Gli uomini soli non possono combattere contro la tirannide globalista.

 

Gli uomini soli non possono combattere contro la tirannide globalista.

 

 

Putin ha suggerito con forza che

una soluzione politica alla guerra

per procura è ancora possibile.

Marx21.it - korybko.substack.com – (30 Giugno 2023) – Redazione - ci dice:

 

Questo interessante articolo è stato scritto prima degli ultimi avvenimenti, che hanno visto coinvolto “Prigozhin” e che potrebbero in parte spiegare quello che è successo.

In ogni caso esso dimostra come è compito degli Stati Uniti cogliere al volo o lasciare cadere le prospettive di pace. (MP)

Le tre ultime apparizioni di Putin.

La scorsa settimana, in una serie di apparizioni, il Presidente Putin ha suggerito con forza che una soluzione politica alla guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina è ancora possibile.

I suoi sostenitori nella comunità degli “Alt-Media” che si sono convinti che l’”operazione speciale” non si fermerà fino a quando le forze russe non raggiungeranno il confine polacco saranno sicuramente infuriati da questa valutazione, ma è basata sulle sue stesse parole, come dimostrato dal sito ufficiale del Cremlino.

Ecco le tre apparizioni che verranno citate in questa analisi:

 13 giugno: “Incontro con i corrispondenti di guerra”.

 16 giugno: “Sessione plenaria del Forum economico internazionale di San Pietroburgo”.

17 giugno: “Incontro con i capi delegazione degli Stati africani”.

Di seguito sono riportati alcuni estratti di ciascuna apparizione, insieme a un riassunto di una sola frase del punto che ha trasmesso in ogni passaggio.

Dopo averli esaminati tutti e tre, il prossimo sotto capitolo riassumerà il gioco finale previsto dal Presidente Putin per questa guerra per procura.

 Infine, l’ultima parte di questa analisi si concluderà con alcune riflessioni sulla fattibilità dei suoi piani, che sono probabilmente abbastanza ragionevoli se ci si prende il tempo di rifletterci con calma.

Incontro con i corrispondenti di guerra.

 La Russia intende ancora raggiungere gli obiettivi originari dell’operazione speciale.

– “[Gli obiettivi e i compiti dell’operazione militare speciale] stanno cambiando in base alla situazione attuale, ma ovviamente nel complesso non stiamo cambiando nulla.

“I nostri obiettivi sono fondamentali per noi”.

 La smilitarizzazione dell’Ucraina è bene avviata.

– L’industria della difesa ucraina cesserà presto di esistere. Cosa producono?

Si consegnano munizioni, si consegnano attrezzature e armi – tutto viene consegnato.

Non vivrete a lungo così, non durerete.

Quindi, la questione della smilitarizzazione si pone in termini molto pratici”.

 La controffensiva di Kiev sta fallendo.

– Se consideriamo le perdite irrecuperabili, è chiaro che la parte che difende subisce meno perdite, ma questo rapporto di 1 a 10 è a nostro favore.

 Le nostre perdite sono un decimo di quelle delle forze ucraine.

La situazione è ancora più grave per quanto riguarda gli armamenti… Secondo i miei calcoli, queste perdite si aggirano intorno al 25 o forse al 30% dell’equipaggiamento fornito dall’estero”.

 Gli attacchi contro il territorio russo prima del 2014 sono stati pensati per distogliere le forze dalla linea del fronte.

– “Per quanto riguarda le zone di confine, c’è un problema, ed è legato – e credo che anche voi lo capiate – principalmente alla volontà di dirottare le nostre forze e le nostre risorse su questo versante, di ritirare parte delle unità da quelle zone che sono considerate le più importanti e critiche dal punto di vista di una possibile offensiva da parte delle forze armate dell’Ucraina”.

 

 Si sta valutando la creazione di zone cuscinetto per proteggere il territorio russo di prima del 2014.

– “Se la situazione continuerà, a quanto pare dovremo prendere in considerazione la questione – e lo dico con molta attenzione – di creare una sorta di zona cuscinetto sul territorio dell’Ucraina a una distanza tale da cui sarebbe impossibile raggiungere il nostro territorio.

Ma questa è una questione a parte, non sto dicendo che inizieremo questo lavoro domani.

Dobbiamo vedere come si sviluppa la situazione”.

 

 L’ormai defunto progetto di trattato con l’Ucraina ha aiutato la Russia a consolidare le sue conquiste orientali e meridionali.

“Anche se l’hanno buttato via, abbiamo comunque usato questo tempo per arrivare dove siamo ora, cioè praticamente tutta la “Novorossia” e una porzione significativa della Repubblica Popolare di Donetsk, con accesso al Mar d’Azov e a Mariupol. E quasi tutta la Repubblica Popolare di Lugansk, con alcune eccezioni”.

La Russia potrebbe mobilitarsi se decidesse di muovere di nuovo contro Kiev, ma oggi non ce n’è bisogno.

 

“Dobbiamo tornare [a Kiev] o no? Perché faccio questa domanda retorica?

 È chiaro che voi non avete una risposta, solo io posso rispondere.

Ma a seconda dei nostri obiettivi, dobbiamo decidere sulla mobilitazione, oggi non ce n’è bisogno”.

 Uno dei fattori fondamentali di questo conflitto è che l’Occidente sta inondando l’Ucraina di armi.

– “Sapete, questa è una questione fondamentale, assolutamente fondamentale. Quando diciamo – io l’ho detto e voi l’avete ripetuto – che l’Occidente sta inondando l’Ucraina di armi, questo è un fatto, nessuno lo nasconde, anzi, ne sono orgogliosi”.

 La produzione tecnico-militare della Russia è aumentata nell’ultimo anno.

– “Durante l’anno abbiamo aumentato la produzione delle nostre armi principali di 2,7 volte. Per quanto riguarda la produzione delle armi più richieste, l’abbiamo aumentata di dieci volte. Dieci volte!”.

 

 Non tutte le risposte della Russia sul superamento delle sue “linee rosse” sono coperte dai media.

– “Non tutto può essere coperto dai media, anche se non c’è nulla di cui vergognarsi.

 Gli attacchi al sistema energetico ucraino non sono forse una risposta al superamento delle linee rosse?

 E la distruzione del quartier generale della principale direzione dell’intelligence delle forze armate ucraine fuori Kiev, quasi all’interno della città di Kiev, non è una risposta? Lo è”.

 Lo Stato ucraino esiste e deve essere trattato con rispetto, ma è inaccettabile minacciare la Russia.

– Se vogliono vivere nei nostri territori storici, devono influenzare la loro leadership politica in modo che stabilisca relazioni corrette con la Russia e che nessuno rappresenti una minaccia per noi da questi territori. Questo è il problema. Questo è il nocciolo della questione”.

 

 È discutibile che l’Occidente continuerà a fornire armi all’Ucraina a prescindere dalle sue perdite.

“Questo è discutibile (detto in risposta all’affermazione di un corrispondente di guerra secondo cui “Chiaramente, indipendentemente dalle perdite subite dall’Ucraina, i Paesi occidentali continueranno a fornirle armi”)”.

 Non c’è alcuna garanzia che la Russia passi all’offensiva dopo il fallimento della controffensiva di Kiev.

– “Penso che, essendo consapevoli – lo dico a ragion veduta – delle perdite catastrofiche, la leadership ucraina, qualunque essa sia, se ha la testa sulle spalle, dovrebbe pensare a cosa fare dopo.

 Aspetteremo di vedere com’è la situazione e prenderemo ulteriori provvedimenti sulla base di questa situazione”.

 I proiettili all’uranio impoverito vengono spediti in Ucraina perché l’Occidente ha già esaurito tutti gli altri.

– “Semplicemente non hanno granate, ma hanno granate all’uranio impoverito nei magazzini. Sembra che abbiano deciso di usare questi proiettili per il momento. Hanno ripulito i magazzini”.

 I problemi economici dell’UE impediranno i suoi piani di produrre più armi per l’Ucraina.

– I problemi economici dell’UE si stanno aggravando… Quindi, non è così facile produrre tutto lì, e ancora più difficile è espandere la produzione e costruire nuovi impianti. Questo ci tornerà utile, perché la Russia ha una situazione particolare. Dobbiamo costruire i nostri armamenti; dovremo farlo e accumuleremo riserve strategiche nei magazzini”.

 

 Il” mission creep” americano sta creando rischi molto seri per la Russia.

– “Gli Stati Uniti sono sempre più coinvolti in questo conflitto, quasi direttamente, provocando gravi crisi di sicurezza internazionale.

Correggere i movimenti dei droni che attaccano le nostre navi da guerra è un rischio molto serio.

È una cosa molto seria e loro devono sapere che noi ne siamo a conoscenza. Penseremo a cosa fare in futuro.

In generale le cose vanno così.

 I colloqui di pace potrebbero riprendere e la bozza di trattato di Istanbul potrebbe essere rilanciata se gli Stati Uniti taglieranno le forniture di armi a Kiev.

 

“Non abbiamo mai rifiutato – come ho detto mille volte – di partecipare a qualsiasi colloquio che possa portare a un accordo di pace… In definitiva si tratta degli interessi degli Stati Uniti.

Sappiamo che sono loro a detenere la chiave per risolvere i problemi.

Se vogliono veramente porre fine al conflitto odierno attraverso i negoziati, devono prendere una sola decisione: smettere di fornire armi ed equipaggiamenti. Tutto qui.

 L’Ucraina non produce nulla.

 Domani vorranno tenere colloqui non formali, ma sostanziali, e non confrontarsi con noi con un ultimatum, ma tornare a quanto concordato, ad esempio, a Istanbul”.

 

 Molti americani hanno paura che il loro Paese inizi la Terza Guerra Mondiale, perché sanno che non vincerebbe.

 

– “[Gli Stati Uniti] fingono di non averne [paura di inasprire all’infinito la situazione e di alzare la posta in gioco].

In realtà, ci sono molte persone che pensano con chiarezza e non sono disposte a condurre il mondo alla terza guerra mondiale in cui non ci saranno vincitori; nemmeno gli Stati Uniti ne usciranno vincitori”.

 

Sessione plenaria del Forum economico internazionale di San Pietroburgo.

 

 Il Presidente Putin ha ripetuto le statistiche tecnico-militari della Russia della sua ultima apparizione.

 

– “La nostra industria della difesa sta guadagnando slancio ogni giorno. Nell’ultimo anno abbiamo aumentato la produzione militare di 2,7 volte. La nostra produzione delle armi più critiche è aumentata di dieci volte e continua ad aumentare”.

 Basare gli F-16 forniti dalla NATO all’Ucraina al di fuori del Paese rappresenterebbe un grave pericolo per la Russia.

 

– “Anche gli F-16 bruceranno (se saranno inviati in Ucraina), non c’è dubbio. Ma se si trovano in basi aeree fuori dall’Ucraina e vengono utilizzati nelle ostilità, dovremo pensare a come e dove colpire le risorse che vengono utilizzate contro di noi.

 C’è il serio pericolo di un ulteriore coinvolgimento della NATO in questo conflitto armato”.

 

 La porta della diplomazia rimane aperta se l’Occidente decide di riprendere i colloqui con la Russia.

 

– “Non abbiamo mai chiuso [la porta alla diplomazia]. Sono stati loro a decidere di chiuderla, eppure continuano a sbirciarci attraverso la fessura”.

 Gli attacchi all’interno della Russia sono progettati per provocare una risposta schiacciante.

– “Sapendo che ci sono poche possibilità di successo (in prima linea), ci stanno provocando (attraverso gli attacchi di Belgorod e del Cremlino) per ottenere una risposta dura, sperando di puntare il dito contro di noi e dire:

 ‘Guardateli; sono maligni e crudeli; nessuno dovrebbe avere a che fare con loro'”.

Vogliono dire questo a tutti i partner con cui stiamo lavorando. Quindi, no, non c’è bisogno di intraprendere queste azioni”.

 Tuttavia, una zona cuscinetto è ancora in programma, anche se la Russia non si lascerà distrarre.

– Per quanto riguarda questi territori adiacenti, si tratta di un tentativo di distrarre la nostra attenzione dalle possibili aree chiave dell’offensiva principale che stanno considerando, un tentativo di costringerci a dislocare le unità che abbiamo accumulato in altre aree di combattimento, e così via…

Ho già detto che se questi attacchi ai nostri territori adiacenti continueranno, prenderemo in considerazione la possibilità di creare una zona cuscinetto nel territorio ucraino.

 Dovrebbero sapere a cosa può portare.

 Usiamo armi di alta precisione a lungo raggio contro obiettivi militari e stiamo avendo successo in tutte queste aree”.

 

 La Russia non sta pensando a un primo attacco nucleare e userà queste armi solo per autodifesa.

 

– “Ho già detto che l’uso del deterrente finale è possibile solo in caso di minaccia allo Stato russo.

 In questo caso, useremo certamente tutte le forze e i mezzi a disposizione dello Stato russo.

Su questo non ci sono dubbi”.

 

Incontro con i capi delegazione degli Stati africani.

 

 La Russia continuerà a parlare con l’Ucraina nonostante la possibilità che si ritiri da altri accordi.

– La Russia non ha mai rifiutato alcun colloquio…

 La Turchia ha ospitato tutta una serie di colloqui tra la Russia e l’Ucraina per elaborare misure di rafforzamento della fiducia reciproca, che lei ha appena menzionato, e per redigere il testo del trattato…

Ma dopo che abbiamo ritirato le nostre forze da Kiev, come avevamo promesso, le autorità di Kiev, proprio come fanno di solito i loro padroni, hanno gettato il tutto nella pattumiera della storia, diciamo in modo delicato, cercherò di evitare qualsiasi espressione scurrile.

Lo hanno rifiutato.

Dove sono le garanzie che non si ritireranno da altri accordi?

Ma anche in queste circostanze, non abbiamo mai rifiutato di tenere colloqui”.

 

Il gioco finale previsto da Putin.

Nei sotto capitoli precedenti sono stati evidenziati gli estratti più rilevanti delle ultime apparizioni del Presidente Putin sui media per quanto riguarda le sue intenzioni finali.

 Al momento, è chiaramente riluttante a inasprire il conflitto con un secondo round di mobilitazione, che potrebbe precedere una nuova marcia su Kiev.

 Per il momento, tuttavia, non è necessario, dal momento che ha già raggiunto lo scopo militare di consolidare le conquiste della Russia a est e a sud, anche se lo scopo politico di raggiungere un accordo di pace è fallito.

 

La smilitarizzazione dell’Ucraina rimane uno degli obiettivi più importanti del Presidente Putin, che ha dichiarato che sta procedendo come dimostrato dalla distruzione del suo complesso militare-industriale.

 Sebbene il nemico continui ad attaccare i confini della Russia prima del 2014, egli ritiene che ciò sia finalizzato a distogliere le forze del suo Paese dal fronte, motivo per cui esita a ritagliare una zona cuscinetto in quel paese in questo momento, anche se ciò rimane una possibilità e potrebbe essere raggiunto solo con i missili invece che con l’invio di truppe.

La “gara logistica” / “guerra di logoramento” tra NATO e Russia, che il Segretario Generale “Stoltenberg” ha finalmente riconosciuto a metà febbraio, sta andando a favore di Mosca, come dimostra la produzione militare-industriale che è aumentata di 2,7-10 volte a seconda del prodotto.

L’Occidente è già a corto di forniture per l’Ucraina e per questo motivo sta ricorrendo all’invio di uranio impoverito, ha osservato il Presidente Putin, dal momento che non ha letteralmente più altre munizioni.

Egli ritiene che le suddette dinamiche strategico-militari potrebbero combinarsi con i problemi economici dell’UE, che si stanno aggravando, per rendere impossibile per la NATO sconfiggere la Russia nella “gara della logistica”/”guerra di logoramento”.

In tal caso, i colloqui di pace potrebbero riprendere alla fine della controffensiva di Kiev sostenuta dalla NATO, durante la quale il progetto di trattato con l’Ucraina, ormai defunto, potrebbe essere rilanciato come base per facilitare una rapida risoluzione del conflitto.

Questo scenario è possibile solo se gli Stati Uniti interromperanno la fornitura di armi all’Ucraina, cosa che il presidente della Commissione Affari Esteri della Camera, “Michael McCaul”, ha dichiarato essere possibile se la controffensiva dovesse fallire, poiché il Congresso potrebbe non essere in grado di approvare un pacchetto di spesa supplementare per sostenere questi aiuti.

Tuttavia, il “mission creep” degli Stati Uniti potrebbe portare a un incidente con la Russia nei cieli, in mare e/o per quanto riguarda la base degli F-16 promessi all’Ucraina in un Paese della NATO prima che ciò accada.

Questo potrebbe anche essere intenzionale se l’”élite liberal-globalista” diventasse abbastanza disperata da inasprire il conflitto se pensasse che così facendo potrebbe costringere la Russia ad abbandonare le sue regioni appena unificate, aiutandola così a “salvare la faccia” davanti agli elettori se accettasse un accordo di pace.

Se dovesse emergere uno stallo nucleare simile a quello del 1962 a seguito di una provocazione degli Stati Uniti, il Presidente Putin probabilmente lo considererebbe un bluff, ma userebbe comunque le armi nucleari solo per autodifesa, anziché per un primo attacco come suggerito da un autorevole esperto.

Conclusioni.

 

Il Presidente Putin ritiene che le probabilità favoriscano almeno il congelamento della Linea di Contatto (LOC) attraverso un cessate il fuoco, se non la vera e propria fine del conflitto, facendo rivivere l’ormai defunto progetto di trattato con l’Ucraina dell’anno scorso, anche se con modifiche che riflettano la nuova realtà di Kiev che ha perso altre quattro regioni.

C’è anche la possibilità di trovare una soluzione diplomatico-giuridica creativa per fare della “LOC” il nuovo confine internazionale senza violare il divieto della Costituzione russa di cedere territori.

 

A parte le speculazioni sui dettagli diabolici di un trattato di pace, il punto è che queste discussioni potrebbero iniziare letteralmente il giorno dopo che gli Stati Uniti avranno tagliato le forniture di armi a Kiev, nel caso in cui quest’ultima dovesse tacitamente cedere la vittoria alla Russia nella “gara logistica”/”guerra di logoramento” dopo la fine della controffensiva.

 L’élite liberal-globalista al potere potrebbe invece intensificare l’escalation per disperazione, al fine di ottenere concessioni sensibili da parte della Russia per “salvare la faccia” di fronte agli elettori se accettano un accordo di pace, il che potrebbe tuttavia portare a uno stallo.

In ogni caso, il Presidente Putin non ha attualmente in programma un’escalation della Russia nel conflitto, come dimostra la sua esclusione di un secondo round di mobilitazione, la sua riluttanza a ritagliare una zona cuscinetto e il suo rifiuto di rendere pubblica ogni risposta al superamento delle “linee rosse” del suo Paese.

In questo momento, sta scommettendo che la fallita controffensiva di Kiev, i problemi economici dell’UE e le scorte esaurite della NATO si combineranno per far rivivere la bozza di trattato dell’anno scorso, ormai defunta, il che è in realtà abbastanza ragionevole.

(Korybo - substack.com)        

 

 

 

Non Fate Finta di Niente e…

Leggete!

Conoscenzealconfine.it – (3 Luglio 2023) - Stefano Moretti – ci dice:

 

Tanto per non dimenticare… Per chi invece ancora oggi non sa… forse è venuto il momento di sapere… la Verità!

Giovanni, 50 anni in perfetta salute, una sera tornando a casa si sente un po’ stanco.

Si misura la febbre: 40.

Prende una tachipirina e va a letto. La mattina misura di nuovo: sempre 40.

Ma sta bene.

 Continua con la Tachipirina. Dopo 2 giorni stessa situazione, sta bene ma la febbre non scende.

Seppur controvoglia, fa il tampone e risulta positivo.

Vista la febbre, dicono, meglio un ricovero.

Arriva in ospedale con le sue gambe, continuando a stare bene.

Saturimetria:

 dicono che c’è poco ossigeno, lo mettono in una stanza con altri tre con le maschere per l’ossigeno, gliene mettono una anche a lui.

Lui dice che respira bene e non ha bisogno, i sanitari gli mettono una flebo, dicendogli che quello è il loro lavoro.

Gli Tolgono il Telefono…

Dopo la flebo si sente debole e stanco, chiede perché… e un’infermiera, l’unica con cui avrà un rapporto “normale”, gli dice che lo hanno sedato.

Iniziano a girargli i coglioni e appena arriva il medico di turno chiede il perché del sedativo.

Il medico risponde che quello è il loro lavoro, e che deve stare calmo.

Chiede di vedere la moglie e gli dicono che non è possibile…

Chiede il Telefono ma non glielo danno…

Settimo giorno, sempre più debole, sempre più solo.

Nel frattempo due suoi compagni di stanza crepano.

L’ottavo giorno, arrivano due energumeni, lo sedano e sostituiscono la maschera ad ossigeno con un casco.

 Inizia una terribile esperienza, col facciale si sente poco e si appanna.

Glielo tolgono, pochi minuti e solo per mangiare.

Non bisogna essere medici per sapere che l’ossigeno continuato brucia gli alveoli.

Rivede l’infermiera che gli sussurra di andarsene da lì se no lo ammazzano…

Non ha contatti col mondo da 10 giorni, la moglie ha provato a vederlo ma è stata respinta.

 Non ha i numeri telefonici degli amici, è sola.

Giovanni si arrabbia, si strappa il casco, lo lancia addosso ad un infermiere, si toglie la flebo e inizia ad urlare che lo stanno ammazzando e che se ne vuole andare.

 Chiamano il primario del reparto che lo minaccia di intubarlo, Giovanni alza la voce con le ultime energie che gli restano… è alto e grosso, chiede i vestiti.

 Li ottiene si veste, e se ne va.

Nell’androne chiama la moglie che corre a prenderlo. Prima di uscire saluta il terzo compagno di stanza che piange e gli chiede cosa fare: “strappati il casco e vattene, se no ti ammazzano come gli altri”.

 

Quando è entrato in ospedale era in perfette condizioni, a parte la febbre, pesava 92 kg, dopo 10 giorni non ha recuperato completamente la sua precedente situazione fisica.

Quanti Giovanni sono morti da soli in ospedale?

(Stefano Moretti)

(facebook.com/StefanoMorettiVastoAbruzzo).

 

 

 

 

Noam Chomsky e Daniel Ellsberg,

i giganti buoni americani.

Marx21.it – (26 Giugno 2023) – David Colatoni – ci dice:

(you-ng.it)

La recente morte di Daniel Ellsberg (fra le altre cose grande e importante difensore di Julian Assange) è stata una grave perdita.

 Merita di essere ricordato il suo lavoro per la verità e contro la guerra.

Lo facciamo riproponendo questo articolo.

Noam Chomsky  e Daniel Ellsberg:

eccoli durante  una recentissima  conferenza su You Tube.

Quasi  90 anni “Noam” e 87 “Dan”.

 Sapete bene che razza di eroe omerico sia stato “Dan”, che è un economista e attivista politico, ed era un geniale esperto analista militare che viaggiava negli aerei presidenziali, finché non decise di dare alla Stampa i “Pentagon’s Paper”,

 lo studio super segreto fatto fare dall’allora Segretario della difesa McNamara sulla storia del coinvolgimento americano in Vietnam, uno studio di 7000 pagine che mostrava che da Truman a Nixon passando per Eisenhower e Kennedy, i governi USA avevano sempre mentito agli elettori rispetto al Vietnam su tutto e che l’escalation militare che costò oltre 2 milioni di vietnamiti e quasi 60.000 americani

 morti ammazzati, era stata pianificata da sempre.

 

La vicenda è raccontata nel recente film “The Post”di Spielberg e in documentario del 2009 “The most dangerous man in America”.

 

Questa scelta di vita di “Ellsberg”, che aveva comportato  che da “insider dell’esecutivo” che poteva scambiare opinioni con i numeri uno del governo americano  e persino con il Presidente stesso e avere accesso a informazioni strategiche super riservate, agli occhi dell’establishment  si fosse improvvisamente e inaspettatamente trasformato “nell’uomo più pericoloso d’America” come lo aveva definito Kissinger, (il quale  pur non potendo mai sperare di diventare presidente degli USA, perché nato in Germania, fu una delle eminenze grigie di diversi presidenti americani),  ebbe dunque l’effetto di dare la spallata finale al consenso sempre più basso che questa guerra aveva presso l’opinione pubblica americana e mondiale e indirettamente procurò  l’impeachment di Nixon per i reati connessi allo scandalo  Watergate e che costò a Nixon la presidenza stessa.

L’occasione della conferenza dei due è in parte data dalla pubblicazione dell’ultimo libro di “Ellsberg” , “The Doomsday Machine”: “Confessions of a Nuclear War Planner”.

Ellsberg si era laureato con una tesi sui criteri che indirizzano la scelta rispetto alla teoria della utilità attesa, tanto che i suoi studi erano sfociati nella concettualizzazione di un paradosso conosciuto come  paradosso di  “Ellsberg”, l’applicazione di questo tipo di analisi e di questo  metodi decisionali comprendiamo essere molto indicati nella situazione del confronto tra due superpotenze nucleari,  perché i meccanismi delle scelte molto simili a quelle che si verificano in un gioco stanno anche alla base di procedure di interpretazione di situazioni critiche in caso di allarmi nucleari i quali sono concepiti per prevenire una intenzione di attacco nucleare nemico anticipandola a quel punto con un first strike,

la cosa diventa estremamente vicina a un gioco d’azzardo perché   dovendo andare ad intercettare delle intenzioni il rischio è quello di scatenare un conflitto nucleare che distruggerebbe la civiltà storica contemporanea magari sulla base di un totale errore di interpretazione.

Ecco perché gli studi e la preparazione di “Ellsberg” gli avevano guadagnato lavoro nelle alte sfere militari come pianificatore di guerra nucleare.

Il mondo è stato almeno un paio di volte sull’orlo di un tragico incidente nucleare militare.

Nel 1983” Stanislav Petrov” colonnello sovietico al comando del bunker Serpukhov-15, sul confine occidentale dell’Urss, era incaricato di  monitorare lo spazio aereo russo  e lanciare l’allarme in caso di intenzione di attacchi nucleari americani.

 Il bunker ospitava il gioiello tecnologico sovietico: il Krokus.

 Un sistema informatico che monitorava le attività missilistiche americane di tutto il mondo.

La sera del 26 settembre il sistema si accese prevenendo l’arrivo di 5 missili nucleari americani sul suolo sovietico in pochi minuti.

 Il colonnello avrebbe dovuto lanciare prima ancora che toccassero terra la rappresaglia sovietica lanciando centinaia di missili nucleari verso gli USA.

Ragionando che se gli USA avevano veramente deciso un first strike nucleare lo avrebbero fatto lanciando centinaia di testate e non 5 missili, si assunse la tremenda responsabilità di interpretare, correttamente, l’allarme come un errore del sistema.

Altri errori del genere in cui l’umanità ignara è stata sul punto di essere cancellata sono accaduti molte altre volte, nel 1962 il capitano “William Bassett” si era trovato davanti a uno scenario simile e egualmente si era rifiutato di seguire il protocollo di rappresaglia nucleare.

Ecco che torniamo alla teoria delle scelte di “Ellsberg” in campo di confronto nucleare.

 

Cosi “Ellsberg” quando aveva deciso di passare dalla parte della pace non aveva solo copiato i” Pentagon’ s  Paper” ma anche migliaia di pagine che riguardavano gli scenari di conflitto nucleari che i pazzi del pentagono avevano pianificato, con scenari che prevedevano centinaia di milioni di morti.

Il suo libro ultimo, che è a detta di “Noam Chomsky” davvero scioccante e da leggere, e che spero che qualche grande casa editrice come” La Feltrinelli” per esempio possa al più presto tradurre in Italia, racconta di queste cose, racconta di come il potere di sganciare un bomba atomica sia infine anche nelle mani dei comandanti dei bombardieri strategici.

“Ellsberg” fu invece baciato dalla fortuna.

Trafugando quei documenti e mettendoli a disposizione della stampa infatti aveva commesso contro lo Stato reati per oltre 100 anni di galera.

Sì salvò solo grazie al fatto che gli sgherri di Nixon, i famosi idraulici, commettendo vari reati in cerca di qualsiasi elemento che potesse gettare  fango sulla immagine pubblica di “Ellsberg” inquinarono il processo alterando le prove e i viziando i procedimenti,  emerse anche un tentativo di corruzione quasi compiuto del giudice stesso che perciò si affretto a dichiarare una intenzione della corte a  non procedere contro “Ellsberg” che comunque aveva messo in conto di andare certamente in galera e che  da governativo e da ex ufficiale dei Marines convinto “cold warrior” come tanti elementi dello Stato a quei tempi, fu convertito a uomo di pace, e all’attivismo, folgorato a questa vocazione che perseguirà per tutta la vita, dall’esempio di un attivista renitente e seguendo con ciò l’esempio di molti giovani americani  che renitenti alla chiamata alle armi  si erano fatti arrestare, di cui il più celebre era stato certamente il campione in carica dei pesi massimi Mohamed Ali, che oltre a guadagnare la galera aveva consapevolmente rinunciato  al titolo mondiale pur di non combattere contro un popolo che non gli aveva fatto nulla.

Ed ecco “Noam Chomsky”, gigante intellettuale, filosofo, fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, ritenuta tra i più  importanti contributi alla linguistica  del XX° secolo, e inoltre grande attivista e politico da sempre, una vera vertigine di  sapere.

La donna che li presenta al pubblico nella conferenza all’Università dell’Arizona sul tema della politica nucleare e della guerra, in maniera davvero splendida, dice, ecco abbiamo due intellettuali che sono diventati entrambi un aggettivo.

 Ed è pazzesco questo spettacolo di mente e cuore che sono questi due grandi vecchi americani. 

Nel video che il lettore potrà leggere nell’articolo, i due, nonostante un’ amicizia lunga 40 anni nata all’indomani dell’affaire “Pentagon’s Paper”, si trovano   a parlare insieme per la prima volta a una conferenza.

Guardando insieme” Chomsky” e “Ellsberg” in questa conferenza sono estasiato ma contemporaneamente anche terribilmente affranto perché essi  hanno vissuto una immensa e lunghissima vita, e sono ormai come due navi sacre all’orizzonte, sul punto di sparire.

 L’umanità non potrà goderne e beneficiare della loro sapienza direttamente da loro per un tempo altrettanto lungo di come abbiamo avuto il privilegio di fare finora.

Dovremmo esserne consapevoli e concentrarci con loro in un rapporto ancora più essenziale.

Ai miei occhi sono diventati improvvisamente e urgentemente preziosi: come la luce del sole prima del tramonto.

Quella luce che dobbiamo sfruttare per guardare e per ricordare nella tenebra della notte dove stanno e come sono fatte le cose, specialmente quelle pericolose che potrebbero minacciare la nostra esistenza.

Forse la recente perdita della mia ultima nonna vivente, “Dinka”, mio oracolo narrante a cui domandare ogni volta della “storia della seconda guerra mondiale”, giunta ventenne a Roma dalla Croazia a  piedi, in treno e su carri, da sola, proprio l’8 settembre 1943,  e anche la scomparsa  ancor più recente  di mio padre, che era un pittore e che fu un bambino testimone di quegli orrori, mi hanno reso, come dire?,

  ipersensibile alla luce delle persone che vanno verso il tramonto ed emanano quella splendida aurea.

 E mi ha fatto comprendere, a mie amare spese, cosa vuole dire restare con il sacco pieno di domande che non furono poste in tempo e mai più potranno essere risolte da coloro a cui non chiedemmo abbastanza.

Ovviamente essi sono immortali.

Spariranno a un certo momento agli occhi dei contemporanei perché la prua della loro navigazione entrerà nel futuro dove solo pochissimi avranno la ventura di seguirli.

E quelli che nasceranno invece andranno loro incontro come ogni generazione va incontro a Gesù, o a Giordano Bruno, o a Ulisse o a Erasmo da Rotterdam, a Spinoza, a Raffaello.

La possibilità che io potrò stringere le loro mani è estremamente remota, sebbene mi animi una indomita speranza.

 Andrò infatti per la prima volta negli USA a Maggio grazie a un concerto di mia moglie, la soprano russa Natalia Pavlova, che si terrà  alla Carnegie Hall di New York City , il 30 maggio 2019  , con la pianista “Cristiana Pegoraro” e il violoncellista “George Gusev,” essi eseguiranno  lì una opera contemporanea del compositore messicano “Venus Rey Jr”. scritta sulle poesie delle Poeta Russo-americana  “Vera Pavlova”.

Dunque sbarcherò li, approderò nella terra di “Noam” e “Dan”.

E ovviamente invocherò divinità Apache e Sioux e divinità “Lenapi,” “Munsee” e “Unami”, affinché mi propizino di riuscire ad incontrarli.

Farò di tutto per incrociarli.

Vorrei che capissimo quanto essi sono importanti per noi tutti, quanto sia determinante avere queste figure nei nostri orizzonti intellettuali e morali, quale immensa opportunità sia per ognuno di noi poter ancora prendere un aereo e andare a stringere per un momento quelle loro mani di saggi ed ascoltare le loro parole, e magari fare una domanda, chiedere.

Stringere le mani di questi uomini così importanti, che sono riusciti a confrontare la loro statura morale con la titanica amorale di questo tempo che annichilisce, potrebbe semplicemente essere meraviglioso.

Il modo con cui si danno da fare, nonostante  l’età del vigore sia lontana ormai,  nel prendersi cura della cosa pubblica in una epoca in cui la cosa pubblica ha assunto una dimensione trascendente nel suo essersi trasformata  in un potere globale, sovrannazionale e sovra-istituzionale quindi che sfugge ai  confronti politici  territoriali con le persone reali , alla misura concreta delle vite umane negli spazi, ci rimette in grado di riprenderci dal senso di impotenza che  proviamo davanti alle  liquefazione sociale baumaniana, ci sveglia dall’incubo  ipnotico che ci inocula un senso di impotenza che grazie alla loro indomita passione civile e politica,  comprendiamo essere irreale, essi ci dicono di muoverci, ci avvertono che possiamo ancora muoverci come persone politiche e produrre delle differenze che invece siamo portati a credere di non poter più produrre.

 Ci dimostrano con la pacata autorevolezza con cui parlano al potere che l’uomo può sempre parlare con “auctoritas” al proprio tempo e contribuire a determinarne la direzione.

Essi sono la voce attraverso cui ancora ci parlano gli antenati Socrate e Platone.

 

Gli anni che sono restati loro da vivere, oggettivamente, sono pochissimi.

 La loro vita è sulla linea dell’orizzonte dove lo sguardo non distingue più le cose nella forma abituale in cui conosce gli enti e le cose del mondo, oltre si apre il mistero che anche ci ha spinti nella luce dell’esistenza.

Questi due uomini sono, tra le” public figure” di questa epoca,  gli uomini più straordinari e straordinariamente umani che abbia visto in questo secolo.

 Certo in altre epoche ho visto Gesù, Siddharta, ho visto Tommaso e sant’Agostino, ma in altre epoche.

Detesto il fanatismo ma penso che l’adorazione sia un importante sentimento umano.

Il fanatismo è l’adorazione di un granchio, e prendere un granchio,  imbarazzante patetico e nocivo, l’adorazione motivata da una sostanza  può invece sollevare sentimenti in grado di “spostare l’asse terrestre” e far crollare regni di tenebra. Cosi adorarono dei vecchi pastori un neonato e cosi i giovani dovrebbero adorare dei luminosi morituri.

Passo ore ad ascoltare queste voci monumentali, ad assorbire le loro idee e le loro conoscenze, e a conformare la creta del mio essere  al  loro modello, anche se i risultati possono essere quanto mai goffi e  comici nel mio caso, non c’è nulla che valga di più la pena che tentare di scolpirsi guardando simili uomini.

La voce eroica di “Dan Ellsberg” è ancora veloce, combattiva e agile, danzante come le caviglie da peso massimo di “Mohamed Ali Cassius clay”, i suoi occhi acuti come falchi si sono incaricati di capire le parole altrui al posto delle orecchie diventate mezze sorde, che guardano il labiale come un raggio laser misurando il dettaglio, appena qualche   decimo di secondo di latenza prima che la mente abbia elaborato la lettura  e già la risposta va veloce,  e portano ancora  quei suoi spettacolari  vividissimi occhi  lo slancio immutato del coraggio di quando decise nel 1971 che era disposto, gettando a mare il potere supremo a cui stava vicino da analista militare ed  ex ufficiale dei marines con due anni di turno in Vietnam, di pagare con la libertà pur di fare qualcosa per avvicinare la fine della guerra del Vietnam dando al mondo i “Pentagon’s Paper”.

La voce oracolare di “Noam”, platonicamente cavernosa, vibrante di una consapevolezza che si è misurata  chissà quante volte con il mondo, ha raggiunto una autorevolezza imperturbabile e indiscutibile con la propria  conoscenza, e che “Dan” ascolta con gli occhi e con un rispetto da antilope.

Noam” ascolta “Dan” con altrettanta ammirazione, anzi quasi con un  laico  stupore, ovvio:

 la sua azione arendtiana di svelare i documenti segreti in piena guerra, l’agire  “inter homine hesse”, unica cosa secondo la filosofa, nella cui libreria, conservata  in un archivio, ci sono i “pentagon’s paper “e che ad essi ha dedicato uno scritto –  “La menzogna in politica” – che rivela il “chi” si è,  ha fatto compiere uno scarto alla storia.

 Il pensiero e l’azione siedono” inter pares” in queste due poltrone.

In un altro video,” Best Speech” di “Noam” del 2018,  Noam dice ai suoi privilegiati studenti che avrebbe potuto parlare di molte cose ma che alle fine non c’è che da pensare sulla domanda del secolo:

sopravvivrà l’umanità, con la sua follia autodistruttiva?

E parla dell’ultimo libro di” Dan Ellsberg” “ la macchina del giudizio”, sul pericolo della fine nucleare.

 È notevole il nitore e l’altezza morale ed intellettuale contenuti nella umanità con cui Noam dice ai suoi studenti:

“come dice Dan”, consigliandoli di leggere il suo libro più volte durante la conferenza.

E dice ai suoi studenti che questa domanda avrà una risposta a breve, che saranno i suoi studenti, loro stessi, questa generazione, a dover dare questa risposta, a risolvere l’enigma di questa terribile sfinge o questa risposta sarà comunque data nel peggiore dei modi, in forma di una sentenza capitale comminata alla intera umanità.

 A colpevoli e innocenti.

Chiunque avrebbe timore del ridicolo a dire quello che dicono, a fare quello che hanno fatto loro in questa epoca.

“Chomsky” solleva il dubbio conversando con i ragazzi di una vera e propria patologia di specie, riguardo al folle comportamento umano che persevera diabolicamente a grandi falcate verso la autodistruzione.

Chiunque avrebbe problemi a essere così.

La maggior parte di noi è scivolata nelle divise e negli stivali del conformismo sociale senza nemmeno accorgersene.

 Insomma siamo sull’orlo della fine.

 Della fine nucleare. 

Della fine ecologica, questo ci annunciano questi due vecchi che non hanno nulla da temere né da guadagnare nel dirci salvatevi, perché hanno già vissuto la loro lunga e splendida vita.

Mancano due minuti alla mezzanotte atomica.

Esattamente come alla fine di un film mozzafiato che sembra finire malissimo, ma gli spettatori non hanno nemmeno un filo di adrenalina, vanno verso l’ecatombe in fila, in stato di trance assente, dietro a un “black Friday” qualunque, sperando di tornare a casa con un qualche apparato di intrattenimento elettronico qualsiasi,  oppure inguainati in un qualsiasi smoking di un qualsiasi successo che era necessario alla riproduzione del sistema di questa follia autodistruttiva.

Con l’anima ustionata da brucianti pacche sulla schiena che si potrebbero rivelare essere state una ultima spinta sull’orlo del baratro.

Intanto “Chomsky” e “Ellsberg”  usano, con il caldissimo sangue freddo degli eroi,  il tempo loro rimasto a disposizione per dare istruzioni  ai ragazzi che dovranno tentare un miracolo:

affidano al loro amore e al loro entusiasmo in cui essi hanno arato e seminato il genio, la missione di salvare la terra, di transitare la vita umana nel futuro, tentando con acume,  creatività e rigore morale  di neutralizzare le migliaia di trappole che la follia autodistruttiva inumana ha innescato e piazzato in agguato ovunque.

  In agguato basterebbe immaginare gli incidenti che ci sono possibili  da accadere, in questa selva di quindicimila ordigni nucleari armati esistenti oggi,  a far venire i capelli bianchi e un’aria da spettri, a pensarci davvero.

“Noam” il saggio, parla di mano divina intervenuta a sventare fino adesso la fine, più che di mera fortuna.

Concludendo questa meditazione mi viene in mente la bellezza dell’amore di “Patricia Marx” che “Dan Ellsberg” si è sudato e guadagnato come un cavaliere medioevale, mettendosi in discussione e ricostruendosi completamente nuovo per diventarne degno, disarcionando e ferendo gravemente il drago che lo aveva dominato fino a farlo diventare uno dei suoi più intimi insider.

Non so che uomo potrei essere oggi guardandomi intorno se il mio sguardo non incrociasse la dolcezza nobile di questi eroi quasi centenari, di questi padri che abbiamo ancora la fortuna di sentire parlare accanto a noi e alla cui assenza dobbiamo prepararci ad affrontare una solitudine dolorosa che può essere redenta solo nella speranza che il loro fuoco abbia già preso ad ardere chissà dove nello sguardo di quanti più giovani possibile che da essi lo abbiano ricevuto come eredità.

Vorrei passare una notte con loro, una lattina di birra ghiacciata in mano ascoltandoli parlare, e poi restare come un nipote a dormire tra questi due vecchi titani, a suon di scorregge, racconti, pensieri e qualche frase solenne.

Goodnight “Dan”, sleep well “Noam”.

 A domani.

(a Natasha)

 

 

 

GLOBALIZZAZIONE E GLOBAL GOVERNANCE.

Treccani.it – enciclopedia italiana – out brain – (10-4-2023) – ci dice:

 

– La globalizzazione. La governance globale. Scenari futuri.

La globalizzazione.

 – La globalizzazione può essere definita come un fenomeno caratterizzato da tre macro elementi, tra di essi concatenati.

 In primo luogo, è una dinamica che va oltre il tradizionale sistema di Stati di tipo vestfaliano, ovverosia oltrepassa lo Stato-centrismo.

 In secondo luogo, risulta animata da un’ampia serie di attori tra cui quelli privati, siano essi dediti tanto al profitto quanto ai beni pubblici, che occupano uno spazio politico significativo.

 Infine, si struttura su una crescente interdipendenza tra i vari attori del sistema.

Assumendo la concettualizzazione di globalizzazione come aumento del globalismo fornita da” Robert O. Keohane” e J”oseph S. Nye”, dove globalismo sta per «uno stato del mondo che implica reti di interdipendenza su distanze intercontinentali» (Keohane, Nye 2000, p. 2),

 la globalizzazione può essere quindi sinteticamente intesa come un processo di integrazione multidimensionale che si struttura attraverso la creazione di reti transnazionali e che tende a diffondere il potere materiale e cognitivo tra una pluralità di attori anche non governativi.

Le letture della globalizzazione si differenziano essenzialmente per il loro riferimento teorico di fondo.

Il dibattito è animato dalle teorie classiche delle relazioni internazionali che hanno formulato interpretazioni alternative del fenomeno.

 L’interpretazione della globalizzazione più accreditata da un punto di vista teorico è quella liberale secondo la quale le trasformazioni globali andrebbero viste in relazione all’estensione della modernità guidata dal mercato, fenomeno positivo in quanto portatore di sviluppo economico e democrazia.

 La maggiore interpretazione alternativa al liberalismo è quella della scuola realista secondo la quale è la lotta per il potere che spiega il verificarsi della globalizzazione.

Da questo punto di vista, la globalizzazione non sarebbe null’altro che un progetto di egemonia mondiale attuato dalle grandi potenze occidentali, in primis dagli Stati Uniti.

Una terza linea interpretativa è quella marxista secondo la quale la globalizzazione sarebbe in ultima analisi lo stadio (finale) dell’estensione capitalistica che non trovando più sufficienti risorse all’interno del mercato nazionale deve di necessità allargare il proprio orizzonte su scala internazionale e mondiale.

I processi di globalizzazione generano però anche delle resistenze.

 In questo senso, la teoria neo gramsciana è stata notevolmente sviluppata per leggere i movimenti di protesta contro la globalizzazione che si sono sviluppati negli ultimi decenni.

Un’interpretazione che ha infine riscosso un notevole successo negli ultimi anni è quella costruttivista secondo la quale la globalizzazione sarebbe soprattutto il prodotto di una trasformazione della costruzione mentale del ‘mondo globale’.

Particolarmente importanti sono da questo punto di vista tutte quelle azioni che contribuiscono a diffondere una nuova lettura di ciò che è legittimo a livello internazionale e mondiale.

La cosiddetta politica del cambiamento delle norme diventa quindi centrale per capire come il mondo si sta trasformando e perché.

In termini di orientamenti politici, l’epoca della globalizzazione sta svelando una nuova costellazione politica che può difficilmente essere spiegata con le vecchie categorie della sinistra o della destra.

 I concetti che ci hanno aiutato a dar senso all’esperienza politica di gran parte del 20° sec. sono ora svuotati della loro forza euristica.

 I tradizionali principi associati alla comprensione della politica di destra o di sinistra stanno lasciando il campo a un nuovo cleavage che riguarda l’attitudine nei confronti della globalizzazione.

 È con riferimento al posizionamento politico rispetto a questioni di policy centrali per la globalizzazione, come l’integrazione dei mercati, la delega di sovranità, la partecipazione a organizzazioni regionali, ma anche all’accettazione delle politiche sovranazionali ortodosse e all’adozione di standard ‘universali’, che noi possiamo meglio capire le divisioni di oggi, il campo sul quale si gioca la partita politica di quest’epoca.

In questo senso, alla tradizionale distinzione tra destra e sinistra si sovrappone oggi il “nuovo cleavage” pro o contro la globalizzazione.

E si deve di conseguenza distinguere tra una destra globalista e una destra localista, così come differenziare tra una sinistra globalista e una sinistra localista:

 tale doppia distinzione aiuta infatti a capire il perché dei governi centristi e delle “grandi coalizioni globaliste”, e delle “opposizioni localiste”.

 Il fatto poi che oggi prevalgano i governi centristi globalisti dice molto anche circa l’egemonia politica del globalismo sul localismo.

 

La governance globale. –

 La politica nell’era della globalizzazione è divenuta molto più complessa a motivo dell’intrecciarsi di dinamiche locali a quelle globali.

Tale complessità è ben evidenziata dal nuovo quadro istituzionale che ha affiancato e allo stesso tempo sfidato l’ordine delle Nazioni Unite (v. BRICS e G7-G8-G20), creando di fatto un sistema di governance globale.

Negli studi di relazioni internazionali, sulla scia della prospettiva tracciata da James N. Rosenau ed Ernst-Otto Czempiel, la governance globale è definita l’insieme di meccanismi di regolamentazione che funzionano anche se essi non sono emanati da un’autorità ufficiale, ma sono prodotti dalla proliferazione di reti in un mondo sempre più interdipendente.

 La governance globale è vista non come un risultato, ma come un processo continuo che, a differenza dei regimi, non è mai fisso e non ha un singolo modello o una singola forma.

Inoltre, puntando non esclusivamente sulle relazioni intergovernative, essa prevede la partecipazione di attori di varia natura, sia pubblici sia privati, che ubbidiscono a razionalità multiple:

 in particolare ONG, multinazionali, movimenti di cittadini, mass media e mercati di capitali globali.

 La regolamentazione non è inquadrata in un corpo di regole prestabilite, ma si fa in maniera congiunta con un gioco permanente di scambi, conflitti, compromessi, negoziazioni e aggiustamenti reciproci.

Cinque tendenze caratterizzano le recenti forme della governance globale:

1) la fusione dell’ambito nazionale con quello internazionale;

 2) l’aumentato ruolo degli attori non statali;

3) l’emergere della governance privata;

4) il passaggio a un nuovo modo di ottenere il rispetto delle regole attraverso l’uso degli standard non coercitivi; e infine

 5) la crescente complessità dell’orizzonte istituzionale.

 La governance globale è stata differentemente interpretata nel corso di questi ultimi anni.

Per alcuni stiamo assistendo a una forma di neo medievalismo caratterizzato dal proliferare di molteplici autorità con ambiti giurisdizionali che si sovrappongono solo parzialmente.

 Per altri, la governance globale rappresenta la forma più avanzata di autoregolamentazione degli affari internazionali nel senso della privatizzazione delle funzioni pubbliche.

Per altri, infine, si sta concretizzando una costellazione postnazionale caratterizzata dalla mancanza di un’autorità centrale, dalla presenza di attori collettivi altamente organizzati e specializzati (invece di cittadini individuali) e da una differenziazione funzionale tra gli attori che non sono motivati da un’identità comune e un principio politico quanto da una “spinta alla risoluzione dei problemi”.

Scenari futuri.

Per quanto riguarda gli scenari che vengono tratteggiati sul futuro della globalizzazione e della global governance, cinque alternative risultano particolarmente importanti nel dibattito.

 

Il primo scenario, di stampo liberale, vede la globalizzazione come un contesto ormai inaggirabile nei confronti del quale anche le potenze emergenti dovranno adottare strategie di adattamento, basate in ultima analisi sui valori liberal-democratici occidentali.

 La globalizzazione sarebbe dunque destinata a una continua crescita, se non addirittura a una continua accelerazione, che avrà termine solo quando sarà raggiunta la completa integrazione.

Il secondo scenario, anch’esso di stampo liberale, ipotizza invece che una volta raggiunta una certa soglia fisiologica, la globalizzazione rallenterà o addirittura si fermerà per non mettere in pericolo i risultati di integrazione fino ad allora raggiunti.

Si attiveranno quindi delle specie di meccanismi di autocontrollo politico-sociale che imporranno correttivi alle spinte integrazioniste per calmierarne i costi sociali.

Il terzo scenario, di stampo liberale critico, si basa sull’idea che i processi di globalizzazione non siano di fatto governati e che quindi non si possano fermare motu proprio:

 continueranno a intensificarsi fino a quando i costi sociali non diverranno insostenibili e daranno spazio politico, secondo una drammatica dinamica di autoconsunzione, all’emergere di forze nazionaliste, anti sistemiche o regionaliste che imporranno il ribaltamento della logica dell’integrazione a favore di un ritorno alla chiusura nazionalista e isolazionista.

Un quarto scenario, di stampo realista, sostiene che il futuro sia indirizzato verso il ritorno alla compartimentalizzazione.

Da un punto di vista più geopolitico, se è vero che è stata la globalizzazione transatlantica a offrire opportunità di crescita politica ed emancipazione economica alle potenze emergenti, è tuttavia sempre più evidente che tale spostamento di potere dall’Occidente verso l’Oriente sembra mettere in dubbio la tenuta stessa del sistema e suggerire invece un ritorno a una logica compartimentalizzata di equilibrio di potenza multipolare su base macroregionale con possibili sviluppi conflittuali, che potranno porre le basi per la costruzione del prossimo ciclo espansivo di integrazione globalista.

Il quinto scenario, infine, presenta un’immagine, di stampo costruttivista, dai contorni meno definiti:

non indica né un restringimento né una preservazione delle dinamiche globaliste, ma una loro trasformazione.

Secondo tale prospettiva, che è vicina all’idea delle modernità multiple, il presente grado di integrazione sovranazionale si avvierà su cammini diversi da quelli impostati finora dall’Occidente, i quali vedranno la formazione di nuove modalità ibride ispirate a tradizioni politico-culturali non occidentali finora marginalizzate.

È questo lo scenario secondo cui il consolidamento delle potenze emergenti non porterà necessariamente a una fase di conflitto per la conquista di una nuova egemonia globale, ma piuttosto al formarsi di aree di sviluppo differenziate, alcune delle quali governate secondo principi estranei al mondo occidentale.

 

 

 

Agenda Covid fallita: le élite hanno

festeggiato troppo presto,

la resistenza passa dall’anti-globalismo.

Presskit.it – Redazione – Brandon Smith -(9 ottobre 2022) – ci dice:

 

I globalisti “hanno molto sopravvalutato l’apatia del pubblico quando si tratta di autoritarismo”.

 Le persone si stanno svegliando l’anti globalismo sta diventando mainstream.

Questa la tesi di fondo sostenuta in un articolo da “Brandon Smith”, pubblicato su “Alt-Market.us. “

“I globalisti si stavano davvero crogiolando nel bagliore della loro presunta vittoria.

Pensavano di tenere noi buzzurri per la collottola e che il loro piano fosse quasi assicurato.

 Ma come ho sostenuto dall’anno scorso, le élite del denaro potrebbero aver festeggiato un po’ troppo presto.”

“Ho notato in passato che “i criminali” tendono a vantarsi della loro criminalità quando credono che non ci sia niente che qualcuno possa fare al riguardo.

 Francamente, nel loro narcisismo molti di loro non possono fare a meno di godersi il momento e far sapere a tutti quanto sono “superiori” per il resto di noi.

Abbiamo assistito a molti momenti come questo da parte di elitari all’interno delle istituzioni globaliste negli ultimi due anni al culmine del pandemonio pandemico.

C’erano persone come gli accademici globalisti del “MIT” che proclamavano che “non saremmo mai tornati alla normalità” e che avremmo dovuto accettare la perdita di molte delle nostre libertà per il resto della nostra vita per combattere la diffusione del covid.

C’erano persone come Klaus Schwab (costruttore di bombe atomiche tattiche in Sud Africa. N.d.R.)  che dichiaravano l’inizio del “Great Reset” e il lancio di quella che la folla di Davos chiama la “4a rivoluzione industriale”.

Ci sono stati anche MOLTI leader politici come “Joe Biden” che si sono pavoneggiati sul palco dei media accusando gli oppositori ideologici (per lo più conservatori) di essere “nemici della democrazia”.

Se la loro visione di “democrazia” è la tirannia medica e l’espansione forzata del marxismo culturale, o se la loro idea di democrazia è la cooperazione del governo con il monopolio delle corporazioni e la cancellazione dei principi fondanti del nostro paese, allora sì, suppongo di essere davvero un nemico della “democrazia.”

I globalisti si stavano davvero crogiolando nel bagliore della loro presunta vittoria. Pensavano di avere noi contadini per la collottola e che il loro programma fosse quasi assicurato.

 Ma come ho sostenuto dall’anno scorso, le “élite del denaro” potrebbero aver festeggiato un po’ troppo presto.

L’agenda covid è completamente fallita se l’obiettivo era implementare mandati e restrizioni di lunga data in tutto il Nord America e in Europa.

Se vuoi sapere quale sarebbe stato il successo per i globalisti, esamina la Cina con i suoi infiniti cicli di blocco e i passaporti dei vaccini digitali.

Le élite volevano quel risultato per l’Occidente e non l’hanno ottenuto.

Ci sono andati vicini, ma milioni di americani, canadesi ed europei hanno mantenuto la loro posizione e il costo per costringerci a obbedire sarebbe stato troppo grande.

Anche “Joe Biden” ha ammesso apertamente che la pandemia è finita.

 Hanno abbandonato i mandati perché sapevano che se fosse arrivata la guerra, avrebbero perso.

Se l’obiettivo della fabbrica della paura della pandemia era semplicemente quello di iniettare nella popolazione i vaccini mRNA, anche qui hanno fallito.

 Con molti stati negli Stati Uniti al 40% non vaccinati (secondo i numeri ufficiali) e molte parti del mondo con grandi popolazioni non vaccinate, esiste un enorme gruppo di controllo per i vaccini covid.

Se ci saranno problemi di salute in costante sviluppo associati all’mRNA vax (come la miocardite), il pubblico saprà cosa li ha causati a causa di questo gruppo di controllo.

 I globalisti avevano bisogno di una vaccinazione quasi al 100% e non l’hanno ottenuta.

Neanche vicino.

Non c’è via di scampo per loro: hanno molto sopravvalutato l’apatia del pubblico quando si tratta di autoritarismo.

 La ribellione è troppo grande e alla fine saranno ritenuti responsabili delle loro trasgressioni.

Caso in questione:

 le ultime elezioni in Italia hanno portato a una vittoria schiacciante per la coalizione conservatrice e il nuovo primo ministro (e prima donna primo ministro), Georgia Meloni, questa settimana ha pronunciato un entusiasmante discorso di vittoria che ha esposto direttamente l’invasione dell’estrema sinistra delle nazioni occidentali, il globalismo e la velenosa collusione con le multinazionali hanno svegliato il silenzio del dissenso.

 Ha chiesto un ritorno alla libertà e qual è stata la risposta dei media mainstream?

 La chiamano “fascista”.

Le elezioni italiane sono solo una piccola parte di una tendenza in corso, un risveglio del popolo alle minacce imminenti presentate dai globalisti, e i globalisti non possono fermarlo.

 

La paura tra loro è palpabile.

 L’anti-globalismo sta diventando mainstream e le persone inizieranno a cercare risposte.

Perché le nostre condizioni economiche sono state così degradate?

 Perché stiamo affrontando una crisi stagflazionistica?

 Perché i prezzi di tutto continuano a salire?

Perché abbiamo quasi perso tutte le nostre libertà civili in nome della lotta contro un virus con un tasso di mortalità per infezione mediano ufficiale dello 0,23%?

Perché vengono istituiti controlli inutili sul carbonio nel mezzo di una crisi della catena di approvvigionamento?

Perché i politici e le banche stanno peggiorando le cose?

La protesta pubblica per una resa dei conti sta crescendo e sono le teste dei globalisti che finiranno sul ceppo.

 Tutte le strade verso la distruzione riconducono a loro e alle politiche che hanno imposto alla popolazione.

Naturalmente, quando” i criminali “si sentono messi alle strette, a volte appiccano incendi e prendono ostaggi in un ultimo disperato tentativo di sopravvivere e scivolare attraverso la rete.

 Credo che ci stiamo avvicinando a quel palcoscenico di questo terribile dramma.

È importante accettare le condizioni del campo di battaglia così come sono e non sottovalutare il nemico.

La verità è che i globalisti hanno mezzi estensivi a loro disposizione per devastare e hanno già messo in moto alcuni di questi disastri.

Come ho avvertito molti anni fa (nel lontano 2017 nel mio articolo “The Economic End Game Continues”), le tensioni con le nazioni orientali vengono utilizzate per sminuire il ruolo del dollaro USA come valuta di riserva mondiale e come valuta “petro”.

Il conflitto sta causando anche carenza di risorse e debolezza della catena di approvvigionamento, per non parlare di una crisi energetica in Europa che ora è irreversibile con il sabotaggio dei gasdotti Nord.

 

 

 

Sulla risposta alla crisi globale

si gioca il futuro dell’umanità.

Editorialedomani.it - IAN BREMMER – Redazione – (18 agosto 2022) – ci dice:

 

Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere.

Ma mai come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che potrebbero scongiurarla.

Questo testo è un estratto dal nuovo libro di “Ian Bremmer”, “Il potere della crisi” – “Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo”, pubblicato da Egea.

Il testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto 2022.

Viviamo in un’epoca di straordinarie opportunità.

 Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone di altri luoghi, trovare un lavoro, avviare un’impresa, guadagnarsi da vivere, inventare qualcosa di nuovo, votare, ricevere cure mediche di qualità, attraversare i confini e offrire ai propri figli gli stessi vantaggi.

Oggi miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che potevano vantare i re medievali.

L’inventiva umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa.

Ma, come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe.

 Le conquiste storiche degli ultimi cinquant’anni – compresa la più importante, ossia la nascita del primo ceto medio mondiale – sono minacciate dall’incapacità dei nostri leader di collaborare per proteggerci dalle malattie infettive, dall’innalzamento dei mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate di disinformazione tossica, dagli sconvolgimenti causati dalle tecnologie che sottraggono il lavoro agli esseri umani, dalla dittatura digitalmente potenziata e dalle nuove forme di guerra.

E tutto avviene alla velocità della luce.

 Per miliardi di anni il nostro pianeta non ha ospitato alcuna forma di vita intelligente.

Per milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia di esseri umani.

Per altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire il progresso.

Poi è arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla caccia e alla pesca.

 Le ragioni di scambio sono diventate più complesse, sono state scritte delle regole e create autorità indipendenti dedite a risolvere le controversie.

Le popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle relazioni.

Nel I secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra.

Nel corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni.

 Grazie alla peste bubbonica nel 1400 c’erano ancora solo 343 milioni di esseri umani.

Ci sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a sette miliardi.

 L’accelerazione dello sviluppo umano è ancora più evidente nelle nostre tecnologie.

Agli albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo; nel 1945 gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi. O, ancora, pensiamo ai progressi della comunicazione.

La prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo.

 Nel 1989 “Tim Berners-Lee “inventò il “World Wide Web” e il primo browser.

Oggi più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.

 

Pensate alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel 1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo per dodici secondi.

Appena 58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna.

Nel 2021 la NASA ha fatto volare sulla superficie di Marte un drone che trasportava un pezzo dell’aereo dei fratelli Wright grande come un francobollo.

Ora facciamo un salto di venticinque anni nel futuro.

Sono queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.

La nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più velocemente di quanto riusciamo a registrare.

 Abbiamo liberato forze che stanno cambiando il pianeta e sfuggendo al nostro controllo e, se non riusciremo ad accordarci su come gestirne in maniera saggia le conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò che gli esseri umani hanno creato.

Siamo davanti a un bivio.

Come spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato: sono qui con noi in questo preciso momento.

 Il cambiamento climatico si intensificherà, qualunque cosa facciamo, e i suoi effetti verranno avvertiti ovunque.

 Gran parte del nostro pianeta sta diventando ostile alla vita.

Le nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le sofferenze continueranno.

 Solo una risposta globale potrà contenere i danni.

 I nostri leader nel mondo della politica, degli affari e della filantropia devono trovare compromessi, cooperare e coordinarsi in nuovi modi.

Man mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate.

 Alcuni useranno la violenza per manifestare queste emozioni, e la storia ci insegna che la violenza può generare altra violenza.

Per i privilegiati il danno è contenuto finché gli emarginati si limitano a brandire bastoni e pietre.

O pistole. O bombe al nitrato d’ammonio.

Ma quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale – più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.

Il ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti.

Oggi le aziende utilizzano l’intelligenza artificiale per scoprire modi più efficaci e proficui di cambiare il comportamento umano, senza chiedersi quale effetto possa avere realmente quella tecnologia sulle persone che ne diventano dipendenti.

Persino nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima averlo testato.

Vogliamo sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi effetti e se causerà effetti collaterali.

Regolamentiamo il tabacco e gli alcolici.

Vogliamo impedire ai più giovani di fumare sigarette o di fare uso di narcotici.

Ma quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test. Iniettiamo tutto nel flusso sanguigno del corpo politico senza neanche pensarci.

Le nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò.

Questi sono problemi che nessuna nazione può risolvere da sola.

E proprio per questo offrono agli esseri umani un’opportunità senza precedenti: quella di fondere il loro estro pratico e morale per il bene di tutti.

 

Guerra e pandemia aumentano

le disuguaglianze e minacciano la democrazia

(NICOLA LACETERA. Economista)

 

COOPERAZIONE PRATICA.

Tutte le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.

Vogliamo un accesso sicuro al cibo e all’acqua.

 Vogliamo che la legge ci protegga e che protegga i nostri beni e i nostri diritti. Vogliamo buone possibilità di guadagnarci da vivere.

 Se perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che possiamo trovarne un altro.

Tutte queste cose le vogliamo anche per i nostri figli.

 Ma tutto questo dipende sempre più da ciò che accade molto lontano dai nostri confini.

 I confini cambiano, gli imperi sorgono e cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri problemi.

Il panico spaventa i mercati di tutti i continenti.

 Le tempeste infuriano nonostante le barriere marittime.

Le malattie si diffondono.

La criminalità scatena altra criminalità.

I disordini politici ridisegnano intere società.

Le guerre cambiano le vite delle persone a migliaia di chilometri di distanza dal campo di battaglia.

 

Fino a quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico ecosistema, in senso sia metaforico che letterale.

 Questo libro vuole ribadire l’importanza di una cooperazione pratica su alcune questioni fondamentali.

Non dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di valori politici ed economici.

Non c’è bisogno che tutti lavorino assieme. Non dobbiamo risolvere ogni singolo problema.

Di certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.

Ma non è mai stato più chiaro di così: i cittadini di tutti i paesi del mondo devono cooperare se vogliono raccogliere i frutti pressoché universali degli obiettivi che non si possono raggiungere da soli.

Sono un americano patriottico.

Sono veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi.

Ma non sono un nazionalista.

Non credo che i nostri valori siano intrinsecamente superiori a quelli degli altri.

 

L’America è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti.

Né credo che i «valori americani» offrano la soluzione migliore a ogni problema.

 La democrazia rappresentativa è, a mio avviso, la migliore forma di governo, ma nessuna nazione governata da un dittatore se la passerebbe meglio se tenesse libere elezioni fra tre mesi.

Per costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione.

 Fu la tirannia del comunismo sovietico a sottrarre la Russia al feudalesimo zarista nel 1917 e a portare Gagarin in orbita appena 44 anni dopo.

Nessuna democrazia ha liberato centinaia di milioni di persone dalla povertà come ha fatto il Partito comunista cinese.

I comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini della storia contro persone innocenti.

Ma è vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in catene.

Non essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose sono vere.

 Né credo in una marcia ineluttabile verso la pace, l’uguaglianza, la giustizia o la libertà.

 La storia ci insegna che nessuno di questi risultati è inevitabile.

 Eppure, per decine di migliaia di anni abbiamo sì potenziato la nostra capacità di uccidere, ma anche la nostra capacità di cooperare.

 

L’archeologia ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana.

 È stata la collaborazione tra le persone a gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla nascita del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle moderne filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre conquiste dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da forme complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.

La nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze distruttive che abbiamo messo in moto.

I vari processi che oggi chiamiamo «globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a vivere nella miseria, e a un palmo di naso dai ricchi.

Vedendo nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando milioni di persone.

Il contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento.

Non è possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una volta sola.

Bisogna cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a questi progetti conviene.

 Per arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo accordo con i loro rivali.

Suona utopistico?

 Prima di arrenderci a un facile cinismo, ricordiamoci che esiste un precedente storico per una visione così grandiosa, un precedente che ha permesso a miliardi di esseri umani di sopravvivere e prosperare nel mondo moderno.

Dopo la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo, definì «la guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano che i futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita distanza dalle future guerre europee.

I tentativi di dar vita a una Società delle Nazioni naufragarono, in parte perché l’America rifiutò di aderirvi, in parte perché Germania, Italia e Giappone ne uscirono.

Negli anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per la vita americana.

Per le potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata dalla Prima guerra mondiale.

Come se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte.

Come se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare a incrinare la pace.

Una generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone.

 Quando finì, la Casa Bianca e il Pentagono capirono finalmente che bisognava investire i soldi dei contribuenti statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano appena fatto di tutto per mettere fine allo stile di vita americano.

Quell’investimento saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie.

Le due guerre mondiali hanno messo a nudo la capacità della nostra specie di inventare mezzi sempre più efficaci per seminare distruzione, ma hanno anche allargato la nostra capacità di cooperazione, per il bene dei singoli e per quello comune.

Il fascismo è stato sconfitto.

 Sono crollati imperi e milioni di persone hanno ottenuto l’indipendenza.

L’umanità ha dato prova di resilienza.

Sotto la spinta delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno compiuto grandi salti in avanti.

 Il numero di paesi democratici è aumentato.

In sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine:

 il conflitto non cesserà fino a che ciascuno di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri.

Le Nazioni Unite sono state create per istituzionalizzare l’impegno globale alla sicurezza, alla dignità e alla prosperità.

 La Carta delle Nazioni Unite affida all’organizzazione il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per risolvere i problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario».

Sono state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini, per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condividere le risorse necessarie a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto internazionale.

La Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla razza umana.

 È stata anche la crisi di cui avevamo bisogno per compiere gli sforzi necessari a garantire la sopravvivenza e persino la prosperità della nostra specie dopo il XX secolo.

 

Sono stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i molteplici fallimenti di queste organizzazioni.

Oggi riflettono l’equilibrio di potere e di influenza che esisteva nel 1962, ma che nel 2022 non esiste più.

Ma se domani le eliminassimo tutte, avremmo bisogno di reinventarle il giorno dopo:

 il mondo interdipendente che queste istituzioni rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura esponenzialmente maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.

Le Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con altri paesi.

Le forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti.

L’ONU ha salvato molte vite in molti luoghi e ha fallito in altri, ma i successi ottenuti hanno fatto del bene a moltissime persone, e merita un encomio solenne per aver scongiurato una nuova guerra mondiale.

Anche l’Organizzazione mondiale del commercio crea vantaggi per tutti i paesi che vi aderiscono.

Le sue regole non sono in grado di prevenire ogni singola controversia commerciale e la loro applicazione è lenta e incompleta. Ma, come in ogni terreno di forte competizione, è di gran lunga preferibile avere regole imperfette e un arbitro fallibile che non averne affatto.

Il Fondo monetario internazionale e altri finanziatori multilaterali offrono un’ancora di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto, spesso agendo come prestatori di ultima istanza.

 Talvolta le condizioni a cui erogano i prestiti danno adito a polemiche, sospetti e acredini, ma hanno aiutato molte nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini ad evitare la catastrofe.

 

Anche l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo.

Molti cittadini degli stati membri accusano le élite politiche europee di usare le istituzioni dell’UE per scrivere regole che fanno gli interessi dei governi più potenti a scapito degli stati più piccoli, che arricchiscono le multinazionali a scapito delle piccole imprese e che soddisfano i bisogni dei burocrati ai danni delle libertà individuali.

Ma l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due conflitti più distruttivi della storia.

Ha aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più lungo della loro «gamba economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.

Ha offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità.

Ha ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non poter spendere per investire in questi progetti.

Ha assunto il comando sia sugli standard climatici sia su quelli relativi alla privacy. Ha creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli standard di vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da una crisi.

Ha fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.

Criticare tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna. Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti gli abitanti del mondo.

Proteggono i diritti umani. Rendono le guerre meno probabili. Soprattutto, alleggeriscono il peso sui singoli governi creando una struttura che sostiene la responsabilità collettiva.

Ogni anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno ispirato e reso necessarie queste organizzazioni.

Non dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato.

Se lo faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.

Oltre il Covid e la guerra, le malattie infettive tornano a minacciare il mondo.

LA ROTTA DI COLLISIONE.

Precedentemente ho illustrato due rischi di collisione.

 Il primo è la lotta tra l’America rossa e quella blu, che ha gravemente danneggiato la vita politica e l’integrità democratica dell’unica superpotenza mondiale.

Il secondo è il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e quella emergente rappresentata dalla Cina.

Il pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci attendono.

Siamo tutti in rotta di collisione con la prossima inevitabile emergenza sanitaria globale, con il cambiamento climatico e con il potere che le nuove tecnologie dirompenti hanno di destabilizzare le nostre vite e le nostre società.

Questi sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune.

 Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia e ogni dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di guerra, fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando queste minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.

Non credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia americana.

Le istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno già assorbito shock considerevoli in passato.

Non intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle istituzioni americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.

Non credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di altre divergenze.

Entrambi i paesi hanno troppo da perdere da una collisione catastrofica, e né Washington né Pechino possono aspettarsi che altri governi li seguano sulla strada del disastro.

Ma… ho scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte.

 Per prepararsi ad affrontarle dovranno cooperare, ma non potranno farlo finché saranno impegnati a scontrarsi sulle chimere dei massimi valori.

 

MONDO.

La grande migrazione.

LA GIUSTA CRISI.

Gli esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti.

Ma non basta una qualsiasi emergenza.

Abbiamo bisogno di una «crisi alla Riccioli d’Oro»: una crisi abbastanza grande da esigere il nostro impegno ma non tanto distruttiva da non ammettere una risposta efficace.

Abbiamo bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione tecnologica.

Una crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.

 

Una crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro.

 Nei primissimi giorni del Covid-19 è sembrato che la pandemia potesse creare la perfetta crisi alla Riccioli d’Oro.

 Di sicuro era abbastanza grande da toccare le vite di miliardi di persone.

Tutti i governi del pianeta sono stati costretti a reagire.

 I danni economici provocati sono stati ingenti, preannunciandosi duraturi.

Il virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le conseguenze.

Ci siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan.

Eppure troppi dei nostri leader politici hanno cercato di usare questa crisi per fomentare la rabbia verso gli altri, in patria e all’estero.

Nel campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci aiuteranno a superare la prossima tempesta virale.

Le ripercussioni economiche globali del Covid imprimeranno slancio alla transizione dall’economia novecentesca fatta di calce e mattoni verso un futuro digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà, farà acquisti e studierà online.

La pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in maniera ecosostenibile.

Ma il Covid non ha fatto abbastanza per convincere i governi della necessità di pensare a nuovi modi per garantire la sicurezza e consentire la prosperità.

Il “Covax” ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo progetto, e l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento più critico per consentirne il successo.

Come accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire.

Benché necessaria, questa misura ha fatto ben poco per risolvere le profonde disuguaglianze che ci tormentano.

 Piuttosto che disegnare e investire in nuove istituzioni – come per esempio un’Organizzazione mondiale dei dati – i nostri leader sembrano accontentarsi di curare i sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera umanità.

Il cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi del Covid, e possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di cui abbiamo bisogno.

Dobbiamo agire ora se vogliamo essere pronti a cogliere le opportunità che queste crisi imminenti creeranno.

 

UNA VISIONE POSITIVA.

Per inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi.

Abbiamo bisogno di una visione positiva per il futuro, di piani che possiamo mettere in atto quando e come ne abbiamo bisogno.

Sono troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli altri non faranno. Chiudiamo la porta ancor prima di aver intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra parte.

 

La condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere. Inoltre ci concentriamo troppo sulla soddisfazione dei bisogni a breve termine. I consumatori non sono gli unici a volere una gratificazione immediata.

 Anche politici, dirigenti d’azienda e azionisti vogliono la stessa cosa. Sia loro sia noi siamo ossessionati dal mandato immediato del leader in carica, dall’anno da superare, dal raggiungimento degli obiettivi trimestrali o dal prossimo notiziario.

Ma il nostro più grande limite è probabilmente questo: siamo in pochissimi a voler piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri.

Per sopravvivere alle sfide che ci attendono, i nostri leader devono ascoltarsi l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti del pianeta.

Non serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o sui valori nazionali.

Ma devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla cooperazione.

Devono decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi. Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le nazioni.

 Le ripropongo in chiusura.

 

UN COVAX GLOBALE.

In risposta al Covid-19 172 paesi hanno aderito al progetto “Covax” per collaborare con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a tutti i paesi del mondo. Cina, Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel concedere il loro sostegno.

Se il progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima.

 Il modello del “Covax” va potenziato e affinato per prepararsi alla prossima pandemia.

Inoltre, il “Covax” può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili – e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci riserverà.

 

UN ACCORDO VINCOLANTE SULLA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CARBONIO.

Il cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni nette di carbonio nell’atmosfera entro il 2050.

 Nessuno vuole sacrificarsi più del dovuto e i progressi dipendono dalla fiducia nella capacità degli altri di mantenere le promesse.

Qualsiasi accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori internazionali indipendenti.

 Per essere credibili le soluzioni hanno bisogno della volontà politica e di scoperte scientifiche, e i governi possono condividere i costi associati allo sviluppo di tecnologie in grado di accelerare il progresso.

UN PIANO MARSHALL VERDE.

Un accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà anche nei migliori scenari.

Dovrà prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti.

A differenza del Piano Marshall, che contribuì alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei soli Stati Uniti, il successo di un Piano Marshall verde dipenderà dalla condivisione globale dei costi e degli altri oneri.

PER UN’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEI DATI.

Il mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori.

 Abbiamo bisogno di regole e standard che valgano per i governi e per le imprese che possiedono e utilizzano le informazioni personali che generiamo.

Proprio come l’”Intergovernmental Panel on Climate Change” dell’ONU, che elabora analisi indipendenti sul riscaldamento globale, e l’Organizzazione mondiale del commercio, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e facilitare il commercio fra tutti i suoi membri, così un’Organizzazione mondiale dei dati può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà intellettuale e i diritti dei cittadini.

La Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza, privacy, protezione della proprietà e libertà personale.

Ma se le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà possibile.

CHI RACCOGLIERÀ QUESTA SFIDA.

L’America non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra.

Le elezioni presidenziali del 2024 saranno probabilmente le più brutte e pericolose della storia americana.

Non è un’esagerazione.

Nei prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo rancore, soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le istituzioni su cui la democrazia americana poggia.

Fortunatamente il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali.

Basta che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

Il mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro strappi.

Non succederà mai.

Ma se Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle “questioni climatiche” e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i paesi e l’umanità tutta.

Ma, soprattutto, se riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i confini americani che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine d’intervento sufficiente per consentire anche ad altri attori di giocare un ruolo chiave.

 L’Unione europea dovrà svolgere un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e tecnologiche e, se gli Stati Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto che costringe l’Europa a schierarsi interamente con una parte a scapito dell’altra, Bruxelles potrà rilanciare la cooperazione internazionale in tutti questi ambiti.

Ci sono buoni motivi per essere ottimisti.

Quando il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia nelle politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio.

Le crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE.

Ma il Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegnare la propria rotta non solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento climatico.

 

Una delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio respiro.

Molti dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una ridistribuzione su larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud finanziariamente più deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui governi, secondo i detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco.

Ma questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione di contenimento del cambiamento climatico.

Facendo della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia, la Commissione europea ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da destinare al contenimento delle ricadute della “pandemia e del cambiamento climatico” presso gli stati membri storicamente riluttanti.

Solo gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la ripresa post pandemia.

 Inoltre il sistema di scambio delle emissioni dell’UE sta entrando nel vivo e si appresta a diventare la carta vincente dell’Europa per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati per il 2030.

La versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle «quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni marittime.

La messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più rigoroso e nell’UE i prezzi del carbonio saliranno con l’obiettivo di imprimere slancio alla riduzione delle emissioni.

Alcuni leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal rallentamento causato dal Covid al “reshoring”, ossia il rimpatrio della produzione nei paesi d’origine.

È una buona notizia per l’occupazione locale ma in alcuni settori, tra cui quello automobilistico, la rilocalizzazione aiuta anche a garantire la conformità dei processi di produzione e dei prodotti finali alle norme climatiche dell’UE.

Non solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in Europa a rispettare gli standard europei.

 I fondi raccolti con l’aumento dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.

Si tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro.

 L’Unione europea ha usato il Covid-19 “per combattere il cambiamento climatico” incanalando i fondi per la ripresa all’interno di progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi come ecologici, vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di finanziare qualunque cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento globale e adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.

L’Europa sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre questioni urgenti.

 Sui temi dell’utilizzo dei dati e della privacy i leader dell’UE fanno leva sulle dimensioni del mercato al consumo europeo per fissare regole che le aziende tecnologiche statunitensi e cinesi non potranno permettersi di ignorare.

Se Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso tutelando i diritti e le libertà delle persone.

 

Ma il pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare da soli un nuovo globalismo.

 Alcune aziende hanno sfere d’influenza e interessi che valicano i confini in modi preclusi ai governi.

 La loro rilevanza non potrà che aumentare.

È una buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente.

 Tra esse, le più importanti sono di gran lunga i colossi tecnologici più grandi del mondo.

Se aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero averli fugati una volta per tutte.

Sebbene il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato il più grave assalto alla democrazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha intrapreso un’azione decisiva.

 A poche ore dall’assalto al Congresso, Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon hanno sospeso i profili di Trump e di altri politici che avevano diffuso la bugia dei brogli elettorali e incoraggiato l’insurrezione.

Hanno temporaneamente bandito “Parler”, un servizio che molti sostenitori di Trump usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori dai servizi di “web hosting” e dai principali “app store”.

 Il governo e le forze dell’ordine non hanno avuto alcun ruolo in questa vicenda.

La cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo.

 A maggio il Consiglio di sorveglianza di Facebook – istituito nel 2020 – aveva deliberato la decisione dell’azienda di sospendere il profilo di Trump.

 

Le aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un potere tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici spettatori.

Oggi non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia motivi di ottimismo.

Le principali aziende tecnologiche statunitensi e cinesi sono attori protagonisti nel dramma che deciderà se il mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si dirigerà verso un futuro molto più roseo.

Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno semplicemente rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando.

 Già in passato il potere privato ha giocato un ruolo significativo nella geopolitica.

 La Compagnia delle Indie Orientali e il suo esercito privato hanno governato il subcontinente asiatico per conto della Corona nel Settecento e nell’Ottocento.

 «Big Oil» esercitava un’enorme influenza politica durante i suoi anni d’oro.

Ma gli odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti fondamentali.

 Innanzitutto, i colossi tecnologici non esercitano il potere esclusivamente nello spazio fisico.

 Mantengono ed esercitano una profonda influenza in una sfera del tutto nuova della geo politica: lo spazio digitale, che essi stessi hanno creato.

Le persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione di governi.

Neanche il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo territorio.

Lo spazio fisico è finito.

Quello digitale cresce in maniera esponenziale.

Considerando i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra.

Gli oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi.

Google sostiene che sulla sua piattaforma viene fruito ogni giorno più di un miliardo di ore di video.

Gli analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «data sfera» – la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo ogni anno – raggiungerà quasi 60 petabyte nel 2020.

La data sfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con dispositivi connessi a Internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le cose per i politici.

I politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale. La capacità di un candidato di attrarre follower su Facebook e Twitter – più che i suoi contatti con i professionisti della politica – è ciò che fa arrivare il denaro e i voti che servono a vincere le elezioni in molte democrazie.

Per una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli strumenti di «targetizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati indispensabili per avviare un business di successo.

Più le persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato dell’innovazione.

I governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere.

La Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e altre società online.

 L’Unione europea ha cercato di regolamentare i dati personali, i contenuti online e i gate keeper (i «controllori dell’accesso») di internet per tutelare la privacy dei suoi cittadini.

La sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso nel corso del 2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la propria volontà sulla sregolata sfera digitale.

Ma i governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.

Le aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata.

In passato molte aziende private fornivano acqua, elettricità, trasporti e altri servizi essenziali.

Oggi una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in moltissimi altri campi.

Cominciamo proprio dal settore informatico.

 Appena quattro aziende – Microsoft, Amazon, Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda mondiale di “servizi cloud”.

Durante il primo anno della pandemia di Covid-19 è stata questa infrastruttura informatica essenziale a far funzionare l’economia globale, a permettere alle persone di lavorare e a consentire di creare aule virtuali in cui i ragazzi potevano continuare a imparare.

Molto presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.

Tutti dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi “leader del cloud”. La capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro per rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico e costruire un approccio più razionale all’ingresso delle nuove tecnologie nelle nostre vite e società dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.

Segnatamente, questi obiettivi potranno essere globalisti, tecno utopici o nazionalisti.

Tutte le aziende esistono per fare soldi.

Per le imprese che forniscono servizi digitali è più facile raggiungere quest’obiettivo operando su scala globale.

Per decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande possibile.

Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Apple hanno tutte costruito i loro imperi adottando mentalità globaliste.

Inizialmente hanno puntato a dominare una nicchia economicamente proficua, per poi cominciare a vendere i loro servizi in tutto il mondo.

Aziende cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato mercato interno cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta dietro la loro crescita è lo stesso:

aprire negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle necessità e competere senza sosta.

I dipartimenti addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende tecnologiche del mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex diplomatici, lobbisti e avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano la priorità da sempre assegnata all’approccio globalista.

È possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore tecnologico, ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso tecno utopista non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e Shenzhen.

Alcune delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate a ricoprire.

In Occidente alcuni di loro, come “Mark Zuckerberg” o” Larry Page” e “Sergey Brin” di Google, mantengono il controllo delle rispettive aziende attraverso le azioni dei fondatori o altre strutture finanziarie.

In questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO.

 Sono tutti accomunati da una visione in cui la tecnologia non è solo un’opportunità commerciale globale ma una forza potenzialmente rivoluzionaria che può salvare l’umanità da sé stessa.

 

Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, è probabilmente l’esempio più riconoscibile della tendenza tecno utopista, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i mercati dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere l’umanità una «specie multi planetaria» colonizzando Marte.

Anche il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende tecnologiche.

A partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del governo in importanti domini tecnologici, tra cui il “cloud”, “l’intelligenza artificiale” e la “sicurezza cibernetica”.

Visto il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di “cloud computing” al governo americano.

Queste tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e delle intenzioni dei loro leader.

Le aziende tecnologiche sono organizzazioni grandi e complesse, e all’interno di ognuna si combinano motivazioni globaliste, tecno utopiste e nazionaliste.

Ma le categorie possono comunque aiutarci a capire le scelte che le aziende tecnologiche dovranno operare mentre attraverseranno la mutevole geopolitica dello spazio fisico e digitale nel corso del prossimo decennio.

Si allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina?

Resisteranno alla tentazione di diventare campioni nazionali, di opporsi alla regolamentazione che minaccia i loro modelli di business, per preservare un approccio più globalista?

O scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende tecnologiche contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o addirittura nuove forme di governo umano?

Mentre la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani opereranno in uno di questi tre scenari:

 lo stato regna sovrano e i campioni nazionali vengono premiati;

le aziende soggiogano lo stato, consegnando ai globalisti una vittoria storica;

lo stato svanisce per dare potere ai tecno utopisti.

Vediamo che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.

Non è possibile “regolare i social” negli Stati disuniti.

STEFANO BALASSONE.

 

LO STATO REGNA SOVRANO/VINCONO I CAMPIONI NAZIONALI.

In questo scenario gli Stati Uniti e i loro alleati si organizzano per offrire denaro ai governi e creare leggi che premiano le aziende «patriottiche», quelle con modelli di business e risorse allineate agli obiettivi nazionali, e puniscono le imprese che non si adeguano.

Le aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi sociali abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.

Nella vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come soccorritore di ultima istanza.

In questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono allineati con quelli del governo.

La chiave di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli Stati Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a formare alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della Cina, al tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post pandemia e nella transizione verde.

 

LE AZIENDE SOGGIOGANO LO STATO/VINCONO I GLOBALISTI.

In questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con l’automazione e la digitalizzazione.

Il sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.

Le autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione. Le imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in paesi autoritari come la Cina e la Russia. A differenza dei campioni nazionali, ai globalisti interesserà meno supportare i governi: la loro priorità sarà quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.

I globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio. Possono sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America. Possono gestire periodiche tensioni nelle relazioni USA-Cina e persino il sentimento di sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non una nuova Guerra fredda che li costringa a scegliere tra Washington e Pechino.

 

LO STATO SVANISCE/VINCONO I TECNOUTOPISTI

In questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici dissolve il contratto sociale.

Gli americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.

 

La disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento climatico, le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide internazionali.

Per i tecno visionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo diventa discutibile.

 Elon Musk gioca un ruolo più importante nella trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio.

Mark Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando si tratta di decidere come ci connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro e in politica.

Ma l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecno utopisti di tutto il mondo. Anche la credibilità interna dello stato cinese dovrebbe subire un tracollo.

 

LA SFIDA CINESE

Questo modello globalista-nazionalista-tecno utopista non si applica altrettanto bene alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore.

I tecno utopisti come “Jack Ma” stanno imparando a non sfidare apertamente lo stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti sono costretti a comportarsi come se fossero prima di tutto nazionalisti.

“Alibaba”, che ospita i più grandi siti web consumer-to-consumer, consumer-to-business e business-to-consumer del mondo, deve stare attenta;

lo stesso dicasi per “ByteDance”, la cui app di condivisione video “TikTo”k l’ha aiutata a diventare l’unicorno di maggior valore a livello mondiale.

Stessa sorte tocca a “Tencent”, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza statale cinese di quanto non faccia “Alibaba”.

Se l’economia cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero meno redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende globaliste, lo stato potrebbe concedere ai globalisti una maggiore libertà d’azione all’interno dei confini nazionali.

Per il momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali.

 Un mondo in cui lo stato diventasse più forte sarebbe quello più a rischio di sprofondare in una nuova Guerra fredda e di soffocare la cooperazione globale.

Se Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.

Uno scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo (ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.

Un mondo in cui i tecno utopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più difficile da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in poche mani, spesso le più eccentriche.

 

LA GENERAZIONE “Z”.

I governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non controllano.

Le organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono adottare una visione di più lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e questo rende le loro prospettive particolarmente preziose.

Le aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità.

Molte delle ONG più lungimiranti del mondo operano su orizzonti temporali altrettanto estesi. Persino in seno ai governi non contano unicamente i leader e i legislatori nazionali.

Quando Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’Accordo di Parigi sul clima, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.

Non è un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia.

L’area metropolitana di New York ha un’economia più grande di quella del Canada o della Russia.

Nel mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore privato non possono ignorare in eterno.

Abbiamo inoltre la fortuna che la prossima ondata di persone chiamata a risolvere questi problemi è diventata adulta in un mondo globalizzato.

La “Generazione Z” – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà il proprio impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale aumentare enormemente nel prossimo decennio.

 Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen. Z» è la generazione più interconnessa a livello globale della storia.

La stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si può e non si può fare.

Appellarsi alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando si invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo vissuta dalla “Gen. Z” è molto diversa da quella della mia generazione.

Sono cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic.

Sapevo, come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.

Oggi i giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in tutto il mondo.

 Giocano in tempo reale con i ragazzi asiatici e africani. Questa non è la globalizzazione di 25 anni fa. I ragazzi di questa generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto: una visione a 360° del mondo.

Sono consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in comune con gli altri.

 In particolare, sanno meglio di qualsiasi generazione che li ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e una scarsa immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni future.

 

È facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri come “Greta Thunberg” ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare.

La loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.

La paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia. Reagan e Gorbaciov lo sapevano.

Oggi le nazioni e i popoli del mondo non si trovano dinanzi a una minaccia aliena.

Siamo chiamati ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a creare.

In questo senso siamo interdipendenti, ed è questo il fondamento della più grande opportunità della storia umana.

La necessità deve ora diventare la madre della cooperazione.

Dobbiamo costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si può e cooperare dove si deve.

Siamo i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in grado di sconfiggerle.

Vista la posta in gioco, se falliremo non avremo un’altra possibilità.

(Questo è un estratto dal nuovo libro di “Ian Bremmer”, "Il potere della crisi - Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo" edito dalla casa editrice “Egea”.)

 

 

 

 

Bill Gates non si accontenta dei vaccini,

vuole controllare il sole.

                                                

scenarieconomici.it – (3 Gennaio 2021) - Giuseppina Perlasca – ci dice:

 

Bill Gates ha grandi ambizioni.

Dopo aver passato un anno in una continua campagna per il lockdown e per i vaccini, ora ha alzato lo sguardo e punta in alto a piegare il sole.

Insomma a Gates non basta più fare beneficenza, ormai vuole interpretare direttamente Dio:

 infatti finanzia un progetto per emettere sostanze nella stratosfera con la finalità di assorbire i raggi solari e quindi condurre ad un significativo raffreddamento.

il progetto – chiamato “Stratospheric Controlled Perturbation Experiment” (SCoPEx) gioca con il controllo dei raggi infrarossi ad alta quota.

Utilizzando dei palloni sonda che giungono sino a 20 mila metri libera quantità variabili di sostanze chimiche, fra i 100 grammi ed i due kg, per formare delle nubi lunghe fino ad un km e controllare, con le strumentazioni di bordo gli effetti sui raggi infrarossi e le interazioni chimiche ad alta quota.

La finalità è quella di prevenire il “Surriscaldamento globale, ma si sta veramente giocando a essere Dio:

 raffreddare l’atmosfera può essere estremamente pericoloso e, per fare un esempio, le grandi carestie della storia hanno conciso sempre con raffreddamenti dell’atmosfera, spesso dovuti ai fenomeni come le eruzioni vulcaniche.

Quindi chi effettua questi esperimenti sta giocando con “qualcosa con rischi potenzialmente grandi e difficili da prevedere, come i cambiamenti nei modelli di pioggia globali”.

“Non c’è alcun merito in questo test se non quello di consentire il passaggio successivo”, ha affermato “Niclas Hällström”, direttore del think tank verde svedese “WhatNext”? che ha aggiunto:

Non puoi testare il detonatore di una bomba e dire “Questo non può fare alcun male”.

(twitter.com/NikolovScience/status/1343376989902651392?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1343384031581200385%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es2_&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.zerohedge.com%2Fmarkets%2Flockdown-proponent-bill-gates-quietly-funding-plan-dim-suns-rays)

Tra l’altro i modelli dell’interazione della CO2 con la temperatura e la vita sono chiari solo a quegli scienziati che, per partito preso, parlano di “Surriscaldamento globale” e non tengono conto degli effetti della CO2 sulla vegetazione e lo scambio gassoso con l’oceano.

Però il denaro fa sentire onnipotenti e bisogna giocare a Dio, ovviamente per il bene dell’umanità, dice lui.

 

 

 

Geoingegneria, per Bill Gates

il problema è il Sole.

 Pressenza.com – (23.01.21) - Lorenzo Poli – ci dice:

 

Il fondatore di Microsoft sta sostenendo finanziariamente lo sviluppo della tecnologia di oscuramento solare che potrebbe riflettere la luce solare fuori dall’atmosfera terrestre, causando un effetto di raffreddamento globale.

Lo “Stratospheric Controlled Disturbance Experiment” (SCoPEx), lanciato dagli scienziati del programma” Solar Geoengineering” dell’Università di “Harvard”, mira a esaminare questa soluzione spruzzando polvere di carbonato di calcio (CaCO 3) non tossico nell’atmosfera.

Un aerosol “che riflette il sole e può contrastare gli effetti globali di riscaldamento”.

La ricerca diffusa sull’efficacia della geoingegneria solare è rimasta ferma per anni a causa delle controversie che ha generato.

Gli oppositori ritengono che questa scienza comporti rischi imprevedibili, inclusi cambiamenti estremi nei modelli meteorologici che non sono diversi dalle tendenze di riscaldamento a cui stiamo già assistendo.

Il termine “geoingegneria” si riferisce ad una serie di tecnologie preposte per intervenire deliberatamente nella alterazione dei sistemi terrestri su larga scala (cioè planetari).

Esistono due gestioni principali per tali interventi:

gestione delle radiazioni solari” (MRS), una serie di tecnologie il cui scopo è di ridurre la quantità di luce solare che entra nell’atmosfera terrestre, cosicché da raffreddare artificialmente il clima tramite il mascheramento delle nubi o della superficie degli oceani per renderli più riflettenti;

e “rimozione dell’anidride carbonica” (RDC) o “rimozione dei gas serra” (RGEI), il cui scopo è quello di assorbire il biossido di carbonio (CO2) dall’atmosfera in grande scala e seppellirlo nel sottosuolo, negli oceani o nelle grandi piantagioni di monocolture di alberi.

In generale, la geoingegneria può includere interventi sul terreno, gli oceani o l’atmosfera e comporta grandi rischi ed impatti negativi per le comunità umane, gli ecosistemi ed i processi naturali, nonché per la pace e la sicurezza mondiali.

Per gli alti rischi e gli effetti collaterali che comporta, la geoingegneria è sottoposta a moratoria nella “Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica”.

Nonostante ciò, “SCoPEx”, il progetto finanziato da “Bill Gates”, farà un piccolo passo nella sua ricerca iniziale questo giugno vicino alla città di Kiruna, in Svezia, dove la “Swedish Space Corporation” ha accettato di aiutare a lanciare un pallone con attrezzature scientifiche a 12 miglia (20 km) di altezza.

Il lancio non rilascerà aerosol nella stratosfera, ma servirà come test per manovrare il globo ed esaminare comunicazioni e sistemi operativi.

 In caso di successo, questo potrebbe essere un passo in una seconda fase sperimentale che rilascerebbe una piccola quantità di polvere di “CaCO 3” nell’atmosfera.

“David Keith”, professore di fisica applicata e politica pubblica all’Università di “Harvard”, ha riconosciuto le “molte vere preoccupazioni” della geoingegneria.

È vero che nessuno sa cosa succederà fino a quando “CaCO3” non verrà rilasciato e poi studiato.

“Keith” e i suoi colleghi scienziati di “SCoPEx” hanno pubblicato un documento nel 2017 suggerendo che la polvere può effettivamente ricostituire lo strato di ozono reagendo con molecole che riducono lo strato di ozono.

“Ulteriori ricerche su questo e metodi simili potrebbero portare alla riduzione del rischio e migliorare l’efficacia dei metodi di geoingegneria solare”, scrivono gli autori dell’articolo.

Già ad ottobre 2018, 23 organizzazioni internazionali e regionali e 87 organizzazioni nazionali indigene, ambientaliste, altermondiste e contadine a livello mondiale, guidate dall’ambientalista indiana “Vandana Shiva”, avevano sottoscritto “il Manifesto contro la Geoingegneria” per il blocco immediato di tutti gli esperimenti di geoingegneria pianificati, tra cui anche “SCoPEx” che all’epoca era previsto come “iniezione stratosferica di Aerosol” da eseguire in Arizona, vicino al confine USA-Messico.

Tra gli altri anche il Progetto “Marine Clouds Brightening” (MCBP), previsto in California, nella baia di Monterrey;

 il “progetto Ice911”, che mirava a diffondere microsfere di vetro sul mare e sulle superfici ghiacciate dell’Alaska;

e i progetti di fertilizzazione dell’oceano della società “Oceaneos” in Cile, Perù e Canada.

La richiesta principale era quella di fermare questi progetti su larga scala ed il finanziamento di progetti che cercavano di catturare il biossido di carbonio con mezzi tecnologici con il fine di rinchiuderlo in formazioni geologiche e/o negli oceani, o di utilizzarlo per migliorare il recupero di petrolio o altre applicazioni industriali.

Da anni climatologi e ambientalisti temono che sia una mossa azzardata intervenire con pratiche ingegneristiche su un sistema complesso e delicato come il clima.

 Inoltre credono che la geoingegneria perpetui la” falsa convinzione” che l’attuale modello industriale di produzione e consumo, socialmente e ambientalmente ingiusto e devastante, non possa essere modificato e che, pertanto, richieda un “controllo” tecnologico per mitigarne gli effetti.

 Una sorta di grande escamotage che permette di continuare, grazie alla “strategia di mitigazione”, a emettere gas serra con nessun cambiamento nei modelli attuali di consumo e produzione.

Ciò impedisce di affrontare la crisi climatica fin dai suoi fattori strutturali, economici, politici, sociali e culturali.

“Il ruolo della geoingegneria, in un mondo di decisioni scientificamente illuminate e rispettose dell’ambiente, dovrebbe essere zero” – così affermò “Vandana Shiva” in un’intervista, aggiungendo –

“Abbiamo riconosciuto il fatto che quando non si prende in considerazione il modo in cui i sistemi ecologici lavorano, poi si fa un danno. (…)

Noi abbiamo avuto la possibilità di rimpiazzare le persone con combustibili fossili ed avere livelli d’industrializzazione sempre più alti, in agricoltura, nella produzione, senza pensare ai gas ad effetto serra che stavamo immettendo.

 Il cambiamento climatico è veramente un prodotto del paradigma dell’ingegnerizzazione, quando i combustibili fossili trainavano l’industrializzazione.

Ora, avere quello stesso approccio come soluzione, significa non considerare seriamente ciò che” Einstein” disse:

 “non puoi risolvere i problemi usando lo stesso atteggiamento mentale che li ha creati”

Il ruolo della modifica artificiale del clima è un’idea di dominio, volto a “patologizzare” la Natura senza arginare il problema:

anziché cambiare il modello di sviluppo che genera l’inquinamento e crea il surriscaldamento globale, il problema diventa così il Sole che, da base della vita, diventa il problema “a causa dei suoi raggi ultravioletti che surriscaldano il Pianeta”.

 Questo legittima il fatto che si possa immettere delle sostanze a base di carbonato di calcio con il fine di creare uno strato nell’atmosfera che impedisca al Sole di splendere al meglio sulla Terra.

Secondo questo ragionamento non è l’impatto antropico sull’ambiente ad essere un problema, ma l’ambiente stesso, che non è accomodante con il modello economistico-sviluppista prodotto dall’essere umano.

Un livello altissimo di “hybris”, di tracotanza umana, di volontà di potenza, un’idea distopica, ai limiti dell’assurdo ed impensabile se non fosse vera.

Una proposta avanzata appunto da miliardari, come Bill Gates, e finanziata dai loro giganti tecnologici che producono un’enorme impronta ecologica alla radice dell’ingiustizia sociale e climatica globale. (forbes.co/2021/01/19/editors-picks/ahora-bill-gates-quiere-bloquear-el-sol-asi-es-como-piensa-hacerlo/) - (Lorenzo  Poli).

 

 

“Bill Gates” mette in guardia

anche colossi come Google

e Amazon dall'intelligenza artificiale.

Wired.it – (23-5-2023) – Alessandro Patella – ci dice:

Secondo il fondatore di Microsoft, l'”Ai” è destinata a rivoluzionare il rapporto tra uomo e digitale così come lo conosciamo e a mettere in crisi anche grandi aziende tecnologiche.

Il fondatore di Microsoft è “Bill Gates”.

L’intelligenza artificiale è destinata a rivoluzionare il rapporto tra uomo e digitale così come lo conosciamo e a mettere in crisi anche aziende strutturate come Google e Amazon.

Parola di Bill Gates, che il 22 maggio, nel corso di un evento organizzato da “Goldman Sachs” e “SV Angel” proprio sulla tecnologia del momento, ha individuato quale potrebbe essere il prodotto in grado di dare all’azienda che lo realizzerà un netto vantaggio su tutte le altre.

Come riporta Il Sole 24 Ore, secondo il fondatore di Microsoft arriverà presto uno “sconvolgimento epocale” capace di modificare nel profondo i comportamenti quotidiani degli utenti:

 “Chiunque realizzerà per primo un agente personale” dotato di intelligenza artificiale, riuscirà a far sì che “nessuno consulti più motori di ricerca, siti di produttività o Amazon”.

In particolare, “Gates” immagina “un assistente virtuale” capace di studiare e comprendere a fondo le necessità e le abitudini di navigazione e acquisto delle persone, per poi utilizzarle per aiutarle a “leggere le cose che non hanno tempo di leggere”.

Le previsioni dell’imprenditore e filantropo di Seattle non si sono fermate all’oggetto dell’invenzione, ma anche a chi potrebbe potenzialmente idearla e progettarla.

Secondo lui c’è infatti il 50% di probabilità che a segnare questo colpo grosso dell’intelligenza artificiale sarà una “startup”:

 “Sarei deluso - ha affermato - se Microsoft non entrasse in questo filone di business, ma allo stesso tempo mi impressionano un paio di startup, inclusa “Inflection”.

 Il riferimento è a “Inflection.Ai”, startup del cofondatore di “Linkedin” “Reid Hoffman” e del cofondatore di Google” DeepMind” Mustafa Suleyman”.

L’ultima ipotesi di “Bill Gates” riguarda i tempi di realizzazione dell’assistente virtuale dotato di intelligenza artificiale.

 Secondo il fondatore di Microsoft ci vorrà ancora molto tempo perché esso sia pronto all’uso da parte della totalità degli utenti.

Fino ad allora, le aziende avranno ancora un’arma a disposizione:

 incorporare le tecnologie di intelligenza artificiale, come per esempio “ChatGPT”, nei propri prodotti.

 

 

 

Bill Gates si conferma il più grande

proprietario di terreni agricoli

negli Usa: perché lo fa.

Open.online.it – (29 GENNAIO 2023) – Redazione -ci dice:

 

Secondo la rivista “Land Report”, i possedimenti agricoli di Farmer Bill sono arrivati ad almeno 275mila acri, contro i 242mila degli anni scorsi.

“Bill Gates” è il più grande proprietario di terreni agricoli privati d’America.

Lo era anche l’anno scorso e quello prima:

con 242 mila acri sparsi in 19 Stati, si era accaparrato il titolo di “latifondista” da record.

Tuttavia, la crescita di “Farmer Bill” sembra non arrestarsi nemmeno nel 2023.

«Abbiamo identificato altri 6.016 acri in North Dakota che fanno salire i suoi possedimenti agricoli ad almeno 248.000 acri e il totale a 275.000, compresi lotti cosiddetti “transitional” ideali per sviluppo immobiliare o ricreativo»,

 racconta “Eric O’Keefe”, il direttore di “Land Report”, la rivista che ha scoperto la “nuova vita” da contadino del fondatore ed ex Ceo di Microsoft, citato dal Sole 24 Ore.

Il primato, raggiunto in circa cinque anni attraverso operazioni della sua finanziaria “Cascade”, avrebbe scatenato però un tumulto di voci sui contorni relativi alle operazioni di acquisto di così tanti terreni.

Come agli intrecci tra investimenti finanziari e innovazione o produzione agricola e sostenibilità ambientale.

 Dove già, spiega il quotidiano economico, sono impegnate Microsoft – della quale Gates rimane azionista – e la sua Fondazione.

Durante una sessione di domande – “Ask Me Anything “– organizzata l’11 gennaio scorso su “Reddit”, Gates ha cercato solo in parte di dare una risposta.

A chi gli ha chiesto di chiarire «perché stava acquistando così tanti terreni agricoli?»,

Gates ha messo in chiaro di possedere «meno di 1/4.000 dei terreni agricoli negli Stati Uniti».

E di aver investito in queste aziende agricole «per renderle più produttive e creare più posti di lavoro.

Non c’è qualche grande piano coinvolto».

Le acquisizioni, ha aggiunto, «sono affidate a gestori professionali».

“Cascade” non ha risposto a richieste di commenti – scrive il quotidiano – ma “O’Keefe” conferma:

«La holding, con controllate quali “Red River Trust” e” Cottonwood Ag Management”, rileva per conto di Gates terreni agricoli di alta qualità, “investment-grade”, dove i frutti della terra producono liquidità e le proprietà aumentano di valore».

 

 

 

 

Bill Gates e la nuova profezia:

“Il bioterrorismo porterà la prossima pandemia”.

 E chiede all’Occidente di investire più denaro in vaccini e sanità:

 «Senza prevenzione il bilancio in futuro sarà peggiore del Covid».

Sivempveneto.it – (22/03/2023) – Redazione – ci dice:

La Stampa.

In un triennio il Covid ha bruciato «mille miliardi di dollari» e senza un piano mondiale di prevenzione la prossima pandemia avrà effetti ancora peggiori.

 Sul” New York Times” il fondatore di Microsoft, “Bill Gates” propone un «corpo di vigili del fuoco» contro i virus ed esercitazioni per prevenire una nuova emergenza sanitaria globale.

 «Immaginate che ci sia un piccolo incendio nella vostra cucina.

L’allarme antincendio scatta, avvertendo tutti i vicini del pericolo.

Qualcuno chiama il 911 – spiega il filantropo-.

 Cercate di spegnere il fuoco da soli, magari con un estintore sotto il lavello.

 Se non funziona, sapete come evacuare in sicurezza.

Quando arrivate fuori, un’autopompa sta già arrivando.

 I pompieri usano l’idrante di fronte a casa vostra per spegnere le fiamme prima che le abitazioni dei vostri vicini prendano fuoco».

Ecco «dobbiamo prepararci a combattere le epidemie proprio come facciamo con gli incendi.

 Se un rogo viene lasciato divampare senza controllo, rappresenta una minaccia non solo per una casa, ma per un’intera comunità.

 Lo stesso vale per le malattie infettive, ma su scala molto più ampia.

Come insegna il Covid, un’epidemia in una città può diffondersi rapidamente in un intero Paese e poi in tutto il mondo».

Tre anni fa l’Oms ha proclamato la pandemia e, «nonostante i numerosi avvertimenti», si è toccato il «culmine di un fallimento collettivo».

Ora Bill Gates teme che «stiamo commettendo gli stessi errori:

 il mondo non fa abbastanza per prepararsi alla prossima pandemia».

Ma, avverte, «non è troppo tardi per impedire che la storia si ripeta».

Il mondo ha bisogno di un «sistema ben finanziato che sia pronto a scattare appena emerge il pericolo».

Affrontare la sfida «non dovrebbe dipendere dai volontari».

 E «abbiamo bisogno di un corpo di professionisti in ogni Paese per controllare i focolai ovunque si manifestino».

 Per avere successo le squadre di emergenza devono basarsi sulle reti di esperti ed essere guidate dai capi delle agenzie nazionali di salute pubblica».

 Nessun Paese da solo può fermare la diffusione di una malattia e serve il coordinamento dei più alti livelli di governo.

Occorre esercitarsi per diversi tipi di agenti patogeni.

«Le malattie respiratorie umane sono una preoccupazione enorme perché possono diventare globali in breve tempo».

 Non sono però l’unica minaccia.

 «E se il prossimo agente patogeno potenzialmente pandemico si diffondesse attraverso le goccioline di superficie?

O se si trasmettesse per via sessuale come l’Hiv?

 E se fosse il risultato di bioterrorismo?», si interroga Bill Gates.

 Ogni scenario «richiede una risposta diversa e solo i “Corpi di Emergenza” possono aiutare il mondo ad affrontarli tutti».

 Dopo un trilione di dollari di perdite e 7 milioni di vittime «non possiamo farci cogliere di nuovo impreparati».

L’umanità «deve agire adesso per assicurarsi che il Covid-19 diventi l’ultima pandemia».

Vanno sostenuti, perciò, i principali esperti di salute perché la prossima pandemia potrebbe scoppiare in qualunque angolo del pianeta.

 Quindi dai Paesi più ricchi devono arrivare i fondi necessari per la prevenzione.

L’”Oms” (corrotta! N.d.R) rimane «lo strumento migliore di cui disponiamo» per fermare le epidemie, ma solo un “Corpo di emergenza sanitaria globale” può garantire «un futuro senza pandemie».

Bill Gates sollecita investimenti in sicurezza prima che sia troppo tardi».

Servono strumenti per fermare la diffusione di un agente patogeno.

Solo con analisi su larga scala si possono identificare le potenziali minacce.

 È fondamentale la “sorveglianza ambientale”, come i test sulle acque reflue perché molti agenti patogeni si trovano nei rifiuti umani.

Appena un campione di acque reflue risulta positivo,” una squadra di risposta rapida” deve intervenire nell’area colpita per trovare le persone infette, istruendo la comunità su come proteggersi».

Il miliardario filantropo preferirebbe spendere per i vaccini piuttosto che viaggiare su Marte.

«E’ un miglior uso del denaro», si contrappone a Elon Musk e Jeff Bezos. «Vaccinare contro il morbillo salva vite».

L’intelligenza artificiale può trasformare l’umanità, consentendo scoperte in campo medico e scientifico.

Il magnate è sorpreso per essere diventato il volto delle teorie del complotto durante una pandemia in cui si è invece prodigato per l’accesso alle cure.

 «Le persone cercano un capro espiatorio per l’emergenza Covid, ma i complotti sono una spiegazione troppo semplicistica.

La malevolenza è molto più facile da capire della biologia», osserva Gates, che ha trascorso gran parte della sua vita da persona più ricca del mondo e ha donato decine di miliardi di dollari a cause filantropiche, spesso mirate alla salute globale, in particolare ai bambini.

 Lasciata la prima linea dell’industria hi-tech divide il suo tempo tra la lotta al cambiamento climatico e l’eradicazione della malnutrizione e di malattie come la poliomielite e la malaria.

Ha profetizzato già nel 2015 una pandemia da milioni di morti.

Ed è finito nel mirino dei cospirazionisti già all’epoca dell’epidemia di Ebola in Africa centrale.

 Per i vaccini e l’addestramento del personale sanitario ha donato 150 milioni di dollari al “programma di vaccinazione Covax” nei paesi a basso reddito.

Al tempo stesso mette in guardia dal pericolo di bioterrorismo.

 «Dobbiamo essere pronti a fermare attacchi terroristici. Come reagirebbe il mondo se un bioterrorista portasse il vaiolo in aeroporto?».

On line dilagano le fake news su collegamenti con laboratori in cui si manipolano virus letali.

 In realtà Bill Gates aiuta a scongiurare disastri (o li provoca

 come ha sempre fatto! N.d.R.).

 

 

 

 

La startup nucleare di Bill Gates

vince 750 milioni di dollari,

perde l'unica fonte di carburante.

Canarymedia.com – Eric Wesoff – Direttore Editoriale – (18 aprile 2022) – ci dice:

“Terra Power” mette a segno un round di investimento da record guidato dalla “SK” della Corea del Sud.

 Ma non ha alcun fornitore di carburante arricchito di cui ha bisogno, ora che l'approvvigionamento dalla Russia è fuori discussione.

(18 agosto 2022”.

Un uomo bianco con i capelli grigi e gli occhiali neri su uno sfondo blu,

Eric Wesoff.

La startup di fissione nucleare “Terra Power” , fondata e presieduta dal co-fondatore di Microsoft Bill Gates, ha raccolto 750 milioni di dollari per sviluppare reattori nucleari avanzati che fungono da alternative ai reattori ad acqua leggera che costituiscono la stragrande maggioranza della flotta nucleare civile mondiale. Ma il denaro da solo non sarà sufficiente per far superare alla startup i molti ostacoli che si frappongono.

Il design del reattore veloce “Natrium” di “Terra Power “è radicalmente diverso dal design dei reattori nucleari tradizionali.

 Per cominciare, è più piccolo.

Un tipico reattore negli Stati Uniti produce 1.000 megawatt di potenza.

 Il primo reattore dimostrativo di “Terra Power”, ora in fase di progettazione per un sito nel Wyoming , avrà una capacità di 345  megawatt.

Le dimensioni potrebbero ridurre e consentire di costruire il reattore a basso costo in fabbrica e non in modo costoso in loco.

Il reattore” Natrium” utilizzerà anche un combustibile diverso e un refrigerante diverso rispetto ai reattori nucleari standard.

 Sarà alimentato da uranio ad alto dosaggio e basso arricchimento ( HALEU ), che è arricchito con più uranio rispetto al combustibile utilizzato nelle centrali nucleari tradizionali.

E il refrigerante sarà sodio liquido ad alta temperatura anziché acqua.

Il nuovo finanziamento di “Terra Power” include $ 250 milioni dal sudcoreano “Caebol SK Group” .

 I precedenti finanziamenti per l'azienda provenivano da “Gates” e “Warren Buffett” di “Berkshire Hathaway”.

La società ha anche ricevuto 80 milioni di dollari dal “Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti” per lavorare alla progettazione del suo reattore “Natrium”.

“Canary “ha coperto la tecnologia di Terra Power” in dettaglio lo scorso anno, quando l'azienda ha annunciato che “Bechtel” costruirà il suo primo reattore a “Kemmerer”, nel Wyoming, vicino al sito di una centrale elettrica a carbone che dovrebbe essere chiusa.

Il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti e gli investitori privati ​​si divideranno il costo del progetto dimostrativo.

La startup afferma che questo primo reattore sarà operativo entro il 2028 e costerà 4 miliardi di dollari, tra ingegneria, approvvigionamento e costruzione.

Se” Terra Power” si avvicina al raggiungimento di questi obiettivi estremamente ambiziosi, si differenzierà fortemente dall'industria nucleare tradizionale, nota per le scadenze mancate e gli sconvolgenti sforamenti dei costi.

Gli unici due reattori nucleari convenzionali attualmente in costruzione negli Stati Uniti, presso l'impianto di “Vogtle “in Georgia, sono già in ritardo di sei anni e costeranno ai clienti delle utility oltre 30 miliardi di dollari, più del doppio del prezzo originale.

Follia del carburante?

Un nuovo grande problema per “Terra Power” è emerso all'inizio di quest'anno: la sua fonte di carburante.

 L'unico impianto attualmente in grado di fornire quantità commerciali di HALEU è in Russia.

Non era una bella situazione anche prima che la Russia invadesse l'Ucraina.

 Ora che la guerra in Ucraina va avanti da sei mesi e non mostra segni di risoluzione, fare affidamento sul carburante proveniente dalla Russia è insostenibile.

A marzo, “Terra Power” ha dichiarato di aver tagliato i legami con “Tenex”, la società statale russa da cui aveva pianificato di procurarsi “HALEU” , secondo quanto riferito da “WyoFile”, testata giornalistica senza scopo di lucro con sede nel Wyoming.

"Quando la Russia ha invaso l'Ucraina è diventato molto chiaro, per tutta una serie di ragioni - ragioni morali oltre che ragioni commerciali - che l'utilizzo di carburante russo non è più un'opzione per noi", ha affermato “Jeff Navin”, direttore degli affari esterni di “Terra Power”.

“Terra Power” ha appena ricevuto buone notizie questa settimana quando il presidente “Biden” ha firmato l'”Inflation Reduction Act” in legge.

 La legislazione USA comprende 700 milioni di dollari per aiutare a costruire una catena di approvvigionamento nazionale per “HALEU”.

 Il finanziamento potrebbe dare una spinta ai piani del “Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti “per lanciare un programma di disponibilità “HALEU “autorizzato dal Congresso USA.

 Ma lo sviluppo della capacità produttiva di “HALEU “negli Stati Uniti richiederà anni.

“Terra Power” non ha spazio di manovra per ritardare.

 Se non completerà il suo progetto dimostrativo entro il 2028, rischia di perdere fino a 2 miliardi di dollari di finanziamenti federali dal programma di dimostrazione del reattore avanzato del “Dipartimento dell'energia degli Stati Uniti” e l'opportunità di revisioni regolamentari federali accelerate.

Alcuni esperti sono scettici sul fatto che “Terra Power” rispetterà la scadenza, soprattutto ora che non ha fonti di carburante.

"Non pensare fosse fattibile prima che questa chiave inglese venisse lanciata", ha detto a “WyoFile” a marzo “Edwin Lyman”, direttore della “sicurezza dell'energia nucleare per l'Unione degli scienziati interessati”.

Una rinascita nucleare?

Nonostante questi venti contrari,” Terra Power” ha appena raccolto $ 750 milioni, quindi non è l'unico ad anticipare una rinascita dell'industria dell'energia nucleare.

L'”Inflation Reduction Act “aiuterà non solo “Terra Power” alimentata da “HALEU”, ma anche il resto del settore dell'energia nucleare:

include un credito d'imposta sulla produzione per l'energia nucleare, un incentivo che andrà a beneficio delle centrali nucleari in difficoltà che esistono già in tutto il paese e degli sviluppatori di nuovi tipi di reattori nucleari.

 Oltre a Terra Power”, quest'ultima categoria include le startup statunitensi “NuScale” e “Oklo” .

Gli obiettivi climatici dell'amministrazione Biden per il 2030 si basano in parte sull'energia nucleare, attualmente la più grande fonte di elettricità senza emissioni di carbonio negli Stati Uniti.

 2 miliardi per lo sviluppo di tecnologia nucleare avanzata.

 Secondo “Jigar Shah”, direttore dell'ufficio, l'ufficio per i programmi di prestito del Dipartimento dell'energia ha 11 miliardi di dollari di finanziamenti per centrali nucleari e catene di approvvigionamento nucleare.

Persino alcuni leader politici che in passato sostenevano la chiusura delle centrali nucleari stanno ora sostenendo di tenerle aperte.

La scorsa settimana, il governatore della California “Gavin Newsom” (D) ha proposto una legislazione volta ad aiutare l'ultima centrale nucleare dello stato a rimanere in funzione oltre la prevista data di chiusura del 2025, sostenendo che è necessaria per mantenere la stabilità della rete elettrica a fronte di un aumento dello stress da disastri alimentati dal cambiamento climatico come ondate di calore e incendi.

E stati tra cui “Illinois” , “New York” e “New Jersey” hanno approvato leggi che offrono aiuti economici per mantenere in funzione le loro centrali nucleari.

L'industria nucleare ha minacciato una rinascita per decenni, ma il dispiegamento di una nuova energia nucleare non ha mai seguito la retorica aspirazionale.

 

Sta finalmente cambiando?

 Le crescenti preoccupazioni per il cambiamento climatico, oltre a una confluenza di cambiamenti nella tecnologia, nella politica, nell'economia e nel sentimento pubblico, potrebbero finalmente rianimare questa industria ossificata.

Anche se in passato ci sono state false partenze per l'energia nucleare, sembra esserci più motivo di ottimismo del solito.

È discutibile se l'ottimismo debba essere applicato a “Terra Power”, considerando le sfide uniche che deve affrontare.

 Ma alcuni investitori rispettabili scommettono che dovrebbe - nel più grande round di finanziamento privato mai realizzato per la tecnologia avanzata della fissione nucleare.

 

 

TRUMP e L’AMERICA DIMENTICATA.

Leparoleelecose.it -  Alessandro Brizzi – Mauro Piras – (20- 1- 2020) – ci dicono:

 

Nelle analisi sulla vittoria di Donald Trump si possono individuare due diversi approcci.

 Il primo, per così dire «culturalista», si concentra sugli aspetti discorsivi della sua campagna elettorale, individuandone con legittima preoccupazione il sessismo, la xenofobia e il razzismo.

 Il secondo, più attento ai fattori socioeconomici, considera l’evoluzione demografica degli Stati Uniti, la distribuzione territoriale e generazionale del voto e, soprattutto, gli indicatori sul tasso occupazionale, il livello di istruzione e l’andamento delle disuguaglianze.

Le riflessioni post-voto si devono perciò muovere da un piano all’altro, per ovvie esigenze di sintesi, saldando società e politica, bisogni e risposte.

 Tuttavia, molto spesso si incorre nel rischio di attribuire, in maniera deterministica, una coscienza politica fissa e «naturale» a interi gruppi sociali.

 Il risultato è che all’elettore medio di Trump, «maschio bianco impoverito» e sprovvisto di un titolo del college, vengono arbitrariamente attribuiti connotati, pensieri e addirittura colpe morali.

Tuttavia, per analizzare la vittoria dei repubblicani conviene partire, più che dalla scelta estrema di un fantomatico tipo antropologico, dalla sconfitta dei democratici – e non solo di Hillary Clinton, ma dei vertici del partito.

La loro strategia elettorale si è infatti delineata chiaramente negli scorsi decenni, ed è apparentemente lungimirante: puntare sulla demografia.

La macchina del partito, a livello nazionale e locale, doveva ricercare un’alleanza tra gruppi dal crescente peso all’interno della società statunitense, contrassegnati da una precisa identità etnica (i neri e gli ispanici), di genere (le donne) o da uno statuto di minoranza (la comunità Lgbt).

La rappresentazione delle istanze di questi gruppi trovava una risposta nell’ “identity politics”, attenta alla conciliazione delle diverse pressioni lobbistiche (nel senso originario del termine) in un programma di espansione dei diritti civili e di tutela delle minoranze.

Si trattava, beninteso, di una strategia elettorale, alla quale affiancare una strategia politica malleabile ma al tempo stesso imperniata, soprattutto a partire dagli anni novanta, sulla fiducia nella globalizzazione.

La candidatura di Hillary Clinton si inseriva in questo processo senza apparenti discontinuità.

 È vero che il “Partito democratico Usa “ha diverse anime, non sempre in accordo tra loro: si va da quella “liberal” alle” progressive” e infine alle “moderate”.

Le primarie del 2008, per esempio, opponevano il progressista Obama alla moderata Clinton.

Tuttavia, le credenziali che l’ex first lady offriva ai democratici erano più che solide:

un lungo percorso di promozione dei diritti delle donne e una solida esperienza nell’amministrazione.

A queste qualità però ne va aggiunta un’altra, meno spendibile sul piano mediatico ma certamente più convincente per i finanziatori del partito:

la vicinanza a Wall Street, alle corporations e alle élite urbane.

 In incontri a porte chiuse organizzati da “Goldman Sachs”, la candidata democratica esaltava la libera circolazione dei capitali, scusandosi per le accuse che aveva dovuto rivolgere, «per ragioni tattiche», al mondo finanziario.

All’esterno, intanto, si cuciva l’abito della perfetta democratica, grazie ai consigli degli attentissimi spin doctors:

erede di Obama e amica della popolazione nera, oppositrice del movimento dei “gun rights”, “madrina della comunità Lgbt” e paladina dell’”Obamacare”.

Si trattava dei temi migliori e più nobili da proporre nell’ambito di una campagna elettorale classica.

Il punto, però, è che il 2016 è stato un anno tutto meno che classico.

 Sarà invece ricordato come l’anno in cui si sono affermati i movimenti, generalmente etichettati come «populisti», cresciuti nella contestazione dell’establishment che ha gestito la crisi economica.

 La “Brexit” di giugno ha anticipato, pur con tutte le differenze del caso, alcuni degli eventi che si sono verificati nelle elezioni americane:

: proposta di un aut aut elettorale secco;

 divisione tra un blocco dominato dal centro liberista e dalla sinistra liberal e un altro egemonizzato dalla destra xenofoba e protezionista;

 schieramento nel primo di capi di Stato e banche d’affari (nonché di stelle del cinema e dello spettacolo!);

vittoria del secondo, anche (e non solo) grazie ai voti provenienti dalle vecchie aree industriali.

Le aree industriali abbandonate dovrebbero essere l’angolo visuale privilegiato per l’analisi della vittoria di Trump come della Brexit.

 Questo non perché esse siano state irrimediabilmente conquistate ai populismi di destra:

ben lungi dall’esprimersi compattamente, parte della vecchia classe operaia ha deciso di andare a votare e di dare una spinta a uno dei due fronti.

 Infatti, per il funzionamento stesso del voto referendario o del collegio elettorale statunitense, bastavano pochi voti di differenza:

voti che sono giunti dalle Midlands inglesi e dal Midwest americano.

Se analizzato sotto il profilo geo-economico, il risultato nel Midwest e in Pennsylvania è estremamente significativo.

 Bisogna evitare di attribuire a Trump i consensi della “working class” e della “middle class impoverita” in maniera indifferenziata, ma solo perché gli indicatori degli “exit poll” non consentono questa operazione.

È difficile infatti individuare questi gruppi nelle statistiche ordinate per reddito:

se si cerca nella fascia più bassa, per esempio, vi si trova la maggior parte della popolazione nera e dunque un ampio consenso per Clinton.

Eppure, considerando la distribuzione territoriale del voto e confrontandola con la diffusione dell’industria manifatturiera, in particolare tra Iowa, Wisconsin e Michigan, si vede Trump prevalere ovunque, eccetto che nelle grandi città.

Le grandi città sono attraversate da contraddizioni lancinanti ben più dell’America rurale, e sono maggiormente coinvolte da episodi di criminalità – occasionalmente da proteste e “riots”.

 Eppure in queste storicamente prevalgono i democratici.

 In questi luoghi dell’«economia della cultura e della conoscenza», essi godono dell’appoggio tanto delle élite urbane e della creative class, quanto delle minoranze più povere e meno tutelate.

Subito al di fuori di queste, c’è un’America periferica che vive quotidianamente nella «grande paura», che si sente insieme minacciata da crogiuoli multiculturali ed esclusa dai centri del potere economico e politico.

Di quest’America periferica, finora, facevano parte soprattutto le aree rurali, che infatti hanno sempre votato repubblicano;

ora si aggiungono anche le zone di industrializzazione diffusa della “Rust Belt”.

Quest’America non si comporterebbe tutta da «campagna francese», se il suo tessuto produttivo non fosse stato distrutto dai trattati di libero scambio e dalla crisi economica.

O almeno se avesse ricevuto una risposta politica alternativa: a cose fatte, molti si chiedono se “Bernie Sanders” avrebbe potuto fare meglio della “Clinton”.

Forse, al di là delle ipotesi controfattuali, conviene assumere un dato:

l’opzione populistica della sinistra americana è stata deliberatamente sabotata dall’establishment democratico.

Grazie alle rivelazioni di “Wikileaks” sappiamo che lo staff elettorale di “Hillary Clinton”, i vertici del “Democratic National Committee” e un insieme di giornalisti di importanti network (tra cui l’NBC) hanno lavorato in maniera attiva per mettere fuori gioco il candidato socialdemocratico.

 Ma non serve immaginare particolari complotti, dato che la maggior parte del processo si è svolta alla luce del sole:

 tutti i grandi democratici, dagli intellettuali liberal come Paul Krugman ai giornalisti del Washington Post, hanno lodato l’«incrementalism» della Clinton, opposto al velleitarismo rivoluzionario dei sostenitori di Sanders;

hanno riempito intere pagine di considerazioni sulla vacuità della sua proposta economica;

l’hanno accusato di essere sessista e razzista.

Chi ama richiamare la «post-factual era» a proposito di Trump, dovrebbe rileggere i numerosi articoli – assolutamente liberali – in cui Sanders, militante della prima ora del movimento per i diritti civili, veniva di fatto paragonato a Donald Trump.

 E la battaglia è stata ingaggiata dallo stesso fronte che poi si è scagliato su Trump, non dalla “repubblicana Fox”.

A destra invece il «dirottamento», ovvero l’ascesa del candidato anti-establishment, è riuscito.

Forse era prevedibile, per due ordini di ragioni.

 La prima è che l’establishment, dal 2008 al 2016, si è identificato principalmente con il Partito democratico.

 È vero che i repubblicani detenevano l’amministrazione di numerosi stati e la maggioranza nelle camere, ma resta il fatto che il vertice della piramide di Washington era democratico.

 La seconda è che, anche grazie all’apporto del “Tea Party” negli ultimi anni, la destra repubblicana ha costruito una sua versione dell’ “identity politics”, in negativo rispetto a quella democratica.

 Di qui la creazione culturale dell’americano «medio», che non si riconosce nello strepito dei movimenti per i diritti civili e sociali, che a «black lives matter» risponde «all lives matter», che non vede di buon occhio il ribaltamento dei ruoli di genere.

Foraggiare questi modelli culturali, sfruttare e organizzare politicamente le derive xenofobe e sessiste, sdoganare del tutto il richiamo alle armi non sono idee originali di Donald Trump, bensì fanno parte di una strategia che il Partito repubblicano e i suoi organi, come “Fox News”, perseguono consapevolmente da anni.

Una simile strategia non era lungimirante, a differenza di quella democratica, prima che Trump comprendesse come declinarla.

 Innanzitutto si è fatto campione del nazionalismo, l’opzione politica per eccellenza dei leader della nuova destra, particolarmente efficace per opporsi ai centri del potere economico, lontani e invisibili.

Ma la sfida non è rivolta all’Unione Europea, al Fondo monetario internazionale o a Wall Street, alla galassia policentrica degli interessi economici dominanti.

Si guarda invece ai nuovi avversari – come la Cina, l’oggetto di amore e odio del trumpismo – e all’impetuosa crescita del loro potere economico e geopolitico.

 E di conseguenza il nazionalismo di Trump è produttivista e neo mercantilista: caratteri, questi, che gli hanno consentito di intercettare chi vive in zone che hanno visto sparire la propria vocazione produttiva e, insieme ad essa, ogni segno tangibile del buon funzionamento e della potenza economica degli Stati Uniti d’America.

 Il paese promesso da Trump non si preoccupa dunque del problema posto dall’esaurimento delle risorse energetiche o dal riscaldamento globale: per produrre quanto la Cina, dovrà consumare quanto la Cina.

Abbattendo il muro del «politicamente corretto», ovvero tutte le regole basilari della politica come professione, Trump si è messo contro tutto e tutti.

Ha così materializzato in un sol colpo tutte le chimere evocate dalla destra nel corso degli ultimi decenni:

dai movimenti dei neri ai professori liberal, dai vecchi politici di Washington ai giornalisti «amici dei Clinton».

Contro le inevitabili denunce della stampa e degli avversari, ha deciso di affidare la maggior parte del suo storytelling alle piattaforme social, dove il criterio di una verità è il suo potere effettivo – il numero delle condivisioni – più che la varietà delle fonti.

In questo modo, Trump è riuscito a creare una rappresentazione efficace che unisse le energie dei nazisti di professione, i soldi e il sostegno dei fautori del protezionismo a bassa pressione fiscale, dei nemici di “Obamacare” e degli strenui difensori del secondo emendamento (ovvero la National Rifle Association) e i voti di un 25 per cento di «forgotten Americans» – come li ha chiamati nel suo primo discorso.

 Ora è da aspettarsi che, per soddisfare le richieste di questa alleanza, proceda in primo luogo a ingraziarsi chi ne è stato il primo artefice: l’establishment repubblicano.

Se così sarà, la destra statunitense potrà in parte riassorbire l’insorgenza populistica, usandola per cementare i cambiamenti della mappa elettorale. D’altronde qualcosa di simile è avvenuto nel Regno Unito, dove i conservatori hanno raccolto le spoglie dello “Ukip” e il mandato del referendum.

Questo però non significa che bisogna attendersi una stabilizzazione della situazione.

 Dopotutto, la carica di presidente degli Stati Uniti riserva al singolo uomo una certa capacità di intervento nella storia – anche quando quest’uomo è Donald Trump.

 

 

 

 

EPSTEIN E LA DEGRADANTE ELITE GLOBALISTA.

Labottegadelbarbiere.org – (31 Luglio 2019) - Redazione -  Antonello Boassa – ci dice:

 

Come può essere possibile che un illustre personaggio come “Mark Lowcock”, “Segretario generale degli affari umanitari” dell’ONU, possa affidarsi per stendere la sua relazione sulla situazione attuale del conflitto in Siria sulle informative provenienti da “ONG squalificate” in provata combutta con il “jihadismo terrorista”, come appunto sono gli “White Helmets”?

E come può essere possibile che “Michele Bachelet”, ex presidente del Cile e attuale “Alta Commissaria dell’ONU per i diritti umani “nella sua relazione  sulla crisi sociale ed economica del Venezuela abbia ignorato il feroce embargo imposto al Paese da Washington e da Bruxelles, l’oro congelato dalle banche europee, i continui tentativi di sovversione violenta delle istituzioni da parte delle opposizioni armate, le “guerimbas” gestite da mercenari e le molte vittime di cui si sono macchiate, i tentativi di assassinio di “Chavez” e di “Maduro”, l’autoproclamazione terrorista di “Guaido” come presidente della Repubblica?

Come è possibile che dieci edifici di un villaggio palestinese siano a rischio di distruzione, per i soliti motivi di sicurezza addotti da Israele, perché troppo vicini a un muro che non è stato certo ideato e costruito dai palestinesi…

e come è possibile che l’ONU, così “vigile” sui diritti umani non sia capace non dico di effettuare un’indagine e di relazionare ma neanche di porre all’ordine del giorno l’esecrabile impunità sionista, dato che si tratta degli “intoccabili” che tutto possono?

E ancora come può essere possibile che “Il Corriere della Sera” sugli arsenali colmi di armi sofisticate “benedette da croci uncinate” in Piemonte, in Lombardia, in Emilia non veda l’ovvio nesso fra” i nazisti nostrani “e quelli “ucraini” allevati e addestrati dalla “Nato” che recluta terroristi perché l’Ucraina sia sotto il controllo di USA/UE/Israele e sia testa d’ariete contro l’Orso russo, guerra che l’irresponsabilità delle oligarchie globaliste rende sempre più probabile.

L’Ucraina:

dove è stato creato un governo fantoccio, di affiliazione nazista, prossima ad entrare nella Nato ufficialmente;

 l’Ucraina dove chi sventola o detiene una bandiera russa o un semplice simbolo come quello di “S.Giorgio” può essere arrestato e trattenuto in prigione per anni?

Come può essere possibile che nonostante i jihadisti nella provincia di “Idlib”, con il supporto di “Tharir Al Sham”, bombardino di continuo i villaggi situati sulla linea del fronte (su cui l’ONU sembra non avere nulla da ridire), le sanzioni dell’Occidente colpiscano lo Stato siriano, accusato incredibilmente di distruggere ospedali, scuole, panifici, quando invece le forze siriane e russe sono impegnate a colpire le linee di rifornimento prevenienti dalla Turchia, i depositi di armamenti e di fonti energetiche, le aree di comando:

 sanzioni che sono destinate a perpetuarsi e a peggiorare con il fantastico duo al timone di comando dell’oligarchia dell’Unione cioè Ursula von der Leyen” e “Christine Lagarde” senza trascurare la malandata ma sempre “zarina” “Angela Merkel”?

E come può essere possibile che il “miliardario pedofilo” “Jeffrey Epstein” – amico intimo di “Guislane Maxwell”, figlia di “Robert Maxwell”, conclamata spia doc del Mossad – sia riuscito a uscire di carcere dopo qualche mese nel 2008 sebbene fosse stato condannato per reati con trenta minorenni?

 A meno che non si ipotizzi una qualche forma di protezione dai servizi segreti statunitensi e israeliani, come ci viene suggerito dall’ex Procuratore di Miami Alexander Acosta:

 «Mi era stato detto che Epstein apparteneva all’intelligence USA  e che avrei dovuto lasciarlo in pace»?

Ma si sa…

la pedofilia può essere considerata una pratica orrenda, a meno che non serva alla tutela dello Stato.

Perché il buon “Epstein”, trasportando i gaudenti con il suo aereo personale (un Boeing) nella sue isole offshore garantiva a ministri, banchieri, politici, regnanti…droga e sesso con minori che neanche Caligola ai suoi tempi.

Nella sua agenda appaiono nomi come “Bill Clinton”, il “principe Andrea”, “Kissinger”, “Rothschild”, cardinali e vescovi.

Il record di presenze: Bill Clinton con 27 voli.

 Naturalmente le riprese cinematografiche dei rapporti sessuali erano affidate a seri professionisti, in modo che “Mossad” e “Cia” potessero disporre di filmati eccellenti in modo da incastrare i gaudenti per corromperli e ricattarli al fine di favorire pressioni per raggiungere vari obiettivi, come ad esempio un finanziamento ad Al-Qaeda, una guerra contro il Libano o l’Iran, lo sdoganamento delle “Fondazioni sioniste attive” nella propaganda “antisemita” …

Ora Jeffrey è in carcere.

Vuole spifferare tutto per avere una diminuzione di pena.

 Riuscirà a sopravvivere?

Ma perché i media nostrani ne parlano poco e superficialmente?

Forse perché quando la rogna è troppo fetida e riguarda i vip della politica, della finanza, della cultura, della religione, è meglio darsi una calmata, se si vuole fare carriera.

Non parlatemi di mele marce, tutta l’élite globale è marcia:

distruzione dell’ambiente, povertà per miliardi di persone, guerre e genocidio, media e social asserviti, ceti intellettuali al servizio della menzogna e del plagio sono l’inevitabile esito dell’avidità di denaro, di dominio delle classi dominanti attuali oramai al livello del sub-umano.

 

 

 

Di fronte al nazionalismo della Grande Russia,reinventiamo l’internazionalismo.

Machina-derivaapprodi.com - Pierre Dardot e Christian Laval – (25 mag. 2022) – ci dicono:

 

Pubblichiamo le osservazioni di Pierre Dardot e Christian Laval sull'attuale Guerra in Ucraina.

L’impero zarista e la questione ucraina.

Dobbiamo a Hegel la famosa frase – tratta dal commento del “§ 324 dei Principi della filosofia del diritto” – che alcuni sono tentati in questi giorni di rapportare al nostro presente:

«Le guerre hanno luogo quando sono necessarie, poi i raccolti crescono di nuovo e le chiacchiere tacciono davanti alla serietà della storia».

In questo passo, il filosofo attacca l’atteggiamento incoerente di coloro che avevano previsto ciò che sarebbe accaduto in discorsi edificanti e che, una volta messi di fronte all’evento, iniziano a maledire gli invasori che appaiono «sotto forma di ussari con le sciabole sguainate» perché minacciano la sicurezza delle loro proprietà.

Egli vede in questo un’incapacità di cogliere la necessità storica che lavora sotto la contingenza dell’evento.

 In effetti, lungi dall’opporsi a questa necessità, l’evento la realizzerebbe in una forma inaspettata e scomoda per coloro che hanno fatto tali previsioni.

Possiamo decifrare la situazione inedita creata dall’aggressione della Russia all’Ucraina alla luce di questa citazione?

Per quanto possa sembrare allettante, il nesso è altamente incerto.

In che modo la guerra di Putin del 24 febbraio manifesterebbe una qualche necessità storica?

E in che modo Putin potrebbe essere considerato l’agente inconsapevole di questa necessità?

 Gli «ussari con le sciabole» di Hegel, gli squadroni di cavalleria degli eserciti rivoluzionari creati nel 1792, trovano il loro equivalente moderno nei soldati russi che ora assediano le principali città dell’Ucraina?

Nella mente di Hegel, la «necessità storica» manifestata dalla carica degli ussari è quella della Rivoluzione francese che si difende dagli eserciti controrivoluzionari coalizzati dell’Europa incoronata.

È questa Rivoluzione che egli celebra come «una magnifica alba» perché sostiene che le istituzioni esistenti devono essere ricostruite a partire dal «principio del diritto».

Che cosa ha a che fare tutto questo con l’aggressione deliberata di un paese indipendente in spregio a qualsiasi legge e guidata dal desiderio di ripristinare una grandezza imperiale perduta?

Inoltre, possiamo aspettarci che «i raccolti crescano di nuovo» in una regione che è conosciuta come granaio di frumento grazie alla sua «terra nera», la cui fertilità era già stata riconosciuta dallo storico greco Erodoto?

 Non dovremmo piuttosto temere che le devastazioni subite da questa terra abbiano effetti duraturi, minacciando di carestia intere regioni del mondo, prima fra tutte quelle africana?

Infine, possiamo davvero dire che le chiacchiere tacciono di fronte alla serietà della storia?

Non stiamo invece assistendo alla loro proliferazione incontrollata, soprattutto da parte di coloro che, in nome del «non allineamento», coprono la voce delle vittime con sproloqui indecenti e cercano di far dimenticare il loro malsano fascino per lo sfrenato scatenamento del potere statale?

 

Lo zarismo e la «questione ucraina».

Lungi dal procedere da qualche necessità storica, la decisione di Putin è in realtà dettata dall’ossessione di ristabilire la continuità di una storia molto antica, interrotta da rotture vissute come traumi da un uomo che ha trascorso buona parte della sua carriera come agente del Kgb a Dresda e ha vissuto il crollo dell’Urss nel 1991 come un’umiliazione che richiedeva una riparazione.

Il 12 luglio 2021 ha delineato la sua concezione della storia:

alla «Grande nazione russa» è stato assegnato un ruolo di primo piano, mentre bielorussi e ucraini sono apparsi come «piccoli russi».

L’uso stesso di questi termini rivela una continuità, ma quale?

L’Ucraina, il cui nome significa «marca» o «regione di confine» in russo e polacco, ha fatto parte dell’Impero russo tra il XVIII e il XX secolo.

 I russi sono stati a lungo inclini a ridurre l’Ucraina a «Russia meridionale» o «Piccola Russia», «una mera provincia senza identità nazionale», gli ucraini a una «tribù», mai a un «popolo» o a uno «Stato», e l’ucraino a un «dialetto» o addirittura a un «patois» privo di esistenza indipendente.

Per tutto il XIX secolo, gli zar percepirono le aspirazioni all’autonomia della regione come una minaccia alla coesione dell’Impero e cercarono con ogni mezzo di proibire l’uso della lingua ucraina.

La presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre 1917 non cambiò sostanzialmente niente all’atteggiamento di condiscendenza dei russi nei confronti degli ucraini, soprattutto perché lo stato delle relazioni tra il nuovo regime e i contadini ucraini peggiorò rapidamente.

Nel 1919 scoppiarono rivolte contadine, la più famosa delle quali fu la rivolta di “Makhno” nell’Ucraina sud-orientale (Zaporijia), che combatté contro le armate bianche di “Denikin” e i nazionalisti ucraini prima di rivoltarsi contro il regime bolscevico.

All’inizio degli anni Venti, la pratica della requisizione forzata sistematizzata dal regime del «comunismo di guerra» portò infine a una carestia che colpì duramente l’Ucraina meridionale, tra altre regioni (del paese).

Nel 1921, con la “Nuova Politica Economica” (Nep), e poi nel 1923, con la politica di «indigenizzazione» (chiamata «ucrainizzazione» in Ucraina), il regime fece una svolta che fu difficile da accettare per i bolscevichi di lingua russa in Ucraina.

Come scrive la storica “Anne Applebaum”:

«Ancora una volta, nelle loro prospettive: c’era lo sciovinismo russo: per tutta la loro vita, l’Ucraina era stata una colonia russa ed era difficile per loro immaginare che fosse altrimenti.

 Per molti l’ucraino era una «lingua da cortile».

 Come lamentava il comunista ucraino “Volodymyr Zatonskyi”, era una vecchia abitudine dei compagni considerare l’Ucraina come la Piccola Russia, una parte dell’Impero russo – un’abitudine incisa nella memoria lungo i millenni di esistenza dell’imperialismo russo».

Di questo si rese conto troppo tardi Lenin che, nel suo famoso” Testamento del 1922,” osservava amaramente, ma non senza contraddizioni con la sua stessa prassi, che la centralizzazione statale «presa in prestito dallo zarismo» si stava ricostituendo, appena «leggermente spalmata di vernice sovietica» e che la «marmaglia sciovinista della Grande Russia» era tornata in auge sotto le vesti dell’”unione delle repubbliche”.

I «compagni» di “Zatonskyi” e “Lenin” conoscevano molto male i loro «classici».

 È forse utile ricordare oggi, quando il fantasma della Russia imperiale torna a perseguitare l’Europa, il modo in cui” Marx ed Engels “analizzarono la politica estera della Russia zarista.

 Marx ed Engels individuarono nella politica estera della Russia zarista un desiderio che mirava, pur non avendone i mezzi a causa del suo arcaismo feudale, di “dominio universale”.

 Questa Russia era arrivata a costituirsi come il «centro della reazione politica», il «principale nemico dei popoli europei», la «spina dorsale dell’alleanza dei despoti europei», secondo le forti espressioni dei due autori.

Lungi dal pacifismo, la domanda strategica che si posero fu come allentare la morsa reazionaria su tutti i paesi europei, specialmente quelli dell’Europa centrale, stretti tra l’Inghilterra capitalista e l’espansionismo russo.

Non c’era nulla di tortuoso o complesso nella loro risposta.

Già nel 1865, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori aveva scritto sulla sua bandiera:

«Resistenza all’invasione russa in Europa – Restaurazione della Polonia».

Per “Marx ed Engels”, era l’intero proletariato europeo a dover sposare la causa della Polonia, la cui nuova insurrezione era stata appena schiacciata in modo atroce nel 1863.

Rovesciare lo zarismo e annientare questo incubo che incombe su tutta l’Europa è, ai nostri occhi, la prima condizione per l’emancipazione delle nazioni dell’Europa centrale e orientale.

Tali erano per Engels nel 1888 i «compiti del partito operaio nell’Europa orientale».

 Ci si poteva aspettare solo risultati positivi per la libertà:

 «La Polonia sarà restaurata; la Piccola Russia potrà scegliere liberamente i suoi legami politici;

 i rumeni, i magiari e gli slavi del Sud, liberi da interferenze straniere, potranno risolvere i loro affari e i problemi di confine tra di loro».

 E sarà persino, prevede “Engels”, un mezzo per liberare gli stessi russi dall’incessante spreco di energie consumate nelle conquiste territoriali: «finalmente la nobile nazione dei Grandi Russi non andrà più alla caccia insensata di conquiste che giovano solo allo zarismo, ma compirà la sua autentica missione civilizzatrice in Asia e, in collegamento con l’Occidente, svilupperà le sue impressionanti capacità intellettuali, invece di consegnare i migliori dei suoi figli ai lavori forzati e al patibolo».

La sovranità dello Stato portata al culmine.

L’attuale guerra porta alla luce le radici profonde della logica della sovranità statale.

In particolare, rende completamente obsoleta la riduzione della sovranità politica a una «semplice forma» al servizio dell’economia:

sarebbe lo sviluppo del capitale che, attraverso l’espansione del mercato, sosterrebbe la forma dell’autorità sovrana, una forma che da sola è impotente.

Questa riaffermazione iper-marxista del primato dell’infrastruttura sulla sovrastruttura è sostenuta dall’immagine di un «mondo liscio» realizzato attraverso la cancellazione della società civile e dei confini nazionali.

Se tale interpretazione poteva essere illusoria nei primi anni Duemila, ora si sta dimostrando del tutto incapace di rendere conto degli eventi attuali.

In verità, tutti i grandi eventi geopolitici recenti, tutti gli scontri, tutti i giochi di rivalità mostrano fino a che punto la sovranità politica non possa essere afferrata all’interno delle sole coordinate della razionalità capitalista.

 L’invasione dell’Ucraina da parte degli eserciti russi ne è oggi la prova più drammatica.

La condotta di Putin appare in questo senso come il culmine fanatico e delirante della logica della sovranità statale.

Il nazionalismo della Grande Russia si scatena senza freni, in particolare attraverso l’invocazione della figura di Stalin, magnificato come leader della «guerra patriottica» contro il nazismo, che permette di legittimare la guerra di aggressione in nome della lotta per la «denazificazione» dell’Ucraina.

Le radici della sovranità statale risalgono alla prima storia dell’impero zarista e conferiscono alla sovranità statale un significato spesso molto più pesante, per la sua natura mistica, rispetto alla logica degli interessi immediati delle oligarchie economiche e finanziarie.

La minaccia di default dovuta all’incapacità di Mosca di rispettare la scadenza per il rimborso del debito pubblico (117 milioni di dollari) non è sufficiente a piegare la Russia.

È noto che la Russia ha accumulato enormi riserve di valuta estera e di oro per prepararsi alla guerra e alle sanzioni.

Ma se ci limitassimo a considerare solo questo aspetto, perderemmo di vista il punto principale.

Putin è arrivato a chiedere che tutti i debiti esteri siano pagati in rubli, in una moneta che a oggi ha perso quasi il 30% del suo valore, il che la dice lunga sull’inadeguatezza della sola minaccia finanziaria di fronte all’affermazione della sovranità dello Stato russo.

Sarebbe altrettanto fuorviante fare dell’espansione economica il motore dell’imperialismo russo, secondo uno schema convenzionale che non coglie la questione essenziale: l’ossessione per la collocazione storica della «Grande Russia».

Il padrone del Cremlino, infuriato per le battute d’arresto del suo esercito e per l’inaspettata resistenza degli ucraini, è impegnato in una logica di fuga in avanti e di corsa a perdifiato che è difficile capire come potrebbe uscirne.

“Il paragrafo 324 della Filosofia del diritto di Hegel,” citato all’inizio di questo articolo, si svolge in un commento intitolato Sovranità nei confronti del mondo esterno:

 tratta quindi del rapporto che ogni Stato ha con tutti gli altri.

 Questo aspetto della sovranità presuppone la «sovranità nel suo aspetto interno» o «sovranità interna», discussa nel §278 dello stesso libro.

Il filosofo tedesco afferma giustamente l’inseparabilità di questi due aspetti. Sovranità esterna e sovranità interna non sono due forme di sovranità, ma due facce della stessa realtà, che è lo Stato.

Ma ne approfitta per sostenere che esiste una proporzionalità diretta tra questi due aspetti:

meno i popoli sono in grado di sostenere la sovranità interna, meno sono in grado di lottare per la propria indipendenza esterna e più facilmente soccombono a una potenza esterna, e viceversa.

 Il filosofo valorizza quindi il «momento etico» della guerra come condizione per la conservazione della libertà.

 

Ciò che è importante qui, al di là di questa valorizzazione che si deve ovviamente rifiutare, è il riconoscimento dell’indissociabilità della sovranità esterna e interna.

Ciò è facilmente verificabile nel caso della Russia di Putin:

la brutale affermazione della sovranità dello Stato all’esterno va di pari passo con un rafforzamento sempre più autoritario della sovranità interna esercitata dallo Stato sui suoi cittadini, escludendo persino l’elementare diritto di chiamare guerra quella che è una guerra, e una delle peggiori nel cuore dell’Europa dal 1945.

La posta in gioco è piuttosto semplice, anche se molti cercano di oscurarla.

Da un lato, un’aggressione di inaudita brutalità e ferocia, che traspone in Ucraina i metodi di terrore contro le popolazioni civili sperimentati dall’esercito russo durante le due guerre in Cecenia e in Siria, con la vergognosa compiacenza dell’Occidente.

 Dall’altra parte, un popolo che resiste a un’invasione, non solo un esercito di professionisti, ma cittadini comuni che prendono le armi per difendere il diritto all’indipendenza del loro Paese.

È una questione di principio.

La scelta non è discutibile.

Il fallimento dell’«antimperialismo a senso unico».

Contro il campismo, questo antimperialismo a senso unico che attraversa alcune correnti della sinistra, dobbiamo finalmente prendere in considerazione l’imperialismo russo.

Studiarlo da vicino non significa invertire la stupidità campista;

 significa affermare che qualsiasi analisi che non lo prenda sul serio si squalifica da sola.

Il putinismo è un pericolo mortale per i popoli.

Da qui l’urgenza di combatterlo senza nessuna debolezza.

Molti a sinistra hanno ancora difficoltà a contare fino a due.

Avere due nemici e non uno solo, combattere su due fronti e non uno solo, non è ovviamente comodo.

 È molto meno difficile per la mente poter contare sul buon, l’unico, il solo Nemico. Il semplicismo politico, nato da vecchie abitudini, ignoranza, amnesia e molta pigrizia, corrode una parte della sinistra radicale fino all’indegno.

 Fortunatamente, non tutta.

“Balibar” ci ha appena ricordato che di fronte all’invasione russa dell’Ucraina «il pacifismo non è un’opzione» e che «l’imperativo immediato è aiutare gli ucraini a resistere».

Non ripetiamo il «non intervento».

Ma allarghiamo il discorso:

 non è solo il pacifismo a essere del tutto rifiutabile quando un Paese viene invaso da un altro in barba a tutte le regole del diritto internazionale.

É innanzitutto il «campismo» che non è assolutamente un’opzione.

Che cos’è il campismo?

È la stupidità politica dagli effetti più sinistri che consiste nel pensare che ci sia un solo nemico.

Sarà definito come un antimperialismo unilaterale.

 Dall’unicità del Nemico deriva l’inarrestabile conseguenza che coloro che si oppongono al Nemico hanno diritto, se non a benedizioni, almeno a scuse, in base al principio che i nemici del Nemico sono, se non amici, almeno «alleati oggettivi» in una lotta giusta.

Quasi tutto il XX secolo è stato segnato da questo tragico gioco di specchi.

I sostenitori del sistema capitalista hanno chiuso un occhio sulle dittature più criminali, le hanno incoraggiate e sostenute in nome della difesa della civiltà occidentale contro il comunismo, mentre una parte della sinistra non voleva vedere la terribile realtà del «comunismo» sovietico o cinese, né era troppo attenta alla natura dei regimi «post-coloniali».

 Il “campismo di sinistra” postula che l’unico nemico del popolo sia «il capitalismo», «l’imperialismo americano», «l’Occidente», «il neoliberismo», o anche «l’Unione Europea», a seconda dei casi e delle varie denominazioni in uso.

Per fortuna, nel secolo scorso, ci sono sempre stati movimenti e intellettuali che hanno saputo resistere alla stupidità politica e salvare l’onore della sinistra denunciando tutti i nemici della democrazia e della libertà, senza alcuna «relativizzazione delle responsabilità».

 Nel movimento rivoluzionario, le correnti trotzkiste e libertarie, e molti altri movimenti come «Socialisme ou Barbarie», hanno così tenuto coraggiosamente il doppio fronte anticapitalista e antistalinista.

Avremmo potuto sperare di essere definitivamente immuni da queste assurdità con il crollo del «blocco sovietico» e la crisi dell’«egemonia americana», avremmo potuto credere che nessuna oppressione, nessuna violazione dei diritti umani, nessuna trasgressione del diritto internazionale, nessun colpo di forza, sia da Ovest che da Est, dal Nord o dal Sud, potesse essere giustificato una volta finita la Guerra Fredda.

Ci siamo sbagliati.

Le pigre cattive abitudini sono ovviamente continuate, anche se si vergognano un po’ in occasione della guerra d’invasione di Putin.

Il campismo della sinistra consiste nel vedere oggi in questa guerra un confronto tra una Russia umiliata, accerchiata e minacciata e un Occidente arrogante, conquistatore e aggressivo:

l’Ucraina sarebbe in fondo solo un campo di battaglia tra il Nemico imperialista che vuole espandersi all’infinito e la Russia, un Paese aggredito che è stato ingannato da false promesse nel 1990.

E anche se si riconosce che quest’ultimo ha qualche inclinazione imperiale, non sempre, si tratterebbe solo di un imperialismo di secondo piano, indebolito, che non sarebbe all’altezza del nemico.

Se questa è davvero una guerra tra Stati Uniti e Russia, se la causa degli ucraini è così «strumentalizzata» dall’Occidente imperialista, come possiamo allora consegnare armi agli ucraini, aiutarli a combattere?

Certo, se è difficile sostenere Putin, che è un grande sostenitore di tutte le estreme destre del mondo, non dovremmo almeno rimanere «non allineati», «neutrali», o addirittura «alter-globalisti», come propongono alcuni, come Jean-Luc Mélenchon in Francia?

Diciamolo: questa posizione mostra solo un’inammissibile compiacenza nei confronti del “fascismo neostalinista di Putin” e, soprattutto, una completa ignoranza della natura totalitaria e criminale di questo potere che non ha mai smesso di distruggere l’opposizione interna.

 Si tratta di un completo fraintendimento della natura totalitaria e criminale di questo potere, che non ha mai smesso di distruggere l’opposizione interna, fino a eliminare fisicamente giornalisti e attivisti, perseguitando l’intera società ed esportando il suo odio armato contro il desiderio di democrazia di tutti i popoli in Cecenia, Siria e, più recentemente, in Bielorussia e Kazakistan.

Si dimenticano anche tutte le provocazioni e le azioni di Putin volte a ripristinare l’impero russo in nome di una mistica nazionalista dalla logica nefasta.

Il sostegno della sinistra radicale alla resistenza ucraina dovrebbe quindi essere evidente, così come il sostegno alla causa palestinese e a molte altre nel mondo.

Non solo dobbiamo chiedere il ritiro delle forze d’invasione, ma anche l’invio di armi alla resistenza ucraina e, nel frattempo, offrire ogni garanzia di protezione del territorio ucraino all’interno dei suoi confini prima dell’annessione della Crimea e della secessione orchestrata dai russi delle pseudo-repubbliche del Donbass.

Il campismo di sinistra crede facilmente che un crimine annulli un altro, che una violazione del diritto internazionale ne giustifichi un’altra, che le vittime si compensino a vicenda.

 È facile convenire che l’Occidente non ha nulla di virtuoso e che la sua ipocrisia è addirittura incommensurabile.

Gli interventi americani e occidentali dall’11 settembre 2001 («guerra al terrore») non hanno avuto il minimo imbarazzo della legalità e hanno portato a tragedie tuttora in corso, in particolare in Iraq e in Libia, per non parlare dell’ostinata difesa delle politiche israeliane di colonizzazione dei territori occupati!

Come possiamo affermare di essere a favore del diritto internazionale quando ne proteggiamo la violazione permanente, come fanno gli Stati Uniti con il loro veto nel Consiglio di Sicurezza?

La lotta contro l’imperialismo americano e occidentale è pienamente giustificata. Deve essere estesa anche a tutte le forme di dominio economico, finanziario e ideologico, e non solo agli interventi militari.

Questo era il significato dell’alter globalismo di non molto tempo fa.

Ma il dominio del capitalismo occidentale non deve farci dimenticare che esistono altre forme di dominio e oppressione, in particolare religiose, e altre ideologie estremamente pericolose, come il nazionalismo «imperiale» del governo russo.

Ammettiamolo, l’Occidente non è l’unico ostacolo alla democrazia e alla giustizia sociale e abbiamo più di un nemico.

L’internazionalista coerente lo sa, il campista lo ignora.

La negazione del diritto dei popoli alla democrazia.

Uno dei peggiori aspetti di questo atteggiamento è quello di ignorare le aspirazioni popolari degli ucraini, ma anche, per andare più indietro, i grandi movimenti democratici in Ucraina, Bielorussia, Georgia e Kazakistan.

 I popoli in questione sono ridotti a pedine che non esistono realmente in questo grande schema storico astratto il cui unico vero attore è il Nemico che vuole estendere il suo dominio sul mondo.

 Il campista di sinistra non si rende nemmeno conto che l’adesione di molti Paesi che erano rimasti a lungo sotto il controllo dell’Urss dopo il 1945 era per loro, in mancanza di meglio, una garanzia di sicurezza dopo tutte le aggressioni, le annessioni e gli smembramenti che avevano subito nella loro storia.

 Certo, la realtà è «sempre più complessa», come ripetono i «non allineati», ma è proprio da questo che dovrebbero imparare:

i popoli hanno la loro autonomia, non sono i burattini delle grandi potenze.

Il peggior errore politico del “campismo” (un solo nemico in campo) è considerare che i popoli non sono nulla, che tutto si gioca al vertice.

Il terrorismo islamico è stato quindi all’opera nella rivoluzione popolare siriana del 2011 fin dall’inizio.

 Così le «rivoluzioni colorate», le mobilitazioni popolari nello spazio post-sovietico che hanno partecipato a partire dagli anni Duemila al grande movimento di emancipazione democratica ai quattro angoli del mondo, sarebbero state solo forme mascherate dell’imperialismo americano.

 Così l’occupazione di piazza Maidan nel 2014, che fa parte del grande ciclo del movimento “Occupy the Square”, avrebbe portato il marchio di «neonazisti».

Da questo schema deriva la «relativizzazione della responsabilità».

Il teorico dell’alter globalismo e della «sinistra globale», “Bonaventura de Souza Santos,” altre volte più ispirato, che «la democrazia è solo uno schermo degli Stati Uniti» e paragona il «golpe del 2014» in Ucraina al golpe che ha rovesciato “Dilma Roussef” nel 2016 in Brasile.

 In entrambi i casi, si tratterebbe di un unico tentativo di espandere la sfera degli interessi statunitensi:

 «La politica di cambio di regime non mira a creare democrazie, ma solo governi fedeli agli interessi statunitensi».

La soggettività democratica dei popoli non potrebbe essere meglio negata, ridotta a giocattolo nelle mani dell’imperialismo statunitense.

 Si dimentica anche che le multinazionali americane ed europee non hanno mai prosperato tanto quanto nel regime mafioso e ultra-repressivo della Russia, che ha garantito loro una pace sociale assoluta.

“Bonaventura” non fa altro che ripetere la vecchia “doxa” del XX secolo, come se la Russia o la Cina rappresentassero un’alternativa «progressista» al capitalismo occidentale, da «risparmiare» perché lo controbilancerebbero.

 In realtà, questi Paesi offrono alcune delle versioni più mostruose del capitalismo, in quanto combinano il peggior tipo di dittatura politica sulla popolazione con lo sfruttamento eccessivo della ricchezza a favore di una ristrettissima classe di predatori ultraricchi.

Il campismo di sinistra o l’«antimperialismo degli idioti».

Certe proteste contro le «guerre imperiali» sono a senso unico:

 denunciano volentieri gli attacchi americani, israeliani o europei, ma dimenticano sistematicamente i bombardamenti russi o iraniani sulle popolazioni civili in Siria, che hanno causato molte più vittime civili dei primi.

È quanto ha spiegato nel 2018 “Leila Al-Shami” in un potente testo intitolato “L’antimperialismo degli idioti”, riferendosi alla coalizione “Hands off Syria” che, nei suoi proclami e nelle sue manifestazioni, non ha detto una parola sui massacri commessi da russi e iraniani venuti a schiacciare la rivolta democratica e a difendere il regime di “Bashar El Assad”:

«Cieco alla guerra sociale che si sta giocando all’interno della Siria stessa, questo tipo di visione considera il popolo siriano, se preso in considerazione, come pedine trascurabili in una partita a scacchi geopolitica».

 È questo tipo di antimperialismo a senso che gli autori della lettera aperta, tra cui molti siriani, hanno denunciato.

Dall’inizio della rivolta siriana, dieci anni fa, e soprattutto da quando la Russia è intervenuta in Siria a favore di Bashar al-Assad, abbiamo assistito a uno sviluppo tanto curioso quanto sinistro:

l’emergere di alleanze pro-Assad in nome dell’«antimperialismo» tra figure che sono generalmente caratterizzate come progressiste o «di sinistra», e la conseguente diffusione di una informazione manipolata che sistematicamente ignora gli abusi ben documentati di Assad e dei suoi alleati.

[...] Coloro che non condividono i loro punti di vista perentori sono spesso (e falsamente) etichettati come ’entusiasti del cambio di regime’ o utili idioti degli interessi politici occidentali.

 [...] Tutti i movimenti a favore della democrazia e della dignità che contrastano con gli interessi dello Stato russo o cinese sono regolarmente dipinti come il prodotto dell’interferenza occidentale:

nessuno di questi movimenti è considerato autoctono, nessuno riflette decenni di lotta nazionale indipendente contro una brutale dittatura (come in Siria);

 e nessuno rappresenta veramente le aspirazioni delle persone che chiedono il diritto di vivere in modo dignitoso piuttosto che in condizioni di oppressione e abuso.

 In realtà, ciò che unisce queste cosiddette correnti antimperialiste è il rifiuto di confrontarsi con i crimini del regime di Assad, o anche solo di riconoscere che una rivolta popolare contro Assad ha avuto luogo ed è stata brutalmente repressa.

Gli autori del testo concludono con queste parole che dovrebbero far riflettere anche i più sciocchi:

«Quelli di noi che si sono opposti direttamente al regime di Assad, spesso pagando un prezzo molto alto, lo hanno fatto non per un complotto imperialista occidentale, ma perché decenni di abusi, brutalità e corruzione erano e restano intollerabili».

Ciò che è accaduto in Siria sta accadendo in Ucraina.

È questo che preoccupa gli attivisti ucraini di sinistra, che fin dall’inizio dell’invasione hanno invitato il resto della sinistra mondiale a rompere con lo «sguardo americano-centrico».

 Autore di una forte «Lettera alla sinistra occidentale» , il ricercatore ucraino “Volodymyr Artiukh” spiega che, al di fuori del mondo post-sovietico, la sinistra non ha colto le nuove condizioni storiche segnate dalla strategia della Russia stessa, che non ha nulla a che fare con gli strumenti dell’egemonia americana e più in generale occidentale, del “soft power” e degli” investimenti economici”:

«Nonostante quel che molti di voi sostengono, la Russia non sta reagendo, adattandosi o facendo concessioni, ma ha riacquistato la sua capacità di azione ed è in grado di plasmare il mondo intorno a sé. [..]

La Russia è diventata un agente autonomo, le sue azioni sono determinate dalle sue dinamiche politiche interne e le conseguenze delle sue azioni sono adesso contrarie agli interessi occidentali.

 La Russia sta plasmando il mondo intorno a sé, imponendo le proprie regole come hanno fatto gli Stati Uniti, ma con altri mezzi.

Ha detto che dobbiamo smettere di pensare come se la Russia stesse semplicemente rispondendo all’umiliazione inflittale dopo il crollo dell’Unione Sovietica e capire che ora sono l’Occidente e l’Europa a essere in una posizione “reattiva”.

 E aggiunge: “Quindi le spiegazioni centrate sugli Stati Uniti sono superate.

Ho letto tutto ciò che è stato scritto e detto a sinistra sull’escalation del conflitto dello scorso anno tra Stati Uniti, Russia e Ucraina. La maggior parte di queste analisi era terribilmente sbagliata, peggiore della lettura mainstream. Il loro potere predittivo era nullo”.

In effetti, l’unilateralità della denuncia raggiunge il parossismo in un articolo di “Tariq Ali “sulla «New Left Review», rivista di riferimento della sinistra occidentale.

Il 16 febbraio, 8 giorni prima dell’invasione, “Tariq Ali” deride le voci di un presunto attacco massiccio della Russia all’Ucraina e accusa esclusivamente i guerrafondai statunitensi, senza nessuno sforzo di analisi del regime di Putin.

Sostiene che l’Ucraina, che sarebbe sempre e solo «Natoland», non ha bisogno di sostegno ma deve cominciare a mostrare a Putin il «rispetto» che merita, non esitando a riprendere le parole di un ammiraglio tedesco.

 La sinistra occidentale dovrebbe quindi riorganizzarsi contro la guerra americana, che è la principale minaccia, come ha fatto contro gli interventi americani in Siria:

«”Stop the War” non è un partito politico. Ha sostenitori conservatori e molti sostenitori dell’indipendenza scozzese.

Il suo obiettivo è fermare le guerre degli Stati Uniti o della Nato, qualunque sia il pretesto.

I politici e i commercianti di armi che sostengono queste guerre non lo fanno per rafforzare la democrazia, ma per servire gli interessi egemonici della più grande potenza imperiale del mondo.

“Stop the War” e molti altri continueranno a opporsi nonostante le minacce, le calunnie e ai sicofanti».

Questo articolo è una sintesi del peggiore discorso della sinistra occidentale «contro la guerra».

È solo la Nato, nient’altro che la Nato, che mira al dominio del mondo e cerca la guerra per ottenere profitti ed espandere il proprio spazio di influenza.

Di conseguenza, il comportamento di Putin è solo un controeffetto della Nato che non ha un’esistenza propria, né il suo regime.

 È questa cecità che ha suscitato la rabbia dello storico “Taras Bilous”, attivista dell’organizzazione ucraina “Social Movement” e redattore della rivista «Commons».

Quasi mai, spiega “Bilous”, la sinistra occidentale – sempre svelta nell’indicare le «esigenze di sicurezza» nucleare russa, ha ricordato le stesse esigenze dell’Ucraina, che nel 1994 ha rinunciato al suo arsenale nucleare in cambio della garanzia dell’inviolabilità dei suoi confini, principio che Putin ha infranto nel 2014.

La realtà dell’imperialismo russo.

Prendere finalmente in considerazione l’imperialismo russo e studiare da vicino i suoi metodi e le sue intenzioni specifiche non significa rovesciare la stupidità campista e farne l’unico Nemico, ma è certamente affermare che qualsiasi analisi che non lo prenda sul serio si squalifica da sola.

Per la sinistra, questa cecità è tanto più colpevole quanto questo imperialismo mira non solo a estendersi ai suoi margini, ma anche a destabilizzare i Paesi in cui la democrazia liberale vive ancora, se non altro nella forma degradata che conosciamo.

È un imperialismo militare, ma anche eminentemente politico:

 mira a estendere ovunque una concezione dittatoriale e nazionalistica del potere in cui le libertà civili e politiche non hanno ragione di esistere.

Ecco perché il modello Putin ha così tanti sostenitori tra la destra globale e l’estrema destra.

È perché esiste una stretta connessione tra il regime di terrore interno e la politica estera:

come può una dittatura che perseguita i suoi oppositori, a volte li uccide, e proibisce ogni libera espressione della società civile tollerare, soprattutto ai suoi confini immediati, l’esistenza di società politicamente più libere?

 Il sostegno di “Putin a “Lukashenko”, “Tokayev “e “Kadyrov” è perfettamente coerente:

impero all’estero e dittatura all’interno vanno di pari passo.

Ma sappiamo che le ambizioni di Putin vanno oltre:

ogni ostacolo interno o esterno al suo potere deve essere distrutto.

Lo schiacciamento della rivoluzione democratica siriana con bombe e armi chimiche è stato un monito per tutti i popoli che cercano di liberarsi dai loro tiranni, e forse prima di tutto un messaggio per lo stesso popolo russo.

 Se la prima linea della dittatura inizia in Russia, tutti i Paesi vicini e lontani sanno cosa li aspetta se nulla impedisce la sua estensione.

Che sia chiaro.

 Il nemico di Putin non è il capitalismo come sistema di sfruttamento, ma la democrazia, contro la quale intende condurre una guerra spietata.

Ciò che lo preoccupa è il potere delle masse in lotta contro la corruzione economica e politica, cioè contro il suo stesso potere.

Queste masse mobilitate, come abbiamo visto ancora una volta in Bielorussia, vedono nell’Unione Europea un modello politico più invidiabile rispetto alle dittature predatorie che subiscono.

È stata l’associazione tra l’Ucraina e l’Unione Europea a far decidere a Putin di iniziare a spaccare l’Ucraina dopo la «rivoluzione del febbraio 2014».

Certo, è comprensibile che una parte della cosiddetta sinistra «radicale» sia piuttosto imbarazzata nel vedere le rivoluzioni popolari nel mondo post-sovietico fare dell’Unione Europea una speranza e un orizzonte, poiché essa critica giustamente la natura profondamente neoliberale e capitalista di quell’Europa.

Ma se abbiamo ragione a criticare la «troppo poca democrazia» dell’Unione Europea, è in nome della richiesta di autogoverno e soprattutto non per riprendere la retorica di Putin secondo cui queste rivoluzioni sono colpi di Stato fomentati dalla Nato.

Bisogna dirlo forte e chiaro:

 meglio per la causa dell’uguaglianza, della democrazia e della libertà, l’insufficiente democrazia dell’Occidente che le barbare dittature di Bashar, Putin e Lukashenko, modelli di tutti i fascismi contemporanei.

Il putinismo ha una coerenza ideologica che lo colloca tra tutte le ideologie neo-conservatrici e tutti gli identitarismi attualmente in voga.

 Come ha scritto “Edwy Plenel”, questa ideologia assume la forma di «promozione di una Russia eterna, basata sulla sua identità cristiana e slava, come alternativa alla democrazia moderna, che è stata ridotta a un inganno occidentale».

Miscela di neonazismo, panslavismo e stalinismo, il putinismo non ha nulla, assolutamente nulla, di progressista o democratico.

Al contrario, è un pericolo mortale per il popolo russo e per tutti gli altri.

 Da qui l’urgenza di combatterlo senza nessuna esitazione.

La tremenda responsabilità dell’Unione Europea.

 

Nessuno può negare in buona fede che il denaro pagato dagli europei per il gas russo sia stato e sia tuttora utilizzato per finanziare la guerra totale e la politica del terrore di Putin.

La causa della pace e la causa del cambiamento climatico sono intimamente collegate, come hanno proclamato a gran voce decine di migliaia di manifestanti nelle strade della Francia sabato 12 marzo:

 smettere di acquistare il gas russo significa sia chiudere il rubinetto che alimenta la mafia oligarchica di Putin, sia avviare il cambiamento radicale richiesto da ogni vera alternativa ecologica.

 Lo stesso giorno, con tutta la solennità richiesta dal luogo, i leader dei 27 paesi dell’Unione Europea si sono riuniti in un vertice a Versailles per concordare un obiettivo di riduzione della dipendenza dell’Europa dal carburante russo (gas, petrolio e carbone).

Ufficialmente, l’obiettivo è quello di garantire l’approvvigionamento energetico dell’Unione Europea e di avvicinarsi a quella che viene pomposamente chiamata «sovranità energetica».

 Al termine dell’incontro, i leader hanno annunciato la fine della dipendenza europea entro cinque anni.

 Ma qual è il valore di questa dichiarazione rispetto alla continuità della politica dell’Unione Europea su questo tema?

Una continuità deplorevole.

Nel 1951, 70 anni fa, nasceva la “Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio” (Ceca), che riuniva 6 Paesi europei e fu presentata come un primo passo nella «marcia verso gli Stati Uniti d’Europa».

Solo nel 2007 l’energia è stata riconosciuta come «competenza condivisa».

Nel linguaggio cifrato dell’Unione Europea, questo non significa che fa parte di un vero e proprio pool di interessi che va al di là degli interessi degli Stati, ma che gli Stati membri rimangono sovrani sugli aspetti essenziali finché l’Unione non legifera:

il loro mix energetico, lo sfruttamento delle loro risorse e i loro approvvigionamenti, senza che si svolga alcun dibattito tra gli Stati stessi.

Così solo Germania ha deciso nel 2011 di abbandonare il nucleare, anche se questa decisione ha avuto un impatto diretto sulla quantità di energia prodotta in Europa.

Ed è stato anche la sola a decidere immediatamente di aderire al gasdotto Nord Stream 2 costruito da Gazprom.

 Nel 2000, un “primo Libro Verde della CE “ha messo in guardia sui rischi posti dal fatto che il 40% delle importazioni di gas proveniva dalla Russia.

Nel 2006, un” secondo libro verde” ha ripetuto l’avvertimento mentre la Russia tagliava il gas all’Ucraina.

Nel 2009, la Russia accusa l’Ucraina di non pagare il gas e glielo taglia nuovamente.

 Nel 2014, le sanzioni dell’Unione Europea in seguito all’annessione illegale della Crimea escludono il gas russo.

Nel 2015, Gazprom ha unito le forze con “Shell,” la tedesca “Eon” e l’austriaca” Omv” per avviare la costruzione del “Nord Stream 2”, a cui si è aggiunto poco dopo il gruppo francese “Engie”.

Oggi, nel 2022, il grado di dipendenza è esattamente lo stesso del 2000, ovvero il 40%.

Nel 2000, la Commissione europea ha proposto di obbligare gli Stati membri a costituire stock strategici di gas.

 22 anni dopo, la proposta è esattamente la stessa. Lo stesso approccio viene quindi ostinatamente ripetuto.

È inutile deplorare un «difetto strutturale», come ha fatto Delors nel 2015:

non si tratta più di un «difetto strutturale» a cui si potrebbe rimediare con un cambiamento di struttura e neppure un semplice «deficit» che si potrebbe aggiustare con uno sforzo specifico.

 Si tratta di un limite insito nel processo stesso di costruzione dell’Unione Europea, che ha sacralizzato fin dall’inizio la logica dell’interstatalità e dell’intergovernatività per meglio coniugarla con la pratica di un’intensa attività di lobbying delle grandi imprese presso le istituzioni europee.

 Da diversi anni, con notevole costanza, le grandi aziende russe approfittano sistematicamente delle possibilità aperte da tali pratiche acquistando i servizi di ex leader politici europei (tra cui Renzi, Fillon, Schröder, quest’ultimo non ha ancora rinunciato al suo coinvolgimento in aziende russe).

“ Shell” si è recentemente impegnata a smettere di acquistare petrolio e gas russo, ma non dice se questo impegno vale anche per gli ordini passati, un’omissione significativa visto che la maggior parte dei contratti di acquisto di gas dura 10-15 anni.

Lo scorso settembre, il gruppo ungherese” Mvm” ha firmato con “Gazprom” un contratto che durerà fino al 2036. I

l gruppo francese” Engie” si rifiuta di rispondere alla domanda anche se il 20% delle sue vendite globali di gas proviene dalla Russia e la tedesca Eon” afferma di acquistare sul mercato all’ingrosso europeo, dove non esiste alcuna certificazione di origine che indichi la provenienza del gas.

 Al Vertice di Versailles, nessuno ha avuto da ridire su tutti questi contratti privati per il gas e sugli impegni assunti da società private europee in Russia:

si è trattato di un «nulla di fatto, a meno che non si volesse coprire il segreto d’impresa, cosa che è ben presente alle istituzioni indaffarate a garantire la supremazia del diritto privato.

 

Tassonomia verde e interessi di potere.

Ne abbiamo avuto recentemente la prova con la «tassonomia verde», presentata agli Stati membri poco prima della mezzanotte del 31 dicembre 2021 dalla Commissione Europea e che rivela la realtà di questa presunta «sovranità europea», sempre invocata con frasi altisonanti.

Più precisamente, si tratta della cosiddetta «sovranità energetica»:

l’obiettivo è infatti quello di ottenere che l’”energia nucleare e il gas”, due energie introdotte all’ultimo momento nel progetto della Commissione, siano classificate come «energie verdi».

Due Paesi si sono adoperati attivamente per questa riclassificazione delle due energie:

la Francia, un grande produttore di energia nucleare che intende continuare a esserlo anche nei decenni a venire e che ha esercitato un’intensa attività di lobbying per questa classificazione, e la Germania, che vuole aumentare la sua produzione di gas per ridurre la sua dipendenza dalla Russia.

 La Francia, che è l’unico Paese dell’Ue a non avere turbine eoliche offshore in funzione, vede in questa situazione un’occasione d’oro per promuovere il nucleare come l’energia «più decarbonizzata e sovrana», secondo le parole di Macron.

 La posta in gioco è alta anche per la Germania, che nel 2021 contava con il 42% di energia rinnovabile e il 27% di carbone, facendo del carbone la principale fonte di energia non rinnovabile.

 

Se si considera che il nuovo governo tedesco si è posto l’obiettivo di eliminare gradualmente il carbone entro il 2030, la sfida è più chiara.

Tra gli scenari esaminati dall’Unione Europea, ce n’è uno che prevede il 100% di energia rinnovabile nel 2040.

La scelta della Commissione Europea è stata di voltarle le spalle fin dall’inizio.

 Si tratta di una pura e semplice negoziazione interstatale avallata dalla Commissione Europea, che dovrebbe essere la custode dell’«interesse generale» dell’Europa:

 la Francia cede alla Germania sul gas, in cambio la Germania cede alla Francia sul nucleare.

Sono quindi gli «interessi nazionali», nel senso più ristretto e meschino del termine, a essere racchiusi nella «tassonomia verde».

 In realtà, la «sovranità europea» in materia di energia è uno squallido affare che equivale a sacrificare l’ecologia sull’altare dei peggiori interessi di potere:

 le conseguenze a lungo termine dello stoccaggio sotterraneo delle scorie nucleari per più di un secolo sono semplicemente ignorate, e le emissioni di gas serra generate dall’estrazione di gas fossile sono trattate come trascurabili.

 

L’istituzionalizzazione del lobbismo al posto della deliberazione collettiva.

Qual è il motivo di una così intensa attività di lobbying da parte di Francia e Germania?

 Il Commissario europeo per il Mercato interno, “Thierry Breton”, ha detto l’ultima parola in un’intervista al «Journal du dimanche» del 9 gennaio:

 ha dichiarato che le centrali nucleari europee di nuova generazione richiederanno un investimento di 500 miliardi di euro entro il 2050 e che è fondamentale includere l’energia nucleare nella tassonomia «per consentire all’industria di attrarre tutti i capitali di cui avrà bisogno».

 L’obiettivo è perfettamente chiaro:

non si tratta di proibire gli investimenti in attività economiche non incluse nella tassonomia, ma di orientare meglio i flussi di capitale attirando una riduzione del costo del capitale.

 La decisione della Commissione Europea è quindi interamente ordinata all’imperativo della concorrenza tra capitali.

Evidenzia la nuova forma che assume la sovranità statale:

la sua funzione è quella di creare le condizioni più favorevoli alla circolazione transnazionale del capitale, organizzando e dirigendo i flussi di capitale a proprio vantaggio.

Per svolgere questo compito, lo Stato è più che mai chiamato a esercitare la propria sovranità.

L’Unione Europea è un esempio non di una vera e propria sovranità sovranazionale, ma di una costruzione a più livelli (Commissione, Consiglio dei capi di Stato, Consiglio dei ministri, Parlamento ecc.), dove la pratica del lobbismo è un elemento chiave.

L’attività di lobbying del governo francese subentra opportunamente a quella pro-nucleare svolta da “Edf” e “Areva” e, in un certo senso, le conferisce «legittimità» in quanto opera all’interno delle istituzioni dell’Unione Europea.

 In quest’ottica, l’Unione Europea appare per quello che è:

 il campo di gioco istituzionale di un gigantesco lobbismo multilivello che opera come un meccanismo autosufficiente e rende superflua ogni vera deliberazione collettiva. Questo è il processo decisionale che ha forza di legge nell’Ue.

Da qui nasce la logica degli accordi interstatali a geometria variabile che riconfigurano la sovranità statale in modo inedito senza abolirla.

Da questo punto di vista, la strategia adottata da Macron alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi è molto rivelatrice della sua concezione di «sovranità europea».

 In primo luogo, ha raggiunto un accordo con Orban durante la sua visita a Budapest il 13 dicembre 2021, prima ancora che “la nuova tassonomia” fosse proposta dalla Commissione Europea, ma per dare maggior peso alle pressioni esercitate dalla Francia.

L’accordo comprende la politica migratoria, la difesa europea e il riconoscimento dell’energia nucleare come «energia verde».

 In un secondo momento, il presidente francese ha cercato di dissociare il fronte antinucleare tedesco-austriaco attraverso l’accordo sulla nuova tassonomia, ufficializzato poco dopo.

La Francia si è così assicurata il sostegno della Germania su questa spinosa questione dopo quello dell’Ungheria.

La nuova posizione assunta da Orban e Macron, questi «avversari politici» diventati da un giorno all’altro «partner europei», la dice lunga sulla logica degli interessi di Stato.

La convergenza franco-ungherese sulla politica migratoria alle frontiere dell’Unione europea gioca un ruolo fondamentale in questo senso, poiché si tratta né più né meno che di «rendere più efficace il rimpatrio nei Paesi d’origine per coloro che non hanno diritto all’asilo», cioè di intensificare e accelerare le espulsioni.

Possiamo vedere fino a che punto il confronto tra «progressisti» e «nazionalisti», tra i virtuosi campioni dello «Stato di diritto» e i sostenitori della «democrazia illiberale», non sia una vera alternativa, ma una messa in scena e una drammatizzazione di disaccordi molto reali tra i poteri statali nazionali.

Le reali differenze tra Francia e Germania non hanno impedito alle due potenze di accordarsi sull’estensione dell’etichetta «energia verde».

Il 2 febbraio di quest’anno, la Commissione europea ha finalmente pubblicato il suo «atto delegato» (l’equivalente di un decreto) sulla “tassonomia verde” in cui il gas e il nucleare sono riconosciuti come «energie transitorie».

Non sorprende che l’energia nucleare sia stata finora la vincitrice nel doppio gioco politico della Francia con l’Ungheria e la Germania.

 È proprio in questa nuova forma mistificatoria, quella della cosiddetta «sovranità europea» o «potere europeo», che la sovranità statale viene ancora esercitata all’interno dell’Unione Europea.

 È con questa logica, che l’ecologismo neoliberista è ben felice di accettare, che dobbiamo rompere una volta per tutte.

 

Per un nuovo internazionalismo.

Come possiamo fermare la micidiale dinamica dei poteri sovrani che sta mettendo in discussione le fragili regole e gli equilibri della fine del XX secolo?

La domanda che si pone è quella di una radicale rifondazione dell’Europa.

Il grande compito della prossima generazione sarà quello di inventare una nuova cosmopolitica basata sulla democratizzazione radicale delle società.

L’estrema destra e anche una parte della destra hanno simpatie dichiarate per i «regimi forti», modelli di quella «autorità statale» che è il loro vero “Dna”.

 La sinistra radicale non dovrebbe logicamente avere nulla a che fare con questa retorica dei «poteri forti», né con gli argomenti anestetici che enfatizzano il «contesto» e la «responsabilità condivisa».

Deve essere chiaro sui propri fondamenti e principi a questo proposito.

Uno di questi è il diritto incondizionato all’autodeterminazione dei popoli.

Come può pretendere di fare della democrazia integrale il suo obiettivo se fallisce in questo senso?

Pertanto, nessuna scusa o giustificazione barocca dovrebbe ostacolare il sostegno alla resistenza armata ucraina, così come nessuna scusa o giustificazione contorta avrebbe dovuto lasciare la rivolta democratica siriana di fronte alla barbarie al suo crudele destino.

Ancora una volta, «il pacifismo non è un’opzione».

Ma nemmeno il rafforzamento della Nato e dell’Unione Europea.

Per i Paesi che vogliono sfuggire alla volontà imperiale del grande vicino, possono costituire solo protezioni temporanee ma pericolose, come possiamo vedere ancora oggi.

La questione strategica che si pone oggi è come evitare il confronto sempre più diretto tra potenze statali a vocazione egemonica globale, i cui risultati drammatici sono l’aumento dei bilanci militari, la crescente sofisticazione dei mezzi di forza e la moltiplicazione degli spazi e delle forme di conflitto.

 

Questo confronto globale tra poteri statali ha effetti diretti sull’aumento della coercizione imposta alle popolazioni, in particolare di natura poliziesca, in altre parole, accelera la «de-democratizzazione» già ampiamente avviata dalla dominazione neoliberista.

 

Rifiutarsi di parlare al posto degli ucraini.

Invece di esitare a inviare armi di difesa a un aggressore che conosce solo la violenza più barbara, la sinistra radicale deve cercare di influenzare i rapporti di forza nella guerra.

Come si può fare?

Innanzitutto, non parlando al posto degli altri, non negando il diritto degli ucraini, come di altri popoli che sono sotto pressione e minacciati da Putin, di difendersi con ogni mezzo che ritengono opportuno, anche se può non piacere.

L’urgenza è l’autodifesa di un popolo sotto attacco.

 In secondo luogo, mostrando solidarietà con la sinistra radicale ucraina che, come abbiamo visto, chiede di comprendere la natura del regime di Putin per poter prendere pienamente le misure della sua politica estera.

La guerra non deve essere condotta contro «i russi», ma contro un sistema che li opprime.

Ecco perché dovremmo essere particolarmente preoccupati per la possibile rinascita di un’estrema destra ucraina nazionalista, stimolata dalla guerra, che è solo uno specchio del fascismo di Putin.

 Come sappiamo fin troppo bene, il nazionalismo alimenta il nazionalismo.

La sinistra radicale occidentale dovrebbe essere la prima a rilanciare tutte le voci dissidenti che si sono coraggiosamente espresse in Russia dall’inizio dell’invasione.

Un esempio è la notevole lettera firmata da oltre 10.000 insegnanti, studenti e laureati dell’”Università Lomonosov di Mosca” che «condanna categoricamente la guerra che il nostro Paese ha scatenato contro l’Ucraina».

La lettera aggiunge:

 «L’azione della Federazione Russa, che i suoi leader chiamano ’operazione militare speciale’, è una guerra, e in questa situazione non c’è spazio per eufemismi o scuse.

La guerra è violenza, crudeltà, morte, perdita di persone care, impotenza e paura che non possono essere giustificate da alcuno scopo”.

Si pensi anche alla petizione di 664 ricercatori russi che, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, hanno denunciato la piena responsabilità della Russia nello scoppio della guerra e hanno aggiunto:

 «Comprendiamo la scelta europea dei nostri vicini.

 Siamo convinti che tutti i problemi tra i nostri due Paesi possano essere risolti pacificamente».

Il manifesto delle “Femministe russe” contro la guerra collega l’aggressione militare alla promozione dei «valori tradizionali» di Putin contro la degenerazione occidentale che avrebbe contaminato «l’anima russa»:

 «Chiunque abbia uno spirito critico capisce che questi ’valori tradizionali’ includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione di Stato contro coloro il cui stile di vita, la cui identità e le cui azioni non sono conformi alle ristrette norme patriarcali.

 L’occupazione di uno Stato vicino è giustificata dal desiderio di promuovere tali norme distorte e di perseguire una «liberazione» demagogica;

questo è un altro motivo per cui le femministe di tutta la Russia devono opporsi a questa guerra con tutte le loro forze».

 Il manifesto femminista invita «a formare la Resistenza Femminista contro la Guerra e a unire le forze per opporsi attivamente alla guerra e al governo che l’ha iniziata».

Ma c’è un altro compito internazionalista urgente.

 Consiste nel denunciare la stretta connivenza del capitalismo occidentale, in particolare quello degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, con la corruzione delle «élite» russe.

È questa connivenza che ha permesso alla «macchina del saccheggio» di funzionare dagli anni Novanta.

Questo capitalismo predatorio, le cui prime vittime sono state e sono tuttora i lavoratori russi, ha goduto di tutte le agevolazioni per il riciclaggio e la speculazione nei circuiti della finanza, dell’immobiliare, del lusso, dello sport, ecc. offerte dai Paesi che oggi si offendono per l’ultra-ricchezza degli oligarchi russi acquisita con la corruzione e la totale sottomissione a Putin.

È il sistema finanziario capitalista mondiale, con tutte le sue opacità, che ha contribuito alla creazione del mostro statale di Putin, ed è contro entrambi che dobbiamo unire tutti i democratici radicali dell’Occidente e dell’Oriente.

 Per quanto tempo i soldati russi accetteranno di essere uccisi per difendere uno Stato così ladro e corrotto?

È lo stesso autocompiacimento dei leader politici europei che ha fornito a Putin i mezzi per rafforzare e modernizzare il suo esercito.

 Apprendiamo con stupore che Francia, Germania, Italia, Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Finlandia, Slovacchia e Spagna hanno consegnato alla Russia 346 milioni di euro di equipaggiamenti militari tra il 2015 e il 2020, nello stesso periodo in cui questa stava radendo al suolo le città siriane.

 

 

Europa Grande Potenza o Europa federale?

Infine, questa “sinistra radicale comunista” di Davos non può distogliersi dall’immenso compito dell’«architettura politica» dell’Europa e del mondo.

Come fermare la micidiale dinamica dei poteri sovrani che sta mettendo in discussione le fragili regole e gli equilibri della fine del XX secolo?

 Non solo non deve distogliersi da questo compito, ma deve farne una delle sue priorità, perché l’organizzazione politica del mondo determina in larga misura tutte le altre

. Pensare di poterlo evitare proponendo una concezione assolutistica e obsoleta della sovranità nazionale e un «non allineamento» non è solo un errore politico e morale, ma è un errore sullo stato del mondo e sul modo di evitare le peggiori calamità.

È comprensibile che un Paese sotto attacco ne approfitti, ma non è comprensibile che un Paese che deve dimostrare solidarietà lo usi come pretesto per un vigliacco abbandono.

La questione che si pone è quella di una radicale rifondazione dell’Europa su base democratica, rompendo con la logica della sovranità statale.

 La logica della costruzione dell’Unione Europea deve essere invertita partendo dal basso, cioè dagli stessi cittadini europei e dai loro gruppi, associazioni e organizzazioni.

 Ciò significa che l’alternativa non va cercata in un «rinnovamento» delle istituzioni dell’Unione Europea o in un rafforzamento della federalizzazione verso la creazione di uno Stato federale.

Dobbiamo iniziare a mettere in discussione la distribuzione dei poteri tra Commissione Europea, Consiglio e Parlamento.

Un primo passo in questa direzione sarebbe quello di abolire il monopolio dell’iniziativa legislativa detenuto dalla Commissione Europea.

Un secondo passo sarebbe quello di condividere questo potere di iniziativa tra i deputati e i cittadini, in modo che questi ultimi possano partecipare direttamente al suo esercizio.

Questo amplierebbe la sfera di deliberazione che è il cuore di ogni vera democrazia degna di questo nome, invece di essere cortocircuitata dalle pratiche di lobbying.

Ma questi sono solo i primi passi verso un obiettivo che deve essere identificato come quello di un’Europa federativa e non federale.

 Ci si può chiedere quale sia il significato di questa distinzione poco conosciuta tra federale e federativo.

 In realtà, è stata in qualche modo offuscata e oscurata da dottrine politiche che hanno ripreso l’idea di Montesquieu di «repubblica federativa» per meglio dissociarla da quella di Stato nazionale.

Questa nozione privilegia ancora” la sovranità degli Stati federati” in modo tale che sarebbe giustificato parlare di un “federalismo interstatale “piuttosto che di una vera e propria logica federativa.

 È questo tipo di federalismo che i costituzionalisti americani hanno portato a compimento a Filadelfia nel 1787, ed è questo tipo di federalismo che ha prevalso in forma aggravata con la creazione della Confederazione canadese nel 1867.

Il federalismo a cui ci riferiamo si riferisce al «principio federativo» di “Proudhon” e non al federalismo statale, intra statale o interstatale.

Ciò implica che l’intera costruzione parta dal basso, dai comuni e dalle unità politiche di base.

 Un’Europa federativa sarebbe quindi un’Europa di comuni in cui questi ultimi sarebbero liberi di affiliarsi tra loro indipendentemente dai confini nazionali, secondo la logica di una federazione trans comunale che andrebbe oltre i limiti dell’Europa stessa.

 In breve, un’Europa federativa, che procede da un comunitarismo transnazionale, è l’esatto contrario di un’Europa «grande potenza» o «sovrana».

La Nato, sotto la guida nordamericana, non può fungere da scudo universale più di un’Europa «grande potenza».

Entrambi non sono la soluzione, ma parte del problema.

 Pensarlo significa rimanere nella logica dello scontro e della militarizzazione dei «blocchi».

Sappiamo che né l’uno né l’altro sono garanzia di rispetto del diritto internazionale: l’Iraq, la Somalia, la Libia e, naturalmente, la violazione permanente di questo diritto con la colonizzazione dei territori occupati sono sufficienti a dimostrarlo.

Inoltre, si è notato da tempo che il modo di deliberare e decidere dell’ONU, grazie al diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, riduce l’organizzazione delle nazioni a una completa impotenza non appena sono in gioco gli interessi di uno o dell’altro dei membri permanenti.

Non ci saranno né pace né giustizia internazionale, né una vera «transizione ecologica» basata sulla cooperazione globale, finché non si inventerà un’istituzione completamente diversa per gestire le relazioni e i conflitti tra gli Stati.

Ma soprattutto, possiamo intuire che il vero problema risiede nell’eredità della storia, che ha fatto dello Stato sovrano la forma universale di organizzazione delle società.

 È in nome di questa aspirazione a formare uno Stato sovrano protetto dai suoi nemici che l’Ucraina si difende, ma è altrettanto in nome di questo stesso principio che la Russia afferma di difendersi invadendo il suo vicino.

Il potenziale distruttivo del quasi monopolio della «forma Stato» nelle relazioni internazionali, per non parlare del diritto di ciascuna di queste entità di perseguitare i propri sudditi, deve portare all’esigenza democratica di società che si autogovernano dal basso e che tessono tra loro legami multipli che sfuggono alla mediazione degli Stati nazionali.

Questo dimostra, come abbiamo detto all’inizio, che non ci sarà una soluzione «internazionale» alle crisi che colpiscono il mondo senza una soluzione democratica a livello di ogni società.

 La guerra che Russia conduce ne è la prova più tragica.

 Ed è per questo che solo lo sviluppo della solidarietà e della transnazionalità delle lotte di emancipazione può offrire qualche speranza.

Non sarà sufficiente far rivivere le vecchie forme di internazionalismo del XIX e XX secolo, che si sono infrante nella realtà degli Stati nazionali e delle loro rivalità.

Inizialmente basato sull’idea saintsimoniana e poi marxiana che il proletariato mondiale si sarebbe naturalmente unito con l’espansione del «mercato universale» fino a costituire una società mondiale libera dal capitalismo e dagli Stati nazionali, l’internazionalismo socialista è stato progressivamente catturato e assorbito dai quadri politici, simbolici e culturali di questi stessi Stati nazionali.

L’ultimo tentativo di salvare questo internazionalismo dallo stalinismo e dal suo «socialismo in un solo paese», quello di Trotsky con la Quarta Internazionale, è ormai completamente esaurito.

Qualsiasi tentativo di far rivivere l’idea di una direzione centralizzata della lotta è destinato a fallire.

“Il grande compito della prossima generazione sarà quello di inventare una nuova cosmopolitica basata sulla democratizzazione radicale delle società”.

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