La fine del nuovo mondo globalizzato significa la cancellazione dell’uomo.

La fine del nuovo mondo globalizzato significa la cancellazione dell’uomo.

 

 

Nuova destra e anticapitalismo:

oltre il complottismo.

 Osservatorioglobalizzazione.it – (22 AGOSTO 2019) - MATTEO LUCA ANDRIOLA – ci dice: 

 

Dopo la radicale parabola antimondialista degli Anni Ottanta, segnata in Italia dall’attività della rivista “Orion”, la nuova destra ha provato a superare numerose visioni di stampo complottista che avevano caratterizzato il suo pensiero cercando di sistematizzare e ordinare una critica di altro tipo.

Ce ne parla Matteo Luca Andriola nella terza parte del suo articolo sul tema pubblicato su “Paginauno”.

1 – Anticapitalismo e nuova destra.

2 – Il ruolo di Orion.

Le pubblicazioni della “Società Editrice Barbarossa”, contestando l’analisi complottista, inizieranno a identificare negli Stati Uniti il principale motore del mondialismo (contraddicendo così l’analisi di Guillaume Faye secondo cui tale processo di omologazione non presenterebbe “nessun ‘direttore d’orchestra’ più o meno occulto” che “anima l’insieme per mezzo di decisioni globali a lungo termine”), per il suo volere “la creazione di un unico governo o amministrazione (il Nuovo Ordine Mondiale), di un unico assetto politico, istituzionale e sociale (il liberismo), di un unico sistema di valori (individualismo-egualitarismo-dottrina dei Diritti dell’Uomo), e quindi di un unico insieme di costumi e di stile di vita (il consumismo) estesi a tutta la Terra e funzionali al dominio assoluto da parte delle forze politiche, economiche e culturali che lo incarnano: le élite della finanza mondiale!”.

Si attacca l’Occidente, un sistema americanocentrico (una centralità dovuta al fatto che la stragrande maggioranza delle multinazionali e le più influenti lobby finanziarie hanno la loro sede legale negli Stati Uniti), anche se i suoi centri d’irradiazione sono policentrici e sparsi in tutto il globo. Infatti, “le imprese multinazionali – oltre l’80 per cento dei casi a sede statunitense – dominano il mercato delle principali derrate di base e degli altri settori chiave (macchinari industriali e agricoli, fertilizzanti, elettronica, ecc.)”.

Gli ingredienti per la creazione di questo One World (il Nuovo Ordine Mondiale) uniformato all’American way of life sarebbero le “strutture tecno economiche, l’ideologia universalista e la sottocultura di massa che potremmo definire – sottolinea Faye – ‘americano occidentale’”.

 

Per Gabriele Adinolfi “tutte le ideologie moderne sono mondialiste, dal liberalismo al comunismo alla socialdemocrazia.

 E ciò non si limita alle ideologie moderne:

 possiamo anzi dire che il reale scontro ideologico che ha caratterizzato gli ultimi diciotto secoli della nostra storia sia proprio quello tra l’ideale di mondialismo e l’idea di universalità.

La divergenza fra questi è palese.

La prima concezione è tipicamente immanente, fa capo a un’organizzazione materiale al contempo super e trans partes che si traduce immancabilmente in un modello uniforme sul quale debbono appiattirsi, deformandosi e spegnendosi per forza di cose, tutte le singole individualità e collettività.

L’altra […] si fonda su di un’idea gerarchica e trascendentale rappresentata non da un apparato esclusivista (quali per esempio una Chiesa o il partito comunista) ma da un centro ideale che sia al contempo riferimento, fusione, sintesi ed elemento di trascendenza (quale fu a suo tempo l’imperatore o meglio l’idea di Impero) […]

Custodendo gelosamente le singole differenze come altrettanti patrimoni, l’universalità le unisce e le salda esclusivamente in un’idea spirituale trascendentale, non in un modello culturale totalizzante come pretende al contrario il mondialismo […]

 Il mondialismo è infatti il frutto di un’idea monoteistica, totalizzante, di filiazione diretta dall’Antico Testamento.

L’universalità, viceversa, è al contempo monistica e politeistica”.

 

Identificando nel monoteismo giudaico-cristiano la cultura principalmente responsabile della genesi del mondialismo, notiamo come il gruppo di Orion recuperi le suggestioni neopagane della nouvelle droite, però scevre da ogni rimando di tipo antisemita.

L’altra peculiarità del mondialismo è il rifarsi all’“ideologia universalista”, espletata “sia attraverso l’utopia cosmopolita e pacifista alla Emergency oppure tramite lo sbrigativo pragmatismo yankee alla Bush”, una “moderna religione” laica che fa sua la dottrina dei diritti umani, “la suprema espressione dell’Egualitarismo”, una “tendenza storica nata e affermatasi per la prima volta nella storia con il giudeo-cristianesimo e in seguito dispiegatasi storicamente nelle sue varianti laiche (democrazia liberale, comunismo, mondialismo ecc.)”, che impone una “morale presuntamente universale [che] fornisce l’armatura ideologica a un neo-colonialismo che al posto del ‘fardello dell’uomo bianco’ ha oggi come giustificazione un devastante cocktail di angelismo e ipocrisia. […]

 La distruzione dei popoli passa anche da qui, dall’imposizione a livello planetario dei ‘valori’ occidentali e dalla conseguente disintegrazione di ogni legame organico, di ogni tradizione particolare, di ogni residuo di comunità – tutti ostacoli alla presa di coscienza della nuova ‘identità globale’ da parte del cittadino dell’era della globalizzazione. […]

 rigettare la dottrina dei diritti dell’uomo non significa parteggiare per lo sterminio, per l’ingiustizia o per l’odio.

[…] Il riconoscimento dei diritti umani, di per sé, non fonda proprio nulla, se non quel tipo di giustizia e di libertà che, tautologicamente, si trovano espresse… nella dottrina dei diritti umani!

Malgrado il fatto che i sostenitori di tale dottrina continuino a pensare di aver ‘inventato la felicità’, occorre sostenere con decisione che un’altra giustizia, un’altra libertà, un’altra pace sono possibili.

Opporsi ai diritti dell’uomo significa rifiutare una morale, un’antropologia, una certa idea dei rapporti internazionali e della politica, una visione del mondo globale figlia di una tendenza storica ben individuabile”.

Nella visione liberale – ‘figlia’ dell’illuminismo e della rivoluzione del 1789 e ‘madre’ del mondialismo – l’uomo è solo un individuo e secondariamente è membro di una cultura/comunità.

 Nell’idea tradizionale l’uomo è concepito olisticamente come parte della comunità organica.

A una visione liberale fondata sui diritti dell’uomo, si contrappone una visione antimondialista fondata sui diritti dei popoli, delle etnie e delle comunità, incarnata dall’Euthereos, concezione indoeuropea dell’appartenenza, dove l’uomo è libero se è libera la sua comunità tradizionale:

“Al leitmotiv dei diritti dell’uomo noi opponiamo la visione sinfonica secondo cui siamo dei popoli che rifiutiamo di lasciarci considerare un gregge portato verso gli altari o verso i mattatoi della società mercantile […]

Per quanto sembrino lontani dalle nostre preoccupazioni materiali, è con la carne e con lo spirito dei territori, dei clan, delle tradizioni e delle patrie, delle comunità e dei gruppi intermedi che bisogna ricollegarsi, poiché sono loro che conservano al mondo le sue varietà, la sua densità organica, la sua poesia, e innalzano ancora arcipelaghi di resistenza nei confronti dell’Impero della ragione totalitaria ammantata di morale che favorisce, volente o nolente, la colonizzazione delle terre da parte dei soli interessi tecno-economici e la trasformazione dell’uomo in semplici relais-robot dei circuiti di produzione-consumo”.

L’etnocidio e la successiva costruzione di una società multietnica attraverso l’immigrazione e il melting-pot passerebbe dall’imposizione di un’etica universale che omologherebbe il tutto sotto un unico modello, edificato per gradi, “estirpando ogni precedente identità (e quindi differenza).

La cancellazione delle differenze è a priori trascendentale, la condizione di possibilità della ‘società’ multirazziale.

Ma con cosa riempire questo vuoto?

 Ricorrendo necessariamente a uno strumento astratto (e quindi ideologico). E allora: il diritto è la risposta;

 dunque accomunare ogni uomo attraverso il diritto”.

E se questo diritto nasce con la Modernità, il problema, quindi, è essa, tout court. In ossequio a Evola, uno dei testi più emblematici di Carlo Terracciano è” Rivolta contro il mondialismo moderno”, dove l’autore vede la tradizione come il baluardo contro la cosiddetta ‘sovversione’ mondialista, un atto “rivoluzionario” in quanto capace di contrastare il sistema che sovverte le naturali radici dei popoli.

Infatti, “se la conservazione è il contrario della Tradizione che è rivoluzionaria, la Sovversione, come tutti i fenomeni di ribellismo del mondo moderno, è una rivoluzione di segno contrario, una Contro-rivoluzione, sempre nel senso tradizionale del termine.

Essa infatti, nel momento stesso in cui pretende di distruggere le forme del presente (e questo è il suo aspetto più positivo) lo fa nel nome e nel segno della ‘modernità’, come categoria mentale e spirituale […].

La sovversione tende a ribaltare le forme del passato per conservare l’essenza del presente, cioè il modernismo antitradizionale, cercando così di arrestare il vero processo rivoluzionario che chiuda un ciclo e ne apra uno nuovo.

È insomma un’altra forma della conservazione […]. Nel mondo moderno, alla fine di un ciclo, ogni distruzione del passato e del presente è propedeutica al compiersi del ciclo storico medesimo”.

 

 

“IL TRANSUMANESIMO È IL NOCCIOLO DURO DELLA FUTURA CIVILTÀ CHE SOSTITUIRÀ L'ERA DELLE CIVILTÀ LIMITATE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO”.

IL MONDO CHE VERRÀ SECONDO “MICHEL ONFRAY”.

Dissipatio.it - Francesco Subiaco e Giovanni Balducci – (25 gennaio 2023) – ci dicono:

Il filosofo francese, di recente impegnato in un dibattito sul futuro dell'Occidente con Michel Houellebecq, parla di morte, di declino e della nuova, indesiderabile, prospettiva: quella del dominio della tecnologia sull'uomo.

Michel Onfray, tra i maggiori filosofi del panorama francese ed europeo, vive nel nostro tempo come un soldato nemico prigioniero in una nazione occupata. In piedi sulla cima del vulcano della nostra civiltà, pronto ad eruttare e trascinarci negli abissi della storia, Onfray osserva il mondo occidentale come una megera sfatta che si orna dei suoi antichi e svenduti gioielli, ricordi di un passato ormai tramontato e rinnegato, opponendogli lo sdegno classico di chi non confonde l’ultima moda del tempo con la verità ultima dell’eterno.

Come un antico patriarca dei mores maiorum, osserva un mondo pavido assordato dalle musichette dei suoi divertimenti ed accecato dai neon sfavillanti delle meraviglie della tecnica come una discarica coperta da rovine metalliche. Rovine di idee, di dogmi, di valori, di civiltà che ricoprono la vecchia Europa, che non sa più amarsi, ma solo risparmiarsi o rinnegarsi preda delle ideologie del piagnisteo e dei suoi facili quanto inutili miraggi.

Di fronte a questa sopravvivenza Onfray contrappone una visione antagonista, dissidente, eretica ispirata ad una visione del mondo che fonde l’ateismo e la nostalgia del sacro, l’edonismo e l’etica classica, la furia anticapitalista ed iconoclasta con una sete di assoluto che lo rendono un autore controverso, inattuale, proscritto, la cui voce, seppur a volte non condivisibile, non cessa mai di affascinare e stupire.

Una voce che ha sintetizzato questa protesta irregolare nei manifesti edonisti, nella sua “Breve enciclopedia del mondo”, in cui si racchiude la sintesi del suo pensiero (Cosmo, Decadenza, Saggezza), nella sua controstoria libertina, scettica e rivoluzionaria della filosofia (arrivata al suo nono volume “Coscienze ribelli”) componendo una bibbia ribelle, un breviario di insubordinazone al nichilismo e al mainstream, a volte anche con posizione estreme e non condivisibili, racchiuse nei suoi testi filosofici, editi dalla splendida “Ponte delle Grazie”, e dalla sua testata “Front Populaire”, su cui nel suo ultimo numero ha avuto uno storico confronto con Michel Houellebecq.

 Per meglio comprendere questo filosofo dissidente della cultura francese lo abbiamo intervistato mentre rileggeva le bozze del suo ultimo saggio sulla natura umana:” Anima”.

Email.

–Secondo lei il “movimento woke” può essere considerato la nuova “sovrastruttura” del neocapitalismo globale?

Sì, certo, è l’ideologia del postmodernismo che pone le basi di una civiltà nuova che prenderà il posto di quella giudaico-cristiana.

 Sappiamo che la Rivoluzione Francese, con la sua idea dell’”Uomo Nuovo”, espressione presa in prestito da San Paolo, portò le idee cristiane fino alla follia, pensiamo a “Chesterton”, che affermava “il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane impazzite”.

Queste idee del 1793 sono la malattia senile del cristianesimo, le idee del “movimento woke”, ovvero la malattia senile di ciò che era già una malattia senile. 

In questo senso il mercato liberale planetario lavora per la creazione di uno Stato universale con il suo governo mondiale.

Le “idee del woke” stanno contribuendo a minare la vecchia civiltà per preparare il terreno a quella che seguirà e che potrebbe essere la “civiltà” del transumanesimo a cui stanno lavorando i “GAFAM” (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) della costa occidentale degli Stati Uniti.

 Il capitalismo allora potrà diventare veramente universale, planetario e dominare il mondo in modo incondizionato.

 

-Dopo l’inizio del conflitto in Ucraina la causa sovranista e popolare è decaduta? Abbiamo assistito alla fine del populismo?

 

No, anzi abbiamo assistito alla sua sublimazione!

Abbiamo visto l’élite globalista fare l’elogio di tutto ciò che dice di odiare.

Difendere la nazione, la patria, la bandiera, l’inno, l’esercito, i confini, in una parola: la sovranità, ma dell’Ucraina!

Questo conflitto ha dimostrato che non è il nazionalismo a generare la guerra, ma l’imperialismo che definisce il nazionalismo espansionista.

Non è quindi tanto la fine del populismo che viene sancita da questa guerra quanto la sua sublimazione.

Paradossalmente, è Zelenski, un entertainer legato col capitalismo globale, a ritrovarsi ad essere il catalizzatore di questo ritorno del popolo, di questa creazione della nazione, di questa fondazione e di un’identità nazionale se non nazionalista.

 Altro paradosso, è questa stessa élite globalizzata che aggiunge a questo populismo ucraino la religione di una radicale xenofobia nei confronti di tutto ciò che è russo: non putiniano, ma russo! 

Dobbiamo quindi, dicono queste anime belle cosmopolite, universaliste, che difendono i diritti umani, odiare Dostoevskij, odiare Čajkovskij, bruciare Puškin, sputare su Eisenstein, gettare Cechov nella spazzatura, ecc. 

Anche mangiare sottaceti “Malossol” è diventato diabolico!

 

EDITORIALE.

La variante Zelensky.

Sebastiano Caputo

(18 Marzo 2022).

-Ci troviamo di fronte ad un nuovo scontro di civiltà?

 

L’assetto di una nuova Europa si gioca con questa guerra che contrappone due imperialismi:

quello degli Stati Uniti e quello della Russia con la spartizione di un’Europa fuori dai giochi.

 La Russia per il momento sembra essere partita male con il suo progetto e Putin non è tipo da perdere la faccia.

 Chi ha criticato le tesi di “Clash of Civilizations” di “Samuel Huntington” per preferire a lui “The End of History and the Last Man” di” Fukuyama2 ne sta facendo le spese:

questo conflitto è infatti un conflitto di civiltà che oppone due modi di essere cristiani dei tre esistenti: cattolico, protestante e ortodosso.

L’Ucraina unita si trova dalla parte dell’Europa protestante di Maastricht e degli Stati Uniti contro la Russia cristiana ortodossa:

 è il deismo liberale occidentale contro la teocrazia slavofila ortodossa.

Il culto dell’Essere Supremo contro il Dio Pantocratore.

-La tecnica e lo scientismo prospettano futuri avveniristici in cui l’umano sarà un ospite non richiesto e non gradito.

Come il transumano sta sconvolgendo la nostra civiltà, se di civiltà si può ancora parlare?

Ed esiste un rimedio verso queste maledizioni consumistiche?

Il transumanesimo è infatti il ​​probabile nocciolo duro della futura civiltà che sostituirà l’era delle civiltà limitate nel tempo e nello spazio, circoscritte ad aree geografiche in tempi limitati (Assur, Sumer, Babilonia, Egitto, Sciti, Grecia, Roma, Mesoamerica, Europa) con una civiltà planetaria, universale, estesa a tutto il globo, cioè lo Stato-totalità di Hegel, lo Stato totale di Carl Schmitt, lo Stato universale jungeriano. 

Lo smartphone, che è lo strumento di questo dominio, lo è già in tutto il pianeta, dai poli ai deserti, dalle megalopoli alle case isolate in montagna.

 Si tratta di reificare tutto, è l’imperativo categorico di questa civiltà che, per poter comprare, finirà per vendere o affittare tutto, compresi gli esseri umani:

 già vendiamo sperma come vino, ovuli come dolci, affittiamo uteri come auto e vendiamo e compriamo bambini come fossero maialini da latte;

stiamo già vendendo maternità surrogate neanche fosse il “Black Friday”…

 

Questa reificazione richiede la distruzione di tutte le frontiere:

tra Paesi, certo, solo è l’inizio, tra esseri umani in generale, ma anche tra uomini e donne, omosessuali ed eterosessuali, umani e animali, adulti e bambini, alunni e insegnanti, bianchi e neri, giovani e vecchi. 

La propaganda celebra l’ibrido, non solo per le auto, il che significa promuovere contaminazioni per raggiungere un cosmopolitismo integrale, se non integralista.

Ci abituano all’idea che il male sia un vecchio veicolo diesel, come metafora del mondo di ieri, oscurantista ed ecocida, irresponsabile e indicizzato sulla pulsione di morte, mentre il futuro, il futuro eco-responsabile e salvatore del pianeta, progressista e salvifico (uso volutamente il vocabolario del Vaticano…) sia comprare un “veicolo” ibrido – mentre il capitalismo esulta…

E finiamo per fare lo stesso con l’uomo vecchio, bianco, cattolico, di mezza età, eterosessuale diventato l’equivalente ontologico della vecchia auto diesel di cui bisogna liberarsi in nome di una creatura ibrida. 

A lunghissimo termine, forti di questa certezza astrofisica che il pianeta Terra scomparirà non a causa del riscaldamento globale ma a causa del futuro programmato del sole che esploderà entro cinque miliardi di anni, si presume che sarà necessario che gli uomini organizzino la loro sopravvivenza fuori da questo pianeta.

A questo stanno già lavorando i promotori di questa civiltà post-terrestre, tra cui oggi un certo “Elon Musk”, l’uomo più ricco del mondo.

 I capi del “GAFAM”, cioè i capitalisti che già hanno in pugno il pianeta regolando flussi di denaro, finanza, commercio, comunicazioni, potere, finanziano questa ricerca.

Le società di Elon Musk, Neuralink per il chip del cervello umano, Space-X per i viaggi fuori terra verso pianeti abitabili o stazioni orbitali autonome, e Tesla per l’intelligenza artificiale, il ​​progetto Hyperloop per i viaggi con propulsione a idrogeno, sono l’equivalente dei progetti che Cristoforo Colombo aveva a suo tempo di scoprire un Nuovo Mondo per sfruttarne le potenzialità, nel senso capitalista del termine.

Non vedo nulla che possa opporsi a questo movimento della Storia.

Nessuno Stato può, la stessa Nasa, l’agenzia spaziale statale americana, non può più andare sulla luna e delega questa missione a “Elon Musk” che paga… Con quale etica di resistenza?

 Ci sarebbe bisogno di una spiritualità per poterne costituire una e quale spiritualità potrebbe riuscirci? 

Dubito che nessuna delle grandi religioni planetarie potrebbe… Aspetto obiezioni, ma credo che il nostro futuro sia più che in 1984 di Orwell o ne Il mondo nuovo di Huxley, a “Celesteville”, la capitale del Regno di Babar, inventata da “Jean De Brunoff”, una città ideale dove tutto è fatto per la felicità di tutti!

Questo futuro è già in gran parte il nostro presente.

 

CAVI, CARTA, DATI.

Il teorema Elon Musk.

Davide Arcidiacono.

(01 Dicembre 2022)

-La sinistra USA è ormai diventata la compagna segreta del capitalismo oligarchico? 

Mi ritrovo perfettamente in questa definizione.

Da anni parlo di “maastrichtiani” per classificare la destra e la sinistra che stanno costruendo questa” Europa liberale” decisa dal” Trattato di Maastricht” del 1992, sottoposto a referendum in un clima incredibile di propaganda mediatica a favore di quella che si presentava come una misura sociale e politica da Eden:

 è stata promessa la fine della disoccupazione, della miseria, della povertà, della xenofobia, del razzismo, dell’antisemitismo, delle guerre. 

Non siamo arrivati ​​al punto di promettere la fine della morte, ma quasi!

A quel tempo, i promotori di questo progetto stavano vendendo un’idea.

Oggi, trent’anni dopo, questa idea è diventata una realtà che vediamo lungi dall’aver abolito tutta questa negatività: anzi l’ha accresciuta per produrre il nichilismo in cui viviamo! 

“Mitterrand”, salito al potere con idee di sinistra nel maggio 1981, le ripudiò nel marzo 1983 per adottare il progetto liberale ed europeista dell’uomo che aveva poi sconfitto, “Valery Giscard d’Estaing”.

Il popolo, deluso, trasmigrò verso il “Front National di Jean-Marie Le Pen” che “Mitterrand” strumentalizzava per spezzare in due la destra.

Dopo aver rinunciato al sociale, per distinguersi da certa destra liberale, aveva bisogno di un segno:

sarà il “societaile”, a cui Mitterrand chiederà di svolgere il ruolo che il sociale ha avuto nella narrativa della sinistra, un sociale sacrificato sull’altare del narcisismo e dell’egoismo, dei diritti civili e della globalizzazione di questo presidente che veniva dall’estrema destra e dal fascismo francese ma parlava la lingua della sinistra per essere eletto da essa.

Poiché la sinistra di popolo non ha funzionato perché godeva dell’oro del potere, essa ha saputo costituire un corpus ideologico alternativo.

 Ha quindi adottato il programma wokista dalle università americane.

Quello che ho chiamato “il popolo della vecchia scuola” è stato sostituito da un “neo-popolo” composto da minoranze presentate come il sale della terra socialista. 

La celebrazione dell’immigrazione ha permesso alla sinistra di passare per progressista pur difendendo il nocciolo duro dell’ideologia padronale:

 il capitalismo;

infatti, adora questa manodopera straniera non qualificata, poco attenta alle condizioni di lavoro, poco sindacalizzata, depoliticizzata, più attenta alla religione che alla rivoluzione.

Ancora oggi c’è chi si presenta come di sinistra difendendo la stessa linea dei datori di lavoro sull’immigrazione, e il peggio è che non lo trova sorprendente!

 

–Ti consideri un ribelle, un libertino, un anarchico?  E se è così, quali sono stati i maestri che hanno formato in te questa coscienza?

Sono un uomo libero che non ha più bisogno di etichette che sono tante stampelle che impediscono di camminare dritti… di arare dritti…

 Se dovessi ammettere un maestro, uno solo, anche se non ho mai fatto mistero su quanto “Nietzsche” e “Proudhon” abbiano contato nella mia formazione, contemporaneamente a” Lucrezio” e “Montaigne”, sarebbe… “Catone il Vecchio”, nostalgico di quelli che venivano chiamati Antichi Romani quando non esistevano già più.

Nell’antica Roma repubblicana, ma non imperiale, mi sento a casa.

 Quella di “Cincinnato” e “Muzio Scevola” non di Nerone o Caligola.

 

RECENSIONI.

Cronache di una società autoimmune.

Francesco Laureti

(20 Gennaio 2023)

-La morte è il grande tabù del secolo, il mondo del surrealismo capitalista secondo lei ha fatto della vita un feticcio della vita e della morte un vocabolo vietato?

La morte è il grande non detto della nostra civiltà al collasso e come nel caso di tutto ciò che non viene detto fa più rumore.

 In passato, la religione risolveva questo problema in modo immediato: la morte era solo un problema per coloro che avevano condotto una vita peccaminosa, al di fuori della religione.

 D’altra parte, per coloro che avevano speso la vita “morendo durante la vita” secondo i principi cristiani, l’ideale ascetico e la criminalizzazione della carne, il rigetto del corpo e il culto dell’anima immateriale, era la garanzia di una vita eterna in un corpo glorioso spogliato di ogni contingenza corporea.

La morte era dunque il castigo di chi aveva vissuto male.

Per coloro che avevano vissuto bene, cioè secondo i princìpi sanciti da San Paolo e che non avevano vissuto la loro vita quaggiù, c’era la certezza del paradiso.

 Per gli altri c’era l’inferno.

Questa visione delle cose non tiene più banco, anche presso certi cristiani che a volte interrogo, compresi certi sacerdoti devoti del Concilio Vaticano II:

Parusia, Giudizio Universale, risurrezione della carne, transustanziazione?

 Non credono più nella presenza reale del corpo di Cristo nell’Eucaristia, nell’immacolata concezione o nell’infallibilità papale!

Invocano la storia, il simbolo, l’allegoria per estromettere il sacro e la trascendenza e ridurre la loro religione alla moralità moralizzante di uno scout. 

Quando Papa Francesco si mette in posa davanti alla foto di un Cristo cui fa indossare il gilet arancione indossato dai migranti nell’attraversamento del Mediterraneo dal Maghreb all’Europa, dice chiaramente che il cristianesimo è per lui solo la cinghia di trasmissione dell’ideologia globalista. 

Da tempo, la morte è diventata un problema dissociato dalla sua soluzione religiosa, almeno in Europa.

 L’Islam è una religione potente che crede ancora nel paradiso e nell’inferno, e quindi in comportamenti terreni che rendono possibile ottenere la salvezza o la dannazione post mortem.

Questo è ciò che gli dà la sua forza, il suo potere e la sua efficienza politica, terrena.

Come risolvere allora l’enigma della morte senza l’aiuto spirituale di una religione trascendente?

Per un ateo come me basta la sapienza epicurea:

 Lucrezio ci parla della morte che non ci riguarda: se ci sono io non c’è, quando c’è non ci sono più, questa è una rappresentazione della morte che non riguarda il presente per non comprometterne le potenzialità esistenziali edonistiche.

Ma per gli altri che non sono a conoscenza di questa ipotesi filosofica?

Serve la negazione, la negazione, il rifiuto di affrontare il problema faccia a faccia. Di qui il ricorso a tutto ciò che maschera gli effetti del tempo:

 rompere una vecchia famiglia e una vecchia coppia per ricomporre una coppia con un compagno più giovane, pensando che ci renderà più giovani;

rifare con loro bambini che hanno l’età dei tuoi nipoti;

 tingersi i capelli, ricorrere al botox, vestirsi come un giovane, parlare la loro lingua, adottare i loro tic linguistici: “ci becchiamo”, “bella”!

 

Oltre alla negazione, possiamo indicare anche tutto ciò che rende possibile stordirsi, vale a dire praticare quello che “Pascal” chiama “divertissement”, ovvero il sesso facile, dalla pornografia ai luoghi di abbrutimento sessuale, passando per il poliamore compulsivo;

andare in discoteca con musica che ti stordisca per un ballo tribale durante il quale lo scambio verbale è proibito a causa dei decibel.

 Ma anche il consumo di droghe, alcol, pillole come il “DHB”, la “droga dello stupro”.

Aggiungiamo infine la dipendenza da giochi da schermo, tabacco, velocità, trasgressione, comportamenti azzardati in cui questa vita che sembra senza valore viene messa in gioco come una volgare somma di denaro al poker:

una roulette russa che corre a velocità eccessive in auto o in moto, bravate sui tetti di treni o in metropolitana, rischiando decapitazioni, cadute, mutilazioni.

Queste pratiche che cercano di ingannare la morte, è il caso di dirlo, fioriscono in tempi nichilisti e ne sono la massima espressione.

Il capitalismo ovviamente guadagna da queste strategie di negazione, intrattenimento e dipendenza:

 che l’individuo stordisca il suo corpo, il suo cuore, la sua anima, consumi, questo è tutto ciò che gli interessa.

Il capitale si nutre di questa “servitù volontaria”.

–Nel mondo dell’“euforia permanente” cosa significa per te essere un edonista?

E in pieno nichilismo e crisi dei valori religiosi cosa significa il tuo ateismo?

 Una domanda enorme!

Ho creduto già a partire da molto tempo, è stato un quarto di secolo fa, che la fine del cristianesimo richiedesse di proporre nuovi valori alternativi fondati sulla filosofia.

Così ho lavorato a questo progetto su basi etiche con” La sculpture de soi”, erotiche con “Théorie du corps amoureu”x, bioetiche con “Fééries anatomiques”, didattiche con” Antimanuel de philosophie”, politiche con” Politique du rebelle”, estetiche con “Archéologie du présent”.

 È un ciclo che definirei edonistico.

 In questa direzione ho lavorato anche alla decostruzione di un certo numero di miti della nostra civiltà giudaico-cristiana:

monoteismo con “Traité de athéologie”, psicoanalisi con “Le crépuscule d’un idole”, filosofia idealista con i dodici volumi della mia “Contre-Histoire de la philosophie”.

Continuo questo progetto con l’arte contemporanea in un libro di recente pubblicazione “Les anartistes”.

Sto anche lavorando a un progetto ateologico con una “biografia” di Gesù, in cui difendo l’idea che storicamente non sia mai esistito.

 È un ciclo, diciamo, demistificante.

Mi approccio a un ciclo di civiltà con “Décadence”.

 Questo libro fa parte di quella che ho chiamato con un po’ di ironia una “breve enciclopedia del mondo” perché ne sono stati pubblicati quattro volumi, ognuno di cinquecento pagine (Cosmos, Décadence, Sagesse, Anima, che esce tra due mesi) e altri due che sono in arrivo “Barbarie”, sul “transumanesimo” e “Esthétique”.

A tutto ciò si aggiunge la pubblicazione di “Patience dans les ruines”, libro dedicato alla meditazione dei sermoni di sant’Agostino sulla decadenza.

Un percorso però che mantiene una certezza: ero, sono e rimango edonista e ateo.

Ma non sfuggirà a nessuno che sono passati più di trent’anni da quando il mio primo libro è apparso nel 1989 e che il mondo è cambiato:

 la fine dell’impero sovietico, il crollo spirituale del cristianesimo, l’ascesa dell’Islam politico, la cancellazione dell’Europa giudeo-cristiana, la tirannia ideologica dell’Europa maastrichiana, la diluizione della sinistra socialdemocratica nel liberalismo di destra più scarmigliato e, in questi giorni, uno tsunami ideologico con il” wokismo” proveniente dagli Stati Uniti, che presuppone uno schietto nichilismo!

A meno che non si pensi al di fuori della Storia, senza di essa o malgrado essa, come un fanatico platonico innamorato delle idee pure, non si possono difendere le stesse idee allo stesso modo:

penso ancora che Dio non esista, che la religione aliena gli uomini da loro stessi, che l’ideale ascetico è un castigo esistenziale infondato, che l’invocazione di Dio si riduca sempre a una risposta del clero, ma penso anche che il cristianesimo non ha più il monopolio della religione in Francia perché l’Islam ha preso il sopravvento.

Ero e sono ateo, ma l’urgenza ora non è sparare a un’ambulanza.

Al contrario, credo che si possa difendere il cristianesimo senza essere credenti.

Ho decentrato il mio ateismo.

Continuo a pensare che la felicità sia il bene sovrano, quindi rimango un edonista.

Ma non credo che la felicità risieda esclusivamente nel ritiro egoistico e narcisistico, tribale.

 Il piacere è un affare privato, intimo e personale, ma credo che questa felicità debba essere condivisa e che sia quindi una questione politica.

 Nessuna felicità è possibile in un mondo devastato dalla legge della giungla.

 Le condizioni di possibilità politica della felicità ora mi interessano più della natura della felicità o della critica di ciò che vi si oppone, siano essi ideali ascetici, religiosi o filosofici.

Si possono sì criticare gli effetti deleteri dell’idealismo platonico e del suo ascetismo, ma possiamo anche formulare la domanda edonistica su come raggiungere la massima felicità per il maggior numero possibile?

Questa è la mia domanda di oggi.

Ho ampliato il mio edonismo, lo ho completato.

 

CAVI, CARTA, DATI.

L’illusione del metaverso.

Massimiliano Vino

(16 Dicembre 2022)

-Che immagine esce dell’Occidente dal suo confronto di 45 pagine su «Front Populaire» con “Michel Houellebecq?”

Michel Houellebecq e io siamo d’accordo nell’osservare che la nostra civiltà giudaico-cristiana sta crollando.

Tengo a precisare che mi sembra difficile, salvo grave cecità, non sottoscrivere questa semplicissima osservazione.

 Scuola, giustizia, cultura, polizia, esercito, sanità, editoria, cinema, letteratura, giornalismo sono in avanzato stato di degrado.

 Chi nega la realtà della decadenza è lui stesso un decadente, un prodotto della decadenza.

Divergiamo su alcuni punti: lui è contro l’eutanasia, io sono favorevole;

lui è per la pena di morte, io sono contrario; lui difende la caccia, io no.

Su altri siamo d’accordo: la critica all’Unione Europea, il rifiuto del mercato che detta legge, la necessità di una Frexit: siamo pochi nel mondo intellettuale francese a proporre questa soluzione.

Sulla questione dell’Islam ragiona in termini demografici, io in termini di lunga durata della civiltà, il che non è in contraddizione, è questione del lasso tempo su cui ci si ferma a riflettere.

Afferma che l’Islam opera per la distruzione della nostra civiltà, io invece penso che la nostra civiltà sia già distrutta e che l’Islam venga a stabilirsi sulle sue rovine: non distrugge, beneficia della distruzione.

Formulo l’ipotesi che “Michel Houellebecq” sia nella posizione ontologica di chi attende la grazia cattolica.

Non penso di ingannarmi dicendo che lui creda che il cristianesimo possa avere un ritorno di fiamma che consentirebbe la resistenza alla direzione presa della storia.

Da parte mia, non credo.

Difendo il cristianesimo da esteta, per di più da esteta ateo: sono come Plinio il Vecchio che pensa ai piedi del vulcano e muore tra le sue esalazioni tossiche.

 È finita, ma bisogna morire in piedi, come un romano, non piegare la schiena, non sottomettersi, né contribuire in alcun modo alla sottomissione.

Ci resta solo questo:

fare in modo che il nichilismo non ci attraversi sapendo che passerà. Paradossalmente, “Michel Houellebecq “è ottimista o meglio: ottimista quanto si può esserlo.

Quanto a me, non sono pessimista, io non vedo il peggio nella vita, ma vedo la sua natura più profonda: il tragico.

Cerco di vedere la realtà così com’è, e il reale non può essere altro che ciò che è, al di là del bene e del male.

Con speranza, Michel Houellebecq fa un passo verso Dio; nella mia concezione tragica, Dio non c’è.

(Intervista a cura di Francesco Subiaco e Giovanni Balducci)

        

 

 

La Transizione Energetica Serve

solo per Emancipare l’EU

dagli USA, sulla Vostra Pelle!

Conoscenzealconfine.it – (19 Luglio 2023) – Mittdolcino – ci dice:

 

Dimenticate le fesserie, “follow the money”:

 la transizione energetica è una follia gigante, che nasconde enormi interessi geopolitici ed oltre.

Ossia, quello che vediamo è tutto un enorme sforzo atto a forgiare un continente tecnicamente inesistente, lo stesso che ha inventato il feudalesimo, ha accolto gli ashkenaziti babilonesi ed ha partorito la guerra dei 30 anni.

Oltre al nazismo, l’ultimo nome dato ad un virus millenario…

Leggevo oggi un passaggio su” ilsussidiario.net”, un intervento di uno stimato economista, “Annoni”.

 A parte l’essere scontato in certi aspetti, emerge una perla, che vorrei condividere con voi:

“…Questa rivoluzione verde è strana: non si spaventa di un campo coltivabile ricoperto di pannelli solari, ma pretende la chiusura di un pozzo di gas a qualche chilometro dalle coste;

chiude il nucleare, che ha un consumo di suolo per energia prodotta ridicolo, ma lavora per la riapertura delle miniere;

vuole reinserire gli orsi nel loro territorio naturale e nel frattempo usa l’arco alpino o appenninico per l’estrazione del titanio o dell’alluminio.

Vuole che i fiumi siano liberi di scorrere e che si ripristino acquitrini e paludi, ma scava chilometri per tirare fuori nickel e argento.”

Capite il concetto, spero.

A parte confondere il fatto che non tutti hanno materie prime nel sottosuolo, c’è tutto.

Non è che questa rivoluzione Green non abbia senso, è che non vi stanno dicendo il motivo per cui accade:

soppiantare gli usa, ossia il dollaro, facendo spazio alla patria vera di Davos, l’EU.

I davosiani hanno in odio il mondo, la gente.

Lo “ius primae noctis”, fatto passare per un vezzo marchigiano di epoca, non a caso, feudale, in realtà nasconde una tragica realtà storica:

fu tradizione millenaria che il potente del luogo si portasse a letto ogni sposa, perpetrando la specie.

Tradizione che arriva dal solco Mesopotamico, sembra.

Come capite sembra esistere qualcosa di superiore.

Infatti, al di fuori dell’aspetto materiale, su tutti l’attacco agli USA in corso da parte di poteri internazionali incentrati a Davos, prima era il “Club di Roma” (a cui i militari USA stanno rispondendo con una guerra nel cuore dell’EU, che Putin sta tenendo congelata, senza vincere ne perdere, visto che è vicino a Davos anche lui…), ci deve essere un collante superiore che unisce questa masnada di apparentemente folli.

In realtà tutta gente in combutta.

Chiaramente, fa capolino la fratellanza, quella superiore, quella oltre le religioni, in quanto costoro ritengono di sapere – e forse sanno – che la genesi e la vita eterna sono qualcosa di esterno e superiore alla nostra amata terra.

È parimenti chiaro, come pubblicato da eminenti papers internazionali, che qualcosa di grande sta succedendo, nel cosmo.

Qualcosa che si ripete ciclicamente: non parlo di fesserie qualunque ma di “papers dell’Astrophysical JOURNAL”, che calcolano come probabile tale evento.

Chi vuole può seguire i lavori di due grandi scienziati di cui sentirete molto parlare in futuro, “Kat Volk” e “Ranu Mahotra”, dell’”University of Arizona”.

Resta un aspetto importante, che è dirimente:

i più grandi studiosi di cose sumeriche sono stati tedeschi francesi ed inglesi, direi soprattutto i tedeschi, anche i riti magici del nazismo non nascevano per caso.

 Su tutti vedasi la Deutsche Orient-Gesellschaft”, dedicata allo studio archeologico e filosofico del vicino oriente, memento gli “ashkenaziti” emigrati a “Worms”, in Germania (la patria non a caso del super-uomo ante litteram, Sigfrido, ndr); che parlano yiddish, che in fondo è tedesco.

Per dirvi, lo storico demone del film l’Esorcista, Pazuzu, non è inventato, una sua statua viene gelosamente conservata al museo del Louvre.

 Così come padre Amorth in una sua famosa intervista affermava che Hitler e membri nazisti fossero posseduti.

Un mondo complesso, a cui certamente qualcuno crede, visto che spende tanti soldi, da secoli, per avvicinarsi a verità oltre la nostra sfera.

Tutte strane storie, che sono difficili da conciliare con l’economia ed il caos attuale, fatto di vaccini che non necessariamente proteggono dalla malattia (ma con enormi effetti collaterali) e follie sociali al seguito tipo uccidere i bovini e trasformare in normalità comportamenti non fisiologicamente sostenibili in modo autonomo (cfr. procreazione tra persone dello stesso sesso).

Un po’ come fu quasi impossibile conciliare, ai tempi, il nazismo che distruggeva il ghetto di Varsavia ma che contemporaneamente salvava “il capo dei chabadisti”, “Manachem Mendel Schneersohn”, il rabbino ashkenazita prelevato dal ghetto e fatto fuggire nottetempo a New York con scorta nazista, mentre i semplici semiti della capitale polacca venivano trucidati con inusitata efferatezza.

Questo per dirvi che molte delle cose che vedete attorno a noi sono collegate, forse; solo che manca la “stele di Rosetta” per la comprensione.

Quello che vediamo oggi è una guerra, per ora non calda, in cui le élites dei vari paesi si scontrano:

in gran parte, la maggioranza, vuole l’America terminata, avendo esaurito il suo ruolo.

 Questo vorrebbe l’Europa.

La Russia, di per sé sana, forse è stata infiltrata fin dai tempi della fine di “Eltsin”, proprio dai tedeschi, per evitare il capitombolo di Mosca e la vittoria anglo.

Il futuro che ci aspetta sa di inflazione, di ricerca delle risorse, di nuove forme di energia.

 Per questo si manda in cantina il petrolio anticipatamente, sostituendolo con qualcosa che oggi non si può ancora dire.

Perché porta armi nucleari al seguito, una nuova forma di bombe, per altro già esistenti, a cui la Germania, ossia l’Europa, vorrebbe ufficialmente accedere in autonomia.

Dunque l’America risponde, con tensioni nel vecchio continente.

E l’EU, rintuzza, con gli attentati in Usa, mica penserete davvero che tutti gli incidenti a filiere produttive, là, siano causali…

La de popolazione, di cui temo i vaccini siano un “di cui”, sembra da inquadrare in un generale riequilibrio tra risorse disponibili in EU, tra consumatori in eccesso e produttori specializzati (…).

Più ci penso e più ritengo che il vecchio adagio di Orwell, con tre mondi geograficamente distinti in guerra perenne, possa avere un senso compiuto, prossimamente.

(Mittdolcino)

(mittdolcino.com/2023/07/15/la-transizione-energetica-serve-solo-per-emancipare-leu-dagli-usa-sulla-vostra-pelle/)

 

 

 

Metamorfosi della globalizzazione.

Il ruolo del diritto nel nuovo conflitto geopolitico

Laterza.it – (20-5-2023) - Alfredo D'Attorre -autore – ci dice:

 

Tramontata l’illusione di un mondo unificato pacificamente dall’economia di mercato e dall’esportazione della democrazia, l’interdipendenza globale richiede un nuovo equilibrio fra sovranità e diritto internazionale.

La fase dell’«iper-globalizzazione», come l’ha definita il grande economista “Dani Rodrik”, sembra ormai al tramonto.

La crisi finanziaria del 2008, l’inasprirsi della competizione fra Stati Uniti e Cina, la pandemia e la guerra in Ucraina costituiscono, infatti, altrettante tappe della profonda trasformazione dell’assetto politico ed economico internazionale delineatosi nei decenni precedenti, a partire dalla cesura del 1989.

 È tempo di pensare a una forma nuova di globalizzazione, fondata sul riconoscimento dell’interdipendenza e del pluralismo politico, giuridico e culturale.

Il diritto può svolgere un ruolo importante nello strutturare e stabilizzare questo nuovo ordine globale se esso viene concepito, oltre il paradigma del globalismo giuridico, come uno strumento più flessibile di negoziazione e accordo fra interessi geopolitici inevitabilmente divergenti e tra Stati che non rinunciano in toto alla loro sovranità.

(Alfredo D'Attorre)

(Alfredo D’Attorre è professore associato di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Salerno.)

 

 

 

 

LA GRANDE CANCELLAZIONE.

MEMENTO MORI.

Nuovogiornalenazionale.com – (08 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:

 

Aveva ragione “Jean Pierre Lyotard”, quando osservava – quarant’anni fa- la dissoluzione delle “grandi narrazioni”, la crisi dei sistemi di pensiero e dei progetti a essi ispirati, tipici della modernità.  

La chiamò postmodernità per segnalare una mancanza, un’assenza;

la modernità abbandonava i suoi presupposti e diventava postera di sé stessa, un manierismo in attesa di una nuova “narrazione” a cui affidare il futuro.

 Adesso il tempo della postmodernità è finito, sostituito da una potente moda culturale nel segno della cancellazione e della corsa al nuovo.

 Lo stesso progresso- motore dell’occidente- è soppiantato da una categoria che “Pierre- André Taguieff” chiama “bougisme”, il culto del movimento fine a sé stesso. 

La contemporaneità ha trovato il suo filo rosso.

La corsa a perdifiato del “nuovismo” ha due nemici, il passato in tutte le sue forme, e la natura, con le sue leggi, i suoi limiti, le sue invarianze.

 Colse nel segno anche Marx- su un piano diverso - teorizzando che il mondo “borghese” avrebbe allevato i suoi becchini.

 Infatti la cultura terminale post borghese- fattasi progressista dopo il Sessantotto – sega l’albero su cui è seduta.

La cosiddetta cultura della cancellazione- un ossimoro tra i tanti di un’epoca schizofrenica- celebrerà a breve il proprio funerale:

nessuno sopravvive al vuoto.

Il moto perpetuo è diventato il tratto caratteristico degli anni che ci sono toccati in sorte, unito all’intransigente volontà di farla finita con tutto ciò che fu e che è sempre stato.

L’uomo occidentale (o meglio la classe dominante e il ceto culturale di servizio) diventato Dio di sé stesso, è preda di una impressionante ansia di dissoluzione. Trascina la vita nell’immediatezza e nel capovolgimento.

 Il capitalismo globalizzato ha dichiarato guerra ad ogni residuo e simbolo permanente in modo che la forma merce   vampirizzi i suoi sudditi.

Il dominio assoluto coincide con l’eliminazione delle forme simboliche e dialettiche, un tragico algoritmo impegnato a trasformare l’umanità in schiava inconsapevole dell’unico linguaggio rimasto, la riduzione del vivente a merce.

Apparentemente, la cultura della cancellazione è la forma più potente di nichilismo compiuto.

  Destituisce ogni idea, principio ricevuto, civiltà in quanto espressione dell’egemonia degli sconfitti della postmodernità:

i maschi bianchi eterosessuali.

Di qui l’impulso irrefrenabile, teleguidato dall’alto, a distruggere simboli, statue, cancellare autori e parole (la “neolingua” politicamente corretta) riscrivere la storia, correggere la letteratura, rimuovere l’arte (grotteschi eco-terroristi imbrattano statue, dipinti, palazzi), revocare in dubbio ogni idea condivisa millenaria, ridicolizzare spiritualità e trascendenza, spezzare ogni identità sino a quella individuale e sessuale.

Cancellazione, ossia Grande Reset: la megamacchina avanza come un caterpillar, distrugge e divora tutto ciò che ingombra il suo cammino.

Cambia in maniera irreversibile il rapporto dell’uomo occidentale con la vita e la natura.

Il nichilismo si impadronisce dei fondamenti: la vita non è più patrimonio indisponibile.

Può essere creata “tecnicamente” con pratiche artificiali, ma cessa di essere un valore in sé, se non nella misura in cui diventa mercato.

Un’attrice spagnola prossima ai settanta è diventata madre artificiale del proprio nipote, usando il seme del figlio morto.

L’aborto si trasforma in diritto universale, derubricando la vita in formazione a grumo di cellule da rimuovere a richiesta.

Contemporaneamente, anche la morte – ridenominata fine vita- diventa un’opzione di mercato, un prodotto da vendere.

 Questo è, nel mondo in corsa forsennata, l’eutanasia, spacciata per compassione verso la malattia e la sofferenza.

 Per “Michel Houellebecq”, la soppressione più o meno volontaria, igienicamente corretta, diventerà la forma tipica del morire nella nostra esausta civilizzazione.

Nulla dell’uomo di ieri deve sopravvivere:

non le abitudini alimentari del cacciatore onnivoro diventato agricoltore, obbligato a cibarsi di insetti e di prodotti artificiali.

Non la pietà filiale e l’amore genitoriale:

 filiazione tecnicizzata, privata dell’amore e dell’incontro tra i sessi;

l’uomo come prodotto di serie di cui presto dovrà essere stabilito il numero di esemplari, in nome della sostenibilità e dell’ambiente, il concetto che ha sostituito la natura.

Scrivevamo tempo fa che l’uomo -Dio odia la natura perché esiste prima di lui e gli sopravvivrà;

 le sue leggi sono immutabili mentre egli vuole fortissimamente modificarle sino a invertirle.

La natura è uno stato originario che precede la volontà, la libertà e il desiderio, totem dell’Homo Deus.

 La natura è la vittoria del principio di realtà, del limite e del destino.

Per l’uomo contemporaneo non c’è espressione più sinistra di “secondo natura”.

 L’ ambiente, il nome di ciò che circonda l’uomo dopo che gli è stato tolto ogni significato trascendente e permanente, è un inganno, un” trompe l’oeil “simile ai dipinti sulle case che simulano finestre, davanzali e persone dietro finte tendine.  La natura è realtà, l’ambiente rappresentazione.

L’uomo della cancellazione è animato da un rancore furioso contro la realtà e la natura: 

obbligato dalla volontà di potenza a negarla, per farlo ha inventato una mistica capovolta, quella dei “diritti”.

L’ ambiente possiamo modificarlo a piacimento, con il pretesto di salvarlo.

Il richiamo all’esistenza di leggi naturali- riconosciuto già dal diritto romano- è la bestemmia massima.

Abbiamo il “diritto” di fare, avere, addirittura “essere “ciò che ci aggrada.

Esautorate le religioni e le tradizioni spirituali, sul trono vi sono la scienza e la tecnica, simboli di un movimento senza fine, positivo in quanto nuovo.

Ogni innovazione è un bene in sé: nessuna domanda di senso, nessuna remora o interrogativo etico.

La nuova morale è la corsa.

Chi si ferma è perduto, paradossale successo postumo di una frase di “Benito Mussolini”.

 Ma perduto in che senso?

 Il nichilismo distruttore non è fine a se stesso, ha uno scopo, inavvertito dalla gran parte dei suoi adoratori, il trasbordo del genere umano in una condizione esistenziale nuova.

 La cancellazione dell’eredità ricevuta – preceduta dalla decostruzione e dall’oico fobia, l’odio di sé- conduce inevitabilmente alla perdita di senso, all’irrilevanza di ogni idea, pensiero, scelta. I modesti risarcimenti sono i diritti- tutti relativi alla sfera pulsionale – e l ’apparente “comodità” di alcune innovazioni.

In via di esaurimento tutto ciò che poteva essere distrutto, ridicolizzato, espiantato dal cuore dell’uomo, il tratto finale ha due possibilità.

Una è quella dell’avventura di “Thelma e Louise”, che lanciano l’automobile nel burrone dopo aver sperimentato l’avventura e la fugace, deludente “liberazione”.

La fine pura e semplice; probabilmente è questo il destino dell’umanità “eccedente” secondo i padroni universali.

Ma l’uomo ha orrore del vuoto, per cui la cultura della cancellazione è il tornante decisivo verso la nascita di un soggetto prima transumano (penultimo passaggio), infine postumano.

È il progetto di cui siamo vittime.

 L’amore smodato, talvolta ridicolo, per tutto ciò che è nuovo ha un che di innaturale:

 ogni essere, sistema e organismo vivente aspira innanzitutto all’omeostasi, cioè a conservare le proprie caratteristiche e la propria esistenza.

Una civiltà che sfida la natura in nome di un’arroganza auto creatrice è destinata al fallimento:

il dramma è che – per la prima volta nella storia umana- è in grado di trascinare con sé nel baratro l’intera specie.

 Sconvolgente è che sia questo l’obiettivo.

 All’umano medio- preventivamente deprivato di cultura, identità e pensiero critico- viene fatto credere che il futuro gli riserverà diritti, comodità e piaceri, ma la realtà è che la vigente “Scientology” vuole oltrepassare l’uomo prima rendendolo dipendente dagli apparati artificiali, poi fondendolo con essi, infine trasformandolo in un soggetto/oggetto diverso dall’ antiquato homo sapiens.

 Il nichilismo- sbocco finale della postmodernità- prepara il terreno all’accettazione del trans e post umanesimo.

Una prova è la “lettera a madre natura”, il manifesto transumanista scritto da “Max More” (pseudonimo simbolico, more ovvero “più”).

 Ne riportiamo alcuni passaggi. 

“Madre Natura, veramente, ti siamo riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare. Indubbiamente hai fatto il meglio che potevi.

Tuttavia, con tutto il dovuto rispetto, dobbiamo dire che sotto diversi aspetti avresti potuto fare di meglio con il nostro organismo.

 Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite.

Ci obblighi ad invecchiare e a morire - proprio quando cominciamo a divenire saggi.

Sei stata un po' avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi ed emotivi.

 Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni ambientali.

Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e xenofobi.

E ti sei dimenticata di darci il nostro libretto d'istruzioni!

Quello che hai creato, in noi, è magnifico, eppure profondamente imperfetto. (…) In ogni caso, la nostra infanzia sta per finire.

Abbiamo deciso che è ora di emendare la costituzione umana.”

Gli emendamenti sono il riassunto dell’ideologia occidentale dominante:

 “non sopporteremo più la tirannia dell'invecchiamento e della morte.

 Per mezzo di alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari, organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci doteremo di vitalità duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza.

Ognuno di noi deciderà quanto a lungo potrà vivere.

Espanderemo le nostre capacità cognitive con strumenti computazionali e biotecnologici.

 Intendiamo superare le abilità percettive di ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi.

“E ancora:

 “non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici.

Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità della nostra storia evolutiva.

Potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali. “

L’ultimo emendamento afferma che

 “non limiteremo le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive rimanendo puri organismi biologici.

 Nella ricerca del controllo sul nostro organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie”.

Max More dichiara apertamente l’aspirazione a raggiungere una condizione “ultra-umana”, in continuo movimento, alla “ricerca di nuove forme di eccellenza, sulla base delle nostre capacità tecnologiche.“

Ecco il vero traguardo di una rivoluzione antropologica – la cultura della cancellazione- il cui nichilismo è solo la tappa intermedia, la tabula rasa su cui edificare un impero tecno scientifico che rovescia la condizione di creatura e inaugura un’era destinata a trasformare l’uomo ( l’”ambiziosa prole” di cui parla Max More) in una specie diversa.

Per riuscirci, è indispensabile rovesciare l ’intera nostra autopercezione.

Uno dei passaggi compiuti è il superamento della democrazia e del liberalismo in un neo- autoritarismo – o dirigismo ideale - che determina rotture epocali, come la dissociazione tra l’opinione e i sentimenti della gente comune e la volontà dei dominanti.

Difficile organizzare la resistenza, se non a partire da gruppi capaci di superare contrapposizioni antiche in nome della consapevolezza di essere non gli ultimi di ieri, ma i primi di domani.

 Quello che accade sotto i nostri occhi con rapidità crescente è destinato a finire.

O per la ribellione della parte sana dell’umanità o perché si compirà il destino della specie.

I vincitori di oggi saranno gli sconfitti di domani: ogni civiltà è mortale.

Memento mori, ricordati che morirai, uomo-Dio. 

 

La nicchia climatica umana.

Lab-ips.org – Rivista Terrestres – Umanità Futura  - (19 Luglio 2023) – editor – ci dice:

 

L’emisfero settentrionale (dall’Europa al Nord Africa, passando per Cina e Stati Uniti) questa settimana vivrà un’ondata di caldo senza precedenti, con temperature comprese tra 35 e 50 °C.

Se possiamo aggiungere strati per proteggerci dal freddo, quando il caldo diventa insopportabile, non ci resta che togliere la pelle.

Ma fino a che punto e per chi il clima può diventare inadatto alla vita umana? Secondo uno studio, è possibile che in questo secolo più di 3 miliardi di persone saranno esposte a un clima invivibile.

Pierre de Jouvancourt - 17 luglio 2023.

 

Scienze del clima antropocenico.

Questa primavera, durante i mesi di aprile e maggio, un’ondata di caldo durata diverse settimane ha colpito l’India e il Pakistan.

Questo periodo, che precede il monsone, è in genere il più caldo dell’anno, le piogge portano con sé un leggero raffreddamento.

Con diversi giorni intorno ai 50°C, molte persone hanno dovuto lavorare durante la notte relativamente fresca.

Non mancava solo l’acqua, a volte inquinata, ma anche l’energia:

a diverse centinaia di migliaia di persone mancava l’elettricità per alimentare eventuali frigoriferi o condizionatori d’aria, disponibile solo per i più ricchi.

Il caldo intenso è anche causa di decine di infarti al giorno, notevole mancanza di sonno, saturazione del sistema sanitario.

Questo episodio prefigura una tendenza planetaria di cui stiamo iniziando a conoscere alcune caratteristiche:

cupole di calore, mega incendi, ondate di calore, siccità.

A questo quadro si aggiunge tutta una serie di problemi di salute, compresa la diffusione di malattie infettive e il deterioramento delle condizioni di salute fisica e mentale.

 Ad esempio, il cambiamento climatico fa diminuire la durata media del sonno, in particolare tra le donne, gli anziani o le persone provenienti da paesi poveri – tendenzialmente causando molti problemi, come un aumento della depressione, del cancro, della perdita di memoria, ecc.

 C’è anche uno studio americano che prevede che i problemi cardiaci causati dal caldo potrebbero uccidere fino a 10.000 americani all’anno entro la fine del 2° secolo.

 E il caldo non solo influisce negativamente sulla vita umana, ma anche molti animali sono in diretto pericolo.

 Evidenziato da questa incredibile carneficina, a causa di un’ondata di caldo in Kansas, che ha recentemente trasportato migliaia di bovini.

(twitter.com/i/status/1537233682867851264)

Così il cambiamento climatico, che colpisce in modo diseguale tutti gli esseri umani e non, non riguarda solo rischi una tantum, ma si presenta come una modificazione ampia e profonda di condizioni ambientali ritenute normali.

 Ma quanto?

 Possiamo dire che dovremmo aspettarci un clima davvero invivibile all’inizio di questo secolo?

 In questo articolo propongo la lettura di un recente studio che definisce la “nicchia climatica umana”, e il suo potenziale futuro.

Dopo aver chiarito questo termine un po’ opaco, tornerò sui risultati principali e su alcune conclusioni che se ne possono trarre.

LA NICCHIA ECOLOGICA.

Ogni specie ha una nicchia ecologica.

 Designando qualche secolo fa un’alcova in cui venivano collocati mobili e statue , la “nicchia” evoca l’idea di rifugio o habitat.

Si tratta di una sorta di rifugio spesso dedicato al riposo e che per questo risulta relativamente frugale.

È un luogo di habitat minimo, contenente le semplici necessità per i bisogni di una persona vivente.

In ecologia, il concetto di nicchia ecologica copre grosso modo questa idea ma riguarda il modo in cui le specie abitano il mondo vivente e non vivente.

Quando è stato originariamente sviluppato all’inizio del XX secolo, si riferisce principalmente a due cose.

Da un lato, si riferisce alle molteplici condizioni di vita delle specie, che comprende i cosiddetti fattori biotici (relativi alla vita) come la disponibilità di prede, la presenza di specie predatrici o concorrenti, ma anche fattori abiotici (relativi alla ciò che non è vivo) come la presenza di sostanze nutritive, luce, temperatura, umidità, ecc.

Ma, d’altra parte, la nicchia ecologica può riferirsi anche a questo tempo al posto di una specie nella catena trofica, cioè alla sua posizione nel sistema delle catene alimentari.

Il concetto di nicchia ecologica riguarda il modo in cui le specie abitano il mondo vivente e non vivente.

 Designa il rapporto tra una specie e le condizioni di possibilità del suo habitat.

(Pierre de Jouvancourt)

 

Successivamente, secondo la ricerca in ecologia del XX secolo, il concetto di nicchia ecologica è stato oggetto di importanti revisioni, ma anche di critiche ritenendolo troppo vago o di scarsa utilità pratica.

 Comunque sia, il concetto di nicchia conserva ancora oggi il suo senso generale di relazione tra una specie e le condizioni di possibilità del suo habitat, inteso nel senso più generale possibile.

Negli anni Cinquanta l’ecologo George E. Hutchinson (1903-1991) ne diede una definizione, certamente imperfetta, ma sulla quale vorrei qui basarmi.

 Infatti, non solo focalizza l’idea di nicchia sulla specie e non più sul suo ambiente, ma distingue la nicchia fondamentale da quella realizzata.

Il primo designa la regione che corrisponde all’insieme delle condizioni biotiche e abiotiche in cui una specie può in linea di principio esistere.

Il secondo si riferisce alla nicchia effettivamente occupata dalla specie in questione.

In Hutchinson la differenza si spiega in particolare con la presenza di specie concorrenti, ma si possono ben immaginare altri fattori che potrebbero spiegarla, ad esempio la storia della distribuzione geografica delle specie.

 Prendiamo il famoso dodo ( raphus cucullatus), specie endemica estinta dalla fine del XVII secolo.

La sua nicchia realizzata corrispondeva geograficamente a certe aree di Mauritius, ma la sua nicchia fondamentale sarebbe stata in linea di principio molto più ampia se questa specie avesse potuto viaggiare attraverso l’oceano.

COS’È UNA NICCHIA CLIMATICA UMANA?

Con questi parametri in mente, chiediamoci quale sarebbe la nicchia ecologica umana, e, in particolare, la sua nicchia fondamentale.

Quali tipi di spazi e condizioni di vita sarebbero inadatti alla vita umana?

Questa domanda assume un significato tanto più inquietante al tempo dell’”Antropocene”, parola che designa l’importanza geologica di un’unica specie, l’ “homo sapiens”, senza equivalenti nella storia della vita sulla Terra. .

Considerando i luoghi che gli esseri umani sono in grado di abitare, si potrebbe pensare che non ci sia limite alla nicchia umana.

Forzando un po’ la linea, equivale quasi alla superficie della Terra, purché sia ​​calpestabile o navigabile, spaziando dagli aridi deserti del Sahara ai deserti di ghiaccio polare – e questo, molto prima dell’avvento del capitalismo.

 Da questo punto di vista, la nicchia umana non avrebbe altro limite che la capacità tecnica di creare le proprie condizioni di abitabilità.

Certamente, tutti gli organismi partecipano alla creazione del loro ambiente, inclusi i batteri.

Ma si potrebbe pensare che solo la nostra specie sarebbe in grado di estendere la sua nicchia al globo, o anche oltre.

E questo non solo dall’Antropocene ma già dalle grandi migrazioni preistoriche.

 

Il lavoro del geografo “Erle Ellis” e dei suoi colleghi ha mostrato la velocità con cui le popolazioni umane si sono diffuse sulla superficie del globo.

Disegna la mappa globale di quello che chiama “antroma” tra il 1700 e il 2000 .

 Si tratta di biomi umani, “sede di interazioni tra uomo ed ecosistemi” a seconda della tipologia:

habitat densi, tipologie di villaggi sparsi, ma anche terreni coltivati ​​più o meno appartati, aree con bassi livelli di attività umana.

 Secondo il suo lavoro, più di tre quarti della superficie libera dai ghiacci della Terra sono stati alterati dalle attività umane in diversi periodi di tempo, dall’ordine di diversi millenni fino a un decennio.

Esiste la Mappa globale dei biomi umani 1900 2000. E anche la

Mappa globale dei biomi umani 1700 1800.

(Ellis et. al, 2010)

Non c’è dubbio che questo tipo di rappresentazione sovrascrive e oscura le innumerevoli storie che hanno dato origine a questa grande dispersione, comprese quelle della globalizzazione economica nei regimi capitalisti.

Tuttavia, senza aderire alla natura necessariamente semplicistica di un tale approccio, questo tipo di lavoro illustra due cose.

 Innanzitutto, nonostante il loro numero ridotto, le popolazioni umane hanno a lungo abitato luoghi di natura estremamente varia: la diversità delle nicchie create non è un dato di fatto dell’Antropocene.

Di conseguenza, le nicchie ecologiche specifiche dell’Antropocene non si distinguono quindi per la loro diversità, vale a dire per il numero di differenze che le caratterizzano.

Ciò che li distingue è soprattutto la loro estensione e la loro intensità.

 

L'”Antropocene” potrebbe determinare una radicale contrazione della nicchia ecologica umana.

(Pierre de Jouvancourt)

Ma l'”Antropocene” potrebbe comunque essere descritto in un modo.

Non l’estensione illimitata della nicchia ecologica umana (concetto che nasconde, ricordiamolo, le asimmetrie all’origine di questa situazione storica), ma, al contrario, la sua radicale contrazione.

Per capire questo punto, guardiamo un solo aspetto della nostra nicchia ecologica: “la nicchia climatica”, ovvero le condizioni che rendono climaticamente possibile la vita umana sulla Terra, e principalmente la temperatura e l’umidità atmosferica media in base alla loro distribuzione geografica sul globo.

In un articolo pubblicato nel maggio 2020 su “Proceedings of the National Academy of Sciences” (PNAS, Stati Uniti), un team multidisciplinare (demografo, antropologo, ecologista e specialista di modelli climatici) si è chiesto cosa esattamente è questa nicchia climatica di fine secolo, secondo diversi scenari di emissioni di gas serra.

(Pierre de Jouvancourt).

 

Prima di intraprendere questo esercizio di proiezione, il team di ricercatori ha cercato di determinare la nicchia climatica umana nella storia (-6000 anni e -500 anni).

Viene mostrata sia la nicchia climatica realizzata nel presente che nel passato (A, B, C), ma anche una versione schematica della nicchia climatica fondamentale (G), cioè lo spazio che potrebbe, in linea di principio, occupare l’umanità se solo sono state prese in considerazione le condizioni climatiche.

 Per leggere queste figure istruttive, bisogna capire che l’ascissa (asse orizzontale) di ogni grafico è graduata in base alla quantità di precipitazioni e che la temperatura media annua è graduata sulle ordinate (asse verticale).

Con questo in mente, considera che più scuro è un punto, meno densa è la popolazione, fino a zero.

Rappresentazioni di nicchie climatiche.

Nicchie climatiche realizzate nel presente e nel passato (A, B, C).

Queste rappresentazioni non sono mappe del mondo, ma distribuzioni della densità di popolazione in base alla quantità di precipitazioni (asse orizzontale) e alla temperatura media annuale (asse verticale).

 (Estratto da: Chi Xu et al., ” Il futuro della nicchia climatica umana “, PNAS , 4 maggio 2020).

Vi è la rappresentazione della densità di popolazione in funzione delle precipitazioni.

Infine, ciò che emerge è sorprendente:

gli esseri umani sono storicamente rimasti all’interno di un involucro climatico abbastanza ristretto.

 In particolare, la distribuzione umana è dipesa poco dalle precipitazioni in tutte le loro forme:

neve, pioggia, pioviggine, grandine o altro.

Infatti, se gli umani di 6000 anni fa mostrano una bella distribuzione orizzontale, e quindi una buona tolleranza alla quantità di precipitazioni, c’è un restringimento 500 anni fa, poi un nuovo allargamento.

Così, tranne forse per le zone più aride, cioè tutti i punti situati molto a sinistra delle figure, l’umanità sembra relativamente tollerante all’umidità, un aspetto importante delle condizioni climatiche.

 

Ma tutto cambia quando si tratta di temperature.

 Già 6.000 anni fa, gli esseri umani non si trovavano in aree al di sopra dei 30°C di temperatura media annua, e pochissimi al di sotto dei 5°C.

Da allora, questo intervallo si è ridotto.

Come notano gli autori dell’articolo, le popolazioni umane sembrano essersi concentrate principalmente in aree dove la temperatura media era compresa tra 11°C e 15°C durante l’anno.

Nella figura A vediamo due isole: queste corrispondono alla presenza umana nelle regioni temperate e nelle regioni con regimi monsonici, come l’India o il Pakistan.

 

IL FUTURO DELLA NICCHIA CLIMATICA.

Ora immagina cosa accadrebbe con il cambiamento climatico: come potrebbe cambiare la nicchia climatica umana?

Pur ipotizzando una continua crescita della popolazione e la relativa assenza di migrazione, i ricercatori si sono concentrati principalmente su due scenari:

 RCP8.5 e RCP2.5 10.

Dietro questi nomi piuttosto esoterici, si nasconde per il primo (RCP8.5), una traiettoria delle emissioni di gas serra che continuerebbe con le stesse tendenze di oggi: è business as usual.

Il secondo corrisponde all’ambizioso scenario del controllo delle emissioni di gas a effetto serra e della riduzione della loro concentrazione nell’atmosfera a medio termine.

Il risultato è sbalorditivo.

Nello scenario RCP8.5, i cambiamenti di temperatura che gli esseri umani sperimenteranno durante questo secolo – e, ne deduciamo, anche molte altre specie – saranno sproporzionati rispetto a quelli degli ultimi 6.000 anni.

 Tra 50 anni, le persone che vivono in regioni dove la temperatura media è di circa 13°C 12 sperimenteranno un aumento di circa 7°C, che corrisponde a un aumento 2,3 volte maggiore dell’aumento globale perché questo è più forte sulla terraferma che in mare.

Per ogni grado superiore, un miliardo di persone esce dalla nicchia ecologica umana.

Per ogni decimo di grado, l’inerzia climatica manda al forno quasi 100 milioni di persone nel 2070, ovvero quasi una volta e mezza la popolazione francese.

(Pierre de Jouvancourt)

 

Per quanto riguarda le persone che già vivono in regioni calde, eppure spesso le meno responsabili del cambiamento climatico, saranno esposte a temperature annuali oggi molto rare sulla Terra.

In particolare, “3,5 miliardi di persone saranno esposte a temperature medie annue superiori a 29,0°C, configurazione che corrisponde solo allo 0,8% della superficie terrestre […]

concentrata principalmente nel Sahara”.

I ricercatori prevedono che nel 2070 tali condizioni si troveranno nel 19% del territorio

. Ecco gli affari come al solito.

 E il migliore dei futuri previsti?

Nello scenario più favorevole previsto, il famoso “RCP2.5”, il numero di persone colpite da queste condizioni estreme scenderebbe alla cifra già sbalorditiva di 1,5 miliardi.

Per ogni grado superiore, un miliardo di persone esce dalla nicchia ecologica umana.

 Per farvi sentire quanto questo sia critico, diciamo che per ogni decimo di grado, l’inerzia climatica manda al forno quasi 100 milioni di persone nel 2070, quasi una volta e mezza la popolazione della Francia.

SFIDA COMUNE, LOTTE DIFFERENZIATE.

La nicchia climatica umana avrebbe potuto essere definita secondo i limiti fisiologici del corpo umano.

Si ritiene infatti che una temperatura a bulbo umido di 35°C (misura che incorpora l’umidità dell’aria, fattore importante per la regolazione termica del corpo) sia il limite del sopportabile, il corpo non potendo quindi raffreddarsi.

Uno studio pubblicato su “Nature Geoscience” nel 2021 ha anche mostrato che oltre a un aumento di 1,5°C del termometro globale, che ha una probabilità su due di verificarsi nei prossimi cinque anni (quindi ben prima del 2050), molte aree tropicali potrebbero diventare semplicemente inabitabile a lungo termine.

 

Supponendo che enormi aree vengano trasformate in una fornace – o in una sauna infernale, dipende –, dovremmo dedurre unilateralmente futuri spostamenti di popolazione?

Non possiamo immaginare, come asseriva ironicamente uno scienziato a proposito del riscaldamento dei tropici, che massicce infrastrutture di condizionamento consentirebbero di (sur)vivere a temperature altrimenti insopportabili?

Nulla di meno scontato, non fosse altro per il motivo già accennato in premessa: non solo dispositivi del genere sono rarissimi e riservati ai più ricchi, ma le ondate di caldo possono portare anche a blackout.

Inoltre, gli autori dello studio sulla “nicchia climatica umana” insistono sul fatto che essa non va “interpretata in termini di migrazioni attese”.

 I percorsi di adattamento, infatti, sono in realtà molto più complessi della risposta lineare alla sola temperatura: non si deve quindi dedurre da questo studio che miliardi di persone si sposteranno necessariamente nelle aree più abitabili, o anche più ricche, del pianeta.

D’altra parte, è lecito ricordare che, a seguito della pandemia, l’economia mondiale è impegnata in una fortissima ripresa delle emissioni di gas serra.

Circa il 5%, questo aumento ci porta quasi allo stesso livello di emissioni del massimo storico del 2018-2019.

 Inoltre, gli impegni di riduzione dei gas a effetto serra egli accordi di Parigi, firmati nel 2015 e da allora leggermente rivisti al rialzo, rappresentano solo un quarto dello sforzo di riduzione dei gas serra che sarebbe necessario fare per rimanere al di sotto della soglia dei 2°C nel 2050…

o più esattamente per avere un due possibilità su tre che ciò accada – spesso dimentichiamo questa ponderazione da parte dell’IPCC.

Per avere la stessa possibilità di rimanere sotto 1,5°C, gli impegni attuali dovrebbero essere moltiplicati per circa 7,3:

rappresentano poco meno del 15% delle riduzioni necessarie per questo obiettivo. A ciò si aggiunga che qui mi limito a citare gli impegni assunti a livello internazionale, che sono ben lungi dall’essere rispettati, e prescindendo dal fatto che il clima è un sistema complesso non lineare di cui non conosciamo tutti i meccanismi.

 

L’affermazione di altri è limitata, come in ogni studio scientifico.

La definizione della nicchia climatica è costruita dagli spazi occupati dall’umanità sul globo nella storia.

Così definita, questa busta ha il vantaggio dell’esperienza ma non dice quale sarà il futuro, né cosa deve essere fatto – né chi dovrebbe farlo.

 In un certo senso, ciò che loro propongono partecipa al tipo di conoscenza previsto da “Hans Jona”s in “The Responsibility Principle”.(1986).

 Pur sottolineando che “le scienze naturali non forniscono tutta la verità sulla natura”, ha difeso la necessità di attingere da altrove per determinare le nostre azioni morali e politiche.

Il che significa che con “Jonas” possiamo riconoscere nella scienza la capacità di formulare possibilità, che però non hanno bisogno di essere previsioni – loro, certe –, per motivarci a sfuggire alla possibilità del disastro.

Le scienze hanno il merito di costruire un’eventualità credibile, un riflesso del futuro sufficientemente ben costruito, e quindi semplicemente degno di essere preso sul serio.

In questo senso sono interessanti per raffigurare i “primi bagliori della tempesta che ci viene dal futuro”, come diceva “Jonas”.

Interessante ma ancora non sufficiente.

Con “Jonas”, si potrebbe dire che invitano al lavoro morale motivandoci ad agire per preservare la possibilità di una vita dignitosa per le generazioni presenti e future.

 Ma aggiungerei che è meno interessante capire ciò che qui si chiama “morale”, come definirebbe azioni buone o cattive, o di cosa dobbiamo essere consapevoli, piuttosto che vedere in esse esercizi collettivi per collegare in modo inaspettato ma solido la politica, il mondo e le nostre capacità di soffrire e di agire.

Vivere in un’atmosfera di due gradi più calda rispetto a prima dell’era industriale è un acquisto di aria condizionata per un europeo appartenente alle classi alte o medie, ma è la dislocazione del mondo per un “Gwitch’in”, originario dell’Alaska , e la sua scomparsa per un residente delle isole “Kiribati”, situate nel Pacifico.

(Pierre de Jouvancourt)

In questo caso, è interessante concludere da questo studio che è in gioco l’abitabilità planetaria?

Ci invita a pensare alla nicchia climatica come a una condizione umana condivisa?

Questo è ciò che sembrerebbe indicare la sua definizione.

La nozione di “abitabilità planetaria” si riferisce alla capacità del pianeta di essere abitato dalle società umane in generale.

 Scienziati e filosofi del sistema Terra lo mobilitano come il punto minimo di accordo politico, sul quale qualsiasi politica ecologica potrebbe mettere tutti d’accordo.

Cosa c’è di più comune di una condizione condivisa, quella di vivere sulla stessa Terra?

 Il libro molto influente “The Risk Society” pubblicato nel 1986, scritto dal sociologo “Ulrich Beck”, aveva già difeso tale tesi.

Cercando di riflettere sull’originalità delle società industriali che affrontano pericoli ecologici, “Beck” osserva che “[…] la scarsità è gerarchica, lo smog è democratico”, che “anche i ricchi e i potenti non sono al sicuro” o ancora: “[…] nel caso dei rischi legati alla modernizzazione, prima o poi si arriverà a un’unica entità che riunirà autori e vittime. »

Tuttavia, una tale posizione non è affatto ovvia.

E, per i motivi citati, non aspettiamoci che tali studi ci forniscano la cartografia politica chiavi in ​​mano di cui abbiamo bisogno.

In questo caso, considerare l’abitabilità planetaria come un luogo comune ed evidente della politica rivela una confusione tra due registri:

che ci sia una questione comune non significa che sia per tutto ciò una questione di lotta comune.

 Di fronte alle questioni ecologiche, l’idea che “saremmo tutti sulla stessa barca “spesso è semplicemente sbagliato.

Non solo è sbagliato, ma capovolge quello che dovrebbe essere il punto di partenza.

 Piuttosto che dare per scontata la natura globale di una questione ecologica, dovremmo sempre iniziare descrivendo la devastazione là dove è più evidente, per poi trovare le condizioni minime da cui la vita, la sussistenza e l’esistenza non sono più minacciate.

Queste condizioni possono essere molteplici: reddito, posizione geografica, sesso, colore della pelle.

Ciò che dovrebbe permettere di tracciare la mappa delle questioni politiche non può essere ciò che accomuna sotto lo stesso problema, ma piuttosto le condizioni di confine dove i problemi diventano, per alcuni, invisibili o redditizi.

 

Attualmente stiamo vivendo sconvolgimenti ecologici senza precedenti.

“La rivista Terrestres” ha l’ambizione di riflettere su queste metamorfosi.

 

 

 

 

Guerra e pace, oggi.

Micromega.net - Giuseppe Panissidi – (4 Aprile 2022) – ci dice:

(IL RASOIO DI OCCAM)

 

Come liberare il mondo dalla guerra e sottometterlo alla sovranità della legge e del diritto?

Una riflessione sull’attualità del progetto filosofico-politico kantiano di pace universale e permanente.

“È sempre guerra”. Irreparabile e dolente la conclusione di Lev Tolstoj in “Guerra e Pace”, l’epopea narrativa più autentica della letteratura moderna, sullo sfondo della crisi europea degli inizi dell’Ottocento.

Il nostro pensiero, il nostro sentimento.

Ancora. Sempre.

“Com’è tutto silenzioso, quieto e solenne, non come quando correvo, – pensò il principe Andrej, – non come quando correvamo, gridavamo e ci battevamo; non come quando il francese e l’artigliere si contendevano lo scovolo, con le facce furiose e spaventate: le nuvole scorrono in modo completamente diverso in questo cielo alto e infinito.

Ma come ho fatto a non vederlo prima, questo cielo alto, e come sono felice di averlo finalmente conosciuto.

Sì! Tutto è vano, tutto inganno, tranne questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di questo.

Ma non c’è neppure questo, non c’è nient’altro che silenzio, pace ritrovata. E grazie a Dio!”.

Pace ritrovata. Il fine ultimo.

 Perché “‘guerra’ è il mondo storico, ‘pace’ il mondo umano – scrive Leone Ginzburg.

Il mondo umano interessa ed attrae particolarmente Tolstoj, soprattutto perché egli è convinto che ogni uomo – di ieri, di oggi, di domani – valga un altro uomo…”.

Molti decenni prima, nel 1795, al culmine dell’”Aufklärung”, l’Illuminismo in Germania, aveva visto la luce uno straordinario progetto sulla “pace perpetua”.

Nasceva dall’idea profonda di Immanuel Kant, secondo cui l’uomo tende per natura al mantenimento della vita e alla realizzazione dell’umanità sotto la guida della legge morale, ovvero della “ragion pratica”.

 Dunque, una condizione stabile di pace non solo è conforme alla natura, ma costituisce altresì un dovere per l’uomo.

Se non che – “pactum dolens” – sul piano ideale e teorico, il progetto filosofico-politico sconta tutta l’impervietà dello statuto dell’umano, dal momento che la pace perpetua non può che concretarsi in un trattato fra nazioni, finalizzato all’istituzione di un ordinamento cosmopolitico, volto a liberare il mondo dalla guerra e a sottometterlo alla sovranità della legge e del diritto.

Mentre, però, per Rousseau il contratto, come tale, significa rinunzia allo stato e alla libertà naturale, per Kant il contratto cosmopolitico non prevale sull’ordine giuridico naturale, ma lo rafforza e lo consolida in una forma più razionale.

Per questa ragione, e più in generale, il contrattualismo kantiano rivela un carattere più specificamente politico che sociale, proprio perché il contratto non crea né lo Stato, né il raccordo tra gli Stati, bensì li costituisce nelle forme del diritto.

Gli Stati debbono istituire un patto reciproco, una federazione speciale o “foedus pacificum”, la federazione di pace.

Che, tuttavia, a differenza del “pactum pacis”, il comune trattato di pace che cerca di porre fine semplicemente a una guerra, Kant sostiene, in quanto pace universale e permanente, presuppone il superamento della sovranità assoluta e irrelata degli Stati, dell’anarchia internazionale e la formazione di una federazione che abbracci gradualmente tutti i popoli della terra.

Se però l’idea di una “Repubblica del mondo” è nuova, l’idea della pace universale risale alla filosofia stoica e al cristianesimo, ed è stata ripresa nel Medio Evo da Dante, il quale identificava nell’Impero l’istituzione necessaria per realizzare la pace.

 Pur tuttavia, la demarcazione rispetto al progetto di Kant non potrebbe essere più radicale.

 Elaborato nel cuore della Rivoluzione francese, alle soglie dell’età della democrazia e del nazionalismo, il progetto kantiano non consiste in una proposta da sottoporre a un soggetto politico sovranazionale, capace di unire un gruppo di Stati entro le frontiere di uno Stato superiore, o a governi o diplomatici per realizzare migliori equilibri di potere.

Ora irrompe nel corpo della tradizione culturale occidentale e nel dibattito filosofico-politico un paradigma eversivo.

La pace non dev’essere concepita come semplice sospensione delle ostilità durante la guerra o nell’intervallo tra due guerre.

Questa è soltanto un surrogato, la “pace negativa”, nozione tuttora dominante, a parte qualche eccezione, nella cultura politica contemporanea.

Non è un caso che sia invocata di continuo nella presente congiuntura ucraina.

Invero, lo stato di pace, secondo Kant, non è uno stato naturale, bensì una vera e propria istituzione, che deve essere costruita attraverso un ordine legale imposto da un’autorità mondiale superiore a ogni singolo Stato.

 Una pace positiva.

 In breve, la pace coincide con la realtà efficiente di un’organizzazione politica capace di porre fine a tutte le guerre, e per sempre.

 Se però, anche a prescindere dalle note devianze burocratiche e antigiuridiche, operiamo una valutazione rigorosa dei primi 77 anni della storia delle Nazioni Unite, è giocoforza constatare che l’ONU, pur avendo realizzato progressi non trascurabili, ad esempio quanto al ruolo svolto nella decolonizzazione e a qualche sforzo nel mantenimento della pace, non ha di certo realizzato le speranze dei propri fondatori nel 1945, testimoni e attori di una epocale e definitiva speranza di pace, sulle macerie e gli orrori inauditi lasciati dal secondo conflitto mondiale.

Disgraziatamente, anche se la Storia “magistra” può vantare pochi e svogliati allievi, il conto non tralascia mai di presentarlo, come attualmente…

Così, ante litteram, Kant opera la demarcazione sostanziale tra la pace e la guerra, e concepisce la tregua come una parentesi, una situazione tipica della guerra.

Nella quale, infatti, una volta terminate le ostilità, permane la minaccia che possano riaprirsi, sul versante della e come guerra.

Soltanto nella guerra si può verificare la tregua.

Dunque, la tregua, per quanto prodromica, nelle condizioni date, resta altro dalla pace.

 

Tregua, in effetti, significa e coincide con una temporanea sospensione dell’azione distruttiva, come spesso accade, tanto vero che gli aggressori sono soliti proseguire le ostilità di teatro fino a quando non abbiano conseguito condizioni di vantaggio sui tavoli diplomatici.

 Publio Cornelio Tacito ci consegna un’icastica rappresentazione ‘autocritica’, un punto di vista, diciamo, ‘esterno’ alla volontà di potenza imperiale romana:

“Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”.

 Dove fanno il deserto, lo chiamano pace.

All’epoca di Kant, la Federazione mondiale era un lontano fine ultimo, perciò apparso simile all’utopia, benché in nobile declinazione erasmiana, nel celeberrimo “Lamento della pace”:

 “La grande maggioranza dei popoli detesta la guerra e invoca la pace. Sono ben pochi oramai coloro la cui empia infelicità dipende dall’infelicità generale, e dunque bramano la guerra.

 Se sia giusto o meno che la loro malvagità prevalga sull’aspirazione di tutti i buoni, giudicatelo voi stessi.

Vedete che fino ad ora si sono mostrati inutili i trattati, inconcludente la forza, la punizione.

 Adesso provate invece quale non sia l’efficacia della concordia e della generosità.

Da guerra nasce guerra, vendetta provoca vendetta. Adesso sia la bontà a generare bontà, la generosità solleciti ad essere generosi, e si giudichi più regale chi avrà rinunciato ai propri diritti”.

La strategica rilevanza della idea kantiana risiede nell’identificazione dei pre-requisiti essenziali che soltanto oggi potrebbero avvicinarci alla pace universale e permanente.

 

Il primo pre-requisito sarebbe stato acquisito solo quando l’esperienza della devastazione della guerra avrebbe spinto le nazioni a rinunciare alla libertà selvaggia e senza legge e alla situazione intollerabile di anarchia internazionale.

Il secondo, quando lo sviluppo del commercio, oggi la globalizzazione, avrebbe condotto l’umanità a vivere a stretto contatto.

Il terzo, quando l’evoluzione dell’umanità avrebbe raggiunto lo stadio della formazione di una costituzione civile repubblicana, fondata sul diritto, la libertà e l’uguaglianza.

Ultimo, ma non per importanza, quando l’apparire di una opinione pubblica mondiale avrebbe consentito alla violazione del diritto avvenuta in un punto della terra di essere avvertita dovunque.

Kant non era un utopista, almeno non nel senso usuale del termine, lucidamente consapevole, com’era, che il solo imperativo della ragione non è sufficiente a persuadere il “legno storto” dell’umanità a cercare la pace.

Epperò, è alla pace che va annesso quell’alto valore morale che un’improvvida tradizione culturale attribuisce invece alla guerra, che, nel testo di” G. F. Hegel”, “preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua”.

 Il conflitto, quale modalità della relazione tra uomini e Stati, la vittoria, la sconfitta non sono i soli modi in cui possa dispiegarsi la Ragione.

E la Storia, nella sua ricca complessità, non si identifica univocamente con un “tribunale” che sancisce come la guerra debba essere la risolutrice dei conflitti tra gli Stati, nel “regno animale dello Spirito”, alla stregua della metafora speculativa hegeliana.

Oggi come non mai, quando “il terribile è già accaduto”, le guerre mondiali e i sistemi d’arma nucleare, spesso evocati con sconcertante leggerezza, mostrano che Kant aveva perfettamente ragione anche nella predizione che soltanto l’esperienza della distruttività della guerra avrebbe dovuto persuadere gli Stati a rinunciare alla propria libertà selvaggia e a sottomettersi a una legge comune.

Del resto, il processo di globalizzazione, nonostante limiti ed errori, causando l’erosione della sovranità nazionale, ha acuito il bisogno di nuovi poteri a livello regionale e mondiale.

Dopo la caduta dei regimi totalitari del ‘900, una maggioranza di Stati membri delle Nazioni Unite è retta da regimi di democrazia rappresentativa, pre-condizione per l’estensione della democrazia alle relazioni tra gli Stati, per la realizzazione, ossia, della democrazia internazionale, altro dalla conclamata, quanto e “pour cause fallimentare”, illusione dell’“esportazione della democrazia”.

Grazie ai media, noi siamo informati ogni giorno degli avvenimenti che accadono ovunque nel mondo, presupposto per la formazione di un’opinione pubblica e di una società civile globali.

Siffatti fenomeni sono aspetti del processo di globalizzazione, e della connessa cancellazione della distinzione tra politica interna e politica estera.

 La “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e la “Corte penale internazionale”, ancorché disconosciuta da molti Stati, sono due esempi significativi della necessità di applicare agli individui il diritto internazionale e mostrano che l’ordine internazionale è cambiato e che può cambiare ancora più radicalmente.

Possiamo, dunque, concludere che la tradizione kantiana oggi resta viva come non mai, e lotta insieme a noi, come si suol dire.

Pur essendo rimasta latente durante l’era del nazionalismo, essa è stata rilanciata nella nuova fase della storia del mondo, iniziata con la fine della guerra fredda.

“Jürgen Habermas” e “David Held” sostengono che l’idea kantiana di una Repubblica federale mondiale rappresenta la sola risposta plausibile ai problemi posti dalla globalizzazione e dall’erosione della sovranità degli Stati.

La creazione di nuove forme di statualità a livello mondiale sembra essere la sola alternativa al dominio del sistema di mercato e al dilagare della violenza.

 Gli obiettivi universali della costituzionalizzazione delle relazioni internazionali e della democrazia internazionale debbono assurgere a principio-guida in costanza e aumento di una pericolosa anarchia.

No, davvero, questa “confusione sotto il cielo” non è affatto “eccellente”…

Diritto e democrazia internazionali aprono la sola via d’uscita da un arbitrio cieco e ben poco “libero”, in quanto, essi sì, autentica e feconda “bussola strategica” per un domani più a misura d’uomo.

Ne discende che le eventuali responsabilità dell’occidente nella progressiva espansione ad Est – a seguito del collasso dell’URSS – costantemente indicata come un potenziale pericolo da parte di molti, anche in Occidente, perché suscettibile di una “reazione ostile e vigorosa da parte della Russia” (J. Biden, 1997), non esime il presidente della grande e temuta Federazione Russa dal rammentare che “non vi è mai stato nulla di scritto”, come lui stesso esplicitamente riconobbe, or sono pochi anni – proprio dopo le “operazioni” in Georgia e Crimea – nella famosa intervista a “Oliver Stone”, e che, in ogni caso, le diplomazie occidentali, statunitense ed europea, non hanno mai sottoscritto un impegno siffatto in termini giuridico-formali.

Se il diritto non è acqua fresca.

È del tutto evidente che l’ipotesi kantiana può declinarsi soltanto nella relazione e nel confronto tra gli Stati, indipendentemente dalle qualità personali dei loro governanti, alla sola condizione che vero e indefettibile mediatore sia il Diritto, poco o molto che valga e funga quello attualmente vigente e condiviso, con tutto il rispetto per la voce spirituale del Pontefice, che non è, né presume di essere, un soggetto politico. Infatti, su ciò su cui si concorda non c’è molto da discutere, sul resto è giocoforza confrontarsi tenacemente.

Sempre salva, naturalmente, l’evenienza di un esodo umano verso altri mondi, più ospitali o meno dissennati, ove mai esistenti, e non semplicemente dall’Ucraina in lacrime e sangue verso l’Occidente.

Conclusivamente, la mente non può non correre al mesto pensiero di “Arthur Schopenhauer”, secondo cui “se il mondo fosse lievemente peggiore, non potrebbe neppure esistere”.

Ecco emergere un must, fatale e intransigente, per l’uomo contemporaneo, il nuovo, imperativo principio della “ragion pratica”: operare tassativamente in modo che il mondo non diventi… “lievemente peggiore”.

In uno degli scritti di filosofia della storia, “Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, nel 1784, Kant argomenta con estrema chiarezza sul “legno storto”, la Storia e la relazione che li stringe: “… da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura”.

La natura ci impone di approssimarci a questa idea.

 Se, insomma, per enti naturali finiti, la perfezione è impossibile, dobbiamo tuttavia protenderci verso sintesi ed esiti progressivamente più alti, oltre i limiti delle nostre vite individuali, nell’orizzonte della “specie”.

 “Il compito dell’uomo è dunque molto complesso.

Come ciò avvenga per gli abitanti di altri pianeti in rapporto alla loro natura noi non sappiamo.

Ma, se portiamo felicemente a termine questa missione imposta dalla natura, possiamo vantarci di occupare un posto non trascurabile nell’universo tra i nostri vicini… per pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto”.

Un saggio/manifesto del liberalismo di” Isaiah Berlin,” “Il legno storto dell’umanità”, mette a fuoco e in tensione il ‘realismo’ di Kant con la sua appassionata esaltazione del “dovere dell’uomo”:

“Possiamo fare solo quello che possiamo; ma questo dobbiamo farlo, nonostante le difficoltà.

Certo, vi saranno scontri sociali o politici, ed è inevitabile (…)

Ma questi conflitti, credo, possono essere ridotti al minimo promuovendo e conservando un delicato equilibrio che è costantemente minacciato e richiede costanti riparazioni:

 questa, ripeto, solo questa è la pre-condizione per l’esistenza di società decenti e per un comportamento moralmente accettabile;

altrimenti siamo destinati a smarrire la strada”.

Il nostro intenso auspicio, oggi, è che chi ha smarrito la strada, la ritrovi.

 Senza ritardo.

“Questo dobbiamo farlo”.

 

 

La crisi del Nuovo Ordine Mondiale.

Fondazionefeltrinelli.it – (23-3-2022) – Alessandro Colombo – ci dice:

 

Sebbene non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali del XXI secolo.

Intanto perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.

 

Questo elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del dopoguerra fredda.

Per quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di conflitti armati:

 le guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società;

 e il complesso delle “guerre di polizia” condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di uno strumento militare incomparabilmente superiore per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici.

La guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre interstatali.

 Con l’aggravante che a questa eventualità torneranno a prepararsi anche tutti gli altri Stati, aumentando come prima cosa le rispettive spese per la difesa.

Fianco a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già implicita nella retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva appena sostituito la bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta “guerra globale al terrore”.

 

Come quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/ autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più eterogenei tra loro.

 Ma, nel frattempo, la bipolarizzazione ha un impatto ambivalente sull’Europa.

Da un lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.

Ma, dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea dichiara di ispirarsi;

di intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e globale con la Cina;

di sfumare ulteriormente le velleità già deboli di una autonomia politica e strategica dell’Unione.

A propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla fine della guerra fredda.

Se, ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le fratture politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.

I segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19:

 la spinta (politica più ancora che economica) a “riportare a casa” attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati “sensibili”;

la riscoperta della promessa di “confinamento” e “messa in sicurezza” dei confini dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali (Unione Europea compresa);

più in generale, la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia (a cominciare da quella energetica), che vede sempre di più la globalizzazione come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.

Ma l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare definitivamente allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al XXI secolo.

Il primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di “Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.

Almeno due capitoli di questo fallimento si sono manifestati in pieno in questa crisi.

Il primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra, quello di come trattare il nemico sconfitto:

lo stesso problema che aveva già costituito il contrassegno di tutti i grandi dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che il primo e decisivo criterio distintivo tra di loro.

All’indomani delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel concerto delle grandi potenze;

dopo la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;

dopo la Seconda guerra mondiale, la Germania era stata punita ancora più duramente attraverso la sua stessa divisione territoriale, ma le due Germanie erano state prontamente accolte nei rispettivi sistemi di alleanza.

Tra il 1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a volte clamorosamente contraddittori.

 

Da un lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora di una “Russia weimeriana”.

Ma, dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.

L’altro capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la Nato.

Dopo il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato nel Concetto strategico del 1999, la Nato ha arrancato per trovare un posto nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.

Il rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del fallimento del “Nuovo Ordine”:

a trent’anni dalla fine della guerra fredda, le relazioni tra Occidente e Russia si ritrovano paradossalmente al punto di partenza.

 

Il secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale moderna:

la centralità dello Stato e la centralità dell’Occidente.

Nessuno dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da questa transizione.

L’idea che gli stati siano gli unici o i principali soggetti dell’ordinamento internazionale è controbilanciata e, almeno in parte, minata dal riconoscimento di diritti inalienabili in capo ai singoli individui.

Il principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della Carta delle Nazioni Unite i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.

Il tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non da attori deboli e marginali, ma dallo stesso paese più forte) in nome di un nuovo e controverso principio di discriminazione a favore delle democrazie.

 

Il ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta delle Nazioni Unite;

ma, nei fatti, l’introduzione di una serie di eccezioni non necessariamente coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la lotta contro il terrorismo, l’estensione della legittima difesa preventiva a casi nei quali la minaccia non è ancora imminente) ha già eroso surrettiziamente il divieto.

Soprattutto, è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti la tradizionale pretesa dei paesi occidentali di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla piena appartenenza e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti.

E proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni probabilità, ancora più importante.

 

La guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli strategici dei principali attori; ma lo fa in un contesto nel quale è evidente a tutti – a cominciare dai protagonisti diretti e indiretti della guerra – che il baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale si sta spostando altrove.

Su questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.

Anzi, se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non sia l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.

 

 

 

“La religione degli ecocomunisti”.

“RGA”: ossia Riscaldamento

 Globale Antropogenico.

Le bugie sul caldo.

Laverita.info – Maurizio Del Pietro – (20 luglio 2023) – Editoriale – ci dice:

 

(…) Tutto nasce da una ricerca del 2013, a firma di John CooK e altri autori, i quali si presero la briga di valutare l’evoluzione del consenso scientifico sulle responsabilità dell’uomo rispetto al surriscaldamento globale.

Un’analisi che prese in considerazione 11.944 articoli scientifici pubblicati tra il 1991 e il 2011 nelle cui sintesi apparivano le parole “cambiamento climatico.”

Di questi, il 66,4 % non riferivano alcuna origine antropogenica del riscaldamento, cioè non mettevano in correlazione l’aumento delle temperature della Terra con l’intervento umano.

Il 32,6% invece faceva riferimento alle responsabilità delle industrie e in generale della mobilità, lo 0,7 % negava alcuna correlazione e lo 0,3% dichiarava di non avere certezze.

Dunque ammesso e non concesso che 11.944 studi rappresentino il cento per cento degli scienziati mondiali, come recitano Piccolotti e compagni, il 66,4 % non ha mai parlato di un risaldamento globale antropogenico ma solo il 32,6 % ha sostenuto l’esistenza della connessione tra il cambiamento climatico e le attività umane (…)

(…) Fatto cento quelli che parlano di RGA (riscaldamento globale antropologico), il 97% ritiene che sia colpa dell’uomo.

Insomma, un falso, che però gli ecocomunisti propalano in tutte le sedi dicendo che il 97 % degli scienziati mondiali ha documentato l’influenza umana nel cambiamento climatico, una tesi che ormai si è trasformata in un dogma di fede e chi la mette in dubbio è accusato di negazionismo e di essere contro la scienza – in pratica un troglodita – anche se il moderno pensiero scientifico si basa, da Galileo Galilei in poi, in poi, proprio sul dubbio e sulla messa in discussione di ciò che l’autorità vuole accreditare.(…)    

 

 

 

Perché Putin vuole la guerra

contro tutti noi.

Lucalovisolo.ch – (29.11.2022) -Luca Lovisolo – ci dice:

Perché Putin vuole la guerra in Ucraina.

I perché di Putin sulla guerra nel discorso del Valdaj.

Perché Putin vuole la guerra e fin dove vuole arrivare?

 L’intervento del presidente russo alla Conferenza del «Club Valdaj» del 27 ottobre 2022 è durato oltre tre ore e mezza.

 Putin ha ripetuto molti tormentoni della retorica del Cremlino, ma il suo discorso permette di riportare alle radici la strategia russa.

Emergono la visione del regime di Mosca per il futuro dell’Europa e alcune verità scomode.

 Il discorso di Putin è stato riportato e commentato da quasi tutti i media solo per estratti.

Questa analisi si basa sulla versione audio completa, senza mediazioni, in lingua originale.

Per la spiegazione di alcuni termini mi riferisco all‘opera di “Aleksandr Dugin”.

 In altre analisi ho citato i seminari di questo politologo russo dedicati alla sua Quarta teoria politica.

 Qui mi rifaccio a precedenti corsi e conferenze tenuti da “Dugin” all’Università statale di Mosca.

Sono le lezioni nelle quali definisce i principi che sono diventati linee guida della politica estera russa negli ultimi vent’anni.

In alcuni tratti del suo discorso al Valdaj, Putin riprende i concetti di” Dugin” quasi alla lettera.

Questo elemento è importante, ma nei circoli occidentali troppo spesso non viene ponderato a sufficienza.

 Le attività della Russia in Ucraina sono parte di una strategia di ampio respiro, costruita in modo solido e convincente, se guardata dal punto di vista dei russi.

 La strategia del Cremlino non si rivolge in primo luogo all’Ucraina, ma direttamente a noi, in quanto «cosiddetto Occidente» – come Putin suole definirci, nel migliore dei casi.

Se, come spesso accade in Occidente, guardiamo alla guerra come atto isolato di un regime assetato di potere, non vediamo il quadro nel suo insieme.

 

In ciò, il fatto che l’approccio geopolitico russo a noi piaccia o meno è del tutto ininfluente.

Se vogliamo capire la guerra in Ucraina e le attività del Cremlino nelle relazioni con i nostri Paesi, dobbiamo immedesimarci nella radice dottrinale della politica estera della Russia post-sovietica. Se, come spesso accade in Occidente, guardiamo alla guerra come atto isolato di un regime assetato di potere, non vediamo il quadro nel suo insieme. Per questo, la nostra reazione sarà sempre debole e inadeguata.

La conferenza del Club Valdaj si rivolge ad accademici e politici di professione.

 Per questo motivo, Putin, quest’anno come nei precedenti, ha parlato una lingua che posiziona con particolare profondità le relazioni estere della Russia.

 Le considerazioni di Putin sono rivolte anche a noi, come bersaglio dell’aggressiva politica estera di Mosca a partire dai primi anni Duemila.

Nel fiume di parole del presidente russo si riconoscono anche talune verità scomode: non dovremmo avere paura di affrontarle.

 In questa analisi mi concentro sugli elementi fondamentali della visione del mondo del Cremlino.

Tralascio volutamente gli eccessi retorici, le opinioni più note di Putin sulla politica e sulla Storia nonché i riferimenti a questioni di politica interna.

Il motto della Conferenza del Valdaj di quest’anno era:

 «Il mondo post-egemonico – equità e sicurezza per tutti.»

Dalle parole di Putin si comprende molto bene come si realizzi questo proposito, dal punto di vista della Russia.

IL MONDO DI PUTIN INTORNO AL 24 FEBBRAIO 2022.

Punto di partenza delle considerazioni di Vladimir Putin è l’idea che il mondo di oggi agisca secondo regole che nessuno sa chi ha dettato.

 Per «regole» il presidente russo intende il diritto internazionale, i diritti umani e i principi della società aperta democratica.

 

Negli ultimi mesi, afferma Putin, si assiste a un peggioramento delle relazioni internazionali: la causa sarebbe il comportamento dell’Occidente.

 Gli Stati uniti e l’Europa sarebbero all’origine della guerra in Ucraina, della destabilizzazione dei mercati dovuta alle sanzioni internazionali contro la Russia e delle provocazioni intorno allo status di Taiwan.

In tutto ciò, prosegue Putin, l’Occidente ha commesso ripetuti errori sistemici, tra i quali la caduta del mercato europeo del gas.

La Russia è testimone di questi eventi, ma è sempre stata aperta alla cooperazione e ha presentato le sue proposte.

Con questa affermazione Putin si riferisce alle pretese che la Russia ha introdotto nel dibattito internazionale a fine 2021.

 Interi Stati dell’Europa centrale e settentrionale avrebbero dovuto dichiararsi neutrali.

Si sarebbero dovuti ridisegnare i confini delle zone di influenza di Russia e Stati uniti.

Tuttavia, dice Putin, alle proposte russe l’Occidente ha sempre risposto negativamente.

L’Occidente vuole fare della Russia uno strumento per raggiungere i suoi obiettivi, sulla base di «regole universali» alla cui elaborazione la Russia non ha partecipato, dice Putin.

Cita lo scrittore Aleksandr Isaevič Solženicyn, che definisce l’Occidente come «imprigionato nel suo senso di superiorità

L’Occidente pensa che tutti i Paesi del mondo debbano accettare il suo sistema e svilupparsi sulla base di esso. È ciò che sta accadendo proprio oggi, pensa Putin.

Dalla «Cancel culture» a Kennedy.

Di recente l’Occidente pratica addirittura una «cultura della cancellazione» ai danni della Russia, ritiene Putin.

Le istituzioni culturali occidentali rifiutano di rappresentare opere d’arte russe. Putin si riferisce all’ondata di cancellazioni di spettacoli di artisti, compositori e drammaturghi russi in teatri e sale da concerto di molti Paesi occidentali.

 La causa è la ripresa della guerra in Ucraina nel febbraio 2022 (ma Putin non la cita).

Echeggiando il celebre discorso di insediamento di John F. Kennedy del novembre 1960, Putin osserva che il mondo si trova dinanzi a una «nuova frontiera storica» e sta attraversando il decennio più pericoloso, imprevedibile ma anche più importante dalla fine della Seconda guerra mondiale.

PERCHÉ PUTIN VUOLE LA GUERRA: GLI ELEMENTI CHIAVE.

Nel discorso del Valdaj si odono termini che non sono nuovi, né in bocca a Putin né nel dibattito pubblico.

 In questo contesto, però, formano un insieme particolarmente rivelatore: universalismo, colonialismo, mondo unipolare, equilibrio degli interessi e altri.

Mondo unipolare e universalismo, la critica di Putin

Unipolare perché in esso vigono solo la cultura, la volontà e le regole occidentali: società aperta, democrazia, diritti umani e diritto internazionale.

Dopo la caduta dell’Unione sovietica, secondo Putin l’Occidente ha instaurato il mondo unipolare.

Unipolare perché in esso vigono solo la cultura, la volontà e le regole occidentali: società aperta, democrazia, diritti umani e diritto internazionale, quest’ultimo derubricato a prodotto della presunzione occidentale.

Ancor di più: la cultura e la visione del mondo occidentali hanno pretesa di universalità.

Esigono perciò di valere per tutta l’umanità, anche se l’Occidente non ha mai concordato queste regole con il resto del mondo.

I popoli del mondo aspirano alla libertà, dice Putin.

L’Occidente liberale dovrebbe esserne contento, eppure no, obietta il presidente: l’Occidente è convinto della sua infallibilità e, se questo anelito alla libertà dei popoli non corrisponde al modello occidentale, Stati uniti ed Europa applicano sanzioni, si immischiano politicamente, organizzano rivoluzioni colorate e rovesciano i governi.

Putin si riferisce qui, senza giri di parole, ai movimenti di protesta ucraini Majdan degli anni 2004 e 2014, noti come «rivoluzioni colorate.» Il Cremlino spiega quegli eventi come congiure occidentali contro le presunte pretese della Russia sull’Ucraina.

Colonialismo occidentale e globalizzazione.

Secondo Putin, questo pensiero unico dell’Occidente costituisce un modello di dominazione dal quale nasce una globalizzazione coloniale, intesa come strumento di mantenimento del potere.

 L’Occidente rafforza la sua potenza coloniale creando sempre nuove dipendenze. Come esempio Putin cita la prevalenza dell’Occidente nell’economia, nella farmaceutica e nella costruzione delle macchine utensili.

Ovunque l’Occidente apra nuovi mercati, reprimerebbe gli attori locali con una condotta colonialista.

Putin si riferisce poi in modo esplicito ancora all’Ucraina e al suo avvicinamento all’Unione europea.

 Il cammino verso l’Europa presuppone un adeguamento delle norme tecniche ucraine al complesso di norme europee.

 La transizione normativa fu davvero uno dei punti critici, negli anni cruciali 2013 e 2014.

L’argomento era:

 se l’Ucraina si sviluppa avvicinandosi all’Europa e allontanandosi dalla Russia, acquisirà lo strumentario tecnico europeo e abbandonerà quello russo.

Questa prospettiva inquietava i russi e alcuni imprenditori dell’Ucraina meridionale e orientale, che non volevano perdere il loro mercati in Russia.

PERCHÉ PUTIN VUOLE LA GUERRA CONTRO L’OCCIDENTE IN CRISI.

Ora, dice Putin, il modello neoliberale di sviluppo occidentale è entrato in una crisi dottrinale.

 Il presidente si rifà ancora alla letteratura russa.

 Cita questa volta I Demoni di Fëdor Michajlovič Dostoevskij:

 «Dalla libertà illimitata io desumo un dispotismo illimitato.» Proprio ciò, aggiunge Putin, hanno ottenuto gli «oppositori» della Russia – cioè noi occidentali.

Perché Putin vuole la guerra con l'Occidente.

La crisi dell’Occidente non è cominciata ieri: già nel 20. secolo, i liberali affermavano che la «cosiddetta» società aperta ha dei nemici (Putin non la cita, ma si riferisce all’opera centrale di Karl Popper: La società aperta e i suoi nemici).

Affinché il modello di sviluppo occidentale non si spezzi, prosegue Putin, L’Occidente limita la libertà di proporre modelli diversi, li qualifica come propaganda e come minacce contro la democrazia.

Il «cosiddetto Occidente» – continua il presidente russo – non è un blocco indifferenziato, è un conglomerato complesso.

Vi sono almeno due diversi Occidenti.

Da una parte, un «Occidente tradizionale» portatore dei valori cristiani (e anche islamici), di libertà e ricchezza di cultura;

questo Occidente ha radici antiche ed é più vicino alla Russia.

 L’altro Occidente è «aggressivo e neo-coloniale» ed è l’arma delle élite neoliberali. Al diktat di questa parte dell’Occidente la Russia non si piegherà.

L’Occidente, constata Putin, non è in grado di guidare da solo l’umanità, ma ci prova, nella sua disperazione.

La maggioranza della popolazione del mondo rifiuta il modello di sviluppo occidentale, dice il presidente russo: questa situazione è il presupposto tipico di una rivoluzione.

La pretesa dell’Occidente di universalità del suo modello può causare catene di conflitti.

Questo contrasto, dice Putin, è fatale per l’intera umanità e per lo stesso Occidente.

 Il compito storico del nostro tempo è, secondo Putin, appianare questi contrasti.

Perché Putin vuole la guerra: maggioranze e minoranze del mondo.

Putin mette in chiaro la visione della Russia: la base della civilizzazione umana sono le società tradizionali dell’Oriente

La maggioranza della popolazione mondiale abita l’est dell’Eurasia, dove, secondo l’immagine che Putin ha del mondo, risiedono le civilizzazioni più antiche.

Putin mette in chiaro la visione della Russia: la base della civilizzazione umana sono le società tradizionali dell’Oriente, dell’America latina, dell’Africa e dell’Eurasia.

Putin afferma che l’Occidente sta perdendo la sua superiorità e diventa minoranza, sulla scena internazionale.

Noi occidentali, e in particolare noi europei, nella convinzione di essere migliori di tutti gli altri, non ci accorgiamo che siamo ormai una periferia discosta, dei vassalli degli Stati uniti, senza facoltà di parola.

I diritti dei Paesi europei, secondo Putin, sarebbero «fortemente ridotti» ad opera degli Stati uniti, «per usare un eufemismo,» sottolinea Putin.

Poiché l’Occidente è una minoranza – riconosce Putin con tono concessivo – anche i suoi diritti devono essere rispettati.

La Russia non si immischia nelle questioni interne occidentali.

Putin fa capire chiaramente con queste parole, qual è il nostro ruolo nel nuovo ordine mondiale: siamo una minoranza tollerata.

Su di noi prevale la maggioranza dei non-occidentali.

Secondo Putin, la parte aggressiva dell’Occidente sta tentando di dividere la Russia.

 Cita la guerra della Cecenia e i primi anni della sua presidenza, non a caso: nel mosaico del mondo russo l’Ucraina gioca oggi lo stesso ruolo della Cecenia all’inizio degli anni Duemila.

La risolutezza di Putin è necessaria oggi come allora, poiché la Russia si trova, secondo lui, nuovamente alle soglie del disfacimento.

La Cecenia è una repubblica confederata, parte della Federazione russa.

L’Ucraina, al contrario, è uno Stato indipendente.

Putin non vede la differenza, poiché, secondo lui, ambedue sono parte della «grande Russia storica» alla quale si rivolge in modo esplicito, dopo la ripresa della guerra in Ucraina.

Putin riconosce di essere stato plasmato dall’esperienza maturata con la guerra in Cecenia, nei primi anni del suo mandato.

Questa affermazione rivela che la guerra in Ucraina, nell’idea di mondo di Putin, si ricollega alle guerre caucasiche dei primi anni Duemila.

 Già allora, aggiunge Putin, l’economia russa si rivelò più forte di quanto ci si aspettava.

Lascia intendere, così, che la Russia non deve temere le sanzioni di oggi.

Per lui, però, è ancora più importante essere consapevole che «la Russia è un grande Paese. I russi e le altre etnie del Paese sono spiritualmente disposti a lottare per affermarsi.»

 È questa certezza, dice Putin, a guidarlo nella situazione di oggi.

 In questo senso, la Russia deve valorizzare tutta la sua eredità storica, non può e non deve rinunciare a nulla.

Putin fa suo l’archetipo dell’eroe: deve sconfiggere il drago, cioè abbattere l’Occidente;

 salvare la fanciulla imprigionata, cioè la Russia; impossessarsi del tesoro, che è l’eredità storica della Russia, per edificare il regno, cioè la Russia del futuro, di cui è liberatore e sovrano.

PUTIN VUOLE LA GUERRA PER IL «MONDO MULTIPOLARE».

Ora, giudica Putin, il tempo della supremazia non condivisa dell’Occidente è finito. Il mondo unipolare diventa un ricordo del passato.

L’umanità si trova di fronte a un bivio:

o aggrava ancora i problemi esistenti, o prova a risolverli di comune accordo, non in modo idealistico, ma lavorando in concreto affinché il mondo diventi un luogo più stabile e sicuro.

L’ordine mondiale multipolare sta emergendo davanti ai nostri occhi.

In questo ordine mondiale di nuovo conio, la Russia afferma il proprio diritto di esistere – cosa che, del resto, nessuno ha mai messo in discussione – e di svilupparsi secondo il suo percorso.

Tutto ciò che sta succedendo in questo momento – la guerra in Ucraina e il nuovo orientamento della visione di Mosca verso l’esterno – sta portando un grande beneficio alla Russia, dice Putin:

il Paese sta rafforzando la sua sovranità. Sfugge così al destino di degenerare in una semi-colonia politica, economica e tecnologica dell’Occidente.

Perché Putin vuole la guerra: la posizione russa.

La particolarità della Russia, dice Putin, è che la sua posizione di fronte alle minacce esterne – cioè di fronte all’Occidente – incontra totale consenso nel resto del mondo e questo consenso può solo crescere.

La critica alla Russia arriva solo da occidentali e da persone cresciute nella visione del mondo occidentale, che non capiscono la visione russa.

 

Qui Putin riprende un argomento di “Dugin” e non solo, secondo cui la concezione della geopolitica si orienta al contesto nel quale viene studiata.

Anche secondo Putin, non vi è una concezione unica delle relazioni internazionali. Ogni loro rappresentazione sarebbe radicata relativisticamente nell’immagine di mondo nella quale l’osservatore si forma.

Perché Putin vuole la guerra: le regole del nuovo mondo.

Alla domanda su quali regole dovranno governare il nuovo ordine mondiale multipolare, Putin risponde in un modo che inizialmente sorprende.

Noi crediamo, dice il presidente, che il nuovo ordine mondiale debba essere fondato su leggi e norme, libertà ed economia di mercato, sotto l’ombrello delle Nazioni unite.

Che non ci si debba rallegrare troppo in fretta di questa affermazione lo mostrano quelle che la seguono.

 Il mondo cambia, aggiunge Putin, le regole devono essere adattate in conseguenza.

Le norme esistenti sono state elaborate dall’Occidente e servono solo a indebolire i suoi concorrenti, afferma Putin.

I diritti umani possono causare l’indebolimento degli Stati.

 Qui Putin cita il caso della Cina, con un’affermazione tanto pesante quanto compiaciuta, che cade come un sasso sulle orecchie di chi ascolta: il rispetto dei diritti umani in certe regioni della Cina, osserva, sarebbe impossibile, perché comporterebbe la disgregazione dello Stato.

 Putin si riferisce agli uiguri e alle altre minoranze che Pechino reprime sistematicamente.

Questo esempio illustra come pochi altri come Putin intenda il contratto sociale:

 Lo Stato prevale, se il rispetto dei diritti individuali lo mette in pericolo.

Questo è il perno intorno al quale si capovolge la visione del mondo – anzi, la visione della persona umana, tra la Russia e l’Occidente.

 

La «sinfonia delle civilizzazioni» suona nel mondo multipolare.

A conclusione del suo intervento Putin pone una frase a effetto:

 «Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità di fronte al mondo e costruire una sinfonia delle civilizzazioni.» I

l nuovo mondo sarà un «mondo senza sanzioni» – in altre parole, un mondo in cui ogni Stato potrà fare e disfare ciò che vuole.

L’unico limite alla totale libertà di azione sarà l’equilibrio degli interessi.

Da un mondo all’apparenza costruttivista e fondato sulle regole, Putin ricade, con uno spettacolare capitombolo – che si nota solo se si conosce il retroterra delle sue parole – in un ordine mondiale drasticamente realista.

Regimi autoritari, violazioni dei diritti umani, oppressione delle minoranze e simili sono parte del gioco, se servono a mantenere l’equilibrio degli interessi.

Cosa Putin intenda con questa espressione lo vedremo più avanti.

Dopo tre ore e mezza complessive tra discorso, domande e risposte, l’intervento di Putin si conclude.

Si potrebbe raccontare molto sugli ascoltatori presenti, ma mi limito ad alcune punte.

 Nel pubblico sedevano prevalentemente, vicino ai russi, rappresentanti di Asia, Africa e America latina; Stati come il Canada o la Moldova sembravano rappresentati solo da attivisti filorussi.

Su questo uditorio Putin esercitava un fascino quasi ipnotico.

Lo si capiva dal linguaggio del corpo dei partecipanti, dalle risate dopo le battute e le barzellette con le quali Putin si prendeva gioco dell’Ucraina e dell’Occidente; dai sorrisoni soddisfatti e dall’interminabile annuire di molte teste, nella sala conferenze strapiena.

Il numero più bizzarro è stato quello di una partecipante asiatica, che, dopo aver posto la sua domanda, ha chiesto a Putin di ricevere una sua foto autografata, perché lo ammira tanto.

 

La conferenza del Club Valdaj vuol essere il contrapposto russo alla Conferenza internazionale di Monaco sulla sicurezza.

 A Monaco, però, non di rado le domande dei partecipanti, sempre piuttosto competenti, mettono in grossa difficoltà gli oratori.

Gli interventi del pubblico del Valdaj sembravano servire solo a confermare, rafforzare e incensare le affermazioni di Putin, in modo così spudorato che a tratti il giro di domande e risposte sembrava un contorno precotto al discorso del presidente.

PERCHÉ PUTIN VUOLE LA GUERRA CONTRO LE «REGOLE».

Nel discorso di Putin al Valdaj compaiono tesi più semplici da confutare; altre che richiedono un’elaborazione più estesa, perché al primo sguardo sembrano persino lodevoli principi di umanità. Inoltre, vi sono alcune verità con le quali noi, in Occidente, dovremmo confrontarci.

Le regole scritte dall’Occidente: uno dei perché Putin vuole la guerra.

Putin pensa che il mondo si muova seguendo regole scritte solo dall’Occidente. Non è vero.

 La Russia partecipa da sempre all’elaborazione del diritto internazionale.

Ha contribuito a scrivere e ha firmato trattati internazionali.

 Quando l’Unione sovietica si sciolse, la Russia si assunse per sua libera decisione tutti gli obblighi e i diritti connessi agli accordi internazionali in vigore, poiché subentrò esplicitamente e di propria volontà nella successione giuridica della disciolta Unione sovietica.

La Russia post-sovietica, da parte sua, ha siglato innumerevoli trattati, in molti di questi riconosce le frontiere e la sovranità dell’Ucraina.

Il rimprovero secondo cui la Russia dovrebbe attenersi a norme internazionali che sono state elaborate solo in Occidente, e che ora le verrebbero imposte, è privo di fondamento e non richiede di essere ulteriormente discusso qui.

Nella visione di Putin, l’Occidente avrebbe commesso gravi errori sistemici.

 Cita l’introduzione di sanzioni contro la Russia, le modificazioni al mercato dell’energia e le altre, gravi decisioni che la comunità internazionale ha dovuto assumere in conseguenza della ripresa della guerra in Ucraina.

Putin ritiene che queste azioni siano errate, poiché non prende in considerazione la loro causa.

 Vede la guerra in Ucraina come operazione militare di portata interna.

 In Ucraina, la Russia, secondo lui, combatte contro intrusi, «fascisti» (o, ultimamente, «satanisti») che nel 1991 hanno dichiarato uno Stato indipendente su una parte di territorio russo e da quel momento lo governano senza averne diritto.

Guerra d’Ucraina e guerra di Cecenia: la continuità.

Anche la guerra d’Ucraina è e resta, nella visione del mondo di Putin, una questione di mantenimento della sovranità.

Per questo motivo, secondo Putin, la questione ucraina, al resto del mondo, non deve interessare.

Come la guerra di Cecenia, anche la guerra d’Ucraina è e resta, nella visione del mondo di Putin, una questione di mantenimento della sovranità territoriale russa.

Le Nazioni unite e gli altri Stati non devono immischiarsi in questo affare interno di Mosca.

La non-ingerenza negli affari interni di uno Stato, però, è un principio del diritto internazionale.

Vi sono, allora, principi giuridici che Putin accetta, a proprio arbitrio, e non li squalifica come «imposizione occidentale» – un diritto internazionale à la carte.

Se si elimina la guerra in Ucraina come causa delle sanzioni e delle decisioni conseguenti, davvero non le si capisce più.

La Russia si comporta come un omicida condannato che continua a insistere di non aver ucciso nessuno.

Crede, perciò, che essere spedito in carcere sia un errore dei giudici.

 

COS’E’ IL MONDO MULTIPOLARE PER IL QUALE PUTIN VUOLE LA GUERRA.

Il mondo unipolare di marca occidentale si vuole liberale, ma non accetta alcuna alternativa alla democrazia, lamenta Putin, e aggiunge: l’Occidente considera creature di serie B tutti coloro che rifiutano i suoi principi.

Ora, dice Putin, il mondo unipolare deve essere sostituito da un mondo multipolare.

Ogni civilizzazione ha una diversa concezione dell’Uomo e della sua natura. Mentre i valori occidentali mirano all’universalità, i valori tradizionali delle altre civilizzazioni non sono postulati fissi e riproducibili, che si adattano a tutti.

 Dipendono dalla tradizione, dalla cultura e dal divenire storico di ogni società. Dobbiamo tenere conto di ogni punto di vista, di ogni popolo, società, cultura, visione del mondo e orientamento religioso.

Nel mondo multipolare non si può imporre una «verità unica.»

Queste affermazioni di Putin contengono un seguito di verità lapalissiane che abbondano in ogni riga e in ogni angolo, nei discorsi di Putin stesso e di tutti i politici populisti.

 Chi sente queste parole ha l’impressione che gli si accenda improvvisamente una luce: così dev’essere un mondo giusto!

Putin ha ragione – penserà.

Se però si ricerca che cosa significa «mondo multipolare» nella dottrina russa delle relazioni internazionali, se ne trova una definizione che rallegra assai meno, nella brillante rappresentazione data da Aleksandr Dugin durante una conferenza tenuta all’Università di Mosca nel 2012.

«La teoria multipolare è una teoria molto rivoluzionaria ed estrema […] La multipolarità esclude la mono-polarità, perché presuppone che le decisioni […] vengano prese non in un unico centro, ma in diversi centri.

 In conseguenza, il mondo multipolare e quello unipolare sono antitetici […]

Bisogna distruggere il mondo unipolare, e […] se questo non è disposto a scomparire, bisogna avvicinare la sua fine.

Questa è una posizione molto dura e aggressiva […] Il mondo multipolare sarà possibile solo dopo che il mondo unipolare sarà stato liquidato in modo definitivo e irreversibile.»

Il mondo multipolare non è un prato fiorito.

Il mondo multipolare dei russi, perciò, non è quel prato fiorito sul quale le diverse culture vivono in varietà e felice accordo.

 E‘ innanzitutto un grido di guerra contro la democrazia e i diritti umani.

Dugin ha ragione: sono due mondi opposti l’uno all’altro.

Putin, da parte sua, precisa questo principio esplicitamente, quando, nel suo discorso del Valdaj, afferma che la democrazia non è l’unico modello di società possibile:

«Al mondo possono sorgere modelli di società alternativi e più efficaci, voglio sottolinearlo: più efficaci al giorno d’oggi, più luminosi e attraenti di quelli che esistono ora.

Questi modelli si svilupperanno necessariamente, è inevitabile.»

Il presidente non le cita, ma si riferisce senza equivoco alle forme di governo autoritario in un ampio spettro che va dall’Ungheria alla Cina, passando per la Russia e altre simili pseudo-democrazie.

Questi «modelli alternativi si svilupperanno necessariamente, è inevitabile» – dice Putin con tono monitorio.

 Ciò sarebbe provato, secondo lui, dal fatto che la maggioranza della popolazione mondiale rifiuta il modello di sviluppo occidentale.

Tutte le civilizzazioni riconoscono nell’alta dignità e nell’essenza spirituale dell’Uomo il fondamento più importante della costruzione del nostro futuro, sentenzia Putin. Se si guarda alla Russia, alla Cina e alle altre società autocratiche che dovrebbero formare il mondo multipolare, si ha fondato motivo di mettere in dubbio questa affermazione.

Uomini senza diritti e «civilizzazioni alternative».

Se ne desume, per converso, che vi sarebbero Uomini, nella visione del mondo russa, che non possono pretendere le libertà fondamentali e la democrazia, i diritti umani, e ciò a buona ragione.

Perché appartengono a «sistemi sociali alternativi» nei quali la persona umana non può aspirare a veder riconosciuta la sua espressione individuale.

Questo principio è espresso da “Dugin” quando afferma che:

«Ogni pretesa […] relativa al fatto che i valori occidentali sono valori universali, e in conseguenza che tutti i popoli devono accettare lo Stato nazionale, il sistema parlamentare della separazione dei poteri, l’ideologia dei diritti umani, l’economia di mercato, la stampa indipendente – tutte queste pretese devono essere respinte […] All’Occidente piacciono i diritti umani? Meraviglioso, che li rispetti.

Noi abbiamo altri diritti, un altro Uomo, un’altra antropologia sociale in altre società.»

«Abbiamo un altro uomo» («другой человек»). Un uomo, dunque, che non deve aspirare ai diritti fondamentali, alla democrazia e a tutto il discorso «occidentale» sulla centralità della persona umana. Putin, da parte sua, esprime lo stesso principio quando afferma:

«Se l’Occidente vuole introdurre l’ideologia gender e organizzare le Gay-Parade, lo faccia.

La Russia non si immischia nelle questioni interne occidentali.»

Con altre parole, Putin prende la stessa posizione di Dugin:

noi siamo altro, abbiamo altri Uomini.

Il presidente russo cita consapevolmente la questione omosessuale, perché sa che questo tema, come la questione delle migrazioni, è un ambito dei diritti fondamentali molto controverso in Occidente.

 Con queste argomentazioni Putin raccoglie consenso e semina divisione nelle società occidentali.

Se Putin citasse direttamente i diritti che aggredisce, con la sua visione del mondo – separazione dei poteri, libertà di espressione e altre libertà fondamentali – le popolazioni occidentali reagirebbero negativamente (almeno per il momento, in futuro si vedrà).

Perché Putin vuole la guerra: mondo multipolare o multilaterale?

È solo questione di tempo, e anche la versione dura e originale diventa normalità, nel dibattito pubblico.

L’esempio più calzante è proprio la guerra in ucraina.

Come sempre, Putin esprime in forma più eufemistica e politicamente presentabile gli stessi concetti che Dugin formula in modo estremo e dottrinario.

È solo questione di tempo, e anche la versione dura e originale diventa normalità, nel dibattito pubblico.

 L’esempio più calzante è proprio la guerra in ucraina.

Nel 2014 Dugin fu punito con l’allontanamento dall’università, per aver aizzato all’uccisione degli ucraini;

oggi, il genocidio contro gli ucraini avviene tutti i giorni e nessuno viene più punito per questo motivo, anzi: viene arrestato e malmenato chi leva la sua voce contro la guerra.

Dobbiamo infine distinguere il mondo multipolare di Dugin e Putin dal mondo multilaterale.

Questi termini, in Occidente, vengono spesso usati come sinonimi, ma non lo sono.

Cosa significhi per i russi mondo multipolare l’ho appena spiegato.

 

Mondo multilaterale significa, per noi in Occidente, un mondo nel quale le decisioni vengono prese in un clima di concertazione tra tutti gli Stati.

Per la dottrina russa, il significato è più ristretto:

il multilateralismo si esercita, secondo i russi, solo tra gli Stati uniti e i loro alleati, escludendo tutti gli altri.

Non è possibile approfondire qui queste diverse concezioni.

È importante, però, sapere che mondo multipolare e mondo multilaterale non sono la stessa cosa.

PERCHÉ PUTIN VUOLE LA GUERRA: «EQUILIBRIO DEGLI INTERESSI».

La base del mondo multipolare non sono i diritti umani, perciò, ma l’equilibrio degli interessi tra i diversi attori.

Attori del nuovo ordine mondiale non sono più gli Stati nazionali, ma le civilizzazioni.

Qui Putin riprende un altro concetto-chiave della dottrina di Aleksandr Dugin, secondo il quale le protagoniste del mondo multipolare saranno, appunto, le civilizzazioni – non le classi, come nel marxismo;

non lo Stato, come nel realismo;

 non il sistema democratico, come nel liberalismo.

Le civilizzazioni diventeranno soggetti dotati di personalità e capacità giuridica, all’interno delle relazioni internazionali e del diritto internazionale, dice Dugin, seguendo la «teoria dei grandi spazi» formulata dal giurista tedesco” Karl Schmitt”.

Cosa sono le «civilizzazioni» nella visione del mondo russa.

I perché delle civilizzazioni di Putin e la guerra contro l'Occidente.

Come si costruisce una civilizzazione e cosa significa questo concetto, nelle menti di Dugin e Putin?

Le civilizzazioni sono i poli del mondo multipolare.

 L’Eurasia è una civilizzazione, dove con Eurasia si intende di fatto lo spazio post-sovietico e prima russo-imperiale.

Un altro esempio, citato esplicitamente sia da Putin sia da Dugin, è l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SOC), che ha aperto una nuova era di relazioni in Oriente, dicono entrambi quasi con le stesse parole.

L’Unione europea è una civilizzazione, ma ha un difetto, dice Dugin.

Deve abbandonare la «geopolitica del mare» – quella di Stati uniti e Regno unito – e aggregarsi alla «geopolitica continentale,» che caratterizza le relazioni internazionali della Russia.

 Il politologo russo lo spiega in modo esauriente nel suo corso di geopolitica tenuto all’Università di Mosca nel 2012.

 L’Europa diventa di fatto un soggetto subordinato della civilizzazione russa ed eurasiatica.

Così dev’essere «L’Europa che vogliamo noi russi» – come ho sentito dire con le mie orecchie a Dugin, durante una conferenza da lui tenuta a Lugano nel giugno 2019.

Le «civilizzazioni» non sono quindi unità etniche, nel mondo multipolare, ma costrutti nei quali più popoli sono subordinati a un soggetto più forte, che detta le regole della rispettiva «civilizzazione:»

 La Russia nello spazio post-sovietico e in Europa,

la Cina nel Sud-Est asiatico, e così via.

 I motori del mondo multipolare, nella visione del mondo russa, sono tutti coloro che sul piano economico, politico e militare, ideologico e culturale, si oppongono agli Stati uniti:

Cina, Iran, America latina e altri, elenca Dugin.

La Russia è pronta a sostenere queste forze.

La fondazione del canale televisivo “Russia Today” in lingua spagnola, nota curiosamente Dugin nella sua conferenza sul mondo multipolare, è avvenuta proprio per sostenere i Paesi latinoamericani nello sviluppo della loro civilizzazione in «senso indipendente» contro gli Stati uniti.

Con chi e perché Putin non vuole la guerra?

Questa posizione di Dugin si riflette nell’affermazione di Putin al Valdaj, quando afferma:

«La Russia è pronta a cooperare con i Paesi che sono sovrani nelle loro decisioni fondamentali. I Paesi che voglio avere buone relazioni con la Russia devono mostrare che difendono i loro interessi.»

La frase è inequivocabile:

 la Russia è aperta verso tutti quegli Stati che si sottraggono alla cooperazione internazionale con gli Stati uniti e l’Occidente.

Al posto dell’Unione europea e delle altre istituzioni di stampo occidentale arrivano l’Unione eurasiatica e il noto e temuto progetto dell’Europa «da Lisbona a Vladivostok.»

Comandamento supremo del “nuovo ordine mondiale” è il mantenimento delle «civilizzazioni,» costi quel che costi, sotto la guida del più forte.

 Se georgiani, ucraini e altri non si sentono parte della civilizzazione eurasiatica, devono essere tenuti sotto il suo tetto con la forza.

Agli uiguri e alle altre minoranze della Cina deve essere negato il diritto all’autodeterminazione, perché in questo caso, come osserva Putin in modo esplicito – l’abbiamo detto poco sopra – il rispetto dei diritti umani metterebbe in pericolo lo Stato.

In questa visione del mondo, entità come gli Stati del Centro Europa, del Caucaso e dell’Asia centrale non hanno alcuna personalità propria.

Possono esistere solo in quanto zone di influenza subordinate alla potenza che domina la rispettiva «civilizzazione.»

Putin esprime questo principio quando dichiara, nel suo discorso del Valdaj:

«La sovranità dell’Ucraina può essere garantita solo dalla Russia, perché l’Ucraina è stata creata dalla Russia.»

Dal punto di vista storico e giuridico questa affermazione è una sciocchezza, ma rientra alla perfezione nella dottrina russa del mondo multipolare.

Il mondo di Putin come «unica opportunità» per noi.

Questo principio non vale solo per ucraini, georgiani e popoli confinanti.

 Il mondo multipolare è «l’unica opportunità anche per i Paesi europei – cioè per noi – di esercitare soggettività politica ed economica,» soggiunge Putin.

 In questo momento noi europei non siamo disponibili, ma, afferma Putin:

«Il pragmatismo trionferà. Prima o poi l’Occidente e i nuovi centri dell’ordine mondiale multipolare dovranno parlarsi a pari livello, a proposito del loro futuro comune, per raggiungere un equilibrio degli interessi. Il dialogo tra la Russia e l’Occidente autentico e tradizionale sarà il più importante contributo all’ordine mondiale multipolare.»

L‘«Occidente autentico e tradizionale» è quello i cui valori corrispondono ai postulati dei partiti filorussi e populisti, sia di destra sia di sinistra.

Il messaggio è chiaro: la Russia, in combutta con le forze filorusse europee, plasmerà il nostro continente a sua immagine e somiglianza.

Torniamo brevemente a Dugin, che dice: «Dobbiamo concentrarci sulla fondazione della civilizzazione come attore, come soggetto delle strutture del mondo multipolare. Questo è l’elemento più importante.»

 L’equilibrio degli interessi tra le civilizzazioni significa, perciò, verso l’interno, che la potenza dominante di ciascuna civilizzazione consolida il suo potere, con qualunque mezzo.

Afferma Putin:

«Un cambiamento epocale è un processo doloroso, ma naturale e inevitabile.»

Guerra e violenza sono messe in conto e vanno sofferte, come passi di una spinta naturale e insopprimibile.

 La guerra in Ucraina è espressione ed esempio di questo processo di riequilibrio.

 Si noti quanto spesso Putin usa il termine, inevitabile: su uno sfondo storicistico e con un’ebbrezza quasi religiosa, Putin vede l’umanità come una comunità legata da un unico destino.

Verso l’esterno, il concetto di equilibrio degli interessi tra le civilizzazioni assomiglia a ciò che nella dottrina delle relazioni internazionali si definisce equilibrio di potenza (Balance of power).

Il mantenimento dell’equilibro di potenza prevale, nei realisti, sul rispetto di regole e valori.

Così è anche nel nuovo ordine mondiale di Putin.

 

PERCHÉ PUTIN VUOLE LA GUERRA: LE VERITÀ SCOMODE PER NOI.

Sono verità che possono diventare rapidamente un cappio al collo per noi, se continuiamo ad accettare la realtà senza reagire.

L’idea di mondo di Putin contiene molte distorsioni della Storia e della realtà.

A fianco di queste, però, emergono fatti che dimentichiamo troppo spesso.

 Sono verità che possono diventare rapidamente un cappio al collo per noi, se continuiamo ad accettare la realtà senza reagire.

 

L’Occidente – il mondo della società aperta, dell’economia di mercato e dei diritti umani – è davvero una minoranza, rispetto al resto del pianeta.

 Il “Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite” è composto a maggioranza schiacciante da Paesi che non rispettano i diritti umani.

Un’economia di mercato, non senza macchie ma funzionante, esiste di fatto solo in Occidente, poiché ad altre latitudini l’economia è diretta o dal crimine organizzato, per mezzo di corruzione e violenza, o da oligarchi o dallo Stato, o da tutte queste cose messe insieme.

Una società non priva di difetti ma pur sempre aperta, nella quale i cittadini possono esprimere i loro talenti, possono contare su una giustizia generalmente indipendente e possono influire sulla legislazione attraverso una rappresentanza parlamentare votata liberamente – tutto ciò l’abbiamo, nella misura massima oggi possibile, solo noi in Occidente.

 Il nostro modello di sviluppo presenta molte lacune, ma tutti gli altri sono peggiori.

In quanto minoranza del mondo, possiamo conservare il nostro modello di società solo se manteniamo nel tempo il nostro primato intellettuale.

 La ricerca e lo sviluppo nelle scienze, tecniche e umane, sono la base del nostro benessere e delle nostre libertà.

Finché sediamo in prima fila per capacità intellettuali, abbiamo l’opportunità di trasmettere alle prossime generazioni i valori fondamentali della nostra società, anche se siamo minoranza.

Putin vuole la guerra perché il primato dell’Occidente è in bilico.

Vladimir Putin ritiene che il modello neoliberale di sviluppo dell’Occidente sia entrato in una crisi dottrinale.

Putin ha ragione.

Nel progresso tecnologico manteniamo il primato, ma nelle scienze umane siamo oggi più deboli che mai.

 Le scienze umane sono il presupposto della capacità di giudizio nelle questioni fondamentali di valore, dove è necessario saper distinguere il vero dal falso – poiché è possibile, distinguere il vero dal falso.

Un’ordinata scienza della politica, come fondamento dello sviluppo della nostra società sulla base sicura dei valori fondamentali, presuppone un sano e diffuso sapere umanistico.

La guerra in Ucraina ha denudato senza pudore la debolezza intellettuale dell’Occidente.

Politici dei parlamenti d’Europa che sostengono le sanguinose azioni del regime russo;

ministri e capi di governo che discettano senza risultati per settimane, anzi mesi, sulle forniture di armi;

docenti che diffondono letture falsificate della Storia;

televisioni e giornali di largo ascolto, talvolta persino obbligati al servizio pubblico, che offrono palcoscenici e milioni di ascoltatori a leader d’opinione nei quali non si riconosce la minima competenza.

I perché di Putin sulla guerra e la debolezza culturale dell'Occidente.

Il dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina ha messo in luce quanto in fretta possiamo diventare davvero la minoranza ammutolita che Putin e i suoi scherani deridono in noi.

Rinunciando al nostro primato nelle scienze umane, perdiamo la capacità di prendere posizioni chiare.

Indecisi tra vero e falso, per mancanza di capacità di giudizio, abbiamo elevato l’indifferenza a equità e ne facciamo dibattiti che sconfinano nell’eternamente insignificante.

Così noi, gli autoproclamati protagonisti del gran teatro del mondo, diventiamo burattini di legno su un palcoscenico di provincia, nelle mani di burattinai spaventosi.

La «nuova frontiera» di Putin: verso il futuro oppure…

Il mondo unipolare – dunque il mondo dei valori occidentali, dei nostri valori – apparterrà presto al passato, ammonisce Putin.

Anche su questo ci avrà preso, se noi non interveniamo rapidamente contro l’inaridimento della nostra capacità di pensiero.

Il mondo, osserva Putin con ragione, è sulla soglia di una nuova frontiera.

Noi, da parte nostra, dovremmo fare in modo che questa frontiera, come disse Kennedy nel 1960, si apra verso il futuro;

nell’idea di mondo di Putin, la nuova frontiera è un passo indietro verso il passato.

 Dove vogliamo andare?

Perché la guerra di Putin.

PERCHÉ PUTIN VUOLE LA GUERRA CONTRO «L’UNIVERSALISMO».

Infine, lo spunto forse più importante del discorso di Putin.

Il presidente russo lo riprende ancora una volta alla lettera dalla dottrina di Dugin. I valori occidentali – democrazia, diritti umani, diritto internazionale – hanno pretesa di universalità, ossia pretendono di valere per tutta l’umanità.

Pertanto, secondo Putin, sono uno strumento di prevaricazione da parte dell’Occidente sul resto del mondo.

La validità universale dei diritti umani non è una pretesa coloniale dell’Occidente: è un pilastro della civiltà umana – non solo di quella occidentale.

I diritti umani sono universali perché:

«Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.»

Così stabilisce il preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti umani,” promulgata nel 1948 dalle Nazioni unite e firmata anche dalla Russia (allora come Unione sovietica).

 I diritti oggettivi sono stabiliti dalla legge;

i diritti soggettivi nascono dai rapporti giuridici;

 i diritti umani sono fondati esclusivamente sul fatto che nasciamo persone umane. Per questo motivo, ogni persona umana, non importa dove, gode degli stessi diritti umani.

Se si distingue – e in base a cosa, poi? –

 una persona A, che ha diritto alle libertà fondamentali,

da una persona B, alla quale queste libertà vengono negate,

il concetto di «diritto umano» perde il suo fondamento.

Il principio dell’universalità dei diritti umani ha una storia antica. Compare in modo esplicito nella “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 1789”,

all’articolo 1:

 

«Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.»

Il germe dei diritti umani emerge ancor più anticamente, nelle prime concessioni della monarchia inglese, dalla Magna Charta al Bill of Rights, in uno spazio di tempo tra il tredicesimo e il diciassettesimo secolo.

 Negando l’universalità dei diritti umani, la Russia mette in discussione un fondamento giuridico e storico per il quale l’umanità ha lottato a lungo e duramente.

Se passa la visione russa, la civilizzazione umana torna indietro di secoli.

Putin vuole la guerra contro l’universalità dei diritti umani

La negazione dell’universalità dei diritti umani è forse l’elemento più importante della dottrina delle relazioni internazionali nella Russia post-sovietica.

 Se i diritti umani valgono senza distinzione per tutti gli Uomini, l’intero costrutto della teoria politica di Aleksandr Dugin crolla.

Con esso cade la politica estera russa degli ultimi 20 anni, orchestrata da Vladimir Putin.

Il motivo dichiarato per il quale la dottrina russa rifiuta la validità dei diritti umani per tutti è che il mondo multipolare deve tenere conto della diversità delle culture.

In realtà, la Russia e gli altri Stati illiberali voglio tenere aperti degli spazi in cui i governi dittatoriali possano esercitare il loro potere indisturbati, circondati solo da alleati consenzienti, incapaci di autodeterminazione.

L’Occidente non è privo di colpe:

 l’Europa e gli Stati uniti, nella loro lunga storia, hanno accumulato molti debiti.

Si possono trovare numerose circostanze nelle quali il modello occidentale è stato davvero imposto con prevaricazione coloniale.

 

È anche vero ciò che afferma Dugin, quando osserva che lo Stato nazionale non è più adeguato al mondo di oggi e che vi sono popoli che hanno difficoltà ad applicare i principi della democrazia.

 Ciò premesso, ridurre i diritti umani e il diritto internazionale a uno strumento di dominio occidentale non è la soluzione del problema.

Il modello di sviluppo occidentale si impone perché è un modello di successo.

 Putin pensa, l’ho già citato, che la maggioranza dell’umanità respinga il nostro modello di società.

Certo, esiste un diffuso antioccidentalismo, nel mondo, in parte motivato, in parte dovuto a ignoranza e presunzione.

Tuttavia, le donne iraniane che dimostrano contro l’obbligo del velo;

i migranti africani che sbarcano ogni giorno sulle coste meridionali dell’Europa;

gli oligarchi russi e gli arrampicatori sociali asiatici che vogliono studiare e fare business in Occidente sono attratti tutti dal nostro modello di sviluppo, perché gli Uomini aspirano al progresso e alla libera realizzazione della loro personalità.

La costante mobilitazione in nome degli interessi dello Stato, di una religione o di una «civilizzazione» non è una ragione di vita.

Perché Putin vuole la guerra: una filosofia radicata a fondo.

Indipendentemente da come finirà la guerra in Ucraina e da quanto tempo Putin resterà avvinghiato al potere, dovremo confrontarci ancora a lungo con la visione del mondo della Russia post-sovietica, poiché ha ingranato a fondo nelle teste dei decisori politici e dell’opinione pubblica, in Russia e in parte anche in Occidente.

Perché la guerra di Putin in Ucraina.

La Russia non abbandonerà questa politica, se noi non ce ne difenderemo con vigore.

 Dopo gli insuccessi militari di Kyiv e Kharkiv, i russi hanno ritirato le loro truppe anche da Kherson.

 E‘ una ritirata militare, ma non un arretramento ideologico.

 È bene sottolineare un principio che molti politici occidentali sembrano non aver ancora recepito del tutto:

la realizzazione della visione del mondo russa presuppone l’eliminazione dell’Occidente come luogo d’origine della società aperta, poiché la dottrina russa nega la validità universale dei diritti umani, che sono la base del modello di sviluppo occidentale.

Per raggiungere questo scopo, la Russia ritiene giustificato qualunque mezzo: guerra militare, ingerenza nei processi democratici, ricatto energetico.

 La guerra in Ucraina mostra quanto in fretta, in tutto ciò, vengano superati i freni inibitori della morale, perché, ricordiamolo:

«La teoria multipolare è molto […] dura e aggressiva […]. Il mondo multipolare sarà possibile solo dopo che il mondo unipolare sarà stato liquidato in modo definitivo e irreversibile» – per citare ancora una volta la conferenza di Dugin.

Perché Putin vuole la guerra: Ucraina e discorso del Valdaj.

«Il pragmatismo trionferà. Prima o poi l’Occidente e i nuovi centri dell’ordine mondiale multipolare dovranno parlarsi a pari livello, a proposito del loro futuro comune.»

Per concludere, un cenno allo sviluppo della guerra in Ucraina alla luce del discorso di Putin al Valdaj.

Nel suo intervento, il presidente russo ha dichiarato le sue intenzioni con un’argomentazione passeggera ma pesantissima, che ho già citato poco sopra: «Il pragmatismo trionferà. Prima o poi l’Occidente e i nuovi centri dell’ordine mondiale multipolare dovranno parlarsi a pari livello, a proposito del loro futuro comune.»

Applicato alla quotidianità concreta della guerra, ciò significa:

Putin porta all’esasperazione gli ucraini e l’Occidente con attacchi missilistici, terrorismo e tortura, nella convinzione che l’Ucraina e l’Occidente prima o poi cederanno, vorranno negoziare e accetteranno la visione del mondo russa per pragmatismo.

 I cosiddetti «pacifinti» occidentali – i partiti populisti, i leader d’opinione filorussi, la Chiesa cattolica – che si ergono contro il sostegno e le forniture di armi all’Ucraina, condividono la stessa convinzione di Putin.

Il discorso del presidente russo al Valdaj ha portato brillantemente alla luce come la guerra d’Ucraina sia solo una parte di un’aggressione che è rivolta a noi occidentali come difensori della modernità.

 Se vogliamo portare in salvo i valori del nostro modello di società oltre la «nuova frontiera,» dovremmo confrontarci seriamente con la visione del mondo russa, perché è nociva per noi.

Purtroppo non lo stiamo facendo.

 Cinguettiamo sui rami dell’albero, mentre la Russia colpisce energicamente con l’ascia il tronco della società aperta.

Sulla guerra in Ucraina circola un detto che gli ucraini hanno elevato a motto della loro lotta resistenza:

«Se la Russia smette di combattere, non ci sarà più guerra; se l’Ucraina smette di combattere, non ci sarà più l’Ucraina.»

È una verità parziale.

 La verità completa è che se l’Ucraina e noi stessi smettiamo di combattere, non ci sarà più né l’Ucraina, né il modello di sviluppo della modernità. 

 

 

 

Dal Fordismo al neoliberismo globalizzato.

Critica no global e sovranità alimentare.

Transform - italia.it – (07/07/2021) - Alessandro Scassellati – ci dice:

 

Negli ultimi quattro decenni il processo di accumulazione capitalistico ha cambiato pelle, passando da un regime Fordista-Keynesiano al neoliberismo globalizzato.

Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, il movimento internazionalista no-global o altermondialista ha articolato analisi critiche del “pensiero unico”, del funzionamento e degli effetti del nuovo regime neoliberista, sviluppando competenze e pratiche antagoniste condivise a livello planetario.

Allora il movimento è stato sconfitto, ma oggi, alla luce della pandemia da Covid-19 e dei cambiamenti climatici in atto, appare necessario ripartire da molte di quelle analisi critiche e soluzioni politiche ed economiche proposte.

Tra queste ci sono senz’altro quelle relative alla questione della sovranità alimentare.

Dalla fine del Fordismo-Keynesismo all’egemonia neoliberista.

Alla fine degli anni ’70, il secondo shock petrolifero – con il raddoppio del prezzo del barile – a seguito della rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Ruḥollāh Khomeini nel 1978-79 contro la monarchia dello Shah Mohammad Reza Palhavi e contro il “Grande Satana” americano (esemplificata dalla crisi dei 52 ostaggi sequestrati all’ambasciata USA per 444 per giorni, costata la rielezione al presidente Jimmy Carter) e della disastrosa guerra tra Iran e Iraq, ha contribuito a far arrivare l’inflazione al 14,8%, il tasso d’interesse fissato dalla banca centrale americana (FED) al 19% e il prime rate al 20,5% negli USA nel maggio 1981. L’intensificarsi delle criticità, contraddizioni, rigidità, rendite di posizione e conflitti economici, sociali e politici avevano ampiamente inceppato il processo di accumulazione del capitale, fatto esplodere la competizione inter capitalistica in presenza di una crisi di sovraccumulazione di capitali e sovrapproduzione di merci, arrestato il dinamismo del sistema capitalistico e mandato in crisi la struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana che si era via via consolidata nel dopoguerra nel mondo occidentale durante i “trenta gloriosi”.

La crisi economica e sociale è sfociata in una grave crisi politica negli Stati Uniti, incapsulata nel drammatico discorso sulla “crisi di fiducia” del presidente Jimmy Carter nel 1979 e in un emergente consenso bipartisan dell’establishment sulla necessità di abbandonare il keynesismo.

Carter esprimeva un punto di vista sul “malessere della democrazia” che era stato sviluppato a partire dai primi anni ’70 dalla Commissione Trilaterale – un’istituzione élitaria fondata da David Rockfeller nel 1973, della quale Carter aveva fatto parte, come altri uomini d’affari e politici americani, europei e giapponesi di primo piano – e che era stato definito dal rapporto elaborato da “Michel Crozier”, “Samuel Huntington” e” Joji Watanuki” col titolo “La crisi della democrazia”.

 Rapporto sulla governabilità delle democrazie nel 1975.

È stato a questo punto che si è sviluppata una potente doppia contro-offensiva, una vera e propria “guerra di movimento” conservatrice, pro-capitalista e anti-governativa, controllata da partiti tradizionali di centro-destra, portata avanti da parte di:

grandi imprese nazionali e multinazionali che hanno avviato una nuova ondata di investimenti in nuove tecnologie, nuove aree geografiche e nuove forme organizzative tese ad intensificare lo sfruttamento del lavoro umano, riorganizzare le catene di approvvigionamento e del valore (supply and value chains), incrementare la produttività e ridurre i costi (a cominciare da quelli relativi a lavoro ed energia) che in breve hanno avuto effetti dirompenti sulle relazioni e strutture di classe, sui livelli occupazionali, sulle relazioni competitive tra imprese e sul coinvolgimento dei territori centrali e periferici dell’economia mondiale;

forze politiche e culturali anglo-americane più legate e sensibili agli interessi delle grandi imprese che hanno avviato il sistematico smantellamento della struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana, sostituendo il keynesismo con l’hayekesmo, il neoliberismo, il monetarismo – dall’agosto 1979 il presidente della FED, Paul Volcker, ha imposto il rialzo del tasso di interesse come mezzo per abbassare drasticamente l’inflazione – e abbandonando unilateralmente l’impegno per la piena occupazione (nonostante il mandato politico di piena occupazione sancito negli USA dall’Humphrey-Hawkins Act del 1978) per orientarsi verso la supply-side economics (una dottrina secondo cui la performance economica dipende in gran parte dal mantenimento di basse aliquote fiscali per ricchi e grandi imprese), sposando l’idea di ridurre la disoccupazione attraverso la compressione dei salari invece che attraverso gli investimenti pubblici, recidendo anche il legame tra salari e crescita della produttività.

È stata promossa un’ideologia, una filosofia politica neo-liberale contrassegnata da una “fede” e una glorificazione dell’individualismo, della libertà di scelta individuale, del “free enterprise system”, del “libero mercato” (la “mano invisibile” di Adam Smith), della competizione senza restrizioni come caratteristica che definisce le relazioni umane, della proprietà privata come garanzia per l’iniziativa individuale, nonché da un visione dello Stato keynesiano, roosveltiano o socialdemocratico come inerentemente nemico della libertà individuale e dell’efficienza economica, perché produce benefici per potenti gruppi di interesse (identificati soprattutto nei lavoratori sindacalizzati) e distorce i prezzi, determinando dispotismo politico, una diminuzione della crescita economica, maggiore inflazione e disoccupazione attraverso un eccesso di offerta di moneta.

Pertanto, secondo questa visione proto-anarchica e libertaria, lo Stato doveva essere ridimensionato il più possibile (“starve the beast”), trasformato in uno “Stato leggero” (downsizing) che idealmente, oltre ad intervenire contro i nemici del mercato – nazionalismo economico e richieste democratiche -, avrebbe dovuto assicurare poco più che la gestione monetaria finalizzata alla stabilizzazione dei prezzi, la libertà del mercato (come garante del libero movimento di capitali e profitti), la proprietà privata, la sicurezza, interna ed estera, e la giustizia civile per risolvere le controversie.

Decenni di politiche keynesiane socialdemocratiche avevano prodotto rigidità, inefficienze, sprechi e una “casta” politico-burocratica che, sfruttando gli ampi bilanci pubblici tipici di tali politiche, oltre ad aver dato vita ad una classe media con una base economica relativamente stabile legata alla crescente dinamica della spesa pubblica, aveva sviluppato dei comportamenti istituzionali top-down sistematicamente inclini ad autoreferenzialità, cooptazione, corruzione, clientelismo, affarismo, sprechi e incompetenza.

Allorquando la crescita permanente della ricchezza, dell’occupazione e delle entrate fiscali è rallentata e poi si è interrotta, questi comportamenti hanno finito per erodere profondamente non solo l’equilibrio dei bilanci pubblici e il rapporto tra cittadini e istituzioni, ma anche le politiche keynesiane stesse, la percezione della loro efficacia socio-economica.

Il diffuso affermarsi di questa “casta” e gli effetti negativi dei suoi comportamenti hanno costituito il miglior argomento per tutti coloro che si sono impegnati nello screditarla e nel rivendicare un ritorno a bilanci pubblici striminziti e a un ruolo della pubblica amministrazione decisamente secondario, accompagnato da un maggiore potere dei mercati.

Secondo il credo neoliberista, il modo per garantire una maggiore crescita economica – di cui avrebbero indistintamente beneficiato tutti, sia detentori di capitali sia lavoratori – era quindi che il governo non si “intromettesse”, che facesse il meno possibile direttamente, soprattutto nei campi dello sviluppo economico e del welfare.

 L’ampliamento dell’intervento pubblico nelle questioni economiche sarebbe stato giustificato dal New Deal in avanti in base a tesi “completamente insensate:

 il fatto è che la Grande Depressione, come la maggior parte degli altri periodi di grande disoccupazione, venne causata dalle cattive scelte fatte dalle autorità e non da un’ipotetica instabilità connaturata all’economia privata.

 […] quella che sarebbe stata una modesta contrazione dell’economia divenne un’autentica catastrofe”.

 

È importante, però, tenere presente anche la variante più realistica e pragmatica del pensiero neoliberista, rappresentata dalla scuola tedesca ordoliberista fondata da economisti come “Walter Eucken”, sociologi come “Alexander von Rüstow” (che ha inventato il termine “Vitalpoliti”k, poi ribattezzato “biopolitica” da Foucault), “Wilhelm Röpke” e “Alfred Müller-Armack” e giuristi come “Franz Böhm” e “Hans Grossmann-Doerth”, dall’Università di Friburgo e dalla rivista Ordo (fondata da “Eucken” nel 1948) che ha abbandonato la via tradizionale del “laissez faire”, negando la capacità del mercato di autoregolarsi e sostenendo la necessità di un forte interventismo da parte dello Stato – uno Stato forte garante di un ordine competitivo, “ordinatore” perché capace di usare la concorrenza come norma e strumento dell’attività di governo – per assicurare che il libero mercato produca risultati vicini al suo potenziale teorico.

 

La doppia contro-offensiva economica e politico-culturale ha contribuito a creare un nuovo ordine sociale e a ristabilire le condizioni favorevoli per l’accumulazione del capitale (la crescita dello stock di capitale fisso a seguito di una nuova ondata di investimenti), consentendo l’emersione di un regime di “accumulazione flessibile”, definito come insieme del perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale della produzione e delle catene del valore, del ritiro dello Stato-apparato nazionale da politiche interventiste, insieme a deregolazioni e privatizzazioni.

 Sia pure con differenti configurazioni a seconda dei diversi contesti nazionali, ha ripristinato il potere delle élite economiche, ha eroso o annullato il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che si era imposto dall’immediato dopoguerra, incarnato nella contrattazione collettiva e nel progressivo equiparamento fra diritti civili e diritti sociali che aveva consentito l’estensione del welfare e l’affermarsi del paradigma Fordista-Keynesiano in Occidente fino alla prima metà degli anni ’70.

Il nuovo regime ha fatto entrare il mondo in una nuova “onda lunga” espansiva:

la fase storica della globalizzazione neoliberista che sul piano economico è durata fino alla grande crisi finanziaria del 2007-2008 e sul piano politico fino al terremoto iniziato nel 2016.

A partire dalla seconda metà degli anni ’70, il neoliberismo ha rapidamente acquisito lo status di un discorso e di un progetto egemonico perché è apparso come la soluzione efficiente al problema di come stimolare un’economia in ristagno.

 È diventando la forma politica ed ideologica dominante della globalizzazione capitalistica con il cosiddetto “Washington Consensus”, un termine coniato dall’economista” John Williamson” e caratterizzato essenzialmente da tre imperativi:

stabilizzare, privatizzare e liberalizzare, ossia dalla convinzione che mercati liberi, libero scambio, disciplina fiscale e liberal-democrazia fossero fattori necessari per far crescere le economie e far rimanere stabili i sistemi politici.

Uno scenario preconizzato da “Milton Friedman” fin dai primi anni ’60, all’apogeo della “nuova frontiera” kennediana, quando era quasi ignorato e aveva sostenuto che:

“Solo una crisi – reale o percepita – produce cambiamenti reali.

 Quando questa crisi si verifica, le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee che si trovano in giro.

Questa, credo, sia la nostra funzione fondamentale:

sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle vive e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”.

 

Friedman e gli altri economisti neo e ordoliberisti erano consapevoli che le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato e che pertanto lo Stato (keynesiano) stesso dovesse essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo.

 Sul piano politico, le amministrazioni di “Margaret Thatcher” (1979-1991) e di “Ronald Reagan” (1981-1989), entrambi eletti grazie al voto delle classi medie e popolari più conservatrici e all’appoggio aperto dei settori più organizzati ed aggressivi del mondo della grande finanza ed impresa, hanno “venduto” le idee di Friedman e degli economisti neo e ordoliberisti all’opinione pubblica e indicato la strada da seguire alle altre élites politiche – liberal-democratiche, socialdemocratiche, democratico-cristiane – dei Paesi dello schieramento occidentale.

 Si pensi, ad esempio, a “Helmut Kohl” (1982-1998) in Germania, a Bettino Craxi (1983-1987) in Italia, ad “Aníbal Cavaco Silva” (1985-1995) in Portogallo o al presidente francese “François Mitterand” (1981-1995) che pur essendo stato eletto con un programma radicale di trasformazioni in senso socialista dell’economia, che prevedeva nazionalizzazioni, riduzione dell’orario di lavoro, abbassamento dell’età pensionabile, aumento del salario minimo, etc., si era convertito repentinamente al neoliberismo dopo la fuga di capitali e gli assalti speculativi sulla moneta francese del 1983.

Il suo governo – con al ministero delle Finanze “Jacques Delors” – ha eliminato tutti i controlli sui movimenti di capitale, deregolamentato il sistema finanziario, privatizzato le banche, mantenuto la Francia nel Sistema Monetario Europeo (SME) e perseguito politiche di “austerità dal volto umano”.

Un’inversione di marcia del centrosinistra francese che ha consapevolmente e deliberatamente spezzato il suo tradizionale blocco sociale di appoggio, sganciandosi dalla classe operaia, nella speranza di sostituirlo con un “blocco borghese” di classi medie professionali e manageriali del settore pubblico e privato più propenso alle riforme neoliberiste.

Lungi dal resistere all’ulteriore neo liberalizzazione del progetto europeo, “Mitterrand” lo ha promosso attivamente, vedendo nei suoi vincoli sulla politica fiscale, monetaria e redistributiva un’opportunità per indebolire i comunisti – i suoi partner di coalizione di una volta.

Una linea politica che ha accelerato il declino delle fortune politiche di questi socialdemocratici revisionisti.

 

Il neoliberismo ha permeato anche le élites politiche di diverse nazioni dell’Africa, del Sud e Centro America e poi dell’Europa centrale ed orientale.

 La violenza è stata largamente utilizzata per imporre il neoliberismo nel Sud del mondo.

Colpi di Stato, guerre e invasioni sono stati i metodi usati per disciplinare classi dirigenti recalcitranti e favorire l’apertura agli investimenti stranieri, l’estrazione di risorse e la privatizzazione di beni pubblici.

Ma, il mezzo principale per imporre l’agenda neoliberista è stata la “trappola del debito”, con istituzioni internazionali come il FMI, la Banca Mondiale e la WTO che hanno svolto un ruolo centrale nello spingere i Paesi in via di sviluppo e post-comunisti ad adottare politiche di “aggiustamento strutturale” basate sul ritiro dell’intervento statale dalla produzione e distribuzione come una necessaria precondizione per la crescita economica.

La prima delle ”rivolte contro il FMI” si è verificata a Lima, in Perù, nel 1976, seguita da una escalation continuata durante gli anni ’80”.

Nel 1982 sono stati cacciati tutti i consulenti economici keynesiani da Banca Mondiale e FMI, sostituiti da teorici neoclassici dell’offerta convinti che a qualunque crisi occorresse rispondere con una politica di “aggiustamento strutturale”, imponendo politiche di austerity a tutti i Paesi in difficoltà.

Questi cambiamenti del paradigma egemonico hanno consentito di spostare l’equilibrio delle forze in netto favore del capitale rispetto al lavoro, rimettendo in moto il processo di accumulazione capitalistico, e di vincere la Guerra Fredda (costata 45 milioni di morti nei vari teatri extra-occidentali dello scontro e della “coesistenza pacifica” dal 1945), dopo un decennio di folle corsa agli armamenti da parte di USA e URSS, portando alla caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989, alla riunificazione delle due Germanie nell’ottobre 1990, alla fine della vecchia sinistra social-comunista antagonista in Europa (che non aveva ancora accettato il compromesso liberal-social-democratico) e alla fine del “socialismo reale” in Russia con la sua economia interamente pianificata entro le rigide maglie dello Stato, a seguito della bancarotta e dell’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991 (definita da Reagan ”Impero del Male” nel 1983).

 Una vittoria che ha consentito di estendere il modo di produzione capitalistico, impiantando il suo insieme strategico di relazioni, all’intero globo.

Il collasso del “socialismo reale” nell’ex blocco sovietico e l’accesso della Cina all’economia di mercato internazionale hanno aggiunto circa 2 miliardi di persone alla forza lavoro salariata globale.

Sono stati aperti nuovi mercati di merci, servizi, capitali finanziari, forza lavoro, materie prime e derrate alimentari per le grandi imprese multinazionali.

Nei Paesi Occidentali, inoltre, la vittoria sul “socialismo reale” ha portato le classi dirigenti a pensare che fosse giunto il momento di intensificare l’applicazione dell’agenda neo e ordoliberista e smantellare definitivamente il compromesso socialdemocratico, abbandonando ogni forma di egualitarismo e di redistribuzione della ricchezza e mettendo al centro della società e della vita quotidiana il solo mercato.

 In particolare, in Europa ha disincentivato l’innovazione del modello di sviluppo socialdemocratico europeo e spinto ad un suo ridisegno secondo i dettami dell’”ordoliberismo tedesco” basato sulla centralità delle esportazioni, bassi salari, precarietà contrattuale, taglio della spesa e degli investimenti pubblici, estromissione dello Stato dall’economia reale, limitando la sua funzione alla “regolazione” del libero gioco del mercato.

 

Una vittoria apparentemente totale del binomio “neoliberismo-globalizzazione”, che lo storico conservatore” Francis Fukuyama” ha tradotto nella formula della “Fine della Storia”, titolo di un libro che ha avuto uno straordinario successo editoriale globale e che vedeva nel modello politico, culturale e sociale della democrazia liberale (liberalismo politico) realizzata nell’ambito del libero mercato (liberalismo economico) il non plus ultra dell’evoluzione della civiltà umana, la “forma finale di governo umano verso cui ora tutti i Paesi dovrebbero convergere”, mentre gli oppositori dei contro-movimenti no-global la hanno definita come la vittoria del “pensiero unico” (un concetto reso popolare dal sociologo francese “Pierre Bourdieu”) in ossequio allo slogan preferito della signora Thatcher: “there is no alternative” (TINA) ad un’economia di mercato.

 

Il movimento no global e la critica della globalizzazione neoliberista.

Se negli ultimi decenni la trasformazione capitalistica cinese è stata una delle principali forze propulsive del processo di globalizzazione, movimenti di critica internazionalista e di resistenza no global o anti-globalizzazione neoliberista (di popolo, governativi, pacifici, radicali, violenti, armati e terroristici) sono via via emersi in varie parti del mondo.

Tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio, in particolare, abbiamo assistito ad un movimento di opposizione che ha reagito al salto di quantità e di qualità nel processo di mercificazione globale indotto da un capitalismo che, nello sforzo planetario di mettere in campo nuove merci e di accaparrarsi nuovi mercati e ulteriori fonti energetiche o sfruttare fino all’osso quelle esistenti, stava trascinando, in un processo senza precedenti di mercificazione planetaria, anche settori e territori fino a poco prima estranei al conflitto capitale-lavoro e al dominio del profitto privato, cercando di inglobare nel mondo-merce i servizi pubblici, l’istruzione, la sanità, i trasporti, le pensioni, la natura intera, il cibo, l’acqua, la vegetazione, le sementi e qualsiasi potenziale fonte energetica.

Da centinaia di milioni di contadini che all’improvviso si sono trovati spossessati, oltre che dell’accesso alla terra, anche dei mercati locali per i loro prodotti7, del diritto d’uso delle sementi8 o con i campi invasi da colture OGM, a intere popolazioni derubate dell’acqua, divenuta da massimo bene pubblico una fonte di profitto per voraci multinazionali, fino ai dipendenti e agli utenti dei beni e servizi pubblici, impauriti dal tentativo, in Occidente, di trasformare persino l’istruzione, la sanità e le carceri in fonti di profitto.

 

A Seattle, a fine 1999, in occasione della” Conferenza Ministeriale della WTO” chiamata a ratificare la globalizzazione economica, migliaia di persone in rappresentanza di un migliaio di organizzazioni non governative (ONG) eterogenee e trasversali – sindacali, ambientaliste, religiose, degli agricoltori, dei consumatori, delle popolazioni indigene, dei movimenti delle donne, collettivi antagonisti – di 90 Paesi hanno protestato contro i piani di espansione degli accordi di “libero commercio”, sostenendo che questo avrebbe garantito la libertà delle grandi imprese di scandagliare il mondo alla ricerca di lavoro a basso costo nel contesto di una assenza di restrizioni riguardo ai diritti dei lavoratori e agli investimenti industriali e agroindustriali che avvelenano l’ambiente.

 A questi piani si contrapponeva la prospettiva di un mondo più equo e solidale.

 

Un’idea semplice univa insieme le diverse componenti della protesta (inclusi gli anarchici violenti del “black bloc”) contro il summit della WTO di Seattle: che “un altro mondo è possibile e necessario” e che la salute, i diritti e la libertà degli abitanti del pianeta non devono essere sacrificati sull’altare dei profitti di un ristretto gruppo di imprese globali.

 Il meeting ufficiale della WTO è stato influenzato dal movimento di protesta e le trattative in corso sono fallite.

L’esplosione del conflitto verteva sulla contrapposizione fra le élite finanziarie e governative, dotate di un potere su scala globale distante dal controllo democratico e quindi dalla sua legittimazione, da un lato, e la galassia di realtà associative, sindacali, contadine, indigene dall’altro, che indirizzavano la loro protesta fisicamente contro entità spesso intangibili, per quanto assai potenti.

 Un contrasto fra la base della piramide sociale, rappresentata dalla cittadinanza attiva e più critica, e il vertice di quell’ordine neoliberista, che si era imposto come monocratico attraverso accordi di vertice in riunioni a porte chiuse, a protezione degli affari economici dal controllo popolare, dopo il fallimento dell’esperienza sovietica e della sua disgregazione.

 Al confronto fra Occidente capitalista ed Oriente socialista, si era sostituta una relazione paradigmatica basata sullo sfruttamento economico-finanziario “estrattivista” del Nord ricco su un Sud del mondo sempre più impoverito.

Quello di Seattle è stato il primo di una serie di incontri internazionali del popolo no global – a partire dal “Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre” (gennaio 2001) organizzato in contrapposizione con il Forum Economico Mondiale di Davos (il club dei globalisti) – in opposizione al crescente controllo dell’economia mondiale da parte delle “global corporations”, accusate di detenere un potere così forte da condizionare le scelte dei singoli governi verso politiche non sostenibili da un punto di vista ambientale ed energetico, non rispettose delle peculiarità locali e dannose per le condizioni dei lavoratori.

 

Il movimento no global ha rappresentato la nascita di una società civile internazionalista globale, che promuove l’universalizzazione dei diritti, la giustizia sociale e un’economia delle persone, la democrazia partecipativa e diretta, la valorizzazione dei beni comuni, il consumo critico, lo sviluppo locale e globale sostenibile, la tutela dell’ambiente, il pacifismo e l’antiproibizionismo.

Un movimento che ha provato a mettere in pratica il motto del pensare globalmente ed agire localmente e che ha prodotto anche una pratica globale coordinata ed un processo di elaborazione di un pensiero critico, facendolo emergere da dialogo tra culture, linguaggi ed esperienze locali.

In particolare, i Forum Sociali, mondiali e continentali, da Porto Alegre, a Mumbai, Nairobi, Caracas, Tunisi e in Europa Firenze (con almeno 500 mila persone coinvolte nel novembre 2002), Parigi, Londra ed Atene, sono stati i luoghi dove quel processo di comunicazione e condivisione della conoscenza si è realizzato.

Il “movimento dei Social Forum “sviluppò una straordinaria capacità di analisi e di critica del modello di sviluppo capitalistico, permettendo la circolazione di idee, progetti conoscenze come mai era accaduto prima.

Un processo di alfabetizzazione globale, che ha legato punte della ricerca con l’elaborazione e l’organizzazione dei grandi movimenti, dal “Movimento Sem Terra” (MST) brasiliano ai movimenti urbani di ogni continente, dai “Dalit” – gli intoccabili, gli ultimi del sistema delle caste indiane – ai movimenti sindacali, agli attivisti di” Occupy Wall Street”, del movimento degli indignados spagnoli e delle Primavere Arabe.

 

Dopo “Seattle” e “Porto Alegre”, nonostante la dura repressione poliziesca messa in atto a Genova nel luglio 2001 – le cariche violente dei Carabinieri al corteo dei 300 mila del 21 luglio, aperto dallo striscione “Voi G8, noi 6 miliardi“, con l’uccisione di Carlo Giuliani, gli orrori della “macelleria messicana” alla scuola Diaz e delle torture alla caserma di Bolzaneto -, tanto da essere definita come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” da parte di Amnesty International, e la svolta securitaria, militarista, di militarizzazione degli spazi pubblici, di guerra globale al terrorismo e per “l’esportazione della democrazia” impressa alla politica internazionale dagli USA dopo l’abbattimento delle Twin Towers dell’11 settembre, Banca Mondiale e FMI non hanno potuto ignorare questo movimento di protesta e hanno cominciato a dichiarare la loro preoccupazione per l’ambiente e le condizioni dei lavoratori, anche se non sono state definite nuove regole in grado di mettere in discussione il paradigma della globalizzazione neoliberista e l’egemonia delle global corporations.

Nel complesso, però, al “movimento di Seattle” e dei “Social Forum” è stato rimproverato di aver finito col limitarsi a chiedere ingenuamente ai responsabili della politica mondiale di divenire buoni, gentili e collaborativi, di contrastare il potere crescente della finanza sull’economia reale, di imporre la trasparenza al mondo bancario, di introdurre dei correttivi per avere una globalizzazione “dal volto umano”, e quando questi hanno fatto tutt’altro, di essersi progressivamente sfaldato e disperso in mille rivoli privi di un vero collegamento e di un’effettiva attenzione reciproca.

 Da questo punto di vista, il canto del cigno del movimento altermondialista è stata la giornata del 15 febbraio 2003 quando quasi 100 milioni di persone in 800 città del mondo manifestarono contro l’imminente (e poi realizzata) invasione americana dell’Iraq, nella più grande protesta globale della storia (in quella occasione il New York Times definì il movimento altermondialista “la seconda potenza mondiale”).

Da allora, però, nel giro di pochi mesi, un movimento che aveva raggiunto in breve tempo un’elevata capacità di mobilitazione in contesti anche molto differenti per situazioni, posizioni e pratiche, sorretto da una corposa elaborazione teorica e accompagnato da lotte di settore e territoriali, è imploso lasciando campo libero al devastante dilagare di ideologie e politiche opposte.

 I “Forum Sociali “si sono sciolti, incontrando in sede locale ostacoli e contraddizioni e a livello nazionale un quadro politico molto spesso sfavorevole. Mancando del potere contrattuale per sfidare il capitale internazionale, incapace di produrre vertenze e ogni tanto anche di vincerle, con il sopravvento di alcune pratiche (come l’autorappresentazione, la professionalizzazione della solidarietà, la legalizzazione degli spazi sociali, l’interlocuzione con le istituzioni non in termini di trattativa, ma in termini di collaborazione),” il movimento no global” non ha ottenuto quasi nulla e il “sistema economico globalizzato” è rimasto pressoché saldo fino ad oggi, nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante e dopo la crisi finanziaria del 2007-08 e la pandemia da Covid-19 attualmente ancora in corso (2020-2021).

Uno dei più importanti cavalli di battaglia del movimento no global (soprattutto dell’associazione” Attac”) è stata la campagna per l’introduzione della “Tobin tax”, una tassa mondiale sulle transazioni finanziarie, che era stata proposta dal premio Nobel per l’economia “James Tobin” nel 1974, allorquando il processo di finanziarizzazione dell’economia era ancora agli albori.

 L’idea di Tobin era di introdurre uno strumento di regolazione che avrebbe dovuto frenare la corsa verso l’incontrollata espansione di un altrettanto incontrollato dominio della finanza, soprattutto di quella costituita dai flussi di capitali speculativi a breve termine.

Inoltre, secondo Tobin, i proventi della tassa avrebbero dovuto essere impiegati nella lotta contro la povertà.

 Politici e studiosi mainstream hanno combattuto accanitamente questa proposta, formulando ogni genere di obiezioni tecniche sulla sua applicazione e sull’effettivo gettito che essa avrebbe potuto produrre.

Alla fine non se ne è fatto nulla perché è stato impossibile arrivare ad una condivisione sulla sua applicazione a livello globale.

Sul piano politico-culturale, però, il patrimonio di conoscenze di quella straordinaria intelligenza collettiva che aveva saputo così prontamente dare vita e animare i movimenti d’inizio secolo non è certo andato disperso.

È ancora in corso un vero e proprio attacco alle fondamenta del “sistema”, alle radici del “pensiero unico” e delle politiche neoliberiste che hanno reso possibile la globalizzazione.

Una messa in discussione che per anni è stata auspicata dai contro-movimenti sociali popolari no-global o altermondialisti che sono scesi nelle strade e nelle piazze – da Seattle negli USA a Genova in Italia, dal Zuccotti Park a New York a piazza Syntagma ad Atene, da Puerta del Sol a Madrid e Plaça de Catalunya a Barcellona a Tahrir Square al Cairo, da Pearl Roundabout in Baharain a Avenue Habib Bourguiba a Tunisi, da Change Square a Sanaa in Yemen a Gezi Park e piazza Taksim a Istanbul e a largo Majdan a Kiev – e protestato in favore di un allargamento degli spazi di democrazia, partecipazione e giustizia sociale, per la dignità collettiva e contro una globalizzazione senza regole e le sue conseguenze dirette sulla vita degli Stati nazionali, delle società locali, delle famiglie e delle persone, contro le crudeli e distruttive politiche di austerità che hanno messo in crisi i welfare state nazionali, contro lo strapotere del capitalismo finanziario, le liberalizzazioni normative, le “dismissioni” che hanno mercificato i beni pubblici e le delocalizzazioni industriali che hanno distrutto i mercati del lavoro locali e nazionali, sgretolato le classi medie e popolari e disarticolato le economie nazionali.

Negli ultimi due decenni è stato soprattutto in America Latina, Africa e Asia che sono emersi i movimenti sociali più avanzati di opposizione alle feroci logiche estrattiviste e di espropriazione del capitalismo globale in termini di:

recupero dei beni comuni, come nei settori del gas e dell’acqua in Bolivia e delle lotte sudafricane per i servizi pubblici;

sviluppo di nuove forme di proprietà collettiva, sia sotto forma di fabbriche gestite da lavoratori in città argentine o di collettivi agricoli nella campagna brasiliana;

sviluppo di forme più partecipative e deliberative, come hanno fatto i movimenti sociali nelle comunità urbane povere in Venezuela e in Sud Africa.

L’esperienza di democrazia partecipativa realizzata nella città brasiliana di Porto Alegre, da cui partì il movimento del “Social Forum” con i suoi 70 mila partecipanti ufficiali, è stato uno degli elementi programmatici più discussi nei movimenti di inizio secolo.

Un progetto straordinario che vedeva l’ingresso dei cittadini, delle rappresentanze di tutte le classi sociali, nel governo della grande macchina urbana.

Sulla scia di quella esperienza ancora oggi migliaia di cosiddetti movimenti civici si mobilitano localmente (anche grazie alle opportunità offerte dai social networks) in giro per il mondo per difendere la qualità della vita, l’ambiente urbano, i beni comuni (ossia contro la costante degradazione delle risorse pubbliche a causa del loro sfruttamento da parte dei diversi interessi privati), i servizi pubblici e i diritti delle comunità locali.

 Urbanizzazione e accumulazione di capitale vanno di pari passo e adesso oltre la metà della popolazione mondiale vive in città.

Pertanto, le questioni relative alla vita quotidiana nelle aree urbane sono una fonte di continue contraddizioni e conflitti.

Molti dei principali movimenti sociali fanno leva su forze sociali di opposizione che dal basso si battono per “diritto alla città” e contro le iniziative imposte dal mercato o dalle istituzioni che possono generare gli effetti negativi e destrutturanti che caratterizzano i processi di trasformazione urbana.

Per questo nella maggioranza dei casi questi movimenti vengono bollati dai media e i politici mainstream come semplici reazioni del tipo “NIMBY” – not in my backyard.

 In realtà, questi movimenti dimostrano l’esistenza di società civili sempre più determinate e consapevoli a far sentire la loro voce riguardo al perseguimento del diritto alla città e alla qualità della vita urbana.

Negli ultimi anni, questo tipo di attivismo spontaneo, reattivo, orizzontale e non professionalizzato ha ottenuto importanti risultati in tanti contesti locali:

 quando i cittadini, appartenenti alle classi sia medie sia popolari, si mobilitano per una causa concreta, scoprono che mettendo in comune le loro forze possono davvero cambiare le cose.

In altre parole, come sostiene “Harvey”, ”il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali”, dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici.

Molti dei movimenti emersi, però, non hanno né la volontà né la possibilità di andare al di là degli obiettivi concreti che si sono dati.

Solo di rado passano ad occuparsi di politica in senso più ampio o a formare alleanze con movimenti politici.

 Ma, il fatto che movimenti simili esistano è già una buona notizia.

 Dimostra, infatti, che nonostante l’egemonia esercitata dal binomio neoliberismo-globalizzazione, in giro per il mondo l’energia collettiva non si è esaurita e che le richieste di un livello di vita migliore e di cambiamenti politici non si fermeranno presto.

Una delle più importanti conseguenze è che ormai sempre più le autorità locali si rendono conto della necessità di dover dialogare con i cittadini.

 Soprattutto nelle grandi città stanno cambiando le dinamiche politiche e sta crescendo la consapevolezza del fatto che, per risolvere i problemi, l’amministrazione comunale deve cercare di collaborare quotidianamente con i cittadini attraverso consultazioni, dibattiti pubblici e percorsi partecipati di progettazione o bilancio.

Le lotte che riguardano questioni legate alla qualità della vita e alla quotidianità non solo sono del tutto legittime, ma fanno anche da catalizzatore per un più ampio processo di politicizzazione.

 Le esperienze condivise creano quelle basi di solidarietà e spirito collettivo che mancano a cittadini oggi molto spesso depoliticizzati, privi di esperienza di mobilitazione e partecipazione politica.

Il superamento della separazione tra la sfera individuale, quella domestica, quella civica e quella politica consente di promuovere azioni collettive e rappresenta una vera sfida per società ormai sempre più sfilacciate e liquide, rimaste chiuse da anni nella dimensione privata e dominate da sfiducia, rassegnazione e diffidenza verso il concetto stesso di bene comune.

 I movimenti civici che si sono imposti in questi anni hanno dato voce al desiderio dei cittadini di avere una vita migliore e hanno permesso di mettere le autorità locali di fronte alle loro responsabilità. Inoltre, una volta che le persone hanno capito che unire le forze porta risultati concreti, trovano sempre altri motivi, altre cause per cui vale la pena battersi e tornare a mobilitarsi collettivamente.

Negli ultimi anni, un tema all’ordine del giorno dei movimenti sociali in Europa, come altrove nel mondo, è stato quello relativo del riscaldamento globale.

 Il movimento di disobbedienza civile e di resistenza non violenta “Extinction Rebellion” (XR) e il clamoroso fenomeno mediatico della 16enne attivista svedese “Greta Thunberg” hanno avuto il merito di imporlo nell’agenda politica (a livello sia nazionale sia continentale).

Si sono mobilitati milioni di adolescenti europei che hanno partecipato ai cosiddetti “Fridays for Future” e anche a due scioperi globali del clima (15 marzo e 24 maggio 2019) rivendicando che la vera priorità europea (e non solo) è proteggere l’ambiente e agire subito per fermare i cambiamenti climatici.

I timori del movimento no global sono perlopiù diventati realtà: lo strapotere delle multinazionali e il neocolonialismo liberista sono ormai fenomeni sotto gli occhi di tutti, confermati dalle pur timide reazioni anche di tanti politici mainstream negli ultimi tempi.

Il collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da Covid-19 – effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale – dimostrano quanto oggi abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta. Di una risposta/proposta autenticamente internazionalista, di pensieri nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dal paradigma disegnato dall’ideologia neoliberista con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato, deregulation, consumi privati, servizi sanitari privatizzati, tecnocrazia e meritocrazia.

La pandemia ha reso evidenti tutte le fragilità di un modello che in molti credevano essere immutabile, ha reso evidente il disastro ecologico e sociale implicito nell’economia della crescita illimitata e incontrollata e ha quindi minato molte certezze, ma il tempo della riflessione e della critica sembra essere durato poco. Il campo è di nuovo occupato dal “pensiero unico” e dall’affannosa ricerca di nuove promesse di “sviluppo” (spesso dipinte con una leggera patina di vernice verde) da parte della politica mainstream e del potere finanziario.

Oggi, come a cavallo del millennio, il modello neoliberista deve essere messo a nudo per spingere milioni di persone, attraverso i continenti, a scendere in piazza per dire che un altro mondo è possibile e necessario.

 C’è un patrimonio di esperienze e di idee sviluppato del movimento altermondialista che è ancora a disposizione.

 La catastrofe ecologica non è un’astrazione e la ricerca di un nuovo modello di società sarà il tema dominante dei prossimi anni, almeno per quella fetta di società che non si rassegna al disastro annunciato e all’obbligo di acquiescenza prescritto dall’ideologia neoliberista.

Molte esperienze sono cresciute e si sono trasformate, nuovi movimenti sono nati e si stanno sviluppando.

Sappiamo che va condotta una lotta politica sul piano delle idee e facendo tesoro di quanto imparato negli anni del movimento del “Social Forum”, occorre fare leva sulla forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti e la generosità delle persone.

Contadini, imperi del cibo, GDO e oligopoli chimico-sementieri.

Uno delle grandi questioni globali è oggi quella agricola, relativa alla produzione di cibo.

Sappiamo che nel 2050 sarà necessario dar da mangiare a oltre 10 miliardi di persone.

 Oggi, nel mondo ci sono almeno circa 850 milioni di persone denutrite, mentre circa 2 miliardi di persone hanno problemi di obesità (la maggioranza di questi sono poveri dei Paesi ricchi) e circa un terzo del cibo globale viene sprecato (prima o dopo essere arrivato alla tavola).

Occorre preservare la salute umana, preservare l’ambiente e, in particolare, la biodiversità e la qualità/fertilità dei suoli (che è in peggioramento, mettendone in discussione la produttività), garantire equità e giustizia sociale.

Sappiamo che la produzione di cibo è responsabile del 30% delle emissioni di gas climalteranti, utilizza il 40% della terra e consuma il 70% dell’acqua dolce.

Oggi, si discute di una agricoltura più moderna, più conservativa, più naturale, ma anche di una agricoltura più industrializzata e più tecnologica (la cosiddetta “agricoltura di precisione”).

Su tutti questi temi, oggi, sembra essersi aperto uno scontro più aspro che nel passato.

In particolare, sembra emergere una posizione che tende a confinare l’agricoltura biologica a un settore nicchia, quando va bene descrivendola come una pratica apprezzabile, ma troppo cara ed inefficiente dal punto di vista della produttività, quando va male come una pratica esoterica ed irrazionale.

È bene ricordare che ancora oggi è l’agricoltura contadina che sopporta gran parte, circa il 70-80%, del peso di nutrire il pianeta.

Si tratta di un’agricoltura fatta di micro-imprese individuali e familiari (il 94% ha a disposizione meno di 5 ettari) in cui il lavoro è prevalentemente svolto dal titolare, dai suoi familiari e conviventi e che coinvolge oltre 500 milioni di famiglie nel mondo (circa 3,5 miliardi di persone, con 230 milioni di famiglie in Cina e 90 milioni in India), utilizzando meno del 25% delle terre agricole e quasi nessun combustibile fossile e prodotto chimico.

Questo mentre il 70% di campi coltivati, allevamenti e frutteti nel mondo viene gestito solo dall’1% delle aziende agricole, secondo le ricerche condotte da “International Land Coalition”,” Oxfam” e “World Inequality Lab”.

Dagli anni ’80, il controllo della terra è diventato molto più concentrato (soprattutto in Europa e USA) sia direttamente attraverso la proprietà che indirettamente attraverso l’agricoltura a contratto, il che si traduce in forme di agricoltura intensiva ed industriale, in monocolture più distruttive e in meno piccole aziende agricole coltivate con cura.

Fenomeni che stanno accelerando il declino della qualità del suolo, l’uso eccessivo delle risorse idriche e il ritmo della deforestazione.

 

I piccoli agricoltori, gli agricoltori a conduzione familiare, le popolazioni indigene e le piccole comunità sono molto più cauti nell’uso della terra.

Per loro non si tratta solo di una questione legata al ritorno sull’investimento, ma di cultura, identità e di lasciare qualcosa per la prossima generazione.

Si prendono molta più cura della terra attraverso pratiche agro ecologiche e, a lungo termine, producono di più per unità di superficie e distruggono meno.

Negli anni ’60, il modello dell’agricoltura contadina è stato messo in discussione dalla “Rivoluzione Verde”, promossa da governi nazionali ed organizzazioni internazionali, che si basava su un “pacchetto di pratiche” che includevano i semi di varietà ad alto rendimento (soprattutto per grano e riso), fertilizzanti chimici e pesticidi, con irrigazione assicurata.

Grazie all’introduzione di queste pratiche, Paesi come l’India sono diventati autosufficienti per i cereali, ma questo ha portato alla contaminazione dei suoli, all’impoverimento delle falde acquifere e alla monocoltura.

In sostanza, ad un modello di agricoltura insostenibile.

 D’altra parte, la Rivoluzione Verde ha aumentato la produzione alimentare mondiale, ma non ha “risolto” il problema della fame nel mondo.

 

Ma, è soprattutto l’agricoltura industriale – quella realizzata dagli imprenditori agricoli e dalle aziende dell’agrobusiness su grandi estensioni di terreni arabili con molta disponibilità di acqua e con forti input energetici – che sfrutta le risorse naturali disponibili del nostro pianeta in modo insostenibile attraverso la strategia di sostituire il lavoro umano con macchinari agricoli, agrochimica ed energia fossile e di allevare in modo intensivo miliardi di suini, bovini e polli, si è trasformato in un vicolo cieco in tempi di cambiamenti climatici, crescente inquinamento (di suolo, aria e acqua), degrado ambientale, distruzione degli habitat, pressione demografica, crescita dell’urbanizzazione, riserve petrolifere in diminuzione, deforestazione e risorse naturali sovrasfruttate.

Secondo l’analisi satellitare, negli ultimi anni sono stati distrutti milioni di ettari di foresta pluviale tropicale incontaminata (per la maggior parte in Amazzonia) per fare posto alla produzione di carne di manzo, cioccolato, soia e olio di palma.

 Le foreste immagazzinano enormi quantità di carbonio e abbondano di fauna selvatica, rendendo la loro protezione fondamentale per rallentare la corsa del cambiamento climatico e evitare una sesta estinzione di massa.

Oggi, la piccola agricoltura familiare è sempre più vessata da norme e vincoli creati ad arte per ridurre a rassegnazione e silenzio.

L’agricoltura contadina, infatti, è sempre più schiacciata sia dagli imperi del cibo e dell’agrindustria formati da global corporations del calibro di Nestlè, Cargill, Archer Daniels Midland, Louis Dreyfus, Bunge, Unilever, Coca-Cola, Pepsico, Mondelez, Mars, Hershey, Kellogg, General Mills, Danone, Fonterra, Friesland Campina, Associated British Food, McDonald’s, Kraft-Heinz, Anheuser-Busch Inbev, Campbell, Heineken, Tyson Foods, Shuanghui, Del Monte, Olam, McCormick, Lactalis, Cofco (China National Cereals, Oils and Foodstuff Corporation) per citare alcune delle maggiori detentrici di brand agroalimentari, sia dalle pervasive e proliferanti catene della grande distribuzione organizzata (GDO) – 7Eleven, Walmart, Spar, Auchan, Carrefour, Tesco, Sainsbury, Lidl, Rewe, Metro, Aldi, BiM, CBA, Ahold Delhalze, etc. – che si garantiscono a loro volta i profitti a partire dalle materie prime veicolate direttamente o trasformate dagli imperi del cibo.

Nei Paesi ricchi, le catene della GDO controllano dal 90 al 95% del mercato dei prodotti alimentari consumati, con centrali di acquisto, come la “Tesco-Carrefour”, che fatturano 150 miliardi di euro.

Supermercati, ipermercati, discount e altre strutture delle catene della “GDO” competono per le quote di mercato con la moltiplicazione delle superfici di vendita, prezzi permanentemente “bassi”, “fissi”, “scontati” o addirittura “sottocosto” che pesano sui produttori (si veda Liberti S. e Ciconte F., Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2019), condizioni di lavoro che peggiorano e orari che si allungano alle 24 ore.

 

Qualsiasi tipo di coltura prendiamo in considerazione, scopriamo che ci sono 4 o 5 aziende che controllano più della metà di quel mercato a livello mondiale.

Sono queste grandi aziende che gestiscono il commercio internazionale.

Sono loro a decidere cosa si deve coltivare.

Sono sempre loro a plasmare i gusti dei consumatori finali in modo da promuovere il consumo di quantità crescenti di alimenti sempre più ultra processati (cibi pronti, barrette di cereali, “cibo spazzatura”, bevande gassate, etc.) che rappresentano una minaccia per la salute in quanto sono una delle cause principali della sovralimentazione e dell’obesità, ma che generano maggiori profitti.

 

C’è poi l’oligopolio delle sementi, dei pesticidi e dell’agrochimica (erbicidi selettivi, fertilizzanti, etc.) formato dalla americana “Dow Chemical-DuPont” (frutto di una fusione da 110 miliardi dollari), dalla sino-svizzera “ChemChina-Sinochem-Syngenta” (frutto di una fusione da 43,5 miliardi di dollari nel maggio 2017 e dell’acquisizione di due enormi produttori di fertilizzanti canadesi che poi sono stati fusi per formare una nuova società, ora chiamata “Nutrien”), dalle tedesche “BASF2 (Badische Anilin und Soda Fabrik) e “Bayer” che nel giugno 2018 ha acquisito l’”americana Monsanto” per 62,5 miliardi di dollari.

Le autorità antitrust di 90 Paesi hanno dato il via libera all’acquisizione, anche se la “Bayer” ha dovuto cedere a “BASF “attività nei settori delle sementi (cotone, colza, soia e verdure), degli erbicidi e dell’agricoltura digitale (che combina sensori, software e macchine di precisione e potrebbe rendere più mirato l’uso dei pesticidi nel prossimo futuro) per circa 8 miliardi di euro.

 

Ora, queste 4 global corporations controllano il 63% del mercato mondiale dei semi (nel 1981 c’erano al mondo ancora 7 mila aziende sementiere, mentre oggi sono sparite quasi tutte), sempre più brevettati e OGM, e il 72% di quello dei pesticidi.

 

In ognuno dei 5 principali rami dell’industria agroalimentare – agrochimica, semi, farmaceutica per animali, genetica e macchinari agricoli – le 4 multinazionali più grandi controllano oltre il 50% del mercato e sono quindi nelle condizioni di imporre standard, varietà e modalità di coltivazione.

In Europa, detengono i diritti del 72% delle varietà dei semi di pomodoro coltivati, del 95% dei cetrioli e del 95% delle carote.

Inoltre, questi giganti puntano sull’innovazione assistita dalle tecnologie digitali, investendo nella ricerca di nuove applicazioni e metodiche (agricoltura di precisione, stalle robotizzate, cristallografia delle piante, editing genomico con tecnologia Crispr, etc.), ma anche di nuovi spazi di coltivazione (colture idroponiche, zeoponiche, su lana di roccia o cristalli polyter, etc.) che rendono irrilevante il fattore terra, potendo così scegliere la localizzazione in funzione della convenienza economica.

La “banda dei 4” riesce a sovvertire attivamente ricerca e risultanze scientifiche per promuovere prodotti e profitti, come hanno mostrato i cosiddetti “Monsanto Papers” e il processo in cui una giuria californiana ha riconosciuto la Monsanto responsabile di aver causato il cancro ad un giardiniere che per anni ha utilizzato i prodotti erbicidi a base di glifosato con marchi Roundup e Ranger Pro, condannandola a pagare 289 milioni di dollari di danni, poi ridotti a circa 80 milioni.

 Dalla sua parte l’azienda ha la “Environmental Protection Agency “(EPA) e il Dipartimento di Giustizia americano che continuano a negare che il glifosato possa causare il cancro.

In ogni caso, la nuova Bayer-Monsanto ha patteggiato un accordo da 10,5 miliardi di dollari per risolvere circa 95 mila cause simili, ma ne rimangono aperte altre 25 mila.

Tra risarcimenti, spese legali e multe, “Bayer” rischia di dover pagare altri 5 miliardi di euro, mentre in Borsa il titolo ha perso oltre 40 miliardi di valore tra il 2018 e il 2019.

Per fare fronte alle spese, “Bayer” ha deciso di vendere ad “Elanco” il ramo d’azienda che si occupa della salute degli animali per 7,6 miliardi dollari.

 

Come sostiene l’attivista indiana “Vandana Shiva”, la difficile condizione e la resistenza delle popolazioni contadine sono un avvertimento che se non c’è la sicurezza del diritto alla terra e la sicurezza del diritto ai semi, la colonizzazione delle campagne del mondo da parte dell’agricoltura industriale e degli imperi del cibo costituisce una grande minaccia per l’esistenza umana perché rappresenta una delle principali cause del cambiamento climatico.

Agricoltura industriale, imperi del cibo, GDO e oligopolio dei semi e della chimica formano un complesso industriale agricolo fortemente energivoro, spinto dalla ricerca del profitto, che ha interesse a procurarsi le materie prime ovunque nel mondo si trovino ai prezzi più bassi (speculando anche sulla loro volatilità) per utilizzarle come ingredienti per varie tipologie di alimenti.

Ma, noi sappiamo che per ogni prodotto ci sono grandi differenze:

i 12 litri di latte di una vacca Bruna Alpina che trascorre buona parte dell’anno al pascolo e i 40 litri di latte di una Frisona rinchiusa in un allevamento intensivo portano lo stesso nome e soprattutto vengono pagati lo stesso prezzo.

 Inoltre, poiché il più delle volte si tratta di materie prime deperibili, si deve trovare il modo di farle viaggiare in fretta e di farle durare a lungo.

Ad esempio, con il latte viene adottato il sistema di “termizzarlo”, pastorizzarlo o di ridurlo in polvere per poi ricostituirlo, ma con l’aggiunta di additivi, emulsionanti, aromi e correttori, per cui il prodotto industriale finale non è certo uguale a un formaggio fatto con il latte “crudo”.

La “GDO” è un attore che, governando i flussi dell’intera filiera agroalimentare, ha contribuito in maniera strutturale alla costruzione di un mondo che dà ai consumatori la percezione che qualsiasi cosa vogliano mangiare sia sempre disponibile, che sia accettabile la standardizzazione dei prodotti, e che siano garantite l’efficienza (derivante dalle economie di scala) e la sicurezza igienico-sanitaria.

La GDO offre anche il parcheggio per le macchine e il carrello per spostare comodamente la spesa.

 Il bar code che, attenuando le code alle casse, fa toccare con mano al consumatore l’efficienza della supply chain.

 Tutti elementi che plasmano e strutturano l’immaginario del consumatore.

 La comunicazione supporta tutto questo, a partire da canali mainstream, che ci inducono a pensare che questo è il solo modo per soddisfare i fabbisogni alimentari.

Le interazioni tra gli attori della GDO, attraverso il bar code, sono orchestrate grazie ad un’infrastruttura informativa specifica che permette, una volta raccolte le informazioni sui consumi tramite le casse, di generare automaticamente i riordini ai produttori.

Il tutto tramite un sistema di trasporto e logistico, con centri di smistamento ampiamente automatizzati.

Le carte fidelity raccontano le abitudini di consumo e molto altro sugli utenti, consentendo di orientare marketing e comunicazione in modo da contribuire ad aumentare la pervasività ed efficacia dell’intero ecosistema.

Questo crea abitudini che strutturano i comportamenti di tutti gli attori economici della filiera agroalimentare che, lavorando in un processo così codificato, arrivano a considerare una minaccia tutto quello che li porta a dover fare azioni diverse.

L’idea che il consumatore non debba rimanere senza cibo e che possa mangiare quello che vuole quando vuole, porta a concepire il territorio agricolo come un’immensa piattaforma nella quale viene prodotto tutto quello che si trova a scaffale.

Si tratta di un’abbondanza reale in termini quantitativi, visto il continuo riapprovvigionamento degli scaffali, ma assai limitata in termini delle differenze qualitative delle varietà.

 La GDO è un attore rilevante di quell’economia dei flussi che sta portando all’abbandono di tutto quello che non è standardizzabile (come le piccole produzioni agroalimentari non intensive, non industriali, di nicchia) e che contribuisce a promuovere la concezione di un mondo agricolo caratterizzato da grandi spazi morfologicamente omogenei in grado di produrre enormi quantità di poche varietà di materie prime che poi un tessuto di trasformazione, ormai concentrato in pochissime mani, confeziona in modi che danno la sensazione di sicurezza alimentare e rafforzano la percezione di un alto grado di benessere.

 Le strutture della GDO sono concepite come strutture gerarchiche top-down che hanno un centro a cui fare affluire tutte le energie in modo da assorbire una parte sempre maggiore del valore creato dai coltivatori e trasformatori agroalimentari.

Gran parte della ricerca nelle università è orientata a trovare i metodi più efficaci per far viaggiare il cibo nello spazio e nel tempo, con diverse conseguenze negative:

deprimere i prezzi delle materie prime pagate ai coltivatori e allevatori; produrre cibo sempre più elaborato (alimenti che tendono ad essere a basso contenuto di nutrienti essenziali, ma ricchi di zucchero, olio e sale e suscettibili di essere sovra consumati) che contribuisce alla diffusione dell’obesità, del diabete e di altre malattie legate all’alimentazione;

aumentare i rischi della contaminazione del cibo;

introdurre nell’alimentazione additivi (conservanti, coloranti, edulcoranti, dolcificanti, grassi, sali, etc.) di cui non si conoscono le interazioni e gli effetti sulla salute umana a lungo termine.

Il forte sbilanciamento del potere decisionale e contrattuale verso gli ultimi anelli della filiera agroalimentare, porta ad una distribuzione del guadagno tutt’altro che equa. Il sistema produttivo alimentare è fortemente squilibrato: chi produce guadagna poco, chi consuma spende molto e in mezzo c’è chi – gli imperi del cibo e della GDO – spende poco e guadagna molto.

Ogni passaggio ed intermediario presente lungo la catena del valore porta ad un rincaro del prezzo finale proposto poi al consumatore.

 La materia prima prodotta da coltivatori e allevatori non viene valorizzata per la qualità e le peculiarità organolettiche, ma in base agli standard imposti dal mercato vigente.

Il valore aggiunto di questo processo è dato da fattori come la trasformazione e dalla capacità capillare di distribuzione.

Questo significa che le aziende agricole sono diventate delle semplici fornitrici di materia prima e che ricevono una frazione minima del prezzo finale pagato dal consumatore.

 La loro sopravvivenza dipende dalla quantità di prodotto e dal prezzo che riescono a garantire.

 Sono costrette, in concorrenza tra loro, a tagliare i costi, aumentare le ore di lavoro, intensificare lo sfruttamento dei terreni attraverso coltivazioni sempre più intensive, OGM e trattate chimicamente, oppure allevare sempre più animali sulla terra o in giganteschi capannoni (concentrated animal feeding operations), e usare prodotti chimici per non farli ammalare, gonfiarli artificialmente ed ingrassarli, trasportarli (in molti casi vivi, imponendo loro enorme stress e aumentando i rischi di una contaminazione sanitaria) in giro per il mondo per poi macellarli in prossimità dei grandi mercati di consumo.

 

Molto spesso i produttori agricoli, oltre a prezzi troppo bassi, subiscono comportamenti non corretti – ritardi nei pagamenti, disdette di ordini mentre stanno consegnando le merci, imposizioni di sconti sui prezzi, aste al doppio ribasso, modifiche unilaterali e retroattive di contratti di fornitura.

La filiera alimentare in Europa è fatta da decine di milioni di agricoltori e centinaia di migliaia di imprese di trasformazione (con un ristretto gruppo di giganti) che devono passare attraverso la strettoia di poche migliaia di acquirenti (con un ristretto gruppo di giganti) che a loro volta rivendono a centinaia di milioni di consumatori di tutti i Paesi europei.

 Proprio per cercare di mettere fine a comportamenti inaccettabili, la Commissione Europea ha approvato la “Direttiva UE contro le pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare” (25 aprile 2019) che gli Stati europei dovranno recepire entro 2 anni.

Inoltre, per cercare di proteggere i piccoli e medi agricoltori locali, otto Paesi membri dell’Unione Europea – tra cui Grecia, Finlandia, Lituania, Italia e Francia – hanno varato programmi nazionali di etichettatura obbligatoria di origine delle materie prime alimentari, principalmente latte, carne e cereali utilizzati negli alimenti trasformati.

Tali etichette obbligano i trasformatori a dimostrare, ad esempio, che il grano usato per fare la pasta venduta in Italia è prodotto in Italia e non in Canada o Ucraina.

Gli oppositori di tali programmi affermano che queste misure rappresentano forme subdole di protezionismo che distorcono il mercato, esortando i consumatori a scegliere di acquistare prodotti locali (che è in effetti l’obiettivo per cui sono state introdotte).

La strategia sulla sostenibilità al 2030 della Commissione Europea (From Farm to Fork e Biodiversità 2030), che prevede di valorizzare biodiversità e settore agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo, ha posto come targets una riduzione del 50% dell’uso dei fitofarmaci in agricoltura, del 20% dei fertilizzanti, del 50% dei consumi di antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura e un incremento al 25% delle superfici coltivate a biologico, oltre all’ulteriore estensione dell’etichetta d’origine sugli alimenti.

Bruxelles punta anche a raggiungere una quota di almeno il 30% delle aree rurali e marine europee protette, e a trasformare il 10% delle superfici agricole in aree ad alta biodiversità.

Ma, questa strategia è stata in gran parte affossata da Parlamento e Consiglio Europeo che hanno messo insieme proposte per la “Politica Agricola Comune” (PAC) ancora rivolte a massimizzare la produzione e i profitti dell’agricoltura industriale, slegando l’erogazione di gran parte dei sussidi da obiettivi ambientali.

La lotta per la sovranità alimentare.

Uno dei temi principali su cui si è sviluppata a partire dagli anni ’90 la lotta contro globalizzazione neoliberista è stato ed è quello della sovranità alimentare, ossia la rivendicazione in favore di un approccio che implica il controllo politico necessario ad un popolo nell’ambito della produzione, distribuzione e consumo del cibo.

Secondo i sostenitori della sovranità alimentare, i Paesi (governi e parlamenti) devono poter definire una propria politica agricola ed alimentare in base alle proprie necessità, rapportandosi alle organizzazioni degli agricoltori e dei consumatori.

I sostenitori della sovranità alimentare si contrappongono sia allo strapotere degli imperi del cibo, della GDO e degli oligopoli chimico-sementieri che impongono il modello di agricoltura industriale sia al programma sul (libero) commercio dell’alimentazione e dell’agricoltura promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

 La sovranità alimentare, infatti, prevede che vi sia un legame essenziale tra alimentazione, agricoltura, accesso alla terra, ecosistemi, culture, e distribuzione del potere economico, valorizzando bio e agro-diversità e il lavoro legato alla produzione alimentare nel mondo realizzata secondo il modello dell’agroecologia.

 

Questo sistema riguarda direttamente le popolazioni contadine e indigene colpite da problemi di produzione e distribuzione del cibo, a causa l’adozione della Rivoluzione Verde tra gli anni ’40 e ’70 del secolo scorso, delle politiche di privatizzazione e appropriazione delle terre, dei cambiamenti climatici, dello strapotere degli imperi del cibo, della GDO e degli oligopoli chimico-sementieri, e dei percorsi alimentari perturbati che influiscono sulla loro capacità di accesso alle fonti alimentari tradizionali e contribuiscono all’aumento delle malattie.

 Queste esigenze sono state affrontate negli ultimi anni da diverse organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite (in particolare dalla FAO), con diversi Paesi che hanno adottato politiche di sovranità alimentare.

La locuzione sovranità alimentare fu coniata nell’aprile 1996 dai membri di “La Via Campesina”, un’organizzazione/coalizione internazionale di contadini, durante la sua conferenza internazionale svoltasi a Tlaxcala (Messico), per poi essere stata proposta in modo ufficiale durante il “Forum parallelo al World Food Summit della FAO “a Roma, nel novembre dello stesso anno.

 Il concetto di sovranità alimentare nasce come proposta in contrapposizione al modello neoliberista del processo di globalizzazione delle imprese, fornendo una chiave per la comprensione della governance internazionale sull’alimentazione e l’agricoltura.

In particolare, la sovranità alimentare è stata proposta in risposta sia al termine “sicurezza alimentare “sia a quello di “diritto al cibo” utilizzati da FAO, ONG e governi sui temi di alimentazione e agricoltura.

La Via Campesina, introducendo il concetto di sovranità alimentare, ha individuato sette principi basilari:

1) il cibo come diritto umano fondamentale;

2) la riforma agraria;

3) la protezione delle risorse naturali;

4) la riorganizzazione del commercio alimentare;

 5) la fine della globalizzazione della fame;

 6) la pace sociale;

7) il controllo democratico.

 Il Forum sulla sovranità alimentare del 2002 ha proseguito l’analisi di questi elementi, che sono stati poi sintetizzati dall’International NGO/CSO Planning Committee for Food Sovereignty in quattro “aree prioritarie” o “pilastri” per promuovere l’azione politica:

il diritto al cibo;

l’accesso alle risorse produttive;

il modello di produzione agro-ecologico;

 il commercio e i mercati locali.

Il concetto di sovranità alimentare è stato adottato da diverse organizzazioni internazionali, tra cui la Banca mondiale e le Nazioni Unite.

Nel 2007, al primo Forum per la sovranità alimentare a Sélingué (Mali), 500 delegazioni di movimenti contadini e organizzazioni della società civile, provenienti da 80 Paesi, hanno adottato la “Dichiarazione di Nyéléni” che ne ha fornito una definizione:

“La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli.

Mette coloro che producono, distribuiscono e consumano cibo al centro dei sistemi e delle politiche alimentari piuttosto che le richieste dei mercati e delle aziende.

Difende gli interessi e l’inclusione della prossima generazione.

Offre una strategia per resistere e smantellare l’attuale regime commerciale e alimentare aziendale e dà indicazioni per i sistemi alimentari, agricoli, pastorali e della pesca determinati dai produttori locali.

La sovranità alimentare dà priorità alle economie e ai mercati locali e nazionali e potenzia l’agricoltura guidata dai contadini e dalle famiglie, la pesca artigianale, il pascolo guidato dai pastori e la produzione, distribuzione e consumo di cibo basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

 La sovranità alimentare promuove un commercio trasparente che possa garantire un reddito dignitoso per tutti i popoli e il diritto per i consumatori di controllare la propria alimentazione e nutrizione.

 Essa garantisce che i diritti di accesso e gestione delle nostre terre, dei nostri territori, della nostra acqua, delle nostre sementi, del nostro bestiame e della biodiversità, siano in mano a chi produce gli alimenti.

 La sovranità alimentare implica nuove relazioni sociali libere da oppressioni e disuguaglianze fra uomini e donne, popoli, razze, classi sociali e generazioni.”

 

Questa definizione sintetizza le rivendicazioni dei movimenti che, fin dagli anni ‘60 del secolo scorso, manifestano e agiscono contro le politiche e le pratiche dello sviluppo perseguite dalle agenzie internazionali che nei decenni hanno fatto del cibo un bene economico di scambio (una commodity);

contro l’aiuto alimentare, considerato una forma alternativa di sovvenzione alle esportazioni dei Paesi ricchi donatori; contro il monopolio commerciale delle multinazionali dell’agribusiness;

contro il potere degli Stati forti che sovvenzionano le loro agricolture.

 Rappresenta un invito a tutti a prendere in mano la propria relazione con il cibo, interrogandosi su cosa si mangia, cioè da dove viene, cosa contiene, come è preparato il cibo.

Nel 2011, tale definizione è stata ulteriormente perfezionata dai Paesi europei, dopo che movimenti, associazioni e cittadini avevano iniziato a riflettere in forma collettiva sul cibo inteso non come merce, bensì come diritto fondamentale, in piazza Rossetti nello spazio dell’AltrAgricoltura in occasione del G8 di Genova, confrontandosi con leader internazionali come Bové (Confédération Paysanne), Nicholson (La Via Campesina), Dos Santos e Vieira.

A partire dal 2020, almeno sette Paesi hanno integrato la sovranità alimentare nelle loro costituzioni e legislazioni.

Al centro della sovranità alimentare ci sono le persone e non le politiche, i mercati o le imprese: contadini, pescatori, popoli indigeni, popoli senza terra, lavoratori rurali, migranti, allevatori nomadi, comunità che vivono nelle foreste, donne, uomini, giovani, consumatori, movimenti ecologisti, organizzazioni sociali.

Per far in modo che tutte le persone possano avere diritto ad un cibo “sano, nutriente e culturalmente appropriato” sono necessarie alcune condizioni di partenza per le quali “La Via Campesina” sta lavorando insieme ad altre organizzazioni di tutto il mondo:

 

la gestione diretta dei sistemi e delle attività agricole da parte di contadini, pastori e pescatori locali, cioè la possibilità di dare in mano a coloro che producono gli alimenti l’accesso e la gestione delle terre, dei territori, dell’acqua, delle sementi, del bestiame e della biodiversità;

il ruolo centrale dell’economia e dei mercati locali e nazionali;

il potere ai contadini, all’agricoltura familiare, alla pesca e l’allevamento tradizionali;

una maggiore attenzione alla produzione, distribuzione e consumo di alimenti nel rispetto dell’ambiente, delle società e delle economie locali;

un commercio leale e trasparente in grado di garantire a tutti un reddito dignitoso;

la possibilità per i consumatori di controllare la propria alimentazione e nutrizione.

La sovranità alimentare quindi punta sull’agricoltura familiare e sostenibile, ma altrettanto sulla crescita della consapevolezza, della capacità di scegliere, di poter esercitare un controllo sul proprio cibo e sulla propria alimentazione sia a livello individuale che di comunità sociale, coerentemente con l’affermazione di “Weldell Berry” “Mangiare è un atto agricolo”.

 Si cerca di far crescere sistemi di produzione e scambio secondo i principi del “commercio equosolidale”:

agricoltura biologica, gruppi di acquisto consapevole, favorendo prodotti di stagione, a km 0, con il giusto riconoscimento economico ai produttori che agiscono al di fuori della grande distribuzione, riduzione dei consumi energetici, orientati a fonti rinnovabili.

Inoltre, la sovranità alimentare si estende anche alla sovranità delle colture, intesa come il diritto “di coltivare e scambiare diverse semenze in modalità open source “, ossia senza pagare royalties alle multinazionali delle sementi.

Questo diritto è strettamente connesso alla sovranità alimentare, poiché la pratica del seed-saving è in parte un mezzo per aumentare la sicurezza alimentare.

Gli attivisti sostengono che il risparmio delle semenze consente un sistema alimentare chiuso che può aiutare le comunità a ottenere l’indipendenza dalle principali aziende agricole.

Sostengono che il risparmio delle semenze ricopre un ruolo importante nel ripristinare la biodiversità nell’agricoltura e nella produzione di varietà vegetali più resistenti al mutamento delle condizioni ambientali territoriali alla luce del cambiamento climatico.

La Via Campesina e le organizzazioni che la compongono lottano per ottenere una modifica degli accordi commerciali di libero scambio in cui chi controlla è un’oligopolio commerciale e finanziario composto da WTO, Banca mondiale, FMI e dalle multinazionali che influenza i governi dei Paesi, in particolare di quelli meno potenti che per rispettare le regole internazionali pregiudicano il benessere delle proprie popolazioni.

A questo si unisce la lotta contro la dominazione dei sistemi alimentari ed agricoli da parte delle multinazionali e contro l’uso incontrollato di tecnologie e pratiche distruttive dell’ambiente e dei gruppi umani (prodotti transgenici, acquacoltura industriale, pesca distruttiva, agricoltura industriale e meccanizzata, monoculture industriali per l’agro carburanti ed altre piantagioni, sequestro di terre, etc.).

L’approccio della sovranità alimentare è fortemente critico verso il progetto neoliberista globalizzato e spinge a concentrare l’attenzione sul tema della governance internazionale del cibo e dell’agricoltura e sulle cause politiche della fame e della malnutrizione.

 In tal modo incoraggia una discussione sullo spazio politico che deve esistere per permettere la creazione di politiche nazionali volte a ridurre la povertà ed eliminare la fame e la malnutrizione che si oppongano a politiche internazionali basate esclusivamente sulla deregolamentazione dei mercati.

 Le chiavi per ridurre la fame e la povertà rurale sono dunque individuate nella de-mercificazione del cibo e della riproduzione sociale e in una maggiore attenzione verso lo sviluppo locale rurale, dal momento che secondo le previsioni, anche nei decenni a venire la maggior parte dei poveri vivranno nelle aree rurali.

L’approccio della sovranità alimentare rappresenta in tal senso un importante contributo alla discussione sulla questione alimentare che si origina dalle voci e dai bisogni di coloro che quotidianamente combattono la fame e la malnutrizione. Sovranità e diritto al cibo sono ridefiniti nella prospettiva delle comunità locali attraverso il riconoscimento sostanziale dei diritti locali, indigeni e comunitari al controllo delle risorse – terra, semi, acqua, credito, mercati, saperi – per la produzione di cibo e alla definizione delle proprie scelte alimentari.

La sovranità alimentare si propone come un approccio per riformare i sistemi alimentari locali, del Sud come del Nord del mondo, mettendo innanzitutto in discussione il paradigma neoliberista, alla base del modello agro-alimentare dominante, industriale, produttivista, monoculturale, estensivo, ad alto contenuto tecnologico (con uso di OGM), orientato all’esportazione, incorporato nelle catene di trasformazione e commercializzazione su larga scala controllate dalle global corporations agro-alimentari.

 I sistemi di produzione alimentare contadini, di tipo familiare, tradizionali, su piccola scala, sono indicati come le alternative da tutelare e promuovere, attraverso riforme agrarie, sostegni diretti, subordinati alla transizione verso pratiche agro-ecologiche e sostenibili, e poi con la protezione dei mercati locali, contro il dumping di prodotti importati, garantendo prezzi stabili e remunerativi attraverso le forme di organizzazione di mercato a filiera corta, di Green Public Procurement, le diverse “reti agroalimentari alternative”, che coinvolgono insieme produttori, consumatori e a volte attori istituzionali – gli AMAP in Francia (Associations pour le Mantien de l’Agricolture Paysanne), le CSA (Community Supported Agriculture) o la Community Food Security Coalition negli USA e in Canada, i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e i Distretti di Economia Solidale (DES) in Italia.

In essi, alla domanda di “cibo di qualità” sono spesso associati obiettivi di sviluppo, interessi ecologico-ambientali, bisogni di socialità.            

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