La democrazia sarà impossibile in un governo unico mondiale.

 

La democrazia sarà impossibile in un governo unico mondiale.

 

 

La sicurezza nazionale Usa

con la Cina è quella del dollaro.

Yellen tratta, l’Europa balbetta.

Remocontro.it - Piero Orteca -  (8 Luglio 2023) – ci dice:

 

La sicurezza nazionale non può sempre essere invocata come motivo al quale appellarsi per congelare le relazioni commerciali’.

 Il dollaro prima del resto, dice nella sostanza la ministra del Tesoro Usa a Pechino. ‘Stati Uniti e Cina devono trovare il modo di tornare a parlarsi e a scambiare superando le barriere ideologiche, spesso erette dalla politica’.

Ovviamente questo vale solo per l’America e non per l’Europa gregaria.

Sana ‘competizione economica’, ma solo americana.

Giovedì, Janet Yellen è giunta in Cina a compiere una missione fondamentale, non solo per gli Stati Uniti, ma per tutto il mondo occidentale.

Occorre ricostruire, pazientemente, le relazioni commerciali con Pechino, cercando, è ovvio, di sfruttarne i vantaggi minimizzandone i rischi.

 «L’America vuole avere con Pechino una sana competizione economica e non vuole scatenare una guerra mondiale finanziaria».

 Questo in sintesi, il messaggio della Casa Bianca, trasmesso da Janet Yellen, Ministro del Tesoro Usa, durante la visita in Cina.

Una mezza inversione ‘a U’, rispetto alla strategia sin qui seguita da Washington e dall’Europa più obbediente, nel bloccare tutte le collaborazioni tecnologiche con i cinesi, dalla ricerca fino alla produzione.

 Tutto ciò che coinvolge prodotti tecnologici ‘di fascia alta’, quando si tratta di Pechino, diventa tabù.

Per tutti gli ‘americani’ nel mondo, con qualche eccezione in casa loro, industria Usa preoccupata dalla reazione cinese annunciata.

Chi la fa l’aspetti.

Il viaggio di Janet Yellen arriva pochi giorni dopo che la Cina ha improvvisamente imposto limiti alle esportazioni di metalli, rispondendo alla guerra tecnologica dichiarata da Stati Uniti ed Europa.

«Sono preoccupata per i nuovi controlli sulle esportazioni recentemente annunciati dalla Cina su due minerali critici utilizzati in tecnologie come i semiconduttori – ha detto la ministra parlando da Pechino – stiamo ancora valutando l’impatto di queste azioni, ma ci ricordano l’importanza di costruire catene di approvvigionamento resilienti e diversificate».

 «Ho chiarito che gli Stati Uniti non cercano una separazione totale delle nostre economie.

Cerchiamo di diversificare, non di disaccoppiare.

Un disaccoppiamento delle due maggiori economie mondiali sarebbe destabilizzante per l’economia globale e sarebbe praticamente impossibile da realizzare».

Pechino si difende e attraverso il ministero del Commercio dichiara che le recenti restrizioni sui metalli non sono rivolte a nessun Paese specifico e non rappresentano un «divieto di esportazione.

Tra arroganza e stupidita la somma degli errori.

Difficile e complicato, ma bisogna tentare, perché troppi errori sono già stati fatti con diplomatica leggerezza.

Conversando nella grande Sala del Popolo di Pechino col premier Li Qiang, la Yellen ha voluto assicurare Xi Jining che gli Usa (speriamo sia vero Ndr) non perseguono un approccio ‘winner tale all’, cioè chi vince si prende tutto.

Ma, al contrario, vogliono una relazione reciprocamente vantaggiosa.

Un messaggio chiaro, da parte americana, che non c’è nessuna voglia (proprio nessuna forse no Ndr) di arrivare a uno scontro frontale che non servirebbe a nessuno.

 Sull’argomento più spinoso, quello dell’export di tecnologia di fascia alta, la Yellen è stata vaga, ma non ha chiuso completamente la porta.

Specie dopo che i cinesi hanno cominciato a centellinare l’export di ‘terre rare’.

 Il Wall Street Journal sottolinea che il Ministro Usa «è stato accolto calorosamente e il suo incontro col premier cinese è durato il doppio del previsto».

Nota non di poco conto, se solo si pensa che, al rappresentante dell’Unione Europea, “Josep Borrell”, sono state praticamente chiuse le porte in faccia.

E l’incontro al vertice, che si doveva tenere lunedì prossimo a Pechino, è stato annullato senza tanti complimenti.

In ritardo anche ad obbedire.

Ieri, il Financial Times titolava in bella evidenza: «Bruxelles esorta gli Stati membri dell’UE a inasprire le misure contro la Cina».

Ma persino in casa tedesca non si dà troppo retta a Ursula von Der Leyen.

E il Cancelliere tedesco Scholz, che con la Cina tratta e commercia:

«Decidano gli industriali tedeschi – ha proclamato – tutto ciò che vogliono importare (ed esportare) dalla Cina.

 Il governo non c’entra più niente».

Insomma, Biden ‘apre’ e noi ‘chiudiamo’, dimostrando che, forse, c’è uno sfalsamento temporale, tra gli input che arrivano da Oltreoceano e le misure prese a Bruxelles.

 

 

 

La corsa dell’Unione europea contro il tempo.

Le responsabilità dell’Italia.

Thefederalist.eu – Redazione – (7 agosto 2022) – ci dice:

 

Il 20 luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la direzione dei processi politici. La crisi del governo italiano ha infatti una valenza non solo nazionale, ma investe anche l’Unione europea e tutto il fronte delle democrazie occidentali.

L’Italia è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul piano internazionale. L’esperienza appena conclusa del governo guidato da Mario Draghi lo ha dimostrato.

Grazie al sussulto di responsabilità di tutte le forze politiche italiane che hanno accettato — con l’eccezione della estrema sinistra e di Fratelli di Italia — il patto di unità nazionale proposto dal Presidente della Repubblica e grazie all’autorevolezza e alla competenza di Mario Draghi, l’Italia non ha solo raggiunto risultati importantissimi sul fronte interno (campagna di vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica con una delle crescite più alte in Europa e a livello internazionale, politiche di sostegno sociale, avvio della diversificazione energetica, solo per citarne alcuni esempi che si aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un ruolo di leadership sul piano europeo e internazionale.

Draghi è stato l’interlocutore privilegiato degli USA in Europa per fissare la linea a sostegno dell’Ucraina, come reso evidente anche dal ruolo determinante che ha avuto nella decisione sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea;

 e nell’UE, insieme a Macron, ha guidato il fronte dei Paesi impegnati a costruire un’Europa forte e coesa, dotata di una sua indipendenza strategica.

 In questa ottica ha lavorato su una serie di proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla Conferenza sul futuro dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento europeo di aprire una Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte dichiarato di modificare in senso federale il sistema politico-istituzionale europeo.

Aver provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva l’Europa, fermando quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo nel confronto (accelerato e reso drammaticamente inevitabile da Putin con l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.

La guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e della mancanza di strumenti di difesa adeguati.

Se oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno innanzitutto americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente investito in tempi brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.

In questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili; ma la differenza, rispetto al passato dopo il crollo dell’URSS, è che questa volta la guerra è in Europa, e il fatto che il ritardo europeo (sul piano politico, oltre che militare) sia così profondo da non potere essere colmato in tempi politicamente utili rispetto alla guerra in corso, mette a nudo chiaramente quella realtà dell’Europa “ventre molle” del fronte occidentale tante volte richiamato da analisti e politici americani.

Si aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.

In più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre l’opposizione democratica in Russia o in Cina è ridotta facilmente al silenzio). A questo va aggiunto che, di fronte alle conseguenze economiche della guerra — che ricadono su economie già gravemente colpite dalla pandemia e che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei hanno una moneta unica forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari strumenti concomitanti fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di una parte degli Stati che vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle loro carenze rispetto alle quali mancano strumenti strutturali di supporto;

 mentre l’inflazione rende complesso anche l’utilizzo della leva della politica monetaria della Banca centrale, in passato determinante per salvare l’euro.

 Infine, quando devono agire uniti, gli europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura decisionale che riflette la loro frammentazione e l’assenza di una sovranità comune democratica e legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in base non ad una visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di tante visioni nazionali deboli; in più per agire sono anche privi di vere risorse e strumenti adeguati.

Questo quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo nell’illusione che il Mercato unico fosse la risposta politica adeguata alle sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle nostre democrazie.

 La realtà, invece ha visto crescere le minacce attorno a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.

Basta confrontare le indicazioni contenute nello Strategic Concept della NATO e nello Strategic Compass dell’UE.

Di fronte ad un’analisi molto simile delle minacce che dobbiamo fronteggiare e degli attacchi che rischiamo (altamente) di dover subire, l’uno propone le soluzioni che derivano dalla forza della potenza tecnologica e militare (grazie al ruolo degli USA);

l’altro un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche gli strumenti per avviare i lavori.

Parole da una parte, quindi, rispetto al potere reale dall’altra.

La descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida del cambiamento.

 La riforma per costruire l’unione politica federale dell’UE è fondamentale per rafforzare la presenza internazionale dell’UE, la sua capacità di agire con autorevolezza internamente ed esternamente e anche per offrire ai cittadini e alle opinioni pubbliche (spesso sfiduciate e deluse dalle debolezze delle istituzioni e delle politiche nazionali) un progetto lungimirante e profondo di rifondazione della politica e del modello democratici.

 In un confronto tra sistemi alternativi, in cui l’autocrazia sfida con la sua apparente efficacia la complessità e la inclusività dei meccanismi decisionali democratici, il rafforzamento del sistema democratico diventa il fattore dirimente; e, vista la debolezza strutturale a livello nazionale, è evidente che la democrazia può rilanciarsi solo se si realizza pienamente a livello europeo.

 L’evoluzione del sistema istituzionale europeo necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa orientale.

Il tandem franco-italiano era il motore indispensabile per costruire la nuova Europa, ed è stato fermato.

Tenendo conto di come la guerra contro l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida contro i nostri sistemi democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto determinante, questa brusca frenata è particolarmente pericolosa.

A questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.

 Perché ciò accada, il 25 settembre dovrà vincere la continuità politica e istituzionale, fondata su un grande patto che si apra nuovamente in ottica nazionale, rispetto all’esperienza del governo uscente.

 Tutto in teoria è possibile, benché difficile, e potrebbe anche prevalere — chiunque vinca — il senso di responsabilità verso l’interesse nazionale e la coerenza verso i valori democratici e di libertà, che sono perduti al di fuori del quadro europeo.

A sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli impegni comuni; così come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a livello nazionale delle scelte e dei comportamenti irresponsabili che priveranno l’Italia delle protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé un unico destino:

la crisi irreversibile e fallimento.

 Anche solo se il prossimo governo vorrà schierarsi a favore di un indebolimento dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee, non solo si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE, ma si rafforzeranno parallelamente le tentazioni all’immobilismo e le regole rigide di controllo che sono così dannose per la nostra tenuta a livello di sistema paese.

L’Italia quindi ha in mano una parte importante del destino europeo e ha, al tempo stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa.

Chiunque vada al governo dopo il 25 settembre non può prescindere dal misurarsi con questo fatto.

D’altro canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il 20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio compito.

 Le forze che hanno mantenuto la fiducia a Draghi, e che hanno mostrato di essere coscienti delle esigenze vere del Paese e della necessità di porle al di sopra degli interessi di parte, sono al momento in minoranza e non sembrano riuscire ad esprimere una strategia elettorale all’altezza del grave momento storico, complice anche le incongruenze di una pessima legge elettorale.

Gli altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi di portare l’Italia su posizioni anti-NATO per quanto riguarda il sostegno italiano all’Ucraina;

la Lega di Salvini, che ha, come il M5S, contestato Draghi sull’Ucraina e su alcune riforme essenziali del PNRR;

Forza Italia che predica il suo ancoraggio alla famiglia europea del PPE e al tempo stesso, sotto la guida di Berlusconi, mantiene l’ambiguità verso Putin e rievoca vecchi cavalli di battaglia populisti;

infine Fratelli di Italia — cresciuto nell’opposizione al governo, alle sue riforme e alle sue scelte europee, con posizioni tradizionalmente e coerentemente anti-europee e sovraniste, aperto sostenitore dei movimenti illiberali in Europa — che in vista di una probabile vittoria elettorale e di una conseguente responsabilità di governo recupera in pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al sistema costituzionale (salvo mantenere le posizioni presidenzialiste), la continuità con l’agenda del governo precedente e si accredita presso l’Amministrazione americana come garante della posizione atlantista del suo futuro governo.

Sarà, questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel momento in cui sale al potere?

Oppure è già in nuce la presa d’atto che Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto fargli l’opposizione è stato politicamente sbagliato, anche se elettoralmente redditizio?

Potrà l’eventuale prossimo esecutivo a trazione Fratelli di Italia superare le contraddizioni che ne hanno reso probabile la nascita?

O in alternativa potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA apertamente si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri sufficienti per poter far riguadagnare immediatamente la credibilità all’Italia?

La risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche. In una campagna esposta agli attacchi ibridi della disinformazione e dell’ambiguità delle posizioni di molti contendenti l’Italia gioca una partita cruciale per il futuro delle democrazie occidentali.

Un’Italia europea per un’Europa federale, sovrana e democratica è appena stata messa al tappeto dal populismo e dagli interessi di parte.

Riusciranno comunque a prevalere responsabilità, buon senso e coerenza rispetto al modello liberal-democratico, insieme alla coscienza del valore dirimente dell’Europa per il nostro futuro?

Sarebbe bello che questo dibattito avvenisse realmente per permettere ai cittadini italiani di prendere coscienza della vera posta in gioco il 25 settembre.

(Il Federalista)

 

 

La visione di un governo globale

può diventare una realtà?

 Futureu.europa.eu - Horst Widmayer – (20/05/2021) – ci dice:

Hallo EUROPA, la maggior parte dei governi nazionali ha problemi importanti e molteplici.

Questa democrazia si basa su opinioni e definizioni obsolete.

Il futuro è più rapido.

Internet, la digitalizzazione sta cambiando rapidamente il mondo.

 Come primo passo, occorre ridurre l'influenza dei governi nazionali e rafforzare le competenze del Parlamento europeo.

Dal punto di vista dell'UE, tutti i governi nazionali potrebbero riunirsi in un governo europeo.

Purtroppo siamo ancora troppo lontani da questo.

Tuttavia, un unico governo europeo non sarebbe ancora in grado di risolvere da solo le grandi sfide future su questa terra troppo piccola, con un numero crescente di persone.

 Come “VISION” sarà un governo mondiale per tutti?

 I principali compiti futuri potrebbero essere affrontati il più possibile?

 Vi sono compiti sufficienti che non possono più essere risolti dai singoli paesi da soli.

Esempi sono:

Prevenzione dei cambiamenti climatici della guerra, con particolare attenzione all'approvvigionamento alimentare essenziale per tutti gli esseri viventi. Assistenza sanitaria per tutti gli esseri viventi.

 Fornitura di acqua per tutte le questioni relative ai rifugiati.

 Soppressione degli interessi individuali a favore dei mezzi di sussistenza generali e molto altro ancora.

Che cosa pensa di “VISION” di un governo globale significativo in 300 anni?

(Felix Thomas – Mendner - Mattes - Horst Widmayer)

 

 

Per un governo mondiale.

Ilbolive.unipd.it - Pietro Greco – (30 aprile 2020) – ci dice:

 

 In termini ambientali,” Johan Rockström” e lo “Stockholm Resilience Centre” ne hanno individuati ben nove di problemi planetari.

In realtà lo scienziato svedese e il suo centro parlano di “planetary boundaries”, di confini o, se volete, di soglie da non superare (alcune sono già state superate):                        ma tant’è sono emergenze che coinvolgono il mondo intero e che pretendono una soluzione se non unica, almeno coordinata.

Sull’esempio, per intenderci, di quel “Protocollo di Montreal” che ha messo al bando in tutto il mondo, sia pure in maniera articolata nei modi e nel tempo, le sostanze che aggrediscono l’ozono stratosferico.

Non esiste nulla di simile per gli altri “planetary boundaries”.

Ma di problemi planetari – ce ne stiamo accorgendo in queste settimane – ve ne sono anche di natura sanitaria.

Le pandemie, per definizione, interessano il mondo intero e non conoscono confini, mentre pretendono soluzioni, ancora una volta, unitarie e coordinate.

Mentre a ogni livello – locale, nazionale, continentale, globale – assistiamo a una frammentazione spinta all’insegna dell’”ognuno per sé e Dio per tutti”.

 

E che dire, poi, del ritorno al riarmo, compreso quello nucleare, che negli ultimi trent’anni ha bruciato il “dividendo della pace” che qualcuno voleva distribuire ai cittadini di tutto il mondo subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la possibilità di creare quella che” Immanuel Kant” chiamava la “pace perpetua”, grazie a un governo mondiale capace di assicurare non la mancanza di conflitti (che i conflitti sono il sale della dinamica sociale), ma di conflitti armati almeno a livello delle nazioni?

Già, il governo mondiale.

Il solo accennarne appare come una fuga utopistica dalla realtà.

Secondo alcuni, addirittura la proposizione un incubo: una sorta di grande e corrotta e inefficiente dittatura planetaria.

 Eppure negli ultimi giorni almeno quattro intellettuali italiani hanno ripreso il tema su grandi giornali generalisti.

Il primo è stato, a quanto ci risulta, il costituzionalista nonché ex ministro Sabino Cassese, che su “La lettura”, inserto culturale de” Il Corriere della Sera”, ha ricordato la figura di un giornalista italiano, “Giuseppe Antonio Borgese”, che tra il 1945 e il 1947 si è posto alla testa di un gruppo internazionale costituito da sei docenti dell’Università di Chicago, tre delle università di Stanford, Cornell e Harvard, uno di Oxford e uno di Toronto e, sulla base di approfondite discussioni, ha personalmente redatto una “costituzione mondiale”, prevedendo tutte le articolazioni di una democrazia formale compiuta:

 un governo, appunto; un parlamento rappresentativo dell’intera popolazione del pianeta.

Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze.

Vittorio Possenti:

Il tema è stato ripreso, poi, su” L’Avvenire”, da Vittorio Possenti, già docente di filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

 Il cui articolo, a commento dell’intervento di Cassese, inizia così:

 «Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze».

Ancora, con una conversazione pubblicata di nuovo su “La lettura” e intitolata, esplicitamente, “Per un governo del mondo”, sono intervenuti “Maurizio Ferrera”, docente di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Milano, e “Vinod Aggarwal”, che insegna Scienza politica presso l’Università di California a Berkeley.

 

Dunque non è da ingenui parlarne, del governo mondiale, in un momento in cui sembra dominante il pensiero sovranista:

prima gli americani, prima gli italiani, prima i russi, prima i cinesi.

Sono le “emergenze planetarie”, come le chiama il fisico Antonino Zichichi, a imporre un pensiero centripeta mentre le nazioni del pianeta Terra corrono via l’una dall’altra come schegge di materia dopo il Big Bang.

Sono i fatti tangibili che interessano il pianeta intero – l’ambiente, la salute, la pace, le disuguaglianze, i diritti umani – a chiedere con forza un intervento unitario e coordinato tra gli stati e i popoli.

Il virus SARS-CoV-2 si è diffuso in tutto il mondo contagiando milioni di persone e uccidendone alcune centinaia di migliaia anche perché il mondo non lo ha fronteggiato in maniera unitaria, leale e coordinata.

 Ognuno è andato per sé, anche nella stessa Unione Europea, è il virus sta punendo tutti.

 Anzi, nel pieno della lotta, si è tentato di svuotare di ogni funzione anche l’unico, timidissimo embrione di governo mondiale della salute, l’Organizzazione Mondiale di Sanità. (Dimostratosi altamente corrotta! N.d.R.)

 

Lo stesso vale per altri embrioni di governo mondiale:

come la “Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici” nell’ambito della quale non si riesce a ottenere un consenso globale per contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro gli 1,5 °C o, almeno, entro i 2 °C, come sostengono gli scienziati se si vuole evitare un’evoluzione catastrofica del clima globale.

Mentre da decenni non fa un passo avanti verso il totale disarmo il TNP, il “Trattato di non proliferazione nucleare “che si regge su una pericolosa asimmetria:

distinguendo tra chi ha ufficialmente l’atomica (USA, Russia, Cina, Regno Unito e Francia) e tutti gli altri paesi firmatari.

Questi ultimi, tutto sommato, stanno rispettando l’obbligo a non dotarsi dell’arma, mentre i cinque detentori, che pure si sono impegnati a disfarsene in tempi ragionevoli, pensano a tutt’altro.

 Altri tre paesi non firmatari – India, Pakistan e Israele – non hanno firmato il TNP, non per questo non costituiscono un problema.

Per tutti questi problemi gli esperti del “Bulletin of the Atomic Scientists” hanno portato le lancette del “Doomsday Clock” ad appena 100 secondi dalla mezzanotte.

 Ovvero dalla catastrofe globale.

 Forse sono troppo pessimisti, questi scienziati: ma le emergenze planetaria che essi indicano reali, concrete, immanenti e per molti versi imminenti.

La soluzione è, dunque, nel governo mondiale? E se sì, che razza di governo dovrebbe essere, il “governo di tutto il mondo”?

L’idea ha patri nobili e antichi.

Pare che risalga già ai Romani.

 E ha avuto nobilissimi sostenitori.

 Ne citiamo tre, tutti tedeschi, oltre al già ricordato Giuseppe Antonio Borgese e agli accademici, quasi tutti americani, con cui ha collaborato:

“ Immanuel Kant,” “Albert Einstein” e papa “Benedetto XVI” (al secolo, Joseph Aloisius Ratzinger).

Si tratta di persone certamente influenti, ma per cultura e formazione molto diversi tra loro: un filosofo, un fisico, un religioso.

Per non fargli torto, dovremmo aggiungere anche l’attuale papa, “Francesco” (al secolo Jorge Mario Bergoglio), ma rischieremmo di rompere la simmetria disciplinare.

 O ricordare “Jean-Jacques Rousseau”, “l’Abate si Saint-Pierre”,” Altiero Spinelli “o ancora “Aldo Capitini”, ma vale la motivazione di cui prima.

Un governo mondiale è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi personalità della cultura.

Dunque, “Immanuel Kant”.

Nel 1795 scrive un libro “Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf”, ovvero “La pace perpetua”, in cui riflette sul modo in cui raggiungere questa auspicata condizione.

 Il grande filosofo di Königsberg per la verità non parla in termini stretti di un governo a scala planetaria, ma piuttosto di leali accordi di pace di tutti i paesi con tutti gli altri che non possono essere violati.

 Kant propone anche il graduale, ma veloce scioglimento degli eserciti permanenti.

Un’idea che viene ripresa già nella prima parte del Novecento da “Albert Einstein” (non a caso, perché il fisico ha letto già da giovanissimo Kant) che fonda il suo pacifismo militante su due presupposti:

lo scioglimento degli eserciti con  invito ai giovani a rifiutare la leva e la formazione, appunto, di un governo mondiale.

Quanto a Benedetto XVI, ecco cosa scrive nell’enciclica “Caritas in veritate del 2009”, così come ce la ricorda “Vittorio Possenti”:

«Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII.

Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità.

Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti».

Già, ci eravamo dimenticati di Giovanni XXIII, il “papa buono”.

Un governo mondiale, dunque, è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi personalità della cultura.

Non può essere un’idea ingenua, frutto di un idealismo staccato dalla realtà: perché ingenui non erano e non sono tutte le persone citate.

 

D’altra parte l’idea del governo mondiale, come ricorda” Danilo Zolo”, che ha insegnato filosofia e sociologia del diritto presso l’Università di Firenze, in un libro pubblicato nel 1995, “Cosmopolis.

Zolo, che era stato allievo di “Giorgio La Pira”, criticava per la verità l’idea del governo mondiale.

Però di questa idea ha ricostruito la storia tangibile.

La nascita degli stati moderni con l’affermazione della loro totale indipendenza – allora dalla Chiesa e dall’Impero – è tutta europea e risale alla pace di Westfalia del 1648 con cui viene posto termine alla disastrosa “guerra dei trent’anni” (che si accompagnò, vale la pena ricordarlo, a una serie di epidemie, tra cui quella di peste a Milano del 1630 così ben descritta da Alessandro Manzoni).

 La pace tra i popoli europei nelle intenzioni dei convenuti a Westfalia e, poi, nella prassi dei decenni e secoli successivi fu mantenuta dall’equilibrio, altamente instabile, di potenza.

Lo stesso che – come equilibrio del terrore – ha impedito una guerra nucleare tra USA e URSS negli anni della guerra che per forza di cose era “fredda”.

 L’equilibrio nella seconda parte del Novecento – e per certi versi anche ora – si reggeva sulla cosiddetta “MAD”, “mutual assured destruction”, la certezza della reciproca distruzione che una guerra nucleare totale non avrebbe avuto alcun vincitore.

Tutti avrebbero perso.

La stessa civiltà umana avrebbe subito un colpo mortale.

 L’equilibrio di potenza era (ed è) un più che mai instabile “equilibrio del terrore”.

L’instabilità dell’”equilibrio di potenza” era presente alla mente di molti anche prima di Westfalia.

Basti citare “Dante Alighieri” (tra XIII e XIV secolo) o” Carlo V” (nel XVI secolo) che hanno preconizzato, in forme diverse, l’idea di “una monarchie universelle”, su cui hanno scritto filosofi di assoluto valore, come “David Hume” e come “Charles-Louis de Secondat”, barone di La Brède e di Montesquieu, autore nel 1734 di un trattato, appunto su “La Monarchie universelle”.

Al grande filosofo politico francese l’idea di un governo mondiale (la monarchia universale) proprio non piaceva.

Tuttavia, ci sono stati, negli ultimi due secoli, almeno tre tentativi di fondare una pace più stabile e meglio regolata.

Tre tentativi di fondare un timido “governo mondiale”.

Il primo risale al 1815 quando le potenze che hanno sconfitto Napoleone Bonaparte – e, segnatamente, Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia – danno vita alla Santa Alleanza:

«Per il bene del mondo – si legge in un documento fondativo della Santa Alleanza – [le potenze vincitrici si impegnano a] prendere le misure più salutari per la tranquillità e la prosperità dei popoli e per il mantenimento della pace tra gli Stati».

Tutto questo sarebbe avvenuto mediante periodici incontri tra i rappresentanti di questa sorta di federazione.

Alla Santa Alleanza aderiscono un po’ tutte le potenze europee minori, tranne lo Stato pontificio e, in Turchia, il Sultano.

Come rileva “Danilo Zolo”, per la prima volta nella storia europea e mondiale si afferma e si esperisce il principio di una pacifica federazione internazionale, aperta a tutti gli stati, anche se guidata dal direttorio delle quattro potenze vincitrici.

La Santa Alleanza raggiunse anche obiettivi rimarchevoli, come l’abolizione della schiavitù.

Ma l’equilibrio era appunto troppo instabile e nell’arco di un decennio venne a termine.

La stessa esigenza di evitare il caos e l’anarchia sulla scena internazionale che aveva generato la Prima guerra mondiale e causato quasi venti milioni di morti portò alla costituzione, nel 1920, della Società delle Nazioni a opera di Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone e su ispirazione del presidente americano Woodrow Wilson (che per questo ottenne il premio Nobel per la pace già nel 1919).

 Sulla carta la “Società delle Nazioni” costituiva un “governo mondiale” piuttosto spinto e articolato, con un’Assemblea, il parlamento mondiale costituito dai rappresentanti di tutti gli stati membri;

un Consiglio, una sorta di potere esecutivo costituito dai rappresentanti di alcuni stati membri permanenti e da altri nominati dall’Assemblea;

un Segretariato permanente e anche una Corte di Giustizia.

 

La storia della” Società delle Nazioni” ci offre almeno due insegnamenti:

 ogni idea del “governo mondiale” non può fondarsi sul dominio di pochi, né sul progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto.

La Società delle Nazioni è l’istituzione più vicina al “governo mondiale” che sia mai stata realizzata.

Ma nel mezzo secolo successivo mostrò tutti i suoi limiti perché, come sottolinea “Danilo Zolo”, aveva una visione troppo centralistica e dunque sembrava designata a mantenere lo status quo.

Progetto soprattutto di marca francese che non teneva conto delle enormi asimmetrie create nei confronti delle potenze sconfitte (la Germania) e anche di quelle nascenti (l’Unione Sovietica). 

La storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti:

 ogni idea del “governo mondiale” non può fondarsi sul dominio di pochi (le potenze vincitrici di una guerra) né sul progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto.

 Il “governo mondiale” deve limitarsi (si fa per dire) a far sì che i conflitti si risolvano in guerre guerreggiate e alla ricerca di soluzioni concordate ad alcuni problemi di carattere universale.

Un esempio di successo è la Terza Convenzione di Ginevra del 1925, firmata da sedici stati, con cui si vieta l’uso anche in guerra di armi chimiche.

Ma per i suoi difetti intrinseci (compresa la mancanza del monopolio della forza) la Società delle Nazioni non riuscì a impedire il proseguimento della “lunga guerra civile” scoppiata in Europa nel 1914 e che si concluderà solo con la sconfitta del nazifascismo nel 1945.

Già, il 1945.

 Il 26 giugno di quell’anno in cui viene a termine la Seconda guerra mondiale vengono tenute a battesimo le” Nazioni Unite”.

Con gli stessi limiti (anzi, con alcuni aggiuntivi) della Società delle Nazioni.

 Il potere di veto che hanno di fatto le cinque potenze vincitrici (considerate più uguali degli altri) nel Consiglio di Sicurezza ha avuto e ha tuttora un effetto paralizzante.

Nonostante le Nazioni Unite, la pace mondiale nel dopoguerra è stata mantenuta dall’”equilibrio del terrore”.

E quando l’URSS è finita, al dominio dei due blocchi si è sostituita una frammentazione difficile da governare.

In ogni caso negli ultimi 75 anni non sono mancate guerre definite locali e anche guerre combattute nel nome delle Nazioni Unite (in Corea, in Irak, per esempio) ma dalla incerta legittimazione etica.

Le Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.

Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se non addirittura dannosa.

 Esempi positivi della presenza, non facilmente sostituibile delle Nazioni Unite, ne troviamo in molti campi:

per esempio l’approvazione, il 10 dicembre 1948, della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”.

Le Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.

 Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se non addirittura dannosa.

Ma anche nei tre ambiti che abbiamo indicato all’inizio la presenza delle Nazioni Unite si è rivelata preziosa:

la salute, l’ambiente, le armi nucleari.

Nel primo caso ricordiamo l’”Organizzazione Mondiale di Sanità” (OMS) – un piccolo governo mondiale della salute fondato in ambito ONU il 22 luglio 1946 ed entrata in funzione due anni dopo.

Nel caso dell’ambiente ricordiamo, oltre al “Protocollo di Montreal per l’ozono”, le “Convenzioni sui Cambiamenti del Clima e sulla Biodiversità approvate a Rio de Janeiro nel 1992 (oltre a una serie sterminata di altri trattati di cui non sempre abbiamo contezza).

Per quanto riguarda la pace al tempo delle armi nucleari, ricordiamo il “TNP”, il “Trattato di Non Proliferazione Nucleare”, approvato dall'Assemblea generale dell'ONU il primo luglio 1968.

 

L’OMS, le Convenzioni sul clima e la biodiversità, il TNP sono esempi di un “governo mondiale” limitato ad alcuni settori ben definiti.

Certo, nessuna di queste iniziative è stata decisiva.

Oggi la pandemia COVID-2019 si diffonde nel mondo con gli stati che non seguono le direttive dell’OMS ma reagiscono ognuno per sé (con evidenti disastri).

Oggi si stenta ad applicare le indicazioni drammatiche proposte dagli scienziati in sede di” Convenzioni sul clima e sulla biodiversità”.

Quanto al “Trattato di Non Proliferazione” è in una condizione di congelamento di una condizione asimmetrica che non sta impedendo neppure una nuova corsa al riarmo.

E tuttavia proviamo a immaginare come sarebbe il mondo senza le Nazioni Unite. Un mondo in cui esisterebbero 200 sistemi sanitari diversi tra loro, senza programmi per esempio di vaccinazione universale (sarebbe mai stato eradicato il vaiolo in un sistema diverso dalle Nazioni Unite?);

un mondo che neppure si accorgerebbe delle emergenze cambiamenti climatici ed erosione della biodiversità;

 un mondo in cui ogni paese si sentirebbe libero di dotarsi di un arsenale nucleare.

Ha, dunque, più che mai ragione “Vittorio Possenti”:

«Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze».

Non vogliamo chiamarlo governo, utilizziamo un termine inglese che sembra più alla moda: governance.

Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze.

(Vittorio Possenti)

Ce lo insegna in questi giorni la pandemia:

 la mancanza di una governance sufficientemente forte, con un certo potere decisionale, si risolve in un danno per tutti i popoli e per tutti i cittadini del mondo. Riformiamo pure l’”OMS”, ma nel senso di rafforzarla, non demolirla.

Riformiamo pure “la diplomazia ecologica, me nel senso di avere un governo mondiale del clima e della biodiversità e degli altri sette “confini planetari”. Riformiamo pure il TNP, ma nel senso di rafforzarlo per arrivare in tempi certi al disarmo nucleare totale.

Certo, dobbiamo fare tutto questo conservando la democrazia.

 Rafforzando la democrazia come bene universale.

Non è semplice in un mondo in cui le dittature e le democrature (le democrazie autoritarie) sembrano ritornare e persino avere, su certuni, un certo appeal.

 Non è semplice se il sovranismo e il nazionalismo tornano a essere coltivati da grandi masse.

Ma a un “governo mondiale” o, se volete, a “una governance globale”, sia pure ristretta a pochi, grandissimi problemi, è necessaria.

Possiamo aderire alla proposta centralistica di “Giuseppe Antonio Borgese “oppure a una proposta con istituzioni molto più leggere, ma non possiamo sfuggire il problema:

il mondo ha problemi globali, che interessano tutti i cittadini del pianeta e, quindi, ha bisogno di un “governo Mondiale”.

Utopia?

Forse.

 Ma è grazie alle utopie di persone come Kant, Einstein, Spinelli che alcuni tratti, magari piccoli e tortuosi, li abbiamo fatti per uscire dal caos ingovernabile dell’”ognuno per sé” che porta a quel Bellum omnium contra omnes, quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava nel Seicento “Thomas Hobbes”.

 E che indebolisce non solo l’umanità con i suoi conflitti interni, ma anche l’umanità rispetto ai pericoli esterni, siano essi il clima o un virus. 

(Già, ma se una “governance futura del mondo” sarà costituita solo dalla “Mafia del Denaro”…

Come ne usciremo? N.d.R.)

 

 

 

Democratura, il cuore antico del regime di Putin

Prime Minister Vladimir Putin addresses the crowd at a Night Wolves' bike show in Crimea

[Vladimir Putin. Foto: © Jerome Levitch/Corbis]

 

 11/03/2015

La Russia non può essere una democrazia

perché se lo fosse non esisterebbe.

Limesonline.com - Lucio Caracciolo – (11-13- 2020) – Repubblica – ci dice:

 

Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iper popolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro.

Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche.

Questo è almeno il verdetto della storia russa.

Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno.

Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore.

Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”.

 In parole povere, il regime vigente.

Certo, alcuni coraggiosi sfidano la storia e Putin, confidando nell’avvento finale della democrazia in Russia.

 Tre anni fa costoro riuscirono per qualche settimana a suscitare manifestazioni di massa anti-regime a Mosca e in altre città.

 Oggi si sono riaffacciati sulla scena pubblica, in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, l’oppositore misteriosamente freddato alle porte del Cremlino.

 Ma nuotano controcorrente.

Nel clima di mobilitazione patriottica eccitato dalla guerra in Ucraina, quattro russi su cinque dichiarano di apprezzare il presidente.

Lo scambio proposto da Putin al suo popolo — io vi garantisco sicurezza, stabilità e relativo benessere, voi lasciate la politica a me — sembra ancora reggere. Malgrado le sanzioni, o grazie ad esse.

E nonostante il crollo del rublo.

 Per quanto tempo, nessuno può stabilire.

Nel profondo dello spirito imperiale russo, la democrazia è percepita come il cavallo di Troia dell’Occidente per spaccare la patria e rigettarla in una nuova età dei torbidi.

Con i cinesi a Khabarovsk, la Nato a Kaliningrad, gli islamisti padroni del Caucaso e dilaganti nel Tatarstan, gli skinheads a scorrazzare per San Pietroburgo, come nel fosco video di propaganda diffuso dai sostenitori di Putin alla vigilia delle elezioni del 2012.

Che cos’è allora questo putinismo che da quindici anni regge la Federazione Russa? I politologi potrebbero ricorrere forse al termine “democratura”, crasi di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista “Predrag Matvejevic “descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici”.

Eppure il caso russo fa storia a sé.

Sotto il profilo geopolitico l’impero di Mosca ama offrirsi, oggi più che mai, come un polo autonomo e sovrano del “mondo cristiano”.

Agli esordi, la Russia di Putin anelava ad essere riconosciuta come soggetto indipendente dell’insieme occidentale — leggi: anti-cinese e anti-islamico.

Dal 2007 però, offeso dal rifiuto americano a considerarlo un partner paritario, il leader ha portato la Russia a contrapporsi all’Occidente.

La guerra in Ucraina, nella quale i russi si percepiscono aggrediti da americani ed europei, lo ha spinto infine verso un’intesa tattica con la Cina e con due potenze islamiche come Turchia e Iran: i nemici storici di ieri sono gli (infidi) alleati di oggi.

Quanto al regime politico: in Russia si vota, certo, ma le elezioni sono “gestite”, ossia più o meno moderatamente manipolate.

Al centro del sistema partitico sta “Russia Unita”, braccio politico del presidente.

Il quale incarna il cuore del meccanismo decisionale, secondo il principio della “verticale del potere”.

I comandi partono dal Cremlino e si diramano giù fino all’ultimo dei poteri locali. Governo e Parlamento hanno ruoli non paragonabili al rango formale.

 Putin preferisce infatti decidere radunando piccoli comitati informali.

 Appena giunto al potere ha stabilito che il lunedì avrebbe radunato al Cremlino alcuni ministri, mentre le questioni serie le avrebbe discusse il sabato in dacia, con i consiglieri fidati e gli esponenti dei “dicasteri della forza” — militari e capi dell’intelligence.

 L’ukaz che determinava l’annessione della Crimea, ad esempio, il presidente l’ha varato dopo aver consultato solo il segretario del Consiglio di sicurezza, “Nikolaj Patrushev”, già direttore dell’intelligence, e il ministro della Difesa, “Sergej Shojgu”.

Putin era e resta uomo dei servizi segreti, nei quali entrò nel lontano 1976.

 «Un agente del Kgb non è mai ex», ripete.

 La sua visione del mondo è quella visceralmente securitaria che segna ogni uomo di intelligence.

 I suoi pochi confidenti vengono quasi tutti dal medesimo ambiente.

Ma il presidente non è un dittatore assoluto.

È l’amministratore delegato scelto dalle élite russe — in specie dagli apparati della forza ma anche da una pattuglia di oligarchi fidati — per proteggere il sistema.

 Ad esse risponde.

Putin è un capo certo potentissimo, ma revocabile, se al sistema servisse un uomo nuovo.

Con la guerra alle porte e la recessione che incupisce le prospettive dell’economia nazionale, non ci stupiremmo se un giorno non troppo lontano qualcuno dei mandatari — magari un generale — lo invitasse a dichiararsi malato per il supremo bene della patria.

Uno degli uomini che lo aiutarono a insediarsi come amministratore delegato della Federazione Russa per salvarla dalla disintegrazione, “Gleb Pavlovsky”, ha osservato:

 «È impossibile dire quando questo sistema cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno.

E quello che gli succederà sarà la copia di questo».

 E i russi di buona volontà, altrettanto patriottici di Putin, ma che aspirano alla libertà e allo Stato di diritto?

 Visti dal Cremlino, per loro vale sempre il motto del vecchio ministro zarista delle Finanze, Sergej Witte:

 «I nostri intellettuali lamentano che non abbiamo un governo come in Inghilterra. Farebbero meglio a ringraziare Iddio che non abbiamo un governo come quello della Cina».

(Repubblica)

 

 

 

Il governo mondiale che ci aspetta

(se non ci ribelliamo subito).

Benecomune.net - Alessandro Giuliani – (30 marzo 2021) - ci dice:

 

Bisogna prendere personalmente in carico il contrasto a questa tendenza livellatrice senza paura di sembrare ‘nazionalisti’ (la questione si pone ad un livello molto più fondamentale rispetto alla politica), evitare il più possibile ogni uso indebito di espressioni anglofone, curare la corretta sintassi italica, arrivare al fondo dei problemi senza scorciatoie definitorie per cui si è classificati come ‘omofobi’, ‘negazionisti’ o ‘sovranisti’ con l’accluso fardello di colpa da espiare…

 

 Edinson Cavani  è un forte (e anche molto corretto) attaccante uruguayano in forza al Manchester United.

Il 29 novembre, dopo la partita vinta dal Manchester United per 3 a 2 contro il Southampton, Cavani aveva pubblicato sul suo profilo Instagram una storia in cui rispondeva ad alcuni complimenti commentando: «gracias negrito».

Apriti cielo!

La federazione calcistica inglese lo squalifica per tre turni e gli commina una multa di circa centomila euro perché il suo commento «conteneva riferimenti, espliciti o impliciti, al colore e/o alla razza e/o all’origine etnica».

A niente sono servite le precisazioni dell’accademia uruguagia di lingua e letteratura spagnola che ha sottolineato come ‘negro’ e ancor più ‘negrito’ siano in spagnolo modi colloquiali e per nulla offensivi di riferirsi alle persone né più né meno come noi chiamiamo qualcuno ‘biondo’ o ‘smilzo’ o anche ‘ciccio’ (questa ultima locuzione particolarmente affettuosa).

Dove è il razzismo allora?

Sicuramente non alberga nella espressione di “Edinson “ma di sicuro abbonda dalla parte della federazione calcistica inglese con la sua pretesa di imporre un atteggiamento ‘anglofono’ al resto del mondo (ricordiamoci le acute osservazioni di Gramsci sulla lingua come ‘concezione del mondo’) senza alcun rispetto per le culture differenti.

A me Cavani è sempre stato simpatico (tra l’altro condividiamo lo stesso giorno di nascita, il 14 di Febbraio) e non riesco a sopportare che si sia dovuto scusare per essere stato sé stesso, per essersi comportato secondo la sua cultura e tradizione, costretto da un potere malvagio e diffuso (è stato coperto di insulti dagli utenti della rete).

 Bisogna stare attenti a chi ci vuole imporre questa ‘lingua di legno’ che tribalizza il mondo in buoni/cattivi, fedeli/infedeli, antirazzisti/razzisti, è la falsa religione dei ‘buoni’ che sta corrompendo il mondo e prepara (anche aiutata dalla crisi pandemica) un governo mondiale che ha il denaro come unico valore e uno stolto manicheismo assetato di ‘casi esemplari’ come predicazione al popolo.

Bisogna prendere personalmente in carico il contrasto a questa tendenza livellatrice senza paura di sembrare ‘nazionalisti’ (la questione si pone ad un livello molto più fondamentale rispetto alla politica), evitare il più possibile ogni uso indebito di espressioni anglofone (le mie figlie mi prendono in giro ma io continuo a criticarle quando parlano di ‘body-shaming’ o di ‘small-talk), curare la corretta sintassi italica, arrivare al fondo dei problemi senza scorciatoie definitorie (i maledetti ‘hashtag’) per cui si è classificati come ‘omofobi’, ‘negazionisti’ o ‘sovranisti’ con l’accluso fardello di colpa da espiare.

Ne va della nostra salvezza.

 

Autoritarismo.

 Treaccani.it - Juan J. Linz – (30-10- 2020) – ci dice:

(Enciclopedia delle Scienze Sociali)

 

DEFINIZIONE.

Definiamo autoritari diversi sistemi politici non democratici e non totalitari, se sono: "sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su un'ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili" (v. Linz, 1964, p. 225).

 

Questa definizione, elaborata contrapponendo i sistemi autoritari alle democrazie competitive, da una parte, e al tipo ideale di sistema totalitario, dall'altra (v. Linz, 1964, Opposition..., 1973, The future..., 1973), opera una distinzione netta tra sistemi autoritari e sistemi democratici, mentre non distingue altrettanto nettamente i primi dai sistemi totalitari, in quanto può adattarsi anche alle situazioni e ai regimi pre- e post-totalitari. Un'ulteriore delimitazione consiste nell'esclusione dei regimi tradizionali legittimi, delle monarchie semicostituzionali del XIX secolo, liberali ma non democratiche, e delle democrazie censitarie, in cui il suffragio ristretto rappresentò un passo avanti nel processo evolutivo verso le moderne democrazie competitive basate sul suffragio universale maschile. Le democrazie oligarchiche, che, soprattutto in America Latina, hanno resistito alle spinte verso un'ulteriore democratizzazione conservando limitazioni al suffragio basate sull'analfabetismo, sul controllo o sulla manipolazione delle elezioni, sul frequente ricorso al potere moderatore dell'esercito, sull'esistenza di partiti non differenziati, si collocano in una posizione di confine, più vicine alla democrazia per quel che riguarda la concezione della costituzione e dell'ideologia, ma più simili da un punto di vista sociologico ad alcuni regimi autoritari.Il nostro concetto di autoritarismo è incentrato sul modo di esercitare e organizzare il potere, sui suoi legami con la società, sulla natura dei sistemi di credenze che lo sostengono e sul ruolo dei cittadini nel processo politico, mentre non considera il contenuto effettivo delle varie politiche, gli obiettivi perseguiti, la raison d'être dei regimi autoritari.

 

Esso non ci dice molto sulle istituzioni, sui gruppi e sugli strati sociali che fanno parte del pluralismo limitato, o su quelli che ne sono esclusi. Il fatto che sottolinei gli aspetti più strettamente politici espone questo concetto ad alcune di quelle stesse accuse di formalismo mosse al concetto generale di totalitarismo, e peraltro anche di democrazia. Noi caratterizziamo i regimi, indipendentemente dalle politiche che perseguono, in base al particolare modo in cui trattano problemi che tutti i sistemi politici si trovano ad affrontare, per esempio i rapporti tra politica e religione, o tra politica e intellettuali. Anche le condizioni in cui i regimi emergono, si stabilizzano, si trasformano ed eventualmente crollano sono piuttosto differenziate. Il carattere generale e astratto della definizione proposta rende necessario abbandonare il piano dell'astrazione per addentrarci nello studio dei vari sottotipi.La caratteristica fondamentale rimane l'elemento pluralistico, ma non si sottolineerà mai abbastanza che, al contrario di quanto avviene nelle democrazie, con il loro pluralismo politico quasi illimitato e istituzionalizzato, ci troviamo qui di fronte a un pluralismo limitato. È stato suggerito che avremmo potuto definire questi sistemi 'regimi a monismo limitato', termini che suggerirebbero la sfera entro cui questi regimi operano. La limitazione del pluralismo può essere de iure o de facto, attuata in modo più o meno efficace, circoscritta a gruppi strettamente politici o estesa a gruppi di interesse, purché si tratti di gruppi non creati né dipendenti dallo Stato, che influenzano il processo politico.

 

Alcuni regimi arrivano persino a istituzionalizzare la partecipazione politica di un numero limitato di gruppi o di istituzioni indipendenti e anche a incoraggiarne l'affermazione, senza comunque lasciare alcun dubbio sul fatto che, in ultima istanza, sono i governanti a determinare quali gruppi possano esistere e a quali condizioni. Il potere politico non è tenuto, né de iure né de facto, a rendere conto del proprio operato, attraverso tali gruppi, ai cittadini, in contrasto con quanto avviene nei governi democratici, dove le forze politiche dipendono formalmente dal sostegno dei collegi elettorali. Nei regimi autoritari gli uomini che salgono al potere come rappresentanti dei punti di vista di diversi gruppi e istituzioni non devono la loro posizione solo al sostegno di questi gruppi, ma anche alla fiducia riposta in loro dal leader o dal gruppo dirigente, che tengono conto del loro prestigio e della loro influenza. Grazie a un processo costante di cooptazione dei leaders, diversi settori o istituzioni entrano a far parte del sistema; questo meccanismo spiega le caratteristiche dell'élite: una certa eterogeneità sotto il profilo della formazione culturale e dei modelli di carriera e una prevalenza di burocrati, tecnici specializzati, militari di carriera, rappresentanti di gruppi d'interesse e, a volte, di gruppi religiosi rispetto ai politici di professione.

 

In alcuni di questi regimi un partito - ufficiale, unico o privilegiato - costituisce una componente più o meno importante del pluralismo limitato. Sulla carta partiti del genere spesso pretendono lo stesso potere monopolistico dei partiti totalitari e presumibilmente svolgono le stesse funzioni, ma in realtà vanno tenuti ben distinti. L'assenza, o la debolezza, di un partito politico spesso fa sì che organizzazioni laiche legate alla Chiesa o da essa patrocinate diventino un serbatoio di quadri dirigenti, con una funzione non molto diversa da quella che svolgono nel reclutamento delle élites dei partiti democratico-cristiani (v. Hermet, 1973). Il partito unico è basato il più delle volte sulla fusione di elementi diversi anziché su un corpo unico irreggimentato ed è più una creazione di coloro che sono al potere che un partito che ha conquistato il potere, come accade invece nei sistemi totalitari.

 

Useremo il termine 'mentalità' anziché 'ideologia', seguendo la distinzione fatta dal sociologo tedesco Theodor Geiger (v., 1932, pp. 77-79). Secondo Geiger, le ideologie sono sistemi di pensiero più o meno elaborati e strutturati, spesso in forma scritta, da intellettuali o pseudointellettuali, o con il loro aiuto; le mentalità sono modi di pensare e di sentire, più emotivi che razionali, che influenzano il comportamento senza codificarlo.I regimi autoritari burocratico-militari riflettono in misura maggiore la mentalità dei loro governanti. In altri regimi troviamo un consenso sul programma e in altri ancora un complesso di idee mutuate da varie fonti e messe insieme alla rinfusa per dare l'impressione che costituiscano un'ideologia nell'accezione valida per i sistemi totalitari. I regimi autoritari che si trovano alla periferia di centri ideologici si sentono costretti a imitare, incorporare e manipolare gli stili ideologici dominanti, e ciò può creare equivoci fra gli studiosi. La complessa coalizione di forze, interessi, tradizioni politiche e istituzioni - che fanno parte del pluralismo limitato - esige che i governanti usino come referente simbolico il minimo comune denominatore. Valori generici quali il patriottismo e il nazionalismo, lo sviluppo economico, la giustizia sociale e l'ordine, oltre all'assimilazione cauta e pragmatica di elementi ideologici mutuati dai centri politici dominanti, danno ai governanti privi del sostegno di una mobilitazione di massa la possibilità di neutralizzare gli oppositori, di cooptare una vasta gamma di sostenitori, di decidere in modo pragmatico quali politiche adottare. Le mentalità e le semi- o pseudoideologie diminuiscono la tensione utopistica in politica e in tal modo riducono i conflitti, che altrimenti richiederebbero o l'istituzionalizzazione o una maggiore repressione.

 

La mancanza di ideologia limita la capacità di mobilitare la popolazione, di creare l'identificazione psicologica ed emotiva delle masse. L'assenza di un valore supremo, di obiettivi di lungo respiro, di un modello di società ideale riduce l'attrattiva dei regimi autoritari agli occhi di coloro che danno alle idee e ai valori un'importanza centrale e può spiegare l'estraniazione degli intellettuali, degli studenti, dei giovani e delle persone profondamente religiose.

 

La scarsa e limitata mobilitazione politica è una caratteristica dei regimi autoritari. In alcuni la spoliticizzazione delle masse rientra nelle intenzioni dei governanti, in altri i governanti, all'inizio, intendevano indurre i loro sostenitori e la popolazione a un coinvolgimento attivo. La lotta per l'indipendenza da un potere coloniale, il desiderio di integrare nel processo politico settori della società trascurati da tutte le leaderships precedenti, o la sconfitta di un oppositore con grande seguito popolare in società in cui la democrazia aveva permesso e incoraggiato tale mobilitazione fanno emergere regimi autoritari di mobilitazione, nazionalisti, populisti o fascisti. La necessità di mantenere un equilibrio all'interno del pluralismo limitato riduce l'efficacia della mobilitazione di un partito unico e in ultima analisi conduce all'apatia i membri e gli attivisti.Il pluralismo limitato dei regimi autoritari genera modelli complessi di semiopposizione e di pseudoopposizione (v. Linz, Opposition..., 1973). La semiopposizione è propria di gruppi non dominanti né rappresentati nel gruppo di governo, parzialmente critici, ma disposti a partecipare al potere senza sfidare fino in fondo il regime. Essi distinguono tra il governo e alcuni aspetti dell'ordinamento istituzionale e il leader del regime, e accettano la legittimità storica o almeno la necessità della formula autoritaria. Non è raro che la semiopposizione diventi un'opposizione extralegale: essa ha perso la speranza di trasformare il regime dall'interno, ma non è ancora pronta a intraprendere attività illegali o sovversive e gode di una tolleranza intermittente, a volte basata su legami personali. Anche la debolezza dei tentativi di socializzazione politica spiega perché la terza generazione, una volta scoperta la politica, opti per un'opposizione extralegale.

 

L'autonomia di certe organizzazioni sociali, la tendenza a una relativa liberalizzazione, una maggiore partecipazione alle organizzazioni del regime e la parziale apertura verso altre società creano i presupposti per l'emergere di un'opposizione extralegale, che a volte serve da facciata per un'opposizione illegale, pronta a infiltrarsi nelle organizzazioni del regime. L'opposizione spesso è incanalata in organizzazioni formalmente apolitiche a carattere culturale, religioso o professionale. La posizione particolare della Chiesa cattolica sotto un governo autoritario le assicura una certa autonomia, che serve a convogliare l'opposizione di classi sociali, minoranze culturali, giovani ecc. e a far emergere nuovi leaders. Poiché si tratta di un'istituzione destinata a sopravvivere a qualsiasi regime, anche a quelli con cui si è identificata in un particolare momento storico, è probabile che riacquisti la sua autonomia quando compaiono segnali di crisi, allo stesso modo di altre istituzioni, che potrebbero avere conservato una notevole autonomia, come la magistratura, la categoria dei professionisti e quella dei funzionari statali.I regimi autoritari sono difficili da studiare, poiché non hanno mai, in nessun caso, acceso l'immaginazione di intellettuali e attivisti, né hanno ispirato un'internazionale fra i partiti sostenitori del loro modello, e i loro leaders si sono sentiti obbligati a scimmiottare i più attraenti modelli totalitari. Negli anni trenta, grazie alla capacità dell'ideologia del corporativismo di combinare una grande varietà di retaggi ideologici e di collegarsi alla dottrina sociale cattolica conservatrice, sembrò che i regimi autoritari offrissero un'alternativa, ma il loro evidente fallimento ha pregiudicato questo terzo modello politico.

 

PER UNA TIPOLOGIA DEI REGIMI AUTORITARI

Se la definizione astratta, sopra proposta, di regime autoritario è utile, dovrebbe permetterci di delineare alcuni sottotipi. Il pluralismo limitato, al contrario del monismo, produce tipologie che tengono conto di quali istituzioni e quali gruppi siano ammessi a partecipare alla vita politica, e in che modo, e quali ne siano esclusi. Se è il rifiuto della mobilitazione a distinguere tali regimi dal totalitarismo, le ragioni della mobilitazione limitata e la sua natura dovrebbero fornire un ulteriore parametro.Il pluralismo limitato assume una varietà di forme, a seconda della posizione più o meno preminente dei diversi gruppi o istituzioni. I regimi autoritari vanno da quelli dominati da un'élite burocratico-tecnocratico-militare, preesistente al regime, ad altri in cui la partecipazione politica viene mediata da un partito unico o dominante che emerge dalla società. In altri regimi diversi gruppi e istituzioni sociali vengono creati o ammessi a partecipare al processo politico nella forma del cosiddetto statalismo organico, spesso definito - in termini ideologici - 'corporativismo' o 'democrazia organica'.Se guardiamo invece all'aspetto della partecipazione limitata e/o controllata, dell'apatia politica della maggior parte dei cittadini, tollerata o incoraggiata che sia, troviamo che nei regimi burocratico-tecnocratico-militari sono pochi - seppure esistono - i canali che danno adito alla partecipazione e che i governanti non hanno neppure interesse a manipolarla. Troviamo anche regimi che tentano di mobilitare i cittadini attraverso canali monopolistici ben precisi, soprattutto un partito unico o dominante e le organizzazioni di massa e funzionali che ne dipendono. Nella misura in cui un tale partito non viene concepito per escludere altre organizzazioni e istituzioni da un pluralismo politico limitato e non le invade completamente, ci troviamo di fronte a regimi di mobilitazione, diversi sia da quelli burocratico-tecnocratico-militari, sia da quelli che abbiamo raggruppato sotto l'etichetta di statalismo organico.

 

A seconda delle circostanze in cui sono apparsi, questi regimi rientrano in due categorie: a) i regimi retti da un partito di mobilitazione, unico o dominante; b) le società post-democratiche. Il partito unico (o dominante) emerge dalla società nel corso della lotta per l'indipendenza, conquistandosi una posizione di dominio, che proteggerà sia abolendo quelle libertà politiche che porterebbero all'affermazione di altri partiti, sia cooptando o persino corrompendo i potenziali concorrenti. All'inizio questi regimi si basano su una notevole mobilitazione e potrebbero prendere una direzione totalitaria, ma poi divengono regimi in cui il partito, che in origine faceva affidamento sulla mobilitazione, costituisce una componente importante della struttura del potere. Nelle società post-democratiche un governo puramente burocratico-militare o uno basato sulla rappresentanza, propria dello statalismo organico, di un numero ben definito di gruppi sociali e di interessi istituzionali non sono realizzabili, perché gran parte della società conta su una qualche forma di partecipazione. Regimi del genere si affermano quando la lotta per l'esclusione di specifici settori della società ha richiesto una certa mobilitazione e la creazione di un partito, di organizzazioni di massa e persino di organizzazioni coercitive in aggiunta alle strutture burocratiche della polizia e dell'esercito. Se questi partiti e movimenti hanno mirato, senza ottenerlo, a un monopolio totalitario del potere, possiamo parlare di sistemi totalitari difettosi o bloccati. Dal momento che il processo di instaurazione di un sistema totalitario vero e proprio non si conclude il giorno stesso della presa del potere, possiamo includere tra le situazioni autoritarie anche le fasi pre-totalitarie di certi sistemi politici. Infine il modo in cui il pluralismo limitato si afferma dopo un governo totalitario ci induce a parlare di regimi post-totalitari.

 

Le varie forme di pluralismo limitato corrispondono, più o meno, a modi diversi di articolare le idee che legittimano il sistema. Nel caso di governi burocratico-militari, le idee non sono molto articolate in termini intellettuali; possiamo parlare più che altro di mentalità, prestando scarsa attenzione alle formule ideologiche, che tendono a essere semplicistiche e spesso di seconda mano.

 

È probabile invece che i regimi autoritari di mobilitazione, soprattutto quando assegnano un ruolo importante al partito unico o dominante e tentano di incoraggiare la partecipazione dei cittadini, si affidino a formule ideologiche. La relativa mancanza di articolazione e di complessità di queste formule e spesso il loro carattere secondario contribuiscono a deteriorare la componente di mobilitazione e quindi il partito e la partecipazione di massa. Ne risulta un avvicinamento di molti regimi autoritari di mobilitazione al tipo burocratico-militare o allo statalismo organico. Solo nel caso di regimi autoritari di mobilitazione post-democratici, dominati da un partito fascista che già prima di prendere il potere era una forza politica rilevante, l'ideologia rimane in effetti un importante fattore indipendente, non del tutto riducibile alla nostra nozione di mentalità.I regimi autoritari burocratico-militari, che non hanno elaborato né un'istituzionalizzazione più complessa del pluralismo limitato sotto forma di statalismo organico, né un partito unico, sono in qualche modo i regimi autoritari paradigmatici, lontani dai sistemi politici democratici, ma anche dal totalitarismo moderno.

 

Le occasioni di partecipazione alla vita politica e quindi di accesso al potere, proprie dei regimi autoritari di mobilitazione, avvicinano questi al tipo ideale di sistema democratico. Tuttavia questi regimi rappresentano un ostacolo alla sopravvivenza e all'influenza politica del pluralismo societario, e si contrappongono alla libertà di organizzazione caratteristica dei sistemi democratici. Lo statalismo organico, istituzionalizzando il pluralismo esistente e incorporandolo nel processo politico, senza accordare il monopolio a un'unica organizzazione politica, è più vicino al pluralismo che si sviluppa spontaneamente nel quadro di una società libera, ma sacrifica maggiori possibilità di partecipazione del cittadino medio agli interessi di varie élites. Lo statalismo organico è più distante dall'idea di partecipazione dei cittadini di quanto non lo siano i regimi di maggiore mobilitazione.Molti regimi si trovano a cavallo tra questi vari tipi ideali e molti combinano elementi più o meno importanti in diverse fasi della loro storia. Molti regimi si affermano come burocrazie militari, ma, dopo essersi consolidati al potere, esplorano le altre alternative e tentano di trasformarsi in statalismi organici e, senza successo, in regimi di mobilitazione.

 

REGIMI AUTORITARI BUROCRATICO-MILITARI

Il sottotipo più frequente è costituito da quei regimi in cui una coalizione, controllata in modo prevalente ma non esclusivo da ufficiali dell'esercito, burocrati e tecnocrati, assume il controllo del governo ed esclude o include altri gruppi senza affidarsi a un'ideologia specifica, agisce in modo pragmatico nei limiti della mentalità burocratica e non crea un partito unico di massa, né gli consente di svolgere un ruolo dominante. Questi regimi possono operare senza partiti, ma spesso hanno creato un partito unico ufficiale sostenuto dal governo, il quale, più che mirare a una mobilitazione controllata della popolazione, tende a ridurne la partecipazione politica. In diversi casi questi regimi permettono l'esistenza di un sistema pluripartitico, assicurandosi però che le elezioni non offrano, neppure ai partiti autorizzati, alcuna possibilità di libera competizione per ottenere il sostegno popolare, e, ricorrendo a manipolazioni, che vanno dalla cooptazione e dalla corruzione alla repressione, tentano di assicurarsi la collaborazione o la sottomissione dei partiti stessi, o di neutralizzarne l'azione (v. Janos, 1970).La letteratura di stampo più polemico tende a tacciare di fascismo i regimi di questo genere, soprattutto perché - negli anni tra le due guerre mondiali - essi adottarono slogan, simboli e uno stile fascisti, nonché alcuni degli elementi più opportunistici dei movimenti fascisti.

 

Il ruolo dominante rivestito dall'esercito e il fatto che molti ufficiali svolsero una funzione importante, anche dove l'esercito - in quanto istituzione - non assunse il potere, hanno indotto a classificare questi regimi come dittature militari; ma anche quando essi nacquero come dittature militari, non si può ignorare la loro struttura politica assai più complessa e il ruolo importante dei leaders civili, soprattutto dei più alti funzionari statali, ma anche dei professionisti e degli esperti, oltre che degli esponenti politici dei partiti preesistenti al colpo di Stato (v. Janos, 1970 e 1982; v. Roberts, 1951; v. Tomasevich, 1955; v. Cohen, 1973; v. Macartney, 1962; v. Payne, 1987). In molti di questi regimi le istituzioni tradizionali, come la monarchia e, in misura minore, la Chiesa, o le classi sociali premoderne, come quella dei grandi proprietari terrieri, svolsero un ruolo importante, ma sarebbe errato definire tradizionali tali sistemi. Tanto per cominciare, la legittimazione tradizionale della monarchia nei paesi con regimi del genere era, salvo qualche eccezione, relativamente debole (v. Clogg e Yannopoulos, 1972).Nonostante un certo arbitrio nell'esercizio del potere, questi regimi fecero un notevole sforzo per operare in un quadro legalitario: promulgarono costituzioni modellate su quelle delle democrazie liberali occidentali, conservarono il più a lungo possibile forme parlamentari pseudocostituzionali, fecero uso delle procedure legali e dei tribunali e, soprattutto, pretesero dai funzionari e dagli ufficiali un'obbedienza basata non tanto sull'accettazione delle loro politiche, dei loro programmi o del loro carisma, quanto sull'autorità della legge.

 

Questo legalitarismo, inerente alla formazione di molti detentori del potere - funzionari statali e politici di un precedente sistema democratico più liberale -, porta spesso a curiose contraddizioni: esso assicura sorprendentemente un certo spazio alla libertà individuale, ma si rende responsabile di alcuni tra i più oltraggiosi abusi di potere, quali l'assassinio politico, l'esecuzione di oppositori "mentre cercavano di fuggire" (anziché dopo un processo o, come nei sistemi totalitari, dopo un processo farsa) e l'uso della violenza privata con la connivenza delle autorità. In questi regimi, invece di una 'legalità rivoluzionaria', si attua una distorsione o una perversione della legalità. In tempi più recenti il fenomeno dei desaparecidos in Argentina, in Cile e in altri paesi rappresenta una nuova forma di repressione messa in atto da questo tipo di regimi.

 

Alcuni degli uomini che assumono il controllo sono alti funzionari statali, spesso esperti in materia fiscale, incaricati di realizzare riforme fiscali, di promuovere un certo grado di intervento governativo nell'economia e di incoraggiare l'industrializzazione, senza, comunque, creare un settore pubblico su vasta scala (v. Janos, 1970, pp. 212-216). Le loro politiche sono pragmatiche, attente ai cicli economici e al sistema economico internazionale, e quindi tendono ad adottare una varietà di misure spesso non troppo dissimili da quelle in vigore nei paesi con altri sistemi politici.

 

Questi regimi sono comparsi in società ancora poco industrializzate, con un'agricoltura scarsamente modernizzata e con una popolazione rurale numerosa, composta in genere di contadini poveri e/o di braccianti agricoli o di affittuari; società caratterizzate, nonostante lo scarso livello di sviluppo economico, da un processo di urbanizzazione piuttosto avanzato, da una diffusione dell'istruzione relativamente ampia e quindi dalla crescita di un ceto medio di professionisti alla ricerca di un impiego statale o parastatale. I sostenitori principali e i quadri di questi regimi provengono da quella classe che gli studiosi delle società dell'Est europeo hanno chiamato 'borghesia di Stato', anche se i maggiori beneficiari delle politiche governative potrebbero essere altri gruppi sociali: le classi rurali più ricche o gli appartenenti ai pochi settori commerciali ben ammanicati.Nelle società più avanzate, i disagi provocati dalla guerra e/o l'esempio di rivoluzioni straniere crearono sacche di protesta e, nei momenti di crisi, tentativi rivoluzionari condannati al fallimento, o ondate di terrorismo e di controterrorismo. L'esperienza di una minaccia rivoluzionaria diede a molti sistemi un forte carattere controrivoluzionario e reazionario.L'obiettivo di questi regimi è di impedire alle masse - soprattutto agli operai, ai braccianti agricoli, ai contadini non privilegiati e, a volte, alle minoranze religiose, etniche o culturali, che rivendicano una quota maggiore delle risorse della società - di organizzarsi e di partecipare al potere in modo indipendente e senza controlli. Questi regimi permettono un maggiore o minore pluralismo all'interno di altri settori della società e assicurano un ruolo importante ai militari e ai burocrati capaci di tenere a freno le masse. È difficile che essi introducano sostanziali cambiamenti strutturali nella società, ma spesso limitano anche il potere, la capacità organizzativa e l'autonomia delle élites privilegiate: i gruppi economici, le categorie di professionisti, i capitalisti stranieri, persino le organizzazioni religiose e, di rado, l'esercito.

 

Questi regimi si affermano in genere dopo che un periodo di democrazia liberale ha permesso la mobilitazione delle classi non privilegiate. Il grado di autonomia che essi sono disposti a concedere alle classi socioeconomicamente più privilegiate può variare in funzione della minaccia che il dominio di questi strati potrebbe rappresentare per coloro che si sono assunti il compito di proteggere il regime e se stessi dalle rivendicazioni radicali rivoluzionarie dei non privilegiati. A seconda della forza del regime, si concederà ai notabili tradizionali una parte del potere. Sarà lo sviluppo economico a determinare fino a che punto si concederà a coloro che controllano i mezzi di produzione di far parte della coalizione al potere o di esercitare un'influenza dominante. Sarà il livello di mobilitazione dei non privilegiati prima dell'avvento del regime autoritario a determinare in gran parte in quale misura i burocrati e i militari, impegnati a difendere il sistema, svolgeranno un ruolo dominante e in quale misura tenteranno di integrare nel sistema i non privilegiati attraverso organizzazioni controllate, quali i sindacati ufficiali, le organizzazioni corporative, o partiti di tipo populista o fascista.

 

Come ha dimostrato Schmitter (v., Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974), riprendendo il modello bonapartista sviluppato da Marx, questi regimi autoritari possono spingersi molto lontano nel rendere indipendente lo Stato e nel logorare di giorno in giorno il potere politico della borghesia, proprio mentre ne proteggono il potere materiale. Quando esiste una popolazione contadina non mobilitata politicamente, o sicura di sé e soddisfatta, tale classe sociale fornisce un sostegno al regime. I limiti imposti alle classi privilegiate e gli ostacoli alla libera attuazione degli interessi della classe media, in particolare di quelli dei suoi settori più sofisticati sul piano intellettuale, portano al paradosso per cui la stabilità di questi regimi è minacciata più dalle classi che li hanno portati al potere e che traggono i maggiori vantaggi dal loro governo, che non da quelle escluse dal pluralismo limitato.

 

Un problema che molti regimi non sono riusciti a risolvere è quello delle profonde divisioni etniche e nazionali, in particolare nell'Europa dell'Est, con le sue minoranze più o meno oppresse a volte leali a un paese confinante. Conflitti del genere hanno rafforzato il nazionalismo sciovinista e il ruolo politico dell'esercito. Janos (v., 1970) e Nagy-Talavera (v., 1970) hanno dimostrato come la posizione sociale degli ebrei nell'Europa orientale, in particolare la loro preponderanza tra i laureati in società caratterizzate da una disoccupazione intellettuale su larga scala, generò sentimenti antisemiti manipolati dai governanti.In società più complesse, con livelli di mobilitazione sociale più alti e una tradizione intellettuale cattolica, i regimi autoritari consolidati di tipo militare-burocratico hanno rafforzato la propria istituzionalizzazione, realizzando una rottura esplicita con le forme costituzionali liberal-democratiche. Alcuni hanno optato per forme di governo miste, ottenute combinando in varia misura lo 'statalismo organico' con sistemi basati su partiti unici di mobilitazione di ispirazione fascista (la Spagna nel 1926, il Portogallo nei primi anni trenta, l'Austria nel 1934, il Brasile di Vargas dal 1937 al 1945 e la Spagna di Franco). Il modello ottimistico secondo il quale lo sviluppo socioeconomico favorirebbe la pluralizzazione politica e quindi l'avvento della democrazia è stato smentito in due dei paesi più avanzati dell'America Latina. Guillermo O'Donnell (v., 1973) ha proposto un modello alternativo, che associa un grado più elevato di sviluppo economico e sociale all'emergere di un autoritarismo burocratico volto a escludere dalla vita politica settori popolari politicamente attivi, in particolare le classi lavoratrici urbane, tramite la coalizione fra un nuovo tipo di élite militare e i tecnocrati dei settori pubblico e privato, con il sostegno delle classi sociali minacciate dalla mobilitazione. Come ha dimostrato Stepan (v., 1973 e 1978), i tecnocrati dell'esercito, della burocrazia e delle imprese moderne condividono la stessa concezione dei requisiti necessari allo sviluppo, fra cui annoverano, in particolare, l'esclusione e la neutralizzazione delle classi popolari, e mantengono collegamenti internazionali con élites analoghe presenti in altre società industriali avanzate, che li hanno portati a credere fermamente nelle proprie capacità di risolvere i problemi sociali e di esercitare un maggiore controllo sui settori cruciali delle loro società. La loro coalizione golpista mirerà a rimodellare il contesto sociale in modo da favorire l'applicazione delle conoscenze tecnocratiche e da ampliare l'influenza dei settori sociali dove la loro presenza, a causa della modernizzazione, è più massiccia.

 

A metà degli anni sessanta il Brasile e l'Argentina cominciarono a escludere dall'arena politica la classe popolare urbana, già politicizzata, rifiutando di soddisfarne le richieste, ricorrendo alla coercizione diretta e/o bloccando i canali elettorali di accesso alla politica. Questi tentativi sono destinati a un grado maggiore o minore di successo. A un estremo si può ottenere la completa neutralizzazione politica di un settore escluso attraverso la distruzione delle sue risorse (soprattutto della sua base organizzativa); all'estremo opposto è possibile che questa neutralizzazione non si realizzi. Questi paesi sono passati da un sistema politico coinvolgente, che tentava esplicitamente di mobilitare la classe popolare e le permetteva di far sentire la sua voce in una fase di populismo e di industrializzazione orizzontale, all'esclusione. Si trattava di paesi in cui la crisi mondiale degli anni trenta e la seconda guerra mondiale avevano accelerato l'affermarsi dell'industria nazionale e di una classe operaia urbana, e dove esisteva un'ampia coalizione populista, capeggiata da leaders come Vargas e Perón, contro le vecchie oligarchie e le imprese straniere. Queste coalizioni favorirono l'industrializzazione; sul piano sociale ciò significò l'ampliarsi delle funzioni dello Stato e procurò un'occupazione a molti impiegati e tecnici della classe media. Nazionalismo e industrializzazione incontrarono il favore dell'esercito, portarono vantaggi ai lavoratori urbani, incoraggiarono l'inurbamento, fecero salire i livelli di consumo, incrementarono la sindacalizzazione e favorirono i settori agricoli i cui prodotti erano destinati al consumo interno. Il governo destinò una quota significativa delle sue entrate allo sviluppo e al consumo interni, a spese del tradizionale settore dell'esportazione. Tuttavia l'importanza economica delle esportazioni permise a questo settore di conservare un'influenza politica sproporzionata rispetto al suo contributo, decrescente, al prodotto nazionale lordo. Esaurita la fase più semplice dell'industrializzazione, la politica della sostituzione delle importazioni generò l'esigenza di nuove importazioni, in un periodo in cui l'instabilità dei prezzi delle esportazioni aggravava la scarsa produttività dei settori dediti all'esportazione, che stavano pagando il prezzo delle politiche populiste.

 

Tutto ciò provocò carenze di valute estere. Vargas e Perón avevano incoraggiato la sindacalizzazione dei lavoratori e concesso alla classe popolare urbana la prima opportunità di avere un peso politico effettivo. Emersero nuovi problemi, che portarono al crollo dell'alleanza populista. Nei sistemi politici democratici più aperti, come quelli che succedettero a Vargas, il peso elettorale, la possibilità di indire scioperi e manifestazioni e la più intensa attivazione politica vennero percepiti come una minaccia. In Argentina e Brasile la maggior parte delle classi dei possidenti fu d'accordo nel ritenere eccessive le richieste delle classi popolari, sia in termini di consumi che di partecipazione al potere, e impossibile l'accumulazione di capitale senza tenerle sotto controllo. La componente classista di questa polarizzazione portò all'adozione di una soluzione politica che avrebbe eliminato queste minacce, rese più gravi dallo spettro della rivoluzione cubana. Il cambiamento di mentalità del corpo ufficiali, in seguito all'addestramento antisovversivo ricevuto negli Stati Uniti, e l'impatto delle dottrine militari francesi in fatto di conflitto politico e di guerra civile generarono la teoria della sicurezza nazionale, che contemplava anche lo sviluppo socioeconomico come risposta alla sovversione interna. La diminuzione del reddito dell'ampia classe media salariata ne determinò una disaffezione nei confronti di un sistema formalmente democratico e una pronta risposta all'appello per la legge e l'ordine. Il divario tra richieste e relative soddisfazioni e tra differenziazione e integrazione portò a una situazione che è stata definita di 'pretorianesimo di massa' (v. Huntington, 1968).

 

Le istituzioni politiche e i parlamenti furono ulteriormente indeboliti e l'esecutivo si trovò al centro di un'ondata di richieste. I governi furono ingannati e collaborarono con il 'pretorianesimo'. La situazione arrivò a un punto morto, con elevati livelli di conflitto incontrollato; la debolezza del governo, che impediva l'attuazione di qualsiasi politica, e l'ansia di conservare il potere portarono a una serie di politiche volte a placare i personaggi politici più minacciosi, con scarso interesse per la reale soluzione dei problemi. La competizione si avvicinava sempre più a una situazione di stallo e i progressi erano precari. Si arrivò così alla soglia di una crisi definitiva, quando la maggior parte dei protagonisti politici si impegnò a cambiare completamente le regole del gioco politico.La modernizzazione aveva fatto emergere una classe di tecnocrati, che auspicavano la formazione di governi disposti a garantire loro un potere decisionale. Queste élites si trovarono a operare in un ambiente nuovo; nacquero nuove scuole aziendali, accademie militari avanzate e nuove iniziative editoriali capaci di orientare l'opinione pubblica. Come ha dimostrato Stepan (v., 1973), apparve una nuova mentalità. Data la loro formazione, queste élites privilegiavano la soluzione tecnica dei problemi, respingevano gli aspetti emotivi, erano consapevoli delle ambiguità insite nelle contrattazioni, consideravano la politica un ostacolo alle soluzioni razionali e il conflitto una disfunzione.In contesti altamente modernizzati, il tentativo di escludere e neutralizzare il settore popolare, senza offrirgli contropartite psicologiche o economiche, richiese misure coercitive decise e sistematiche.

 

La risposta fu l'autoritarismo burocratico, che soppresse i partiti politici e le elezioni, addomesticò i sindacati attraverso la cooptazione, se non la coercizione, e tentò di incapsulare con la burocrazia la maggior parte dei settori sociali per massimizzarne il controllo. O'Donnell collega il suo modello a quello presentato da Barrington Moore (v., 1966), parlando però di una terza via storica all'industrializzazione, accanto alla rivoluzione borghese e a quella comunista. Questa terza via comporta la coalizione fra la burocrazia statale e le classi dei possidenti (compresa una borghesia industriale subalterna) contro i contadini e un proletariato emergente. Questo modello non è rimasto esente da critiche (v. Collier, 1979). Crisi politiche più specifiche, i fallimenti della leadership, l'impatto del terrorismo, i conflitti istituzionali fra presidenti e Congresso, l'alienazione dell'esercito in seguito a iniziative presidenziali mal consigliate sono stati tra i fattori che portarono al crollo della democrazia.

 

Dopo solo due decenni in America Latina gli autoritarismi burocratico-militari entrarono in crisi e in Uruguay, in Argentina e in Brasile ebbe luogo una transizione verso la democrazia. Questi regimi, in un contesto culturale che identificava la legittimità con i valori democratici, in un mondo largamente ostile alla loro politica repressiva, resisi responsabili di una politica economica fallimentare, sconfitti nella guerra delle Falkland-Malvinas, delegittimati (soprattutto in Argentina) in quanto autori di una repressione illegale, imprevedibile e crudele, incontrarono una resistenza sempre maggiore. La rinascita della società civile attraverso il ripristino delle associazioni, della stampa, dei sindacati, la posizione critica della Chiesa (in Brasile), gli errori di valutazione riguardo all'appoggio che potevano incontrare i loro schemi costituzionali (in Uruguay), indussero alcuni leaders a cercare forme di liberalizzazione - la distencão - e un processo di transizione controllata - l'apertura - (in Brasile), un'uscita di scena negoziata o un'abdicazione al potere. La transizione non è ancora completa ed è minacciata di tanto in tanto dai retaggi del passato, in particolare dalle violazioni dei diritti umani (in Argentina) e dalla difficoltà di ridurre le prerogative dell'esercito (v. O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986; v. Stepan, 1988).

 

LO STATALISMO ORGANICO

Alcuni regimi autoritari, che perseguono politiche molto diverse in termini di interessi di classe e di organizzazione dell'economia, hanno tentato di andare oltre il governo autoritario di tipo burocratico-tecnocratico-militare controllando la partecipazione e la mobilitazione della società mediante 'strutture organiche'. Il rifiuto dei presupposti individualistici della democrazia liberale, unito al desiderio di fornire un canale istituzionale attraverso cui gli interessi eterogenei delle società moderne o in via di modernizzazione potessero essere rappresentati evitando il modello del conflitto di classe, ha prodotto una vasta gamma di formulazioni teoriche e ideologiche e svariati tentativi di renderle operanti attraverso istituzioni politiche.Il retaggio ideologico del conservatorismo controrivoluzionario ottocentesco, che respingeva sia il liberalismo individualista che l'assolutismo statale, e le reazioni di settori pre-industriali - quali gli artigiani, i contadini e, a volte, persino i professionisti - all'avanzata del capitalismo industriale e finanziario hanno dato origine a un insieme di ideologie corporative (v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974). La risposta antiliberale, anticapitalistica e antistatalista fornita dalla Chiesa cattolica in encicliche come la Rerum Novarum ha contribuito alla fortuna di queste ideologie. La tradizione sindacalista del movimento operaio, che rifiutava l'autoritarismo marxista, il persistere dello Stato come strumento di oppressione e la cooptazione del movimento operaio socialdemocratico dei lavoratori, tramite la sua partecipazione alle elezioni e alla politica parlamentare, hanno contribuito alla ricerca di forme di partecipazione da attuarsi tramite l'istituzione di consigli indipendenti dei produttori a livello di fabbrica e di comunità, destinati a creare di comune accordo organizzazioni più estese. Persino alcuni liberali democratici, temendo l'accrescersi del potere dello Stato e l'anomia di individui isolati, imputabile alla divisione del lavoro e alla crisi delle istituzioni tradizionali, si sono resi conto che le organizzazioni professionali corporative sarebbero potute servire al controllo sociale (v. Durkheim, 1902).

 

La disponibilità delle forze conservatrici antirivoluzionarie, cattoliche, sindacaliste e liberalsolidariste ha dato i suoi frutti sotto forma di formulazioni teoriche, leggi e commentari giuridici.

 

Perché il corporativismo si è andato identificando con i regimi autoritari ed è diventato, come puntualmente lo caratterizza Stepan, statalismo organico? Le ragioni sembrano tre: le difficoltà logiche e pratiche di organizzare la vita politica come espressione esclusiva di interessi 'corporativi'; l'obiettivo sociopolitico perseguito nel determinato contesto storico-sociale in cui tali soluzioni sono state messe in pratica; la natura della comunità politica e dello Stato nonché le tradizioni intellettuali e giuridiche su cui si basa l'idea di Stato.I teorici della democrazia organica sottolineano che le persone fanno parte di numerosi gruppi naturali, basati su relazioni sociali primarie - relazioni che si instaurano sul luogo di lavoro, nelle associazioni professionali, nelle università, nei quartieri, ecc. -, in contrasto con gruppi più estesi creati artificialmente, come i partiti politici. La teoria propone quindi elezioni su più livelli, cioè indirette, all'interno di una serie di collegi elettorali basati sul raggruppamento di tali unità primarie, fino ad arrivare a una camera nazionale di corporazioni (v. Aquarone, 1965) o ad una serie di camere specializzate, allo scopo di organizzare, sulla base di questa democrazia indiretta, una politica democratica nazionale, anche quando sembrerebbe difficile ottenere di rendere responsabile la leadership nazionale nei confronti dei singoli cittadini.

 

Questo modello è inficiato da alcuni assunti falsi: il presupposto che tali unità primarie rappresentino interessi comuni anziché essere divise da conflitti interni; il presupposto che, a livello nazionale, non esistano interessi più importanti di quelli rappresentati dalle unità primarie e che tali interessi, di portata più generale, non dividano la società e non meritino di essere rappresentati. Se esistono interessi del genere, è lecito supporre che i partiti, basati sull'aggregazione di un gran numero di interessi generali, si affermerebbero comunque su scala nazionale, mentre i rappresentanti eletti secondo il sistema corporativo non disporrebbero di alcuna base su cui prendere decisioni circa tali interessi e non sarebbero scelti per le loro opinioni in merito.Il problema di delimitare i collegi elettorali è più serio. Limitarsi a riconoscere le organizzazioni preesistenti, formatesi spontaneamente, rivelerebbe quanto sia diseguale la mobilitazione organizzativa di vari interessi; pertanto lo Stato si assume inevitabilmente il compito di stabilire delle categorie non competitive in modo funzionale, legalizzandole o autorizzandole e concedendo loro un monopolio della rappresentanza. Risulta più difficile scegliere quale peso assegnare, nel processo decisionale, agli interessi organizzati e quale criterio adottare per conferire una rappresentanza a interessi non economici e non professionali. Le scelte sarebbero soggette a continue revisioni, con conseguenti modifiche della struttura economica e sociale, al cui confronto i conflitti concernenti la distribuzione dei collegi elettorali nelle democrazie 'inorganiche' apparirebbero come un gioco da ragazzi. Le decisioni autoritarie dei burocrati e/o dei gruppi politici al governo predeterminerebbero la natura e la composizione dei corpi decisionali, che quindi sarebbero tutt'altro che un prodotto organico della società.

 

Da un punto di vista sociologico, come ha notato Max Weber, la funzione latente di ogni sistema di questo tipo è di privare del diritto di voto determinati strati sociali. Può trattarsi di un sistema estremamente conservatore (quando concede mandati politici alle categorie professionali, privando così, di fatto, del diritto di voto le masse più numerose) o radicalmente rivoluzionario (quando limita in modo formale e aperto il suffragio al proletariato, privandone così quelle classi il cui potere si fonda sulla posizione economica). È questo che ha indotto i regimi autoritari a preferire la rappresentanza corporativa, soprattutto nelle società in cui le masse di operai, braccianti e contadini potrebbero conferire la maggioranza ai partiti classisti di massa. Tutto ciò, oltre alla possibilità di manipolare i responsi elettorali facendo ricorso a elezioni indirette e su più livelli, spiega l'esistenza di sistemi politici basati su principî del genere.

 

Su molte questioni i rappresentanti di interessi finirebbero col non avere un'opinione e sarebbero disposti a dare il loro voto in cambio di misure che favorissero i loro interessi particolari. Il potere finisce in mano a un gruppo dominante che organizza il sistema, assegna le quote di rappresentanza, arbitra i conflitti tra interessi e prende decisioni su tutte le questioni che esulano dagli interessi dei rappresentanti. Anche a proposito di sistemi basati sulla democrazia organica sarebbe meglio parlare di 'statalismo organico': in tali sistemi le élites burocratico-tecnocratico-militari e/o i leaders di un partito unico detengono la quota maggiore del potere.

 

Le strutture corporative costituiscono uno dei tanti elementi di questi sistemi, ma, anche se deboli, rappresentano, soprattutto a livello di base, un limite alle ambizioni monistiche dell'élite politica, che tenta di mobilitare una società per i propri scopi utopistici.In nessun sistema politico è previsto che il governo debba rendere conto a un'assemblea legislativa di tipo corporativo. Anche se da un punto di vista puramente teorico la partecipazione politica potrebbe essere organizzata attraverso collegi elettorali corporativi ed elezioni corporative, non è mai esistita una democrazia senza partiti politici.Lo statalismo organico rappresenta una tentazione soprattutto per le élites burocratiche, militari e tecnocratiche, che respingono l'idea di un conflitto aperto e credono in soluzioni razionali, in ultima analisi amministrative, dei conflitti d'interesse, e non sono guidate da una visione utopistica della società, ma piuttosto da considerazioni pragmatiche. Lo statalismo organico si addiceva a un sistema economico che respingeva il capitalismo basato sul libero mercato e sull'impresa, ma anche la proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata. La disillusione nei confronti della democrazia liberale e di un sistema economico puramente capitalistico ha costituito un terreno fertile per l'accettazione di soluzioni corporative.

 

Parecchi regimi autoritari hanno attinto alle idee della democrazia organica per legittimare il proprio governo e per organizzare una partecipazione limitata. L'Estado Novo portoghese costituito da Salazar rappresenta, da un punto di vista teorico, il caso più puro (v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974; v. Lucena, 1976). Come avvenne in Austria tra il 1934 e il 1938 con Dollfuss e in Spagna con Franco, dopo un periodo fascista pre-totalitario, i governanti, combinando un'eredità ideologica cattolica con l'esperienza fascista italiana, crearono sistemi con una componente di democrazia organica. Mussolini, collegandosi all'inizio con la tradizione sindacalista, rafforzata dall'eredità intellettuale del nazionalismo di destra, e cercando l'approvazione dei cattolici, costruì una sovrastruttura corporativa, che serviva gli interessi conservatori privando del diritto di rappresentanza una classe operaia altamente mobilitata e fornendo un canale di espressione ai molteplici interessi in gioco in una società relativamente sviluppata.

 

Le forti tendenze pre-totalitarie di molti leaders fascisti e il concetto di 'Stato etico', al di sopra degli interessi, mutuato dalla tradizione idealistica, crearono, tuttavia, un equilibrio instabile tra le due componenti del regime: quella corporativa e quella di mobilitazione, propria del partito unico. In Perù l'esercito tentò un esperimento analogo, creando il SINAMOS (Sistema Nacional de Apoyo a la Mobilizacion Social) in campi diversi, quali i pueblos jovenes, le periferie urbane più diseredate e le organizzazioni rurali, giovanili, operaie, culturali, professionali ed economiche. In una fase iniziale l'idea dei soviet (consigli di operai, o di operai, contadini e soldati) esercitò un fascino notevole sui rivoluzionari avversi al partito socialdemocratico marxista (disposto a far parte di regimi democratici parlamentari), in quanto essi vedevano nei soviet un mezzo per espropriare del diritto di rappresentanza altri settori della società e per fornire un efficace terreno di scontro agli attivisti rivoluzionari, pronti a soppiantare la leadership degli altri partiti di sinistra. Tuttavia il partito d'avanguardia fece a meno di questa forma di partecipazione. Anche la Jugoslavia, con la gestione operaia e l'autogoverno locale, creò un sistema di camere a carattere corporativo, complementari alla struttura politica basata sul partito, sulle sue organizzazioni funzionali e sull'oligarchia rivoluzionaria.

 

REGIMI AUTORITARI DI MOBILITAZIONE NELLE SOCIETÀ POST-DEMOCRATICHE

La rivoluzione democratica dell'Europa occidentale si propagò in società molto diverse fra loro sotto il profilo dello sviluppo economico, culturale e istituzionale. In molte di esse la successione delle crisi di sviluppo - costruzione dello Stato, legittimazione, partecipazione, incorporazione di nuove forze sociali, rappresentanza negli organi legislativi e infine partecipazione al potere esecutivo - si concentrò in un breve periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi lo sviluppo economico non procedette di pari passo con il mutamento politico. Si diffusero ideologie di protesta elaborate in società più avanzate e sorsero nuovi movimenti, che, oltre ad avanzare richieste di ridistribuzione della ricchezza e di partecipazione, si fecero portavoce dell'ostilità nei confronti dei mutamenti dovuti all'industrializzazione incipiente e alla disgregazione dei modelli economici e sociali tradizionali. L'accavallarsi di queste crisi durante il periodo di democratizzazione politica, mentre le istituzioni e le élites tradizionalmente legittime erano assenti o troppo deboli, impedì l'istituzionalizzazione graduale e coronata da successo di processi democratici capaci di assimilare le richieste di nuovi gruppi sociali da poco consapevoli della propria identità culturale o di classe. La crisi della democrazia avrebbe portato a nuove formule politiche, compresa la componente plebiscitaria pseudodemocratica: il partito unico di massa.

 

Quelle società, tuttavia, avevano raggiunto un livello di sviluppo e di complessità tali da rendere difficile alla leadership del partito unico spingersi in direzione totalitaria, tranne che nella Germania nazista. Non è un caso che, essendo la Francia il paese in cui il mutamento rivoluzionario aveva determinato la rottura maggiore con l'autorità tradizionale, il primo manifestarsi di una soluzione plebiscitaria, non liberale e autoritaria della crisi della democrazia sia stato il bonapartismo. Non è sorprendente che alcuni marxisti, come Thalheimer (v., 1930), si siano valsi dell'analisi di Marx sul diciotto brumaio per comprendere i recenti regimi autoritari creati dal fascismo.

 

Alla fine della prima guerra mondiale, la crisi delle società europee fece emergere due movimenti politici che ruppero con i sistemi liberaldemocratici: il leninismo e il fascismo. Erano entrambi basati sul dominio di una minoranza, un'élite autoelettasi a rappresentare la 'maggioranza', il proletariato o la nazione, al servizio di una missione storica; un'élite definita non da caratteristiche ascrittive né da successi professionali, ma dalla volontà di conquistare il potere e utilizzarlo per rovesciare condizioni storiche e sociali costrittive, ricorrendo all'appoggio delle masse, ma senza alcuna intenzione di farle interferire nel raggiungimento dei propri obiettivi. Il fascismo, in quanto risposta nazionalista all'internazionalismo ideologico del marxismo, collegandosi ad altre tradizioni ideologiche del XIX secolo - l'irrazionalismo romantico, il darwinismo sociale, l'esaltazione hegeliana dello Stato, le idee di Nietzsche, le concezioni soreliane del ruolo del mito, l'immagine del grande uomo e del genio - diventò esplicitamente antidemocratico (v. Gregor, 1969; v. Nolte, 1966, 1967 e 1968). In contrasto con altre concezioni dell'autoritarismo, esso cercò una nuova e diversa forma di legittimazione democratica, basata sull'identificazione emotiva dei seguaci con il leader, cioè su quella forma di consenso plebiscitario che si era manifestata per la prima volta nel cesarismo napoleonico.

 

Le circostanze eccezionali in cui si trovava la società italiana dopo la prima guerra mondiale generarono un nuovo tipo di movimento, non tradizionalista, popolare e antidemocratico, portato avanti all'inizio da un numero ristretto di attivisti reclutati tra i nazionalisti interventisti, i veterani di guerra, un certo tipo di intelligencija, ebbra di nazionalismo, di futurismo e di ostilità per il trasformismo giolittiano e per l'egoismo della borghesia, e i sindacalisti rivoluzionari, che avevano scoperto la loro identità nazionale (v. De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Gentile, 1985). Tuttavia ciò che creò le condizioni favorevoli al successo del movimento fu la mobilitazione della classe operaia italiana, promossa da un movimento operaio socialista massimalista, incapace di attuare una presa del potere rivoluzionaria e restio a seguire una via riformista. Il predominio delle sinistre nelle campagne settentrionali e l'occupazione delle fabbriche spinsero una borghesia impaurita a sostenere il movimento nascente.

 

L'atteggiamento ambivalente dello Stato verso le azioni terroristiche dello squadrismo, il mancato appoggio dei riformisti allo Stato liberale democratico e le tensioni tra i vecchi partiti liberali, da una parte, e i socialisti e il nuovo Partito popolare dall'altra, insieme alla mancanza di scrupoli e all'opportunismo di Mussolini, portarono il nuovo movimento al potere. Erano nati così un'ideologia nuova e sfaccettata, una nuova forma di azione politica e un nuovo stile, che avrebbero trovato eco in gran parte dell'Europa (v. Nolte, 1966 e 1968; v. Laqueur, 1978; v. Rogger e Weber, 1966; v. Payne, 1980; v. Larsen e altri, 1980) e persino in America Latina e in Asia. In un primo momento si poteva pensare che il fascismo fosse una conseguenza peculiare della crisi italiana (v. De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Nolte, 1968), più tardi che fosse una risposta a uno sviluppo economico e a una modernizzazione tardivi e mal riusciti (v. Borkenau, 1933); ma in seguito al successo di Hitler divenne necessario spiegarlo in termini di alcune caratteristiche fondamentali della società occidentale.

 

Come ideologia e come movimento il fascismo può essere caratterizzato in base a ciò che rifiuta, al suo nazionalismo esasperato e alle nuove forme di azione e di stile politici che introduce. Ciò a cui il fascismo si oppone è essenziale per comprenderne la natura e il fascino, ma non basta a spiegarne il successo. Il fascismo è antiliberale, antiparlamentare, antimarxista, e soprattutto anticomunista, anticlericale, o perlomeno non clericale, e, in un certo senso, antiborghese e anticapitalista. Pur riallacciandosi alla tradizione storica nazionale, reale o presunta, non propugna una continuità conservatrice col passato recente o un ritorno ad esso puro e semplice, ma è proiettato verso il futuro.

 

Quelle posizioni antagonistiche sono la conseguenza logica del suo approdo tardivo sulla scena politica e del suo tentativo di prendere il posto dei partiti di ispirazione liberale, marxista, socialista e clericale. Esse sono anche il frutto del nazionalismo esasperato, che rifiuta la solidarietà di classe al di là dei confini nazionali e la sostituisce con la solidarietà tra tutti i produttori di una nazione contro le altre, ricorrendo al concetto di nazione proletaria: i paesi poveri contro le ricche plutocrazie, che si dà il caso fossero anche potenti democrazie.

 

Queste posizioni negative avevano una specie di distorto complemento positivo. L'antimarxismo è compensato da un'esaltazione del lavoro, che fa appello alla crescente classe media impiegatizia, la quale rifiuta di identificarsi con il proletariato secondo la richiesta marxista. Il suo populismo induce il fascismo a sostenere politiche da Stato assistenziale e a parlare di socialismo nazionale, di socializzazione delle banche, ecc., giustificando così l'interventismo economico e lo sviluppo di un importante settore pubblico.

 

L'anticapitalismo, che fa presa sugli strati precapitalistici e piccolo borghesi, è ridefinito come ostilità nei confronti della borsa valori finanziaria internazionale e del capitalismo ebraico e come esaltazione della borghesia imprenditoriale nazionale. L'enfasi posta sul bene comune della nazione si combina facilmente con l'ostilità per il libero gioco degli interessi del liberalismo economico e trova espressione in scelte politiche protezionistiche e autarchiche, che incontrano il favore degli industriali minacciati dalla concorrenza internazionale. L'ostilità nei confronti delle politiche clericali nutrita da un'intelligencija laica composta da nazionalisti accaniti e la competizione tra forze laiche e partiti democraticocristiani per la conquista della stessa base sociale sono all'origine dell'anticlericalismo, che va di pari passo con la tesi secondo cui la tradizione religiosa fa parte della tradizione storico-culturale nazionale. La Guardia di Ferro, l'unico movimento fascista che abbia avuto successo in un paese greco-ortodosso, dovendo fronteggiare una borghesia laica non animata da sentimenti nazionalisti e un'influente comunità ebraica, fece più direttamente ricorso al simbolismo religioso.

 

In Germania le confuse dichiarazioni programmatiche a proposito del cristianesimo positivo e l'appoggio dato da molti protestanti a una religione di Stato conservatrice furono utilizzati dai nazisti, ma alla fine l'ideologia razzista divenne incompatibile con qualsiasi forma di impegno cristiano. Le prese di posizione antireligiose del marxismo e del comunismo permisero ai fascisti di trarre vantaggio dal rapporto ambivalente con l'eredità religiosa. Il loro anticlericalismo fece presa sulle classi medie laiche, per nulla intenzionate ad appoggiare i partiti clericali e democraticocristiani, mentre le loro prese di posizione antiliberali, antimassoniche e persino antisemite, insieme al loro anticomunismo, facilitarono la collaborazione con le chiese, quando giunsero al potere. L'atteggiamento antiborghese e l'esaltazione romantica del contadino, dell'artigiano e del soldato si contrapponevano al capitalismo impersonale e alla borghesia egoista, richiamandosi alla critica della moderna società industriale e urbana. Il rifiuto dell''egoismo di classe' del proletariato e dell'egoismo individuale borghese e l'affermazione dei comuni interessi nazionali al di sopra e al di là delle divisioni di classe fecero leva sul desiderio di solidarietà interclassista sviluppatosi tra i veterani di guerra.

 

Tutti questi appelli deliberatamente ambigui e in larga parte contraddittori sarebbero rimasti, e rimasero, inascoltati in quelle società in cui la guerra e la sconfitta non avevano provocato una crisi seria. Nelle nazioni sconfitte o in quelle che, come l'Italia, pur vittoriose, si sentivano private dei frutti della vittoria, l'ondata nazionalista venne incanalata dai nuovi partiti.L'ideologia fascista dovette respingere i presupposti della politica liberaldemocratica basata sulla partecipazione pluralistica, sulla libera espressione e sulla mediazione degli interessi, anziché sull'affermazione degli interessi collettivi al di sopra degli individui, delle classi e delle comunità culturali e religiose. L'evidente deformazione dell'idea di democrazia nei primi anni del XX secolo e l'incapacità della leadership democratica di istituzionalizzare meccanismi di risoluzione dei conflitti crearono un terreno favorevole alla fortuna del fascismo. Gli interessi minacciati da un potente movimento operaio imbevuto di retorica rivoluzionaria, soprattutto dopo alcuni tentativi rivoluzionari falliti, sostennero le squadre fasciste in quanto paladine dell'ordine sociale. L'ideologia fascista offrì una nuova alternativa, che prometteva l'integrazione della classe operaia nella comunità nazionale e l'affermazione dei suoi interessi contro le altre nazioni, se necessario mediante una mobilitazione e persino un'aggressione militare (v. Neumann, 1942).

 

Né i suoi richiami ideologici, né gli interessi che servì bastano a spiegare il successo del fascismo. Il fascismo sviluppò nuove forme di organizzazione politica, diverse tanto dai partiti basati sul sostegno elettorale e da quelli socialisti di massa a base sindacale, quanto dai partiti religiosi a guida clericale. Come la controparte comunista, il fascismo offrì un'occasione di partecipazione, che interrompeva la monotonia della vita quotidiana. A una generazione che aveva vissuto azioni di guerra eroiche e avventurose e - ancor più - a una che, data la giovane età, aveva vissuto quell'esperienza indirettamente, lo squadrismo e le camicie nere offrirono un buon surrogato. Molti di quelli le cui carriere e i cui studi erano stati irrimediabilmente interrotti dalla guerra e dalla crisi economica e alcuni disoccupati divennero attivisti del partito; l'intervento diretto degli attivisti a sostegno di specifiche rimostranze - come quelle dei contadini destinati a essere sfrattati, degli agricoltori cui i sindacati stavano imponendo l'impiego di manodopera, degli industriali minacciati dagli scioperanti - procurò loro un appoggio che nessuna propaganda elettorale avrebbe potuto ottenere. Questo nuovo stile politico soddisfaceva, come nessun altro, alcuni bisogni psicologici ed emotivi.Infine il fascismo era caratterizzato da uno stile peculiare, che si rifletteva nelle uniformi - le camicie -, simbolo della rottura con le convenzioni borghesi e con l'individualismo dell'abbigliamento borghese, nelle dimostrazioni e nelle cerimonie di massa, che permettevano agli individui di immergersi nel collettivo e di sfuggire alla privatizzazione della società moderna.

 

Le ambiguità e le contraddizioni dell'utopia fascista, insieme agli inevitabili compromessi raggiunti, sul piano pragmatico, con molte delle forze dapprima criticate, spiegano il fallimento del modello, tranne che in Italia (fino a un certo punto) e in Germania. Il nucleo iniziale avrebbe dovuto conquistarsi un sostegno in tutti gli strati sociali, e in particolare nella classe operaia, oltre che tra i contadini, ma la penetrazione organizzativa dei movimenti operai socialista, comunista e anarcosindacalista condannò tali speranze al fallimento. In alcuni paesi i contadini cattolici, le classi medie e persino molti operai avevano aderito ai partiti democratici clericali e/o cristiani, impegnati nella difesa della religione, e avevano trovato nella dottrina sociale della Chiesa una risposta a molti dei problemi che il fascismo presumeva di poter risolvere. Le classi medie e medio-alte, a meno che non fossero state terrorizzate dai tentativi rivoluzionari abortiti, o rovinate dalle continue crisi economiche o sradicate dalla guerra, rimasero fedeli ai vecchi partiti.L'eterogeneità della base e l'incapacità di conquistare gli strati sociali a cui si rivolgevano, che si spiegano con il loro ingresso tardivo sulla scena politica, indussero i fascisti a un'incessante lotta per conquistare il potere e a una politica di alleanze opportunistiche con una serie di gruppi di potere e con forze conservatrici non democratiche o antidemocratiche, che a loro volta speravano di poter manipolare la loro popolarità e il loro seguito di attivisti.

 

Tali gruppi, ben radicati nell'establishment e nello Stato, potevano fornire uomini più capaci di governare. Il risultato fu l'instaurazione di regimi autoritari - a pluralismo notevolmente limitato - guidati da un partito unico, che, a seconda dei casi, occupava una posizione abbastanza preminente e attiva o svolgeva un ruolo minore all'interno della coalizione di forze. Solo in Germania il partito unico sarebbe diventato dominante fino a fondare un regime totalitario. Il fascismo introdusse una componente populista di mobilitazione, un canale per un certo livello e un certo tipo di partecipazione politica volontaria, una fonte di malcontento ideologico verso lo status quo e di giustificazione del mutamento sociale, che contraddistingue i regimi autoritari di mobilitazione. Anche dove, come in Spagna (v. Linz, 1970), questa mobilitazione fu alla fine annullata di proposito, il regime autoritario, per metà statalismo organico e per metà sistema burocratico-tecnocratico-militare, che si affermò dopo gli anni quaranta, non sarebbe mai stato identico, per esempio, al regime di Salazar, dove il fascismo non aveva mai messo radici.

 

I regimi autoritari fascisti di mobilitazione furono meno pluralistici, più ideologici e a maggior partecipazione dei regimi burocratico-militari o degli statalismi organici guidati da un partito unico debole. Furono più vicini alla 'democrazia' che al 'liberalismo', più disposti a offrire ai cittadini la possibilità di partecipare che la libertà individuale, più orientati al mutamento che alla conservazione. La maggior legittimazione ideologica e la maggior mobilitazione a loro sostegno li rese meno vulnerabili di altri tipi di governo autoritario all'opposizione interna e al rischio di esserne rovesciati, e solo la sconfitta esterna riuscì a distruggerli.

 

REGIMI AUTORITARI DI MOBILITAZIONE DOPO L'INDIPENDENZA

Regimi autoritari di mobilitazione apparvero in alcuni Stati in lotta per l'indipendenza dal dominio coloniale o in via di emancipazione dalla dipendenza da una potenza straniera. Non molti di questi regimi si sono dimostrati stabili: in alcuni casi colpi di Stato militari hanno escluso i civili dal governo (v. Jackson e Rosberg, 1982; v. Bienen, 1968 e 1974; v. Lee, 1969; v. Welch, 1970); in altri si è avviato un processo di decadenza, che spesso ha dato origine a uno Stato senza partiti (v. Wallerstein, 1966; v. Potholm, 1970; v. Bretton, 1973).

 

Regimi autoritari di mobilitazione a partito unico non creati dall'alto da chi deteneva il potere, ma da leaders emersi dalla base e capaci di mobilitarla, furono possibili in società a basso sviluppo economico, con una struttura sociale contadina relativamente egualitaria, in cui la moderna élite economica era ristretta e spesso costituita da stranieri o da membri di un gruppo etnico esterno e in cui le autorità coloniali non avevano permesso né incoraggiato la crescita di una classe media di professionisti, di funzionari statali dotati di un rango e di una dignità specifici e di un esercito professionale. Il dominio coloniale aveva distrutto o screditato le autorità tradizionali pre-coloniali, perlomeno agli occhi dei settori urbani emergenti, istruiti e più modernizzati. In questo contesto, tra coloro che si erano formati all'estero o nelle poche scuole create dal potere coloniale, si affermò una nuova leadership nazionalista, i cui membri venivano a volte incoraggiati a diventare leaders sindacali o rappresentanti delle nuove istituzioni di autogoverno dai partiti della sinistra e da qualche intellettuale nazionalista (v. Wallerstein, 1961; v. Hodgkin, 1961; v. Carter, 1962; v. Coleman e Rosberg, 1964).

 

Questi leaders si fecero portavoce delle rivendicazioni della popolazione indigena, degli operai e dei contadini, colpiti dallo sconvolgimento dell'ordine tradizionale, dovuto al mutamento economico e all'introduzione di istituzioni giuridiche occidentali. Le autorità coloniali alternavano la repressione alla cooptazione, politiche che, soprattutto se applicate in modo incoerente, contribuirono a rafforzare questa leadership emergente. In un primo momento il desiderio d'indipendenza occultò l'importanza di altri problemi; il sottosviluppo e il carattere straniero del settore economico moderno limitarono l'importanza delle politiche classiste. Nelle assemblee elette poco prima o subito dopo l'indipendenza, i rappresentanti dei movimenti nazionalisti ottennero la maggioranza relativa o assoluta, che spesso estesero cooptando i rappresentanti di gruppi più particolaristici, quali i gruppi tribali, religiosi o tradizionali. Si sperava che l'adozione degli ordinamenti costituzionali inglesi o francesi avrebbe dato vita a nuove democrazie, ma ben presto le azioni dell'opposizione, o la percezione che ne ebbero i leaders del partito al governo, l'idea di questi ultimi che una nazione andasse costruita ignorando le richieste della periferia, di settori specifici, di particolari gruppi etnici e tribali, i problemi economici e quelli creati da nuove aspettative indussero i leaders a ostacolare, limitare o eliminare la libera competizione politica ed elettorale.

 

In molti paesi l'indipendenza e l'assetto statuale vennero a identificarsi simbolicamente con un leader, che spesso vantava un'autorità carismatica. Il carattere artificiale dei confini, le differenze etniche, linguistiche e religiose, il divario tra lo sviluppo sociale dei pochi centri urbani e delle zone costiere e quello della periferia rurale e la debolezza delle istituzioni amministrative convinsero i leaders che il loro partito potesse servire da strumento per la costruzione della nazione. Nel contesto di una cultura politica che non aveva istituzionalizzato i valori liberaldemocratici, il partito dominante, dovendo affrontare i problemi dell'integrazione nazionale, un'opposizione non sempre leale e la paura delle influenze straniere, divenne presto un partito unico.

 

Alcuni leaders respinsero l'idea di un partito unico monolitico. Così si espresse ad esempio Senghor: "siamo contrari al partito unico (parti unique); siamo favorevoli a un partito unificato (parti unifié)" (v. Foltz, 1965, p. 141). Molti leaders di partiti dominanti incoraggiarono l'ingresso nei propri partiti di leaders con un forte seguito regionale, comunale, tribale o settoriale, che all'inizio avevano sostenuto i partiti d'opposizione sconfitti.I regimi a partito unico non riuscirono a reperire risorse sufficienti a sostenere la propria prospettiva di trasformare in modo radicale la società mediante metodi organizzativi. I pochi leaders politicamente consapevoli e istruiti servivano come personale di governo e dei numerosi enti governativi, a detrimento dell'organizzazione del partito. Rapporti clientelari primari e personali distolsero l'organizzazione periferica del partito dai compiti che il centro voleva assegnarle. Le discrepanze tra la retorica ideologica (v. Friedland e Rosberg, 1964) e la realtà politica e il malcontento delle nuove generazioni, che rientravano dall'estero e non trovavano posizioni di potere adeguate alle loro ambizioni, crearono tensioni con le organizzazioni giovanili, i sindacati, ecc., evitabili ponendo meno l'accento sul partito. Le formulazioni ideologiche erano in gran parte di seconda mano, ambigue e in contraddizione con le politiche pragmatiche a cui la leadership si sentiva vincolata dalla realtà sociale ed economica, e quindi non offrivano agli iscritti obiettivi chiari e immediati.

 

Di conseguenza il partito unico, invece di diventare uno strumento totalitario di mobilitazione, il centro monistico, divenne una componente in più nella struttura del potere. Paradossalmente, è stato sostenuto che i partiti unici avevano maggiori possibilità di sopravvivenza nelle società meno mobilitate e più arretrate che nei paesi con più risorse, dove, proprio per questo, tendeva a svilupparsi un processo inflazionistico di formazione della domanda (v. Zolberg, 1966) e dove i piani rivoluzionari contro il settore moderno dell'economia non riuscivano a provocare un vero danno.In alternativa il partito unico si trasformò da movimento di massa disciplinato e ideologico in un meccanismo flessibile, che manteneva viva la solidarietà tra i suoi membri facendo leva sui loro interessi personali, tollerando l'esistenza di fazioni e confidando più nell'attrattiva di ricompense materiali, ottenute anche tramite la corruzione, che nell'entusiasmo per principî politici. La coercizione avrebbe assunto la forma di una macchina politica (v. Zolberg, 1966 e 1969; v. Bretton, 1973).

 

Solo pochi partiti unici di mobilitazione sono riusciti a conservare una qualche funzione per alcuni anni dopo l'indipendenza. Quelli che non sono stati scalzati da colpi di Stato militari hanno conosciuto una notevole trasformazione. Le tipologie elaborate all'inizio sono risultate fuorvianti, perché spesso basate sull'immagine che di sé i partiti africani volevano trasmettere. La variabilità delle politiche di consolidamento dello Stato e di conquista, legittimazione e gestione del potere ha generato regimi difficili da concettualizzare se non in termini di dominio personale.

 

IL DOMINIO PERSONALE

A prescindere dai camuffamenti euromorfici (forme costituzionali, partito unico, organizzazione burocratica) e dai tentativi simbolici di collegarsi alla tradizione, i nuovi Stati africani possono essere caratterizzati nel modo migliore come regimi di dominio personale. Dal punto di vista organizzativo essi hanno alcune caratteristiche in comune con il patrimonialismo descritto da Weber, benché il contesto storico-culturale sia del tutto diverso da quello delle monarchie assolute europee post-feudali, a capo di società complesse, con una Chiesa potente, una tradizione di diritto romano, governi municipali autonomi, gilde, ecc. Il concetto di neopatrimonialismo - utilizzato dagli africanisti - andrebbe quindi adoperato con cautela. Nei casi che Jackson e Rosberg (v., 1982) definiscono 'tirannie' (Amin, Macias, Bokassa, Mobutu) il patrimonialismo assume la forma definita da Weber 'sultanismo'. Anziché descrivere i diversi casi di dominio personale in termini di orientamenti ideologici e di politiche, distinguendo quelli ispirati al pensiero marxista (Sekou Ture) da quelli più concilianti nei confronti degli interessi occidentali (Houphouet-Boigny), studiosi come Jackson e Rosberg hanno tentato di descriverne le differenze in base ai rapporti tra i governanti e i loro collaboratori, da una parte, e la società, dall'altra.

 

A loro avviso, nell'Africa subsahariana, la politica si occupa più della gestione del potere che dell'attuazione di un qualche indirizzo politico; Machiavelli e persino Hobbes ci offrono paradigmi più efficaci, per comprenderla, di quanto non facciano Marx e molte teorie contemporanee. Essi sottolineano la scarsa differenza tra i governanti con una preparazione militare e i civili, tra coloro che si sono serviti di un partito politico per conquistare il potere e coloro che lo hanno creato una volta al potere.Il dominio personale è un sistema di relazioni che non collega (perlomeno non direttamente) i governanti al 'pubblico', né ai sudditi, ma piuttosto ai notabili, agli alleati, ai clienti, ai sostenitori e ai rivali che costituiscono il 'sistema'. Non sono le istituzioni, ma gli stessi politici a strutturare il sistema; e questa dipendenza dalle persone spiega la sua sostanziale vulnerabilità. Esso è drasticamente restrittivo nei confronti delle libertà politiche, mentre è in genere tollerante (salvo che nei regimi tirannici) verso i diritti non politici.

 

I governanti dispongono di una competenza giuridica pressoché illimitata. Utilizzano, combinandoli in vari modi: 1) la cooptazione e la consultazione; 2) il clientelismo; 3) il patto e l'accordo; 4) l'intimidazione e la coercizione. Dalla sorte del leader dipende quella della classe politica che lo sostiene e spesso la solidità dell'ordinamento politico. Se aggiungiamo le restrizioni e le incertezze determinate da fattori politici ed economici esterni e la povertà di cui soffrono i paesi dove vige questo tipo di regime, paesi che dipendono da poche esportazioni di prodotti primari, soggette a fluttuazioni dei raccolti dovute al clima, possiamo comprendere l'instabilità del dominio personale.

 

Un altro fattore da considerare è l'assistenza militare ed economica fornita dall'estero, anche da paesi confinanti, ai governanti o agli esuli e ai ribelli. Il dominio personale è quindi caratterizzato dal paradosso di un potere relativamente autonomo, e persino arbitrario, ma soggetto a vincoli e incapace di realizzare politiche per la mancanza di risorse e di funzionari esperti.

 

Jackson e Rosberg distinguono quattro tipi ideali di dominio personale: il principesco, l'autocratico, il profetico e il tirannico. Il tipo profetico caratterizza in misura maggiore alcuni dei capi fondatori, come Nkruhma e Nyerere, e si avvicina agli ideali, se non alla realtà, dei regimi di mobilitazione a partito unico. La distinzione tra principi e autocrati getta luce su questo tipo di regime autoritario. Il principe è un osservatore astuto e un manipolatore di luogotenenti e di clienti; egli tende a governare insieme con altri oligarchi e a coltivarne la lealtà, tenendo sotto controllo la loro tendenza a sopraffarsi a vicenda. Alcuni principi, come Kenyatta o Kaunda, sono stati artefici dell'indipendenza del proprio paese; il loro più eminente rappresentante è stato Leopold Senghor, il dotto presidente del Senegal. L'autocrate si distingue per la maggior libertà di azione e per l'ostilità verso la politica dei politici e verso il potere e l'autorità altrui; egli costringe alla cospirazione o all'esilio coloro che rifiutano di diventare suoi dipendenti. Il potere dell'autocrate è basato sulla sua abilità e sulla sua esperienza personali, difficilmente trasferibili a un altro leader. Questo fatto, unito alla minore probabilità che siano disponibili politici capaci ed esperti, in grado di assicurare una successione pacifica, fa nascere una condizione di instabilità, finché qualcun altro non si impadronisce saldamente del potere e non impara a esercitare un dominio personale.

 

Né il dominio personale di tipo principesco, né quello autocratico trasformano la struttura sociale (come quello profetico tenta di fare e quello tirannico fa tramite la coercizione e la corruzione), ma la manipolano, la controllano e la subordinano a sé. Il pluralismo sociale è ancora vivo, ma, dato il retaggio delle società africane e del colonialismo, è fondamentalmente debole. D'altra parte è pur vero che nei centri più moderni la stampa, i professionisti, svariate associazioni, ecc. tentano di affermare la propria autonomia, mentre in altre zone i governanti tradizionali, o i loro discendenti, i capi di clan locali o di tribù e i notabili religiosi non possono essere ignorati, persino quando, sotto il dominio di un autocrate, non partecipano al potere. Strutture moderne, quali l'esercito e la burocrazia, non vanno confuse con i rispettivi modelli europei, perché prima del colonialismo in pratica non esistevano, i loro vertici se ne andarono alla fine del dominio coloniale e l'africanizzazione le ha del tutto trasformate. Il dominio personale dunque è più imprevedibile, più paternalistico o arbitrario, in potenza persino più oppressivo, tirannico e corruttore, ma tutto sommato più debole e più instabile, degli altri regimi autoritari più 'strutturati'.

 

Questo carattere informe (v. Sartori, 1976) ostacola gli sforzi diretti a costruire istituzioni democratiche, in quanto i politici eletti democraticamente non erediteranno strutture istituzionalizzate operanti secondo procedure giuridiche formali. Il fallimento, in situazioni di crisi, dei funzionari eletti democraticamente, la loro inefficienza e la loro corruzione legittimeranno i leaders militari a rovesciarli e a ricominciare il ciclo del dominio personale illegale e, dopo breve tempo, illegittimo. Nelle società più moderne, come la Nigeria o il Ghana, le richieste di ritorno alla democrazia si riproporranno e il ciclo potrebbe ricominciare da capo (v. Diamond, Linz e Lipset, 1988-1989). Sebbene coloro che esercitano un dominio personale vantino, e a volte abbiano, un certo carisma che li circonda di un'aura pseudoreligiosa, la loro legittimazione non è basata su quella che è stata definita una 'religione politica', un'ideologia politica sacralizzata, come nei sistemi totalitari, né può essere confusa con la tradizionale autorità sacralizzata premoderna del dispotismo orientale, incarnata dall'imperatore cinese, dai sultani turchi, o persino dal cesaropapismo bizantino o russo. Con la parziale eccezione di un autocrate tradizionale come Hailè Selassiè in Etiopia e di alcuni governanti arabi, la religione non serve da fonte di legittimazione del dominio personale.

 

Nell'autoritarismo africano non è facile separare gli elementi derivati dall'Occidente, in particolare il partito unico di mobilitazione ispirato al modello comunista, gli elementi di patrimonialismo propri del governante e della sua famiglia, degli amici e dei clienti, collegati alla corruzione in società dove il controllo del potere statale e del settore pubblico è quasi l'unica fonte di ricchezza e di status, gli elementi derivati dai tentativi di richiamarsi a una cultura o a una tradizione indigene, spesso inventate per dare un senso al potere, e infine la repressione e il sospetto ai danni di nemici effettivi o potenziali, atteggiamenti che allignano in Stati la cui integrazione attraverso fratture etniche, tribali, cultural-religiose risulta incerta.

 

I REGIMI AUTORITARI POST-TOTALITARI

Pochi problemi fanno discutere di più del modo di concettualizzare i mutamenti verificatisi in Unione Sovietica e in alcuni paesi comunisti dell'Est nella fase che precede l'era Gorbačëv: il periodo successivo, caratterizzato dal passaggio alla democrazia competitiva dei paesi dell'Europa centrale e dai contestuali rivolgimenti in URSS, cade ovviamente fuori di questo articolo. Dopo alcuni tentativi teorici risalenti al primo periodo post-staliniano, si sono prodotti studi (v. Hough, 1977; v. Bialer, 1980), per lo più descrittivi, che evitano i dibattiti sul totalitarismo, benché respingano in modo esplicito o implicito l'applicabilità di quel tipo ideale alle realtà presenti.

 

I regimi in questione si avvicinano o potrebbero avvicinarsi al modello autoritario, ma, dato che se ne differenziano per alcuni aspetti significativi, li definiamo 'post-totalitari'. Il fatto che questi regimi siano sorti dopo la trasformazione della società da parte del totalitarismo, il fatto che le istituzioni e le organizzazioni che hanno sostenuto tale trasformazione, soprattutto il partito unico, non siano state smantellate (eccettuati l'imponente apparato del terrore e i gulag), il linguaggio rigido dell''ideologia fredda' tuttora usato e il ricordo del recente passato sono tutti fattori che rendono i sistemi post-totalitari diversi dai sistemi autoritari propri di società che non hanno subito gli stessi mutamenti. Si può affermare che il totalitarismo abbia fallito nelle sue più ambiziose aspirazioni di cambiare l'uomo dando uno scopo e un significato alla sua vita; ma è riuscito a cambiare la società e a distruggere ampiamente le basi del pluralismo socioculturale della società civile, l'autonomia e l'autorevolezza delle chiese, l'etica specifica delle varie professioni e delle loro associazioni e, nelle società socialiste, l'indipendenza degli operatori economici, proprietari e managers, trasformando tutti (tranne alcuni agricoltori e gli imprenditori dell'economia sommersa) in dipendenti statali e impedendo qualsiasi forma di organizzazione autonoma. Gli accademici, gli intellettuali e forse gli artisti sfuggono in qualche modo a questa Gleichschaltung, ma come individui, non come gruppi organizzati. Il risultato è che il pluralismo sociale, che avrebbe potuto dare origine a un pluralismo latente e forse, in condizioni di crisi, politicamente rilevante, non è mai esistito. Inoltre, come accade nella maggior parte dei regimi autoritari, la relativa chiusura di queste società e il controllo esercitato su tutti i mass media impedirono alla stragrande maggioranza della popolazione di pensare a modelli politici alternativi.

 

Nei regimi post-totalitari si lascia spazio alla privatizzazione e alla dissidenza su una scala intollerabile per il totalitarismo, ma non all'ampia gamma di opposizioni extralegali (come nella maggior parte dei regimi autoritari). D'altronde i potenziali oppositori non trovano, se non lungo i confini occidentali dell'Unione Sovietica, il sostegno protettivo e incoraggiante di una società civile. La Polonia, anche prima dell'affermarsi di Solidarność come movimento politico extralegale ma potente, era un regime autoritario, grazie alla posizione particolare mantenuta dalla Chiesa cattolica (v. Staniszkis, 1984). Perché considerare questi sistemi regimi autoritari post-totalitari, anziché varianti del totalitarismo? Si potrebbe sostenere che i cambiamenti, avvenuti all'interno di un sistema totalitario, sono più quantitativi che qualitativi e non rappresentano pertanto una 'vera' rottura con il passato; inoltre il ritorno del totalitarismo è sempre possibile. Un'analisi del genere può essere valida per alcuni paesi o alcune fasi di sviluppo dei sistemi sovietici (trascurando quelli in cui la spinta totalitaria non si è ancora esaurita, come nel Sudest asiatico e nella Corea del Nord).

 

Tuttavia i seguenti mutamenti giustificano la nozione di post-totalitarismo.

 

1. L'ossificazione dell'ideologia, l'idéologie froide, ripetuta meccanicamente e utilizzata più per ostacolare il cambiamento delle strutture sociali che per promuoverlo, la crescente accettazione, nell'attività politica, di criteri pragmatici o razionali non derivanti dai dogmi ideologici e addirittura incompatibili con essi, la ritualizzazione dell'indottrinamento, il sempre più raro ricorso al sostegno degli intellettuali e la tolleranza per espressioni artistiche non soggette a dettami ideologici. Solo la formulazione e la diffusione di idee pericolose viene ancora limitata. L'ideologia, accettata in modo universale e acritico, può servire da 'mentalità' all'apparatchikis, ma non occupa più la posizione centrale di un tempo.

 

2. Il partito unico e il suo gruppo dirigente continuano a essere la struttura decisionale centrale, tuttavia i cambiamenti nelle attività delle organizzazioni di partito, nei criteri di reclutamento e di promozione attraverso la nomenklatura e nella composizione del gruppo dirigente non possono essere ignorati. La burocratizzazione e un ininterrotto cursus honorum, uniti a tendenze gerontocratiche, hanno caratterizzato il partito, sebbene Gorbačëv abbia dimostrato che il gruppo dirigente può invertire questi processi. Il partito è ancora un'élite, l'accesso alla quale viene filtrato con attenzione, ma, anziché l'attivismo puro e semplice, il fervore ideologico, le attività di propaganda o di controllo coercitivo, diventano importanti e vengono premiate la competenza e le prestazioni tecnico-professionali, nonché le reti clientelari. La spiegazione dello stalinismo in termini di 'culto della personalità' e il desiderio di sicurezza dell'élite hanno portato a una parvenza di leadership collettiva e all'uso di qualche meccanismo formale, come le votazioni e le elezioni negli organi di vertice del sistema.All'interno del partito e del governo possono affermarsi interessi funzionali e persino un certo pluralismo burocratico, ma nessun pluralismo sociale si articola attraverso organizzazioni indipendenti quali i sindacati, e i disaccordi politici, pur tollerati, vengono dibattuti soprattutto dall'élite, anziché da fazioni organizzate e coesive operanti sotto gli occhi di un pubblico più vasto.

 

3. Fra i cambiamenti più significativi in direzione dell'autoritarismo vi sono la diminuzione degli sforzi di mobilitazione totale e di partecipazione all'attività politica e una tolleranza crescente nei confronti della privatizzazione e degli incentivi non ideali, inclusi gli interessi economici personali. L'apatia e l'indifferenza politica sono tollerate. Le attività parallele - compresa la corruzione - tese al conseguimento di fini personali sono aumentate e sono diventate un problema serio. Si sta sperimentando (Ungheria, Cina) o prendendo in considerazione la possibilità di sfruttare le motivazioni più grette dell'interesse personale e dell'avidità per ottenere migliori prestazioni economiche, consentendo, in deroga al modello ideale della società, qualche attività imprenditoriale, l'autonomia delle imprese e la creazione di un'economia di mercato.

 

Questi mutamenti derivano dal riesame, compiuto dall'élite, di quanto sia costato, anche alla stessa classe dirigente, il modello totalitario, specie in termini di instabilità (le purghe, la rivoluzione culturale, ecc.), e da valutazioni delle proprie capacità economiche, tecnologiche e militari in un sistema mondiale competitivo. Non c'è dubbio che la destalinizzazione, la liquidazione del terrore massiccio e indiscriminato, l'introduzione della legalità socialista (anche se per i dissidenti si tratta di una legalità repressiva) abbiano contribuito a far accettare e persino a legittimare il sistema.Qual è l'obiettivo, la raison d'^étre ultima, del sistema che controlla e soffoca la società? Secondo alcuni è il mantenimento dello status quo, e quindi dei privilegi acquisiti dalla 'nuova classe', la prevedibilità di una società burocratica e la difesa dell'ordine esistente, soprattutto contro il pericolo di insurrezioni indipendentiste, promosse da nazionalismi non assimilati o emergenti, che si sta profilando alla periferia del sistema, nel Baltico e nella fascia sudasiatica dell'Unione Sovietica.

 

Per Castoriades (v., 1982) lo 'stato di difesa' diventa il fine ultimo, cui altri obiettivi, come una migliore qualità della vita, sono subordinati, e conferisce uno status privilegiato ai militari, ai tecnici e agli scienziati che operano nel settore militare dell'economia. Questo nuovo tipo ideale è suggestivo, ma discutibile. Poteva forse essere valido all'epoca di Breznev, ma non oggi alla luce degli sviluppi più recenti.

 

È difficile avanzare ipotesi sul futuro. La riaffermazione della società e, in particolare, della classe operaia, che in Polonia ha dimostrato le sue potenzialità, la maggiore o minore sopravvivenza di una classe contadina non integrata in un sistema di kolchozy e il ruolo dei conflitti di nazionalità sono alcuni dei fattori che potrebbero permettere alla leadership di seguire percorsi alternativi in situazioni di crisi. Gli sviluppi saranno diversi in Romania (dopo il governo personalizzato di Ceauçsescu), nei paesi cattolici e in quelli greco-ortodossi, come la Bulgaria. I sistemi post-totalitari - salvo quello polacco - dovranno subire molti mutamenti prima che il loro autoritarismo (perlomeno a livello politico) diventi paragonabile a quello della maggior parte dei regimi autoritari capitalistici occidentali. L'assenza di alternative realistiche, specialmente in Unione Sovietica, l'isolamento dei dissidenti e il retaggio della repressione diminuiscono le probabilità che quei regimi incontrino un'opposizione attiva, militare e violenta, e quindi essi tendono a essere meno repressivi dei regimi autoritari più 'liberali'.

 

CONCLUSIONE

Il nostro excursus attraverso il mondo dei regimi autoritari può concludersi all'insegna di un moderato ottimismo. L'utopia di un'élite autodesignata, intenzionata a riformare in modo totalitario l'uomo e la società, che sembrava la tendenza del futuro negli anni trenta con il fascismo e, in modo più specifico, con il nazismo, è stata sconfitta e la versione stalinista del leninismo è stata screditata e si trova ad affrontare una crisi profonda. Molte formule politiche autoritarie hanno perso il loro puntello ideologico e non esiste alcun paese importante che possa fungere da modello. Negli anni settanta è tornata la democrazia in Grecia, in Portogallo e in Spagna, e negli anni ottanta abbiamo assistito alla restaurazione della democrazia in paesi latino-americani, nelle Filippine, nella Corea del Sud e in Pakistan.

 

Tutto questo ha fatto nascere un'ampia e crescente letteratura sulle transizioni dall'autoritarismo alla democrazia (v. O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986), complementare agli studi precedenti volti a comprendere il crollo delle democrazie (v. Linz e Stepan, 1978). Le difficoltà che alcune di queste democrazie si trovano ancora ad affrontare sollevano la questione delle condizioni migliori per il loro pieno consolidamento. Come dimostrano la transizione dal governo dello Scià a quello di Khomeini, le crisi a Haiti e in Nicaragua e i travagli delle democrazie in Sudamerica, questi sviluppi promettenti non sono però universali.

 

 

 

 

Transizioni ecologica e digitale: ma

di cosa stiamo veramente parlando?

 

Benecomune.net - Alessandro Giuliani – (1° febbraio 2022) – ci dice:

 

Nel 99% dei media e nel 100% dei documenti ufficiali, le cosiddette transizioni ‘ecologica’ e ‘digitale’ appaiono come due fatine inseparabili che leggiadramente ci accompagneranno verso un futuro radioso.

 Il solo pensiero che le due fatine invece che essere concordi possano spingere in due direzioni tra loro incompatibili è considerato poco meno di una bestemmia. Eppure, a veder bene, il loro rapporto è tutt’altro che pacifico…

 Consiglio al lettore con qualche conoscenza matematica un interessante lavoro scientifico apparso sulla rivista “Ecological Economics”, (Lange, Steffen, Johanna Pohl, and Tilman Santarius. “Digitalization and energy consumption. Does ICT reduce energy demand?.” Ecological Economics 176, 2020)

che comincia a fare due conti sulla questione.

 

Dall’articolo si evince come anche se in teoria le due fatine potrebbero andare d’accordo e darsi man forte, l’attuale stato delle cose spinge verso un netto contrasto tra le due, con la transizione digitale (a tutti i livelli: dai nostri continui invii di foto scattate alle pietanze del ristorante all’informatizzazione di grandi aziende) che diventa sempre di più una minaccia per l’ambiente.

Tutto ciò che ruota attorno alla digitalizzazione si identifica con il termine” ICT” (Information Communication Technology) e ha la consistenza di un macigno.

 

La fabbricazione del materiale informatico (sempre più accelerata dalla veloce obsolescenza degli strumenti) esercita un peso influente sulla natura in termini di energia, di acqua e di metalli.

 Ci apprestiamo a estrarre dalla crosta terrestre in una generazione più metalli che in tutta la storia dell’umanità.

Circuiti stampati, schermi tattili, microchip e batterie esigono quantità favolose di oro, argento, rame, tungsteno, litio, e terre rare.

 L’industria mineraria è terribilmente inquinante e (per usare un brutto neologismo molto in voga di questi tempi) ferocemente energivora.

A questo si aggiunge il contributo dell’”ICT” all’effetto serra a causa della continua crescita del consumo di elettricità per il suo funzionamento.

Gli attrezzi informatici alla fine degli anni 2010 consumavano fra il 10 e il 15% dell’elettricità mondiale.

Questo assorbimento raddoppia ogni 4 anni, il che potrebbe portare il digitale nel 2030 a consumare il 50% dell’elettricità del mondo, cioè quello che tutta l’umanità consumava nel 2008.

Possibile?

 Sembrerebbe un tantino esagerato ma se consideriamo che ogni ora nel mondo si spediscono 10 miliardi di email e si fanno 140miliardi di ricerche su Google, la faccenda sembra meno balzana …un calcolo a spanne è che per sostenere questo traffico occorrerebbe la produzione oraria di 15 centrali nucleari.

E allora che facciamo?

Allora bisogna scegliere: o moderiamo drasticamente l’ICT, oppure decidiamo che tutto sommato dell’ecologia ci importa di meno che stare tutto il giorno di fronte a uno schermo.

 D’altronde è raro che chi crea il problema (lo sviluppo tecnologico) proponga anche la soluzione che, se mai, sta nell’abbandono della globalizzazione, nel ritorno alla agricoltura di sussistenza ed ecologicamente compatibile, nella minore circolazione di denaro grazie all’autoproduzione e al baratto, nel conseguente ritorno delle grandi famiglie in cui cooperano le diverse generazioni (questo non lo trovate sul PNRR).

L’attuazione di questo medioevo di ritorno, comporterebbe delle spiacevoli conseguenze che per molti equivarrebbero all’inferno in terra (a me devo dire che non dispiacciono così tanto, ma il vostro cronista è un maledetto retrogrado) tra cui il ritorno della fatica fisica, di una struttura sociale tradizionale, il progressivo abbandono delle metropoli, andare a dormire la sera appena dopo cena e svegliarsi all’alba….

Si vabbè ma allora come la mettiamo con l’efficienza del lavoro? 

A questo proposito vi racconto una esperienza (molto comune per le persone della mia generazione).

Mio padre era un impiegato del parastato (INPS) dove con il tempo raggiunse una posizione apicale (direttore ufficio ispettorato);

 egli (come quasi tutti i genitori dei miei amici) andava al lavoro verso le sette e mezza, attaccava alle otto circa, tornava a casa per ora di pranzo, mangiava con la famiglia, si faceva una breve dormitina e alle tre, tre e mezza ripartiva per l’ufficio da dove tornava verso le sette e mezza un’ora prima della cena.

 Sabato solo mattina, domenica libera.

Il suo omologo di oggi è un poveretto che non ha orario, ha uno smartphone da cui non si stacca mai e, quando (raramente) torna a casa si trova di fronte delle persone quasi sconosciute che asseriscono essere la moglie e i figli (e questo nella migliore delle ipotesi di una famiglia ancora integra…a scanso di equivoci faccio notare che non so assolutamente chi sia l’omologo di mio padre all’INPS in questo momento).

Il poveretto è compiutamente ‘digitalizzato’ e così i suoi archivi al lavoro, avrebbe quindi in teoria degli strumenti che dovrebbero facilitarne il lavoro.

La grande domanda è “Allora perché le pensioni arrivano con maggiore ritardo e con percorsi burocratici molto più tortuosi rispetto alla preistoria dei faldoni cartacei?”.

 

 

 

Dopo Silvio Berlusconi, i cinque

scenari sul futuro della destra italiana.

Legrandcontinent.eu – Lorenzo Castellani – (13 giugno 2023) – ci dice:

 

Prospettive.

In un’analisi sulla portata storica del berlusconismo, capace di interpretare i sentimenti profondi della società italiana, Lorenzo Castellani ragiona sull’impatto che la morte del Cavaliere avrà sugli equilibri politici della coalizione al governo.

(Lorenzo Castellani)

 

L’ascesa di una formula politica.

Non si può comprendere l’attuale governo di centrodestra senza l’eredità politica e culturale di Silvio Berlusconi, ma non si può capire Berlusconi senza padroneggiare l’eredità della prima repubblica.

Berlusconi nasce come leader politico sulle ceneri di una Repubblica distrutta dalle inchieste per corruzione della magistratura inquirente e dissestata sul fronte della relazione tra partiti e cittadini, dopo aver portato gli italiani dalle macerie della seconda guerra mondiale ad una potenza del G7.

Tuttavia, la cosiddetta prima repubblica, al contrario di quanto spesso si creda, aveva già in nuce in sé un bipolarismo che poi si ingenererà con il referendum sulla legge elettorale del 1993 e con l’intuizione dello stesso Berlusconi della democrazia dell’alternanza:

 da un lato c’era il Partito comunista italiano, interdetto dal governo del paese per ragioni internazionali, e dall’altra tutti gli altri, con la Democrazia cristiana come perno di ogni maggioranza.

Di fatto, ciò che univa davvero il pentapartito era l’anticomunismo, una fortissima base ideologica comune, per quasi cinquant’anni, della maggioranza dei cittadini italiani.

 Inoltre, a inizio anni Novanta, l’Italia era in grande ritardo nell’entrata nel nuovo ciclo politico-economico internazionale caratterizzato da un processo di liberalizzazione e privatizzazione dell’economia che veniva dalle esperienze di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

I partiti della prima Repubblica erano arrivati troppo tardi a capire la necessità di riformare l’economia in senso liberista, si erano mossi tra mille contraddizioni e con un percorso a singhiozzo nei primissimi anni Novanta.

 Infine, le inchieste della magistratura sulla corruzione generalizzata della classe politica ne avevano minato le fondamenta della legittimazione, i vecchi partiti venivano percepiti da gran parte degli italiani come un covo di corruttela, burocrazia e arretratezza.

 Berlusconi, forte di un controllo della cultura popolare attraverso le sue televisioni, ricavò da questa situazione tre grandi intuizioni politiche:

 la leggera coloritura ideologica del liberalismo anglo-americano che aveva dominato gli anni Ottanta e primi anni Novanta;

 il forte richiamo dell’anticomunismo, a cui la maggioranza degli italiani aveva risposto per decenni positivamente, e la debolezza di una sinistra che dopo la caduta del comunismo non era riuscita rapidamente a reinventarsi;

 un populismo antipolitico che sintonizzava l’offerta politica berlusconiana con cittadini stanchi del sistema dei partiti e della politica di professione dopo le inchieste di Tangentopoli.

(Lorenzo Castellani)

Il berlusconismo politico è stato l’intreccio di questi tre fattori e le sue promesse intrecciate di libertà, conservazione e modernizzazione, sincere o meno che fossero, sono state supportate da decine di milioni di italiani.

Il berlusconismo è stato un fattore enorme non soltanto per la polarizzazione che il controverso personaggio di Berlusconi ha generato per oltre un ventennio, ma perché ha mostrato una frattura politica e culturale che oggi, in termini diversi, è ancora molto evidente nel paese.

 Si pensi, ad esempio, al blocco sociale del centrodestra che è rimasto grossomodo lo stesso del 1994, che a guidarlo fosse Berlusconi, Salvini o Meloni: partite iva, piccoli medi-imprenditori, forze dell’ordine e lavoratori del settore privato.

Questo raggruppamento di segmenti sociali, che Berlusconi aveva creato, si è consolidato ed è rimasto intatto per quasi trent’anni, attraversando l’epoca dell’ottimismo liberale e del globalismo, poi dell’euroscetticismo, del rallentamento della globalizzazione, del ritorno del nazionalismo.

Ancora negli ultimi mesi, pur con Forza Italia ridotta a terzo partito della maggioranza, l’influenza di Berlusconi sul governo Meloni è stata considerevole.

 Il programma di governo del centrodestra è ancora incentrato su alcuni capisaldi del berlusconismo: meno tasse per chi produce e lavora, difesa della proprietà immobiliare, estensione della cosiddetta flat tax per le partite iva, pensioni minime più robuste, una forte attenzione alla sicurezza del cittadino, la riforma della giustizia in senso garantista per l’imputato.

 I nomi di peso del governo Meloni sono anch’essi legati a quella storia:

tutti, inclusa la stessa premier, sono stati coinvolti nei precedenti governi Berlusconi, da Fitto a Urso, da Giorgetti a Tajani, da Crosetto a Mantovano.

 

Il berlusconismo è stato un fattore enorme non soltanto per la polarizzazione che il controverso personaggio di Berlusconi ha generato per oltre un ventennio, ma perché ha mostrato una frattura politica e culturale che oggi, in termini diversi, è ancora molto evidente nel paese.

(Lorenzo Castellani)

Per molti versi gran parte della classe politica di massimo livello su cui poggia l’attuale esecutivo si è formata durante l’epoca berlusconiana degli anni novanta e duemila.

 Non solo Forza Italia è essenziale per i numeri parlamentari della maggioranza, ma il programma del berlusconismo – solo parzialmente realizzato in questo trentennio e pur depurato dalle inclinazioni più “liberiste” che non sono più adeguate ai tempi – è ancora largamente prevalente nell’offerta politica del centrodestra e vincente sul piano elettorale.

Un primo bilancio post-mortem del «pacchetto culturale» berlusconiano.

Ciò ci conduce alla questione culturale, che nella storia politica ed editoriale di Berlusconi ha pesato più di quanto si possa credere.

Berlusconi non ebbe soltanto una grande intuizione politica e mezzi enormi per realizzarla, ma anche un controllo della cultura popolare che è ancora oggi risulta fondamentale per la destra politica.

 I programmi edonistici, vanesi e consumistici della sua televisione commerciale gli hanno garantito uno straordinario patrimonio di informazioni e conoscenza sulla mentalità e le preferenze degli italiani che le aziende di Berlusconi stesso hanno contribuito a realizzare.

Ciò ha permesso al centrodestra di entrare in profonda connessione con la cultura popolare, qualcuno direbbe la “bassa cultura”, del Paese e con le inclinazioni e i sentimenti della maggioranza dei cittadini.

Per molti versi gran parte della classe politica di massimo livello su cui poggia l’attuale esecutivo si è formata durante l’epoca berlusconiana degli anni novanta e duemila.

(Lorenzo Castellani)

Un fatto che il Berlusconi politico ha sempre rivendicato: gli italiani sono un popolo liberale, che soffre gli indottrinamenti teorici, leggero e con voglia di divertirsi, concentrato sul lavoro, la casa e la famiglia, attento alla concretezza e alla quotidianità, alla cura del proprio “particulare”, molto più che alle grandi idealità o all’elaborazione di una moralità pubblica.

 Un popolo, in definitiva, che non deve essere corretto né rieducato, come chiedono invece intellettuali e politici di sinistra, ma che va bene così come è.

Nessuno come Berlusconi ha compreso, nel suo tempo, quella parte di Italia che rifiuta ogni attivismo politico, ogni indottrinamento nel linguaggio e nel costume, ogni organizzazione sovrimposta della cultura e vuole semplicemente lavorare, guadagnare, pagare meno tasse ed essere protetta dall’insicurezza, senza fronzoli morali, senza pretese di riformare sé stessa e senza eccessive ambizioni ideologiche, magari sotto la guida di un grande leader capace ed efficiente che si occupa di risolvere i problemi.

Questo era il pacchetto culturale di Berlusconi, questo è il pacchetto culturale che oggi rende ancora così forte e radicata politicamente la destra pur senza che questa abbia il controllo delle “casematte del potere”, come scuole, università, burocrazie e realtà editoriali.

Questo era il pacchetto culturale di Berlusconi.

(Lorenzo Castellani)

Infine, sul piano dell’organizzazione politica, Berlusconi è stato il precursore della creazione del partito personale, privo di una organizzazione degli apparati e simile ad un comitato elettorale con caratteristiche di marketing aziendale.

I suoi alleati di un tempo, la vecchia Lega nord e Alleanza nazionale, erano partiti veri sul piano organizzativo e di partecipazione alla vita politica degli iscritti.

 Oggi, invece, tanto la Lega di Salvini quanto Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni sono dei partiti personali, molto più simili a Forza Italia di quanto non lo siano dei loro partiti antenati.

 La leaderizzazione, imposta dal primo Berlusconi come novità assoluta, è diventata una caratteristica strutturale dei partiti del centrodestra italiano.

Di conseguenza la morte di Berlusconi, che lascia una eredità politica e culturale pesante e decisiva per la maggioranza ancora oggi, apre nuovi scenari per il futuro della politica italiana.

Procediamo ora per punti nell’analizzare l’impatto sul presente e sul futuro generato dalla scomparsa del fondatore del centrodestra.

I cinque futuri del berlusconismo.

1 — IL FUTURO DI FORZA ITALIA.

Questa è la prima questione che la morte di Berlusconi pone, cioè la sopravvivenza del proprio partito.

Si può ipotizzare che nessuno, a livello parlamentare, si sposterà da Forza Italia verso altri partiti proprio perché all’inizio la dipartita del Cavaliere avrà un effetto di collante.

Tuttavia, tra qualche mese, Tajani e gli altri forzisti dovranno affrontare le elezioni europee e non è garantito che una Forza Italia priva di Berlusconi riesca a superare lo sbarramento al 4%.

Se così fosse sarebbe molto difficile, tra un anno, evitare smottamenti.

 Gran parte degli eventuali movimenti parlamentari saranno verso Fratelli d’Italia e la Lega.

Oggi lo scenario più probabile è che la maggioranza non perda pezzi nell’immediato e che ci possa essere, dopo le elezioni europee, un rimescolamento a favore degli altri due partiti di maggioranza.

Forza Italia continuerà probabilmente ad esistere fino alla fine della legislatura, ma la sua decadenza nel consenso e nella consistenza parlamentare appare irreversibile.

Naturalmente uno sfarinamento di Forza Italia, con divisioni in correnti o con separazione di piccoli gruppi di parlamentari, può creare dei problemi al governo Meloni poiché crescerebbe il potere di ricatto di questi gruppuscoli, in sede legislativa, nei confronti dell’esecutivo.

Pertanto il Presidente del Consiglio non ambisce a determinare la scomparsa immediata e lo smembramento parlamentare di Forza Italia poiché questo potrebbe generare instabilità governativa, ma preferirebbe invece che questo affievolimento avvenisse, in modo naturale, tornata dopo tornata elettorale.

2 — IL FUTURO DI LEGA E FRATELLI D’ITALIA.

I vuoti in politica si riempiono e dunque il buco va subito tappato.

 Meloni e Salvini, due politici esperti, lo sanno bene e perciò faranno partire una competizione silenziosa per raccogliere le spoglie elettorali di Silvio Berlusconi e, se ci saranno fratture interne, quelle parlamentari di Forza Italia.

 Meloni è avvantaggiata per due motivi:

il primo è che governa e dunque può offrire posti ed opportunità a chi considera finita la propria esperienza in Forza Italia, il secondo è che controlla il partito più grande e quindi può farsi garante della rielezione dei forzisti che le interessano sul piano del consenso.

 Salvini, molto vicino ad una fazione di Forza Italia che fa capo a Licia Renzulli, può da un lato attrarre parlamentari verso la Lega e dall’altro offrire un programma politico capace di sedurre gli elettori di Berlusconi nel nord, un elettorato che spesso ha oscillato proprio tra la Lega e Forza Italia.

A livello di consensi, infatti, potremmo anche assistere ad una spartizione di voti che vede la Lega primeggiare al nord e Fratelli d’Italia dominare nel centro e nel sud.

Per Meloni, inoltre, la caccia ai restanti voti di Berlusconi ha anche un valore strategico:

 offrire idee liberali e moderate per allargare il bacino elettorale, spostare il partito più al centro, mettere progressivamente a tacere le critiche relative all’estremismo e al post-fascismo.

Una Meloni che riprenda i temi più cari a Berlusconi nei prossimi mesi, come quelli fiscali e pensionistici e magari metta da parte le proposte più identitarie della destra, non è affatto da escludere.

3 — IL FUTURO DEL CENTRO.

Se Renzi e Calenda avessero costituito un partito unico che detenesse una quota di consenso del 7-8% come dopo le ultime elezioni politiche oggi si fregherebbero le mani all’idea di un possibile assalto di successo all’elettorato di Forza Italia.

Purtroppo per loro non è andata così:

separazione dei due leader per attriti personali, nessun partito unico, Renzi fuori dalla politica (almeno formalmente), entrambi i movimenti centristi in declino nei sondaggi.

Dunque, le possibilità per i centristi di ricavare qualcosa dalla scomparsa di Berlusconi sono oggi molto ridotte.

 Forse qualche adesione parlamentare potrà arrivare nei prossimi mesi insieme a qualche decimale di consenso, ma è difficile pensare ad una transizione prevalente degli elettori verso i partitini di centro.

4 — L’IMPATTO SUGLI ASSETTI EUROPEI.

La scomparsa di Berlusconi abbrevia i tempi per un accordo tra Fratelli d’Italia e il Partito Popolare Europeo.

 È molto probabile, infatti, che il peso elettorale di Forza Italia si ridurrà in modo consistente.

Dunque Manfred Weber sarà costretto a capire a breve, pena l’indebolimento dei popolari in Italia, se ci sono effettivi spazi per un accordo con Meloni.

 La Presidente del Consiglio aumenta di conseguenza il proprio peso specifico nelle trattative con il PPE.

 Se i sondaggi per Forza Italia crollassero nei prossimi mesi non è impensabile ipotizzare una lista unica, soltanto per le elezioni europee, tra Forza Italia e Fratelli d’Italia di concerto con i popolari europei.

Al partito fondato da Berlusconi verrebbero garantiti degli eletti e Fratelli d’Italia sarebbe maggiormente legata al PPE.

5 — L’IMPATTO SUL PIANO INTERNAZIONALE.

Non dobbiamo dimenticare che tutta la politica estera del Berlusconi governativo è stata imperniata sulla costruzione di buoni rapporti con Russia e Stati Uniti.

La teoria e la pratica dei forti rapporti commerciali con Mosca è sempre stata propria di Berlusconi, uno dei pochi tratti che il tycoon aveva in comune con Angela Merkel.

Questo schema negli ultimi due anni non era più perseguibile e con pragmatismo il leader di Forza Italia si era piegato alla ragion di Stato.

 Ma Berlusconi è rimasto amico di Putin fino alla fine e, pur rispettando gli impegni politici presi a sostegno dell’Ucraina, ha sempre mostrato una certa insofferenza verso Zelensky.

Meloni perde dunque un alleato filo-russo che negli ultimi tempi si era sbilanciato a favore di Putin più di quanto non abbia fatto il leader della Lega Matteo Salvini.

Di conseguenza la Presidente del Consiglio si libera di un fattore di preoccupazione internazionale e, considerata l’inclinazione atlantica ed europeista di Tajani, può rafforzare la propria linea di politica estera filo-americana.

 

L’influenza della Cina su TikTok:

Usa e Ue provano a difendere democrazia

 e sicurezza nazionale.

Agendadigitale.eu – (17 Feb. 2023) - Gabriele Iuvinale e Nicola Iuvinale-Avvocati – ci dicono:

Pechino vuole una preminenza globale e, per questo, usa tutto l’arsenale a sua disposizione, compreso il social TikTok.

Ma perché se le democrazie occidentali si sentono minacciate, semplicemente non vietano l’app?

 In gioco ci sono libertà di espressione e sicurezza nazionale occorre trovare un equilibrio.

TikTok, conosciuto anche come” Douyin” in Cina, è un social network cinese lanciato nel settembre 2016, inizialmente con il nome “musical.ly”.

 Il controllo e l’influenza di Pechino sulla piattaforma – che ha oggi superato i due miliardi di utenti in tutto il mondo – sollevano preoccupazioni fondamentali per la sicurezza nazionale dei paesi democratici.

Approfondiamo allora le ragioni dei timori manifestati dalle democrazie occidentali nei confronti di “TikTok” e facciamo il punto sulle contromosse di Ue e Usa.

I rapporti tra “TikTok” e Pechino

Il social è di proprietà di “ByteDance”, una società tecnologica globale con sede a Pechino che ha una significativa presenza commerciale in Cina.

I legami di “ByteDance” con Pechino la rendono suscettibile al controllo e all’influenza del “Partito Comunista Cinese” (PCC) e del “governo cinese” attraverso diversi meccanismi “coattivi” anche “formali”.

 In primo luogo, la legge cinese sull’intelligence nazionale richiede a tutti i cittadini e tutte le organizzazioni, inclusa un’azienda come “ByteDance” e i suoi dipendenti, di partecipare (obbligatoriamente) ad attività di intelligence nazionali ed estere.

 In secondo luogo, il governo cinese detiene una quota di proprietà nel “Beijing Douyin Information Service” la sussidiaria di “ByteDance” e affiliata di “TikTok” che gestisce le attività cinesi di” ByteDance”.

Sebbene siano noti pochi dettagli su questo investimento, “Weibo” (la versione cinese di Twitter) ha rivelato agli Stati Uniti un accordo simile che conferisce al governo cinese “diritti di veto su determinate questioni relative a” decisioni sui contenuti.

Un terzo punto di pressione è la legge cinese sul controllo delle esportazioni (ECL), ] che copre anche la tecnologia di raccomandazione video di TikTok e quindi consente al governo di Pechino il potere di vietare o limitare il trasferimento della tecnologia al di fuori della Cina.

Il controllo e l’influenza del PCC su “ByteDance” sollevano preoccupazioni fondamentali per la sicurezza nazionale dei paesi democratici su TikTok.

La prima è che l’app potrebbe essere, anzi già lo è, un meccanismo del PCC per raccogliere le informazioni personali degli utenti del social media e usarle contro di loro.

La seconda è che il PCC potrebbe utilizzare TikTok per campagne di censura, disinformazione e propaganda contro le elezioni democratiche di altri paesi, altre parti fondamentali della società e delle istituzioni.

Inoltre, la legge sulla Sicurezza dei Dati cinese (DSL) del 2021 mostra la visione di Xi Jinping della “civiltà digitale”, un mondo in cui gli spazi digitali creano una “collettività dal destino comune” con le caratteristiche del PCC.

Attraverso la radicale trasformazione delle pratiche di gestione interna dei dati, Xi intensificherà la supervisione sociale ed espanderà l’influenza globale della Cina.

 

La DSL, entrata in vigore il 1° settembre 2021, offre un quadro giuridico che articola questa visione, ed è una costellazione di principi per la regolamentazione dei dati e delle industrie basate sui dati.

La legge ha ricevuto molta attenzione in quanto è un veicolo sia per la crescita interna, che per l’espansione dell’influenza globale dell’industria tecnologica cinese.

 Oltre alla sua ampia definizione di “dati” e di “infrastruttura di informazioni critiche”, la DSL regola la “governance globale dei dati extraterritoriali”;

 come “certi sistemi tecnologici [che] consentono nuove forme di territorializzazione e territorialità”.

 “Man mano che le aziende cinesi (basate sull’acquisizione e l’analisi sui dati) crescono e il mercato cinese rimane al centro delle aspirazioni di crescita delle multinazionali che fanno affari in Cina, l’influenza della DSL crescerà di pari passo”.

Oltre alle limitazioni all’esportazione dei dati relative alle richieste di governi esteri, l’articolo 24 del DSL afferma la necessità di controlli sull’esportazione dei dati per la sicurezza nazionale.

La legge “sfrutta la giustificazione della sicurezza nazionale per affermare un’ampia autorità su tutte le pratiche di raccolta dei dati, incluso il processo di revisione della sicurezza nazionale.

 Riafferma i principi della protezione dei consumatori, dell’accesso del governo ai dati e dell’applicazione extraterritoriale della sovranità informatica della Cina”.

 Si coglie immediatamente una fondamentale implicazione politica e giuridica:

la legge genera condizioni per applicazioni internazionali complesse, senza un’infrastruttura di regolazione internazionale.

“Attraverso un reticolo di leggi e regolamenti recenti, il presidente cinese Xi Jinping ha lavorato duramente per rendere il Partito Comunista Cinese il broker di dati più potente del mondo.

Xi realizza questo isolando i dati cinesi dal mondo, esercitando un nuovo potere extraterritoriale sui flussi di dati globali e mettendo le società straniere che operano in Cina, e viceversa, sotto un vincolo legale, il tutto assorbendo i dati di altri Paesi con mezzi leciti e illeciti.

 Il vasto oceano di dati, proprio come le risorse petrolifere durante l’industrializzazione, contiene un’immensa potenza produttiva e opportunità” – ha affermato Xi.

“Chiunque controlli le tecnologie dei big data controllerà le risorse per lo sviluppo e avrà il sopravvento”.

 

Bisogna considerare che la Cina è ricca, industrializzata, controlla le più importanti catene globali di approvvigionamento e crea dipendenze.

 Essa è fortemente orientata alla tecnologia, con il presidente Xi Jinping che persegue una leadership globale nel settore.

 L’interferenza del PCC anche nell’economia internazionale non è facilmente individuabile ed il Partito continua ad utilizzare la propria potenza per costringere aziende e Stati a fare cose che non sceglierebbero di fare in assenza di una coartazione.

Pechino vuole una preminenza globale e, per questo, utilizza tutto l’arsenale a sua disposizione:

operazioni di influenza, cooptazione economica, politica, diplomazia, forza militare.

Metodologie e strumenti che spesso si pongono anche al di fuori della legalità internazionale.

Pechino è una grande potenza revisionista che per decenni ha accumulato ricchezze, sviluppato capacità militari di livello mondiale e diffuso la sua influenza in tutto il globo con l’obiettivo a lungo termine di riscrivere l’ordine internazionale.

La posizione degli Stati Uniti.

Il direttore dell’FBI “Chris Wray” ha già avvertito a fine 2022 che TikTok è controllata da un governo, quello cinese, che “non condivide i nostri valori” e potrebbe “usarla per operazioni di influenza”.

 La principale fonte di allarme è il fatto che il governo cinese detenga la chiave dell’algoritmo di raccomandazione dell’app, ha detto” Wray” in un intervento alla “Gerald R. Ford School of Public Policy” dell’Università del Michigan.

Questo controllo “consente loro di manipolare il contenuto e, se lo desiderano, di utilizzarlo per operazioni di influenza”.

 Il governo cinese mantiene anche la capacità di raccogliere i dati degli utenti, ha osservato.

 “Tutte queste cose sono nelle mani di un governo che non condivide i nostri valori e che ha una missione che è molto in contrasto con ciò che è nel migliore interesse degli Stati Uniti.

Questo dovrebbe preoccuparci”.

Già in passato,” TikTok “divenne rapidamente l’obiettivo del governo federale statunitense, con l’amministrazione Trump che minacciò di vietare l’app.

Le preoccupazioni includevano i presunti legami di “ByteDance” con il governo e l’esercito cinese (PLA), insieme alle critiche sulle violazioni della privacy dei bambini da parte dell’azienda.

 

Nel settembre 2022 l’amministratore delegato di TikTok, “Vanessa Pappas”, ha testimoniato in un’udienza al Senato statunitense sostenendo che la società non memorizza i dati degli utenti statunitensi in Cina e non li condivide con “ByteDance”.

 “I funzionari del governo cinese non hanno accesso ad esso”, ha detto.

“Oracle” dal 2022 ha anche iniziato ad esaminare gli algoritmi e i modelli di moderazione dei contenuti di “TikTo”k per assicurarsi che non vengano manipolati dalle autorità cinesi.

Anche a livello europeo è stata chiesta nel 2020, dal garante italiano per la privacy, una task force contro i rischi del social cinese, perché “è importante che i cittadini europei sappiano come vengano usati i dati caricati e se effettivamente vengano controllati dal governo centrale cinese”.

In India, il 29 giugno 2020, il Ministero dell’elettronica e della tecnologia dell’informazione ha bandito “TikTok” insieme ad altre “58 app cinesi” perché rappresentano una minaccia alla sovranità e alla sicurezza nazionale dopo lo scontro militare tra truppe indiane e cinesi in un territorio conteso lungo il confine condiviso in Ladakh.

Il governo indiano ha affermato che la decisione di vietare le app è stata quella di proteggere i dati e la privacy dei suoi 1,3 miliardi di cittadini e di porre fine alla tecnologia che “rubava e trasmetteva di nascosto i dati degli utenti in modo non autorizzato a server al di fuori dell’India”.

Queste preoccupazioni e i rischi associati identificano chiaramente “TikTok” come uno strumento per le operazioni di informazione controllate dal PCC , ma vietarla non è un’opzione facile.

La visione della prevalenza della sicurezza nazionale sulla libertà di parola potrebbe rendere, anche prima “facie”, il suo “divieto generalizzato” un risultato ragionevolmente semplice e accettabile.

Tuttavia, il fattore fondamentale che complica il quadro è che milioni di persone negli Stati Uniti e in Europa utilizzano l’app “TikTok “come piattaforma di espressione;

la libertà di espressione e di parola sono protette dal Primo Emendamento statunitense e da tutte le costituzioni democratiche dei paesi dell’UE.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nelle ultime settimane, il Congresso è prevalso sull’esecutivo nel dibattito su “TikTok” approvando una legislazione che vieta l’app dai dispositivi del governo federale.

Un altro disegno di legge bipartisan, noto come “ANTI-SOCIAL CCP Act”,  se approvato, andrebbe molto oltre, vietando completamente a “TikTok” di operare in tutti gli Stati Uniti.

La proposta, avanzata a dicembre 2022 dal senatore” Marco Rubio”, prevederebbe di bloccare anche tutte le transazioni da qualsiasi società di social media all’interno o sotto l’influenza di Cina e Russia.

 La commissione per gli affari esteri della Camera prevede di tenere un voto già nel mese di febbraio 2023.

 La data, pianificata dal rappresentante del presidente del panel “Michael McCaul”, mirerebbe a fornire alla Casa Bianca gli “strumenti legali” per vietare “TikTok” per motivi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

 Un divieto dell’app, dovrebbe affrontare ostacoli significativi al Congresso per passare e richiederebbe almeno 60 voti al Senato.

 Con queste azioni, sostiene “Pablo Chavez” (Adjunct Senior Fellow presso il Center for a New American Security’s Technology e il National Security Program), che il Congresso si sta assumendo maggiori responsabilità nel decidere il futuro del servizio di condivisione video è molto positivo.

 Dato l’impatto potenzialmente enorme del fatto che l’app possa continuare a funzionare negli Stati Uniti, l’impegno e l’azione del Congresso in questa materia sono benvenuti e necessari per aiutare a guidare, in un momento critico, la direzione della strategia tecnologica statunitense, ancora in evoluzione, verso la Cina”.

Dalla fine del 2019, “TikTok”  è stata oggetto di un’indagine segreta sulla sicurezza nazionale condotta dal Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti. Conosciuto come lo “CFIUS”,  il comitato del ramo esecutivo esamina le implicazioni per la sicurezza nazionale delle transazioni estere con entità statunitensi e raccomanda come affrontare tali preoccupazioni al presidente.

Ad esempio, nel dicembre 2016, il presidente Obama, agendo su raccomandazione dello” CFIUS”, vietò ad una società di proprietà cinese l’acquisto di un produttore statunitense di tecnologia utilizzata nei sistemi d’arma americani.

Alcuni hanno criticato il” CFIUS” per aver impiegato più di tre anni per prendere una decisione su “TikTok”.

 Tuttavia, prosegue “Pablo Chavez”, “TikTok solleva domande chiave su come il governo degli Stati Uniti dovrebbe difendere l’integrità della società statunitense fondamentalmente aperta, democratica e vincolata alle regole, soprattutto in questo periodo di crescente competizione con il Partito Comunista Cinese.

Affrontare queste domande richiede un approccio più olistico agli interessi nazionali che vada oltre l’ambito dell’autorità e del mandato dello CFIUS”.

Vi sono crescenti motivi di preoccupazione per la massiccia presenza dei cittadini americani (molti dei quali minorenni) sul social media TikTok e per i suoi legami con Pechino, ma vietarlo non è un’opzione facile.

 Il governo degli Stati Uniti non ha l’autorità per vietare la parola.

I post su TikTok sono protetti dal “Primo Emendamento” poiché sono una forma di discorso (libertà di parola e di espressione sono principi basilari delle moderne democrazie liberali).

Ciò significa che non possono essere banditi più di quanto a una persona che desidera accedere alla propaganda russa può essere vietato leggere la Pravda o RT.

Questo è un motivo fondamentale per cui il Congresso dovrebbe lottare per il destino di TikTok” invece di lasciare la questione esclusivamente al “CFIUS”, che è progettato per concentrarsi solo sull’identificazione dei problemi di sicurezza, sulla valutazione dei rischi e sulla proposta di soluzioni per mitigare o eliminare tali rischi.

Al contrario, il Congresso ha l’autorità e la responsabilità di soppesare (cd. ponderazione degli interessi) le implicazioni del Primo Emendamento, sia sostanziali che simboliche, riguardo la chiusura di una piattaforma come TikTok.

Infatti, nei casi di emergenza nazionale, quando un presidente ha i poteri più ampi e forti, il Congresso si riserva il diritto di limitare la libertà di espressione e gli nega tale autorità.

 Nello specifico,” l’International Emergency Economic Powers Act” (IEEPA) conferisce al presidente ampi poteri di emergenza per affrontare le minacce straniere, ma nega all’esecutivo l’autorità di vietare le comunicazioni personali e l’importazione o l’esportazione di qualsiasi tipo di informazione o materiale informativo, indipendentemente dal mezzo, durante l’emergenza.

 

Quindi, gli Stati Uniti potrebbero utilizzare l’”International Economic Emergency Powers Act” (IEEPA), che concede al presidente un’ampia discrezionalità sulle entità straniere, ma l’IEEPA non gli conferisce l’autorità di sospendere la costituzione.

Precisa “Chavez” che l’”ANTI-SOCIAL CCP Act” eliminerebbe i guardrail del Primo Emendamento dell’IEEPA e indicherebbe semplicemente al presidente di vietare TikTok.

 Questa è la corretta via da seguire per la ponderazione degli interessi coinvolti. Infatti, “il Congresso dovrebbe considerare esplicitamente la libertà di espressione e altri valori americani fondamentali come parte dell’analisi della sicurezza nazionale di TikTok e di qualsiasi legislazione correlata che propone.

 Ciò evidenzierebbe che una delle risorse più preziose degli Stati Uniti è l’adesione a questi valori, un elemento cruciale dell’influenza nazionale degli Stati Uniti e della credibilità internazionale”.

Prendere in considerazione le conseguenze della libertà di espressione con un divieto generalizzato di TikTok non porta necessariamente a mantenere lo status quo o a lasciare che TikTok continui a operare con restrizioni speciali.

 Si potrebbero anche correttamente indicare servizi sostanzialmente simili come valide alternative per la libertà di espressione.

In tal senso, il divieto dell’India su TikTok potrebbe fornire dati utili.

 

Dal 2020, il governo indiano ha vietato più di 300 app di proprietà o affiliate a società cinesi ai sensi dell’”Information Technology Act del paese”.

 Sono state sollevate preoccupazioni sia sul processo dei divieti, che è stato opaco, sia sul loro impatto sulla libertà di espressione.

 Tuttavia, il record finora indica che, nonostante le preoccupazioni che il divieto di TikTok avrebbe ridotto il diritto di espressione online in India, diverse app simili a TikTok indiane hanno iniziato a riempire il vuoto.

Tra questi c’è “Moj di ShareChat”, che ha circa 100 milioni di creatori e oltre 300 milioni di utenti, 180 milioni in più rispetto alla base di utenti in India di TikTok poco prima che fosse vietata.

Anche le app video straniere, tra cui “YouTube” e “Instagram”, hanno ampliato la loro presenza sulla scia del divieto di TikTok.

Il Congresso potrebbe anche decidere per una via di mezzo, che consentirebbe a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti ma con restrizioni significative.

In questo scenario intermedio, il governo supervisionerebbe il sistema di raccomandazione video di TikTok, la definizione e l’esecuzione delle sue politiche di moderazione dei contenuti.

Questo potere verrebbe probabilmente esercitato tramite una terza parte incaricata di supervisionare, controllare, riferire e forse modificare le politiche di regolamentazione del codice e dei contenuti di TikTok.

Il “social ha dichiarato che si sta preparando per una futura regolamentazione intermedia mettendo in atto controlli in virtù di una partnership commerciale con “Oracle Corporation”.

 In base all’accordo, “Oracle” sarà responsabile di garantire che l’algoritmo di TikTok sia addestrato solo sull’infrastruttura Oracle, “garantirà un’adeguata verifica della sicurezza di terze parti e la convalida dell’algoritmo” e, insieme a revisori e il monitoraggio di terze parti, avranno anche accesso al codice sorgente di TikTok.

 “Oracle” avrà anche il compito di rivedere le politiche e le pratiche di moderazione dei contenuti di TikTok, il che comporterebbe la valutazione dei sistemi di moderazione dei contenuti automatizzati del social e dei team di revisione per garantire che entrambi agiscano in conformità con le linee guida della community di TikTok e altre norme sui contenuti e che non svengano manipolate dal PCC.

 

Sebbene questi controlli possano rivelarsi efficaci, il lavoro di “Oracle” richiederebbe la supervisione del governo degli Stati Uniti per garantire che le preoccupazioni su TikTok siano adeguatamente affrontate.

“Mettere il governo nella posizione di influenzare le richieste di moderazione dei contenuti – alcune delle quali potrebbero in definitiva avere poco o nulla a che fare con le operazioni di influenza del PCC – potrebbe sollevare ragionevoli preoccupazioni sul Primo Emendamento e portare alla conclusione che il disinvestimento o il divieto siano un approccio più sicuro.

 Inoltre, i membri del Congresso potrebbero stabilire che l’impegno del governo degli Stati Uniti con le politiche e le pratiche sui contenuti di TikTok avrebbe effettivamente fissato il livello per gli sforzi di moderazione dei contenuti anche di altre società di media, costituendo così un modo sottile e preoccupante di regolare in modo generale la libertà di espressione, al di là di TikTok”.

Come suggerisce l’analisi di cui sopra, queste discussioni e decisioni possono avvenire in gran parte all’aperto piuttosto che in contesti riservati, il che è particolarmente saliente quando una decisione riguarda un servizio così vicino e sempre più radicato nella vita quotidiana di milioni di americani.

“TikTok” ha circa 100 milioni di utenti negli Stati Uniti:

 pressappoco una persona su tre sopra i 13 anni, l’età minima negli Stati Uniti per iscriversi ai servizi di social media.

I membri del Congresso sono nella posizione migliore per comprendere l’impatto di un divieto o restrizione di TikTok sulla vita quotidiana dei loro elettori e spiegare loro tale scelta.

 “Lasciare la decisione su TikTok esclusivamente al CFIUS significa anche perdere un’opportunità per il Congresso di discutere e agire su questioni di politica digitale in un contesto specifico e concreto.

 Con la legislazione proposta, l’ANTI-SOCIAL CCP Act fungerebbe come catalizzatore;

il Congresso potrebbe esaminare in modo più ampio i modelli legislativi e normativi esistenti che potrebbero essere applicati ai servizi online soggetti alla giurisdizione, al controllo o all’influenza del PCC.

Qualunque cosa si pensi dei risultati politici dell’ANTI-SOCIAL CCP Act e di una legislazione simile, il disegno di legge sottolinea la responsabilità e l’opportunità del Congresso di continuare a impegnarsi sulla questione TikTok.

Il social non è un punto debole sullo schermo radar, ma piuttosto una pietra miliare su quello che è un percorso sempre più chiaro ma insidioso verso uno scisma tecnologico tra Stati Uniti e Cina e una competizione tecnologica a lungo termine con Pechino.

 Con questo in mente, il Congresso ha l’opportunità di intraprendere un’azione diretta su una questione che avrà un impatto su centinaia di milioni di americani, passare ad un approccio più olistico alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti nell’era digitale e impegnarsi in un processo che metta in luce e sfrutti il governo aperto e democratico che gli Stati Uniti rappresentano sulla scena globale”.

Ad esempio, suggerisce “Chavez”, se il Congresso statunitense consentisse a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti (o se la vietasse, ma volesse mettere in atto regole di trasparenza algoritmica per altri servizi sensibili al PCC), potrebbe attingere al Digital Services Act (DSA) dell’Unione europea come punto di partenza per la trasparenza algoritmica e le regole di responsabilità per TikTok e servizi simili.

La posizione dell’UE e dell’Italia.

L’Unione Europea ha un quadro normativo armonioso apprestato attraverso uno strumento specifico: il “Digital Services Act”.

 La legge sui servizi digitali migliora i meccanismi per la rimozione dei contenuti illegali e per l’effettiva protezione dei diritti fondamentali degli utenti online, compresa la libertà di parola.

È un insieme di norme applicabili in tutta l’UE che istituiscono meccanismi che consentono alla Commissione e agli Stati membri di coordinare le loro azioni e garantire un’adeguata attuazione del quadro in tutta l’UE.

Digital Services Act è stato approvato il 5 luglio 2022 e costringerà le aziende tecnologiche ad assumersi maggiori responsabilità per i contenuti che appaiono sulle loro piattaforme.

 I nuovi obblighi includono la rimozione più rapida di contenuti e merci illegali, la spiegazione a utenti e ricercatori del funzionamento dei loro algoritmi e l’adozione di misure più rigorose sulla diffusione della disinformazione.

 Le aziende rischiano multe fino al 6% del loro fatturato annuo per non conformità. Le grandi piattaforme online come Facebook, ecc. dovranno rendere trasparente agli utenti il funzionamento dei loro algoritmi di raccomandazione.

Agli utenti dovrebbe anche essere offerto un sistema di raccomandazione “non basato sulla profilazione”.

I servizi di hosting e le piattaforme online dovranno spiegare chiaramente perché hanno rimosso i contenuti illegali e offrire agli utenti la possibilità di presentare ricorso contro tali rimozioni.

Le più grandi piattaforme online dovranno fornire dati chiave ai ricercatori per “fornire maggiori informazioni su come si evolvono i rischi online”.

Queste dovranno inoltre introdurre nuove strategie per affrontare la disinformazione durante le crisi.

Dopo l’entrata in vigore della legge sui servizi digitali il 16 novembre 2022, le piattaforme online avranno 3 mesi di tempo per comunicare il numero di utenti finali attivi (17 febbraio 2023) sui loro siti web.

Gli Stati membri dell’UE dovranno conferire poteri ai loro coordinatori dei servizi digitali entro il 17 febbraio 2024, data generale di entrata in applicazione del DSA.

Per quanto riguarda la governance, il DSA ha previsto nuove figure quali il “Compliance officer,” designato dalle “very large online platforms” con il compito di monitorare l’osservanza del regolamento da parte delle aziende;

il “Digital Services Coordinator”, nuova autorità nazionale indipendente che dovrà vigilare sull’applicazione del regolamento con obblighi di trasparenza, imparzialità, tempestività di azione e report annuale sulle proprie attività.

Come previsto dall’art.38, ha il compito di garantire il coordinamento nazionale sulle norme, nonché di gestire i reclami contro i provider e di indagare sulla presenza di illeciti con potere di ispezione.

Accertato l’illecito, ha il compito di imporre la cessazione della violazione con sanzioni e penalità di mora, fino a chiedere alle autorità giudiziarie di Stato la restrizione temporanea dell’accesso dei destinatari al servizio interessato.

 I coordinatori nazionali dei servizi digitali di tutti i Stati membri compongono il comitato europeo per i servizi digitali, presieduto dalla Commissione Europea, che supporta il coordinamento interstatale e la vigilanza sulle grandi piattaforme.

Tuttavia, il DSA non definisce quale contenuto sia illegale e lo lascia stabilire ai singoli paesi.

In pratica è un contenitore ancora da riempire e, questo, sarà un passaggio fondamentale anche per la tutela della sicurezza nazionale dei singoli Stati membri dell’Unione.

Cosa dovrebbero fare gli Stati

Più in generale, cosa dovrebbero fare gli Stati, Italia compresa, con quelle che potrebbero essere viste come aziende con legami cinesi?

Come contemperare la libertà di espressione, aperta e inclusiva, con l’indefettibile tutela della sicurezza nazionale?

 In più, al di là della Cina, l’Unione Europea e gli Stati membri dovrebbero esplorare l’impatto della questione TikTok sugli sforzi dei governi e della Commissione Europea per proteggere i flussi di dati transfrontalieri tentando di contemperarli con “forme restrittive” di sovranità digitale in varie regioni del mondo.

Ricordiamo che, ad esempio, in Cina sono vietati tutti i social media “occidentali” (Twitter, Facebook, WhatsApp, nonché i servizi Google) e sostituiti con altrettanti cinesi, sotto il controllo del PCC.

Queste domande, come quelle relative alla tutela della libertà di espressione, di parola, costituzionalmente tutelate – profondamente legate all’impegno dell’Unione Europea per un Internet aperto, libero, globale, interoperabile, affidabile e sicuro che rafforza i principi democratici, i diritti umani e le libertà fondamentali – non possono esularsi dall’ambito di una profonda analisi della sicurezza nazionale.

Ciò è di fondamentale importanza poiché la rivalità dell’Occidente con la Cina è diventata sempre più una competizione di potere e di contrasti che mettono alla prova società e sistemi di governo aperti, democratici e vincolati da regole, contro il loro opposto totalitario che cerca di sopprimerli.

Ciò che l’Italia e gli Stati membri dell’Unione Europea possono fare è prendere la questione TikTok come un’opportunità di alto profilo per evolvere la revisione della sicurezza nazionale delle transazioni che coinvolgono la tecnologia cinese e allinearla più strettamente ai principi di una democrazia liberale che tuteli maggiormente sia i cittadini che lo stato di diritto.

Man mano che la revisione della sicurezza nazionale delle transazioni relative alla tecnologia che coinvolgono la Cina diventa più comune, il Parlamento italiano potrebbe ampliare esplicitamente l’ambito delle valutazioni della sicurezza nazionale per includere variabili importanti, come il potenziale impatto sui diritti fondamentali e l’effetto sulla proiezione del soft power nazionale.

L’impatto della guerra in Ucraina.

Ciò, presuppone la chiara presa d’atto che il 24 febbraio 2022 il mondo è cambiato e siamo entrati in una nuova era.

La guerra aggressiva e genocida lanciata nel febbraio 2022 dalla Russia contro l’Ucraina ci ha risvegliato alla dura e cruda realtà che le aspettative, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, alla fine della Guerra Fredda nel 1991 sono state una pia illusione.

È evidente che il fascino universale dell’idea democratica non ha preso forma, spontaneamente, nel “Nuovo Ordine Mondiale”, nato alla fine della seconda guerra mondiale, che avrebbe dovuto garantire una pax globale e duratura.

 Oggi, con la Cina, ci troviamo di fronte a un avversario determinato, intento a creare un impero che gli sia, alla fine, grato e riconosca Xi come il grande architetto del “sogno cinese del grande ringiovanimento della nazione” e di “una comunità globale dal destino comune per l’umanità”.

Sebbene sia la Cina che la Russia abbiano rafforzato i loro arsenali nucleari negli ultimi anni, esse hanno anche pianificato e attuato le loro strategie attraverso una “Liminal Warfare”.

Questa “guerra liminale” riguarda la cosiddetta “manipolazione della soglia”.

Il modo di fare guerra cinese riguarda secondo l’esperto “David Kilcullen”, manovrare in uno spazio che è al di fuori della nostra definizione di conflitto.

La Cina e la guerra totale.

I cinesi abbracciano l’escalation orizzontale ampliando lo spettro della competizione e del confronto al punto che il campo di battaglia è ovunque e la guerra è totale.

In questo senso, il controllo di mezzi tecnologici, social media, sistemi 5G, acquisti immobiliari strategici, ponti, autostrade e porti di tutto il mondo, il controllo di alcuni tipi di investimenti nella catena di approvvigionamento e nelle infrastrutture critiche, sono tutti descritti nel libro “Unrestricted Warfare” del 1999 (scritto dai colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui) come operazioni di guerra “transmilitari” e “non militari”.

Gli autori di quel documento parlano di strategie di combinazione che mescolano mezzi letali e non letali, militari e non militari (comprese reti criminali o organizzazioni civili) mettendo in gioco tutta una varietà di competizioni, combinandole in un’architettura senza soluzione di continuità.

La “Liminal Warfare” di Kilcullen” implica l’integrazione di politiche economiche, legali, militari, di intelligence e cyber in un unico mix, senza soluzione di continuità di attività e di manovra, incentrate sulla definizione delle operazioni con l’avversario prima del lancio di un’operazione militare.

È quella cosiddetta “zona grigia” – nella quale rientrano anche le operazioni che il PCC conduce attraverso società globali come quella che possiede TikTok – che oggi deve essere studiata, codificata e i relativi fatti sanzionati anche al fine di tutelare la nostra sicurezza nazionale.

 

La posizione Ue e Nato verso la Cina.

Ricordiamo la posizione presa dall’Unione Europea e dalla Nato nei confronti della Cina.

Lo scontro si è fatto durissimo nel 2021 tra Europa, Stati Uniti e Cina, con un botta e risposta di sanzioni e contromisure che non si vedeva da tre decenni.

 Il Parlamento Europeo ha anche bloccato il 20 maggio 2021 la ratifica del nuovo accordo sugli investimenti con la Cina.

Inoltre, il 16 settembre 2021, ha adottato un’importante “Risoluzione sulla “Nuova strategia UE-Cina”, notificata anche al governo della Repubblica Popolare Cinese.

È un documento politico, programmatico, economico e geopolitico, che traccia la rotta dell’Unione Europea verso una rinnovata unione transatlantica. 

La NATO, nella sua revisione del concetto strategico sulla Cina del giugno 2022, ha detto:

 “Le ambizioni dichiarate (RPC) e le politiche coercitive sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori”.

 “L’approfondimento della partnership strategica tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa… è in contrasto con i nostri valori e interessi”.

Inoltre, il legislatore dovrebbe prendere in considerazione l’unificazione della revisione delle transazioni tecnologiche cinesi (e forse di altri paesi impegnativi) sotto un unico organo istituzionale per garantire coerenza, creare efficienze e accrescere e mantenere le competenze sulle questioni di sicurezza nazionale legate alla tecnologia.

Evitare processi e ambiti di autorità differenti, nel tempo rischiano di produrre risultati incoerenti e persino contraddittori tra l’esecutivo (con provvedimenti d’urgenza) e la magistratura. In tal senso, evitare esiti divergenti sarà particolarmente importante poiché l’attuale tensione USA-UE-Cina non è un momento acuto che interessa solo poche transazioni ma, piuttosto, un passaggio secolare a una relazione più competitiva e ristretta tra i paesi, che avrà un impatto maggiore sulle transazioni commerciali. Inoltre, la trasparenza deve generare regole di base, come linee guida ufficiali e licenze generali, su come le aziende possono procedere con determinate transazioni tecnologiche in modo da affrontare le preoccupazioni di sicurezza nazionale del governo italiano.

Come detto, poiché il DSA non definisce quale contenuto sia illegale, il passaggio fondamentale sarà la definizione, da parte dell’Italia, delle condotte ritenute rilevanti attraverso una specifica legislazione.

 

L’adozione di una legislazione (nazionale o europea) simile alla” legge FARA” degli Usa.

In tal senso, andrebbe valutata, con una certa urgenza, anche l’adozione di una legislazione (nazionale o europea) simile alla legge FARA statunitense.

Il Foreign Agents Registration Act (FARA) è una legge degli Stati Uniti che impone obblighi di divulgazione pubblica alle persone che rappresentano interessi stranieri.

 Richiede che gli “agenti stranieri” – definiti come individui o entità impegnati in attività di lobbismo interno o advocacy per governi, organizzazioni o persone straniere (“presidi stranieri”) – debbano registrarsi presso il Dipartimento di Giustizia (DOJ) e rivelare la loro relazione, le attività e la relativa compensazione finanziaria.

FARA non proibisce attività di lobbying per interessi stranieri, né vieta o limita alcuna attività specifica.

Il suo scopo esplicito è promuovere la trasparenza rispetto all’influenza straniera sull’opinione pubblica, la politica e le leggi americane;

a tal fine, il “DOJ” è tenuto a rendere tali informazioni pubblicamente disponibili.

La FARA è amministrata e applicata dall’Unità FARA della Sezione di controspionaggio e controllo delle esportazioni (CES) all’interno della Divisione per la sicurezza nazionale (NSD) del DOJ.

 

Classificare e codificare le operazioni di influenza di uno stato estero che hanno finalità di spionaggio, furto di identità, di tecnologia e, soprattutto, di “eversione” sarà inevitabile e indispensabile per la sicurezza nazionale, anch’essa tutelata costituzionalmente.

Parimenti indispensabile sarà la loro codificazione in chiave sanzionatoria;

ad esempio, una relazione malevola tra TikTok, la società che gestisce il social e il PCC (in pratica uno strumento in mano al governo cinese) se finalizzata allo spionaggio, al furto di identità, alla propaganda ecc. potrebbe essere normata e sanzionata anche amministrativamente attraverso un divieto assoluto dell’uso del social in Italia, come nell’Unione Europea.

Il punto 29) del DSA stabilisce infatti che

“a seconda dell’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro e del settore del diritto in questione, le autorità giudiziarie o amministrative nazionali possono ordinare ai prestatori di servizi intermediari di contrastare determinati contenuti illegali specifici o di fornire determinate informazioni specifiche.

Le leggi nazionali in base alle quali tali ordini sono emessi divergono considerevolmente e gli ordini trattano in misura sempre maggiore situazioni transfrontaliere.

 Al fine di garantire che tali ordini possano essere rispettati in modo efficace ed efficiente, consentendo alle autorità pubbliche interessate di svolgere i loro compiti ed evitando che i prestatori siano soggetti a oneri sproporzionati, senza che ciò comporti un pregiudizio indebito ai diritti e agli interessi legittimi di terzi, è necessario stabilire determinate condizioni che tali ordini dovrebbero soddisfare nonché determinate prescrizioni complementari relative al trattamento dei suddetti ordini”.

Il ruolo di intelligence e open source.

L’intelligence e l’open source saranno determinanti.

 

La capacità di acquisire controllare, elaborare, diffondere e proteggere le informazioni è oggi fondamentale.

 Le agenzie di spionaggio sono entrate nell’era dell’open source intelligence, con le aziende private e think tank.

Enormi quantità di dati stanno rivoluzionando il lavoro dell’intelligence americana e non solo.

 Lo scopo?

 Raccogliere e analizzare informazioni globali per aiutare i responsabili politici a comprendere il presente e anticipare il futuro.

Noi?

Siamo le loro risorse senza saperlo. Tutte queste informazioni pubblicamente disponibili compongono “l’open source intelligence” che sta diventando sempre più ricco e prezioso.

 Garantire un vantaggio in questo nuovo mondo significa che le agenzie di intelligence devono trovare nuovi modi per lavorare con le aziende del settore privato e università, per combattere le minacce online e sfruttare i progressi tecnologici commerciali.

Abbiamo già visto nella storia enormi progressi tecnologici. Ma non abbiamo mai visto la convergenza di così tante nuove tecnologie cambiare così velocemente. Questo momento storico pone una sfida per le agenzie di intelligence americane (e non solo) in tre contesti profondi.

In primo luogo, le innovazioni tecnologiche stanno trasformando il panorama delle minacce generando nuove incertezze e dando potere a nuovi avversari.

Per la maggior parte della storia, il potere e la geografia hanno fornito sicurezza.

Il forte minacciava il debole, non il contrario.

Gli oceani proteggevano i paesi l’uno dall’altro e la distanza contava.

 Oggi non più. In quest’epoca, gli Stati Uniti e tutti gli altri, sono allo stesso tempo potenti e vulnerabili ad un numero elevatissimo di minacce, che si muovono tutti alla velocità delle reti.

 Gigabit.

Il potere dei dati.

La seconda sfida dell’era digitale riguarda i dati; i big data.

 L’intelligenza è un’impresa che crea conoscenza.

Agenzie come la CIA raccolgono e analizzano informazioni per aiutare i responsabili politici a comprendere il presente e anticipare il futuro.

 L’enorme volume di dati online oggi è così straordinario che è anche difficile da comprendere:

 nel 2019, gli utenti di Internet hanno pubblicato 500 milioni di tweet, inviato 294 miliardi di e-mail e pubblicato 350 milioni di foto su Facebook ogni giorno.

 Alcuni stimano che la quantità di informazioni sulla terra raddoppi ogni due anni. Questo tipo di informazioni pubblicamente disponibili è chiamato “open source intelligence” e sta diventando sempre più prezioso.

I social media sono diventati così importanti che persino le console del centro di comando nucleare sotterraneo americano (NORAD) mostrano feed di Twitter insieme a feed di informazioni riservate.

Non è tutto.

Le aziende commerciali di tutto il mondo lanciano centinaia di piccoli satelliti ogni anno, offrendo occhi nel cielo a basso costo a chiunque li desideri.

Le immagini commerciali e gli strumenti di apprendimento automatico consentono già ad alcuni professori della Stanford di analizzare le relazioni commerciali della Corea del Nord con la Cina, contando il numero di camion che hanno attraversato il confine in centinaia di immagini, negli ultimi cinque anni.

Questo è un mondo radicalmente nuovo e le agenzie di intelligence stanno lottando per adattarsi ad esso.

Mentre i segreti una volta conferivano un enorme vantaggio, oggi le informazioni open source lo fanno sempre di più.

L’intelligence, una volta, era una corsa all’intuizione in cui i grandi poteri erano gli unici ad avere la capacità di accedere ai segreti.

Ora tutti cercano informazioni e Internet offre loro gli strumenti per farlo. I segreti contano ancora, ma chi riuscirà a sfruttare tutti questi dati in modo migliore e più velocemente, vincerà.

La terza sfida posta dalle tecnologie emergenti colpisce il cuore dello spionaggio: la segretezza.

Fino ad ora, le agenzie di spionaggio americane non dovevano interagire molto con gli estranei e non volevano farlo.

 La missione dell’intelligence era quella di raccogliere segreti; quindi sapevano di più sugli avversari di quanto loro sapessero su di loro e mantenevano segreto anche il modo in cui raccoglievano le informazioni.

Conciliare segretezza e apertura è una lotta secolare.

La segretezza è fondamentale per proteggere le fonti di intelligence e i metodi di raccolta, nonché per assicurarsi un vantaggio.

 L’apertura è fondamentale per garantire la responsabilità democratica.

Troppa segretezza porta ad abusi.

Troppa trasparenza rende l’intelligenza inefficace.

Nell’era digitale, tuttavia, la segretezza sta comportando maggiori rischi perché le tecnologie emergenti stanno offuscando quasi tutti i vecchi confini della geopolitica.

Sempre più spesso, la sicurezza nazionale richiede che le agenzie di intelligence si impegnino con il mondo esterno, non si separino da esso.

 Un tempo gli avversari minacciavano dall’estero e li vedevamo arrivare; la mobilitazione militare ha sempre richiesto tempo.

 Ora possono attaccare infrastrutture critiche di proprietà privata, come reti elettriche e sistemi finanziari nel cyberspazio, in qualsiasi momento, da qualsiasi luogo, senza attraversare un confine o sparare.

Nel 20° secolo, l’economia e la politica sulla sicurezza erano sfere separate perché le economie del blocco sovietico non facevano mai parte dell’ordine commerciale globale.

Nel 21° secolo, economia e politica della sicurezza sono diventate strettamente interconnesse a causa delle catene di approvvigionamento globali e dei notevoli progressi nelle tecnologie a duplice uso, come l’IA, che offrono applicazioni commerciali e militari rivoluzionarie.

Le agenzie di intelligence occidentali devono trovare modi migliori per accedere alle informazioni rilevanti detenute da queste e altre società, senza mettere a repentaglio le libertà civili o il successo commerciale delle aziende.

Anche le agenzie di intelligence hanno bisogno di più del settore privato per l’innovazione.

L’analisi di enormi quantità di dati, ad esempio, dipenderà sempre più dagli strumenti di intelligenza artificiale.

Ciò richiede talento oltre che tecnologia;

 anche il settore privato potrà contribuire, offrendo pacchetti e strutture informatiche all’avanguardia, difficili da eguagliare per le agenzie governative (o le università).

Il Copasir, “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica”, ha di recente avviato un’indagine conoscitiva nei confronti di “TikTok” preoccupata che possa ledere alla sicurezza nazionale.

 Lo stesso Copasir nella relazione trasmessa al Parlamento nel 2022 denuncia che “il quadro conoscitivo acquisito durante l’indagine induce il Comitato ad una serie di raccomandazioni e suggerimenti, allo scopo di sensibilizzare i vari attori interessati all’adozione di buone pratiche per riconoscere, resistere e contrastare le false notizie.

 In primo luogo, nel contrasto alla disinformazione emerge un chiaro deficit e ritardo dell’Italia rispetto ad impegni, strumenti, strategie e misure che da diverso tempo sono già operativi tanto nel contesto internazionale quanto in quello dell’Unione europea e di alcuni Paesi del Vecchio Continente. T

ale evidenza, purtroppo non ancora maturata, è stata confermata anche durante le missioni svolte da una delegazione del Comitato negli Stati Uniti (Washington) e a Bruxelles che hanno consentito un utile confronto con le esperienze praticate in quei contesti dove si registra una consolidata consapevolezza del livello di rischi connesso alla diffusione pianificata di false notizie per condizionare i processi elettorali, sociali ed economici.

È quindi ormai non più rinviabile un maggiore impegno di tutti i soggetti e le autorità nazionali a vario titolo coinvolte in questo campo anche non escludendo possibili interventi di ordine legislativo e normativo”.

L’Ue e gli Stati membri non dispongono attualmente di un regime specifico di sanzioni riguardanti le ingerenze straniere e le campagne di disinformazione orchestrate da attori statali stranieri.

L’Unione Europea è consapevole delle problematiche giuridiche che possono emergere istituendo un tale regime sanzionatorio, inclusa la necessità di definire con precisione le fattispecie di reato e i loro possibili effetti cumulativi conformemente alle legislazioni dell’Ue e internazionali.

Il 9 marzo 2022 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea, inclusa la disinformazione.

 La Commissione speciale “INGE ha infatti presentato una relazione finale in cui figurano conclusioni e raccomandazioni in merito alle misure e alle iniziative da adottare.

 

Con la risoluzione il Parlamento invita l’Ue e i suoi Stati membri a intraprendere ulteriori misure contro la disinformazione e le minacce ibride, nel pieno rispetto della libertà di espressione e di informazione, anche introducendo un regime sanzionatorio – a norma dell’articolo 29 del trattato sull’Unione europea (TUE) e dell’articolo 215 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea – in materia di ingerenze straniere, compresa la disinformazione; risoluzione che dovrebbe essere destinata per quanto possibile ai decisori politici e agli organi responsabili di impedire azioni aggressive.

 Evidenzia che, al fine di rafforzarne l’impatto, le sanzioni dovrebbero essere irrogate collettivamente, con partner che condividono gli stessi principi, coinvolgendo possibilmente le organizzazioni internazionali e mediante la formalizzazione in un accordo internazionale.

Ricorda il comunicato della riunione Nato del 14 giugno 2021, in cui si afferma che una decisione riguardante il ricorso all’articolo 5 del trattato Nato in caso di attacco informatico viene presa dal Consiglio del Nord Atlantico sulla base di un esame caso per caso, e che l’impatto di attività informatiche cumulative dolose potrebbe, in talune circostanze, essere considerato equivalente a un attacco armato.

L’Italia è carente di specifica normativa e, principalmente, deve fare ancora molto per affrontare l’immensa sfida posta dalla Cina.

Ricordiamo che l’11 novembre 2020 gli europarlamentari italiani Silvio Berlusconi e Antonio Tajani del PPE hanno formulato una formale interrogazione, con richiesta di risposta scritta, alla Commissione europea ai sensi dell’articolo 138 del regolamento con oggetto la “Penetrazione di capitali cinesi nel tessuto economico italiano ed europeo”.

Nell’interrogazione gli europarlamentari hanno precisato che il 5 novembre 2020 il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica italiana (Copasir) ha approvato una relazione che mette in guardia dalla penetrazione di capitali cinesi nel tessuto economico italiano.

 La risposta del Vicepresidente esecutivo Valdis Dombrovskis, a nome della Commissione europea, non si è fatta attendere.

 Precisa Dombrovskis che l’UE è aperta agli investimenti esteri diretti (IED), ma tale apertura deve essere controbilanciata da controlli adeguati per garantire la sicurezza.

La Commissione e gli Stati membri (ai sensi del Regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione) possono individuare, valutare e attenuare i potenziali rischi per la sicurezza o l’ordine pubblico connessi a qualsiasi IED.

Sebbene 17 Stati membri dispongano di un meccanismo di controllo (l’elenco dei meccanismi di controllo notificati dagli Stati membri alla Commissione è disponibile qui) la Commissione ritiene che tutti gli Stati membri debbano mantenere un meccanismo che consenta loro di controllare gli IED in tutti i settori per motivi di sicurezza o di ordine pubblico.

Affrontare questi punti deboli migliorerebbe notevolmente la consapevolezza in merito agli IED nell’UE.

Il meccanismo di cooperazione istituito nell’UE si applica da ottobre 2020 e la Commissione ne valuterà il funzionamento e l’efficacia entro ottobre 2023.

L’attuale priorità è la sua piena attuazione.

 La Commissione non intende creare una struttura in grado di veicolare informazioni strategiche di tipo economico e industriale provenienti dai servizi di sicurezza degli Stati membri.

Da quanto precisato da “Valdis Dombrovskis” il controllo principale dipende, quindi, da ogni Stato membro.

Conclusioni.

Infine, compiere un giudizio comparativo tra gli interessi in gioco tra la libertà di espressione e la sicurezza nazionale sarà fondamentale ricordando, tuttavia, che le libertà possono essere tutelate in quanto esiste uno stato di diritto che riesca a farlo e che riesca a sopravvivere attraverso lo schermo, il confine della propria e comune sicurezza nazionale.

Nell’ultimo decennio, la politica mondiale è stata fortemente segnata da stati apparentemente forti i cui leader non sono vincolati da leggi o controlli costituzionali.

Sia la Russia che la Cina hanno affermato che la democrazia liberale è in declino a lungo termine e che il loro forte governo autoritario è in grado di agire in modo deciso e portare a termine le cose, mentre i suoi rivali democratici discutono, esitano e non riescono a mantenere le loro promesse.

Questi due paesi sono stati l’avanguardia di una più ampia ondata di autoritarismo che ha respinto le conquiste democratiche in tutto il mondo.

 Oggi la nostra democrazia liberale è sfidata e non riemergerà a meno che le persone non siano disposte a lottare per essa.

Il problema è che molti di coloro che crescono vivendo in democrazie liberali pacifiche e prospere iniziano a dare per scontata la loro forma di governo.

Non avendo mai sperimentato una vera tirannia, immaginano che i governi democraticamente eletti sotto i quali vivono siano essi stessi dittature malvagie che cospirano per togliere loro i diritti, che si tratti dell’Unione Europea o dell’amministrazione di Washington.

Oggi, il marchio del “liberalismo classico” di Francis Fukuyama è arrivato a rappresentare questo “ideale elusivo” e forse impossibile, di una politica liberale che massimizzerebbe la libertà individuale e la crescita economica, senza sacrificare nulla in termini di coesione sociale, cioè senza mai “andare a lontano”.

Il moderato equilibrio di un “liberalismo classico” che espande la libertà ma non sacrifica nulla è solo una chimera ideologica.

Su questa tela della storia, l’Italia e l’Unione Europea hanno però l’opportunità di intraprendere un’azione diretta su una questione che avrà un impatto su centinaia di milioni di cittadini, passare a un approccio più globale alla sicurezza nazionale nell’era digitale e impegnarsi in un processo di crescita che sfrutti, positivamente, il governo aperto e democratico che rappresentano anche sulla scena globale.

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