La fine del nuovo mondo globalizzato significa la cancellazione dell’uomo.
La
fine del nuovo mondo globalizzato significa la cancellazione dell’uomo.
Nuova
destra e anticapitalismo:
oltre
il complottismo.
Osservatorioglobalizzazione.it – (22 AGOSTO
2019) - MATTEO LUCA ANDRIOLA – ci dice:
Dopo
la radicale parabola antimondialista degli Anni Ottanta, segnata in Italia
dall’attività della rivista “Orion”, la nuova destra ha provato a superare
numerose visioni di stampo complottista che avevano caratterizzato il suo
pensiero cercando di sistematizzare e ordinare una critica di altro tipo.
Ce ne
parla Matteo Luca Andriola nella terza parte del suo articolo sul tema
pubblicato su “Paginauno”.
1 –
Anticapitalismo e nuova destra.
2 – Il
ruolo di Orion.
Le
pubblicazioni della “Società Editrice Barbarossa”, contestando l’analisi
complottista, inizieranno a identificare negli Stati Uniti il principale motore
del mondialismo (contraddicendo così l’analisi di Guillaume Faye secondo cui tale
processo di omologazione non presenterebbe “nessun ‘direttore d’orchestra’ più
o meno occulto” che “anima l’insieme per mezzo di decisioni globali a lungo
termine”), per
il suo volere “la creazione di un unico governo o amministrazione (il Nuovo Ordine Mondiale), di un unico assetto politico,
istituzionale e sociale (il liberismo), di un unico sistema di valori (individualismo-egualitarismo-dottrina
dei Diritti dell’Uomo), e quindi di un unico insieme di costumi e di stile di vita (il consumismo) estesi a tutta la Terra e funzionali
al dominio assoluto da parte delle forze politiche, economiche e culturali che
lo incarnano: le élite della finanza mondiale!”.
Si
attacca l’Occidente, un sistema americanocentrico (una centralità dovuta al fatto che
la stragrande maggioranza delle multinazionali e le più influenti lobby finanziarie
hanno la loro sede legale negli Stati Uniti), anche se i suoi centri d’irradiazione
sono policentrici e sparsi in tutto il globo. Infatti, “le imprese
multinazionali – oltre l’80 per cento dei casi a sede statunitense – dominano
il mercato delle principali derrate di base e degli altri settori chiave (macchinari industriali e agricoli,
fertilizzanti, elettronica, ecc.)”.
Gli
ingredienti per la creazione di questo One World (il Nuovo Ordine Mondiale) uniformato all’American way of life sarebbero
le “strutture tecno economiche, l’ideologia universalista e la sottocultura di
massa che potremmo definire – sottolinea Faye – ‘americano occidentale’”.
Per
Gabriele Adinolfi “tutte le ideologie moderne sono mondialiste, dal liberalismo
al comunismo alla socialdemocrazia.
E ciò non si limita alle ideologie moderne:
possiamo anzi dire che il reale scontro
ideologico che ha caratterizzato gli ultimi diciotto secoli della nostra storia
sia proprio quello tra l’ideale di mondialismo e l’idea di universalità.
La
divergenza fra questi è palese.
La
prima concezione è tipicamente immanente, fa capo a un’organizzazione materiale al
contempo super e trans partes che si traduce immancabilmente in un modello
uniforme sul quale debbono appiattirsi, deformandosi e spegnendosi per forza di
cose, tutte le singole individualità e collettività.
L’altra
[…] si fonda su di un’idea gerarchica e trascendentale rappresentata non da un
apparato esclusivista (quali per esempio una Chiesa o il partito comunista) ma
da un centro ideale che sia al contempo riferimento, fusione, sintesi ed
elemento di trascendenza (quale fu a suo tempo l’imperatore o meglio l’idea di
Impero) […]
Custodendo
gelosamente le singole differenze come altrettanti patrimoni, l’universalità le
unisce e le salda esclusivamente in un’idea spirituale trascendentale, non in
un modello culturale totalizzante come pretende al contrario il mondialismo […]
Il mondialismo è infatti il frutto di un’idea
monoteistica, totalizzante, di filiazione diretta dall’Antico Testamento.
L’universalità, viceversa, è al contempo monistica e
politeistica”.
Identificando
nel monoteismo giudaico-cristiano la cultura principalmente responsabile della
genesi del mondialismo, notiamo come il gruppo di Orion recuperi le suggestioni
neopagane della nouvelle droite, però scevre da ogni rimando di tipo antisemita.
L’altra
peculiarità del mondialismo è il rifarsi all’“ideologia universalista”,
espletata “sia attraverso l’utopia cosmopolita e pacifista alla Emergency
oppure tramite lo sbrigativo pragmatismo yankee alla Bush”, una “moderna
religione” laica che fa sua la dottrina dei diritti umani, “la suprema
espressione dell’Egualitarismo”, una “tendenza storica nata e affermatasi per
la prima volta nella storia con il giudeo-cristianesimo e in seguito
dispiegatasi storicamente nelle sue varianti laiche (democrazia liberale,
comunismo, mondialismo ecc.)”, che impone una “morale presuntamente universale
[che] fornisce l’armatura ideologica a un neo-colonialismo che al posto del
‘fardello dell’uomo bianco’ ha oggi come giustificazione un devastante cocktail
di angelismo e ipocrisia. […]
La distruzione dei popoli passa anche da qui,
dall’imposizione a livello planetario dei ‘valori’ occidentali e dalla
conseguente disintegrazione di ogni legame organico, di ogni tradizione
particolare, di ogni residuo di comunità – tutti ostacoli alla presa di
coscienza della nuova ‘identità globale’ da parte del cittadino dell’era della
globalizzazione. […]
rigettare la dottrina dei diritti dell’uomo
non significa parteggiare per lo sterminio, per l’ingiustizia o per l’odio.
[…] Il
riconoscimento dei diritti umani, di per sé, non fonda proprio nulla, se non
quel tipo di giustizia e di libertà che, tautologicamente, si trovano espresse…
nella dottrina dei diritti umani!
Malgrado
il fatto che i sostenitori di tale dottrina continuino a pensare di aver
‘inventato la felicità’, occorre sostenere con decisione che un’altra
giustizia, un’altra libertà, un’altra pace sono possibili.
Opporsi
ai diritti dell’uomo significa rifiutare una morale, un’antropologia, una certa
idea dei rapporti internazionali e della politica, una visione del mondo
globale figlia di una tendenza storica ben individuabile”.
Nella
visione liberale – ‘figlia’ dell’illuminismo e della rivoluzione del 1789 e ‘madre’ del
mondialismo – l’uomo è solo un individuo e secondariamente è membro di una
cultura/comunità.
Nell’idea tradizionale l’uomo è concepito
olisticamente come parte della comunità organica.
A una
visione liberale fondata sui diritti dell’uomo, si contrappone una visione
antimondialista fondata sui diritti dei popoli, delle etnie e delle comunità,
incarnata dall’Euthereos, concezione indoeuropea dell’appartenenza, dove l’uomo
è libero se è libera la sua comunità tradizionale:
“Al
leitmotiv dei diritti dell’uomo noi opponiamo la visione sinfonica secondo cui
siamo dei popoli che rifiutiamo di lasciarci considerare un gregge portato
verso gli altari o verso i mattatoi della società mercantile […]
Per
quanto sembrino lontani dalle nostre preoccupazioni materiali, è con la carne e
con lo spirito dei territori, dei clan, delle tradizioni e delle patrie, delle
comunità e dei gruppi intermedi che bisogna ricollegarsi, poiché sono loro che
conservano al mondo le sue varietà, la sua densità organica, la sua poesia, e
innalzano ancora arcipelaghi di resistenza nei confronti dell’Impero della
ragione totalitaria ammantata di morale che favorisce, volente o nolente, la
colonizzazione delle terre da parte dei soli interessi tecno-economici e la
trasformazione dell’uomo in semplici relais-robot dei circuiti di
produzione-consumo”.
L’etnocidio
e la successiva costruzione di una società multietnica attraverso l’immigrazione e il
melting-pot passerebbe dall’imposizione di un’etica universale che
omologherebbe il tutto sotto un unico modello, edificato per gradi, “estirpando
ogni precedente identità (e quindi differenza).
La
cancellazione delle differenze è a priori trascendentale, la condizione di
possibilità della ‘società’ multirazziale.
Ma con
cosa riempire questo vuoto?
Ricorrendo necessariamente a uno strumento
astratto (e quindi ideologico). E allora: il diritto è la risposta;
dunque accomunare ogni uomo attraverso il diritto”.
E se
questo diritto nasce con la Modernità, il problema, quindi, è essa, tout court.
In ossequio a Evola, uno dei testi più emblematici di Carlo Terracciano è”
Rivolta contro il mondialismo moderno”, dove l’autore vede la tradizione come
il baluardo contro la cosiddetta ‘sovversione’ mondialista, un atto
“rivoluzionario” in quanto capace di contrastare il sistema che sovverte le
naturali radici dei popoli.
Infatti,
“se la conservazione è il contrario della Tradizione che è rivoluzionaria, la
Sovversione, come tutti i fenomeni di ribellismo del mondo moderno, è una
rivoluzione di segno contrario, una Contro-rivoluzione, sempre nel senso
tradizionale del termine.
Essa
infatti, nel momento stesso in cui pretende di distruggere le forme del
presente (e questo è il suo aspetto più positivo) lo fa nel nome e nel segno
della ‘modernità’, come categoria mentale e spirituale […].
La
sovversione tende a ribaltare le forme del passato per conservare l’essenza del
presente, cioè il modernismo antitradizionale, cercando così di arrestare il
vero processo rivoluzionario che chiuda un ciclo e ne apra uno nuovo.
È
insomma un’altra forma della conservazione […]. Nel mondo moderno, alla fine di
un ciclo, ogni distruzione del passato e del presente è propedeutica al
compiersi del ciclo storico medesimo”.
“IL
TRANSUMANESIMO È IL NOCCIOLO DURO DELLA FUTURA CIVILTÀ CHE SOSTITUIRÀ L'ERA
DELLE CIVILTÀ LIMITATE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO”.
IL
MONDO CHE VERRÀ SECONDO “MICHEL ONFRAY”.
Dissipatio.it
- Francesco Subiaco e Giovanni Balducci – (25 gennaio 2023) – ci dicono:
Il
filosofo francese, di recente impegnato in un dibattito sul futuro
dell'Occidente con Michel Houellebecq, parla di morte, di declino e della
nuova, indesiderabile, prospettiva: quella del dominio della tecnologia
sull'uomo.
Michel
Onfray, tra i maggiori filosofi del panorama francese ed europeo, vive nel
nostro tempo come un soldato nemico prigioniero in una nazione occupata. In
piedi sulla cima del vulcano della nostra civiltà, pronto ad eruttare e
trascinarci negli abissi della storia, Onfray osserva il mondo occidentale come
una megera sfatta che si orna dei suoi antichi e svenduti gioielli, ricordi di
un passato ormai tramontato e rinnegato, opponendogli lo sdegno classico di chi
non confonde l’ultima moda del tempo con la verità ultima dell’eterno.
Come
un antico patriarca dei mores maiorum, osserva un mondo pavido assordato dalle
musichette dei suoi divertimenti ed accecato dai neon sfavillanti delle
meraviglie della tecnica come una discarica coperta da rovine metalliche.
Rovine di idee, di dogmi, di valori, di civiltà che ricoprono la vecchia
Europa, che non sa più amarsi, ma solo risparmiarsi o rinnegarsi preda delle
ideologie del piagnisteo e dei suoi facili quanto inutili miraggi.
Di
fronte a questa sopravvivenza Onfray contrappone una visione antagonista,
dissidente, eretica ispirata ad una visione del mondo che fonde l’ateismo e la
nostalgia del sacro, l’edonismo e l’etica classica, la furia anticapitalista ed
iconoclasta con una sete di assoluto che lo rendono un autore controverso,
inattuale, proscritto, la cui voce, seppur a volte non condivisibile, non cessa
mai di affascinare e stupire.
Una
voce che ha sintetizzato questa protesta irregolare nei manifesti edonisti,
nella sua “Breve enciclopedia del mondo”, in cui si racchiude la sintesi del
suo pensiero (Cosmo, Decadenza, Saggezza), nella sua controstoria libertina,
scettica e rivoluzionaria della filosofia (arrivata al suo nono volume
“Coscienze ribelli”) componendo una bibbia ribelle, un breviario di
insubordinazone al nichilismo e al mainstream, a volte anche con posizione
estreme e non condivisibili, racchiuse nei suoi testi filosofici, editi dalla
splendida “Ponte delle Grazie”, e dalla sua testata “Front Populaire”, su cui
nel suo ultimo numero ha avuto uno storico confronto con Michel Houellebecq.
Per meglio comprendere questo filosofo
dissidente della cultura francese lo abbiamo intervistato mentre rileggeva le
bozze del suo ultimo saggio sulla natura umana:” Anima”.
Email.
–Secondo
lei il “movimento woke” può essere considerato la nuova “sovrastruttura” del
neocapitalismo globale?
Sì,
certo, è l’ideologia del postmodernismo che pone le basi di una civiltà nuova
che prenderà il posto di quella giudaico-cristiana.
Sappiamo che la Rivoluzione Francese, con la
sua idea dell’”Uomo Nuovo”, espressione presa in prestito da San Paolo, portò
le idee cristiane fino alla follia, pensiamo a “Chesterton”, che affermava “il mondo moderno è pieno di antiche
virtù cristiane impazzite”.
Queste
idee del 1793 sono la malattia senile del cristianesimo, le idee del “movimento
woke”, ovvero la malattia senile di ciò che era già una malattia senile.
In
questo senso il mercato liberale planetario lavora per la creazione di uno
Stato universale con il suo governo mondiale.
Le “idee
del woke” stanno contribuendo a minare la vecchia civiltà per preparare il
terreno a quella che seguirà e che potrebbe essere la “civiltà” del transumanesimo a cui
stanno lavorando i “GAFAM” (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) della
costa occidentale degli Stati Uniti.
Il capitalismo allora potrà diventare
veramente universale, planetario e dominare il mondo in modo incondizionato.
-Dopo
l’inizio del conflitto in Ucraina la causa sovranista e popolare è decaduta?
Abbiamo assistito alla fine del populismo?
No,
anzi abbiamo assistito alla sua sublimazione!
Abbiamo
visto l’élite globalista fare l’elogio di tutto ciò che dice di odiare.
Difendere
la nazione, la patria, la bandiera, l’inno, l’esercito, i confini, in una
parola: la sovranità, ma dell’Ucraina!
Questo
conflitto ha dimostrato che non è il nazionalismo a generare la guerra, ma
l’imperialismo che definisce il nazionalismo espansionista.
Non è
quindi tanto la fine del populismo che viene sancita da questa guerra quanto la
sua sublimazione.
Paradossalmente,
è Zelenski, un entertainer legato col capitalismo globale, a ritrovarsi ad
essere il catalizzatore di questo ritorno del popolo, di questa creazione della
nazione, di questa fondazione e di un’identità nazionale se non nazionalista.
Altro paradosso, è questa stessa élite
globalizzata che aggiunge a questo populismo ucraino la religione di una
radicale xenofobia nei confronti di tutto ciò che è russo: non putiniano, ma
russo!
Dobbiamo
quindi, dicono queste anime belle cosmopolite, universaliste, che difendono i
diritti umani, odiare Dostoevskij, odiare Čajkovskij, bruciare Puškin, sputare
su Eisenstein, gettare Cechov nella spazzatura, ecc.
Anche
mangiare sottaceti “Malossol” è diventato diabolico!
EDITORIALE.
La
variante Zelensky.
Sebastiano
Caputo
(18
Marzo 2022).
-Ci
troviamo di fronte ad un nuovo scontro di civiltà?
L’assetto
di una nuova Europa si gioca con questa guerra che contrappone due
imperialismi:
quello
degli Stati Uniti e quello della Russia con la spartizione di un’Europa fuori
dai giochi.
La Russia per il momento sembra essere partita
male con il suo progetto e Putin non è tipo da perdere la faccia.
Chi ha criticato le tesi di “Clash of
Civilizations” di “Samuel Huntington” per preferire a lui “The End of History and
the Last Man” di” Fukuyama2 ne sta facendo le spese:
questo
conflitto è infatti un conflitto di civiltà che oppone due modi di essere
cristiani dei tre esistenti: cattolico, protestante e ortodosso.
L’Ucraina
unita si trova dalla parte dell’Europa protestante di Maastricht e degli Stati
Uniti contro la Russia cristiana ortodossa:
è il deismo liberale occidentale contro la
teocrazia slavofila ortodossa.
Il
culto dell’Essere Supremo contro il Dio Pantocratore.
-La
tecnica e lo scientismo prospettano futuri avveniristici in cui l’umano sarà un
ospite non richiesto e non gradito.
Come
il transumano sta sconvolgendo la nostra civiltà, se di civiltà si può ancora
parlare?
Ed
esiste un rimedio verso queste maledizioni consumistiche?
Il
transumanesimo è infatti il probabile nocciolo duro della futura civiltà che
sostituirà l’era delle civiltà limitate nel tempo e nello spazio, circoscritte
ad aree geografiche in tempi limitati (Assur, Sumer, Babilonia, Egitto, Sciti,
Grecia, Roma, Mesoamerica, Europa) con una civiltà planetaria, universale,
estesa a tutto il globo, cioè lo Stato-totalità di Hegel, lo Stato totale di
Carl Schmitt, lo Stato universale jungeriano.
Lo
smartphone, che è lo strumento di questo dominio, lo è già in tutto il pianeta,
dai poli ai deserti, dalle megalopoli alle case isolate in montagna.
Si tratta di reificare tutto, è l’imperativo
categorico di questa civiltà che, per poter comprare, finirà per vendere o
affittare tutto, compresi gli esseri umani:
già vendiamo sperma come vino, ovuli come
dolci, affittiamo uteri come auto e vendiamo e compriamo bambini come fossero
maialini da latte;
stiamo
già vendendo maternità surrogate neanche fosse il “Black Friday”…
Questa
reificazione richiede la distruzione di tutte le frontiere:
tra
Paesi, certo, solo è l’inizio, tra esseri umani in generale, ma anche tra
uomini e donne, omosessuali ed eterosessuali, umani e animali, adulti e
bambini, alunni e insegnanti, bianchi e neri, giovani e vecchi.
La
propaganda celebra l’ibrido, non solo per le auto, il che significa promuovere
contaminazioni per raggiungere un cosmopolitismo integrale, se non
integralista.
Ci
abituano all’idea che il male sia un vecchio veicolo diesel, come metafora del
mondo di ieri, oscurantista ed ecocida, irresponsabile e indicizzato sulla
pulsione di morte, mentre il futuro, il futuro eco-responsabile e salvatore del
pianeta, progressista e salvifico (uso volutamente il vocabolario del
Vaticano…) sia comprare un “veicolo” ibrido – mentre il capitalismo esulta…
E
finiamo per fare lo stesso con l’uomo vecchio, bianco, cattolico, di mezza età,
eterosessuale diventato l’equivalente ontologico della vecchia auto diesel di
cui bisogna liberarsi in nome di una creatura ibrida.
A
lunghissimo termine, forti di questa certezza astrofisica che il pianeta Terra
scomparirà non a causa del riscaldamento globale ma a causa del futuro
programmato del sole che esploderà entro cinque miliardi di anni, si presume
che sarà necessario che gli uomini organizzino la loro sopravvivenza fuori da
questo pianeta.
A
questo stanno già lavorando i promotori di questa civiltà post-terrestre, tra
cui oggi un certo “Elon Musk”, l’uomo più ricco del mondo.
I capi del “GAFAM”, cioè i capitalisti che già
hanno in pugno il pianeta regolando flussi di denaro, finanza, commercio,
comunicazioni, potere, finanziano questa ricerca.
Le
società di Elon Musk, Neuralink per il chip del cervello umano, Space-X per i
viaggi fuori terra verso pianeti abitabili o stazioni orbitali autonome, e
Tesla per l’intelligenza artificiale, il progetto Hyperloop per i viaggi con
propulsione a idrogeno, sono l’equivalente dei progetti che Cristoforo Colombo
aveva a suo tempo di scoprire un Nuovo Mondo per sfruttarne le potenzialità,
nel senso capitalista del termine.
Non
vedo nulla che possa opporsi a questo movimento della Storia.
Nessuno
Stato può, la stessa Nasa, l’agenzia spaziale statale americana, non può più
andare sulla luna e delega questa missione a “Elon Musk” che paga… Con quale
etica di resistenza?
Ci sarebbe bisogno di una spiritualità per
poterne costituire una e quale spiritualità potrebbe riuscirci?
Dubito
che nessuna delle grandi religioni planetarie potrebbe… Aspetto obiezioni, ma
credo che il nostro futuro sia più che in 1984 di Orwell o ne Il mondo nuovo di
Huxley, a “Celesteville”, la capitale del Regno di Babar, inventata da “Jean De
Brunoff”, una città ideale dove tutto è fatto per la felicità di tutti!
Questo
futuro è già in gran parte il nostro presente.
CAVI,
CARTA, DATI.
Il
teorema Elon Musk.
Davide
Arcidiacono.
(01
Dicembre 2022)
-La
sinistra USA è ormai diventata la compagna segreta del capitalismo
oligarchico?
Mi
ritrovo perfettamente in questa definizione.
Da
anni parlo di “maastrichtiani” per classificare la destra e la sinistra che
stanno costruendo questa” Europa liberale” decisa dal” Trattato di Maastricht”
del 1992, sottoposto a referendum in un clima incredibile di propaganda
mediatica a favore di quella che si presentava come una misura sociale e
politica da Eden:
è stata promessa la fine della disoccupazione,
della miseria, della povertà, della xenofobia, del razzismo,
dell’antisemitismo, delle guerre.
Non
siamo arrivati al punto di promettere la fine della morte, ma quasi!
A quel
tempo, i promotori di questo progetto stavano vendendo un’idea.
Oggi,
trent’anni dopo, questa idea è diventata una realtà che vediamo lungi dall’aver
abolito tutta questa negatività: anzi l’ha accresciuta per produrre il
nichilismo in cui viviamo!
“Mitterrand”,
salito al potere con idee di sinistra nel maggio 1981, le ripudiò nel marzo
1983 per adottare il progetto liberale ed europeista dell’uomo che aveva poi
sconfitto, “Valery Giscard d’Estaing”.
Il
popolo, deluso, trasmigrò verso il “Front National di Jean-Marie Le Pen” che “Mitterrand”
strumentalizzava per spezzare in due la destra.
Dopo
aver rinunciato al sociale, per distinguersi da certa destra liberale, aveva
bisogno di un segno:
sarà
il “societaile”, a cui Mitterrand chiederà di svolgere il ruolo che il sociale
ha avuto nella narrativa della sinistra, un sociale sacrificato sull’altare del
narcisismo e dell’egoismo, dei diritti civili e della globalizzazione di questo
presidente che veniva dall’estrema destra e dal fascismo francese ma parlava la
lingua della sinistra per essere eletto da essa.
Poiché
la sinistra di popolo non ha funzionato perché godeva dell’oro del potere, essa
ha saputo costituire un corpus ideologico alternativo.
Ha quindi adottato il programma wokista dalle
università americane.
Quello
che ho chiamato “il popolo della vecchia scuola” è stato sostituito da un
“neo-popolo” composto da minoranze presentate come il sale della terra
socialista.
La
celebrazione dell’immigrazione ha permesso alla sinistra di passare per
progressista pur difendendo il nocciolo duro dell’ideologia padronale:
il capitalismo;
infatti,
adora questa manodopera straniera non qualificata, poco attenta alle condizioni
di lavoro, poco sindacalizzata, depoliticizzata, più attenta alla religione che
alla rivoluzione.
Ancora
oggi c’è chi si presenta come di sinistra difendendo la stessa linea dei datori
di lavoro sull’immigrazione, e il peggio è che non lo trova sorprendente!
–Ti
consideri un ribelle, un libertino, un anarchico? E se è così, quali sono stati i maestri che
hanno formato in te questa coscienza?
Sono
un uomo libero che non ha più bisogno di etichette che sono tante stampelle che
impediscono di camminare dritti… di arare dritti…
Se dovessi ammettere un maestro, uno solo,
anche se non ho mai fatto mistero su quanto “Nietzsche” e “Proudhon” abbiano
contato nella mia formazione, contemporaneamente a” Lucrezio” e “Montaigne”,
sarebbe… “Catone il Vecchio”, nostalgico di quelli che venivano chiamati
Antichi Romani quando non esistevano già più.
Nell’antica
Roma repubblicana, ma non imperiale, mi sento a casa.
Quella di “Cincinnato” e “Muzio Scevola” non
di Nerone o Caligola.
RECENSIONI.
Cronache
di una società autoimmune.
Francesco
Laureti
(20
Gennaio 2023)
-La
morte è il grande tabù del secolo, il mondo del surrealismo capitalista secondo
lei ha fatto della vita un feticcio della vita e della morte un vocabolo
vietato?
La
morte è il grande non detto della nostra civiltà al collasso e come nel caso di
tutto ciò che non viene detto fa più rumore.
In passato, la religione risolveva questo
problema in modo immediato: la morte era solo un problema per coloro che
avevano condotto una vita peccaminosa, al di fuori della religione.
D’altra parte, per coloro che avevano speso la
vita “morendo durante la vita” secondo i principi cristiani, l’ideale ascetico
e la criminalizzazione della carne, il rigetto del corpo e il culto dell’anima
immateriale, era la garanzia di una vita eterna in un corpo glorioso spogliato
di ogni contingenza corporea.
La
morte era dunque il castigo di chi aveva vissuto male.
Per
coloro che avevano vissuto bene, cioè secondo i princìpi sanciti da San Paolo e
che non avevano vissuto la loro vita quaggiù, c’era la certezza del paradiso.
Per gli altri c’era l’inferno.
Questa
visione delle cose non tiene più banco, anche presso certi cristiani che a volte
interrogo, compresi certi sacerdoti devoti del Concilio Vaticano II:
Parusia,
Giudizio Universale, risurrezione della carne, transustanziazione?
Non credono più nella presenza reale del corpo
di Cristo nell’Eucaristia, nell’immacolata concezione o nell’infallibilità
papale!
Invocano
la storia, il simbolo, l’allegoria per estromettere il sacro e la trascendenza
e ridurre la loro religione alla moralità moralizzante di uno scout.
Quando
Papa Francesco si mette in posa davanti alla foto di un Cristo cui fa indossare
il gilet arancione indossato dai migranti nell’attraversamento del Mediterraneo
dal Maghreb all’Europa, dice chiaramente che il cristianesimo è per lui solo la
cinghia di trasmissione dell’ideologia globalista.
Da
tempo, la morte è diventata un problema dissociato dalla sua soluzione
religiosa, almeno in Europa.
L’Islam è una religione potente che crede
ancora nel paradiso e nell’inferno, e quindi in comportamenti terreni che
rendono possibile ottenere la salvezza o la dannazione post mortem.
Questo
è ciò che gli dà la sua forza, il suo potere e la sua efficienza politica,
terrena.
Come
risolvere allora l’enigma della morte senza l’aiuto spirituale di una religione
trascendente?
Per un
ateo come me basta la sapienza epicurea:
Lucrezio ci parla della morte che non ci
riguarda: se ci sono io non c’è, quando c’è non ci sono più, questa è una
rappresentazione della morte che non riguarda il presente per non
comprometterne le potenzialità esistenziali edonistiche.
Ma per
gli altri che non sono a conoscenza di questa ipotesi filosofica?
Serve
la negazione, la negazione, il rifiuto di affrontare il problema faccia a
faccia. Di qui il ricorso a tutto ciò che maschera gli effetti del tempo:
rompere una vecchia famiglia e una vecchia
coppia per ricomporre una coppia con un compagno più giovane, pensando che ci
renderà più giovani;
rifare
con loro bambini che hanno l’età dei tuoi nipoti;
tingersi i capelli, ricorrere al botox,
vestirsi come un giovane, parlare la loro lingua, adottare i loro tic
linguistici: “ci becchiamo”, “bella”!
Oltre
alla negazione, possiamo indicare anche tutto ciò che rende possibile
stordirsi, vale a dire praticare quello che “Pascal” chiama “divertissement”,
ovvero il sesso facile, dalla pornografia ai luoghi di abbrutimento sessuale,
passando per il poliamore compulsivo;
andare
in discoteca con musica che ti stordisca per un ballo tribale durante il quale
lo scambio verbale è proibito a causa dei decibel.
Ma anche il consumo di droghe, alcol, pillole
come il “DHB”, la “droga dello stupro”.
Aggiungiamo
infine la dipendenza da giochi da schermo, tabacco, velocità, trasgressione,
comportamenti azzardati in cui questa vita che sembra senza valore viene messa
in gioco come una volgare somma di denaro al poker:
una
roulette russa che corre a velocità eccessive in auto o in moto, bravate sui
tetti di treni o in metropolitana, rischiando decapitazioni, cadute,
mutilazioni.
Queste
pratiche che cercano di ingannare la morte, è il caso di dirlo, fioriscono in
tempi nichilisti e ne sono la massima espressione.
Il
capitalismo ovviamente guadagna da queste strategie di negazione,
intrattenimento e dipendenza:
che l’individuo stordisca il suo corpo, il suo
cuore, la sua anima, consumi, questo è tutto ciò che gli interessa.
Il
capitale si nutre di questa “servitù volontaria”.
–Nel
mondo dell’“euforia permanente” cosa significa per te essere un edonista?
E in pieno
nichilismo e crisi dei valori religiosi cosa significa il tuo ateismo?
Una domanda enorme!
Ho
creduto già a partire da molto tempo, è stato un quarto di secolo fa, che la
fine del cristianesimo richiedesse di proporre nuovi valori alternativi fondati
sulla filosofia.
Così
ho lavorato a questo progetto su basi etiche con” La sculpture de soi”,
erotiche con “Théorie du corps amoureu”x, bioetiche con “Fééries anatomiques”,
didattiche con” Antimanuel de philosophie”, politiche con” Politique du rebelle”,
estetiche con “Archéologie du présent”.
È un ciclo che definirei edonistico.
In questa direzione ho lavorato anche alla
decostruzione di un certo numero di miti della nostra civiltà
giudaico-cristiana:
monoteismo
con “Traité de athéologie”, psicoanalisi con “Le crépuscule d’un idole”,
filosofia idealista con i dodici volumi della mia “Contre-Histoire de la
philosophie”.
Continuo
questo progetto con l’arte contemporanea in un libro di recente pubblicazione “Les
anartistes”.
Sto
anche lavorando a un progetto ateologico con una “biografia” di Gesù, in cui
difendo l’idea che storicamente non sia mai esistito.
È un ciclo, diciamo, demistificante.
Mi
approccio a un ciclo di civiltà con “Décadence”.
Questo libro fa parte di quella che ho
chiamato con un po’ di ironia una “breve enciclopedia del mondo” perché ne sono
stati pubblicati quattro volumi, ognuno di cinquecento pagine (Cosmos,
Décadence, Sagesse, Anima, che esce tra due mesi) e altri due che sono in
arrivo “Barbarie”, sul “transumanesimo” e “Esthétique”.
A
tutto ciò si aggiunge la pubblicazione di “Patience dans les ruines”, libro
dedicato alla meditazione dei sermoni di sant’Agostino sulla decadenza.
Un
percorso però che mantiene una certezza: ero, sono e rimango edonista e ateo.
Ma non
sfuggirà a nessuno che sono passati più di trent’anni da quando il mio primo
libro è apparso nel 1989 e che il mondo è cambiato:
la fine dell’impero sovietico, il crollo
spirituale del cristianesimo, l’ascesa dell’Islam politico, la cancellazione
dell’Europa giudeo-cristiana, la tirannia ideologica dell’Europa maastrichiana,
la diluizione della sinistra socialdemocratica nel liberalismo di destra più
scarmigliato e, in questi giorni, uno tsunami ideologico con il” wokismo”
proveniente dagli Stati Uniti, che presuppone uno schietto nichilismo!
A meno
che non si pensi al di fuori della Storia, senza di essa o malgrado essa, come
un fanatico platonico innamorato delle idee pure, non si possono difendere le
stesse idee allo stesso modo:
penso
ancora che Dio non esista, che la religione aliena gli uomini da loro stessi,
che l’ideale ascetico è un castigo esistenziale infondato, che l’invocazione di
Dio si riduca sempre a una risposta del clero, ma penso anche che il
cristianesimo non ha più il monopolio della religione in Francia perché l’Islam
ha preso il sopravvento.
Ero e
sono ateo, ma l’urgenza ora non è sparare a un’ambulanza.
Al
contrario, credo che si possa difendere il cristianesimo senza essere credenti.
Ho
decentrato il mio ateismo.
Continuo
a pensare che la felicità sia il bene sovrano, quindi rimango un edonista.
Ma non
credo che la felicità risieda esclusivamente nel ritiro egoistico e
narcisistico, tribale.
Il piacere è un affare privato, intimo e
personale, ma credo che questa felicità debba essere condivisa e che sia quindi
una questione politica.
Nessuna felicità è possibile in un mondo
devastato dalla legge della giungla.
Le condizioni di possibilità politica della
felicità ora mi interessano più della natura della felicità o della critica di
ciò che vi si oppone, siano essi ideali ascetici, religiosi o filosofici.
Si
possono sì criticare gli effetti deleteri dell’idealismo platonico e del suo
ascetismo, ma possiamo anche formulare la domanda edonistica su come
raggiungere la massima felicità per il maggior numero possibile?
Questa
è la mia domanda di oggi.
Ho
ampliato il mio edonismo, lo ho completato.
CAVI,
CARTA, DATI.
L’illusione
del metaverso.
Massimiliano
Vino
(16
Dicembre 2022)
-Che immagine esce dell’Occidente dal
suo confronto di 45 pagine su «Front Populaire» con “Michel Houellebecq?”
Michel
Houellebecq e io siamo d’accordo nell’osservare che la nostra civiltà
giudaico-cristiana sta crollando.
Tengo
a precisare che mi sembra difficile, salvo grave cecità, non sottoscrivere
questa semplicissima osservazione.
Scuola, giustizia, cultura, polizia, esercito,
sanità, editoria, cinema, letteratura, giornalismo sono in avanzato stato di
degrado.
Chi nega la realtà della decadenza è lui
stesso un decadente, un prodotto della decadenza.
Divergiamo
su alcuni punti: lui è contro l’eutanasia, io sono favorevole;
lui è
per la pena di morte, io sono contrario; lui difende la caccia, io no.
Su
altri siamo d’accordo: la critica all’Unione Europea, il rifiuto del mercato
che detta legge, la necessità di una Frexit: siamo pochi nel mondo
intellettuale francese a proporre questa soluzione.
Sulla
questione dell’Islam ragiona in termini demografici, io in termini di lunga
durata della civiltà, il che non è in contraddizione, è questione del lasso
tempo su cui ci si ferma a riflettere.
Afferma
che l’Islam opera per la distruzione della nostra civiltà, io invece penso che
la nostra civiltà sia già distrutta e che l’Islam venga a stabilirsi sulle sue
rovine: non distrugge, beneficia della distruzione.
Formulo
l’ipotesi che “Michel Houellebecq” sia nella posizione ontologica di chi
attende la grazia cattolica.
Non
penso di ingannarmi dicendo che lui creda che il cristianesimo possa avere un
ritorno di fiamma che consentirebbe la resistenza alla direzione presa della
storia.
Da
parte mia, non credo.
Difendo
il cristianesimo da esteta, per di più da esteta ateo: sono come Plinio il
Vecchio che pensa ai piedi del vulcano e muore tra le sue esalazioni tossiche.
È finita, ma bisogna morire in piedi, come un
romano, non piegare la schiena, non sottomettersi, né contribuire in alcun modo
alla sottomissione.
Ci
resta solo questo:
fare
in modo che il nichilismo non ci attraversi sapendo che passerà.
Paradossalmente, “Michel Houellebecq “è ottimista o meglio: ottimista quanto si
può esserlo.
Quanto
a me, non sono pessimista, io non vedo il peggio nella vita, ma vedo la sua
natura più profonda: il tragico.
Cerco
di vedere la realtà così com’è, e il reale non può essere altro che ciò che è,
al di là del bene e del male.
Con
speranza, Michel Houellebecq fa un passo verso Dio; nella mia concezione
tragica, Dio non c’è.
(Intervista a cura di Francesco Subiaco e Giovanni Balducci)
La
Transizione Energetica Serve
solo
per Emancipare l’EU
dagli
USA, sulla Vostra Pelle!
Conoscenzealconfine.it
– (19 Luglio 2023) – Mittdolcino – ci dice:
Dimenticate
le fesserie, “follow the money”:
la transizione energetica è una follia
gigante, che nasconde enormi interessi geopolitici ed oltre.
Ossia,
quello che vediamo è tutto un enorme sforzo atto a forgiare un continente
tecnicamente inesistente, lo stesso che ha inventato il feudalesimo, ha accolto
gli ashkenaziti babilonesi ed ha partorito la guerra dei 30 anni.
Oltre
al nazismo, l’ultimo nome dato ad un virus millenario…
Leggevo
oggi un passaggio su” ilsussidiario.net”, un intervento di uno stimato
economista, “Annoni”.
A parte l’essere scontato in certi aspetti,
emerge una perla, che vorrei condividere con voi:
“…Questa
rivoluzione verde è strana: non si spaventa di un campo coltivabile ricoperto
di pannelli solari, ma pretende la chiusura di un pozzo di gas a qualche chilometro
dalle coste;
chiude
il nucleare, che ha un consumo di suolo per energia prodotta ridicolo, ma
lavora per la riapertura delle miniere;
vuole
reinserire gli orsi nel loro territorio naturale e nel frattempo usa l’arco
alpino o appenninico per l’estrazione del titanio o dell’alluminio.
Vuole
che i fiumi siano liberi di scorrere e che si ripristino acquitrini e paludi,
ma scava chilometri per tirare fuori nickel e argento.”
Capite
il concetto, spero.
A
parte confondere il fatto che non tutti hanno materie prime nel sottosuolo, c’è
tutto.
Non è
che questa rivoluzione Green non abbia senso, è che non vi stanno dicendo il
motivo per cui accade:
soppiantare
gli usa, ossia il dollaro, facendo spazio alla patria vera di Davos, l’EU.
I
davosiani hanno in odio il mondo, la gente.
Lo
“ius primae noctis”, fatto passare per un vezzo marchigiano di epoca, non a
caso, feudale, in realtà nasconde una tragica realtà storica:
fu
tradizione millenaria che il potente del luogo si portasse a letto ogni sposa,
perpetrando la specie.
Tradizione
che arriva dal solco Mesopotamico, sembra.
Come
capite sembra esistere qualcosa di superiore.
Infatti,
al di fuori dell’aspetto materiale, su tutti l’attacco agli USA in corso da
parte di poteri internazionali incentrati a Davos, prima era il “Club di Roma”
(a cui i militari USA stanno rispondendo con una guerra nel cuore dell’EU, che Putin sta tenendo congelata,
senza vincere ne perdere, visto che è vicino a Davos anche lui…), ci deve essere un collante
superiore che unisce questa masnada di apparentemente folli.
In
realtà tutta gente in combutta.
Chiaramente,
fa capolino la fratellanza, quella superiore, quella oltre le religioni, in
quanto costoro ritengono di sapere – e forse sanno – che la genesi e la vita
eterna sono qualcosa di esterno e superiore alla nostra amata terra.
È
parimenti chiaro, come pubblicato da eminenti papers internazionali, che
qualcosa di grande sta succedendo, nel cosmo.
Qualcosa
che si ripete ciclicamente: non parlo di fesserie qualunque ma di “papers
dell’Astrophysical JOURNAL”, che calcolano come probabile tale evento.
Chi
vuole può seguire i lavori di due grandi scienziati di cui sentirete molto
parlare in futuro, “Kat Volk” e “Ranu Mahotra”, dell’”University of Arizona”.
Resta
un aspetto importante, che è dirimente:
i più
grandi studiosi di cose sumeriche sono stati tedeschi francesi ed inglesi,
direi soprattutto i tedeschi, anche i riti magici del nazismo non nascevano per
caso.
Su tutti vedasi la “Deutsche Orient-Gesellschaft”, dedicata allo studio archeologico e
filosofico del vicino oriente, memento gli “ashkenaziti” emigrati a “Worms”, in
Germania (la
patria non a caso del super-uomo ante litteram, Sigfrido, ndr); che parlano yiddish, che in fondo è
tedesco.
Per
dirvi, lo storico demone del film l’Esorcista, Pazuzu, non è inventato, una sua
statua viene gelosamente conservata al museo del Louvre.
Così come padre Amorth in una sua famosa
intervista affermava che Hitler e membri nazisti fossero posseduti.
Un
mondo complesso, a cui certamente qualcuno crede, visto che spende tanti soldi,
da secoli, per avvicinarsi a verità oltre la nostra sfera.
Tutte
strane storie, che sono difficili da conciliare con l’economia ed il caos
attuale, fatto di vaccini che non necessariamente proteggono dalla malattia (ma con enormi effetti collaterali) e follie sociali al seguito tipo
uccidere i bovini e trasformare in normalità comportamenti non fisiologicamente
sostenibili in modo autonomo (cfr. procreazione tra persone dello stesso sesso).
Un po’
come fu quasi impossibile conciliare, ai tempi, il nazismo che distruggeva il
ghetto di Varsavia ma che contemporaneamente salvava “il capo dei chabadisti”, “Manachem
Mendel Schneersohn”, il rabbino ashkenazita prelevato dal ghetto e fatto fuggire
nottetempo a New York con scorta nazista, mentre i semplici semiti della
capitale polacca venivano trucidati con inusitata efferatezza.
Questo
per dirvi che molte delle cose che vedete attorno a noi sono collegate, forse;
solo che manca la “stele di Rosetta” per la comprensione.
Quello
che vediamo oggi è una guerra, per ora non calda, in cui le élites dei vari
paesi si scontrano:
in
gran parte, la maggioranza, vuole l’America terminata, avendo esaurito il suo
ruolo.
Questo vorrebbe l’Europa.
La
Russia, di per sé sana, forse è stata infiltrata fin dai tempi della fine di “Eltsin”,
proprio dai tedeschi, per evitare il capitombolo di Mosca e la vittoria anglo.
Il
futuro che ci aspetta sa di inflazione, di ricerca delle risorse, di nuove
forme di energia.
Per questo si manda in cantina il petrolio
anticipatamente, sostituendolo con qualcosa che oggi non si può ancora dire.
Perché
porta armi nucleari al seguito, una nuova forma di bombe, per altro già
esistenti, a cui la Germania, ossia l’Europa, vorrebbe ufficialmente accedere
in autonomia.
Dunque
l’America risponde, con tensioni nel vecchio continente.
E
l’EU, rintuzza, con gli attentati in Usa, mica penserete davvero che tutti gli
incidenti a filiere produttive, là, siano causali…
La de
popolazione, di cui temo i vaccini siano un “di cui”, sembra da inquadrare in
un generale riequilibrio tra risorse disponibili in EU, tra consumatori in
eccesso e produttori specializzati (…).
Più ci
penso e più ritengo che il vecchio adagio di Orwell, con tre mondi
geograficamente distinti in guerra perenne, possa avere un senso compiuto,
prossimamente.
(Mittdolcino)
(mittdolcino.com/2023/07/15/la-transizione-energetica-serve-solo-per-emancipare-leu-dagli-usa-sulla-vostra-pelle/)
Metamorfosi
della globalizzazione.
Il
ruolo del diritto nel nuovo conflitto geopolitico
Laterza.it
– (20-5-2023) - Alfredo D'Attorre -autore – ci dice:
Tramontata
l’illusione di un mondo unificato pacificamente dall’economia di mercato e
dall’esportazione della democrazia, l’interdipendenza globale richiede un nuovo
equilibrio fra sovranità e diritto internazionale.
La
fase dell’«iper-globalizzazione», come l’ha definita il grande economista “Dani
Rodrik”, sembra ormai al tramonto.
La
crisi finanziaria del 2008, l’inasprirsi della competizione fra Stati Uniti e
Cina, la pandemia e la guerra in Ucraina costituiscono, infatti, altrettante
tappe della profonda trasformazione dell’assetto politico ed economico
internazionale delineatosi nei decenni precedenti, a partire dalla cesura del
1989.
È tempo di pensare a una forma nuova di
globalizzazione, fondata sul riconoscimento dell’interdipendenza e del
pluralismo politico, giuridico e culturale.
Il
diritto può svolgere un ruolo importante nello strutturare e stabilizzare
questo nuovo ordine globale se esso viene concepito, oltre il paradigma del
globalismo giuridico, come uno strumento più flessibile di negoziazione e
accordo fra interessi geopolitici inevitabilmente divergenti e tra Stati che
non rinunciano in toto alla loro sovranità.
(Alfredo
D'Attorre)
(Alfredo
D’Attorre è professore associato di Filosofia del diritto presso il Dipartimento
di Scienze giuridiche dell’Università di Salerno.)
LA
GRANDE CANCELLAZIONE.
MEMENTO
MORI.
Nuovogiornalenazionale.com
– (08 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:
Aveva
ragione “Jean Pierre Lyotard”, quando osservava – quarant’anni fa- la
dissoluzione delle “grandi narrazioni”, la crisi dei sistemi di pensiero e dei
progetti a essi ispirati, tipici della modernità.
La
chiamò postmodernità per segnalare una mancanza, un’assenza;
la
modernità abbandonava i suoi presupposti e diventava postera di sé stessa, un
manierismo in attesa di una nuova “narrazione” a cui affidare il futuro.
Adesso il tempo della postmodernità è finito,
sostituito da una potente moda culturale nel segno della cancellazione e della
corsa al nuovo.
Lo stesso progresso- motore dell’occidente- è
soppiantato da una categoria che “Pierre- André Taguieff” chiama “bougisme”, il
culto del movimento fine a sé stesso.
La
contemporaneità ha trovato il suo filo rosso.
La
corsa a perdifiato del “nuovismo” ha due nemici, il passato in tutte le sue
forme, e la natura, con le sue leggi, i suoi limiti, le sue invarianze.
Colse nel segno anche Marx- su un piano
diverso - teorizzando che il mondo “borghese” avrebbe allevato i suoi becchini.
Infatti la cultura terminale post borghese-
fattasi progressista dopo il Sessantotto – sega l’albero su cui è seduta.
La
cosiddetta cultura della cancellazione- un ossimoro tra i tanti di un’epoca
schizofrenica- celebrerà a breve il proprio funerale:
nessuno
sopravvive al vuoto.
Il
moto perpetuo è diventato il tratto caratteristico degli anni che ci sono
toccati in sorte, unito all’intransigente volontà di farla finita con tutto ciò
che fu e che è sempre stato.
L’uomo
occidentale (o meglio la classe dominante e il ceto culturale di servizio)
diventato Dio di sé stesso, è preda di una impressionante ansia di
dissoluzione. Trascina la vita nell’immediatezza e nel capovolgimento.
Il capitalismo globalizzato ha dichiarato
guerra ad ogni residuo e simbolo permanente in modo che la forma merce vampirizzi i suoi sudditi.
Il
dominio assoluto coincide con l’eliminazione delle forme simboliche e
dialettiche, un tragico algoritmo impegnato a trasformare l’umanità in schiava
inconsapevole dell’unico linguaggio rimasto, la riduzione del vivente a merce.
Apparentemente,
la cultura della cancellazione è la forma più potente di nichilismo compiuto.
Destituisce ogni idea, principio ricevuto,
civiltà in quanto espressione dell’egemonia degli sconfitti della
postmodernità:
i
maschi bianchi eterosessuali.
Di qui
l’impulso irrefrenabile, teleguidato dall’alto, a distruggere simboli, statue,
cancellare autori e parole (la “neolingua” politicamente corretta) riscrivere
la storia, correggere la letteratura, rimuovere l’arte (grotteschi
eco-terroristi imbrattano statue, dipinti, palazzi), revocare in dubbio ogni
idea condivisa millenaria, ridicolizzare spiritualità e trascendenza, spezzare
ogni identità sino a quella individuale e sessuale.
Cancellazione,
ossia Grande Reset: la megamacchina avanza come un caterpillar, distrugge e
divora tutto ciò che ingombra il suo cammino.
Cambia
in maniera irreversibile il rapporto dell’uomo occidentale con la vita e la
natura.
Il
nichilismo si impadronisce dei fondamenti: la vita non è più patrimonio
indisponibile.
Può
essere creata “tecnicamente” con pratiche artificiali, ma cessa di essere un
valore in sé, se non nella misura in cui diventa mercato.
Un’attrice
spagnola prossima ai settanta è diventata madre artificiale del proprio nipote,
usando il seme del figlio morto.
L’aborto
si trasforma in diritto universale, derubricando la vita in formazione a grumo
di cellule da rimuovere a richiesta.
Contemporaneamente,
anche la morte – ridenominata fine vita- diventa un’opzione di mercato, un
prodotto da vendere.
Questo è, nel mondo in corsa forsennata,
l’eutanasia, spacciata per compassione verso la malattia e la sofferenza.
Per “Michel Houellebecq”, la soppressione più
o meno volontaria, igienicamente corretta, diventerà la forma tipica del morire
nella nostra esausta civilizzazione.
Nulla
dell’uomo di ieri deve sopravvivere:
non le
abitudini alimentari del cacciatore onnivoro diventato agricoltore, obbligato a
cibarsi di insetti e di prodotti artificiali.
Non la
pietà filiale e l’amore genitoriale:
filiazione tecnicizzata, privata dell’amore e
dell’incontro tra i sessi;
l’uomo
come prodotto di serie di cui presto dovrà essere stabilito il numero di
esemplari, in nome della sostenibilità e dell’ambiente, il concetto che ha
sostituito la natura.
Scrivevamo
tempo fa che l’uomo -Dio odia la natura perché esiste prima di lui e gli
sopravvivrà;
le sue leggi sono immutabili mentre egli vuole
fortissimamente modificarle sino a invertirle.
La
natura è uno stato originario che precede la volontà, la libertà e il
desiderio, totem dell’Homo Deus.
La natura è la vittoria del principio di
realtà, del limite e del destino.
Per
l’uomo contemporaneo non c’è espressione più sinistra di “secondo natura”.
L’ ambiente, il nome di ciò che circonda
l’uomo dopo che gli è stato tolto ogni significato trascendente e permanente, è
un inganno, un” trompe l’oeil “simile ai dipinti sulle case che simulano
finestre, davanzali e persone dietro finte tendine. La natura è realtà, l’ambiente rappresentazione.
L’uomo
della cancellazione è animato da un rancore furioso contro la realtà e la
natura:
obbligato
dalla volontà di potenza a negarla, per farlo ha inventato una mistica
capovolta, quella dei “diritti”.
L’ ambiente
possiamo modificarlo a piacimento, con il pretesto di salvarlo.
Il
richiamo all’esistenza di leggi naturali- riconosciuto già dal diritto romano-
è la bestemmia massima.
Abbiamo
il “diritto” di fare, avere, addirittura “essere “ciò che ci aggrada.
Esautorate
le religioni e le tradizioni spirituali, sul trono vi sono la scienza e la
tecnica, simboli di un movimento senza fine, positivo in quanto nuovo.
Ogni
innovazione è un bene in sé: nessuna domanda di senso, nessuna remora o interrogativo
etico.
La
nuova morale è la corsa.
Chi si
ferma è perduto, paradossale successo postumo di una frase di “Benito Mussolini”.
Ma perduto in che senso?
Il nichilismo distruttore non è fine a se
stesso, ha uno scopo, inavvertito dalla gran parte dei suoi adoratori, il
trasbordo del genere umano in una condizione esistenziale nuova.
La cancellazione dell’eredità ricevuta –
preceduta dalla decostruzione e dall’oico fobia, l’odio di sé- conduce
inevitabilmente alla perdita di senso, all’irrilevanza di ogni idea, pensiero,
scelta. I modesti risarcimenti sono i diritti- tutti relativi alla sfera
pulsionale – e l ’apparente “comodità” di alcune innovazioni.
In via
di esaurimento tutto ciò che poteva essere distrutto, ridicolizzato, espiantato
dal cuore dell’uomo, il tratto finale ha due possibilità.
Una è
quella dell’avventura di “Thelma e Louise”, che lanciano l’automobile nel
burrone dopo aver sperimentato l’avventura e la fugace, deludente
“liberazione”.
La
fine pura e semplice; probabilmente è questo il destino dell’umanità
“eccedente” secondo i padroni universali.
Ma
l’uomo ha orrore del vuoto, per cui la cultura della cancellazione è il
tornante decisivo verso la nascita di un soggetto prima transumano (penultimo
passaggio), infine postumano.
È il
progetto di cui siamo vittime.
L’amore smodato, talvolta ridicolo, per tutto
ciò che è nuovo ha un che di innaturale:
ogni essere, sistema e organismo vivente
aspira innanzitutto all’omeostasi, cioè a conservare le proprie caratteristiche
e la propria esistenza.
Una
civiltà che sfida la natura in nome di un’arroganza auto creatrice è destinata
al fallimento:
il
dramma è che – per la prima volta nella storia umana- è in grado di trascinare
con sé nel baratro l’intera specie.
Sconvolgente è che sia questo l’obiettivo.
All’umano medio- preventivamente deprivato di
cultura, identità e pensiero critico- viene fatto credere che il futuro gli
riserverà diritti, comodità e piaceri, ma la realtà è che la vigente “Scientology”
vuole oltrepassare l’uomo prima rendendolo dipendente dagli apparati
artificiali, poi fondendolo con essi, infine trasformandolo in un
soggetto/oggetto diverso dall’ antiquato homo sapiens.
Il nichilismo- sbocco finale della
postmodernità- prepara il terreno all’accettazione del trans e post umanesimo.
Una
prova è la “lettera a madre natura”, il manifesto transumanista scritto da “Max
More” (pseudonimo simbolico, more ovvero “più”).
Ne riportiamo alcuni passaggi.
“Madre
Natura, veramente, ti siamo riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare.
Indubbiamente hai fatto il meglio che potevi.
Tuttavia,
con tutto il dovuto rispetto, dobbiamo dire che sotto diversi aspetti avresti
potuto fare di meglio con il nostro organismo.
Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle
ferite.
Ci
obblighi ad invecchiare e a morire - proprio quando cominciamo a divenire
saggi.
Sei
stata un po' avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici,
cognitivi ed emotivi.
Sei stata poco generosa con noi, donando sensi
più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche
condizioni ambientali.
Ci hai
dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e
xenofobi.
E ti
sei dimenticata di darci il nostro libretto d'istruzioni!
Quello
che hai creato, in noi, è magnifico, eppure profondamente imperfetto. (…) In
ogni caso, la nostra infanzia sta per finire.
Abbiamo
deciso che è ora di emendare la costituzione umana.”
Gli
emendamenti sono il riassunto dell’ideologia occidentale dominante:
“non sopporteremo più la tirannia
dell'invecchiamento e della morte.
Per mezzo di alterazioni genetiche,
manipolazioni cellulari, organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci
doteremo di vitalità duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza.
Ognuno
di noi deciderà quanto a lungo potrà vivere.
Espanderemo
le nostre capacità cognitive con strumenti computazionali e biotecnologici.
Intendiamo superare le abilità percettive di
ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra
comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi.
“E
ancora:
“non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci
assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il
totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici.
Porremo
rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità
della nostra storia evolutiva.
Potremo
scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed
aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali. “
L’ultimo
emendamento afferma che
“non limiteremo le nostre capacità fisiche,
intellettuali ed emotive rimanendo puri organismi biologici.
Nella ricerca del controllo sul nostro
organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie”.
Max
More dichiara apertamente l’aspirazione a raggiungere una condizione
“ultra-umana”, in continuo movimento, alla “ricerca di nuove forme di eccellenza,
sulla base delle nostre capacità tecnologiche.“
Ecco
il vero traguardo di una rivoluzione antropologica – la cultura della
cancellazione- il cui nichilismo è solo la tappa intermedia, la tabula rasa su
cui edificare un impero tecno scientifico che rovescia la condizione di
creatura e inaugura un’era destinata a trasformare l’uomo ( l’”ambiziosa prole”
di cui parla Max More) in una specie diversa.
Per
riuscirci, è indispensabile rovesciare l ’intera nostra autopercezione.
Uno
dei passaggi compiuti è il superamento della democrazia e del liberalismo in un
neo- autoritarismo – o dirigismo ideale - che determina rotture epocali, come
la dissociazione tra l’opinione e i sentimenti della gente comune e la volontà
dei dominanti.
Difficile
organizzare la resistenza, se non a partire da gruppi capaci di superare
contrapposizioni antiche in nome della consapevolezza di essere non gli ultimi
di ieri, ma i primi di domani.
Quello che accade sotto i nostri occhi con rapidità
crescente è destinato a finire.
O per
la ribellione della parte sana dell’umanità o perché si compirà il destino
della specie.
I
vincitori di oggi saranno gli sconfitti di domani: ogni civiltà è mortale.
Memento
mori, ricordati che morirai, uomo-Dio.
La
nicchia climatica umana.
Lab-ips.org
– Rivista Terrestres – Umanità Futura -
(19 Luglio 2023) – editor – ci dice:
L’emisfero
settentrionale (dall’Europa al Nord Africa, passando per Cina e Stati Uniti)
questa settimana vivrà un’ondata di caldo senza precedenti, con temperature
comprese tra 35 e 50 °C.
Se
possiamo aggiungere strati per proteggerci dal freddo, quando il caldo diventa
insopportabile, non ci resta che togliere la pelle.
Ma
fino a che punto e per chi il clima può diventare inadatto alla vita umana?
Secondo uno studio, è possibile che in questo secolo più di 3 miliardi di
persone saranno esposte a un clima invivibile.
Pierre
de Jouvancourt - 17 luglio 2023.
Scienze
del clima antropocenico.
Questa
primavera, durante i mesi di aprile e maggio, un’ondata di caldo durata diverse
settimane ha colpito l’India e il Pakistan.
Questo
periodo, che precede il monsone, è in genere il più caldo dell’anno, le piogge
portano con sé un leggero raffreddamento.
Con
diversi giorni intorno ai 50°C, molte persone hanno dovuto lavorare durante la
notte relativamente fresca.
Non
mancava solo l’acqua, a volte inquinata, ma anche l’energia:
a
diverse centinaia di migliaia di persone mancava l’elettricità per alimentare
eventuali frigoriferi o condizionatori d’aria, disponibile solo per i più
ricchi.
Il
caldo intenso è anche causa di decine di infarti al giorno, notevole mancanza
di sonno, saturazione del sistema sanitario.
Questo
episodio prefigura una tendenza planetaria di cui stiamo iniziando a conoscere
alcune caratteristiche:
cupole
di calore, mega incendi, ondate di calore, siccità.
A
questo quadro si aggiunge tutta una serie di problemi di salute, compresa la
diffusione di malattie infettive e il deterioramento delle condizioni di salute
fisica e mentale.
Ad esempio, il cambiamento climatico fa
diminuire la durata media del sonno, in particolare tra le donne, gli anziani o
le persone provenienti da paesi poveri – tendenzialmente causando molti
problemi, come un aumento della depressione, del cancro, della perdita di
memoria, ecc.
C’è anche uno studio americano che prevede che
i problemi cardiaci causati dal caldo potrebbero uccidere fino a 10.000
americani all’anno entro la fine del 2° secolo.
E il caldo non solo influisce negativamente
sulla vita umana, ma anche molti animali sono in diretto pericolo.
Evidenziato da questa incredibile carneficina,
a causa di un’ondata di caldo in Kansas, che ha recentemente trasportato
migliaia di bovini.
(twitter.com/i/status/1537233682867851264)
Così
il cambiamento climatico, che colpisce in modo diseguale tutti gli esseri umani
e non, non riguarda solo rischi una tantum, ma si presenta come una
modificazione ampia e profonda di condizioni ambientali ritenute normali.
Ma quanto?
Possiamo dire che dovremmo aspettarci un clima
davvero invivibile all’inizio di questo secolo?
In questo articolo propongo la lettura di un
recente studio che definisce la “nicchia climatica umana”, e il suo potenziale
futuro.
Dopo
aver chiarito questo termine un po’ opaco, tornerò sui risultati principali e
su alcune conclusioni che se ne possono trarre.
LA
NICCHIA ECOLOGICA.
Ogni
specie ha una nicchia ecologica.
Designando qualche secolo fa un’alcova in cui
venivano collocati mobili e statue , la “nicchia” evoca l’idea di rifugio o
habitat.
Si
tratta di una sorta di rifugio spesso dedicato al riposo e che per questo
risulta relativamente frugale.
È un
luogo di habitat minimo, contenente le semplici necessità per i bisogni di una
persona vivente.
In
ecologia, il concetto di nicchia ecologica copre grosso modo questa idea ma
riguarda il modo in cui le specie abitano il mondo vivente e non vivente.
Quando
è stato originariamente sviluppato all’inizio del XX secolo, si riferisce principalmente
a due cose.
Da un
lato, si riferisce alle molteplici condizioni di vita delle specie, che
comprende i cosiddetti fattori biotici (relativi alla vita) come la
disponibilità di prede, la presenza di specie predatrici o concorrenti, ma
anche fattori abiotici (relativi alla ciò che non è vivo) come la presenza di
sostanze nutritive, luce, temperatura, umidità, ecc.
Ma,
d’altra parte, la nicchia ecologica può riferirsi anche a questo tempo al posto
di una specie nella catena trofica, cioè alla sua posizione nel sistema delle
catene alimentari.
Il
concetto di nicchia ecologica riguarda il modo in cui le specie abitano il
mondo vivente e non vivente.
Designa il rapporto tra una specie e le
condizioni di possibilità del suo habitat.
(Pierre
de Jouvancourt)
Successivamente,
secondo la ricerca in ecologia del XX secolo, il concetto di nicchia ecologica
è stato oggetto di importanti revisioni, ma anche di critiche ritenendolo
troppo vago o di scarsa utilità pratica.
Comunque sia, il concetto di nicchia conserva
ancora oggi il suo senso generale di relazione tra una specie e le condizioni
di possibilità del suo habitat, inteso nel senso più generale possibile.
Negli
anni Cinquanta l’ecologo George E. Hutchinson (1903-1991) ne diede una
definizione, certamente imperfetta, ma sulla quale vorrei qui basarmi.
Infatti, non solo focalizza l’idea di nicchia
sulla specie e non più sul suo ambiente, ma distingue la nicchia fondamentale
da quella realizzata.
Il
primo designa la regione che corrisponde all’insieme delle condizioni biotiche
e abiotiche in cui una specie può in linea di principio esistere.
Il
secondo si riferisce alla nicchia effettivamente occupata dalla specie in
questione.
In
Hutchinson la differenza si spiega in particolare con la presenza di specie
concorrenti, ma si possono ben immaginare altri fattori che potrebbero
spiegarla, ad esempio la storia della distribuzione geografica delle specie.
Prendiamo il famoso dodo ( raphus cucullatus),
specie endemica estinta dalla fine del XVII secolo.
La sua
nicchia realizzata corrispondeva geograficamente a certe aree di Mauritius, ma
la sua nicchia fondamentale sarebbe stata in linea di principio molto più ampia
se questa specie avesse potuto viaggiare attraverso l’oceano.
COS’È
UNA NICCHIA CLIMATICA UMANA?
Con
questi parametri in mente, chiediamoci quale sarebbe la nicchia ecologica
umana, e, in particolare, la sua nicchia fondamentale.
Quali
tipi di spazi e condizioni di vita sarebbero inadatti alla vita umana?
Questa
domanda assume un significato tanto più inquietante al tempo dell’”Antropocene”,
parola che designa l’importanza geologica di un’unica specie, l’ “homo sapiens”,
senza equivalenti nella storia della vita sulla Terra. .
Considerando
i luoghi che gli esseri umani sono in grado di abitare, si potrebbe pensare che
non ci sia limite alla nicchia umana.
Forzando
un po’ la linea, equivale quasi alla superficie della Terra, purché sia calpestabile
o navigabile, spaziando dagli aridi deserti del Sahara ai deserti di ghiaccio
polare – e questo, molto prima dell’avvento del capitalismo.
Da questo punto di vista, la nicchia umana non
avrebbe altro limite che la capacità tecnica di creare le proprie condizioni di
abitabilità.
Certamente,
tutti gli organismi partecipano alla creazione del loro ambiente, inclusi i
batteri.
Ma si
potrebbe pensare che solo la nostra specie sarebbe in grado di estendere la sua
nicchia al globo, o anche oltre.
E
questo non solo dall’Antropocene ma già dalle grandi migrazioni preistoriche.
Il
lavoro del geografo “Erle Ellis” e dei suoi colleghi ha mostrato la velocità
con cui le popolazioni umane si sono diffuse sulla superficie del globo.
Disegna
la mappa globale di quello che chiama “antroma” tra il 1700 e il 2000 .
Si tratta di biomi umani, “sede di interazioni
tra uomo ed ecosistemi” a seconda della tipologia:
habitat
densi, tipologie di villaggi sparsi, ma anche terreni coltivati più o meno
appartati, aree con bassi livelli di attività umana.
Secondo il suo lavoro, più di tre quarti della
superficie libera dai ghiacci della Terra sono stati alterati dalle attività
umane in diversi periodi di tempo, dall’ordine di diversi millenni fino a un
decennio.
Esiste
la Mappa globale dei biomi umani 1900 2000. E anche la
Mappa
globale dei biomi umani 1700 1800.
(Ellis
et. al, 2010)
Non
c’è dubbio che questo tipo di rappresentazione sovrascrive e oscura le
innumerevoli storie che hanno dato origine a questa grande dispersione,
comprese quelle della globalizzazione economica nei regimi capitalisti.
Tuttavia,
senza aderire alla natura necessariamente semplicistica di un tale approccio,
questo tipo di lavoro illustra due cose.
Innanzitutto, nonostante il loro numero
ridotto, le popolazioni umane hanno a lungo abitato luoghi di natura
estremamente varia: la diversità delle nicchie create non è un dato di fatto
dell’Antropocene.
Di
conseguenza, le nicchie ecologiche specifiche dell’Antropocene non si
distinguono quindi per la loro diversità, vale a dire per il numero di
differenze che le caratterizzano.
Ciò
che li distingue è soprattutto la loro estensione e la loro intensità.
L'”Antropocene”
potrebbe determinare una radicale contrazione della nicchia ecologica umana.
(Pierre
de Jouvancourt)
Ma
l'”Antropocene” potrebbe comunque essere descritto in un modo.
Non
l’estensione illimitata della nicchia ecologica umana (concetto che nasconde,
ricordiamolo, le asimmetrie all’origine di questa situazione storica), ma, al
contrario, la sua radicale contrazione.
Per
capire questo punto, guardiamo un solo aspetto della nostra nicchia ecologica: “la nicchia climatica”, ovvero le
condizioni che rendono climaticamente possibile la vita umana sulla Terra, e
principalmente la temperatura e l’umidità atmosferica media in base alla loro
distribuzione geografica sul globo.
In un
articolo pubblicato nel maggio 2020 su “Proceedings of the National Academy of
Sciences” (PNAS, Stati Uniti), un team multidisciplinare (demografo,
antropologo, ecologista e specialista di modelli climatici) si è chiesto cosa
esattamente è questa nicchia climatica di fine secolo, secondo diversi scenari
di emissioni di gas serra.
(Pierre
de Jouvancourt).
Prima
di intraprendere questo esercizio di proiezione, il team di ricercatori ha cercato
di determinare la nicchia climatica umana nella storia (-6000 anni e -500
anni).
Viene mostrata
sia la nicchia climatica realizzata nel presente che nel passato (A, B, C), ma
anche una versione schematica della nicchia climatica fondamentale (G), cioè lo
spazio che potrebbe, in linea di principio, occupare l’umanità se solo sono
state prese in considerazione le condizioni climatiche.
Per leggere queste figure istruttive, bisogna
capire che l’ascissa (asse orizzontale) di ogni grafico è graduata in base alla
quantità di precipitazioni e che la temperatura media annua è graduata sulle
ordinate (asse verticale).
Con
questo in mente, considera che più scuro è un punto, meno densa è la
popolazione, fino a zero.
Rappresentazioni
di nicchie climatiche.
Nicchie
climatiche realizzate nel presente e nel passato (A, B, C).
Queste
rappresentazioni non sono mappe del mondo, ma distribuzioni della densità di
popolazione in base alla quantità di precipitazioni (asse orizzontale) e alla
temperatura media annuale (asse verticale).
(Estratto da: Chi Xu et al., ” Il futuro della nicchia climatica
umana “,
PNAS , 4 maggio 2020).
Vi è
la rappresentazione della densità di popolazione in funzione delle
precipitazioni.
Infine,
ciò che emerge è sorprendente:
gli
esseri umani sono storicamente rimasti all’interno di un involucro climatico
abbastanza ristretto.
In particolare, la distribuzione umana è
dipesa poco dalle precipitazioni in tutte le loro forme:
neve,
pioggia, pioviggine, grandine o altro.
Infatti,
se gli umani di 6000 anni fa mostrano una bella distribuzione orizzontale, e
quindi una buona tolleranza alla quantità di precipitazioni, c’è un
restringimento 500 anni fa, poi un nuovo allargamento.
Così,
tranne forse per le zone più aride, cioè tutti i punti situati molto a sinistra
delle figure, l’umanità sembra relativamente tollerante all’umidità, un aspetto
importante delle condizioni climatiche.
Ma
tutto cambia quando si tratta di temperature.
Già 6.000 anni fa, gli esseri umani non si trovavano
in aree al di sopra dei 30°C di temperatura media annua, e pochissimi al di
sotto dei 5°C.
Da
allora, questo intervallo si è ridotto.
Come
notano gli autori dell’articolo, le popolazioni umane sembrano essersi
concentrate principalmente in aree dove la temperatura media era compresa tra
11°C e 15°C durante l’anno.
Nella
figura A vediamo due isole: queste corrispondono alla presenza umana nelle
regioni temperate e nelle regioni con regimi monsonici, come l’India o il
Pakistan.
IL
FUTURO DELLA NICCHIA CLIMATICA.
Ora
immagina cosa accadrebbe con il cambiamento climatico: come potrebbe cambiare
la nicchia climatica umana?
Pur
ipotizzando una continua crescita della popolazione e la relativa assenza di
migrazione, i ricercatori si sono concentrati principalmente su due scenari:
RCP8.5 e RCP2.5 10.
Dietro
questi nomi piuttosto esoterici, si nasconde per il primo (RCP8.5), una
traiettoria delle emissioni di gas serra che continuerebbe con le stesse
tendenze di oggi: è business as usual.
Il
secondo corrisponde all’ambizioso scenario del controllo delle emissioni di gas
a effetto serra e della riduzione della loro concentrazione nell’atmosfera a
medio termine.
Il
risultato è sbalorditivo.
Nello
scenario RCP8.5, i cambiamenti di temperatura che gli esseri umani
sperimenteranno durante questo secolo – e, ne deduciamo, anche molte altre
specie – saranno sproporzionati rispetto a quelli degli ultimi 6.000 anni.
Tra 50 anni, le persone che vivono in regioni
dove la temperatura media è di circa 13°C 12 sperimenteranno un aumento di
circa 7°C, che corrisponde a un aumento 2,3 volte maggiore dell’aumento globale
perché questo è più forte sulla terraferma che in mare.
Per
ogni grado superiore, un miliardo di persone esce dalla nicchia ecologica
umana.
Per ogni
decimo di grado, l’inerzia climatica manda al forno quasi 100 milioni di
persone nel 2070, ovvero quasi una volta e mezza la popolazione francese.
(Pierre de Jouvancourt)
Per
quanto riguarda le persone che già vivono in regioni calde, eppure spesso le
meno responsabili del cambiamento climatico, saranno esposte a temperature
annuali oggi molto rare sulla Terra.
In
particolare, “3,5 miliardi di persone saranno esposte a temperature medie annue
superiori a 29,0°C, configurazione che corrisponde solo allo 0,8% della
superficie terrestre […]
concentrata
principalmente nel Sahara”.
I
ricercatori prevedono che nel 2070 tali condizioni si troveranno nel 19% del
territorio
. Ecco
gli affari come al solito.
E il migliore dei futuri previsti?
Nello
scenario più favorevole previsto, il famoso “RCP2.5”, il numero di persone
colpite da queste condizioni estreme scenderebbe alla cifra già sbalorditiva di
1,5 miliardi.
Per
ogni grado superiore, un miliardo di persone esce dalla nicchia ecologica umana.
Per farvi sentire quanto questo sia critico,
diciamo che per ogni decimo di grado, l’inerzia climatica manda al forno quasi
100 milioni di persone nel 2070, quasi una volta e mezza la popolazione della
Francia.
SFIDA
COMUNE, LOTTE DIFFERENZIATE.
La nicchia
climatica umana avrebbe potuto essere definita secondo i limiti fisiologici del
corpo umano.
Si
ritiene infatti che una temperatura a bulbo umido di 35°C (misura che incorpora
l’umidità dell’aria, fattore importante per la regolazione termica del corpo)
sia il limite del sopportabile, il corpo non potendo quindi raffreddarsi.
Uno
studio pubblicato su “Nature Geoscience” nel 2021 ha anche mostrato che oltre a
un aumento di 1,5°C del termometro globale, che ha una probabilità su due di
verificarsi nei prossimi cinque anni (quindi ben prima del 2050), molte aree
tropicali potrebbero diventare semplicemente inabitabile a lungo termine.
Supponendo
che enormi aree vengano trasformate in una fornace – o in una sauna infernale,
dipende –, dovremmo dedurre unilateralmente futuri spostamenti di popolazione?
Non
possiamo immaginare, come asseriva ironicamente uno scienziato a proposito del
riscaldamento dei tropici, che massicce infrastrutture di condizionamento
consentirebbero di (sur)vivere a temperature altrimenti insopportabili?
Nulla
di meno scontato, non fosse altro per il motivo già accennato in premessa: non
solo dispositivi del genere sono rarissimi e riservati ai più ricchi, ma le
ondate di caldo possono portare anche a blackout.
Inoltre,
gli autori dello studio sulla “nicchia climatica umana” insistono sul fatto che
essa non va “interpretata in termini di migrazioni attese”.
I percorsi di adattamento, infatti, sono in
realtà molto più complessi della risposta lineare alla sola temperatura: non si
deve quindi dedurre da questo studio che miliardi di persone si sposteranno
necessariamente nelle aree più abitabili, o anche più ricche, del pianeta.
D’altra
parte, è lecito ricordare che, a seguito della pandemia, l’economia mondiale è
impegnata in una fortissima ripresa delle emissioni di gas serra.
Circa
il 5%, questo aumento ci porta quasi allo stesso livello di emissioni del
massimo storico del 2018-2019.
Inoltre, gli impegni di riduzione dei gas a
effetto serra egli accordi di Parigi, firmati nel 2015 e da allora leggermente
rivisti al rialzo, rappresentano solo un quarto dello sforzo di riduzione dei
gas serra che sarebbe necessario fare per rimanere al di sotto della soglia dei
2°C nel 2050…
o più
esattamente per avere un due possibilità su tre che ciò accada – spesso
dimentichiamo questa ponderazione da parte dell’IPCC.
Per
avere la stessa possibilità di rimanere sotto 1,5°C, gli impegni attuali
dovrebbero essere moltiplicati per circa 7,3:
rappresentano
poco meno del 15% delle riduzioni necessarie per questo obiettivo. A ciò si
aggiunga che qui mi limito a citare gli impegni assunti a livello
internazionale, che sono ben lungi dall’essere rispettati, e prescindendo dal
fatto che il clima è un sistema complesso non lineare di cui non conosciamo
tutti i meccanismi.
L’affermazione
di altri è limitata, come in ogni studio scientifico.
La
definizione della nicchia climatica è costruita dagli spazi occupati
dall’umanità sul globo nella storia.
Così
definita, questa busta ha il vantaggio dell’esperienza ma non dice quale sarà
il futuro, né cosa deve essere fatto – né chi dovrebbe farlo.
In un certo senso, ciò che loro propongono
partecipa al tipo di conoscenza previsto da “Hans Jona”s in “The Responsibility
Principle”.(1986).
Pur sottolineando che “le scienze naturali non forniscono
tutta la verità sulla natura”, ha difeso la necessità di attingere da altrove per
determinare le nostre azioni morali e politiche.
Il che
significa che con “Jonas” possiamo riconoscere nella scienza la capacità di formulare
possibilità, che però non hanno bisogno di essere previsioni – loro, certe –, per motivarci a sfuggire alla
possibilità del disastro.
Le
scienze hanno il merito di costruire un’eventualità credibile, un riflesso del
futuro sufficientemente ben costruito, e quindi semplicemente degno di essere
preso sul serio.
In
questo senso sono interessanti per raffigurare i “primi bagliori della tempesta
che ci viene dal futuro”, come diceva “Jonas”.
Interessante
ma ancora non sufficiente.
Con “Jonas”,
si potrebbe dire che invitano al lavoro morale motivandoci ad agire per
preservare la possibilità di una vita dignitosa per le generazioni presenti e
future.
Ma aggiungerei che è meno interessante capire
ciò che qui si chiama “morale”, come definirebbe azioni buone o cattive, o di
cosa dobbiamo essere consapevoli, piuttosto che vedere in esse esercizi
collettivi per collegare in modo inaspettato ma solido la politica, il mondo e
le nostre capacità di soffrire e di agire.
Vivere
in un’atmosfera di due gradi più calda rispetto a prima dell’era industriale è
un acquisto di aria condizionata per un europeo appartenente alle classi alte o
medie, ma è la dislocazione del mondo per un “Gwitch’in”, originario
dell’Alaska , e la sua scomparsa per un residente delle isole “Kiribati”,
situate nel Pacifico.
(Pierre
de Jouvancourt)
In
questo caso, è interessante concludere da questo studio che è in gioco l’abitabilità
planetaria?
Ci
invita a pensare alla nicchia climatica come a una condizione umana condivisa?
Questo
è ciò che sembrerebbe indicare la sua definizione.
La
nozione di “abitabilità planetaria” si riferisce alla capacità del pianeta di
essere abitato dalle società umane in generale.
Scienziati e filosofi del sistema Terra lo
mobilitano come il punto minimo di accordo politico, sul quale qualsiasi
politica ecologica potrebbe mettere tutti d’accordo.
Cosa
c’è di più comune di una condizione condivisa, quella di vivere sulla stessa
Terra?
Il libro molto influente “The Risk Society” pubblicato
nel 1986, scritto dal sociologo “Ulrich Beck”, aveva già difeso tale tesi.
Cercando
di riflettere sull’originalità delle società industriali che affrontano
pericoli ecologici, “Beck” osserva che “[…] la scarsità è gerarchica, lo smog è
democratico”, che “anche i ricchi e i potenti non sono al sicuro” o ancora: “[…] nel caso dei rischi legati alla
modernizzazione, prima o poi si arriverà a un’unica entità che riunirà autori e
vittime. »
Tuttavia,
una tale posizione non è affatto ovvia.
E, per
i motivi citati, non aspettiamoci che tali studi ci forniscano la cartografia
politica chiavi in mano di cui abbiamo bisogno.
In
questo caso, considerare l’abitabilità planetaria come un luogo comune ed
evidente della politica rivela una confusione tra due registri:
che ci
sia una questione comune non significa che sia per tutto ciò una questione di
lotta comune.
Di fronte alle questioni ecologiche, l’idea
che “saremmo
tutti sulla stessa barca “spesso è semplicemente sbagliato.
Non
solo è sbagliato, ma capovolge quello che dovrebbe essere il punto di partenza.
Piuttosto che dare per scontata la natura
globale di una questione ecologica, dovremmo sempre iniziare descrivendo la
devastazione là dove è più evidente, per poi trovare le condizioni minime da
cui la vita, la sussistenza e l’esistenza non sono più minacciate.
Queste
condizioni possono essere molteplici: reddito, posizione geografica, sesso,
colore della pelle.
Ciò
che dovrebbe permettere di tracciare la mappa delle questioni politiche non può
essere ciò che accomuna sotto lo stesso problema, ma piuttosto le condizioni di
confine dove i problemi diventano, per alcuni, invisibili o redditizi.
Attualmente
stiamo vivendo sconvolgimenti ecologici senza precedenti.
“La
rivista Terrestres” ha l’ambizione di riflettere su queste metamorfosi.
Guerra
e pace, oggi.
Micromega.net
- Giuseppe Panissidi – (4 Aprile 2022) – ci dice:
(IL
RASOIO DI OCCAM)
Come
liberare il mondo dalla guerra e sottometterlo alla sovranità della legge e del
diritto?
Una
riflessione sull’attualità del progetto filosofico-politico kantiano di pace
universale e permanente.
“È
sempre guerra”. Irreparabile e dolente la conclusione di Lev Tolstoj in “Guerra
e Pace”, l’epopea narrativa più autentica della letteratura moderna, sullo
sfondo della crisi europea degli inizi dell’Ottocento.
Il
nostro pensiero, il nostro sentimento.
Ancora.
Sempre.
“Com’è
tutto silenzioso, quieto e solenne, non come quando correvo, – pensò il
principe Andrej, – non come quando correvamo, gridavamo e ci battevamo; non
come quando il francese e l’artigliere si contendevano lo scovolo, con le facce
furiose e spaventate: le nuvole scorrono in modo completamente diverso in
questo cielo alto e infinito.
Ma
come ho fatto a non vederlo prima, questo cielo alto, e come sono felice di
averlo finalmente conosciuto.
Sì!
Tutto è vano, tutto inganno, tranne questo cielo infinito. Non c’è niente,
niente all’infuori di questo.
Ma non
c’è neppure questo, non c’è nient’altro che silenzio, pace ritrovata. E grazie
a Dio!”.
Pace
ritrovata. Il fine ultimo.
Perché “‘guerra’ è il mondo storico, ‘pace’ il
mondo umano – scrive Leone Ginzburg.
Il
mondo umano interessa ed attrae particolarmente Tolstoj, soprattutto perché
egli è convinto che ogni uomo – di ieri, di oggi, di domani – valga un altro
uomo…”.
Molti
decenni prima, nel 1795, al culmine dell’”Aufklärung”, l’Illuminismo in
Germania, aveva visto la luce uno straordinario progetto sulla “pace perpetua”.
Nasceva
dall’idea profonda di Immanuel Kant, secondo cui l’uomo tende per natura al
mantenimento della vita e alla realizzazione dell’umanità sotto la guida della
legge morale, ovvero della “ragion pratica”.
Dunque, una condizione stabile di pace non
solo è conforme alla natura, ma costituisce altresì un dovere per l’uomo.
Se non
che – “pactum dolens” – sul piano ideale e teorico, il progetto
filosofico-politico sconta tutta l’impervietà dello statuto dell’umano, dal momento che la pace perpetua non
può che concretarsi in un trattato fra nazioni, finalizzato all’istituzione di un
ordinamento cosmopolitico, volto a liberare il mondo dalla guerra e a sottometterlo alla
sovranità della legge e del diritto.
Mentre,
però, per Rousseau il contratto, come tale, significa rinunzia allo stato e
alla libertà naturale, per Kant il contratto cosmopolitico non prevale
sull’ordine giuridico naturale, ma lo rafforza e lo consolida in una forma più
razionale.
Per
questa ragione, e più in generale, il contrattualismo kantiano rivela un
carattere più specificamente politico che sociale, proprio perché il contratto
non crea né lo Stato, né il raccordo tra gli Stati, bensì li costituisce nelle
forme del diritto.
Gli
Stati debbono istituire un patto reciproco, una federazione speciale o “foedus
pacificum”, la federazione di pace.
Che,
tuttavia, a differenza del “pactum pacis”, il comune trattato di pace che cerca
di porre fine semplicemente a una guerra, Kant sostiene, in quanto pace universale
e permanente, presuppone il superamento della sovranità assoluta e irrelata
degli Stati, dell’anarchia internazionale e la formazione di una federazione
che abbracci gradualmente tutti i popoli della terra.
Se
però l’idea di una “Repubblica del mondo” è nuova, l’idea della pace universale
risale alla filosofia stoica e al cristianesimo, ed è stata ripresa nel Medio
Evo da Dante, il quale identificava nell’Impero l’istituzione necessaria per
realizzare la pace.
Pur tuttavia, la demarcazione rispetto al
progetto di Kant non potrebbe essere più radicale.
Elaborato nel cuore della Rivoluzione
francese, alle soglie dell’età della democrazia e del nazionalismo, il progetto
kantiano non consiste in una proposta da sottoporre a un soggetto politico
sovranazionale, capace di unire un gruppo di Stati entro le frontiere di uno
Stato superiore, o a governi o diplomatici per realizzare migliori equilibri di
potere.
Ora
irrompe nel corpo della tradizione culturale occidentale e nel dibattito
filosofico-politico un paradigma eversivo.
La
pace non dev’essere concepita come semplice sospensione delle ostilità durante
la guerra o nell’intervallo tra due guerre.
Questa
è soltanto un surrogato, la “pace negativa”, nozione tuttora dominante, a parte
qualche eccezione, nella cultura politica contemporanea.
Non è
un caso che sia invocata di continuo nella presente congiuntura ucraina.
Invero,
lo stato di pace, secondo Kant, non è uno stato naturale, bensì una vera e
propria istituzione, che deve essere costruita attraverso un ordine legale
imposto da un’autorità mondiale superiore a ogni singolo Stato.
Una pace positiva.
In breve, la pace coincide con la realtà efficiente di
un’organizzazione politica capace di porre fine a tutte le guerre, e per
sempre.
Se però, anche a prescindere dalle note
devianze burocratiche e antigiuridiche, operiamo una valutazione rigorosa dei
primi 77 anni della storia delle Nazioni Unite, è giocoforza constatare che
l’ONU, pur avendo realizzato progressi non trascurabili, ad esempio quanto al
ruolo svolto nella decolonizzazione e a qualche sforzo nel mantenimento della
pace, non ha di certo realizzato le speranze dei propri fondatori nel 1945,
testimoni e attori di una epocale e definitiva speranza di pace, sulle macerie
e gli orrori inauditi lasciati dal secondo conflitto mondiale.
Disgraziatamente,
anche se la Storia “magistra” può vantare pochi e svogliati allievi, il conto
non tralascia mai di presentarlo, come attualmente…
Così,
ante litteram, Kant opera la demarcazione sostanziale tra la pace e la guerra,
e concepisce la tregua come una parentesi, una situazione tipica della guerra.
Nella
quale, infatti, una volta terminate le ostilità, permane la minaccia che
possano riaprirsi, sul versante della e come guerra.
Soltanto
nella guerra si può verificare la tregua.
Dunque,
la tregua, per quanto prodromica, nelle condizioni date, resta altro dalla
pace.
Tregua,
in effetti, significa e coincide con una temporanea sospensione dell’azione
distruttiva, come spesso accade, tanto vero che gli aggressori sono soliti
proseguire le ostilità di teatro fino a quando non abbiano conseguito
condizioni di vantaggio sui tavoli diplomatici.
Publio Cornelio Tacito ci consegna un’icastica
rappresentazione ‘autocritica’, un punto di vista, diciamo, ‘esterno’ alla
volontà di potenza imperiale romana:
“Ubi
solitudinem faciunt, pacem appellant”.
Dove fanno il deserto, lo chiamano pace.
All’epoca
di Kant, la Federazione mondiale era un lontano fine ultimo, perciò apparso
simile all’utopia, benché in nobile declinazione erasmiana, nel celeberrimo “Lamento della pace”:
“La grande maggioranza dei popoli detesta la guerra e
invoca la pace. Sono ben pochi oramai coloro la cui empia infelicità dipende
dall’infelicità generale, e dunque bramano la guerra.
Se sia giusto o meno che la loro malvagità
prevalga sull’aspirazione di tutti i buoni, giudicatelo voi stessi.
Vedete
che fino ad ora si sono mostrati inutili i trattati, inconcludente la forza, la
punizione.
Adesso provate invece quale non sia
l’efficacia della concordia e della generosità.
Da
guerra nasce guerra, vendetta provoca vendetta. Adesso sia la bontà a generare bontà,
la generosità solleciti ad essere generosi, e si giudichi più regale chi avrà
rinunciato ai propri diritti”.
La
strategica rilevanza della idea kantiana risiede nell’identificazione dei
pre-requisiti essenziali che soltanto oggi potrebbero avvicinarci alla pace
universale e permanente.
Il
primo pre-requisito sarebbe stato acquisito solo quando l’esperienza della
devastazione della guerra avrebbe spinto le nazioni a rinunciare alla libertà
selvaggia e senza legge e alla situazione intollerabile di anarchia
internazionale.
Il secondo, quando lo sviluppo del commercio,
oggi la globalizzazione, avrebbe condotto l’umanità a vivere a stretto
contatto.
Il
terzo, quando l’evoluzione dell’umanità avrebbe raggiunto lo stadio della
formazione di una costituzione civile repubblicana, fondata sul diritto, la
libertà e l’uguaglianza.
Ultimo,
ma non per importanza, quando l’apparire di una opinione pubblica mondiale avrebbe
consentito alla violazione del diritto avvenuta in un punto della terra di
essere avvertita dovunque.
Kant
non era un utopista, almeno non nel senso usuale del termine, lucidamente
consapevole, com’era, che il solo imperativo della ragione non è sufficiente a
persuadere il “legno storto” dell’umanità a cercare la pace.
Epperò,
è alla pace che va annesso quell’alto valore morale che un’improvvida
tradizione culturale attribuisce invece alla guerra, che, nel testo di” G. F.
Hegel”, “preserva
i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o
addirittura perpetua”.
Il conflitto, quale modalità della relazione
tra uomini e Stati, la vittoria, la sconfitta non sono i soli modi in cui possa
dispiegarsi la Ragione.
E la
Storia, nella sua ricca complessità, non si identifica univocamente con un
“tribunale” che sancisce come la guerra debba essere la risolutrice dei
conflitti tra gli Stati, nel “regno animale dello Spirito”, alla stregua della
metafora speculativa hegeliana.
Oggi
come non mai, quando “il terribile è già accaduto”, le guerre mondiali e i
sistemi d’arma nucleare, spesso evocati con sconcertante leggerezza, mostrano
che Kant aveva perfettamente ragione anche nella predizione che soltanto
l’esperienza della distruttività della guerra avrebbe dovuto persuadere gli
Stati a rinunciare alla propria libertà selvaggia e a sottomettersi a una legge
comune.
Del
resto, il processo di globalizzazione, nonostante limiti ed errori, causando
l’erosione della sovranità nazionale, ha acuito il bisogno di nuovi poteri a
livello regionale e mondiale.
Dopo
la caduta dei regimi totalitari del ‘900, una maggioranza di Stati membri delle
Nazioni Unite è retta da regimi di democrazia rappresentativa, pre-condizione
per l’estensione della democrazia alle relazioni tra gli Stati, per la
realizzazione, ossia, della democrazia internazionale, altro dalla conclamata,
quanto e “pour cause fallimentare”, illusione dell’“esportazione della
democrazia”.
Grazie
ai media, noi siamo informati ogni giorno degli avvenimenti che accadono
ovunque nel mondo, presupposto per la formazione di un’opinione pubblica e di
una società civile globali.
Siffatti
fenomeni sono aspetti del processo di globalizzazione, e della connessa
cancellazione della distinzione tra politica interna e politica estera.
La “Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo” e la “Corte penale internazionale”, ancorché disconosciuta da molti
Stati, sono due esempi significativi della necessità di applicare agli
individui il diritto internazionale e mostrano che l’ordine internazionale
è cambiato e che può cambiare ancora più radicalmente.
Possiamo,
dunque, concludere che la tradizione kantiana oggi resta viva come non mai, e
lotta insieme a noi, come si suol dire.
Pur
essendo rimasta latente durante l’era del nazionalismo, essa è stata rilanciata
nella nuova fase della storia del mondo, iniziata con la fine della guerra
fredda.
“Jürgen
Habermas” e “David Held” sostengono che l’idea kantiana di una Repubblica
federale mondiale rappresenta la sola risposta plausibile ai problemi posti
dalla globalizzazione e dall’erosione della sovranità degli Stati.
La
creazione di nuove forme di statualità a livello mondiale sembra essere la sola
alternativa al dominio del sistema di mercato e al dilagare della violenza.
Gli obiettivi universali della costituzionalizzazione
delle relazioni internazionali e della democrazia internazionale debbono
assurgere a principio-guida in costanza e aumento di una pericolosa anarchia.
No,
davvero, questa “confusione sotto il cielo” non è affatto “eccellente”…
Diritto
e democrazia internazionali aprono la sola via d’uscita da un arbitrio cieco e
ben poco “libero”, in quanto, essi sì, autentica e feconda “bussola strategica”
per un domani più a misura d’uomo.
Ne
discende che le eventuali responsabilità dell’occidente nella progressiva
espansione ad Est – a seguito del collasso dell’URSS – costantemente indicata
come un potenziale pericolo da parte di molti, anche in Occidente, perché
suscettibile di una “reazione ostile e vigorosa da parte della Russia” (J.
Biden, 1997), non esime il presidente della grande e temuta Federazione Russa
dal rammentare che “non vi è mai stato nulla di scritto”, come lui stesso
esplicitamente riconobbe, or sono pochi anni – proprio dopo le “operazioni” in
Georgia e Crimea – nella famosa intervista a “Oliver Stone”, e che, in ogni
caso, le diplomazie occidentali, statunitense ed europea, non hanno mai
sottoscritto un impegno siffatto in termini giuridico-formali.
Se il
diritto non è acqua fresca.
È del
tutto evidente che l’ipotesi kantiana può declinarsi soltanto nella relazione e
nel confronto tra gli Stati, indipendentemente dalle qualità personali dei loro
governanti, alla sola condizione che vero e indefettibile mediatore sia il Diritto,
poco o molto che valga e funga quello attualmente vigente e condiviso, con
tutto il rispetto per la voce spirituale del Pontefice, che non è, né presume
di essere, un soggetto politico. Infatti, su ciò su cui si concorda non c’è
molto da discutere, sul resto è giocoforza confrontarsi tenacemente.
Sempre
salva, naturalmente, l’evenienza di un esodo umano verso altri mondi, più
ospitali o meno dissennati, ove mai esistenti, e non semplicemente dall’Ucraina
in lacrime e sangue verso l’Occidente.
Conclusivamente,
la mente non può non correre al mesto pensiero di “Arthur Schopenhauer”,
secondo cui “se il mondo fosse lievemente peggiore, non potrebbe neppure
esistere”.
Ecco
emergere un must, fatale e intransigente, per l’uomo contemporaneo, il nuovo,
imperativo principio della “ragion pratica”: operare tassativamente in modo che
il mondo non diventi… “lievemente peggiore”.
In uno
degli scritti di filosofia della storia, “Idee di una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico”, nel 1784, Kant argomenta con estrema chiarezza
sul “legno storto”, la Storia e la relazione che li stringe: “… da un legno
storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente
diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura”.
La
natura ci impone di approssimarci a questa idea.
Se, insomma, per enti naturali finiti, la
perfezione è impossibile, dobbiamo tuttavia protenderci verso sintesi ed esiti
progressivamente più alti, oltre i limiti delle nostre vite individuali,
nell’orizzonte della “specie”.
“Il compito dell’uomo è dunque molto
complesso.
Come
ciò avvenga per gli abitanti di altri pianeti in rapporto alla loro natura noi
non sappiamo.
Ma, se
portiamo felicemente a termine questa missione imposta dalla natura, possiamo vantarci
di occupare un posto non trascurabile nell’universo tra i nostri vicini… per
pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il
diritto”.
Un
saggio/manifesto del liberalismo di” Isaiah Berlin,” “Il legno storto
dell’umanità”, mette a fuoco e in tensione il ‘realismo’ di Kant con la sua
appassionata esaltazione del “dovere dell’uomo”:
“Possiamo
fare solo quello che possiamo; ma questo dobbiamo farlo, nonostante le
difficoltà.
Certo,
vi saranno scontri sociali o politici, ed è inevitabile (…)
Ma
questi conflitti, credo, possono essere ridotti al minimo promuovendo e conservando
un delicato equilibrio che è costantemente minacciato e richiede costanti
riparazioni:
questa, ripeto, solo questa è la
pre-condizione per l’esistenza di società decenti e per un comportamento
moralmente accettabile;
altrimenti
siamo destinati a smarrire la strada”.
Il
nostro intenso auspicio, oggi, è che chi ha smarrito la strada, la ritrovi.
Senza ritardo.
“Questo
dobbiamo farlo”.
La
crisi del Nuovo Ordine Mondiale.
Fondazionefeltrinelli.it
– (23-3-2022) – Alessandro Colombo – ci dice:
Sebbene
non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che
l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali
del XXI secolo.
Intanto
perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli
ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la
estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.
Questo
elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del
dopoguerra fredda.
Per
quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e
degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella
sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di
costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli
degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di
conflitti armati:
le guerre civili combattute al di fuori dello
spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali
delle rispettive società;
e il complesso delle “guerre di polizia”
condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di uno
strumento militare incomparabilmente superiore per capacità tecnologiche e organizzative
ai propri nemici.
La
guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre
interstatali.
Con l’aggravante che a questa eventualità
torneranno a prepararsi anche tutti gli altri Stati, aumentando come prima cosa
le rispettive spese per la difesa.
Fianco
a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina
contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già
implicita nella retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva appena sostituito la
bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta “guerra globale al
terrore”.
Come
quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/
autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione
geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più
eterogenei tra loro.
Ma, nel frattempo, la bipolarizzazione ha un
impatto ambivalente sull’Europa.
Da un
lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono periodicamente
agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo all’Europa il ruolo
di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.
Ma,
dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio
di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più
consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea
dichiara di ispirarsi;
di
intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e
globale con la Cina;
di
sfumare ulteriormente le velleità già deboli di una autonomia politica e
strategica dell’Unione.
A
propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia
di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro
dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla
fine della guerra fredda.
Se,
ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la
globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche
forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le
fratture politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.
I
segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si
sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19:
la spinta (politica più ancora che economica)
a “riportare a casa” attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori
nuovamente dichiarati “sensibili”;
la
riscoperta della promessa di “confinamento” e “messa in sicurezza” dei confini
dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali (Unione
Europea compresa);
più in
generale, la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia (a
cominciare da quella energetica), che vede sempre di più la globalizzazione
come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.
Ma
l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare definitivamente
allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al XXI secolo.
Il
primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di
“Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in
crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.
Almeno
due capitoli di questo fallimento si sono manifestati in pieno in questa crisi.
Il
primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra,
quello di come trattare il nemico sconfitto:
lo
stesso problema che aveva già costituito il contrassegno di tutti i grandi
dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che il primo e decisivo criterio
distintivo tra di loro.
All’indomani
delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel
concerto delle grandi potenze;
dopo
la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul
piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;
dopo
la Seconda guerra mondiale, la Germania era stata punita ancora più duramente
attraverso la sua stessa divisione territoriale, ma le due Germanie erano state
prontamente accolte nei rispettivi sistemi di alleanza.
Tra il
1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a
volte clamorosamente contraddittori.
Da un
lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la
suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura
comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora
di una “Russia weimeriana”.
Ma,
dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra
unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la
ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno
spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.
L’altro
capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è
quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la Nato.
Dopo
il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato
nel Concetto strategico del 1999, la Nato ha arrancato per trovare un posto
nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati
Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.
Il
rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del
fallimento del “Nuovo Ordine”:
a trent’anni
dalla fine della guerra fredda, le relazioni tra Occidente e Russia si
ritrovano paradossalmente al punto di partenza.
Il
secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società
internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle
due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale
moderna:
la
centralità dello Stato e la centralità dell’Occidente.
Nessuno
dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da
questa transizione.
L’idea
che gli stati siano gli unici o i principali soggetti dell’ordinamento
internazionale è controbilanciata e, almeno in parte, minata dal riconoscimento
di diritti inalienabili in capo ai singoli individui.
Il
principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e
riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di
ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più
stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della
Carta delle Nazioni Unite i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.
Il
tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non da attori deboli e marginali,
ma dallo stesso paese più forte) in nome di un nuovo e controverso principio di
discriminazione a favore delle democrazie.
Il
ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta
delle Nazioni Unite;
ma,
nei fatti, l’introduzione di una serie di eccezioni non necessariamente
coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la lotta contro il terrorismo,
l’estensione della legittima difesa preventiva a casi nei quali la minaccia non
è ancora imminente) ha già eroso surrettiziamente il divieto.
Soprattutto,
è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti
la tradizionale pretesa dei paesi occidentali di parlare a nome dell’intera
comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla piena appartenenza
e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti.
E
proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni
probabilità, ancora più importante.
La
guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli
strategici dei principali attori; ma lo fa in un contesto nel quale è evidente
a tutti – a cominciare dai protagonisti diretti e indiretti della guerra – che
il baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale si
sta spostando altrove.
Su
questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.
Anzi,
se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come
un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria
perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non
sia l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.
“La
religione degli ecocomunisti”.
“RGA”:
ossia Riscaldamento
Globale Antropogenico.
Le
bugie sul caldo.
Laverita.info
– Maurizio Del Pietro – (20 luglio 2023) – Editoriale – ci dice:
(…)
Tutto nasce da una ricerca del 2013, a firma di John CooK e altri autori, i
quali si presero la briga di valutare l’evoluzione del consenso scientifico
sulle responsabilità dell’uomo rispetto al surriscaldamento globale.
Un’analisi
che prese in considerazione 11.944 articoli scientifici pubblicati tra il 1991
e il 2011 nelle cui sintesi apparivano le parole “cambiamento climatico.”
Di
questi, il 66,4 % non riferivano alcuna origine antropogenica del
riscaldamento, cioè non mettevano in correlazione l’aumento delle temperature
della Terra con l’intervento umano.
Il
32,6% invece faceva riferimento alle responsabilità delle industrie e in
generale della mobilità, lo 0,7 % negava alcuna correlazione e lo 0,3%
dichiarava di non avere certezze.
Dunque
ammesso e non concesso che 11.944 studi rappresentino il cento per cento degli
scienziati mondiali, come recitano Piccolotti e compagni, il 66,4 % non ha mai
parlato di un risaldamento globale antropogenico ma solo il 32,6 % ha sostenuto
l’esistenza della connessione tra il cambiamento climatico e le attività umane (…)
(…)
Fatto cento quelli che parlano di RGA (riscaldamento globale antropologico), il
97% ritiene che sia colpa dell’uomo.
Insomma,
un falso, che però gli ecocomunisti propalano in tutte le sedi dicendo che il
97 % degli scienziati mondiali ha documentato l’influenza umana nel cambiamento
climatico, una tesi che ormai si è trasformata in un dogma di fede e chi la
mette in dubbio è accusato di negazionismo e di essere contro la scienza – in
pratica un troglodita – anche se il moderno pensiero scientifico si basa, da
Galileo Galilei in poi, in poi, proprio sul dubbio e sulla messa in discussione
di ciò che l’autorità vuole accreditare.(…)
Perché
Putin vuole la guerra
contro
tutti noi.
Lucalovisolo.ch
– (29.11.2022) -Luca Lovisolo – ci dice:
Perché
Putin vuole la guerra in Ucraina.
I
perché di Putin sulla guerra nel discorso del Valdaj.
Perché
Putin vuole la guerra e fin dove vuole arrivare?
L’intervento del presidente russo alla
Conferenza del «Club Valdaj» del 27 ottobre 2022 è durato oltre tre ore e
mezza.
Putin ha ripetuto molti tormentoni della
retorica del Cremlino, ma il suo discorso permette di riportare alle radici la
strategia russa.
Emergono
la visione del regime di Mosca per il futuro dell’Europa e alcune verità
scomode.
Il discorso di Putin è stato riportato e
commentato da quasi tutti i media solo per estratti.
Questa
analisi si basa sulla versione audio completa, senza mediazioni, in lingua
originale.
Per la
spiegazione di alcuni termini mi riferisco all‘opera di “Aleksandr Dugin”.
In altre analisi ho citato i seminari di
questo politologo russo dedicati alla sua Quarta teoria politica.
Qui mi rifaccio a precedenti corsi e
conferenze tenuti da “Dugin” all’Università statale di Mosca.
Sono
le lezioni nelle quali definisce i principi che sono diventati linee guida
della politica estera russa negli ultimi vent’anni.
In
alcuni tratti del suo discorso al Valdaj, Putin riprende i concetti di” Dugin”
quasi alla lettera.
Questo
elemento è importante, ma nei circoli occidentali troppo spesso non viene
ponderato a sufficienza.
Le attività della Russia in Ucraina sono parte
di una strategia di ampio respiro, costruita in modo solido e convincente, se
guardata dal punto di vista dei russi.
La strategia del Cremlino non si rivolge in
primo luogo all’Ucraina, ma direttamente a noi, in quanto «cosiddetto
Occidente» – come Putin suole definirci, nel migliore dei casi.
Se,
come spesso accade in Occidente, guardiamo alla guerra come atto isolato di un
regime assetato di potere, non vediamo il quadro nel suo insieme.
In
ciò, il fatto che l’approccio geopolitico russo a noi piaccia o meno è del
tutto ininfluente.
Se
vogliamo capire la guerra in Ucraina e le attività del Cremlino nelle relazioni
con i nostri Paesi, dobbiamo immedesimarci nella radice dottrinale della
politica estera della Russia post-sovietica. Se, come spesso accade in
Occidente, guardiamo alla guerra come atto isolato di un regime assetato di
potere, non vediamo il quadro nel suo insieme. Per questo, la nostra reazione
sarà sempre debole e inadeguata.
La
conferenza del Club Valdaj si rivolge ad accademici e politici di professione.
Per questo motivo, Putin, quest’anno come nei
precedenti, ha parlato una lingua che posiziona con particolare profondità le
relazioni estere della Russia.
Le considerazioni di Putin sono rivolte anche
a noi, come bersaglio dell’aggressiva politica estera di Mosca a partire dai
primi anni Duemila.
Nel
fiume di parole del presidente russo si riconoscono anche talune verità
scomode: non dovremmo avere paura di affrontarle.
In questa analisi mi concentro sugli elementi
fondamentali della visione del mondo del Cremlino.
Tralascio
volutamente gli eccessi retorici, le opinioni più note di Putin sulla politica
e sulla Storia nonché i riferimenti a questioni di politica interna.
Il
motto della Conferenza del Valdaj di quest’anno era:
«Il mondo post-egemonico – equità e sicurezza
per tutti.»
Dalle
parole di Putin si comprende molto bene come si realizzi questo proposito, dal
punto di vista della Russia.
IL
MONDO DI PUTIN INTORNO AL 24 FEBBRAIO 2022.
Punto
di partenza delle considerazioni di Vladimir Putin è l’idea che il mondo di
oggi agisca secondo regole che nessuno sa chi ha dettato.
Per «regole» il presidente russo intende il
diritto internazionale, i diritti umani e i principi della società aperta
democratica.
Negli
ultimi mesi, afferma Putin, si assiste a un peggioramento delle relazioni
internazionali: la causa sarebbe il comportamento dell’Occidente.
Gli Stati uniti e l’Europa sarebbero
all’origine della guerra in Ucraina, della destabilizzazione dei mercati dovuta
alle sanzioni internazionali contro la Russia e delle provocazioni intorno allo
status di Taiwan.
In
tutto ciò, prosegue Putin, l’Occidente ha commesso ripetuti errori sistemici,
tra i quali la caduta del mercato europeo del gas.
La
Russia è testimone di questi eventi, ma è sempre stata aperta alla cooperazione
e ha presentato le sue proposte.
Con
questa affermazione Putin si riferisce alle pretese che la Russia ha introdotto
nel dibattito internazionale a fine 2021.
Interi Stati dell’Europa centrale e
settentrionale avrebbero dovuto dichiararsi neutrali.
Si
sarebbero dovuti ridisegnare i confini delle zone di influenza di Russia e
Stati uniti.
Tuttavia,
dice Putin, alle proposte russe l’Occidente ha sempre risposto negativamente.
L’Occidente
vuole fare della Russia uno strumento per raggiungere i suoi obiettivi, sulla
base di «regole universali» alla cui elaborazione la Russia non ha partecipato,
dice Putin.
Cita
lo scrittore Aleksandr Isaevič Solženicyn, che definisce l’Occidente come
«imprigionato nel suo senso di superiorità.»
L’Occidente
pensa che tutti i Paesi del mondo debbano accettare il suo sistema e
svilupparsi sulla base di esso. È ciò che sta accadendo proprio oggi, pensa
Putin.
Dalla
«Cancel culture» a Kennedy.
Di
recente l’Occidente pratica addirittura una «cultura della cancellazione» ai
danni della Russia, ritiene Putin.
Le
istituzioni culturali occidentali rifiutano di rappresentare opere d’arte
russe. Putin si riferisce all’ondata di cancellazioni di spettacoli di artisti,
compositori e drammaturghi russi in teatri e sale da concerto di molti Paesi
occidentali.
La causa è la ripresa della guerra in Ucraina
nel febbraio 2022 (ma Putin non la cita).
Echeggiando
il celebre discorso di insediamento di John F. Kennedy del novembre 1960, Putin osserva che il mondo si trova
dinanzi a una «nuova frontiera storica» e sta attraversando il decennio più
pericoloso, imprevedibile ma anche più importante dalla fine della Seconda
guerra mondiale.
PERCHÉ
PUTIN VUOLE LA GUERRA: GLI ELEMENTI CHIAVE.
Nel
discorso del Valdaj si odono termini che non sono nuovi, né in bocca a Putin né
nel dibattito pubblico.
In questo contesto, però, formano un insieme
particolarmente rivelatore: universalismo, colonialismo, mondo unipolare, equilibrio
degli interessi e altri.
Mondo
unipolare e universalismo, la critica di Putin
Unipolare
perché in
esso vigono solo la cultura, la volontà e le regole occidentali: società
aperta, democrazia, diritti umani e diritto internazionale.
Dopo
la caduta dell’Unione sovietica, secondo Putin l’Occidente ha instaurato il
mondo unipolare.
Unipolare
perché in esso vigono solo la cultura, la volontà e le regole occidentali:
società aperta, democrazia, diritti umani e diritto internazionale,
quest’ultimo derubricato a prodotto della presunzione occidentale.
Ancor
di più: la
cultura e la visione del mondo occidentali hanno pretesa di universalità.
Esigono
perciò di valere per tutta l’umanità, anche se l’Occidente non ha mai
concordato queste regole con il resto del mondo.
I
popoli del mondo aspirano alla libertà, dice Putin.
L’Occidente
liberale dovrebbe esserne contento, eppure no, obietta il presidente:
l’Occidente è convinto della sua infallibilità e, se questo anelito alla
libertà dei popoli non corrisponde al modello occidentale, Stati uniti ed
Europa applicano sanzioni, si immischiano politicamente, organizzano
rivoluzioni colorate e rovesciano i governi.
Putin
si riferisce qui, senza giri di parole, ai movimenti di protesta ucraini Majdan
degli anni 2004 e 2014, noti come «rivoluzioni colorate.» Il Cremlino spiega
quegli eventi come congiure occidentali contro le presunte pretese della Russia
sull’Ucraina.
Colonialismo
occidentale e globalizzazione.
Secondo
Putin, questo pensiero unico dell’Occidente costituisce un modello di
dominazione dal quale nasce una globalizzazione coloniale, intesa come
strumento di mantenimento del potere.
L’Occidente rafforza la sua potenza coloniale
creando sempre nuove dipendenze. Come esempio Putin cita la prevalenza dell’Occidente
nell’economia, nella farmaceutica e nella costruzione delle macchine utensili.
Ovunque
l’Occidente apra nuovi mercati, reprimerebbe gli attori locali con una condotta
colonialista.
Putin
si riferisce poi in modo esplicito ancora all’Ucraina e al suo avvicinamento
all’Unione europea.
Il cammino verso l’Europa presuppone un
adeguamento delle norme tecniche ucraine al complesso di norme europee.
La transizione normativa fu davvero uno dei
punti critici, negli anni cruciali 2013 e 2014.
L’argomento
era:
se l’Ucraina si sviluppa avvicinandosi
all’Europa e allontanandosi dalla Russia, acquisirà lo strumentario tecnico
europeo e abbandonerà quello russo.
Questa
prospettiva inquietava i russi e alcuni imprenditori dell’Ucraina meridionale e
orientale, che non volevano perdere il loro mercati in Russia.
PERCHÉ
PUTIN VUOLE LA GUERRA CONTRO L’OCCIDENTE IN CRISI.
Ora,
dice Putin, il modello neoliberale di sviluppo occidentale è entrato in una
crisi dottrinale.
Il presidente si rifà ancora alla letteratura
russa.
Cita questa volta I Demoni di Fëdor Michajlovič
Dostoevskij:
«Dalla libertà illimitata io desumo un
dispotismo illimitato.» Proprio ciò, aggiunge Putin, hanno ottenuto gli
«oppositori» della Russia – cioè noi occidentali.
Perché
Putin vuole la guerra con l'Occidente.
La
crisi dell’Occidente non è cominciata ieri: già nel 20. secolo, i liberali
affermavano che la «cosiddetta» società aperta ha dei nemici (Putin non la cita, ma si riferisce
all’opera centrale di Karl Popper: La società aperta e i suoi nemici).
Affinché
il modello di sviluppo occidentale non si spezzi, prosegue Putin, L’Occidente
limita la libertà di proporre modelli diversi, li qualifica come propaganda e
come minacce contro la democrazia.
Il
«cosiddetto Occidente» – continua il presidente russo – non è un blocco
indifferenziato, è un conglomerato complesso.
Vi
sono almeno due diversi Occidenti.
Da una
parte, un «Occidente tradizionale» portatore dei valori cristiani (e anche
islamici), di libertà e ricchezza di cultura;
questo
Occidente ha radici antiche ed é più vicino alla Russia.
L’altro Occidente è «aggressivo e
neo-coloniale» ed è l’arma delle élite neoliberali. Al diktat di questa parte
dell’Occidente la Russia non si piegherà.
L’Occidente,
constata Putin, non è in grado di guidare da solo l’umanità, ma ci prova, nella
sua disperazione.
La
maggioranza della popolazione del mondo rifiuta il modello di sviluppo
occidentale, dice il presidente russo: questa situazione è il presupposto
tipico di una rivoluzione.
La
pretesa dell’Occidente di universalità del suo modello può causare catene di
conflitti.
Questo
contrasto, dice Putin, è fatale per l’intera umanità e per lo stesso Occidente.
Il compito storico del nostro tempo è, secondo
Putin, appianare questi contrasti.
Perché
Putin vuole la guerra: maggioranze e minoranze del mondo.
Putin
mette in chiaro la visione della Russia: la base della civilizzazione umana
sono le società tradizionali dell’Oriente
La
maggioranza della popolazione mondiale abita l’est dell’Eurasia, dove, secondo
l’immagine che Putin ha del mondo, risiedono le civilizzazioni più antiche.
Putin
mette in chiaro la visione della Russia: la base della civilizzazione umana
sono le società tradizionali dell’Oriente, dell’America latina, dell’Africa e
dell’Eurasia.
Putin
afferma che l’Occidente sta perdendo la sua superiorità e diventa minoranza,
sulla scena internazionale.
Noi
occidentali, e in particolare noi europei, nella convinzione di essere migliori
di tutti gli altri, non ci accorgiamo che siamo ormai una periferia discosta,
dei vassalli degli Stati uniti, senza facoltà di parola.
I
diritti dei Paesi europei, secondo Putin, sarebbero «fortemente ridotti» ad
opera degli Stati uniti, «per usare un eufemismo,» sottolinea Putin.
Poiché
l’Occidente è una minoranza – riconosce Putin con tono concessivo – anche i
suoi diritti devono essere rispettati.
La
Russia non si immischia nelle questioni interne occidentali.
Putin
fa capire chiaramente con queste parole, qual è il nostro ruolo nel nuovo
ordine mondiale: siamo una minoranza tollerata.
Su di
noi prevale la maggioranza dei non-occidentali.
Secondo
Putin, la parte aggressiva dell’Occidente sta tentando di dividere la Russia.
Cita la guerra della Cecenia e i primi anni
della sua presidenza, non a caso: nel mosaico del mondo russo l’Ucraina gioca
oggi lo stesso ruolo della Cecenia all’inizio degli anni Duemila.
La
risolutezza di Putin è necessaria oggi come allora, poiché la Russia si trova,
secondo lui, nuovamente alle soglie del disfacimento.
La
Cecenia è
una repubblica confederata, parte della Federazione russa.
L’Ucraina, al contrario, è uno Stato
indipendente.
Putin
non vede la differenza, poiché, secondo lui, ambedue sono parte della «grande
Russia storica» alla quale si rivolge in modo esplicito, dopo la ripresa della
guerra in Ucraina.
Putin
riconosce di essere stato plasmato dall’esperienza maturata con la guerra in
Cecenia, nei primi anni del suo mandato.
Questa
affermazione rivela che la guerra in Ucraina, nell’idea di mondo di Putin, si
ricollega alle guerre caucasiche dei primi anni Duemila.
Già allora, aggiunge Putin, l’economia russa
si rivelò più forte di quanto ci si aspettava.
Lascia
intendere, così, che la Russia non deve temere le sanzioni di oggi.
Per
lui, però, è ancora più importante essere consapevole che «la Russia è un grande Paese. I russi
e le altre etnie del Paese sono spiritualmente disposti a lottare per
affermarsi.»
È questa certezza, dice Putin, a guidarlo
nella situazione di oggi.
In questo senso, la Russia deve valorizzare
tutta la sua eredità storica, non può e non deve rinunciare a nulla.
Putin
fa suo l’archetipo dell’eroe: deve sconfiggere il drago, cioè abbattere
l’Occidente;
salvare la fanciulla imprigionata, cioè la Russia;
impossessarsi del tesoro, che è l’eredità storica della Russia, per edificare
il regno, cioè la Russia del futuro, di cui è liberatore e sovrano.
PUTIN
VUOLE LA GUERRA PER IL «MONDO MULTIPOLARE».
Ora,
giudica Putin, il tempo della supremazia non condivisa dell’Occidente è finito.
Il mondo unipolare diventa un ricordo del passato.
L’umanità
si trova di fronte a un bivio:
o
aggrava ancora i problemi esistenti, o prova a risolverli di comune accordo,
non in modo idealistico, ma lavorando in concreto affinché il mondo diventi un
luogo più stabile e sicuro.
L’ordine
mondiale multipolare sta emergendo davanti ai nostri occhi.
In
questo ordine mondiale di nuovo conio, la Russia afferma il proprio diritto di
esistere – cosa che, del resto, nessuno ha mai messo in discussione – e di
svilupparsi secondo il suo percorso.
Tutto
ciò che sta succedendo in questo momento – la guerra in Ucraina e il nuovo
orientamento della visione di Mosca verso l’esterno – sta portando un grande
beneficio alla Russia, dice Putin:
il
Paese sta rafforzando la sua sovranità. Sfugge così al destino di degenerare in
una semi-colonia politica, economica e tecnologica dell’Occidente.
Perché
Putin vuole la guerra: la posizione russa.
La
particolarità della Russia, dice Putin, è che la sua posizione di fronte alle
minacce esterne – cioè di fronte all’Occidente – incontra totale consenso nel
resto del mondo e questo consenso può solo crescere.
La
critica alla Russia arriva solo da occidentali e da persone cresciute nella
visione del mondo occidentale, che non capiscono la visione russa.
Qui
Putin riprende un argomento di “Dugin” e non solo, secondo cui la concezione
della geopolitica si orienta al contesto nel quale viene studiata.
Anche
secondo Putin, non vi è una concezione unica delle relazioni internazionali.
Ogni loro rappresentazione sarebbe radicata relativisticamente nell’immagine di
mondo nella quale l’osservatore si forma.
Perché
Putin vuole la guerra: le regole del nuovo mondo.
Alla
domanda su quali regole dovranno governare il nuovo ordine mondiale
multipolare, Putin risponde in un modo che inizialmente sorprende.
Noi
crediamo, dice il presidente, che il nuovo ordine mondiale debba essere fondato
su leggi e norme, libertà ed economia di mercato, sotto l’ombrello delle
Nazioni unite.
Che
non ci si debba rallegrare troppo in fretta di questa affermazione lo mostrano
quelle che la seguono.
Il mondo cambia, aggiunge Putin, le regole
devono essere adattate in conseguenza.
Le
norme esistenti sono state elaborate dall’Occidente e servono solo a indebolire
i suoi concorrenti, afferma Putin.
I
diritti umani possono causare l’indebolimento degli Stati.
Qui Putin cita il caso della Cina, con
un’affermazione tanto pesante quanto compiaciuta, che cade come un sasso sulle
orecchie di chi ascolta: il rispetto dei diritti umani in certe regioni della
Cina, osserva, sarebbe impossibile, perché comporterebbe la disgregazione dello
Stato.
Putin si riferisce agli uiguri e alle altre minoranze
che Pechino reprime sistematicamente.
Questo
esempio illustra come pochi altri come Putin intenda il contratto sociale:
Lo Stato prevale, se il rispetto dei diritti individuali
lo mette in pericolo.
Questo
è il perno intorno al quale si capovolge la visione del mondo – anzi, la
visione della persona umana, tra la Russia e l’Occidente.
La
«sinfonia delle civilizzazioni» suona nel mondo multipolare.
A
conclusione del suo intervento Putin pone una frase a effetto:
«Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità
di fronte al mondo e costruire una sinfonia delle civilizzazioni.» I
l
nuovo mondo sarà un «mondo senza sanzioni» – in altre parole, un mondo in cui
ogni Stato potrà fare e disfare ciò che vuole.
L’unico
limite alla totale libertà di azione sarà l’equilibrio degli interessi.
Da un
mondo all’apparenza costruttivista e fondato sulle regole, Putin ricade, con
uno spettacolare capitombolo – che si nota solo se si conosce il retroterra
delle sue parole – in un ordine mondiale drasticamente realista.
Regimi
autoritari, violazioni dei diritti umani, oppressione delle minoranze e simili
sono parte del gioco, se servono a mantenere l’equilibrio degli interessi.
Cosa Putin
intenda con questa espressione lo vedremo più avanti.
Dopo
tre ore e mezza complessive tra discorso, domande e risposte, l’intervento di
Putin si conclude.
Si
potrebbe raccontare molto sugli ascoltatori presenti, ma mi limito ad alcune
punte.
Nel pubblico sedevano prevalentemente, vicino
ai russi, rappresentanti di Asia, Africa e America latina; Stati come il Canada
o la Moldova sembravano rappresentati solo da attivisti filorussi.
Su
questo uditorio Putin esercitava un fascino quasi ipnotico.
Lo si
capiva dal linguaggio del corpo dei partecipanti, dalle risate dopo le battute
e le barzellette con le quali Putin si prendeva gioco dell’Ucraina e
dell’Occidente; dai sorrisoni soddisfatti e dall’interminabile annuire di molte
teste, nella sala conferenze strapiena.
Il
numero più bizzarro è stato quello di una partecipante asiatica, che, dopo aver
posto la sua domanda, ha chiesto a Putin di ricevere una sua foto autografata,
perché lo ammira tanto.
La
conferenza del Club Valdaj vuol essere il contrapposto russo alla Conferenza
internazionale di Monaco sulla sicurezza.
A Monaco, però, non di rado le domande dei
partecipanti, sempre piuttosto competenti, mettono in grossa difficoltà gli
oratori.
Gli
interventi del pubblico del Valdaj sembravano servire solo a confermare,
rafforzare e incensare le affermazioni di Putin, in modo così spudorato che a
tratti il giro di domande e risposte sembrava un contorno precotto al discorso
del presidente.
PERCHÉ
PUTIN VUOLE LA GUERRA CONTRO LE «REGOLE».
Nel
discorso di Putin al Valdaj compaiono tesi più semplici da confutare; altre che
richiedono un’elaborazione più estesa, perché al primo sguardo sembrano persino
lodevoli principi di umanità. Inoltre, vi sono alcune verità con le quali noi,
in Occidente, dovremmo confrontarci.
Le
regole scritte dall’Occidente: uno dei perché Putin vuole la guerra.
Putin
pensa che il mondo si muova seguendo regole scritte solo dall’Occidente. Non è
vero.
La Russia partecipa da sempre all’elaborazione
del diritto internazionale.
Ha
contribuito a scrivere e ha firmato trattati internazionali.
Quando l’Unione sovietica si sciolse, la
Russia si assunse per sua libera decisione tutti gli obblighi e i diritti
connessi agli accordi internazionali in vigore, poiché subentrò esplicitamente
e di propria volontà nella successione giuridica della disciolta Unione
sovietica.
La
Russia post-sovietica, da parte sua, ha siglato innumerevoli trattati, in molti
di questi riconosce le frontiere e la sovranità dell’Ucraina.
Il
rimprovero secondo cui la Russia dovrebbe attenersi a norme internazionali che
sono state elaborate solo in Occidente, e che ora le verrebbero imposte, è
privo di fondamento e non richiede di essere ulteriormente discusso qui.
Nella
visione di Putin, l’Occidente avrebbe commesso gravi errori sistemici.
Cita l’introduzione di sanzioni contro la Russia, le
modificazioni al mercato dell’energia e le altre, gravi decisioni che la
comunità internazionale ha dovuto assumere in conseguenza della ripresa della
guerra in Ucraina.
Putin
ritiene che queste azioni siano errate, poiché non prende in considerazione la
loro causa.
Vede la guerra in Ucraina come operazione
militare di portata interna.
In Ucraina, la Russia, secondo lui, combatte
contro intrusi, «fascisti» (o, ultimamente, «satanisti») che nel 1991 hanno
dichiarato uno Stato indipendente su una parte di territorio russo e da quel
momento lo governano senza averne diritto.
Guerra
d’Ucraina e guerra di Cecenia: la continuità.
Anche
la guerra d’Ucraina è e resta, nella visione del mondo di Putin, una questione
di mantenimento della sovranità.
Per
questo motivo, secondo Putin, la questione ucraina, al resto del mondo, non
deve interessare.
Come
la guerra di Cecenia, anche la guerra d’Ucraina è e resta, nella visione del
mondo di Putin, una questione di mantenimento della sovranità territoriale
russa.
Le
Nazioni unite e gli altri Stati non devono immischiarsi in questo affare
interno di Mosca.
La
non-ingerenza negli affari interni di uno Stato, però, è un principio del
diritto internazionale.
Vi
sono, allora, principi giuridici che Putin accetta, a proprio arbitrio, e non
li squalifica come «imposizione occidentale» – un diritto internazionale à la
carte.
Se si
elimina la guerra in Ucraina come causa delle sanzioni e delle decisioni
conseguenti, davvero non le si capisce più.
La
Russia si comporta come un omicida condannato che continua a insistere di non
aver ucciso nessuno.
Crede,
perciò, che essere spedito in carcere sia un errore dei giudici.
COS’E’
IL MONDO MULTIPOLARE PER IL QUALE PUTIN VUOLE LA GUERRA.
Il
mondo unipolare di marca occidentale si vuole liberale, ma non accetta alcuna
alternativa alla democrazia, lamenta Putin, e aggiunge: l’Occidente considera creature di
serie B tutti coloro che rifiutano i suoi principi.
Ora,
dice Putin, il mondo unipolare deve essere sostituito da un mondo multipolare.
Ogni
civilizzazione ha una diversa concezione dell’Uomo e della sua natura. Mentre i valori occidentali mirano
all’universalità, i valori tradizionali delle altre civilizzazioni non sono
postulati fissi e riproducibili, che si adattano a tutti.
Dipendono dalla tradizione, dalla cultura e dal
divenire storico di ogni società. Dobbiamo tenere conto di ogni punto di vista,
di ogni popolo, società, cultura, visione del mondo e orientamento religioso.
Nel
mondo multipolare non si può imporre una «verità unica.»
Queste
affermazioni di Putin contengono un seguito di verità lapalissiane che abbondano
in ogni riga e in ogni angolo, nei discorsi di Putin stesso e di tutti i
politici populisti.
Chi sente queste parole ha l’impressione che gli si
accenda improvvisamente una luce: così dev’essere un mondo giusto!
Putin
ha ragione – penserà.
Se
però si ricerca che cosa significa «mondo multipolare» nella dottrina russa
delle relazioni internazionali, se ne trova una definizione che rallegra assai
meno, nella brillante rappresentazione data da Aleksandr Dugin durante una
conferenza tenuta all’Università di Mosca nel 2012.
«La
teoria multipolare è una teoria molto rivoluzionaria ed estrema […] La
multipolarità esclude la mono-polarità, perché presuppone che le decisioni […]
vengano prese non in un unico centro, ma in diversi centri.
In conseguenza, il mondo multipolare e quello
unipolare sono antitetici […]
Bisogna
distruggere il mondo unipolare, e […] se questo non è disposto a scomparire,
bisogna avvicinare la sua fine.
Questa
è una posizione molto dura e aggressiva […] Il mondo multipolare sarà possibile
solo dopo che il mondo unipolare sarà stato liquidato in modo definitivo e
irreversibile.»
Il
mondo multipolare non è un prato fiorito.
Il
mondo multipolare dei russi, perciò, non è quel prato fiorito sul quale le
diverse culture vivono in varietà e felice accordo.
E‘ innanzitutto un grido di guerra contro la
democrazia e i diritti umani.
Dugin
ha ragione: sono due mondi opposti l’uno all’altro.
Putin,
da parte sua, precisa questo principio esplicitamente, quando, nel suo discorso
del Valdaj, afferma che la democrazia non è l’unico modello di società possibile:
«Al
mondo possono sorgere modelli di società alternativi e più efficaci, voglio
sottolinearlo: più efficaci al giorno d’oggi, più luminosi e attraenti di
quelli che esistono ora.
Questi
modelli si svilupperanno necessariamente, è inevitabile.»
Il presidente
non le cita, ma si riferisce senza equivoco alle forme di governo autoritario
in un ampio spettro che va dall’Ungheria alla Cina, passando per la Russia e
altre simili pseudo-democrazie.
Questi
«modelli alternativi si svilupperanno necessariamente, è inevitabile» – dice
Putin con tono monitorio.
Ciò sarebbe provato, secondo lui, dal fatto
che la maggioranza della popolazione mondiale rifiuta il modello di sviluppo
occidentale.
Tutte
le civilizzazioni riconoscono nell’alta dignità e nell’essenza spirituale
dell’Uomo il fondamento più importante della costruzione del nostro futuro,
sentenzia Putin. Se si guarda alla Russia, alla Cina e alle altre società autocratiche
che dovrebbero formare il mondo multipolare, si ha fondato motivo di mettere in
dubbio questa affermazione.
Uomini
senza diritti e «civilizzazioni alternative».
Se ne
desume, per converso, che vi sarebbero Uomini, nella visione del mondo russa,
che non possono pretendere le libertà fondamentali e la democrazia, i diritti
umani, e ciò a buona ragione.
Perché
appartengono a «sistemi sociali alternativi» nei quali la persona umana non può
aspirare a veder riconosciuta la sua espressione individuale.
Questo
principio è espresso da “Dugin” quando afferma che:
«Ogni
pretesa […] relativa al fatto che i valori occidentali sono valori universali,
e in conseguenza che tutti i popoli devono accettare lo Stato nazionale, il
sistema parlamentare della separazione dei poteri, l’ideologia dei diritti
umani, l’economia di mercato, la stampa indipendente – tutte queste pretese
devono essere respinte […] All’Occidente piacciono i diritti umani? Meraviglioso, che li
rispetti.
Noi
abbiamo altri diritti, un altro Uomo, un’altra antropologia sociale in altre
società.»
«Abbiamo
un altro uomo» («другой человек»). Un uomo, dunque, che non deve aspirare ai
diritti fondamentali, alla democrazia e a tutto il discorso «occidentale» sulla
centralità della persona umana. Putin, da parte sua, esprime lo stesso principio
quando afferma:
«Se
l’Occidente vuole introdurre l’ideologia gender e organizzare le Gay-Parade, lo
faccia.
La
Russia non si immischia nelle questioni interne occidentali.»
Con
altre parole, Putin prende la stessa posizione di Dugin:
noi
siamo altro, abbiamo altri Uomini.
Il
presidente russo cita consapevolmente la questione omosessuale, perché sa che
questo tema, come la questione delle migrazioni, è un ambito dei diritti
fondamentali molto controverso in Occidente.
Con queste argomentazioni Putin raccoglie
consenso e semina divisione nelle società occidentali.
Se
Putin citasse direttamente i diritti che aggredisce, con la sua visione del
mondo – separazione dei poteri, libertà di espressione e altre libertà
fondamentali – le popolazioni occidentali reagirebbero negativamente (almeno
per il momento, in futuro si vedrà).
Perché
Putin vuole la guerra: mondo multipolare o multilaterale?
È solo
questione di tempo, e anche la versione dura e originale diventa normalità, nel
dibattito pubblico.
L’esempio
più calzante è proprio la guerra in ucraina.
Come
sempre, Putin esprime in forma più eufemistica e politicamente presentabile gli
stessi concetti che Dugin formula in modo estremo e dottrinario.
È solo
questione di tempo, e anche la versione dura e originale diventa normalità, nel
dibattito pubblico.
L’esempio più calzante è proprio la guerra in
ucraina.
Nel
2014 Dugin fu punito con l’allontanamento dall’università, per aver aizzato
all’uccisione degli ucraini;
oggi,
il genocidio contro gli ucraini avviene tutti i giorni e nessuno viene più
punito per questo motivo, anzi: viene arrestato e malmenato chi leva la sua voce
contro la guerra.
Dobbiamo
infine distinguere il mondo multipolare di Dugin e Putin dal mondo
multilaterale.
Questi
termini, in Occidente, vengono spesso usati come sinonimi, ma non lo sono.
Cosa
significhi per i russi mondo multipolare l’ho appena spiegato.
Mondo
multilaterale significa, per noi in Occidente, un mondo nel quale le decisioni
vengono prese in un clima di concertazione tra tutti gli Stati.
Per la
dottrina russa, il significato è più ristretto:
il
multilateralismo si esercita, secondo i russi, solo tra gli Stati uniti e i
loro alleati, escludendo tutti gli altri.
Non è
possibile approfondire qui queste diverse concezioni.
È
importante, però, sapere che mondo multipolare e mondo multilaterale non sono
la stessa cosa.
PERCHÉ
PUTIN VUOLE LA GUERRA: «EQUILIBRIO DEGLI INTERESSI».
La
base del mondo multipolare non sono i diritti umani, perciò, ma l’equilibrio
degli interessi tra i diversi attori.
Attori
del nuovo ordine mondiale non sono più gli Stati nazionali, ma le
civilizzazioni.
Qui
Putin riprende un altro concetto-chiave della dottrina di Aleksandr Dugin,
secondo il quale le protagoniste del mondo multipolare saranno, appunto, le
civilizzazioni – non le classi, come nel marxismo;
non lo
Stato, come nel realismo;
non il sistema democratico, come nel
liberalismo.
Le
civilizzazioni diventeranno soggetti dotati di personalità e capacità
giuridica, all’interno delle relazioni internazionali e del diritto
internazionale, dice Dugin, seguendo la «teoria dei grandi spazi» formulata dal
giurista tedesco” Karl Schmitt”.
Cosa
sono le «civilizzazioni» nella visione del mondo russa.
I
perché delle civilizzazioni di Putin e la guerra contro l'Occidente.
Come
si costruisce una civilizzazione e cosa significa questo concetto, nelle menti
di Dugin e Putin?
Le
civilizzazioni sono i poli del mondo multipolare.
L’Eurasia è una civilizzazione, dove con
Eurasia si intende di fatto lo spazio post-sovietico e prima russo-imperiale.
Un
altro esempio, citato esplicitamente sia da Putin sia da Dugin, è l’Organizzazione per la cooperazione
di Shanghai (SOC), che ha aperto una nuova era di relazioni in Oriente, dicono entrambi
quasi con le stesse parole.
L’Unione
europea è una civilizzazione, ma ha un difetto, dice Dugin.
Deve
abbandonare la «geopolitica del mare» – quella di Stati uniti e Regno unito – e
aggregarsi alla «geopolitica continentale,» che caratterizza le relazioni
internazionali della Russia.
Il politologo russo lo spiega in modo
esauriente nel suo corso di geopolitica tenuto all’Università di Mosca nel
2012.
L’Europa diventa di fatto un soggetto
subordinato della civilizzazione russa ed eurasiatica.
Così
dev’essere «L’Europa che vogliamo noi russi» – come ho sentito dire con le mie
orecchie a Dugin, durante una conferenza da lui tenuta a Lugano nel giugno
2019.
Le
«civilizzazioni» non sono quindi unità etniche, nel mondo multipolare, ma
costrutti nei quali più popoli sono subordinati a un soggetto più forte, che
detta le regole della rispettiva «civilizzazione:»
La Russia nello spazio post-sovietico e in
Europa,
la
Cina nel Sud-Est asiatico, e così via.
I motori del mondo multipolare, nella visione del
mondo russa, sono tutti coloro che sul piano economico, politico e militare,
ideologico e culturale, si oppongono agli Stati uniti:
Cina,
Iran, America latina e altri, elenca Dugin.
La
Russia è pronta a sostenere queste forze.
La
fondazione del canale televisivo “Russia Today” in lingua spagnola, nota
curiosamente Dugin nella sua conferenza sul mondo multipolare, è avvenuta
proprio per sostenere i Paesi latinoamericani nello sviluppo della loro
civilizzazione in «senso indipendente» contro gli Stati uniti.
Con
chi e perché Putin non vuole la guerra?
Questa
posizione di Dugin si riflette nell’affermazione di Putin al Valdaj, quando
afferma:
«La
Russia è pronta a cooperare con i Paesi che sono sovrani nelle loro decisioni
fondamentali. I Paesi che voglio avere buone relazioni con la Russia devono
mostrare che difendono i loro interessi.»
La
frase è inequivocabile:
la Russia è aperta verso tutti quegli Stati
che si sottraggono alla cooperazione internazionale con gli Stati uniti e
l’Occidente.
Al
posto dell’Unione europea e delle altre istituzioni di stampo occidentale arrivano
l’Unione eurasiatica e il noto e temuto progetto dell’Europa «da Lisbona a
Vladivostok.»
Comandamento
supremo del “nuovo ordine mondiale” è il mantenimento delle «civilizzazioni,»
costi quel che costi, sotto la guida del più forte.
Se georgiani, ucraini e altri non si sentono
parte della civilizzazione eurasiatica, devono essere tenuti sotto il suo tetto
con la forza.
Agli
uiguri e alle altre minoranze della Cina deve essere negato il diritto
all’autodeterminazione, perché in questo caso, come osserva Putin in modo
esplicito – l’abbiamo detto poco sopra – il rispetto dei diritti umani
metterebbe in pericolo lo Stato.
In
questa visione del mondo, entità come gli Stati del Centro Europa, del Caucaso
e dell’Asia centrale non hanno alcuna personalità propria.
Possono
esistere solo in quanto zone di influenza subordinate alla potenza che domina
la rispettiva «civilizzazione.»
Putin
esprime questo principio quando dichiara, nel suo discorso del Valdaj:
«La
sovranità dell’Ucraina può essere garantita solo dalla Russia, perché l’Ucraina
è stata creata dalla Russia.»
Dal
punto di vista storico e giuridico questa affermazione è una sciocchezza, ma
rientra alla perfezione nella dottrina russa del mondo multipolare.
Il
mondo di Putin come «unica opportunità» per noi.
Questo
principio non vale solo per ucraini, georgiani e popoli confinanti.
Il mondo multipolare è «l’unica opportunità anche per
i Paesi europei – cioè per noi – di esercitare soggettività politica ed
economica,» soggiunge Putin.
In questo momento noi europei non siamo
disponibili, ma, afferma Putin:
«Il
pragmatismo trionferà. Prima o poi l’Occidente e i nuovi centri dell’ordine
mondiale multipolare dovranno parlarsi a pari livello, a proposito del loro
futuro comune, per raggiungere un equilibrio degli interessi. Il dialogo tra la
Russia e l’Occidente autentico e tradizionale sarà il più importante contributo
all’ordine mondiale multipolare.»
L‘«Occidente
autentico e tradizionale» è quello i cui valori corrispondono ai postulati dei
partiti filorussi e populisti, sia di destra sia di sinistra.
Il
messaggio è chiaro: la Russia, in combutta con le forze filorusse europee,
plasmerà il nostro continente a sua immagine e somiglianza.
Torniamo
brevemente a Dugin, che dice: «Dobbiamo concentrarci sulla fondazione della
civilizzazione come attore, come soggetto delle strutture del mondo
multipolare. Questo è l’elemento più importante.»
L’equilibrio degli interessi tra le
civilizzazioni significa, perciò, verso l’interno, che la potenza dominante di
ciascuna civilizzazione consolida il suo potere, con qualunque mezzo.
Afferma
Putin:
«Un
cambiamento epocale è un processo doloroso, ma naturale e inevitabile.»
Guerra
e violenza sono messe in conto e vanno sofferte, come passi di una spinta
naturale e insopprimibile.
La guerra in Ucraina è espressione ed esempio
di questo processo di riequilibrio.
Si noti quanto spesso Putin usa il termine, inevitabile:
su uno sfondo storicistico e con un’ebbrezza quasi religiosa, Putin vede l’umanità
come una comunità legata da un unico destino.
Verso
l’esterno, il
concetto di equilibrio degli interessi tra le civilizzazioni assomiglia a ciò che nella dottrina
delle relazioni internazionali si definisce equilibrio di potenza (Balance of power).
Il
mantenimento dell’equilibro di potenza prevale, nei realisti, sul rispetto di
regole e valori.
Così è
anche nel nuovo ordine mondiale di Putin.
PERCHÉ
PUTIN VUOLE LA GUERRA: LE VERITÀ SCOMODE PER NOI.
Sono
verità che possono diventare rapidamente un cappio al collo per noi, se
continuiamo ad accettare la realtà senza reagire.
L’idea
di mondo di Putin contiene molte distorsioni della Storia e della realtà.
A
fianco di queste, però, emergono fatti che dimentichiamo troppo spesso.
Sono verità che possono diventare rapidamente
un cappio al collo per noi, se continuiamo ad accettare la realtà senza
reagire.
L’Occidente
– il mondo della società aperta, dell’economia di mercato e dei diritti umani –
è davvero una minoranza, rispetto al resto del pianeta.
Il “Consiglio per i diritti umani delle
Nazioni unite” è composto a maggioranza schiacciante da Paesi che non
rispettano i diritti umani.
Un’economia
di mercato, non senza macchie ma funzionante, esiste di fatto solo in
Occidente, poiché
ad altre latitudini l’economia è diretta o dal crimine organizzato, per mezzo
di corruzione e violenza, o da oligarchi o dallo Stato, o da tutte queste cose messe
insieme.
Una
società non priva di difetti ma pur sempre aperta, nella quale i cittadini
possono esprimere i loro talenti, possono contare su una giustizia generalmente
indipendente e possono influire sulla legislazione attraverso una
rappresentanza parlamentare votata liberamente – tutto ciò l’abbiamo, nella
misura massima oggi possibile, solo noi in Occidente.
Il nostro modello di sviluppo presenta molte
lacune, ma tutti gli altri sono peggiori.
In
quanto minoranza del mondo, possiamo conservare il nostro modello di società
solo se manteniamo nel tempo il nostro primato intellettuale.
La ricerca e lo sviluppo nelle scienze,
tecniche e umane, sono la base del nostro benessere e delle nostre libertà.
Finché
sediamo in prima fila per capacità intellettuali, abbiamo l’opportunità di
trasmettere alle prossime generazioni i valori fondamentali della nostra
società, anche se siamo minoranza.
Putin
vuole la guerra perché il primato dell’Occidente è in bilico.
Vladimir
Putin ritiene che il modello neoliberale di sviluppo dell’Occidente sia entrato
in una crisi dottrinale.
Putin
ha ragione.
Nel
progresso tecnologico manteniamo il primato, ma nelle scienze umane siamo oggi
più deboli che mai.
Le scienze umane sono il presupposto della
capacità di giudizio nelle questioni fondamentali di valore, dove è necessario
saper distinguere il vero dal falso – poiché è possibile, distinguere il vero
dal falso.
Un’ordinata
scienza della politica, come fondamento dello sviluppo della nostra società
sulla base sicura dei valori fondamentali, presuppone un sano e diffuso sapere
umanistico.
La
guerra in Ucraina ha denudato senza pudore la debolezza intellettuale
dell’Occidente.
Politici
dei parlamenti d’Europa che sostengono le sanguinose azioni del regime russo;
ministri
e capi di governo che discettano senza risultati per settimane, anzi mesi,
sulle forniture di armi;
docenti
che diffondono letture falsificate della Storia;
televisioni
e giornali di largo ascolto, talvolta persino obbligati al servizio pubblico,
che offrono palcoscenici e milioni di ascoltatori a leader d’opinione nei quali
non si riconosce la minima competenza.
I
perché di Putin sulla guerra e la debolezza culturale dell'Occidente.
Il
dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina ha messo in luce quanto in fretta
possiamo diventare davvero la minoranza ammutolita che Putin e i suoi scherani
deridono in noi.
Rinunciando
al nostro primato nelle scienze umane, perdiamo la capacità di prendere
posizioni chiare.
Indecisi
tra vero e falso, per mancanza di capacità di giudizio, abbiamo elevato
l’indifferenza a equità e ne facciamo dibattiti che sconfinano nell’eternamente
insignificante.
Così
noi, gli autoproclamati protagonisti del gran teatro del mondo, diventiamo
burattini di legno su un palcoscenico di provincia, nelle mani di burattinai
spaventosi.
La
«nuova frontiera» di Putin: verso il futuro oppure…
Il
mondo unipolare – dunque il mondo dei valori occidentali, dei nostri valori –
apparterrà presto al passato, ammonisce Putin.
Anche
su questo ci avrà preso, se noi non interveniamo rapidamente contro
l’inaridimento della nostra capacità di pensiero.
Il
mondo, osserva Putin con ragione, è sulla soglia di una nuova frontiera.
Noi,
da parte nostra, dovremmo fare in modo che questa frontiera, come disse Kennedy
nel 1960, si apra verso il futuro;
nell’idea
di mondo di Putin, la nuova frontiera è un passo indietro verso il passato.
Dove vogliamo andare?
Perché
la guerra di Putin.
PERCHÉ
PUTIN VUOLE LA GUERRA CONTRO «L’UNIVERSALISMO».
Infine,
lo spunto forse più importante del discorso di Putin.
Il
presidente russo lo riprende ancora una volta alla lettera dalla dottrina di
Dugin. I
valori occidentali – democrazia, diritti umani, diritto internazionale – hanno
pretesa di universalità, ossia pretendono di valere per tutta l’umanità.
Pertanto,
secondo Putin, sono uno strumento di prevaricazione da parte dell’Occidente sul
resto del mondo.
La
validità universale dei diritti umani non è una pretesa coloniale
dell’Occidente: è un pilastro della civiltà umana – non solo di quella
occidentale.
I
diritti umani sono universali perché:
«Il
riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e
dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della
libertà, della giustizia e della pace nel mondo.»
Così
stabilisce il preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti umani,”
promulgata nel 1948 dalle Nazioni unite e firmata anche dalla Russia (allora come
Unione sovietica).
I diritti oggettivi sono stabiliti dalla legge;
i
diritti soggettivi nascono dai rapporti giuridici;
i diritti umani sono fondati esclusivamente sul fatto
che nasciamo persone umane. Per questo motivo, ogni persona umana, non importa
dove, gode degli stessi diritti umani.
Se si
distingue – e in base a cosa, poi? –
una persona A, che ha diritto alle libertà
fondamentali,
da una
persona B, alla
quale queste libertà vengono negate,
il
concetto di «diritto umano» perde il suo fondamento.
Il
principio dell’universalità dei diritti umani ha una storia antica. Compare in modo esplicito nella “Dichiarazione
dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 1789”,
all’articolo
1:
«Gli
uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.»
Il
germe dei diritti umani emerge ancor più anticamente, nelle prime concessioni
della monarchia inglese, dalla Magna Charta al Bill of Rights, in uno spazio di tempo tra il
tredicesimo e il diciassettesimo secolo.
Negando l’universalità dei diritti umani, la Russia mette in discussione un
fondamento giuridico e storico per il quale l’umanità ha lottato a lungo e
duramente.
Se
passa la visione russa, la civilizzazione umana torna indietro di secoli.
Putin
vuole la guerra contro l’universalità dei diritti umani
La
negazione dell’universalità dei diritti umani è forse l’elemento più importante
della dottrina delle relazioni internazionali nella Russia post-sovietica.
Se i diritti umani valgono senza distinzione per tutti
gli Uomini, l’intero costrutto della teoria politica di Aleksandr Dugin crolla.
Con
esso cade la politica estera russa degli ultimi 20 anni, orchestrata da
Vladimir Putin.
Il
motivo dichiarato per il quale la dottrina russa rifiuta la validità dei
diritti umani per tutti è che il mondo multipolare deve tenere conto della
diversità delle culture.
In
realtà, la Russia e gli altri Stati illiberali voglio tenere aperti degli spazi
in cui i governi dittatoriali possano esercitare il loro potere indisturbati,
circondati solo da alleati consenzienti, incapaci di autodeterminazione.
L’Occidente
non è privo di colpe:
l’Europa e gli Stati uniti, nella loro lunga
storia, hanno accumulato molti debiti.
Si
possono trovare numerose circostanze nelle quali il modello occidentale è stato
davvero imposto con prevaricazione coloniale.
È
anche vero ciò che afferma Dugin, quando osserva che lo Stato nazionale non è
più adeguato al mondo di oggi e che vi sono popoli che hanno difficoltà ad
applicare i principi della democrazia.
Ciò premesso, ridurre i diritti umani e il diritto
internazionale a uno strumento di dominio occidentale non è la soluzione del
problema.
Il
modello di sviluppo occidentale si impone perché è un modello di successo.
Putin pensa, l’ho già citato, che la
maggioranza dell’umanità respinga il nostro modello di società.
Certo,
esiste un diffuso antioccidentalismo, nel mondo, in parte motivato, in parte
dovuto a ignoranza e presunzione.
Tuttavia,
le donne iraniane che dimostrano contro l’obbligo del velo;
i
migranti africani che sbarcano ogni giorno sulle coste meridionali dell’Europa;
gli
oligarchi russi e gli arrampicatori sociali asiatici che vogliono studiare e
fare business in Occidente sono attratti tutti dal nostro modello di sviluppo,
perché gli Uomini aspirano al progresso e alla libera realizzazione della loro
personalità.
La costante
mobilitazione in nome degli interessi dello Stato, di una religione o di una
«civilizzazione» non è una ragione di vita.
Perché
Putin vuole la guerra: una filosofia radicata a fondo.
Indipendentemente
da come finirà la guerra in Ucraina e da quanto tempo Putin resterà avvinghiato
al potere, dovremo confrontarci ancora a lungo con la visione del mondo della
Russia post-sovietica, poiché ha ingranato a fondo nelle teste dei decisori
politici e dell’opinione pubblica, in Russia e in parte anche in Occidente.
Perché
la guerra di Putin in Ucraina.
La
Russia non abbandonerà questa politica, se noi non ce ne difenderemo con vigore.
Dopo gli insuccessi militari di Kyiv e
Kharkiv, i russi hanno ritirato le loro truppe anche da Kherson.
E‘ una ritirata militare, ma non un
arretramento ideologico.
È bene sottolineare un principio che molti
politici occidentali sembrano non aver ancora recepito del tutto:
la
realizzazione della visione del mondo russa presuppone l’eliminazione
dell’Occidente come luogo d’origine della società aperta, poiché la dottrina
russa nega la validità universale dei diritti umani, che sono la base del
modello di sviluppo occidentale.
Per
raggiungere questo scopo, la Russia ritiene giustificato qualunque mezzo:
guerra militare, ingerenza nei processi democratici, ricatto energetico.
La guerra in Ucraina mostra quanto in fretta,
in tutto ciò, vengano superati i freni inibitori della morale, perché,
ricordiamolo:
«La
teoria multipolare è molto […] dura e aggressiva […]. Il mondo multipolare sarà
possibile solo dopo che il mondo unipolare sarà stato liquidato in modo
definitivo e irreversibile» – per citare ancora una volta la conferenza di Dugin.
Perché
Putin vuole la guerra: Ucraina e discorso del Valdaj.
«Il
pragmatismo trionferà. Prima o poi l’Occidente e i nuovi centri dell’ordine
mondiale multipolare dovranno parlarsi a pari livello, a proposito del loro
futuro comune.»
Per
concludere, un cenno allo sviluppo della guerra in Ucraina alla luce del
discorso di Putin al Valdaj.
Nel
suo intervento, il presidente russo ha dichiarato le sue intenzioni con
un’argomentazione passeggera ma pesantissima, che ho già citato poco sopra: «Il pragmatismo trionferà. Prima o
poi l’Occidente e i nuovi centri dell’ordine mondiale multipolare dovranno
parlarsi a pari livello, a proposito del loro futuro comune.»
Applicato
alla quotidianità concreta della guerra, ciò significa:
Putin
porta all’esasperazione gli ucraini e l’Occidente con attacchi missilistici,
terrorismo e tortura, nella convinzione che l’Ucraina e l’Occidente prima o poi
cederanno, vorranno negoziare e accetteranno la visione del mondo russa per
pragmatismo.
I cosiddetti «pacifinti» occidentali – i
partiti populisti, i leader d’opinione filorussi, la Chiesa cattolica – che si
ergono contro il sostegno e le forniture di armi all’Ucraina, condividono la
stessa convinzione di Putin.
Il
discorso del presidente russo al Valdaj ha portato brillantemente alla luce
come la guerra d’Ucraina sia solo una parte di un’aggressione che è rivolta a
noi occidentali come difensori della modernità.
Se vogliamo portare in salvo i valori del nostro
modello di società oltre la «nuova frontiera,» dovremmo confrontarci seriamente
con la visione del mondo russa, perché è nociva per noi.
Purtroppo
non lo stiamo facendo.
Cinguettiamo sui rami dell’albero, mentre la Russia
colpisce energicamente con l’ascia il tronco della società aperta.
Sulla
guerra in Ucraina circola un detto che gli ucraini hanno elevato a motto della
loro lotta resistenza:
«Se la
Russia smette di combattere, non ci sarà più guerra; se l’Ucraina smette di
combattere, non ci sarà più l’Ucraina.»
È una
verità parziale.
La verità completa è che se l’Ucraina e noi stessi
smettiamo di combattere, non ci sarà più né l’Ucraina, né il modello di
sviluppo della modernità.
Dal
Fordismo al neoliberismo globalizzato.
Critica
no global e sovranità alimentare.
Transform
- italia.it – (07/07/2021) - Alessandro Scassellati – ci dice:
Negli
ultimi quattro decenni il processo di accumulazione capitalistico ha cambiato
pelle, passando da un regime Fordista-Keynesiano al neoliberismo globalizzato.
Tra la
fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, il movimento
internazionalista no-global o altermondialista ha articolato analisi critiche
del “pensiero unico”, del funzionamento e degli effetti del nuovo regime
neoliberista, sviluppando competenze e pratiche antagoniste condivise a livello
planetario.
Allora
il movimento è stato sconfitto, ma oggi, alla luce della pandemia da Covid-19 e
dei cambiamenti climatici in atto, appare necessario ripartire da molte di
quelle analisi critiche e soluzioni politiche ed economiche proposte.
Tra
queste ci sono senz’altro quelle relative alla questione della sovranità
alimentare.
Dalla
fine del Fordismo-Keynesismo all’egemonia neoliberista.
Alla
fine degli anni ’70, il secondo shock petrolifero – con il raddoppio del prezzo
del barile – a seguito della rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Ruḥollāh
Khomeini nel 1978-79 contro la monarchia dello Shah Mohammad Reza Palhavi e
contro il “Grande Satana” americano (esemplificata dalla crisi dei 52 ostaggi
sequestrati all’ambasciata USA per 444 per giorni, costata la rielezione al
presidente Jimmy Carter) e della disastrosa guerra tra Iran e Iraq, ha
contribuito a far arrivare l’inflazione al 14,8%, il tasso d’interesse fissato
dalla banca centrale americana (FED) al 19% e il prime rate al 20,5% negli USA
nel maggio 1981. L’intensificarsi delle criticità, contraddizioni, rigidità,
rendite di posizione e conflitti economici, sociali e politici avevano
ampiamente inceppato il processo di accumulazione del capitale, fatto esplodere
la competizione inter capitalistica in presenza di una crisi di
sovraccumulazione di capitali e sovrapproduzione di merci, arrestato il
dinamismo del sistema capitalistico e mandato in crisi la struttura sociale
dell’accumulazione Fordista-Keynesiana che si era via via consolidata nel
dopoguerra nel mondo occidentale durante i “trenta gloriosi”.
La
crisi economica e sociale è sfociata in una grave crisi politica negli Stati
Uniti, incapsulata nel drammatico discorso sulla “crisi di fiducia” del
presidente Jimmy Carter nel 1979 e in un emergente consenso bipartisan
dell’establishment sulla necessità di abbandonare il keynesismo.
Carter
esprimeva un punto di vista sul “malessere della democrazia” che era stato
sviluppato a partire dai primi anni ’70 dalla Commissione Trilaterale –
un’istituzione élitaria fondata da David Rockfeller nel 1973, della quale
Carter aveva fatto parte, come altri uomini d’affari e politici americani,
europei e giapponesi di primo piano – e che era stato definito dal rapporto
elaborato da “Michel Crozier”, “Samuel Huntington” e” Joji Watanuki” col titolo
“La crisi della democrazia”.
Rapporto sulla governabilità delle democrazie
nel 1975.
È
stato a questo punto che si è sviluppata una potente doppia contro-offensiva,
una vera e propria “guerra di movimento” conservatrice, pro-capitalista e
anti-governativa, controllata da partiti tradizionali di centro-destra, portata
avanti da parte di:
grandi
imprese nazionali e multinazionali che hanno avviato una nuova ondata di
investimenti in nuove tecnologie, nuove aree geografiche e nuove forme
organizzative tese ad intensificare lo sfruttamento del lavoro umano,
riorganizzare le catene di approvvigionamento e del valore (supply and value
chains), incrementare la produttività e ridurre i costi (a cominciare da quelli
relativi a lavoro ed energia) che in breve hanno avuto effetti dirompenti sulle
relazioni e strutture di classe, sui livelli occupazionali, sulle relazioni
competitive tra imprese e sul coinvolgimento dei territori centrali e
periferici dell’economia mondiale;
forze
politiche e culturali anglo-americane più legate e sensibili agli interessi
delle grandi imprese che hanno avviato il sistematico smantellamento della
struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana, sostituendo il
keynesismo con l’hayekesmo, il neoliberismo, il monetarismo – dall’agosto 1979
il presidente della FED, Paul Volcker, ha imposto il rialzo del tasso di
interesse come mezzo per abbassare drasticamente l’inflazione – e abbandonando
unilateralmente l’impegno per la piena occupazione (nonostante il mandato
politico di piena occupazione sancito negli USA dall’Humphrey-Hawkins Act del
1978) per orientarsi verso la supply-side economics (una dottrina secondo cui
la performance economica dipende in gran parte dal mantenimento di basse
aliquote fiscali per ricchi e grandi imprese), sposando l’idea di ridurre la
disoccupazione attraverso la compressione dei salari invece che attraverso gli
investimenti pubblici, recidendo anche il legame tra salari e crescita della
produttività.
È
stata promossa un’ideologia, una filosofia politica neo-liberale contrassegnata
da una “fede” e una glorificazione dell’individualismo, della libertà di scelta
individuale, del “free enterprise system”, del “libero mercato” (la “mano
invisibile” di Adam Smith), della competizione senza restrizioni come
caratteristica che definisce le relazioni umane, della proprietà privata come
garanzia per l’iniziativa individuale, nonché da un visione dello Stato
keynesiano, roosveltiano o socialdemocratico come inerentemente nemico della
libertà individuale e dell’efficienza economica, perché produce benefici per
potenti gruppi di interesse (identificati soprattutto nei lavoratori
sindacalizzati) e distorce i prezzi, determinando dispotismo politico, una
diminuzione della crescita economica, maggiore inflazione e disoccupazione
attraverso un eccesso di offerta di moneta.
Pertanto,
secondo questa visione proto-anarchica e libertaria, lo Stato doveva essere
ridimensionato il più possibile (“starve the beast”), trasformato in uno “Stato
leggero” (downsizing) che idealmente, oltre ad intervenire contro i nemici del
mercato – nazionalismo economico e richieste democratiche -, avrebbe dovuto
assicurare poco più che la gestione monetaria finalizzata alla stabilizzazione
dei prezzi, la libertà del mercato (come garante del libero movimento di
capitali e profitti), la proprietà privata, la sicurezza, interna ed estera, e
la giustizia civile per risolvere le controversie.
Decenni
di politiche keynesiane socialdemocratiche avevano prodotto rigidità,
inefficienze, sprechi e una “casta” politico-burocratica che, sfruttando gli
ampi bilanci pubblici tipici di tali politiche, oltre ad aver dato vita ad una
classe media con una base economica relativamente stabile legata alla crescente
dinamica della spesa pubblica, aveva sviluppato dei comportamenti istituzionali
top-down sistematicamente inclini ad autoreferenzialità, cooptazione, corruzione,
clientelismo, affarismo, sprechi e incompetenza.
Allorquando
la crescita permanente della ricchezza, dell’occupazione e delle entrate
fiscali è rallentata e poi si è interrotta, questi comportamenti hanno finito
per erodere profondamente non solo l’equilibrio dei bilanci pubblici e il
rapporto tra cittadini e istituzioni, ma anche le politiche keynesiane stesse,
la percezione della loro efficacia socio-economica.
Il
diffuso affermarsi di questa “casta” e gli effetti negativi dei suoi
comportamenti hanno costituito il miglior argomento per tutti coloro che si
sono impegnati nello screditarla e nel rivendicare un ritorno a bilanci
pubblici striminziti e a un ruolo della pubblica amministrazione decisamente
secondario, accompagnato da un maggiore potere dei mercati.
Secondo
il credo neoliberista, il modo per garantire una maggiore crescita economica –
di cui avrebbero indistintamente beneficiato tutti, sia detentori di capitali
sia lavoratori – era quindi che il governo non si “intromettesse”, che facesse
il meno possibile direttamente, soprattutto nei campi dello sviluppo economico
e del welfare.
L’ampliamento dell’intervento pubblico nelle
questioni economiche sarebbe stato giustificato dal New Deal in avanti in base
a tesi “completamente insensate:
il fatto è che la Grande Depressione, come la
maggior parte degli altri periodi di grande disoccupazione, venne causata dalle
cattive scelte fatte dalle autorità e non da un’ipotetica instabilità
connaturata all’economia privata.
[…] quella che sarebbe stata una modesta
contrazione dell’economia divenne un’autentica catastrofe”.
È
importante, però, tenere presente anche la variante più realistica e pragmatica
del pensiero neoliberista, rappresentata dalla scuola tedesca ordoliberista
fondata da economisti come “Walter Eucken”, sociologi come “Alexander von
Rüstow” (che ha inventato il termine “Vitalpoliti”k, poi ribattezzato
“biopolitica” da Foucault), “Wilhelm Röpke” e “Alfred Müller-Armack” e giuristi
come “Franz Böhm” e “Hans Grossmann-Doerth”, dall’Università di Friburgo e
dalla rivista Ordo (fondata da “Eucken” nel 1948) che ha abbandonato la via
tradizionale del “laissez faire”, negando la capacità del mercato di
autoregolarsi e sostenendo la necessità di un forte interventismo da parte
dello Stato – uno Stato forte garante di un ordine competitivo, “ordinatore”
perché capace di usare la concorrenza come norma e strumento dell’attività di
governo – per assicurare che il libero mercato produca risultati vicini al suo
potenziale teorico.
La
doppia contro-offensiva economica e politico-culturale ha contribuito a creare
un nuovo ordine sociale e a ristabilire le condizioni favorevoli per
l’accumulazione del capitale (la crescita dello stock di capitale fisso a
seguito di una nuova ondata di investimenti), consentendo l’emersione di un
regime di “accumulazione flessibile”, definito come insieme del perseguimento
di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale
della produzione e delle catene del valore, del ritiro dello Stato-apparato
nazionale da politiche interventiste, insieme a deregolazioni e
privatizzazioni.
Sia pure con differenti configurazioni a
seconda dei diversi contesti nazionali, ha ripristinato il potere delle élite
economiche, ha eroso o annullato il compromesso socialdemocratico tra capitale
e lavoro che si era imposto dall’immediato dopoguerra, incarnato nella
contrattazione collettiva e nel progressivo equiparamento fra diritti civili e
diritti sociali che aveva consentito l’estensione del welfare e l’affermarsi
del paradigma Fordista-Keynesiano in Occidente fino alla prima metà degli anni
’70.
Il nuovo
regime ha fatto entrare il mondo in una nuova “onda lunga” espansiva:
la
fase storica della globalizzazione neoliberista che sul piano economico è
durata fino alla grande crisi finanziaria del 2007-2008 e sul piano politico
fino al terremoto iniziato nel 2016.
A
partire dalla seconda metà degli anni ’70, il neoliberismo ha rapidamente
acquisito lo status di un discorso e di un progetto egemonico perché è apparso
come la soluzione efficiente al problema di come stimolare un’economia in
ristagno.
È diventando la forma politica ed ideologica
dominante della globalizzazione capitalistica con il cosiddetto “Washington
Consensus”, un termine coniato dall’economista” John Williamson” e
caratterizzato essenzialmente da tre imperativi:
stabilizzare,
privatizzare e liberalizzare, ossia dalla convinzione che mercati liberi, libero scambio,
disciplina fiscale e liberal-democrazia fossero fattori necessari per far
crescere le economie e far rimanere stabili i sistemi politici.
Uno
scenario preconizzato da “Milton Friedman” fin dai primi anni ’60, all’apogeo
della “nuova frontiera” kennediana, quando era quasi ignorato e aveva sostenuto
che:
“Solo
una crisi – reale o percepita – produce cambiamenti reali.
Quando questa crisi si verifica, le azioni che
vengono intraprese dipendono dalle idee che si trovano in giro.
Questa,
credo, sia la nostra funzione fondamentale:
sviluppare
alternative alle politiche esistenti, mantenerle vive e disponibili finché il
politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”.
Friedman
e gli altri economisti neo e ordoliberisti erano consapevoli che le condizioni
che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, che
lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato e che
pertanto lo Stato (keynesiano) stesso dovesse essere riprogettato per sostenere
il libero mercato in modo costante e continuativo.
Sul piano politico, le amministrazioni di “Margaret
Thatcher” (1979-1991) e di “Ronald Reagan” (1981-1989), entrambi eletti grazie
al voto delle classi medie e popolari più conservatrici e all’appoggio aperto
dei settori più organizzati ed aggressivi del mondo della grande finanza ed
impresa, hanno “venduto” le idee di Friedman e degli economisti neo e
ordoliberisti all’opinione pubblica e indicato la strada da seguire alle altre
élites politiche – liberal-democratiche, socialdemocratiche,
democratico-cristiane – dei Paesi dello schieramento occidentale.
Si pensi, ad esempio, a “Helmut Kohl” (1982-1998)
in Germania, a Bettino Craxi (1983-1987) in Italia, ad “Aníbal Cavaco Silva”
(1985-1995) in Portogallo o al presidente francese “François Mitterand”
(1981-1995) che pur essendo stato eletto con un programma radicale di
trasformazioni in senso socialista dell’economia, che prevedeva
nazionalizzazioni, riduzione dell’orario di lavoro, abbassamento dell’età
pensionabile, aumento del salario minimo, etc., si era convertito
repentinamente al neoliberismo dopo la fuga di capitali e gli assalti
speculativi sulla moneta francese del 1983.
Il suo
governo – con al ministero delle Finanze “Jacques Delors” – ha eliminato tutti
i controlli sui movimenti di capitale, deregolamentato il sistema finanziario,
privatizzato le banche, mantenuto la Francia nel Sistema Monetario Europeo
(SME) e perseguito politiche di “austerità dal volto umano”.
Un’inversione
di marcia del centrosinistra francese che ha consapevolmente e deliberatamente
spezzato il suo tradizionale blocco sociale di appoggio, sganciandosi dalla
classe operaia, nella speranza di sostituirlo con un “blocco borghese” di
classi medie professionali e manageriali del settore pubblico e privato più
propenso alle riforme neoliberiste.
Lungi
dal resistere all’ulteriore neo liberalizzazione del progetto europeo, “Mitterrand”
lo ha promosso attivamente, vedendo nei suoi vincoli sulla politica fiscale,
monetaria e redistributiva un’opportunità per indebolire i comunisti – i suoi
partner di coalizione di una volta.
Una
linea politica che ha accelerato il declino delle fortune politiche di questi
socialdemocratici revisionisti.
Il
neoliberismo ha permeato anche le élites politiche di diverse nazioni
dell’Africa, del Sud e Centro America e poi dell’Europa centrale ed orientale.
La violenza è stata largamente utilizzata per
imporre il neoliberismo nel Sud del mondo.
Colpi
di Stato, guerre e invasioni sono stati i metodi usati per disciplinare classi
dirigenti recalcitranti e favorire l’apertura agli investimenti stranieri,
l’estrazione di risorse e la privatizzazione di beni pubblici.
Ma, il
mezzo principale per imporre l’agenda neoliberista è stata la “trappola del
debito”, con istituzioni internazionali come il FMI, la Banca Mondiale e la WTO
che hanno svolto un ruolo centrale nello spingere i Paesi in via di sviluppo e
post-comunisti ad adottare politiche di “aggiustamento strutturale” basate sul
ritiro dell’intervento statale dalla produzione e distribuzione come una
necessaria precondizione per la crescita economica.
La
prima delle ”rivolte contro il FMI” si è verificata a Lima, in Perù, nel 1976,
seguita da una escalation continuata durante gli anni ’80”.
Nel
1982 sono stati cacciati tutti i consulenti economici keynesiani da Banca
Mondiale e FMI, sostituiti da teorici neoclassici dell’offerta convinti che a
qualunque crisi occorresse rispondere con una politica di “aggiustamento
strutturale”, imponendo politiche di austerity a tutti i Paesi in difficoltà.
Questi
cambiamenti del paradigma egemonico hanno consentito di spostare l’equilibrio
delle forze in netto favore del capitale rispetto al lavoro, rimettendo in moto
il processo di accumulazione capitalistico, e di vincere la Guerra Fredda
(costata 45 milioni di morti nei vari teatri extra-occidentali dello scontro e
della “coesistenza pacifica” dal 1945), dopo un decennio di folle corsa agli
armamenti da parte di USA e URSS, portando alla caduta del Muro di Berlino il 9
novembre 1989, alla riunificazione delle due Germanie nell’ottobre 1990, alla
fine della vecchia sinistra social-comunista antagonista in Europa (che non
aveva ancora accettato il compromesso liberal-social-democratico) e alla fine
del “socialismo reale” in Russia con la sua economia interamente pianificata
entro le rigide maglie dello Stato, a seguito della bancarotta e
dell’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991 (definita da Reagan ”Impero del
Male” nel 1983).
Una vittoria che ha consentito di estendere il
modo di produzione capitalistico, impiantando il suo insieme strategico di
relazioni, all’intero globo.
Il
collasso del “socialismo reale” nell’ex blocco sovietico e l’accesso della Cina
all’economia di mercato internazionale hanno aggiunto circa 2 miliardi di
persone alla forza lavoro salariata globale.
Sono
stati aperti nuovi mercati di merci, servizi, capitali finanziari, forza
lavoro, materie prime e derrate alimentari per le grandi imprese
multinazionali.
Nei
Paesi Occidentali, inoltre, la vittoria sul “socialismo reale” ha portato le
classi dirigenti a pensare che fosse giunto il momento di intensificare
l’applicazione dell’agenda neo e ordoliberista e smantellare definitivamente il
compromesso socialdemocratico, abbandonando ogni forma di egualitarismo e di
redistribuzione della ricchezza e mettendo al centro della società e della vita
quotidiana il solo mercato.
In particolare, in Europa ha disincentivato
l’innovazione del modello di sviluppo socialdemocratico europeo e spinto ad un
suo ridisegno secondo i dettami dell’”ordoliberismo tedesco” basato sulla
centralità delle esportazioni, bassi salari, precarietà contrattuale, taglio
della spesa e degli investimenti pubblici, estromissione dello Stato
dall’economia reale, limitando la sua funzione alla “regolazione” del libero
gioco del mercato.
Una
vittoria apparentemente totale del binomio “neoliberismo-globalizzazione”, che
lo storico conservatore” Francis Fukuyama” ha tradotto nella formula della
“Fine della Storia”, titolo di un libro che ha avuto uno straordinario successo
editoriale globale e che vedeva nel modello politico, culturale e sociale della
democrazia liberale (liberalismo politico) realizzata nell’ambito del libero
mercato (liberalismo economico) il non plus ultra dell’evoluzione della civiltà
umana, la “forma finale di governo umano verso cui ora tutti i Paesi dovrebbero
convergere”, mentre gli oppositori dei contro-movimenti no-global la hanno
definita come la vittoria del “pensiero unico” (un concetto reso popolare dal
sociologo francese “Pierre Bourdieu”) in ossequio allo slogan preferito della
signora Thatcher: “there is no alternative” (TINA) ad un’economia di mercato.
Il
movimento no global e la critica della globalizzazione neoliberista.
Se
negli ultimi decenni la trasformazione capitalistica cinese è stata una delle
principali forze propulsive del processo di globalizzazione, movimenti di
critica internazionalista e di resistenza no global o anti-globalizzazione
neoliberista (di popolo, governativi, pacifici, radicali, violenti, armati e
terroristici) sono via via emersi in varie parti del mondo.
Tra la
fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio, in particolare, abbiamo
assistito ad un movimento di opposizione che ha reagito al salto di quantità e
di qualità nel processo di mercificazione globale indotto da un capitalismo
che, nello sforzo planetario di mettere in campo nuove merci e di accaparrarsi
nuovi mercati e ulteriori fonti energetiche o sfruttare fino all’osso quelle
esistenti, stava trascinando, in un processo senza precedenti di mercificazione
planetaria, anche settori e territori fino a poco prima estranei al conflitto
capitale-lavoro e al dominio del profitto privato, cercando di inglobare nel
mondo-merce i servizi pubblici, l’istruzione, la sanità, i trasporti, le
pensioni, la natura intera, il cibo, l’acqua, la vegetazione, le sementi e
qualsiasi potenziale fonte energetica.
Da
centinaia di milioni di contadini che all’improvviso si sono trovati
spossessati, oltre che dell’accesso alla terra, anche dei mercati locali per i
loro prodotti7, del diritto d’uso delle sementi8 o con i campi invasi da
colture OGM, a intere popolazioni derubate dell’acqua, divenuta da massimo bene
pubblico una fonte di profitto per voraci multinazionali, fino ai dipendenti e
agli utenti dei beni e servizi pubblici, impauriti dal tentativo, in Occidente,
di trasformare persino l’istruzione, la sanità e le carceri in fonti di
profitto.
A
Seattle, a fine 1999, in occasione della” Conferenza Ministeriale della WTO”
chiamata a ratificare la globalizzazione economica, migliaia di persone in
rappresentanza di un migliaio di organizzazioni non governative (ONG)
eterogenee e trasversali – sindacali, ambientaliste, religiose, degli
agricoltori, dei consumatori, delle popolazioni indigene, dei movimenti delle
donne, collettivi antagonisti – di 90 Paesi hanno protestato contro i piani di
espansione degli accordi di “libero commercio”, sostenendo che questo avrebbe
garantito la libertà delle grandi imprese di scandagliare il mondo alla ricerca
di lavoro a basso costo nel contesto di una assenza di restrizioni riguardo ai
diritti dei lavoratori e agli investimenti industriali e agroindustriali che
avvelenano l’ambiente.
A questi piani si contrapponeva la prospettiva
di un mondo più equo e solidale.
Un’idea
semplice univa insieme le diverse componenti della protesta (inclusi gli
anarchici violenti del “black bloc”) contro il summit della WTO di Seattle: che
“un altro mondo è possibile e necessario” e che la salute, i diritti e la
libertà degli abitanti del pianeta non devono essere sacrificati sull’altare
dei profitti di un ristretto gruppo di imprese globali.
Il meeting ufficiale della WTO è stato
influenzato dal movimento di protesta e le trattative in corso sono fallite.
L’esplosione
del conflitto verteva sulla contrapposizione fra le élite finanziarie e
governative, dotate di un potere su scala globale distante dal controllo
democratico e quindi dalla sua legittimazione, da un lato, e la galassia di
realtà associative, sindacali, contadine, indigene dall’altro, che
indirizzavano la loro protesta fisicamente contro entità spesso intangibili,
per quanto assai potenti.
Un contrasto fra la base della piramide
sociale, rappresentata dalla cittadinanza attiva e più critica, e il vertice di
quell’ordine neoliberista, che si era imposto come monocratico attraverso
accordi di vertice in riunioni a porte chiuse, a protezione degli affari
economici dal controllo popolare, dopo il fallimento dell’esperienza sovietica
e della sua disgregazione.
Al confronto fra Occidente capitalista ed
Oriente socialista, si era sostituta una relazione paradigmatica basata sullo
sfruttamento economico-finanziario “estrattivista” del Nord ricco su un Sud del
mondo sempre più impoverito.
Quello
di Seattle è stato il primo di una serie di incontri internazionali del popolo
no global – a partire dal “Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre” (gennaio
2001) organizzato in contrapposizione con il Forum Economico Mondiale di Davos
(il club dei globalisti) – in opposizione al crescente controllo dell’economia
mondiale da parte delle “global corporations”, accusate di detenere un potere
così forte da condizionare le scelte dei singoli governi verso politiche non
sostenibili da un punto di vista ambientale ed energetico, non rispettose delle
peculiarità locali e dannose per le condizioni dei lavoratori.
Il
movimento no global ha rappresentato la nascita di una società civile
internazionalista globale, che promuove l’universalizzazione dei diritti, la
giustizia sociale e un’economia delle persone, la democrazia partecipativa e
diretta, la valorizzazione dei beni comuni, il consumo critico, lo sviluppo
locale e globale sostenibile, la tutela dell’ambiente, il pacifismo e
l’antiproibizionismo.
Un
movimento che ha provato a mettere in pratica il motto del pensare globalmente
ed agire localmente e che ha prodotto anche una pratica globale coordinata ed
un processo di elaborazione di un pensiero critico, facendolo emergere da
dialogo tra culture, linguaggi ed esperienze locali.
In
particolare, i Forum Sociali, mondiali e continentali, da Porto Alegre, a Mumbai,
Nairobi, Caracas, Tunisi e in Europa Firenze (con almeno 500 mila persone
coinvolte nel novembre 2002), Parigi, Londra ed Atene, sono stati i luoghi dove
quel processo di comunicazione e condivisione della conoscenza si è realizzato.
Il “movimento
dei Social Forum “sviluppò una straordinaria capacità di analisi e di critica
del modello di sviluppo capitalistico, permettendo la circolazione di idee,
progetti conoscenze come mai era accaduto prima.
Un
processo di alfabetizzazione globale, che ha legato punte della ricerca con
l’elaborazione e l’organizzazione dei grandi movimenti, dal “Movimento Sem
Terra” (MST) brasiliano ai movimenti urbani di ogni continente, dai “Dalit” –
gli intoccabili, gli ultimi del sistema delle caste indiane – ai movimenti sindacali,
agli attivisti di” Occupy Wall Street”, del movimento degli indignados spagnoli
e delle Primavere Arabe.
Dopo “Seattle”
e “Porto Alegre”, nonostante la dura repressione poliziesca messa in atto a
Genova nel luglio 2001 – le cariche violente dei Carabinieri al corteo dei 300
mila del 21 luglio, aperto dallo striscione “Voi G8, noi 6 miliardi“, con
l’uccisione di Carlo Giuliani, gli orrori della “macelleria messicana” alla
scuola Diaz e delle torture alla caserma di Bolzaneto -, tanto da essere definita
come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale
dopo la seconda guerra mondiale” da parte di Amnesty International, e la svolta
securitaria, militarista, di militarizzazione degli spazi pubblici, di guerra
globale al terrorismo e per “l’esportazione della democrazia” impressa alla
politica internazionale dagli USA dopo l’abbattimento delle Twin Towers dell’11
settembre, Banca Mondiale e FMI non hanno potuto ignorare questo movimento di
protesta e hanno cominciato a dichiarare la loro preoccupazione per l’ambiente
e le condizioni dei lavoratori, anche se non sono state definite nuove regole
in grado di mettere in discussione il paradigma della globalizzazione
neoliberista e l’egemonia delle global corporations.
Nel
complesso, però, al “movimento di Seattle” e dei “Social Forum” è stato
rimproverato di aver finito col limitarsi a chiedere ingenuamente ai
responsabili della politica mondiale di divenire buoni, gentili e
collaborativi, di contrastare il potere crescente della finanza sull’economia
reale, di imporre la trasparenza al mondo bancario, di introdurre dei
correttivi per avere una globalizzazione “dal volto umano”, e quando questi
hanno fatto tutt’altro, di essersi progressivamente sfaldato e disperso in
mille rivoli privi di un vero collegamento e di un’effettiva attenzione
reciproca.
Da questo punto di vista, il canto del cigno
del movimento altermondialista è stata la giornata del 15 febbraio 2003 quando
quasi 100 milioni di persone in 800 città del mondo manifestarono contro
l’imminente (e poi realizzata) invasione americana dell’Iraq, nella più grande
protesta globale della storia (in quella occasione il New York Times definì il
movimento altermondialista “la seconda potenza mondiale”).
Da
allora, però, nel giro di pochi mesi, un movimento che aveva raggiunto in breve
tempo un’elevata capacità di mobilitazione in contesti anche molto differenti
per situazioni, posizioni e pratiche, sorretto da una corposa elaborazione
teorica e accompagnato da lotte di settore e territoriali, è imploso lasciando
campo libero al devastante dilagare di ideologie e politiche opposte.
I “Forum Sociali “si sono sciolti, incontrando
in sede locale ostacoli e contraddizioni e a livello nazionale un quadro
politico molto spesso sfavorevole. Mancando del potere contrattuale per sfidare
il capitale internazionale, incapace di produrre vertenze e ogni tanto anche di
vincerle, con il sopravvento di alcune pratiche (come l’autorappresentazione,
la professionalizzazione della solidarietà, la legalizzazione degli spazi
sociali, l’interlocuzione con le istituzioni non in termini di trattativa, ma
in termini di collaborazione),” il movimento no global” non ha ottenuto quasi
nulla e il “sistema economico globalizzato” è rimasto pressoché saldo fino ad oggi,
nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante e dopo la
crisi finanziaria del 2007-08 e la pandemia da Covid-19 attualmente ancora in
corso (2020-2021).
Uno
dei più importanti cavalli di battaglia del movimento no global (soprattutto
dell’associazione” Attac”) è stata la campagna per l’introduzione della “Tobin
tax”, una tassa mondiale sulle transazioni finanziarie, che era stata proposta
dal premio Nobel per l’economia “James Tobin” nel 1974, allorquando il processo
di finanziarizzazione dell’economia era ancora agli albori.
L’idea di Tobin era di introdurre uno
strumento di regolazione che avrebbe dovuto frenare la corsa verso
l’incontrollata espansione di un altrettanto incontrollato dominio della
finanza, soprattutto di quella costituita dai flussi di capitali speculativi a
breve termine.
Inoltre,
secondo Tobin, i proventi della tassa avrebbero dovuto essere impiegati nella
lotta contro la povertà.
Politici e studiosi mainstream hanno
combattuto accanitamente questa proposta, formulando ogni genere di obiezioni
tecniche sulla sua applicazione e sull’effettivo gettito che essa avrebbe
potuto produrre.
Alla
fine non se ne è fatto nulla perché è stato impossibile arrivare ad una
condivisione sulla sua applicazione a livello globale.
Sul
piano politico-culturale, però, il patrimonio di conoscenze di quella
straordinaria intelligenza collettiva che aveva saputo così prontamente dare
vita e animare i movimenti d’inizio secolo non è certo andato disperso.
È
ancora in corso un vero e proprio attacco alle fondamenta del “sistema”, alle
radici del “pensiero unico” e delle politiche neoliberiste che hanno reso
possibile la globalizzazione.
Una
messa in discussione che per anni è stata auspicata dai contro-movimenti
sociali popolari no-global o altermondialisti che sono scesi nelle strade e
nelle piazze – da Seattle negli USA a Genova in Italia, dal Zuccotti Park a New
York a piazza Syntagma ad Atene, da Puerta del Sol a Madrid e Plaça de
Catalunya a Barcellona a Tahrir Square al Cairo, da Pearl Roundabout in
Baharain a Avenue Habib Bourguiba a Tunisi, da Change Square a Sanaa in Yemen a
Gezi Park e piazza Taksim a Istanbul e a largo Majdan a Kiev – e protestato in
favore di un allargamento degli spazi di democrazia, partecipazione e giustizia
sociale, per la dignità collettiva e contro una globalizzazione senza regole e
le sue conseguenze dirette sulla vita degli Stati nazionali, delle società
locali, delle famiglie e delle persone, contro le crudeli e distruttive
politiche di austerità che hanno messo in crisi i welfare state nazionali,
contro lo strapotere del capitalismo finanziario, le liberalizzazioni
normative, le “dismissioni” che hanno mercificato i beni pubblici e le
delocalizzazioni industriali che hanno distrutto i mercati del lavoro locali e
nazionali, sgretolato le classi medie e popolari e disarticolato le economie
nazionali.
Negli
ultimi due decenni è stato soprattutto in America Latina, Africa e Asia che
sono emersi i movimenti sociali più avanzati di opposizione alle feroci logiche
estrattiviste e di espropriazione del capitalismo globale in termini di:
recupero
dei beni comuni, come nei settori del gas e dell’acqua in Bolivia e delle lotte
sudafricane per i servizi pubblici;
sviluppo
di nuove forme di proprietà collettiva, sia sotto forma di fabbriche gestite da
lavoratori in città argentine o di collettivi agricoli nella campagna
brasiliana;
sviluppo
di forme più partecipative e deliberative, come hanno fatto i movimenti sociali
nelle comunità urbane povere in Venezuela e in Sud Africa.
L’esperienza
di democrazia partecipativa realizzata nella città brasiliana di Porto Alegre,
da cui partì il movimento del “Social Forum” con i suoi 70 mila partecipanti
ufficiali, è stato uno degli elementi programmatici più discussi nei movimenti
di inizio secolo.
Un
progetto straordinario che vedeva l’ingresso dei cittadini, delle
rappresentanze di tutte le classi sociali, nel governo della grande macchina
urbana.
Sulla
scia di quella esperienza ancora oggi migliaia di cosiddetti movimenti civici
si mobilitano localmente (anche grazie alle opportunità offerte dai social
networks) in giro per il mondo per difendere la qualità della vita, l’ambiente
urbano, i beni comuni (ossia contro la costante degradazione delle risorse
pubbliche a causa del loro sfruttamento da parte dei diversi interessi
privati), i servizi pubblici e i diritti delle comunità locali.
Urbanizzazione e accumulazione di capitale
vanno di pari passo e adesso oltre la metà della popolazione mondiale vive in
città.
Pertanto,
le questioni relative alla vita quotidiana nelle aree urbane sono una fonte di
continue contraddizioni e conflitti.
Molti
dei principali movimenti sociali fanno leva su forze sociali di opposizione che
dal basso si battono per “diritto alla città” e contro le iniziative imposte
dal mercato o dalle istituzioni che possono generare gli effetti negativi e
destrutturanti che caratterizzano i processi di trasformazione urbana.
Per
questo nella maggioranza dei casi questi movimenti vengono bollati dai media e
i politici mainstream come semplici reazioni del tipo “NIMBY” – not in my
backyard.
In realtà, questi movimenti dimostrano
l’esistenza di società civili sempre più determinate e consapevoli a far
sentire la loro voce riguardo al perseguimento del diritto alla città e alla
qualità della vita urbana.
Negli
ultimi anni, questo tipo di attivismo spontaneo, reattivo, orizzontale e non
professionalizzato ha ottenuto importanti risultati in tanti contesti locali:
quando i cittadini, appartenenti alle classi
sia medie sia popolari, si mobilitano per una causa concreta, scoprono che
mettendo in comune le loro forze possono davvero cambiare le cose.
In
altre parole, come sostiene “Harvey”, ”il conflitto assume inevitabilmente la
forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei
mondi vitali”, dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti
affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività
politiche e i significati simbolici.
Molti
dei movimenti emersi, però, non hanno né la volontà né la possibilità di andare
al di là degli obiettivi concreti che si sono dati.
Solo
di rado passano ad occuparsi di politica in senso più ampio o a formare
alleanze con movimenti politici.
Ma, il fatto che movimenti simili esistano è
già una buona notizia.
Dimostra, infatti, che nonostante l’egemonia
esercitata dal binomio neoliberismo-globalizzazione, in giro per il mondo
l’energia collettiva non si è esaurita e che le richieste di un livello di vita
migliore e di cambiamenti politici non si fermeranno presto.
Una
delle più importanti conseguenze è che ormai sempre più le autorità locali si
rendono conto della necessità di dover dialogare con i cittadini.
Soprattutto nelle grandi città stanno
cambiando le dinamiche politiche e sta crescendo la consapevolezza del fatto
che, per risolvere i problemi, l’amministrazione comunale deve cercare di
collaborare quotidianamente con i cittadini attraverso consultazioni, dibattiti
pubblici e percorsi partecipati di progettazione o bilancio.
Le
lotte che riguardano questioni legate alla qualità della vita e alla quotidianità
non solo sono del tutto legittime, ma fanno anche da catalizzatore per un più
ampio processo di politicizzazione.
Le esperienze condivise creano quelle basi di
solidarietà e spirito collettivo che mancano a cittadini oggi molto spesso
depoliticizzati, privi di esperienza di mobilitazione e partecipazione
politica.
Il
superamento della separazione tra la sfera individuale, quella domestica,
quella civica e quella politica consente di promuovere azioni collettive e
rappresenta una vera sfida per società ormai sempre più sfilacciate e liquide,
rimaste chiuse da anni nella dimensione privata e dominate da sfiducia,
rassegnazione e diffidenza verso il concetto stesso di bene comune.
I movimenti civici che si sono imposti in
questi anni hanno dato voce al desiderio dei cittadini di avere una vita
migliore e hanno permesso di mettere le autorità locali di fronte alle loro
responsabilità. Inoltre, una volta che le persone hanno capito che unire le
forze porta risultati concreti, trovano sempre altri motivi, altre cause per
cui vale la pena battersi e tornare a mobilitarsi collettivamente.
Negli
ultimi anni, un tema all’ordine del giorno dei movimenti sociali in Europa,
come altrove nel mondo, è stato quello relativo del riscaldamento globale.
Il movimento di disobbedienza civile e di
resistenza non violenta “Extinction Rebellion” (XR) e il clamoroso fenomeno
mediatico della 16enne attivista svedese “Greta Thunberg” hanno avuto il merito
di imporlo nell’agenda politica (a livello sia nazionale sia continentale).
Si
sono mobilitati milioni di adolescenti europei che hanno partecipato ai
cosiddetti “Fridays for Future” e anche a due scioperi globali del clima (15
marzo e 24 maggio 2019) rivendicando che la vera priorità europea (e non solo)
è proteggere l’ambiente e agire subito per fermare i cambiamenti climatici.
I
timori del movimento no global sono perlopiù diventati realtà: lo strapotere
delle multinazionali e il neocolonialismo liberista sono ormai fenomeni sotto
gli occhi di tutti, confermati dalle pur timide reazioni anche di tanti
politici mainstream negli ultimi tempi.
Il
collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo
svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da
Covid-19 – effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della
vita animale – dimostrano quanto oggi abbiamo bisogno di un radicale cambio di
rotta. Di una risposta/proposta autenticamente internazionalista, di pensieri
nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dal paradigma disegnato dall’ideologia
neoliberista con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato,
deregulation, consumi privati, servizi sanitari privatizzati, tecnocrazia e
meritocrazia.
La
pandemia ha reso evidenti tutte le fragilità di un modello che in molti
credevano essere immutabile, ha reso evidente il disastro ecologico e sociale
implicito nell’economia della crescita illimitata e incontrollata e ha quindi
minato molte certezze, ma il tempo della riflessione e della critica sembra
essere durato poco. Il campo è di nuovo occupato dal “pensiero unico” e
dall’affannosa ricerca di nuove promesse di “sviluppo” (spesso dipinte con una
leggera patina di vernice verde) da parte della politica mainstream e del
potere finanziario.
Oggi,
come a cavallo del millennio, il modello neoliberista deve essere messo a nudo
per spingere milioni di persone, attraverso i continenti, a scendere in piazza
per dire che un altro mondo è possibile e necessario.
C’è un patrimonio di esperienze e di idee
sviluppato del movimento altermondialista che è ancora a disposizione.
La catastrofe ecologica non è un’astrazione e
la ricerca di un nuovo modello di società sarà il tema dominante dei prossimi
anni, almeno per quella fetta di società che non si rassegna al disastro
annunciato e all’obbligo di acquiescenza prescritto dall’ideologia
neoliberista.
Molte
esperienze sono cresciute e si sono trasformate, nuovi movimenti sono nati e si
stanno sviluppando.
Sappiamo
che va condotta una lotta politica sul piano delle idee e facendo tesoro di
quanto imparato negli anni del movimento del “Social Forum”, occorre fare leva
sulla forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti e la generosità
delle persone.
Contadini,
imperi del cibo, GDO e oligopoli chimico-sementieri.
Uno
delle grandi questioni globali è oggi quella agricola, relativa alla produzione
di cibo.
Sappiamo
che nel 2050 sarà necessario dar da mangiare a oltre 10 miliardi di persone.
Oggi, nel mondo ci sono almeno circa 850
milioni di persone denutrite, mentre circa 2 miliardi di persone hanno problemi
di obesità (la maggioranza di questi sono poveri dei Paesi ricchi) e circa un
terzo del cibo globale viene sprecato (prima o dopo essere arrivato alla
tavola).
Occorre
preservare la salute umana, preservare l’ambiente e, in particolare, la
biodiversità e la qualità/fertilità dei suoli (che è in peggioramento,
mettendone in discussione la produttività), garantire equità e giustizia
sociale.
Sappiamo
che la produzione di cibo è responsabile del 30% delle emissioni di gas
climalteranti, utilizza il 40% della terra e consuma il 70% dell’acqua dolce.
Oggi,
si discute di una agricoltura più moderna, più conservativa, più naturale, ma
anche di una agricoltura più industrializzata e più tecnologica (la cosiddetta
“agricoltura di precisione”).
Su
tutti questi temi, oggi, sembra essersi aperto uno scontro più aspro che nel
passato.
In
particolare, sembra emergere una posizione che tende a confinare l’agricoltura
biologica a un settore nicchia, quando va bene descrivendola come una pratica
apprezzabile, ma troppo cara ed inefficiente dal punto di vista della
produttività, quando va male come una pratica esoterica ed irrazionale.
È bene
ricordare che ancora oggi è l’agricoltura contadina che sopporta gran parte,
circa il 70-80%, del peso di nutrire il pianeta.
Si
tratta di un’agricoltura fatta di micro-imprese individuali e familiari (il 94%
ha a disposizione meno di 5 ettari) in cui il lavoro è prevalentemente svolto
dal titolare, dai suoi familiari e conviventi e che coinvolge oltre 500 milioni
di famiglie nel mondo (circa 3,5 miliardi di persone, con 230 milioni di
famiglie in Cina e 90 milioni in India), utilizzando meno del 25% delle terre
agricole e quasi nessun combustibile fossile e prodotto chimico.
Questo
mentre il 70% di campi coltivati, allevamenti e frutteti nel mondo viene
gestito solo dall’1% delle aziende agricole, secondo le ricerche condotte da “International
Land Coalition”,” Oxfam” e “World Inequality Lab”.
Dagli
anni ’80, il controllo della terra è diventato molto più concentrato
(soprattutto in Europa e USA) sia direttamente attraverso la proprietà che
indirettamente attraverso l’agricoltura a contratto, il che si traduce in forme
di agricoltura intensiva ed industriale, in monocolture più distruttive e in
meno piccole aziende agricole coltivate con cura.
Fenomeni
che stanno accelerando il declino della qualità del suolo, l’uso eccessivo
delle risorse idriche e il ritmo della deforestazione.
I
piccoli agricoltori, gli agricoltori a conduzione familiare, le popolazioni
indigene e le piccole comunità sono molto più cauti nell’uso della terra.
Per
loro non si tratta solo di una questione legata al ritorno sull’investimento,
ma di cultura, identità e di lasciare qualcosa per la prossima generazione.
Si
prendono molta più cura della terra attraverso pratiche agro ecologiche e, a
lungo termine, producono di più per unità di superficie e distruggono meno.
Negli
anni ’60, il modello dell’agricoltura contadina è stato messo in discussione
dalla “Rivoluzione Verde”, promossa da governi nazionali ed organizzazioni
internazionali, che si basava su un “pacchetto di pratiche” che includevano i
semi di varietà ad alto rendimento (soprattutto per grano e riso), fertilizzanti
chimici e pesticidi, con irrigazione assicurata.
Grazie
all’introduzione di queste pratiche, Paesi come l’India sono diventati
autosufficienti per i cereali, ma questo ha portato alla contaminazione dei
suoli, all’impoverimento delle falde acquifere e alla monocoltura.
In
sostanza, ad un modello di agricoltura insostenibile.
D’altra parte, la Rivoluzione Verde ha
aumentato la produzione alimentare mondiale, ma non ha “risolto” il problema
della fame nel mondo.
Ma, è
soprattutto l’agricoltura industriale – quella realizzata dagli imprenditori
agricoli e dalle aziende dell’agrobusiness su grandi estensioni di terreni
arabili con molta disponibilità di acqua e con forti input energetici – che
sfrutta le risorse naturali disponibili del nostro pianeta in modo
insostenibile attraverso la strategia di sostituire il lavoro umano con
macchinari agricoli, agrochimica ed energia fossile e di allevare in modo
intensivo miliardi di suini, bovini e polli, si è trasformato in un vicolo
cieco in tempi di cambiamenti climatici, crescente inquinamento (di suolo, aria
e acqua), degrado ambientale, distruzione degli habitat, pressione demografica,
crescita dell’urbanizzazione, riserve petrolifere in diminuzione,
deforestazione e risorse naturali sovrasfruttate.
Secondo
l’analisi satellitare, negli ultimi anni sono stati distrutti milioni di ettari
di foresta pluviale tropicale incontaminata (per la maggior parte in Amazzonia)
per fare posto alla produzione di carne di manzo, cioccolato, soia e olio di
palma.
Le foreste immagazzinano enormi quantità di
carbonio e abbondano di fauna selvatica, rendendo la loro protezione
fondamentale per rallentare la corsa del cambiamento climatico e evitare una
sesta estinzione di massa.
Oggi,
la piccola agricoltura familiare è sempre più vessata da norme e vincoli creati
ad arte per ridurre a rassegnazione e silenzio.
L’agricoltura
contadina, infatti, è sempre più schiacciata sia dagli imperi del cibo e
dell’agrindustria formati da global corporations del calibro di Nestlè,
Cargill, Archer Daniels Midland, Louis Dreyfus, Bunge, Unilever, Coca-Cola,
Pepsico, Mondelez, Mars, Hershey, Kellogg, General Mills, Danone, Fonterra,
Friesland Campina, Associated British Food, McDonald’s, Kraft-Heinz,
Anheuser-Busch Inbev, Campbell, Heineken, Tyson Foods, Shuanghui, Del Monte,
Olam, McCormick, Lactalis, Cofco (China National Cereals, Oils and Foodstuff
Corporation) per citare alcune delle maggiori detentrici di brand
agroalimentari, sia dalle pervasive e proliferanti catene della grande distribuzione
organizzata (GDO) – 7Eleven, Walmart, Spar, Auchan, Carrefour, Tesco,
Sainsbury, Lidl, Rewe, Metro, Aldi, BiM, CBA, Ahold Delhalze, etc. – che si
garantiscono a loro volta i profitti a partire dalle materie prime veicolate
direttamente o trasformate dagli imperi del cibo.
Nei
Paesi ricchi, le catene della GDO controllano dal 90 al 95% del mercato dei
prodotti alimentari consumati, con centrali di acquisto, come la “Tesco-Carrefour”,
che fatturano 150 miliardi di euro.
Supermercati,
ipermercati, discount e altre strutture delle catene della “GDO” competono per
le quote di mercato con la moltiplicazione delle superfici di vendita, prezzi
permanentemente “bassi”, “fissi”, “scontati” o addirittura “sottocosto” che
pesano sui produttori (si veda Liberti S. e Ciconte F., Il grande carrello. Chi
decide cosa mangiamo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2019), condizioni di lavoro che
peggiorano e orari che si allungano alle 24 ore.
Qualsiasi
tipo di coltura prendiamo in considerazione, scopriamo che ci sono 4 o 5
aziende che controllano più della metà di quel mercato a livello mondiale.
Sono
queste grandi aziende che gestiscono il commercio internazionale.
Sono
loro a decidere cosa si deve coltivare.
Sono
sempre loro a plasmare i gusti dei consumatori finali in modo da promuovere il
consumo di quantità crescenti di alimenti sempre più ultra processati (cibi
pronti, barrette di cereali, “cibo spazzatura”, bevande gassate, etc.) che
rappresentano una minaccia per la salute in quanto sono una delle cause
principali della sovralimentazione e dell’obesità, ma che generano maggiori
profitti.
C’è
poi l’oligopolio delle sementi, dei pesticidi e dell’agrochimica (erbicidi
selettivi, fertilizzanti, etc.) formato dalla americana “Dow Chemical-DuPont”
(frutto di una fusione da 110 miliardi dollari), dalla sino-svizzera “ChemChina-Sinochem-Syngenta”
(frutto di una fusione da 43,5 miliardi di dollari nel maggio 2017 e
dell’acquisizione di due enormi produttori di fertilizzanti canadesi che poi
sono stati fusi per formare una nuova società, ora chiamata “Nutrien”), dalle
tedesche “BASF2 (Badische Anilin und Soda Fabrik) e “Bayer” che nel giugno 2018
ha acquisito l’”americana Monsanto” per 62,5 miliardi di dollari.
Le
autorità antitrust di 90 Paesi hanno dato il via libera all’acquisizione, anche
se la “Bayer” ha dovuto cedere a “BASF “attività nei settori delle sementi
(cotone, colza, soia e verdure), degli erbicidi e dell’agricoltura digitale
(che combina sensori, software e macchine di precisione e potrebbe rendere più
mirato l’uso dei pesticidi nel prossimo futuro) per circa 8 miliardi di euro.
Ora,
queste 4 global corporations controllano il 63% del mercato mondiale dei semi (nel 1981 c’erano al mondo ancora 7
mila aziende sementiere, mentre oggi sono sparite quasi tutte), sempre più brevettati e OGM, e il 72%
di quello dei pesticidi.
In
ognuno dei 5 principali rami dell’industria agroalimentare – agrochimica, semi,
farmaceutica per animali, genetica e macchinari agricoli – le 4 multinazionali più grandi
controllano oltre il 50% del mercato e sono quindi nelle condizioni di imporre
standard, varietà e modalità di coltivazione.
In
Europa, detengono i diritti del 72% delle varietà dei semi di pomodoro
coltivati, del 95% dei cetrioli e del 95% delle carote.
Inoltre,
questi giganti puntano sull’innovazione assistita dalle tecnologie digitali,
investendo nella ricerca di nuove applicazioni e metodiche (agricoltura di
precisione, stalle robotizzate, cristallografia delle piante, editing genomico con tecnologia Crispr, etc.), ma anche di nuovi spazi di
coltivazione (colture idroponiche, zeoponiche, su lana di roccia o cristalli
polyter, etc.) che rendono irrilevante il fattore terra, potendo così scegliere la
localizzazione in funzione della convenienza economica.
La
“banda dei 4” riesce a sovvertire attivamente ricerca e risultanze scientifiche
per promuovere prodotti e profitti, come hanno mostrato i cosiddetti “Monsanto
Papers” e il processo in cui una giuria californiana ha riconosciuto la
Monsanto responsabile di aver causato il cancro ad un giardiniere che per anni
ha utilizzato i prodotti erbicidi a base di glifosato con marchi Roundup e
Ranger Pro, condannandola a pagare 289 milioni di dollari di danni, poi ridotti
a circa 80 milioni.
Dalla sua parte l’azienda ha la “Environmental
Protection Agency “(EPA) e il Dipartimento di Giustizia americano che continuano a negare che il
glifosato possa causare il cancro.
In
ogni caso, la nuova Bayer-Monsanto ha patteggiato un accordo da 10,5 miliardi
di dollari per risolvere circa 95 mila cause simili, ma ne rimangono aperte
altre 25 mila.
Tra
risarcimenti, spese legali e multe, “Bayer” rischia di dover pagare altri 5
miliardi di euro, mentre in Borsa il titolo ha perso oltre 40 miliardi di
valore tra il 2018 e il 2019.
Per
fare fronte alle spese, “Bayer” ha deciso di vendere ad “Elanco” il ramo
d’azienda che si occupa della salute degli animali per 7,6 miliardi dollari.
Come
sostiene l’attivista indiana “Vandana Shiva”, la difficile condizione e la
resistenza delle popolazioni contadine sono un avvertimento che se non c’è la
sicurezza del diritto alla terra e la sicurezza del diritto ai semi, la
colonizzazione delle campagne del mondo da parte dell’agricoltura industriale e
degli imperi del cibo costituisce una grande minaccia per l’esistenza umana
perché rappresenta una delle principali cause del cambiamento climatico.
Agricoltura
industriale, imperi del cibo, GDO e oligopolio dei semi e della chimica formano
un complesso industriale agricolo fortemente energivoro, spinto dalla ricerca
del profitto, che ha interesse a procurarsi le materie prime ovunque nel mondo
si trovino ai prezzi più bassi (speculando anche sulla loro volatilità) per
utilizzarle come ingredienti per varie tipologie di alimenti.
Ma,
noi sappiamo che per ogni prodotto ci sono grandi differenze:
i 12
litri di latte di una vacca Bruna Alpina che trascorre buona parte dell’anno al
pascolo e i 40 litri di latte di una Frisona rinchiusa in un allevamento intensivo
portano lo stesso nome e soprattutto vengono pagati lo stesso prezzo.
Inoltre, poiché il più delle volte si tratta
di materie prime deperibili, si deve trovare il modo di farle viaggiare in
fretta e di farle durare a lungo.
Ad
esempio, con il latte viene adottato il sistema di “termizzarlo”, pastorizzarlo
o di ridurlo in polvere per poi ricostituirlo, ma con l’aggiunta di additivi,
emulsionanti, aromi e correttori, per cui il prodotto industriale finale non è
certo uguale a un formaggio fatto con il latte “crudo”.
La “GDO”
è un attore che, governando i flussi dell’intera filiera agroalimentare, ha
contribuito in maniera strutturale alla costruzione di un mondo che dà ai
consumatori la percezione che qualsiasi cosa vogliano mangiare sia sempre disponibile,
che sia accettabile la standardizzazione dei prodotti, e che siano garantite
l’efficienza (derivante dalle economie di scala) e la sicurezza
igienico-sanitaria.
La GDO
offre anche il parcheggio per le macchine e il carrello per spostare comodamente
la spesa.
Il bar code che, attenuando le code alle
casse, fa toccare con mano al consumatore l’efficienza della supply chain.
Tutti elementi che plasmano e strutturano
l’immaginario del consumatore.
La comunicazione supporta tutto questo, a
partire da canali mainstream, che ci inducono a pensare che questo è il solo
modo per soddisfare i fabbisogni alimentari.
Le
interazioni tra gli attori della GDO, attraverso il bar code, sono orchestrate
grazie ad un’infrastruttura informativa specifica che permette, una volta
raccolte le informazioni sui consumi tramite le casse, di generare
automaticamente i riordini ai produttori.
Il
tutto tramite un sistema di trasporto e logistico, con centri di smistamento
ampiamente automatizzati.
Le
carte fidelity raccontano le abitudini di consumo e molto altro sugli utenti,
consentendo di orientare marketing e comunicazione in modo da contribuire ad
aumentare la pervasività ed efficacia dell’intero ecosistema.
Questo
crea abitudini che strutturano i comportamenti di tutti gli attori economici
della filiera agroalimentare che, lavorando in un processo così codificato,
arrivano a considerare una minaccia tutto quello che li porta a dover fare
azioni diverse.
L’idea
che il consumatore non debba rimanere senza cibo e che possa mangiare quello
che vuole quando vuole, porta a concepire il territorio agricolo come
un’immensa piattaforma nella quale viene prodotto tutto quello che si trova a
scaffale.
Si
tratta di un’abbondanza reale in termini quantitativi, visto il continuo
riapprovvigionamento degli scaffali, ma assai limitata in termini delle
differenze qualitative delle varietà.
La GDO è un attore rilevante di quell’economia
dei flussi che sta portando all’abbandono di tutto quello che non è
standardizzabile (come le piccole produzioni agroalimentari non intensive, non
industriali, di nicchia) e che contribuisce a promuovere la concezione di un mondo
agricolo caratterizzato da grandi spazi morfologicamente omogenei in grado di
produrre enormi quantità di poche varietà di materie prime che poi un tessuto
di trasformazione, ormai concentrato in pochissime mani, confeziona in modi che
danno la sensazione di sicurezza alimentare e rafforzano la percezione di un
alto grado di benessere.
Le strutture della GDO sono concepite come
strutture gerarchiche top-down che hanno un centro a cui fare affluire tutte le
energie in modo da assorbire una parte sempre maggiore del valore creato dai
coltivatori e trasformatori agroalimentari.
Gran
parte della ricerca nelle università è orientata a trovare i metodi più
efficaci per far viaggiare il cibo nello spazio e nel tempo, con diverse
conseguenze negative:
deprimere
i prezzi delle materie prime pagate ai coltivatori e allevatori; produrre cibo
sempre più elaborato (alimenti che tendono ad essere a basso contenuto di
nutrienti essenziali, ma ricchi di zucchero, olio e sale e suscettibili di
essere sovra consumati) che contribuisce alla diffusione dell’obesità, del
diabete e di altre malattie legate all’alimentazione;
aumentare
i rischi della contaminazione del cibo;
introdurre
nell’alimentazione additivi (conservanti, coloranti, edulcoranti, dolcificanti, grassi,
sali, etc.) di cui non si conoscono le interazioni e gli effetti sulla salute umana a
lungo termine.
Il
forte sbilanciamento del potere decisionale e contrattuale verso gli ultimi
anelli della filiera agroalimentare, porta ad una distribuzione del guadagno
tutt’altro che equa. Il sistema produttivo alimentare è fortemente squilibrato:
chi produce guadagna poco, chi consuma spende molto e in mezzo c’è chi – gli
imperi del cibo e della GDO – spende poco e guadagna molto.
Ogni
passaggio ed intermediario presente lungo la catena del valore porta ad un
rincaro del prezzo finale proposto poi al consumatore.
La materia prima prodotta da coltivatori e
allevatori non viene valorizzata per la qualità e le peculiarità
organolettiche, ma in base agli standard imposti dal mercato vigente.
Il
valore aggiunto di questo processo è dato da fattori come la trasformazione e
dalla capacità capillare di distribuzione.
Questo
significa che le aziende agricole sono diventate delle semplici fornitrici di
materia prima e che ricevono una frazione minima del prezzo finale pagato dal
consumatore.
La loro sopravvivenza dipende dalla quantità
di prodotto e dal prezzo che riescono a garantire.
Sono costrette, in concorrenza tra loro, a
tagliare i costi, aumentare le ore di lavoro, intensificare lo sfruttamento dei
terreni attraverso coltivazioni sempre più intensive, OGM e trattate
chimicamente, oppure allevare sempre più animali sulla terra o in giganteschi
capannoni (concentrated animal feeding operations), e usare prodotti chimici
per non farli ammalare, gonfiarli artificialmente ed ingrassarli, trasportarli (in molti casi vivi, imponendo loro
enorme stress e aumentando i rischi di una contaminazione sanitaria) in giro per il mondo per poi
macellarli in prossimità dei grandi mercati di consumo.
Molto
spesso i produttori agricoli, oltre a prezzi troppo bassi, subiscono
comportamenti non corretti – ritardi nei pagamenti, disdette di ordini mentre
stanno consegnando le merci, imposizioni di sconti sui prezzi, aste al doppio ribasso,
modifiche unilaterali e retroattive di contratti di fornitura.
La
filiera alimentare in Europa è fatta da decine di milioni di agricoltori e
centinaia di migliaia di imprese di trasformazione (con un ristretto gruppo di
giganti) che devono passare attraverso la strettoia di poche migliaia di
acquirenti (con un ristretto gruppo di giganti) che a loro volta rivendono a
centinaia di milioni di consumatori di tutti i Paesi europei.
Proprio per cercare di mettere fine a
comportamenti inaccettabili, la Commissione Europea ha approvato la “Direttiva
UE contro le pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare” (25 aprile
2019) che gli Stati europei dovranno recepire entro 2 anni.
Inoltre,
per cercare di proteggere i piccoli e medi agricoltori locali, otto Paesi
membri dell’Unione Europea – tra cui Grecia, Finlandia, Lituania, Italia e
Francia – hanno varato programmi nazionali di etichettatura obbligatoria di
origine delle materie prime alimentari, principalmente latte, carne e cereali
utilizzati negli alimenti trasformati.
Tali
etichette obbligano i trasformatori a dimostrare, ad esempio, che il grano
usato per fare la pasta venduta in Italia è prodotto in Italia e non in Canada
o Ucraina.
Gli
oppositori di tali programmi affermano che queste misure rappresentano forme
subdole di protezionismo che distorcono il mercato, esortando i consumatori a
scegliere di acquistare prodotti locali (che è in effetti l’obiettivo per cui
sono state introdotte).
La
strategia sulla sostenibilità al 2030 della Commissione Europea (From Farm to Fork e Biodiversità
2030), che prevede di valorizzare biodiversità e settore agroalimentare
nell’ambito del Green Deal europeo, ha posto come targets una riduzione del 50% dell’uso dei
fitofarmaci in agricoltura, del 20% dei fertilizzanti, del 50% dei consumi di
antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura e un incremento al 25% delle
superfici coltivate a biologico, oltre all’ulteriore estensione dell’etichetta
d’origine sugli alimenti.
Bruxelles
punta anche a raggiungere una quota di almeno il 30% delle aree rurali e marine
europee protette, e a trasformare il 10% delle superfici agricole in aree ad
alta biodiversità.
Ma, questa
strategia è stata in gran parte affossata da Parlamento e Consiglio Europeo che
hanno messo insieme proposte per la “Politica Agricola Comune” (PAC) ancora
rivolte a massimizzare la produzione e i profitti dell’agricoltura industriale,
slegando l’erogazione di gran parte dei sussidi da obiettivi ambientali.
La
lotta per la sovranità alimentare.
Uno
dei temi principali su cui si è sviluppata a partire dagli anni ’90 la lotta
contro globalizzazione neoliberista è stato ed è quello della sovranità
alimentare, ossia la rivendicazione in favore di un approccio che implica il
controllo politico necessario ad un popolo nell’ambito della produzione,
distribuzione e consumo del cibo.
Secondo
i sostenitori della sovranità alimentare, i Paesi (governi e parlamenti) devono
poter definire una propria politica agricola ed alimentare in base alle proprie
necessità, rapportandosi alle organizzazioni degli agricoltori e dei
consumatori.
I
sostenitori della sovranità alimentare si contrappongono sia allo strapotere
degli imperi del cibo, della GDO e degli oligopoli chimico-sementieri che
impongono il modello di agricoltura industriale sia al programma sul (libero)
commercio dell’alimentazione e dell’agricoltura promosso dall’Organizzazione
Mondiale del Commercio (WTO).
La sovranità alimentare, infatti, prevede che
vi sia un legame essenziale tra alimentazione, agricoltura, accesso alla terra,
ecosistemi, culture, e distribuzione del potere economico, valorizzando bio e
agro-diversità e il lavoro legato alla produzione alimentare nel mondo
realizzata secondo il modello dell’agroecologia.
Questo
sistema riguarda direttamente le popolazioni contadine e indigene colpite da
problemi di produzione e distribuzione del cibo, a causa l’adozione della
Rivoluzione Verde tra gli anni ’40 e ’70 del secolo scorso, delle politiche di
privatizzazione e appropriazione delle terre, dei cambiamenti climatici, dello
strapotere degli imperi del cibo, della GDO e degli oligopoli
chimico-sementieri, e dei percorsi alimentari perturbati che influiscono sulla
loro capacità di accesso alle fonti alimentari tradizionali e contribuiscono
all’aumento delle malattie.
Queste esigenze sono state affrontate negli ultimi
anni da diverse organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite (in
particolare dalla FAO), con diversi Paesi che hanno adottato politiche di
sovranità alimentare.
La
locuzione sovranità alimentare fu coniata nell’aprile 1996 dai membri di “La
Via Campesina”, un’organizzazione/coalizione internazionale di contadini,
durante la sua conferenza internazionale svoltasi a Tlaxcala (Messico), per poi
essere stata proposta in modo ufficiale durante il “Forum parallelo al World
Food Summit della FAO “a Roma, nel novembre dello stesso anno.
Il concetto di sovranità alimentare nasce come
proposta in contrapposizione al modello neoliberista del processo di
globalizzazione delle imprese, fornendo una chiave per la comprensione della
governance internazionale sull’alimentazione e l’agricoltura.
In
particolare, la sovranità alimentare è stata proposta in risposta sia al
termine “sicurezza alimentare “sia a quello di “diritto al cibo” utilizzati da
FAO, ONG e governi sui temi di alimentazione e agricoltura.
La Via
Campesina, introducendo il concetto di sovranità alimentare, ha individuato
sette principi basilari:
1) il
cibo come diritto umano fondamentale;
2) la
riforma agraria;
3) la
protezione delle risorse naturali;
4) la
riorganizzazione del commercio alimentare;
5) la fine della globalizzazione della fame;
6) la pace sociale;
7) il
controllo democratico.
Il Forum sulla sovranità alimentare del 2002
ha proseguito l’analisi di questi elementi, che sono stati poi sintetizzati
dall’International NGO/CSO Planning Committee for Food Sovereignty in quattro
“aree prioritarie” o “pilastri” per promuovere l’azione politica:
il
diritto al cibo;
l’accesso
alle risorse produttive;
il
modello di produzione agro-ecologico;
il commercio e i mercati locali.
Il
concetto di sovranità alimentare è stato adottato da diverse organizzazioni
internazionali, tra cui la Banca mondiale e le Nazioni Unite.
Nel
2007, al primo Forum per la sovranità alimentare a Sélingué (Mali), 500
delegazioni di movimenti contadini e organizzazioni della società civile,
provenienti da 80 Paesi, hanno adottato la “Dichiarazione di Nyéléni” che ne ha
fornito una definizione:
“La
sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente
appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il
loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli.
Mette coloro
che producono, distribuiscono e consumano cibo al centro dei sistemi e delle
politiche alimentari piuttosto che le richieste dei mercati e delle aziende.
Difende
gli interessi e l’inclusione della prossima generazione.
Offre
una strategia per resistere e smantellare l’attuale regime commerciale e
alimentare aziendale e dà indicazioni per i sistemi alimentari, agricoli,
pastorali e della pesca determinati dai produttori locali.
La
sovranità alimentare dà priorità alle economie e ai mercati locali e nazionali
e potenzia l’agricoltura guidata dai contadini e dalle famiglie, la pesca
artigianale, il pascolo guidato dai pastori e la produzione, distribuzione e
consumo di cibo basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
La sovranità alimentare promuove un commercio
trasparente che possa garantire un reddito dignitoso per tutti i popoli e il
diritto per i consumatori di controllare la propria alimentazione e nutrizione.
Essa garantisce che i diritti di accesso e
gestione delle nostre terre, dei nostri territori, della nostra acqua, delle
nostre sementi, del nostro bestiame e della biodiversità, siano in mano a chi
produce gli alimenti.
La sovranità alimentare implica nuove
relazioni sociali libere da oppressioni e disuguaglianze fra uomini e donne,
popoli, razze, classi sociali e generazioni.”
Questa
definizione sintetizza le rivendicazioni dei movimenti che, fin dagli anni ‘60
del secolo scorso, manifestano e agiscono contro le politiche e le pratiche
dello sviluppo perseguite dalle agenzie internazionali che nei decenni hanno
fatto del cibo un bene economico di scambio (una commodity);
contro
l’aiuto alimentare, considerato una forma alternativa di sovvenzione alle esportazioni
dei Paesi ricchi donatori; contro il monopolio commerciale delle multinazionali
dell’agribusiness;
contro
il potere degli Stati forti che sovvenzionano le loro agricolture.
Rappresenta un invito a tutti a prendere in mano la
propria relazione con il cibo, interrogandosi su cosa si mangia, cioè da dove
viene, cosa contiene, come è preparato il cibo.
Nel
2011, tale definizione è stata ulteriormente perfezionata dai Paesi europei,
dopo che movimenti, associazioni e cittadini avevano iniziato a riflettere in
forma collettiva sul cibo inteso non come merce, bensì come diritto
fondamentale, in piazza Rossetti nello spazio dell’AltrAgricoltura in occasione
del G8 di Genova, confrontandosi con leader internazionali come Bové
(Confédération Paysanne), Nicholson (La Via Campesina), Dos Santos e Vieira.
A
partire dal 2020, almeno sette Paesi hanno integrato la sovranità alimentare
nelle loro costituzioni e legislazioni.
Al
centro della sovranità alimentare ci sono le persone e non le politiche, i
mercati o le imprese: contadini, pescatori, popoli indigeni, popoli senza
terra, lavoratori rurali, migranti, allevatori nomadi, comunità che vivono
nelle foreste, donne, uomini, giovani, consumatori, movimenti ecologisti,
organizzazioni sociali.
Per
far in modo che tutte le persone possano avere diritto ad un cibo “sano,
nutriente e culturalmente appropriato” sono necessarie alcune condizioni di
partenza per le quali “La Via Campesina” sta lavorando insieme ad altre
organizzazioni di tutto il mondo:
la
gestione diretta dei sistemi e delle attività agricole da parte di contadini,
pastori e pescatori locali, cioè la possibilità di dare in mano a coloro che
producono gli alimenti l’accesso e la gestione delle terre, dei territori,
dell’acqua, delle sementi, del bestiame e della biodiversità;
il
ruolo centrale dell’economia e dei mercati locali e nazionali;
il
potere ai contadini, all’agricoltura familiare, alla pesca e l’allevamento
tradizionali;
una
maggiore attenzione alla produzione, distribuzione e consumo di alimenti nel
rispetto dell’ambiente, delle società e delle economie locali;
un
commercio leale e trasparente in grado di garantire a tutti un reddito
dignitoso;
la
possibilità per i consumatori di controllare la propria alimentazione e
nutrizione.
La
sovranità alimentare quindi punta sull’agricoltura familiare e sostenibile, ma
altrettanto sulla crescita della consapevolezza, della capacità di scegliere,
di poter esercitare un controllo sul proprio cibo e sulla propria alimentazione
sia a livello individuale che di comunità sociale, coerentemente con
l’affermazione di “Weldell Berry” “Mangiare è un atto agricolo”.
Si cerca di far crescere sistemi di produzione
e scambio secondo i principi del “commercio equosolidale”:
agricoltura
biologica, gruppi di acquisto consapevole, favorendo prodotti di stagione, a km
0, con il giusto riconoscimento economico ai produttori che agiscono al di
fuori della grande distribuzione, riduzione dei consumi energetici, orientati a
fonti rinnovabili.
Inoltre,
la sovranità alimentare si estende anche alla sovranità delle colture, intesa
come il diritto “di coltivare e scambiare diverse semenze in modalità open source
“, ossia senza pagare royalties alle multinazionali delle sementi.
Questo
diritto è strettamente connesso alla sovranità alimentare, poiché la pratica
del seed-saving è in parte un mezzo per aumentare la sicurezza alimentare.
Gli
attivisti sostengono che il risparmio delle semenze consente un sistema
alimentare chiuso che può aiutare le comunità a ottenere l’indipendenza dalle
principali aziende agricole.
Sostengono
che il risparmio delle semenze ricopre un ruolo importante nel ripristinare la
biodiversità nell’agricoltura e nella produzione di varietà vegetali più resistenti
al mutamento delle condizioni ambientali territoriali alla luce del cambiamento
climatico.
La Via
Campesina e le organizzazioni che la compongono lottano per ottenere una
modifica degli accordi commerciali di libero scambio in cui chi controlla è un’oligopolio
commerciale e finanziario composto da WTO, Banca mondiale, FMI e dalle
multinazionali che influenza i governi dei Paesi, in particolare di quelli meno
potenti che per rispettare le regole internazionali pregiudicano il benessere
delle proprie popolazioni.
A
questo si unisce la lotta contro la dominazione dei sistemi alimentari ed
agricoli da parte delle multinazionali e contro l’uso incontrollato di
tecnologie e pratiche distruttive dell’ambiente e dei gruppi umani (prodotti transgenici, acquacoltura
industriale, pesca distruttiva, agricoltura industriale e meccanizzata,
monoculture industriali per l’agro carburanti ed altre piantagioni, sequestro
di terre, etc.).
L’approccio
della sovranità alimentare è fortemente critico verso il progetto neoliberista
globalizzato e spinge a concentrare l’attenzione sul tema della governance
internazionale del cibo e dell’agricoltura e sulle cause politiche della fame e
della malnutrizione.
In tal modo incoraggia una discussione sullo
spazio politico che deve esistere per permettere la creazione di politiche
nazionali volte a ridurre la povertà ed eliminare la fame e la malnutrizione
che si oppongano a politiche internazionali basate esclusivamente sulla
deregolamentazione dei mercati.
Le chiavi per ridurre la fame e la povertà
rurale sono dunque individuate nella de-mercificazione del cibo e della
riproduzione sociale e in una maggiore attenzione verso lo sviluppo locale
rurale, dal momento che secondo le previsioni, anche nei decenni a venire la
maggior parte dei poveri vivranno nelle aree rurali.
L’approccio
della sovranità alimentare rappresenta in tal senso un importante contributo
alla discussione sulla questione alimentare che si origina dalle voci e dai
bisogni di coloro che quotidianamente combattono la fame e la malnutrizione.
Sovranità e diritto al cibo sono ridefiniti nella prospettiva delle comunità
locali attraverso il riconoscimento sostanziale dei diritti locali, indigeni e
comunitari al controllo delle risorse – terra, semi, acqua, credito, mercati,
saperi – per la produzione di cibo e alla definizione delle proprie scelte
alimentari.
La
sovranità alimentare si propone come un approccio per riformare i sistemi
alimentari locali, del Sud come del Nord del mondo, mettendo innanzitutto in
discussione il paradigma neoliberista, alla base del modello agro-alimentare
dominante, industriale, produttivista, monoculturale, estensivo, ad alto
contenuto tecnologico (con uso di OGM), orientato all’esportazione, incorporato
nelle catene di trasformazione e commercializzazione su larga scala controllate
dalle global corporations agro-alimentari.
I sistemi di produzione alimentare contadini,
di tipo familiare, tradizionali, su piccola scala, sono indicati come le
alternative da tutelare e promuovere, attraverso riforme agrarie, sostegni
diretti, subordinati alla transizione verso pratiche agro-ecologiche e
sostenibili, e poi con la protezione dei mercati locali, contro il dumping di
prodotti importati, garantendo prezzi stabili e remunerativi attraverso le
forme di organizzazione di mercato a filiera corta, di Green Public
Procurement, le diverse “reti agroalimentari alternative”, che coinvolgono
insieme produttori, consumatori e a volte attori istituzionali – gli AMAP in
Francia (Associations pour le Mantien de l’Agricolture Paysanne), le CSA
(Community Supported Agriculture) o la Community Food Security Coalition negli
USA e in Canada, i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e i Distretti di Economia
Solidale (DES) in Italia.
In essi, alla domanda di “cibo di qualità” sono spesso associati obiettivi di sviluppo, interessi ecologico-ambientali, bisogni di socialità.
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