I piccoli uomini e il potere dei grandi.
I
piccoli uomini e il potere dei grandi.
Élite
e democrazia nel
pensiero
politico moderno.
Pandorarivista.it
- Lorenzo Mesini – (13 Marzo 2020) – ci dice:
Punto
di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni
formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone:
governanti
e governati, dominatori e dominati.
I
primi costituiscono una minoranza più o meno ristretta, che tende a concentrare
nelle proprie mani una grande quantità di potere e di risorse (sia materiali
che simboliche).
I
secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei
governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.
Obiettivo principale della teoria delle élite,
a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, è stato quello di elaborare una
giustificazione teorica a questa indiscutibile uniformità che, con forme
diverse, attraversa la storia e le società umane.
La distinzione tra governanti e governati non
è tuttavia una scoperta della scienza politica tra Otto e Novecento, ma è
sempre stata oggetto delle varie tradizioni che attraversano la storia del
pensiero politico.
In
questo contributo verranno inquadrate alcune delle principali linee di sviluppo
del pensiero politico moderno in merito al rapporto che lega élite e
democrazia.
Ci si concentrerà, innanzitutto, sulle
modalità con cui il rapporto tra i governanti e i governati viene declinato nei
diversi filoni del razionalismo politico moderno.
Si procederà con l’opera di Gaetano Mosca,
esponente dell’elitismo classico, per poi affrontare la critica dialettica
svolta nei suoi confronti da Antonio Gramsci.
In
conclusione si proporranno alcune riflessioni sulla prospettiva sviluppata
dall’elitismo democratico nel Novecento.
Ripercorrendo queste tappe si cercherà di
illustrare come il rapporto tra governati e governanti, tra élite e democrazia
sia stato declinato con esiti e modalità diverse, a seconda degli orizzonti
valoriali e concettuali attraverso cui è stata di volta in volta pensata la
politica, le relazioni sociali e la storia.
Il
pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto
radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica.
Se l’ordine politico antico e cristiano era
concepito come un ordine naturale (oggettivo e gerarchico) posto a stabile
fondamento della politica, l’età moderna pensa invece l’ordine come prodotto
umano e artificiale, fondato sull’attività razionale degli individui, soggetto
al conflitto e al mutamento.
L’idea
di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione
della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.
I
grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando
per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a
partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia
naturale tra gli uomini.
L’assenza di un ordine naturale tra gli
individui costituisce il problema da cui muove il pensiero politico moderno:
la naturale uguaglianza tra gli uomini è
infatti foriera di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra
omnes dello stato di natura).
La
necessità dell’ordine politico nasce quindi dall’esigenza di difendere
l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli uomini, uguaglianza che deve
essere tutelata dai suoi stessi effetti collaterali.
Attraverso
il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a
edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge
universalmente valida al suo interno.
Gli
autori del potere (gli individui) tuttavia, non lo esercitano in maniera
diretta, ma attraverso istituzioni rappresentative (il sovrano rappresentativo
o un’assemblea parlamentare) che sono superiori a coloro che rappresentano.
Gli autori del potere non coincidono quindi in
maniera diretta con i suoi attori (le istituzioni rappresentative).
Questo elemento di disuguaglianza all’interno del
corpo politico moderno non deriva da alcuna superiorità di carattere ontologico
o naturale ma è di carattere prettamente funzionale, volta a garantire l’unità
dello Stato.
In linea di principio nessuna distinzione
sociale deve giustificare alcuna distinzione politica, dato che la politica è
il prodotto della razionalità comune di cittadini uguali.
A
esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità
del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo
interno.
Ovviamente
nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è
avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche,
amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione
reciproca.
Il
pensiero politico moderno e la sua idea di democrazia (sia nella sua versione
liberale che socialista) traggono la propria forza da:
a) l’idea che nessuna differenza pre-politica
(naturale o sociale) possa giustificare in linea di principio la superiorità
politica di nessun cittadino,
b) la
necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati.
Questo,
beninteso, nella ferma consapevolezza del ruolo strategico giocato da una
particolare élite sociale nello sviluppo dello Stato e del capitalismo (la
borghesia).
L’importanza
della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere
funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello
Stato.
Per il pensiero politico moderno risulta
infatti illegittima ogni forma di ordine politico in cui i cittadini soggetti
al potere non ne siano al contempo gli stessi autori.
Legittimo è quel potere che nasce e si
concepisce come autogoverno di cittadini uguali, obbedienti a leggi universali.
A
questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto
meno a livello teorico.
Ogni
forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di
rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata
dispotica o tirannica.
Nei
confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni
politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite
(Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica.
Muovendo
dalla constatazione che in ogni contesto sociale ad esercitare il potere sono
sempre gruppi ristretti, i teorici delle élite mostrano come la storia e il
reale funzionamento delle istituzioni e della politica smentiscano di fatto la
teoria liberale parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le
dottrine socialiste.
Gaetano
Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il
primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della
storia e della politica sono sempre state le élite.
La
distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della
politica.
La dinamica storica consiste per Mosca
essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per
assicurarsi maggior potere.
Nella “Teorica
dei governi e governo parlamentare” (1883) si sottolinea come ogni governo
consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si impone su una
maggioranza divisa e disorganizzata.
Mosca
distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di
quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia
classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi
ambiti della società.
Il
fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate
costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali
classificazioni delle forme di governo.
Le principali classificazioni tradizionali,
quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella
elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere
sotto le critiche di Mosca.
Le
classiche forme di governo non sono semplicemente il risultato di
classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la maschera legale
dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di persone esercita
effettivamente il potere.
Mosca
è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo
mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei
governati.
Con la
teoria della formula politica Mosca intende individuare quelli che a suo avviso
sono i principi astratti che consentono ai governanti di giustificare il
proprio potere, in accordo con le convinzioni più diffuse nella società.
Le ‘formule politiche’ non costituiscono
semplici mistificazioni ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la
propria obbedienza richiamandosi a norme generali.
Mosca
riconduce la molteplicità di formule politiche a due principi:
uno
soprannaturale e uno (apparentemente) razionale.
Democrazia è per Mosca solo una delle formule
politiche razionali con cui determinate élite giustificano il proprio potere.
Il
principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura
oligarchica di ogni governo.
Al di
sopra delle molteplici formule politiche, per Mosca c’è sempre il potere di
un’élite.
Anche
quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze
organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti).
Queste,
lungi dall’essere promotrici di emancipazione, sono le effettive detentrici del
potere.
L’indagine
moschiana sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del
parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del
suo intreccio con la democrazia.
Consapevole
dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le
vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in
espansione contro i vecchi ceti dominanti.
Mediante
l’uso di principi universali (libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia
ha coinvolto il popolo nella sua ascesa al potere, legittimandosi come
rappresentativa di tutta la nazione e non come classe particolare.
Dall’analisi
di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra
parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo:
la
legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui
un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere.
Contrariamente
a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere
rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma
gli interessi particolari del ceto politico o, peggio, dei suoi singoli membri.
La
ricca riflessione condotta da “Antonio Gramsci” nei “Quaderni del carcere” si
confronta con la scienza politica élitista con l’intenzione di superare le sue
obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica
nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno.
La critica gramsciana all’elitismo si
inserisce nell’orizzonte di una scienza politica integralmente storicizzata e
incentrata sul concetto di egemonia, come categoria generale della politica e
della storia.
Obiettivo
di Gramsci è quello di superare dialetticamente la teoria delle élite,
sviluppandola in una prospettiva radicalmente democratica.
È
soprattutto sulle opere di Gaetano Mosca (e in misura minore quelle di Michels
e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci.
Le sue
critiche riguardano sia l’impianto analitico della teoria moschiana sia il suo
implicito orientamento politico conservatore.
Gramsci condivide il principio secondo cui in
ogni formazione sociale «esistono davvero governati e governanti, dirigenti e
diretti», come condivide il fatto che «tutta la scienza e l’arte politica si
basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni
generali)».
Anche
per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la
lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli élitisti.
La critica gramsciana all’elitismo riguarda il
suo impianto positivista, che si limita a registrare meccanicamente determinati
fatti e processi per poi elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della
storia.
Tale
approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e
oligarchico dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a
mantenere le disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.
Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca,
sia nella “Teorica” sia negli “Elementi di scienza politica “(1896, 1923),
accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di
concetti vaghi.
Quello
che gli élitisti italiani non sono in grado di comprendere sono la natura e le
dinamiche delle élite nel momento in cui le masse irrompono sulla scena
politica europea, in particolare con l’avvento del primo conflitto mondiale.
Per
questo Gramsci intende indagare la nascita, la selezione e le dinamiche
politiche delle élite in una prospettiva essenzialmente storicista e
dialettica.
Questa
deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso
cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto comprendere le
modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono coscienza di sé e del
proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente degli intellettuali.
Nelle
ricerche condotte nei “Quaderni” Gramsci non intende limitarsi a constatare la
divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle
minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana.
Per questo si domanda «come si può dirigere
nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo
migliore i dirigenti».
Formazione dei dirigenti che deve avvenire muovendo
dal presupposto che la distinzione tra governanti e governati non rappresenti
un destino immutabile, ma «sia solo un fatto storico, rispondente a certe
condizioni».
Il problema che Gramsci si pone è quello di
tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta
mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il
soggetto e lo Stato.
Questi
permangono contrapposti in modo conflittuale e contraddittorio nelle
architetture istituzionali liberal-democratiche.
L’elitismo
approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice,
affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e
governati.
Per
Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si
costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di
articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.
Nel partito politico Gramsci individua il mezzo «più
adeguato a elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di un’educazione
delle masse capace di integrarle nel progetto di una piena autodeterminazione
del corpo sociale («società regolata»).
Nel
partito come «moderno Principe», l’esercizio delle funzioni politiche da parte
delle proprie élite non è semplice dominio sulle masse.
Al contrario costituisce quella combinazione di
direzione, produzione di consenso, senso storico e organizzazione che ne
determina la capacità egemonica nella società.
La prospettiva radicalmente democratica di
Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle
contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese.
Superamento
della contrapposizione netta tra governanti e governati attraverso le funzioni
organizzative di un partito(globalista) che ha l’ambizione di porsi come
l’elemento rappresentativo e direttivo dello sviluppo dei conflitti e delle
forze sociali.
Il
pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa
il problema del rapporto tra élite e democrazia.
Se per
Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era
di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per
Antonio Gramsci la soluzione del problema indicato dagli élitisti consisteva
nel superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici
contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.)
hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche
dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore
in una prospettiva liberale.
Obiettivo
comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la
presenza di una pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema
democratico.
L’immagine di democrazia che ne emerge,
specialmente dall’”opera di Schumpeter”, è quella di uno strumento
istituzionale in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi
di élite, elette attraverso il voto popolare.
La
democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione
pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite (che non debbono avere come fine la
creazione di un mondo globalizzato. N.D.R.)
Ne
emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership:
i cittadini dispongono del diritto di
scegliere chi si assumerà la responsabilità di prendere le decisioni politiche
e solo indirettamente cosa deciderà per la comunità intera.
Se,
come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in
competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni:
la
loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una
legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento
(le elezioni). In altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci,
della mediazione tra élite e società.
(Il
globalismo ha annullato ogni mediazione possibile. N.D.R.)
IL
CORAGGIO DI DIRE QUELLO CHE
SI
PENSA IN UN MONDO DI MASCHERE.
Tragicomico.it
– Redazione - (10 Marzo 2021) – Blog di Ivan Petruzzi – ci dice:
Viviamo
in un mondo di maschere nel quale è difficile dire quello che si pensa, c’è
bisogno di tanto coraggio e spesso si viene etichettati come persone
non-comuni, non conformi, fuori dalle regole.
Quello
che dovrebbe essere un vantaggio, un pregio, ossia l’essere verità, dire la
propria verità, in realtà diventa una “scomodità” per il sistema, per chi ci
circonda e per chi ogni giorno è abituato ad indossare una maschera diversa.
Un mondo che abbiamo costruito noi stessi,
fatto di apparenza, di inganni e di rapporti umani di circostanza;
dove
dire quello che si pensa è spesso considerato poco opportuno, soprattutto se
non coincide con quello che pensa il nostro interlocutore.
In
pratica preferiamo indossare una maschera, per adattarci a persone, eventi e
luoghi.
Queste maschere sono frutto delle paure
ereditate geneticamente da chi ci ha preceduto in questa società globalizzata,
nella quale esiste la paura tangibile di risultare inadeguati se si è sinceri,
paura di essere derisi, di rimanere soli, emarginati.
Ecco
perché ci vuole coraggio per dire quello che si pensa.
Perché bisogna abbattere questa paura
ancestrale, la paura di restare soli, la paura di non essere capiti, la paura
del giudizio o di ritorsioni nei propri confronti.
Ad
esempio, conosco persone che pur essendo esemplari nel loro modo di vivere
leale ed onesto, sono costrette a non poter esprimere quello che pensano, per
il semplice motivo che se lo dovessero fare, i datori di lavoro gli direbbero
“quella è la porta!”.
E con
la crisi in atto e l’aumento della disoccupazione, la paura vince sul coraggio
di essere sé stessi.
Per “convenienza” anche queste persone che
spiccano per doti umane, si sentono costrette a non potersi esprimere a proprio
piacimento.
Scelgono
di recitare un “ruolo”, quello del dipendente burattino, e il prezzo da pagare
è sempre quella maledetta maschera da indossare.
Il
rischio nel NON dire quello che si pensa è quello di smettere di essere sé
stessi e di cadere in balia delle diverse personalità che affollano la nostra
mente.
Smettendo
di essere “veri” si smetterà di Essere sé stessi: è una legge!
Questo
non vuol dire che il nostro Sé scomparirà da un giorno all’altro, ma giacerà
addormentato nel profondo abisso della nostra essenza, sotto un immenso strato
di pensieri compulsivi e personalità multiple sparate a raffica a seconda dei
contesti nei quali viviamo.
Nascono
così gli atteggiamenti di “facciata”, le frasi di circostanza, l’essere carini
con tutti, gentili, sempre disponibili, mai una parola fuori posto. Insomma,
dei perfetti fantocci!
“Solo
le qualità che sorgono dalla nostra attività spontanea danno forza all’io e
formano per tanto la base della sua integrità.
L’incapacità di agire spontaneamente, di
esprimere quel che veramente si sente e si pensa, e la conseguente necessità di
presentare uno pseudo io agli altri e a sé stessi, sono la radice del
sentimento di inferiorità e di debolezza.
Che ne
siamo o no coscienti, non c’è nulla di cui ci vergogniamo di più del fatto di
non essere noi stessi, e non c’è nulla che ci dia più orgoglio o felicità di
pensare, sentire e dire quel che è nostro.
Ciò
implica che quello che importa è l’attività in quanto tale, il processo e non
il risultato.”
(Erich Fromm – “Fuga dalla libertà“)
Ma c’è
di più, perché chi mente, compie uno spreco energetico non indifferente.
L’indossare una maschera per ogni occasione
così come il mentire comportano, infatti, uno sforzo.
Questo
sforzo si traduce in un dispendio energetico inutile, perché lo scopo non è
reale, bensì fittizio.
Si indossa la maschera per fingere di essere
reali, veri, genuini, quando in realtà la verità consiste nel coraggio di
essere come siamo e nel dire ciò che pensiamo, senza maschere. Il non mentire,
l’essere se stessi sempre e comunque, insieme al coraggio di dire quello che
pensiamo, comportano un minor dispendio energetico e consentono, al contempo,
di non renderci schiavi delle aspettative altrui.
Smetteranno
così di esistere le paure, non avremo il timore di non piacere o di non essere
all’altezza, perché saremo ciò che siamo e diremo ciò che pensiamo, senza
alcuna paura. Dobbiamo smetterla di indossare maschere per piacere sempre agli
altri, per essere alla moda, per non essere tagliati fuori dal gruppo.
Non
dobbiamo aver paura di venire allontanati da chi, non ancora soddisfatto del
suo sonno, desidera continuare a dormire.
Ricordatevi
che dire quello che si pensa fa parte della natura umana.
Pensate ad esempio ai bambini ed alla loro
capacità di dire quello che pensano.
A volte possono sembrare politicamente
scorretti, fuori luogo, fin troppo sinceri, ma non c’è una “bella” menzogna che
sia preferibile alla seppur cruda verità.
Quindi
non auto-priviamoci della libertà di poter dire liberamente ciò che pensiamo,
lo stesso Freud diceva che scherzando si può dire tutto, anche la verità!
(Tragicomico.
Blog di Ivan Petruzzi)
ECOCIDIO:
UN CRIMINE ECOLOGICO
IN NOME DEL PROGRESSO.
Tragicomico.it
– (7 Luglio 2023) - Redazione - Blog di Ivan Petruzzi – ci dice:
Che
cos’è l’ecocidio?
Si
tratta di un eco-delitto, di un crimine ecologico atto a danneggiare e
distruggere un ecosistema o un ambiente naturale per un tornaconto economico e
produttivo.
Uno
dei crimini più diffusi in quest’epoca moderna, un’epoca governata da un
progresso ormai cieco e sordo verso il lamento di dolore e di sofferenza del
nostro pianeta Terra.
La
nostra società moderna, infatti, tende a misurare il progresso quasi esclusivamente in termini
materialistici: tutto ciò che è prodotto – anche l’oggetto più inutile – viene
etichettato come “benessere”.
Il concetto di progresso ha assunto a poco a
poco un’importanza così dominante da essere ormai al di là di ogni discussione
critica.
Nessuno
vuol sentire parlare di crimine ecologico o, peggio ancora, di ecocidio.
Personalmente,
con tutta la mia visione tragicomica della questione, ritengo che si possa
affermare senz’ombra di dubbio che un tale concetto di progresso, se portato
alle sue logiche conseguenze, distruggerà inevitabilmente ciò che si ripromette
di raggiungere.
L’aspirazione
a diventare sempre più ricchi, anno dopo anno e costi quel che costi in termini
ecologici, è destinata a distruggere inevitabilmente le risorse naturali e i
sistemi di supporto della vita da cui dipendiamo.
Pertanto
come possiamo definire questo scempio ambientale se non come un vero e proprio
crimine ecologico?
I
politici di tutto il mondo, al netto dei fili che li manovrano, si rendono bene
conto che il vortice che hanno contribuito a creare si fa sempre più rumoroso,
più sporco e più rischioso ma, incitati come non mai da economisti
incompetenti, spietati e incapaci di distinguere fra una zolla di terra e un
grumo di cemento, non osano fare marcia indietro in questo ecocidio
sistematico.
E per
quanto ingiusto e perverso possa essere considerato questo sistema di vita, la
Terra è riuscita finora a fare fronte a oltre sette miliardi di individui che
cercano di realizzare secondo questi principi le loro fantasie materialistiche.
È da
escludere, però, che riesca a sostenere venti, o addirittura trenta miliardi di
individui governati dalle stesse illusioni.
“Gli
eco-assassini se ne vanno in giro indisturbati in giacca e cravatta col sorriso
sulle labbra, protetti dagli interessi dei Grandi Distruttori.
Si credono potenti eppure sono schiavi come
tutti noi di questa follia collettiva che si chiama mercato, una follia che
ignora le leggi dell’universo e insegue quelle del puro profitto.
Il dio
denaro è stato messo su un piedistallo smaltato d’oro e sangue e tutto gli è
stato sacrificato:
i
ritmi della Natura, le leggi della Terra, la vita delle creature che la
abitano, noi tra le altre mille.
Abbiamo
rinunciato alla nostra libertà e ai nostri valori ancestrali per chiuderci
dentro la gabbia di una società cieca e crudele, che genera figli geneticamente
modificati e poi se ne ciba, dimenticandosi che l’uomo è il cibo che mangia e
le azioni che compie, che quel che è fuori è dentro e quel che è dentro è fuori.”
(Dal mio libro “Schiavi del Tempo”)
Dobbiamo
essere tutti consapevoli dell’ecocidio in atto, un attentato verso Madre Natura
per sostenere questo ritmo frenetico chiamato progresso, che lacera la Terra,
spreme le sue ricchezze, cancella la sua coltre vitale di suolo e di foreste,
avvelena la sua aria pura e insozza le sue acque limpide.
In tutto questo scenario, l’indicatore più
importante del declino ambientale è il livello di reversibilità del danno.
L’aspetto
ancora più drammatico di questo ecocidio generalizzato è che una generazione
umana possa lacerare così gravemente il tessuto vitale di questo pianeta da
provocare un danno letteralmente irreversibile per ogni generazione successiva.
A tal
proposito mi viene in mente un proverbio in uso fra la comunità dei Navajo, un
vero monito per tutti coloro che intaccano senza pietà le risorse naturali a
nostra disposizione:
“Non
ereditiamo la terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri
figli”.
Dobbiamo
riacquisire il desiderio di vivere in armonia con la Terra e di contribuire a
un processo di guarigione, regalando a essa tempo e spazio per risanarsi.
Abbiamo
realmente il diritto di commettere questo crimine ecologico e di sperperare in
questo modo un’eredità naturale così importante?
Esistono
soluzioni alternative, molto più ecologiche e allo stesso modo funzionali,
perché non adoperarle a pieno regime?
Che
senso ha mandare l’uomo sulla Luna mentre milioni di individui riescono a
malapena a sopravvivere sulla Terra?
Invece
di pensare a usurpare e inquinare anche lo spazio sopra le nostre teste, non
sarebbe il caso di pensare prima alla cura e alla bonifica del nostro stesso
pianeta, che ci nutre e ci sussiste?
“L’uomo
è la specie più folle: venera un Dio invisibile e distrugge una Natura
visibile.
Senza
rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta
venerando.”
(Hubert
Reeves – “Il mare spiegato ai miei nipoti”)
Ogni
volta che un nuovo ettaro di terra scompare sotto cemento e catrame, la
capacità produttiva di quel tratto di suolo agricolo va persa per sempre.
Ogni
volta che una foresta è rasa al suolo, gli animali selvatici scacciati, un
fiume e i prati trasformati in edifici, stiamo sostituendo alla natura libera
un costrutto artificiale, arbitrario e autoritario.
Dobbiamo
smettere di dare per scontata la Terra, questa non è più l’epoca degli indugi e
dei ripensamenti.
In fin
dei conti, è la sola Casa che abbiamo.
Lei
non è solo Madre, è anche Maestra.
La
lezione è sotto gli occhi di tutti, non c’è più tempo, dobbiamo lavorare tutti
insieme e sodo per riparare al danno che è stato fatto, così da approfondire la
nostra conoscenza di ciò che è andato storto e il perché di questo continuo
ecocidio che ha impoverito la Terra nel nome del progresso.
E
smetterla una volta per tutte di essere solo consumatori e approfittatori; è
tempo di tornare a essere guardiani e custodi della nostra Casa.
Prima
che sia troppo tardi.
(Tragicomico.it
-Blog di Ivan Petruzzi)
Globalizzazione
politica - Che cos'è,
definizione e concetto –
2021 -
Economy-Wiki.com.
Economy-pedia.com
– (10-5- 2021) -Redazione – ci dice:
Sommario.
Vantaggi
della globalizzazione politica.
Svantaggi
della globalizzazione politica.
La
globalizzazione politica è il processo mediante il quale vengono create le
normative che raggiungono la portata globale.
Così,
gran parte dei paesi del mondo si impegna a seguire determinate linee guida.
Vista
in altro modo, la globalizzazione politica è un fenomeno per cui emergono
meccanismi e istituzioni internazionali a cui sempre più nazioni decidono di
aderire.
Poi
promettono di seguire alcune norme, per esempio, riguardo al rispetto dei
diritti umani.
La
globalizzazione politica va di pari passo con la globalizzazione sociale, che è
il processo attraverso il quale tutte le persone del mondo cercano il
riconoscimento degli stessi diritti.
Allo
stesso modo, non dobbiamo trascurare il ruolo chiave della tecnologia che rende
possibile la comunicazione remota in tempo reale.
Questo ha un impatto sulla globalizzazione
politica perché, nel caso in cui un paese violi, ad esempio, i suoi impegni
internazionali, questo si diffonderà all'istante.
Alcuni
esempi di globalizzazione politica sono le Nazioni Unite (ONU),
l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l'Organizzazione degli Stati
americani (OAS).
(Tutte
organizzazioni altamente corrotte! N.d.R.)
Vantaggi
della globalizzazione politica.
La
globalizzazione politica presenta principalmente i seguenti vantaggi:
Consente
ai paesi di cooperare per combattere problemi comuni come la povertà, il
riscaldamento globale o la malnutrizione.
Le
soluzioni diplomatiche ai conflitti tra paesi possono essere ricercate
attraverso le organizzazioni internazionali.
Grazie
alla globalizzazione politica, esistono organismi internazionali a cui i
cittadini possono rivolgersi in caso di violazione dei loro diritti.
Questo può essere della massima importanza, ad
esempio, se un governo agisce con un genocidio contro il proprio popolo.
Di
fronte a queste situazioni abbiamo enti come la “Corte Interamericana dei
Diritti Umani”.
Essendo
sotto il controllo della comunità internazionale, il rischio di autoritarismo
sarà ridotto.
A
questo punto ricordiamo che i processi elettorali hanno solitamente osservatori
stranieri.
Vantaggi
e svantaggi della globalizzazione.
Svantaggi
della globalizzazione politica.
Tuttavia,
la globalizzazione politica presenta anche alcuni svantaggi:
Assumendo
accordi internazionali, i paesi rinunciano a parte della loro sovranità. In
altre parole, il governo non ha mano libera per applicare misure contrarie agli
accordi precedentemente sottoscritti.
Proseguendo
con quanto sopra, la perdita di sovranità potrebbe generare il malcontento di
una parte della popolazione.
Ciò avviene principalmente in contesti di
crisi economica o politica, e può finire per portare all'emergere di movimenti
nazionalisti.
Può
succedere che paesi con maggiore potere economico e politico ottengano una
maggiore influenza nelle organizzazioni internazionali, imponendo la loro
agenda e le loro condizioni.
Tuttavia,
si presume che tutti i paesi affiliati a un'entità sovranazionale dovrebbero
avere una rappresentanza in essa, contando, in teoria, con voce e voto.
GLOBALISMO
O NAZIONALISMO:
QUAL È
IL FUTURO?
Opinione.it - Gerardo Coco – (04 ottobre
2019) -ci dice:
Il
rifiuto della globalizzazione era stato elemento centrale della campagna
elettorale di Donald Trump e il 24 settembre scorso all’Assemblea generale
delle Nazioni Unite lo ha ribadito con queste parole:
“Guardandosi intorno su questo grande,
magnifico pianeta, la verità è evidente, se vuoi la libertà, sii orgoglioso del
tuo Paese.
Se
vuoi la democrazia, mantieni la tua sovranità.
E se
vuoi la pace, ama la tua nazione.
I
leader saggi mettono sempre al primo posto il bene della propria gente e del
proprio Paese”.
E poi:
Il futuro non appartiene ai globalisti, il futuro appartiene ai patrioti”.
Il
futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti che proteggono i loro
cittadini, rispettano i loro vicini e onorano le differenze che rendono ogni
Paese speciale e unico.
Trump
si è dunque richiamato al nazionalismo come alla forma politica che protegge i
cittadini dalle minacce esterne, contrastandolo con il globalismo dei “confini
aperti” che ha definito “crudele e malvagio”.
Ma
cosa si intende per globalismo?
È la globalizzazione economica?
Non
solo, il concetto abbraccia anche quello di globalizzazione politica,
inseparabile, purtroppo, da quella economica.
La globalizzazione economica che è l’integrazione mondiale dei
mercati intensificatasi nei tempi moderni grazie allo sviluppo della
connettività globale, in fondo, è sempre esistita:
nessun
Paese ha mai prodotto solo per soddisfare solo le proprie esigenze, ma ha
prodotto anche per soddisfare quelle di altri Paesi.
La
globalizzazione politica, invece, è l’integrazione, nel sistema mondiale, dei governi
nazionali con tutti quegli elementi indipendenti, come le organizzazioni
internazionali governative e non governative e i movimenti sociali organizzati,
tutti con la missione di far fronte a problemi sempre più complessi che
spaziano dalle crisi economiche alla protezione dell’ambiente e che per essere
risolti richiedono un processo decisionale centralizzato, cioè, una global
governance.
Quindi,
una burocrazia sovranazionale non eletta che opera su base monopolistica, senza
dover rendere conto a nessuno, detta regole al mondo intero per unirlo sotto un
unico sistema planetario, ritenendo che gli Stati nazionali, ormai obsoleti,
debbano essere sostituiti da un potere politico attivo a livello globale.
Nella
pratica, i globalisti lavorano a questo obiettivo attraverso organizzazioni
formali come l’Onu, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale e
l’Ocse, le prime organizzazioni nate per promuovere la globalizzazione politica.
L’ultima
in ordine di tempo e più rappresentativa istituzione globalista è “l’Unione
europea”, concepita come superstato centralizzato per dissolvere gli Stati
nazionali come zollette di zucchero in una tazza di acqua calda.
A
livello informale, invece, la globalizzazione politica opera attraverso
istituzioni come Fondazioni, Ong, la Commissione trilaterale e, soprattutto, il
World Economic Forum di Davos, dove le élites cosmopolite lanciano programmi di
politicizzazione dell’economia, del sistema educativo, religioso e culturale
per dirigere e determinare tutte le relazioni tra le persone nei vari
continenti.
In
contrasto con forme democratiche di governo, il globalismo non consente
all’elettorato di esprimersi su questioni fondamentali come, ad esempio, la Brexit, perché,
come ha affermato Angela Merkel,:
“I
politici non devono ascoltare la volontà dei loro cittadini quando si tratta di
questioni di sovranità“ (discorso del 29 dicembre 2018 alla Konrad Adenauer
Foundation, Berlino)
Alla
base di questa concezione che compenetra i media dominanti e la politica, c’è
il pensiero socialista e comunista, collettivista, anticristiano e
antioccidentale.
Anche
la gestione della crisi migratoria che attualmente affligge l’Europa, nasce
dall’approccio internazionalista alla politica estera di élites privilegiate
che, chiuse nelle loro torri d’avorio e col pretesto dell’intervento
umanitario, mirano alla conquista demografica dell’Occidente da parte del Terzo
Mondo, cioè al “genocidio bianco” e, in definitiva, al crollo di qualsiasi
resistenza al governo socialista-comunista globale.
Punto
di forza dell’agenda globalista è il piano fiscale di sorveglianza planetario,
il controllo poliziesco sui redditi delle popolazioni.
Sponsor
di rilievo di questa operazione è il” Fondo Monetario Internazionale”, che in
un documento ufficiale ha auspicato il governo mondiale tramite l’arma fiscale.
Ma la
copertura perfetta all’agenda globale è fornita dalla lotta al cambiamento
climatico,
in quanto la gestione del fenomeno richiede una politica coordinata a livello
internazionale per giustificare ulteriore tassazione e, al fine di gestire l’emergenza, una governance autoritaria in nome
della salvezza del mondo.
La
maggior parte dei globalisti, troppo arrogante per mettere in discussione la
propria visione del mondo, credeva che la globalizzazione portasse al declino
definitivo dello stato-nazione creando un nuovo ordine mondiale, senza capire
che le tendenze nazionaliste e populiste non sono affatto un’anomalia ma forze
potenti che emergono sempre in tempi di declino economico e sono in grado di
invertire qualsiasi altra politica soprattutto quando monta la rabbia e la
frustrazione della maggioranza che vede arricchirsi solo una minoranza
privilegiata.
Pertanto
le élites sovranazionali sono rimaste spiazzate sia dalla dichiarazione di
indipendenza del Regno Unito dalla Ue, sia dall’elezione di Donald Trump, due
inequivocabili e forti manifestazioni di antiglobalizzazione.
Come
la concorrenza tra le singole imprese produce risultati migliori, mentre i
monopoli e gli oligopoli danno luogo a inefficienza e sono contro gli interessi
dei consumatori, lo stesso vale anche per i governi.
Si
dovrebbero dunque accogliere con favore i nazionalismi e deplorare le cessioni
di sovranità a un governo globale incontrollabile e senza concorrenza.
È importante osservare, infatti, che le
“agende globali” sempre svantaggiose per le popolazioni, vengono fatte
accettare come “accordi internazionali” per evitare ripudi elettorali e
correzioni democratiche.
Per tal motivo tutti i trattati internazionali
vanno visti con sospetto perché, quasi sempre, vanno contro gli interessi della
gente.
Tuttavia
è da ingenui credere il futuro non appartiene ai globalisti ma agli
stati-nazione.
Lo stato sovrano, così come è oggi, sempre più
intrusivo, tassatore, re-distributore e corrotto non è affatto fonte di
sicurezza e ha sempre meno la fiducia dell’elettorato.
La
soluzione alla miriade di problemi sociali ed economici della società
occidentale non può venire né dal globalismo né da nessuna riforma degli stati
nazionali, ma dalla loro dissoluzione.
La
salvezza è nella decentralizzazione politica:
solo
attraverso un mondo composto da centinaia, se non migliaia, di Liechtenstein,
Hong Kong, Monaco, confederazioni e città libere si può sfuggire alla tirannia
della centralizzazione politica.
L’uomo
e il potere.
Expartibus.it - Pietro Riccio – (14 Settembre
2018) – ci dice:
L’effimero
e l’eterno.
Da
sempre gli uomini inseguono il potere. Fanno di tutto per raggiungerlo.
Sacrifici, spesso duri, vita privata ed affetti che passano in secondo piano. A
volte attraverso il ricorso a mezzi poco o per niente leciti. Tutto pur di
arrivare all’obiettivo.
Ma
questo potere che sembra avere un valore più alto di tutto ciò a cui si
rinuncia, che cosa è in effetti?
Cosa
dà di tanto importante e tanto bramato?
Il
potere di solito è visto come qualcosa che porta alla possibilità di
influenzare gli altri e in generale il corso delle cose. Spesso è associato
anche alla ricchezza, che sicuramente è legata a doppio filo ad una certa
concezione di potere.
Ma
queste risposte da senso comune sono sicuramente semplicistiche. Cerchiamo di
mettere ordine.
Partiamo
dalla definizione del “Devoto-Oli”:
“Quanto
è consentito dalla volontà o disponibilità del soggetto. Ambito sottoposto
all’esercizio di un dominio generalmente incontrollabile”.
Un
primo spunto ci viene da un termine, volontà.
Un
vecchio adagio recita che volere è potere.
Al di
là di considerazioni che non si discostano da un ragionamento che ricade nel
popolare, lo spunto è sicuramente interessante; lo riprenderemo più avanti.
Un’analisi
del potere decisamente articolata ci viene dal sociologo” Max Weber” che così
definisce la potenza:
Qualsiasi
possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad
un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa
possibilità.
Annotiamo
come ricorra, anche in questo caso, il termine volontà.
Sempre
“Weber” parlando del potere legittimo:
La
possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che
abbia un determinato contenuto.
“Weber
distingue” tre tipi di potere: carismatico, tradizionale e razionale.
Quello
carismatico poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza
eroica o al valore esemplare di una persona e degli ordinamenti rivelati o
creati da essa.
Quello
tradizionale poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle
tradizioni valide da sempre e nella legittimità di coloro che sono chiamati a
rivestire un’autorità.
Quello
razionale poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti e del diritto di
comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere.
Il
potere, dunque, può avere diverse basi, diverse legittimazioni.
Può
fondarsi sulle qualità del singolo, su una sacralità che ci viene dall’alto o
dalla tradizione, su un ordinamento o su una norma.
In
linea di massima, però, si tratta della capacità di imporre la propria volontà,
di indurre gli altri a comportarsi nel modo che vogliamo.
Non
importa che questo accada perché si è leader, quindi secondo una legittimazione carismatica, o perché si è capi, dunque si decida in virtù di una posizione
gerarchica e, pertanto, sulla base di motivazioni razionali.
Questo
è, in effetti, il potere inseguito dai più.
Ma
spesso si tratta di un potere effimero, che può essere legato ad un periodo
limitato, a particolari condizioni che potrebbero venire meno.
Non
dipende solamente dal soggetto che desidera il potere, ma anche da quelli che
lo circondano, che un giorno potrebbero non subire più la stessa influenza.
Questo
potere non può che essere considerato illusorio.
“A
parte i nostri pensieri, non c’è nulla che sia davvero in nostro potere”.
(Cartesio)
Questa
frase di Cartesio riporta l’attenzione su un altro ambito di applicazione della
volontà.
Colui
che conosce gli altri è sapiente; colui che conosce sé stesso è illuminato.
Colui che vince un altro è potente; colui che
vince sé stesso è superiore.
(Lao
Tzu)
E
ancora la frase scritta presso il “Tempio dell’oracolo di Delfi”:
Γνῶθι
Σεαυτόν (gnỗthi seautón)
Uomo,
conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli Dei.
Il
vero potere, quello duraturo, l’unico riconosciuto da Cartesio, è quello che si
applica su sé stessi, sul proprio pensiero.
Il
potere, piuttosto che essere concepito come la possibilità di limitare la
libertà degli altri, imponendo le proprie decisioni, è inteso come capacità di
amplificare la propria, di libertà.
“Ho
cercato la libertà, più che la potenza, e questa solo perché, in parte,
assecondava la prima”.
(Marguerite
Yourcenar)
Libertà
come consapevolezza, come capacità di prevedere le conseguenze delle proprie
azioni, di agire, dunque, nel modo esatto che si desidera, senza lasciare nulla
al caso, o, posto che il caso non esista, non lasciarsi limitare dalle volontà
altrui come da una scarsa applicazione della propria, non lasciarsi preda di
una mancata consapevolezza che porta a risvolti non attesi delle proprie azioni.
Paradossalmente
questa concezione si stacca da quella di una libertà intesa nel senso
tradizionale del termine.
Si può
essere liberi anche rinchiusi in una piccola cella di pochi metri quadrati, come essere schiavi anche se si possono contemplare ampi
orizzonti.
Il
potere, per non essere qualcosa di effimero, non può essere rivolto all’esterno.
Quando
si è padroni di sé stessi, poi, si è padroni del mondo, pur non conservando
nessun interesse nella materialità, proprio perché dalla materialità ci si
distacca.
(Pietro
Riccio)
(Pietro
Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica,
giornalista pubblicista, scrittore).
LIBERTÀ
UMANA, POTERE POLITICO:
LEGAMI
E CONVERGENZE TRA
“ÉTIENNE
DE LA BOÉTIE” E LA POSTERITÀ.
Filosofiaenuovisentieri.com – (9 luglio 2023)
- Serafino Di Sanza – ci dice:
«Mi
rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di
terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati.
Lo scopo delle nostre fatiche deve essere
quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul
terreno i centri di luce.
L’un compito è proprio del genio che crea,
l’altro della perspicacia che perfeziona».
(Denis
Diderot)
Questo
saggio si propone di mettere in relazione il pensiero del filosofo” Étienne de
La Boétie “con quello di altri libertari e intellettuali e di riflettere sul
concetto di libertà e sulla natura del potere.
L'assunto
fondamentale di questo saggio è che la libertà è una continua conquista perché
può essere minacciata in ogni momento.
Tutti noi siamo corruttibili ed esposti al
rischio di fare del male.
C'è un
solo modo per combattere l'insorgere del male e preservare la nostra libertà:
non
smettere mai di pensare.
Il
pensiero e il giudizio sono gli unici antidoti alla malvagità.
Sommario.
Introduzione;
2. Convergenze tra Shakespeare, La Boétie e Arendt; 3. Il fascino della
schiavitù; 4. Dalla diagnosi alla prognosi.
Parole
chiave: libertà, verità, pensiero, schiavitù, potere, male.
Mai
sinora nella storia un regime di schiavitù è caduto sotto i colpi degli schiavi.
La
verità è che, secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino
al punto di farsi amare dall’uomo stesso;
che la libertà è preziosa solo agli occhi
di coloro che la possiedono effettivamente;
e che
un regime del tutto inumano, com’è il nostro, lungi dal forgiare esseri capaci
di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono
sottomessi, tanto gli oppressi quanto gli oppressori.
(Simone Weil, Riflessioni)
Introduzione.
C’è
una cellula di” Étienne de La Boétie” in ogni libertario:
nel” Bakunin” di “Stato e anarchia”, in “Simone
Weil”, negli autori delle più celebri distopie del Novecento – “Huxley e Orwell
“–, in “Hannah Arendt”…
L’influenza
che” La Boétie” ha esercitato su intere generazioni di intellettuali – e di
semplici anticonformisti “irregolari” in cerca di libertà – è notevolissima e
il presente saggio si propone con estrema umiltà di rendere omaggio al suo
antiautoritarismo, cercando nella letteratura e nel pensiero libertario alcune
tracce del suo capolavoro, il “Discorso della servitù volontaria”, il più
illuminante e prezioso testamento che” La Boétie” potesse lasciare al “nostro
enigmatico genere umano”.
Nato
nel 1530 a Sarlat, in Aquitania, “Étienne de La Boétie” fu giurista
nell’incendiaria epoca delle guerre di religione e amico di “Michel de
Montaigne”, il quale dedicò a “La Boétie” il capitolo XXVIII dei suoi Saggi –
intitolato “Dell’amicizia”.
“Montaigne”
capì che il suo amico fraterno avrebbe trasceso i secoli, al punto da scrivere: «non conosco nessuno che possa
stargli a confronto»
(Michel de Montaigne, 2014, p.170).
Questa
fascinazione di uno dei pensatori più celebri è dovuta principalmente al
messaggio di verità contenuto nel” Discorso”. Questo breve e sulfureo libello nacque da un proposito
ben preciso: dallo sforzo di dare un nome a un vizio così innominabile da
restare troppe volte innominato.
In effetti, il giovane giurista percepì
qualcosa di oscuro, di torbido e di paurosamente ambiguo nell’antico legame tra
comando e obbedienza.
La
Boétie “è angustiato fin dall’inizio da domande opprimenti:
“Vorrei
soltanto capire come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città,
tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non
quella che essi gli concedono;
che non ha potere di nuocere, se non in quanto
essi hanno la volontà di sopportarlo;
che
non saprebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo anziché
contrastarlo.
Si
tratta di una cosa enorme (…):
vedere
un milione di uomini servire in modo miserabile, il collo sotto il giogo, non
costretti da una forza superiore, ma in qualche modo (così sembra) incantati e
affascinati dal solo nome d’uno.”
(La
Boétie, 2014, p.30)
Qual è
l’arcano indicibile che spinge milioni di individui ad alienare la loro essenza
e ad
incatenarsi mani, piedi e cervello all’arbitrio di un solo uomo?
Per quale ragione frotte di esseri
intrinsecamente senzienti e cogitanti vengono attratti dal “fascino del nome
d’Uno”?
La
risposta del filosofo francese è al contempo semplice e desolante:
Gli
uomini non desiderano per forza la libertà, ma possono, al contrario, provare
una “libido serviendi”, una “masochistica brama per la servitù”:
Sono i
popoli che si lasciano o, piuttosto, si fanno maltrattare, dal momento che, smettendo di servire, sarebbero
liberi;
è il
popolo che si fa servo, che si taglia da solo la gola, che avendo la scelta tra
essere servo o essere libero rinuncia all’indipendenza e prende il giogo:
che
acconsente al proprio male o piuttosto lo persegue. (…) cosa può mai avere
l’uomo di più caro del riottenere i suoi diritti naturali, tornando, per così
dire, da bestia a essere umano?
Ma non
pretendo da lui tanto coraggio, gli concedo di preferire la vaga sicurezza di
una vita miserabile alla dubbiosa speranza di vivere felice.
(La Boétie, 2014, p.34)
Nella
dinamica della sottomissione non ci sono solo delle costrizioni esterne.
Il
dittatore non fa unicamente affidamento sulle armi.
L’imponente
palazzo di menzogne e crudeltà non si regge soltanto sulle spalle di uno
spudorato sterminatore di anime.
Chi
pensa che le alabarde, le guardie e le torri di sorveglianza proteggano i
tiranni, a mio avviso si sbaglia di grosso;
se ne
avvalgono, credo, più come cerimoniale e spauracchio che per la fiducia che vi
ripongono. (…)
Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono
le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno (…):
sono
sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli
tengono l’intero paese in servitù.
(La Boétie, 2014, pp.59-60)
La
perpetuazione della tirannide è garantita da una masnada di ministri, quattro o
cinque giannizzeri che comandano a loro volta altri iloti, innescando una
catena infernale di sudditanza e oppressione.
Oppressione
e sudditanza che prosperano sulla seducente e terribile facilità di servire,
sulla corruttibilità della natura umana, sull’assuefazione alla schiavitù.
Convergenze
tra “Shakespeare”,” La Boétie” e “Arendt”.
Nel
solco tracciato da La Boétie si inserisce una poesia.
Nella
vasta produzione letteraria di uno dei più grandi autori di tutti i tempi, “Master
William Shakespeare”, c’è un sonetto, il 94, in cui il “Bardo d’Inghilterra
spiega in poche righe il funzionamento del sistema potere”:
“Coloro
che hanno il potere di far male, e non lo fanno,
Non
fanno la cosa che più mostrano [di poter fare],
Che,
muovendo gli altri [ad agire], sono essi stessi come pietra,
Immoti
[impassibili], freddi, e lenti alla tentazione:
Coloro
giustamente ereditano le grazie del cielo
E amministrano
la ricchezza della natura senza spreco,
Coloro
sono i Signori e padroni dei loro volti,
Gli
altri soltanto ministri della loro eccellenza.
Il
fiore dell’estate è dolce all’estate,
Benché
per sé soltanto viva e muoia,
Ma se
quel fiore incontra vile contagio,
L’erbaccia
più vile ne soverchia in splendore la dignità:
Poiché
le cose più dolci divengono infette per le loro azioni,
I
gigli in putrefazione puzzano ben peggio delle erbacce.”
Il
sonetto necessita di un’indagine disvelatrice.
A tal
proposito, mi avvalgo della puntuale esegesi di uno dei più illustri critici
letterari italiani di “Shakespeare”,” Giorgio Melchiori,” autore del saggio “L’uomo
e il potere”, in cui propone l’analisi dettagliata di cinque sonetti
shakespeariani (20, 94, 121, 129, 146), rivelando per ognuno un profondo
contenuto etico-sociale.
Ci
focalizziamo sul 94, «unico sonetto politico di Shakespeare» (Melchiori, 1973, p.43), quattordici versi ermetici che
tratteggiano con impetuosa eloquenza e con lapidaria incisività i potenti e il
loro comportamento verso il mondo (nel significato più ampio del termine).
Il
grande drammaturgo delinea la personalità di due attori cardine della grande
tragicommedia umana: il potente e il suddito.
Entrambi
gestiscono e perpetuano, in modi differenti, la macchina potere, che – è bene
ribadirlo – non è detenuta soltanto da «coloro che hanno il potere di far male», ma
anche da chi rende questo male effettivo.
L’uomo
al vertice non è attivamente coinvolto nell’esercizio del potere, evita di
manifestarsi per ciò che è, limitandosi semplicemente a delegare l’esecuzione
del suo progetto politico ad altri, ai suoi ministri.
Non
c’è nulla di probo nell’azione “delegante” del potente, come vorrebbe
dimostrare una concezione cavalleresca del tiranno benefattore e paterno.
«Coloro
che hanno il potere» non mettono alla prova le loro «grazie», le qualità che si
addicono al sovrano attraverso l’azione;
al contrario, essi le ereditano «giustamente»,
ovvero secondo le regole.
Ciò
vuol dire che il sovrano ha quelle determinate qualità non per il fatto che è
di per sé virtuoso, ma perché le ha formalmente acquisite assieme al titolo di
re.
I potenti, «signori e padroni dei loro volti»
tutt’altro che valorosi, restando nell’oscurità più impenetrabile, non fanno
altro che affidare l’amministrazione delle «ricchezze della natura» ai loro
sgherri, che non si oppongono, si lasciano manipolare, remissivi, indifferenti
e per questo conniventi.
Nell’economia
della poesia particolare peso ha il contrasto tra ottava e sestina. Cambiano i
soggetti, ma la trama è la stessa.
Il
mondo della Natura – il giardino (fiori, erbacce, gigli) evocato nei versi
conclusivi – ha la funzione di riprodurre esattamente il mondo degli Uomini –
lo Stato (“Coloro”, “gli Altri”) rappresentato nelle prime strofe.
A questo punto, l’analisi di Melchiori è
illuminante nel carpire i sensi metaforici dei vari elementi naturali della
sestina:
«il fiore dell’estate è dolce», ovvero
socialmente utile grazie al suo profumo, ma può essere facilmente contagiato
dall’«erbaccia più vile» che «ne sovrasta in splendore la dignità», segno di una bellezza apparentemente
superiore, di un rango sociale elevato;
stessa
sorte hanno «le cose più dolci», vulnerabili e facilmente corruttibili a causa
delle loro azioni;
per
non parlare infine dei «gigli in putrefazione» che, essendosi corrotti,
«puzzano ben peggio delle erbacce.»
Shakespeare non fa che rivelare la natura
abietta e ipocrita di quel male «che assume i tratti della grazia» (Macbeth, IV. III.) ma che nasconde dietro a una
faccia serena e imperturbabile un animo vile, infettato da quel subdolo verme
chiamato potere.
Oltre
a ribadire i due principali leitmotiv dell’opera shakespeariana, il contrasto
tra essere e apparire e la brama di potere, il sonetto 94 pone in risalto – a
mio parere – una scottante questione morale:
è più turpe il corruttore o il corrotto, il mandante o
il mandatario?
Rispondere
tout court a questa domanda dall’aspetto aporetico appare velleitario.
Infatti,
questo argomento apre a scenari ben più vasti che richiederebbero una
trattazione a parte, ma mi sembra doveroso un richiamo al dibattito giuridico-morale
che è sorto durante i processi contro i criminali nazisti e che è stato oggetto
di particolare interesse per Hannah Arendt.
In un
saggio dedicato al “processo di Francoforte” – Auschwitz sotto processo – fa
emergere l’assoluta arbitrarietà e la totale mancanza di giudizio delle guardie
naziste, ovvero di coloro che non solo eseguirono gli ordini imposti dai
burocrati – i “colletti bianchi” – ma commisero anche crimini estremamente
disumani:
Nessuno
diede ordine di gettare per aria i bambini per farne altrettanti bersagli, o di
darli vivi in pasto alle fiamme, o di spiaccicare le loro teste contro un muro.
Nessuno
diede ordine di calpestare fino alla morte la gente, o di farne l’oggetto di
“sport” omicidi, come quello che consisteva nell’uccidere con una sola manata
(…).
Circondate
sempre da gente destinata a sparire nel giro di poco, le SS potevano davvero
permettersi di tutto con queste persone.
Non
sono ovviamente loro “i maggiori criminali di guerra”, per usare l’espressione
con cui sono stati definiti gli imputati di Norimberga.
Stiamo
parlando qui di individui che furono solo i parassiti dei “grandi” criminali.
Ma
quando li si guarda in faccia vien da chiedersi comunque se costoro non fossero
persino peggiori di coloro che essi accusano di aver causato tutto. (Arendt, 2010, pp. 210, 215).
Stiamo
parlando di meccanismi funzionali a un intero sistema in cui l’atto non
criminale costituiva l’eccezionalità e l’atto bestiale l’ordinarietà.
Perfino
nel caso di un regime integralmente burocratico, secondo Arendt non dovremmo
parlare di pura e semplice obbedienza ai superiori, ma di sostegno
all’autorità.
«Il
leader stesso non è mai più di “un primus inter pares”, un primo tra pari.
Coloro
che sembrano solo obbedirgli, in effetti lo sostengono…, e senza questa
“obbedienza” egli non potrebbe fare alcunché, resterebbe impotente» (Arendt, 2010, p.39).
È fondamentale sottolineare che gli ingranaggi di
quella macchina annientatrice avrebbero potuto respingere l’orrido comando
degli alti funzionari nazisti in nome di quella coscienza umana che non sarebbe
riuscita a sopportare il fardello troppo opprimente dell’assassinio;
hanno
invece scelto di servire il potere;
accettando di commettere atti efferati, hanno
rinnegato la loro libertà, e con essa la loro umanità.
Coloro
che d’altronde applicarono un minimo di giudizio e raziocinio – i cosiddetti
“irresponsabili” – scelsero la difficile via del dissenso pur di preservare la
loro dignità:
[I non-partecipanti] si chiesero fino
a che punto avrebbero potuto vivere in pace con la propria coscienza se
avessero commesso certi atti;
e
decisero che era meglio non far nulla, non perché il mondo sarebbe così
cambiato per il meglio, ma perché questo era l’unico modo in cui avrebbero
potuto continuare a vivere con sé stessi.
Ciò
spiega perché alcuni di loro scelsero infine la morte, quando furono obbligati
a partecipare in qualche modo agli atti del regime.
Per dirla in modo crudele, ciascuno di loro
rifiutò l’omicidio:
non
perché volesse continuare a obbedire al comandamento “non uccidere”, ma perché
non voleva passare il resto dei suoi giorni con un assassino – sé stesso. (Arendt, 2010, p.37)
Il
nazismo nacque e si sviluppò proprio grazie alla crisi delle facoltà
intellettive e della capacità di giudizio di gente ordinaria, determinata
soprattutto dalla precarietà delle condizioni socio-economiche – in una
Germania nettamente prostrata dalla sconfitta militare e da tutto ciò che ne è
conseguito in termini finanziari.
Infatti, come scrisse “Simone Weil” nel 1934 ,
«è molto
ingiusto dire che il fascismo annienta il pensiero libero; in realtà è
l’assenza di pensiero libero che rende possibile l’imposizione con la forza di
dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato» (Weil, 1983, p.123).
L’irragionevolezza, la disumanità, la
brutalità ascendono al potere soltanto quando conquistano milioni di esseri
umani vittime di fame e incultura, carichi di livore, insoddisfatti e per
questo bramosi di serenità e “stabilità”.
Tuttavia,
è bene tener presente che «non si può avere nulla per nulla. La felicità
bisogna pagarla» (Huxley,
2020, p.186),
in cambio
di beni inestimabili, ma tanto facili da perdere: verità, intelligenza e
libertà.
Il
fascino della schiavitù.
«Hitler,
nella sua mente priva di gioia, […] sa che gli uomini non vogliono solo agio,
sicurezza, poche ore di lavoro, buon senso; loro vogliono anche, quantomeno a
intermittenza, conflitto e sacrificio di sé, per non dire tamburi, bandiere e
parate della fedeltà.» (Orwell, 2022, p.186)
Così scriveva “George Orwell nella sua
recensione al “Mein Kampf” di Adolf Hitler, mettendo in evidenza la
volontarietà insita nell’atto di subordinazione.
La
violenza istituzionalizzata non può spiegare tutto.
Anche
il moderno” soft power” non potrebbe essere così pervasivo, se l’uomo fosse di
per sé incorruttibile, se egli fosse fermamente convinto che la felicità” hic
et nunc” è una mera illusione e che tutte le promesse fatte dai sedicenti
“amici del popolo” sono semplici imposture.
L’uomo
non solo è suggestionabile, ma pretende anche di essere felice a ogni costo.
È
forse questa pretesa di assoluta felicità che consente al demagogo di irretire
la sua coscienza attraverso un’intensa opera di propaganda fatta di parate e
scandita da ideali “duri e puri”.
Il piacere di sentirsi soddisfatti e appagati
dalle chimere offerte dall’imbonitore di turno sembra che sovrasti il desiderio
di agire in conformità con i propri pensieri.
Scrive” La Boétie”:
La
plebe, che nelle città è sempre la maggioranza, è per natura sospettosa nei
riguardi di chi l’ama e ingenua verso chi la inganna.
Non
pensiate esista uccello che si faccia prendere più facilmente in trappola, o
pesce che per ingordigia dell’esca abbocchi più in fretta all’amo, di quanto
tutti i popoli si facciano rapidamente sedurre dalla servitù, appena ne
avvertano il profumo sotto il naso;
ed è
straordinario vedere come si lascino andare tanto in fretta, non appena li si
adeschi. I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie
esotiche, le medaglie, i dipinti e altre droghe di questo genere
rappresentavano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro
libertà, gli strumenti della tirannia.
Erano
questi i mezzi, le pratiche, le lusinghe che gli antichi tiranni avevano a
disposizione per addormentare i loro sudditi sotto il giogo.
Così i popoli instupiditi, trovando belli
questi passatempi, divertendosi con il vano piacere che gli balenava davanti
agli occhi, si abituavano a servire in modo altrettanto sciocco, se non
peggiore, dei bambini, che imparano a leggere guardando le figure luccicanti
dei libri miniati.
(La Boétie, 2014, p.53)
Riprendendo
le parole del “Grande inquisitore”, personaggio centrale dei “Fratelli
Karamazov” di “Dostoevskij –
«nessuna
scienza darà loro il pane [agli uomini], finché rimarranno liberi;
ma
finirà che deporranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno:
“Fateci
vostri schiavi, ma sfamateci”.»
(Dostoevskij,
2003, p.274)
Gli
esseri umani preferiscono avere qualcuno che dica loro come comportarsi, che li
sfami e li curi, che li rimproveri per bene quando trasgrediscono le regole, ma
che li faccia sentire sempre al loro agio e li rassicuri quando le cose non
vanno per il verso giusto.
Essere
liberi comporta invece molta più fatica… Libertà è una prova di forza tra sé
stessi e il mondo;
significa responsabilità, autonomia di
pensiero e giudizio, indipendenza dalle altre individualità.
Non c’è in questa terra desolata nessun altro
bene che possa eguagliare il suo valore e la sua durata, che possa garantire la
stessa pienezza vitale che assicura il suo possesso.
Eppure, «la libertà è la sola cosa che gli
uomini non desiderano affatto, o almeno così sembra, per la semplice ragione
che se la desiderassero l’avrebbero;
come se rifiutassero questo bel guadagno,
soltanto perché troppo facile da ottenere.»
(La
Boétie, 2014, p.35)
Questa
congenita insofferenza alla libertà appare dunque la prima causa di tutte le
sofferenze che l’umanità ha patito nella sua storia e che, forse, continuerà a
patire fino alla sua definitiva estinzione.
Dalla
diagnosi alla prognosi.
Lo svelamento
di quest’arcano scandaloso non deve però farci perdere di vista l’efferatezza
di chi si approfitta delle debolezze umane per accrescere il proprio potere;
la tremenda malvagità di chi ricorre alla
propaganda irrazionale per recludere gli uomini a uno stato di Unmündigkeit, di
immaturità tipico dei bambini.
Non dobbiamo dimenticarci di quel male
parassitario che infetta la natura benigna al punto da convertirla in maligna
(vedi il sonetto 94).
D’altro
canto, c’è una mente che è in grado di vagliare ciò che recepisce dall’esterno.
La mente umana non è acritica.
L’uomo
è naturalmente razionale e, per riprendere “La Boétie”, non è soltanto in
possesso della sua autonomia,
«ma
anche della propensione a difenderla»
(La
Boétie, 2014, p.39).
Bisogna
capire ora se e come questa «propensione» possa soverchiare l’istinto alla
servitù, o per privare il tiranno del suo potere o per scongiurare un suo
avvento.
Cosa
può dunque contrastare la pervasività dell’inganno e della menzogna
sistematica?
Quali
armi ha l’uomo per combattere spiritualmente contro un sedicente dio?
C’è un modo per ridurre – non dico cancellare
– la suggestionabilità umana, ed è quello più naturale: riconoscersi l’un
l’altro come fratelli tutti unici:
Se
questa buona madre [la natura] ha dunque regalato a noi tutti la terra intera
per dimora, se ci ha tutti plasmati della stessa materia, affinché ciascuno
potesse rimirarsi e quasi riconoscersi nell’altro;
se ha
fatto a noi tutti questo gran dono della voce e della parola per familiarizzare
e meglio fraternizzare, producendo attraverso la dichiarazione comune e
reciproca dei nostri pensieri, una comunione della nostra volontà; (…);
se ha mostrato in ogni cosa che non voleva
tanto farci tutti uniti, ma tutti unici [tous uns], allora non vi è dubbio che
noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni;
e a
nessuno può saltare in mente che la natura abbia posto qualcuno in servitù,
avendoci posti tutti in compagnia.
(La Boétie, 2014, p.38)
Questa
cognizione può avvenire mediante una comunicazione interpersonale corretta e
sincera, che può dar libero sfogo all’energia della parola;
attraverso
«i libri e il sapere, che più di ogni altra cosa, danno agli uomini il
sentimento e l’intelligenza per riconoscersi e per odiare la tirannia»
(La
Boétie, 2014, p.49).
C’è
bisogno di «una educazione alla libertà, che dev’essere educazione anzitutto
sui fatti della diversità individuale e dell’unicità genetica, e i valori della
tolleranza e della reciproca carità»
(Huxley,
2020, p.314), così da rafforzare “la social catena”, presupposto fondamentale per
aspirare ad una comunità umana fondata sul concetto di Anna Arendt di
pluralità, su una condivisione dello spazio pubblico dove gli umani possono
rivelarsi per ciò che sono.
Inoltre,
è di vitale importanza difendere, finché si è ancora in tempo, ciò che resta
del genere umano, la sua storia, le sue espressioni vitali più elementari.
«Il retaggio dell’umanità – scrive
Orwell in 1984 – non si tramandava facendosi ascoltare, ma rimanendo sani di
mente»
(Orwell, 2021, p.387);
avendo
il coraggio di restare in minoranza, anche a costo di lottare contro l’intero
ordine mondiale;
mantenendo
in sé la ferrea convinzione che esiste una Realtà depositaria di una Verità
irrefutabile e incontrovertibile per cui 2 + 2 fa 4, e che nessun Partito può
mai imporre una irrealtà dove tutto è modificabile a seconda delle sue
esigenze.
Portare
avanti il retaggio dell’umanità significa anche combattere questo tipo di
relativismo che, portato alle sue estreme conseguenze, rischia di negare la
validità dell’esperienza, addirittura l’esistenza stessa di una realtà al di
fuori dell’individuo.
In
questo mondo tiranneggiato dalle opinioni più variegate e dalle prospettive più
capziose, bisogna «difendere ciò che [è] ovvio, banale e vero.
Le verità evidenti sono vere… Il mondo
materiale esiste, le sue leggi non cambiano.
Le
pietre sono dure, l’acqua è umida, gli oggetti senza un appoggio cadono verso
il centro della terra.»
(Orwell,
2021, p.446)
Guerra
non è pace, è annichilimento;
Libertà non è schiavitù, è controllo di sé e
delle proprie azioni;
Ignoranza non è forza, è morte dell’anima.
Il
dittatore che
cerca di pervertire il significato di questi concetti basilari minaccia di
creare una realtà allucinante nella quale le catene e le telecamere di
sorveglianza sono concepite come strumenti di libertà e lo stato perpetuo di
guerra diventa una consuetudine accettata passivamente;
in cui la storia è soltanto una sciocchezza destinata
ad essere spazzata via e l’umanità schiavizzata vive in un eterno presente
senza memoria né speranza.
A
questo mutevole mondo fantasmagorico, nel quale il nero può domani venir mutato
per decreto, non si oppongono che due fatti.
Uno è
che, per quanto cerchiate di rinnegare la verità, la verità continua a
esistere, per così dire, alle nostre spalle e che, di conseguenza, non potere
alterarla (…).
L’altro
è che, fino a quando qualche settore della terra rimarrà libero, la tradizione
liberale potrà continuare a vivere.
Ma se
il fascismo (o
il globalismo progressista quale nazi-fascismo. N.d.R.), o eventualmente una combinazione di
vari fascismi, conquista il mondo intero, queste condizioni cesseranno di
esistere.
(Orwell,
2013, p.210)
Le
forze che tentano di forgiare “un uomo nuovo” all’interno di un rinnovato
sviluppo storico sono sempre in agguato e – se non contrastate adeguatamente
con l’energia del pensiero – potrebbero prendere il sopravvento in qualsiasi
momento.
Per
tale ragione, è forse più utile cambiare prospettiva e dire, con “Carlo
Rosselli”, che
«non
si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva
e vigilante la coscienza della propria autonomia»
(Rosselli,
2009, p.89).
La libertà s’impone dunque come una enorme sfida
individuale.
Sta al
singolo scontrarsi con le sue incertezze, fermare quelle pulsioni che possono
farlo sbandare, e diffidare sempre di tutto ciò che luccica.
Certo,
possono, anzi, devono esserci persone più avvedute capaci di indicare la strada
da seguire, ma spetta al soggetto scegliere e percorrere la propria strada.
Come
direbbe “Michail Bakunin”, «se un popolo o un individuo non si foggia da sé un ideale,
nessuno naturalmente sarà in grado di imporglielo.»
(Bakunin,
2013, p.239)
Su
questo punto, c’è un episodio emblematico nel capitolo XV del romanzo di Aldous
Huxley, “Il mondo nuovo”.
Il Selvaggio, cresciuto lontano dalla civiltà
sterilizzante, tenta di ergersi a liberatore di quella “mirabile” umanità
assuefatta all’obbedienza, distruggendo il mezzo dell’intorpidimento, il soma –
una compressa che permette per pochi minuti una inebriante fuga dalla realtà, a
volte troppo aspra.
Rivolgendosi
alla folla inebetita, il Selvaggio grida:
«Vi
costringerò a essere liberi, lo vogliate o no.»
(Huxley,
2020, p. 173)
Ma
quella massa di inumani non riesce a comprendere quel messaggio di verità, e
così il tentativo rivoluzionario fallisce miseramente.
Questo ci fa porre una questione:
Come si può parlare di libertà a degli esseri
concepiti e cresciuti in provette proprio per essere adatti alla schiavitù e
per non provare amore e vere emozioni?
Come
si può parlare di libertà a degli individui abituati alla sudditanza, che non
hanno mai provato il sapore di una vita libera, che non sanno dunque il
significato stesso della parola “libertà”?
A
patto che non ci si arrenda alla visione di una parte del genere umano oppressa
e alienata, possiamo confidare, con “La Boétie”, in un’azione spontanea che
nasca dal dialogo, dal confronto, dal sapere antidogmatico, per far sì che quei
popoli trovino nella loro umanità un sentore di qualcosa che si avvicina
vagamente a quella che noi occidentali chiamiamo “libertà”.
L’umanità
non ha bisogno di un messia o di un salvatore, ma solo di uomini misurati – mi
riferisco a chi non accetta, in tempi di demenza collettiva, di farsi
contagiare dalla folla, a chi resta nell’ombra per scorgere un bagliore di
luce, a tutti quelli che non si lasciano schiacciare dal piede tirannico o dal
conformismo sociale… – che, con il loro esempio, contribuiscano ad abbattere i
muri eretti dalla forza subumana del potere statuale e da qualche forma
artefatta di religione per separare il genere umano.
Del resto, il metodo dell’isolamento dal mondo
esterno praticato dalle dittature è indispensabile per la perpetuazione del
potere, come dimostra questo passaggio tratto dal libro di “Emmanuel Goldstein”
(dissidente del regime di Oceania), contenuto in “1984”:
Per il
mantenimento della loro struttura [della struttura dei tre superstati] è
assolutamente necessario che non ci sia alcun contatto con le popolazioni
straniere…
Fatta
eccezione per i prigionieri di guerra, il cittadino medio dell’Oceania non ha
mai visto un cittadino dell’Eurasia o dell’Estasia e non gli è permesso
imparare lingue straniere.
Infatti, se gli fosse consentito entrare in
contatto con gli stranieri, scoprirebbe che sono creature simili a lui e che
ciò che gli è stato detto su di loro è perlopiù falso.
Il suo mondo impenetrabile finirebbe per
spezzarsi e la paura, l’odio e l’ipocrisia su cui si basa il suo stato d’animo
potrebbe evaporare. (…)
Fintanto
che [le masse] non abbiano termini di paragone a cui accostare il proprio
stato, non arriveranno mai neppure a prendere coscienza della propria
oppressione.
(Orwell, 2021, pp.572, 583)
Questo
spiega la ragione principale di alcuni provvedimenti adottati dai leader
comunisti fin dall’inizio della guerra fredda.
Basta
pensare al blocco di Berlino – prodromo del muro divisorio del ’61 – imposto da
Stalin nel giugno 1948 e durato all’incirca un anno.
«Quando
la cortina di ferro scende sull’Europa, Berlino forma un’enclave occidentale in
territorio sovietizzato:
è la
vetrina dell’Occidente, dunque un invito costante al paragone e alla fuga» (Furet, 1995, p.451)
L’Unione Sovietica voleva dunque evitare che
l’opinione pubblica tedesca constatasse le enormi differenze sociali ed
economiche tra la parte occidentale e la zona orientale dell’ex capitale del
Terzo Reich.
La
decisione stessa di censurare e mettere al bando libri eterodossi come “1984”
fu motivata dalla necessità di allontanare il più possibile le masse dalla
verità.
Il
profondo spirito libertario che dimora in ogni pensiero di “Smith” non poteva
non essere percepito come una minaccia da un sistema fondato sulla menzogna e
sulla malafede.
I
sovietici avevano ben capito ciò che si nascondeva nelle parole di quel
semisconosciuto giornalista inglese – infatti, nel blocco comunista (e non
solo) il romanzo, nato come strumento di resistenza a qualsiasi dittatura,
divenne più che altro un arguto manuale di dominio a disposizione di tiranni
senza scrupoli.
Chissà
cosa sarebbe accaduto se i sudditi delle cosiddette “democrazie popolari”
avessero avuto l’occasione di leggere e capire fino in fondo quel romanzo…
Sono
convinto che un libro così potente avrebbe avuto – e potrebbe avere tuttora –
la forza di cambiare il mondo.
La via
da percorrere è dunque tracciata e le alternative sono ben chiare.
Non è
determinismo, è puro individualismo.
L’uomo può trovare in sé con le sue forze
cognitive quella «propensione», per non soccombere sotto i colpi di un astuto
politicante, per costruire «una società non utopistica, meno perfetta e più
libera» (Nikolaj Berdjaev),
per annunciare in definitiva un futuro libertario.
A
distanza di quasi cinquecento anni, “La Boétie” non perde la sua veridicità,
rivelando ciò che molte volte resta celato.
Questo
giovane filosofo non morì in realtà all’età di trentatré anni nel 1563, perché,
come ogni genio, continua ad esalare il suo respiro anche dopo l’apparente
morte, a infondere il suo spirito indomito, tramite parole memorabili, a tutti
coloro che anelano alla libertà.
Come scrive Thomas Pynchon, «ciò che è
decisamente più importante, forse l’unica condizione necessaria, per essere
davvero dei profeti, è saper scavare più a fondo degli altri nei recessi
dell’anima umana.» (Pynchon, 2021, p. 318)
Ecco,
forse “Étienne de La Boétie” ci è riuscito.
Vorrei
concludere con una strofa, tratta da una poesia di “Orwell” intitolata A volte”,
nei giorni di metà autunno, che suona come una parenesi molto simile a quelle
lanciate da “Étienne de La Boétie” nel suo Discorso:
O tu
che passi, fermati e ricorda
quale
tiranno tiene legata la tua vita;
ricorda
l’ora, fissa e inconsolabile,
il
colpo devastante, il buio oltre.
Non
smettiamo mai di pensare, esistiamo!
Niccolò
Machiavelli e la
politica
senza scrupoli.
Storicang.it
- Abel de Medici – (23 giugno 2020) – ci dice:
Il
termine "machiavellico" è intriso di connotazioni negative.
Ma
l’uomo al quale si riferisce seppe comprendere con estrema lucidità – e grazie
anche alle sue esperienze negative – i meccanismi del potere.
Niccolò
Machiavelli, spesso accusato di essere cinico, fu un grande osservatore della
natura umana e molto onesto nello scrivere non come doveva essere l’esercizio
del potere, ma com’era in realtà.
ETÀ
MODERNA.
Niccolò
Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469, lo stesso anno in cui Lorenzo
de’Medici diventava di fatto signore della città.
Durante
la sua infanzia e adolescenza Niccolò ebbe modo di osservare come si esercitava
il potere e le sue conseguenze:
aveva nove anni quando Giuliano, il fratello
di Lorenzo, fu assassinato dalla famiglia Pazzi (quel particolare episodio
della storia è conosciuto come Congiura dei Pazzi), e durante i tredici anni
che seguirono fu testimone di come il signore di Firenze accumulava il potere
nelle sue mani e le conseguenze – buone e cattive – che ne derivavano.
Era il
terzo figlio di una famiglia abbastanza conosciuta, con un potere economico
modesto ma sufficiente per provvedere alla buona educazione dei figli.
Oltre
ai suoi maestri, Niccolò aveva a disposizione la biblioteca personale di suo
padre, ricca di opere dei grandi classici:
il
giovane sviluppò una passione speciale per la storia antica leggendo opere di
autori come Cicerone, Tucidide, Tito Livio, Polibio e Plutarco, tra gli altri.
I primi due, in particolare, dovettero
lasciare un’impronta nella coscienza e nei pensieri di Niccolò:
da
loro apprese che l’esercizio del potere spesso si discostava da ragioni morali
come la lealtà o l’etica.
Al
servizio della Repubblica.
Nel
1494, una volta terminati gli studi, Niccolò si integrò nella vita pubblica
come funzionario della Repubblica di Firenze.
In
quegli anni la città era nelle mani di “Girolamo Savonarola”, un predicatore
radicale con il quale Machiavelli era molto critico:
proprio
per quest’avversione nei confronti del religioso, durante i primi anni Niccolò
non rivestì nessuna carica importante.
Quando
però Savonarola venne dichiarato eretico e bruciato sul rogo nel 1498, la
fortuna del giovane Machiavelli cambiò in pochi giorni e gli venne affidato uno
dei posti più importanti, quello di secondo cancelliere, che si occupava della
politica estera e delle questioni militari.
Anche
se Machiavelli aveva sempre aspirato a dedicarsi alla politica, come
cancelliere non ebbe molta fortuna, sia perché coloro con i quali stipulava
accordi spesso cambiavano idea, sia perché in generale le alleanze erano molto
volatili.
Il suo maggior successo, nel 1509, fu riuscire
a riconquistare Pisa, un porto d’importanza vitale per la Repubblica di
Firenze, anche se gli costò dieci anni di fatiche e diverse alleanze fallite.
Molti dei suoi insuccessi si spiegano anche e
soprattutto grazie alla natura frammentaria della penisola italiana, dove
qualsiasi accordo, benché ottenuto con grande sforzo, poteva sfumare da un
giorno all’altro.
UN
PRINCIPE SENZA CORONA: LORENZO IL MAGNIFICO.
D’altro
canto le esperienze collezionate durante i quindici anni di servizio pubblico
servirono a Machiavelli come base per sviluppare il suo pensiero politico, rafforzando
le sue convinzioni sulla scarsezza di scrupoli dei governanti.
Due personaggi in particolare ebbero una
grande impressione su di lui.
Caterina Sforza, duchessa di Forlì, viene
descritta da Machiavelli come una donna spietata che avrebbe fatto qualsiasi
cosa pur di conservare il potere;
è possibile che Niccolò nutrisse del rancore
nei suoi confronti da quando Caterina aveva ritirato l’appoggio militare
promesso a Firenze contro Pisa.
A
pagarne le spese diventando lo zimbello di tutti fu proprio Machiavelli.
Il
secondo personaggio fondamentale per comprendere il pensiero e le opere del
fiorentino è Cesare Borgia, il figlio di Papa Alessandro VI, che grazie alla
sua ambizione e alla sua totale mancanza di scrupoli riuscì a creare per sé stesso
un effimero e piccolo ducato in Romagna.
Prigione
ed esilio.
La
carriera politica di Machiavelli fu stroncata inaspettatamente nel 1512, quando
le truppe fiorentine furono sconfitte a Prato da un esercito spagnolo agli
ordini di Papa Giulio II.
Questa
disfatta spianò la strada per il ritorno della famiglia Medici alla signoria di
Firenze e la persecuzione di coloro che avevano tramato per esiliarli dalla
città nel 1494.
Una
delle persone coinvolte aveva in suo possesso un foglio su cui aveva annotato
diversi nomi, tra i quali quello di Machiavelli, che – nonostante non avesse
partecipato alla congiura – fu arrestato e torturato.
Per
sua fortuna dopo poche settimane fu eletto papa Leone X, di nome Giovanni
de’Medici, che come gesto di buona volontà per l’inizio del suo pontificato
proclamò un’amnistia.
Machiavelli
poté dunque uscire dal carcere, ma i sospetti su di lui non si dissiparono – in
effetti sarebbe stato arrestato nuovamente nel 1521 – e la sua carriera
politica poteva dirsi perduta.
Si ritirò
nella sua dimora a San Casciano in Val di Pesa, nei pressi di Firenze, dove
trascorse diversi anni in isolamento.
All’inizio
di certo si dedicò all'agricoltura e all'allevamento di bestiame, ma nel 1521
la sua sorte iniziò a cambiare in meglio:
dopo
essere stato liberato dal secondo arresto, la corporazione della lana di
Firenze gli incaricò di mediare per ottenere la liberazione di alcuni
lavoratori che erano caduti nelle mani dei banditi.
Machiavelli
ebbe successo e giocò alla lotteria una parte della ricompensa che gli
spettava, vincendo 20.000 ducati, una somma che gli permise di vivere
comodamente fino alla fine dei suoi giorni.
Negli
anni del suo esilio Machiavelli coltivò la sua passione per la scrittura, e
trattò diversi generi e temi.
E
nonostante la nuova e più comoda vita, la produzione letteraria di Machiavelli
risale proprio agli anni di isolamento.
In
quel periodo si dedicò alla scrittura, coltivando diversi generi e temi:
la
politica, la storia, e finanche il teatro e la poesia.
Anche se divenne famoso per il suo pensiero
politico, fin da giovane fu un amante delle arti:
componeva
sonetti come passatempo e scrisse diverse opere drammatiche.
Il
principe e l’esercizio del potere.
Nel
1513 iniziò la sua opera più famosa, Il principe – il cui titolo originale è “De
Principatibus”, "Sui principati" – nel quale riversò le esperienze
vissute durante gli anni trascorsi in politica.
Anche
se oggi è uno dei trattati di scienza politica più famosi, a suo tempo non fu
ben accolto:
si
pubblicò cinque anni dopo la morte del suo autore, nel 1532.
Poco
dopo venne incluso nell’Indice dei libri proibiti dalla chiesa a causa del
disprezzo che mostra per l’etica del potere, e fu solo durante l'Illuminismo
che il testo ricevette una certa attenzione, anche se maggiormente negativa:
la famosa frase “il fine giustifica i mezzi”
non è di Machiavelli – anche se è a lui popolarmente attribuita – ma proviene
da un’annotazione che fece Napoleone sulla sua copia de” Il principe”.
Il
libro voleva essere un trattato pratico su come esercitare il potere in maniera
efficiente.
Per
scriverlo Machiavelli si ispirò in gran misura all’astuto Cesare Borgia, che per l’autore incarna le virtù
che deve possedere un principe:
non necessariamente positive o morali, ma
quelle che meglio assicurano il potere.
Contrariamente
a quanto si suole attribuirgli, Machiavelli non è del tutto alieno alle
questioni etiche:
una
delle sue più grandi preoccupazioni è data dal famoso dilemma su cosa sia
meglio per un governante, se essere amato o temuto.
Lo studioso fiorentino sosteneva che l'ideale sarebbe
riuscire a essere entrambe le cose ma, nel caso in cui si debba
obbligatoriamente scegliere,
«è molto più sicuro per il principe essere
temuto che amato, quando fosse assente uno dei due.
Perché,
degli uomini si può dire in generale questo: che sono ingrati, volubili,
simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, desiderosi di guadagno.
E, mentre fai loro del bene, sono tutti tuoi,
ti offrono il sangue, la roba, la vita, i figli, quando il bisogno che tu hai
di loro è lontano;
ma,
quando esso si avvicina, essi si rifiutano e si ribellano.
E il principe, che si è fondato sulla loro
parola, trovandosi senza altra difesa nel momento del pericolo, va incontro
alla rovina».
Dal
testo emerge il ricordo degli anni di Machiavelli come cancelliere:
secondo lui i suoi più grandi errori furono
causati dall’essersi fidato della parola di altri.
(La
famosa frase “il fine giustifica i mezzi” in realtà non è di Machiavelli:
proviene da un’annotazione che fece Napoleone sulla sua copia di “Il Principe”)
D’altro
canto non significa che per Machiavelli la crudeltà dei governanti fosse
auspicabile, ma che dovesse piuttosto essere usata con buona misura:
«[...] Dico che ogni principe deve
desiderare di essere ritenuto pietoso e non crudele.
Deve tuttavia avere l’accortezza di non usare
male questa pietà.
[...] E tuttavia il principe deve essere cauto
nel credere all’esistenza di pericoli e nell’agire, né deve farsi paura da sé
stesso.
Deve
saper conciliare prudenza e umanità, affinché la troppa confidenza in sé non lo
renda imprudente, e la troppa diffidenza negli altri non lo renda
intollerabile».
Machiavelli
ribadisce che il governante che raggiunge il potere con mezzi crudeli, appena
lo ha ottenuto deve cambiare il suo modo di agire per conquistare rapidamente
il favore dei governati, ma senza smettere mai di essere temuto dagli eventuali
nemici:
«[...]
L’amore si
fonda su un vincolo morale, il quale, poiché gli uomini sono tristi, è infranto
ogni volta che contrasta con il proprio interesse, mentre il timore è tenuto
ben saldo dalla paura della pena, che non abbandona mai».
Gli
ultimi anni.
Anche
se Cesare Borgia gli era servito da ispirazione per scrivere il suo libro,
Machiavelli scelse di dedicare” Il Principe” alla famiglia Medici per cercare
di guadagnarsi le simpatie dei signori di Firenze.
Lo
stratagemma funzionò e gli valse il favore del cardinale Giulio de’Medici, che
nel 1523 venne eletto Papa con il nome di Clemente VII.
Questi, oltre ad alcune commissioni
diplomatiche, chiese a Machiavelli di elaborare due opere sulla storia di Firenze:
“L’arte
della guerra”, un trattato storico-politico sotto forma di dialogo che emulava
l’opera di Platone, e “le Istorie Fiorentine”, una raccolta di otto libri sulla
storia della città.
Il
Papa lo nominò pure sovrintendente delle fortificazioni: sembrava che
finalmente le disgrazie fossero finite per Niccolò.
E
invece la sua fortuna non sarebbe durata.
Nel
1527 i Medici furono esiliati nuovamente da Firenze e il lavoro che Machiavelli
aveva portato avanti per guadagnarsi il loro favore gli si ritorse contro:
si candidò alle nuove istituzioni repubblicane
e fu rifiutato, un episodio che gli causò un enorme dolore.
Pochi
giorni dopo si ammalò improvvisamente e, in poche settimane, il 21 giugno del
1527, morì.
Abbandonato
da tutti, fu sepolto nel sepolcro familiare nella basilica di Santa Croce.
Dopo
secoli di ostracismo, durante l'Illuminismo la figura di Machiavelli venne
rivalutata.
Molti
lo vedevano in una luce negativa, ma alcuni compresero che i suoi presupposti
potevano sembrare cinici, ma almeno erano sinceri e coerenti con il mondo in
cui gli era toccato vivere.
LE
ISTITUZIONI E LE PAROLE.
IL
MUSEO DELLA NATURA E
DELL’UOMO DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA.
Leparoleelecose.it
– (11 – 7 - 2023) - Luca Illetterati – ci dice:
Nelle
settimane scorse è stato inaugurato a Padova il “Museo della Natura e
dell’Uomo”:
«il
più grande museo scientifico universitario d’Italia» come si legge con
giustificato orgoglio sul sito dell’Università di Padova.
Il Museo
si estende infatti su oltre 4000 mq e si articola in quattro sezioni: antropologia, geologia, mineralogia e
zoologia.
Non
sono un esperto di musei scientifici e non sono perciò in grado di darne una
valutazione, per così dire, “tecnica”.
Mi è sembrato
però molto bello, ricco di reperti e decisamente ben strutturato nel suo
impianto divulgativo.
Ciò di
cui vorrei però discutere è la denominazione:
Museo
della Natura e dell’Uomo, con i due termini enfaticamente scritti con la
lettera maiuscola.
Una
denominazione che, alla luce del vivacissimo dibattito scientifico
internazionale tanto intorno al concetto di natura quanto intorno al concetto di umano appare perlomeno problematica, se
non, addirittura, anacronistica.
Per
evidenziare e spiegare in che senso quella denominazione sia problematica e in
che senso possa apparire anacronistica, vorrei, senza ovviamente alcuna pretesa
di esaustività, fare qui riferimento ad alcuni contributi del dibattito recente
che investono in modo piuttosto esplicito e interessante la questione.
Mi riferirò in particolare ad alcuni testi di
tipo filosofico, sociologico, antropologico e linguistico che mettono in
questione tanto il concetto di Natura quanto quello di Uomo e che soprattutto, almeno in alcuni
casi, evidenziano esplicitamente e con forza la problematica relazione di
rimando reciproco che intercorre tra queste due nozioni.
Nel fare questa operazione non intendo
necessariamente fare mie le tesi dei testi a cui farò cenno, né pretendo di
ritenere che questi siano gli unici testi ai quali ci si debba rivolgere
all’interno di una discussione relativa al termine natura e al termine uomo.
Ciò che intendo piuttosto proporre nel solo
cursorio attraversamento di questi testi è semmai un esercizio di
contemporaneità, per usare una felice espressione di “Francois Hartog”, ovvero
un esercizio di consapevolezza nei confronti di alcune delle nozioni «regolatrici del nostro spazio
pubblico»
che nella loro assunzione irriflessa portano sempre con sé un significato
implicito e non di rado ideologico che è compito della critica portare in
superficie.
2.
Assoggettamento.
Il
concetto di natura sembra per molti versi essere, anche alla luce delle grandi
discussioni intorno alla nozione di Antropocene, alla “crisi ambientale” e al “climate
change”, uno dei concetti fondamentali del nostro tempo.
Tale
centralità è tuttavia accompagnata, sempre più spesso, da una considerazione
critica circa ciò a cui questo concetto pare rinviare, ovvero intorno alla
specifica semantica che esso sembra veicolare.
Nel
2022” Philip Blom”, grande divulgatore tedesco soprattutto di questioni storiche,
ha scritto un libro che si intitola:
Die Unterwerfung. Anfang und Ende der
menschlichen Herrschaft über die Natur, ovvero, letteralmente, Assoggettamento.
L’inizio
e la fine del dominio dell’uomo sulla natura.
Il
libro è stato recentemente tradotto da Marsilio con un titolo un po’ più
prudente:
“La
natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea”. In questo libro, di godibile
lettura e decisamente molto informato, Blom scrive:
«L’assoggettamento
della superficie terrestre e la conquista sempre più capillare della
stratosfera sono espressione di un unico delirio collettivo, l’idea ormai
onnipresente per cui l’uomo (e non a caso dico «uomo», al maschile) sarebbe un
che di superiore alla natura, non un aspetto della natura stessa, e quindi
avrebbe il diritto, anzi il dovere di soggiogarla.
L’uomo così inteso si percepisce come un
essere sovraordinato agli animali e alle altre creature viventi, vede la natura
come un palcoscenico delle proprie ambizioni, come una riserva di materie
prime.
E da quella posizione di presunto privilegio
parte alla conquista del pianeta intero, per sottometterlo in modo inesorabile
alla sua volontà».
Proprio
perché pensando la natura tendiamo in qualche modo a pensare il modo in cui
l’uomo si è rapportato ad essa, abbiamo sempre più difficoltà, secondo Blom, a
parlare di natura.
Blom non bandisce il termine natura, ma avverte la
necessità di essere consapevoli del fatto che «le difficoltà teoriche sono
insite nella parola stessa» e hanno a che fare in modo niente affatto marginale
con la sua correlazione al termine uomo.
Dentro
questa correlazione, infatti, secondo Blom, «la natura si riduce a un che di muto,
a una pura risorsa, a un’esternalità economica».
In questo senso, un pensiero che voglia porsi
criticamente rispetto a quella condizione di assoggettamento e sottomissione
della natura da parte dell’umano non può non mettere in discussione – sostiene
Blom – tanto il concetto di natura e quanto quello di uomo.
3.
Without nature.
La
critica al binomio uomo/natura è un tratto significativo di molti lavori che si
sono occupati da diversi punti di vista della necessità di ripensare il nostro
rapporto con il mondo.
Tale
critica è ad esempio esplicita nei lavori di “Timothy Morton”.
Morton
è un filosofo britannico che lavora negli Stati Uniti ed è indubbiamente in
ambito filosofico uno dei pensatori oggi tra i più impegnati nell’elaborazione
di un pensiero ecologico.
Una
delle tesi fondamentali di uno dei suoi libri più noti, cioè Being ecological (The MIT Press 2019) è l’idea che lo sviluppo di un
pensiero autenticamente ecologico, ovvero di un pensiero in sé stesso ecologico e non
di un pensiero che assume come oggetto l’ecologia, implica innanzitutto una
messa in discussione del modo in cui l’umano si è pensato nel suo rapporto con
la realtà.
Mettere in discussione questo rapporto significa, per
Morton, mettere gioco forza in discussione tanto l’idea di natura quanto l’idea
di uomo, le quali sono, secondo il filosofo britannico, due nozioni intimamente
correlate l’una all’altra, in quanto frutto entrambe di una specifica
metafisica e di una specifica visione del mondo fondate sull’assunzione
dell’umano come fulcro e fondamento di tutto ciò che è.
La
natura, infatti, secondo Morton, è una nozione direttamente dipendente da una
concezione dell’umano inteso come l’altro dalla natura e come ciò che, al
contempo, proprio in quanto altro da essa e ad essa superiore, sarebbe ciò in
cui la natura trova il suo senso.
L’umano e il naturale, secondo Morton, indicano cioè
dei modi d’essere che da una parte si definiscono reciprocamente, dall’altro lo
fanno all’interno di una dinamica in cui l’umano si pone come un principio
esterno e superiore alla natura. Scrive a questo proposito Morton:
«abbiamo
pensato in tutti i modi per circa dodici millenni di essere in cima alle cose,
fuori dalle cose od oltre le cose, in grado di guardare dall’alto e decidere
esattamente il da farsi».
L’utilizzo
della prima persona plurale rimanda ovviamente a un ‘noi’ che non è
onnicomprensivo.
Non
tutte le culture hanno pensato infatti in questo modo.
Il
‘noi’ cui si riferisce Morton è un ‘noi’ specificamente situato e corrisponde
sostanzialmente alla cultura occidentale così come questa è venuta a
svilupparsi soprattutto all’interno del pensiero moderno.
Secondo
Morton, il concetto di natura, ovvero il modo in cui ‘noi’ tendiamo perlopiù a
pensare il mondo indipendente da noi, è figlio di questa concezione, ovvero
sarebbe lo specchio di una concezione della realtà già interpretata da
quell’ente – l’essere umano – che si pone fuori di essa e che la guarda
dall’alto.
Il concetto di natura sarebbe cioè innestato
in una maniera di guardare le cose che muove dall’assunzione della prospettiva
dell’umano come se questa fosse la prospettiva assoluta, che è appunto ciò che
chiamiamo antropocentrismo.
Per
questo, secondo Morton, pensare in maniera ecologica significa, in primo luogo,
«sbarazzarsi di questa idea della natura».
E
sbarazzarsi di questa idea della natura, implica ovviamente anche sbarazzarsi
di una certa idea di uomo.
Pensare
in modo ecologico, continua ancora Morton, significa infatti pensare «le
conseguenze involontarie dell’antropocentrismo», che è a sua volta il punto archimedeo
a partire dal quale è stata pensata quella realtà che ancora ci ostiniamo a
chiamare natura.
In
quella denominazione sarebbe depositata, secondo Morton, la presa di distanza
dell’umano dalla natura, la quale a sua volta costituirebbe, dentro questo
paradigma – si perdoni l’eccesso di semplificazione – un oggetto che riceve il
suo statuto ontologico semplicemente in quanto altro e opposto rispetto al
soggetto.
“Natura e Uomo”, sarebbe in questo senso uno
di quei dualismi – insieme a “Natura e Storia”, “Natura e Libertà”, “Natura e
Cultura” – dentro cui è ingabbiato il pensiero moderno.
Dualismi
dai quali, secondo Morton, è necessario liberarsi se si vuole pensare in modo
autenticamente ecologico:
«è questa inflessibile separazione
delle cose in soggetti e oggetti a far nascere la perturbante, proibita zona di
mezzo degli esclusi, del terzo escluso, fatta di entità che sono vicine a “me”
– la fonte dell’antisemitismo, tanto per dire – l’infinita sorveglianza di ciò
che conta come umano, la protezione dell’Homo Sapiens dai Neanderthal».
In
quest’ottica, afferma con enfasi Morton, «ciò che chiamiamo Natura (…) è
direttamente l’Antropocene nella sua modalità meno ovvia».
A
partire da questa analisi Morton propone l’idea di una ecologia senza natura (“Ecology without Nature” è il titolo
di un suo libro del 2007 pubblicato da Harvard University Press).
Il
concetto di Natura sarebbe infatti un concetto, se così si può dire,
radicalmente anti-ecologico:
in
quanto appiattente e reificante esso sarebbe infatti un concetto che assume
senso solo nella sua differenziazione dall’umano e che in questo dualismo
impedirebbe di fatto all’umano stesso di ripensarsi ecologicamente, ovvero di
ripensarsi fuori dalla logica oppositiva e gerarchica cui il concetto di natura
intrinsecamente rinvia.
4.
Natura come nome proprio.
L’idea
di Morton secondo la quale il concetto di natura è quello del quale ci si deve
sbarazzare per riuscire a pensare il mondo e a pensare se stessi in modo
autenticamente ecologico è per molti versi coerente con l’impostazione di
pensiero di “Bruno Latour”, il quale, all’interno delle famose “Gifford
Lectures “del 2013, diventate poi un libro – “Face à Gaïa”. Huit conférences
sur le nouveau régime climatique (La Découverte 2015) – scrive:
«L’ecologia,
lo si sarà compreso, non è l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma
la fine della “natura” intesa come concetto che ci consentirebbe di riassumere
i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli».
Anche
in questo caso, l’idea di un pensiero ecologico, piuttosto che costituirsi nei
termini di un pensiero della natura o sulla natura, sembra rinviare alla
necessità di una radicale decostruzione del suo concetto.
Nell’epoca che chiamiamo Antropocene, ovvero in quell’epoca che altri nel
tentativo di politicizzare la questione hanno chiamato anche Capitalocene, la quale è l’epoca che segna, per
usare una felice espressione di “Jason Moor”e, la fine della natura a buon
mercato, il
concetto di natura si rivela, scrive Latour, «come una versione monca,
semplificata, esageratamente moralistica, eccessivamente polemica,
prematuramente politica dell’alterità del mondo a cui dobbiamo aprirci per non
diventare pazzi – diciamo alienati – in massa».
In
fondo, l’idea
stessa di Antropocene è già in sé stessa, secondo Latour, la critica al
concetto di natura, o se si vuole la manifestazione della necessità di andare
oltre ad esso: «è necessario riassumerlo in una breve formula: agli occidentali
e a coloro che li hanno imitati la “natura” ha reso il mondo inabitabile».
La
nozione di natura costituisce, ancora una volta, una sorta di incorporazione di
quella peculiare postura di dominio e sfruttamento assunta dagli umani nei
confronti del mondo che ha condotto a pensare, in termini non semplicemente funzionali,
alla possibilità stessa della fine del pianeta.
In
questo senso il concetto di Natura è un concetto che, nell’ottica di Latour,
appartiene al passato, a una sorta di” Ancien Régime” in cui esso era
irrimediabilmente connesso al concetto di Uomo, ovvero a quel concetto che
ancora una volta nella sua pretesa neutralità e non marcatezza nascondeva
invece una peculiare figura dell’umano, una declinazione marcata di esso.
In
questa contrapposizione – quella fra uomo e natura – il binarismo uomo-donna
giocherebbe infatti un ruolo niente affatto banale.
La donna è stata infatti perlopiù identificata
nella storia con la dimensione naturale, ovvero con la dimensione riproduttiva
e generativa, e contrapposta così all’uomo, il quale definisce la propria
funzione per molti versi in termini di alterità e differenza rispetto a ciò che
è semplicemente naturale e in questo senso femminile.
Questa
dimensione di alterità e differenza rinvia dunque allo spirituale come l’altro
dal naturale, al sociale e al pubblico come contrapposto al domestico, e dunque
alle funzione di dominio e potere della e sulla natura e conseguentemente della
e sulla donna, come hanno sostenuto alcune importanti studiose esponenti del
cosiddetto ecofemminismo come “Carolyn Merchant “(The Death of Nature: Women, Ecology
and the Scientific Revolution, Harper Collins 1980) o Val Plumwood (Feminism
and the Mastery of Nature , Routledge 1993).
Per
rendere esplicito che il concetto di natura non è un termine neutro, ma un
termine che si pone all’interno di una costellazione di rimandi e di relazioni
che implicano la dimensione di un Soggetto-Uomo a partire dal quale la natura
viene pensata, in “Facing Gaia” Latour scrive tanto il termine Natura quanto il
termine Uomo con l’iniziale maiuscola.
Scriverlo
in questo modo, dice Latour, è un modo per rendere quanto più esplicito
possibile che Natura è «una sorta di nome proprio, il nome di una figura
cosmologica fra tante, e a cui impareremo ben presto a preferire un’altra
figura, designata da un altro nome proprio, e che si farà carico, in modo
completamente diverso, di altri esistenti e di altri modi di collegarli,
imponendo altre obbligazioni, altre morali e altre leggi».
La
lettera maiuscola è dunque usata da Latour nel corso di tutto il testo per
indicare non la solennità dell’ambito considerato, quanto piuttosto il fatto
che quel nome indica una peculiare figura, una peculiare declinazione del
dominio a cui si riferisce.
Parlando
di Natura e di Uomo (invece che di natura e di uomo) Latour intende perciò
parlare di un certo modo attraverso cui l’umano ha pensato sé stesso e il
mondo:
un
modo segnato dal dominio di una parte sull’altra, dalla convinzione che il
naturale, così distanziato e differenziato, è un ambito che assume senso solo a
partire dall’umano e che dunque l’umano ha conseguentemente a disposizione.
Sulla
base di questa diagnosi, quello che Latour propone è di tentare di fare un «un
passo indietro con il termine così intrigante di “Natura”, di cui dimentichiamo
troppo spesso, anche quando a esso aggiungiamo la maiuscola e le virgolette,
che non è un dominio ma un concetto».
Latour
propone di fare con la parola Natura ciò che già abbiamo imparato a fare con la
parola Uomo:
«Ricorderete
sicuramente l’epoca non così remota – prima della rivoluzione femminista – in
cui si utilizzava la parola “uomo” quando si intendeva parlare di chiunque, in
modo indifferenziato e piuttosto sciatto.
Per contro, quando si adoperava il termine
“donna”, si trattava necessariamente di un vocabolo specifico che non poteva
designare altro se non quel che allora chiamavamo il “sesso debole” o il
“secondo sesso”.
Nel
linguaggio degli antropologi ciò significa che il termine “uomo” è una
categoria non marcata: non pone alcun problema e non attira l’attenzione.
È
quando si utilizza la parola “donna” che l’attenzione è richiamata su un tratto
specifico, ovvero appunto il suo sesso, ed è questo tratto che ne fa la
categoria marcata che si distacca quindi dalla categoria non marcata che le
servirà da sfondo.
Di qui gli sforzi per sostituire “uomo” con “umano”, e
far sì che questo termine comune alle due metà della stessa umanità stia a
significare al contempo la donna e l’uomo – ciascuno con il proprio sesso o, in
ogni caso, il proprio genere che li distingue entrambi, per così dire, allo
stesso modo».
5.
Natur-a, natur-e
Latour intende sostituire il nome proprio
Natura con un altro nome proprio: Gaia, parola assai controversa che egli
prende da” James Lovelock “e che egli assume nella consapevolezza che si tratta
di una parola insieme mitica, scientifica, politica e, probabilmente, anche
religiosa:
«Gaia è qui presentata come l’occasione di un
ritorno sulla Terra che consenta una versione differenziata delle rispettive
qualità richieste alle scienze, alle politiche e alle religioni, ricondotte
finalmente alle definizioni più modeste e terrestri delle loro antiche
vocazioni».
Per
quanto alcune delle intenzioni di fondo lo accomunino a Latour, diverso è il
modo di procedere di “Philippe Descola”.
Par-delà nature e culture – dove l’idea di “oltre” vuole indicare la necessità
di porsi in un orizzonte di superamento rispetto a un dualismo che impedirebbe
di pensare in modo plurale e inclusivo i termini coinvolti – è il titolo di un
imponente lavoro pubblicato da Gallimard nel 2005 e riproposto nel 2021 in
italiano da Raffaello Cortina.
Qui “Descola”,
che come noto fino al 2000 è stato il titolare della cattedra di Antropologia
della natura al Collège de France e quindi Direttore del famosissimo
Laboratorio di antropologia sociale fondato da “Claude Lévi-Strauss”, si
concentra appunto sul problematico dualismo che caratterizza l’intera cultura
moderna occidentale fra il naturale e il culturale.
Lo
studio di Descola delle diverse forme di atteggiamento in cui nelle diverse
società umane viene pensato il rapporto tra l’umano e ciò che noi chiamiamo il
naturale mostrerebbe che quella forma di oggettivazione della natura
caratteristica del pensiero occidentale, insieme alla sua correlata
contrapposizione a un mondo culturale che sarebbe invece proprio solo degli
umani non è affatto un tratto universale, e dunque una caratteristica specifica
degli umani, bensì una interpretazione decisamente etnocentrica del rapporto
fra l’umano e la natura. Il concetto di natura inteso come contrapposto al
concetto di cultura si è affermato, scrive Descola, in tempi tutto sommato
recenti.
Esso si sarebbe infatti sviluppato in Europa solo in
epoca moderna quando con natura, appunto, si è cominciato a intendere «un
dominio di oggetti retti da leggi autonome sulla base del quale l’arbitrio
delle attività umane poteva dar prova del suo seducente splendore».
In
questo senso, come ricorda Nadia Breda nell’introduzione alla prima edizione
italiana del libro di Descola (Seid Editori 2014), ciò che l’indagine
antropologica di Descola in qualche modo costringe a intraprendere è una sorta
di pluralizzazione del concetto di natura, «che con questo lavoro diventa
“natur-e”, “diversità di nature” e infine nel dibattito antropologico e
scientifico più ampio sedimenterà il concetto di “multinaturalismo”».
Secondo
Descola, non si dovrebbe più parlare di natura al singolare, se non, appunto,
alla maniera di Latour, accompagnando la parola con la lettera maiuscola e per
intendere con essa quella natura che caratterizza la modernità europea e
occidentale.
Si
dovrebbe invece parlare di natur-e, al plurale, mettendo così radicalmente in
discussione gli «attributi della natura unica del naturalismo» e insieme ad
essi gli attributi di un concetto di umano che a quella natura unica è
inestricabilmente connesso.
La natura del naturalismo, infatti, secondo
Descola, «nel suo aspetto singolare, fa direttamente riferimento a questo
dominio ontologico muto e impersonale i cui contorni furono tracciati
definitivamente con la rivoluzione meccanicistica».
Rifacendosi
anche ai celebri saggi di “Erwin Panofsky” sulla prospettiva e chiamando dunque
in causa anche le modalità attraverso cui in epoca moderna in Europa viene
rappresentata la natura, Descola osserva che il processo di oggettivazione
operato dal soggetto sulla natura produce un doppio effetto: da una parte «crea
una distanza tra l’uomo e il mondo restituendo all’uomo la condizione di
acquisizione di autonomia nelle cose», dall’altra «sistematizza e stabilisce
l’universo esteriore proprio conferendo al soggetto il dominio assoluto
sull’organizzazione di questa esteriorità nuovamente conquistata».
L’uomo, cioè, – e il termine è anche qui usato
in questo modo proprio per enfatizzare che si tratta di una specifica
figurazione e declinazione dell’umano – acquisisce autonomia dalla natura,
facendo della natura un oggetto regolato da leggi eterne e inviolabili
distanziato perciò dall’umano inteso come altro risetto ad essa.
Questo processo di autonomizzazione dell’umano
dal naturale e del naturale dall’umano, che Descola con espressione insieme
forte e paradossale paragona a un colpo di stato, rappresenterebbe appunto il
processo attraverso il quale la modernità nascente libera l’uomo dall’insieme
degli oggetti animati e inanimati, facendone un soggetto esterno alle cose a
partire dal quale viene legittimata la sua posizione di dominio su di esse.
6. Natura e Uomo.
In The
Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist
Ruins (Princeton University Press 2015, trad. it. Keller 2021) l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing
inizia la sua ricerca sul mondo dei funghi matsutake – un fungo pregiatissimo
che cresce all’interno di paesaggi perturbati dall’azione antropica – mettendo
da subito in questione la nozione di natura propria della modernità
occidentale.
Una
messa in questione che, ancora una volta, non riguarda solo ciò che chiamiamo
Natura, ma che coinvolge anche l’altro termine, che secondo “Lowenhaupt Tsing”
per molti versi costituisce il fondamento stesso della nozione di Natura e
rispetto al quale essa comunque trova la sua determinazione e definizione –
ovvero il termine Uomo.
Scrive
infatti “Lowenhaupt Tsing”:
«Sin
dall’Illuminismo, i filosofi occidentali ci hanno proposto una Natura maestosa e universale, ma anche passiva e
meccanica.
Natura
come scenario e risorsa per le intenzioni morali dell’Uomo, in grado di
controllarla e addomesticarla.
Il
compito di ricordarci delle attività vitali di tutti gli esseri viventi, umani
e no, veniva lasciato agli autori di favole, anche non occidentali e non
civilizzati».
Nell’analisi
di Tsing questa visione è stata messa in discussione fondamentalmente da tre
ordini di problemi o per meglio dire da tre forme di emergenza:
1.
L’emergenza ecologica: «addomesticare e controllare la Natura ha prodotto un tale
pandemonio che non sappiamo neanche più se la vita sulla Terra possa
proseguire»;
2.
L’emergenza del non-umano: «intrecci tra specie un tempo ritenuti solo materia di
fiabe sono ora diventati oggetto di seri dibattiti tra biologi ed ecologisti,
che mostrano come la vita abbia bisogno dell’interazione tra diversi tipi di
esseri viventi:
gli
uomini non possono sopravvivere calpestando tutti gli altri»;
3.
L’emergenza de coloniale: «in terzo luogo, uomini e donne di tutto il mondo hanno
reclamato lo status un tempo riservato all’Uomo.
La
nostra presenza ribelle mina le intenzioni morali della mascolinità cristiana
dell’Uomo, che aveva separato l’Uomo dalla Natura».
L’idea
di fondo a partire dalla quale Tsing intraprende il suo viaggio all’interno del
mondo e delle storie dei” funghi matsutake” è che dobbiamo essere consapevoli
che ogni volta che noi parliamo di Natura ci muoviamo di fatto dentro un
orizzonte che implica anche l’Uomo, ovvero un certo modello di umanità
(maschile, bianca, occidentale).
Dire
Natura significa perciò per l’antropologa dell’Università di Santa Cruz, dire
anche, sempre, un modo peculiare e determinato di pensare la soggettività umana
e conseguentemente un modo peculiare e determinato di pensare la relazione tra
l’umano e il mondo.
Per
questo anche Tsing scrive perlopiù il termine Natura e il termine Uomo con
l’iniziale maiuscola, al fine di rendere quanto più esplicito possibile che con
essi si intendono dei nomi propri, ovvero che termini come Natura e Uomo non
possono essere considerati termini neutri riferentesi a una universalità
onnicomprensiva, ma sono, invece, specifiche istanziazioni storiche, culturali
e ideologiche che è necessario portare a esplicitazione e ad evidenza per
cercare di pensare al di là dei presupposti che essi veicolano.
7. La
parola Uomo.
I diversi tentativi di problematizzare
il concetto di natura per come esso è andato costruendosi soprattutto nel corso
dell’epoca moderna sono sempre, come si è visto, anche una radicale
problematizzazione del termine uomo, che viene letto come il correlato indisgiungibile
di quella natura e per molto versi ciò che fonda quel modo di considerarla che
ne fa una pura risorsa a disposizione dell’umano stesso.
Il
termine ‘uomo’ nella lingua italiana è un termine notoriamente ambiguo.
Esso indica, infatti, tanto la specie di
mammiferi primati ominidi appartenenti al genere Homo, tanto l’essere umano in
generale, quanto l’essere umano di sesso maschile, in contrapposizione espressa
o tacita, come recita il dizionario Treccani, a donna.
Nella lingua italiana la parola uomo e il
plurale uomini possono dunque avere oltre all’uso determinato che indica una
relazione con il genere, anche un uso, cosiddetto, “non marcato”, un uso cioè
generalizzato, che va ad indicare tutti gli individui caratterizzati come umani
indipendentemente dal riferimento al genere.
La
compresenza di un uso marcato e un uso non marcato all’interno della lingua
crea talvolta dei problemi, che soprattutto negli ultimi cinquant’anni hanno
portato a discussioni a volte anche molto accese.
Come
ha osservato la linguista “Anna M. Thornton” «sempre più spesso in epoca
recente, ma in qualche caso anche già da tempo, non tutti i parlanti di lingue
che conoscono il fenomeno del “maschile non marcato” accedono con la stessa
naturalezza all’interpretazione generica, inclusiva, “non marcata” dei nomi
maschili, e li interpretano invece come riferiti specificamente solo a persone
di sesso maschile».
Questa
sorta di disagio nell’uso del maschile non marcato per cui determinati soggetti
che sono inclusi in esso si sentono di fatto da esso oscurati e marginalizzati,
ha prodotto e produce ovviamente delle conseguenze, come accade peraltro sempre
nelle lingue, le quali non sono strutture eterne e stabili, ma entità vive,
storiche e in movimento.
Per
esempio, ricorda sempre Thornton, la Chiesa Cattolica – diciamo non la più
mobile delle istituzioni – ha sostituito nel 2020 il plurale non marcato
‘fratelli’, che appariva in diverse parti della messa e nel testo di diverse
preghiere, con la formula ‘fratelli e sorelle’.
Non esiste ovviamente una soluzione immediata
in grado di rispondere al tipo di problemi che sono emersi con forza in questi
anni, e soprattutto non è probabilmente con l’imposizione di regole che vengono
vissute e percepite come artificiali ed estranianti (sia in senso conservativo,
sia in senso progressivo) che si risolve il problema.
Al
contempo, non considerare quello che Thornton definisce come «il senso di
esclusione delle donne provato di fronte a usi cosiddetti non marcati di
uomo/uomini e fratelli, e di molti altri sostantivi maschili», oppure anche i
problemi e le difficoltà che caratterizzano la vita delle persone che non si
riconoscono all’interno di una identità di genere binaria, fondandosi su
nomenclature e classificazioni autorevoli e comunque ovviamente
artificiali, è un atteggiamento che,
ancorandosi a una qualche forma di auctoritas storica di fatto nega le
emergenze della storia stessa.
Il
fatto che la lingua sia organizzata in un certo modo non è un dato naturale e
anzi, come scrive la linguista “Cecilia Robustelli” in un articolo che si
intitola” Lingua e identità di genere”, ciò che emerge in modo lampante nelle
pratiche linguistiche di questi anni è «il contrasto sempre più evidente tra
l’ascesa sociale delle donne e la rigidità di una lingua costruita da e per i
maschi».
Altrettanto
in quel testo giustamente famoso che sono le “Raccomandazioni per un uso non
sessista della lingua italiana che risale a quasi 40 anni f”a (fu pubblicato
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1987), la linguista “Alma
Sabatini” scriveva:
«in
questo particolare momento in cui gli enormi cambiamenti sociali che sono
avvenuti e stanno avvenendo nei ruoli dei due sessi premono per avere un
riconoscimento linguistico, è importante favorirlo e aiutarlo, dando
indicazioni per una liberazione da stereotipi banalizzanti e mutilanti e dà
segnali linguistici che rivelano e rinforzano il predominio maschile».
Una
lingua androcentrica, secondo Sabatini, tende sempre, per quanto in modo perlopiù
irriflesso, a far pensare in modo androcentrico.
Sabatini infatti sostiene, come commenta a sua volta”
Robustelli”, che al linguaggio va riconosciuto un ruolo fondamentale nella
costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere
maschile e femminile:
«è
perciò necessario che (il linguaggio, LI) sia usato in modo non “sessista” e
non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui
a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne,
ma diventi rispettoso di entrambi i generi».
Un
discorso che oggi sempre più merita di essere ulteriormente articolato non solo
in rapporto alle donne, ma anche rispetto a tutte quelle persone che non si
riconoscono né all’interno del genere maschile, né all’interno del genere
femminile.
Peraltro,
nelle stesse Linee guida per un linguaggio amministrativo e istituzionale
attento alle differenze di genere elaborato dall’Università di Padova, Annalisa
Oboe scrive:
L’italiano
frequentemente subordina il femminile al maschile in nome del cosiddetto
maschile generico o ‘non marcato’, cioè un maschile presunto neutro e
universale, che comprende sia l’uomo che la donna.
Il
maschile generico rappresenta in realtà uno degli usi linguistici dagli effetti
più discriminanti, che fa sì che solo gli uomini siano rappresentati nella
lingua, e che le donne restino invisibili.
Non è
esagerato pensare al maschile generico come a uno degli strati del ‘soffitto di
cristallo’ che riducono l’accesso delle donne al lavoro e ai vertici della
società, che schiacciano le loro scelte all’interno delle aspettative definite
dagli stereotipi di genere e che concorrono al mantenimento delle disparità tra
donne e uomini.
Il
problema non riguarda però solo la lingua italiana.
Se
nella lingua tedesca, come è noto, oltre ai sostantivi Mann (uomo) e Frau
(donna) esiste anche il termine “Mensch”, che, pur essendo anch’esso declinato
al maschile, consente comunque di parlare degli esseri umani indipendentemente
dal genere (non a caso esiste a Monaco di Baviera un “Museum Mensch und Natur”),
la lingua inglese non ha invece un termine neutro ed era piuttosto frequente,
almeno fino a un certo punto, vedere usato il sostantivo man e il plurale men
con un significato sovra esteso.
Basta
tuttavia una semplice ricerca in rete per vedere come il man sovraesteso sia
sempre più marginalizzato non solo nella produzione scientifica di lingua inglese,
ma anche nelle pratiche linguistiche ordinarie.
È
diventato sempre più frequente, ad esempio, nella comunicazione scientifica di
lingua inglese l’uso del pronome” she” come pronome sovraesteso e con
l’emergere di nuove sensibilità e attenzioni ai linguaggi più inclusivi, tra
chi non si riconosce come donna o come uomo, e quindi nei pronomi “he” o “she”,
si è diffusa la pratica di definirsi in modo neutro con il “they”, sfruttando,
in ciò, una caratteristica già presente nella lingua inglese.
Non è
un caso, dunque, se nel 2020 il famoso “San Diego Museum of Man a Balboa Park “dopo
una lunga discussione abbia deciso di cambiare denominazione e di diventare il “Museum
of Us” o che in Canada l’importantissimo Museum of Men di Ottawa sia diventato
già nel 1986 “il Museum of Civilization” o ancora che, sempre in Canada, il “Manitoba
Museum of Man and Natur”e sia diventato già alcuni fa il “Manitoba Museum.”
La
lingua francese ha problemi simili alla lingua italiana.
La critica però all’uso non marcato e sovra steso
del maschile ha in Francia radici piuttosto lontane.
Nel
1791, infatti, come è noto,” Olympe de Gouge”s pubblica la Dichiarazione dei diritti della
donna e della cittadina in risposta alla Dichiarazione dell’uomo e del
cittadino del 1789, denunciando così, in piena cultura illuministica, nell’uso
di un termine marcato, ma assunto in modo universalistico quale è il termine
Homme una esclusione di fatto della donna da quello che viene considerato uno
dei testi fondanti della modernità politica europea.
In realtà, però, all’interno della cultura francese,
dove le questioni relative alla lingua, come scrive Nadine Celotti sono sempre,
letteralmente,” Une affaire d’État”, una questione che coinvolge i fondamenti
stessi su cui si regge la statualità francese, l’assunzione del termine “Homme”
come sostantivo non marcato resiste ed è a tutt’oggi oggetto di discussioni
anche aspre.
Non a
caso il grande museo dell’antropologia di Parigi, il famosissimo” Musée de
l’Homme “mantiene ancora questo nome, anche se sono stati in molti coloro che,
soprattutto in occasione del rinnovamento e della riapertura nel 2015, avevano
chiesto che si passasse da “Musée de l’Homme a Musée de l’Humanité”.
Il termine Homme, sostenevano infatti quelli
che chiedevano il cambio di denominazione, non è un termine neutro.
Come
ha scritto” Elianne Viennot”, infatti, usare il termine “homme” per designare
l’umanità non solo non consente di rappresentare le donne e i soggetti che non
si riconoscono nei “binarismi di gener”e, ma soprattutto oscura il loro posto
nella società (En finir avec l’homme. Chronique d’une imposture –
Donnemarie-Dontilly, Editions iXe, 2021).
Tuttavia,
come dice sempre “Celotti” in un contributo che si intitola «Femme, j’écris ton nom… ?»
Un’escursione
nel mondo vario delle lingue francesi, altri paesi francofoni hanno intrapreso,
anche sul piano della lingua istituzionale, strade diverse.
Ad
esempio, come accaduto in Canada, sostituendo l’espressione «Droits de l’homme»
con l’espressione «Droits de la personne».
Naturalmente
tutto questo, soprattutto in Italia, viene non di rado ridicolizzato, ovvero
viene interpretato come uno dei deliri che sarebbero connessi agli imperativi
della correttezza politica o una delle tante subdole manifestazioni di potere
dell’ideologia woke.
Che
esistano non pochi problemi rispetto a questi imperativi nessuno lo nega.
Altrettanto non si può non notare come la critica alla correttezza politica sia
spesso – non sempre, ma spesso – una maniera facile e banale per evitare di
mettere in discussione i modi con cui si è abituati a pensare.
Essere
consapevoli del legame che intreccia quello che si pensa con il modo in cui lo
si pensa, ovvero essere consapevoli delle conseguenze e delle implicazioni che
sono connesse ai termini che si usano, è in realtà un esercizio che si dovrebbe
sempre fare, soprattutto in ambito scientifico, per evitare di pensare
implicitamente ciò che magari esplicitamente non si intende pensare.
8. Conclusioni.
Intitolare
questo nuovo museo “della Natura e dell’Uomo” non è di per sé “errato”. È un
museo di antropologia e di storia naturale, se così si può dire, e con i due
termini – Uomo e Natura – ci si intende evidentemente riferire da un lato a
Homo, ovvero al genere di primati ominidi da cui proviene Homo sapiens, e
dall’altro a quel dominio di realtà abitato dai minerali, dai vegetali e dagli
animali non umani.
E
tuttavia, questa denominazione, che non era certo l’unica possibile, suona al
contempo come un’occasione persa.
Pensare il nome di questo museo poteva essere
infatti un’opportunità per un’istituzione universitaria di entrare con una
propria idea dentro un dibattito fra i più accesi e interessanti che
attraversano la cultura e la scienza contemporanee, ovvero per testimoniare,
soprattutto come Università, la volontà di inoltrarsi verso direzioni magari
ancora inedite, ma certamente maggiormente rispondenti alle urgenze del tempo
in cui si agisce.
In
ogni caso, con un piccolo sforzo di creatività a cui sarebbe stato bello
convocare l’intera comunità scientifica universitaria, si sarebbe potuta
evitare l’impressione di una reiterazione di dinamiche che possono
legittimamente apparire discriminatorie e per chi in quei dualismi, in quelle
classificazioni e in quelle nomenclature non è più disposto a riconoscersi.
Chiunque
lavori con le parole sa o dovrebbe sapere che le parole – tanto più se connesse
a istituzioni che mirano a permanere nel tempo – non sono mai contenitori
neutri:
proprio
perché immerse nella vitalità della lingua e della cultura, le parole sono
sempre anche veicoli più o meno consci di presupposti ideologici, culturali e
di potere.
A loro
volta, le resistenze ideologiche, culturali e di potere alle modificazioni
degli usi linguistici o anche grammaticali sono non di rado cieche alle
trasformazioni della società, e si fondano spesso o su un’idea fissa della
grammatica intesa come norma eterna e intoccabile o sull’autorità della
tradizione, ovvero, in entrambi i casi, negando tanto la storicità dei nostri modi
di pensare quanto la specifica storicità della lingua, come se essa fosse una
sorta di tabernacolo intoccabile e perciò priva di una sua specifica
evoluzione.
Farebbe invece bene e sarebbe certamente anche
utile pensare della lingua ciò che Darwin pensava del mondo naturale alla
conclusione dell’Origine delle specie, ovvero che in esso «innumerevoli forme,
bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi».
Due
piccoli manuali per resistere
al
pensiero dominante.
Lanuovabq.it
– (12-7-2023) – Fabrizio Cannone - Jean-Yves Le Gallou – ci dicono:
L’ex
parlamentare europeo Jean-Yves Le Gallou, con “Manuale di lotta contro la
demonizzazione” e “La società della propaganda”, spiega come discernere
l’odierno pensiero dominante, basato su ideologie anticristiane.
Il
grande esperto di cose massoniche, “Emmanuel Ratier” (1957-2015), ha sempre
negato, in libri articoli e interviste, l’esistenza di un’unica centrale
mondiale occulta, atta a condizionare se non a dirigere la politica nell’intero
mondo.
Il
che, secondo certuni, avverrebbe da secoli, seppur in modo nascosto e noto solo
a pochi iniziati.
Lo
stesso “Alain de Benoist”, in un saggio pubblicato tanti anni su “Trasgressioni”
(n. 14), ha confutato in modo scientifico la cosiddetta “teoria del complotto”,
ben prima che i presunti anti-complottisti odierni la usassero come arma contro
chi, giustamente, rifiuta la dittatura del politicamente corretto.
Il filosofo francese ne mostrava tutte le
contraddizioni, le aporie logiche e concettuali, per non dir nulla del suo
manicheismo e delle tragiche conseguenze per noi.
In effetti, se tutto è già scritto e deciso non si sa
dove, a che pro battersi?
Ma
questo non significa che non esista oggi – almeno dalla fine della Seconda
guerra mondiale – un pensiero dominante il quale, grazie ai sostegni economici
che vanta e la sudditanza di gran parte dei media, tende a imporsi più o meno a
ogni latitudine.
E a imporre, senza mai trionfare però in modo
assoluto e definitivo, valori e ideologie che sono agli antipodi del pensiero
che si ispira al Vangelo e alla ragione.
Il
bretone “Jean-Yves Le Gallou”, in due piccoli manualetti appena usciti, ci
racconta tutto quello che urge conoscere per ben discernere questo pensiero dominante, le sue
tendenze, i suoi dogmi e le sue nefaste modalità di azione.
Spiegandoci
per filo e per segno come resistere ad esso, fronteggiarlo, schivarne le
deleterie influenze e cercare di vincerlo, perché la storia non è già scritta e
non siamo i burattini di nessuno.
Si
tratta di Manuale
di lotta contro la demonizzazione e La società della propaganda. Piccolo manuale di resistenza al
gulag mentale, entrambi editi da “Passaggio al Bosco, 2023”.
Nel
primo dei due saggi l’autore, presidente della “Fondazione Polémia” ed ex
parlamentare europeo, fa una sintesi sul concetto di “demonizzazione” partendo dall’eroina-martire francese, santa
Giovanna d’Arco, e notando come l’arte che il potere usa per demonizzare coloro che non
vogliono sottomettersi alla sua ideologia abbia sempre qualcosa di simile nella
storia.
Ovviamente
rispetto ad altre epoche, l’ideologia contemporanea del “bene” che demonizza chi le
resiste è, nel suo Dna più profondo, nichilista, relativista,
pseudo-progressista, pseudo-ecologista, pansessualista, atea, irrazionale e
anticristiana.
Le
Gallou, citando” Bock-Coté”, parla di «ideologia diversitaria» (pp. 15-16). I suoi nemici
prioritari, secondo l’autore, sono:
«Il
nazionale, l’identitario, il patriota, il cattolico, colui che è legato alle
continuità antropologiche, ai valori tradizionali e al proprio territorio» (p. 23).
“Laird
Wilcox”, un ricercatore americano, fa una lunga lista dei metodi che il potere
usa oggi per demonizzare i malpensanti che vorrebbe ricondurre all’ovile. Sono
21 e non abbiamo spazio per citarli (cf. pp. 27-33).
In
sintesi il demonizzato viene sistematicamente marginalizzato, ridicolizzato,
etichettato (con etichette di comodo in cui non si riconosce, tipo razzista,
estremista, omofobo, integralista e simili), descritto come pericoloso, e
presentato come il “male assoluto” per la convivenza pacifica in una società pluralista,
e questo proprio da chi nega la distinzione etica radicale tra bene e male.
Nella “Società
della propaganda”, Le Gallou recuperano e aggiornano al presente le riflessioni
sulla propaganda di Stato e dei suoi media, così come è stata spiegata dai
grandi osservatori di ieri:
Jacques Ellul (Propaganda. Come si formano i
comportamenti degli uomini), Gustave Le Bon, Solženicyn e altri.
Ovviamente
i casi più recenti in cui la propaganda del sistema ha toccato l’acme sono,
probabilmente, il movimento eterodiretto “Black Lives Matter” (secondo cui un
morto vale di più di tanti altri morti se la causa della morte è il razzismo) e la versione unica sul Covid (per cui fare critiche a opinabili
scelte di politica sanitaria, sarebbe andare contro la scienza).
Senza
dimenticare, del resto, l’ideologia Lgbt – la più potente forma del pensiero unico nel XXI
secolo – e il mutamento giuridico inaudito che essa ha ottenuto in Occidente e non
solo.
L’autore
applica la famosa “finestra di Overton”, con il lento/celere ribaltamento
dei valori, ai due casi simbolo dell’aborto e del matrimonio gay.
Da
peccati (per tutte le religioni) e reati (per tutti gli Stati di diritto) a
comportamenti legittimi, giusti, perfino encomiabili.
Anzi, nota Le Gallou, su questi e altri temi
simili, come
il “catastrofismo climatico, si è ridotta drasticamente quella stessa libertà
di pensiero che il sistema democratico mette a fondamento della propria
superiorità morale sui regimi autoritari del passato. E nella mente di chi è soggiogato
dalla propaganda senza sosta del mono-pensiero, nota Le Gallou, «la domanda: è vero? è stata
progressivamente sostituita dall’angosciante interrogativo: possiamo dirlo?» (p. 24).
Secondo
“Philippe Bornet”, uno studioso citato dall’autore che ha analizzato a fondo le tirannie storiche di Dionigi di
Siracusa, Calvino, Robespierre, Stalin e Mao, ci sono alcuni indizi che
smascherano i tiranni e la loro follia repressiva.
Tra
questi, il controllo dell’informazione, l’odio per la famiglia e il matrimonio,
il reclutamento dei bambini, il fascino per la tecnica, il «cambiamento di
popolazione» a cui portano e la sottomissione a poteri stranieri e lontani (cf. pp. 26-27).
Ma la
partita non è persa, tanto più se abbiamo il coraggio, quella «virtù necessaria
ai popoli per durare nella storia» e agli uomini «per restare in piedi» (p. 120). Specie in un contesto di disordine,
propaganda, tirannia e demonizzazione della verità.
…e se
Karl Heinrich Marx
avesse
avuto ragione?
Lincontro.news.it
– (11 Luglio 2023) – Massimo Chioda – ci dice:
Non
sempre la sezione In/Contro propone visioni contrapposte su un tema.
A
volte si tratta di considerare una situazione partendo da prospettive diverse.
Questa volta abbiamo messo a confronto due suggestioni sul futuro
sociopolitico. Da una parte “Massimo Chioda” gioca sulla provocazione e sul
paradosso e vagheggia una riscoperta del pensiero marxista.
Dall’altra
“Riccardo Rossotto” ipotizza una diarchia Draghi-Dimon al comando. Insomma, Marx versus i banchieri.
(il
direttore Milo Goj)
Il
secolo scorso ha visto nascere, espandersi e spegnersi l’utopia marxista.
Come
ricorderanno in molti, Marx aveva previsto che lo sviluppo avanzato del
capitalismo avrebbe portato “i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i
negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli
agricoltori” a sprofondare nel proletariato, mentre “il pauperismo” si sarebbe
sviluppato “ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza”.
La
storia del Novecento parrebbe aver smentito le previsioni marxiste.
L’accentramento
della ricchezza nelle mani di pochi al vertice, contrapposto all’espandersi
oltre ogni misura della povertà alla base – secondo la visione di Marx –
avrebbe portato all’acuirsi della contraddizione che avrebbe determinato la
rivoluzione proletaria.
La
storia del Novecento parrebbe aver smentito le previsioni marxiste poiché lo
sviluppo del capitalismo nelle società industrializzate ha portato un miglioramento
delle condizioni di lavoro e di vita dei ceti più modesti, nonché una migliore
distribuzione del reddito nella società, mentre le rivoluzioni di ispirazione
marxista si sono realizzate solo ed esclusivamente in paesi agricoli dove non
aveva neppure avuto luogo l’industrializzazione (Russia, Cuba e Cina).
Seppellire
il pensiero marxista sotto una pietra tombale…
Marx
non aveva ritenuto – e per certi versi neppure previsto – che le lotte operaie
avrebbero portato ad una dialettica riformista e non rivoluzionaria, e che il
pensiero liberale e borghese sarebbe stato in grado di riformare il sistema di
relazioni industriali in senso opposto a quello ipotizzato dal marxismo come
esito naturale dello sviluppo capitalistico.
E Marx
non avrebbe potuto neppure lontanamente immaginare che il capitalismo avrebbe
reso compatibile l’incremento dei profitti con l’aumento dei salari e che si
sarebbe sottoposto alla regolamentazione dei mercati e alla tassazione in
funzione sociale.
Pertanto
già negli anni ’90 del secolo scorso si è ritenuto di seppellire il pensiero
marxista sotto una pietra tombale.
Tuttavia
è noto che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi e l’analisi dei fenomeni
antropologici richiede cautele adeguate ai tempi dei processi storici.
Incremento
dei profitti bancari contro il decremento dei risparmi delle famiglie.
Ciò
che mi ha portato a disseppellire il cadavere del filosofo ottocentesco è la
lettura di un trafiletto di poco conto del 17 giugno scorso che riportava il
dato degli utili netti delle banche italiane nel 2022 pari a 21,8 miliardi di
euro, con un incremento netto di oltre 8 miliardi rispetto al 2021.
Nello
stesso periodo il decremento netto dei risparmi delle famiglie italiane – cioè
il loro impoverimento – è stato pari a 25,2 miliardi di euro.
Tale
dato mi ha ricordato che nell’ultimo ventennio le politiche neoliberiste e
restrittive di bilancio hanno prodotto il totale ribaltamento del processo di
redistribuzione del reddito realizzatosi nel secondo dopoguerra, provocando un
rapido e significativo impoverimento globale unito ad un accentramento della
ricchezza nelle mani di pochi.
È sufficiente considerare che nel ventennio 2000-2020
i più ricchi del pianeta – che costituiscono meno del 10% della popolazione –
hanno raggiunto il controllo dell’80% della ricchezza mondiale, e il loro
patrimonio è aumentato nello stesso periodo di oltre il 50%. E se si prende
come riferimento l’1% più ricco del pianeta l’aumento dei guadagni supera il
278%.
L’1%
più ricco del pianeta possiede la metà della ricchezza prodotta nel mondo.
E tale
fenomeno sta accelerando con una velocità esponenziale mai vista in precedenza.
Negli
ultimi due anni l’1% più ricco del pianeta si è impossessato della metà della
ricchezza prodotta nel mondo, mentre alla metà più povera della popolazione
mondiale è andato lo 0,45%.
Nello
stesso periodo per circa due miliardi di lavoratori l’inflazione ha superato
nettamente il potere d’acquisto salariale e nel mondo quasi 900 milioni di
persone hanno sofferto la fame.
Peraltro,
contestualmente all’aumento esplosivo della povertà nei paesi industrializzati,
negli ultimi anni si è assistito alla concentrazione monopolistica nella new
economy e alla riduzione del numero delle imprese.
Se
dalla triste sintesi di quanto sta avvenendo a livello mondiale parrebbe che si
stia realizzando la previsione marxista, sappiamo che nel secolo scorso i
sindacati, le istituzioni politiche e lo stesso capitalismo seppero imprimere
ben altra direzione al processo storico di cui si discute.
La
tassazione si è concentrata sul reddito da lavoro e sui consumi.
Ma
nell’attualità deve darsi atto che tali dinamiche non possono più operare.
La
politica e le istituzioni sono coese nell’azione di sostegno alla
concentrazione della ricchezza in poche mani, e all’allargamento della povertà
e della disuguaglianza.
Da un
lato, come si è visto, il verbo liberista, il rigore di bilancio e le relative
politiche restrittive impediscono qualsiasi intervento di perequazione o di
mitigazione del fenomeno in esame.
Sotto
altro profilo la politica fiscale degli ultimi decenni ha evidenziato una
decisa azione politica volta ad incrementare il patrimonio dei “super-ricchi” e
l’aumento della povertà.
Negli
USA degli anni ‘50 l’aliquota tributaria più alta era al 90% mentre nel 2012
era già al 35%, facendo i ricchi più ricchi e sottraendo risorse pubbliche ai
più poveri.
In
tutti i paesi industrializzati la tassazione si è indirizzata e concentrata sul
reddito da lavoro e sui consumi, e non sulle rendite finanziarie e sul
capitale:
i ricavi fiscali dai patrimoni si aggirano
intorno al 3 – 4% del gettito complessivo. L’aliquota media sulle rendite è del
18%, cioè meno della metà di quella mediamente applicata ai salari.
Elon
Musk ha pagato imposte con aliquota del 3%.
Grazie
alle istituzioni pubbliche negli ultimi anni l’uomo più ricco del pianeta (Elon
Musk) ha pagato imposte con aliquota del 3%.
Al di
là della generica propaganda, non esistono posizioni politiche in
controtendenza.
La politica americana e le istituzioni europee
sono asservite ai grandi monopoli finanziari.
In Europa i partiti popolari e conservatori,
così come il fronte socialdemocratico, sono i più accaniti sostenitori – nei
fatti e nell’azione politica (vedasi borsino dell’energia affidato a Morgan
Stanley e soci) – del liberismo e delle politiche restrittive di bilancio e
quindi restrittive del flusso circolare del reddito.
Non deve ingannare la posizione della destra
populista e sovranista che accusa duramente (e giustamente) le istituzioni
europee di aver impoverito i cittadini dell’Unione, ottenendo così grandi
successi elettorali.
Se
osserviamo le ricette nazionaliste e le soluzioni proposte – vedi la lotta ai
migranti – risulta evidente che anche la destra estrema rema per proteggere i
più ricchi, essendo ovvio che la guerra tra poveri non intacca il descritto
sistema.
Quanto
alla subalternità del sindacato nel quadro di totale liberalizzazione del
lavoro, non occorre neppure sprecare ulteriori parole.
… e
alla fine le tesi del Manifesto del Partito Comunista hanno trovato riscontro
nell’evoluzione storica.
A
tutto ciò deve aggiungersi che non si potrebbe nemmeno confidare in un nuovo
fordismo poiché la grande concentrazione di capitale non può fare altro che
adattarsi evolutivamente all’ambiente assai favorevole accelerando la
trasformazione del capitalismo da produttivo in finanziario, aumentando così
l’accentramento in poche mani dell’incremento esponenziale dei grandi profitti.
Mancando
quindi le risorse politiche e sociali del Novecento, parrebbe che le tesi
esposte nel Manifesto del Partito Comunista abbiano, alla fine, trovato
riscontro nell’evoluzione storica.
Qualcuno
resterà indignato oppure riderà di fronte a tale provocazione.
Tuttavia,
a mio modesto avviso, ciò che deve preoccupare non è la resurrezione del
marxismo in sé che ritengo assai poco probabile visti i tracciati –
definitivamente piatti – dell’elettrocardiogramma delle varie sinistre europee
e nordamericane.
Il
problema è ben più serio, poiché tale “trend” – sostenuto con forza dalla
nostra politica e dagli economisti di ultima generazione – risulterà totalmente
insostenibile, persino nel breve periodo ove si osservi che, nell’ipotesi più
realistica, le politiche restrittive di bilancio già nel periodo 2023 – 2027
determineranno un decremento della spesa sociale per oltre 6.700 miliardi di
dollari.
(Massimo
Chioda)
Potere
dell’innovazione.
Quotidianodeicontribuenti.com
– (11 Luglio 2023) – Redazione – ci dice:
Perché
la tecnologia definirà il futuro della geopolitica.
Eric
Schmidt è presidente del progetto Special Competitive Studies ed ex CEO e presidente
di Google.
È
coautore, con Henry Kissinger e Daniel Huttenlocher, di
L’era
dell’IA: e il nostro futuro umano.
Quando
le forze russe hanno marciato su Kiev nel febbraio 2022, pochi pensavano che
l’Ucraina potesse sopravvivere.
La
Russia aveva più del doppio dei soldati dell’Ucraina.
Il suo
bilancio militare era più di dieci volte più grande.
La
comunità di intelligence degli Stati Uniti ha stimato che Kiev sarebbe caduta
entro una o due settimane al massimo.
In
inferiorità numerica e in inferiorità numerica, l’Ucraina si rivolse a un’area
in cui deteneva un vantaggio sul nemico: la tecnologia.
Poco
dopo l’invasione, il governo ucraino ha caricato tutti i suoi dati critici sul
cloud, in modo da poter salvaguardare le informazioni e continuare a funzionare
anche se i missili russi hanno trasformato i suoi uffici ministeriali in
macerie.
Il
Ministero della trasformazione digitale del paese, che il presidente ucraino
Volodymyr Zelensky aveva istituito solo due anni prima,
ha
riproposto la sua app mobile di egovernement, Diia, per la raccolta di
intelligence open-source, in modo che i cittadini potessero caricare foto e
video di unità militari nemiche.
Con le
loro infrastrutture di comunicazione in pericolo, gli ucraini si sono rivolti
ai satelliti Starlink e alle stazioni di terra fornite da SpaceX per rimanere
connessi. Quando la Russia ha inviato droni di fabbricazione iraniana oltre il
confine, l’Ucraina ha acquisito i propri droni appositamente progettati per
intercettare i loro attacchi, mentre i suoi militari hanno imparato a usare armi
sconosciute fornite dagli alleati occidentali.
Nel
gioco catand-mouse di innovazione, l’Ucraina semplicemente dimostrato agile. E
così quella che la Russia aveva immaginato sarebbe stata un’invasione facile e
veloce si è rivelata tutt’altro.
Il
successo dell’Ucraina può essere accreditato in parte alla determinazione del
popolo ucraino, alla debolezza dell’esercito russo e alla forza del sostegno
occidentale.
Ma
deve anche alla nuova forza che definisce la politica internazionale: il potere dell’innovazione.
Il potere dell’innovazione è la capacità di
inventare, adottare e adattare nuove tecnologie
Contribuisce sia all’hard che al soft power.
I sistemi di armi ad alta tecnologia aumentano
la potenza militare, le nuove piattaforme e gli standard che li governano forniscono
una leva economica e la ricerca e le tecnologie all’avanguardia aumentano
l’appeal globale.
C’è
una lunga tradizione di stati che sfruttano l’innovazione per proiettare il
potere all’estero, ma ciò che è cambiato è la natura autoperpetuante dei progressi
scientifici.
In particolare, gli sviluppi nell’intelligenza
artificiale non solo aprono nuove aree di scoperta scientifica, ma accelerano
anche questo processo.
L’intelligenza
artificiale potenzia la capacità di scienziati e ingegneri di scoprire tecnologie
sempre più potenti, promuovendo i progressi nell’intelligenza artificiale
stessa e in altri campi e rimodellando il mondo nel processo.
La
capacità di innovare più velocemente e meglio—il fondamento su cui poggiano ora
il potere militare, economico e culturale, determinerà l’esito della competizione
tra Stati Uniti e Cina.
Per
ora, gli Stati Uniti rimangono in testa.
Ma la Cina sta recuperando terreno in molte
aree ed è già cresciuta in altre. Per uscire vittoriosi da questo concorso che
definisce il secolo, gli affari come al solito non andranno bene.
Invece, il governo degli Stati Uniti dovrà
superare i suoi impulsi burocratici stolti, creare condizioni favorevoli per
l’innovazione e investire negli strumenti e nei talenti necessari per avviare
il circolo virtuoso del progresso tecnologico. Ha bisogno di impegnarsi sempre
più spesso, i sistemi di intelligenza artificiale inizieranno a prendere decisioni
da soli:
promuovere
l’innovazione al servizio del Paese e al servizio della democrazia. La posta in
gioco è niente di meno che il futuro delle società libere, dei mercati aperti,
del governo democratico e del più ampio ordine mondiale.
LA
CONOSCENZA È POTERE.
Il
nesso tra innovazione tecnologica e dominio globale risale a secoli fa, dai
moschetti che il conquistador Francisco Pizarro impugnò per sconfiggere
l’Impero Inca ai battelli a vapore che il commodoro “Matthew Perry” comandò di
forzare l’apertura del Giappone.
Ma la
velocità con cui l’innovazione sta avvenendo non ha precedenti. Da nessuna
parte questo cambiamento è più chiaro che in una delle tecnologie fondamentali
del nostro tempo: l’intelligenza artificiale.
I
sistemi di intelligenza artificiale di oggi possono già fornire vantaggi chiave
nel dominio militare, dove sono in grado di analizzare milioni di input, identificare
modelli e avvisare i comandanti delle attività nemiche.
L’esercito ucraino, ad esempio, ha utilizzato
l’intelligenza artificiale per scansionare in modo efficiente dati di intelligence,
sorveglianza e ricognizione da una varietà di fonti.
Sempre
più spesso, tuttavia, i sistemi di intelligenza artificiale andranno oltre la
semplice assistenza al processo decisionale umano e inizieranno a prendere decisioni
da soli.
John
Boyd, stratega militare e colonnello dell’US Air Force, coniò il termine “OODA
loop” osservare, orientare, decidere, agire—per descrivere il processo decisionale
in combattimento.
Fondamentalmente,
l’IA sarà in grado di eseguire ogni parte del ciclo “OODA” molto più velocemente.
Il conflitto
può avvenire alla velocità dei computer, non alla velocità delle persone. Di
conseguenza, i sistemi di comando e controllo che si basano su decisori umani -o,
peggio, gerarchie militari complesse, perderanno da sistemi più veloci ed efficienti
che uniscono le macchine agli umani.
Nelle
epoche precedenti, le tecnologie che hanno plasmato la geopolitica—dal bronzo
all’acciaio, dall’energia a vapore alla fissione nucleare-erano in gran parte
singolari.
C’era
una chiara soglia di padronanza tecnologica, e una volta che un paese l’ha raggiunta,
il campo di gioco è stato livellato.
L’intelligenza
artificiale, al contrario, è di natura generativa. Presentando una piattaforma
per l’innovazione scientifica e tecnologica continua, può portare ad ancora più
innovazione. Questo fenomeno rende l’età dell’IA fondamentalmente diversa
dall’età del bronzo o dall’età dell’acciaio.
Piuttosto
che la ricchezza delle risorse naturali o la padronanza di una determinata tecnologia,
la fonte del potere di un paese risiede ora nella sua capacità di innovare continuamente.
Questo
circolo virtuoso diventerà sempre più veloce.
Una volta che il calcolo quantistico diventa maggiorenne,
i computer super veloci consentiranno elaborazione di quantità sempre maggiori
di dati, producendo sistemi di intelligenza artificiale sempre più intelligenti.
Questi sistemi di intelligenza artificiale, a
loro volta, saranno in grado di produrre innovazioni rivoluzionarie in altri
campi emergenti, dalla biologia sintetica alla produzione di semiconduttori.
L’intelligenza
artificiale cambierà la natura stessa della ricerca scientifica. Invece di fare
progressi uno studio alla volta, gli scienziati scopriranno le risposte a
domande secolari analizzando enormi set di dati, liberando le menti più intelligenti
del mondo a dedicare più tempo allo sviluppo di nuove idee.
Come
tecnologia fondamentale, l’intelligenza artificiale sarà fondamentale nella
corsa per il potere dell’innovazione, che si trova dietro innumerevoli sviluppi
futuri nella scoperta di farmaci, nella terapia genica, nella scienza dei materiali
e nell’energia pulita—e nella stessa intelligenza artificiale.
Gli
aerei più veloci non hanno aiutato a costruire aerei più veloci, ma computer
più veloci aiuteranno a costruire computer più veloci.
Ancora
più potente dell’intelligenza artificiale di oggi è una tecnologia più completa—per
ora, data l’attuale potenza di calcolo, ancora ipotetica—chiamata “intelligenza
artificiale generale” o AGI.
Mentre l’IA tradizionale è progettata per
risolvere un problema discreto, l’AGI dovrebbe essere in grado di eseguire qualsiasi
compito mentale che un essere umano può e altro ancora.
Immagina un sistema di intelligenza artificiale
in grado di rispondere a domande apparentemente intrattabili, come il modo
migliore per insegnare l’inglese a un milione di bambini o per curare un caso
di Alzheimer.
L’avvento
di AGI rimane anni, forse anche decenni, di distanza, ma qualunque paese sviluppa
la tecnologia prima avrà un enorme vantaggio, dal momento che potrebbe quindi
utilizzare AGI per sviluppare versioni sempre più avanzate di AGI, guadagnando
un vantaggio in tutti gli altri domini della scienza e della tecnologia nel processo.
Una
svolta in questo campo potrebbe inaugurare un’era di predominanza non dissimile
dal breve periodo di superiorità nucleare di cui gli Stati Uniti godevano alla
fine degli anni ‘ 40.
Mentre
molti degli effetti più trasformativi dell’IA sono ancora lontani, l’innovazione
nei droni sta già sconvolgendo il campo di battaglia. Nel 2020, l’Azerbaigian
ha impiegato droni di fabbricazione turca e israeliana per ottenere un vantaggio
decisivo nella sua guerra contro l’Armenia nella regione contesa del Nagorno –
Karabakh, accumulando vittorie sul campo di battaglia dopo oltre due decenni di
stallo militare.
Allo
stesso modo, la flotta ucraina di droni—molti dei quali sono modelli commerciali
a basso costo riproposti per la ricognizione dietro le linee nemiche-hanno
svolto un ruolo fondamentale nei suoi successi.
I
droni offrono vantaggi distinti rispetto alle armi tradizionali: sono più piccoli
ed economici, offrono capacità di sorveglianza senza pari e riducono l’esposizione
al rischio dei soldati.
Marines in guerra urbana, per esempio, potrebbero
essere accompagnati da micro droni che servono come i loro occhi e le orecchie.
Nel
corso del tempo, i paesi miglioreranno l’hardware e il software che alimentano
i droni per innovare i loro rivali.
Alla
fine, i droni armati autonomi—non solo veicoli aerei senza equipaggio ma anche
quelli a terra-sostituiranno del tutto i soldati e l’artiglieria con equipaggio.
Immagina
un sottomarino autonomo che potrebbe spostare rapidamente i rifornimenti in
acque contese o un camion autonomo che potrebbe trovare il percorso ottimale
per trasportare piccoli lanciamissili su terreni accidentati.
Sciami di droni, collegati in rete e coordinati
dall’IA, potrebbero sopraffare le formazioni di carri armati e fanteria sul
campo.
Nel
Mar Nero, l’Ucraina ha usato droni per attaccare navi russe e navi di rifornimento,
aiutando un paese con una minuscola marina a limitare la potente flotta russa
del Mar Nero.
L’Ucraina offre un’anteprima dei conflitti
futuri: guerre che saranno combattute e vinte da uomini e macchine che lavorano
insieme.
Come
gli sviluppi nei droni chiariscono, il potere dell’innovazione è alla base del
potere militare.
In
primo luogo, il dominio tecnologico in domini cruciali rafforza la capacità di
un paese di fare la guerra e quindi rafforza le sue capacità deterrenti.
Ma l’innovazione modella anche il potere economico
dando agli stati la leva sulle catene di approvvigionamento e la capacità di
fare le regole per gli altri.
I
paesi che dipendono dalle risorse naturali o dal commercio, in particolare
quelli che devono importare beni rari o fondamentali, affrontano vulnerabilità
che altri non hanno.
Considera
il potere che la Cina può esercitare sui paesi che fornisce con l’hardware di
comunicazione. Non sorprende che i paesi dipendenti dalle infrastrutture fornite
dalla Cina—come molti paesi in Africa, dove i componenti prodotti da Huawei
costituiscono circa il 70% delle reti 4G-siano stati riluttanti a criticare le
violazioni dei diritti umani cinesi.
Il primato di Taiwan nella produzione di semiconduttori,
allo stesso modo, fornisce un potente deterrente contro l’invasione, dal
momento che la Cina ha poco interesse a distruggere la sua più grande fonte di
microchip.
La
leva finanziaria si accumula anche nei paesi pionieri delle nuove tecnologie.
Gli Stati Uniti, grazie al loro ruolo nella
fondazione di Internet, hanno goduto per decenni di un posto al tavolo che definisce
le normative su Internet.
Durante la Primavera araba, ad esempio, il
fatto che gli Stati Uniti ospitassero aziende tecnologiche che fornivano la
spina dorsale di Internet consentiva a tali aziende di rifiutare le richieste
di censura dei governi arabi.
Meno
ovvia ma anche cruciale, l’innovazione tecnologica fa da traino al soft power
di un paese.
Hollywood
e aziende tecnologiche come Netflix e YouTube hanno costruito un tesoro di
contenuti per una base di consumatori sempre più globale, contribuendo allo
stesso tempo a diffondere i valori americani.
Tali servizi di streaming proiettano lo stile
di vita americano nei salotti di tutto il mondo.
Allo
stesso modo, il prestigio associato alle università degli Stati Uniti e le
opportunità di creazione di ricchezza create dalle aziende statunitensi attraggono
lottatori da tutto il mondo.
In breve, la capacità di un paese di proiettare
il potere nella sfera internazionale—militarmente, economicamente e culturalmente
dipende dalla sua capacità di innovare più velocemente e meglio dei suoi concorrenti.
CORSA
VERSO L’ALTO.
Il
motivo principale per cui l’innovazione ora offre un vantaggio così enorme è
che genera più innovazione.
In
parte, lo fa a causa della dipendenza dal percorso che deriva da gruppi di
scienziati che attraggono, insegnano e addestrano altri grandi scienziati
presso università di ricerca e grandi aziende tecnologiche.
Ma lo
fa anche perché l’innovazione si costruisce su sé stessa.
L’innovazione si basa su un ciclo di invenzione,
adozione e adattamento—un ciclo di feedback che alimenta ancora più innovazione.
Se un anello della catena si rompe, anche la capacità di un paese di innovare
in modo efficace.
Un vantaggio
nell’invenzione è tipicamente costruito su anni di ricerca precedente. Considera
il modo in cui gli Stati Uniti hanno portato il mondo nell’era delle telecomunicazioni
4G.
Il lancio delle reti 4G in tutto il paese ha
facilitato lo sviluppo iniziale di applicazioni mobili come Uber che richiedevano
connessioni dati cellulari più veloci.
Con
questo vantaggio, Uber è stata in grado di perfezionare il suo prodotto negli
Stati Uniti in modo da poterlo distribuire nei paesi in via di sviluppo.
Ciò ha portato a molti più clienti—e molto più
feedback da incorporare- mentre l’azienda adattava il suo prodotto a nuovi mercati
e nuove versioni.
Ma il
fossato intorno ai paesi che godono di vantaggi strutturali nella tecnologia si
sta riducendo.
Grazie
in parte alla ricerca accademica più accessibile e all’ascesa del software
open source, le tecnologie si diffondono più rapidamente in tutto il mondo. La
disponibilità di nuovi progressi ha aiutato i concorrenti a raggiungere a velocità
record, come alla fine ha fatto la Cina nel 4G.
Sebbene
alcuni dei recenti successi tecnologici della Cina derivino dallo spionaggio
economico e dal disprezzo per i brevetti, gran parte di esso risale a sforzi
innovativi, piuttosto che derivati, per adattare e implementare nuove tecnologie.
In
effetti, le aziende cinesi hanno goduto di un successo clamoroso nell’adottare
e commercializzare innovazioni tecnologiche straniere.
Nel
2015, il Partito Comunista cinese ha definito la sua strategia” Made in China
2025 ” per raggiungere l’autosufficienza nelle industrie high-tech come le telecomunicazioni
e l’intelligenza artificiale.
Come parte di questa offerta, ha annunciato un
piano economico di “doppia circolazione”, in base al quale la Cina intende
aumentare la domanda interna ed estera per i suoi beni.
Attraverso
partenariati pubblico-privato, sussidi diretti alle aziende private e sostegno
alle aziende sostenute dallo stato, Pechino ha versato miliardi di dollari per
assicurarsi di uscire avanti nella corsa per la supremazia tecnologica.
Finora,
il record è misto. La Cina è davanti agli Stati Uniti in alcune tecnologie, ma
in ritardo in altri.
È difficile
dire se la Cina prenderà il comando nell’IA, ma gli alti funzionari di Pechino
pensano certamente che lo farà.
Nel 2017, Pechino ha annunciato l’intenzione
di diventare il leader globale nell’intelligenza artificiale entro il 2030, e
potrebbe raggiungere questo obiettivo anche prima del previsto.
La Cina ha già raggiunto il suo obiettivo di
diventare il leader mondiale nella tecnologia di sorveglianza basata sull’intelligenza
artificiale, che non solo utilizza per controllare i dissidenti in patria, ma
vende anche ai governi autoritari all’estero.
La
Cina si colloca ancora dietro gli Stati Uniti nell’attrarre le migliori menti
nell’intelligenza artificiale, con quasi il 60% dei ricercatori di alto livello
che lavorano nelle università statunitensi.
Ma le
leggi sulla privacy allentate della Cina, la raccolta obbligatoria dei dati,
l’innovazione
genera più innovazione.
I
finanziamenti governativi mirati danno al paese un vantaggio chiave.
In
effetti, è già leader nella produzione di veicoli autonomi.
Per
ora, gli Stati Uniti mantengono ancora un vantaggio nel calcolo quantistico.
Eppure negli ultimi dieci anni, la Cina ha investito almeno 10 miliardi di dollari
in tecnologia quantistica, circa dieci volte tanto quanto il governo degli
Stati Uniti.
La Cina sta lavorando per costruire computer
quantistici così potenti da poter facilmente decifrare la crittografia di oggi.
Il
paese sta anche investendo pesantemente in reti quantistiche— un modo di trasmettere
informazioni sotto forma di bit quantistici -presumibilmente nella speranza che
tali reti siano impermeabili al monitoraggio da parte di altre agenzie di intelligence.
Ancora più allarmante, il governo cinese
potrebbe già memorizzare le comunicazioni rubate e intercettate con un occhio a
decifrarle una volta che possiede la potenza di calcolo per farlo, una strategia
nota come “store now, decrypt later.”
Quando
i computer quantistici diventeranno abbastanza veloci, tutte le comunicazioni
crittografate attraverso metodi non quantistici saranno a rischio di intercettazione,
aumentando la posta in gioco per raggiungere prima questa svolta.
La
Cina sta anche cercando attivamente di raggiungere gli Stati Uniti nella biologia
sintetica.
Gli
scienziati in questo campo stanno lavorando su una serie di nuovi sviluppi biologici,
tra cui il cemento microbico che assorbe l’anidride carbonica, le colture con
una maggiore capacità di sequestrare il carbonio e i sostituti della carne a
base vegetale.
Tale
tecnologia ha enormi promesse per combattere il cambiamento climatico e creare
posti di lavoro, ma dal 2019, gli investimenti privati cinesi nella biologia
sintetica hanno superato gli investimenti statunitensi.
Quando
si tratta di semiconduttori, anche la Cina ha piani ambiziosi.
Il
governo cinese sta finanziando sforzi senza precedenti per diventare leader
nella produzione di semiconduttori entro il 2030.
Le
aziende cinesi stanno attualmente creando quelli che sono noti nel settore come
chip “a sette nanometri”, ma Pechino ha messo gli occhi ulteriormente, annunciando
piani per produrre a livello nazionale la nuova generazione di chip “a cinque
nanometri”.
Per
ora, gli Stati Uniti continuano a sovraperformare la Cina nella progettazione
di semiconduttori, così come Taiwan e Corea del Sud allineate agli Stati
Uniti. Nell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha preso l’importante passo
di bloccare le principali aziende statunitensi che producono chip per computer
AI dalla vendita in Cina come parte di un pacchetto di restrizioni rilasciate
dal Dipartimento del Commercio.
Eppure
le aziende cinesi controllano più della metà di tutti i ricercatori di intelligenza
artificiale negli Stati Uniti che proviene dall’estero.
L’85
per cento della lavorazione dei minerali delle terre rare che vanno in questi
chip e altri componenti elettronici critici, è made in Cina, offrendo un importante
punto di leva rispetto ai loro concorrenti.
UNA
BATTAGLIA DI SISTEMI.
La competizione
tra Stati Uniti e Cina è tanto una competizione tra sistemi quanto tra stati.
Nel
modello cinese di fusione civile-militare, il governo promuove la concorrenza
interna e finanzia i vincitori emergenti come” campioni nazionali”.
Queste
aziende svolgono un duplice ruolo, massimizzando il successo commerciale e promuovendo
gli interessi di sicurezza nazionale cinese. Il modello americano, d’altra
parte, si basa su un insieme più disparato di attori privati. Il governo federale
fornisce finanziamenti alla scienza di base, ma in gran parte lascia l’innovazione
e la commercializzazione al mercato.
Per
molto tempo, la tripletta del governo, dell’industria e del mondo accademico è
stata la fonte primaria dell’innovazione americana.
Questa
collaborazione ha guidato molte scoperte tecnologiche, dallo sbarco sulla luna
a Internet. Ma con la fine della guerra fredda, il governo degli Stati Uniti è
diventato contrario all’assegnazione di finanziamenti per la ricerca applicata,
e ha persino abbassato l’importo dedicato alla ricerca fondamentale.
Sebbene
la spesa privata sia decollata, gli investimenti pubblici si sono stabilizzati
nell’ultimo mezzo secolo. Nel 2015, la quota dei finanziamenti governativi per
la ricerca di base è scesa sotto il 50 per cento per la prima volta dalla fine
della seconda guerra mondiale, dopo aver oscillato intorno al 70 per cento nel
1960.
Nel
frattempo, la geometria dell’innovazione—il rispettivo ruolo degli attori pubblici
e privati nel guidare il progresso tecnologico—è cambiata dalla guerra fredda,
in modi che non hanno sempre prodotto ciò di cui il paese ha bisogno.
L’aumento del capitale di rischio ha contribuito ad accelerare l’adozione e la
commercializzazione, ma ha fatto poco per affrontare problemi scientifici di
ordine superiore.
Le
ragioni della riluttanza di Washington a finanziare la scienza che serve come
fondamento del potere dell’innovazione sono strutturali. L’innovazione richiede
rischi e, a volte, fallimenti—qualcosa che i politici sono riluttanti ad accettare.
L’innovazione può richiedere investimenti a lungo termine, ma il governo degli
Stati Uniti opera su un ciclo di bilancio di un anno e, al massimo, su un ciclo
politico di due anni. Nonostante questi ostacoli, la Silicon Valley (insieme ad
altri punti caldi negli Stati Uniti) è ancora riuscita a incoraggiare l’innovazione.
La storia di successo americana si basa su un potente mix di ambizione stimolante,
regimi legali e fiscali favorevoli alle startup e una cultura di apertura che
consente agli imprenditori e ai ricercatori di iterare e migliorare nuove idee.
Tuttavia,
potrebbe non essere sufficiente. Il sostegno del governo ha svolto a lungo un
ruolo fondamentale nell’innovazione di partenza negli Stati Uniti, e la ricerca
in tecnologie che sembrano stravaganti ora potrebbe rivelarsi critica in un
futuro non troppo lontano.
Nel
2013, ad esempio, la “Defense Advanced Research Projects Agency “ha investito
in vaccini a RNA messaggero, lavorando con la società biotech Moderna, che in
seguito avrebbe sviluppato e consegnato un vaccino COVID-19 in tempi record.
Ma
tali esempi sono più rari di quanto dovrebbero essere.
La concorrenza
con la Cina richiede un rilancio dell’interazione tra il governo, il settore
privato e il mondo accademico.
Proprio
come la guerra fredda ha portato alla creazione del Consiglio di sicurezza
nazionale, la competizione alimentata dalla tecnologia di oggi dovrebbe stimolare
un ripensamento delle strutture politiche esistenti.
Come
ha raccomandato la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza
artificiale (che ho presieduto), un nuovo “consiglio per la competitività tecnologica”,
ispirato al NSC, potrebbe aiutare a coordinare l’azione tra gli attori privati
e sviluppare un piano nazionale per far progredire le tecnologie emergenti cruciali.
In un segno promettente, il Congresso sembra aver riconosciuto la necessità di
un sostegno decisivo.
Nel 2022, con un voto bipartisan, ha
approvato il “CHIPS and Science Act2, che dirige 200 miliardi di dollari in
finanziamenti per la R & S scientifica nei prossimi dieci anni.
INVESTIRE
NEL FUTURO
Come
parte del suo sforzo per garantire che rimanga una superpotenza dell’innovazione,
gli Stati Uniti dovranno investire miliardi di dollari in aree chiave della concorrenza
tecnologica. Nei semiconduttori, forse la tecnologia più vitale oggi, il
governo degli Stati Uniti dovrebbe raddoppiare i suoi sforzi verso le catene di
approvvigionamento onshore e “friend share”, trasferendole negli Stati Uniti o
in paesi amici.
Nell’energia
rinnovabile, dovrebbe finanziare la ricerca e lo sviluppo per la microelettronica,
immagazzinare i minerali delle terre rare (come il litio e il cobalto) necessari
per le batterie e i veicoli elettrici e investire in nuove tecnologie che possono
sostituire le batterie agli ioni di litio e compensare il dominio delle risorse
della Cina.
Nel frattempo, il lancio del 5G negli Stati
Uniti è stato lento, in parte perché le agenzie governative—in particolare il
Dipartimento della Difesa—controllano la maggior parte dello spettro radio ad
alta frequenza utilizzato dal 5G. Per raggiungere la Cina, il Pentagono
dovrebbe aprire più dello spettro agli attori privati.
Gli Stati
Uniti dovranno investire in tutte le parti del ciclo dell’innovazione, finanziando
non solo la ricerca di base, ma anche la commercializzazione. L’innovazione
significativa richiede sia l’invenzione che l’implementazione, l’abilità.
È
necessario eseguire e commercializzare nuove invenzioni su larga scala.
Questo
è spesso il principale ostacolo. La ricerca sulle auto elettriche, ad esempio,
ha aiutato General Motor a portare il suo primo modello sul mercato nel 1996,
ma ci sono voluti altri due decenni prima che Tesla producesse in serie un
modello commercialmente valido. Ogni nuova tecnologia, dall’intelligenza artificiale
al calcolo quantistico alla biologia sintetica, deve essere perseguita con il
chiaro obiettivo della commercializzazione.
Oltre
a investire direttamente nelle tecnologie che alimentano il potere dell’innovazione,
gli Stati Uniti devono investire nell’input che sta al centro dell’innovazione:
il talento.
Gli Stati Uniti vantano le migliori startup
del mondo, le aziende incumbent e le università, che attraggono i migliori e i
più brillanti da tutto il mondo. Eppure troppe persone di talento sono impedite
di venire negli Stati Uniti dal suo sistema di immigrazione obsoleto.
Invece di creare un percorso facile per una
carta verde per gli stranieri che guadagnano gradi STEM da scuole americane, il
sistema attuale rende inutilmente difficile per i migliori laureati di contribuire
all’economia degli Stati Uniti.
Gli
Stati Uniti hanno un vantaggio asimmetrico quando si tratta di impiegare immigrati
altamente qualificati, e i suoi invidiabili standard di vita e abbondanti opportunità
spiegano perché il paese ha attirato la maggior parte delle menti più brillanti
del mondo.
Più della metà di tutti i ricercatori di IA
che lavorano negli Stati Uniti proviene dall’estero e la domanda di talenti
dell’IA supera ancora di gran lunga l’offerta.
Se gli Stati Uniti chiudono le porte agli immigrati
di talento, rischiano di perdere il loro vantaggio innovativo. Proprio come il
Progetto Manhattan è stato guidato in gran parte da rifugiati ed emigrati
dall’Europa, la prossima svolta tecnologica americana sarà quasi certamente
basata sugli immigrati.
LA
MIGLIORE DIFESA.
Come
parte dei suoi sforzi per tradurre l’innovazione in hard power, gli Stati Uniti
devono fondamentalmente ripensare alcune delle sue politiche di difesa. Durante
la guerra fredda, il paese ha progettato varie strategie di “offset” per controbilanciare
la superiorità numerica sovietica attraverso la strategia militare e le innovazioni
tecnologiche. Oggi Washington ha bisogno di quella che lo Special Competitive
Studies Project ha definito una strategia “Offset-X”, un approccio competitivo
attraverso il quale gli Stati Uniti possono mantenere la superiorità tecnologica
e militare.
Data
la quantità di militari ed economie moderne che si basano su infrastrutture
digitali, è probabile che qualsiasi futura guerra di grandi potenze inizi
con un attacco informatico. Le difese informatiche degli Stati Uniti, quindi,
hanno bisogno di un tempo di risposta più veloce del tempo di reazione degli
umani. Dopo aver affrontato costanti attacchi informatici
anche
in tempo di pace, gli Stati Uniti dovrebbero armarsi di ridondanza, creando
sistemi di backup e percorsi alternativi per i flussi di dati.
Ciò
che inizia nel cyber spazio potrebbe facilmente degenerare nel regno fisico, e
anche lì gli Stati Uniti dovranno affrontare nuove sfide. Per contrastare possibili
attacchi di droni sciame, deve investire in artiglieria difensiva e sistemi missilistici.
Per migliorare la consapevolezza sul campo di battaglia, l’esercito americano
dovrebbe concentrarsi sull’implementazione di una rete di sensori economici alimentati
dall’intelligenza artificiale per monitorare le aree contestate, un approccio
che è spesso più efficace di un singolo sistema squisitamente artigianale. Mentre
l’intelligenza umana diventa più difficile da ottenere, gli Stati Uniti devono
sempre più fare affidamento sulla più grande costellazione di sensori di qualsiasi
paese, che vanno dal sottomarino allo spazio esterno. Dovrà anche concentrarsi
maggiormente sull’intelligenza open source, dato che la maggior parte dei dati
del mondo oggi è disponibile al pubblico. Senza questa capacità, gli Stati
Uniti rischiano di essere sorpresi dai loro fallimenti di intelligence.
Quando
si tratta di combattimenti effettivi, le unità militari dovrebbero essere collegate
in rete e decentralizzate per superare meglio gli avversari. Di fronte ad avversari
con rigide gerarchie militari, gli Stati Uniti potrebbero ottenere un vantaggio
utilizzando unità più piccole e più connesse i cui membri sono abili nel processo
decisionale basato sulla rete, impiegando gli strumenti dell’intelligenza artificiale
a loro vantaggio. Ad esempio, una singola unità
potrebbe
riunire capacità di raccolta di intelligence, attacchi missilistici a lungo raggio
e guerra elettronica. Il Pentagono deve fornire ai comandanti sul campo di battaglia
tutte le migliori informazioni e consentire loro di fare le migliori scelte sul
terreno.
L’esercito
degli Stati Uniti deve anche imparare a integrare le nuove tecnologie nel suo
processo di approvvigionamento, nei piani di battaglia e nei combattimenti di
guerra. Nei quattro anni in cui ho presieduto il Defense Innovation Board, sono
rimasto sbalordito da quanto fosse difficile farlo. Un importante collo di bottiglia
è l’oneroso processo di approvvigionamento del Pentagono: i principali sistemi
d’arma impiegano più di dieci anni per progettare, sviluppare e distribuire. Il
Dipartimento della Difesa dovrebbe cercare ispirazione nel modo in cui l’industria
tecnologica progetta i prodotti. Dovrebbe costruire missili nel modo in cui le
aziende ora costruiscono auto elettriche, utilizzando uno studio di progettazione
per sviluppare e simulare software, alla ricerca di innovazioni dieci volte
più veloci e convenienti dei processi attuali. L’attuale sistema di approvvigionamento
è particolarmente adatto per un futuro in cui il primato del software si rivelerà
decisivo sul campo di battaglia.
Gli
Stati Uniti spendono quattro volte di più di qualsiasi altro paese per procurarsi
sistemi militari, ma il prezzo è una metrica scadente per giudicare il potere
di innovazione. Nell’aprile 2022, le forze ucraine hanno sparato due missili Neptune
contro la Moskva, una nave da guerra russa di 600 piedi, affondando la nave. La
nave costò 750 milioni di dollari; i missili 500.000 dollari a testa. Allo
stesso modo, il missile antinave ipersonico all’avanguardia della Cina, il
YJ-21, potrebbe un giorno affondare una portaerei statunitense da 10 miliardi
di dollari. Il governo degli Stati Uniti dovrebbe pensarci due volte prima di
impegnare altri 10 miliardi di dollari e dieci anni per una nave del genere.
Spesso ha più senso acquistare molti articoli a basso costo invece di investire
in alcuni progetti di prestigio ad alto costo.
GIOCARE
PER VINCERE.
Nel
contesto del secolo la rivalità degli Stati Uniti con la Cina, il fattore decisivo
sarà il potere dell’innovazione. I progressi tecnologici nei prossimi cinque, dieci
anni determineranno quale paese avrà il sopravvento in questa competizione mondiale.
La sfida per gli Stati Uniti, tuttavia, è che i funzionari governativi sono
incentivati a evitare rischi e concentrarsi sul breve termine, lasciando il
paese a investire cronicamente nelle tecnologie del futuro.
Se la
necessità è la madre dell’invenzione, la guerra è l’ostetrica dell’innovazione. Parlando agli ucraini in visita a
Kiev nell’autunno del 2022, ho sentito da molti che i primi mesi della guerra
sono stati i più produttivi della loro vita. Gli Stati Uniti ultima veramente
globale nazione.
La
seconda guerra mondiale ha portato alla diffusa adozione della penicillina, una
rivoluzione nella tecnologia nucleare e una svolta nell’informatica. Ora, gli
Stati Uniti devono innovare in tempo di pace, più velocemente che mai. Non riuscendo
a farlo, sta erodendo la sua capacità di scoraggiare e, se necessario, di combattere
e vincere la prossima guerra.
L’alternativa
potrebbe essere disastrosa. I missili ipersonici potrebbero lasciare gli Stati
Uniti indifesi e gli attacchi informatici potrebbero paralizzare la rete elettrica
del paese. Forse ancora più importante, la guerra del futuro colpirà gli individui
in modi completamente nuovi: stati autoritari come la Cina e la Russia potrebbero
essere in grado di raccogliere dati individuali sulle abitudini di acquisto
degli americani, sulla posizione e persino sui profili del DNA, consentendo campagne
di disinformazione su misura e persino attacchi biologici mirati e omicidi. Per
evitare questi orrori, gli Stati Uniti devono assicurarsi di rimanere davanti
ai loro concorrenti tecnologici.
I principi
che hanno definito la vita negli Stati Uniti libertà, capitalismo, sforzo individuale
erano quelli giusti per il passato e rimangono tali per il futuro. Questi
valori fondamentali sono alla base di un ecosistema di innovazione che è ancora
l’invidia del mondo. Hanno permesso scoperte che hanno trasformato la vita quotidiana
in tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno iniziato la corsa all’innovazione in
pole position, ma non possono essere certi che rimarranno lì. Il vecchio mantra
della Silicon Valley vale non solo nell’industria ma anche nella geopolitica:
innovare o morire.
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