La democrazia sarà impossibile in un governo unico mondiale.
La
democrazia sarà impossibile in un governo unico mondiale.
La
sicurezza nazionale Usa
con la
Cina è quella del dollaro.
Yellen
tratta, l’Europa balbetta.
Remocontro.it
- Piero Orteca - (8 Luglio 2023) – ci
dice:
‘La sicurezza nazionale non può sempre
essere invocata come motivo al quale appellarsi per congelare le relazioni
commerciali’.
Il dollaro prima del resto, dice nella
sostanza la ministra del Tesoro Usa a Pechino. ‘Stati Uniti e Cina devono trovare il
modo di tornare a parlarsi e a scambiare superando le barriere ideologiche,
spesso erette dalla politica’.
Ovviamente
questo vale solo per l’America e non per l’Europa gregaria.
Sana
‘competizione economica’, ma solo americana.
Giovedì,
Janet Yellen è giunta in Cina a compiere una missione fondamentale, non solo
per gli Stati Uniti, ma per tutto il mondo occidentale.
Occorre
ricostruire, pazientemente, le relazioni commerciali con Pechino, cercando, è
ovvio, di sfruttarne i vantaggi minimizzandone i rischi.
«L’America vuole avere con Pechino una sana
competizione economica e non vuole scatenare una guerra mondiale finanziaria».
Questo in sintesi, il messaggio della Casa
Bianca, trasmesso da Janet Yellen, Ministro del Tesoro Usa, durante la visita
in Cina.
Una
mezza inversione ‘a U’, rispetto alla strategia sin qui seguita da Washington e
dall’Europa più obbediente, nel bloccare tutte le collaborazioni tecnologiche
con i cinesi, dalla ricerca fino alla produzione.
Tutto ciò che coinvolge prodotti tecnologici ‘di
fascia alta’, quando si tratta di Pechino, diventa tabù.
Per
tutti gli ‘americani’ nel mondo, con qualche eccezione in casa loro, industria
Usa preoccupata dalla reazione cinese annunciata.
Chi la
fa l’aspetti.
Il
viaggio di Janet Yellen arriva pochi giorni dopo che la Cina ha improvvisamente
imposto limiti alle esportazioni di metalli, rispondendo alla guerra tecnologica
dichiarata da Stati Uniti ed Europa.
«Sono
preoccupata per i nuovi controlli sulle esportazioni recentemente annunciati
dalla Cina su due minerali critici utilizzati in tecnologie come i
semiconduttori – ha detto la ministra parlando da Pechino – stiamo ancora
valutando l’impatto di queste azioni, ma ci ricordano l’importanza di costruire
catene di approvvigionamento resilienti e diversificate».
«Ho chiarito che gli Stati Uniti non cercano
una separazione totale delle nostre economie.
Cerchiamo
di diversificare, non di disaccoppiare.
Un
disaccoppiamento delle due maggiori economie mondiali sarebbe destabilizzante
per l’economia globale e sarebbe praticamente impossibile da realizzare».
Pechino
si difende e attraverso il ministero del Commercio dichiara che le recenti
restrizioni sui metalli non sono rivolte a nessun Paese specifico e non
rappresentano un «divieto di esportazione.
Tra
arroganza e stupidita la somma degli errori.
Difficile
e complicato, ma bisogna tentare, perché troppi errori sono già stati fatti con
diplomatica leggerezza.
Conversando
nella grande Sala del Popolo di Pechino col premier Li Qiang, la Yellen ha
voluto assicurare Xi Jining che gli Usa (speriamo sia vero Ndr) non perseguono un approccio ‘winner
tale all’, cioè chi vince si prende tutto.
Ma, al
contrario, vogliono una relazione reciprocamente vantaggiosa.
Un
messaggio chiaro, da parte americana, che non c’è nessuna voglia (proprio nessuna forse no Ndr) di arrivare a uno scontro frontale
che non servirebbe a nessuno.
Sull’argomento più spinoso, quello dell’export
di tecnologia di fascia alta, la Yellen è stata vaga, ma non ha chiuso
completamente la porta.
Specie
dopo che i cinesi hanno cominciato a centellinare l’export di ‘terre rare’.
Il Wall Street Journal sottolinea che il
Ministro Usa «è stato accolto calorosamente e il suo incontro col premier
cinese è durato il doppio del previsto».
Nota
non di poco conto, se solo si pensa che, al rappresentante dell’Unione Europea,
“Josep Borrell”, sono state praticamente chiuse le porte in faccia.
E
l’incontro al vertice, che si doveva tenere lunedì prossimo a Pechino, è stato
annullato senza tanti complimenti.
In
ritardo anche ad obbedire.
Ieri,
il Financial Times titolava in bella evidenza: «Bruxelles esorta gli Stati
membri dell’UE a inasprire le misure contro la Cina».
Ma
persino in casa tedesca non si dà troppo retta a Ursula von Der Leyen.
E il
Cancelliere tedesco Scholz, che con la Cina tratta e commercia:
«Decidano
gli industriali tedeschi – ha proclamato – tutto ciò che vogliono importare (ed
esportare) dalla Cina.
Il governo non c’entra più niente».
Insomma,
Biden ‘apre’ e noi ‘chiudiamo’, dimostrando che, forse, c’è uno sfalsamento
temporale, tra gli input che arrivano da Oltreoceano e le misure prese a
Bruxelles.
La
corsa dell’Unione europea contro il tempo.
Le
responsabilità dell’Italia.
Thefederalist.eu
– Redazione – (7 agosto 2022) – ci dice:
Il 20
luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere
ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la
direzione dei processi politici. La crisi del governo italiano ha infatti una
valenza non solo nazionale, ma investe anche l’Unione europea e tutto il fronte
delle democrazie occidentali.
L’Italia
è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul
piano internazionale. L’esperienza appena conclusa del governo guidato da Mario
Draghi lo ha dimostrato.
Grazie
al sussulto di responsabilità di tutte le forze politiche italiane che hanno
accettato — con l’eccezione della estrema sinistra e di Fratelli di Italia — il
patto di unità nazionale proposto dal Presidente della Repubblica e grazie
all’autorevolezza e alla competenza di Mario Draghi, l’Italia non ha solo
raggiunto risultati importantissimi sul fronte interno (campagna di
vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica con una delle crescite
più alte in Europa e a livello internazionale, politiche di sostegno sociale,
avvio della diversificazione energetica, solo per citarne alcuni esempi che si
aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un ruolo di leadership
sul piano europeo e internazionale.
Draghi
è stato l’interlocutore privilegiato degli USA in Europa per fissare la linea a
sostegno dell’Ucraina, come reso evidente anche dal ruolo determinante che ha
avuto nella decisione sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea;
e nell’UE, insieme a Macron, ha guidato il
fronte dei Paesi impegnati a costruire un’Europa forte e coesa, dotata di una
sua indipendenza strategica.
In questa ottica ha lavorato su una serie di
proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza
pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla
Conferenza sul futuro dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento
europeo di aprire una Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte
dichiarato di modificare in senso federale il sistema politico-istituzionale
europeo.
Aver
provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in
acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva
l’Europa, fermando quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo
nel confronto (accelerato e reso drammaticamente inevitabile da Putin con
l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.
La
guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la
frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili
facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di
un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e
della mancanza di strumenti di difesa adeguati.
Se
oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione
dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno
innanzitutto americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente
investito in tempi brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.
In
questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la
loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da
una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili; ma la differenza,
rispetto al passato dopo il crollo dell’URSS, è che questa volta la guerra è in
Europa, e il fatto che il ritardo europeo (sul piano politico, oltre che
militare) sia così profondo da non potere essere colmato in tempi politicamente
utili rispetto alla guerra in corso, mette a nudo chiaramente quella realtà
dell’Europa “ventre molle” del fronte occidentale tante volte richiamato da
analisti e politici americani.
Si
aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal
nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa
dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.
In
più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di
classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre
l’opposizione democratica in Russia o in Cina è ridotta facilmente al
silenzio). A questo va aggiunto che, di fronte alle conseguenze economiche
della guerra — che ricadono su economie già gravemente colpite dalla pandemia e
che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei hanno una moneta unica
forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari strumenti concomitanti
fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di una parte degli Stati che
vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle loro carenze rispetto alle
quali mancano strumenti strutturali di supporto;
mentre l’inflazione rende complesso anche
l’utilizzo della leva della politica monetaria della Banca centrale, in passato
determinante per salvare l’euro.
Infine, quando devono agire uniti, gli
europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura decisionale che riflette la
loro frammentazione e l’assenza di una sovranità comune democratica e
legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in base non ad una
visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di tante visioni
nazionali deboli; in più per agire sono anche privi di vere risorse e strumenti
adeguati.
Questo
quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta
anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo
nell’illusione che il Mercato unico fosse la risposta politica adeguata alle
sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e
scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di
garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle
nostre democrazie.
La realtà, invece ha visto crescere le minacce
attorno a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.
Basta
confrontare le indicazioni contenute nello Strategic Concept della NATO e nello
Strategic Compass dell’UE.
Di
fronte ad un’analisi molto simile delle minacce che dobbiamo fronteggiare e
degli attacchi che rischiamo (altamente) di dover subire, l’uno propone le
soluzioni che derivano dalla forza della potenza tecnologica e militare (grazie
al ruolo degli USA);
l’altro
un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche
gli strumenti per avviare i lavori.
Parole
da una parte, quindi, rispetto al potere reale dall’altra.
La
descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché
rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida
del cambiamento.
La riforma per costruire l’unione politica
federale dell’UE è fondamentale per rafforzare la presenza internazionale
dell’UE, la sua capacità di agire con autorevolezza internamente ed
esternamente e anche per offrire ai cittadini e alle opinioni pubbliche (spesso
sfiduciate e deluse dalle debolezze delle istituzioni e delle politiche
nazionali) un progetto lungimirante e profondo di rifondazione della politica e
del modello democratici.
In un confronto tra sistemi alternativi, in
cui l’autocrazia sfida con la sua apparente efficacia la complessità e la
inclusività dei meccanismi decisionali democratici, il rafforzamento del
sistema democratico diventa il fattore dirimente; e, vista la debolezza
strutturale a livello nazionale, è evidente che la democrazia può rilanciarsi solo
se si realizza pienamente a livello europeo.
L’evoluzione del sistema istituzionale europeo
necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un
paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande
Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e
politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino
all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad
un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa
orientale.
Il
tandem franco-italiano era il motore indispensabile per costruire la nuova
Europa, ed è stato fermato.
Tenendo
conto di come la guerra contro l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida
contro i nostri sistemi democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto
determinante, questa brusca frenata è particolarmente pericolosa.
A
questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo
svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.
Perché ciò accada, il 25 settembre dovrà
vincere la continuità politica e istituzionale, fondata su un grande patto che
si apra nuovamente in ottica nazionale, rispetto all’esperienza del governo
uscente.
Tutto in teoria è possibile, benché difficile,
e potrebbe anche prevalere — chiunque vinca — il senso di responsabilità verso
l’interesse nazionale e la coerenza verso i valori democratici e di libertà,
che sono perduti al di fuori del quadro europeo.
A
sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto
ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo
lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli
impegni comuni; così come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a
livello nazionale delle scelte e dei comportamenti irresponsabili che
priveranno l’Italia delle protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé
un unico destino:
la
crisi irreversibile e fallimento.
Anche solo se il prossimo governo vorrà
schierarsi a favore di un indebolimento dell’Unione europea, cambiando così il
quadro delle nostre alleanze europee, non solo si metterà in grave pericolo la
coesione e la stessa tenuta dell’UE, ma si rafforzeranno parallelamente le
tentazioni all’immobilismo e le regole rigide di controllo che sono così
dannose per la nostra tenuta a livello di sistema paese.
L’Italia
quindi ha in mano una parte importante del destino europeo e ha, al tempo
stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa.
Chiunque
vada al governo dopo il 25 settembre non può prescindere dal misurarsi con
questo fatto.
D’altro
canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il
20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando
una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio
compito.
Le forze che hanno mantenuto la fiducia a
Draghi, e che hanno mostrato di essere coscienti delle esigenze vere del Paese
e della necessità di porle al di sopra degli interessi di parte, sono al
momento in minoranza e non sembrano riuscire ad esprimere una strategia
elettorale all’altezza del grave momento storico, complice anche le
incongruenze di una pessima legge elettorale.
Gli
altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono
tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima
populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi
di portare l’Italia su posizioni anti-NATO per quanto riguarda il sostegno
italiano all’Ucraina;
la
Lega di Salvini, che ha, come il M5S, contestato Draghi sull’Ucraina e su
alcune riforme essenziali del PNRR;
Forza
Italia che predica il suo ancoraggio alla famiglia europea del PPE e al tempo
stesso, sotto la guida di Berlusconi, mantiene l’ambiguità verso Putin e
rievoca vecchi cavalli di battaglia populisti;
infine
Fratelli di Italia — cresciuto nell’opposizione al governo, alle sue riforme e
alle sue scelte europee, con posizioni tradizionalmente e coerentemente
anti-europee e sovraniste, aperto sostenitore dei movimenti illiberali in
Europa — che in vista di una probabile vittoria elettorale e di una conseguente
responsabilità di governo recupera in pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al
sistema costituzionale (salvo mantenere le posizioni presidenzialiste), la
continuità con l’agenda del governo precedente e si accredita presso
l’Amministrazione americana come garante della posizione atlantista del suo
futuro governo.
Sarà,
questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del
prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel
momento in cui sale al potere?
Oppure
è già in nuce la presa d’atto che Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto
fargli l’opposizione è stato politicamente sbagliato, anche se elettoralmente
redditizio?
Potrà
l’eventuale prossimo esecutivo a trazione Fratelli di Italia superare le
contraddizioni che ne hanno reso probabile la nascita?
O in alternativa
potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA apertamente
si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri sufficienti per
poter far riguadagnare immediatamente la credibilità all’Italia?
La
risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche. In una
campagna esposta agli attacchi ibridi della disinformazione e dell’ambiguità
delle posizioni di molti contendenti l’Italia gioca una partita cruciale per il
futuro delle democrazie occidentali.
Un’Italia
europea per un’Europa federale, sovrana e democratica è appena stata messa al
tappeto dal populismo e dagli interessi di parte.
Riusciranno
comunque a prevalere responsabilità, buon senso e coerenza rispetto al modello
liberal-democratico, insieme alla coscienza del valore dirimente dell’Europa
per il nostro futuro?
Sarebbe
bello che questo dibattito avvenisse realmente per permettere ai cittadini
italiani di prendere coscienza della vera posta in gioco il 25 settembre.
(Il
Federalista)
La
visione di un governo globale
può
diventare una realtà?
Futureu.europa.eu - Horst Widmayer – (20/05/2021)
– ci dice:
Hallo
EUROPA, la maggior parte dei governi nazionali ha problemi importanti e
molteplici.
Questa
democrazia si basa su opinioni e definizioni obsolete.
Il
futuro è più rapido.
Internet,
la digitalizzazione sta cambiando rapidamente il mondo.
Come primo passo, occorre ridurre l'influenza
dei governi nazionali e rafforzare le competenze del Parlamento europeo.
Dal
punto di vista dell'UE, tutti i governi nazionali potrebbero riunirsi in un
governo europeo.
Purtroppo
siamo ancora troppo lontani da questo.
Tuttavia,
un unico governo europeo non sarebbe ancora in grado di risolvere da solo le
grandi sfide future su questa terra troppo piccola, con un numero crescente di
persone.
Come “VISION” sarà un governo mondiale per tutti?
I principali compiti futuri potrebbero essere
affrontati il più possibile?
Vi sono compiti sufficienti che non possono
più essere risolti dai singoli paesi da soli.
Esempi
sono:
Prevenzione
dei cambiamenti climatici della guerra, con particolare attenzione
all'approvvigionamento alimentare essenziale per tutti gli esseri viventi.
Assistenza sanitaria per tutti gli esseri viventi.
Fornitura di acqua per tutte le questioni
relative ai rifugiati.
Soppressione degli interessi individuali a
favore dei mezzi di sussistenza generali e molto altro ancora.
Che
cosa pensa di “VISION” di un governo globale significativo in 300 anni?
(Felix
Thomas – Mendner - Mattes - Horst Widmayer)
Per un
governo mondiale.
Ilbolive.unipd.it
- Pietro Greco – (30 aprile 2020) – ci
dice:
In termini ambientali,” Johan Rockström” e lo “Stockholm
Resilience Centre” ne hanno individuati ben nove di problemi planetari.
In
realtà lo scienziato svedese e il suo centro parlano di “planetary boundaries”,
di confini o, se volete, di soglie da non superare (alcune sono già state
superate): ma
tant’è sono emergenze che coinvolgono il mondo intero e che pretendono una
soluzione se non unica, almeno coordinata.
Sull’esempio,
per intenderci, di quel “Protocollo di Montreal” che ha messo al bando in tutto
il mondo, sia pure in maniera articolata nei modi e nel tempo, le sostanze che
aggrediscono l’ozono stratosferico.
Non
esiste nulla di simile per gli altri “planetary boundaries”.
Ma di
problemi planetari – ce ne stiamo accorgendo in queste settimane – ve ne sono
anche di natura sanitaria.
Le
pandemie, per definizione, interessano il mondo intero e non conoscono confini,
mentre pretendono soluzioni, ancora una volta, unitarie e coordinate.
Mentre
a ogni livello – locale, nazionale, continentale, globale – assistiamo a una
frammentazione spinta all’insegna dell’”ognuno per sé e Dio per tutti”.
E che
dire, poi, del ritorno al riarmo, compreso quello nucleare, che negli ultimi
trent’anni ha bruciato il “dividendo della pace” che qualcuno voleva
distribuire ai cittadini di tutto il mondo subito dopo il crollo dell’Unione
Sovietica e la possibilità di creare quella che” Immanuel Kant” chiamava la
“pace perpetua”, grazie a un governo mondiale capace di assicurare non la
mancanza di conflitti (che i conflitti sono il sale della dinamica sociale), ma
di conflitti armati almeno a livello delle nazioni?
Già,
il governo mondiale.
Il
solo accennarne appare come una fuga utopistica dalla realtà.
Secondo
alcuni, addirittura la proposizione un incubo: una sorta di grande e corrotta e
inefficiente dittatura planetaria.
Eppure negli ultimi giorni almeno quattro
intellettuali italiani hanno ripreso il tema su grandi giornali generalisti.
Il
primo è stato, a quanto ci risulta, il costituzionalista nonché ex ministro
Sabino Cassese, che su “La lettura”, inserto culturale de” Il Corriere della
Sera”, ha ricordato la figura di un giornalista italiano, “Giuseppe Antonio
Borgese”, che tra il 1945 e il 1947 si è posto alla testa di un gruppo
internazionale costituito da sei docenti dell’Università di Chicago, tre delle
università di Stanford, Cornell e Harvard, uno di Oxford e uno di Toronto e,
sulla base di approfondite discussioni, ha personalmente redatto una
“costituzione mondiale”, prevedendo tutte le articolazioni di una democrazia
formale compiuta:
un governo, appunto; un parlamento
rappresentativo dell’intera popolazione del pianeta.
Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze.
Vittorio
Possenti:
Il
tema è stato ripreso, poi, su” L’Avvenire”, da Vittorio Possenti, già docente
di filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il cui articolo, a commento dell’intervento di
Cassese, inizia così:
«Appare sempre più necessario lavorare a
istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione,
armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze».
Ancora,
con una conversazione pubblicata di nuovo su “La lettura” e intitolata,
esplicitamente, “Per un governo del mondo”, sono intervenuti “Maurizio Ferrera”,
docente di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Milano, e “Vinod
Aggarwal”, che insegna Scienza politica presso l’Università di California a
Berkeley.
Dunque
non è da ingenui parlarne, del governo mondiale, in un momento in cui sembra
dominante il pensiero sovranista:
prima
gli americani, prima gli italiani, prima i russi, prima i cinesi.
Sono
le “emergenze planetarie”, come le chiama il fisico Antonino Zichichi, a
imporre un pensiero centripeta mentre le nazioni del pianeta Terra corrono via
l’una dall’altra come schegge di materia dopo il Big Bang.
Sono i
fatti tangibili che interessano il pianeta intero – l’ambiente, la salute, la
pace, le disuguaglianze, i diritti umani – a chiedere con forza un intervento
unitario e coordinato tra gli stati e i popoli.
Il
virus SARS-CoV-2 si è diffuso in tutto il mondo contagiando milioni di persone
e uccidendone alcune centinaia di migliaia anche perché il mondo non lo ha
fronteggiato in maniera unitaria, leale e coordinata.
Ognuno è andato per sé, anche nella stessa
Unione Europea, è il virus sta punendo tutti.
Anzi, nel pieno della lotta, si è tentato di
svuotare di ogni funzione anche l’unico, timidissimo embrione di governo
mondiale della salute, l’Organizzazione Mondiale di Sanità. (Dimostratosi altamente corrotta!
N.d.R.)
Lo
stesso vale per altri embrioni di governo mondiale:
come
la “Convenzione
delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici” nell’ambito della quale non si
riesce a ottenere un consenso globale per contenere l’aumento della temperatura
media del pianeta entro gli 1,5 °C o, almeno, entro i 2 °C, come sostengono gli
scienziati se si vuole evitare un’evoluzione catastrofica del clima globale.
Mentre
da decenni non fa un passo avanti verso il totale disarmo il TNP, il “Trattato
di non proliferazione nucleare “che si regge su una pericolosa asimmetria:
distinguendo
tra chi ha ufficialmente l’atomica (USA, Russia, Cina, Regno Unito e Francia) e
tutti gli altri paesi firmatari.
Questi
ultimi, tutto sommato, stanno rispettando l’obbligo a non dotarsi dell’arma,
mentre i cinque detentori, che pure si sono impegnati a disfarsene in tempi
ragionevoli, pensano a tutt’altro.
Altri tre paesi non firmatari – India,
Pakistan e Israele – non hanno firmato il TNP, non per questo non costituiscono
un problema.
Per
tutti questi problemi gli esperti del “Bulletin of the Atomic Scientists” hanno
portato le lancette del “Doomsday Clock” ad appena 100 secondi dalla
mezzanotte.
Ovvero dalla catastrofe globale.
Forse sono troppo pessimisti, questi
scienziati: ma le emergenze planetaria che essi indicano reali, concrete,
immanenti e per molti versi imminenti.
La
soluzione è, dunque, nel governo mondiale? E se sì, che razza di governo
dovrebbe essere, il “governo di tutto il mondo”?
L’idea
ha patri nobili e antichi.
Pare
che risalga già ai Romani.
E ha avuto nobilissimi sostenitori.
Ne citiamo tre, tutti tedeschi, oltre al già
ricordato Giuseppe Antonio Borgese e agli accademici, quasi tutti americani,
con cui ha collaborato:
“
Immanuel Kant,” “Albert Einstein” e papa “Benedetto XVI” (al secolo, Joseph
Aloisius Ratzinger).
Si
tratta di persone certamente influenti, ma per cultura e formazione molto
diversi tra loro: un filosofo, un fisico, un religioso.
Per
non fargli torto, dovremmo aggiungere anche l’attuale papa, “Francesco” (al
secolo Jorge Mario Bergoglio), ma rischieremmo di rompere la simmetria
disciplinare.
O ricordare “Jean-Jacques Rousseau”, “l’Abate
si Saint-Pierre”,” Altiero Spinelli “o ancora “Aldo Capitini”, ma vale la
motivazione di cui prima.
Un
governo mondiale è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi
personalità della cultura.
Dunque,
“Immanuel Kant”.
Nel
1795 scrive un libro “Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf”, ovvero “La
pace perpetua”, in cui riflette sul modo in cui raggiungere questa auspicata
condizione.
Il grande filosofo di Königsberg per la verità
non parla in termini stretti di un governo a scala planetaria, ma piuttosto di
leali accordi di pace di tutti i paesi con tutti gli altri che non possono
essere violati.
Kant propone anche il graduale, ma veloce
scioglimento degli eserciti permanenti.
Un’idea
che viene ripresa già nella prima parte del Novecento da “Albert Einstein” (non
a caso, perché il fisico ha letto già da giovanissimo Kant) che fonda il suo
pacifismo militante su due presupposti:
lo
scioglimento degli eserciti con invito
ai giovani a rifiutare la leva e la formazione, appunto, di un governo
mondiale.
Quanto
a Benedetto XVI, ecco cosa scrive nell’enciclica “Caritas in veritate del 2009”,
così come ce la ricorda “Vittorio Possenti”:
«Urge
la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già
tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII.
Una
simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente
ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla
realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico
sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità.
Tale
Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo
per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il
rispetto dei diritti».
Già,
ci eravamo dimenticati di Giovanni XXIII, il “papa buono”.
Un
governo mondiale, dunque, è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di
grandi personalità della cultura.
Non
può essere un’idea ingenua, frutto di un idealismo staccato dalla realtà:
perché ingenui non erano e non sono tutte le persone citate.
D’altra
parte l’idea del governo mondiale, come ricorda” Danilo Zolo”, che ha insegnato
filosofia e sociologia del diritto presso l’Università di Firenze, in un libro
pubblicato nel 1995, “Cosmopolis.
Zolo,
che era stato allievo di “Giorgio La Pira”, criticava per la verità l’idea del
governo mondiale.
Però
di questa idea ha ricostruito la storia tangibile.
La
nascita degli stati moderni con l’affermazione della loro totale indipendenza –
allora dalla Chiesa e dall’Impero – è tutta europea e risale alla pace di
Westfalia del 1648 con cui viene posto termine alla disastrosa “guerra dei
trent’anni” (che si accompagnò, vale la pena ricordarlo, a una serie di
epidemie, tra cui quella di peste a Milano del 1630 così ben descritta da
Alessandro Manzoni).
La pace tra i popoli europei nelle intenzioni
dei convenuti a Westfalia e, poi, nella prassi dei decenni e secoli successivi
fu mantenuta dall’equilibrio, altamente instabile, di potenza.
Lo
stesso che – come equilibrio del terrore – ha impedito una guerra nucleare tra
USA e URSS negli anni della guerra che per forza di cose era “fredda”.
L’equilibrio nella seconda parte del Novecento
– e per certi versi anche ora – si reggeva sulla cosiddetta “MAD”, “mutual
assured destruction”, la certezza della reciproca distruzione che una guerra
nucleare totale non avrebbe avuto alcun vincitore.
Tutti
avrebbero perso.
La
stessa civiltà umana avrebbe subito un colpo mortale.
L’equilibrio di potenza era (ed è) un più che
mai instabile “equilibrio del terrore”.
L’instabilità
dell’”equilibrio di potenza” era presente alla mente di molti anche prima di Westfalia.
Basti
citare “Dante Alighieri” (tra XIII e XIV secolo) o” Carlo V” (nel XVI secolo)
che hanno preconizzato, in forme diverse, l’idea di “una monarchie universelle”,
su cui hanno scritto filosofi di assoluto valore, come “David Hume” e come “Charles-Louis
de Secondat”, barone di La Brède e di Montesquieu, autore nel 1734 di un
trattato, appunto su “La Monarchie universelle”.
Al
grande filosofo politico francese l’idea di un governo mondiale (la monarchia
universale) proprio non piaceva.
Tuttavia,
ci sono stati, negli ultimi due secoli, almeno tre tentativi di fondare una
pace più stabile e meglio regolata.
Tre
tentativi di fondare un timido “governo mondiale”.
Il
primo risale al 1815 quando le potenze che hanno sconfitto Napoleone Bonaparte
– e, segnatamente, Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia – danno vita alla
Santa Alleanza:
«Per
il bene del mondo – si legge in un documento fondativo della Santa Alleanza –
[le potenze vincitrici si impegnano a] prendere le misure più salutari per la
tranquillità e la prosperità dei popoli e per il mantenimento della pace tra
gli Stati».
Tutto
questo sarebbe avvenuto mediante periodici incontri tra i rappresentanti di
questa sorta di federazione.
Alla
Santa Alleanza aderiscono un po’ tutte le potenze europee minori, tranne lo
Stato pontificio e, in Turchia, il Sultano.
Come
rileva “Danilo Zolo”, per la prima volta nella storia europea e mondiale si
afferma e si esperisce il principio di una pacifica federazione internazionale,
aperta a tutti gli stati, anche se guidata dal direttorio delle quattro potenze
vincitrici.
La
Santa Alleanza raggiunse anche obiettivi rimarchevoli, come l’abolizione della
schiavitù.
Ma
l’equilibrio era appunto troppo instabile e nell’arco di un decennio venne a
termine.
La
stessa esigenza di evitare il caos e l’anarchia sulla scena internazionale che
aveva generato la Prima guerra mondiale e causato quasi venti milioni di morti
portò alla costituzione, nel 1920, della Società delle Nazioni a opera di
Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone e su ispirazione del presidente
americano Woodrow Wilson (che per questo ottenne il premio Nobel per la pace
già nel 1919).
Sulla carta la “Società delle Nazioni”
costituiva un “governo mondiale” piuttosto spinto e articolato, con
un’Assemblea, il parlamento mondiale costituito dai rappresentanti di tutti gli
stati membri;
un
Consiglio, una sorta di potere esecutivo costituito dai rappresentanti di
alcuni stati membri permanenti e da altri nominati dall’Assemblea;
un
Segretariato permanente e anche una Corte di Giustizia.
La
storia della” Società delle Nazioni” ci offre almeno due insegnamenti:
ogni idea del “governo mondiale” non può fondarsi sul
dominio di pochi, né sul progetto di mantenere lo status quo congelando ogni
conflitto.
La
Società delle Nazioni è l’istituzione più vicina al “governo mondiale” che sia
mai stata realizzata.
Ma nel
mezzo secolo successivo mostrò tutti i suoi limiti perché, come sottolinea “Danilo
Zolo”, aveva una visione troppo centralistica e dunque sembrava designata a
mantenere lo status quo.
Progetto
soprattutto di marca francese che non teneva conto delle enormi asimmetrie
create nei confronti delle potenze sconfitte (la Germania) e anche di quelle
nascenti (l’Unione Sovietica).
La
storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti:
ogni idea del “governo mondiale” non può
fondarsi sul dominio di pochi (le potenze vincitrici di una guerra) né sul
progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto.
Il “governo mondiale” deve limitarsi (si fa
per dire) a far sì che i conflitti si risolvano in guerre guerreggiate e alla
ricerca di soluzioni concordate ad alcuni problemi di carattere universale.
Un
esempio di successo è la Terza Convenzione di Ginevra del 1925, firmata da
sedici stati, con cui si vieta l’uso anche in guerra di armi chimiche.
Ma per
i suoi difetti intrinseci (compresa la mancanza del monopolio della forza) la
Società delle Nazioni non riuscì a impedire il proseguimento della “lunga
guerra civile” scoppiata in Europa nel 1914 e che si concluderà solo con la
sconfitta del nazifascismo nel 1945.
Già,
il 1945.
Il 26 giugno di quell’anno in cui viene a
termine la Seconda guerra mondiale vengono tenute a battesimo le” Nazioni Unite”.
Con
gli stessi limiti (anzi, con alcuni aggiuntivi) della Società delle Nazioni.
Il potere di veto che hanno di fatto le cinque
potenze vincitrici (considerate più uguali degli altri) nel Consiglio di
Sicurezza ha avuto e ha tuttora un effetto paralizzante.
Nonostante
le Nazioni Unite, la pace mondiale nel dopoguerra è stata mantenuta
dall’”equilibrio del terrore”.
E
quando l’URSS è finita, al dominio dei due blocchi si è sostituita una
frammentazione difficile da governare.
In
ogni caso negli ultimi 75 anni non sono mancate guerre definite locali e anche
guerre combattute nel nome delle Nazioni Unite (in Corea, in Irak, per esempio)
ma dalla incerta legittimazione etica.
Le
Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.
Tuttavia
sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se non
addirittura dannosa.
Esempi positivi della presenza, non facilmente
sostituibile delle Nazioni Unite, ne troviamo in molti campi:
per
esempio l’approvazione, il 10 dicembre 1948, della “Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo”.
Le Nazioni
Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.
Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro
esistenza come irrilevante se non addirittura dannosa.
Ma
anche nei tre ambiti che abbiamo indicato all’inizio la presenza delle Nazioni
Unite si è rivelata preziosa:
la
salute, l’ambiente, le armi nucleari.
Nel
primo caso ricordiamo l’”Organizzazione Mondiale di Sanità” (OMS) – un piccolo
governo mondiale della salute fondato in ambito ONU il 22 luglio 1946 ed
entrata in funzione due anni dopo.
Nel
caso dell’ambiente ricordiamo, oltre al “Protocollo di Montreal per l’ozono”,
le “Convenzioni sui Cambiamenti del Clima e sulla Biodiversità approvate a Rio
de Janeiro nel 1992 (oltre a una serie sterminata di altri trattati di cui non
sempre abbiamo contezza).
Per
quanto riguarda la pace al tempo delle armi nucleari, ricordiamo il “TNP”, il “Trattato
di Non Proliferazione Nucleare”, approvato dall'Assemblea generale dell'ONU il
primo luglio 1968.
L’OMS,
le Convenzioni sul clima e la biodiversità, il TNP sono esempi di un “governo
mondiale” limitato ad alcuni settori ben definiti.
Certo,
nessuna di queste iniziative è stata decisiva.
Oggi
la pandemia COVID-2019 si diffonde nel mondo con gli stati che non seguono le
direttive dell’OMS ma reagiscono ognuno per sé (con evidenti disastri).
Oggi
si stenta ad applicare le indicazioni drammatiche proposte dagli scienziati in
sede di” Convenzioni sul clima e sulla biodiversità”.
Quanto
al “Trattato di Non Proliferazione” è in una condizione di congelamento di una
condizione asimmetrica che non sta impedendo neppure una nuova corsa al riarmo.
E
tuttavia proviamo a immaginare come sarebbe il mondo senza le Nazioni Unite. Un
mondo in cui esisterebbero 200 sistemi sanitari diversi tra loro, senza
programmi per esempio di vaccinazione universale (sarebbe mai stato eradicato
il vaiolo in un sistema diverso dalle Nazioni Unite?);
un
mondo che neppure si accorgerebbe delle emergenze cambiamenti climatici ed
erosione della biodiversità;
un mondo in cui ogni paese si sentirebbe
libero di dotarsi di un arsenale nucleare.
Ha,
dunque, più che mai ragione “Vittorio Possenti”:
«Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze».
Non
vogliamo chiamarlo governo, utilizziamo un termine inglese che sembra più alla
moda: governance.
Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze.
(Vittorio
Possenti)
Ce lo
insegna in questi giorni la pandemia:
la mancanza di una governance sufficientemente
forte, con un certo potere decisionale, si risolve in un danno per tutti i
popoli e per tutti i cittadini del mondo. Riformiamo pure l’”OMS”, ma nel senso
di rafforzarla, non demolirla.
Riformiamo
pure “la diplomazia ecologica, me nel senso di avere un governo mondiale del
clima e della biodiversità e degli altri sette “confini planetari”. Riformiamo pure il TNP, ma nel
senso di rafforzarlo per arrivare in tempi certi al disarmo nucleare totale.
Certo,
dobbiamo fare tutto questo conservando la democrazia.
Rafforzando la democrazia come bene
universale.
Non è
semplice in un mondo in cui le dittature e le democrature (le democrazie
autoritarie) sembrano ritornare e persino avere, su certuni, un certo appeal.
Non è semplice se il sovranismo e il nazionalismo
tornano a essere coltivati da grandi masse.
Ma a
un “governo mondiale” o, se volete, a “una governance globale”, sia pure
ristretta a pochi, grandissimi problemi, è necessaria.
Possiamo
aderire alla proposta centralistica di “Giuseppe Antonio Borgese “oppure a una
proposta con istituzioni molto più leggere, ma non possiamo sfuggire il
problema:
il
mondo ha problemi globali, che interessano tutti i cittadini del pianeta e,
quindi, ha bisogno di un “governo Mondiale”.
Utopia?
Forse.
Ma è grazie alle utopie di persone come Kant,
Einstein, Spinelli che alcuni tratti, magari piccoli e tortuosi, li abbiamo
fatti per uscire dal caos ingovernabile dell’”ognuno per sé” che porta a quel Bellum
omnium contra omnes, quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava nel
Seicento “Thomas Hobbes”.
E che indebolisce non solo l’umanità con i
suoi conflitti interni, ma anche l’umanità rispetto ai pericoli esterni, siano
essi il clima o un virus.
(Già, ma se una “governance futura del
mondo” sarà costituita solo dalla “Mafia del Denaro”…
Come
ne usciremo? N.d.R.)
Democratura,
il cuore antico del regime di Putin
Prime
Minister Vladimir Putin addresses the crowd at a Night Wolves' bike show in
Crimea
[Vladimir
Putin. Foto: © Jerome Levitch/Corbis]
11/03/2015
La
Russia non può essere una democrazia
perché
se lo fosse non esisterebbe.
Limesonline.com
- Lucio Caracciolo – (11-13- 2020) – Repubblica – ci dice:
Un
impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione
pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti
nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso
dell’iper popolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con
mano di ferro.
Applicarvi
un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi
dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe
atomiche.
Questo
è almeno il verdetto della storia russa.
Soprattutto,
è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al
putinismo, succhiano con il latte materno.
Oltre
che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o
semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore.
Per
chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il
13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i
loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55%
pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle
“specifiche tradizioni nazionali russe”.
In parole povere, il regime vigente.
Certo,
alcuni coraggiosi sfidano la storia e Putin, confidando nell’avvento finale
della democrazia in Russia.
Tre anni fa costoro riuscirono per qualche
settimana a suscitare manifestazioni di massa anti-regime a Mosca e in altre
città.
Oggi si sono riaffacciati sulla scena
pubblica, in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, l’oppositore
misteriosamente freddato alle porte del Cremlino.
Ma nuotano controcorrente.
Nel
clima di mobilitazione patriottica eccitato dalla guerra in Ucraina, quattro
russi su cinque dichiarano di apprezzare il presidente.
Lo
scambio proposto da Putin al suo popolo — io vi garantisco sicurezza, stabilità
e relativo benessere, voi lasciate la politica a me — sembra ancora reggere.
Malgrado le sanzioni, o grazie ad esse.
E
nonostante il crollo del rublo.
Per quanto tempo, nessuno può stabilire.
Nel
profondo dello spirito imperiale russo, la democrazia è percepita come il
cavallo di Troia dell’Occidente per spaccare la patria e rigettarla in una
nuova età dei torbidi.
Con i
cinesi a Khabarovsk, la Nato a Kaliningrad, gli islamisti padroni del Caucaso e
dilaganti nel Tatarstan, gli skinheads a scorrazzare per San Pietroburgo, come
nel fosco video di propaganda diffuso dai sostenitori di Putin alla vigilia
delle elezioni del 2012.
Che
cos’è allora questo putinismo che da quindici anni regge la Federazione Russa?
I politologi potrebbero ricorrere forse al termine “democratura”, crasi di
democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista “Predrag Matvejevic “descriveva i regimi formalmente
costituzionali ma di fatto oligarchici”.
Eppure
il caso russo fa storia a sé.
Sotto
il profilo geopolitico l’impero di Mosca ama offrirsi, oggi più che mai, come
un polo autonomo e sovrano del “mondo cristiano”.
Agli
esordi, la Russia di Putin anelava ad essere riconosciuta come soggetto indipendente
dell’insieme occidentale — leggi: anti-cinese e anti-islamico.
Dal
2007 però, offeso dal rifiuto americano a considerarlo un partner paritario, il
leader ha portato la Russia a contrapporsi all’Occidente.
La
guerra in Ucraina, nella quale i russi si percepiscono aggrediti da americani
ed europei, lo ha spinto infine verso un’intesa tattica con la Cina e con due
potenze islamiche come Turchia e Iran: i nemici storici di ieri sono gli
(infidi) alleati di oggi.
Quanto
al regime politico: in Russia si vota, certo, ma le elezioni sono “gestite”,
ossia più o meno moderatamente manipolate.
Al
centro del sistema partitico sta “Russia Unita”, braccio politico del
presidente.
Il
quale incarna il cuore del meccanismo decisionale, secondo il principio della
“verticale del potere”.
I
comandi partono dal Cremlino e si diramano giù fino all’ultimo dei poteri
locali. Governo e Parlamento hanno ruoli non paragonabili al rango formale.
Putin preferisce infatti decidere radunando
piccoli comitati informali.
Appena giunto al potere ha stabilito che il
lunedì avrebbe radunato al Cremlino alcuni ministri, mentre le questioni serie
le avrebbe discusse il sabato in dacia, con i consiglieri fidati e gli
esponenti dei “dicasteri della forza” — militari e capi dell’intelligence.
L’ukaz che determinava l’annessione della
Crimea, ad esempio, il presidente l’ha varato dopo aver consultato solo il
segretario del Consiglio di sicurezza, “Nikolaj Patrushev”, già direttore
dell’intelligence, e il ministro della Difesa, “Sergej Shojgu”.
Putin
era e resta uomo dei servizi segreti, nei quali entrò nel lontano 1976.
«Un agente del Kgb non è mai ex», ripete.
La sua visione del mondo è quella
visceralmente securitaria che segna ogni uomo di intelligence.
I suoi pochi confidenti vengono quasi tutti
dal medesimo ambiente.
Ma il
presidente non è un dittatore assoluto.
È
l’amministratore delegato scelto dalle élite russe — in specie dagli apparati
della forza ma anche da una pattuglia di oligarchi fidati — per proteggere il
sistema.
Ad esse risponde.
Putin
è un capo certo potentissimo, ma revocabile, se al sistema servisse un uomo
nuovo.
Con la
guerra alle porte e la recessione che incupisce le prospettive dell’economia
nazionale, non ci stupiremmo se un giorno non troppo lontano qualcuno dei
mandatari — magari un generale — lo invitasse a dichiararsi malato per il
supremo bene della patria.
Uno
degli uomini che lo aiutarono a insediarsi come amministratore delegato della
Federazione Russa per salvarla dalla disintegrazione, “Gleb Pavlovsky”, ha
osservato:
«È impossibile dire quando questo sistema
cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno.
E
quello che gli succederà sarà la copia di questo».
E i russi di buona volontà, altrettanto
patriottici di Putin, ma che aspirano alla libertà e allo Stato di diritto?
Visti dal Cremlino, per loro vale sempre il
motto del vecchio ministro zarista delle Finanze, Sergej Witte:
«I nostri intellettuali lamentano che non
abbiamo un governo come in Inghilterra. Farebbero meglio a ringraziare Iddio
che non abbiamo un governo come quello della Cina».
(Repubblica)
Il
governo mondiale che ci aspetta
(se
non ci ribelliamo subito).
Benecomune.net
- Alessandro Giuliani – (30 marzo 2021) - ci dice:
Bisogna
prendere personalmente in carico il contrasto a questa tendenza livellatrice
senza paura di sembrare ‘nazionalisti’ (la questione si pone ad un livello
molto più fondamentale rispetto alla politica), evitare il più possibile ogni
uso indebito di espressioni anglofone, curare la corretta sintassi italica,
arrivare al fondo dei problemi senza scorciatoie definitorie per cui si è
classificati come ‘omofobi’, ‘negazionisti’ o ‘sovranisti’ con l’accluso
fardello di colpa da espiare…
Edinson Cavani
è un forte (e anche molto corretto) attaccante uruguayano in forza al
Manchester United.
Il 29
novembre, dopo la partita vinta dal Manchester United per 3 a 2 contro il
Southampton, Cavani aveva pubblicato sul suo profilo Instagram una storia in
cui rispondeva ad alcuni complimenti commentando: «gracias negrito».
Apriti
cielo!
La
federazione calcistica inglese lo squalifica per tre turni e gli commina una
multa di circa centomila euro perché il suo commento «conteneva riferimenti,
espliciti o impliciti, al colore e/o alla razza e/o all’origine etnica».
A
niente sono servite le precisazioni dell’accademia uruguagia di lingua e
letteratura spagnola che ha sottolineato come ‘negro’ e ancor più ‘negrito’
siano in spagnolo modi colloquiali e per nulla offensivi di riferirsi alle
persone né più né meno come noi chiamiamo qualcuno ‘biondo’ o ‘smilzo’ o anche
‘ciccio’ (questa ultima locuzione particolarmente affettuosa).
Dove è
il razzismo allora?
Sicuramente
non alberga nella espressione di “Edinson “ma di sicuro abbonda dalla parte
della federazione calcistica inglese con la sua pretesa di imporre un
atteggiamento ‘anglofono’ al resto del mondo (ricordiamoci le acute
osservazioni di Gramsci sulla lingua come ‘concezione del mondo’) senza alcun
rispetto per le culture differenti.
A me
Cavani è sempre stato simpatico (tra l’altro condividiamo lo stesso giorno di
nascita, il 14 di Febbraio) e non riesco a sopportare che si sia dovuto scusare
per essere stato sé stesso, per essersi comportato secondo la sua cultura e
tradizione, costretto da un potere malvagio e diffuso (è stato coperto di
insulti dagli utenti della rete).
Bisogna stare attenti a chi ci vuole imporre
questa ‘lingua di legno’ che tribalizza il mondo in buoni/cattivi,
fedeli/infedeli, antirazzisti/razzisti, è la falsa religione dei ‘buoni’ che sta corrompendo il mondo e prepara
(anche aiutata dalla crisi pandemica) un governo mondiale che ha il denaro come
unico valore e uno stolto manicheismo assetato di ‘casi esemplari’ come
predicazione al popolo.
Bisogna
prendere personalmente in carico il contrasto a questa tendenza livellatrice
senza paura di sembrare ‘nazionalisti’ (la questione si pone ad un livello
molto più fondamentale rispetto alla politica), evitare il più possibile ogni
uso indebito di espressioni anglofone (le mie figlie mi prendono in giro ma io
continuo a criticarle quando parlano di ‘body-shaming’ o di ‘small-talk),
curare la corretta sintassi italica, arrivare al fondo dei problemi senza
scorciatoie definitorie (i maledetti ‘hashtag’) per cui si è classificati come
‘omofobi’, ‘negazionisti’ o ‘sovranisti’ con l’accluso fardello di colpa da espiare.
Ne va
della nostra salvezza.
Autoritarismo.
Treaccani.it - Juan J. Linz – (30-10- 2020) –
ci dice:
(Enciclopedia delle Scienze Sociali)
DEFINIZIONE.
Definiamo
autoritari diversi sistemi politici non democratici e non totalitari, se sono: "sistemi
a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del
proprio operato, che non sono basati su un'ideologia guida articolata, ma sono
caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione
politica capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo,
e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro
limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto
prevedibili" (v. Linz, 1964, p. 225).
Questa
definizione, elaborata contrapponendo i sistemi autoritari alle democrazie
competitive, da una parte, e al tipo ideale di sistema totalitario, dall'altra
(v. Linz, 1964, Opposition..., 1973, The future..., 1973), opera una
distinzione netta tra sistemi autoritari e sistemi democratici, mentre non
distingue altrettanto nettamente i primi dai sistemi totalitari, in quanto può
adattarsi anche alle situazioni e ai regimi pre- e post-totalitari.
Un'ulteriore delimitazione consiste nell'esclusione dei regimi tradizionali legittimi,
delle monarchie semicostituzionali del XIX secolo, liberali ma non
democratiche, e delle democrazie censitarie, in cui il suffragio ristretto
rappresentò un passo avanti nel processo evolutivo verso le moderne democrazie
competitive basate sul suffragio universale maschile. Le democrazie
oligarchiche, che, soprattutto in America Latina, hanno resistito alle spinte
verso un'ulteriore democratizzazione conservando limitazioni al suffragio
basate sull'analfabetismo, sul controllo o sulla manipolazione delle elezioni,
sul frequente ricorso al potere moderatore dell'esercito, sull'esistenza di
partiti non differenziati, si collocano in una posizione di confine, più vicine
alla democrazia per quel che riguarda la concezione della costituzione e
dell'ideologia, ma più simili da un punto di vista sociologico ad alcuni regimi
autoritari.Il nostro concetto di autoritarismo è incentrato sul modo di
esercitare e organizzare il potere, sui suoi legami con la società, sulla
natura dei sistemi di credenze che lo sostengono e sul ruolo dei cittadini nel
processo politico, mentre non considera il contenuto effettivo delle varie
politiche, gli obiettivi perseguiti, la raison d'être dei regimi autoritari.
Esso
non ci dice molto sulle istituzioni, sui gruppi e sugli strati sociali che
fanno parte del pluralismo limitato, o su quelli che ne sono esclusi. Il fatto
che sottolinei gli aspetti più strettamente politici espone questo concetto ad
alcune di quelle stesse accuse di formalismo mosse al concetto generale di
totalitarismo, e peraltro anche di democrazia. Noi caratterizziamo i regimi,
indipendentemente dalle politiche che perseguono, in base al particolare modo
in cui trattano problemi che tutti i sistemi politici si trovano ad affrontare,
per esempio i rapporti tra politica e religione, o tra politica e
intellettuali. Anche le condizioni in cui i regimi emergono, si stabilizzano,
si trasformano ed eventualmente crollano sono piuttosto differenziate. Il
carattere generale e astratto della definizione proposta rende necessario
abbandonare il piano dell'astrazione per addentrarci nello studio dei vari
sottotipi.La caratteristica fondamentale rimane l'elemento pluralistico, ma non
si sottolineerà mai abbastanza che, al contrario di quanto avviene nelle
democrazie, con il loro pluralismo politico quasi illimitato e
istituzionalizzato, ci troviamo qui di fronte a un pluralismo limitato. È stato
suggerito che avremmo potuto definire questi sistemi 'regimi a monismo
limitato', termini che suggerirebbero la sfera entro cui questi regimi operano.
La limitazione del pluralismo può essere de iure o de facto, attuata in modo
più o meno efficace, circoscritta a gruppi strettamente politici o estesa a
gruppi di interesse, purché si tratti di gruppi non creati né dipendenti dallo
Stato, che influenzano il processo politico.
Alcuni
regimi arrivano persino a istituzionalizzare la partecipazione politica di un
numero limitato di gruppi o di istituzioni indipendenti e anche a incoraggiarne
l'affermazione, senza comunque lasciare alcun dubbio sul fatto che, in ultima
istanza, sono i governanti a determinare quali gruppi possano esistere e a
quali condizioni. Il potere politico non è tenuto, né de iure né de facto, a
rendere conto del proprio operato, attraverso tali gruppi, ai cittadini, in contrasto
con quanto avviene nei governi democratici, dove le forze politiche dipendono
formalmente dal sostegno dei collegi elettorali. Nei regimi autoritari gli
uomini che salgono al potere come rappresentanti dei punti di vista di diversi
gruppi e istituzioni non devono la loro posizione solo al sostegno di questi
gruppi, ma anche alla fiducia riposta in loro dal leader o dal gruppo
dirigente, che tengono conto del loro prestigio e della loro influenza. Grazie
a un processo costante di cooptazione dei leaders, diversi settori o
istituzioni entrano a far parte del sistema; questo meccanismo spiega le
caratteristiche dell'élite: una certa eterogeneità sotto il profilo della
formazione culturale e dei modelli di carriera e una prevalenza di burocrati,
tecnici specializzati, militari di carriera, rappresentanti di gruppi
d'interesse e, a volte, di gruppi religiosi rispetto ai politici di
professione.
In
alcuni di questi regimi un partito - ufficiale, unico o privilegiato -
costituisce una componente più o meno importante del pluralismo limitato. Sulla
carta partiti del genere spesso pretendono lo stesso potere monopolistico dei
partiti totalitari e presumibilmente svolgono le stesse funzioni, ma in realtà
vanno tenuti ben distinti. L'assenza, o la debolezza, di un partito politico
spesso fa sì che organizzazioni laiche legate alla Chiesa o da essa patrocinate
diventino un serbatoio di quadri dirigenti, con una funzione non molto diversa
da quella che svolgono nel reclutamento delle élites dei partiti
democratico-cristiani (v. Hermet, 1973). Il partito unico è basato il più delle
volte sulla fusione di elementi diversi anziché su un corpo unico irreggimentato
ed è più una creazione di coloro che sono al potere che un partito che ha
conquistato il potere, come accade invece nei sistemi totalitari.
Useremo
il termine 'mentalità' anziché 'ideologia', seguendo la distinzione fatta dal
sociologo tedesco Theodor Geiger (v., 1932, pp. 77-79). Secondo Geiger, le
ideologie sono sistemi di pensiero più o meno elaborati e strutturati, spesso
in forma scritta, da intellettuali o pseudointellettuali, o con il loro aiuto;
le mentalità sono modi di pensare e di sentire, più emotivi che razionali, che
influenzano il comportamento senza codificarlo.I regimi autoritari
burocratico-militari riflettono in misura maggiore la mentalità dei loro
governanti. In altri regimi troviamo un consenso sul programma e in altri
ancora un complesso di idee mutuate da varie fonti e messe insieme alla rinfusa
per dare l'impressione che costituiscano un'ideologia nell'accezione valida per
i sistemi totalitari. I regimi autoritari che si trovano alla periferia di
centri ideologici si sentono costretti a imitare, incorporare e manipolare gli
stili ideologici dominanti, e ciò può creare equivoci fra gli studiosi. La
complessa coalizione di forze, interessi, tradizioni politiche e istituzioni -
che fanno parte del pluralismo limitato - esige che i governanti usino come
referente simbolico il minimo comune denominatore. Valori generici quali il
patriottismo e il nazionalismo, lo sviluppo economico, la giustizia sociale e
l'ordine, oltre all'assimilazione cauta e pragmatica di elementi ideologici mutuati
dai centri politici dominanti, danno ai governanti privi del sostegno di una
mobilitazione di massa la possibilità di neutralizzare gli oppositori, di
cooptare una vasta gamma di sostenitori, di decidere in modo pragmatico quali
politiche adottare. Le mentalità e le semi- o pseudoideologie diminuiscono la
tensione utopistica in politica e in tal modo riducono i conflitti, che
altrimenti richiederebbero o l'istituzionalizzazione o una maggiore
repressione.
La
mancanza di ideologia limita la capacità di mobilitare la popolazione, di
creare l'identificazione psicologica ed emotiva delle masse. L'assenza di un
valore supremo, di obiettivi di lungo respiro, di un modello di società ideale
riduce l'attrattiva dei regimi autoritari agli occhi di coloro che danno alle
idee e ai valori un'importanza centrale e può spiegare l'estraniazione degli
intellettuali, degli studenti, dei giovani e delle persone profondamente
religiose.
La
scarsa e limitata mobilitazione politica è una caratteristica dei regimi
autoritari. In alcuni la spoliticizzazione delle masse rientra nelle intenzioni
dei governanti, in altri i governanti, all'inizio, intendevano indurre i loro
sostenitori e la popolazione a un coinvolgimento attivo. La lotta per
l'indipendenza da un potere coloniale, il desiderio di integrare nel processo
politico settori della società trascurati da tutte le leaderships precedenti, o
la sconfitta di un oppositore con grande seguito popolare in società in cui la
democrazia aveva permesso e incoraggiato tale mobilitazione fanno emergere
regimi autoritari di mobilitazione, nazionalisti, populisti o fascisti. La
necessità di mantenere un equilibrio all'interno del pluralismo limitato riduce
l'efficacia della mobilitazione di un partito unico e in ultima analisi conduce
all'apatia i membri e gli attivisti.Il pluralismo limitato dei regimi
autoritari genera modelli complessi di semiopposizione e di pseudoopposizione
(v. Linz, Opposition..., 1973). La semiopposizione è propria di gruppi non
dominanti né rappresentati nel gruppo di governo, parzialmente critici, ma
disposti a partecipare al potere senza sfidare fino in fondo il regime. Essi
distinguono tra il governo e alcuni aspetti dell'ordinamento istituzionale e il
leader del regime, e accettano la legittimità storica o almeno la necessità
della formula autoritaria. Non è raro che la semiopposizione diventi
un'opposizione extralegale: essa ha perso la speranza di trasformare il regime
dall'interno, ma non è ancora pronta a intraprendere attività illegali o
sovversive e gode di una tolleranza intermittente, a volte basata su legami
personali. Anche la debolezza dei tentativi di socializzazione politica spiega
perché la terza generazione, una volta scoperta la politica, opti per
un'opposizione extralegale.
L'autonomia
di certe organizzazioni sociali, la tendenza a una relativa liberalizzazione,
una maggiore partecipazione alle organizzazioni del regime e la parziale
apertura verso altre società creano i presupposti per l'emergere di
un'opposizione extralegale, che a volte serve da facciata per un'opposizione
illegale, pronta a infiltrarsi nelle organizzazioni del regime. L'opposizione
spesso è incanalata in organizzazioni formalmente apolitiche a carattere
culturale, religioso o professionale. La posizione particolare della Chiesa
cattolica sotto un governo autoritario le assicura una certa autonomia, che
serve a convogliare l'opposizione di classi sociali, minoranze culturali,
giovani ecc. e a far emergere nuovi leaders. Poiché si tratta di un'istituzione
destinata a sopravvivere a qualsiasi regime, anche a quelli con cui si è
identificata in un particolare momento storico, è probabile che riacquisti la
sua autonomia quando compaiono segnali di crisi, allo stesso modo di altre
istituzioni, che potrebbero avere conservato una notevole autonomia, come la
magistratura, la categoria dei professionisti e quella dei funzionari statali.I
regimi autoritari sono difficili da studiare, poiché non hanno mai, in nessun
caso, acceso l'immaginazione di intellettuali e attivisti, né hanno ispirato
un'internazionale fra i partiti sostenitori del loro modello, e i loro leaders
si sono sentiti obbligati a scimmiottare i più attraenti modelli totalitari.
Negli anni trenta, grazie alla capacità dell'ideologia del corporativismo di
combinare una grande varietà di retaggi ideologici e di collegarsi alla
dottrina sociale cattolica conservatrice, sembrò che i regimi autoritari
offrissero un'alternativa, ma il loro evidente fallimento ha pregiudicato
questo terzo modello politico.
PER
UNA TIPOLOGIA DEI REGIMI AUTORITARI
Se la
definizione astratta, sopra proposta, di regime autoritario è utile, dovrebbe
permetterci di delineare alcuni sottotipi. Il pluralismo limitato, al contrario
del monismo, produce tipologie che tengono conto di quali istituzioni e quali gruppi
siano ammessi a partecipare alla vita politica, e in che modo, e quali ne siano
esclusi. Se è il rifiuto della mobilitazione a distinguere tali regimi dal
totalitarismo, le ragioni della mobilitazione limitata e la sua natura
dovrebbero fornire un ulteriore parametro.Il pluralismo limitato assume una
varietà di forme, a seconda della posizione più o meno preminente dei diversi
gruppi o istituzioni. I regimi autoritari vanno da quelli dominati da un'élite
burocratico-tecnocratico-militare, preesistente al regime, ad altri in cui la
partecipazione politica viene mediata da un partito unico o dominante che
emerge dalla società. In altri regimi diversi gruppi e istituzioni sociali
vengono creati o ammessi a partecipare al processo politico nella forma del cosiddetto
statalismo organico, spesso definito - in termini ideologici - 'corporativismo'
o 'democrazia organica'.Se guardiamo invece all'aspetto della partecipazione
limitata e/o controllata, dell'apatia politica della maggior parte dei
cittadini, tollerata o incoraggiata che sia, troviamo che nei regimi
burocratico-tecnocratico-militari sono pochi - seppure esistono - i canali che
danno adito alla partecipazione e che i governanti non hanno neppure interesse
a manipolarla. Troviamo anche regimi che tentano di mobilitare i cittadini
attraverso canali monopolistici ben precisi, soprattutto un partito unico o
dominante e le organizzazioni di massa e funzionali che ne dipendono. Nella
misura in cui un tale partito non viene concepito per escludere altre organizzazioni
e istituzioni da un pluralismo politico limitato e non le invade completamente,
ci troviamo di fronte a regimi di mobilitazione, diversi sia da quelli
burocratico-tecnocratico-militari, sia da quelli che abbiamo raggruppato sotto
l'etichetta di statalismo organico.
A
seconda delle circostanze in cui sono apparsi, questi regimi rientrano in due
categorie: a) i regimi retti da un partito di mobilitazione, unico o dominante;
b) le società post-democratiche. Il partito unico (o dominante) emerge dalla
società nel corso della lotta per l'indipendenza, conquistandosi una posizione
di dominio, che proteggerà sia abolendo quelle libertà politiche che
porterebbero all'affermazione di altri partiti, sia cooptando o persino
corrompendo i potenziali concorrenti. All'inizio questi regimi si basano su una
notevole mobilitazione e potrebbero prendere una direzione totalitaria, ma poi
divengono regimi in cui il partito, che in origine faceva affidamento sulla
mobilitazione, costituisce una componente importante della struttura del
potere. Nelle società post-democratiche un governo puramente
burocratico-militare o uno basato sulla rappresentanza, propria dello
statalismo organico, di un numero ben definito di gruppi sociali e di interessi
istituzionali non sono realizzabili, perché gran parte della società conta su
una qualche forma di partecipazione. Regimi del genere si affermano quando la
lotta per l'esclusione di specifici settori della società ha richiesto una
certa mobilitazione e la creazione di un partito, di organizzazioni di massa e
persino di organizzazioni coercitive in aggiunta alle strutture burocratiche
della polizia e dell'esercito. Se questi partiti e movimenti hanno mirato,
senza ottenerlo, a un monopolio totalitario del potere, possiamo parlare di sistemi
totalitari difettosi o bloccati. Dal momento che il processo di instaurazione
di un sistema totalitario vero e proprio non si conclude il giorno stesso della
presa del potere, possiamo includere tra le situazioni autoritarie anche le
fasi pre-totalitarie di certi sistemi politici. Infine il modo in cui il
pluralismo limitato si afferma dopo un governo totalitario ci induce a parlare
di regimi post-totalitari.
Le
varie forme di pluralismo limitato corrispondono, più o meno, a modi diversi di
articolare le idee che legittimano il sistema. Nel caso di governi
burocratico-militari, le idee non sono molto articolate in termini
intellettuali; possiamo parlare più che altro di mentalità, prestando scarsa
attenzione alle formule ideologiche, che tendono a essere semplicistiche e
spesso di seconda mano.
È
probabile invece che i regimi autoritari di mobilitazione, soprattutto quando
assegnano un ruolo importante al partito unico o dominante e tentano di
incoraggiare la partecipazione dei cittadini, si affidino a formule
ideologiche. La relativa mancanza di articolazione e di complessità di queste
formule e spesso il loro carattere secondario contribuiscono a deteriorare la
componente di mobilitazione e quindi il partito e la partecipazione di massa.
Ne risulta un avvicinamento di molti regimi autoritari di mobilitazione al tipo
burocratico-militare o allo statalismo organico. Solo nel caso di regimi
autoritari di mobilitazione post-democratici, dominati da un partito fascista
che già prima di prendere il potere era una forza politica rilevante,
l'ideologia rimane in effetti un importante fattore indipendente, non del tutto
riducibile alla nostra nozione di mentalità.I regimi autoritari
burocratico-militari, che non hanno elaborato né un'istituzionalizzazione più complessa
del pluralismo limitato sotto forma di statalismo organico, né un partito
unico, sono in qualche modo i regimi autoritari paradigmatici, lontani dai
sistemi politici democratici, ma anche dal totalitarismo moderno.
Le
occasioni di partecipazione alla vita politica e quindi di accesso al potere,
proprie dei regimi autoritari di mobilitazione, avvicinano questi al tipo
ideale di sistema democratico. Tuttavia questi regimi rappresentano un ostacolo
alla sopravvivenza e all'influenza politica del pluralismo societario, e si
contrappongono alla libertà di organizzazione caratteristica dei sistemi
democratici. Lo statalismo organico, istituzionalizzando il pluralismo
esistente e incorporandolo nel processo politico, senza accordare il monopolio
a un'unica organizzazione politica, è più vicino al pluralismo che si sviluppa
spontaneamente nel quadro di una società libera, ma sacrifica maggiori
possibilità di partecipazione del cittadino medio agli interessi di varie
élites. Lo statalismo organico è più distante dall'idea di partecipazione dei
cittadini di quanto non lo siano i regimi di maggiore mobilitazione.Molti
regimi si trovano a cavallo tra questi vari tipi ideali e molti combinano
elementi più o meno importanti in diverse fasi della loro storia. Molti regimi
si affermano come burocrazie militari, ma, dopo essersi consolidati al potere,
esplorano le altre alternative e tentano di trasformarsi in statalismi organici
e, senza successo, in regimi di mobilitazione.
REGIMI
AUTORITARI BUROCRATICO-MILITARI
Il
sottotipo più frequente è costituito da quei regimi in cui una coalizione,
controllata in modo prevalente ma non esclusivo da ufficiali dell'esercito,
burocrati e tecnocrati, assume il controllo del governo ed esclude o include
altri gruppi senza affidarsi a un'ideologia specifica, agisce in modo
pragmatico nei limiti della mentalità burocratica e non crea un partito unico
di massa, né gli consente di svolgere un ruolo dominante. Questi regimi possono
operare senza partiti, ma spesso hanno creato un partito unico ufficiale
sostenuto dal governo, il quale, più che mirare a una mobilitazione controllata
della popolazione, tende a ridurne la partecipazione politica. In diversi casi
questi regimi permettono l'esistenza di un sistema pluripartitico, assicurandosi
però che le elezioni non offrano, neppure ai partiti autorizzati, alcuna
possibilità di libera competizione per ottenere il sostegno popolare, e,
ricorrendo a manipolazioni, che vanno dalla cooptazione e dalla corruzione alla
repressione, tentano di assicurarsi la collaborazione o la sottomissione dei
partiti stessi, o di neutralizzarne l'azione (v. Janos, 1970).La letteratura di
stampo più polemico tende a tacciare di fascismo i regimi di questo genere,
soprattutto perché - negli anni tra le due guerre mondiali - essi adottarono
slogan, simboli e uno stile fascisti, nonché alcuni degli elementi più
opportunistici dei movimenti fascisti.
Il
ruolo dominante rivestito dall'esercito e il fatto che molti ufficiali svolsero
una funzione importante, anche dove l'esercito - in quanto istituzione - non
assunse il potere, hanno indotto a classificare questi regimi come dittature
militari; ma anche quando essi nacquero come dittature militari, non si può
ignorare la loro struttura politica assai più complessa e il ruolo importante
dei leaders civili, soprattutto dei più alti funzionari statali, ma anche dei
professionisti e degli esperti, oltre che degli esponenti politici dei partiti
preesistenti al colpo di Stato (v. Janos, 1970 e 1982; v. Roberts, 1951; v.
Tomasevich, 1955; v. Cohen, 1973; v. Macartney, 1962; v. Payne, 1987). In molti
di questi regimi le istituzioni tradizionali, come la monarchia e, in misura
minore, la Chiesa, o le classi sociali premoderne, come quella dei grandi
proprietari terrieri, svolsero un ruolo importante, ma sarebbe errato definire
tradizionali tali sistemi. Tanto per cominciare, la legittimazione tradizionale
della monarchia nei paesi con regimi del genere era, salvo qualche eccezione,
relativamente debole (v. Clogg e Yannopoulos, 1972).Nonostante un certo
arbitrio nell'esercizio del potere, questi regimi fecero un notevole sforzo per
operare in un quadro legalitario: promulgarono costituzioni modellate su quelle
delle democrazie liberali occidentali, conservarono il più a lungo possibile
forme parlamentari pseudocostituzionali, fecero uso delle procedure legali e
dei tribunali e, soprattutto, pretesero dai funzionari e dagli ufficiali
un'obbedienza basata non tanto sull'accettazione delle loro politiche, dei loro
programmi o del loro carisma, quanto sull'autorità della legge.
Questo
legalitarismo, inerente alla formazione di molti detentori del potere -
funzionari statali e politici di un precedente sistema democratico più liberale
-, porta spesso a curiose contraddizioni: esso assicura sorprendentemente un
certo spazio alla libertà individuale, ma si rende responsabile di alcuni tra i
più oltraggiosi abusi di potere, quali l'assassinio politico, l'esecuzione di
oppositori "mentre cercavano di fuggire" (anziché dopo un processo o,
come nei sistemi totalitari, dopo un processo farsa) e l'uso della violenza
privata con la connivenza delle autorità. In questi regimi, invece di una
'legalità rivoluzionaria', si attua una distorsione o una perversione della
legalità. In tempi più recenti il fenomeno dei desaparecidos in Argentina, in
Cile e in altri paesi rappresenta una nuova forma di repressione messa in atto
da questo tipo di regimi.
Alcuni
degli uomini che assumono il controllo sono alti funzionari statali, spesso
esperti in materia fiscale, incaricati di realizzare riforme fiscali, di
promuovere un certo grado di intervento governativo nell'economia e di
incoraggiare l'industrializzazione, senza, comunque, creare un settore pubblico
su vasta scala (v. Janos, 1970, pp. 212-216). Le loro politiche sono
pragmatiche, attente ai cicli economici e al sistema economico internazionale,
e quindi tendono ad adottare una varietà di misure spesso non troppo dissimili
da quelle in vigore nei paesi con altri sistemi politici.
Questi
regimi sono comparsi in società ancora poco industrializzate, con
un'agricoltura scarsamente modernizzata e con una popolazione rurale numerosa,
composta in genere di contadini poveri e/o di braccianti agricoli o di
affittuari; società caratterizzate, nonostante lo scarso livello di sviluppo
economico, da un processo di urbanizzazione piuttosto avanzato, da una
diffusione dell'istruzione relativamente ampia e quindi dalla crescita di un
ceto medio di professionisti alla ricerca di un impiego statale o parastatale.
I sostenitori principali e i quadri di questi regimi provengono da quella
classe che gli studiosi delle società dell'Est europeo hanno chiamato
'borghesia di Stato', anche se i maggiori beneficiari delle politiche
governative potrebbero essere altri gruppi sociali: le classi rurali più ricche
o gli appartenenti ai pochi settori commerciali ben ammanicati.Nelle società
più avanzate, i disagi provocati dalla guerra e/o l'esempio di rivoluzioni
straniere crearono sacche di protesta e, nei momenti di crisi, tentativi
rivoluzionari condannati al fallimento, o ondate di terrorismo e di
controterrorismo. L'esperienza di una minaccia rivoluzionaria diede a molti
sistemi un forte carattere controrivoluzionario e reazionario.L'obiettivo di
questi regimi è di impedire alle masse - soprattutto agli operai, ai braccianti
agricoli, ai contadini non privilegiati e, a volte, alle minoranze religiose,
etniche o culturali, che rivendicano una quota maggiore delle risorse della
società - di organizzarsi e di partecipare al potere in modo indipendente e
senza controlli. Questi regimi permettono un maggiore o minore pluralismo
all'interno di altri settori della società e assicurano un ruolo importante ai
militari e ai burocrati capaci di tenere a freno le masse. È difficile che essi
introducano sostanziali cambiamenti strutturali nella società, ma spesso
limitano anche il potere, la capacità organizzativa e l'autonomia delle élites
privilegiate: i gruppi economici, le categorie di professionisti, i capitalisti
stranieri, persino le organizzazioni religiose e, di rado, l'esercito.
Questi
regimi si affermano in genere dopo che un periodo di democrazia liberale ha
permesso la mobilitazione delle classi non privilegiate. Il grado di autonomia
che essi sono disposti a concedere alle classi socioeconomicamente più
privilegiate può variare in funzione della minaccia che il dominio di questi
strati potrebbe rappresentare per coloro che si sono assunti il compito di
proteggere il regime e se stessi dalle rivendicazioni radicali rivoluzionarie
dei non privilegiati. A seconda della forza del regime, si concederà ai
notabili tradizionali una parte del potere. Sarà lo sviluppo economico a
determinare fino a che punto si concederà a coloro che controllano i mezzi di
produzione di far parte della coalizione al potere o di esercitare un'influenza
dominante. Sarà il livello di mobilitazione dei non privilegiati prima
dell'avvento del regime autoritario a determinare in gran parte in quale misura
i burocrati e i militari, impegnati a difendere il sistema, svolgeranno un
ruolo dominante e in quale misura tenteranno di integrare nel sistema i non
privilegiati attraverso organizzazioni controllate, quali i sindacati
ufficiali, le organizzazioni corporative, o partiti di tipo populista o fascista.
Come
ha dimostrato Schmitter (v., Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974),
riprendendo il modello bonapartista sviluppato da Marx, questi regimi
autoritari possono spingersi molto lontano nel rendere indipendente lo Stato e
nel logorare di giorno in giorno il potere politico della borghesia, proprio
mentre ne proteggono il potere materiale. Quando esiste una popolazione
contadina non mobilitata politicamente, o sicura di sé e soddisfatta, tale
classe sociale fornisce un sostegno al regime. I limiti imposti alle classi
privilegiate e gli ostacoli alla libera attuazione degli interessi della classe
media, in particolare di quelli dei suoi settori più sofisticati sul piano
intellettuale, portano al paradosso per cui la stabilità di questi regimi è
minacciata più dalle classi che li hanno portati al potere e che traggono i
maggiori vantaggi dal loro governo, che non da quelle escluse dal pluralismo
limitato.
Un
problema che molti regimi non sono riusciti a risolvere è quello delle profonde
divisioni etniche e nazionali, in particolare nell'Europa dell'Est, con le sue
minoranze più o meno oppresse a volte leali a un paese confinante. Conflitti
del genere hanno rafforzato il nazionalismo sciovinista e il ruolo politico
dell'esercito. Janos (v., 1970) e Nagy-Talavera (v., 1970) hanno dimostrato
come la posizione sociale degli ebrei nell'Europa orientale, in particolare la
loro preponderanza tra i laureati in società caratterizzate da una
disoccupazione intellettuale su larga scala, generò sentimenti antisemiti
manipolati dai governanti.In società più complesse, con livelli di
mobilitazione sociale più alti e una tradizione intellettuale cattolica, i
regimi autoritari consolidati di tipo militare-burocratico hanno rafforzato la
propria istituzionalizzazione, realizzando una rottura esplicita con le forme
costituzionali liberal-democratiche. Alcuni hanno optato per forme di governo
miste, ottenute combinando in varia misura lo 'statalismo organico' con sistemi
basati su partiti unici di mobilitazione di ispirazione fascista (la Spagna nel
1926, il Portogallo nei primi anni trenta, l'Austria nel 1934, il Brasile di
Vargas dal 1937 al 1945 e la Spagna di Franco). Il modello ottimistico secondo
il quale lo sviluppo socioeconomico favorirebbe la pluralizzazione politica e
quindi l'avvento della democrazia è stato smentito in due dei paesi più
avanzati dell'America Latina. Guillermo O'Donnell (v., 1973) ha proposto un
modello alternativo, che associa un grado più elevato di sviluppo economico e
sociale all'emergere di un autoritarismo burocratico volto a escludere dalla
vita politica settori popolari politicamente attivi, in particolare le classi
lavoratrici urbane, tramite la coalizione fra un nuovo tipo di élite militare e
i tecnocrati dei settori pubblico e privato, con il sostegno delle classi
sociali minacciate dalla mobilitazione. Come ha dimostrato Stepan (v., 1973 e
1978), i tecnocrati dell'esercito, della burocrazia e delle imprese moderne
condividono la stessa concezione dei requisiti necessari allo sviluppo, fra cui
annoverano, in particolare, l'esclusione e la neutralizzazione delle classi
popolari, e mantengono collegamenti internazionali con élites analoghe presenti
in altre società industriali avanzate, che li hanno portati a credere
fermamente nelle proprie capacità di risolvere i problemi sociali e di
esercitare un maggiore controllo sui settori cruciali delle loro società. La
loro coalizione golpista mirerà a rimodellare il contesto sociale in modo da
favorire l'applicazione delle conoscenze tecnocratiche e da ampliare
l'influenza dei settori sociali dove la loro presenza, a causa della
modernizzazione, è più massiccia.
A metà
degli anni sessanta il Brasile e l'Argentina cominciarono a escludere
dall'arena politica la classe popolare urbana, già politicizzata, rifiutando di
soddisfarne le richieste, ricorrendo alla coercizione diretta e/o bloccando i
canali elettorali di accesso alla politica. Questi tentativi sono destinati a
un grado maggiore o minore di successo. A un estremo si può ottenere la completa
neutralizzazione politica di un settore escluso attraverso la distruzione delle
sue risorse (soprattutto della sua base organizzativa); all'estremo opposto è
possibile che questa neutralizzazione non si realizzi. Questi paesi sono
passati da un sistema politico coinvolgente, che tentava esplicitamente di
mobilitare la classe popolare e le permetteva di far sentire la sua voce in una
fase di populismo e di industrializzazione orizzontale, all'esclusione. Si
trattava di paesi in cui la crisi mondiale degli anni trenta e la seconda
guerra mondiale avevano accelerato l'affermarsi dell'industria nazionale e di
una classe operaia urbana, e dove esisteva un'ampia coalizione populista,
capeggiata da leaders come Vargas e Perón, contro le vecchie oligarchie e le
imprese straniere. Queste coalizioni favorirono l'industrializzazione; sul
piano sociale ciò significò l'ampliarsi delle funzioni dello Stato e procurò
un'occupazione a molti impiegati e tecnici della classe media. Nazionalismo e
industrializzazione incontrarono il favore dell'esercito, portarono vantaggi ai
lavoratori urbani, incoraggiarono l'inurbamento, fecero salire i livelli di
consumo, incrementarono la sindacalizzazione e favorirono i settori agricoli i
cui prodotti erano destinati al consumo interno. Il governo destinò una quota
significativa delle sue entrate allo sviluppo e al consumo interni, a spese del
tradizionale settore dell'esportazione. Tuttavia l'importanza economica delle
esportazioni permise a questo settore di conservare un'influenza politica
sproporzionata rispetto al suo contributo, decrescente, al prodotto nazionale
lordo. Esaurita la fase più semplice dell'industrializzazione, la politica
della sostituzione delle importazioni generò l'esigenza di nuove importazioni,
in un periodo in cui l'instabilità dei prezzi delle esportazioni aggravava la
scarsa produttività dei settori dediti all'esportazione, che stavano pagando il
prezzo delle politiche populiste.
Tutto
ciò provocò carenze di valute estere. Vargas e Perón avevano incoraggiato la
sindacalizzazione dei lavoratori e concesso alla classe popolare urbana la
prima opportunità di avere un peso politico effettivo. Emersero nuovi problemi,
che portarono al crollo dell'alleanza populista. Nei sistemi politici
democratici più aperti, come quelli che succedettero a Vargas, il peso
elettorale, la possibilità di indire scioperi e manifestazioni e la più intensa
attivazione politica vennero percepiti come una minaccia. In Argentina e
Brasile la maggior parte delle classi dei possidenti fu d'accordo nel ritenere
eccessive le richieste delle classi popolari, sia in termini di consumi che di
partecipazione al potere, e impossibile l'accumulazione di capitale senza
tenerle sotto controllo. La componente classista di questa polarizzazione portò
all'adozione di una soluzione politica che avrebbe eliminato queste minacce,
rese più gravi dallo spettro della rivoluzione cubana. Il cambiamento di
mentalità del corpo ufficiali, in seguito all'addestramento antisovversivo
ricevuto negli Stati Uniti, e l'impatto delle dottrine militari francesi in
fatto di conflitto politico e di guerra civile generarono la teoria della
sicurezza nazionale, che contemplava anche lo sviluppo socioeconomico come
risposta alla sovversione interna. La diminuzione del reddito dell'ampia classe
media salariata ne determinò una disaffezione nei confronti di un sistema
formalmente democratico e una pronta risposta all'appello per la legge e
l'ordine. Il divario tra richieste e relative soddisfazioni e tra
differenziazione e integrazione portò a una situazione che è stata definita di
'pretorianesimo di massa' (v. Huntington, 1968).
Le
istituzioni politiche e i parlamenti furono ulteriormente indeboliti e
l'esecutivo si trovò al centro di un'ondata di richieste. I governi furono ingannati
e collaborarono con il 'pretorianesimo'. La situazione arrivò a un punto morto,
con elevati livelli di conflitto incontrollato; la debolezza del governo, che
impediva l'attuazione di qualsiasi politica, e l'ansia di conservare il potere
portarono a una serie di politiche volte a placare i personaggi politici più
minacciosi, con scarso interesse per la reale soluzione dei problemi. La
competizione si avvicinava sempre più a una situazione di stallo e i progressi
erano precari. Si arrivò così alla soglia di una crisi definitiva, quando la
maggior parte dei protagonisti politici si impegnò a cambiare completamente le
regole del gioco politico.La modernizzazione aveva fatto emergere una classe di
tecnocrati, che auspicavano la formazione di governi disposti a garantire loro
un potere decisionale. Queste élites si trovarono a operare in un ambiente
nuovo; nacquero nuove scuole aziendali, accademie militari avanzate e nuove
iniziative editoriali capaci di orientare l'opinione pubblica. Come ha
dimostrato Stepan (v., 1973), apparve una nuova mentalità. Data la loro
formazione, queste élites privilegiavano la soluzione tecnica dei problemi,
respingevano gli aspetti emotivi, erano consapevoli delle ambiguità insite
nelle contrattazioni, consideravano la politica un ostacolo alle soluzioni
razionali e il conflitto una disfunzione.In contesti altamente modernizzati, il
tentativo di escludere e neutralizzare il settore popolare, senza offrirgli
contropartite psicologiche o economiche, richiese misure coercitive decise e
sistematiche.
La
risposta fu l'autoritarismo burocratico, che soppresse i partiti politici e le
elezioni, addomesticò i sindacati attraverso la cooptazione, se non la
coercizione, e tentò di incapsulare con la burocrazia la maggior parte dei
settori sociali per massimizzarne il controllo. O'Donnell collega il suo
modello a quello presentato da Barrington Moore (v., 1966), parlando però di
una terza via storica all'industrializzazione, accanto alla rivoluzione
borghese e a quella comunista. Questa terza via comporta la coalizione fra la
burocrazia statale e le classi dei possidenti (compresa una borghesia
industriale subalterna) contro i contadini e un proletariato emergente. Questo
modello non è rimasto esente da critiche (v. Collier, 1979). Crisi politiche
più specifiche, i fallimenti della leadership, l'impatto del terrorismo, i
conflitti istituzionali fra presidenti e Congresso, l'alienazione dell'esercito
in seguito a iniziative presidenziali mal consigliate sono stati tra i fattori
che portarono al crollo della democrazia.
Dopo
solo due decenni in America Latina gli autoritarismi burocratico-militari
entrarono in crisi e in Uruguay, in Argentina e in Brasile ebbe luogo una
transizione verso la democrazia. Questi regimi, in un contesto culturale che
identificava la legittimità con i valori democratici, in un mondo largamente
ostile alla loro politica repressiva, resisi responsabili di una politica
economica fallimentare, sconfitti nella guerra delle Falkland-Malvinas,
delegittimati (soprattutto in Argentina) in quanto autori di una repressione
illegale, imprevedibile e crudele, incontrarono una resistenza sempre maggiore.
La rinascita della società civile attraverso il ripristino delle associazioni,
della stampa, dei sindacati, la posizione critica della Chiesa (in Brasile),
gli errori di valutazione riguardo all'appoggio che potevano incontrare i loro
schemi costituzionali (in Uruguay), indussero alcuni leaders a cercare forme di
liberalizzazione - la distencão - e un processo di transizione controllata -
l'apertura - (in Brasile), un'uscita di scena negoziata o un'abdicazione al
potere. La transizione non è ancora completa ed è minacciata di tanto in tanto
dai retaggi del passato, in particolare dalle violazioni dei diritti umani (in
Argentina) e dalla difficoltà di ridurre le prerogative dell'esercito (v.
O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986; v. Stepan, 1988).
LO
STATALISMO ORGANICO
Alcuni
regimi autoritari, che perseguono politiche molto diverse in termini di
interessi di classe e di organizzazione dell'economia, hanno tentato di andare
oltre il governo autoritario di tipo burocratico-tecnocratico-militare
controllando la partecipazione e la mobilitazione della società mediante
'strutture organiche'. Il rifiuto dei presupposti individualistici della
democrazia liberale, unito al desiderio di fornire un canale istituzionale
attraverso cui gli interessi eterogenei delle società moderne o in via di
modernizzazione potessero essere rappresentati evitando il modello del
conflitto di classe, ha prodotto una vasta gamma di formulazioni teoriche e
ideologiche e svariati tentativi di renderle operanti attraverso istituzioni
politiche.Il retaggio ideologico del conservatorismo controrivoluzionario
ottocentesco, che respingeva sia il liberalismo individualista che
l'assolutismo statale, e le reazioni di settori pre-industriali - quali gli
artigiani, i contadini e, a volte, persino i professionisti - all'avanzata del
capitalismo industriale e finanziario hanno dato origine a un insieme di
ideologie corporative (v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the
century..., 1974). La risposta antiliberale, anticapitalistica e antistatalista
fornita dalla Chiesa cattolica in encicliche come la Rerum Novarum ha
contribuito alla fortuna di queste ideologie. La tradizione sindacalista del
movimento operaio, che rifiutava l'autoritarismo marxista, il persistere dello
Stato come strumento di oppressione e la cooptazione del movimento operaio
socialdemocratico dei lavoratori, tramite la sua partecipazione alle elezioni e
alla politica parlamentare, hanno contribuito alla ricerca di forme di
partecipazione da attuarsi tramite l'istituzione di consigli indipendenti dei
produttori a livello di fabbrica e di comunità, destinati a creare di comune
accordo organizzazioni più estese. Persino alcuni liberali democratici, temendo
l'accrescersi del potere dello Stato e l'anomia di individui isolati,
imputabile alla divisione del lavoro e alla crisi delle istituzioni
tradizionali, si sono resi conto che le organizzazioni professionali corporative
sarebbero potute servire al controllo sociale (v. Durkheim, 1902).
La
disponibilità delle forze conservatrici antirivoluzionarie, cattoliche,
sindacaliste e liberalsolidariste ha dato i suoi frutti sotto forma di
formulazioni teoriche, leggi e commentari giuridici.
Perché
il corporativismo si è andato identificando con i regimi autoritari ed è
diventato, come puntualmente lo caratterizza Stepan, statalismo organico? Le
ragioni sembrano tre: le difficoltà logiche e pratiche di organizzare la vita politica
come espressione esclusiva di interessi 'corporativi'; l'obiettivo
sociopolitico perseguito nel determinato contesto storico-sociale in cui tali
soluzioni sono state messe in pratica; la natura della comunità politica e
dello Stato nonché le tradizioni intellettuali e giuridiche su cui si basa
l'idea di Stato.I teorici della democrazia organica sottolineano che le persone
fanno parte di numerosi gruppi naturali, basati su relazioni sociali primarie -
relazioni che si instaurano sul luogo di lavoro, nelle associazioni
professionali, nelle università, nei quartieri, ecc. -, in contrasto con gruppi
più estesi creati artificialmente, come i partiti politici. La teoria propone
quindi elezioni su più livelli, cioè indirette, all'interno di una serie di collegi
elettorali basati sul raggruppamento di tali unità primarie, fino ad arrivare a
una camera nazionale di corporazioni (v. Aquarone, 1965) o ad una serie di
camere specializzate, allo scopo di organizzare, sulla base di questa
democrazia indiretta, una politica democratica nazionale, anche quando
sembrerebbe difficile ottenere di rendere responsabile la leadership nazionale
nei confronti dei singoli cittadini.
Questo
modello è inficiato da alcuni assunti falsi: il presupposto che tali unità
primarie rappresentino interessi comuni anziché essere divise da conflitti
interni; il presupposto che, a livello nazionale, non esistano interessi più
importanti di quelli rappresentati dalle unità primarie e che tali interessi,
di portata più generale, non dividano la società e non meritino di essere
rappresentati. Se esistono interessi del genere, è lecito supporre che i
partiti, basati sull'aggregazione di un gran numero di interessi generali, si
affermerebbero comunque su scala nazionale, mentre i rappresentanti eletti
secondo il sistema corporativo non disporrebbero di alcuna base su cui prendere
decisioni circa tali interessi e non sarebbero scelti per le loro opinioni in
merito.Il problema di delimitare i collegi elettorali è più serio. Limitarsi a
riconoscere le organizzazioni preesistenti, formatesi spontaneamente,
rivelerebbe quanto sia diseguale la mobilitazione organizzativa di vari
interessi; pertanto lo Stato si assume inevitabilmente il compito di stabilire
delle categorie non competitive in modo funzionale, legalizzandole o
autorizzandole e concedendo loro un monopolio della rappresentanza. Risulta più
difficile scegliere quale peso assegnare, nel processo decisionale, agli
interessi organizzati e quale criterio adottare per conferire una
rappresentanza a interessi non economici e non professionali. Le scelte
sarebbero soggette a continue revisioni, con conseguenti modifiche della
struttura economica e sociale, al cui confronto i conflitti concernenti la
distribuzione dei collegi elettorali nelle democrazie 'inorganiche'
apparirebbero come un gioco da ragazzi. Le decisioni autoritarie dei burocrati
e/o dei gruppi politici al governo predeterminerebbero la natura e la
composizione dei corpi decisionali, che quindi sarebbero tutt'altro che un
prodotto organico della società.
Da un
punto di vista sociologico, come ha notato Max Weber, la funzione latente di
ogni sistema di questo tipo è di privare del diritto di voto determinati strati
sociali. Può trattarsi di un sistema estremamente conservatore (quando concede
mandati politici alle categorie professionali, privando così, di fatto, del
diritto di voto le masse più numerose) o radicalmente rivoluzionario (quando
limita in modo formale e aperto il suffragio al proletariato, privandone così
quelle classi il cui potere si fonda sulla posizione economica). È questo che
ha indotto i regimi autoritari a preferire la rappresentanza corporativa,
soprattutto nelle società in cui le masse di operai, braccianti e contadini
potrebbero conferire la maggioranza ai partiti classisti di massa. Tutto ciò,
oltre alla possibilità di manipolare i responsi elettorali facendo ricorso a
elezioni indirette e su più livelli, spiega l'esistenza di sistemi politici
basati su principî del genere.
Su
molte questioni i rappresentanti di interessi finirebbero col non avere
un'opinione e sarebbero disposti a dare il loro voto in cambio di misure che
favorissero i loro interessi particolari. Il potere finisce in mano a un gruppo
dominante che organizza il sistema, assegna le quote di rappresentanza, arbitra
i conflitti tra interessi e prende decisioni su tutte le questioni che esulano
dagli interessi dei rappresentanti. Anche a proposito di sistemi basati sulla
democrazia organica sarebbe meglio parlare di 'statalismo organico': in tali
sistemi le élites burocratico-tecnocratico-militari e/o i leaders di un partito
unico detengono la quota maggiore del potere.
Le
strutture corporative costituiscono uno dei tanti elementi di questi sistemi,
ma, anche se deboli, rappresentano, soprattutto a livello di base, un limite
alle ambizioni monistiche dell'élite politica, che tenta di mobilitare una
società per i propri scopi utopistici.In nessun sistema politico è previsto che
il governo debba rendere conto a un'assemblea legislativa di tipo corporativo.
Anche se da un punto di vista puramente teorico la partecipazione politica
potrebbe essere organizzata attraverso collegi elettorali corporativi ed
elezioni corporative, non è mai esistita una democrazia senza partiti
politici.Lo statalismo organico rappresenta una tentazione soprattutto per le
élites burocratiche, militari e tecnocratiche, che respingono l'idea di un
conflitto aperto e credono in soluzioni razionali, in ultima analisi
amministrative, dei conflitti d'interesse, e non sono guidate da una visione
utopistica della società, ma piuttosto da considerazioni pragmatiche. Lo
statalismo organico si addiceva a un sistema economico che respingeva il
capitalismo basato sul libero mercato e sull'impresa, ma anche la proprietà
pubblica di tutti i mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata. La
disillusione nei confronti della democrazia liberale e di un sistema economico
puramente capitalistico ha costituito un terreno fertile per l'accettazione di
soluzioni corporative.
Parecchi
regimi autoritari hanno attinto alle idee della democrazia organica per
legittimare il proprio governo e per organizzare una partecipazione limitata.
L'Estado Novo portoghese costituito da Salazar rappresenta, da un punto di
vista teorico, il caso più puro (v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the
century..., 1974; v. Lucena, 1976). Come avvenne in Austria tra il 1934 e il
1938 con Dollfuss e in Spagna con Franco, dopo un periodo fascista
pre-totalitario, i governanti, combinando un'eredità ideologica cattolica con
l'esperienza fascista italiana, crearono sistemi con una componente di
democrazia organica. Mussolini, collegandosi all'inizio con la tradizione
sindacalista, rafforzata dall'eredità intellettuale del nazionalismo di destra,
e cercando l'approvazione dei cattolici, costruì una sovrastruttura
corporativa, che serviva gli interessi conservatori privando del diritto di
rappresentanza una classe operaia altamente mobilitata e fornendo un canale di
espressione ai molteplici interessi in gioco in una società relativamente
sviluppata.
Le
forti tendenze pre-totalitarie di molti leaders fascisti e il concetto di
'Stato etico', al di sopra degli interessi, mutuato dalla tradizione
idealistica, crearono, tuttavia, un equilibrio instabile tra le due componenti
del regime: quella corporativa e quella di mobilitazione, propria del partito
unico. In Perù l'esercito tentò un esperimento analogo, creando il SINAMOS
(Sistema Nacional de Apoyo a la Mobilizacion Social) in campi diversi, quali i
pueblos jovenes, le periferie urbane più diseredate e le organizzazioni rurali,
giovanili, operaie, culturali, professionali ed economiche. In una fase
iniziale l'idea dei soviet (consigli di operai, o di operai, contadini e
soldati) esercitò un fascino notevole sui rivoluzionari avversi al partito
socialdemocratico marxista (disposto a far parte di regimi democratici
parlamentari), in quanto essi vedevano nei soviet un mezzo per espropriare del
diritto di rappresentanza altri settori della società e per fornire un efficace
terreno di scontro agli attivisti rivoluzionari, pronti a soppiantare la
leadership degli altri partiti di sinistra. Tuttavia il partito d'avanguardia
fece a meno di questa forma di partecipazione. Anche la Jugoslavia, con la gestione
operaia e l'autogoverno locale, creò un sistema di camere a carattere
corporativo, complementari alla struttura politica basata sul partito, sulle
sue organizzazioni funzionali e sull'oligarchia rivoluzionaria.
REGIMI
AUTORITARI DI MOBILITAZIONE NELLE SOCIETÀ POST-DEMOCRATICHE
La
rivoluzione democratica dell'Europa occidentale si propagò in società molto
diverse fra loro sotto il profilo dello sviluppo economico, culturale e
istituzionale. In molte di esse la successione delle crisi di sviluppo - costruzione
dello Stato, legittimazione, partecipazione, incorporazione di nuove forze
sociali, rappresentanza negli organi legislativi e infine partecipazione al
potere esecutivo - si concentrò in un breve periodo di tempo. Nella maggior
parte dei casi lo sviluppo economico non procedette di pari passo con il
mutamento politico. Si diffusero ideologie di protesta elaborate in società più
avanzate e sorsero nuovi movimenti, che, oltre ad avanzare richieste di
ridistribuzione della ricchezza e di partecipazione, si fecero portavoce
dell'ostilità nei confronti dei mutamenti dovuti all'industrializzazione
incipiente e alla disgregazione dei modelli economici e sociali tradizionali.
L'accavallarsi di queste crisi durante il periodo di democratizzazione
politica, mentre le istituzioni e le élites tradizionalmente legittime erano
assenti o troppo deboli, impedì l'istituzionalizzazione graduale e coronata da
successo di processi democratici capaci di assimilare le richieste di nuovi
gruppi sociali da poco consapevoli della propria identità culturale o di
classe. La crisi della democrazia avrebbe portato a nuove formule politiche,
compresa la componente plebiscitaria pseudodemocratica: il partito unico di
massa.
Quelle
società, tuttavia, avevano raggiunto un livello di sviluppo e di complessità
tali da rendere difficile alla leadership del partito unico spingersi in
direzione totalitaria, tranne che nella Germania nazista. Non è un caso che,
essendo la Francia il paese in cui il mutamento rivoluzionario aveva
determinato la rottura maggiore con l'autorità tradizionale, il primo
manifestarsi di una soluzione plebiscitaria, non liberale e autoritaria della
crisi della democrazia sia stato il bonapartismo. Non è sorprendente che alcuni
marxisti, come Thalheimer (v., 1930), si siano valsi dell'analisi di Marx sul
diciotto brumaio per comprendere i recenti regimi autoritari creati dal
fascismo.
Alla
fine della prima guerra mondiale, la crisi delle società europee fece emergere
due movimenti politici che ruppero con i sistemi liberaldemocratici: il
leninismo e il fascismo. Erano entrambi basati sul dominio di una minoranza,
un'élite autoelettasi a rappresentare la 'maggioranza', il proletariato o la
nazione, al servizio di una missione storica; un'élite definita non da
caratteristiche ascrittive né da successi professionali, ma dalla volontà di
conquistare il potere e utilizzarlo per rovesciare condizioni storiche e
sociali costrittive, ricorrendo all'appoggio delle masse, ma senza alcuna
intenzione di farle interferire nel raggiungimento dei propri obiettivi. Il
fascismo, in quanto risposta nazionalista all'internazionalismo ideologico del
marxismo, collegandosi ad altre tradizioni ideologiche del XIX secolo -
l'irrazionalismo romantico, il darwinismo sociale, l'esaltazione hegeliana
dello Stato, le idee di Nietzsche, le concezioni soreliane del ruolo del mito,
l'immagine del grande uomo e del genio - diventò esplicitamente antidemocratico
(v. Gregor, 1969; v. Nolte, 1966, 1967 e 1968). In contrasto con altre
concezioni dell'autoritarismo, esso cercò una nuova e diversa forma di
legittimazione democratica, basata sull'identificazione emotiva dei seguaci con
il leader, cioè su quella forma di consenso plebiscitario che si era
manifestata per la prima volta nel cesarismo napoleonico.
Le
circostanze eccezionali in cui si trovava la società italiana dopo la prima
guerra mondiale generarono un nuovo tipo di movimento, non tradizionalista,
popolare e antidemocratico, portato avanti all'inizio da un numero ristretto di
attivisti reclutati tra i nazionalisti interventisti, i veterani di guerra, un
certo tipo di intelligencija, ebbra di nazionalismo, di futurismo e di ostilità
per il trasformismo giolittiano e per l'egoismo della borghesia, e i
sindacalisti rivoluzionari, che avevano scoperto la loro identità nazionale (v.
De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Gentile, 1985). Tuttavia ciò che creò le
condizioni favorevoli al successo del movimento fu la mobilitazione della
classe operaia italiana, promossa da un movimento operaio socialista massimalista,
incapace di attuare una presa del potere rivoluzionaria e restio a seguire una
via riformista. Il predominio delle sinistre nelle campagne settentrionali e
l'occupazione delle fabbriche spinsero una borghesia impaurita a sostenere il
movimento nascente.
L'atteggiamento
ambivalente dello Stato verso le azioni terroristiche dello squadrismo, il
mancato appoggio dei riformisti allo Stato liberale democratico e le tensioni
tra i vecchi partiti liberali, da una parte, e i socialisti e il nuovo Partito
popolare dall'altra, insieme alla mancanza di scrupoli e all'opportunismo di
Mussolini, portarono il nuovo movimento al potere. Erano nati così un'ideologia
nuova e sfaccettata, una nuova forma di azione politica e un nuovo stile, che
avrebbero trovato eco in gran parte dell'Europa (v. Nolte, 1966 e 1968; v.
Laqueur, 1978; v. Rogger e Weber, 1966; v. Payne, 1980; v. Larsen e altri,
1980) e persino in America Latina e in Asia. In un primo momento si poteva
pensare che il fascismo fosse una conseguenza peculiare della crisi italiana
(v. De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Nolte, 1968), più tardi che fosse una
risposta a uno sviluppo economico e a una modernizzazione tardivi e mal
riusciti (v. Borkenau, 1933); ma in seguito al successo di Hitler divenne
necessario spiegarlo in termini di alcune caratteristiche fondamentali della
società occidentale.
Come
ideologia e come movimento il fascismo può essere caratterizzato in base a ciò
che rifiuta, al suo nazionalismo esasperato e alle nuove forme di azione e di
stile politici che introduce. Ciò a cui il fascismo si oppone è essenziale per
comprenderne la natura e il fascino, ma non basta a spiegarne il successo. Il
fascismo è antiliberale, antiparlamentare, antimarxista, e soprattutto
anticomunista, anticlericale, o perlomeno non clericale, e, in un certo senso,
antiborghese e anticapitalista. Pur riallacciandosi alla tradizione storica
nazionale, reale o presunta, non propugna una continuità conservatrice col
passato recente o un ritorno ad esso puro e semplice, ma è proiettato verso il
futuro.
Quelle
posizioni antagonistiche sono la conseguenza logica del suo approdo tardivo
sulla scena politica e del suo tentativo di prendere il posto dei partiti di
ispirazione liberale, marxista, socialista e clericale. Esse sono anche il
frutto del nazionalismo esasperato, che rifiuta la solidarietà di classe al di
là dei confini nazionali e la sostituisce con la solidarietà tra tutti i
produttori di una nazione contro le altre, ricorrendo al concetto di nazione
proletaria: i paesi poveri contro le ricche plutocrazie, che si dà il caso
fossero anche potenti democrazie.
Queste
posizioni negative avevano una specie di distorto complemento positivo.
L'antimarxismo è compensato da un'esaltazione del lavoro, che fa appello alla
crescente classe media impiegatizia, la quale rifiuta di identificarsi con il
proletariato secondo la richiesta marxista. Il suo populismo induce il fascismo
a sostenere politiche da Stato assistenziale e a parlare di socialismo
nazionale, di socializzazione delle banche, ecc., giustificando così
l'interventismo economico e lo sviluppo di un importante settore pubblico.
L'anticapitalismo,
che fa presa sugli strati precapitalistici e piccolo borghesi, è ridefinito
come ostilità nei confronti della borsa valori finanziaria internazionale e del
capitalismo ebraico e come esaltazione della borghesia imprenditoriale
nazionale. L'enfasi posta sul bene comune della nazione si combina facilmente
con l'ostilità per il libero gioco degli interessi del liberalismo economico e trova
espressione in scelte politiche protezionistiche e autarchiche, che incontrano
il favore degli industriali minacciati dalla concorrenza internazionale.
L'ostilità nei confronti delle politiche clericali nutrita da un'intelligencija
laica composta da nazionalisti accaniti e la competizione tra forze laiche e
partiti democraticocristiani per la conquista della stessa base sociale sono
all'origine dell'anticlericalismo, che va di pari passo con la tesi secondo cui
la tradizione religiosa fa parte della tradizione storico-culturale nazionale.
La Guardia di Ferro, l'unico movimento fascista che abbia avuto successo in un
paese greco-ortodosso, dovendo fronteggiare una borghesia laica non animata da
sentimenti nazionalisti e un'influente comunità ebraica, fece più direttamente
ricorso al simbolismo religioso.
In
Germania le confuse dichiarazioni programmatiche a proposito del cristianesimo
positivo e l'appoggio dato da molti protestanti a una religione di Stato
conservatrice furono utilizzati dai nazisti, ma alla fine l'ideologia razzista
divenne incompatibile con qualsiasi forma di impegno cristiano. Le prese di
posizione antireligiose del marxismo e del comunismo permisero ai fascisti di
trarre vantaggio dal rapporto ambivalente con l'eredità religiosa. Il loro
anticlericalismo fece presa sulle classi medie laiche, per nulla intenzionate
ad appoggiare i partiti clericali e democraticocristiani, mentre le loro prese
di posizione antiliberali, antimassoniche e persino antisemite, insieme al loro
anticomunismo, facilitarono la collaborazione con le chiese, quando giunsero al
potere. L'atteggiamento antiborghese e l'esaltazione romantica del contadino,
dell'artigiano e del soldato si contrapponevano al capitalismo impersonale e
alla borghesia egoista, richiamandosi alla critica della moderna società
industriale e urbana. Il rifiuto dell''egoismo di classe' del proletariato e
dell'egoismo individuale borghese e l'affermazione dei comuni interessi
nazionali al di sopra e al di là delle divisioni di classe fecero leva sul
desiderio di solidarietà interclassista sviluppatosi tra i veterani di guerra.
Tutti
questi appelli deliberatamente ambigui e in larga parte contraddittori
sarebbero rimasti, e rimasero, inascoltati in quelle società in cui la guerra e
la sconfitta non avevano provocato una crisi seria. Nelle nazioni sconfitte o
in quelle che, come l'Italia, pur vittoriose, si sentivano private dei frutti
della vittoria, l'ondata nazionalista venne incanalata dai nuovi
partiti.L'ideologia fascista dovette respingere i presupposti della politica
liberaldemocratica basata sulla partecipazione pluralistica, sulla libera
espressione e sulla mediazione degli interessi, anziché sull'affermazione degli
interessi collettivi al di sopra degli individui, delle classi e delle comunità
culturali e religiose. L'evidente deformazione dell'idea di democrazia nei primi
anni del XX secolo e l'incapacità della leadership democratica di
istituzionalizzare meccanismi di risoluzione dei conflitti crearono un terreno
favorevole alla fortuna del fascismo. Gli interessi minacciati da un potente
movimento operaio imbevuto di retorica rivoluzionaria, soprattutto dopo alcuni
tentativi rivoluzionari falliti, sostennero le squadre fasciste in quanto
paladine dell'ordine sociale. L'ideologia fascista offrì una nuova alternativa,
che prometteva l'integrazione della classe operaia nella comunità nazionale e
l'affermazione dei suoi interessi contro le altre nazioni, se necessario
mediante una mobilitazione e persino un'aggressione militare (v. Neumann,
1942).
Né i
suoi richiami ideologici, né gli interessi che servì bastano a spiegare il
successo del fascismo. Il fascismo sviluppò nuove forme di organizzazione
politica, diverse tanto dai partiti basati sul sostegno elettorale e da quelli
socialisti di massa a base sindacale, quanto dai partiti religiosi a guida
clericale. Come la controparte comunista, il fascismo offrì un'occasione di
partecipazione, che interrompeva la monotonia della vita quotidiana. A una
generazione che aveva vissuto azioni di guerra eroiche e avventurose e - ancor
più - a una che, data la giovane età, aveva vissuto quell'esperienza
indirettamente, lo squadrismo e le camicie nere offrirono un buon surrogato.
Molti di quelli le cui carriere e i cui studi erano stati irrimediabilmente
interrotti dalla guerra e dalla crisi economica e alcuni disoccupati divennero
attivisti del partito; l'intervento diretto degli attivisti a sostegno di
specifiche rimostranze - come quelle dei contadini destinati a essere
sfrattati, degli agricoltori cui i sindacati stavano imponendo l'impiego di
manodopera, degli industriali minacciati dagli scioperanti - procurò loro un
appoggio che nessuna propaganda elettorale avrebbe potuto ottenere. Questo
nuovo stile politico soddisfaceva, come nessun altro, alcuni bisogni
psicologici ed emotivi.Infine il fascismo era caratterizzato da uno stile peculiare,
che si rifletteva nelle uniformi - le camicie -, simbolo della rottura con le
convenzioni borghesi e con l'individualismo dell'abbigliamento borghese, nelle
dimostrazioni e nelle cerimonie di massa, che permettevano agli individui di
immergersi nel collettivo e di sfuggire alla privatizzazione della società
moderna.
Le
ambiguità e le contraddizioni dell'utopia fascista, insieme agli inevitabili
compromessi raggiunti, sul piano pragmatico, con molte delle forze dapprima
criticate, spiegano il fallimento del modello, tranne che in Italia (fino a un
certo punto) e in Germania. Il nucleo iniziale avrebbe dovuto conquistarsi un
sostegno in tutti gli strati sociali, e in particolare nella classe operaia,
oltre che tra i contadini, ma la penetrazione organizzativa dei movimenti
operai socialista, comunista e anarcosindacalista condannò tali speranze al
fallimento. In alcuni paesi i contadini cattolici, le classi medie e persino
molti operai avevano aderito ai partiti democratici clericali e/o cristiani, impegnati
nella difesa della religione, e avevano trovato nella dottrina sociale della
Chiesa una risposta a molti dei problemi che il fascismo presumeva di poter
risolvere. Le classi medie e medio-alte, a meno che non fossero state
terrorizzate dai tentativi rivoluzionari abortiti, o rovinate dalle continue
crisi economiche o sradicate dalla guerra, rimasero fedeli ai vecchi
partiti.L'eterogeneità della base e l'incapacità di conquistare gli strati
sociali a cui si rivolgevano, che si spiegano con il loro ingresso tardivo
sulla scena politica, indussero i fascisti a un'incessante lotta per
conquistare il potere e a una politica di alleanze opportunistiche con una
serie di gruppi di potere e con forze conservatrici non democratiche o
antidemocratiche, che a loro volta speravano di poter manipolare la loro
popolarità e il loro seguito di attivisti.
Tali
gruppi, ben radicati nell'establishment e nello Stato, potevano fornire uomini
più capaci di governare. Il risultato fu l'instaurazione di regimi autoritari -
a pluralismo notevolmente limitato - guidati da un partito unico, che, a
seconda dei casi, occupava una posizione abbastanza preminente e attiva o
svolgeva un ruolo minore all'interno della coalizione di forze. Solo in
Germania il partito unico sarebbe diventato dominante fino a fondare un regime
totalitario. Il fascismo introdusse una componente populista di mobilitazione,
un canale per un certo livello e un certo tipo di partecipazione politica
volontaria, una fonte di malcontento ideologico verso lo status quo e di
giustificazione del mutamento sociale, che contraddistingue i regimi autoritari
di mobilitazione. Anche dove, come in Spagna (v. Linz, 1970), questa
mobilitazione fu alla fine annullata di proposito, il regime autoritario, per
metà statalismo organico e per metà sistema burocratico-tecnocratico-militare,
che si affermò dopo gli anni quaranta, non sarebbe mai stato identico, per
esempio, al regime di Salazar, dove il fascismo non aveva mai messo radici.
I
regimi autoritari fascisti di mobilitazione furono meno pluralistici, più
ideologici e a maggior partecipazione dei regimi burocratico-militari o degli
statalismi organici guidati da un partito unico debole. Furono più vicini alla
'democrazia' che al 'liberalismo', più disposti a offrire ai cittadini la
possibilità di partecipare che la libertà individuale, più orientati al
mutamento che alla conservazione. La maggior legittimazione ideologica e la
maggior mobilitazione a loro sostegno li rese meno vulnerabili di altri tipi di
governo autoritario all'opposizione interna e al rischio di esserne rovesciati,
e solo la sconfitta esterna riuscì a distruggerli.
REGIMI
AUTORITARI DI MOBILITAZIONE DOPO L'INDIPENDENZA
Regimi
autoritari di mobilitazione apparvero in alcuni Stati in lotta per
l'indipendenza dal dominio coloniale o in via di emancipazione dalla dipendenza
da una potenza straniera. Non molti di questi regimi si sono dimostrati
stabili: in alcuni casi colpi di Stato militari hanno escluso i civili dal
governo (v. Jackson e Rosberg, 1982; v. Bienen, 1968 e 1974; v. Lee, 1969; v.
Welch, 1970); in altri si è avviato un processo di decadenza, che spesso ha
dato origine a uno Stato senza partiti (v. Wallerstein, 1966; v. Potholm, 1970;
v. Bretton, 1973).
Regimi
autoritari di mobilitazione a partito unico non creati dall'alto da chi
deteneva il potere, ma da leaders emersi dalla base e capaci di mobilitarla,
furono possibili in società a basso sviluppo economico, con una struttura
sociale contadina relativamente egualitaria, in cui la moderna élite economica
era ristretta e spesso costituita da stranieri o da membri di un gruppo etnico
esterno e in cui le autorità coloniali non avevano permesso né incoraggiato la
crescita di una classe media di professionisti, di funzionari statali dotati di
un rango e di una dignità specifici e di un esercito professionale. Il dominio
coloniale aveva distrutto o screditato le autorità tradizionali pre-coloniali,
perlomeno agli occhi dei settori urbani emergenti, istruiti e più modernizzati.
In questo contesto, tra coloro che si erano formati all'estero o nelle poche
scuole create dal potere coloniale, si affermò una nuova leadership
nazionalista, i cui membri venivano a volte incoraggiati a diventare leaders
sindacali o rappresentanti delle nuove istituzioni di autogoverno dai partiti
della sinistra e da qualche intellettuale nazionalista (v. Wallerstein, 1961;
v. Hodgkin, 1961; v. Carter, 1962; v. Coleman e Rosberg, 1964).
Questi
leaders si fecero portavoce delle rivendicazioni della popolazione indigena,
degli operai e dei contadini, colpiti dallo sconvolgimento dell'ordine
tradizionale, dovuto al mutamento economico e all'introduzione di istituzioni
giuridiche occidentali. Le autorità coloniali alternavano la repressione alla
cooptazione, politiche che, soprattutto se applicate in modo incoerente,
contribuirono a rafforzare questa leadership emergente. In un primo momento il
desiderio d'indipendenza occultò l'importanza di altri problemi; il
sottosviluppo e il carattere straniero del settore economico moderno limitarono
l'importanza delle politiche classiste. Nelle assemblee elette poco prima o
subito dopo l'indipendenza, i rappresentanti dei movimenti nazionalisti
ottennero la maggioranza relativa o assoluta, che spesso estesero cooptando i
rappresentanti di gruppi più particolaristici, quali i gruppi tribali,
religiosi o tradizionali. Si sperava che l'adozione degli ordinamenti
costituzionali inglesi o francesi avrebbe dato vita a nuove democrazie, ma ben
presto le azioni dell'opposizione, o la percezione che ne ebbero i leaders del
partito al governo, l'idea di questi ultimi che una nazione andasse costruita
ignorando le richieste della periferia, di settori specifici, di particolari
gruppi etnici e tribali, i problemi economici e quelli creati da nuove
aspettative indussero i leaders a ostacolare, limitare o eliminare la libera
competizione politica ed elettorale.
In
molti paesi l'indipendenza e l'assetto statuale vennero a identificarsi
simbolicamente con un leader, che spesso vantava un'autorità carismatica. Il
carattere artificiale dei confini, le differenze etniche, linguistiche e
religiose, il divario tra lo sviluppo sociale dei pochi centri urbani e delle
zone costiere e quello della periferia rurale e la debolezza delle istituzioni
amministrative convinsero i leaders che il loro partito potesse servire da
strumento per la costruzione della nazione. Nel contesto di una cultura
politica che non aveva istituzionalizzato i valori liberaldemocratici, il
partito dominante, dovendo affrontare i problemi dell'integrazione nazionale,
un'opposizione non sempre leale e la paura delle influenze straniere, divenne
presto un partito unico.
Alcuni
leaders respinsero l'idea di un partito unico monolitico. Così si espresse ad
esempio Senghor: "siamo contrari al partito unico (parti unique); siamo
favorevoli a un partito unificato (parti unifié)" (v. Foltz, 1965, p.
141). Molti leaders di partiti dominanti incoraggiarono l'ingresso nei propri
partiti di leaders con un forte seguito regionale, comunale, tribale o
settoriale, che all'inizio avevano sostenuto i partiti d'opposizione
sconfitti.I regimi a partito unico non riuscirono a reperire risorse
sufficienti a sostenere la propria prospettiva di trasformare in modo radicale
la società mediante metodi organizzativi. I pochi leaders politicamente
consapevoli e istruiti servivano come personale di governo e dei numerosi enti
governativi, a detrimento dell'organizzazione del partito. Rapporti clientelari
primari e personali distolsero l'organizzazione periferica del partito dai
compiti che il centro voleva assegnarle. Le discrepanze tra la retorica
ideologica (v. Friedland e Rosberg, 1964) e la realtà politica e il malcontento
delle nuove generazioni, che rientravano dall'estero e non trovavano posizioni
di potere adeguate alle loro ambizioni, crearono tensioni con le organizzazioni
giovanili, i sindacati, ecc., evitabili ponendo meno l'accento sul partito. Le
formulazioni ideologiche erano in gran parte di seconda mano, ambigue e in
contraddizione con le politiche pragmatiche a cui la leadership si sentiva
vincolata dalla realtà sociale ed economica, e quindi non offrivano agli
iscritti obiettivi chiari e immediati.
Di
conseguenza il partito unico, invece di diventare uno strumento totalitario di
mobilitazione, il centro monistico, divenne una componente in più nella
struttura del potere. Paradossalmente, è stato sostenuto che i partiti unici
avevano maggiori possibilità di sopravvivenza nelle società meno mobilitate e
più arretrate che nei paesi con più risorse, dove, proprio per questo, tendeva
a svilupparsi un processo inflazionistico di formazione della domanda (v.
Zolberg, 1966) e dove i piani rivoluzionari contro il settore moderno
dell'economia non riuscivano a provocare un vero danno.In alternativa il
partito unico si trasformò da movimento di massa disciplinato e ideologico in
un meccanismo flessibile, che manteneva viva la solidarietà tra i suoi membri
facendo leva sui loro interessi personali, tollerando l'esistenza di fazioni e
confidando più nell'attrattiva di ricompense materiali, ottenute anche tramite
la corruzione, che nell'entusiasmo per principî politici. La coercizione
avrebbe assunto la forma di una macchina politica (v. Zolberg, 1966 e 1969; v.
Bretton, 1973).
Solo
pochi partiti unici di mobilitazione sono riusciti a conservare una qualche
funzione per alcuni anni dopo l'indipendenza. Quelli che non sono stati
scalzati da colpi di Stato militari hanno conosciuto una notevole
trasformazione. Le tipologie elaborate all'inizio sono risultate fuorvianti,
perché spesso basate sull'immagine che di sé i partiti africani volevano
trasmettere. La variabilità delle politiche di consolidamento dello Stato e di
conquista, legittimazione e gestione del potere ha generato regimi difficili da
concettualizzare se non in termini di dominio personale.
IL
DOMINIO PERSONALE
A
prescindere dai camuffamenti euromorfici (forme costituzionali, partito unico,
organizzazione burocratica) e dai tentativi simbolici di collegarsi alla
tradizione, i nuovi Stati africani possono essere caratterizzati nel modo
migliore come regimi di dominio personale. Dal punto di vista organizzativo
essi hanno alcune caratteristiche in comune con il patrimonialismo descritto da
Weber, benché il contesto storico-culturale sia del tutto diverso da quello
delle monarchie assolute europee post-feudali, a capo di società complesse, con
una Chiesa potente, una tradizione di diritto romano, governi municipali
autonomi, gilde, ecc. Il concetto di neopatrimonialismo - utilizzato dagli
africanisti - andrebbe quindi adoperato con cautela. Nei casi che Jackson e
Rosberg (v., 1982) definiscono 'tirannie' (Amin, Macias, Bokassa, Mobutu) il
patrimonialismo assume la forma definita da Weber 'sultanismo'. Anziché
descrivere i diversi casi di dominio personale in termini di orientamenti
ideologici e di politiche, distinguendo quelli ispirati al pensiero marxista (Sekou
Ture) da quelli più concilianti nei confronti degli interessi occidentali
(Houphouet-Boigny), studiosi come Jackson e Rosberg hanno tentato di
descriverne le differenze in base ai rapporti tra i governanti e i loro
collaboratori, da una parte, e la società, dall'altra.
A loro
avviso, nell'Africa subsahariana, la politica si occupa più della gestione del
potere che dell'attuazione di un qualche indirizzo politico; Machiavelli e
persino Hobbes ci offrono paradigmi più efficaci, per comprenderla, di quanto
non facciano Marx e molte teorie contemporanee. Essi sottolineano la scarsa
differenza tra i governanti con una preparazione militare e i civili, tra
coloro che si sono serviti di un partito politico per conquistare il potere e
coloro che lo hanno creato una volta al potere.Il dominio personale è un
sistema di relazioni che non collega (perlomeno non direttamente) i governanti
al 'pubblico', né ai sudditi, ma piuttosto ai notabili, agli alleati, ai
clienti, ai sostenitori e ai rivali che costituiscono il 'sistema'. Non sono le
istituzioni, ma gli stessi politici a strutturare il sistema; e questa
dipendenza dalle persone spiega la sua sostanziale vulnerabilità. Esso è
drasticamente restrittivo nei confronti delle libertà politiche, mentre è in
genere tollerante (salvo che nei regimi tirannici) verso i diritti non
politici.
I
governanti dispongono di una competenza giuridica pressoché illimitata.
Utilizzano, combinandoli in vari modi: 1) la cooptazione e la consultazione; 2)
il clientelismo; 3) il patto e l'accordo; 4) l'intimidazione e la coercizione.
Dalla sorte del leader dipende quella della classe politica che lo sostiene e
spesso la solidità dell'ordinamento politico. Se aggiungiamo le restrizioni e
le incertezze determinate da fattori politici ed economici esterni e la povertà
di cui soffrono i paesi dove vige questo tipo di regime, paesi che dipendono da
poche esportazioni di prodotti primari, soggette a fluttuazioni dei raccolti
dovute al clima, possiamo comprendere l'instabilità del dominio personale.
Un
altro fattore da considerare è l'assistenza militare ed economica fornita
dall'estero, anche da paesi confinanti, ai governanti o agli esuli e ai
ribelli. Il dominio personale è quindi caratterizzato dal paradosso di un
potere relativamente autonomo, e persino arbitrario, ma soggetto a vincoli e
incapace di realizzare politiche per la mancanza di risorse e di funzionari
esperti.
Jackson
e Rosberg distinguono quattro tipi ideali di dominio personale: il principesco,
l'autocratico, il profetico e il tirannico. Il tipo profetico caratterizza in
misura maggiore alcuni dei capi fondatori, come Nkruhma e Nyerere, e si
avvicina agli ideali, se non alla realtà, dei regimi di mobilitazione a partito
unico. La distinzione tra principi e autocrati getta luce su questo tipo di regime
autoritario. Il principe è un osservatore astuto e un manipolatore di
luogotenenti e di clienti; egli tende a governare insieme con altri oligarchi e
a coltivarne la lealtà, tenendo sotto controllo la loro tendenza a sopraffarsi
a vicenda. Alcuni principi, come Kenyatta o Kaunda, sono stati artefici
dell'indipendenza del proprio paese; il loro più eminente rappresentante è
stato Leopold Senghor, il dotto presidente del Senegal. L'autocrate si
distingue per la maggior libertà di azione e per l'ostilità verso la politica
dei politici e verso il potere e l'autorità altrui; egli costringe alla
cospirazione o all'esilio coloro che rifiutano di diventare suoi dipendenti. Il
potere dell'autocrate è basato sulla sua abilità e sulla sua esperienza
personali, difficilmente trasferibili a un altro leader. Questo fatto, unito
alla minore probabilità che siano disponibili politici capaci ed esperti, in
grado di assicurare una successione pacifica, fa nascere una condizione di
instabilità, finché qualcun altro non si impadronisce saldamente del potere e
non impara a esercitare un dominio personale.
Né il
dominio personale di tipo principesco, né quello autocratico trasformano la
struttura sociale (come quello profetico tenta di fare e quello tirannico fa
tramite la coercizione e la corruzione), ma la manipolano, la controllano e la
subordinano a sé. Il pluralismo sociale è ancora vivo, ma, dato il retaggio
delle società africane e del colonialismo, è fondamentalmente debole. D'altra
parte è pur vero che nei centri più moderni la stampa, i professionisti,
svariate associazioni, ecc. tentano di affermare la propria autonomia, mentre
in altre zone i governanti tradizionali, o i loro discendenti, i capi di clan
locali o di tribù e i notabili religiosi non possono essere ignorati, persino
quando, sotto il dominio di un autocrate, non partecipano al potere. Strutture
moderne, quali l'esercito e la burocrazia, non vanno confuse con i rispettivi
modelli europei, perché prima del colonialismo in pratica non esistevano, i
loro vertici se ne andarono alla fine del dominio coloniale e
l'africanizzazione le ha del tutto trasformate. Il dominio personale dunque è
più imprevedibile, più paternalistico o arbitrario, in potenza persino più
oppressivo, tirannico e corruttore, ma tutto sommato più debole e più
instabile, degli altri regimi autoritari più 'strutturati'.
Questo
carattere informe (v. Sartori, 1976) ostacola gli sforzi diretti a costruire
istituzioni democratiche, in quanto i politici eletti democraticamente non
erediteranno strutture istituzionalizzate operanti secondo procedure giuridiche
formali. Il fallimento, in situazioni di crisi, dei funzionari eletti
democraticamente, la loro inefficienza e la loro corruzione legittimeranno i
leaders militari a rovesciarli e a ricominciare il ciclo del dominio personale
illegale e, dopo breve tempo, illegittimo. Nelle società più moderne, come la
Nigeria o il Ghana, le richieste di ritorno alla democrazia si riproporranno e
il ciclo potrebbe ricominciare da capo (v. Diamond, Linz e Lipset, 1988-1989).
Sebbene coloro che esercitano un dominio personale vantino, e a volte abbiano,
un certo carisma che li circonda di un'aura pseudoreligiosa, la loro
legittimazione non è basata su quella che è stata definita una 'religione
politica', un'ideologia politica sacralizzata, come nei sistemi totalitari, né
può essere confusa con la tradizionale autorità sacralizzata premoderna del
dispotismo orientale, incarnata dall'imperatore cinese, dai sultani turchi, o
persino dal cesaropapismo bizantino o russo. Con la parziale eccezione di un
autocrate tradizionale come Hailè Selassiè in Etiopia e di alcuni governanti
arabi, la religione non serve da fonte di legittimazione del dominio personale.
Nell'autoritarismo
africano non è facile separare gli elementi derivati dall'Occidente, in
particolare il partito unico di mobilitazione ispirato al modello comunista,
gli elementi di patrimonialismo propri del governante e della sua famiglia,
degli amici e dei clienti, collegati alla corruzione in società dove il controllo
del potere statale e del settore pubblico è quasi l'unica fonte di ricchezza e
di status, gli elementi derivati dai tentativi di richiamarsi a una cultura o a
una tradizione indigene, spesso inventate per dare un senso al potere, e infine
la repressione e il sospetto ai danni di nemici effettivi o potenziali,
atteggiamenti che allignano in Stati la cui integrazione attraverso fratture
etniche, tribali, cultural-religiose risulta incerta.
I
REGIMI AUTORITARI POST-TOTALITARI
Pochi
problemi fanno discutere di più del modo di concettualizzare i mutamenti
verificatisi in Unione Sovietica e in alcuni paesi comunisti dell'Est nella
fase che precede l'era Gorbačëv: il periodo successivo, caratterizzato dal
passaggio alla democrazia competitiva dei paesi dell'Europa centrale e dai
contestuali rivolgimenti in URSS, cade ovviamente fuori di questo articolo.
Dopo alcuni tentativi teorici risalenti al primo periodo post-staliniano, si
sono prodotti studi (v. Hough, 1977; v. Bialer, 1980), per lo più descrittivi, che
evitano i dibattiti sul totalitarismo, benché respingano in modo esplicito o
implicito l'applicabilità di quel tipo ideale alle realtà presenti.
I
regimi in questione si avvicinano o potrebbero avvicinarsi al modello
autoritario, ma, dato che se ne differenziano per alcuni aspetti significativi,
li definiamo 'post-totalitari'. Il fatto che questi regimi siano sorti dopo la
trasformazione della società da parte del totalitarismo, il fatto che le
istituzioni e le organizzazioni che hanno sostenuto tale trasformazione,
soprattutto il partito unico, non siano state smantellate (eccettuati
l'imponente apparato del terrore e i gulag), il linguaggio rigido
dell''ideologia fredda' tuttora usato e il ricordo del recente passato sono
tutti fattori che rendono i sistemi post-totalitari diversi dai sistemi
autoritari propri di società che non hanno subito gli stessi mutamenti. Si può
affermare che il totalitarismo abbia fallito nelle sue più ambiziose
aspirazioni di cambiare l'uomo dando uno scopo e un significato alla sua vita;
ma è riuscito a cambiare la società e a distruggere ampiamente le basi del
pluralismo socioculturale della società civile, l'autonomia e l'autorevolezza
delle chiese, l'etica specifica delle varie professioni e delle loro
associazioni e, nelle società socialiste, l'indipendenza degli operatori
economici, proprietari e managers, trasformando tutti (tranne alcuni
agricoltori e gli imprenditori dell'economia sommersa) in dipendenti statali e
impedendo qualsiasi forma di organizzazione autonoma. Gli accademici, gli
intellettuali e forse gli artisti sfuggono in qualche modo a questa
Gleichschaltung, ma come individui, non come gruppi organizzati. Il risultato è
che il pluralismo sociale, che avrebbe potuto dare origine a un pluralismo
latente e forse, in condizioni di crisi, politicamente rilevante, non è mai
esistito. Inoltre, come accade nella maggior parte dei regimi autoritari, la
relativa chiusura di queste società e il controllo esercitato su tutti i mass
media impedirono alla stragrande maggioranza della popolazione di pensare a
modelli politici alternativi.
Nei
regimi post-totalitari si lascia spazio alla privatizzazione e alla dissidenza
su una scala intollerabile per il totalitarismo, ma non all'ampia gamma di
opposizioni extralegali (come nella maggior parte dei regimi autoritari).
D'altronde i potenziali oppositori non trovano, se non lungo i confini
occidentali dell'Unione Sovietica, il sostegno protettivo e incoraggiante di
una società civile. La Polonia, anche prima dell'affermarsi di Solidarność come
movimento politico extralegale ma potente, era un regime autoritario, grazie
alla posizione particolare mantenuta dalla Chiesa cattolica (v. Staniszkis,
1984). Perché considerare questi sistemi regimi autoritari post-totalitari,
anziché varianti del totalitarismo? Si potrebbe sostenere che i cambiamenti,
avvenuti all'interno di un sistema totalitario, sono più quantitativi che
qualitativi e non rappresentano pertanto una 'vera' rottura con il passato;
inoltre il ritorno del totalitarismo è sempre possibile. Un'analisi del genere
può essere valida per alcuni paesi o alcune fasi di sviluppo dei sistemi
sovietici (trascurando quelli in cui la spinta totalitaria non si è ancora
esaurita, come nel Sudest asiatico e nella Corea del Nord).
Tuttavia
i seguenti mutamenti giustificano la nozione di post-totalitarismo.
1.
L'ossificazione dell'ideologia, l'idéologie froide, ripetuta meccanicamente e
utilizzata più per ostacolare il cambiamento delle strutture sociali che per
promuoverlo, la crescente accettazione, nell'attività politica, di criteri
pragmatici o razionali non derivanti dai dogmi ideologici e addirittura
incompatibili con essi, la ritualizzazione dell'indottrinamento, il sempre più
raro ricorso al sostegno degli intellettuali e la tolleranza per espressioni
artistiche non soggette a dettami ideologici. Solo la formulazione e la
diffusione di idee pericolose viene ancora limitata. L'ideologia, accettata in
modo universale e acritico, può servire da 'mentalità' all'apparatchikis, ma
non occupa più la posizione centrale di un tempo.
2. Il
partito unico e il suo gruppo dirigente continuano a essere la struttura
decisionale centrale, tuttavia i cambiamenti nelle attività delle
organizzazioni di partito, nei criteri di reclutamento e di promozione attraverso
la nomenklatura e nella composizione del gruppo dirigente non possono essere
ignorati. La burocratizzazione e un ininterrotto cursus honorum, uniti a
tendenze gerontocratiche, hanno caratterizzato il partito, sebbene Gorbačëv
abbia dimostrato che il gruppo dirigente può invertire questi processi. Il
partito è ancora un'élite, l'accesso alla quale viene filtrato con attenzione,
ma, anziché l'attivismo puro e semplice, il fervore ideologico, le attività di
propaganda o di controllo coercitivo, diventano importanti e vengono premiate
la competenza e le prestazioni tecnico-professionali, nonché le reti
clientelari. La spiegazione dello stalinismo in termini di 'culto della
personalità' e il desiderio di sicurezza dell'élite hanno portato a una parvenza
di leadership collettiva e all'uso di qualche meccanismo formale, come le
votazioni e le elezioni negli organi di vertice del sistema.All'interno del
partito e del governo possono affermarsi interessi funzionali e persino un
certo pluralismo burocratico, ma nessun pluralismo sociale si articola
attraverso organizzazioni indipendenti quali i sindacati, e i disaccordi
politici, pur tollerati, vengono dibattuti soprattutto dall'élite, anziché da
fazioni organizzate e coesive operanti sotto gli occhi di un pubblico più
vasto.
3. Fra
i cambiamenti più significativi in direzione dell'autoritarismo vi sono la
diminuzione degli sforzi di mobilitazione totale e di partecipazione
all'attività politica e una tolleranza crescente nei confronti della
privatizzazione e degli incentivi non ideali, inclusi gli interessi economici
personali. L'apatia e l'indifferenza politica sono tollerate. Le attività
parallele - compresa la corruzione - tese al conseguimento di fini personali
sono aumentate e sono diventate un problema serio. Si sta sperimentando
(Ungheria, Cina) o prendendo in considerazione la possibilità di sfruttare le
motivazioni più grette dell'interesse personale e dell'avidità per ottenere
migliori prestazioni economiche, consentendo, in deroga al modello ideale della
società, qualche attività imprenditoriale, l'autonomia delle imprese e la
creazione di un'economia di mercato.
Questi
mutamenti derivano dal riesame, compiuto dall'élite, di quanto sia costato,
anche alla stessa classe dirigente, il modello totalitario, specie in termini
di instabilità (le purghe, la rivoluzione culturale, ecc.), e da valutazioni
delle proprie capacità economiche, tecnologiche e militari in un sistema
mondiale competitivo. Non c'è dubbio che la destalinizzazione, la liquidazione
del terrore massiccio e indiscriminato, l'introduzione della legalità
socialista (anche se per i dissidenti si tratta di una legalità repressiva)
abbiano contribuito a far accettare e persino a legittimare il sistema.Qual è
l'obiettivo, la raison d'^étre ultima, del sistema che controlla e soffoca la
società? Secondo alcuni è il mantenimento dello status quo, e quindi dei privilegi
acquisiti dalla 'nuova classe', la prevedibilità di una società burocratica e
la difesa dell'ordine esistente, soprattutto contro il pericolo di insurrezioni
indipendentiste, promosse da nazionalismi non assimilati o emergenti, che si
sta profilando alla periferia del sistema, nel Baltico e nella fascia
sudasiatica dell'Unione Sovietica.
Per
Castoriades (v., 1982) lo 'stato di difesa' diventa il fine ultimo, cui altri
obiettivi, come una migliore qualità della vita, sono subordinati, e conferisce
uno status privilegiato ai militari, ai tecnici e agli scienziati che operano
nel settore militare dell'economia. Questo nuovo tipo ideale è suggestivo, ma
discutibile. Poteva forse essere valido all'epoca di Breznev, ma non oggi alla
luce degli sviluppi più recenti.
È
difficile avanzare ipotesi sul futuro. La riaffermazione della società e, in
particolare, della classe operaia, che in Polonia ha dimostrato le sue
potenzialità, la maggiore o minore sopravvivenza di una classe contadina non
integrata in un sistema di kolchozy e il ruolo dei conflitti di nazionalità
sono alcuni dei fattori che potrebbero permettere alla leadership di seguire
percorsi alternativi in situazioni di crisi. Gli sviluppi saranno diversi in
Romania (dopo il governo personalizzato di Ceauçsescu), nei paesi cattolici e
in quelli greco-ortodossi, come la Bulgaria. I sistemi post-totalitari - salvo
quello polacco - dovranno subire molti mutamenti prima che il loro
autoritarismo (perlomeno a livello politico) diventi paragonabile a quello della
maggior parte dei regimi autoritari capitalistici occidentali. L'assenza di
alternative realistiche, specialmente in Unione Sovietica, l'isolamento dei
dissidenti e il retaggio della repressione diminuiscono le probabilità che quei
regimi incontrino un'opposizione attiva, militare e violenta, e quindi essi
tendono a essere meno repressivi dei regimi autoritari più 'liberali'.
CONCLUSIONE
Il
nostro excursus attraverso il mondo dei regimi autoritari può concludersi
all'insegna di un moderato ottimismo. L'utopia di un'élite autodesignata,
intenzionata a riformare in modo totalitario l'uomo e la società, che sembrava
la tendenza del futuro negli anni trenta con il fascismo e, in modo più
specifico, con il nazismo, è stata sconfitta e la versione stalinista del
leninismo è stata screditata e si trova ad affrontare una crisi profonda. Molte
formule politiche autoritarie hanno perso il loro puntello ideologico e non
esiste alcun paese importante che possa fungere da modello. Negli anni settanta
è tornata la democrazia in Grecia, in Portogallo e in Spagna, e negli anni
ottanta abbiamo assistito alla restaurazione della democrazia in paesi
latino-americani, nelle Filippine, nella Corea del Sud e in Pakistan.
Tutto
questo ha fatto nascere un'ampia e crescente letteratura sulle transizioni
dall'autoritarismo alla democrazia (v. O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986),
complementare agli studi precedenti volti a comprendere il crollo delle
democrazie (v. Linz e Stepan, 1978). Le difficoltà che alcune di queste democrazie
si trovano ancora ad affrontare sollevano la questione delle condizioni
migliori per il loro pieno consolidamento. Come dimostrano la transizione dal
governo dello Scià a quello di Khomeini, le crisi a Haiti e in Nicaragua e i
travagli delle democrazie in Sudamerica, questi sviluppi promettenti non sono
però universali.
Transizioni
ecologica e digitale: ma
di
cosa stiamo veramente parlando?
Benecomune.net
- Alessandro Giuliani – (1° febbraio 2022) – ci dice:
Nel
99% dei media e nel 100% dei documenti ufficiali, le cosiddette transizioni
‘ecologica’ e ‘digitale’ appaiono come due fatine inseparabili che
leggiadramente ci accompagneranno verso un futuro radioso.
Il solo pensiero che le due fatine invece che
essere concordi possano spingere in due direzioni tra loro incompatibili è
considerato poco meno di una bestemmia. Eppure, a veder bene, il loro rapporto
è tutt’altro che pacifico…
Consiglio al lettore con qualche conoscenza matematica
un interessante lavoro scientifico apparso sulla rivista “Ecological Economics”, (Lange, Steffen, Johanna Pohl, and
Tilman Santarius. “Digitalization and energy consumption. Does ICT reduce
energy demand?.” Ecological Economics 176, 2020)
che
comincia a fare due conti sulla questione.
Dall’articolo
si evince come anche se in teoria le due fatine potrebbero andare d’accordo e
darsi man forte, l’attuale stato delle cose spinge verso un netto contrasto tra
le due, con la transizione digitale (a tutti i livelli: dai nostri
continui invii di foto scattate alle pietanze del ristorante
all’informatizzazione di grandi aziende) che diventa sempre di più una
minaccia per l’ambiente.
Tutto
ciò che ruota attorno alla digitalizzazione si identifica con il termine” ICT”
(Information
Communication Technology) e ha la consistenza di un macigno.
La
fabbricazione del materiale informatico (sempre più accelerata dalla veloce
obsolescenza degli strumenti) esercita un peso influente sulla natura in
termini di energia, di acqua e di metalli.
Ci apprestiamo a estrarre dalla crosta
terrestre in una generazione più metalli che in tutta la storia dell’umanità.
Circuiti
stampati, schermi tattili, microchip e batterie esigono quantità favolose di
oro, argento, rame, tungsteno, litio, e terre rare.
L’industria mineraria è terribilmente
inquinante e (per usare un brutto neologismo molto in voga di questi tempi)
ferocemente energivora.
A
questo si aggiunge il contributo dell’”ICT” all’effetto serra a causa della
continua crescita del consumo di elettricità per il suo funzionamento.
Gli
attrezzi informatici alla fine degli anni 2010 consumavano fra il 10 e il 15%
dell’elettricità mondiale.
Questo
assorbimento raddoppia ogni 4 anni, il che potrebbe portare il digitale nel
2030 a consumare il 50% dell’elettricità del mondo, cioè quello che tutta
l’umanità consumava nel 2008.
Possibile?
Sembrerebbe un tantino esagerato ma se
consideriamo che ogni ora nel mondo si spediscono 10 miliardi di email e si
fanno 140miliardi di ricerche su Google, la faccenda sembra meno balzana …un
calcolo a spanne è che per sostenere questo traffico occorrerebbe la produzione
oraria di 15 centrali nucleari.
E
allora che facciamo?
Allora
bisogna scegliere: o moderiamo drasticamente l’ICT, oppure decidiamo che tutto
sommato dell’ecologia ci importa di meno che stare tutto il giorno di fronte a
uno schermo.
D’altronde è raro che chi crea il problema (lo
sviluppo tecnologico) proponga anche la soluzione che, se mai, sta
nell’abbandono della globalizzazione, nel ritorno alla agricoltura di
sussistenza ed ecologicamente compatibile, nella minore circolazione di denaro
grazie all’autoproduzione e al baratto, nel conseguente ritorno delle grandi
famiglie in cui cooperano le diverse generazioni (questo non lo trovate sul
PNRR).
L’attuazione
di questo medioevo di ritorno, comporterebbe delle spiacevoli conseguenze che
per molti equivarrebbero all’inferno in terra (a me devo dire che non
dispiacciono così tanto, ma il vostro cronista è un maledetto retrogrado) tra
cui il ritorno della fatica fisica, di una struttura sociale tradizionale, il
progressivo abbandono delle metropoli, andare a dormire la sera appena dopo
cena e svegliarsi all’alba….
Si
vabbè ma allora come la mettiamo con l’efficienza del lavoro?
A
questo proposito vi racconto una esperienza (molto comune per le persone della
mia generazione).
Mio
padre era un impiegato del parastato (INPS) dove con il tempo raggiunse una
posizione apicale (direttore ufficio ispettorato);
egli (come quasi tutti i genitori dei miei
amici) andava al lavoro verso le sette e mezza, attaccava alle otto circa,
tornava a casa per ora di pranzo, mangiava con la famiglia, si faceva una breve
dormitina e alle tre, tre e mezza ripartiva per l’ufficio da dove tornava verso
le sette e mezza un’ora prima della cena.
Sabato solo mattina, domenica libera.
Il suo
omologo di oggi è un poveretto che non ha orario, ha uno smartphone da cui non
si stacca mai e, quando (raramente) torna a casa si trova di fronte delle
persone quasi sconosciute che asseriscono essere la moglie e i figli (e questo
nella migliore delle ipotesi di una famiglia ancora integra…a scanso di
equivoci faccio notare che non so assolutamente chi sia l’omologo di mio padre
all’INPS in questo momento).
Il
poveretto è compiutamente ‘digitalizzato’ e così i suoi archivi al lavoro,
avrebbe quindi in teoria degli strumenti che dovrebbero facilitarne il lavoro.
La
grande domanda è “Allora perché le pensioni arrivano con maggiore ritardo e con
percorsi burocratici molto più tortuosi rispetto alla preistoria dei faldoni
cartacei?”.
Dopo
Silvio Berlusconi, i cinque
scenari
sul futuro della destra italiana.
Legrandcontinent.eu
– Lorenzo Castellani – (13 giugno 2023) – ci dice:
Prospettive.
In
un’analisi sulla portata storica del berlusconismo, capace di interpretare i
sentimenti profondi della società italiana, Lorenzo Castellani ragiona
sull’impatto che la morte del Cavaliere avrà sugli equilibri politici della
coalizione al governo.
(Lorenzo
Castellani)
L’ascesa
di una formula politica.
Non si
può comprendere l’attuale governo di centrodestra senza l’eredità politica e
culturale di Silvio Berlusconi, ma non si può capire Berlusconi senza
padroneggiare l’eredità della prima repubblica.
Berlusconi
nasce come leader politico sulle ceneri di una Repubblica distrutta dalle
inchieste per corruzione della magistratura inquirente e dissestata sul fronte
della relazione tra partiti e cittadini, dopo aver portato gli italiani dalle
macerie della seconda guerra mondiale ad una potenza del G7.
Tuttavia,
la cosiddetta prima repubblica, al contrario di quanto spesso si creda, aveva
già in nuce in sé un bipolarismo che poi si ingenererà con il referendum sulla
legge elettorale del 1993 e con l’intuizione dello stesso Berlusconi della
democrazia dell’alternanza:
da un lato c’era il Partito comunista
italiano, interdetto dal governo del paese per ragioni internazionali, e
dall’altra tutti gli altri, con la Democrazia cristiana come perno di ogni
maggioranza.
Di
fatto, ciò che univa davvero il pentapartito era l’anticomunismo, una
fortissima base ideologica comune, per quasi cinquant’anni, della maggioranza
dei cittadini italiani.
Inoltre, a inizio anni Novanta, l’Italia era
in grande ritardo nell’entrata nel nuovo ciclo politico-economico
internazionale caratterizzato da un processo di liberalizzazione e
privatizzazione dell’economia che veniva dalle esperienze di Ronald Reagan e Margaret
Thatcher.
I
partiti della prima Repubblica erano arrivati troppo tardi a capire la
necessità di riformare l’economia in senso liberista, si erano mossi tra mille
contraddizioni e con un percorso a singhiozzo nei primissimi anni Novanta.
Infine, le inchieste della magistratura sulla
corruzione generalizzata della classe politica ne avevano minato le fondamenta
della legittimazione, i vecchi partiti venivano percepiti da gran parte degli
italiani come un covo di corruttela, burocrazia e arretratezza.
Berlusconi, forte di un controllo della
cultura popolare attraverso le sue televisioni, ricavò da questa situazione tre
grandi intuizioni politiche:
la leggera coloritura ideologica del
liberalismo anglo-americano che aveva dominato gli anni Ottanta e primi anni
Novanta;
il forte richiamo dell’anticomunismo, a cui la
maggioranza degli italiani aveva risposto per decenni positivamente, e la
debolezza di una sinistra che dopo la caduta del comunismo non era riuscita
rapidamente a reinventarsi;
un populismo antipolitico che sintonizzava
l’offerta politica berlusconiana con cittadini stanchi del sistema dei partiti
e della politica di professione dopo le inchieste di Tangentopoli.
(Lorenzo
Castellani)
Il
berlusconismo politico è stato l’intreccio di questi tre fattori e le sue
promesse intrecciate di libertà, conservazione e modernizzazione, sincere o
meno che fossero, sono state supportate da decine di milioni di italiani.
Il
berlusconismo è stato un fattore enorme non soltanto per la polarizzazione che
il controverso personaggio di Berlusconi ha generato per oltre un ventennio, ma
perché ha mostrato una frattura politica e culturale che oggi, in termini
diversi, è ancora molto evidente nel paese.
Si pensi, ad esempio, al blocco sociale del
centrodestra che è rimasto grossomodo lo stesso del 1994, che a guidarlo fosse
Berlusconi, Salvini o Meloni: partite iva, piccoli medi-imprenditori, forze
dell’ordine e lavoratori del settore privato.
Questo
raggruppamento di segmenti sociali, che Berlusconi aveva creato, si è
consolidato ed è rimasto intatto per quasi trent’anni, attraversando l’epoca
dell’ottimismo liberale e del globalismo, poi dell’euroscetticismo, del
rallentamento della globalizzazione, del ritorno del nazionalismo.
Ancora
negli ultimi mesi, pur con Forza Italia ridotta a terzo partito della
maggioranza, l’influenza di Berlusconi sul governo Meloni è stata
considerevole.
Il programma di governo del centrodestra è
ancora incentrato su alcuni capisaldi del berlusconismo: meno tasse per chi
produce e lavora, difesa della proprietà immobiliare, estensione della
cosiddetta flat tax per le partite iva, pensioni minime più robuste, una forte
attenzione alla sicurezza del cittadino, la riforma della giustizia in senso
garantista per l’imputato.
I nomi di peso del governo Meloni sono
anch’essi legati a quella storia:
tutti,
inclusa la stessa premier, sono stati coinvolti nei precedenti governi
Berlusconi, da Fitto a Urso, da Giorgetti a Tajani, da Crosetto a Mantovano.
Il
berlusconismo è stato un fattore enorme non soltanto per la polarizzazione che
il controverso personaggio di Berlusconi ha generato per oltre un ventennio, ma
perché ha mostrato una frattura politica e culturale che oggi, in termini diversi,
è ancora molto evidente nel paese.
(Lorenzo
Castellani)
Per
molti versi gran parte della classe politica di massimo livello su cui poggia
l’attuale esecutivo si è formata durante l’epoca berlusconiana degli anni
novanta e duemila.
Non solo Forza Italia è essenziale per i
numeri parlamentari della maggioranza, ma il programma del berlusconismo – solo
parzialmente realizzato in questo trentennio e pur depurato dalle inclinazioni
più “liberiste” che non sono più adeguate ai tempi – è ancora largamente
prevalente nell’offerta politica del centrodestra e vincente sul piano
elettorale.
Un
primo bilancio post-mortem del «pacchetto culturale» berlusconiano.
Ciò ci
conduce alla questione culturale, che nella storia politica ed editoriale di
Berlusconi ha pesato più di quanto si possa credere.
Berlusconi
non ebbe soltanto una grande intuizione politica e mezzi enormi per
realizzarla, ma anche un controllo della cultura popolare che è ancora oggi
risulta fondamentale per la destra politica.
I programmi edonistici, vanesi e consumistici
della sua televisione commerciale gli hanno garantito uno straordinario
patrimonio di informazioni e conoscenza sulla mentalità e le preferenze degli
italiani che le aziende di Berlusconi stesso hanno contribuito a realizzare.
Ciò ha
permesso al centrodestra di entrare in profonda connessione con la cultura
popolare, qualcuno direbbe la “bassa cultura”, del Paese e con le inclinazioni
e i sentimenti della maggioranza dei cittadini.
Per
molti versi gran parte della classe politica di massimo livello su cui poggia
l’attuale esecutivo si è formata durante l’epoca berlusconiana degli anni
novanta e duemila.
(Lorenzo
Castellani)
Un
fatto che il Berlusconi politico ha sempre rivendicato: gli italiani sono un
popolo liberale, che soffre gli indottrinamenti teorici, leggero e con voglia
di divertirsi, concentrato sul lavoro, la casa e la famiglia, attento alla
concretezza e alla quotidianità, alla cura del proprio “particulare”, molto più
che alle grandi idealità o all’elaborazione di una moralità pubblica.
Un popolo, in definitiva, che non deve essere
corretto né rieducato, come chiedono invece intellettuali e politici di
sinistra, ma che va bene così come è.
Nessuno
come Berlusconi ha compreso, nel suo tempo, quella parte di Italia che rifiuta
ogni attivismo politico, ogni indottrinamento nel linguaggio e nel costume,
ogni organizzazione sovrimposta della cultura e vuole semplicemente lavorare,
guadagnare, pagare meno tasse ed essere protetta dall’insicurezza, senza
fronzoli morali, senza pretese di riformare sé stessa e senza eccessive
ambizioni ideologiche, magari sotto la guida di un grande leader capace ed
efficiente che si occupa di risolvere i problemi.
Questo
era il pacchetto culturale di Berlusconi, questo è il pacchetto culturale che
oggi rende ancora così forte e radicata politicamente la destra pur senza che
questa abbia il controllo delle “casematte del potere”, come scuole,
università, burocrazie e realtà editoriali.
Questo
era il pacchetto culturale di Berlusconi.
(Lorenzo
Castellani)
Infine,
sul piano dell’organizzazione politica, Berlusconi è stato il precursore della
creazione del partito personale, privo di una organizzazione degli apparati e
simile ad un comitato elettorale con caratteristiche di marketing aziendale.
I suoi
alleati di un tempo, la vecchia Lega nord e Alleanza nazionale, erano partiti
veri sul piano organizzativo e di partecipazione alla vita politica degli
iscritti.
Oggi, invece, tanto la Lega di Salvini quanto
Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni sono dei partiti personali, molto più
simili a Forza Italia di quanto non lo siano dei loro partiti antenati.
La leaderizzazione, imposta dal primo Berlusconi
come novità assoluta, è diventata una caratteristica strutturale dei partiti
del centrodestra italiano.
Di
conseguenza la morte di Berlusconi, che lascia una eredità politica e culturale
pesante e decisiva per la maggioranza ancora oggi, apre nuovi scenari per il
futuro della politica italiana.
Procediamo
ora per punti nell’analizzare l’impatto sul presente e sul futuro generato
dalla scomparsa del fondatore del centrodestra.
I
cinque futuri del berlusconismo.
1 — IL
FUTURO DI FORZA ITALIA.
Questa
è la prima questione che la morte di Berlusconi pone, cioè la sopravvivenza del
proprio partito.
Si può
ipotizzare che nessuno, a livello parlamentare, si sposterà da Forza Italia
verso altri partiti proprio perché all’inizio la dipartita del Cavaliere avrà
un effetto di collante.
Tuttavia,
tra qualche mese, Tajani e gli altri forzisti dovranno affrontare le elezioni
europee e non è garantito che una Forza Italia priva di Berlusconi riesca a
superare lo sbarramento al 4%.
Se
così fosse sarebbe molto difficile, tra un anno, evitare smottamenti.
Gran parte degli eventuali movimenti
parlamentari saranno verso Fratelli d’Italia e la Lega.
Oggi
lo scenario più probabile è che la maggioranza non perda pezzi nell’immediato e
che ci possa essere, dopo le elezioni europee, un rimescolamento a favore degli
altri due partiti di maggioranza.
Forza
Italia continuerà probabilmente ad esistere fino alla fine della legislatura,
ma la sua decadenza nel consenso e nella consistenza parlamentare appare
irreversibile.
Naturalmente
uno sfarinamento di Forza Italia, con divisioni in correnti o con separazione
di piccoli gruppi di parlamentari, può creare dei problemi al governo Meloni
poiché crescerebbe il potere di ricatto di questi gruppuscoli, in sede
legislativa, nei confronti dell’esecutivo.
Pertanto
il Presidente del Consiglio non ambisce a determinare la scomparsa immediata e
lo smembramento parlamentare di Forza Italia poiché questo potrebbe generare
instabilità governativa, ma preferirebbe invece che questo affievolimento
avvenisse, in modo naturale, tornata dopo tornata elettorale.
2 — IL
FUTURO DI LEGA E FRATELLI D’ITALIA.
I
vuoti in politica si riempiono e dunque il buco va subito tappato.
Meloni e Salvini, due politici esperti, lo
sanno bene e perciò faranno partire una competizione silenziosa per raccogliere
le spoglie elettorali di Silvio Berlusconi e, se ci saranno fratture interne,
quelle parlamentari di Forza Italia.
Meloni è avvantaggiata per due motivi:
il
primo è che governa e dunque può offrire posti ed opportunità a chi considera
finita la propria esperienza in Forza Italia, il secondo è che controlla il
partito più grande e quindi può farsi garante della rielezione dei forzisti che
le interessano sul piano del consenso.
Salvini, molto vicino ad una fazione di Forza
Italia che fa capo a Licia Renzulli, può da un lato attrarre parlamentari verso
la Lega e dall’altro offrire un programma politico capace di sedurre gli
elettori di Berlusconi nel nord, un elettorato che spesso ha oscillato proprio
tra la Lega e Forza Italia.
A
livello di consensi, infatti, potremmo anche assistere ad una spartizione di
voti che vede la Lega primeggiare al nord e Fratelli d’Italia dominare nel
centro e nel sud.
Per
Meloni, inoltre, la caccia ai restanti voti di Berlusconi ha anche un valore
strategico:
offrire idee liberali e moderate per allargare
il bacino elettorale, spostare il partito più al centro, mettere
progressivamente a tacere le critiche relative all’estremismo e al
post-fascismo.
Una
Meloni che riprenda i temi più cari a Berlusconi nei prossimi mesi, come quelli
fiscali e pensionistici e magari metta da parte le proposte più identitarie
della destra, non è affatto da escludere.
3 — IL
FUTURO DEL CENTRO.
Se
Renzi e Calenda avessero costituito un partito unico che detenesse una quota di
consenso del 7-8% come dopo le ultime elezioni politiche oggi si fregherebbero
le mani all’idea di un possibile assalto di successo all’elettorato di Forza
Italia.
Purtroppo
per loro non è andata così:
separazione
dei due leader per attriti personali, nessun partito unico, Renzi fuori dalla
politica (almeno formalmente), entrambi i movimenti centristi in declino nei
sondaggi.
Dunque,
le possibilità per i centristi di ricavare qualcosa dalla scomparsa di
Berlusconi sono oggi molto ridotte.
Forse qualche adesione parlamentare potrà
arrivare nei prossimi mesi insieme a qualche decimale di consenso, ma è
difficile pensare ad una transizione prevalente degli elettori verso i
partitini di centro.
4 —
L’IMPATTO SUGLI ASSETTI EUROPEI.
La
scomparsa di Berlusconi abbrevia i tempi per un accordo tra Fratelli d’Italia e
il Partito Popolare Europeo.
È molto probabile, infatti, che il peso
elettorale di Forza Italia si ridurrà in modo consistente.
Dunque
Manfred Weber sarà costretto a capire a breve, pena l’indebolimento dei
popolari in Italia, se ci sono effettivi spazi per un accordo con Meloni.
La Presidente del Consiglio aumenta di
conseguenza il proprio peso specifico nelle trattative con il PPE.
Se i sondaggi per Forza Italia crollassero nei
prossimi mesi non è impensabile ipotizzare una lista unica, soltanto per le
elezioni europee, tra Forza Italia e Fratelli d’Italia di concerto con i
popolari europei.
Al partito
fondato da Berlusconi verrebbero garantiti degli eletti e Fratelli d’Italia
sarebbe maggiormente legata al PPE.
5 —
L’IMPATTO SUL PIANO INTERNAZIONALE.
Non
dobbiamo dimenticare che tutta la politica estera del Berlusconi governativo è
stata imperniata sulla costruzione di buoni rapporti con Russia e Stati Uniti.
La
teoria e la pratica dei forti rapporti commerciali con Mosca è sempre stata
propria di Berlusconi, uno dei pochi tratti che il tycoon aveva in comune con
Angela Merkel.
Questo
schema negli ultimi due anni non era più perseguibile e con pragmatismo il
leader di Forza Italia si era piegato alla ragion di Stato.
Ma Berlusconi è rimasto amico di Putin fino
alla fine e, pur rispettando gli impegni politici presi a sostegno
dell’Ucraina, ha sempre mostrato una certa insofferenza verso Zelensky.
Meloni
perde dunque un alleato filo-russo che negli ultimi tempi si era sbilanciato a
favore di Putin più di quanto non abbia fatto il leader della Lega Matteo
Salvini.
Di
conseguenza la Presidente del Consiglio si libera di un fattore di
preoccupazione internazionale e, considerata l’inclinazione atlantica ed
europeista di Tajani, può rafforzare la propria linea di politica estera
filo-americana.
L’influenza
della Cina su TikTok:
Usa e
Ue provano a difendere democrazia
e sicurezza nazionale.
Agendadigitale.eu
– (17 Feb. 2023) - Gabriele Iuvinale e Nicola Iuvinale-Avvocati – ci dicono:
Pechino
vuole una preminenza globale e, per questo, usa tutto l’arsenale a sua
disposizione, compreso il social TikTok.
Ma
perché se le democrazie occidentali si sentono minacciate, semplicemente non
vietano l’app?
In gioco ci sono libertà di espressione e
sicurezza nazionale occorre trovare un equilibrio.
TikTok,
conosciuto anche come” Douyin” in Cina, è un social network cinese lanciato nel
settembre 2016, inizialmente con il nome “musical.ly”.
Il controllo e l’influenza di Pechino sulla
piattaforma – che ha oggi superato i due miliardi di utenti in tutto il mondo –
sollevano preoccupazioni fondamentali per la sicurezza nazionale dei paesi
democratici.
Approfondiamo
allora le ragioni dei timori manifestati dalle democrazie occidentali nei
confronti di “TikTok” e facciamo il punto sulle contromosse di Ue e Usa.
I
rapporti tra “TikTok” e Pechino
Il
social è di proprietà di “ByteDance”, una società tecnologica globale con sede
a Pechino che ha una significativa presenza commerciale in Cina.
I
legami di “ByteDance” con Pechino la rendono suscettibile al controllo e
all’influenza del “Partito Comunista Cinese” (PCC) e del “governo cinese”
attraverso diversi meccanismi “coattivi” anche “formali”.
In primo luogo, la legge cinese
sull’intelligence nazionale richiede a tutti i cittadini e tutte le
organizzazioni, inclusa un’azienda come “ByteDance” e i suoi dipendenti, di
partecipare (obbligatoriamente) ad attività di intelligence nazionali ed
estere.
In secondo luogo, il governo cinese detiene
una quota di proprietà nel “Beijing Douyin Information Service” la sussidiaria
di “ByteDance” e affiliata di “TikTok” che gestisce le attività cinesi di”
ByteDance”.
Sebbene
siano noti pochi dettagli su questo investimento, “Weibo” (la versione cinese
di Twitter) ha rivelato agli Stati Uniti un accordo simile che conferisce al governo
cinese “diritti di veto su determinate questioni relative a” decisioni sui
contenuti.
Un
terzo punto di pressione è la legge cinese sul controllo delle esportazioni
(ECL), ] che copre anche la tecnologia di raccomandazione video di TikTok e
quindi consente al governo di Pechino il potere di vietare o limitare il
trasferimento della tecnologia al di fuori della Cina.
Il
controllo e l’influenza del PCC su “ByteDance” sollevano preoccupazioni
fondamentali per la sicurezza nazionale dei paesi democratici su TikTok.
La
prima è
che l’app potrebbe essere, anzi già lo è, un meccanismo del PCC per raccogliere
le informazioni personali degli utenti del social media e usarle contro di loro.
La
seconda è
che il PCC potrebbe utilizzare TikTok per campagne di censura, disinformazione
e propaganda contro le elezioni democratiche di altri paesi, altre parti
fondamentali della società e delle istituzioni.
Inoltre,
la legge sulla Sicurezza dei Dati cinese (DSL) del 2021 mostra la visione di Xi
Jinping della “civiltà digitale”, un mondo in cui gli spazi digitali creano una
“collettività dal destino comune” con le caratteristiche del PCC.
Attraverso
la radicale trasformazione delle pratiche di gestione interna dei dati, Xi
intensificherà la supervisione sociale ed espanderà l’influenza globale della
Cina.
La
DSL, entrata in vigore il 1° settembre 2021, offre un quadro giuridico che
articola questa visione, ed è una costellazione di principi per la
regolamentazione dei dati e delle industrie basate sui dati.
La
legge ha ricevuto molta attenzione in quanto è un veicolo sia per la crescita
interna, che per l’espansione dell’influenza globale dell’industria tecnologica
cinese.
Oltre alla sua ampia definizione di “dati” e
di “infrastruttura di informazioni critiche”, la DSL regola la “governance
globale dei dati extraterritoriali”;
come “certi sistemi tecnologici [che]
consentono nuove forme di territorializzazione e territorialità”.
“Man mano che le aziende cinesi (basate
sull’acquisizione e l’analisi sui dati) crescono e il mercato cinese rimane al
centro delle aspirazioni di crescita delle multinazionali che fanno affari in
Cina, l’influenza della DSL crescerà di pari passo”.
Oltre
alle limitazioni all’esportazione dei dati relative alle richieste di governi
esteri, l’articolo 24 del DSL afferma la necessità di controlli
sull’esportazione dei dati per la sicurezza nazionale.
La
legge “sfrutta la giustificazione della sicurezza nazionale per affermare
un’ampia autorità su tutte le pratiche di raccolta dei dati, incluso il
processo di revisione della sicurezza nazionale.
Riafferma i principi della protezione dei
consumatori, dell’accesso del governo ai dati e dell’applicazione
extraterritoriale della sovranità informatica della Cina”.
Si coglie immediatamente una fondamentale
implicazione politica e giuridica:
la
legge genera condizioni per applicazioni internazionali complesse, senza
un’infrastruttura di regolazione internazionale.
“Attraverso
un reticolo di leggi e regolamenti recenti, il presidente cinese Xi Jinping ha
lavorato duramente per rendere il Partito Comunista Cinese il broker di dati
più potente del mondo.
Xi
realizza questo isolando i dati cinesi dal mondo, esercitando un nuovo potere
extraterritoriale sui flussi di dati globali e mettendo le società straniere
che operano in Cina, e viceversa, sotto un vincolo legale, il tutto assorbendo
i dati di altri Paesi con mezzi leciti e illeciti.
Il vasto oceano di dati, proprio come le
risorse petrolifere durante l’industrializzazione, contiene un’immensa potenza
produttiva e opportunità” – ha affermato Xi.
“Chiunque
controlli le tecnologie dei big data controllerà le risorse per lo sviluppo e
avrà il sopravvento”.
Bisogna
considerare che la Cina è ricca, industrializzata, controlla le più importanti
catene globali di approvvigionamento e crea dipendenze.
Essa è fortemente orientata alla tecnologia,
con il presidente Xi Jinping che persegue una leadership globale nel settore.
L’interferenza del PCC anche nell’economia
internazionale non è facilmente individuabile ed il Partito continua ad
utilizzare la propria potenza per costringere aziende e Stati a fare cose che
non sceglierebbero di fare in assenza di una coartazione.
Pechino
vuole una preminenza globale e, per questo, utilizza tutto l’arsenale a sua
disposizione:
operazioni
di influenza, cooptazione economica, politica, diplomazia, forza militare.
Metodologie
e strumenti che spesso si pongono anche al di fuori della legalità
internazionale.
Pechino
è una grande potenza revisionista che per decenni ha accumulato ricchezze,
sviluppato capacità militari di livello mondiale e diffuso la sua influenza in
tutto il globo con l’obiettivo a lungo termine di riscrivere l’ordine
internazionale.
La
posizione degli Stati Uniti.
Il
direttore dell’FBI “Chris Wray” ha già avvertito a fine 2022 che TikTok è
controllata da un governo, quello cinese, che “non condivide i nostri valori” e
potrebbe “usarla per operazioni di influenza”.
La principale fonte di allarme è il fatto che
il governo cinese detenga la chiave dell’algoritmo di raccomandazione dell’app,
ha detto” Wray” in un intervento alla “Gerald R. Ford School of Public Policy”
dell’Università del Michigan.
Questo
controllo “consente loro di manipolare il contenuto e, se lo desiderano, di
utilizzarlo per operazioni di influenza”.
Il governo cinese mantiene anche la capacità
di raccogliere i dati degli utenti, ha osservato.
“Tutte queste cose sono nelle mani di un
governo che non condivide i nostri valori e che ha una missione che è molto in
contrasto con ciò che è nel migliore interesse degli Stati Uniti.
Questo
dovrebbe preoccuparci”.
Già in
passato,” TikTok “divenne rapidamente l’obiettivo del governo federale
statunitense, con l’amministrazione Trump che minacciò di vietare l’app.
Le
preoccupazioni includevano i presunti legami di “ByteDance” con il governo e
l’esercito cinese (PLA), insieme alle critiche sulle violazioni della privacy
dei bambini da parte dell’azienda.
Nel
settembre 2022 l’amministratore delegato di TikTok, “Vanessa Pappas”, ha
testimoniato in un’udienza al Senato statunitense sostenendo che la società non
memorizza i dati degli utenti statunitensi in Cina e non li condivide con “ByteDance”.
“I funzionari del governo cinese non hanno
accesso ad esso”, ha detto.
“Oracle”
dal 2022 ha anche iniziato ad esaminare gli algoritmi e i modelli di
moderazione dei contenuti di “TikTo”k per assicurarsi che non vengano
manipolati dalle autorità cinesi.
Anche
a livello europeo è stata chiesta nel 2020, dal garante italiano per la
privacy, una task force contro i rischi del social cinese, perché “è importante
che i cittadini europei sappiano come vengano usati i dati caricati e se
effettivamente vengano controllati dal governo centrale cinese”.
In
India, il 29 giugno 2020, il Ministero dell’elettronica e della tecnologia
dell’informazione ha bandito “TikTok” insieme ad altre “58 app cinesi” perché
rappresentano una minaccia alla sovranità e alla sicurezza nazionale dopo lo
scontro militare tra truppe indiane e cinesi in un territorio conteso lungo il
confine condiviso in Ladakh.
Il
governo indiano ha affermato che la decisione di vietare le app è stata quella
di proteggere i dati e la privacy dei suoi 1,3 miliardi di cittadini e di porre
fine alla tecnologia che “rubava e trasmetteva di nascosto i dati degli utenti
in modo non autorizzato a server al di fuori dell’India”.
Queste
preoccupazioni e i rischi associati identificano chiaramente “TikTok” come uno
strumento per le operazioni di informazione controllate dal PCC , ma vietarla
non è un’opzione facile.
La
visione della prevalenza della sicurezza nazionale sulla libertà di parola
potrebbe rendere, anche prima “facie”, il suo “divieto generalizzato” un
risultato ragionevolmente semplice e accettabile.
Tuttavia,
il fattore fondamentale che complica il quadro è che milioni di persone negli
Stati Uniti e in Europa utilizzano l’app “TikTok “come piattaforma di
espressione;
la
libertà di espressione e di parola sono protette dal Primo Emendamento
statunitense e da tutte le costituzioni democratiche dei paesi dell’UE.
Per
quanto riguarda gli Stati Uniti, nelle ultime settimane, il Congresso è
prevalso sull’esecutivo nel dibattito su “TikTok” approvando una legislazione
che vieta l’app dai dispositivi del governo federale.
Un
altro disegno di legge bipartisan, noto come “ANTI-SOCIAL CCP Act”, se approvato, andrebbe molto oltre, vietando
completamente a “TikTok” di operare in tutti gli Stati Uniti.
La
proposta, avanzata a dicembre 2022 dal senatore” Marco Rubio”, prevederebbe di
bloccare anche tutte le transazioni da qualsiasi società di social media
all’interno o sotto l’influenza di Cina e Russia.
La commissione per gli affari esteri della
Camera prevede di tenere un voto già nel mese di febbraio 2023.
La data, pianificata dal rappresentante del
presidente del panel “Michael McCaul”, mirerebbe a fornire alla Casa Bianca gli
“strumenti legali” per vietare “TikTok” per motivi di sicurezza nazionale degli
Stati Uniti.
Un divieto dell’app, dovrebbe affrontare ostacoli
significativi al Congresso per passare e richiederebbe almeno 60 voti al Senato.
Con queste azioni, sostiene “Pablo Chavez”
(Adjunct Senior Fellow presso il Center for a New American Security’s
Technology e il National Security Program), che il Congresso si sta assumendo
maggiori responsabilità nel decidere il futuro del servizio di condivisione
video è molto positivo.
“Dato l’impatto potenzialmente enorme del fatto che
l’app possa continuare a funzionare negli Stati Uniti, l’impegno e l’azione del
Congresso in questa materia sono benvenuti e necessari per aiutare a guidare,
in un momento critico, la direzione della strategia tecnologica statunitense,
ancora in evoluzione, verso la Cina”.
Dalla
fine del 2019, “TikTok” è stata oggetto
di un’indagine segreta sulla sicurezza nazionale condotta dal Comitato per gli
investimenti esteri negli Stati Uniti. Conosciuto come lo “CFIUS”, il comitato del ramo esecutivo esamina le
implicazioni per la sicurezza nazionale delle transazioni estere con entità
statunitensi e raccomanda come affrontare tali preoccupazioni al presidente.
Ad
esempio, nel dicembre 2016, il presidente Obama, agendo su raccomandazione
dello” CFIUS”, vietò ad una società di proprietà cinese l’acquisto di un
produttore statunitense di tecnologia utilizzata nei sistemi d’arma americani.
Alcuni
hanno criticato il” CFIUS” per aver impiegato più di tre anni per prendere una
decisione su “TikTok”.
Tuttavia, prosegue “Pablo Chavez”, “TikTok
solleva domande chiave su come il governo degli Stati Uniti dovrebbe difendere
l’integrità della società statunitense fondamentalmente aperta, democratica e
vincolata alle regole, soprattutto in questo periodo di crescente competizione
con il Partito Comunista Cinese.
Affrontare
queste domande richiede un approccio più olistico agli interessi nazionali che
vada oltre l’ambito dell’autorità e del mandato dello CFIUS”.
Vi
sono crescenti motivi di preoccupazione per la massiccia presenza dei cittadini
americani (molti dei quali minorenni) sul social media TikTok e per i suoi
legami con Pechino, ma vietarlo non è un’opzione facile.
Il governo degli Stati Uniti non ha l’autorità
per vietare la parola.
I post
su TikTok sono protetti dal “Primo Emendamento” poiché sono una forma di
discorso (libertà di parola e di espressione sono principi basilari delle
moderne democrazie liberali).
Ciò
significa che non possono essere banditi più di quanto a una persona che
desidera accedere alla propaganda russa può essere vietato leggere la Pravda o
RT.
Questo
è un motivo fondamentale per cui il Congresso dovrebbe lottare per il destino
di TikTok” invece di lasciare la questione esclusivamente al “CFIUS”, che è
progettato per concentrarsi solo sull’identificazione dei problemi di
sicurezza, sulla valutazione dei rischi e sulla proposta di soluzioni per
mitigare o eliminare tali rischi.
Al
contrario, il Congresso ha l’autorità e la responsabilità di soppesare (cd.
ponderazione degli interessi) le implicazioni del Primo Emendamento, sia
sostanziali che simboliche, riguardo la chiusura di una piattaforma come
TikTok.
Infatti,
nei casi di emergenza nazionale, quando un presidente ha i poteri più ampi e
forti, il Congresso si riserva il diritto di limitare la libertà di espressione
e gli nega tale autorità.
Nello specifico,” l’International Emergency
Economic Powers Act” (IEEPA) conferisce al presidente ampi poteri di emergenza
per affrontare le minacce straniere, ma nega all’esecutivo l’autorità di
vietare le comunicazioni personali e l’importazione o l’esportazione di
qualsiasi tipo di informazione o materiale informativo, indipendentemente dal
mezzo, durante l’emergenza.
Quindi,
gli Stati Uniti potrebbero utilizzare l’”International Economic Emergency
Powers Act” (IEEPA), che concede al presidente un’ampia discrezionalità sulle
entità straniere, ma l’IEEPA non gli conferisce l’autorità di sospendere la
costituzione.
Precisa
“Chavez” che l’”ANTI-SOCIAL CCP Act” eliminerebbe i guardrail del Primo
Emendamento dell’IEEPA e indicherebbe semplicemente al presidente di vietare
TikTok.
Questa è la corretta via da seguire per la
ponderazione degli interessi coinvolti. Infatti, “il Congresso dovrebbe
considerare esplicitamente la libertà di espressione e altri valori americani
fondamentali come parte dell’analisi della sicurezza nazionale di TikTok e di
qualsiasi legislazione correlata che propone.
Ciò evidenzierebbe che una delle risorse più
preziose degli Stati Uniti è l’adesione a questi valori, un elemento cruciale
dell’influenza nazionale degli Stati Uniti e della credibilità internazionale”.
Prendere
in considerazione le conseguenze della libertà di espressione con un divieto
generalizzato di TikTok non porta necessariamente a mantenere lo status quo o a
lasciare che TikTok continui a operare con restrizioni speciali.
Si potrebbero anche correttamente indicare
servizi sostanzialmente simili come valide alternative per la libertà di
espressione.
In tal
senso, il divieto dell’India su TikTok potrebbe fornire dati utili.
Dal
2020, il governo indiano ha vietato più di 300 app di proprietà o affiliate a
società cinesi ai sensi dell’”Information Technology Act del paese”.
Sono state sollevate preoccupazioni sia sul
processo dei divieti, che è stato opaco, sia sul loro impatto sulla libertà di
espressione.
Tuttavia, il record finora indica che,
nonostante le preoccupazioni che il divieto di TikTok avrebbe ridotto il
diritto di espressione online in India, diverse app simili a TikTok indiane
hanno iniziato a riempire il vuoto.
Tra
questi c’è “Moj di ShareChat”, che ha circa 100 milioni di creatori e oltre 300
milioni di utenti, 180 milioni in più rispetto alla base di utenti in India di
TikTok poco prima che fosse vietata.
Anche
le app video straniere, tra cui “YouTube” e “Instagram”, hanno ampliato la loro
presenza sulla scia del divieto di TikTok.
Il
Congresso potrebbe anche decidere per una via di mezzo, che consentirebbe a
TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti ma con restrizioni
significative.
In
questo scenario intermedio, il governo supervisionerebbe il sistema di
raccomandazione video di TikTok, la definizione e l’esecuzione delle sue
politiche di moderazione dei contenuti.
Questo
potere verrebbe probabilmente esercitato tramite una terza parte incaricata di
supervisionare, controllare, riferire e forse modificare le politiche di
regolamentazione del codice e dei contenuti di TikTok.
Il “social
ha dichiarato che si sta preparando per una futura regolamentazione intermedia
mettendo in atto controlli in virtù di una partnership commerciale con “Oracle
Corporation”.
In base all’accordo, “Oracle” sarà
responsabile di garantire che l’algoritmo di TikTok sia addestrato solo sull’infrastruttura
Oracle, “garantirà un’adeguata verifica della sicurezza di terze parti e la
convalida dell’algoritmo” e, insieme a revisori e il monitoraggio di terze
parti, avranno anche accesso al codice sorgente di TikTok.
“Oracle” avrà anche il compito di rivedere le
politiche e le pratiche di moderazione dei contenuti di TikTok, il che
comporterebbe la valutazione dei sistemi di moderazione dei contenuti
automatizzati del social e dei team di revisione per garantire che entrambi
agiscano in conformità con le linee guida della community di TikTok e altre
norme sui contenuti e che non svengano manipolate dal PCC.
Sebbene
questi controlli possano rivelarsi efficaci, il lavoro di “Oracle”
richiederebbe la supervisione del governo degli Stati Uniti per garantire che
le preoccupazioni su TikTok siano adeguatamente affrontate.
“Mettere
il governo nella posizione di influenzare le richieste di moderazione dei
contenuti – alcune delle quali potrebbero in definitiva avere poco o nulla a
che fare con le operazioni di influenza del PCC – potrebbe sollevare
ragionevoli preoccupazioni sul Primo Emendamento e portare alla conclusione che
il disinvestimento o il divieto siano un approccio più sicuro.
Inoltre, i membri del Congresso potrebbero
stabilire che l’impegno del governo degli Stati Uniti con le politiche e le
pratiche sui contenuti di TikTok avrebbe effettivamente fissato il livello per
gli sforzi di moderazione dei contenuti anche di altre società di media,
costituendo così un modo sottile e preoccupante di regolare in modo generale la
libertà di espressione, al di là di TikTok”.
Come
suggerisce l’analisi di cui sopra, queste discussioni e decisioni possono
avvenire in gran parte all’aperto piuttosto che in contesti riservati, il che è
particolarmente saliente quando una decisione riguarda un servizio così vicino
e sempre più radicato nella vita quotidiana di milioni di americani.
“TikTok”
ha circa 100 milioni di utenti negli Stati Uniti:
pressappoco una persona su tre sopra i 13
anni, l’età minima negli Stati Uniti per iscriversi ai servizi di social media.
I
membri del Congresso sono nella posizione migliore per comprendere l’impatto di
un divieto o restrizione di TikTok sulla vita quotidiana dei loro elettori e
spiegare loro tale scelta.
“Lasciare la decisione su TikTok
esclusivamente al CFIUS significa anche perdere un’opportunità per il Congresso
di discutere e agire su questioni di politica digitale in un contesto specifico
e concreto.
Con la legislazione proposta, l’ANTI-SOCIAL
CCP Act fungerebbe come catalizzatore;
il
Congresso potrebbe esaminare in modo più ampio i modelli legislativi e
normativi esistenti che potrebbero essere applicati ai servizi online soggetti
alla giurisdizione, al controllo o all’influenza del PCC.
Qualunque
cosa si pensi dei risultati politici dell’ANTI-SOCIAL CCP Act e di una
legislazione simile, il disegno di legge sottolinea la responsabilità e
l’opportunità del Congresso di continuare a impegnarsi sulla questione TikTok.
Il
social non è un punto debole sullo schermo radar, ma piuttosto una pietra
miliare su quello che è un percorso sempre più chiaro ma insidioso verso uno
scisma tecnologico tra Stati Uniti e Cina e una competizione tecnologica a
lungo termine con Pechino.
Con questo in mente, il Congresso ha
l’opportunità di intraprendere un’azione diretta su una questione che avrà un
impatto su centinaia di milioni di americani, passare ad un approccio più
olistico alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti nell’era digitale e
impegnarsi in un processo che metta in luce e sfrutti il governo aperto e
democratico che gli Stati Uniti rappresentano sulla scena globale”.
Ad
esempio, suggerisce “Chavez”, se il Congresso statunitense consentisse a TikTok
di continuare a operare negli Stati Uniti (o se la vietasse, ma volesse mettere
in atto regole di trasparenza algoritmica per altri servizi sensibili al PCC),
potrebbe attingere al Digital Services Act (DSA) dell’Unione europea come punto
di partenza per la trasparenza algoritmica e le regole di responsabilità per
TikTok e servizi simili.
La
posizione dell’UE e dell’Italia.
L’Unione
Europea ha un quadro normativo armonioso apprestato attraverso uno strumento
specifico: il “Digital Services Act”.
La legge sui servizi digitali migliora i
meccanismi per la rimozione dei contenuti illegali e per l’effettiva protezione
dei diritti fondamentali degli utenti online, compresa la libertà di parola.
È un
insieme di norme applicabili in tutta l’UE che istituiscono meccanismi che
consentono alla Commissione e agli Stati membri di coordinare le loro azioni e
garantire un’adeguata attuazione del quadro in tutta l’UE.
Digital
Services Act è stato approvato il 5 luglio 2022 e costringerà le aziende
tecnologiche ad assumersi maggiori responsabilità per i contenuti che appaiono
sulle loro piattaforme.
I nuovi obblighi includono la rimozione più
rapida di contenuti e merci illegali, la spiegazione a utenti e ricercatori del
funzionamento dei loro algoritmi e l’adozione di misure più rigorose sulla
diffusione della disinformazione.
Le aziende rischiano multe fino al 6% del loro
fatturato annuo per non conformità. Le grandi piattaforme online come Facebook,
ecc. dovranno rendere trasparente agli utenti il funzionamento dei loro
algoritmi di raccomandazione.
Agli
utenti dovrebbe anche essere offerto un sistema di raccomandazione “non basato
sulla profilazione”.
I
servizi di hosting e le piattaforme online dovranno spiegare chiaramente perché
hanno rimosso i contenuti illegali e offrire agli utenti la possibilità di
presentare ricorso contro tali rimozioni.
Le più
grandi piattaforme online dovranno fornire dati chiave ai ricercatori per
“fornire maggiori informazioni su come si evolvono i rischi online”.
Queste
dovranno inoltre introdurre nuove strategie per affrontare la disinformazione
durante le crisi.
Dopo
l’entrata in vigore della legge sui servizi digitali il 16 novembre 2022, le
piattaforme online avranno 3 mesi di tempo per comunicare il numero di utenti
finali attivi (17 febbraio 2023) sui loro siti web.
Gli
Stati membri dell’UE dovranno conferire poteri ai loro coordinatori dei servizi
digitali entro il 17 febbraio 2024, data generale di entrata in applicazione
del DSA.
Per
quanto riguarda la governance, il DSA ha previsto nuove figure quali il “Compliance
officer,” designato dalle “very large online platforms” con il compito di
monitorare l’osservanza del regolamento da parte delle aziende;
il “Digital
Services Coordinator”, nuova autorità nazionale indipendente che dovrà vigilare
sull’applicazione del regolamento con obblighi di trasparenza, imparzialità,
tempestività di azione e report annuale sulle proprie attività.
Come
previsto dall’art.38, ha il compito di garantire il coordinamento nazionale
sulle norme, nonché di gestire i reclami contro i provider e di indagare sulla
presenza di illeciti con potere di ispezione.
Accertato
l’illecito, ha il compito di imporre la cessazione della violazione con
sanzioni e penalità di mora, fino a chiedere alle autorità giudiziarie di Stato
la restrizione temporanea dell’accesso dei destinatari al servizio interessato.
I coordinatori nazionali dei servizi digitali di tutti
i Stati membri compongono il comitato europeo per i servizi digitali,
presieduto dalla Commissione Europea, che supporta il coordinamento
interstatale e la vigilanza sulle grandi piattaforme.
Tuttavia,
il DSA non definisce quale contenuto sia illegale e lo lascia stabilire ai
singoli paesi.
In
pratica è un contenitore ancora da riempire e, questo, sarà un passaggio
fondamentale anche per la tutela della sicurezza nazionale dei singoli Stati
membri dell’Unione.
Cosa
dovrebbero fare gli Stati
Più in
generale, cosa dovrebbero fare gli Stati, Italia compresa, con quelle che
potrebbero essere viste come aziende con legami cinesi?
Come
contemperare la libertà di espressione, aperta e inclusiva, con l’indefettibile
tutela della sicurezza nazionale?
In più, al di là della Cina, l’Unione Europea
e gli Stati membri dovrebbero esplorare l’impatto della questione TikTok sugli
sforzi dei governi e della Commissione Europea per proteggere i flussi di dati
transfrontalieri tentando di contemperarli con “forme restrittive” di sovranità
digitale in varie regioni del mondo.
Ricordiamo
che, ad esempio, in Cina sono vietati tutti i social media “occidentali”
(Twitter, Facebook, WhatsApp, nonché i servizi Google) e sostituiti con
altrettanti cinesi, sotto il controllo del PCC.
Queste
domande, come quelle relative alla tutela della libertà di espressione, di
parola, costituzionalmente tutelate – profondamente legate all’impegno
dell’Unione Europea per un Internet aperto, libero, globale, interoperabile,
affidabile e sicuro che rafforza i principi democratici, i diritti umani e le
libertà fondamentali – non possono esularsi dall’ambito di una profonda analisi
della sicurezza nazionale.
Ciò è
di fondamentale importanza poiché la rivalità dell’Occidente con la Cina è
diventata sempre più una competizione di potere e di contrasti che mettono alla
prova società e sistemi di governo aperti, democratici e vincolati da regole,
contro il loro opposto totalitario che cerca di sopprimerli.
Ciò
che l’Italia e gli Stati membri dell’Unione Europea possono fare è prendere la
questione TikTok come un’opportunità di alto profilo per evolvere la revisione
della sicurezza nazionale delle transazioni che coinvolgono la tecnologia
cinese e allinearla più strettamente ai principi di una democrazia liberale che
tuteli maggiormente sia i cittadini che lo stato di diritto.
Man
mano che la revisione della sicurezza nazionale delle transazioni relative alla
tecnologia che coinvolgono la Cina diventa più comune, il Parlamento italiano
potrebbe ampliare esplicitamente l’ambito delle valutazioni della sicurezza
nazionale per includere variabili importanti, come il potenziale impatto sui
diritti fondamentali e l’effetto sulla proiezione del soft power nazionale.
L’impatto
della guerra in Ucraina.
Ciò,
presuppone la chiara presa d’atto che il 24 febbraio 2022 il mondo è cambiato e
siamo entrati in una nuova era.
La
guerra aggressiva e genocida lanciata nel febbraio 2022 dalla Russia contro
l’Ucraina ci ha risvegliato alla dura e cruda realtà che le aspettative, degli
Stati Uniti e dell’Unione Europea, alla fine della Guerra Fredda nel 1991 sono
state una pia illusione.
È
evidente che il fascino universale dell’idea democratica non ha preso forma,
spontaneamente, nel “Nuovo Ordine Mondiale”, nato alla fine della seconda
guerra mondiale, che avrebbe dovuto garantire una pax globale e duratura.
Oggi, con la Cina, ci troviamo di fronte a un
avversario determinato, intento a creare un impero che gli sia, alla fine,
grato e riconosca Xi come il grande architetto del “sogno cinese del grande
ringiovanimento della nazione” e di “una comunità globale dal destino comune
per l’umanità”.
Sebbene
sia la Cina che la Russia abbiano rafforzato i loro arsenali nucleari negli
ultimi anni, esse hanno anche pianificato e attuato le loro strategie
attraverso una “Liminal Warfare”.
Questa
“guerra liminale” riguarda la cosiddetta “manipolazione della soglia”.
Il
modo di fare guerra cinese riguarda secondo l’esperto “David Kilcullen”,
manovrare in uno spazio che è al di fuori della nostra definizione di
conflitto.
La
Cina e la guerra totale.
I
cinesi abbracciano l’escalation orizzontale ampliando lo spettro della
competizione e del confronto al punto che il campo di battaglia è ovunque e la
guerra è totale.
In
questo senso, il controllo di mezzi tecnologici, social media, sistemi 5G,
acquisti immobiliari strategici, ponti, autostrade e porti di tutto il mondo,
il controllo di alcuni tipi di investimenti nella catena di approvvigionamento
e nelle infrastrutture critiche, sono tutti descritti nel libro “Unrestricted Warfare”
del 1999 (scritto
dai colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui) come operazioni di guerra
“transmilitari” e “non militari”.
Gli
autori di quel documento parlano di strategie di combinazione che mescolano
mezzi letali e non letali, militari e non militari (comprese reti criminali o
organizzazioni civili) mettendo in gioco tutta una varietà di competizioni,
combinandole in un’architettura senza soluzione di continuità.
La
“Liminal Warfare” di Kilcullen” implica l’integrazione di politiche economiche,
legali, militari, di intelligence e cyber in un unico mix, senza soluzione di
continuità di attività e di manovra, incentrate sulla definizione delle
operazioni con l’avversario prima del lancio di un’operazione militare.
È
quella cosiddetta “zona grigia” – nella quale rientrano anche le operazioni che
il PCC conduce attraverso società globali come quella che possiede TikTok – che
oggi deve essere studiata, codificata e i relativi fatti sanzionati anche al
fine di tutelare la nostra sicurezza nazionale.
La
posizione Ue e Nato verso la Cina.
Ricordiamo
la posizione presa dall’Unione Europea e dalla Nato nei confronti della Cina.
Lo
scontro si è fatto durissimo nel 2021 tra Europa, Stati Uniti e Cina, con un
botta e risposta di sanzioni e contromisure che non si vedeva da tre decenni.
Il Parlamento Europeo ha anche bloccato il 20
maggio 2021 la ratifica del nuovo accordo sugli investimenti con la Cina.
Inoltre,
il 16 settembre 2021, ha adottato un’importante “Risoluzione sulla “Nuova
strategia UE-Cina”, notificata anche al governo della Repubblica Popolare
Cinese.
È un
documento politico, programmatico, economico e geopolitico, che traccia la
rotta dell’Unione Europea verso una rinnovata unione transatlantica.
La
NATO, nella sua revisione del concetto strategico sulla Cina del giugno 2022,
ha detto:
“Le ambizioni dichiarate (RPC) e le politiche
coercitive sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori”.
“L’approfondimento della partnership
strategica tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa… è in
contrasto con i nostri valori e interessi”.
Inoltre,
il legislatore dovrebbe prendere in considerazione l’unificazione della
revisione delle transazioni tecnologiche cinesi (e forse di altri paesi
impegnativi) sotto un unico organo istituzionale per garantire coerenza, creare
efficienze e accrescere e mantenere le competenze sulle questioni di sicurezza
nazionale legate alla tecnologia.
Evitare
processi e ambiti di autorità differenti, nel tempo rischiano di produrre
risultati incoerenti e persino contraddittori tra l’esecutivo (con
provvedimenti d’urgenza) e la magistratura. In tal senso, evitare esiti
divergenti sarà particolarmente importante poiché l’attuale tensione
USA-UE-Cina non è un momento acuto che interessa solo poche transazioni ma,
piuttosto, un passaggio secolare a una relazione più competitiva e ristretta
tra i paesi, che avrà un impatto maggiore sulle transazioni commerciali.
Inoltre, la trasparenza deve generare regole di base, come linee guida
ufficiali e licenze generali, su come le aziende possono procedere con
determinate transazioni tecnologiche in modo da affrontare le preoccupazioni di
sicurezza nazionale del governo italiano.
Come
detto, poiché il DSA non definisce quale contenuto sia illegale, il passaggio
fondamentale sarà la definizione, da parte dell’Italia, delle condotte ritenute
rilevanti attraverso una specifica legislazione.
L’adozione
di una legislazione (nazionale o europea) simile alla” legge FARA” degli Usa.
In tal
senso, andrebbe valutata, con una certa urgenza, anche l’adozione di una
legislazione (nazionale o europea) simile alla legge FARA statunitense.
Il
Foreign Agents Registration Act (FARA) è una legge degli Stati Uniti che impone
obblighi di divulgazione pubblica alle persone che rappresentano interessi
stranieri.
Richiede che gli “agenti stranieri” – definiti
come individui o entità impegnati in attività di lobbismo interno o advocacy
per governi, organizzazioni o persone straniere (“presidi stranieri”) – debbano
registrarsi presso il Dipartimento di Giustizia (DOJ) e rivelare la loro
relazione, le attività e la relativa compensazione finanziaria.
FARA
non proibisce attività di lobbying per interessi stranieri, né vieta o limita
alcuna attività specifica.
Il suo
scopo esplicito è promuovere la trasparenza rispetto all’influenza straniera
sull’opinione pubblica, la politica e le leggi americane;
a tal
fine, il “DOJ” è tenuto a rendere tali informazioni pubblicamente disponibili.
La
FARA è amministrata e applicata dall’Unità FARA della Sezione di
controspionaggio e controllo delle esportazioni (CES) all’interno della
Divisione per la sicurezza nazionale (NSD) del DOJ.
Classificare
e codificare le operazioni di influenza di uno stato estero che hanno finalità
di spionaggio, furto di identità, di tecnologia e, soprattutto, di “eversione”
sarà inevitabile e indispensabile per la sicurezza nazionale, anch’essa
tutelata costituzionalmente.
Parimenti
indispensabile sarà la loro codificazione in chiave sanzionatoria;
ad
esempio, una relazione malevola tra TikTok, la società che gestisce il social e
il PCC (in pratica uno strumento in mano al governo cinese) se finalizzata allo
spionaggio, al furto di identità, alla propaganda ecc. potrebbe essere normata
e sanzionata anche amministrativamente attraverso un divieto assoluto dell’uso
del social in Italia, come nell’Unione Europea.
Il
punto 29) del DSA stabilisce infatti che
“a
seconda dell’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro e del settore del
diritto in questione, le autorità giudiziarie o amministrative nazionali
possono ordinare ai prestatori di servizi intermediari di contrastare
determinati contenuti illegali specifici o di fornire determinate informazioni
specifiche.
Le
leggi nazionali in base alle quali tali ordini sono emessi divergono
considerevolmente e gli ordini trattano in misura sempre maggiore situazioni
transfrontaliere.
Al fine di garantire che tali ordini possano
essere rispettati in modo efficace ed efficiente, consentendo alle autorità
pubbliche interessate di svolgere i loro compiti ed evitando che i prestatori
siano soggetti a oneri sproporzionati, senza che ciò comporti un pregiudizio
indebito ai diritti e agli interessi legittimi di terzi, è necessario stabilire
determinate condizioni che tali ordini dovrebbero soddisfare nonché determinate
prescrizioni complementari relative al trattamento dei suddetti ordini”.
Il
ruolo di intelligence e open source.
L’intelligence
e l’open source saranno determinanti.
La
capacità di acquisire controllare, elaborare, diffondere e proteggere le
informazioni è oggi fondamentale.
Le agenzie di spionaggio sono entrate nell’era
dell’open source intelligence, con le aziende private e think tank.
Enormi
quantità di dati stanno rivoluzionando il lavoro dell’intelligence americana e
non solo.
Lo scopo?
Raccogliere e analizzare informazioni globali
per aiutare i responsabili politici a comprendere il presente e anticipare il
futuro.
Noi?
Siamo
le loro risorse senza saperlo. Tutte queste informazioni pubblicamente
disponibili compongono “l’open source intelligence” che sta diventando sempre
più ricco e prezioso.
Garantire un vantaggio in questo nuovo mondo significa
che le agenzie di intelligence devono trovare nuovi modi per lavorare con le
aziende del settore privato e università, per combattere le minacce online e
sfruttare i progressi tecnologici commerciali.
Abbiamo
già visto nella storia enormi progressi tecnologici. Ma non abbiamo mai visto
la convergenza di così tante nuove tecnologie cambiare così velocemente. Questo
momento storico pone una sfida per le agenzie di intelligence americane (e non
solo) in tre contesti profondi.
In
primo luogo,
le innovazioni tecnologiche stanno trasformando il panorama delle minacce
generando nuove incertezze e dando potere a nuovi avversari.
Per la
maggior parte della storia, il potere e la geografia hanno fornito sicurezza.
Il
forte minacciava il debole, non il contrario.
Gli
oceani proteggevano i paesi l’uno dall’altro e la distanza contava.
Oggi non più. In quest’epoca, gli Stati Uniti
e tutti gli altri, sono allo stesso tempo potenti e vulnerabili ad un numero
elevatissimo di minacce, che si muovono tutti alla velocità delle reti.
Gigabit.
Il
potere dei dati.
La
seconda sfida dell’era digitale riguarda i dati; i big data.
L’intelligenza è un’impresa che crea
conoscenza.
Agenzie
come la CIA raccolgono e analizzano informazioni per aiutare i responsabili
politici a comprendere il presente e anticipare il futuro.
L’enorme volume di dati online oggi è così
straordinario che è anche difficile da comprendere:
nel 2019, gli utenti di Internet hanno
pubblicato 500 milioni di tweet, inviato 294 miliardi di e-mail e pubblicato
350 milioni di foto su Facebook ogni giorno.
Alcuni stimano che la quantità di informazioni
sulla terra raddoppi ogni due anni. Questo tipo di informazioni pubblicamente
disponibili è chiamato “open source intelligence” e sta diventando sempre più
prezioso.
I
social media sono diventati così importanti che persino le console del centro
di comando nucleare sotterraneo americano (NORAD) mostrano feed di Twitter
insieme a feed di informazioni riservate.
Non è
tutto.
Le
aziende commerciali di tutto il mondo lanciano centinaia di piccoli satelliti
ogni anno, offrendo occhi nel cielo a basso costo a chiunque li desideri.
Le
immagini commerciali e gli strumenti di apprendimento automatico consentono già
ad alcuni professori della Stanford di analizzare le relazioni commerciali
della Corea del Nord con la Cina, contando il numero di camion che hanno
attraversato il confine in centinaia di immagini, negli ultimi cinque anni.
Questo
è un mondo radicalmente nuovo e le agenzie di intelligence stanno lottando per
adattarsi ad esso.
Mentre
i segreti una volta conferivano un enorme vantaggio, oggi le informazioni open
source lo fanno sempre di più.
L’intelligence,
una volta, era una corsa all’intuizione in cui i grandi poteri erano gli unici
ad avere la capacità di accedere ai segreti.
Ora
tutti cercano informazioni e Internet offre loro gli strumenti per farlo. I
segreti contano ancora, ma chi riuscirà a sfruttare tutti questi dati in modo
migliore e più velocemente, vincerà.
La
terza sfida posta dalle tecnologie emergenti colpisce il cuore dello spionaggio: la segretezza.
Fino
ad ora, le agenzie di spionaggio americane non dovevano interagire molto con
gli estranei e non volevano farlo.
La missione dell’intelligence era quella di
raccogliere segreti; quindi sapevano di più sugli avversari di quanto loro
sapessero su di loro e mantenevano segreto anche il modo in cui raccoglievano
le informazioni.
Conciliare
segretezza e apertura è una lotta secolare.
La
segretezza è fondamentale per proteggere le fonti di intelligence e i metodi di
raccolta, nonché per assicurarsi un vantaggio.
L’apertura è fondamentale per garantire la
responsabilità democratica.
Troppa
segretezza porta ad abusi.
Troppa
trasparenza rende l’intelligenza inefficace.
Nell’era
digitale, tuttavia, la segretezza sta comportando maggiori rischi perché le
tecnologie emergenti stanno offuscando quasi tutti i vecchi confini della
geopolitica.
Sempre
più spesso, la sicurezza nazionale richiede che le agenzie di intelligence si
impegnino con il mondo esterno, non si separino da esso.
Un tempo gli avversari minacciavano
dall’estero e li vedevamo arrivare; la mobilitazione militare ha sempre
richiesto tempo.
Ora possono attaccare infrastrutture critiche di
proprietà privata, come reti elettriche e sistemi finanziari nel cyberspazio,
in qualsiasi momento, da qualsiasi luogo, senza attraversare un confine o
sparare.
Nel
20° secolo, l’economia e la politica sulla sicurezza erano sfere separate
perché le economie del blocco sovietico non facevano mai parte dell’ordine
commerciale globale.
Nel
21° secolo, economia e politica della sicurezza sono diventate strettamente
interconnesse a causa delle catene di approvvigionamento globali e dei notevoli
progressi nelle tecnologie a duplice uso, come l’IA, che offrono applicazioni
commerciali e militari rivoluzionarie.
Le
agenzie di intelligence occidentali devono trovare modi migliori per accedere
alle informazioni rilevanti detenute da queste e altre società, senza mettere a
repentaglio le libertà civili o il successo commerciale delle aziende.
Anche
le agenzie di intelligence hanno bisogno di più del settore privato per
l’innovazione.
L’analisi
di enormi quantità di dati, ad esempio, dipenderà sempre più dagli strumenti di
intelligenza artificiale.
Ciò
richiede talento oltre che tecnologia;
anche il settore privato potrà contribuire,
offrendo pacchetti e strutture informatiche all’avanguardia, difficili da
eguagliare per le agenzie governative (o le università).
Il
Copasir, “Comitato
Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica”, ha di recente avviato
un’indagine conoscitiva nei confronti di “TikTok” preoccupata che possa ledere
alla sicurezza nazionale.
Lo stesso Copasir nella relazione trasmessa al
Parlamento nel 2022 denuncia che “il quadro conoscitivo acquisito durante
l’indagine induce il Comitato ad una serie di raccomandazioni e suggerimenti,
allo scopo di sensibilizzare i vari attori interessati all’adozione di buone
pratiche per riconoscere, resistere e contrastare le false notizie.
In primo luogo, nel contrasto alla disinformazione
emerge un chiaro deficit e ritardo dell’Italia rispetto ad impegni, strumenti,
strategie e misure che da diverso tempo sono già operativi tanto nel contesto
internazionale quanto in quello dell’Unione europea e di alcuni Paesi del
Vecchio Continente. T
ale
evidenza, purtroppo non ancora maturata, è stata confermata anche durante le
missioni svolte da una delegazione del Comitato negli Stati Uniti (Washington)
e a Bruxelles che hanno consentito un utile confronto con le esperienze
praticate in quei contesti dove si registra una consolidata consapevolezza del
livello di rischi connesso alla diffusione pianificata di false notizie per
condizionare i processi elettorali, sociali ed economici.
È
quindi ormai non più rinviabile un maggiore impegno di tutti i soggetti e le
autorità nazionali a vario titolo coinvolte in questo campo anche non
escludendo possibili interventi di ordine legislativo e normativo”.
L’Ue e
gli Stati membri non dispongono attualmente di un regime specifico di sanzioni
riguardanti le ingerenze straniere e le campagne di disinformazione orchestrate
da attori statali stranieri.
L’Unione
Europea è consapevole delle problematiche giuridiche che possono emergere
istituendo un tale regime sanzionatorio, inclusa la necessità di definire con precisione
le fattispecie di reato e i loro possibili effetti cumulativi conformemente
alle legislazioni dell’Ue e internazionali.
Il 9
marzo 2022 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulle ingerenze
straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea, inclusa la
disinformazione.
La Commissione speciale “INGE ha infatti
presentato una relazione finale in cui figurano conclusioni e raccomandazioni
in merito alle misure e alle iniziative da adottare.
Con la
risoluzione il Parlamento invita l’Ue e i suoi Stati membri a intraprendere
ulteriori misure contro la disinformazione e le minacce ibride, nel pieno
rispetto della libertà di espressione e di informazione, anche introducendo un
regime sanzionatorio – a norma dell’articolo 29 del trattato sull’Unione
europea (TUE) e dell’articolo 215 del trattato sul funzionamento dell’Unione
europea – in materia di ingerenze straniere, compresa la disinformazione;
risoluzione che dovrebbe essere destinata per quanto possibile ai decisori
politici e agli organi responsabili di impedire azioni aggressive.
Evidenzia che, al fine di rafforzarne
l’impatto, le sanzioni dovrebbero essere irrogate collettivamente, con partner
che condividono gli stessi principi, coinvolgendo possibilmente le
organizzazioni internazionali e mediante la formalizzazione in un accordo
internazionale.
Ricorda
il comunicato della riunione Nato del 14 giugno 2021, in cui si afferma che una
decisione riguardante il ricorso all’articolo 5 del trattato Nato in caso di
attacco informatico viene presa dal Consiglio del Nord Atlantico sulla base di
un esame caso per caso, e che l’impatto di attività informatiche cumulative
dolose potrebbe, in talune circostanze, essere considerato equivalente a un
attacco armato.
L’Italia
è carente di specifica normativa e, principalmente, deve fare ancora molto per
affrontare l’immensa sfida posta dalla Cina.
Ricordiamo
che l’11 novembre 2020 gli europarlamentari italiani Silvio Berlusconi e
Antonio Tajani del PPE hanno formulato una formale interrogazione, con
richiesta di risposta scritta, alla Commissione europea ai sensi dell’articolo
138 del regolamento con oggetto la “Penetrazione di capitali cinesi nel tessuto
economico italiano ed europeo”.
Nell’interrogazione
gli europarlamentari hanno precisato che il 5 novembre 2020 il Comitato
parlamentare per la sicurezza della Repubblica italiana (Copasir) ha approvato
una relazione che mette in guardia dalla penetrazione di capitali cinesi nel
tessuto economico italiano.
La risposta del Vicepresidente esecutivo
Valdis Dombrovskis, a nome della Commissione europea, non si è fatta attendere.
Precisa Dombrovskis che l’UE è aperta agli
investimenti esteri diretti (IED), ma tale apertura deve essere
controbilanciata da controlli adeguati per garantire la sicurezza.
La
Commissione e gli Stati membri (ai sensi del Regolamento (UE) 2019/452 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, che istituisce un quadro
per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione) possono
individuare, valutare e attenuare i potenziali rischi per la sicurezza o l’ordine
pubblico connessi a qualsiasi IED.
Sebbene
17 Stati membri dispongano di un meccanismo di controllo (l’elenco dei
meccanismi di controllo notificati dagli Stati membri alla Commissione è
disponibile qui) la Commissione ritiene che tutti gli Stati membri debbano
mantenere un meccanismo che consenta loro di controllare gli IED in tutti i
settori per motivi di sicurezza o di ordine pubblico.
Affrontare
questi punti deboli migliorerebbe notevolmente la consapevolezza in merito agli
IED nell’UE.
Il
meccanismo di cooperazione istituito nell’UE si applica da ottobre 2020 e la
Commissione ne valuterà il funzionamento e l’efficacia entro ottobre 2023.
L’attuale
priorità è la sua piena attuazione.
La Commissione non intende creare una
struttura in grado di veicolare informazioni strategiche di tipo economico e
industriale provenienti dai servizi di sicurezza degli Stati membri.
Da
quanto precisato da “Valdis Dombrovskis” il controllo principale dipende,
quindi, da ogni Stato membro.
Conclusioni.
Infine,
compiere un giudizio comparativo tra gli interessi in gioco tra la libertà di
espressione e la sicurezza nazionale sarà fondamentale ricordando, tuttavia,
che le libertà possono essere tutelate in quanto esiste uno stato di diritto
che riesca a farlo e che riesca a sopravvivere attraverso lo schermo, il
confine della propria e comune sicurezza nazionale.
Nell’ultimo
decennio, la politica mondiale è stata fortemente segnata da stati
apparentemente forti i cui leader non sono vincolati da leggi o controlli
costituzionali.
Sia la
Russia che la Cina hanno affermato che la democrazia liberale è in declino a
lungo termine e che il loro forte governo autoritario è in grado di agire in
modo deciso e portare a termine le cose, mentre i suoi rivali democratici discutono,
esitano e non riescono a mantenere le loro promesse.
Questi
due paesi sono stati l’avanguardia di una più ampia ondata di autoritarismo che
ha respinto le conquiste democratiche in tutto il mondo.
Oggi la nostra democrazia liberale è sfidata e
non riemergerà a meno che le persone non siano disposte a lottare per essa.
Il
problema è che molti di coloro che crescono vivendo in democrazie liberali
pacifiche e prospere iniziano a dare per scontata la loro forma di governo.
Non
avendo mai sperimentato una vera tirannia, immaginano che i governi
democraticamente eletti sotto i quali vivono siano essi stessi dittature
malvagie che cospirano per togliere loro i diritti, che si tratti dell’Unione
Europea o dell’amministrazione di Washington.
Oggi,
il marchio del “liberalismo classico” di Francis Fukuyama è arrivato a
rappresentare questo “ideale elusivo” e forse impossibile, di una politica
liberale che massimizzerebbe la libertà individuale e la crescita economica,
senza sacrificare nulla in termini di coesione sociale, cioè senza mai “andare
a lontano”.
Il
moderato equilibrio di un “liberalismo classico” che espande la libertà ma non
sacrifica nulla è solo una chimera ideologica.
Su
questa tela della storia, l’Italia e l’Unione Europea hanno però l’opportunità
di intraprendere un’azione diretta su una questione che avrà un impatto su
centinaia di milioni di cittadini, passare a un approccio più globale alla
sicurezza nazionale nell’era digitale e impegnarsi in un processo di crescita
che sfrutti, positivamente, il governo aperto e democratico che rappresentano
anche sulla scena globale.
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