I piccoli uomini e il potere dei grandi.

 

I piccoli uomini e il potere dei grandi.

 

 

Élite e democrazia nel

pensiero politico moderno.

Pandorarivista.it - Lorenzo Mesini – (13 Marzo 2020) – ci dice:

 

Punto di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone:

governanti e governati, dominatori e dominati.

I primi costituiscono una minoranza più o meno ristretta, che tende a concentrare nelle proprie mani una grande quantità di potere e di risorse (sia materiali che simboliche).

I secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.

 Obiettivo principale della teoria delle élite, a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, è stato quello di elaborare una giustificazione teorica a questa indiscutibile uniformità che, con forme diverse, attraversa la storia e le società umane.

 La distinzione tra governanti e governati non è tuttavia una scoperta della scienza politica tra Otto e Novecento, ma è sempre stata oggetto delle varie tradizioni che attraversano la storia del pensiero politico.

In questo contributo verranno inquadrate alcune delle principali linee di sviluppo del pensiero politico moderno in merito al rapporto che lega élite e democrazia.

 Ci si concentrerà, innanzitutto, sulle modalità con cui il rapporto tra i governanti e i governati viene declinato nei diversi filoni del razionalismo politico moderno.

 Si procederà con l’opera di Gaetano Mosca, esponente dell’elitismo classico, per poi affrontare la critica dialettica svolta nei suoi confronti da Antonio Gramsci.

In conclusione si proporranno alcune riflessioni sulla prospettiva sviluppata dall’elitismo democratico nel Novecento.

 Ripercorrendo queste tappe si cercherà di illustrare come il rapporto tra governati e governanti, tra élite e democrazia sia stato declinato con esiti e modalità diverse, a seconda degli orizzonti valoriali e concettuali attraverso cui è stata di volta in volta pensata la politica, le relazioni sociali e la storia.

Il pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica.

 Se l’ordine politico antico e cristiano era concepito come un ordine naturale (oggettivo e gerarchico) posto a stabile fondamento della politica, l’età moderna pensa invece l’ordine come prodotto umano e artificiale, fondato sull’attività razionale degli individui, soggetto al conflitto e al mutamento.

L’idea di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

I grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

 L’assenza di un ordine naturale tra gli individui costituisce il problema da cui muove il pensiero politico moderno:

 la naturale uguaglianza tra gli uomini è infatti foriera di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra omnes dello stato di natura).

La necessità dell’ordine politico nasce quindi dall’esigenza di difendere l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli uomini, uguaglianza che deve essere tutelata dai suoi stessi effetti collaterali.

Attraverso il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge universalmente valida al suo interno.

Gli autori del potere (gli individui) tuttavia, non lo esercitano in maniera diretta, ma attraverso istituzioni rappresentative (il sovrano rappresentativo o un’assemblea parlamentare) che sono superiori a coloro che rappresentano.

 Gli autori del potere non coincidono quindi in maniera diretta con i suoi attori (le istituzioni rappresentative).

 Questo elemento di disuguaglianza all’interno del corpo politico moderno non deriva da alcuna superiorità di carattere ontologico o naturale ma è di carattere prettamente funzionale, volta a garantire l’unità dello Stato.

 In linea di principio nessuna distinzione sociale deve giustificare alcuna distinzione politica, dato che la politica è il prodotto della razionalità comune di cittadini uguali.

A esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo interno.

Ovviamente nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche, amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione reciproca.

Il pensiero politico moderno e la sua idea di democrazia (sia nella sua versione liberale che socialista) traggono la propria forza da:

 a) l’idea che nessuna differenza pre-politica (naturale o sociale) possa giustificare in linea di principio la superiorità politica di nessun cittadino,

b) la necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati.

 

Questo, beninteso, nella ferma consapevolezza del ruolo strategico giocato da una particolare élite sociale nello sviluppo dello Stato e del capitalismo (la borghesia).

L’importanza della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello Stato.

 Per il pensiero politico moderno risulta infatti illegittima ogni forma di ordine politico in cui i cittadini soggetti al potere non ne siano al contempo gli stessi autori.

 Legittimo è quel potere che nasce e si concepisce come autogoverno di cittadini uguali, obbedienti a leggi universali.

A questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto meno a livello teorico.

Ogni forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata dispotica o tirannica.

 

Nei confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite (Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica.

Muovendo dalla constatazione che in ogni contesto sociale ad esercitare il potere sono sempre gruppi ristretti, i teorici delle élite mostrano come la storia e il reale funzionamento delle istituzioni e della politica smentiscano di fatto la teoria liberale parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le dottrine socialiste.

Gaetano Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della storia e della politica sono sempre state le élite.

La distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della politica.

 La dinamica storica consiste per Mosca essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per assicurarsi maggior potere.

Nella “Teorica dei governi e governo parlamentare” (1883) si sottolinea come ogni governo consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si impone su una maggioranza divisa e disorganizzata.

Mosca distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi ambiti della società.

Il fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali classificazioni delle forme di governo.

 Le principali classificazioni tradizionali, quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere sotto le critiche di Mosca.

Le classiche forme di governo non sono semplicemente il risultato di classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la maschera legale dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di persone esercita effettivamente il potere.

Mosca è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei governati.

Con la teoria della formula politica Mosca intende individuare quelli che a suo avviso sono i principi astratti che consentono ai governanti di giustificare il proprio potere, in accordo con le convinzioni più diffuse nella società.

 Le ‘formule politiche’ non costituiscono semplici mistificazioni ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la propria obbedienza richiamandosi a norme generali.

Mosca riconduce la molteplicità di formule politiche a due principi:

uno soprannaturale e uno (apparentemente) razionale.

 Democrazia è per Mosca solo una delle formule politiche razionali con cui determinate élite giustificano il proprio potere.

Il principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura oligarchica di ogni governo.

Al di sopra delle molteplici formule politiche, per Mosca c’è sempre il potere di un’élite.

Anche quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti).

Queste, lungi dall’essere promotrici di emancipazione, sono le effettive detentrici del potere.

L’indagine moschiana sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del suo intreccio con la democrazia.

Consapevole dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in espansione contro i vecchi ceti dominanti.

Mediante l’uso di principi universali (libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia ha coinvolto il popolo nella sua ascesa al potere, legittimandosi come rappresentativa di tutta la nazione e non come classe particolare.

Dall’analisi di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo:

la legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere.

Contrariamente a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma gli interessi particolari del ceto politico o, peggio, dei suoi singoli membri.

La ricca riflessione condotta da “Antonio Gramsci” nei “Quaderni del carcere” si confronta con la scienza politica élitista con l’intenzione di superare le sue obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno.

 La critica gramsciana all’elitismo si inserisce nell’orizzonte di una scienza politica integralmente storicizzata e incentrata sul concetto di egemonia, come categoria generale della politica e della storia.

Obiettivo di Gramsci è quello di superare dialetticamente la teoria delle élite, sviluppandola in una prospettiva radicalmente democratica.

È soprattutto sulle opere di Gaetano Mosca (e in misura minore quelle di Michels e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci.

Le sue critiche riguardano sia l’impianto analitico della teoria moschiana sia il suo implicito orientamento politico conservatore.

 Gramsci condivide il principio secondo cui in ogni formazione sociale «esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti», come condivide il fatto che «tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)».

Anche per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli élitisti.

 La critica gramsciana all’elitismo riguarda il suo impianto positivista, che si limita a registrare meccanicamente determinati fatti e processi per poi elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della storia.

Tale approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e oligarchico dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a mantenere le disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.

 Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca, sia nella “Teorica” sia negli “Elementi di scienza politica “(1896, 1923), accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di concetti vaghi.

Quello che gli élitisti italiani non sono in grado di comprendere sono la natura e le dinamiche delle élite nel momento in cui le masse irrompono sulla scena politica europea, in particolare con l’avvento del primo conflitto mondiale.

Per questo Gramsci intende indagare la nascita, la selezione e le dinamiche politiche delle élite in una prospettiva essenzialmente storicista e dialettica.

Questa deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto comprendere le modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono coscienza di sé e del proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente degli intellettuali.

Nelle ricerche condotte nei “Quaderni” Gramsci non intende limitarsi a constatare la divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana.

 Per questo si domanda «come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti».

 Formazione dei dirigenti che deve avvenire muovendo dal presupposto che la distinzione tra governanti e governati non rappresenti un destino immutabile, ma «sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni».

 Il problema che Gramsci si pone è quello di tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il soggetto e lo Stato.

Questi permangono contrapposti in modo conflittuale e contraddittorio nelle architetture istituzionali liberal-democratiche.

L’elitismo approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice, affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e governati.

Per Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.

 Nel partito politico Gramsci individua il mezzo «più adeguato a elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di un’educazione delle masse capace di integrarle nel progetto di una piena autodeterminazione del corpo sociale («società regolata»).

Nel partito come «moderno Principe», l’esercizio delle funzioni politiche da parte delle proprie élite non è semplice dominio sulle masse.

 Al contrario costituisce quella combinazione di direzione, produzione di consenso, senso storico e organizzazione che ne determina la capacità egemonica nella società.

 La prospettiva radicalmente democratica di Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese.

Superamento della contrapposizione netta tra governanti e governati attraverso le funzioni organizzative di un partito(globalista) che ha l’ambizione di porsi come l’elemento rappresentativo e direttivo dello sviluppo dei conflitti e delle forze sociali.

Il pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa il problema del rapporto tra élite e democrazia.

Se per Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per Antonio Gramsci la soluzione del problema indicato dagli élitisti consisteva nel superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.) hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore in una prospettiva liberale.

Obiettivo comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la presenza di una pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema democratico.

 L’immagine di democrazia che ne emerge, specialmente dall’”opera di Schumpeter”, è quella di uno strumento istituzionale in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi di élite, elette attraverso il voto popolare.

La democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite (che non debbono avere come fine la creazione di un mondo globalizzato. N.D.R.)

Ne emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership:

 i cittadini dispongono del diritto di scegliere chi si assumerà la responsabilità di prendere le decisioni politiche e solo indirettamente cosa deciderà per la comunità intera.

Se, come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni:

la loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento (le elezioni). In altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci, della mediazione tra élite e società.

(Il globalismo ha annullato ogni mediazione possibile. N.D.R.)

 

 

 

IL CORAGGIO DI DIRE QUELLO CHE

SI PENSA IN UN MONDO DI MASCHERE.

Tragicomico.it – Redazione - (10 Marzo 2021) – Blog di Ivan Petruzzi – ci dice:

 

Viviamo in un mondo di maschere nel quale è difficile dire quello che si pensa, c’è bisogno di tanto coraggio e spesso si viene etichettati come persone non-comuni, non conformi, fuori dalle regole.

Quello che dovrebbe essere un vantaggio, un pregio, ossia l’essere verità, dire la propria verità, in realtà diventa una “scomodità” per il sistema, per chi ci circonda e per chi ogni giorno è abituato ad indossare una maschera diversa.

 Un mondo che abbiamo costruito noi stessi, fatto di apparenza, di inganni e di rapporti umani di circostanza;

dove dire quello che si pensa è spesso considerato poco opportuno, soprattutto se non coincide con quello che pensa il nostro interlocutore.

In pratica preferiamo indossare una maschera, per adattarci a persone, eventi e luoghi.

 Queste maschere sono frutto delle paure ereditate geneticamente da chi ci ha preceduto in questa società globalizzata, nella quale esiste la paura tangibile di risultare inadeguati se si è sinceri, paura di essere derisi, di rimanere soli, emarginati.

Ecco perché ci vuole coraggio per dire quello che si pensa.

 Perché bisogna abbattere questa paura ancestrale, la paura di restare soli, la paura di non essere capiti, la paura del giudizio o di ritorsioni nei propri confronti.

Ad esempio, conosco persone che pur essendo esemplari nel loro modo di vivere leale ed onesto, sono costrette a non poter esprimere quello che pensano, per il semplice motivo che se lo dovessero fare, i datori di lavoro gli direbbero “quella è la porta!”.

E con la crisi in atto e l’aumento della disoccupazione, la paura vince sul coraggio di essere sé stessi.

 Per “convenienza” anche queste persone che spiccano per doti umane, si sentono costrette a non potersi esprimere a proprio piacimento.

Scelgono di recitare un “ruolo”, quello del dipendente burattino, e il prezzo da pagare è sempre quella maledetta maschera da indossare.

 

Il rischio nel NON dire quello che si pensa è quello di smettere di essere sé stessi e di cadere in balia delle diverse personalità che affollano la nostra mente.

Smettendo di essere “veri” si smetterà di Essere sé stessi: è una legge!

Questo non vuol dire che il nostro Sé scomparirà da un giorno all’altro, ma giacerà addormentato nel profondo abisso della nostra essenza, sotto un immenso strato di pensieri compulsivi e personalità multiple sparate a raffica a seconda dei contesti nei quali viviamo.

Nascono così gli atteggiamenti di “facciata”, le frasi di circostanza, l’essere carini con tutti, gentili, sempre disponibili, mai una parola fuori posto. Insomma, dei perfetti fantocci!

 

“Solo le qualità che sorgono dalla nostra attività spontanea danno forza all’io e formano per tanto la base della sua integrità.

 L’incapacità di agire spontaneamente, di esprimere quel che veramente si sente e si pensa, e la conseguente necessità di presentare uno pseudo io agli altri e a sé stessi, sono la radice del sentimento di inferiorità e di debolezza.

Che ne siamo o no coscienti, non c’è nulla di cui ci vergogniamo di più del fatto di non essere noi stessi, e non c’è nulla che ci dia più orgoglio o felicità di pensare, sentire e dire quel che è nostro.

Ciò implica che quello che importa è l’attività in quanto tale, il processo e non il risultato.”

(Erich Fromm – “Fuga dalla libertà“)

 

Ma c’è di più, perché chi mente, compie uno spreco energetico non indifferente.

 L’indossare una maschera per ogni occasione così come il mentire comportano, infatti, uno sforzo.

Questo sforzo si traduce in un dispendio energetico inutile, perché lo scopo non è reale, bensì fittizio.

 Si indossa la maschera per fingere di essere reali, veri, genuini, quando in realtà la verità consiste nel coraggio di essere come siamo e nel dire ciò che pensiamo, senza maschere. Il non mentire, l’essere se stessi sempre e comunque, insieme al coraggio di dire quello che pensiamo, comportano un minor dispendio energetico e consentono, al contempo, di non renderci schiavi delle aspettative altrui.

Smetteranno così di esistere le paure, non avremo il timore di non piacere o di non essere all’altezza, perché saremo ciò che siamo e diremo ciò che pensiamo, senza alcuna paura. Dobbiamo smetterla di indossare maschere per piacere sempre agli altri, per essere alla moda, per non essere tagliati fuori dal gruppo.

Non dobbiamo aver paura di venire allontanati da chi, non ancora soddisfatto del suo sonno, desidera continuare a dormire.

Ricordatevi che dire quello che si pensa fa parte della natura umana.

 Pensate ad esempio ai bambini ed alla loro capacità di dire quello che pensano.

 A volte possono sembrare politicamente scorretti, fuori luogo, fin troppo sinceri, ma non c’è una “bella” menzogna che sia preferibile alla seppur cruda verità.

Quindi non auto-priviamoci della libertà di poter dire liberamente ciò che pensiamo, lo stesso Freud diceva che scherzando si può dire tutto, anche la verità!

(Tragicomico. Blog di Ivan Petruzzi)  

 

ECOCIDIO: UN CRIMINE ECOLOGICO

 IN NOME DEL PROGRESSO.

Tragicomico.it – (7 Luglio 2023) - Redazione - Blog di Ivan Petruzzi – ci dice:

 

Che cos’è l’ecocidio?

Si tratta di un eco-delitto, di un crimine ecologico atto a danneggiare e distruggere un ecosistema o un ambiente naturale per un tornaconto economico e produttivo.

Uno dei crimini più diffusi in quest’epoca moderna, un’epoca governata da un progresso ormai cieco e sordo verso il lamento di dolore e di sofferenza del nostro pianeta Terra.

La nostra società moderna, infatti, tende a misurare il progresso quasi esclusivamente in termini materialistici: tutto ciò che è prodotto – anche l’oggetto più inutile – viene etichettato come “benessere”.

 Il concetto di progresso ha assunto a poco a poco un’importanza così dominante da essere ormai al di là di ogni discussione critica.

Nessuno vuol sentire parlare di crimine ecologico o, peggio ancora, di ecocidio.

Personalmente, con tutta la mia visione tragicomica della questione, ritengo che si possa affermare senz’ombra di dubbio che un tale concetto di progresso, se portato alle sue logiche conseguenze, distruggerà inevitabilmente ciò che si ripromette di raggiungere.

L’aspirazione a diventare sempre più ricchi, anno dopo anno e costi quel che costi in termini ecologici, è destinata a distruggere inevitabilmente le risorse naturali e i sistemi di supporto della vita da cui dipendiamo.

Pertanto come possiamo definire questo scempio ambientale se non come un vero e proprio crimine ecologico?

 

I politici di tutto il mondo, al netto dei fili che li manovrano, si rendono bene conto che il vortice che hanno contribuito a creare si fa sempre più rumoroso, più sporco e più rischioso ma, incitati come non mai da economisti incompetenti, spietati e incapaci di distinguere fra una zolla di terra e un grumo di cemento, non osano fare marcia indietro in questo ecocidio sistematico.

E per quanto ingiusto e perverso possa essere considerato questo sistema di vita, la Terra è riuscita finora a fare fronte a oltre sette miliardi di individui che cercano di realizzare secondo questi principi le loro fantasie materialistiche.

È da escludere, però, che riesca a sostenere venti, o addirittura trenta miliardi di individui governati dalle stesse illusioni.

“Gli eco-assassini se ne vanno in giro indisturbati in giacca e cravatta col sorriso sulle labbra, protetti dagli interessi dei Grandi Distruttori.

 Si credono potenti eppure sono schiavi come tutti noi di questa follia collettiva che si chiama mercato, una follia che ignora le leggi dell’universo e insegue quelle del puro profitto.

Il dio denaro è stato messo su un piedistallo smaltato d’oro e sangue e tutto gli è stato sacrificato:

i ritmi della Natura, le leggi della Terra, la vita delle creature che la abitano, noi tra le altre mille.

Abbiamo rinunciato alla nostra libertà e ai nostri valori ancestrali per chiuderci dentro la gabbia di una società cieca e crudele, che genera figli geneticamente modificati e poi se ne ciba, dimenticandosi che l’uomo è il cibo che mangia e le azioni che compie, che quel che è fuori è dentro e quel che è dentro è fuori.”

(Dal mio libro “Schiavi del Tempo”)

Dobbiamo essere tutti consapevoli dell’ecocidio in atto, un attentato verso Madre Natura per sostenere questo ritmo frenetico chiamato progresso, che lacera la Terra, spreme le sue ricchezze, cancella la sua coltre vitale di suolo e di foreste, avvelena la sua aria pura e insozza le sue acque limpide.

 In tutto questo scenario, l’indicatore più importante del declino ambientale è il livello di reversibilità del danno.

L’aspetto ancora più drammatico di questo ecocidio generalizzato è che una generazione umana possa lacerare così gravemente il tessuto vitale di questo pianeta da provocare un danno letteralmente irreversibile per ogni generazione successiva.

A tal proposito mi viene in mente un proverbio in uso fra la comunità dei Navajo, un vero monito per tutti coloro che intaccano senza pietà le risorse naturali a nostra disposizione:

“Non ereditiamo la terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri figli”.

Dobbiamo riacquisire il desiderio di vivere in armonia con la Terra e di contribuire a un processo di guarigione, regalando a essa tempo e spazio per risanarsi.

Abbiamo realmente il diritto di commettere questo crimine ecologico e di sperperare in questo modo un’eredità naturale così importante?

Esistono soluzioni alternative, molto più ecologiche e allo stesso modo funzionali, perché non adoperarle a pieno regime?

Che senso ha mandare l’uomo sulla Luna mentre milioni di individui riescono a malapena a sopravvivere sulla Terra?

Invece di pensare a usurpare e inquinare anche lo spazio sopra le nostre teste, non sarebbe il caso di pensare prima alla cura e alla bonifica del nostro stesso pianeta, che ci nutre e ci sussiste?

 

“L’uomo è la specie più folle: venera un Dio invisibile e distrugge una Natura visibile.

Senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando.”

(Hubert Reeves – “Il mare spiegato ai miei nipoti”)

Ogni volta che un nuovo ettaro di terra scompare sotto cemento e catrame, la capacità produttiva di quel tratto di suolo agricolo va persa per sempre.

Ogni volta che una foresta è rasa al suolo, gli animali selvatici scacciati, un fiume e i prati trasformati in edifici, stiamo sostituendo alla natura libera un costrutto artificiale, arbitrario e autoritario.

Dobbiamo smettere di dare per scontata la Terra, questa non è più l’epoca degli indugi e dei ripensamenti.

In fin dei conti, è la sola Casa che abbiamo.

Lei non è solo Madre, è anche Maestra.

La lezione è sotto gli occhi di tutti, non c’è più tempo, dobbiamo lavorare tutti insieme e sodo per riparare al danno che è stato fatto, così da approfondire la nostra conoscenza di ciò che è andato storto e il perché di questo continuo ecocidio che ha impoverito la Terra nel nome del progresso.

E smetterla una volta per tutte di essere solo consumatori e approfittatori; è tempo di tornare a essere guardiani e custodi della nostra Casa.

Prima che sia troppo tardi.

(Tragicomico.it -Blog di Ivan Petruzzi) 

 

 

 

 

Globalizzazione politica - Che cos'è,

 definizione e concetto –

2021 - Economy-Wiki.com.

Economy-pedia.com – (10-5- 2021) -Redazione – ci dice:

 

Sommario.

Vantaggi della globalizzazione politica.

Svantaggi della globalizzazione politica.

La globalizzazione politica è il processo mediante il quale vengono create le normative che raggiungono la portata globale.

Così, gran parte dei paesi del mondo si impegna a seguire determinate linee guida.

Vista in altro modo, la globalizzazione politica è un fenomeno per cui emergono meccanismi e istituzioni internazionali a cui sempre più nazioni decidono di aderire.

Poi promettono di seguire alcune norme, per esempio, riguardo al rispetto dei diritti umani.

La globalizzazione politica va di pari passo con la globalizzazione sociale, che è il processo attraverso il quale tutte le persone del mondo cercano il riconoscimento degli stessi diritti.

Allo stesso modo, non dobbiamo trascurare il ruolo chiave della tecnologia che rende possibile la comunicazione remota in tempo reale.

 Questo ha un impatto sulla globalizzazione politica perché, nel caso in cui un paese violi, ad esempio, i suoi impegni internazionali, questo si diffonderà all'istante.

Alcuni esempi di globalizzazione politica sono le Nazioni Unite (ONU), l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l'Organizzazione degli Stati americani (OAS).

(Tutte organizzazioni altamente corrotte! N.d.R.)

Vantaggi della globalizzazione politica.

La globalizzazione politica presenta principalmente i seguenti vantaggi:

Consente ai paesi di cooperare per combattere problemi comuni come la povertà, il riscaldamento globale o la malnutrizione.

Le soluzioni diplomatiche ai conflitti tra paesi possono essere ricercate attraverso le organizzazioni internazionali.

Grazie alla globalizzazione politica, esistono organismi internazionali a cui i cittadini possono rivolgersi in caso di violazione dei loro diritti.

 Questo può essere della massima importanza, ad esempio, se un governo agisce con un genocidio contro il proprio popolo.

Di fronte a queste situazioni abbiamo enti come la “Corte Interamericana dei Diritti Umani”.

Essendo sotto il controllo della comunità internazionale, il rischio di autoritarismo sarà ridotto.

A questo punto ricordiamo che i processi elettorali hanno solitamente osservatori stranieri.

Vantaggi e svantaggi della globalizzazione.

Svantaggi della globalizzazione politica.

Tuttavia, la globalizzazione politica presenta anche alcuni svantaggi:

Assumendo accordi internazionali, i paesi rinunciano a parte della loro sovranità. In altre parole, il governo non ha mano libera per applicare misure contrarie agli accordi precedentemente sottoscritti.

Proseguendo con quanto sopra, la perdita di sovranità potrebbe generare il malcontento di una parte della popolazione.

 Ciò avviene principalmente in contesti di crisi economica o politica, e può finire per portare all'emergere di movimenti nazionalisti.

Può succedere che paesi con maggiore potere economico e politico ottengano una maggiore influenza nelle organizzazioni internazionali, imponendo la loro agenda e le loro condizioni.

Tuttavia, si presume che tutti i paesi affiliati a un'entità sovranazionale dovrebbero avere una rappresentanza in essa, contando, in teoria, con voce e voto.

   

 

 

 

GLOBALISMO O NAZIONALISMO:

QUAL È IL FUTURO?

   Opinione.it - Gerardo Coco – (04 ottobre 2019) -ci dice:

 

Il rifiuto della globalizzazione era stato elemento centrale della campagna elettorale di Donald Trump e il 24 settembre scorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo ha ribadito con queste parole:

 “Guardandosi intorno su questo grande, magnifico pianeta, la verità è evidente, se vuoi la libertà, sii orgoglioso del tuo Paese.

Se vuoi la democrazia, mantieni la tua sovranità.

E se vuoi la pace, ama la tua nazione.

I leader saggi mettono sempre al primo posto il bene della propria gente e del proprio Paese”.

E poi: Il futuro non appartiene ai globalisti, il futuro appartiene ai patrioti”.

Il futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti che proteggono i loro cittadini, rispettano i loro vicini e onorano le differenze che rendono ogni Paese speciale e unico.

Trump si è dunque richiamato al nazionalismo come alla forma politica che protegge i cittadini dalle minacce esterne, contrastandolo con il globalismo dei “confini aperti” che ha definito “crudele e malvagio”.

Ma cosa si intende per globalismo?

 È la globalizzazione economica?

Non solo, il concetto abbraccia anche quello di globalizzazione politica, inseparabile, purtroppo, da quella economica.

 La globalizzazione economica che è l’integrazione mondiale dei mercati intensificatasi nei tempi moderni grazie allo sviluppo della connettività globale, in fondo, è sempre esistita:

nessun Paese ha mai prodotto solo per soddisfare solo le proprie esigenze, ma ha prodotto anche per soddisfare quelle di altri Paesi.

La globalizzazione politica, invece, è l’integrazione, nel sistema mondiale, dei governi nazionali con tutti quegli elementi indipendenti, come le organizzazioni internazionali governative e non governative e i movimenti sociali organizzati, tutti con la missione di far fronte a problemi sempre più complessi che spaziano dalle crisi economiche alla protezione dell’ambiente e che per essere risolti richiedono un processo decisionale centralizzato, cioè, una global governance.

Quindi, una burocrazia sovranazionale non eletta che opera su base monopolistica, senza dover rendere conto a nessuno, detta regole al mondo intero per unirlo sotto un unico sistema planetario, ritenendo che gli Stati nazionali, ormai obsoleti, debbano essere sostituiti da un potere politico attivo a livello globale.

Nella pratica, i globalisti lavorano a questo obiettivo attraverso organizzazioni formali come l’Onu, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale e l’Ocse, le prime organizzazioni nate per promuovere la globalizzazione politica.

L’ultima in ordine di tempo e più rappresentativa istituzione globalista è “l’Unione europea”, concepita come superstato centralizzato per dissolvere gli Stati nazionali come zollette di zucchero in una tazza di acqua calda.

A livello informale, invece, la globalizzazione politica opera attraverso istituzioni come Fondazioni, Ong, la Commissione trilaterale e, soprattutto, il World Economic Forum di Davos, dove le élites cosmopolite lanciano programmi di politicizzazione dell’economia, del sistema educativo, religioso e culturale per dirigere e determinare tutte le relazioni tra le persone nei vari continenti.

In contrasto con forme democratiche di governo, il globalismo non consente all’elettorato di esprimersi su questioni fondamentali come, ad esempio, la Brexit, perché, come ha affermato Angela Merkel,:

“I politici non devono ascoltare la volontà dei loro cittadini quando si tratta di questioni di sovranità“ (discorso del 29 dicembre 2018 alla Konrad Adenauer Foundation, Berlino)

Alla base di questa concezione che compenetra i media dominanti e la politica, c’è il pensiero socialista e comunista, collettivista, anticristiano e antioccidentale.

Anche la gestione della crisi migratoria che attualmente affligge l’Europa, nasce dall’approccio internazionalista alla politica estera di élites privilegiate che, chiuse nelle loro torri d’avorio e col pretesto dell’intervento umanitario, mirano alla conquista demografica dell’Occidente da parte del Terzo Mondo, cioè al “genocidio bianco” e, in definitiva, al crollo di qualsiasi resistenza al governo socialista-comunista globale.

Punto di forza dell’agenda globalista è il piano fiscale di sorveglianza planetario, il controllo poliziesco sui redditi delle popolazioni.

Sponsor di rilievo di questa operazione è il” Fondo Monetario Internazionale”, che in un documento ufficiale ha auspicato il governo mondiale tramite l’arma fiscale.

Ma la copertura perfetta all’agenda globale è fornita dalla lotta al cambiamento climatico, in quanto la gestione del fenomeno richiede una politica coordinata a livello internazionale per giustificare ulteriore tassazione e, al fine di gestire l’emergenza, una governance autoritaria in nome della salvezza del mondo.

La maggior parte dei globalisti, troppo arrogante per mettere in discussione la propria visione del mondo, credeva che la globalizzazione portasse al declino definitivo dello stato-nazione creando un nuovo ordine mondiale, senza capire che le tendenze nazionaliste e populiste non sono affatto un’anomalia ma forze potenti che emergono sempre in tempi di declino economico e sono in grado di invertire qualsiasi altra politica soprattutto quando monta la rabbia e la frustrazione della maggioranza che vede arricchirsi solo una minoranza privilegiata.

Pertanto le élites sovranazionali sono rimaste spiazzate sia dalla dichiarazione di indipendenza del Regno Unito dalla Ue, sia dall’elezione di Donald Trump, due inequivocabili e forti manifestazioni di antiglobalizzazione.

Come la concorrenza tra le singole imprese produce risultati migliori, mentre i monopoli e gli oligopoli danno luogo a inefficienza e sono contro gli interessi dei consumatori, lo stesso vale anche per i governi.

Si dovrebbero dunque accogliere con favore i nazionalismi e deplorare le cessioni di sovranità a un governo globale incontrollabile e senza concorrenza.

 È importante osservare, infatti, che le “agende globali” sempre svantaggiose per le popolazioni, vengono fatte accettare come “accordi internazionali” per evitare ripudi elettorali e correzioni democratiche.

 Per tal motivo tutti i trattati internazionali vanno visti con sospetto perché, quasi sempre, vanno contro gli interessi della gente.

Tuttavia è da ingenui credere il futuro non appartiene ai globalisti ma agli stati-nazione.

 Lo stato sovrano, così come è oggi, sempre più intrusivo, tassatore, re-distributore e corrotto non è affatto fonte di sicurezza e ha sempre meno la fiducia dell’elettorato.

La soluzione alla miriade di problemi sociali ed economici della società occidentale non può venire né dal globalismo né da nessuna riforma degli stati nazionali, ma dalla loro dissoluzione.

La salvezza è nella decentralizzazione politica:

solo attraverso un mondo composto da centinaia, se non migliaia, di Liechtenstein, Hong Kong, Monaco, confederazioni e città libere si può sfuggire alla tirannia della centralizzazione politica.

 

 

 

L’uomo e il potere.

 Expartibus.it - Pietro Riccio – (14 Settembre 2018) – ci dice:

 

L’effimero e l’eterno.

Da sempre gli uomini inseguono il potere. Fanno di tutto per raggiungerlo. Sacrifici, spesso duri, vita privata ed affetti che passano in secondo piano. A volte attraverso il ricorso a mezzi poco o per niente leciti. Tutto pur di arrivare all’obiettivo.

Ma questo potere che sembra avere un valore più alto di tutto ciò a cui si rinuncia, che cosa è in effetti?

Cosa dà di tanto importante e tanto bramato?

 

Il potere di solito è visto come qualcosa che porta alla possibilità di influenzare gli altri e in generale il corso delle cose. Spesso è associato anche alla ricchezza, che sicuramente è legata a doppio filo ad una certa concezione di potere.

Ma queste risposte da senso comune sono sicuramente semplicistiche. Cerchiamo di mettere ordine.

Partiamo dalla definizione del “Devoto-Oli”:

“Quanto è consentito dalla volontà o disponibilità del soggetto. Ambito sottoposto all’esercizio di un dominio generalmente incontrollabile”.

Un primo spunto ci viene da un termine, volontà.

Un vecchio adagio recita che volere è potere.

Al di là di considerazioni che non si discostano da un ragionamento che ricade nel popolare, lo spunto è sicuramente interessante; lo riprenderemo più avanti.

Un’analisi del potere decisamente articolata ci viene dal sociologo” Max Weber” che così definisce la potenza:

Qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità.

Annotiamo come ricorra, anche in questo caso, il termine volontà.

Sempre “Weber” parlando del potere legittimo:

La possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto.

“Weber distingue” tre tipi di potere: carismatico, tradizionale e razionale.

Quello carismatico poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona e degli ordinamenti rivelati o creati da essa.

Quello tradizionale poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire un’autorità.

Quello razionale poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere.

Il potere, dunque, può avere diverse basi, diverse legittimazioni.

Può fondarsi sulle qualità del singolo, su una sacralità che ci viene dall’alto o dalla tradizione, su un ordinamento o su una norma.

In linea di massima, però, si tratta della capacità di imporre la propria volontà, di indurre gli altri a comportarsi nel modo che vogliamo.

Non importa che questo accada perché si è leader, quindi secondo una legittimazione carismatica, o perché si è capi, dunque si decida in virtù di una posizione gerarchica e, pertanto, sulla base di motivazioni razionali.

Questo è, in effetti, il potere inseguito dai più.

Ma spesso si tratta di un potere effimero, che può essere legato ad un periodo limitato, a particolari condizioni che potrebbero venire meno.

Non dipende solamente dal soggetto che desidera il potere, ma anche da quelli che lo circondano, che un giorno potrebbero non subire più la stessa influenza.

Questo potere non può che essere considerato illusorio.

“A parte i nostri pensieri, non c’è nulla che sia davvero in nostro potere”.

(Cartesio)

Questa frase di Cartesio riporta l’attenzione su un altro ambito di applicazione della volontà.

Colui che conosce gli altri è sapiente; colui che conosce sé stesso è illuminato.

 Colui che vince un altro è potente; colui che vince sé stesso è superiore.

(Lao Tzu)

E ancora la frase scritta presso il “Tempio dell’oracolo di Delfi”:

Γνῶθι Σεαυτόν (gnỗthi seautón)

Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli Dei.

Il vero potere, quello duraturo, l’unico riconosciuto da Cartesio, è quello che si applica su sé stessi, sul proprio pensiero.

Il potere, piuttosto che essere concepito come la possibilità di limitare la libertà degli altri, imponendo le proprie decisioni, è inteso come capacità di amplificare la propria, di libertà.

“Ho cercato la libertà, più che la potenza, e questa solo perché, in parte, assecondava la prima”.

(Marguerite Yourcenar)

Libertà come consapevolezza, come capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, di agire, dunque, nel modo esatto che si desidera, senza lasciare nulla al caso, o, posto che il caso non esista, non lasciarsi limitare dalle volontà altrui come da una scarsa applicazione della propria, non lasciarsi preda di una mancata consapevolezza che porta a risvolti non attesi delle proprie azioni.

Paradossalmente questa concezione si stacca da quella di una libertà intesa nel senso tradizionale del termine.

Si può essere liberi anche rinchiusi in una piccola cella di pochi metri quadrati, come essere schiavi anche se si possono contemplare ampi orizzonti.

Il potere, per non essere qualcosa di effimero, non può essere rivolto all’esterno.

Quando si è padroni di sé stessi, poi, si è padroni del mondo, pur non conservando nessun interesse nella materialità, proprio perché dalla materialità ci si distacca.

(Pietro Riccio)

(Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore).

LIBERTÀ UMANA, POTERE POLITICO:

LEGAMI E CONVERGENZE TRA

“ÉTIENNE DE LA BOÉTIE” E LA POSTERITÀ.

 Filosofiaenuovisentieri.com – (9 luglio 2023) - Serafino Di Sanza – ci dice:

 

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati.

 Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce.

 L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona».

(Denis Diderot)

 

Questo saggio si propone di mettere in relazione il pensiero del filosofo” Étienne de La Boétie “con quello di altri libertari e intellettuali e di riflettere sul concetto di libertà e sulla natura del potere.

L'assunto fondamentale di questo saggio è che la libertà è una continua conquista perché può essere minacciata in ogni momento.

 Tutti noi siamo corruttibili ed esposti al rischio di fare del male.

C'è un solo modo per combattere l'insorgere del male e preservare la nostra libertà:

non smettere mai di pensare.

Il pensiero e il giudizio sono gli unici antidoti alla malvagità.

Sommario.

Introduzione; 2. Convergenze tra Shakespeare, La Boétie e Arendt; 3. Il fascino della schiavitù; 4. Dalla diagnosi alla prognosi.

Parole chiave: libertà, verità, pensiero, schiavitù, potere, male.

Mai sinora nella storia un regime di schiavitù è caduto sotto i colpi degli schiavi.

La verità è che, secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino al punto di farsi amare dall’uomo stesso;

che la libertà è preziosa solo agli occhi di coloro che la possiedono effettivamente;

e che un regime del tutto inumano, com’è il nostro, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi, tanto gli oppressi quanto gli oppressori.

 (Simone Weil, Riflessioni)

Introduzione.

C’è una cellula di” Étienne de La Boétie” in ogni libertario:

 nel” Bakunin” di “Stato e anarchia”, in “Simone Weil”, negli autori delle più celebri distopie del Novecento – “Huxley e Orwell “–, in “Hannah Arendt”…

L’influenza che” La Boétie” ha esercitato su intere generazioni di intellettuali – e di semplici anticonformisti “irregolari” in cerca di libertà – è notevolissima e il presente saggio si propone con estrema umiltà di rendere omaggio al suo antiautoritarismo, cercando nella letteratura e nel pensiero libertario alcune tracce del suo capolavoro, il “Discorso della servitù volontaria”, il più illuminante e prezioso testamento che” La Boétie” potesse lasciare al “nostro enigmatico genere umano”.

Nato nel 1530 a Sarlat, in Aquitania, “Étienne de La Boétie” fu giurista nell’incendiaria epoca delle guerre di religione e amico di “Michel de Montaigne”, il quale dedicò a “La Boétie” il capitolo XXVIII dei suoi Saggi – intitolato “Dell’amicizia”.

“Montaigne” capì che il suo amico fraterno avrebbe trasceso i secoli, al punto da scrivere: «non conosco nessuno che possa stargli a confronto»

(Michel de Montaigne, 2014, p.170).

Questa fascinazione di uno dei pensatori più celebri è dovuta principalmente al messaggio di verità contenuto nel” Discorso”.  Questo breve e sulfureo libello nacque da un proposito ben preciso: dallo sforzo di dare un nome a un vizio così innominabile da restare troppe volte innominato.

 In effetti, il giovane giurista percepì qualcosa di oscuro, di torbido e di paurosamente ambiguo nell’antico legame tra comando e obbedienza.

La Boétie “è angustiato fin dall’inizio da domande opprimenti:

“Vorrei soltanto capire come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città, tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono;

 che non ha potere di nuocere, se non in quanto essi hanno la volontà di sopportarlo;

che non saprebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo anziché contrastarlo.

Si tratta di una cosa enorme (…):

vedere un milione di uomini servire in modo miserabile, il collo sotto il giogo, non costretti da una forza superiore, ma in qualche modo (così sembra) incantati e affascinati dal solo nome d’uno.”

(La Boétie, 2014, p.30)

Qual è l’arcano indicibile che spinge milioni di individui ad alienare la loro essenza e ad incatenarsi mani, piedi e cervello all’arbitrio di un solo uomo?

 Per quale ragione frotte di esseri intrinsecamente senzienti e cogitanti vengono attratti dal “fascino del nome d’Uno”?

La risposta del filosofo francese è al contempo semplice e desolante:

Gli uomini non desiderano per forza la libertà, ma possono, al contrario, provare una “libido serviendi”, una “masochistica brama per la servitù”:

 

Sono i popoli che si lasciano o, piuttosto, si fanno maltrattare, dal momento che, smettendo di servire, sarebbero liberi;

è il popolo che si fa servo, che si taglia da solo la gola, che avendo la scelta tra essere servo o essere libero rinuncia all’indipendenza e prende il giogo:

che acconsente al proprio male o piuttosto lo persegue. (…) cosa può mai avere l’uomo di più caro del riottenere i suoi diritti naturali, tornando, per così dire, da bestia a essere umano?

Ma non pretendo da lui tanto coraggio, gli concedo di preferire la vaga sicurezza di una vita miserabile alla dubbiosa speranza di vivere felice.

 (La Boétie, 2014, p.34)

Nella dinamica della sottomissione non ci sono solo delle costrizioni esterne.

Il dittatore non fa unicamente affidamento sulle armi.

L’imponente palazzo di menzogne e crudeltà non si regge soltanto sulle spalle di uno spudorato sterminatore di anime.

Chi pensa che le alabarde, le guardie e le torri di sorveglianza proteggano i tiranni, a mio avviso si sbaglia di grosso;

se ne avvalgono, credo, più come cerimoniale e spauracchio che per la fiducia che vi ripongono. (…)

 Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno (…):

sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù.

 (La Boétie, 2014, pp.59-60)

La perpetuazione della tirannide è garantita da una masnada di ministri, quattro o cinque giannizzeri che comandano a loro volta altri iloti, innescando una catena infernale di sudditanza e oppressione.

Oppressione e sudditanza che prosperano sulla seducente e terribile facilità di servire, sulla corruttibilità della natura umana, sull’assuefazione alla schiavitù.

Convergenze tra “Shakespeare”,” La Boétie” e “Arendt”.

Nel solco tracciato da La Boétie si inserisce una poesia.

Nella vasta produzione letteraria di uno dei più grandi autori di tutti i tempi, “Master William Shakespeare”, c’è un sonetto, il 94, in cui il “Bardo d’Inghilterra spiega in poche righe il funzionamento del sistema potere”:

“Coloro che hanno il potere di far male, e non lo fanno,

Non fanno la cosa che più mostrano [di poter fare],

Che, muovendo gli altri [ad agire], sono essi stessi come pietra,

Immoti [impassibili], freddi, e lenti alla tentazione:

Coloro giustamente ereditano le grazie del cielo

E amministrano la ricchezza della natura senza spreco,

Coloro sono i Signori e padroni dei loro volti,

Gli altri soltanto ministri della loro eccellenza.

Il fiore dell’estate è dolce all’estate,

Benché per sé soltanto viva e muoia,

Ma se quel fiore incontra vile contagio,

L’erbaccia più vile ne soverchia in splendore la dignità:

Poiché le cose più dolci divengono infette per le loro azioni,

I gigli in putrefazione puzzano ben peggio delle erbacce.”

Il sonetto necessita di un’indagine disvelatrice.

A tal proposito, mi avvalgo della puntuale esegesi di uno dei più illustri critici letterari italiani di “Shakespeare”,” Giorgio Melchiori,” autore del saggio “L’uomo e il potere”, in cui propone l’analisi dettagliata di cinque sonetti shakespeariani (20, 94, 121, 129, 146), rivelando per ognuno un profondo contenuto etico-sociale.

Ci focalizziamo sul 94, «unico sonetto politico di Shakespeare» (Melchiori, 1973, p.43), quattordici versi ermetici che tratteggiano con impetuosa eloquenza e con lapidaria incisività i potenti e il loro comportamento verso il mondo (nel significato più ampio del termine).

Il grande drammaturgo delinea la personalità di due attori cardine della grande tragicommedia umana: il potente e il suddito.

Entrambi gestiscono e perpetuano, in modi differenti, la macchina potere, che – è bene ribadirlo – non è detenuta soltanto da «coloro che hanno il potere di far male», ma anche da chi rende questo male effettivo.

L’uomo al vertice non è attivamente coinvolto nell’esercizio del potere, evita di manifestarsi per ciò che è, limitandosi semplicemente a delegare l’esecuzione del suo progetto politico ad altri, ai suoi ministri.

Non c’è nulla di probo nell’azione “delegante” del potente, come vorrebbe dimostrare una concezione cavalleresca del tiranno benefattore e paterno.

«Coloro che hanno il potere» non mettono alla prova le loro «grazie», le qualità che si addicono al sovrano attraverso l’azione;

 al contrario, essi le ereditano «giustamente», ovvero secondo le regole.

Ciò vuol dire che il sovrano ha quelle determinate qualità non per il fatto che è di per sé virtuoso, ma perché le ha formalmente acquisite assieme al titolo di re.

 I potenti, «signori e padroni dei loro volti» tutt’altro che valorosi, restando nell’oscurità più impenetrabile, non fanno altro che affidare l’amministrazione delle «ricchezze della natura» ai loro sgherri, che non si oppongono, si lasciano manipolare, remissivi, indifferenti e per questo conniventi.

Nell’economia della poesia particolare peso ha il contrasto tra ottava e sestina. Cambiano i soggetti, ma la trama è la stessa.

Il mondo della Natura – il giardino (fiori, erbacce, gigli) evocato nei versi conclusivi – ha la funzione di riprodurre esattamente il mondo degli Uomini – lo Stato (“Coloro”, “gli Altri”) rappresentato nelle prime strofe.

 A questo punto, l’analisi di Melchiori è illuminante nel carpire i sensi metaforici dei vari elementi naturali della sestina:

 «il fiore dell’estate è dolce», ovvero socialmente utile grazie al suo profumo, ma può essere facilmente contagiato dall’«erbaccia più vile» che «ne sovrasta in splendore la dignità», segno di una bellezza apparentemente superiore, di un rango sociale elevato;

stessa sorte hanno «le cose più dolci», vulnerabili e facilmente corruttibili a causa delle loro azioni;

per non parlare infine dei «gigli in putrefazione» che, essendosi corrotti, «puzzano ben peggio delle erbacce

 Shakespeare non fa che rivelare la natura abietta e ipocrita di quel male «che assume i tratti della grazia» (Macbeth, IV. III.) ma che nasconde dietro a una faccia serena e imperturbabile un animo vile, infettato da quel subdolo verme chiamato potere.

Oltre a ribadire i due principali leitmotiv dell’opera shakespeariana, il contrasto tra essere e apparire e la brama di potere, il sonetto 94 pone in risalto – a mio parere – una scottante questione morale:

 è più turpe il corruttore o il corrotto, il mandante o il mandatario?

Rispondere tout court a questa domanda dall’aspetto aporetico appare velleitario.

Infatti, questo argomento apre a scenari ben più vasti che richiederebbero una trattazione a parte, ma mi sembra doveroso un richiamo al dibattito giuridico-morale che è sorto durante i processi contro i criminali nazisti e che è stato oggetto di particolare interesse per Hannah Arendt.

In un saggio dedicato al “processo di Francoforte” – Auschwitz sotto processo – fa emergere l’assoluta arbitrarietà e la totale mancanza di giudizio delle guardie naziste, ovvero di coloro che non solo eseguirono gli ordini imposti dai burocrati – i “colletti bianchi” – ma commisero anche crimini estremamente disumani:

Nessuno diede ordine di gettare per aria i bambini per farne altrettanti bersagli, o di darli vivi in pasto alle fiamme, o di spiaccicare le loro teste contro un muro.

Nessuno diede ordine di calpestare fino alla morte la gente, o di farne l’oggetto di “sport” omicidi, come quello che consisteva nell’uccidere con una sola manata (…).

Circondate sempre da gente destinata a sparire nel giro di poco, le SS potevano davvero permettersi di tutto con queste persone.

Non sono ovviamente loro “i maggiori criminali di guerra”, per usare l’espressione con cui sono stati definiti gli imputati di Norimberga.

Stiamo parlando qui di individui che furono solo i parassiti dei “grandi” criminali.

Ma quando li si guarda in faccia vien da chiedersi comunque se costoro non fossero persino peggiori di coloro che essi accusano di aver causato tutto. (Arendt, 2010, pp. 210, 215).

Stiamo parlando di meccanismi funzionali a un intero sistema in cui l’atto non criminale costituiva l’eccezionalità e l’atto bestiale l’ordinarietà.

Perfino nel caso di un regime integralmente burocratico, secondo Arendt non dovremmo parlare di pura e semplice obbedienza ai superiori, ma di sostegno all’autorità.

«Il leader stesso non è mai più di “un primus inter pares”, un primo tra pari.

Coloro che sembrano solo obbedirgli, in effetti lo sostengono…, e senza questa “obbedienza” egli non potrebbe fare alcunché, resterebbe impotente» (Arendt, 2010, p.39).

 È fondamentale sottolineare che gli ingranaggi di quella macchina annientatrice avrebbero potuto respingere l’orrido comando degli alti funzionari nazisti in nome di quella coscienza umana che non sarebbe riuscita a sopportare il fardello troppo opprimente dell’assassinio;

hanno invece scelto di servire il potere;

 accettando di commettere atti efferati, hanno rinnegato la loro libertà, e con essa la loro umanità.

Coloro che d’altronde applicarono un minimo di giudizio e raziocinio – i cosiddetti “irresponsabili” – scelsero la difficile via del dissenso pur di preservare la loro dignità:

[I non-partecipanti] si chiesero fino a che punto avrebbero potuto vivere in pace con la propria coscienza se avessero commesso certi atti;

e decisero che era meglio non far nulla, non perché il mondo sarebbe così cambiato per il meglio, ma perché questo era l’unico modo in cui avrebbero potuto continuare a vivere con sé stessi.

Ciò spiega perché alcuni di loro scelsero infine la morte, quando furono obbligati a partecipare in qualche modo agli atti del regime.

 Per dirla in modo crudele, ciascuno di loro rifiutò l’omicidio:

non perché volesse continuare a obbedire al comandamento “non uccidere”, ma perché non voleva passare il resto dei suoi giorni con un assassino – sé stesso. (Arendt, 2010, p.37)

 

Il nazismo nacque e si sviluppò proprio grazie alla crisi delle facoltà intellettive e della capacità di giudizio di gente ordinaria, determinata soprattutto dalla precarietà delle condizioni socio-economiche – in una Germania nettamente prostrata dalla sconfitta militare e da tutto ciò che ne è conseguito in termini finanziari.

 Infatti, come scrisse “Simone Weil” nel 1934 , «è molto ingiusto dire che il fascismo annienta il pensiero libero; in realtà è l’assenza di pensiero libero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato» (Weil, 1983, p.123).

 L’irragionevolezza, la disumanità, la brutalità ascendono al potere soltanto quando conquistano milioni di esseri umani vittime di fame e incultura, carichi di livore, insoddisfatti e per questo bramosi di serenità e “stabilità”.

Tuttavia, è bene tener presente che «non si può avere nulla per nulla. La felicità bisogna pagarla» (Huxley, 2020, p.186), in cambio di beni inestimabili, ma tanto facili da perdere: verità, intelligenza e libertà.

Il fascino della schiavitù.

«Hitler, nella sua mente priva di gioia, […] sa che gli uomini non vogliono solo agio, sicurezza, poche ore di lavoro, buon senso; loro vogliono anche, quantomeno a intermittenza, conflitto e sacrificio di sé, per non dire tamburi, bandiere e parate della fedeltà(Orwell, 2022, p.186)

 Così scriveva “George Orwell nella sua recensione al “Mein Kampf” di Adolf Hitler, mettendo in evidenza la volontarietà insita nell’atto di subordinazione.

La violenza istituzionalizzata non può spiegare tutto.

Anche il moderno” soft power” non potrebbe essere così pervasivo, se l’uomo fosse di per sé incorruttibile, se egli fosse fermamente convinto che la felicità” hic et nunc” è una mera illusione e che tutte le promesse fatte dai sedicenti “amici del popolo” sono semplici imposture.

L’uomo non solo è suggestionabile, ma pretende anche di essere felice a ogni costo.

È forse questa pretesa di assoluta felicità che consente al demagogo di irretire la sua coscienza attraverso un’intensa opera di propaganda fatta di parate e scandita da ideali “duri e puri”.

 Il piacere di sentirsi soddisfatti e appagati dalle chimere offerte dall’imbonitore di turno sembra che sovrasti il desiderio di agire in conformità con i propri pensieri.

 Scrive” La Boétie”:

La plebe, che nelle città è sempre la maggioranza, è per natura sospettosa nei riguardi di chi l’ama e ingenua verso chi la inganna.

Non pensiate esista uccello che si faccia prendere più facilmente in trappola, o pesce che per ingordigia dell’esca abbocchi più in fretta all’amo, di quanto tutti i popoli si facciano rapidamente sedurre dalla servitù, appena ne avvertano il profumo sotto il naso;

ed è straordinario vedere come si lascino andare tanto in fretta, non appena li si adeschi. I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i dipinti e altre droghe di questo genere rappresentavano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia.

Erano questi i mezzi, le pratiche, le lusinghe che gli antichi tiranni avevano a disposizione per addormentare i loro sudditi sotto il giogo.

 Così i popoli instupiditi, trovando belli questi passatempi, divertendosi con il vano piacere che gli balenava davanti agli occhi, si abituavano a servire in modo altrettanto sciocco, se non peggiore, dei bambini, che imparano a leggere guardando le figure luccicanti dei libri miniati.

 (La Boétie, 2014, p.53)

Riprendendo le parole del “Grande inquisitore”, personaggio centrale dei “Fratelli Karamazov” di “Dostoevskij –

«nessuna scienza darà loro il pane [agli uomini], finché rimarranno liberi;

ma finirà che deporranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno:

“Fateci vostri schiavi, ma sfamateci”.»

(Dostoevskij, 2003, p.274)

Gli esseri umani preferiscono avere qualcuno che dica loro come comportarsi, che li sfami e li curi, che li rimproveri per bene quando trasgrediscono le regole, ma che li faccia sentire sempre al loro agio e li rassicuri quando le cose non vanno per il verso giusto.

Essere liberi comporta invece molta più fatica… Libertà è una prova di forza tra sé stessi e il mondo;

 significa responsabilità, autonomia di pensiero e giudizio, indipendenza dalle altre individualità.

 Non c’è in questa terra desolata nessun altro bene che possa eguagliare il suo valore e la sua durata, che possa garantire la stessa pienezza vitale che assicura il suo possesso.

 Eppure, «la libertà è la sola cosa che gli uomini non desiderano affatto, o almeno così sembra, per la semplice ragione che se la desiderassero l’avrebbero;

 come se rifiutassero questo bel guadagno, soltanto perché troppo facile da ottenere.»

(La Boétie, 2014, p.35)

Questa congenita insofferenza alla libertà appare dunque la prima causa di tutte le sofferenze che l’umanità ha patito nella sua storia e che, forse, continuerà a patire fino alla sua definitiva estinzione.

Dalla diagnosi alla prognosi.

Lo svelamento di quest’arcano scandaloso non deve però farci perdere di vista l’efferatezza di chi si approfitta delle debolezze umane per accrescere il proprio potere;

 la tremenda malvagità di chi ricorre alla propaganda irrazionale per recludere gli uomini a uno stato di Unmündigkeit, di immaturità tipico dei bambini.

 Non dobbiamo dimenticarci di quel male parassitario che infetta la natura benigna al punto da convertirla in maligna (vedi il sonetto 94).

D’altro canto, c’è una mente che è in grado di vagliare ciò che recepisce dall’esterno.

 La mente umana non è acritica.

L’uomo è naturalmente razionale e, per riprendere “La Boétie”, non è soltanto in possesso della sua autonomia,

«ma anche della propensione a difenderla»

(La Boétie, 2014, p.39).

Bisogna capire ora se e come questa «propensione» possa soverchiare l’istinto alla servitù, o per privare il tiranno del suo potere o per scongiurare un suo avvento.

Cosa può dunque contrastare la pervasività dell’inganno e della menzogna sistematica?

Quali armi ha l’uomo per combattere spiritualmente contro un sedicente dio?

 C’è un modo per ridurre – non dico cancellare – la suggestionabilità umana, ed è quello più naturale: riconoscersi l’un l’altro come fratelli tutti unici:

Se questa buona madre [la natura] ha dunque regalato a noi tutti la terra intera per dimora, se ci ha tutti plasmati della stessa materia, affinché ciascuno potesse rimirarsi e quasi riconoscersi nell’altro;

se ha fatto a noi tutti questo gran dono della voce e della parola per familiarizzare e meglio fraternizzare, producendo attraverso la dichiarazione comune e reciproca dei nostri pensieri, una comunione della nostra volontà; (…);

 se ha mostrato in ogni cosa che non voleva tanto farci tutti uniti, ma tutti unici [tous uns], allora non vi è dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni;

e a nessuno può saltare in mente che la natura abbia posto qualcuno in servitù, avendoci posti tutti in compagnia.

(La Boétie, 2014, p.38)

Questa cognizione può avvenire mediante una comunicazione interpersonale corretta e sincera, che può dar libero sfogo all’energia della parola;

attraverso «i libri e il sapere, che più di ogni altra cosa, danno agli uomini il sentimento e l’intelligenza per riconoscersi e per odiare la tirannia»

(La Boétie, 2014, p.49).

C’è bisogno di «una educazione alla libertà, che dev’essere educazione anzitutto sui fatti della diversità individuale e dell’unicità genetica, e i valori della tolleranza e della reciproca carità»

(Huxley, 2020, p.314), così da rafforzare “la social catena”, presupposto fondamentale per aspirare ad una comunità umana fondata sul concetto di Anna Arendt di pluralità, su una condivisione dello spazio pubblico dove gli umani possono rivelarsi per ciò che sono.

 

Inoltre, è di vitale importanza difendere, finché si è ancora in tempo, ciò che resta del genere umano, la sua storia, le sue espressioni vitali più elementari.

«Il retaggio dell’umanità – scrive Orwell in 1984 – non si tramandava facendosi ascoltare, ma rimanendo sani di mente»

(Orwell, 2021, p.387);

avendo il coraggio di restare in minoranza, anche a costo di lottare contro l’intero ordine mondiale;

mantenendo in sé la ferrea convinzione che esiste una Realtà depositaria di una Verità irrefutabile e incontrovertibile per cui 2 + 2 fa 4, e che nessun Partito può mai imporre una irrealtà dove tutto è modificabile a seconda delle sue esigenze.

Portare avanti il retaggio dell’umanità significa anche combattere questo tipo di relativismo che, portato alle sue estreme conseguenze, rischia di negare la validità dell’esperienza, addirittura l’esistenza stessa di una realtà al di fuori dell’individuo.

In questo mondo tiranneggiato dalle opinioni più variegate e dalle prospettive più capziose, bisogna «difendere ciò che [è] ovvio, banale e vero.

 Le verità evidenti sono vere… Il mondo materiale esiste, le sue leggi non cambiano.

Le pietre sono dure, l’acqua è umida, gli oggetti senza un appoggio cadono verso il centro della terra.»

(Orwell, 2021, p.446)

Guerra non è pace, è annichilimento;

 Libertà non è schiavitù, è controllo di sé e delle proprie azioni;

 Ignoranza non è forza, è morte dell’anima.

Il dittatore che cerca di pervertire il significato di questi concetti basilari minaccia di creare una realtà allucinante nella quale le catene e le telecamere di sorveglianza sono concepite come strumenti di libertà e lo stato perpetuo di guerra diventa una consuetudine accettata passivamente;

 in cui la storia è soltanto una sciocchezza destinata ad essere spazzata via e l’umanità schiavizzata vive in un eterno presente senza memoria né speranza.

A questo mutevole mondo fantasmagorico, nel quale il nero può domani venir mutato per decreto, non si oppongono che due fatti.

Uno è che, per quanto cerchiate di rinnegare la verità, la verità continua a esistere, per così dire, alle nostre spalle e che, di conseguenza, non potere alterarla (…).

L’altro è che, fino a quando qualche settore della terra rimarrà libero, la tradizione liberale potrà continuare a vivere.

Ma se il fascismo (o il globalismo progressista quale nazi-fascismo. N.d.R.), o eventualmente una combinazione di vari fascismi, conquista il mondo intero, queste condizioni cesseranno di esistere.

(Orwell, 2013, p.210)

Le forze che tentano di forgiare “un uomo nuovo” all’interno di un rinnovato sviluppo storico sono sempre in agguato e – se non contrastate adeguatamente con l’energia del pensiero – potrebbero prendere il sopravvento in qualsiasi momento.

Per tale ragione, è forse più utile cambiare prospettiva e dire, con “Carlo Rosselli”, che

«non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia»

(Rosselli, 2009, p.89).

 La libertà s’impone dunque come una enorme sfida individuale. Sta al singolo scontrarsi con le sue incertezze, fermare quelle pulsioni che possono farlo sbandare, e diffidare sempre di tutto ciò che luccica.

Certo, possono, anzi, devono esserci persone più avvedute capaci di indicare la strada da seguire, ma spetta al soggetto scegliere e percorrere la propria strada.

Come direbbe “Michail Bakunin”, «se un popolo o un individuo non si foggia da sé un ideale, nessuno naturalmente sarà in grado di imporglielo.»

(Bakunin, 2013, p.239)

Su questo punto, c’è un episodio emblematico nel capitolo XV del romanzo di Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”.

 Il Selvaggio, cresciuto lontano dalla civiltà sterilizzante, tenta di ergersi a liberatore di quella “mirabile” umanità assuefatta all’obbedienza, distruggendo il mezzo dell’intorpidimento, il soma – una compressa che permette per pochi minuti una inebriante fuga dalla realtà, a volte troppo aspra.

Rivolgendosi alla folla inebetita, il Selvaggio grida:

«Vi costringerò a essere liberi, lo vogliate o no.»

(Huxley, 2020, p. 173)

Ma quella massa di inumani non riesce a comprendere quel messaggio di verità, e così il tentativo rivoluzionario fallisce miseramente.

 Questo ci fa porre una questione:

 Come si può parlare di libertà a degli esseri concepiti e cresciuti in provette proprio per essere adatti alla schiavitù e per non provare amore e vere emozioni?

Come si può parlare di libertà a degli individui abituati alla sudditanza, che non hanno mai provato il sapore di una vita libera, che non sanno dunque il significato stesso della parola “libertà”?

A patto che non ci si arrenda alla visione di una parte del genere umano oppressa e alienata, possiamo confidare, con “La Boétie”, in un’azione spontanea che nasca dal dialogo, dal confronto, dal sapere antidogmatico, per far sì che quei popoli trovino nella loro umanità un sentore di qualcosa che si avvicina vagamente a quella che noi occidentali chiamiamo “libertà”.

L’umanità non ha bisogno di un messia o di un salvatore, ma solo di uomini misurati – mi riferisco a chi non accetta, in tempi di demenza collettiva, di farsi contagiare dalla folla, a chi resta nell’ombra per scorgere un bagliore di luce, a tutti quelli che non si lasciano schiacciare dal piede tirannico o dal conformismo sociale… – che, con il loro esempio, contribuiscano ad abbattere i muri eretti dalla forza subumana del potere statuale e da qualche forma artefatta di religione per separare il genere umano.

 Del resto, il metodo dell’isolamento dal mondo esterno praticato dalle dittature è indispensabile per la perpetuazione del potere, come dimostra questo passaggio tratto dal libro di “Emmanuel Goldstein” (dissidente del regime di Oceania), contenuto in “1984”:

Per il mantenimento della loro struttura [della struttura dei tre superstati] è assolutamente necessario che non ci sia alcun contatto con le popolazioni straniere…

Fatta eccezione per i prigionieri di guerra, il cittadino medio dell’Oceania non ha mai visto un cittadino dell’Eurasia o dell’Estasia e non gli è permesso imparare lingue straniere.

 Infatti, se gli fosse consentito entrare in contatto con gli stranieri, scoprirebbe che sono creature simili a lui e che ciò che gli è stato detto su di loro è perlopiù falso.

 Il suo mondo impenetrabile finirebbe per spezzarsi e la paura, l’odio e l’ipocrisia su cui si basa il suo stato d’animo potrebbe evaporare. (…)

Fintanto che [le masse] non abbiano termini di paragone a cui accostare il proprio stato, non arriveranno mai neppure a prendere coscienza della propria oppressione.

 (Orwell, 2021, pp.572, 583)

Questo spiega la ragione principale di alcuni provvedimenti adottati dai leader comunisti fin dall’inizio della guerra fredda.

Basta pensare al blocco di Berlino – prodromo del muro divisorio del ’61 – imposto da Stalin nel giugno 1948 e durato all’incirca un anno.

«Quando la cortina di ferro scende sull’Europa, Berlino forma un’enclave occidentale in territorio sovietizzato:

è la vetrina dell’Occidente, dunque un invito costante al paragone e alla fuga» (Furet, 1995, p.451)

 L’Unione Sovietica voleva dunque evitare che l’opinione pubblica tedesca constatasse le enormi differenze sociali ed economiche tra la parte occidentale e la zona orientale dell’ex capitale del Terzo Reich.

La decisione stessa di censurare e mettere al bando libri eterodossi come “1984” fu motivata dalla necessità di allontanare il più possibile le masse dalla verità.

Il profondo spirito libertario che dimora in ogni pensiero di “Smith” non poteva non essere percepito come una minaccia da un sistema fondato sulla menzogna e sulla malafede.

I sovietici avevano ben capito ciò che si nascondeva nelle parole di quel semisconosciuto giornalista inglese – infatti, nel blocco comunista (e non solo) il romanzo, nato come strumento di resistenza a qualsiasi dittatura, divenne più che altro un arguto manuale di dominio a disposizione di tiranni senza scrupoli.

Chissà cosa sarebbe accaduto se i sudditi delle cosiddette “democrazie popolari” avessero avuto l’occasione di leggere e capire fino in fondo quel romanzo…

Sono convinto che un libro così potente avrebbe avuto – e potrebbe avere tuttora – la forza di cambiare il mondo.

La via da percorrere è dunque tracciata e le alternative sono ben chiare.

Non è determinismo, è puro individualismo.

 L’uomo può trovare in sé con le sue forze cognitive quella «propensione», per non soccombere sotto i colpi di un astuto politicante, per costruire «una società non utopistica, meno perfetta e più libera» (Nikolaj Berdjaev),

 per annunciare in definitiva un futuro libertario.

A distanza di quasi cinquecento anni, “La Boétie” non perde la sua veridicità, rivelando ciò che molte volte resta celato.

Questo giovane filosofo non morì in realtà all’età di trentatré anni nel 1563, perché, come ogni genio, continua ad esalare il suo respiro anche dopo l’apparente morte, a infondere il suo spirito indomito, tramite parole memorabili, a tutti coloro che anelano alla libertà.

 Come scrive Thomas Pynchon, «ciò che è decisamente più importante, forse l’unica condizione necessaria, per essere davvero dei profeti, è saper scavare più a fondo degli altri nei recessi dell’anima umana.» (Pynchon, 2021, p. 318)

Ecco, forse “Étienne de La Boétie” ci è riuscito. 

Vorrei concludere con una strofa, tratta da una poesia di “Orwell” intitolata A volte”, nei giorni di metà autunno, che suona come una parenesi molto simile a quelle lanciate da “Étienne de La Boétie” nel suo Discorso:

O tu che passi, fermati e ricorda

quale tiranno tiene legata la tua vita;

ricorda l’ora, fissa e inconsolabile,

il colpo devastante, il buio oltre.

Non smettiamo mai di pensare, esistiamo!

 

 

 

Niccolò Machiavelli e la

politica senza scrupoli.

Storicang.it - Abel de Medici – (23 giugno 2020) – ci dice:

 

Il termine "machiavellico" è intriso di connotazioni negative.

Ma l’uomo al quale si riferisce seppe comprendere con estrema lucidità – e grazie anche alle sue esperienze negative – i meccanismi del potere.

Niccolò Machiavelli, spesso accusato di essere cinico, fu un grande osservatore della natura umana e molto onesto nello scrivere non come doveva essere l’esercizio del potere, ma com’era in realtà.

​ETÀ MODERNA.

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469, lo stesso anno in cui Lorenzo de’Medici diventava di fatto signore della città.

Durante la sua infanzia e adolescenza Niccolò ebbe modo di osservare come si esercitava il potere e le sue conseguenze:

 aveva nove anni quando Giuliano, il fratello di Lorenzo, fu assassinato dalla famiglia Pazzi (quel particolare episodio della storia è conosciuto come Congiura dei Pazzi), e durante i tredici anni che seguirono fu testimone di come il signore di Firenze accumulava il potere nelle sue mani e le conseguenze – buone e cattive – che ne derivavano.

Era il terzo figlio di una famiglia abbastanza conosciuta, con un potere economico modesto ma sufficiente per provvedere alla buona educazione dei figli.

Oltre ai suoi maestri, Niccolò aveva a disposizione la biblioteca personale di suo padre, ricca di opere dei grandi classici:

il giovane sviluppò una passione speciale per la storia antica leggendo opere di autori come Cicerone, Tucidide, Tito Livio, Polibio e Plutarco, tra gli altri.

 I primi due, in particolare, dovettero lasciare un’impronta nella coscienza e nei pensieri di Niccolò:

da loro apprese che l’esercizio del potere spesso si discostava da ragioni morali come la lealtà o l’etica.

Al servizio della Repubblica.

Nel 1494, una volta terminati gli studi, Niccolò si integrò nella vita pubblica come funzionario della Repubblica di Firenze.

In quegli anni la città era nelle mani di “Girolamo Savonarola”, un predicatore radicale con il quale Machiavelli era molto critico:

proprio per quest’avversione nei confronti del religioso, durante i primi anni Niccolò non rivestì nessuna carica importante.

Quando però Savonarola venne dichiarato eretico e bruciato sul rogo nel 1498, la fortuna del giovane Machiavelli cambiò in pochi giorni e gli venne affidato uno dei posti più importanti, quello di secondo cancelliere, che si occupava della politica estera e delle questioni militari.

Anche se Machiavelli aveva sempre aspirato a dedicarsi alla politica, come cancelliere non ebbe molta fortuna, sia perché coloro con i quali stipulava accordi spesso cambiavano idea, sia perché in generale le alleanze erano molto volatili.

 Il suo maggior successo, nel 1509, fu riuscire a riconquistare Pisa, un porto d’importanza vitale per la Repubblica di Firenze, anche se gli costò dieci anni di fatiche e diverse alleanze fallite.

 Molti dei suoi insuccessi si spiegano anche e soprattutto grazie alla natura frammentaria della penisola italiana, dove qualsiasi accordo, benché ottenuto con grande sforzo, poteva sfumare da un giorno all’altro.

UN PRINCIPE SENZA CORONA: LORENZO IL MAGNIFICO.

D’altro canto le esperienze collezionate durante i quindici anni di servizio pubblico servirono a Machiavelli come base per sviluppare il suo pensiero politico, rafforzando le sue convinzioni sulla scarsezza di scrupoli dei governanti.

 Due personaggi in particolare ebbero una grande impressione su di lui.

 Caterina Sforza, duchessa di Forlì, viene descritta da Machiavelli come una donna spietata che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di conservare il potere;

 è possibile che Niccolò nutrisse del rancore nei suoi confronti da quando Caterina aveva ritirato l’appoggio militare promesso a Firenze contro Pisa.

A pagarne le spese diventando lo zimbello di tutti fu proprio Machiavelli.

Il secondo personaggio fondamentale per comprendere il pensiero e le opere del fiorentino è Cesare Borgia, il figlio di Papa Alessandro VI, che grazie alla sua ambizione e alla sua totale mancanza di scrupoli riuscì a creare per sé stesso un effimero e piccolo ducato in Romagna.

Prigione ed esilio.

La carriera politica di Machiavelli fu stroncata inaspettatamente nel 1512, quando le truppe fiorentine furono sconfitte a Prato da un esercito spagnolo agli ordini di Papa Giulio II.

Questa disfatta spianò la strada per il ritorno della famiglia Medici alla signoria di Firenze e la persecuzione di coloro che avevano tramato per esiliarli dalla città nel 1494.

Una delle persone coinvolte aveva in suo possesso un foglio su cui aveva annotato diversi nomi, tra i quali quello di Machiavelli, che – nonostante non avesse partecipato alla congiura – fu arrestato e torturato.

Per sua fortuna dopo poche settimane fu eletto papa Leone X, di nome Giovanni de’Medici, che come gesto di buona volontà per l’inizio del suo pontificato proclamò un’amnistia.

Machiavelli poté dunque uscire dal carcere, ma i sospetti su di lui non si dissiparono – in effetti sarebbe stato arrestato nuovamente nel 1521 – e la sua carriera politica poteva dirsi perduta.

Si ritirò nella sua dimora a San Casciano in Val di Pesa, nei pressi di Firenze, dove trascorse diversi anni in isolamento.

All’inizio di certo si dedicò all'agricoltura e all'allevamento di bestiame, ma nel 1521 la sua sorte iniziò a cambiare in meglio:

dopo essere stato liberato dal secondo arresto, la corporazione della lana di Firenze gli incaricò di mediare per ottenere la liberazione di alcuni lavoratori che erano caduti nelle mani dei banditi.

Machiavelli ebbe successo e giocò alla lotteria una parte della ricompensa che gli spettava, vincendo 20.000 ducati, una somma che gli permise di vivere comodamente fino alla fine dei suoi giorni.

 

Negli anni del suo esilio Machiavelli coltivò la sua passione per la scrittura, e trattò diversi generi e temi.

E nonostante la nuova e più comoda vita, la produzione letteraria di Machiavelli risale proprio agli anni di isolamento.

In quel periodo si dedicò alla scrittura, coltivando diversi generi e temi:

la politica, la storia, e finanche il teatro e la poesia.

 Anche se divenne famoso per il suo pensiero politico, fin da giovane fu un amante delle arti:

componeva sonetti come passatempo e scrisse diverse opere drammatiche.

Il principe e l’esercizio del potere.

Nel 1513 iniziò la sua opera più famosa, Il principe – il cui titolo originale è “De Principatibus”, "Sui principati" – nel quale riversò le esperienze vissute durante gli anni trascorsi in politica.

Anche se oggi è uno dei trattati di scienza politica più famosi, a suo tempo non fu ben accolto:

si pubblicò cinque anni dopo la morte del suo autore, nel 1532.

Poco dopo venne incluso nell’Indice dei libri proibiti dalla chiesa a causa del disprezzo che mostra per l’etica del potere, e fu solo durante l'Illuminismo che il testo ricevette una certa attenzione, anche se maggiormente negativa:

 la famosa frase “il fine giustifica i mezzi” non è di Machiavelli – anche se è a lui popolarmente attribuita – ma proviene da un’annotazione che fece Napoleone sulla sua copia de” Il principe”.

Il libro voleva essere un trattato pratico su come esercitare il potere in maniera efficiente.

Per scriverlo Machiavelli si ispirò in gran misura all’astuto Cesare Borgia, che per l’autore incarna le virtù che deve possedere un principe:

 non necessariamente positive o morali, ma quelle che meglio assicurano il potere.

Contrariamente a quanto si suole attribuirgli, Machiavelli non è del tutto alieno alle questioni etiche:

una delle sue più grandi preoccupazioni è data dal famoso dilemma su cosa sia meglio per un governante, se essere amato o temuto.

 Lo studioso fiorentino sosteneva che l'ideale sarebbe riuscire a essere entrambe le cose ma, nel caso in cui si debba obbligatoriamente scegliere,

 «è molto più sicuro per il principe essere temuto che amato, quando fosse assente uno dei due.

Perché, degli uomini si può dire in generale questo: che sono ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, desiderosi di guadagno.

 E, mentre fai loro del bene, sono tutti tuoi, ti offrono il sangue, la roba, la vita, i figli, quando il bisogno che tu hai di loro è lontano;

ma, quando esso si avvicina, essi si rifiutano e si ribellano.

 E il principe, che si è fondato sulla loro parola, trovandosi senza altra difesa nel momento del pericolo, va incontro alla rovina».

Dal testo emerge il ricordo degli anni di Machiavelli come cancelliere:

 secondo lui i suoi più grandi errori furono causati dall’essersi fidato della parola di altri.

 

(La famosa frase “il fine giustifica i mezzi” in realtà non è di Machiavelli: proviene da un’annotazione che fece Napoleone sulla sua copia di “Il Principe”)

D’altro canto non significa che per Machiavelli la crudeltà dei governanti fosse auspicabile, ma che dovesse piuttosto essere usata con buona misura:

 «[...] Dico che ogni principe deve desiderare di essere ritenuto pietoso e non crudele.

 Deve tuttavia avere l’accortezza di non usare male questa pietà.

 [...] E tuttavia il principe deve essere cauto nel credere all’esistenza di pericoli e nell’agire, né deve farsi paura da sé stesso.

Deve saper conciliare prudenza e umanità, affinché la troppa confidenza in sé non lo renda imprudente, e la troppa diffidenza negli altri non lo renda intollerabile».

Machiavelli ribadisce che il governante che raggiunge il potere con mezzi crudeli, appena lo ha ottenuto deve cambiare il suo modo di agire per conquistare rapidamente il favore dei governati, ma senza smettere mai di essere temuto dagli eventuali nemici:

«[...] L’amore si fonda su un vincolo morale, il quale, poiché gli uomini sono tristi, è infranto ogni volta che contrasta con il proprio interesse, mentre il timore è tenuto ben saldo dalla paura della pena, che non abbandona mai».

Gli ultimi anni.

Anche se Cesare Borgia gli era servito da ispirazione per scrivere il suo libro, Machiavelli scelse di dedicare” Il Principe” alla famiglia Medici per cercare di guadagnarsi le simpatie dei signori di Firenze.

Lo stratagemma funzionò e gli valse il favore del cardinale Giulio de’Medici, che nel 1523 venne eletto Papa con il nome di Clemente VII.

 Questi, oltre ad alcune commissioni diplomatiche, chiese a Machiavelli di elaborare due opere sulla storia di Firenze:

“L’arte della guerra”, un trattato storico-politico sotto forma di dialogo che emulava l’opera di Platone, e “le Istorie Fiorentine”, una raccolta di otto libri sulla storia della città.

Il Papa lo nominò pure sovrintendente delle fortificazioni: sembrava che finalmente le disgrazie fossero finite per Niccolò.

E invece la sua fortuna non sarebbe durata.

Nel 1527 i Medici furono esiliati nuovamente da Firenze e il lavoro che Machiavelli aveva portato avanti per guadagnarsi il loro favore gli si ritorse contro:

 si candidò alle nuove istituzioni repubblicane e fu rifiutato, un episodio che gli causò un enorme dolore.

Pochi giorni dopo si ammalò improvvisamente e, in poche settimane, il 21 giugno del 1527, morì.

Abbandonato da tutti, fu sepolto nel sepolcro familiare nella basilica di Santa Croce.

Dopo secoli di ostracismo, durante l'Illuminismo la figura di Machiavelli venne rivalutata.

Molti lo vedevano in una luce negativa, ma alcuni compresero che i suoi presupposti potevano sembrare cinici, ma almeno erano sinceri e coerenti con il mondo in cui gli era toccato vivere.

 

 

LE ISTITUZIONI E LE PAROLE.

IL MUSEO DELLA NATURA E

DELL’UOMO DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA.

 

Leparoleelecose.it – (11 – 7 - 2023) - Luca Illetterati – ci dice:

Nelle settimane scorse è stato inaugurato a Padova il “Museo della Natura e dell’Uomo”:

«il più grande museo scientifico universitario d’Italia» come si legge con giustificato orgoglio sul sito dell’Università di Padova.

Il Museo si estende infatti su oltre 4000 mq e si articola in quattro sezioni: antropologia, geologia, mineralogia e zoologia.

Non sono un esperto di musei scientifici e non sono perciò in grado di darne una valutazione, per così dire, “tecnica”.

Mi è sembrato però molto bello, ricco di reperti e decisamente ben strutturato nel suo impianto divulgativo.

Ciò di cui vorrei però discutere è la denominazione:

Museo della Natura e dell’Uomo, con i due termini enfaticamente scritti con la lettera maiuscola.

Una denominazione che, alla luce del vivacissimo dibattito scientifico internazionale tanto intorno al concetto di natura quanto intorno al concetto di umano appare perlomeno problematica, se non, addirittura, anacronistica.

Per evidenziare e spiegare in che senso quella denominazione sia problematica e in che senso possa apparire anacronistica, vorrei, senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività, fare qui riferimento ad alcuni contributi del dibattito recente che investono in modo piuttosto esplicito e interessante la questione.

 Mi riferirò in particolare ad alcuni testi di tipo filosofico, sociologico, antropologico e linguistico che mettono in questione tanto il concetto di Natura quanto quello di Uomo e che soprattutto, almeno in alcuni casi, evidenziano esplicitamente e con forza la problematica relazione di rimando reciproco che intercorre tra queste due nozioni.

 Nel fare questa operazione non intendo necessariamente fare mie le tesi dei testi a cui farò cenno, né pretendo di ritenere che questi siano gli unici testi ai quali ci si debba rivolgere all’interno di una discussione relativa al termine natura e al termine uomo.

 Ciò che intendo piuttosto proporre nel solo cursorio attraversamento di questi testi è semmai un esercizio di contemporaneità, per usare una felice espressione di “Francois Hartog”, ovvero un esercizio di consapevolezza nei confronti di alcune delle nozioni «regolatrici del nostro spazio pubblico» che nella loro assunzione irriflessa portano sempre con sé un significato implicito e non di rado ideologico che è compito della critica portare in superficie.

2. Assoggettamento.

Il concetto di natura sembra per molti versi essere, anche alla luce delle grandi discussioni intorno alla nozione di Antropocene, alla “crisi ambientale” e al “climate change”, uno dei concetti fondamentali del nostro tempo.

Tale centralità è tuttavia accompagnata, sempre più spesso, da una considerazione critica circa ciò a cui questo concetto pare rinviare, ovvero intorno alla specifica semantica che esso sembra veicolare.

Nel 2022” Philip Blom”, grande divulgatore tedesco soprattutto di questioni storiche, ha scritto un libro che si intitola:

 Die Unterwerfung. Anfang und Ende der menschlichen Herrschaft über die Natur, ovvero, letteralmente, Assoggettamento.

L’inizio e la fine del dominio dell’uomo sulla natura.

Il libro è stato recentemente tradotto da Marsilio con un titolo un po’ più prudente:

“La natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea”. In questo libro, di godibile lettura e decisamente molto informato, Blom scrive:

«L’assoggettamento della superficie terrestre e la conquista sempre più capillare della stratosfera sono espressione di un unico delirio collettivo, l’idea ormai onnipresente per cui l’uomo (e non a caso dico «uomo», al maschile) sarebbe un che di superiore alla natura, non un aspetto della natura stessa, e quindi avrebbe il diritto, anzi il dovere di soggiogarla.

 L’uomo così inteso si percepisce come un essere sovraordinato agli animali e alle altre creature viventi, vede la natura come un palcoscenico delle proprie ambizioni, come una riserva di materie prime.

 E da quella posizione di presunto privilegio parte alla conquista del pianeta intero, per sottometterlo in modo inesorabile alla sua volontà».

Proprio perché pensando la natura tendiamo in qualche modo a pensare il modo in cui l’uomo si è rapportato ad essa, abbiamo sempre più difficoltà, secondo Blom, a parlare di natura.

 Blom non bandisce il termine natura, ma avverte la necessità di essere consapevoli del fatto che «le difficoltà teoriche sono insite nella parola stessa» e hanno a che fare in modo niente affatto marginale con la sua correlazione al termine uomo.

Dentro questa correlazione, infatti, secondo Blom, «la natura si riduce a un che di muto, a una pura risorsa, a un’esternalità economica».

 In questo senso, un pensiero che voglia porsi criticamente rispetto a quella condizione di assoggettamento e sottomissione della natura da parte dell’umano non può non mettere in discussione – sostiene Blom – tanto il concetto di natura e quanto quello di uomo.

3. Without nature.

La critica al binomio uomo/natura è un tratto significativo di molti lavori che si sono occupati da diversi punti di vista della necessità di ripensare il nostro rapporto con il mondo.

Tale critica è ad esempio esplicita nei lavori di “Timothy Morton”.

Morton è un filosofo britannico che lavora negli Stati Uniti ed è indubbiamente in ambito filosofico uno dei pensatori oggi tra i più impegnati nell’elaborazione di un pensiero ecologico.

Una delle tesi fondamentali di uno dei suoi libri più noti, cioè Being ecological (The MIT Press 2019) è l’idea che lo sviluppo di un pensiero autenticamente ecologico, ovvero di un pensiero in sé stesso ecologico e non di un pensiero che assume come oggetto l’ecologia, implica innanzitutto una messa in discussione del modo in cui l’umano si è pensato nel suo rapporto con la realtà.

 Mettere in discussione questo rapporto significa, per Morton, mettere gioco forza in discussione tanto l’idea di natura quanto l’idea di uomo, le quali sono, secondo il filosofo britannico, due nozioni intimamente correlate l’una all’altra, in quanto frutto entrambe di una specifica metafisica e di una specifica visione del mondo fondate sull’assunzione dell’umano come fulcro e fondamento di tutto ciò che è.

La natura, infatti, secondo Morton, è una nozione direttamente dipendente da una concezione dell’umano inteso come l’altro dalla natura e come ciò che, al contempo, proprio in quanto altro da essa e ad essa superiore, sarebbe ciò in cui la natura trova il suo senso.

 L’umano e il naturale, secondo Morton, indicano cioè dei modi d’essere che da una parte si definiscono reciprocamente, dall’altro lo fanno all’interno di una dinamica in cui l’umano si pone come un principio esterno e superiore alla natura. Scrive a questo proposito Morton:

«abbiamo pensato in tutti i modi per circa dodici millenni di essere in cima alle cose, fuori dalle cose od oltre le cose, in grado di guardare dall’alto e decidere esattamente il da farsi».

L’utilizzo della prima persona plurale rimanda ovviamente a un ‘noi’ che non è onnicomprensivo.

Non tutte le culture hanno pensato infatti in questo modo.

Il ‘noi’ cui si riferisce Morton è un ‘noi’ specificamente situato e corrisponde sostanzialmente alla cultura occidentale così come questa è venuta a svilupparsi soprattutto all’interno del pensiero moderno.

Secondo Morton, il concetto di natura, ovvero il modo in cui ‘noi’ tendiamo perlopiù a pensare il mondo indipendente da noi, è figlio di questa concezione, ovvero sarebbe lo specchio di una concezione della realtà già interpretata da quell’ente – l’essere umano – che si pone fuori di essa e che la guarda dall’alto.

 Il concetto di natura sarebbe cioè innestato in una maniera di guardare le cose che muove dall’assunzione della prospettiva dell’umano come se questa fosse la prospettiva assoluta, che è appunto ciò che chiamiamo antropocentrismo.

Per questo, secondo Morton, pensare in maniera ecologica significa, in primo luogo, «sbarazzarsi di questa idea della natura».

E sbarazzarsi di questa idea della natura, implica ovviamente anche sbarazzarsi di una certa idea di uomo.

Pensare in modo ecologico, continua ancora Morton, significa infatti pensare «le conseguenze involontarie dell’antropocentrismo», che è a sua volta il punto archimedeo a partire dal quale è stata pensata quella realtà che ancora ci ostiniamo a chiamare natura.

In quella denominazione sarebbe depositata, secondo Morton, la presa di distanza dell’umano dalla natura, la quale a sua volta costituirebbe, dentro questo paradigma – si perdoni l’eccesso di semplificazione – un oggetto che riceve il suo statuto ontologico semplicemente in quanto altro e opposto rispetto al soggetto.

 “Natura e Uomo”, sarebbe in questo senso uno di quei dualismi – insieme a “Natura e Storia”, “Natura e Libertà”, “Natura e Cultura” – dentro cui è ingabbiato il pensiero moderno.

Dualismi dai quali, secondo Morton, è necessario liberarsi se si vuole pensare in modo autenticamente ecologico:

«è questa inflessibile separazione delle cose in soggetti e oggetti a far nascere la perturbante, proibita zona di mezzo degli esclusi, del terzo escluso, fatta di entità che sono vicine a “me” – la fonte dell’antisemitismo, tanto per dire – l’infinita sorveglianza di ciò che conta come umano, la protezione dell’Homo Sapiens dai Neanderthal».

In quest’ottica, afferma con enfasi Morton, «ciò che chiamiamo Natura (…) è direttamente l’Antropocene nella sua modalità meno ovvia».

 

A partire da questa analisi Morton propone l’idea di una ecologia senza natura (“Ecology without Nature” è il titolo di un suo libro del 2007 pubblicato da Harvard University Press).

Il concetto di Natura sarebbe infatti un concetto, se così si può dire, radicalmente anti-ecologico:

in quanto appiattente e reificante esso sarebbe infatti un concetto che assume senso solo nella sua differenziazione dall’umano e che in questo dualismo impedirebbe di fatto all’umano stesso di ripensarsi ecologicamente, ovvero di ripensarsi fuori dalla logica oppositiva e gerarchica cui il concetto di natura intrinsecamente rinvia.

4. Natura come nome proprio.

L’idea di Morton secondo la quale il concetto di natura è quello del quale ci si deve sbarazzare per riuscire a pensare il mondo e a pensare se stessi in modo autenticamente ecologico è per molti versi coerente con l’impostazione di pensiero di “Bruno Latour”, il quale, all’interno delle famose “Gifford Lectures “del 2013, diventate poi un libro – “Face à Gaïa”. Huit conférences sur le nouveau régime climatique (La Découverte 2015) – scrive:

«L’ecologia, lo si sarà compreso, non è l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma la fine della “natura” intesa come concetto che ci consentirebbe di riassumere i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli».

Anche in questo caso, l’idea di un pensiero ecologico, piuttosto che costituirsi nei termini di un pensiero della natura o sulla natura, sembra rinviare alla necessità di una radicale decostruzione del suo concetto.

 Nell’epoca che chiamiamo Antropocene, ovvero in quell’epoca che altri nel tentativo di politicizzare la questione hanno chiamato anche Capitalocene, la quale è l’epoca che segna, per usare una felice espressione di “Jason Moor”e, la fine della natura a buon mercato, il concetto di natura si rivela, scrive Latour, «come una versione monca, semplificata, esageratamente moralistica, eccessivamente polemica, prematuramente politica dell’alterità del mondo a cui dobbiamo aprirci per non diventare pazzi – diciamo alienati – in massa».

In fondo, l’idea stessa di Antropocene è già in sé stessa, secondo Latour, la critica al concetto di natura, o se si vuole la manifestazione della necessità di andare oltre ad esso: «è necessario riassumerlo in una breve formula: agli occidentali e a coloro che li hanno imitati la “natura” ha reso il mondo inabitabile».

La nozione di natura costituisce, ancora una volta, una sorta di incorporazione di quella peculiare postura di dominio e sfruttamento assunta dagli umani nei confronti del mondo che ha condotto a pensare, in termini non semplicemente funzionali, alla possibilità stessa della fine del pianeta.

In questo senso il concetto di Natura è un concetto che, nell’ottica di Latour, appartiene al passato, a una sorta di” Ancien Régime” in cui esso era irrimediabilmente connesso al concetto di Uomo, ovvero a quel concetto che ancora una volta nella sua pretesa neutralità e non marcatezza nascondeva invece una peculiare figura dell’umano, una declinazione marcata di esso.

In questa contrapposizione – quella fra uomo e natura – il binarismo uomo-donna giocherebbe infatti un ruolo niente affatto banale.

 La donna è stata infatti perlopiù identificata nella storia con la dimensione naturale, ovvero con la dimensione riproduttiva e generativa, e contrapposta così all’uomo, il quale definisce la propria funzione per molti versi in termini di alterità e differenza rispetto a ciò che è semplicemente naturale e in questo senso femminile.

Questa dimensione di alterità e differenza rinvia dunque allo spirituale come l’altro dal naturale, al sociale e al pubblico come contrapposto al domestico, e dunque alle funzione di dominio e potere della e sulla natura e conseguentemente della e sulla donna, come hanno sostenuto alcune importanti studiose esponenti del cosiddetto ecofemminismo come “Carolyn Merchant “(The Death of Nature: Women, Ecology and the Scientific Revolution, Harper Collins 1980) o Val Plumwood (Feminism and the Mastery of Nature , Routledge 1993).

Per rendere esplicito che il concetto di natura non è un termine neutro, ma un termine che si pone all’interno di una costellazione di rimandi e di relazioni che implicano la dimensione di un Soggetto-Uomo a partire dal quale la natura viene pensata, in “Facing Gaia” Latour scrive tanto il termine Natura quanto il termine Uomo con l’iniziale maiuscola.

Scriverlo in questo modo, dice Latour, è un modo per rendere quanto più esplicito possibile che Natura è «una sorta di nome proprio, il nome di una figura cosmologica fra tante, e a cui impareremo ben presto a preferire un’altra figura, designata da un altro nome proprio, e che si farà carico, in modo completamente diverso, di altri esistenti e di altri modi di collegarli, imponendo altre obbligazioni, altre morali e altre leggi».

La lettera maiuscola è dunque usata da Latour nel corso di tutto il testo per indicare non la solennità dell’ambito considerato, quanto piuttosto il fatto che quel nome indica una peculiare figura, una peculiare declinazione del dominio a cui si riferisce.

Parlando di Natura e di Uomo (invece che di natura e di uomo) Latour intende perciò parlare di un certo modo attraverso cui l’umano ha pensato sé stesso e il mondo:

un modo segnato dal dominio di una parte sull’altra, dalla convinzione che il naturale, così distanziato e differenziato, è un ambito che assume senso solo a partire dall’umano e che dunque l’umano ha conseguentemente a disposizione.

Sulla base di questa diagnosi, quello che Latour propone è di tentare di fare un «un passo indietro con il termine così intrigante di “Natura”, di cui dimentichiamo troppo spesso, anche quando a esso aggiungiamo la maiuscola e le virgolette, che non è un dominio ma un concetto».

Latour propone di fare con la parola Natura ciò che già abbiamo imparato a fare con la parola Uomo:

«Ricorderete sicuramente l’epoca non così remota – prima della rivoluzione femminista – in cui si utilizzava la parola “uomo” quando si intendeva parlare di chiunque, in modo indifferenziato e piuttosto sciatto.

 Per contro, quando si adoperava il termine “donna”, si trattava necessariamente di un vocabolo specifico che non poteva designare altro se non quel che allora chiamavamo il “sesso debole” o il “secondo sesso”.

Nel linguaggio degli antropologi ciò significa che il termine “uomo” è una categoria non marcata: non pone alcun problema e non attira l’attenzione.

È quando si utilizza la parola “donna” che l’attenzione è richiamata su un tratto specifico, ovvero appunto il suo sesso, ed è questo tratto che ne fa la categoria marcata che si distacca quindi dalla categoria non marcata che le servirà da sfondo.

 Di qui gli sforzi per sostituire “uomo” con “umano”, e far sì che questo termine comune alle due metà della stessa umanità stia a significare al contempo la donna e l’uomo – ciascuno con il proprio sesso o, in ogni caso, il proprio genere che li distingue entrambi, per così dire, allo stesso modo».

5. Natur-a, natur-e

 Latour intende sostituire il nome proprio Natura con un altro nome proprio: Gaia, parola assai controversa che egli prende da” James Lovelock “e che egli assume nella consapevolezza che si tratta di una parola insieme mitica, scientifica, politica e, probabilmente, anche religiosa:

 «Gaia è qui presentata come l’occasione di un ritorno sulla Terra che consenta una versione differenziata delle rispettive qualità richieste alle scienze, alle politiche e alle religioni, ricondotte finalmente alle definizioni più modeste e terrestri delle loro antiche vocazioni».

Per quanto alcune delle intenzioni di fondo lo accomunino a Latour, diverso è il modo di procedere di “Philippe Descola”.

 Par-delà nature e culture – dove  l’idea di “oltre” vuole indicare la necessità di porsi in un orizzonte di superamento rispetto a un dualismo che impedirebbe di pensare in modo plurale e inclusivo i termini coinvolti – è il titolo di un imponente lavoro pubblicato da Gallimard nel 2005 e riproposto nel 2021 in italiano da Raffaello Cortina.

Qui “Descola”, che come noto fino al 2000 è stato il titolare della cattedra di Antropologia della natura al Collège de France e quindi Direttore del famosissimo Laboratorio di antropologia sociale fondato da “Claude Lévi-Strauss”, si concentra appunto sul problematico dualismo che caratterizza l’intera cultura moderna occidentale fra il naturale e il culturale.

Lo studio di Descola delle diverse forme di atteggiamento in cui nelle diverse società umane viene pensato il rapporto tra l’umano e ciò che noi chiamiamo il naturale mostrerebbe che quella forma di oggettivazione della natura caratteristica del pensiero occidentale, insieme alla sua correlata contrapposizione a un mondo culturale che sarebbe invece proprio solo degli umani non è affatto un tratto universale, e dunque una caratteristica specifica degli umani, bensì una interpretazione decisamente etnocentrica del rapporto fra l’umano e la natura. Il concetto di natura inteso come contrapposto al concetto di cultura si è affermato, scrive Descola, in tempi tutto sommato recenti.

 Esso si sarebbe infatti sviluppato in Europa solo in epoca moderna quando con natura, appunto, si è cominciato a intendere «un dominio di oggetti retti da leggi autonome sulla base del quale l’arbitrio delle attività umane poteva dar prova del suo seducente splendore».

In questo senso, come ricorda Nadia Breda nell’introduzione alla prima edizione italiana del libro di Descola (Seid Editori 2014), ciò che l’indagine antropologica di Descola in qualche modo costringe a intraprendere è una sorta di pluralizzazione del concetto di natura, «che con questo lavoro diventa “natur-e”, “diversità di nature” e infine nel dibattito antropologico e scientifico più ampio sedimenterà il concetto di “multinaturalismo”».

Secondo Descola, non si dovrebbe più parlare di natura al singolare, se non, appunto, alla maniera di Latour, accompagnando la parola con la lettera maiuscola e per intendere con essa quella natura che caratterizza la modernità europea e occidentale.

Si dovrebbe invece parlare di natur-e, al plurale, mettendo così radicalmente in discussione gli «attributi della natura unica del naturalismo» e insieme ad essi gli attributi di un concetto di umano che a quella natura unica è inestricabilmente connesso.

 La natura del naturalismo, infatti, secondo Descola, «nel suo aspetto singolare, fa direttamente riferimento a questo dominio ontologico muto e impersonale i cui contorni furono tracciati definitivamente con la rivoluzione meccanicistica».

Rifacendosi anche ai celebri saggi di “Erwin Panofsky” sulla prospettiva e chiamando dunque in causa anche le modalità attraverso cui in epoca moderna in Europa viene rappresentata la natura, Descola osserva che il processo di oggettivazione operato dal soggetto sulla natura produce un doppio effetto: da una parte «crea una distanza tra l’uomo e il mondo restituendo all’uomo la condizione di acquisizione di autonomia nelle cose», dall’altra «sistematizza e stabilisce l’universo esteriore proprio conferendo al soggetto il dominio assoluto sull’organizzazione di questa esteriorità nuovamente conquistata».

 L’uomo, cioè, – e il termine è anche qui usato in questo modo proprio per enfatizzare che si tratta di una specifica figurazione e declinazione dell’umano – acquisisce autonomia dalla natura, facendo della natura un oggetto regolato da leggi eterne e inviolabili distanziato perciò dall’umano inteso come altro risetto ad essa.

 Questo processo di autonomizzazione dell’umano dal naturale e del naturale dall’umano, che Descola con espressione insieme forte e paradossale paragona a un colpo di stato, rappresenterebbe appunto il processo attraverso il quale la modernità nascente libera l’uomo dall’insieme degli oggetti animati e inanimati, facendone un soggetto esterno alle cose a partire dal quale viene legittimata la sua posizione di dominio su di esse.

 

 6. Natura e Uomo.

In The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins (Princeton University Press 2015, trad. it. Keller 2021) l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing inizia la sua ricerca sul mondo dei funghi matsutake – un fungo pregiatissimo che cresce all’interno di paesaggi perturbati dall’azione antropica – mettendo da subito in questione la nozione di natura propria della modernità occidentale.

Una messa in questione che, ancora una volta, non riguarda solo ciò che chiamiamo Natura, ma che coinvolge anche l’altro termine, che secondo “Lowenhaupt Tsing” per molti versi costituisce il fondamento stesso della nozione di Natura e rispetto al quale essa comunque trova la sua determinazione e definizione – ovvero il termine Uomo.

Scrive infatti “Lowenhaupt Tsing”:

«Sin dall’Illuminismo, i filosofi occidentali ci hanno proposto una Natura maestosa e universale, ma anche passiva e meccanica.

Natura come scenario e risorsa per le intenzioni morali dell’Uomo, in grado di controllarla e addomesticarla.

Il compito di ricordarci delle attività vitali di tutti gli esseri viventi, umani e no, veniva lasciato agli autori di favole, anche non occidentali e non civilizzati».

Nell’analisi di Tsing questa visione è stata messa in discussione fondamentalmente da tre ordini di problemi o per meglio dire da tre forme di emergenza:

1. L’emergenza ecologica: «addomesticare e controllare la Natura ha prodotto un tale pandemonio che non sappiamo neanche più se la vita sulla Terra possa proseguire»;

2. L’emergenza del non-umano: «intrecci tra specie un tempo ritenuti solo materia di fiabe sono ora diventati oggetto di seri dibattiti tra biologi ed ecologisti, che mostrano come la vita abbia bisogno dell’interazione tra diversi tipi di esseri viventi:

gli uomini non possono sopravvivere calpestando tutti gli altri»;

3. L’emergenza de coloniale: «in terzo luogo, uomini e donne di tutto il mondo hanno reclamato lo status un tempo riservato all’Uomo.

La nostra presenza ribelle mina le intenzioni morali della mascolinità cristiana dell’Uomo, che aveva separato l’Uomo dalla Natura».

L’idea di fondo a partire dalla quale Tsing intraprende il suo viaggio all’interno del mondo e delle storie dei” funghi matsutake” è che dobbiamo essere consapevoli che ogni volta che noi parliamo di Natura ci muoviamo di fatto dentro un orizzonte che implica anche l’Uomo, ovvero un certo modello di umanità (maschile, bianca, occidentale).

Dire Natura significa perciò per l’antropologa dell’Università di Santa Cruz, dire anche, sempre, un modo peculiare e determinato di pensare la soggettività umana e conseguentemente un modo peculiare e determinato di pensare la relazione tra l’umano e il mondo.

Per questo anche Tsing scrive perlopiù il termine Natura e il termine Uomo con l’iniziale maiuscola, al fine di rendere quanto più esplicito possibile che con essi si intendono dei nomi propri, ovvero che termini come Natura e Uomo non possono essere considerati termini neutri riferentesi a una universalità onnicomprensiva, ma sono, invece, specifiche istanziazioni storiche, culturali e ideologiche che è necessario portare a esplicitazione e ad evidenza per cercare di pensare al di là dei presupposti che essi veicolano.

7. La parola Uomo.

I diversi tentativi di problematizzare il concetto di natura per come esso è andato costruendosi soprattutto nel corso dell’epoca moderna sono sempre, come si è visto, anche una radicale problematizzazione del termine uomo, che viene letto come il correlato indisgiungibile di quella natura e per molto versi ciò che fonda quel modo di considerarla che ne fa una pura risorsa a disposizione dell’umano stesso.

Il termine ‘uomo’ nella lingua italiana è un termine notoriamente ambiguo.

 Esso indica, infatti, tanto la specie di mammiferi primati ominidi appartenenti al genere Homo, tanto l’essere umano in generale, quanto l’essere umano di sesso maschile, in contrapposizione espressa o tacita, come recita il dizionario Treccani, a donna.

 Nella lingua italiana la parola uomo e il plurale uomini possono dunque avere oltre all’uso determinato che indica una relazione con il genere, anche un uso, cosiddetto, “non marcato”, un uso cioè generalizzato, che va ad indicare tutti gli individui caratterizzati come umani indipendentemente dal riferimento al genere.

La compresenza di un uso marcato e un uso non marcato all’interno della lingua crea talvolta dei problemi, che soprattutto negli ultimi cinquant’anni hanno portato a discussioni a volte anche molto accese.

Come ha osservato la linguista “Anna M. Thornton” «sempre più spesso in epoca recente, ma in qualche caso anche già da tempo, non tutti i parlanti di lingue che conoscono il fenomeno del “maschile non marcato” accedono con la stessa naturalezza all’interpretazione generica, inclusiva, “non marcata” dei nomi maschili, e li interpretano invece come riferiti specificamente solo a persone di sesso maschile».

Questa sorta di disagio nell’uso del maschile non marcato per cui determinati soggetti che sono inclusi in esso si sentono di fatto da esso oscurati e marginalizzati, ha prodotto e produce ovviamente delle conseguenze, come accade peraltro sempre nelle lingue, le quali non sono strutture eterne e stabili, ma entità vive, storiche e in movimento.

Per esempio, ricorda sempre Thornton, la Chiesa Cattolica – diciamo non la più mobile delle istituzioni – ha sostituito nel 2020 il plurale non marcato ‘fratelli’, che appariva in diverse parti della messa e nel testo di diverse preghiere, con la formula ‘fratelli e sorelle’.

 

 Non esiste ovviamente una soluzione immediata in grado di rispondere al tipo di problemi che sono emersi con forza in questi anni, e soprattutto non è probabilmente con l’imposizione di regole che vengono vissute e percepite come artificiali ed estranianti (sia in senso conservativo, sia in senso progressivo) che si risolve il problema.

Al contempo, non considerare quello che Thornton definisce come «il senso di esclusione delle donne provato di fronte a usi cosiddetti non marcati di uomo/uomini e fratelli, e di molti altri sostantivi maschili», oppure anche i problemi e le difficoltà che caratterizzano la vita delle persone che non si riconoscono all’interno di una identità di genere binaria, fondandosi su nomenclature e classificazioni autorevoli e comunque ovviamente artificiali,  è un atteggiamento che, ancorandosi a una qualche forma di auctoritas storica di fatto nega le emergenze della storia stessa.

Il fatto che la lingua sia organizzata in un certo modo non è un dato naturale e anzi, come scrive la linguista “Cecilia Robustelli” in un articolo che si intitola” Lingua e identità di genere”, ciò che emerge in modo lampante nelle pratiche linguistiche di questi anni è «il contrasto sempre più evidente tra l’ascesa sociale delle donne e la rigidità di una lingua costruita da e per i maschi».

Altrettanto in quel testo giustamente famoso che sono le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana che risale a quasi 40 anni f”a (fu pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1987), la linguista “Alma Sabatini” scriveva:

«in questo particolare momento in cui gli enormi cambiamenti sociali che sono avvenuti e stanno avvenendo nei ruoli dei due sessi premono per avere un riconoscimento linguistico, è importante favorirlo e aiutarlo, dando indicazioni per una liberazione da stereotipi banalizzanti e mutilanti e dà segnali linguistici che rivelano e rinforzano il predominio maschile».

Una lingua androcentrica, secondo Sabatini, tende sempre, per quanto in modo perlopiù irriflesso, a far pensare in modo androcentrico.

 Sabatini infatti sostiene, come commenta a sua volta” Robustelli”, che al linguaggio va riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile:

«è perciò necessario che (il linguaggio, LI) sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi».

Un discorso che oggi sempre più merita di essere ulteriormente articolato non solo in rapporto alle donne, ma anche rispetto a tutte quelle persone che non si riconoscono né all’interno del genere maschile, né all’interno del genere femminile.

Peraltro, nelle stesse Linee guida per un linguaggio amministrativo e istituzionale attento alle differenze di genere elaborato dall’Università di Padova, Annalisa Oboe scrive:

L’italiano frequentemente subordina il femminile al maschile in nome del cosiddetto maschile generico o ‘non marcato’, cioè un maschile presunto neutro e universale, che comprende sia l’uomo che la donna.

Il maschile generico rappresenta in realtà uno degli usi linguistici dagli effetti più discriminanti, che fa sì che solo gli uomini siano rappresentati nella lingua, e che le donne restino invisibili.

Non è esagerato pensare al maschile generico come a uno degli strati del ‘soffitto di cristallo’ che riducono l’accesso delle donne al lavoro e ai vertici della società, che schiacciano le loro scelte all’interno delle aspettative definite dagli stereotipi di genere e che concorrono al mantenimento delle disparità tra donne e uomini.

Il problema non riguarda però solo la lingua italiana.

Se nella lingua tedesca, come è noto, oltre ai sostantivi Mann (uomo) e Frau (donna) esiste anche il termine “Mensch”, che, pur essendo anch’esso declinato al maschile, consente comunque di parlare degli esseri umani indipendentemente dal genere (non a caso esiste a Monaco di Baviera un “Museum Mensch und Natur”), la lingua inglese non ha invece un termine neutro ed era piuttosto frequente, almeno fino a un certo punto, vedere usato il sostantivo man e il plurale men con un significato sovra esteso.

Basta tuttavia una semplice ricerca in rete per vedere come il man sovraesteso sia sempre più marginalizzato non solo nella produzione scientifica di lingua inglese, ma anche nelle pratiche linguistiche ordinarie.

È diventato sempre più frequente, ad esempio, nella comunicazione scientifica di lingua inglese l’uso del pronome” she” come pronome sovraesteso e con l’emergere di nuove sensibilità e attenzioni ai linguaggi più inclusivi, tra chi non si riconosce come donna o come uomo, e quindi nei pronomi “he” o “she”, si è diffusa la pratica di definirsi in modo neutro con il “they”, sfruttando, in ciò, una caratteristica già presente nella lingua inglese.

Non è un caso, dunque, se nel 2020 il famoso “San Diego Museum of Man a Balboa Park “dopo una lunga discussione abbia deciso di cambiare denominazione e di diventare il “Museum of Us” o che in Canada l’importantissimo Museum of Men di Ottawa sia diventato già nel 1986 “il Museum of Civilization” o ancora che, sempre in Canada, il “Manitoba Museum of Man and Natur”e sia diventato già alcuni fa il “Manitoba Museum.”

La lingua francese ha problemi simili alla lingua italiana.

 La critica però all’uso non marcato e sovra steso del maschile ha in Francia radici piuttosto lontane.

Nel 1791, infatti, come è noto,” Olympe de Gouge”s pubblica la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in risposta alla Dichiarazione dell’uomo e del cittadino del 1789, denunciando così, in piena cultura illuministica, nell’uso di un termine marcato, ma assunto in modo universalistico quale è il termine Homme una esclusione di fatto della donna da quello che viene considerato uno dei testi fondanti della modernità politica europea.

 In realtà, però, all’interno della cultura francese, dove le questioni relative alla lingua, come scrive Nadine Celotti sono sempre, letteralmente,” Une affaire d’État”, una questione che coinvolge i fondamenti stessi su cui si regge la statualità francese, l’assunzione del termine “Homme” come sostantivo non marcato resiste ed è a tutt’oggi oggetto di discussioni anche aspre.

Non a caso il grande museo dell’antropologia di Parigi, il famosissimo” Musée de l’Homme “mantiene ancora questo nome, anche se sono stati in molti coloro che, soprattutto in occasione del rinnovamento e della riapertura nel 2015, avevano chiesto che si passasse da “Musée de l’Homme a Musée de l’Humanité”.

 Il termine Homme, sostenevano infatti quelli che chiedevano il cambio di denominazione, non è un termine neutro.

Come ha scritto” Elianne Viennot”, infatti, usare il termine “homme” per designare l’umanità non solo non consente di rappresentare le donne e i soggetti che non si riconoscono nei “binarismi di gener”e, ma soprattutto oscura il loro posto nella società (En finir avec l’homme. Chronique d’une imposture – Donnemarie-Dontilly, Editions iXe, 2021).

Tuttavia, come dice sempre “Celotti” in un contributo che si intitola «Femme, j’écris ton nom… ?»

Un’escursione nel mondo vario delle lingue francesi, altri paesi francofoni hanno intrapreso, anche sul piano della lingua istituzionale, strade diverse.

Ad esempio, come accaduto in Canada, sostituendo l’espressione «Droits de l’homme» con l’espressione «Droits de la personne».

Naturalmente tutto questo, soprattutto in Italia, viene non di rado ridicolizzato, ovvero viene interpretato come uno dei deliri che sarebbero connessi agli imperativi della correttezza politica o una delle tante subdole manifestazioni di potere dell’ideologia woke.

Che esistano non pochi problemi rispetto a questi imperativi nessuno lo nega. Altrettanto non si può non notare come la critica alla correttezza politica sia spesso – non sempre, ma spesso – una maniera facile e banale per evitare di mettere in discussione i modi con cui si è abituati a pensare.

Essere consapevoli del legame che intreccia quello che si pensa con il modo in cui lo si pensa, ovvero essere consapevoli delle conseguenze e delle implicazioni che sono connesse ai termini che si usano, è in realtà un esercizio che si dovrebbe sempre fare, soprattutto in ambito scientifico, per evitare di pensare implicitamente ciò che magari esplicitamente non si intende pensare.

8. Conclusioni.

Intitolare questo nuovo museo “della Natura e dell’Uomo” non è di per sé “errato”. È un museo di antropologia e di storia naturale, se così si può dire, e con i due termini – Uomo e Natura – ci si intende evidentemente riferire da un lato a Homo, ovvero al genere di primati ominidi da cui proviene Homo sapiens, e dall’altro a quel dominio di realtà abitato dai minerali, dai vegetali e dagli animali non umani.

E tuttavia, questa denominazione, che non era certo l’unica possibile, suona al contempo come un’occasione persa.

 Pensare il nome di questo museo poteva essere infatti un’opportunità per un’istituzione universitaria di entrare con una propria idea dentro un dibattito fra i più accesi e interessanti che attraversano la cultura e la scienza contemporanee, ovvero per testimoniare, soprattutto come Università, la volontà di inoltrarsi verso direzioni magari ancora inedite, ma certamente maggiormente rispondenti alle urgenze del tempo in cui si agisce.

In ogni caso, con un piccolo sforzo di creatività a cui sarebbe stato bello convocare l’intera comunità scientifica universitaria, si sarebbe potuta evitare l’impressione di una reiterazione di dinamiche che possono legittimamente apparire discriminatorie e per chi in quei dualismi, in quelle classificazioni e in quelle nomenclature non è più disposto a riconoscersi.

Chiunque lavori con le parole sa o dovrebbe sapere che le parole – tanto più se connesse a istituzioni che mirano a permanere nel tempo – non sono mai contenitori neutri:

proprio perché immerse nella vitalità della lingua e della cultura, le parole sono sempre anche veicoli più o meno consci di presupposti ideologici, culturali e di potere.

A loro volta, le resistenze ideologiche, culturali e di potere alle modificazioni degli usi linguistici o anche grammaticali sono non di rado cieche alle trasformazioni della società, e si fondano spesso o su un’idea fissa della grammatica intesa come norma eterna e intoccabile o sull’autorità della tradizione, ovvero, in entrambi i casi, negando tanto la storicità dei nostri modi di pensare quanto la specifica storicità della lingua, come se essa fosse una sorta di tabernacolo intoccabile e perciò priva di una sua specifica evoluzione.

 Farebbe invece bene e sarebbe certamente anche utile pensare della lingua ciò che Darwin pensava del mondo naturale alla conclusione dell’Origine delle specie, ovvero che in esso «innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi».

 

 

 

 

Due piccoli manuali per resistere

al pensiero dominante.

Lanuovabq.it – (12-7-2023) – Fabrizio Cannone - Jean-Yves Le Gallou – ci dicono:

 

L’ex parlamentare europeo Jean-Yves Le Gallou, con “Manuale di lotta contro la demonizzazione” e “La società della propaganda”, spiega come discernere l’odierno pensiero dominante, basato su ideologie anticristiane.

Il grande esperto di cose massoniche, “Emmanuel Ratier” (1957-2015), ha sempre negato, in libri articoli e interviste, l’esistenza di un’unica centrale mondiale occulta, atta a condizionare se non a dirigere la politica nell’intero mondo.

Il che, secondo certuni, avverrebbe da secoli, seppur in modo nascosto e noto solo a pochi iniziati.

Lo stesso “Alain de Benoist”, in un saggio pubblicato tanti anni su “Trasgressioni” (n. 14), ha confutato in modo scientifico la cosiddetta “teoria del complotto”, ben prima che i presunti anti-complottisti odierni la usassero come arma contro chi, giustamente, rifiuta la dittatura del politicamente corretto.

 Il filosofo francese ne mostrava tutte le contraddizioni, le aporie logiche e concettuali, per non dir nulla del suo manicheismo e delle tragiche conseguenze per noi.

 In effetti, se tutto è già scritto e deciso non si sa dove, a che pro battersi?

Ma questo non significa che non esista oggi – almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale – un pensiero dominante il quale, grazie ai sostegni economici che vanta e la sudditanza di gran parte dei media, tende a imporsi più o meno a ogni latitudine.

 E a imporre, senza mai trionfare però in modo assoluto e definitivo, valori e ideologie che sono agli antipodi del pensiero che si ispira al Vangelo e alla ragione.

Il bretone “Jean-Yves Le Gallou”, in due piccoli manualetti appena usciti, ci racconta tutto quello che urge conoscere per ben discernere questo pensiero dominante, le sue tendenze, i suoi dogmi e le sue nefaste modalità di azione.

Spiegandoci per filo e per segno come resistere ad esso, fronteggiarlo, schivarne le deleterie influenze e cercare di vincerlo, perché la storia non è già scritta e non siamo i burattini di nessuno.

Si tratta di Manuale di lotta contro la demonizzazione e La società della propaganda. Piccolo manuale di resistenza al gulag mentale, entrambi editi da “Passaggio al Bosco, 2023”.

Nel primo dei due saggi l’autore, presidente della “Fondazione Polémia” ed ex parlamentare europeo, fa una sintesi sul concetto di “demonizzazione” partendo dall’eroina-martire francese, santa Giovanna d’Arco, e notando come l’arte che il potere usa per demonizzare coloro che non vogliono sottomettersi alla sua ideologia abbia sempre qualcosa di simile nella storia.

Ovviamente rispetto ad altre epoche, l’ideologia contemporanea del “bene” che demonizza chi le resiste è, nel suo Dna più profondo, nichilista, relativista, pseudo-progressista, pseudo-ecologista, pansessualista, atea, irrazionale e anticristiana.

Le Gallou, citando” Bock-Coté”, parla di «ideologia diversitaria» (pp. 15-16). I suoi nemici prioritari, secondo l’autore, sono:

«Il nazionale, l’identitario, il patriota, il cattolico, colui che è legato alle continuità antropologiche, ai valori tradizionali e al proprio territorio» (p. 23).

“Laird Wilcox”, un ricercatore americano, fa una lunga lista dei metodi che il potere usa oggi per demonizzare i malpensanti che vorrebbe ricondurre all’ovile. Sono 21 e non abbiamo spazio per citarli (cf. pp. 27-33).

In sintesi il demonizzato viene sistematicamente marginalizzato, ridicolizzato, etichettato (con etichette di comodo in cui non si riconosce, tipo razzista, estremista, omofobo, integralista e simili), descritto come pericoloso, e presentato come il “male assoluto” per la convivenza pacifica in una società pluralista, e questo proprio da chi nega la distinzione etica radicale tra bene e male.

Nella “Società della propaganda”, Le Gallou recuperano e aggiornano al presente le riflessioni sulla propaganda di Stato e dei suoi media, così come è stata spiegata dai grandi osservatori di ieri:

 Jacques Ellul (Propaganda. Come si formano i comportamenti degli uomini), Gustave Le Bon, Solženicyn e altri.

Ovviamente i casi più recenti in cui la propaganda del sistema ha toccato l’acme sono, probabilmente, il movimento eterodiretto “Black Lives Matter” (secondo cui un morto vale di più di tanti altri morti se la causa della morte è il razzismo) e la versione unica sul Covid (per cui fare critiche a opinabili scelte di politica sanitaria, sarebbe andare contro la scienza).

Senza dimenticare, del resto, l’ideologia Lgbt – la più potente forma del pensiero unico nel XXI secolo – e il mutamento giuridico inaudito che essa ha ottenuto in Occidente e non solo.

L’autore applica la famosa “finestra di Overton”, con il lento/celere ribaltamento dei valori, ai due casi simbolo dell’aborto e del matrimonio gay.

Da peccati (per tutte le religioni) e reati (per tutti gli Stati di diritto) a comportamenti legittimi, giusti, perfino encomiabili.

 Anzi, nota Le Gallou, su questi e altri temi simili, come il “catastrofismo climatico, si è ridotta drasticamente quella stessa libertà di pensiero che il sistema democratico mette a fondamento della propria superiorità morale sui regimi autoritari del passato.                   E nella mente di chi è soggiogato dalla propaganda senza sosta del mono-pensiero, nota Le Gallou, «la domanda: è vero? è stata progressivamente sostituita dall’angosciante interrogativo: possiamo dirlo?» (p. 24).

Secondo “Philippe Bornet”, uno studioso citato dall’autore che ha analizzato a fondo le tirannie storiche di Dionigi di Siracusa, Calvino, Robespierre, Stalin e Mao, ci sono alcuni indizi che smascherano i tiranni e la loro follia repressiva.

Tra questi, il controllo dell’informazione, l’odio per la famiglia e il matrimonio, il reclutamento dei bambini, il fascino per la tecnica, il «cambiamento di popolazione» a cui portano e la sottomissione a poteri stranieri e lontani (cf. pp. 26-27).

Ma la partita non è persa, tanto più se abbiamo il coraggio, quella «virtù necessaria ai popoli per durare nella storia» e agli uomini «per restare in piedi» (p. 120). Specie in un contesto di disordine, propaganda, tirannia e demonizzazione della verità.

 

 

…e se Karl Heinrich Marx

avesse avuto ragione?

Lincontro.news.it – (11 Luglio 2023) – Massimo Chioda – ci dice:

 

Non sempre la sezione In/Contro propone visioni contrapposte su un tema.

A volte si tratta di considerare una situazione partendo da prospettive diverse. Questa volta abbiamo messo a confronto due suggestioni sul futuro sociopolitico. Da una parte “Massimo Chioda” gioca sulla provocazione e sul paradosso e vagheggia una riscoperta del pensiero marxista.

Dall’altra “Riccardo Rossotto” ipotizza una diarchia Draghi-Dimon al comando. Insomma, Marx versus i banchieri.

(il direttore Milo Goj)

 

Il secolo scorso ha visto nascere, espandersi e spegnersi l’utopia marxista.

Come ricorderanno in molti, Marx aveva previsto che lo sviluppo avanzato del capitalismo avrebbe portato “i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori” a sprofondare nel proletariato, mentre “il pauperismo” si sarebbe sviluppato “ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza”.

La storia del Novecento parrebbe aver smentito le previsioni marxiste.

L’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi al vertice, contrapposto all’espandersi oltre ogni misura della povertà alla base – secondo la visione di Marx – avrebbe portato all’acuirsi della contraddizione che avrebbe determinato la rivoluzione proletaria.

La storia del Novecento parrebbe aver smentito le previsioni marxiste poiché lo sviluppo del capitalismo nelle società industrializzate ha portato un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei ceti più modesti, nonché una migliore distribuzione del reddito nella società, mentre le rivoluzioni di ispirazione marxista si sono realizzate solo ed esclusivamente in paesi agricoli dove non aveva neppure avuto luogo l’industrializzazione (Russia, Cuba e Cina).

Seppellire il pensiero marxista sotto una pietra tombale…

Marx non aveva ritenuto – e per certi versi neppure previsto – che le lotte operaie avrebbero portato ad una dialettica riformista e non rivoluzionaria, e che il pensiero liberale e borghese sarebbe stato in grado di riformare il sistema di relazioni industriali in senso opposto a quello ipotizzato dal marxismo come esito naturale dello sviluppo capitalistico.

E Marx non avrebbe potuto neppure lontanamente immaginare che il capitalismo avrebbe reso compatibile l’incremento dei profitti con l’aumento dei salari e che si sarebbe sottoposto alla regolamentazione dei mercati e alla tassazione in funzione sociale.

Pertanto già negli anni ’90 del secolo scorso si è ritenuto di seppellire il pensiero marxista sotto una pietra tombale.

Tuttavia è noto che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi e l’analisi dei fenomeni antropologici richiede cautele adeguate ai tempi dei processi storici.

Incremento dei profitti bancari contro il decremento dei risparmi delle famiglie.

Ciò che mi ha portato a disseppellire il cadavere del filosofo ottocentesco è la lettura di un trafiletto di poco conto del 17 giugno scorso che riportava il dato degli utili netti delle banche italiane nel 2022 pari a 21,8 miliardi di euro, con un incremento netto di oltre 8 miliardi rispetto al 2021.

Nello stesso periodo il decremento netto dei risparmi delle famiglie italiane – cioè il loro impoverimento – è stato pari a 25,2 miliardi di euro.

Tale dato mi ha ricordato che nell’ultimo ventennio le politiche neoliberiste e restrittive di bilancio hanno prodotto il totale ribaltamento del processo di redistribuzione del reddito realizzatosi nel secondo dopoguerra, provocando un rapido e significativo impoverimento globale unito ad un accentramento della ricchezza nelle mani di pochi.

 È sufficiente considerare che nel ventennio 2000-2020 i più ricchi del pianeta – che costituiscono meno del 10% della popolazione – hanno raggiunto il controllo dell’80% della ricchezza mondiale, e il loro patrimonio è aumentato nello stesso periodo di oltre il 50%. E se si prende come riferimento l’1% più ricco del pianeta l’aumento dei guadagni supera il 278%.

L’1% più ricco del pianeta possiede la metà della ricchezza prodotta nel mondo.

E tale fenomeno sta accelerando con una velocità esponenziale mai vista in precedenza.

Negli ultimi due anni l’1% più ricco del pianeta si è impossessato della metà della ricchezza prodotta nel mondo, mentre alla metà più povera della popolazione mondiale è andato lo 0,45%.

Nello stesso periodo per circa due miliardi di lavoratori l’inflazione ha superato nettamente il potere d’acquisto salariale e nel mondo quasi 900 milioni di persone hanno sofferto la fame.

Peraltro, contestualmente all’aumento esplosivo della povertà nei paesi industrializzati, negli ultimi anni si è assistito alla concentrazione monopolistica nella new economy e alla riduzione del numero delle imprese.

Se dalla triste sintesi di quanto sta avvenendo a livello mondiale parrebbe che si stia realizzando la previsione marxista, sappiamo che nel secolo scorso i sindacati, le istituzioni politiche e lo stesso capitalismo seppero imprimere ben altra direzione al processo storico di cui si discute.

 

La tassazione si è concentrata sul reddito da lavoro e sui consumi.

Ma nell’attualità deve darsi atto che tali dinamiche non possono più operare.

La politica e le istituzioni sono coese nell’azione di sostegno alla concentrazione della ricchezza in poche mani, e all’allargamento della povertà e della disuguaglianza.

Da un lato, come si è visto, il verbo liberista, il rigore di bilancio e le relative politiche restrittive impediscono qualsiasi intervento di perequazione o di mitigazione del fenomeno in esame.

Sotto altro profilo la politica fiscale degli ultimi decenni ha evidenziato una decisa azione politica volta ad incrementare il patrimonio dei “super-ricchi” e l’aumento della povertà.

Negli USA degli anni ‘50 l’aliquota tributaria più alta era al 90% mentre nel 2012 era già al 35%, facendo i ricchi più ricchi e sottraendo risorse pubbliche ai più poveri.

In tutti i paesi industrializzati la tassazione si è indirizzata e concentrata sul reddito da lavoro e sui consumi, e non sulle rendite finanziarie e sul capitale:

 i ricavi fiscali dai patrimoni si aggirano intorno al 3 – 4% del gettito complessivo. L’aliquota media sulle rendite è del 18%, cioè meno della metà di quella mediamente applicata ai salari.

Elon Musk ha pagato imposte con aliquota del 3%.

Grazie alle istituzioni pubbliche negli ultimi anni l’uomo più ricco del pianeta (Elon Musk) ha pagato imposte con aliquota del 3%.

Al di là della generica propaganda, non esistono posizioni politiche in controtendenza.

 La politica americana e le istituzioni europee sono asservite ai grandi monopoli finanziari.

 In Europa i partiti popolari e conservatori, così come il fronte socialdemocratico, sono i più accaniti sostenitori – nei fatti e nell’azione politica (vedasi borsino dell’energia affidato a Morgan Stanley e soci) – del liberismo e delle politiche restrittive di bilancio e quindi restrittive del flusso circolare del reddito.

 Non deve ingannare la posizione della destra populista e sovranista che accusa duramente (e giustamente) le istituzioni europee di aver impoverito i cittadini dell’Unione, ottenendo così grandi successi elettorali.

Se osserviamo le ricette nazionaliste e le soluzioni proposte – vedi la lotta ai migranti – risulta evidente che anche la destra estrema rema per proteggere i più ricchi, essendo ovvio che la guerra tra poveri non intacca il descritto sistema.

Quanto alla subalternità del sindacato nel quadro di totale liberalizzazione del lavoro, non occorre neppure sprecare ulteriori parole.

 

… e alla fine le tesi del Manifesto del Partito Comunista hanno trovato riscontro nell’evoluzione storica.

A tutto ciò deve aggiungersi che non si potrebbe nemmeno confidare in un nuovo fordismo poiché la grande concentrazione di capitale non può fare altro che adattarsi evolutivamente all’ambiente assai favorevole accelerando la trasformazione del capitalismo da produttivo in finanziario, aumentando così l’accentramento in poche mani dell’incremento esponenziale dei grandi profitti.

Mancando quindi le risorse politiche e sociali del Novecento, parrebbe che le tesi esposte nel Manifesto del Partito Comunista abbiano, alla fine, trovato riscontro nell’evoluzione storica.

Qualcuno resterà indignato oppure riderà di fronte a tale provocazione.

Tuttavia, a mio modesto avviso, ciò che deve preoccupare non è la resurrezione del marxismo in sé che ritengo assai poco probabile visti i tracciati – definitivamente piatti – dell’elettrocardiogramma delle varie sinistre europee e nordamericane.

Il problema è ben più serio, poiché tale “trend” – sostenuto con forza dalla nostra politica e dagli economisti di ultima generazione – risulterà totalmente insostenibile, persino nel breve periodo ove si osservi che, nell’ipotesi più realistica, le politiche restrittive di bilancio già nel periodo 2023 – 2027 determineranno un decremento della spesa sociale per oltre 6.700 miliardi di dollari.

(Massimo Chioda)

 

 

 

 

Potere dell’innovazione.

Quotidianodeicontribuenti.com – (11 Luglio 2023) – Redazione – ci dice:

 

 

Perché la tecnologia definirà il futuro della geopolitica.

Eric Schmidt è presidente del progetto Special Competitive Studies ed ex CEO e presidente di Google.

È coautore, con Henry Kissinger e Daniel Huttenlocher, di

L’era dell’IA: e il nostro futuro umano.

Quando le forze russe hanno marciato su Kiev nel febbraio 2022, pochi pensavano che l’Ucraina potesse sopravvivere.

La Russia aveva più del doppio dei soldati dell’Ucraina.

Il suo bilancio militare era più di dieci volte più grande.

La comunità di intelligence degli Stati Uniti ha stimato che Kiev sarebbe caduta entro una o due settimane al massimo.

In inferiorità numerica e in inferiorità numerica, l’Ucraina si rivolse a un’area in cui deteneva un vantaggio sul nemico: la tecnologia.

Poco dopo l’invasione, il governo ucraino ha caricato tutti i suoi dati critici sul cloud, in modo da poter salvaguardare le informazioni e continuare a funzionare anche se i missili russi hanno trasformato i suoi uffici ministeriali in macerie.

Il Ministero della trasformazione digitale del paese, che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva istituito solo due anni prima,

ha riproposto la sua app mobile di egovernement, Diia, per la raccolta di intelligence open-source, in modo che i cittadini potessero caricare foto e video di unità militari nemiche.

Con le loro infrastrutture di comunicazione in pericolo, gli ucraini si sono rivolti ai satelliti Starlink e alle stazioni di terra fornite da SpaceX per rimanere connessi. Quando la Russia ha inviato droni di fabbricazione iraniana oltre il confine, l’Ucraina ha acquisito i propri droni appositamente progettati per intercettare i loro attacchi, mentre i suoi militari hanno imparato a usare armi sconosciute fornite dagli alleati occidentali.

Nel gioco catand-mouse di innovazione, l’Ucraina semplicemente dimostrato agile. E così quella che la Russia aveva immaginato sarebbe stata un’invasione facile e veloce si è rivelata tutt’altro.

Il successo dell’Ucraina può essere accreditato in parte alla determinazione del popolo ucraino, alla debolezza dell’esercito russo e alla forza del sostegno occidentale.

Ma deve anche alla nuova forza che definisce la politica internazionale: il potere dell’innovazione.

 Il potere dell’innovazione è la capacità di inventare, adottare e adattare nuove tecnologie

 Contribuisce sia all’hard che al soft power.

 I sistemi di armi ad alta tecnologia aumentano la potenza militare, le nuove piattaforme e gli standard che li governano forniscono una leva economica e la ricerca e le tecnologie all’avanguardia aumentano l’appeal globale.

C’è una lunga tradizione di stati che sfruttano l’innovazione per proiettare il potere all’estero, ma ciò che è cambiato è la natura autoperpetuante dei progressi scientifici.

 In particolare, gli sviluppi nell’intelligenza artificiale non solo aprono nuove aree di scoperta scientifica, ma accelerano anche questo processo.

L’intelligenza artificiale potenzia la capacità di scienziati e ingegneri di scoprire tecnologie sempre più potenti, promuovendo i progressi nell’intelligenza artificiale stessa e in altri campi e rimodellando il mondo nel processo.

La capacità di innovare più velocemente e meglio—il fondamento su cui poggiano ora il potere militare, economico e culturale, determinerà l’esito della competizione tra Stati Uniti e Cina.

Per ora, gli Stati Uniti rimangono in testa.

 Ma la Cina sta recuperando terreno in molte aree ed è già cresciuta in altre. Per uscire vittoriosi da questo concorso che definisce il secolo, gli affari come al solito non andranno bene.

 Invece, il governo degli Stati Uniti dovrà superare i suoi impulsi burocratici stolti, creare condizioni favorevoli per l’innovazione e investire negli strumenti e nei talenti necessari per avviare il circolo virtuoso del progresso tecnologico. Ha bisogno di impegnarsi sempre più spesso, i sistemi di intelligenza artificiale inizieranno a prendere decisioni da soli:

promuovere l’innovazione al servizio del Paese e al servizio della democrazia. La posta in gioco è niente di meno che il futuro delle società libere, dei mercati aperti, del governo democratico e del più ampio ordine mondiale.

LA CONOSCENZA È POTERE.

Il nesso tra innovazione tecnologica e dominio globale risale a secoli fa, dai moschetti che il conquistador Francisco Pizarro impugnò per sconfiggere l’Impero Inca ai battelli a vapore che il commodoro “Mat­thew Perry” comandò di forzare l’apertura del Giappone.

Ma la velocità con cui l’innovazione sta avvenendo non ha precedenti. Da nessuna parte questo cambiamento è più chiaro che in una delle tecnologie fondamentali del nostro tempo: l’intelligenza artificiale.

I sistemi di intelligenza artificiale di oggi possono già fornire vantaggi chiave nel dominio militare, dove sono in grado di analizzare milioni di input, identificare modelli e avvisare i comandanti delle attività nemiche.

 L’esercito ucraino, ad esempio, ha utilizzato l’intelligenza artificiale per scansionare in modo efficiente dati di intelligence, sorveglianza e ricognizione da una varietà di fonti.

Sempre più spesso, tuttavia, i sistemi di intelligenza artificiale andranno oltre la semplice assistenza al processo decisionale umano e inizieranno a prendere decisioni da soli.

John Boyd, stratega militare e colonnello dell’US Air Force, coniò il termine “OODA loop” osservare, orientare, decidere, agire—per descrivere il processo decisionale in combattimento.

Fondamentalmente, l’IA sarà in grado di eseguire ogni parte del ciclo “OODA” molto più velocemente.

Il conflitto può avvenire alla velocità dei computer, non alla velocità delle persone. Di conseguenza, i sistemi di comando e controllo che si basano su decisori umani -o, peggio, gerarchie militari complesse, perderanno da sistemi più veloci ed efficienti che uniscono le macchine agli umani.

Nelle epoche precedenti, le tecnologie che hanno plasmato la geopolitica—dal bronzo all’acciaio, dall’energia a vapore alla fissione nucleare-erano in gran parte singolari.

C’era una chiara soglia di padronanza tecnologica, e una volta che un paese l’ha raggiunta, il campo di gioco è stato livellato.

L’intelligenza artificiale, al contrario, è di natura generativa. Presentando una piattaforma per l’innovazione scientifica e tecnologica continua, può portare ad ancora più innovazione. Questo feno­meno rende l’età dell’IA fondamentalmente diversa dall’età del bronzo o dall’età dell’acciaio.

Piuttosto che la ricchezza delle risorse naturali o la padronanza di una determinata tecnologia, la fonte del potere di un paese risiede ora nella sua capacità di innovare continuamente.

Questo circolo virtuoso diventerà sempre più veloce.

 Una volta che il calcolo quantistico diventa maggiorenne, i computer super veloci consentiranno elaborazione di quantità sempre maggiori di dati, producendo sistemi di intelligenza artificiale sempre più intelligenti.

 Questi sistemi di intelligenza artificiale, a loro volta, saranno in grado di produrre innovazioni rivoluzionarie in altri campi emergenti, dalla biologia sintetica alla produzione di semiconduttori.

L’intelligenza artificiale cambierà la natura stessa della ricerca scientifica. Invece di fare progressi uno studio alla volta, gli scienziati scopriranno le risposte a domande secolari analizzando enormi set di dati, liberando le menti più intelligenti del mondo a dedicare più tempo allo svi­luppo di nuove idee.

Come tecnologia fondamentale, l’intelligenza artificiale sarà fondamentale nella corsa per il potere dell’innovazione, che si trova dietro innumerevoli sviluppi futuri nella scoperta di farmaci, nella terapia genica, nella scienza dei materiali e nell’energia pulita—e nella stessa intelligenza artificiale.

Gli aerei più veloci non hanno aiutato a costruire aerei più veloci, ma computer più veloci aiuteranno a costruire computer più veloci.

Ancora più potente dell’intelligenza artificiale di oggi è una tecnologia più completa—per ora, data l’attuale potenza di calcolo, ancora ipotetica—chiamata “intelligenza artificiale generale” o AGI.

 Mentre l’IA tradizionale è progettata per risolvere un problema discreto, l’AGI dovrebbe essere in grado di eseguire qualsiasi compito mentale che un essere umano può e altro ancora.

 Immagina un sistema di intelligenza artificiale in grado di rispondere a domande apparentemente intrattabili, come il modo migliore per insegnare l’inglese a un milione di bambini o per curare un caso di Alzheimer.

L’avvento di AGI rimane anni, forse anche decenni, di distanza, ma qualunque paese sviluppa la tecnologia prima avrà un enorme vantaggio, dal momento che potrebbe quindi utilizzare AGI per sviluppare versioni sempre più avanzate di AGI, guadagnando un vantaggio in tutti gli altri domini della scienza e della tecnologia nel processo.

Una svolta in questo campo potrebbe inaugurare un’era di predominanza non dissimile dal breve periodo di superiorità nucleare di cui gli Stati Uniti godevano alla fine degli anni ‘ 40.

Mentre molti degli effetti più trasformativi dell’IA sono ancora lontani, l’innovazione nei droni sta già sconvolgendo il campo di battaglia. Nel 2020, l’Azerbaigian ha impiegato droni di fabbricazione turca e israeliana per ottenere un vantaggio decisivo nella sua guerra contro l’Armenia nella regione contesa del Nagorno – Karabakh, accumulando vittorie sul campo di battaglia dopo oltre due decenni di stallo militare.

Allo stesso modo, la flotta ucraina di droni—molti dei quali sono modelli commerciali a basso costo riproposti per la ricognizione dietro le linee nemiche-hanno svolto un ruolo fondamentale nei suoi successi.

I droni offrono vantaggi distinti rispetto alle armi tradizionali: sono più piccoli ed economici, offrono capacità di sorveglianza senza pari e riducono l’esposizione al rischio dei soldati.

 Marines in guerra urbana, per esempio, potrebbero essere accompagnati da micro ­droni che servono come i loro occhi e le orecchie.

Nel corso del tempo, i paesi miglioreranno l’hard­ware e il soft­ware che alimentano i droni per innovare i loro rivali.

Alla fine, i droni armati autonomi—non solo veicoli aerei senza equipaggio ma anche quelli a terra-sostituiranno del tutto i soldati e l’artiglieria con equipaggio.

Immagina un sottomarino autonomo che potrebbe spostare rapidamente i rifornimenti in acque contese o un camion autonomo che potrebbe trovare il percorso ottimale per trasportare piccoli lanciamissili su terreni accidentati.

 Sciami di droni, collegati in rete e coordinati dall’IA, potrebbero sopraffare le formazioni di carri armati e fanteria sul campo.

Nel Mar Nero, l’Ucraina ha usato droni per attaccare navi russe e navi di rifornimento, aiutando un paese con una minuscola marina a limitare la potente flotta russa del Mar Nero.

 L’Ucraina offre un’ante­prima dei conflitti futuri: guerre che saranno combattute e vinte da uomini e macchine che lavorano insieme.

Come gli sviluppi nei droni chiariscono, il potere dell’innovazione è alla base del potere militare.

In primo luogo, il dominio tecnologico in domini cruciali rafforza la capacità di un paese di fare la guerra e quindi rafforza le sue capacità deterrenti.

 Ma l’innovazione modella anche il potere economico dando agli stati la leva sulle catene di approvvigionamento e la capacità di fare le regole per gli altri.

I paesi che dipendono dalle risorse naturali o dal commercio, in particolare quelli che devono importare beni rari o fondamentali, affrontano vulnerabilità che altri non hanno.

Considera il potere che la Cina può esercitare sui paesi che fornisce con l’hard­ware di comunicazione. Non sorprende che i paesi dipendenti dalle infrastrutture fornite dalla Cina—come molti paesi in Africa, dove i componenti prodotti da Hua­wei costituiscono circa il 70% delle reti 4G-siano stati riluttanti a criticare le violazioni dei diritti umani cinesi.

 Il primato di Tai­wan nella produzione di semiconduttori, allo stesso modo, fornisce un potente deterrente contro l’invasione, dal momento che la Cina ha poco interesse a distruggere la sua più grande fonte di micro­chip.

La leva finanziaria si accumula anche nei paesi pionieri delle nuove tecnologie.

 Gli Stati Uniti, grazie al loro ruolo nella fondazione di Internet, hanno goduto per decenni di un posto al tavolo che definisce le normative su Internet.

 Durante la Primavera araba, ad esempio, il fatto che gli Stati Uniti ospitassero aziende tecnologiche che fornivano la spina dorsale di Internet consentiva a tali aziende di rifiutare le richieste di censura dei governi arabi.

Meno ovvia ma anche cruciale, l’innovazione tecnologica fa da traino al soft power di un paese.

Hollywood e aziende tecnologiche come Net­flix e You­Tube hanno costruito un tesoro di contenuti per una base di consumatori sempre più globale, contribuendo allo stesso tempo a diffondere i valori americani.

 Tali servizi di streaming proiettano lo stile di vita americano nei salotti di tutto il mondo.

Allo stesso modo, il prestigio associato alle università degli Stati Uniti e le opportunità di creazione di ricchezza create dalle aziende statunitensi attraggono lottatori da tutto il mondo.

 In breve, la capacità di un paese di proiettare il potere nella sfera internazionale—militarmente, economicamente e culturalmente dipende dalla sua capacità di innovare più velocemente e meglio dei suoi concorrenti.

CORSA VERSO L’ALTO.

Il motivo principale per cui l’innovazione ora offre un vantaggio così enorme è che genera più innovazione.

In parte, lo fa a causa della dipendenza dal percorso che deriva da gruppi di scienziati che attraggono, insegnano e addestrano altri grandi scienziati presso università di ricerca e grandi aziende tecnologiche.

Ma lo fa anche perché l’innovazione si costruisce su sé stessa.

 L’innovazione si basa su un ciclo di invenzione, adozione e adattamento—un ciclo di feed­back che alimenta ancora più innovazione. Se un anello della catena si rompe, anche la capacità di un paese di innovare in modo efficace.

Un vantaggio nell’invenzione è tipicamente costruito su anni di ricerca precedente. Considera il modo in cui gli Stati Uniti hanno portato il mondo nell’era delle telecomunicazioni 4G.

 Il lancio delle reti 4G in tutto il paese ha facilitato lo sviluppo iniziale di applicazioni mobili come Uber che richiedevano connessioni dati cellulari più veloci.

Con que­sto vantaggio, Uber è stata in grado di perfezionare il suo prodotto negli Stati Uniti in modo da poterlo distribuire nei paesi in via di sviluppo.

 Ciò ha portato a molti più clienti—e molto più feed­back da incorporare- mentre l’azienda adattava il suo prodotto a nuovi mercati e nuove versioni.

Ma il fossato intorno ai paesi che godono di vantaggi strutturali nella tecnologia si sta riducendo.

Grazie in parte alla ricerca accademica più accessibile e all’ascesa del soft­ware open source, le tecnologie si diffondono più rapidamente in tutto il mondo. La disponibilità di nuovi progressi ha aiutato i concorrenti a raggiungere a velocità record, come alla fine ha fatto la Cina nel 4G.

Sebbene alcuni dei recenti successi tecnologici della Cina derivino dallo spionaggio economico e dal disprezzo per i brevetti, gran parte di esso risale a sforzi innovativi, piuttosto che derivati, per adattare e implementare nuove tecnologie.

In effetti, le aziende cinesi hanno goduto di un successo clamoroso nell’adottare e commercializzare innovazioni tecnologiche straniere.

Nel 2015, il Partito Comunista cinese ha definito la sua strategia” Made in China 2025 ” per raggiungere l’autosufficienza nelle industrie high-tech come le telecomunicazioni e l’intelligenza artificiale.

 Come parte di questa offerta, ha annunciato un piano economico di “doppia circolazione”, in base al quale la Cina intende aumentare la domanda interna ed estera per i suoi beni.

Attraverso partenariati pubblico-privato, sussidi diretti alle aziende private e sostegno alle aziende sostenute dallo stato, Pechino ha versato miliardi di dollari per assicurarsi di uscire avanti nella corsa per la supremazia tecnologica.

Finora, il record è misto. La Cina è davanti agli Stati Uniti in alcune tecnologie, ma in ritardo in altri.

È difficile dire se la Cina prenderà il comando nell’IA, ma gli alti funzionari di Pechino pensano certamente che lo farà.

 Nel 2017, Pechino ha annunciato l’intenzione di diventare il leader globale nell’intelligenza artificiale entro il 2030, e potrebbe raggiungere questo obiettivo anche prima del previsto.

 La Cina ha già raggiunto il suo obiettivo di diventare il leader mondiale nella tecnologia di sorveglianza basata sull’intelligenza artificiale, che non solo utilizza per controllare i dissidenti in patria, ma vende anche ai governi autoritari all’estero.

La Cina si colloca ancora dietro gli Stati Uniti nell’attrarre le migliori menti nell’intelligenza artificiale, con quasi il 60% dei ricercatori di alto livello che lavorano nelle università statunitensi.

Ma le leggi sulla privacy allentate della Cina, la raccolta obbligatoria dei dati,

l’innovazione genera più innovazione.

I finanziamenti governativi mirati danno al paese un vantaggio chiave.

In effetti, è già leader nella produzione di veicoli autonomi.

Per ora, gli Stati Uniti mantengono ancora un vantaggio nel calcolo quantistico. Eppure negli ultimi dieci anni, la Cina ha investito almeno 10 miliardi di dollari in tecnologia quantistica, circa dieci volte tanto quanto il governo degli Stati Uniti.

 La Cina sta lavorando per costruire computer quantistici così potenti da poter facilmente decifrare la crittografia di oggi.

Il paese sta anche investendo pesantemente in reti quantistiche— un modo di trasmettere informazioni sotto forma di bit quantistici -presumibilmente nella speranza che tali reti siano impermeabili al monitoraggio da parte di altre agenzie di intelligence.

 Ancora più allarmante, il governo cinese potrebbe già memorizzare le comunicazioni rubate e intercettate con un occhio a decifrarle una volta che possiede la potenza di calcolo per farlo, una strategia nota come “store now, decrypt later.”

Quando i computer quantistici diventeranno abbastanza veloci, tutte le comunicazioni crittografate attraverso metodi non quantistici saranno a rischio di intercettazione, aumentando la posta in gioco per raggiungere prima questa svolta.

La Cina sta anche cercando attivamente di raggiungere gli Stati Uniti nella biologia sintetica.

Gli scienziati in que­sto campo stanno lavorando su una serie di nuovi sviluppi biologici, tra cui il cemento micro­bico che assorbe l’anidride carbonica, le colture con una maggiore capacità di sequestrare il carbonio e i sostituti della carne a base vegetale.

Tale tecnologia ha enormi promesse per combattere il cambiamento climatico e creare posti di lavoro, ma dal 2019, gli investimenti privati cinesi nella biologia sintetica hanno superato gli investimenti statunitensi.

Quando si tratta di semiconduttori, anche la Cina ha piani ambiziosi.

Il governo cinese sta finanziando sforzi senza precedenti per diventare leader nella produzione di semiconduttori entro il 2030.

Le aziende cinesi stanno attualmente creando quelli che sono noti nel settore come chip “a sette nanometri”, ma Pechino ha messo gli occhi ulteriormente, annunciando piani per produrre a livello nazio­nale la nuova generazione di chip “a cinque nanometri”.

Per ora, gli Stati Uniti continuano a sovraperformare la Cina nella progettazione di semiconduttori, così come Tai­wan e Corea del Sud allineate agli Stati Uniti. Nell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha preso l’importante passo di bloccare le principali aziende statunitensi che producono chip per computer AI dalla vendita in Cina come parte di un pac­chetto di restrizioni rilasciate dal Dipartimento del Commercio.

Eppure le aziende cinesi controllano più della metà di tutti i ricercatori di intelligenza artificiale negli Stati Uniti che proviene dall’estero.

L’85 per cento della lavorazione dei minerali delle terre rare che vanno in questi chip e altri componenti elettronici critici, è made in Cina, offrendo un importante punto di leva rispetto ai loro concorrenti.

UNA BATTAGLIA DI SISTEMI.

La competizione tra Stati Uniti e Cina è tanto una competizione tra sistemi quanto tra stati.

Nel modello cinese di fusione civile-militare, il governo promuove la concorrenza interna e finanzia i vincitori emergenti come” campioni nazionali”.

Queste aziende svolgono un duplice ruolo, massimizzando il successo commerciale e promuovendo gli interessi di sicurezza nazionale cinese. Il modello americano, d’altra parte, si basa su un insieme più disparato di attori privati. Il governo federale fornisce finanziamenti alla scienza di base, ma in gran parte lascia l’innovazione e la commercializzazione al mercato.

Per molto tempo, la tripletta del governo, dell’industria e del mondo accademico è stata la fonte primaria dell’innovazione americana.

Questa collaborazione ha guidato molte scoperte tecnologiche, dallo sbarco sulla luna a Internet. Ma con la fine della guerra fredda, il governo degli Stati Uniti è diventato contrario all’assegnazione di finanziamenti per la ricerca applicata, e ha persino abbassato l’importo dedicato alla ricerca fondamentale.

Sebbene la spesa privata sia decollata, gli investimenti pubblici si sono stabilizzati nell’ultimo mezzo secolo. Nel 2015, la quota dei finanziamenti governativi per la ricerca di base è scesa sotto il 50 per cento per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo aver oscillato intorno al 70 per cento nel 1960.

Nel frattempo, la geometria dell’innovazione—il rispettivo ruolo degli attori pubblici e privati nel guidare il progresso tecnologico—è cambiata dalla guerra fredda, in modi che non hanno sem­pre pro­dotto ciò di cui il paese ha biso­gno. L’aumento del capitale di rischio ha contribuito ad accelerare l’adozione e la commercializzazione, ma ha fatto poco per affrontare problemi scientifici di ordine superiore.

Le ragioni della riluttanza di Washington a finanziare la scienza che serve come fondamento del potere dell’innovazione sono strutturali. L’innovazione richiede rischi e, a volte, fallimenti—qualcosa che i politici sono riluttanti ad accettare. L’innovazione può richiedere investimenti a lungo termine, ma il governo degli Stati Uniti opera su un ciclo di bilancio di un anno e, al massimo, su un ciclo politico di due anni. Nonostante questi ostacoli, la Silicon Valley (insieme ad altri punti caldi negli Stati Uniti) è ancora riuscita a incoraggiare l’innovazione. La storia di suc­cesso americana si basa su un potente mix di ambizione stimolante, regimi legali e fiscali favorevoli alle star­tup e una cultura di apertura che consente agli imprenditori e ai ricercatori di iterare e migliorare nuove idee.

Tuttavia, potrebbe non essere sufficiente. Il sostegno del governo ha svolto a lungo un ruolo fondamentale nell’innovazione di partenza negli Stati Uniti, e la ricerca in tecnologie che sembrano stravaganti ora potrebbe rivelarsi critica in un futuro non troppo lontano.

Nel 2013, ad esem­pio, la “Defense Advanced Research Projects Agency “ha investito in vaccini a RNA messaggero, lavorando con la società bio­tech Moderna, che in seguito avrebbe sviluppato e consegnato un vaccino COVID-19 in tempi record.

Ma tali esempi sono più rari di quanto dovrebbero essere.

La concorrenza con la Cina richiede un rilancio dell’interazione tra il governo, il settore privato e il mondo accademico.

Proprio come la guerra fredda ha portato alla creazione del Consiglio di sicurezza nazionale, la competizione alimentata dalla tecnologia di oggi dovrebbe stimolare un ripensamento delle strutture politiche esistenti.

Come ha raccomandato la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale (che ho presieduto), un nuovo “consiglio per la competitività tecnologica”, ispirato al NSC, potrebbe aiutare a coordinare l’azione tra gli attori privati e sviluppare un piano nazionale per far progredire le tecnologie emergenti cruciali. In un segno promettente, il Congresso sembra aver riconosciuto la necessità di un sostegno decisivo.

 Nel 2022, con un voto bipartisan, ha appro­vato il “CHIPS and Science Act2, che dirige 200 miliardi di dollari in finanziamenti per la R & S scientifica nei prossimi dieci anni.

INVESTIRE NEL FUTURO

Come parte del suo sforzo per garantire che rimanga una superpotenza dell’innovazione, gli Stati Uniti dovranno investire miliardi di dollari in aree chiave della concorrenza tecnologica. Nei semi­conduttori, forse la tecnologia più vitale oggi, il governo degli Stati Uniti dovrebbe raddoppiare i suoi sforzi verso le catene di approvvigionamento onshore e “friend share”, trasferendole negli Stati Uniti o in paesi amici.

Nell’energia rinnovabile, dovrebbe finanziare la ricerca e lo sviluppo per la microelettronica, immagazzinare i minerali delle terre rare (come il litio e il cobalto) necessari per le batterie e i veicoli elettrici e investire in nuove tecnologie che possono sostituire le batterie agli ioni di litio e compensare il dominio delle risorse della Cina.

 Nel frattempo, il lancio del 5G negli Stati Uniti è stato lento, in parte perché le agenzie governative—in particolare il Dipartimento della Difesa—controllano la maggior parte dello spettro radio ad alta frequenza utilizzato dal 5G. Per raggiungere la Cina, il Pentagono dovrebbe aprire più dello spettro agli attori privati.

Gli Stati Uniti dovranno inve­stire in tutte le parti del ciclo dell’innovazione, finanziando non solo la ricerca di base, ma anche la commercializzazione. L’innovazione significativa richiede sia l’invenzione che l’implementazione, l’abilità.

È necessario eseguire e commercializzare nuove invenzioni su larga scala.

Questo è spesso il principale ostacolo. La ricerca sulle auto elettriche, ad esempio, ha aiutato General Motor a portare il suo primo modello sul mercato nel 1996, ma ci sono voluti altri due decenni prima che Tesla producesse in serie un modello commercialmente valido. Ogni nuova tecnologia, dall’intelligenza artificiale al calcolo quantistico alla biologia sintetica, deve essere perseguita con il chiaro obiettivo della commercializzazione.

Oltre a investire direttamente nelle tecnologie che alimentano il potere dell’innovazione, gli Stati Uniti devono investire nell’input che sta al centro dell’innovazione: il talento.

 Gli Stati Uniti vantano le migliori star­tup del mondo, le aziende incumbent e le università, che attraggono i migliori e i più brillanti da tutto il mondo. Eppure troppe persone di talento sono impedite di venire negli Stati Uniti dal suo sistema di immigrazione obsoleto.

 Invece di creare un percorso facile per una carta verde per gli stranieri che guadagnano gradi STEM da scuole americane, il sistema attuale rende inutilmente difficile per i migliori laureati di contribuire all’economia degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno un vantaggio asimmetrico quando si tratta di impiegare immigrati altamente qualificati, e i suoi invidiabili standard di vita e abbondanti opportunità spiegano perché il paese ha attirato la maggior parte delle menti più brillanti del mondo.

 Più della metà di tutti i ricercatori di IA che lavorano negli Stati Uniti proviene dall’estero e la domanda di talenti dell’IA supera ancora di gran lunga l’offerta.

 Se gli Stati Uniti chiudono le porte agli immigrati di talento, rischiano di perdere il loro vantaggio innovativo. Proprio come il Progetto Manhattan è stato guidato in gran parte da rifugiati ed emigrati dall’Europa, la prossima svolta tecnologica americana sarà quasi certamente basata sugli immigrati.

LA MIGLIORE DIFESA.

Come parte dei suoi sforzi per tradurre l’innovazione in hard power, gli Stati Uniti devono fondamentalmente ripensare alcune delle sue politiche di difesa. Durante la guerra fredda, il paese ha progettato varie strategie di “off­set” per controbilanciare la superiorità numerica sovietica attraverso la strategia militare e le innovazioni tecnologiche. Oggi Washington ha bisogno di quella che lo Special Competitive Studies Project ha definito una strategia “Offset-X”, un approccio competitivo attraverso il quale gli Stati Uniti possono mantenere la superiorità tecnologica e militare.

Data la quantità di militari ed economie moderne che si basano su infrastrutture digitali, è pro­ba­bile che qual­siasi futura guerra di grandi potenze inizi con un attacco infor­ma­tico. Le difese informatiche degli Stati Uniti, quindi, hanno bisogno di un tempo di risposta più veloce del tempo di reazione degli umani. Dopo aver affrontato costanti attacchi informatici

anche in tempo di pace, gli Stati Uniti dovrebbero armarsi di ridondanza, creando sistemi di backup e percorsi alternativi per i flussi di dati.

Ciò che inizia nel cyber spazio potrebbe facilmente degenerare nel regno fisico, e anche lì gli Stati Uniti dovranno affrontare nuove sfide. Per contrastare possibili attacchi di droni sciame, deve investire in artiglieria difensiva e sistemi missilistici. Per migliorare la consapevolezza sul campo di battaglia, l’esercito americano dovrebbe concentrarsi sull’implementazione di una rete di sensori economici alimentati dall’intelligenza artificiale per monitorare le aree contestate, un approccio che è spesso più efficace di un singolo sistema squisitamente artigianale. Mentre l’intelligenza umana diventa più difficile da ottenere, gli Stati Uniti devono sempre più fare affidamento sulla più grande costellazione di sensori di qualsiasi paese, che vanno dal sottomarino allo spazio esterno. Dovrà anche concentrarsi maggiormente sull’intelligenza open source, dato che la maggior parte dei dati del mondo oggi è disponibile al pubblico. Senza questa capacità, gli Stati Uniti rischiano di essere sorpresi dai loro fallimenti di intelligence.

Quando si tratta di combattimenti effettivi, le unità militari dovrebbero essere collegate in rete e decentralizzate per superare meglio gli avversari. Di fronte ad avversari con rigide gerarchie militari, gli Stati Uniti potrebbero ottenere un vantaggio utilizzando unità più piccole e più connesse i cui membri sono abili nel processo decisionale basato sulla rete, impiegando gli strumenti dell’intelligenza artificiale a loro vantaggio. Ad esempio, una singola unità

potrebbe riunire capacità di raccolta di intelligence, attacchi missilistici a lungo raggio e guerra elettronica. Il Pentagono deve fornire ai comandanti sul campo di battaglia tutte le migliori informazioni e consentire loro di fare le migliori scelte sul terreno.

L’esercito degli Stati Uniti deve anche imparare a integrare le nuove tecnologie nel suo processo di approvvigionamento, nei piani di battaglia e nei combattimenti di guerra. Nei quattro anni in cui ho presieduto il Defense Innovation Board, sono rimasto sbalordito da quanto fosse difficile farlo. Un importante collo di bottiglia è l’oneroso processo di approvvigionamento del Pentagono: i principali sistemi d’arma impiegano più di dieci anni per progettare, sviluppare e distribuire. Il Dipartimento della Difesa dovrebbe cercare ispirazione nel modo in cui l’industria tecnologica progetta i prodotti. Dovrebbe costruire missili nel modo in cui le aziende ora costruiscono auto elettriche, utilizzando uno studio di progettazione per sviluppare e simulare soft­ware, alla ricerca di innovazioni dieci volte più veloci e convenienti dei processi attuali. L’attuale sistema di approvvigionamento è particolarmente adatto per un futuro in cui il primato del soft­ware si rivelerà decisivo sul campo di battaglia.

Gli Stati Uniti spendono quattro volte di più di qualsiasi altro paese per procurarsi sistemi militari, ma il prezzo è una metrica scadente per giudicare il potere di innovazione. Nell’aprile 2022, le forze ucraine hanno sparato due missili Neptune contro la Moskva, una nave da guerra russa di 600 piedi, affondando la nave. La nave costò 750 milioni di dollari; i missili 500.000 dollari a testa. Allo stesso modo, il missile antinave ipersonico all’avanguardia della Cina, il YJ-21, potrebbe un giorno affondare una portaerei statunitense da 10 miliardi di dollari. Il governo degli Stati Uniti dovrebbe pensarci due volte prima di impegnare altri 10 miliardi di dollari e dieci anni per una nave del genere. Spesso ha più senso acquistare molti articoli a basso costo invece di investire in alcuni progetti di prestigio ad alto costo.

GIOCARE PER VINCERE.

Nel contesto del secolo la rivalità degli Stati Uniti con la Cina, il fattore decisivo sarà il potere dell’innovazione. I progressi tecnologici nei prossimi cinque, dieci anni determineranno quale paese avrà il sopravvento in questa competizione mondiale. La sfida per gli Stati Uniti, tuttavia, è che i funzionari governativi sono incentivati a evitare rischi e concentrarsi sul breve termine, lasciando il paese a investire cronicamente nelle tecnologie del futuro.

Se la necessità è la madre dell’invenzione, la guerra è l’ostetrica dell’innovazione. Parlando agli ucraini in visita a Kiev nell’autunno del 2022, ho sentito da molti che i primi mesi della guerra sono stati i più produttivi della loro vita. Gli Stati Uniti ultima veramente globale nazione.

La seconda guerra mondiale ha portato alla diffusa adozione della penicillina, una rivoluzione nella tecnologia nucleare e una svolta nell’informatica. Ora, gli Stati Uniti devono innovare in tempo di pace, più velocemente che mai. Non riuscendo a farlo, sta erodendo la sua capacità di scoraggiare e, se necessa­rio, di combattere e vincere la prossima guerra.

L’alternativa potrebbe essere disastrosa. I missili ipersonici potrebbero lasciare gli Stati Uniti indifesi e gli attacchi informatici potrebbero paralizzare la rete elettrica del paese. Forse ancora più importante, la guerra del futuro colpirà gli individui in modi completamente nuovi: stati autoritari come la Cina e la Russia potrebbero essere in grado di raccogliere dati individuali sulle abitudini di acquisto degli americani, sulla posizione e persino sui profili del DNA, consentendo campagne di disinformazione su misura e persino attacchi biologici mirati e omicidi. Per evitare questi orrori, gli Stati Uniti devono assicurarsi di rimanere davanti ai loro concorrenti tecnologici.

I principi che hanno definito la vita negli Stati Uniti libertà, capitalismo, sforzo individuale erano quelli giusti per il passato e rimangono tali per il futuro. Questi valori fondamentali sono alla base di un ecosistema di innovazione che è ancora l’invidia del mondo. Hanno permesso scoperte che hanno trasformato la vita quotidiana in tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno iniziato la corsa all’innovazione in pole position, ma non possono essere certi che rimarranno lì. Il vecchio mantra della Silicon Valley vale non solo nell’industria ma anche nella geopolitica: innovare o morire.

 

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