni fra tre mesi.
Per
costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma
di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione.
Fu la tirannia del comunismo sovietico a sottrarre
la Russia al feudalesimo zarista nel 1917 e a portare Gagarin in orbita appena
44 anni dopo.
Nessuna
democrazia ha liberato centinaia di milioni di persone dalla povertà come ha
fatto il Partito comunista cinese.
I
comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini
della storia contro persone innocenti.
Ma è
vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è
stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza
attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in
catene.
Non
essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose
sono vere.
Né credo in una marcia ineluttabile verso la
pace, l’uguaglianza, la giustizia o la libertà.
La storia ci insegna che nessuno di questi
risultati è inevitabile.
Eppure, per decine di migliaia di anni abbiamo
sì potenziato la nostra capacità di uccidere, ma anche la nostra capacità di
cooperare.
L’archeologia
ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana.
È stata la collaborazione tra le persone a
gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla
nascita del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle
moderne filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre
conquiste dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da
forme complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.
La
nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze
distruttive che abbiamo messo in moto.
I vari
processi che oggi chiamiamo «globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a
vivere nella miseria, e a un palmo di naso dai ricchi.
Vedendo
nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo
creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le
società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando
milioni di persone.
Il
contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando
i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che
inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento.
Non è
possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una
volta sola.
Bisogna
cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che
condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia
reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a
questi progetti conviene.
Per arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo
accordo con i loro rivali.
Suona
utopistico?
Prima di arrenderci a un facile cinismo,
ricordiamoci che esiste un precedente storico per una visione così grandiosa,
un precedente che ha permesso a miliardi di esseri umani di sopravvivere e
prosperare nel mondo moderno.
Dopo
la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo,
definì «la
guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano che i
futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita distanza
dalle future guerre europee.
I
tentativi di dar vita a una Società delle Nazioni naufragarono, in parte perché
l’America rifiutò di aderirvi, in parte perché Germania, Italia e Giappone ne
uscirono.
Negli
anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e
Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e
che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per
la vita americana.
Per le
potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata
dalla Prima guerra mondiale.
Come
se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate
le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte.
Come
se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare
a incrinare la pace.
Una
generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone.
Quando finì, la Casa Bianca e il Pentagono
capirono finalmente che bisognava investire i soldi dei contribuenti
statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano appena fatto di tutto
per mettere fine allo stile di vita americano.
Quell’investimento
saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la
democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il
commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie.
Le due
guerre mondiali hanno messo a nudo la capacità della nostra specie di inventare
mezzi sempre più efficaci per seminare distruzione, ma hanno anche allargato la
nostra capacità di cooperazione, per il bene dei singoli e per quello comune.
Il
fascismo è stato sconfitto.
Sono crollati imperi e milioni di persone
hanno ottenuto l’indipendenza.
L’umanità
ha dato prova di resilienza.
Sotto
la spinta delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno
compiuto grandi salti in avanti.
Il numero di paesi democratici è aumentato.
In
sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un
nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine:
il conflitto non cesserà fino a che ciascuno
di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri.
Le
Nazioni Unite sono state create per istituzionalizzare l’impegno globale alla
sicurezza, alla dignità e alla prosperità.
La Carta delle Nazioni Unite affida all’organizzazione
il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per risolvere i
problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o
umanitario».
Sono
state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a
sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini,
per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di
stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condividere le risorse
necessarie a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto
internazionale.
La
Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla
razza umana.
È stata anche la crisi di cui avevamo bisogno
per compiere gli sforzi necessari a garantire la sopravvivenza e persino la prosperità della nostra
specie dopo il XX secolo.
Sono
stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i
molteplici fallimenti di queste organizzazioni.
Oggi
riflettono l’equilibrio di potere e di influenza che esisteva nel 1962, ma che
nel 2022 non esiste più.
Ma se
domani le eliminassimo tutte, avremmo bisogno di reinventarle il giorno dopo:
il mondo interdipendente che queste istituzioni
rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura esponenzialmente
maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.
Le
Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano
gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con
altri paesi.
Le
forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati
membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento
della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti.
L’ONU
ha salvato molte vite in molti luoghi e ha fallito in altri, ma i successi
ottenuti hanno fatto del bene a moltissime persone, e merita un encomio solenne
per aver scongiurato una nuova guerra mondiale.
Anche
l’Organizzazione mondiale del commercio crea vantaggi per tutti i paesi che vi
aderiscono.
Le sue
regole non sono in grado di prevenire ogni singola controversia commerciale e
la loro applicazione è lenta e incompleta. Ma, come in ogni terreno di forte
competizione, è di gran lunga preferibile avere regole imperfette e un arbitro
fallibile che non averne affatto.
Il
Fondo monetario internazionale e altri finanziatori multilaterali offrono
un’ancora di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto,
spesso agendo come prestatori di ultima istanza.
Talvolta le condizioni a cui erogano i
prestiti danno adito a polemiche, sospetti e acredini, ma hanno aiutato molte
nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini ad evitare la catastrofe.
Anche
l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella
più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha
generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo.
Molti
cittadini degli stati membri accusano le élite politiche europee di usare le
istituzioni dell’UE per scrivere regole che fanno gli interessi dei governi più
potenti a scapito degli stati più piccoli, che arricchiscono le multinazionali
a scapito delle piccole imprese e che soddisfano i bisogni dei burocrati ai
danni delle libertà individuali.
Ma
l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due
conflitti più distruttivi della storia.
Ha
aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più lungo della loro «gamba
economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Ha
offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare
liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità.
Ha
ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non
poter spendere per investire in questi progetti.
Ha assunto
il comando sia sugli standard climatici sia su quelli relativi alla privacy. Ha
creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli standard di
vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da una crisi.
Ha
fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.
Criticare
tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna.
Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti
gli abitanti del mondo.
Proteggono
i diritti umani. Rendono le guerre meno probabili. Soprattutto, alleggeriscono
il peso sui singoli governi creando una struttura che sostiene la
responsabilità collettiva.
Ogni
anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori
della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno
ispirato e reso necessarie queste organizzazioni.
Non
dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato.
Se lo
faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di
quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.
Oltre
il Covid e la guerra, le malattie infettive tornano a minacciare il mondo.
LA ROTTA
DI COLLISIONE.
Precedentemente
ho illustrato due rischi di collisione.
Il primo è la lotta tra l’America rossa e
quella blu, che ha gravemente danneggiato la vita politica e l’integrità
democratica dell’unica superpotenza mondiale.
Il
secondo è il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e
quella emergente rappresentata dalla Cina.
Il
pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e
le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci
attendono.
Siamo
tutti in rotta di collisione con la prossima inevitabile emergenza sanitaria
globale, con il cambiamento climatico e con il potere che le nuove tecnologie
dirompenti hanno di destabilizzare le nostre vite e le nostre società.
Questi
sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune.
Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia
e ogni dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di
guerra, fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando
queste minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.
Non
credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia
americana.
Le
istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno
già assorbito shock considerevoli in passato.
Non
intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere
alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di
difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle
istituzioni americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.
Non
credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di
altre divergenze.
Entrambi
i paesi hanno troppo da perdere da una collisione catastrofica, e né Washington
né Pechino possono aspettarsi che altri governi li seguano sulla strada del
disastro.
Ma… ho
scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i
leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro
possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte.
Per prepararsi ad affrontarle dovranno
cooperare, ma non potranno farlo finché saranno impegnati a scontrarsi sulle
chimere dei massimi valori.
MONDO.
La
grande migrazione.
LA
GIUSTA CRISI.
Gli
esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro
attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti.
Ma non
basta una qualsiasi emergenza.
Abbiamo
bisogno di una «crisi alla Riccioli d’Oro»: una crisi abbastanza grande da
esigere il nostro impegno ma non tanto distruttiva da non ammettere una
risposta efficace.
Abbiamo
bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in
faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del
cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione
tecnologica.
Una
crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al
potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il
compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.
Una
crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a
progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro.
Nei primissimi giorni del Covid-19 è sembrato
che la pandemia potesse creare la perfetta crisi alla Riccioli d’Oro.
Di sicuro era abbastanza grande da toccare le
vite di miliardi di persone.
Tutti
i governi del pianeta sono stati costretti a reagire.
I danni economici provocati sono stati
ingenti, preannunciandosi duraturi.
Il
virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto
resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli
innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le
conseguenze.
Ci
siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non
meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan.
Eppure
troppi dei nostri leader politici hanno cercato di usare questa crisi per
fomentare la rabbia verso gli altri, in patria e all’estero.
Nel
campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del
tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci
aiuteranno a superare la prossima tempesta virale.
Le
ripercussioni economiche globali del Covid imprimeranno slancio alla
transizione dall’economia novecentesca fatta di calce e mattoni verso un futuro
digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà, farà acquisti e studierà
online.
La
pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in
maniera ecosostenibile.
Ma il
Covid non ha fatto abbastanza per convincere i governi della necessità di
pensare a nuovi modi per garantire la sicurezza e consentire la prosperità.
Il “Covax”
ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di
salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo
progetto, e
l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento più critico
per consentirne il successo.
Come
accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a
cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire.
Benché
necessaria, questa misura ha fatto ben poco per risolvere le profonde
disuguaglianze che ci tormentano.
Piuttosto che disegnare e investire in nuove
istituzioni – come per esempio un’Organizzazione mondiale dei dati – i nostri leader sembrano
accontentarsi di curare i sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera
umanità.
Il
cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi del Covid, e
possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di cui abbiamo
bisogno.
Dobbiamo
agire ora se vogliamo essere pronti a cogliere le opportunità che queste crisi
imminenti creeranno.
UNA
VISIONE POSITIVA.
Per
inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani
serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi.
Abbiamo
bisogno di una visione positiva per il futuro, di piani che possiamo mettere in
atto quando e come ne abbiamo bisogno.
Sono
troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che
non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli altri non faranno. Chiudiamo la
porta ancor prima di aver intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra
parte.
La
condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere. Inoltre ci
concentriamo troppo sulla soddisfazione dei bisogni a breve termine. I
consumatori non sono gli unici a volere una gratificazione immediata.
Anche politici, dirigenti d’azienda e
azionisti vogliono la stessa cosa. Sia loro sia noi siamo ossessionati dal mandato
immediato del leader in carica, dall’anno da superare, dal raggiungimento degli
obiettivi trimestrali o dal prossimo notiziario.
Ma il
nostro più grande limite è probabilmente questo: siamo in pochissimi a voler
piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri.
Per
sopravvivere alle sfide che ci attendono, i nostri leader devono ascoltarsi
l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti del pianeta.
Non
serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o
sui valori nazionali.
Ma
devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future
crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano
minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla
cooperazione.
Devono
decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi.
Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di
gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le
nazioni.
Le ripropongo in chiusura.
UN
COVAX GLOBALE.
In
risposta al Covid-19 172 paesi hanno aderito al progetto “Covax” per
collaborare con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a
tutti i paesi del mondo. Cina, Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel
concedere il loro sostegno.
Se il
progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori
governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto
il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima.
Il modello del “Covax” va potenziato e
affinato per prepararsi alla prossima pandemia.
Inoltre,
il “Covax” può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di
immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili
– e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci
riserverà.
UN
ACCORDO VINCOLANTE SULLA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CARBONIO.
Il
cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni
nette di carbonio nell’atmosfera entro il 2050.
Nessuno vuole sacrificarsi più del dovuto e i
progressi dipendono dalla fiducia nella capacità degli altri di mantenere le
promesse.
Qualsiasi
accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori
internazionali indipendenti.
Per essere credibili le soluzioni hanno
bisogno della volontà politica e di scoperte scientifiche, e i governi possono
condividere i costi associati allo sviluppo di tecnologie in grado di
accelerare il progresso.
UN
PIANO MARSHALL VERDE.
Un
accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto
internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia
rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati
milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà
anche nei migliori scenari.
Dovrà
prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare
i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti.
A
differenza del Piano Marshall, che contribuì alla ricostruzione dell’Europa
dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei soli Stati Uniti, il successo di un Piano Marshall
verde dipenderà dalla condivisione globale dei costi e degli altri oneri.
PER
UN’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEI DATI.
Il
mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i
dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori.
Abbiamo bisogno di regole e standard che
valgano per i governi e per le imprese che possiedono e utilizzano le
informazioni personali che generiamo.
Proprio
come l’”Intergovernmental Panel on Climate Change” dell’ONU, che elabora
analisi indipendenti sul riscaldamento globale, e l’Organizzazione mondiale del
commercio, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e facilitare
il commercio fra tutti i suoi membri, così un’Organizzazione mondiale dei
dati può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà
intellettuale e i diritti dei cittadini.
La
Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non
saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza,
privacy, protezione della proprietà e libertà personale.
Ma se
le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa
organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro
volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà
possibile.
CHI
RACCOGLIERÀ QUESTA SFIDA.
L’America
non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra.
Le
elezioni presidenziali del 2024 saranno probabilmente le più brutte e
pericolose della storia americana.
Non è
un’esagerazione.
Nei
prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo rancore,
soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le istituzioni su cui
la democrazia americana poggia.
Fortunatamente
il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali.
Basta
che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua
resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti
dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la
rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
Il
mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro
strappi.
Non
succederà mai.
Ma se
Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a
scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle “questioni
climatiche” e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i paesi e
l’umanità tutta.
Ma,
soprattutto, se riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i
confini americani che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine
d’intervento sufficiente per consentire anche ad altri attori di giocare un
ruolo chiave.
L’Unione europea dovrà svolgere un ruolo
cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e tecnologiche e, se gli Stati
Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto che costringe l’Europa a
schierarsi interamente con una parte a scapito dell’altra, Bruxelles potrà
rilanciare la cooperazione internazionale in tutti questi ambiti.
Ci
sono buoni motivi per essere ottimisti.
Quando
il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del
petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia
nelle politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio
regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio.
Le
crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi
migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE.
Ma il
Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegnare la propria rotta non
solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento
climatico.
Una
delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione
comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio
respiro.
Molti
dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una ridistribuzione su
larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud finanziariamente più
deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui governi, secondo i
detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco.
Ma
questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione di
contenimento del cambiamento climatico.
Facendo
della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di
euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia, la
Commissione europea ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da
destinare al contenimento delle ricadute della “pandemia e del cambiamento
climatico” presso gli stati membri storicamente riluttanti.
Solo
gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche
rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la
ripresa post pandemia.
Inoltre il sistema di scambio delle emissioni
dell’UE sta entrando nel vivo e si appresta a diventare la carta vincente
dell’Europa per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati
per il 2030.
La
versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote
di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le
emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle
«quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni
marittime.
La
messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e
mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più
rigoroso e nell’UE
i prezzi del carbonio saliranno con l’obiettivo di imprimere slancio alla
riduzione delle emissioni.
Alcuni
leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal
rallentamento causato dal Covid al “reshoring”, ossia il rimpatrio della
produzione nei paesi d’origine.
È una
buona notizia per l’occupazione locale ma in alcuni settori, tra cui quello
automobilistico, la rilocalizzazione aiuta anche a garantire la conformità dei
processi di produzione e dei prodotti finali alle norme climatiche dell’UE.
Non
solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di
indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in
Europa a rispettare gli standard europei.
I fondi raccolti con l’aumento
dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere
indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.
Si
tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che
ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro.
L’Unione europea ha usato il Covid-19 “per combattere
il cambiamento climatico” incanalando i fondi per la ripresa all’interno di
progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi come ecologici,
vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di finanziare qualunque
cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento globale e
adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.
L’Europa
sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre
questioni urgenti.
Sui temi dell’utilizzo dei dati e della
privacy i leader dell’UE fanno leva sulle dimensioni del mercato al consumo
europeo per fissare regole che le aziende tecnologiche statunitensi e cinesi
non potranno permettersi di ignorare.
Se
Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea
può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento
internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso
tutelando i diritti e le libertà delle persone.
Ma il
pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare
da soli un nuovo globalismo.
Alcune aziende hanno sfere d’influenza e
interessi che valicano i confini in modi preclusi ai governi.
La loro rilevanza non potrà che aumentare.
È una
buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il
cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in
grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente.
Tra esse, le più importanti sono di gran lunga
i colossi tecnologici più grandi del mondo.
Se
aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle
Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero
averli fugati una volta per tutte.
Sebbene
il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato
il più grave assalto alla democrazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha
intrapreso un’azione decisiva.
A poche ore dall’assalto al Congresso,
Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon hanno sospeso i profili di Trump e di
altri politici che avevano diffuso la bugia dei brogli elettorali e
incoraggiato l’insurrezione.
Hanno
temporaneamente bandito “Parler”, un servizio che molti sostenitori di Trump
usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori
dai servizi di “web hosting” e dai principali “app store”.
Il governo e le forze dell’ordine non hanno
avuto alcun ruolo in questa vicenda.
La
cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una
decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di
intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo.
A maggio il Consiglio di sorveglianza di
Facebook – istituito nel 2020 – aveva deliberato la decisione dell’azienda di
sospendere il profilo di Trump.
Le
aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto
o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal
cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un potere
tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici
spettatori.
Oggi
non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia
avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia
motivi di ottimismo.
Le
principali aziende tecnologiche statunitensi e cinesi sono attori protagonisti
nel dramma che deciderà se il mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si
dirigerà verso un futuro molto più roseo.
Google,
Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno
semplicemente rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando.
Già in passato il potere privato ha giocato un ruolo
significativo nella geopolitica.
La Compagnia delle Indie Orientali e il suo
esercito privato hanno governato il subcontinente asiatico per conto della
Corona nel Settecento e nell’Ottocento.
«Big Oil» esercitava un’enorme influenza
politica durante i suoi anni d’oro.
Ma gli
odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti
fondamentali.
Innanzitutto, i colossi tecnologici non
esercitano il potere esclusivamente nello spazio fisico.
Mantengono ed esercitano una profonda
influenza in una sfera del tutto nuova della geo politica: lo spazio digitale,
che essi stessi hanno creato.
Le
persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare
acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione
di governi.
Neanche
il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo
territorio.
Lo
spazio fisico è finito.
Quello
digitale cresce in maniera esponenziale.
Considerando
i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili
di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra.
Gli
oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi.
Google
sostiene che sulla sua piattaforma viene fruito ogni giorno più di un miliardo
di ore di video.
Gli
analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «data sfera» –
la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo ogni
anno – raggiungerà quasi 60 petabyte nel 2020.
La
data sfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della
rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con
dispositivi connessi a Internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le
cose per i politici.
I
politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale. La capacità di un
candidato di attrarre follower su Facebook e Twitter – più che i suoi contatti
con i professionisti della politica – è ciò che fa arrivare il denaro e i voti
che servono a vincere le elezioni in molte democrazie.
Per
una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli
strumenti di «targetizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i
servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati
indispensabili per avviare un business di successo.
Più le
persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze
basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti
dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini
dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità
di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo
sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato
dell’innovazione.
I
governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere.
La
Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e
altre società online.
L’Unione europea ha cercato di regolamentare i dati
personali, i contenuti online e i gate keeper (i «controllori dell’accesso») di
internet per tutelare la privacy dei suoi cittadini.
La
sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso nel corso del
2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come
Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la
propria volontà sulla sregolata sfera digitale.
Ma i
governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi
legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel
resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.
Le
aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore
privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata.
In
passato molte aziende private fornivano acqua, elettricità, trasporti e altri
servizi essenziali.
Oggi
una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in
moltissimi altri campi.
Cominciamo
proprio dal settore informatico.
Appena quattro aziende – Microsoft, Amazon,
Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda mondiale di “servizi
cloud”.
Durante
il primo anno della pandemia di Covid-19 è stata questa infrastruttura
informatica essenziale a far funzionare l’economia globale, a permettere alle
persone di lavorare e a consentire di creare aule virtuali in cui i ragazzi
potevano continuare a imparare.
Molto
presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi
interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle
reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.
Tutti
dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi “leader del cloud”.
La
capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro per
rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico e costruire un approccio più
razionale all’ingresso delle nuove tecnologie nelle nostre vite e società
dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.
Segnatamente,
questi obiettivi potranno essere globalisti, tecno utopici o nazionalisti.
Tutte
le aziende esistono per fare soldi.
Per le
imprese che forniscono servizi digitali è più facile raggiungere
quest’obiettivo operando su scala globale.
Per
decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula
molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande
possibile.
Microsoft,
Amazon, Google, Facebook e Apple hanno tutte costruito i loro imperi adottando
mentalità globaliste.
Inizialmente
hanno puntato a dominare una nicchia economicamente proficua, per poi
cominciare a vendere i loro servizi in tutto il mondo.
Aziende
cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato mercato interno
cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta dietro la loro
crescita è lo stesso:
aprire
negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle
necessità e competere senza sosta.
I
dipartimenti addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende
tecnologiche del mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex
diplomatici, lobbisti e avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano
la priorità da sempre assegnata all’approccio globalista.
È
possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore tecnologico,
ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso tecno utopista
non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e Shenzhen.
Alcune
delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori
con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate
a ricoprire.
In
Occidente alcuni di loro, come “Mark Zuckerberg” o” Larry Page” e “Sergey Brin”
di Google, mantengono il controllo delle rispettive aziende attraverso le
azioni dei fondatori o altre strutture finanziarie.
In
questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate
dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO.
Sono tutti accomunati da una visione in cui la
tecnologia non è solo un’opportunità commerciale globale ma una forza
potenzialmente rivoluzionaria che può salvare l’umanità da sé stessa.
Elon
Musk, CEO di Tesla e SpaceX, è probabilmente l’esempio più riconoscibile della
tendenza tecno utopista, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i mercati
dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare
un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere
l’umanità una «specie multi planetaria» colonizzando Marte.
Anche
il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende
tecnologiche.
A
partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla
decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e
legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech
hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del
governo in importanti domini tecnologici, tra cui il “cloud”, “l’intelligenza
artificiale” e la “sicurezza cibernetica”.
Visto
il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi
informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro
governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di “cloud
computing” al governo americano.
Queste
tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e
delle intenzioni dei loro leader.
Le
aziende tecnologiche sono organizzazioni grandi e complesse, e all’interno di
ognuna si combinano motivazioni globaliste, tecno utopiste e nazionaliste.
Ma le
categorie possono comunque aiutarci a capire le scelte che le aziende
tecnologiche dovranno operare mentre attraverseranno la mutevole geopolitica
dello spazio fisico e digitale nel corso del prossimo decennio.
Si
allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte
stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina?
Resisteranno
alla tentazione di diventare campioni nazionali, di opporsi alla
regolamentazione che minaccia i loro modelli di business, per preservare un
approccio più globalista?
O
scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende tecnologiche
contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o addirittura nuove
forme di governo umano?
Mentre
la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi
negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani
opereranno in uno di questi tre scenari:
lo stato regna sovrano e i campioni nazionali
vengono premiati;
le
aziende soggiogano lo stato, consegnando ai globalisti una vittoria storica;
lo
stato svanisce per dare potere ai tecno utopisti.
Vediamo
che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.
Non è
possibile “regolare i social” negli Stati disuniti.
STEFANO
BALASSONE.
LO
STATO REGNA SOVRANO/VINCONO I CAMPIONI NAZIONALI.
In questo scenario gli Stati Uniti e i
loro alleati si organizzano per offrire denaro ai governi e creare leggi che
premiano le aziende «patriottiche», quelle con modelli di business e risorse allineate
agli obiettivi nazionali, e puniscono le imprese che non si adeguano.
Le
aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario
a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi
quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri
governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa
pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi sociali
abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.
Nella
vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di
sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria
globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come
soccorritore di ultima istanza.
In
questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione
limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono
allineati con quelli del governo.
La
chiave di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli
Stati Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a
formare alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della
Cina, al tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post
pandemia e nella transizione verde.
LE
AZIENDE SOGGIOGANO LO STATO/VINCONO I GLOBALISTI.
In
questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si
intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con
l’automazione e la digitalizzazione.
Il
sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a
tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in
grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta
la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.
Le
autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione. Le
imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire
l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in
paesi autoritari come la Cina e la Russia. A differenza dei campioni nazionali,
ai globalisti interesserà meno supportare i governi: la loro priorità sarà
quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.
I
globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio.
Possono sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche
statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America.
Possono gestire periodiche tensioni nelle relazioni USA-Cina e persino il
sentimento di sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non una nuova Guerra
fredda che li costringa a scegliere tra Washington e Pechino.
LO
STATO SVANISCE/VINCONO I TECNOUTOPISTI
In
questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici
dissolve il contratto sociale.
Gli
americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su
un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel
dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.
La
disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta
indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento
climatico, le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide internazionali.
Per i
tecno visionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo
diventa discutibile.
Elon Musk gioca un ruolo più importante nella
trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di
comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio.
Mark
Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando si tratta di decidere come ci
connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro e in politica.
Ma
l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecno utopisti di
tutto il mondo. Anche la credibilità interna dello stato cinese dovrebbe subire
un tracollo.
LA
SFIDA CINESE
Questo
modello globalista-nazionalista-tecno utopista non si applica altrettanto bene
alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore.
I
tecno utopisti come “Jack Ma” stanno imparando a non sfidare apertamente lo
stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti sono costretti a comportarsi
come se fossero prima di tutto nazionalisti.
“Alibaba”,
che ospita i più grandi siti web consumer-to-consumer, consumer-to-business e
business-to-consumer del mondo, deve stare attenta;
lo
stesso dicasi per “ByteDance”, la cui app di condivisione video “TikTo”k l’ha
aiutata a diventare l’unicorno di maggior valore a livello mondiale.
Stessa
sorte tocca a “Tencent”, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza
statale cinese di quanto non faccia “Alibaba”.
Se
l’economia cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero
meno redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende
globaliste, lo stato potrebbe concedere ai globalisti una maggiore libertà
d’azione all’interno dei confini nazionali.
Per il
momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende
tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali.
Un mondo in cui lo stato diventasse più forte
sarebbe quello più a rischio di sprofondare in una nuova Guerra fredda e di
soffocare la cooperazione globale.
Se
Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica
sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter
utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema
internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.
Uno
scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo
(ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori
probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze
e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.
Un
mondo in cui i tecno utopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più
difficile da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in
poche mani, spesso le più eccentriche.
LA
GENERAZIONE “Z”.
I
governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste
sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di
ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non
controllano.
Le
organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per
generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono adottare una visione di più
lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e questo rende le loro
prospettive particolarmente preziose.
Le
aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono
dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità.
Molte
delle ONG più lungimiranti del mondo operano su orizzonti temporali altrettanto
estesi. Persino in seno ai governi non contano unicamente i leader e i
legislatori nazionali.
Quando
Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’Accordo
di Parigi sul clima, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato
che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.
Non è
un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di
quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia.
L’area
metropolitana di New York ha un’economia più grande di quella del Canada o
della Russia.
Nel
mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama
mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore
privato non possono ignorare in eterno.
Abbiamo
inoltre la fortuna che la prossima ondata di persone chiamata a risolvere
questi problemi è diventata adulta in un mondo globalizzato.
La “Generazione
Z” – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà il proprio
impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale aumentare enormemente
nel prossimo decennio.
Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti
duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato
dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen. Z» è la
generazione più interconnessa a livello globale della storia.
La
stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via
di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa
aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si
può e non si può fare.
Appellarsi
alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando si
invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo vissuta dalla
“Gen. Z” è molto diversa da quella della mia generazione.
Sono
cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in
altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic.
Sapevo,
come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del
mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità
di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.
Oggi i
giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in
tutto il mondo.
Giocano in tempo reale con i ragazzi asiatici
e africani. Questa non è la globalizzazione di 25 anni fa. I ragazzi di questa
generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto: una visione a 360°
del mondo.
Sono
consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in
comune con gli altri.
In particolare, sanno meglio di qualsiasi
generazione che li ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e
una scarsa immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni
future.
È
facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri
come “Greta Thunberg” ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su
questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare.
La
loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e
di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare
dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.
La
paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare
insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia.
Reagan e Gorbaciov lo sapevano.
Oggi
le nazioni e i popoli del mondo non si trovano dinanzi a una minaccia aliena.
Siamo
chiamati ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a
creare.
In
questo senso siamo interdipendenti, ed è questo il fondamento della più grande
opportunità della storia umana.
La
necessità deve ora diventare la madre della cooperazione.
Dobbiamo
costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si
può e cooperare dove si deve.
Siamo
i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in
grado di sconfiggerle.
Vista
la posta in gioco, se falliremo non avremo un’altra possibilità.
(Questo
è un estratto dal nuovo libro di “Ian Bremmer”, "Il potere della crisi -
Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo" edito dalla
casa editrice “Egea”.)
Bill Gates
non si accontenta dei vaccini,
vuole
controllare il sole.
scenarieconomici.it
– (3 Gennaio 2021) - Giuseppina Perlasca – ci dice:
Bill
Gates ha grandi ambizioni.
Dopo
aver passato un anno in una continua campagna per il lockdown e per i vaccini,
ora ha alzato lo sguardo e punta in alto a piegare il sole.
Insomma
a Gates non basta più fare beneficenza, ormai vuole interpretare direttamente
Dio:
infatti finanzia un progetto per emettere sostanze
nella stratosfera con la finalità di assorbire i raggi solari e quindi condurre
ad un significativo raffreddamento.
il
progetto – chiamato “Stratospheric Controlled Perturbation Experiment” (SCoPEx)
gioca con il controllo dei raggi infrarossi ad alta quota.
Utilizzando
dei palloni sonda che giungono sino a 20 mila metri libera quantità variabili
di sostanze chimiche, fra i 100 grammi ed i due kg, per formare delle nubi
lunghe fino ad un km e controllare, con le strumentazioni di bordo gli effetti
sui raggi infrarossi e le interazioni chimiche ad alta quota.
La
finalità è quella di prevenire il “Surriscaldamento globale, ma si sta
veramente giocando a essere Dio:
raffreddare l’atmosfera può essere
estremamente pericoloso e, per fare un esempio, le grandi carestie della storia hanno
conciso sempre con raffreddamenti dell’atmosfera, spesso dovuti ai fenomeni
come le eruzioni vulcaniche.
Quindi
chi effettua questi esperimenti sta giocando con “qualcosa con rischi potenzialmente
grandi e difficili da prevedere, come i cambiamenti nei modelli di pioggia
globali”.
“Non
c’è alcun merito in questo test se non quello di consentire il passaggio
successivo”, ha affermato “Niclas Hällström”, direttore del think tank verde
svedese “WhatNext”? che ha aggiunto:
Non
puoi testare il detonatore di una bomba e dire “Questo non può fare alcun
male”.
(twitter.com/NikolovScience/status/1343376989902651392?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1343384031581200385%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es2_&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.zerohedge.com%2Fmarkets%2Flockdown-proponent-bill-gates-quietly-funding-plan-dim-suns-rays)
Tra
l’altro i modelli dell’interazione della CO2 con la temperatura e la vita sono
chiari solo a quegli scienziati che, per partito preso, parlano di “Surriscaldamento globale” e non tengono conto degli effetti della CO2 sulla vegetazione e
lo scambio gassoso con l’oceano.
Però
il denaro fa sentire onnipotenti e bisogna giocare a Dio, ovviamente per il
bene dell’umanità, dice lui.
Geoingegneria,
per Bill Gates
il
problema è il Sole.
Pressenza.com – (23.01.21) - Lorenzo Poli – ci
dice:
Il
fondatore di Microsoft sta sostenendo finanziariamente lo sviluppo della
tecnologia di oscuramento solare che potrebbe riflettere la luce solare fuori
dall’atmosfera terrestre, causando un effetto di raffreddamento globale.
Lo “Stratospheric
Controlled Disturbance Experiment” (SCoPEx), lanciato dagli scienziati del
programma” Solar Geoengineering” dell’Università di “Harvard”, mira a esaminare
questa soluzione spruzzando polvere di carbonato di calcio (CaCO 3) non tossico
nell’atmosfera.
Un
aerosol “che riflette il sole e può contrastare gli effetti globali di
riscaldamento”.
La
ricerca diffusa sull’efficacia della geoingegneria solare è rimasta ferma per
anni a causa delle controversie che ha generato.
Gli
oppositori ritengono che questa scienza comporti rischi imprevedibili, inclusi
cambiamenti estremi nei modelli meteorologici che non sono diversi dalle tendenze
di riscaldamento a cui stiamo già assistendo.
Il
termine “geoingegneria” si riferisce ad una serie di tecnologie preposte per
intervenire deliberatamente nella alterazione dei sistemi terrestri su larga
scala (cioè planetari).
Esistono
due gestioni principali per tali interventi:
“gestione delle radiazioni solari” (MRS), una serie di tecnologie il
cui scopo è di ridurre la quantità di luce solare che entra nell’atmosfera
terrestre, cosicché da raffreddare artificialmente il clima tramite il
mascheramento delle nubi o della superficie degli oceani per renderli più
riflettenti;
e “rimozione dell’anidride carbonica” (RDC) o “rimozione dei gas serra” (RGEI), il cui scopo è quello di assorbire
il biossido di carbonio (CO2) dall’atmosfera in grande scala e seppellirlo nel
sottosuolo, negli oceani o nelle grandi piantagioni di monocolture di alberi.
In
generale, la geoingegneria può includere interventi sul terreno, gli oceani o
l’atmosfera e comporta grandi rischi ed impatti negativi per le comunità umane,
gli ecosistemi ed i processi naturali, nonché per la pace e la sicurezza mondiali.
Per
gli alti rischi e gli effetti collaterali che comporta, la geoingegneria è
sottoposta a moratoria nella “Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità
Biologica”.
Nonostante
ciò, “SCoPEx”, il progetto finanziato da “Bill Gates”, farà un piccolo passo
nella sua ricerca iniziale questo giugno vicino alla città di Kiruna, in
Svezia, dove la “Swedish Space Corporation” ha accettato di aiutare a lanciare
un pallone con attrezzature scientifiche a 12 miglia (20 km) di altezza.
Il lancio
non rilascerà aerosol nella stratosfera, ma servirà come test per manovrare
il globo ed esaminare comunicazioni e sistemi operativi.
In caso di successo, questo potrebbe essere un
passo in una seconda fase sperimentale che rilascerebbe una piccola quantità di
polvere di “CaCO 3” nell’atmosfera.
“David
Keith”,
professore di fisica applicata e politica pubblica all’Università di “Harvard”,
ha riconosciuto le “molte vere preoccupazioni” della geoingegneria.
È vero
che nessuno sa cosa succederà fino a quando “CaCO3” non verrà rilasciato e poi
studiato.
“Keith”
e i suoi colleghi scienziati di “SCoPEx” hanno pubblicato un documento nel 2017
suggerendo che la polvere può effettivamente ricostituire lo strato di ozono
reagendo con molecole che riducono lo strato di ozono.
“Ulteriori
ricerche su questo e metodi simili potrebbero portare alla riduzione del
rischio e migliorare l’efficacia dei metodi di geoingegneria solare”, scrivono
gli autori dell’articolo.
Già ad
ottobre 2018, 23 organizzazioni internazionali e regionali e 87 organizzazioni
nazionali indigene, ambientaliste, altermondiste e contadine a livello
mondiale, guidate dall’ambientalista indiana “Vandana Shiva”, avevano
sottoscritto “il Manifesto contro la Geoingegneria” per il blocco immediato di tutti
gli esperimenti di geoingegneria pianificati, tra cui anche “SCoPEx” che all’epoca era previsto come “iniezione
stratosferica di Aerosol” da eseguire in Arizona, vicino al confine
USA-Messico.
Tra
gli altri anche il Progetto “Marine Clouds Brightening” (MCBP), previsto in California, nella baia
di Monterrey;
il “progetto Ice911”, che mirava a diffondere microsfere di
vetro sul mare e sulle superfici ghiacciate dell’Alaska;
e i
progetti di fertilizzazione dell’oceano della società “Oceaneos” in Cile, Perù
e Canada.
La
richiesta principale era quella di fermare questi progetti su larga scala ed il finanziamento di progetti che
cercavano di catturare il biossido di carbonio con mezzi tecnologici con il fine di rinchiuderlo in
formazioni geologiche e/o negli oceani, o di utilizzarlo per migliorare il
recupero di petrolio o altre applicazioni industriali.
Da
anni climatologi e ambientalisti temono che sia una mossa azzardata intervenire
con pratiche ingegneristiche su un sistema complesso e delicato come il clima.
Inoltre credono che la geoingegneria perpetui la”
falsa convinzione” che l’attuale modello industriale di produzione e consumo, socialmente e ambientalmente ingiusto
e devastante, non possa essere modificato e che, pertanto, richieda un
“controllo” tecnologico per mitigarne gli effetti.
Una sorta di grande escamotage che permette di
continuare, grazie alla “strategia di mitigazione”, a emettere gas serra con
nessun cambiamento nei modelli attuali di consumo e produzione.
Ciò
impedisce di affrontare la crisi climatica fin dai suoi fattori strutturali,
economici, politici, sociali e culturali.
“Il
ruolo della geoingegneria, in un mondo di decisioni scientificamente illuminate
e rispettose dell’ambiente, dovrebbe essere zero” – così affermò “Vandana Shiva”
in un’intervista, aggiungendo –
“Abbiamo
riconosciuto il fatto che quando non si prende in considerazione il modo in cui
i sistemi ecologici lavorano, poi si fa un danno. (…)
Noi
abbiamo avuto la possibilità di rimpiazzare le persone con combustibili fossili
ed avere livelli d’industrializzazione sempre più alti, in agricoltura, nella
produzione, senza pensare ai gas ad effetto serra che stavamo immettendo.
Il cambiamento climatico è veramente un prodotto del paradigma
dell’ingegnerizzazione, quando i combustibili fossili trainavano
l’industrializzazione.
Ora,
avere quello stesso approccio come soluzione, significa non considerare
seriamente ciò che” Einstein” disse:
“non puoi risolvere i problemi usando lo
stesso atteggiamento mentale che li ha creati”
Il
ruolo della modifica artificiale del clima è un’idea di dominio, volto a
“patologizzare” la Natura senza arginare il problema:
anziché
cambiare il modello di sviluppo che genera l’inquinamento e crea il
surriscaldamento globale, il problema diventa così il Sole che, da base della vita,
diventa il problema “a causa dei suoi raggi ultravioletti che surriscaldano il
Pianeta”.
Questo legittima il fatto che si possa immettere
delle sostanze a base di carbonato di calcio con il fine di creare uno strato
nell’atmosfera che impedisca al Sole di splendere al meglio sulla Terra.
Secondo
questo ragionamento non è l’impatto antropico sull’ambiente ad essere un problema,
ma l’ambiente stesso, che non è accomodante con il modello
economistico-sviluppista prodotto dall’essere umano.
Un
livello altissimo di “hybris”, di tracotanza umana, di volontà di potenza,
un’idea distopica, ai limiti dell’assurdo ed impensabile se non fosse vera.
Una
proposta avanzata appunto da miliardari, come Bill Gates, e finanziata dai loro
giganti tecnologici che producono un’enorme impronta ecologica alla radice
dell’ingiustizia sociale e climatica globale. (forbes.co/2021/01/19/editors-picks/ahora-bill-gates-quiere-bloquear-el-sol-asi-es-como-piensa-hacerlo/)
- (Lorenzo Poli).
“Bill
Gates” mette in guardia
anche
colossi come Google
e
Amazon dall'intelligenza artificiale.
Wired.it
– (23-5-2023) – Alessandro Patella – ci dice:
Secondo
il fondatore di Microsoft, l'”Ai” è destinata a rivoluzionare il rapporto tra
uomo e digitale così come lo conosciamo e a mettere in crisi anche grandi
aziende tecnologiche.
Il
fondatore di Microsoft è “Bill Gates”.
L’intelligenza
artificiale è destinata a rivoluzionare il rapporto tra uomo e digitale così come lo conosciamo e a mettere
in crisi anche aziende strutturate come Google e Amazon.
Parola
di Bill Gates, che il 22 maggio, nel corso di un evento organizzato da “Goldman
Sachs” e “SV Angel” proprio sulla tecnologia del momento, ha individuato quale
potrebbe essere il prodotto in grado di dare all’azienda che lo realizzerà un
netto vantaggio su tutte le altre.
Come
riporta Il Sole 24 Ore, secondo il fondatore di Microsoft arriverà presto uno “sconvolgimento epocale” capace
di modificare nel profondo i comportamenti quotidiani degli utenti:
“Chiunque realizzerà per primo un agente
personale” dotato di intelligenza artificiale, riuscirà a far sì che “nessuno
consulti più motori di ricerca, siti di produttività o Amazon”.
In
particolare, “Gates” immagina “un assistente virtuale” capace di studiare e
comprendere a fondo le necessità e le abitudini di navigazione e acquisto delle
persone, per poi utilizzarle per aiutarle a “leggere le cose che non hanno
tempo di leggere”.
Le
previsioni dell’imprenditore e filantropo di Seattle non si sono fermate
all’oggetto dell’invenzione, ma anche a chi potrebbe potenzialmente idearla e
progettarla.
Secondo
lui c’è infatti il 50% di probabilità che a segnare questo colpo grosso
dell’intelligenza artificiale sarà una “startup”:
“Sarei deluso - ha affermato - se Microsoft
non entrasse in questo filone di business, ma allo stesso tempo mi impressionano un paio di startup,
inclusa “Inflection”.
Il riferimento è a “Inflection.Ai”, startup
del cofondatore di “Linkedin” “Reid Hoffman” e del cofondatore di Google”
DeepMind” Mustafa Suleyman”.
L’ultima
ipotesi di “Bill Gates” riguarda i tempi di realizzazione dell’assistente
virtuale dotato di intelligenza artificiale.
Secondo il fondatore di Microsoft ci vorrà
ancora molto tempo perché esso sia pronto all’uso da parte della totalità degli
utenti.
Fino
ad allora, le aziende avranno ancora un’arma a disposizione:
incorporare le tecnologie di intelligenza artificiale,
come per esempio “ChatGPT”, nei propri prodotti.
Bill
Gates si conferma il più grande
proprietario
di terreni agricoli
negli
Usa: perché lo fa.
Open.online.it
– (29 GENNAIO 2023) – Redazione -ci dice:
Secondo
la rivista “Land Report”, i possedimenti agricoli di Farmer Bill sono arrivati
ad almeno 275mila acri, contro i 242mila degli anni scorsi.
“Bill
Gates” è il più grande proprietario di terreni agricoli privati d’America.
Lo era
anche l’anno scorso e quello prima:
con
242 mila acri sparsi in 19 Stati, si era accaparrato il titolo di
“latifondista” da record.
Tuttavia,
la crescita di “Farmer Bill” sembra non arrestarsi nemmeno nel 2023.
«Abbiamo
identificato altri 6.016 acri in North Dakota che fanno salire i suoi
possedimenti agricoli ad almeno 248.000 acri e il totale a 275.000, compresi
lotti cosiddetti “transitional” ideali per sviluppo immobiliare o ricreativo»,
racconta “Eric O’Keefe”, il direttore di “Land
Report”,
la rivista che ha scoperto la “nuova vita” da contadino del fondatore ed ex Ceo di
Microsoft, citato dal Sole 24 Ore.
Il
primato, raggiunto in circa cinque anni attraverso operazioni della sua
finanziaria “Cascade”, avrebbe scatenato però un tumulto di voci sui contorni
relativi alle operazioni di acquisto di così tanti terreni.
Come
agli intrecci tra investimenti finanziari e innovazione o produzione agricola e
sostenibilità ambientale.
Dove già, spiega il quotidiano economico, sono
impegnate Microsoft – della quale Gates rimane azionista – e la sua Fondazione.
Durante
una sessione di domande – “Ask Me Anything “– organizzata l’11 gennaio scorso
su “Reddit”, Gates ha cercato solo in parte di dare una risposta.
A chi
gli ha chiesto di chiarire «perché stava acquistando così tanti terreni
agricoli?»,
Gates
ha messo in chiaro di possedere «meno di 1/4.000 dei terreni agricoli negli
Stati Uniti».
E di
aver investito in queste aziende agricole «per renderle più produttive e creare
più posti di lavoro.
Non
c’è qualche grande piano coinvolto».
Le
acquisizioni, ha aggiunto, «sono affidate a gestori professionali».
“Cascade”
non ha risposto a richieste di commenti – scrive il quotidiano – ma “O’Keefe”
conferma:
«La
holding, con controllate quali “Red River Trust” e” Cottonwood Ag Management”, rileva per conto di Gates terreni
agricoli di alta qualità, “investment-grade”, dove i frutti della terra
producono liquidità e le proprietà aumentano di valore».
Bill
Gates e la nuova profezia:
“Il
bioterrorismo porterà la prossima pandemia”.
E chiede all’Occidente di investire più denaro
in vaccini e sanità:
«Senza prevenzione il bilancio in futuro sarà peggiore
del Covid».
Sivempveneto.it
– (22/03/2023) – Redazione – ci dice:
La
Stampa.
In un
triennio il Covid ha bruciato «mille miliardi di dollari» e senza un piano
mondiale di prevenzione la prossima pandemia avrà effetti ancora peggiori.
Sul” New York Times” il fondatore di
Microsoft, “Bill Gates” propone un «corpo di vigili del fuoco» contro i virus
ed esercitazioni per prevenire una nuova emergenza sanitaria globale.
«Immaginate che ci sia un piccolo incendio
nella vostra cucina.
L’allarme
antincendio scatta, avvertendo tutti i vicini del pericolo.
Qualcuno
chiama il 911 – spiega il filantropo-.
Cercate di spegnere il fuoco da soli, magari
con un estintore sotto il lavello.
Se non funziona, sapete come evacuare in
sicurezza.
Quando
arrivate fuori, un’autopompa sta già arrivando.
I pompieri usano l’idrante di fronte a casa
vostra per spegnere le fiamme prima che le abitazioni dei vostri vicini
prendano fuoco».
Ecco
«dobbiamo prepararci a combattere le epidemie proprio come facciamo con gli
incendi.
Se un rogo viene lasciato divampare senza
controllo, rappresenta una minaccia non solo per una casa, ma per un’intera
comunità.
Lo stesso vale per le malattie infettive, ma
su scala molto più ampia.
Come
insegna il Covid, un’epidemia in una città può diffondersi rapidamente in un
intero Paese e poi in tutto il mondo».
Tre
anni fa l’Oms ha proclamato la pandemia e, «nonostante i numerosi
avvertimenti», si è toccato il «culmine di un fallimento collettivo».
Ora
Bill Gates teme che «stiamo commettendo gli stessi errori:
il mondo non fa abbastanza per prepararsi alla
prossima pandemia».
Ma,
avverte, «non è troppo tardi per impedire che la storia si ripeta».
Il
mondo ha bisogno di un «sistema ben finanziato che sia pronto a scattare appena
emerge il pericolo».
Affrontare
la sfida «non dovrebbe dipendere dai volontari».
E «abbiamo bisogno di un corpo di
professionisti in ogni Paese per controllare i focolai ovunque si manifestino».
Per avere successo le squadre di emergenza
devono basarsi sulle reti di esperti ed essere guidate dai capi delle agenzie
nazionali di salute pubblica».
Nessun Paese da solo può fermare la diffusione
di una malattia e serve il coordinamento dei più alti livelli di governo.
Occorre
esercitarsi per diversi tipi di agenti patogeni.
«Le
malattie respiratorie umane sono una preoccupazione enorme perché possono
diventare globali in breve tempo».
Non sono però l’unica minaccia.
«E se il prossimo agente patogeno
potenzialmente pandemico si diffondesse attraverso le goccioline di superficie?
O se
si trasmettesse per via sessuale come l’Hiv?
E se fosse il risultato di bioterrorismo?», si
interroga Bill Gates.
Ogni scenario «richiede una risposta diversa e
solo i “Corpi di Emergenza” possono aiutare il mondo ad affrontarli tutti».
Dopo un trilione di dollari di perdite e 7
milioni di vittime «non possiamo farci cogliere di nuovo impreparati».
L’umanità
«deve agire adesso per assicurarsi che il Covid-19 diventi l’ultima pandemia».
Vanno
sostenuti, perciò, i principali esperti di salute perché la prossima pandemia potrebbe
scoppiare in qualunque angolo del pianeta.
Quindi dai Paesi più ricchi devono arrivare i
fondi necessari per la prevenzione.
L’”Oms”
(corrotta!
N.d.R)
rimane «lo strumento migliore di cui disponiamo» per fermare le epidemie, ma solo un “Corpo di emergenza
sanitaria globale” può garantire «un futuro senza pandemie».
Bill
Gates sollecita investimenti in sicurezza prima che sia troppo tardi».
Servono
strumenti per fermare la diffusione di un agente patogeno.
Solo
con analisi su larga scala si possono identificare le potenziali minacce.
È fondamentale la “sorveglianza ambientale”,
come i test sulle acque reflue perché molti agenti patogeni si trovano nei
rifiuti umani.
Appena
un campione di acque reflue risulta positivo,” una squadra di risposta rapida”
deve intervenire nell’area colpita per trovare le persone infette, istruendo la
comunità su come proteggersi».
Il
miliardario filantropo preferirebbe spendere per i vaccini piuttosto che
viaggiare su Marte.
«E’ un
miglior uso del denaro», si contrappone a Elon Musk e Jeff Bezos. «Vaccinare contro il morbillo salva
vite».
L’intelligenza
artificiale può trasformare l’umanità, consentendo scoperte in campo medico e
scientifico.
Il
magnate è sorpreso per essere diventato il volto delle teorie del complotto
durante una pandemia in cui si è invece prodigato per l’accesso alle cure.
«Le persone cercano un capro espiatorio per
l’emergenza Covid, ma i complotti sono una spiegazione troppo semplicistica.
La
malevolenza è molto più facile da capire della biologia», osserva Gates, che ha trascorso
gran parte della sua vita da persona più ricca del mondo e ha donato decine di
miliardi di dollari a cause filantropiche, spesso mirate alla salute globale,
in particolare ai bambini.
Lasciata la prima linea dell’industria hi-tech
divide il suo tempo tra la lotta al cambiamento climatico e l’eradicazione
della malnutrizione e di malattie come la poliomielite e la malaria.
Ha
profetizzato già nel 2015 una pandemia da milioni di morti.
Ed è
finito nel mirino dei cospirazionisti già all’epoca dell’epidemia di Ebola in
Africa centrale.
Per i vaccini e l’addestramento del personale
sanitario ha donato 150 milioni di dollari al “programma di vaccinazione Covax” nei paesi a basso reddito.
Al
tempo stesso mette in guardia dal pericolo di bioterrorismo.
«Dobbiamo essere pronti a fermare attacchi
terroristici. Come reagirebbe il mondo se un bioterrorista portasse il vaiolo
in aeroporto?».
On
line dilagano le fake news su collegamenti con laboratori in cui si manipolano
virus letali.
In realtà Bill Gates aiuta a scongiurare
disastri (o li provoca
come ha sempre fatto! N.d.R.).
La
startup nucleare di Bill Gates
vince
750 milioni di dollari,
perde
l'unica fonte di carburante.
Canarymedia.com
– Eric Wesoff – Direttore Editoriale – (18 aprile 2022) – ci dice:
“Terra
Power” mette a segno un round di investimento da record guidato dalla “SK”
della Corea del Sud.
Ma non ha alcun fornitore di carburante
arricchito di cui ha bisogno, ora che l'approvvigionamento dalla Russia è fuori
discussione.
(18
agosto 2022”.
Un
uomo bianco con i capelli grigi e gli occhiali neri su uno sfondo blu,
Eric
Wesoff.
La
startup di fissione nucleare “Terra Power” , fondata e presieduta dal
co-fondatore di Microsoft Bill Gates, ha raccolto 750 milioni di dollari per
sviluppare reattori nucleari avanzati che fungono da alternative ai reattori ad
acqua leggera che costituiscono la stragrande maggioranza della flotta nucleare
civile mondiale. Ma il denaro da solo non sarà sufficiente per far superare alla startup
i molti ostacoli che si frappongono.
Il
design del reattore veloce “Natrium” di “Terra Power “è radicalmente diverso
dal design dei reattori nucleari tradizionali.
Per cominciare, è più piccolo.
Un
tipico reattore negli Stati Uniti produce 1.000 megawatt di potenza.
Il primo reattore dimostrativo di “Terra Power”,
ora in fase di progettazione per un sito nel Wyoming , avrà una capacità di
345 megawatt.
Le
dimensioni potrebbero ridurre e consentire di costruire il reattore a basso
costo in fabbrica e non in modo costoso in loco.
Il
reattore” Natrium” utilizzerà anche un combustibile diverso e un refrigerante
diverso rispetto ai reattori nucleari standard.
Sarà alimentato da uranio ad alto dosaggio e
basso arricchimento ( HALEU ), che è arricchito con più uranio rispetto al
combustibile utilizzato nelle centrali nucleari tradizionali.
E il
refrigerante sarà sodio liquido ad alta temperatura anziché acqua.
Il
nuovo finanziamento di “Terra Power” include $ 250 milioni dal sudcoreano “Caebol
SK Group” .
I precedenti finanziamenti per l'azienda
provenivano da “Gates” e “Warren Buffett” di “Berkshire Hathaway”.
La
società ha anche ricevuto 80 milioni di dollari dal “Dipartimento dell'Energia
degli Stati Uniti” per lavorare alla progettazione del suo reattore “Natrium”.
“Canary
“ha coperto la tecnologia di Terra Power” in dettaglio lo scorso anno, quando
l'azienda ha annunciato che “Bechtel” costruirà il suo primo reattore a “Kemmerer”,
nel Wyoming, vicino al sito di una centrale elettrica a carbone che dovrebbe
essere chiusa.
Il
Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti e gli investitori privati si
divideranno il costo del progetto dimostrativo.
La
startup afferma che questo primo reattore sarà operativo entro il 2028 e
costerà 4 miliardi di dollari, tra ingegneria, approvvigionamento e costruzione.
Se”
Terra Power” si avvicina al raggiungimento di questi obiettivi estremamente
ambiziosi, si differenzierà fortemente dall'industria nucleare tradizionale,
nota per le scadenze mancate e gli sconvolgenti sforamenti dei costi.
Gli
unici due reattori nucleari convenzionali attualmente in costruzione negli
Stati Uniti, presso l'impianto di “Vogtle “in Georgia, sono già in ritardo di
sei anni e costeranno ai clienti delle utility oltre 30 miliardi di dollari,
più del doppio del prezzo originale.
Follia
del carburante?
Un nuovo
grande problema per “Terra Power” è emerso all'inizio di quest'anno: la sua
fonte di carburante.
L'unico impianto attualmente in grado di
fornire quantità commerciali di HALEU è in Russia.
Non
era una bella situazione anche prima che la Russia invadesse l'Ucraina.
Ora che la guerra in Ucraina va avanti da sei
mesi e non mostra segni di risoluzione, fare affidamento sul carburante
proveniente dalla Russia è insostenibile.
A
marzo, “Terra Power” ha dichiarato di aver tagliato i legami con “Tenex”, la
società statale russa da cui aveva pianificato di procurarsi “HALEU” , secondo
quanto riferito da “WyoFile”, testata giornalistica senza scopo di lucro con
sede nel Wyoming.
"Quando
la Russia ha invaso l'Ucraina è diventato molto chiaro, per tutta una serie di
ragioni - ragioni morali oltre che ragioni commerciali - che l'utilizzo di
carburante russo non è più un'opzione per noi", ha affermato “Jeff Navin”,
direttore degli affari esterni di “Terra Power”.
“Terra
Power” ha appena ricevuto buone notizie questa settimana quando il presidente “Biden”
ha firmato l'”Inflation Reduction Act” in legge.
La legislazione USA comprende 700 milioni di dollari per
aiutare a costruire una catena di approvvigionamento nazionale per “HALEU”.
Il finanziamento potrebbe dare una spinta ai
piani del “Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti “per lanciare un
programma di disponibilità “HALEU “autorizzato dal Congresso USA.
Ma lo sviluppo della capacità produttiva di “HALEU
“negli Stati Uniti richiederà anni.
“Terra
Power” non ha spazio di manovra per ritardare.
Se non completerà il suo progetto dimostrativo
entro il 2028, rischia di perdere fino a 2 miliardi di dollari di finanziamenti
federali dal programma di dimostrazione del reattore avanzato del “Dipartimento
dell'energia degli Stati Uniti” e l'opportunità di revisioni regolamentari
federali accelerate.
Alcuni
esperti sono scettici sul fatto che “Terra Power” rispetterà la scadenza,
soprattutto ora che non ha fonti di carburante.
"Non
pensare fosse fattibile prima che questa chiave inglese venisse lanciata",
ha detto a “WyoFile” a marzo “Edwin Lyman”, direttore della “sicurezza
dell'energia nucleare per l'Unione degli scienziati interessati”.
Una
rinascita nucleare?
Nonostante
questi venti contrari,” Terra Power” ha appena raccolto $ 750 milioni, quindi
non è l'unico ad anticipare una rinascita dell'industria dell'energia nucleare.
L'”Inflation
Reduction Act “aiuterà non solo “Terra Power” alimentata da “HALEU”, ma anche
il resto del settore dell'energia nucleare:
include
un credito d'imposta sulla produzione per l'energia nucleare, un incentivo che
andrà a beneficio delle centrali nucleari in difficoltà che esistono già in
tutto il paese e degli sviluppatori di nuovi tipi di reattori nucleari.
Oltre a Terra Power”, quest'ultima categoria
include le startup statunitensi “NuScale” e “Oklo” .
Gli
obiettivi climatici dell'amministrazione Biden per il 2030 si basano in parte
sull'energia nucleare, attualmente la più grande fonte di elettricità senza
emissioni di carbonio negli Stati Uniti.
2 miliardi per lo sviluppo di tecnologia
nucleare avanzata.
Secondo “Jigar Shah”, direttore dell'ufficio, l'ufficio per i programmi di prestito
del Dipartimento dell'energia ha 11 miliardi di dollari di finanziamenti per
centrali nucleari e catene di approvvigionamento nucleare.
Persino
alcuni leader politici che in passato sostenevano la chiusura delle centrali
nucleari stanno ora sostenendo di tenerle aperte.
La
scorsa settimana, il governatore della California “Gavin Newsom” (D) ha
proposto una legislazione volta ad aiutare l'ultima centrale nucleare dello
stato a rimanere in funzione oltre la prevista data di chiusura del 2025,
sostenendo che è necessaria per mantenere la stabilità della rete elettrica a fronte di un aumento dello stress
da disastri alimentati dal cambiamento climatico come ondate di calore e
incendi.
E
stati tra cui “Illinois” , “New York” e “New Jersey” hanno approvato leggi che
offrono aiuti economici per mantenere in funzione le loro centrali nucleari.
L'industria
nucleare ha minacciato una rinascita per decenni, ma il dispiegamento di una
nuova energia nucleare non ha mai seguito la retorica aspirazionale.
Sta
finalmente cambiando?
Le crescenti preoccupazioni per il cambiamento
climatico, oltre a una confluenza di cambiamenti nella tecnologia, nella
politica, nell'economia e nel sentimento pubblico, potrebbero finalmente
rianimare questa industria ossificata.
Anche
se in passato ci sono state false partenze per l'energia nucleare, sembra
esserci più motivo di ottimismo del solito.
È
discutibile se l'ottimismo debba essere applicato a “Terra Power”, considerando
le sfide uniche che deve affrontare.
Ma alcuni investitori rispettabili scommettono
che dovrebbe - nel più grande round di finanziamento privato mai realizzato per
la tecnologia avanzata della fissione nucleare.
TRUMP
e L’AMERICA DIMENTICATA.
Leparoleelecose.it
- Alessandro Brizzi – Mauro Piras –
(20- 1- 2020) – ci dicono:
Nelle
analisi sulla vittoria di Donald Trump si possono individuare due diversi
approcci.
Il primo, per così dire «culturalista», si
concentra sugli aspetti discorsivi della sua campagna elettorale, individuandone
con legittima preoccupazione il sessismo, la xenofobia e il razzismo.
Il secondo, più attento ai fattori socioeconomici, considera
l’evoluzione demografica degli Stati Uniti, la distribuzione territoriale e
generazionale del voto e, soprattutto, gli indicatori sul tasso occupazionale,
il livello di istruzione e l’andamento delle disuguaglianze.
Le
riflessioni post-voto si devono perciò muovere da un piano all’altro, per ovvie
esigenze di sintesi, saldando società e politica, bisogni e risposte.
Tuttavia, molto spesso si incorre nel rischio
di attribuire, in maniera deterministica, una coscienza politica fissa e
«naturale» a interi gruppi sociali.
Il risultato è che all’elettore medio di Trump,
«maschio bianco impoverito» e sprovvisto di un titolo del college, vengono
arbitrariamente attribuiti connotati, pensieri e addirittura colpe morali.
Tuttavia,
per analizzare la vittoria dei repubblicani conviene partire, più che dalla
scelta estrema di un fantomatico tipo antropologico, dalla sconfitta dei democratici
– e non solo di Hillary Clinton, ma dei vertici del partito.
La
loro strategia elettorale si è infatti delineata chiaramente negli scorsi decenni, ed è
apparentemente lungimirante: puntare sulla demografia.
La
macchina del partito, a livello nazionale e locale, doveva ricercare
un’alleanza tra gruppi dal crescente peso all’interno della società
statunitense, contrassegnati da una precisa identità etnica (i neri e gli
ispanici), di genere (le donne) o da uno statuto di minoranza (la comunità Lgbt).
La
rappresentazione delle istanze di questi gruppi trovava una risposta nell’ “identity politics”, attenta alla conciliazione delle
diverse pressioni lobbistiche (nel senso originario del termine) in un
programma di espansione dei diritti civili e di tutela delle minoranze.
Si
trattava, beninteso, di una strategia elettorale, alla quale affiancare una
strategia politica malleabile ma al tempo stesso imperniata, soprattutto a
partire dagli anni novanta, sulla fiducia nella globalizzazione.
La
candidatura di Hillary Clinton si inseriva in questo processo senza apparenti
discontinuità.
È vero che il “Partito democratico Usa “ha
diverse anime, non sempre in accordo tra loro: si va da quella “liberal” alle”
progressive” e infine alle “moderate”.
Le
primarie del 2008, per esempio, opponevano il progressista Obama alla moderata
Clinton.
Tuttavia,
le credenziali che l’ex first lady offriva ai democratici erano più che solide:
un
lungo percorso di promozione dei diritti delle donne e una solida esperienza
nell’amministrazione.
A
queste qualità però ne va aggiunta un’altra, meno spendibile sul piano
mediatico ma certamente più convincente per i finanziatori del partito:
la
vicinanza a Wall Street, alle corporations e alle élite urbane.
In incontri a porte chiuse organizzati da “Goldman
Sachs”, la candidata democratica esaltava la libera circolazione dei capitali, scusandosi
per le accuse che aveva dovuto rivolgere, «per ragioni tattiche», al mondo
finanziario.
All’esterno,
intanto, si cuciva l’abito della perfetta democratica, grazie ai consigli degli
attentissimi spin doctors:
erede
di Obama e amica della popolazione nera, oppositrice del movimento dei “gun
rights”, “madrina della comunità Lgbt” e paladina dell’”Obamacare”.
Si
trattava dei temi migliori e più nobili da proporre nell’ambito di una campagna
elettorale classica.
Il
punto, però, è che il 2016 è stato un anno tutto meno che classico.
Sarà invece ricordato come l’anno in cui si
sono affermati i movimenti, generalmente etichettati come «populisti»,
cresciuti nella contestazione dell’establishment che ha gestito la crisi
economica.
La “Brexit” di giugno ha anticipato, pur con
tutte le differenze del caso, alcuni degli eventi che si sono verificati nelle
elezioni americane:
: proposta
di un aut aut elettorale secco;
divisione tra un blocco dominato dal centro
liberista e dalla sinistra liberal e un altro egemonizzato dalla destra
xenofoba e protezionista;
schieramento nel primo di capi di Stato e
banche d’affari (nonché di stelle del cinema e dello spettacolo!);
vittoria
del secondo, anche (e non solo) grazie ai voti provenienti dalle vecchie aree
industriali.
Le
aree industriali abbandonate dovrebbero essere l’angolo visuale privilegiato
per l’analisi della vittoria di Trump come della Brexit.
Questo non perché esse siano state irrimediabilmente
conquistate ai populismi di destra:
ben
lungi dall’esprimersi compattamente, parte della vecchia classe operaia ha
deciso di andare a votare e di dare una spinta a uno dei due fronti.
Infatti, per il funzionamento stesso del voto
referendario o del collegio elettorale statunitense, bastavano pochi voti di
differenza:
voti
che sono giunti dalle Midlands inglesi e dal Midwest americano.
Se
analizzato sotto il profilo geo-economico, il risultato nel Midwest e in
Pennsylvania è estremamente significativo.
Bisogna evitare di attribuire a Trump i
consensi della “working class” e della “middle class impoverita” in maniera
indifferenziata, ma solo perché gli indicatori degli “exit poll” non consentono
questa operazione.
È
difficile infatti individuare questi gruppi nelle statistiche ordinate per
reddito:
se si
cerca nella fascia più bassa, per esempio, vi si trova la maggior parte della
popolazione nera e dunque un ampio consenso per Clinton.
Eppure,
considerando la distribuzione territoriale del voto e confrontandola con la
diffusione dell’industria manifatturiera, in particolare tra Iowa, Wisconsin e
Michigan, si vede Trump prevalere ovunque, eccetto che nelle grandi città.
Le
grandi città sono attraversate da contraddizioni lancinanti ben più
dell’America rurale, e sono maggiormente coinvolte da episodi di criminalità –
occasionalmente da proteste e “riots”.
Eppure in queste storicamente prevalgono i
democratici.
In questi luoghi dell’«economia della cultura
e della conoscenza», essi godono dell’appoggio tanto delle élite urbane e della
creative class, quanto delle minoranze più povere e meno tutelate.
Subito
al di fuori di queste, c’è un’America periferica che vive quotidianamente nella
«grande paura», che si sente insieme minacciata da crogiuoli multiculturali ed
esclusa dai centri del potere economico e politico.
Di
quest’America periferica, finora, facevano parte soprattutto le aree rurali,
che infatti hanno sempre votato repubblicano;
ora si
aggiungono anche le zone di industrializzazione diffusa della “Rust Belt”.
Quest’America
non si comporterebbe tutta da «campagna francese», se il suo tessuto produttivo
non fosse stato distrutto dai trattati di libero scambio e dalla crisi
economica.
O
almeno se avesse ricevuto una risposta politica alternativa: a cose fatte,
molti si chiedono se “Bernie Sanders” avrebbe potuto fare meglio della “Clinton”.
Forse,
al di là delle ipotesi controfattuali, conviene assumere un dato:
l’opzione
populistica della sinistra americana è stata deliberatamente sabotata
dall’establishment democratico.
Grazie
alle rivelazioni di “Wikileaks” sappiamo che lo staff elettorale di “Hillary
Clinton”, i vertici del “Democratic National Committee” e un insieme di
giornalisti di importanti network (tra cui l’NBC) hanno lavorato in maniera
attiva per mettere fuori gioco il candidato socialdemocratico.
Ma non serve immaginare particolari complotti,
dato che la maggior parte del processo si è svolta alla luce del sole:
tutti i grandi democratici, dagli
intellettuali liberal come Paul Krugman ai giornalisti del Washington Post,
hanno lodato l’«incrementalism» della Clinton, opposto al velleitarismo
rivoluzionario dei sostenitori di Sanders;
hanno
riempito intere pagine di considerazioni sulla vacuità della sua proposta
economica;
l’hanno
accusato di essere sessista e razzista.
Chi
ama richiamare la «post-factual era» a proposito di Trump, dovrebbe rileggere i
numerosi articoli – assolutamente liberali – in cui Sanders, militante della
prima ora del movimento per i diritti civili, veniva di fatto paragonato a
Donald Trump.
E la battaglia è stata ingaggiata dallo stesso
fronte che poi si è scagliato su Trump, non dalla “repubblicana Fox”.
A
destra invece il «dirottamento», ovvero l’ascesa del candidato
anti-establishment, è riuscito.
Forse
era prevedibile, per due ordini di ragioni.
La prima è che l’establishment, dal 2008 al
2016, si è identificato principalmente con il Partito democratico.
È vero che i repubblicani detenevano
l’amministrazione di numerosi stati e la maggioranza nelle camere, ma resta il
fatto che il vertice della piramide di Washington era democratico.
La seconda è che, anche grazie all’apporto del
“Tea Party” negli ultimi anni, la destra repubblicana ha costruito una sua
versione dell’ “identity politics”, in negativo rispetto a quella democratica.
Di qui la creazione culturale dell’americano
«medio», che non si riconosce nello strepito dei movimenti per i diritti civili
e sociali, che a «black lives matter» risponde «all lives matter», che non vede
di buon occhio il ribaltamento dei ruoli di genere.
Foraggiare
questi modelli culturali, sfruttare e organizzare politicamente le derive
xenofobe e sessiste, sdoganare del tutto il richiamo alle armi non sono idee
originali di Donald Trump, bensì fanno parte di una strategia che il Partito
repubblicano e i suoi organi, come “Fox News”, perseguono consapevolmente da
anni.
Una
simile strategia non era lungimirante, a differenza di quella democratica,
prima che Trump comprendesse come declinarla.
Innanzitutto si è fatto campione del
nazionalismo, l’opzione politica per eccellenza dei leader della nuova destra,
particolarmente efficace per opporsi ai centri del potere economico, lontani e
invisibili.
Ma la
sfida non è rivolta all’Unione Europea, al Fondo monetario internazionale o a
Wall Street, alla galassia policentrica degli interessi economici dominanti.
Si
guarda invece ai nuovi avversari – come la Cina, l’oggetto di amore e odio del
trumpismo – e all’impetuosa crescita del loro potere economico e geopolitico.
E di conseguenza il nazionalismo di Trump è
produttivista e neo mercantilista: caratteri, questi, che gli hanno consentito
di intercettare chi vive in zone che hanno visto sparire la propria vocazione
produttiva e, insieme ad essa, ogni segno tangibile del buon funzionamento e
della potenza economica degli Stati Uniti d’America.
Il paese promesso da Trump non si preoccupa dunque del
problema posto dall’esaurimento delle risorse energetiche o dal riscaldamento
globale: per produrre quanto la Cina, dovrà consumare quanto la Cina.
Abbattendo
il muro del «politicamente corretto», ovvero tutte le regole basilari della
politica come professione, Trump si è messo contro tutto e tutti.
Ha
così materializzato in un sol colpo tutte le chimere evocate dalla destra nel
corso degli ultimi decenni:
dai
movimenti dei neri ai professori liberal, dai vecchi politici di Washington ai
giornalisti «amici dei Clinton».
Contro
le inevitabili denunce della stampa e degli avversari, ha deciso di affidare la
maggior parte del suo storytelling alle piattaforme social, dove il criterio di
una verità è il suo potere effettivo – il numero delle condivisioni – più che
la varietà delle fonti.
In
questo modo, Trump è riuscito a creare una rappresentazione efficace che unisse
le energie dei nazisti di professione, i soldi e il sostegno dei fautori del
protezionismo a bassa pressione fiscale, dei nemici di “Obamacare” e degli
strenui difensori del secondo emendamento (ovvero la National Rifle
Association) e i voti di un 25 per cento di «forgotten Americans» – come li ha
chiamati nel suo primo discorso.
Ora è da aspettarsi che, per soddisfare le richieste
di questa alleanza, proceda in primo luogo a ingraziarsi chi ne è stato il
primo artefice: l’establishment repubblicano.
Se
così sarà, la destra statunitense potrà in parte riassorbire l’insorgenza
populistica, usandola per cementare i cambiamenti della mappa elettorale.
D’altronde qualcosa di simile è avvenuto nel Regno Unito, dove i conservatori
hanno raccolto le spoglie dello “Ukip” e il mandato del referendum.
Questo
però non significa che bisogna attendersi una stabilizzazione della situazione.
Dopotutto, la carica di presidente degli Stati
Uniti riserva al singolo uomo una certa capacità di intervento nella storia –
anche quando quest’uomo è Donald Trump.
EPSTEIN
E LA DEGRADANTE ELITE GLOBALISTA.
Labottegadelbarbiere.org
– (31 Luglio 2019) - Redazione - Antonello Boassa – ci dice:
Come
può essere possibile che un illustre personaggio come “Mark Lowcock”, “Segretario
generale degli affari umanitari” dell’ONU, possa affidarsi per stendere la sua
relazione sulla situazione attuale del conflitto in Siria sulle informative
provenienti da “ONG squalificate” in provata combutta con il “jihadismo
terrorista”, come appunto sono gli “White Helmets”?
E come
può essere possibile che “Michele Bachelet”, ex presidente del Cile e attuale “Alta
Commissaria dell’ONU per i diritti umani “nella sua relazione sulla crisi sociale ed economica del
Venezuela abbia ignorato il feroce embargo imposto al Paese da Washington e da
Bruxelles, l’oro congelato dalle banche europee, i continui tentativi di
sovversione violenta delle istituzioni da parte delle opposizioni armate, le “guerimbas”
gestite da mercenari e le molte vittime di cui si sono macchiate, i tentativi
di assassinio di “Chavez” e di “Maduro”, l’autoproclamazione terrorista di “Guaido”
come presidente della Repubblica?
Come è
possibile che dieci edifici di un villaggio palestinese siano a rischio di
distruzione, per i soliti motivi di sicurezza addotti da Israele, perché troppo
vicini a un muro che non è stato certo ideato e costruito dai palestinesi…
e come
è possibile che l’ONU, così “vigile” sui diritti umani non sia capace non dico
di effettuare un’indagine e di relazionare ma neanche di porre all’ordine del
giorno l’esecrabile impunità sionista, dato che si tratta degli “intoccabili”
che tutto possono?
E
ancora come può essere possibile che “Il Corriere della Sera” sugli arsenali
colmi di armi sofisticate “benedette da croci uncinate” in Piemonte, in
Lombardia, in Emilia non veda l’ovvio nesso fra” i nazisti nostrani “e quelli “ucraini”
allevati e addestrati dalla “Nato” che recluta terroristi perché l’Ucraina sia
sotto il controllo di USA/UE/Israele e sia testa d’ariete contro l’Orso russo,
guerra che l’irresponsabilità delle oligarchie globaliste rende sempre più
probabile.
L’Ucraina:
dove è
stato creato un governo fantoccio, di affiliazione nazista, prossima ad entrare
nella Nato ufficialmente;
l’Ucraina dove chi sventola o detiene una
bandiera russa o un semplice simbolo come quello di “S.Giorgio” può essere
arrestato e trattenuto in prigione per anni?
Come
può essere possibile che nonostante i jihadisti nella provincia di “Idlib”, con
il supporto di “Tharir Al Sham”, bombardino di continuo i villaggi situati
sulla linea del fronte (su cui l’ONU sembra non avere nulla da ridire), le
sanzioni dell’Occidente colpiscano lo Stato siriano, accusato incredibilmente
di distruggere ospedali, scuole, panifici, quando invece le forze siriane e
russe sono impegnate a colpire le linee di rifornimento prevenienti dalla
Turchia, i depositi di armamenti e di fonti energetiche, le aree di comando:
sanzioni che sono destinate a perpetuarsi e a
peggiorare con il fantastico duo al timone di comando dell’oligarchia
dell’Unione cioè Ursula von der Leyen” e “Christine Lagarde” senza trascurare
la malandata ma sempre “zarina” “Angela Merkel”?
E come
può essere possibile che il “miliardario pedofilo” “Jeffrey Epstein” – amico
intimo di “Guislane Maxwell”, figlia di “Robert Maxwell”, conclamata spia doc
del Mossad – sia riuscito a uscire di carcere dopo qualche mese nel 2008
sebbene fosse stato condannato per reati con trenta minorenni?
A meno che non si ipotizzi una qualche forma
di protezione dai servizi segreti statunitensi e israeliani, come ci viene
suggerito dall’ex Procuratore di Miami Alexander Acosta:
«Mi era stato detto che Epstein apparteneva
all’intelligence USA e che avrei dovuto
lasciarlo in pace»?
Ma si
sa…
la
pedofilia può essere considerata una pratica orrenda, a meno che non serva alla
tutela dello Stato.
Perché
il buon “Epstein”, trasportando i gaudenti con il suo aereo personale (un
Boeing) nella sue isole offshore garantiva a ministri, banchieri, politici,
regnanti…droga e sesso con minori che neanche Caligola ai suoi tempi.
Nella
sua agenda appaiono nomi come “Bill Clinton”, il “principe Andrea”, “Kissinger”,
“Rothschild”, cardinali e vescovi.
Il
record di presenze: Bill Clinton con 27 voli.
Naturalmente le riprese cinematografiche dei rapporti
sessuali erano affidate a seri professionisti, in modo che “Mossad” e “Cia”
potessero disporre di filmati eccellenti in modo da incastrare i gaudenti per
corromperli e ricattarli al fine di favorire pressioni per raggiungere vari
obiettivi, come ad esempio un finanziamento ad Al-Qaeda, una guerra contro il
Libano o l’Iran, lo sdoganamento delle “Fondazioni sioniste attive” nella
propaganda “antisemita” …
Ora
Jeffrey è in carcere.
Vuole
spifferare tutto per avere una diminuzione di pena.
Riuscirà a sopravvivere?
Ma
perché i media nostrani ne parlano poco e superficialmente?
Forse
perché quando la rogna è troppo fetida e riguarda i vip della politica, della
finanza, della cultura, della religione, è meglio darsi una calmata, se si
vuole fare carriera.
Non
parlatemi di mele marce, tutta l’élite globale è marcia:
distruzione
dell’ambiente, povertà per miliardi di persone, guerre e genocidio, media e
social asserviti, ceti intellettuali al servizio della menzogna e del plagio
sono l’inevitabile esito dell’avidità di denaro, di dominio delle classi
dominanti attuali oramai al livello del sub-umano.
Di
fronte al nazionalismo della Grande Russia,reinventiamo l’internazionalismo.
Machina-derivaapprodi.com
- Pierre Dardot e Christian Laval – (25 mag. 2022) – ci dicono:
Pubblichiamo
le osservazioni di Pierre Dardot e Christian Laval sull'attuale Guerra in
Ucraina.
L’impero
zarista e la questione ucraina.
Dobbiamo
a Hegel la famosa frase – tratta dal commento del “§ 324 dei Principi della filosofia
del diritto” – che alcuni sono tentati in questi giorni di rapportare al nostro
presente:
«Le
guerre hanno luogo quando sono necessarie, poi i raccolti crescono di nuovo e
le chiacchiere tacciono davanti alla serietà della storia».
In
questo passo, il filosofo attacca l’atteggiamento incoerente di coloro che
avevano previsto ciò che sarebbe accaduto in discorsi edificanti e che, una
volta messi di fronte all’evento, iniziano a maledire gli invasori che appaiono
«sotto forma di ussari con le sciabole sguainate» perché minacciano la
sicurezza delle loro proprietà.
Egli
vede in questo un’incapacità di cogliere la necessità storica che lavora sotto
la contingenza dell’evento.
In effetti, lungi dall’opporsi a questa
necessità, l’evento la realizzerebbe in una forma inaspettata e scomoda per
coloro che hanno fatto tali previsioni.
Possiamo
decifrare la situazione inedita creata dall’aggressione della Russia
all’Ucraina alla luce di questa citazione?
Per
quanto possa sembrare allettante, il nesso è altamente incerto.
In che
modo la guerra di Putin del 24 febbraio manifesterebbe una qualche necessità
storica?
E in
che modo Putin potrebbe essere considerato l’agente inconsapevole di questa
necessità?
Gli «ussari con le sciabole» di Hegel, gli
squadroni di cavalleria degli eserciti rivoluzionari creati nel 1792, trovano
il loro equivalente moderno nei soldati russi che ora assediano le principali
città dell’Ucraina?
Nella
mente di Hegel, la «necessità storica» manifestata dalla carica degli ussari è
quella della Rivoluzione francese che si difende dagli eserciti
controrivoluzionari coalizzati dell’Europa incoronata.
È
questa Rivoluzione che egli celebra come «una magnifica alba» perché sostiene
che le istituzioni esistenti devono essere ricostruite a partire dal «principio
del diritto».
Che
cosa ha a che fare tutto questo con l’aggressione deliberata di un paese
indipendente in spregio a qualsiasi legge e guidata dal desiderio di
ripristinare una grandezza imperiale perduta?
Inoltre,
possiamo aspettarci che «i raccolti crescano di nuovo» in una regione che è
conosciuta come granaio di frumento grazie alla sua «terra nera», la cui
fertilità era già stata riconosciuta dallo storico greco Erodoto?
Non dovremmo piuttosto temere che le
devastazioni subite da questa terra abbiano effetti duraturi, minacciando di
carestia intere regioni del mondo, prima fra tutte quelle africana?
Infine,
possiamo davvero dire che le chiacchiere tacciono di fronte alla serietà della
storia?
Non
stiamo invece assistendo alla loro proliferazione incontrollata, soprattutto da
parte di coloro che, in nome del «non allineamento», coprono la voce delle
vittime con sproloqui indecenti e cercano di far dimenticare il loro malsano
fascino per lo sfrenato scatenamento del potere statale?
Lo
zarismo e la «questione ucraina».
Lungi
dal procedere da qualche necessità storica, la decisione di Putin è in realtà
dettata dall’ossessione di ristabilire la continuità di una storia molto
antica, interrotta da rotture vissute come traumi da un uomo che ha trascorso
buona parte della sua carriera come agente del Kgb a Dresda e ha vissuto il
crollo dell’Urss nel 1991 come un’umiliazione che richiedeva una riparazione.
Il 12
luglio 2021 ha delineato la sua concezione della storia:
alla
«Grande nazione russa» è stato assegnato un ruolo di primo piano, mentre
bielorussi e ucraini sono apparsi come «piccoli russi».
L’uso
stesso di questi termini rivela una continuità, ma quale?
L’Ucraina,
il cui nome significa «marca» o «regione di confine» in russo e polacco, ha
fatto parte dell’Impero russo tra il XVIII e il XX secolo.
I russi sono stati a lungo inclini a ridurre
l’Ucraina a «Russia meridionale» o «Piccola Russia», «una mera provincia senza
identità nazionale», gli ucraini a una «tribù», mai a un «popolo» o a uno
«Stato», e l’ucraino a un «dialetto» o addirittura a un «patois» privo di
esistenza indipendente.
Per
tutto il XIX secolo, gli zar percepirono le aspirazioni all’autonomia della
regione come una minaccia alla coesione dell’Impero e cercarono con ogni mezzo
di proibire l’uso della lingua ucraina.
La
presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre 1917 non cambiò
sostanzialmente niente all’atteggiamento di condiscendenza dei russi nei
confronti degli ucraini, soprattutto perché lo stato delle relazioni tra il
nuovo regime e i contadini ucraini peggiorò rapidamente.
Nel
1919 scoppiarono rivolte contadine, la più famosa delle quali fu la rivolta di “Makhno”
nell’Ucraina sud-orientale (Zaporijia), che combatté contro le armate bianche
di “Denikin” e i nazionalisti ucraini prima di rivoltarsi contro il regime
bolscevico.
All’inizio
degli anni Venti, la pratica della requisizione forzata sistematizzata dal
regime del «comunismo di guerra» portò infine a una carestia che colpì
duramente l’Ucraina meridionale, tra altre regioni (del paese).
Nel
1921, con la “Nuova Politica Economica” (Nep), e poi nel 1923, con la politica
di «indigenizzazione» (chiamata «ucrainizzazione» in Ucraina), il regime fece
una svolta che fu difficile da accettare per i bolscevichi di lingua russa in
Ucraina.
Come
scrive la storica “Anne Applebaum”:
«Ancora
una volta, nelle loro prospettive: c’era lo sciovinismo russo: per tutta la
loro vita, l’Ucraina era stata una colonia russa ed era difficile per loro
immaginare che fosse altrimenti.
Per molti l’ucraino era una «lingua da
cortile».
Come lamentava il comunista ucraino “Volodymyr
Zatonskyi”, era una vecchia abitudine dei compagni considerare l’Ucraina come
la Piccola Russia, una parte dell’Impero russo – un’abitudine incisa nella
memoria lungo i millenni di esistenza dell’imperialismo russo».
Di questo
si rese conto troppo tardi Lenin che, nel suo famoso” Testamento del 1922,”
osservava amaramente, ma non senza contraddizioni con la sua stessa prassi, che
la centralizzazione statale «presa in prestito dallo zarismo» si stava
ricostituendo, appena «leggermente spalmata di vernice sovietica» e che la
«marmaglia sciovinista della Grande Russia» era tornata in auge sotto le vesti
dell’”unione delle repubbliche”.
I
«compagni» di “Zatonskyi” e “Lenin” conoscevano molto male i loro «classici».
È forse utile ricordare oggi, quando il
fantasma della Russia imperiale torna a perseguitare l’Europa, il modo in cui”
Marx ed Engels “analizzarono la politica estera della Russia zarista.
Marx ed Engels individuarono nella politica
estera della Russia zarista un desiderio che mirava, pur non avendone i mezzi a
causa del suo arcaismo feudale, di “dominio universale”.
Questa Russia era arrivata a costituirsi come il
«centro della reazione politica», il «principale nemico dei popoli europei», la
«spina dorsale dell’alleanza dei despoti europei», secondo le forti espressioni
dei due autori.
Lungi
dal pacifismo, la domanda strategica che si posero fu come allentare la morsa
reazionaria su tutti i paesi europei, specialmente quelli dell’Europa centrale,
stretti tra l’Inghilterra capitalista e l’espansionismo russo.
Non
c’era nulla di tortuoso o complesso nella loro risposta.
Già
nel 1865, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori aveva scritto sulla sua
bandiera:
«Resistenza
all’invasione russa in Europa – Restaurazione della Polonia».
Per “Marx
ed Engels”, era l’intero proletariato europeo a dover sposare la causa della
Polonia, la cui nuova insurrezione era stata appena schiacciata in modo atroce
nel 1863.
Rovesciare
lo zarismo e annientare questo incubo che incombe su tutta l’Europa è, ai
nostri occhi, la prima condizione per l’emancipazione delle nazioni dell’Europa
centrale e orientale.
Tali
erano per Engels nel 1888 i «compiti del partito operaio nell’Europa
orientale».
Ci si poteva aspettare solo risultati positivi
per la libertà:
«La Polonia sarà restaurata; la Piccola Russia
potrà scegliere liberamente i suoi legami politici;
i rumeni, i magiari e gli slavi del Sud,
liberi da interferenze straniere, potranno risolvere i loro affari e i problemi
di confine tra di loro».
E sarà persino, prevede “Engels”, un mezzo per
liberare gli stessi russi dall’incessante spreco di energie consumate nelle
conquiste territoriali: «finalmente la nobile nazione dei Grandi Russi non andrà più
alla caccia insensata di conquiste che giovano solo allo zarismo, ma compirà la
sua autentica missione civilizzatrice in Asia e, in collegamento con l’Occidente,
svilupperà le sue impressionanti capacità intellettuali, invece di consegnare i
migliori dei suoi figli ai lavori forzati e al patibolo».
La
sovranità dello Stato portata al culmine.
L’attuale
guerra porta alla luce le radici profonde della logica della sovranità statale.
In
particolare, rende completamente obsoleta la riduzione della sovranità politica
a una «semplice forma» al servizio dell’economia:
sarebbe
lo sviluppo del capitale che, attraverso l’espansione del mercato, sosterrebbe
la forma dell’autorità sovrana, una forma che da sola è impotente.
Questa
riaffermazione iper-marxista del primato dell’infrastruttura sulla
sovrastruttura è sostenuta dall’immagine di un «mondo liscio» realizzato
attraverso la cancellazione della società civile e dei confini nazionali.
Se
tale interpretazione poteva essere illusoria nei primi anni Duemila, ora si sta
dimostrando del tutto incapace di rendere conto degli eventi attuali.
In
verità, tutti i grandi eventi geopolitici recenti, tutti gli scontri, tutti i
giochi di rivalità mostrano fino a che punto la sovranità politica non possa
essere afferrata all’interno delle sole coordinate della razionalità capitalista.
L’invasione dell’Ucraina da parte degli
eserciti russi ne è oggi la prova più drammatica.
La
condotta di Putin appare in questo senso come il culmine fanatico e delirante
della logica della sovranità statale.
Il
nazionalismo della Grande Russia si scatena senza freni, in particolare
attraverso l’invocazione della figura di Stalin, magnificato come leader della
«guerra patriottica» contro il nazismo, che permette di legittimare la guerra
di aggressione in nome della lotta per la «denazificazione» dell’Ucraina.
Le
radici della sovranità statale risalgono alla prima storia dell’impero zarista
e conferiscono alla sovranità statale un significato spesso molto più pesante,
per la sua natura mistica, rispetto alla logica degli interessi immediati delle
oligarchie economiche e finanziarie.
La
minaccia di default dovuta all’incapacità di Mosca di rispettare la scadenza
per il rimborso del debito pubblico (117 milioni di dollari) non è sufficiente
a piegare la Russia.
È noto
che la Russia ha accumulato enormi riserve di valuta estera e di oro per
prepararsi alla guerra e alle sanzioni.
Ma se
ci limitassimo a considerare solo questo aspetto, perderemmo di vista il punto
principale.
Putin
è arrivato a chiedere che tutti i debiti esteri siano pagati in rubli, in una
moneta che a oggi ha perso quasi il 30% del suo valore, il che la dice lunga
sull’inadeguatezza della sola minaccia finanziaria di fronte all’affermazione
della sovranità dello Stato russo.
Sarebbe
altrettanto fuorviante fare dell’espansione economica il motore
dell’imperialismo russo, secondo uno schema convenzionale che non coglie la
questione essenziale: l’ossessione per la collocazione storica della «Grande
Russia».
Il
padrone del Cremlino, infuriato per le battute d’arresto del suo esercito e per
l’inaspettata resistenza degli ucraini, è impegnato in una logica di fuga in
avanti e di corsa a perdifiato che è difficile capire come potrebbe uscirne.
“Il
paragrafo 324 della Filosofia del diritto di Hegel,” citato all’inizio di
questo articolo, si svolge in un commento intitolato Sovranità nei confronti
del mondo esterno:
tratta quindi del rapporto che ogni Stato ha
con tutti gli altri.
Questo aspetto della sovranità presuppone la
«sovranità nel suo aspetto interno» o «sovranità interna», discussa nel §278
dello stesso libro.
Il
filosofo tedesco afferma giustamente l’inseparabilità di questi due aspetti.
Sovranità esterna e sovranità interna non sono due forme di sovranità, ma due
facce della stessa realtà, che è lo Stato.
Ma ne
approfitta per sostenere che esiste una proporzionalità diretta tra questi due
aspetti:
meno i
popoli sono in grado di sostenere la sovranità interna, meno sono in grado di
lottare per la propria indipendenza esterna e più facilmente soccombono a una
potenza esterna, e viceversa.
Il filosofo valorizza quindi il «momento
etico» della guerra come condizione per la conservazione della libertà.
Ciò
che è importante qui, al di là di questa valorizzazione che si deve ovviamente
rifiutare, è il riconoscimento dell’indissociabilità della sovranità esterna e
interna.
Ciò è
facilmente verificabile nel caso della Russia di Putin:
la
brutale affermazione della sovranità dello Stato all’esterno va di pari passo
con un rafforzamento sempre più autoritario della sovranità interna esercitata
dallo Stato sui suoi cittadini, escludendo persino l’elementare diritto di
chiamare guerra quella che è una guerra, e una delle peggiori nel cuore
dell’Europa dal 1945.
La
posta in gioco è piuttosto semplice, anche se molti cercano di oscurarla.
Da un
lato,
un’aggressione di inaudita brutalità e ferocia, che traspone in Ucraina i
metodi di terrore contro le popolazioni civili sperimentati dall’esercito russo
durante le due guerre in Cecenia e in Siria, con la vergognosa compiacenza
dell’Occidente.
Dall’altra parte, un popolo che resiste a
un’invasione, non solo un esercito di professionisti, ma cittadini comuni che
prendono le armi per difendere il diritto all’indipendenza del loro Paese.
È una
questione di principio.
La
scelta non è discutibile.
Il
fallimento dell’«antimperialismo a senso unico».
Contro
il campismo, questo antimperialismo a senso unico che attraversa alcune
correnti della sinistra, dobbiamo finalmente prendere in considerazione
l’imperialismo russo.
Studiarlo
da vicino non significa invertire la stupidità campista;
significa affermare che qualsiasi analisi che
non lo prenda sul serio si squalifica da sola.
Il
putinismo è un pericolo mortale per i popoli.
Da qui
l’urgenza di combatterlo senza nessuna debolezza.
Molti
a sinistra hanno ancora difficoltà a contare fino a due.
Avere
due nemici e non uno solo, combattere su due fronti e non uno solo, non è
ovviamente comodo.
È molto meno difficile per la mente poter
contare sul buon, l’unico, il solo Nemico. Il semplicismo politico, nato da
vecchie abitudini, ignoranza, amnesia e molta pigrizia, corrode una parte della
sinistra radicale fino all’indegno.
Fortunatamente, non tutta.
“Balibar”
ci ha appena ricordato che di fronte all’invasione russa dell’Ucraina «il
pacifismo non è un’opzione» e che «l’imperativo immediato è aiutare gli ucraini
a resistere».
Non
ripetiamo il «non intervento».
Ma
allarghiamo il discorso:
non è solo il pacifismo a essere del tutto
rifiutabile quando un Paese viene invaso da un altro in barba a tutte le regole
del diritto internazionale.
É
innanzitutto il «campismo» che non è assolutamente un’opzione.
Che
cos’è il campismo?
È la
stupidità politica dagli effetti più sinistri che consiste nel pensare che ci
sia un solo nemico.
Sarà
definito come un antimperialismo unilaterale.
Dall’unicità del Nemico deriva l’inarrestabile
conseguenza che coloro che si oppongono al Nemico hanno diritto, se non a
benedizioni, almeno a scuse, in base al principio che i nemici del Nemico sono,
se non amici, almeno «alleati oggettivi» in una lotta giusta.
Quasi
tutto il XX secolo è stato segnato da questo tragico gioco di specchi.
I
sostenitori del sistema capitalista hanno chiuso un occhio sulle dittature più
criminali, le hanno incoraggiate e sostenute in nome della difesa della civiltà
occidentale contro il comunismo, mentre una parte della sinistra non voleva
vedere la terribile realtà del «comunismo» sovietico o cinese, né era troppo
attenta alla natura dei regimi «post-coloniali».
Il “campismo di sinistra” postula che l’unico nemico
del popolo sia «il capitalismo», «l’imperialismo americano», «l’Occidente», «il
neoliberismo», o anche «l’Unione Europea», a seconda dei casi e delle varie
denominazioni in uso.
Per
fortuna, nel secolo scorso, ci sono sempre stati movimenti e intellettuali che
hanno saputo resistere alla stupidità politica e salvare l’onore della sinistra
denunciando tutti i nemici della democrazia e della libertà, senza alcuna
«relativizzazione delle responsabilità».
Nel movimento rivoluzionario, le correnti
trotzkiste e libertarie, e molti altri movimenti come «Socialisme ou Barbarie»,
hanno così tenuto coraggiosamente il doppio fronte anticapitalista e
antistalinista.
Avremmo
potuto sperare di essere definitivamente immuni da queste assurdità con il
crollo del «blocco sovietico» e la crisi dell’«egemonia americana», avremmo
potuto credere che nessuna oppressione, nessuna violazione dei diritti umani,
nessuna trasgressione del diritto internazionale, nessun colpo di forza, sia da
Ovest che da Est, dal Nord o dal Sud, potesse essere giustificato una volta
finita la Guerra Fredda.
Ci
siamo sbagliati.
Le
pigre cattive abitudini sono ovviamente continuate, anche se si vergognano un
po’ in occasione della guerra d’invasione di Putin.
Il
campismo della sinistra consiste nel vedere oggi in questa guerra un confronto
tra una Russia umiliata, accerchiata e minacciata e un Occidente arrogante,
conquistatore e aggressivo:
l’Ucraina
sarebbe in fondo solo un campo di battaglia tra il Nemico imperialista che
vuole espandersi all’infinito e la Russia, un Paese aggredito che è stato
ingannato da false promesse nel 1990.
E
anche se si riconosce che quest’ultimo ha qualche inclinazione imperiale, non
sempre, si tratterebbe solo di un imperialismo di secondo piano, indebolito,
che non sarebbe all’altezza del nemico.
Se
questa è davvero una guerra tra Stati Uniti e Russia, se la causa degli ucraini
è così «strumentalizzata» dall’Occidente imperialista, come possiamo allora
consegnare armi agli ucraini, aiutarli a combattere?
Certo,
se è difficile sostenere Putin, che è un grande sostenitore di tutte le estreme
destre del mondo, non dovremmo almeno rimanere «non allineati», «neutrali», o
addirittura «alter-globalisti», come propongono alcuni, come Jean-Luc Mélenchon
in Francia?
Diciamolo:
questa posizione mostra solo un’inammissibile compiacenza nei confronti del “fascismo
neostalinista di Putin” e, soprattutto, una completa ignoranza della natura
totalitaria e criminale di questo potere che non ha mai smesso di distruggere
l’opposizione interna.
Si tratta di un completo fraintendimento della
natura totalitaria e criminale di questo potere, che non ha mai smesso di
distruggere l’opposizione interna, fino a eliminare fisicamente giornalisti e
attivisti, perseguitando l’intera società ed esportando il suo odio armato
contro il desiderio di democrazia di tutti i popoli in Cecenia, Siria e, più
recentemente, in Bielorussia e Kazakistan.
Si
dimenticano anche tutte le provocazioni e le azioni di Putin volte a
ripristinare l’impero russo in nome di una mistica nazionalista dalla logica
nefasta.
Il
sostegno della sinistra radicale alla resistenza ucraina dovrebbe quindi essere
evidente, così come il sostegno alla causa palestinese e a molte altre nel
mondo.
Non
solo dobbiamo chiedere il ritiro delle forze d’invasione, ma anche l’invio di
armi alla resistenza ucraina e, nel frattempo, offrire ogni garanzia di
protezione del territorio ucraino all’interno dei suoi confini prima
dell’annessione della Crimea e della secessione orchestrata dai russi delle
pseudo-repubbliche del Donbass.
Il
campismo di sinistra crede facilmente che un crimine annulli un altro, che una
violazione del diritto internazionale ne giustifichi un’altra, che le vittime
si compensino a vicenda.
È facile convenire che l’Occidente non ha
nulla di virtuoso e che la sua ipocrisia è addirittura incommensurabile.
Gli
interventi americani e occidentali dall’11 settembre 2001 («guerra al terrore»)
non hanno avuto il minimo imbarazzo della legalità e hanno portato a tragedie
tuttora in corso, in particolare in Iraq e in Libia, per non parlare
dell’ostinata difesa delle politiche israeliane di colonizzazione dei territori
occupati!
Come
possiamo affermare di essere a favore del diritto internazionale quando ne
proteggiamo la violazione permanente, come fanno gli Stati Uniti con il loro
veto nel Consiglio di Sicurezza?
La
lotta contro l’imperialismo americano e occidentale è pienamente giustificata.
Deve essere estesa anche a tutte le forme di dominio economico, finanziario e
ideologico, e non solo agli interventi militari.
Questo
era il significato dell’alter globalismo di non molto tempo fa.
Ma il
dominio del capitalismo occidentale non deve farci dimenticare che esistono
altre forme di dominio e oppressione, in particolare religiose, e altre
ideologie estremamente pericolose, come il nazionalismo «imperiale» del governo
russo.
Ammettiamolo,
l’Occidente non è l’unico ostacolo alla democrazia e alla giustizia sociale e
abbiamo più di un nemico.
L’internazionalista
coerente lo sa, il campista lo ignora.
La
negazione del diritto dei popoli alla democrazia.
Uno
dei peggiori aspetti di questo atteggiamento è quello di ignorare le
aspirazioni popolari degli ucraini, ma anche, per andare più indietro, i grandi
movimenti democratici in Ucraina, Bielorussia, Georgia e Kazakistan.
I popoli in questione sono ridotti a pedine
che non esistono realmente in questo grande schema storico astratto il cui
unico vero attore è il Nemico che vuole estendere il suo dominio sul mondo.
Il campista di sinistra non si rende nemmeno
conto che l’adesione di molti Paesi che erano rimasti a lungo sotto il
controllo dell’Urss dopo il 1945 era per loro, in mancanza di meglio, una
garanzia di sicurezza dopo tutte le aggressioni, le annessioni e gli
smembramenti che avevano subito nella loro storia.
Certo, la realtà è «sempre più complessa», come
ripetono i «non allineati», ma è proprio da questo che dovrebbero imparare:
i
popoli hanno la loro autonomia, non sono i burattini delle grandi potenze.
Il
peggior errore politico del “campismo” (un solo nemico in campo) è considerare che i popoli non sono
nulla, che tutto si gioca al vertice.
Il
terrorismo islamico è stato quindi all’opera nella rivoluzione popolare siriana
del 2011 fin dall’inizio.
Così le «rivoluzioni colorate», le
mobilitazioni popolari nello spazio post-sovietico che hanno partecipato a
partire dagli anni Duemila al grande movimento di emancipazione democratica ai
quattro angoli del mondo, sarebbero state solo forme mascherate
dell’imperialismo americano.
Così l’occupazione di piazza Maidan nel 2014,
che fa parte del grande ciclo del movimento “Occupy the Square”, avrebbe
portato il marchio di «neonazisti».
Da
questo schema deriva la «relativizzazione della responsabilità».
Il
teorico dell’alter globalismo e della «sinistra globale», “Bonaventura de Souza
Santos,” altre volte più ispirato, che «la democrazia è solo uno schermo degli
Stati Uniti» e paragona il «golpe del 2014» in Ucraina al golpe che ha
rovesciato “Dilma Roussef” nel 2016 in Brasile.
In entrambi i casi, si tratterebbe di un unico
tentativo di espandere la sfera degli interessi statunitensi:
«La politica di cambio di regime non mira a creare
democrazie, ma solo governi fedeli agli interessi statunitensi».
La
soggettività democratica dei popoli non potrebbe essere meglio negata, ridotta
a giocattolo nelle mani dell’imperialismo statunitense.
Si dimentica anche che le multinazionali americane ed
europee non hanno mai prosperato tanto quanto nel regime mafioso e
ultra-repressivo della Russia, che ha garantito loro una pace sociale assoluta.
“Bonaventura”
non fa altro che ripetere la vecchia “doxa” del XX secolo, come se la Russia o
la Cina rappresentassero un’alternativa «progressista» al capitalismo
occidentale, da «risparmiare» perché lo controbilancerebbero.
In realtà, questi Paesi offrono alcune delle
versioni più mostruose del capitalismo, in quanto combinano il peggior tipo
di dittatura politica sulla popolazione con lo sfruttamento eccessivo della
ricchezza a favore di una ristrettissima classe di predatori ultraricchi.
Il
campismo di sinistra o l’«antimperialismo degli idioti».
Certe
proteste contro le «guerre imperiali» sono a senso unico:
denunciano volentieri gli attacchi americani,
israeliani o europei, ma dimenticano sistematicamente i bombardamenti russi o
iraniani sulle popolazioni civili in Siria, che hanno causato molte più vittime
civili dei primi.
È
quanto ha spiegato nel 2018 “Leila Al-Shami” in un potente testo intitolato “L’antimperialismo
degli idioti”, riferendosi alla coalizione “Hands off Syria” che, nei suoi
proclami e nelle sue manifestazioni, non ha detto una parola sui massacri
commessi da russi e iraniani venuti a schiacciare la rivolta democratica e a
difendere il regime di “Bashar El Assad”:
«Cieco
alla guerra sociale che si sta giocando all’interno della Siria stessa, questo
tipo di visione considera il popolo siriano, se preso in considerazione, come
pedine trascurabili in una partita a scacchi geopolitica».
È questo tipo di antimperialismo a senso che
gli autori della lettera aperta, tra cui molti siriani, hanno denunciato.
Dall’inizio
della rivolta siriana, dieci anni fa, e soprattutto da quando la Russia è
intervenuta in Siria a favore di Bashar al-Assad, abbiamo assistito a uno
sviluppo tanto curioso quanto sinistro:
l’emergere
di alleanze pro-Assad in nome dell’«antimperialismo» tra figure che sono
generalmente caratterizzate come progressiste o «di sinistra», e la conseguente
diffusione di una informazione manipolata che sistematicamente ignora gli abusi
ben documentati di Assad e dei suoi alleati.
[...]
Coloro che non condividono i loro punti di vista perentori sono spesso (e
falsamente) etichettati come ’entusiasti del cambio di regime’ o utili idioti
degli interessi politici occidentali.
[...] Tutti i movimenti a favore della
democrazia e della dignità che contrastano con gli interessi dello Stato russo
o cinese sono regolarmente dipinti come il prodotto dell’interferenza
occidentale:
nessuno
di questi movimenti è considerato autoctono, nessuno riflette decenni di lotta
nazionale indipendente contro una brutale dittatura (come in Siria);
e nessuno rappresenta veramente le aspirazioni
delle persone che chiedono il diritto di vivere in modo dignitoso piuttosto che
in condizioni di oppressione e abuso.
In realtà, ciò che unisce queste cosiddette
correnti antimperialiste è il rifiuto di confrontarsi con i crimini del regime
di Assad, o anche solo di riconoscere che una rivolta popolare contro Assad ha
avuto luogo ed è stata brutalmente repressa.
Gli
autori del testo concludono con queste parole che dovrebbero far riflettere
anche i più sciocchi:
«Quelli
di noi che si sono opposti direttamente al regime di Assad, spesso pagando un
prezzo molto alto, lo hanno fatto non per un complotto imperialista
occidentale, ma perché decenni di abusi, brutalità e corruzione erano e restano
intollerabili».
Ciò
che è accaduto in Siria sta accadendo in Ucraina.
È
questo che preoccupa gli attivisti ucraini di sinistra, che fin dall’inizio
dell’invasione hanno invitato il resto della sinistra mondiale a rompere con lo
«sguardo americano-centrico».
Autore di una forte «Lettera alla sinistra
occidentale» , il ricercatore ucraino “Volodymyr Artiukh” spiega che, al di
fuori del mondo post-sovietico, la sinistra non ha colto le nuove condizioni
storiche segnate dalla strategia della Russia stessa, che non ha nulla a che
fare con gli strumenti dell’egemonia americana e più in generale occidentale,
del “soft power” e degli” investimenti economici”:
«Nonostante
quel che molti di voi sostengono, la Russia non sta reagendo, adattandosi o
facendo concessioni, ma ha riacquistato la sua capacità di azione ed è in grado
di plasmare il mondo intorno a sé. [..]
La
Russia è diventata un agente autonomo, le sue azioni sono determinate dalle sue
dinamiche politiche interne e le conseguenze delle sue azioni sono adesso
contrarie agli interessi occidentali.
La Russia sta plasmando il mondo intorno a sé,
imponendo le proprie regole come hanno fatto gli Stati Uniti, ma con altri
mezzi.
Ha
detto che dobbiamo smettere di pensare come se la Russia stesse semplicemente
rispondendo all’umiliazione inflittale dopo il crollo dell’Unione Sovietica e
capire che ora sono l’Occidente e l’Europa a essere in una posizione “reattiva”.
E aggiunge: “Quindi le spiegazioni centrate
sugli Stati Uniti sono superate.
Ho
letto tutto ciò che è stato scritto e detto a sinistra sull’escalation del
conflitto dello scorso anno tra Stati Uniti, Russia e Ucraina. La maggior parte
di queste analisi era terribilmente sbagliata, peggiore della lettura
mainstream. Il loro potere predittivo era nullo”.
In
effetti, l’unilateralità della denuncia raggiunge il parossismo in un articolo
di “Tariq Ali “sulla «New Left Review», rivista di riferimento della sinistra
occidentale.
Il 16
febbraio, 8 giorni prima dell’invasione, “Tariq Ali” deride le voci di un
presunto attacco massiccio della Russia all’Ucraina e accusa esclusivamente i
guerrafondai statunitensi, senza nessuno sforzo di analisi del regime di Putin.
Sostiene
che l’Ucraina, che sarebbe sempre e solo «Natoland», non ha bisogno di sostegno
ma deve cominciare a mostrare a Putin il «rispetto» che merita, non esitando a
riprendere le parole di un ammiraglio tedesco.
La sinistra occidentale dovrebbe quindi
riorganizzarsi contro la guerra americana, che è la principale minaccia, come
ha fatto contro gli interventi americani in Siria:
«”Stop
the War” non è un partito politico. Ha sostenitori conservatori e molti
sostenitori dell’indipendenza scozzese.
Il suo
obiettivo è fermare le guerre degli Stati Uniti o della Nato, qualunque sia il
pretesto.
I
politici e i commercianti di armi che sostengono queste guerre non lo fanno per
rafforzare la democrazia, ma per servire gli interessi egemonici della più
grande potenza imperiale del mondo.
“Stop
the War” e molti altri continueranno a opporsi nonostante le minacce, le
calunnie e ai sicofanti».
Questo
articolo è una sintesi del peggiore discorso della sinistra occidentale «contro
la guerra».
È solo
la Nato, nient’altro che la Nato, che mira al dominio del mondo e cerca la
guerra per ottenere profitti ed espandere il proprio spazio di influenza.
Di
conseguenza, il comportamento di Putin è solo un controeffetto della Nato che
non ha un’esistenza propria, né il suo regime.
È questa cecità che ha suscitato la rabbia
dello storico “Taras Bilous”, attivista dell’organizzazione ucraina “Social
Movement” e redattore della rivista «Commons».
Quasi
mai, spiega “Bilous”, la sinistra occidentale – sempre svelta nell’indicare le
«esigenze di sicurezza» nucleare russa, ha ricordato le stesse esigenze
dell’Ucraina, che nel 1994 ha rinunciato al suo arsenale nucleare in cambio
della garanzia dell’inviolabilità dei suoi confini, principio che Putin ha
infranto nel 2014.
La
realtà dell’imperialismo russo.
Prendere
finalmente in considerazione l’imperialismo russo e studiare da vicino i suoi
metodi e le sue intenzioni specifiche non significa rovesciare la stupidità
campista e farne l’unico Nemico, ma è certamente affermare che qualsiasi
analisi che non lo prenda sul serio si squalifica da sola.
Per la
sinistra, questa cecità è tanto più colpevole quanto questo imperialismo mira
non solo a estendersi ai suoi margini, ma anche a destabilizzare i Paesi in cui
la democrazia liberale vive ancora, se non altro nella forma degradata che
conosciamo.
È un
imperialismo militare, ma anche eminentemente politico:
mira a estendere ovunque una concezione
dittatoriale e nazionalistica del potere in cui le libertà civili e politiche
non hanno ragione di esistere.
Ecco
perché il modello Putin ha così tanti sostenitori tra la destra globale e
l’estrema destra.
È
perché esiste una stretta connessione tra il regime di terrore interno e la
politica estera:
come
può una dittatura che perseguita i suoi oppositori, a volte li uccide, e
proibisce ogni libera espressione della società civile tollerare, soprattutto
ai suoi confini immediati, l’esistenza di società politicamente più libere?
Il sostegno di “Putin a “Lukashenko”, “Tokayev
“e “Kadyrov” è perfettamente coerente:
impero
all’estero e dittatura all’interno vanno di pari passo.
Ma
sappiamo che le ambizioni di Putin vanno oltre:
ogni
ostacolo interno o esterno al suo potere deve essere distrutto.
Lo
schiacciamento della rivoluzione democratica siriana con bombe e armi chimiche
è stato un monito per tutti i popoli che cercano di liberarsi dai loro tiranni,
e forse prima di tutto un messaggio per lo stesso popolo russo.
Se la prima linea della dittatura inizia in
Russia, tutti i Paesi vicini e lontani sanno cosa li aspetta se nulla impedisce
la sua estensione.
Che
sia chiaro.
Il nemico di Putin non è il capitalismo come
sistema di sfruttamento, ma la democrazia, contro la quale intende condurre una
guerra spietata.
Ciò
che lo preoccupa è il potere delle masse in lotta contro la corruzione
economica e politica, cioè contro il suo stesso potere.
Queste
masse mobilitate, come abbiamo visto ancora una volta in Bielorussia, vedono
nell’Unione Europea un modello politico più invidiabile rispetto alle dittature
predatorie che subiscono.
È
stata l’associazione tra l’Ucraina e l’Unione Europea a far decidere a Putin di
iniziare a spaccare l’Ucraina dopo la «rivoluzione del febbraio 2014».
Certo,
è comprensibile che una parte della cosiddetta sinistra «radicale» sia
piuttosto imbarazzata nel vedere le rivoluzioni popolari nel mondo
post-sovietico fare dell’Unione Europea una speranza e un orizzonte, poiché
essa critica giustamente la natura profondamente neoliberale e capitalista di
quell’Europa.
Ma se
abbiamo ragione a criticare la «troppo poca democrazia» dell’Unione Europea, è
in nome della richiesta di autogoverno e soprattutto non per riprendere la
retorica di Putin secondo cui queste rivoluzioni sono colpi di Stato fomentati
dalla Nato.
Bisogna
dirlo forte e chiaro:
meglio per la causa dell’uguaglianza, della democrazia
e della libertà, l’insufficiente democrazia dell’Occidente che le barbare
dittature di Bashar, Putin e Lukashenko, modelli di tutti i fascismi
contemporanei.
Il
putinismo ha una coerenza ideologica che lo colloca tra tutte le ideologie
neo-conservatrici e tutti gli identitarismi attualmente in voga.
Come ha scritto “Edwy Plenel”, questa ideologia assume la forma di
«promozione di una Russia eterna, basata sulla sua identità cristiana e slava,
come alternativa alla democrazia moderna, che è stata ridotta a un inganno
occidentale».
Miscela
di neonazismo, panslavismo e stalinismo, il putinismo non ha nulla,
assolutamente nulla, di progressista o democratico.
Al
contrario, è un pericolo mortale per il popolo russo e per tutti gli altri.
Da qui l’urgenza di combatterlo senza nessuna
esitazione.
La
tremenda responsabilità dell’Unione Europea.
Nessuno
può negare in buona fede che il denaro pagato dagli europei per il gas russo
sia stato e sia tuttora utilizzato per finanziare la guerra totale e la
politica del terrore di Putin.
La
causa della pace e la causa del cambiamento climatico sono intimamente collegate,
come hanno proclamato a gran voce decine di migliaia di manifestanti nelle
strade della Francia sabato 12 marzo:
smettere di acquistare il gas russo significa
sia chiudere il rubinetto che alimenta la mafia oligarchica di Putin, sia avviare
il cambiamento radicale richiesto da ogni vera alternativa ecologica.
Lo stesso giorno, con tutta la solennità
richiesta dal luogo, i leader dei 27 paesi dell’Unione Europea si sono riuniti
in un vertice a Versailles per concordare un obiettivo di riduzione della
dipendenza dell’Europa dal carburante russo (gas, petrolio e carbone).
Ufficialmente,
l’obiettivo è quello di garantire l’approvvigionamento energetico dell’Unione
Europea e di avvicinarsi a quella che viene pomposamente chiamata «sovranità energetica».
Al termine dell’incontro, i leader hanno
annunciato la fine della dipendenza europea entro cinque anni.
Ma qual è il valore di questa dichiarazione
rispetto alla continuità della politica dell’Unione Europea su questo tema?
Una
continuità deplorevole.
Nel
1951, 70 anni fa, nasceva la “Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio”
(Ceca), che riuniva 6 Paesi europei e fu presentata come un primo passo nella
«marcia verso gli Stati Uniti d’Europa».
Solo
nel 2007 l’energia è stata riconosciuta come «competenza condivisa».
Nel
linguaggio cifrato dell’Unione Europea, questo non significa che fa parte di un
vero e proprio pool di interessi che va al di là degli interessi degli Stati,
ma che gli Stati membri rimangono sovrani sugli aspetti essenziali finché
l’Unione non legifera:
il
loro mix energetico, lo sfruttamento delle loro risorse e i loro
approvvigionamenti, senza che si svolga alcun dibattito tra gli Stati stessi.
Così
solo Germania ha deciso nel 2011 di abbandonare il nucleare, anche se questa
decisione ha avuto un impatto diretto sulla quantità di energia prodotta in
Europa.
Ed è
stato anche la sola a decidere immediatamente di aderire al gasdotto Nord
Stream 2 costruito da Gazprom.
Nel 2000, un “primo Libro Verde della CE “ha
messo in guardia sui rischi posti dal fatto che il 40% delle importazioni di
gas proveniva dalla Russia.
Nel
2006, un” secondo libro verde” ha ripetuto l’avvertimento mentre la Russia
tagliava il gas all’Ucraina.
Nel
2009, la Russia accusa l’Ucraina di non pagare il gas e glielo taglia
nuovamente.
Nel 2014, le sanzioni dell’Unione Europea in
seguito all’annessione illegale della Crimea escludono il gas russo.
Nel
2015, Gazprom ha unito le forze con “Shell,” la tedesca “Eon” e l’austriaca”
Omv” per avviare la costruzione del “Nord Stream 2”, a cui si è aggiunto poco
dopo il gruppo francese “Engie”.
Oggi,
nel 2022, il grado di dipendenza è esattamente lo stesso del 2000, ovvero il
40%.
Nel
2000, la Commissione europea ha proposto di obbligare gli Stati membri a
costituire stock strategici di gas.
22 anni dopo, la proposta è esattamente la
stessa. Lo stesso approccio viene quindi ostinatamente ripetuto.
È
inutile deplorare un «difetto strutturale», come ha fatto Delors nel 2015:
non si
tratta più di un «difetto strutturale» a cui si potrebbe rimediare con un
cambiamento di struttura e neppure un semplice «deficit» che si potrebbe
aggiustare con uno sforzo specifico.
Si tratta di un limite insito nel processo
stesso di costruzione dell’Unione Europea, che ha sacralizzato fin dall’inizio
la logica dell’interstatalità e dell’intergovernatività per meglio coniugarla
con la pratica di un’intensa attività di lobbying delle grandi imprese presso
le istituzioni europee.
Da diversi anni, con notevole costanza, le
grandi aziende russe approfittano sistematicamente delle possibilità aperte da
tali pratiche acquistando i servizi di ex leader politici europei (tra cui
Renzi, Fillon, Schröder, quest’ultimo non ha ancora rinunciato al suo
coinvolgimento in aziende russe).
“
Shell” si è recentemente impegnata a smettere di acquistare petrolio e gas
russo, ma non dice se questo impegno vale anche per gli ordini passati,
un’omissione significativa visto che la maggior parte dei contratti di acquisto
di gas dura 10-15 anni.
Lo
scorso settembre, il gruppo ungherese” Mvm” ha firmato con “Gazprom” un
contratto che durerà fino al 2036. I
l
gruppo francese” Engie” si rifiuta di rispondere alla domanda anche se il 20%
delle sue vendite globali di gas proviene dalla Russia e la tedesca Eon”
afferma di acquistare sul mercato all’ingrosso europeo, dove non esiste alcuna
certificazione di origine che indichi la provenienza del gas.
Al Vertice di Versailles, nessuno ha avuto da
ridire su tutti questi contratti privati per il gas e sugli impegni assunti da
società private europee in Russia:
si è
trattato di un «nulla di fatto, a meno che non si volesse coprire il segreto
d’impresa, cosa che è ben presente alle istituzioni indaffarate a garantire la
supremazia del diritto privato.
Tassonomia
verde e interessi di potere.
Ne
abbiamo avuto recentemente la prova con la «tassonomia verde», presentata agli
Stati membri poco prima della mezzanotte del 31 dicembre 2021 dalla Commissione
Europea e che rivela la realtà di questa presunta «sovranità europea», sempre
invocata con frasi altisonanti.
Più
precisamente, si tratta della cosiddetta «sovranità energetica»:
l’obiettivo
è infatti quello di ottenere che l’”energia nucleare e il gas”, due energie
introdotte all’ultimo momento nel progetto della Commissione, siano
classificate come «energie verdi».
Due
Paesi si sono adoperati attivamente per questa riclassificazione delle due
energie:
la
Francia, un grande produttore di energia nucleare che intende continuare a
esserlo anche nei decenni a venire e che ha esercitato un’intensa attività di
lobbying per questa classificazione, e la Germania, che vuole aumentare la sua
produzione di gas per ridurre la sua dipendenza dalla Russia.
La Francia, che è l’unico Paese dell’Ue a non
avere turbine eoliche offshore in funzione, vede in questa situazione
un’occasione d’oro per promuovere il nucleare come l’energia «più
decarbonizzata e sovrana», secondo le parole di Macron.
La posta in gioco è alta anche per la
Germania, che nel 2021 contava con il 42% di energia rinnovabile e il 27% di
carbone, facendo del carbone la principale fonte di energia non rinnovabile.
Se si
considera che il nuovo governo tedesco si è posto l’obiettivo di eliminare
gradualmente il carbone entro il 2030, la sfida è più chiara.
Tra
gli scenari esaminati dall’Unione Europea, ce n’è uno che prevede il 100% di
energia rinnovabile nel 2040.
La
scelta della Commissione Europea è stata di voltarle le spalle fin dall’inizio.
Si tratta di una pura e semplice negoziazione
interstatale avallata dalla Commissione Europea, che dovrebbe essere la custode
dell’«interesse generale» dell’Europa:
la Francia cede alla Germania sul gas, in
cambio la Germania cede alla Francia sul nucleare.
Sono
quindi gli «interessi nazionali», nel senso più ristretto e meschino del
termine, a essere racchiusi nella «tassonomia verde».
In realtà, la «sovranità europea» in materia
di energia è uno squallido affare che equivale a sacrificare l’ecologia
sull’altare dei peggiori interessi di potere:
le conseguenze a lungo termine dello
stoccaggio sotterraneo delle scorie nucleari per più di un secolo sono
semplicemente ignorate, e le emissioni di gas serra generate dall’estrazione di
gas fossile sono trattate come trascurabili.
L’istituzionalizzazione
del lobbismo al posto della deliberazione collettiva.
Qual è
il motivo di una così intensa attività di lobbying da parte di Francia e
Germania?
Il Commissario europeo per il Mercato interno,
“Thierry Breton”, ha detto l’ultima parola in un’intervista al «Journal du
dimanche» del 9 gennaio:
ha dichiarato che le centrali nucleari europee
di nuova generazione richiederanno un investimento di 500 miliardi di euro
entro il 2050 e che è fondamentale includere l’energia nucleare nella
tassonomia «per consentire all’industria di attrarre tutti i capitali di cui
avrà bisogno».
L’obiettivo è perfettamente chiaro:
non si
tratta di proibire gli investimenti in attività economiche non incluse nella
tassonomia, ma di orientare meglio i flussi di capitale attirando una riduzione
del costo del capitale.
La decisione della Commissione Europea è
quindi interamente ordinata all’imperativo della concorrenza tra capitali.
Evidenzia
la nuova forma che assume la sovranità statale:
la sua
funzione è quella di creare le condizioni più favorevoli alla circolazione
transnazionale del capitale, organizzando e dirigendo i flussi di capitale a
proprio vantaggio.
Per
svolgere questo compito, lo Stato è più che mai chiamato a esercitare la
propria sovranità.
L’Unione
Europea è un esempio non di una vera e propria sovranità sovranazionale, ma di
una costruzione a più livelli (Commissione, Consiglio dei capi di Stato,
Consiglio dei ministri, Parlamento ecc.), dove la pratica del lobbismo è un
elemento chiave.
L’attività
di lobbying del governo francese subentra opportunamente a quella pro-nucleare
svolta da “Edf” e “Areva” e, in un certo senso, le conferisce «legittimità» in
quanto opera all’interno delle istituzioni dell’Unione Europea.
In quest’ottica, l’Unione Europea appare per
quello che è:
il campo di gioco istituzionale di un gigantesco lobbismo multilivello
che opera come un meccanismo autosufficiente e rende superflua ogni vera
deliberazione collettiva. Questo è il processo decisionale che ha forza di
legge nell’Ue.
Da qui
nasce la logica degli accordi interstatali a geometria variabile che
riconfigurano la sovranità statale in modo inedito senza abolirla.
Da
questo punto di vista, la strategia adottata da Macron alla vigilia delle
elezioni presidenziali francesi è molto rivelatrice della sua concezione di
«sovranità europea».
In primo luogo, ha raggiunto un accordo con
Orban durante la sua visita a Budapest il 13 dicembre 2021, prima ancora che “la
nuova tassonomia” fosse proposta dalla Commissione Europea, ma per dare maggior
peso alle pressioni esercitate dalla Francia.
L’accordo
comprende la politica migratoria, la difesa europea e il riconoscimento
dell’energia nucleare come «energia verde».
In un secondo momento, il presidente francese
ha cercato di dissociare il fronte antinucleare tedesco-austriaco attraverso
l’accordo sulla nuova tassonomia, ufficializzato poco dopo.
La
Francia si è così assicurata il sostegno della Germania su questa spinosa
questione dopo quello dell’Ungheria.
La
nuova posizione assunta da Orban e Macron, questi «avversari politici»
diventati da un giorno all’altro «partner europei», la dice lunga sulla logica
degli interessi di Stato.
La
convergenza franco-ungherese sulla politica migratoria alle frontiere
dell’Unione europea gioca un ruolo fondamentale in questo senso, poiché si
tratta né più né meno che di «rendere più efficace il rimpatrio nei Paesi
d’origine per coloro che non hanno diritto all’asilo», cioè di intensificare e
accelerare le espulsioni.
Possiamo
vedere fino a che punto il confronto tra «progressisti» e «nazionalisti», tra i
virtuosi campioni dello «Stato di diritto» e i sostenitori della «democrazia
illiberale», non sia una vera alternativa, ma una messa in scena e una
drammatizzazione di disaccordi molto reali tra i poteri statali nazionali.
Le
reali differenze tra Francia e Germania non hanno impedito alle due potenze di
accordarsi sull’estensione dell’etichetta «energia verde».
Il 2
febbraio di quest’anno, la Commissione europea ha finalmente pubblicato il suo
«atto delegato» (l’equivalente di un decreto) sulla “tassonomia verde” in cui
il gas e il nucleare sono riconosciuti come «energie transitorie».
Non
sorprende che l’energia nucleare sia stata finora la vincitrice nel doppio
gioco politico della Francia con l’Ungheria e la Germania.
È proprio in questa nuova forma
mistificatoria, quella della cosiddetta «sovranità europea» o «potere europeo»,
che la sovranità statale viene ancora esercitata all’interno dell’Unione
Europea.
È con questa logica, che l’ecologismo
neoliberista è ben felice di accettare, che dobbiamo rompere una volta per
tutte.
Per un
nuovo internazionalismo.
Come
possiamo fermare la micidiale dinamica dei poteri sovrani che sta mettendo in
discussione le fragili regole e gli equilibri della fine del XX secolo?
La
domanda che si pone è quella di una radicale rifondazione dell’Europa.
Il
grande compito della prossima generazione sarà quello di inventare una nuova
cosmopolitica basata sulla democratizzazione radicale delle società.
L’estrema
destra e anche una parte della destra hanno simpatie dichiarate per i «regimi
forti», modelli di quella «autorità statale» che è il loro vero “Dna”.
La sinistra radicale non dovrebbe logicamente
avere nulla a che fare con questa retorica dei «poteri forti», né con gli
argomenti anestetici che enfatizzano il «contesto» e la «responsabilità
condivisa».
Deve
essere chiaro sui propri fondamenti e principi a questo proposito.
Uno di
questi è il diritto incondizionato all’autodeterminazione dei popoli.
Come
può pretendere di fare della democrazia integrale il suo obiettivo se fallisce
in questo senso?
Pertanto,
nessuna scusa o giustificazione barocca dovrebbe ostacolare il sostegno alla
resistenza armata ucraina, così come nessuna scusa o giustificazione contorta
avrebbe dovuto lasciare la rivolta democratica siriana di fronte alla barbarie
al suo crudele destino.
Ancora
una volta, «il pacifismo non è un’opzione».
Ma
nemmeno il rafforzamento della Nato e dell’Unione Europea.
Per i
Paesi che vogliono sfuggire alla volontà imperiale del grande vicino, possono
costituire solo protezioni temporanee ma pericolose, come possiamo vedere
ancora oggi.
La
questione strategica che si pone oggi è come evitare il confronto sempre più
diretto tra potenze statali a vocazione egemonica globale, i cui risultati
drammatici sono l’aumento dei bilanci militari, la crescente sofisticazione dei
mezzi di forza e la moltiplicazione degli spazi e delle forme di conflitto.
Questo
confronto globale tra poteri statali ha effetti diretti sull’aumento della
coercizione imposta alle popolazioni, in particolare di natura poliziesca, in
altre parole, accelera la «de-democratizzazione» già ampiamente avviata dalla
dominazione neoliberista.
Rifiutarsi
di parlare al posto degli ucraini.
Invece
di esitare a inviare armi di difesa a un aggressore che conosce solo la
violenza più barbara, la sinistra radicale deve cercare di influenzare i
rapporti di forza nella guerra.
Come
si può fare?
Innanzitutto,
non parlando al posto degli altri, non negando il diritto degli ucraini, come
di altri popoli che sono sotto pressione e minacciati da Putin, di difendersi
con ogni mezzo che ritengono opportuno, anche se può non piacere.
L’urgenza
è l’autodifesa di un popolo sotto attacco.
In secondo luogo, mostrando solidarietà con la
sinistra radicale ucraina che, come abbiamo visto, chiede di comprendere la
natura del regime di Putin per poter prendere pienamente le misure della sua
politica estera.
La
guerra non deve essere condotta contro «i russi», ma contro un sistema che li
opprime.
Ecco
perché dovremmo essere particolarmente preoccupati per la possibile rinascita
di un’estrema destra ucraina nazionalista, stimolata dalla guerra, che è solo
uno specchio del fascismo di Putin.
Come sappiamo fin troppo bene, il nazionalismo
alimenta il nazionalismo.
La
sinistra radicale occidentale dovrebbe essere la prima a rilanciare tutte le
voci dissidenti che si sono coraggiosamente espresse in Russia dall’inizio
dell’invasione.
Un
esempio è la notevole lettera firmata da oltre 10.000 insegnanti, studenti e
laureati dell’”Università Lomonosov di Mosca” che «condanna categoricamente la
guerra che il nostro Paese ha scatenato contro l’Ucraina».
La
lettera aggiunge:
«L’azione della Federazione Russa, che i suoi
leader chiamano ’operazione militare speciale’, è una guerra, e in questa
situazione non c’è spazio per eufemismi o scuse.
La
guerra è violenza, crudeltà, morte, perdita di persone care, impotenza e paura
che non possono essere giustificate da alcuno scopo”.
Si
pensi anche alla petizione di 664 ricercatori russi che, all’indomani
dell’invasione dell’Ucraina, hanno denunciato la piena responsabilità della
Russia nello scoppio della guerra e hanno aggiunto:
«Comprendiamo la scelta europea dei nostri
vicini.
Siamo convinti che tutti i problemi tra i
nostri due Paesi possano essere risolti pacificamente».
Il
manifesto delle “Femministe russe” contro la guerra collega l’aggressione
militare alla promozione dei «valori tradizionali» di Putin contro la
degenerazione occidentale che avrebbe contaminato «l’anima russa»:
«Chiunque abbia uno spirito critico capisce
che questi ’valori tradizionali’ includono la disuguaglianza di genere, lo
sfruttamento delle donne e la repressione di Stato contro coloro il cui stile
di vita, la cui identità e le cui azioni non sono conformi alle ristrette norme
patriarcali.
L’occupazione di uno Stato vicino è
giustificata dal desiderio di promuovere tali norme distorte e di perseguire
una «liberazione» demagogica;
questo
è un altro motivo per cui le femministe di tutta la Russia devono opporsi a
questa guerra con tutte le loro forze».
Il manifesto femminista invita «a formare la
Resistenza Femminista contro la Guerra e a unire le forze per opporsi
attivamente alla guerra e al governo che l’ha iniziata».
Ma c’è
un altro compito internazionalista urgente.
Consiste nel denunciare la stretta connivenza
del capitalismo occidentale, in particolare quello degli Stati Uniti e
dell’Unione Europea, con la corruzione delle «élite» russe.
È
questa connivenza che ha permesso alla «macchina del saccheggio» di funzionare
dagli anni Novanta.
Questo
capitalismo predatorio, le cui prime vittime sono state e sono tuttora i
lavoratori russi, ha goduto di tutte le agevolazioni per il riciclaggio e la
speculazione nei circuiti della finanza, dell’immobiliare, del lusso, dello
sport, ecc. offerte dai Paesi che oggi si offendono per l’ultra-ricchezza degli
oligarchi russi acquisita con la corruzione e la totale sottomissione a Putin.
È il
sistema finanziario capitalista mondiale, con tutte le sue opacità, che ha
contribuito alla creazione del mostro statale di Putin, ed è contro entrambi
che dobbiamo unire tutti i democratici radicali dell’Occidente e dell’Oriente.
Per quanto tempo i soldati russi accetteranno
di essere uccisi per difendere uno Stato così ladro e corrotto?
È lo
stesso autocompiacimento dei leader politici europei che ha fornito a Putin i
mezzi per rafforzare e modernizzare il suo esercito.
Apprendiamo con stupore che Francia, Germania,
Italia, Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Finlandia, Slovacchia e
Spagna hanno consegnato alla Russia 346 milioni di euro di equipaggiamenti
militari tra il 2015 e il 2020, nello stesso periodo in cui questa stava
radendo al suolo le città siriane.
Europa
Grande Potenza o Europa federale?
Infine,
questa “sinistra radicale comunista” di Davos non può distogliersi dall’immenso
compito dell’«architettura politica» dell’Europa e del mondo.
Come
fermare la micidiale dinamica dei poteri sovrani che sta mettendo in
discussione le fragili regole e gli equilibri della fine del XX secolo?
Non solo non deve distogliersi da questo
compito, ma deve farne una delle sue priorità, perché l’organizzazione politica
del mondo determina in larga misura tutte le altre
.
Pensare di poterlo evitare proponendo una concezione assolutistica e obsoleta
della sovranità nazionale e un «non allineamento» non è solo un errore politico
e morale, ma è un errore sullo stato del mondo e sul modo di evitare le
peggiori calamità.
È
comprensibile che un Paese sotto attacco ne approfitti, ma non è comprensibile
che un Paese che deve dimostrare solidarietà lo usi come pretesto per un
vigliacco abbandono.
La
questione che si pone è quella di una radicale rifondazione dell’Europa su base
democratica, rompendo con la logica della sovranità statale.
La logica della costruzione dell’Unione
Europea deve essere invertita partendo dal basso, cioè dagli stessi cittadini
europei e dai loro gruppi, associazioni e organizzazioni.
Ciò significa che l’alternativa non va cercata
in un «rinnovamento» delle istituzioni dell’Unione Europea o in un
rafforzamento della federalizzazione verso la creazione di uno Stato federale.
Dobbiamo
iniziare a mettere in discussione la distribuzione dei poteri tra Commissione
Europea, Consiglio e Parlamento.
Un
primo passo in questa direzione sarebbe quello di abolire il monopolio
dell’iniziativa legislativa detenuto dalla Commissione Europea.
Un
secondo passo sarebbe quello di condividere questo potere di iniziativa tra i
deputati e i cittadini, in modo che questi ultimi possano partecipare
direttamente al suo esercizio.
Questo
amplierebbe la sfera di deliberazione che è il cuore di ogni vera democrazia
degna di questo nome, invece di essere cortocircuitata dalle pratiche di
lobbying.
Ma
questi sono solo i primi passi verso un obiettivo che deve essere identificato
come quello di un’Europa federativa e non federale.
Ci si può chiedere quale sia il significato di
questa distinzione poco conosciuta tra federale e federativo.
In realtà, è stata in qualche modo offuscata e
oscurata da dottrine politiche che hanno ripreso l’idea di Montesquieu di
«repubblica federativa» per meglio dissociarla da quella di Stato nazionale.
Questa
nozione privilegia ancora” la sovranità degli Stati federati” in modo tale che
sarebbe giustificato parlare di un “federalismo interstatale “piuttosto che di
una vera e propria logica federativa.
È questo tipo di federalismo che i costituzionalisti
americani hanno portato a compimento a Filadelfia nel 1787, ed è questo tipo di
federalismo che ha prevalso in forma aggravata con la creazione della
Confederazione canadese nel 1867.
Il
federalismo a cui ci riferiamo si riferisce al «principio federativo» di “Proudhon”
e non al federalismo statale, intra statale o interstatale.
Ciò
implica che l’intera costruzione parta dal basso, dai comuni e dalle unità
politiche di base.
Un’Europa federativa sarebbe quindi un’Europa
di comuni in cui questi ultimi sarebbero liberi di affiliarsi tra loro
indipendentemente dai confini nazionali, secondo la logica di una federazione
trans comunale che andrebbe oltre i limiti dell’Europa stessa.
In breve, un’Europa federativa, che procede da
un comunitarismo transnazionale, è l’esatto contrario di un’Europa «grande
potenza» o «sovrana».
La
Nato, sotto la guida nordamericana, non può fungere da scudo universale più di
un’Europa «grande potenza».
Entrambi
non sono la soluzione, ma parte del problema.
Pensarlo significa rimanere nella logica dello
scontro e della militarizzazione dei «blocchi».
Sappiamo
che né l’uno né l’altro sono garanzia di rispetto del diritto internazionale:
l’Iraq, la Somalia, la Libia e, naturalmente, la violazione permanente di
questo diritto con la colonizzazione dei territori occupati sono sufficienti a
dimostrarlo.
Inoltre,
si è notato da tempo che il modo di deliberare e decidere dell’ONU, grazie al
diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, riduce l’organizzazione delle
nazioni a una completa impotenza non appena sono in gioco gli interessi di uno
o dell’altro dei membri permanenti.
Non ci
saranno né pace né giustizia internazionale, né una vera «transizione
ecologica» basata sulla cooperazione globale, finché non si inventerà
un’istituzione completamente diversa per gestire le relazioni e i conflitti tra
gli Stati.
Ma
soprattutto, possiamo intuire che il vero problema risiede nell’eredità della
storia, che
ha fatto dello Stato sovrano la forma universale di organizzazione delle
società.
È in nome di questa aspirazione a formare uno Stato sovrano protetto dai suoi nemici che
l’Ucraina si difende, ma è altrettanto in nome di questo stesso principio che
la Russia afferma di difendersi invadendo il suo vicino.
Il
potenziale distruttivo del quasi monopolio della «forma Stato» nelle relazioni
internazionali, per non parlare del diritto di ciascuna di queste entità di
perseguitare i propri sudditi, deve portare all’esigenza democratica di società
che si autogovernano dal basso e che tessono tra loro legami multipli che
sfuggono alla mediazione degli Stati nazionali.
Questo
dimostra, come abbiamo detto all’inizio, che non ci sarà una soluzione
«internazionale» alle crisi che colpiscono il mondo senza una soluzione
democratica a livello di ogni società.
La guerra che Russia conduce ne è la prova più
tragica.
Ed è per questo che solo lo sviluppo della
solidarietà e della transnazionalità delle lotte di emancipazione può offrire
qualche speranza.
Non
sarà sufficiente far rivivere le vecchie forme di internazionalismo del XIX e
XX secolo, che si sono infrante nella realtà degli Stati nazionali e delle loro
rivalità.
Inizialmente
basato sull’idea saintsimoniana e poi marxiana che il proletariato mondiale si
sarebbe naturalmente unito con l’espansione del «mercato universale» fino a
costituire una società mondiale libera dal capitalismo e dagli Stati nazionali,
l’internazionalismo socialista è stato progressivamente catturato e assorbito
dai quadri politici, simbolici e culturali di questi stessi Stati nazionali.
L’ultimo
tentativo di salvare questo internazionalismo dallo stalinismo e dal suo «socialismo
in un solo paese», quello di Trotsky con la Quarta Internazionale, è ormai
completamente esaurito.
Qualsiasi
tentativo di far rivivere l’idea di una direzione centralizzata della lotta è
destinato a fallire.
“Il
grande compito della prossima generazione sarà quello di inventare una nuova
cosmopolitica basata sulla democratizzazione radicale delle società”.
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